Metauro

© 2012 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy)

http://www.metauroedizioni.it [email protected]

ISBN 978-88-6156-???-?

È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. incontri cinematografici e culturali

tra due mondi

a cura di antonio c. vitti

Metauro 4 5 Prefazione

Maestri e cinema del passato

Perché una raccolta di saggi sul cinema, sulla letteratura e sulla cultu- ra italiana in senso lato, scritti da critici che operano tra due mondi, e che per giunta apparentemente non hanno un tema specifico che possa mettere in luce l’insieme? Da questa domanda che poi è diventata una vera sfida, è nato il seguente volume. Sono ormai passati tanti anni dall’ultima raccolta di saggi che ho curato, e che era nata da una collaborazione tra studiosi di cultura italiana tra le due sponde dell’oceano Atlantico. A giudicare dalle rea- zioni dei lettori, dei recensori e dei colleghi che hanno utilizzato il volume precedente, ho ritenuto opportuno che una nuova raccolta di saggi rispecchiasse il desiderio e i bisogni di studenti e insegnanti e che colmasse una lacuna didattica e offrisse un aggiornamento sui nuovi film usciti in questi ultimi dodici anni, e che inoltre presentasse un aggiornamento sulle nuove ricerche su film, registi e scrittori che come Giose Rimanelli e Helen Barolini hanno trascorso la loro vita artistica tra due mondi. Il volume rispecchia anche il desiderio dei miei studenti di stu- diare i film del passato da prospettive diverse e di conoscere il nuovo cinema italiano, i suoi nuovi protagonisti, le nuove tendenze e temati- che. L’iniziativa ha anche lo scopo di avvicinare gli studenti e gli stu- diosi alla cultura italiana della crisi economica e istituzionale e della fine delle ideologie e del postmoderno. L’Italia vista da fuori sembra un paese che deve reinventarsi, andare oltre l’immagine da cartolina del passato, e lo scopo di questa raccolta era di cercare di capire come si autorappresentasse nel nuovo millennio, ma anche com’è vista da chi l’ama ma non la vive direttamente. Lo scopo era di confrontarsi per capire e per realizzare un possibile processo che Andrea Camilleri ha definito: 6

Nei momenti di crisi più nera, mentre tutto crolla, la vita comunque continua e i rapporti umani tendono a rafforzarsi: allora da questo schifoso momento potrebbe venirne anche un gran bene.

L’Italia da fuori sembra un paese in ginocchio e in deriva, senza guida e senza fantasia che si barcamena tra tante difficoltà. A mio avviso il cinema dell’oggi non riflette i trionfalismi dei politici al potere ma sembra aver ripreso l’autobus di cui parlava Cesare Zavattini nel pro- vocare i registi e gli sceneggiatori ad avvicinarci alla gente per non far morire gli ideali del neorealismo. La parte del volume dedicata al cinema contemporaneo voleva anche verificare se qualcosa fosse cambiato dalle constatazioni fatte nel duemila dallo storico Gian Pie- ro Brunetta che sul cinema italiano alla fine del secolo aveva scritto:

Registi e autori di soggetti e di sceneggiature sembrano aver scelto una sorta di navigazione a vista, continuando a privilegia- re storie minimaliste, in ogni caso muovendosi senza strumenti o bussole comuni per quanto riguarda la rotta del presente.

Alla mancanza di visione di cui si lamenta Brunetta si potrebbero aggiungere le difficoltà di distribuzione, la mancanza di dialogo tra produttori e autori, la mancanza del sopporto critico che gli autori lamentano nei confronti dei critici, che continuano a mandare ana- temi sul nuovo cinema. In realtà c’è da chiedersi che resta del cine- ma e della cultura italiana oggi nel mondo della globalizzazione? Le interviste incluse nell’ultima parte del volume pongono queste e altre domande, ma offrono anche risposte che vanno ben oltre l’aspetto estetico. Il regista Giuseppe Piccioni, pur consapevole delle difficoltà del cinema italiano, parlando del Festival di Venezia e della giuria presieduta da Quentin Tarantino, ha biasimato il riprovevole atteg- giamento dei gestori del festival che invece di valorizzare al meglio il cinema italiano assumono un comportamento così descritto:

Per assurdo chi dovrebbe, per statuto, valorizzare al meglio il cinema italiano finisce con il fare delle scelte opinabili per quanto riguarda le opere selezionate e anche sulla scelta dei giurati stessi. Questo credo sia un problema perché non ci dovrebbero essere considerazioni personali nella scelta di un film. È sempre stata una mostra attenta ad assecondare certi 7

poteri; quelle due o tre produzioni che hanno già una forza sul mercato ne escono rafforzate quando invece la mostra dovreb- be avere un altro tipo di atteggiamento. E quindi generalmente è una mostra vecchia dove il cinema italiano esce fortemente sciupato, un’immagine che secondo me è molto distante dalla realtà perché quello italiano è anche oggi un cinema che ha un suo reale valore che in molti casi è quantomeno apprezzabile.

Malgrado tutte le critiche, a mio avviso, il cinema italiano contem- poraneo sembra che aver dato una risposta forte ai critici superando il cinema minimalista che criticava Brunetta. Benché si sia parlato e scritto molto del neo-neorealismo o addirittura del neo-neo-neorea- lismo e di rinascita del cinema italiano, e si sia tentato di spiegare i due fenomeni, per chi ha curato il volume mancava ancora una vera discussione sugli aspetti nuovi di questa rinascita oppure svolta del cinema italiano contemporaneo. Il volume per chi avrà la bontà di leg- gerlo presenta una vasta ricerca sul cinema italiano del presente e del passato ma va anche oltre. La prima parte è infatti dedicata ai Maestri e al cinema del passato, raccoglie un saggio sulle radici udaiste del neorealismo di Enrico Bernard che riapre il dibattito su quell’intra- montabile fenomeno culturale e artistico. Lorenzo Borgotallo presen- ta una lettura nuova del capolavoro I bambini ci guardano, di V. De Sica nell’analizzare il processo sovversivo di orfanizzazione che la storia del film presenta. Ben Lawton offre una provocante rilettura della commedia di costume di attraverso il contrasto tra omertà e società civile. Alan Perry ci presenta un tema poco discusso, trattando il Meridione nel contesto della Guerra Civile dalla prospetti- va di Giovannino Guareschi. La commedia italiana è ben rappresenta- ta dal saggio di Gaia Capecchi sulla “poetica dell’ovosodo” di P. Virzì e dal saggio di Claudio Mazzola che attraverso uno studio comparati- vista paragona la provincialità della rappresentazione della gioventù italiana del dopoguerra all’anticonformismo di James Dean e di Mar- lon Brando. Il passaggio tra il vecchio e il nuovo è presentato dallo storico Gian Piero Brunetta con un saggio su un progetto di un film mai realizzato di E. Olmi e la sua collaborazione con Rigoni Stern per l’adattazione del Sergente nella neve. Peter Brunette citando B. Bertolucci ripercorre l’importanza del cinema di Roberto Rossellini. Partendo dai classici della letteratura occidentale, Andrea Cicca- relli ci porta alla scoperta di come il cinema italiano contemporaneo 8 utilizza il viaggio e la stasi. Federico Pacchione riscopre l’influenza di nel film Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore. Anthony Tamburri analizza Nuovomondo di Emanuele Crialese attra- verso le opposizioni tra il Vecchio Mondo e quello Nuovo che sono al centro del racconto filmico. Maria Rosaria Vitti-Alexander tratta di come il cinema contemporaneo racconta il Meridione ne La terra di Sergio Rubini. Marguerite Waller offre una lettura postcoloniale di Luna e l’altra di Maurizio Nichetti e Vito Zagarrio nell’era del neo- neorealismo trova il “neorealismo prima del neorealismo”. In un volume che si pone di presentare anche il contemporaneo, difatti la nuova generazione è presente con una riflessione sul docu- mentario con La Paura di Pippo Delbono di Maura Borgonzoni. Fla- via Brizio-Skov affronta il quesito se esiste un nuovo cinema politi- co italiano oggi, invece Tania Convertini analizzando Anche Libero va bene di Kim Rossi Stuart, ci presenta la difficile partita familiare dell’oggi di un padre e di un figlio. Il documentarista Salvo Cuccia raccontando anche le sue espe- rienze e l’apprendistato con il compianto maestro De Seta narra come attraverso la poesia del reale e il documentario d’autore De Seta ha mostrato la trasformazione della società e del Meridione. Cosetta Gau- denzi, con La giusta distanza di C. Mazzacurati discute di come il film promuove artisticamente il superamento dei pregiudizi e la conviven- za culturale. Roberta Rosini offre una rilettura filosofica deIl ladro di bambini di attraverso il viaggio meridiano. Manuela Gieri con il suo saggio sull’urgenza della storia analizza come il cine- ma italiano contemporaneo rivive e la storia del Paese, mentre Alicia Vitti con Il resto di niente, Through the Lens of Antonietta De Lillo ci riporta alla Repubblica Napoletana e a Fonseca. Paola Lorenzi illustra Io sono l’amore del 2009 diretto da Luca Guadagnino come “Italian Antidote to the American Cinema of Aliens, Mutants & Vampires”, mentre Diana Parisi presenta il cinema di Mimmo Calopresti come cinema di ricerca, riflessione, rivoluzione e dell’esserci. La parte letteraria del volume è arricchita dal saggio di Sheryl Postman, su La terra dei padri tra le ultime opere di Giose Rimanelli, scrittore italiano tra i più importanti nel Nord America. Daniela Privi- tera con Dal silenzio imposto al riscatto della parola traccia percorsi di sicilianità da G. Verga ad A. Camilleri. Flavia Laviosa con ritmi e danze del Sud indica il percorso dalle periferie alla “world music” dei musicisti mediterranei. 9

Il volume offre anche due saggi critici di due noti scrittori italiani: Giacomo Pilati riflette sul ruolo delle Siciliane metaforicamente sin- tetizzato con “il silenzio e l’urlo” ed Ermanno Rea ci offre una rifles- sione sul centocinquantesimo anniversario dell’unificazione. Helen Barolini racconta la genesi del suo romanzo Umbertina che attraverso le vite di tre donne di una stessa famiglia ricostruisce al femminile la storia italo-americana dall’unificazione italiana agli anni settanta. L’ampiezza degli argomenti affrontati dai saggi scelti ha come scopo il tema specifico di mettere in luce nuovi aspetti del cinema e della letteratura italiana e di arricchire e di approfondire la conoscen- za d’intellettuali, film e scrittori del nostro patrimonio culturale.

Antonio C. Vitti Bloomington, Indiana 10 11

parte prima

??? 12 13 Enrico Bernard

Le radici udaiste del neorealismo

Il 9 giugno 1929 sul «Corriere d’America» a New York viene ripro- dotto il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione Distruttivisti Attivisti)1 firmato da tre giovanissimi intellettuali napoletani: Carlo Bernard (alias , l’autore dello storico romanzo Tre ope-

1 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. Unione Distruttivisti Attivisti, Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare in appendice al saggio di Rocco Capozzi, Bernari tra fantasia e realtà, Napoli, SEI, 1984, pp. 151-157; qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del “Circumvisionismo”. Qui di seguito i nove principi base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento: 1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è stata sempre rivoluzionaria. 2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento. 3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia. 4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato i primi futuristi. I primi futuristi non hanno lasciato niente d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte. 5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi perché sono lontani da noi gli anni 1909 ecc. – e niente affatto perché i nostri problemi artistici siano più complessi. 6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione. 7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai cubisti ai surrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova. 8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte. 9. L’arte è novità, la novità è arte. 14 rai del 1932-1934), dal pittore Paolo Ricci2 e dal filosofo e artista Guglielmo Peirce, entrambi tra gli animatori del movimento dei cir- cumvisionisti napoletani3. La critica – non solo letteraria, tranne alcune eccezioni che segna- lerò subito, ma anche e soprattutto gli storici e studiosi di arti visive e cinema, – ha fino ad ora sottovalutato o ignorato l’importanza di questo documento. Non se ne è parlato fino alla fine degli anni ’70, quando Rocco Capozzi4 ha riproposto una più attenta analisi del Manifesto in rela- zione alla genesi del neorealismo. Ma ci sono voluti altri trent’anni prima che la questione tornasse attuale: Francesca Bernardini nel- la prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 2005 di Tre operai riprende l’argomento del Manifesto UDA:

Nel ’29 il Manifesto di fondazione dell’UDA […] costituisce già nel taglio critico e polemico un punto d’arrivo e fornisce le basi su cui si preciseranno la poetica e l’ideologia dello scrittore: nonostante l’affermazione dell’arte come “non arte” […] afferma che l’arte è “espressione del tempo” storico, assume una posizione e responsabilità politiche ben precise, propugna una concezione materialistica della vita e dell’arte; è anti-idealistico e anti-crociano, rifiuta l’ideologia futurista, in particolare l’attivismo e la “religione della macchina”, guarda con interesse alla psicanalisi, al surrealismo, alla Neue Sachli- chkeit tedesca, sottopone a critica il realismo sovietico e si ispira al costruttivismo, in particolare per il funzionalismo in

2 Cfr. Paolo Ricci, Catalogo della mostra retrospettiva con interventi e saggi vari, Napoli, Castel Nuovo 26 giugno-28 settembre 2008, a cura di Mario Franco e Daniela Ricci, Napoli, Electa, 2008. 3 Il gruppo circumvisionista Sodalizio fra pittori di belle speranze e di molte illu- sioni nacque tra il 1928 e il 1929. Tra i firmatari del primo Manifesto dei pittori circumvisionisti (stampato in opuscolo e dopo alcuni mesi riprodotto in «Forche Caudine», II, n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5) è proprio Guglielmo Peir- ce. Per una analisi esaustiva del movimento circumvisionista cfr. Matteo D’Am- brosio, I circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del fascismo, Napoli, Edizioni Cuen, 1996. 4 È da segnalare l’importanza che verrà data al documento dell’UDA soprattutto in seguito come ha scritto Filiberto Menna per il quale il manifesto «non ebbe il rilievo che meritava e che avrebbe certamente avuto non dico a Parigi, a Monaco, a Berlino, ma anche a Roma o a Milano». Cfr. Filiberto Menna, Un normanno a Napoli, in Paolo Ricci, Catalogo… cit., p.14 15

senso socialista e per il possibile sviluppo di un realismo criti- co in cui sono centrali i temi della città e dell’industria5.

È allora di tutta evidenza che, se si intende fissare una data ed un episodio di partenza del “neorealismo”, non è possibile ignorare il Manifesto UDA del 1928-29. Esso viene, certo, a rompere le uova nel paniere di una critica ormai assuefatta allo schematismo accade- mico, che considera il neorealismo cinematografico del dopoguerra come una innovazione, peraltro con forti margini di autonomia, del protorealismo letterario dei primi anni ’30. Il quale, a sua volta, sareb- be una diretta conseguenza del filone realistico-veristico derivato da Manzoni e Verga. Questa impostazione, fuorviante, se non addirittura erronea, nasce da un gigantesco equivoco provocato in prima battuta da un critico, Emiliano Zazo, che, nel 1934, recensendo Tre operai con lo pseudonimo di “Aristarco”, coniò il termine “neo-verismo”6. Il fatto è che il “contenuto” sociale, in questo caso la fabbrica e la condi- zione operaia, ha finito per abbagliare i lettori poco attenti che, spesso e volentieri, hanno sottovalutato l’importanza, sotto il piano formale, del romanzo d’esordio di Bernari. Importanza che va fatta risalire alla fase preparatoria teorica della fine degli anni ’20 e all’impostazione e redazione del Manifesto UDA, il cui scopo principale è quello di creare un’arte nuova, rivoluzionaria, in virtù dell’apporto sinergico di tutte le arti. Del resto, gli stessi autori, considerati artefici e protagonisti del neorealismo italiano, hanno ripetuto, fin dai primi anni ’50, che non basta la descrizione di un ambiente sociale, non basta l’engagment politico-ideologico, non basta il documentarismo, cioè la rappresen- tazione della realtà vera, così com’è, a trasformare un’opera d’arte in opera neorealista. Lo dice chiaramente Zavattini in un convegno nel lontano 1953:

Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che rispon- de ai bisogni, alle esigenze, alla storia degli italiani in questo momento […] Ci sono dei film più o meno felici nell’ordi- ne sociale. C’è un film di straordinaria intelligenza come Le

5 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, in Carlo Bernari, Tre operai, Milano, Oscar Mondadori, 2005. 6 “Aristarco” (Emiliano Zazo), Un neo-verista: Carlo Bernard, in «L’Italia Lette- raria», X, 14, 8 aprile 1934. 16

vacanze del signor Hulot ma non è neorealista, di neorealista ci sono i pensieri […] Le opere neorealiste non possono essere che nel corso […] che si deve percorrere per avvicinarsi alla realtà […] Voglio dire che c’è una posizione, un atteggiamen- to verso la vita che non si limita al fatto così detto artistico, ma fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo le attuali necessità storiche […]7.

Il pensiero di Zavattini viene poi ripreso da Federico Fellini che, in un intervento sotto forma di lettera aperta a Massimo (Mida)8 del 1955, deve difendere La strada dagli attacchi della critica marxista italiana:

Caro Massimo, ho letto con viva attenzione la tua lettera9, come ho letto gli articoli di alcuni critici di sinistra, ai quali ti accordi, e spero vorrai accettare la mia franchezza se ti dirò che le vostre critiche, o meglio i vostri rilievi, non mi sembra- no persuasivi […].

E dopo aver difeso La strada dalle accuse di “monadismo” e di “indi- vidualismo”, Fellini chiarisce ulteriormente la sua posizione intorno al neorealismo:

Secondo me il processo storico, che l’arte deve, certamente, scoprire, assecondare e chiarire, si svolge in dialettiche assai meno limitate e particolari, assai meno tecniche e politiche, di quanto voi credete: a volte, un film che, prescindendo da rife- rimenti più precisi a una realtà storico-politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di un altro dove ci si riferisca a una precisa realtà social-politica in cammino10.

7 Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, relazione al Convegno sul neorea- lismo tenuto a Parma il 3-4-5 dicembre 1953 (pubblicata in «Rivista del Cinema italiano», a. III, n. 3, marzo 1954, poi in Neorealismo ecc., a cura di Mino Argen- tieri, Milano, Bompiani, 1979. La citazione è ripresa dall’antologia: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, Il Sag- giatore, 1980, p. 177. 8 Federico Fellini, Neorealismo, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 15, 9 aprile 1955. La citazione è tratta da: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, cit., p. 196. 9 Massimo Mida, Lettera aperta a Federico Fellini, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 12, 19 marzo 1955. 10 Federico Fellini, Neorealismo, cit. p. 200. 17

Da questi interventi risulta evidente che l’incomprensione tra auto- ri e critici, da cui scaturì quella polemica degli anni ’50-’60 intorno al neorealismo (di cui – non riuscendo a giungere ad una definizione soddisfacente – poi si preferì teorizzare la morte prematura, tanto per far sparire col cadavere – del neorealismo – anche l’ipotesi di delitto perpetrato dalla critica)11, riguarda appunto l’errore di partenza: quel- lo di considerare il genere neorealista sotto l’aspetto del “contenuto” e non della “forma” come altresì suggerito a gran voce dagli artisti stessi. A cominciare dallo stesso Bernari che in Questioni sul neore- alismo12 scrive:

Un contenuto artisticamente parlando può risultare prevedi- bile, quanto invece imprevedibile deve essere la forma in cui si manifesterà; poiché tutto alla fin fine è contenuto; quel che non è, per definizione, contenuto, può diventare tale appena rivelato sul piano estetico da rifluire sulla stessa realtà da cui proviene e modificarla.

Naturalmente la critica ha dovuto fare poderose marce indietro, rimangiarsi giudizi ridicoli (la quasi stroncatura de La strada ne è un classico esempio, ma se ne potrebbero aggiungere altri come la dif- fidenza e l’ostracismo contro Giuseppe De Santis13). Ma questa mar- cia indietro, innestata senza tener conto dell’avvertenza di Pirandello che l’arte è forma e non contenuto14, ha cozzato nuovamente contro i paletti della letteratura: si è così cominciato a parlare, nell’immediato dopoguerra, di un “incunabolo” neorealista a proposito della lette- ratura dei primi anni ’30. In modo particolare si è usato il romanzo

11 Vogliamo ricordare i versi di In morte del neorealismo del 1960: «Tutti l’avete amato, quello stile, ai giorni / della speranza: e non senza motivo. / Che motivo v’impedisce ora di rimpiangerlo?/ Ah, Ragione! perduta di nuovo negli oscuri / meandri dell'irrazionalità! Elusione, / riduzione, elezione stilistica: atti, / tutti, della resa davanti alla reazione! / Scusate… il mio cuore è là, dentro la bara, / con quello stile… Vorrei tacere, e basta». Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, p. 140. 12 Carlo Bernari, Questioni sul realismo, saggio del 1953, in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, p. 109. 13 Cfr. Antonio C. Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso, Pesaro, Metauro, 2006. 14 «Chi concepisce la tecnica come alcunché d’esteriore, cade precisamente nello stesso errore di chi concepisce come alcunché di esteriore la forma. La tecnica è il movimento libero spontaneo e immediato della forma». Luigi Pirandello, Arte e scienza in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, Meridiani, 2006, p. 692. 18

Tre operai del 1934 di Carlo Bernari per quella subdola mistifica- zione del neorealismo in chiave contenutistica. Tutto ciò nonostante le ribellioni di Bernari e di altri autori che mai accettarono di essere considerati “neorealisti”, tantomeno “proto”, – se per neorealismo si doveva intendere il prevalere del “contenuto”, l’impegno sociale, sulla “forma” rivoluzionaria dell’opera d’arte. Certo, Tre operai fin dal titolo, pareva rappresentare la “prova-provata”, malgrado le rimo- stranze dell’autore, di una letteratura postverista che, rappresentando l’ambiente della fabbrica e della condizione operaia, gettava le basi “contenutistiche” di un neorealismo in nuce. Così la critica (e si sa che la critica cinematografica è piuttosto superficiale nei confronti della letteratura, così come la critica letteraria guarda al cinema con una certa altezzosa severità) ha trovato bell’e pronta la soluzione al problema del neorealismo: un travaso contenutistico dalla letteratura postverista e protoneorealista alla forma tipicamente neorealista del cinema. Le cose tuttavia, dicevo, non stanno propriamente così. Se si con- cepisce il neorealismo (lo dicono Zavattini e Fellini) come un “avvi- cinamento al reale” (Za), cioè come una forma e non come un con- tenuto sociale e politico (altrimenti il verismo bastava e avanzava), allora oltre all’individuazione della scintilla neorealista (il Manifesto UDA), bisogna poter anche evidenziare la catena di trasmissione con cui questa nuova “forma” neorealista riuscì ad innestare il suo pro- cesso artistico. Ora, è noto che i due “padri” fondatori del “neorealismo” in lette- ratura e nel cinema (Carlo Bernari e Cesare Zavattini) hanno incro- ciate, fin da giovanissimi come vedremo tra poco, le loro vite e i loro destini: Zavattini fu il primo lettore nel lontano 1932 del manoscritto di Tre operai che pubblicò, nel 1934, nella collana dei “Giovani” di Rizzoli da lui diretta. Basta dare un’occhiata al ricco carteggio Berna- ri-Zavattini degli anni 1932-1938, per rendersi conto che le influenze reciproche dei due artisti e scrittori sono molteplici. Alché è difficile pensare che il film cult del neorealismo Ladri di biciclette, scritto da Za per De Sica nel 1948, non abbia risentito di questi scambi tra due menti aperte, giovani e disponibili al confronto. Tralascio una disami- na di questo aspetto per esigenze di spazio, dirò solo che nell’editing del romanzo d’esordio di Bernari, Zavattini maturò alcune osserva- zioni stilistiche e formali di cui poi farà uso nella stesura della sce- neggiatura del capolavoro neorealista. Va da sé che l’evoluzione del 19 neorealismo di Zavattini, in direzione di un surrealismo a sfondo politico-sociale, prima favolistico poi sempre più fantastico (mi rife- risco a Miracolo a Milano e a Il giudizio universale, scritti da Za per De Sica tra il 1950 e il 1960) vanno proprio in direzione degli spunti teorici del Manifesto udaista del ’29 – soprattutto per quanto riguarda l’aspetto formale dello stravolgimento del reale in senso, non solo surreale, ma addirittura metareale (l’arte intesa come potenzialità rivoluzionaria “soggettiva” nei confronti dell’oggetto rappresentato). Ecco allora che, in quest’ottica, anche un autore come il Fellini di 8 e 1/2, opera che sta da sempre stretta nello scarpone del neorealismo tradizionale, contenutistico, si spiega invece perfettamente. Lo stesso discorso vale per il cinema di Pier Paolo Pasolini, e non mi riferi- sco al “surreale” capolavoro neorealista che è Uccellacci e uccellini, ma anche alle più controverse e trasgressive opere, da cui affiora una sessualità apparentemente ossessiva che si è in parte spiegata con la biografia stessa del poeta friulano15. In realtà, anche su questo punto, il “sesso”, il Manifesto UDA era giunto ad una definizione teorica estremamente e audacemente moderna:

Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo16.

Quello che sorprende – tornando al rapporto tra Bernari e Zavattini, nella corrispondenza degli anni ’30, – è che tra i due si parla molto del ruolo dell’immagine, di cinema e di fotografia, – meno di lette- ratura. Soprattutto nella prima fase del carteggio, tra la fine del ’31 e la fine del ’32, la questione al centro dei discorsi non è letteraria, perché Zavattini conosce Bernari non tanto come “scrittore”, bensì come un giovane intellettuale appassionato di arte. Il fatto è che Za sente per la prima volta il nome di Bernard (che cambierà in Bernari

15 In realtà erotismo e sessualità sono elementi centrali della letteratura italiana dal- le origini ad oggi. Non a caso una delle opere cinematografiche più trasgressi- ve di Pasolini è tratta dal Decameron. Nella vasta bibliografia al proposito, cfr. D’amore si vive. Racconti erotici da Boccaccio a D’Annunzio, a cura di Guido Davico Bonino, Milano, Rizzoli BUR, 2009. E cfr. inoltre Parole di Eros. Eroti- smo e pornografia nella letteratura italiana dal Duecento al Novecento, a cura di Riccardo Reim, Bologna, Castelvecchi, 2010. 16 Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, in Rocco Capozzi, Bernari tra Fantasia e Realtà, Napoli, SEI, 1984, p. 155 20 nel 1938 in seguito alle leggi razziali) collegato a due giovani arti- sti dell’area napoletana: il pittore Paolo Ricci e il teorico dell’arte Guglielmo Peirce. Tutti e tre si sono fatti notare da Zavattini, che alla fine degli anni ’20 è a sua volta un giovane intellettuale appassionato di arte e assetato di novità, oltretutto in procinto di trasferirsi a Mila- no come collaboratore delle maggiori case editrici italiane, in segui- to alla pubblicazione del Manifesto UDA (ripeto la sigla per esteso: Unione Distruttivisti Attivisti) nel 1928-1929. Anche se la critica, come dicevo, con le eccezioni di Rocco Capoz- zi, Eugenio Ragni17 e Francesca Bernardini e pochi altri, ha ignorato l’importanza di questo documento, esso rappresenta il tassello fonda- mentale del passaggio dalle arti visive del primo ventennio del ’900 alla letteratura neorealista dei primissimi anni ’30. Si tratta di un atto “formale” che sancisce la nascita del “neorealismo” come processo di “avvicinamento” alla realtà, non più e non solo da un punto di vista letterario (verismo e conseguente contenutismo), ma con la teorizza- zione della sinergia di tutte le arti sul piano della forma18.

A monte del Manifesto c’è la vicinanza al gruppo dei circum- visionisti, che, superando il futurismo, ma conservando sim- patie per il cubismo, già si erano rivolti all’espressionismo, all’astrattismo, al surrealismo, al costruttivismo russo […]19.

Non aver preso in considerazione questo passaggio storico, che fonda un nuovo modo di concepire l’arte nel rapporto tra forma e contenuto, tra arti visive e letteratura, – quest’ultima viene trascinata nel Mani- festo ad un confronto serrato sul piano dell’eikon, dell’immagine, – ha reso possibile l’equivoco letterario-contenutistico a proposito del neorealismo che citavo poc’anzi. Per questo Carlo Bernari redarguiva il critico cinematografico (Mario Verdone, tanto per non far nomi) che pensava di fargli un pia-

17 Eugenio Ragni, Invito alla lettura di Bernari, Milano, Mursia, 1978. 18 Nella cultura italiana permane una sorta di scetticismo nei confronti del “for- malismo”, probabilmente per un retaggio critico la cui origine risale al giudizio sul marinismo. In realtà il formalismo italiano, basti pensare a Carlo Gozzi, ha influenzato autori e movimenti rivoluzionari del ’900, basti pensare ai forma- listi russi, alla rivoluzione dada, ma anche a Brecht e a Pirandello, che hanno considerato la “forma” (e non il contenuto) come il vero contesto rivoluzionario dell’arte. 19 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, cit., p. XXX. 21 cere a ingabbiarlo in una definizione, quella di autore “neorealista”, che in realtà era, per lo scrittore, una riduzione “contenutistica” di un’opera letteraria “formalmente” aperta alle altre arti. Non che Ber- nari rifiutasse il neorealismo tout-cour, ci mancherebbe!, piuttosto lo scrittore si ribellava ad un’operazione critica che all’epoca mirava a svalutare la libertà formale dell’arte per prediligerne l’aspetto socia- le e politico, il contenuto. Di qui, negli scrittori e registi neorealisti, nasce il dissidio con la critica allineata, prima dei fatti di Ungheria, col Partito Comunista (vedi Fellini e il caso De Santis cui ho prece- dentemente accennato). Nel saggio sul realismo del 1957, poi ripreso nel 1973, Bernari lancia un’accusa grave contro la “critica” sia catto- lica che marxista:

[…] fin quando però la cultura italiana non si riconoscerà in un comune fronte laico, ma continuerà a manipolare le veri- tà complici, (con la complicità della Chiesa innanzi tutto, e delle chiese in genere, ognuna delle quali sa trovare, per pro- prio conto o tornaconto, un'unità confessionale) non vedo vie d’uscita entusiasmanti; non vedo cioè come questa cultura possa sottrarsi all’azione corrosiva della controriforma che insidia, anzi è il presupposto permanente di ogni mistificazio- ne conservatrice. Altro che realismo e neo-realismo!20.

Comunque, a proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito dell’avanguardia artistica (forma), e non nella tradizione letteraria (contenuto), Bernari ne parla con chiarezza nell’intervista originaria del 195721 in cui definisce il realismo socialista come:

[…] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazio- ni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tra- dito le premesse da cui parti lo stesso neorealismo, che fu un movimento avanguardista, espressione di crisi di una società oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi tra il ’30 e il ’40, allorché il neorealismo significò resistenza

20 Carlo Bernari, Questioni sul neorealismo, cit. p. 111-112. 21 Carlo Bernari, Risposte a Questioni sul neorealismo in «Tempo presente», a. II, n. 7, luglio 1957 (poi, con numerose varianti, in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973). L’intervista è stata riproposta in Neorealismo poetiche e pole- miche, a cura di Claudio Milani, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 220-224. 22

al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) […].

La definizione negativa di Bernari del realismo socialista, da lui bol- lato come “una corruzione del realismo in senso neorealistico”, risa- le al 1957, all’indomani dei fatti di Ungheria. Caspita, essa avrebbe dovuto smuovere nugoli di studiosi e di critici alla ricerca del “vero” fondamento del neorealismo! Si optò invece per la soluzione più schematica e semplice possibile, quella cui accennavo all’inizio della mia analisi, cioè il neorealismo fu preso per la sua coda “contenuti- stica”, e non per la sua “testa” pensante, rivoluzionaria e formalistica. Naturalmente Tre operai ha un preciso contenuto storico e politico, addirittura economico, ma tutto ciò è preceduto dalla “forma” nuova che assume il romanzo, che non è più – dopo il Manifesto UDA – quella del romanzo borghese:

Tre operai ha pertanto la funzione […] di contribuire alla rina- scita del romanzo, proponendo nuovi contenuti e una forma nuova, contrapponendosi alla tradizione del romanzo borghe- se, anche contemporaneo, nel quale attraverso la memoria la soggettività dell’autore, l’“umanità” dei personaggi e la let- terarietà la realtà e la situazione storica venivano sublimati in una dimensione lirica e astratta. L’umanizzazione di cui Bernari e Zavattini discorrono delle loro lettere consiste nel radicare concretamente le vicende e i personaggi su un terreno economico e politico, dell’analisi delle trasformazioni che la tecnica dell’industria hanno comportato nella struttura e nei rapporti sociali22.

Come si legge, la questione della forma è essenziale. Perché il romanzo di Bernari viene subito accusato di essere “scarno”, “ridotto all’osso”. Rimando al saggio di Francesca Bernardini per la storia della critica a Tre operai, ma colgo qui solo un aspetto della questio- ne: la novità dell’opera di Bernari è che non si tratta più di letteratura, ma di qualcosa d’altro che va in direzione delle arti visive e del cine- ma, assumendo la caratteristica di una vera e propria sceneggiatura, di un trattamento o di una novellizzazione di opera cinematografica23.

22 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, cit., p. XXXVIII. 23 Sui rapporti di Tre operai con le arti visive, cinema e teatro, vedi: Enrico Bernard, Esiste un teatro neorealista?, in Ripensare il neorealismo, a cura di Antonio C. 23

Insomma di un’altra “forma” rispetto al romanzo borghese, una forma determinata dal rapporto con le arti visive, – e va da sé che non stiamo parlando di un astratto formalismo fine a se stesso, esage- razione o “male infantile” delle avanguardie, che Bernari in ripetuti interventi fa ricadere nell’estetica borghese. Di questa nuova “prospettiva”, che va in direzione delle arti visive e delle esperienze artistiche del ’900, parla Remo Cantoni a proposito di Tre operai, definendolo “visionario” al di là della matrice letteraria:

un libro realista, per i temi sociali che affronta, per gli ambienti che descrive; […] ma realismo continuamente fil- trato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sen- sazioni luminose24.

Apro una breve parentesi. Il paradosso è che il primo stroncatore di Tre operai fu Elio Vittorini, che, nel 1934, lo liquidò come un romanzo “operaio” politicamente fallito. Il titolo della recensione di Vittorini merita l’inciso: “Tre operai” che non fanno popolo25. Lecito doman- darsi: qual è dunque la differenza tra il neorealismo contenutistico26 di Vittorini e il neorealismo formale di Bernari? Ebbene, Vittorini, nella prefazione de Il garofano rosso, si lascia sfuggire una frase che è tutta un programma politico-contenutistico: «scrivo perché credo in una [corsivo mio, N.d.R.] verità da dire»27. Ebbene, Bernari non crede, non ha mai creduto e mai crederà nella “verità”, tantomeno in “una”

Vitti, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 17-28. Vedi anche: Enrico Bernard, Bernari e il cinema in «Esperienze Letterarie», Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Interna- zionali, XXXI, 2006, n. 4, pp. 5. 24 Remo Cantoni, Prefazione a Carlo Bernari, Tre operai, Milano, Mondadori, 1951, pp. 9-10. 25 E.V. [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello», VI, 22 luglio 1934; poi in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 1997. 26 Del resto, Vittorini, rifiutando nel 1947 ufficialmente le vesti di pifferaio della rivoluzione e del Partito Comunista, ha progressivamente modificato la sua opi- nione sul rapporto arte-ideologia. Il suo intervento L’arte è engagement naturale relazione tenuta nell’agosto del 1948 in occasione delle “Rencontres internatio- nales di Ginevra”, sta in Elio Vittorini, Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957 (sta anche in Neorealismo poetiche e polemiche, cit. pp. 77-83), parrebbe assu- mere una posizione che richiama il concetto formalistico del Bernari del 1929. Infatti quella dell’engagement sarebbe dunque una predisposizione dell’artista nei confronti del reale. Torneremo su questo assunto nelle conclusioni. 27 Elio Vittorini, Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948. 24 verità. Il suo marxismo è dialettico, la sua missione di intellettuale e scrittore non è la verità, ma la crisi della verità, la critica del vero, la ricerca come atto formale di indagine della realtà, contro ogni “mas- simo sistema”, che si chiami fascismo o partito comunista. Va ricordato il caso della richiesta di iscrizione al PCI del 1944 che Bernari stracciò in seguito ad un incontro a Napoli con Togliatti, organizzato dall’amico Paolo Ricci, in cui Bernari si vide “tagliato” dal Migliore parte del catalogo della Biblioteca del Marxismo da lui preparata28. Togliatti fece infatti “saltare” numerosi autori perché non allineati o in “odore” di troskismo. Il viaggio a Napoli per incon- trare il capo del PCI fu organizzato anche per discutere l’edizione dei Quaderni dal carcere di . Anche in questo caso il dissidio tra Bernari e Togliatti fu totale, poiché Bernari comprese che il dirigente comunista voleva in qualche modo adattare il pen- siero gramsciano alle linee del partito. È, d’altronde, interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica quando, siamo nel 1929, il mito stalinista è ancora in auge. In questo paragrafo del Manifesto, infatti si legge:

I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esasperazione dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impie- gano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda sociale. I Sovieti sono perciò i più vicini all’annullamento completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cado- no in essa con lo stesso realismo29.

28 Su questo argomento vedi: Dario Fertilio, Togliatti censore: correggete Gramsci, sul «» del 2 febbraio 1996, p. 3. L’articolo, che contiene alcu- ne pagine del diario di Bernari, è stato ripreso da Luciano Canfora, sempre sul «Corriere della Sera» il 5 dicembre 1996. 29 Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, Manifesto di Fondazione dell’UDA del 30 gennaio 1929, cit., p. 155. 25

Questa citazione ci consente di tornare alle vicende legate al Mani- festo UDA del 1929. Il sodalizio tra il pittore e storico dell’arte Paolo Ricci e Bernari risale alla seconda metà degli anni ’20 e coinvolge, come accennavo, anche un terzo giovane intellettuale, Guglielmo Peirce, a sua volta filosofo e pittore. I tre amici daranno vita, proprio negli anni in cui il regime fascista è al massimo della propaganda ideologica, ad un movimento marxista, quindi anticrociano e, soprat- tutto, antifuturista. Tra il 1927 e il 1929 i tre giovani intellettuali, non ancora ventenni, pensavano di dedicarsi a diverse ricerche e tenta- tivi, tra cui una Storia del movimento operaio a Napoli30, opera che mai vide la luce, ma che fornì a Bernari, impegnatosi più degli altri due nelle ricerche storiche, il materiale e gli ambienti, oltre a quelli notoriamente autobiografici, per le prime stesure di Tre operai (Tem- po passato del 1928-29 e poi Gli stracci del 1929-1931). Tramite Ricci, Bernari si avvicina agli artisti circumvisionisti napoletani e, grazie all’attivissimo Peirce, al gruppo romano della “seconda onda- ta”, legato al futurismo. Il 18 gennaio 1929, in una serata al Circolo Marchigiano di Roma, – presenti Marinetti e Balla e Luigi Pepe Diaz, antifascista e comunista, rifugiatosi in seguito a Parigi, – Gustavo Barela, leader del gruppo, legge due poesie di Bernari, Ghigliottina e Idillio7, andate perdute. Ma in questo clima Bernari, Peirce e Ric- ci fondano un movimento d’avanguardia e, tornati a Napoli circa a metà del ’29, lanciano il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione distruttivisti attivisti), che, stampato in cinquecento copie, “imbucato e distribuito di notte”31 viene recensito da Ungaretti.

Il manifesto nacque tra la fine del ’27 e i primi del ’28; proprio in opposizione all’ottimismo futurista. Lo concepimmo innan- zitutto come testimonianza critica antifascista, in opposizio- ne all’arte ufficiale fascista. Essendo giovani non potevamo essere ingenerosi, per cui vedevamo fascismo dovunque. E

30 «Paolo (Ricci, N.d.R.) scriveva una storia dell’architettura, fondata su equazioni economico-sociali; Guglielmo (Peirce, N.d.R.) un’estetica tra Aristotele e Marx; io, da mattina a sera occupato nella bottega di tintoria, una storia della classe operaia già arresa alle cronache delle mie giornate». Carlo Bernari, Nota ’65, in Tre operai, cit., pp. 159-170. 31 L. Vergine, L’opposizione di alcuni artisti nella Napoli degli anni ’30 oppure I distruttivisti-attivisti, testo di una trasmissione radiofonica del terzo canale della Radio, 8 marzo del 1971, dattiloscritto in fotocopia, p. 1, ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 7/421. 26

bisognava abbatterlo; e come, se non prevaricando! […] Cosa proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo futurista, che era in sé per sé un’esaltazione della macchina, già allora tanto minacciosa; ma una coscienza tecnologica che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strut- ture ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla macchina. […] Ed ecco come da una simile riflessione dove- va nascere il distruttivismo e l’attivismo dell’U.D.A., cioè Unione distruttivisti-attivisti, per un’attività dello spirito non in senso gentiliano, ma in dialettica con la natura, in dialettica con la storia, e coscienti dei mezzi tecnologici e scientifici da cui l’uomo d’oggi è condizionato32.

Il Manifesto affermava alla luce del marxismo e di Freud l’inutilità dell’arte, anche di quella cosiddetta d’avanguardia, futurismo in testa, perché destinata a diventare comunque un aspetto della cultura bor- ghese, annunciando la fine delle arti belle e mostrando intolleranza per ogni tipo di autorità sia in campo politico che artistico. I distruttivisti-attivisti affermavano il primato della scienza e del- la tecnologia, «uniche attività capaci di sottrarsi all’asservimento di classe e in grado di restituire un’immagine positiva del reale»33, in tal senso essi consideravano la macchina non l’oggetto mitico dei futuri- sti, ma uno strumento da osservare senza enfasi:

Uno strumento in grado di trasformare i meccanismi produtti- vi e di eliminare lo sfruttamento presente nel mondo industria- le. Colpisce, nel testo d’impronta dadaista, l’attenzione, sulla linea di Breton e dei surrealisti, alle ricerche della psicanalisi e al loro rapporto con l’arte moderna, mostrando un interesse che investiva tutti i campi dell’attività culturale: dai proble- mi sociali che si richiamavano al marxismo all’architettura, dall’urbanistica alla scienza, ai costumi della vita moderna34.

Il movimento non passò inosservato: Croce, nonostante la sua celebre ostilità verso ogni novità, confidò a Francesco Flora, che glielo fece

32 Rocco Capozzi, Intervista a Carlo Bernari, «Italianistica», IV (1975), n.1, p.143- 144. 33 Carlo Bernari, Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASNA), Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/36. 34 Daniela Bernard, Carlo Bernari a Parigi, in «Studi novecenteschi», Pisa-Roma, Serra Editore, XXXVI, n.78, luglio-dicembre. 2009, pp.313-346. 27 recapitare, che il manifesto era «una cosa molto seria»35, aggiungendo la famosa frase: «Sti guaglioni non so’ fessi!»36. Una lettura non meno superficiale del testo udaista fu quella di Giuseppe Ungaretti che sulla rivista «Il Tevere»37 scrisse:

Sono tre pagine non stupide, scritte da persone che hanno seguito le idee intorno all’arte di questi ultimi tempi. […]. È, riconosciuto, l’errore romantico. Per i romantici si trattava di liberare lo spirito dai ceppi della retorica. In realtà abbiamo avuto questo: una serie di rivoluzioni teoriche, la durata sem- pre più breve di queste successive retoriche, la persuasione sempre più insopportabile di avere tra i piedi una retorica da mandare al diavolo. E così l’arte si è fatta moda. Cioè si è messa a perseguire fini che sono l’opposto di questi dell’arte e i predetti Signori non hanno torto di lanciare il manifesto dell’antiarte. Ma ora viene il bello. I Distruttivisti-Attivisti parlando di arte che sarebbe mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia con il cambiare della simpatia stessa, vogliono dirci che questo oggetto è la macchina. Lo aveva detto anche Marinetti. Ma essi non considerano la macchi- na come una bellezza da esaltare ma come un prodotto della nostra civiltà da sfruttare.

Il Manifesto dei tre giovani “distruttivisti-attivisti” – Bernari, Peirce e Ricci – rappresenta, insomma, la reazione negativa, probabilmente la prima da parte di giovanissimi intellettuali marxisti, al futurismo: si tratta sostanzialmente, al di là della polemica tipica del tempo sulla funzione e valore dell’arte, di una vera e propria “messa in guardia” ideologica contro il mito della “macchina” che, disumanizzando il lavoro e incrementando la dinamica del profitto, non può essere vista solo come uno strumento di progresso, ma deve esserne avvertita la minacciosa potenzialità alienante. La cultura italiana, solitamente provinciale e un po’ miope, ha sempre insistito, tranne qualche raro caso, sulla mancanza di sbocchi e di influenza del Manifesto dell’Uda. Senonché, il 9 giugno 1929, come accennavo all’inizio, il Manife-

35 Intervista a Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ric- ci, Parte Generale, 1/80. 36 Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 3/125. 37 Giuseppe Ungaretti, L’arte è novità, «Il Tevere», 19 ottobre 1929. 28 sto fu ristampato sul «Corriere d’America» a New York: la sorpre- sa sta nel fatto che il Manifesto sia arrivato in America subito dopo la pubblicazione a Napoli. E se poi si collega questa data del 1929 col soggiorno parigino di Bernari del gennaio-aprile 1930 (Bernari raggiunge gli amici artisti Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, che già sono nella Ville Lumiére da qualche tempo), dobbiamo rivedere – e di molto – la tesi sulla scarsa diffusione delle idee del Manifesto UDA. Appena giunto a Parigi infatti Bernari, ventunenne, entra in contatto con André Breton e Ribemont-Dessaignes. Racconta Bernari:

Avevo conosciuto Ribemont-Dessaignes e, insieme, Nino Frank, in una fredda e grigia stanzetta che affacciava su un interno di St. Germain-des-Près; era tutta lì la redazione della sontuosa rivista «Bifur»; dove il direttore mi riceveva con il cappotto indosso, un cappotto marrone dal taglio antiquato. Sulla sponda opposta Breton metteva la rivista del surreali- smo al servizio della rivoluzione, per esserne ricompensato con l’espulsione dal Partito Comunista dopo il rifiuto di com- pilare un rapporto sulla situazione dei gasisti in Italia. «Pensa- te!» mi diceva furibondo «Io! Uno scrittore! Che ne so di quel che succede in Italia?». E io a rimproverarlo, che non avrebbe dovuto sottrarsi al compito. Chè sarei stato ben felice se qual- cuno al mio paese avesse potuto chiedermi qualcosa di simile. Ero persuaso di dover invidiare quella libertà che consentiva a lui di respingere una richiesta, essa stessa affermazione di libertà38.

Il giovane scrittore napoletano incontra Breton proprio nel momen- to in cui l’artista, che aveva aderito nel 1927 al partito comunista francese, si stava staccando dal gruppo e mutava l’insegna della sua rivista da «Révolution surréaliste» a «Le Surréalisme au service de la révolution». La lettura delle opere di Breton lo suggestionano e gli fanno sentire attuali le riflessioni fatte a Napoli e confluite nel Mani- festo UDA:

[…] le opere [di Breton e Ribemont-Dessaignes N.d.R.] let- te sul posto mi avevano impressionato in quanto le vedevo in linea con un surrealismo storico le cui radici affondavano nei Les Chants de Maldorol per un verso, nei racconti del Poe

38 Carlo Bernari, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, pp. 225-226. 29

nell’altro verso, ma più che altro ciò che mi impressionava era il filone dada che in un certo senso o forse in tutti i sensi era stato raccolto da quella parte distruttivistica che aveva ispirato l’Uda 1928-1929. Erano passati due anni dal manifesto Uda (forse tre) e mi toccava, lì sul vivo, sentirne ancora l’attualità39.

Fatto sta che i due celebri esponenti del surrealismo accolgono Ber- nari (e le tesi dell’UDA) con grande interesse, rispondendo anche epistolarmente ad una “Inchiesta sul surrealismo” che Bernari porta avanti con tenacia: la corrispondenza di Bernari con Breton e Ribe- mont-Dessaignes è del gennaio-febbraio 193040. A testimonianza del particolare clima di amicizia e considerazione, nonché di collabo- razione, instauratosi tra Breton e Bernari, resta un frontespizio del Manifeste du surréalisme che Breton stesso dedica cosí:

A Carlo Bernard, per simpathique homage André Breton gia- vier 193041.

Considerando che, contemporaneamente, a Parigi nei primi mesi degli anni ’30 si trovano anche Paolo Ricci e Guglielmo Peirce – quest’ul- timo a matita realizza una sorta di autoritratto42 del terzetto di amici, confondendone e fondendone i lineamenti –, va da sé che i temi anco- ra caldi, “attuali” come riferisce Bernari, del Manifesto UDA diventi- no una sorta di biglietto da visita per il sodalizio. Comunque, le idee dei giovani distruttivisti-attivisti (che nel 1929 hanno trovato anche eco a New York) si diffondono negli ambienti intellettuali parigini43.

39 Carlo Bernari, Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su Tre operai e sul soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 9/482. 40 La lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, oggi presso l’Archivio del Novecento, Roma, è stata pubblicata nel catalogo della commemorazione Roma ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte, Roma, 2002. 41 Collezione privata Enrico Bernard, Roma. 42 Il ritratto a matita firmato da Guglielmo Peirce riporta la data del marzo 1930. Collezione privata di Enrico Bernard, Roma. 43 A Parigi il 25 maggio del 1929 intanto esce il primo numero della rivista «Bifur», che apparve con frequenza bimestrale fino al 31 dicembre del 1929 e poi ancora, in maniera più altalenante dal 30 aprile del 1930 al 10 giugno del 1931. Malgrado Breton la qualificasse “remarquable poubelle”, fu senz’altro una delle più belle e ricche riviste dell’epoca, aperta alle esperienze culturali internazionali. La tiratu- 30

E parlando dell’influenza più o meno diretta che l’udaismo eser- citò, indipendentemente dalla sua fortuna letteraria, va pur detto che in questo contesto, fra Parigi e New York, nacque la sceneggiatura di Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, film la cui genesi ideolo- gica e artistica risale al 1933-34. Naturalmente non si può stabilire una relazione diretta tra la critica della “macchina industriale”, di cui Bernari-Ricci-Peirce nel 1929 evidenziano, contro l’esaltazione del futurismo, la mostruosità estetica ed esistenziale, e la tragica farsa dell’omino chapliniano incastrato dalla e nella catena di montaggio. Certo è che, se l’aria del tempo si respira nel capolavoro di Chaplin, ad accendere il fuoco sotto la pentola a pressione della critica del “progresso” sono stati, last but not least, proprio i tre giovani distrut- tivisti-attivisti napoletani! Si può, dunque, affermare che la genesi dell’opera letteraria di Bernari – “l’incunabolo neorealista”44, come viene definita dalla criti-

ra della rivista fu per i primi 4 numeri di 3000 copie, per i numeri 5-6-7 di 2000, e per l’ultimo numero di 1.700 copie. La rivista era pubblicata dalla Edition du Carrefour con sede a Parigi in Boulevard Saint-Germain, 169; direttore della rivi- sta era Pierre G. Lévy, redattore capo George Ribemont-Dessaignes e a partire dal secondo numero Nino Frank è segretario di redazione. Frank era anch’egli un napoletano, di padre svizzero tedesco, rimasto fortemente attratto da Parigi come del resto Bernari e gli altri giovani del tempo che volevano allargare i propri orizzonti letterari e sfuggire alle miopie politiche, sociali e culturali del fascismo. Nino Frank, in particolare trasferirà il suo incarico di segretario di redazione direttamente da «’900» a «Bifur» dove il suo ruolo sarà ufficializzato a partire dal secondo numero, mentre già a partire dalla prima uscita e fino all’ultimo numero il consiglio di redazione interamente straniero sarà formato da: Bruno Barilli, Gottfried Benn, Ramon Gomez de la Serna, James Joyce, Boris Pilniak e William C. Williams. Grazie a un comitato così composto la rivista renderà facili i suoi contatti con l’Italia, la Spagna, la Germania, la Russia, l’America, l’Inghilterra, con reportages, lettere e racconti che permetteranno di offrire al lettore un visione ampia del mondo. Con la redazione di «Bifur» Bernari viene a contatto quasi subito recandosi in Boulevard Saint-Germain, nella redazione della rivista fran- cese, e, analizzando la rivista, i contributi dei suoi redattori risultano evidenti le influenze tematiche e stilistiche che esse operarono nella formazione di Bernari. Nino Frank diventerà l’amico parigino dei giovani scrittori italiani, intermediario culturale di rilievo tra Roma e Parigi, traduttore importante e diffusore, attraverso le sue influenze e conoscenze negli ambienti letterari, delle opere italiane di cui cercherà di ottenere la pubblicazione. 44 Il termine “incunabolo neorealista” viene riferito in particolare al romanzo Tre operai di Bernari. La paternità del termine è piuttosto incerta e comunque dimo- stra la difficoltà della critica del dopoguerra nel catalogare un’opera poliedrica e ricca di richiami come quella di Bernari. Con questo termine si è anche cercato di 31 ca letteraria l’evoluzione tra il 1928 e il 1934 del romanzo capostipite del genere, Tre operai – riceve l’humus ideale, non tanto dalla let- teratura dell’epoca, quanto piuttosto dalle arti figurative. Ciò avvie- ne perché Bernari trova sponda intellettuale nei due amici pittori, e soprattutto negli ambienti del circumvisionismo napoletano di cui Paolo Ricci, il più anziano (anche se di poco, ma sul filo dei vent’anni anche i mesi contano) e ideologicamente determinato del gruppo, è diventato uno degli esponenti di spicco, mentre Peirce ne rappresen- ta l’anima ispiratrice in sede teorica45. Il passaggio tra il manifesto circumvisionista del 1928 al manifesto dell’UDA del 1929, meglio l’osmosi dal circumvisionismo, ancora ipotecato dal futurismo e da Marinetti, all’udaismo, è una diretta conseguenza della ragion d’esse- re rivoluzionaria e marxista di questi giovani, che prendono le distan- ze dall’estetica futurista del regime fascista. E lanciano una non- estetica, una nuova ricerca di espressione della realtà, che si fonda sulle angosce più profonde dell’individuo di fronte ai mostri del ’900, capitalismo e fascismo, alleati nell'idolatria della “macchina” e del progresso. Progresso antiumanistico, se privato del “sentimento”, per privilegiarne l’aspetto totalitaristico-tecnologico, secondo la critica udaista che non ricade nell’errore romantico del rifiutotout-cour della modernità, ma la “relativizza” al bisogno e all’aspetto “emotivo” del rapporto Uomo-Natura. Attraverso gli amici e coetanei della nuova avanguardia circum- visionista della Mostra a Capri del 1928, che coglie molti aspetti del

collegare il cinema neorealista del 1943-1948 con la precedente esperienza lette- raria degli Anni Trenta, dimenticando una semplice realtà, che Bernari e Zavat- tini, protagonisti della letteratura italiana di quel periodo, sono stati, anche se in diversi modi e misure, protagonisti del cinema neorealista. Il che stabilisce una correlazione diretta tra la prima esperienza letteraria neorealista e il successivo cinema neorealista. 45 Carlo Bernari, Carlo Cocchia, Antonio De Ambrosio, Gildo De Rosa, Mario Lepore, Guglielmo Peirce, Luigi Pepe Diaz, Paolo Ricci: questi i nomi die giova- ni artisti napoletani che tra il 1928 e il 1931, partendo da un rapporto non subal- terno col movimento e l’estetica futurista, tentarono di interpretare criticamente la tradizione delle avanguardie e di collegarsi con le ricerche più innovative in corso in Europa. La prima mostra die pittori circumvisionisti all’hotel Quisisana di Capri, fu inaugurata da Marinetti il 19 agosto 1928 alle ore 18. Il Manifesto dei pittori Circumvisionisti fu pubblicato in «Forche Caudine», n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5, a firma Cocchia, Deambrosio, Peirce. Cfr. Matteo D’Ambro- sio, I Circumvisionisti, Napoli, Edizioni Cuen, 1996, pp. 338-341. 32 futurismo ed in particolare della pittura di Sironi46, e con la imme- diatamente successiva, breve ma intensa, stagione udaista del 1929- 1930, si delinea il percorso della formazione intorno ai vent’anni di Carlo Bernari. Una formazione in primo luogo antiaccademica, ed in seconda battuta pittorico-visiva, piuttosto che letteraria. E come poteva essere altrimenti, se i compagni di viaggio (Ricci-Peirce) del giovane Bernari erano artisti, pittori, anziché letterati? Riprendendo una risposta a Carlo Bo47, Bernari richiama alcune tappe della genesi di Tre operai, romanzo che la critica ha definito, ricordiamo ancora una volta, “l’incunabolo neorealista”:

Vi è da aggiungere che mi si faceva torto nel rinfacciarmi solo parentele letterarie, e non anche politiche, sociologi- che, filosofiche: di questa specie erano allora le mie letture più frequenti ed estese. Senza contare che pur nel mio isola- mento, una scuola l’avevo anch’io dietro le spalle: una scuola antiaccademica, è vero, ma con tutti gli ordini di studi, dal più elementare avanguardismo di tipo surrealista e dadaista, alle medie e superiori che battezzammo Circumvisionismo e Costruttivismo, sino all’ultima soglia universitaria che fu per noi l’Udaismo (da UDA – Unione Distruttivisti Attivisti, il cui manifesto, firmato da Paolo Ricci e da Guglielmo Peirce, oltre che da me, apparve nel 1929).

Si può dunque facilmente intuire che le radici del neorealismo affon- dano in un terreno ben più vasto del semplice back ground letterario:

46 Il primo accostamento della pittura di Sironi a Tre operai è di Guido Piovene su «Pan», aprile 1934. Bernari commenta nella Nota ’65: «[…] allora mi suonò come un affronto. Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo e le tavole con cui egli veniva illustrando, sulla rivista diretta da Mussolini, articoli e racconti. Era naturale che travolgessi in un giudizio senza appello anche la sua migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figu- rativa; lezione che integrava l’altra, proveniente dal cinema realista europeo o americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver subìto. I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo […] Era il clima, la cultura del tem- po, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo, con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella pittura c’inspirava». Carlo Bernari, Nota ’65, postfazione a Tre Operai, Milano, Mondadori, 1965, pp. 244-255. 47 Carlo Bo, Inchiesta sul neorealismo, Torino, Edizioni Eri, 1951. 33 così l’idea di un travaso di linfa immediato (e un po’ scontato) dalla letteratura verista o dal realismo, coglie solo in minima misura il ber- saglio. Bernari, infatti, allarga il campo in cui vanno ricercate queste radici, a tutta una serie di “letture” che lui stesso definisce “politiche, sociologiche, filosofiche”. Ma la questione va ben oltre questi confini “libreschi”: perché le origini stesse dell’incunabolo neorealista, da cui nacque Tre operai, fu una culla in cui le arti visive, e qui stiamo analizzando in particolare la funzione che ebbe l’arte figurativa, la pittura, assolsero un ruolo determinante. Al punto che possiamo affer- mare che la formazione giovanile del “capostipite” della letteratura neorealista, Carlo Bernari, venne pressoché ipotecata da una ricerca artistica e teorica in cui la letteratura stessa non aveva un ruolo prima- rio, ma venne a costituirsi in seconda battuta, cioè dopo le prime espe- rienze del 1928-29 dedicate all’arte. In questo senso il neorealismo, come nuova visione e interpretazione del reale, non prenderebbe le mosse all’interno della letteratura, ma scaturirebbe direttamente dalle arti visive e, in questo caso, figurative. Non è, quindi, tanto o solo di Verga che bisogna parlare come referente culturale della nuova generazione di scrittori attivi verso la fine del primo ventennio del ’900, bensì dell’opera pittorica, questa sì fondamentale, di Sironi che, con le sue ciminiere, fabbriche, camion e paesaggi industriali cupi e privi di speranza, apre le porte a nuo- ve visioni della condizione umana. E il punto di congiunzione tra il neorealismo “letterario” del Bernari di Tre operai e questo retroterra pittorico-visivo sironiano, è rappresentato dagli artisti circumvisionisti della mostra caprese del 1928, primo su tutti Crisconio, quale ideale erede di Sironi. Tant’è vero che proprio nei primi quadri, – mi riferisco in particolare all’olio su tavola Centrale termica dell’Ilva del 1926, – di Paolo Ricci, che di Sironi e Crisconio fu fin da giovanissimo amico ed estimatore, e nei dipinti del 1934 Cantata operaia di un altro artista circumvisionista, Antonio De Ambrosio, si può toccare con mano la vera anima del neorealismo – che si manifesta letterariamente con la pubblicazione della stesura definitiva diTre operai del 1934. Che la genesi del romanzo segua le date e le tappe, fin dal 1928, del battesimo artistico del circumvisionismo e, nel 1929, dell’udai- smo, non è assolutamente una coincidenza, poiché queste esperienze rappresentano momenti essenziali, e interconnessi, della formazione di Carlo Bernari scrittore, pittore, fotografo, sceneggiatore, critico d’arte e giornalista. 34

Allorquando, alla fine del 1929, Zavattini comincia la sua avven- tura milanese presso il gruppo editoriale Rizzoli, dapprima in veste di semplice correttore di bozze, poi come art director ed infine come Direttore Editoriale, è – come dicevo – bene a conoscenza dell'atti- vità teorica-artistica del terzetto di giovani napoletani. Attività che Za, ripeto, ben conosceva, visto che il Manifesto UDA del 1929 vie- ne recensito da Ungaretti, trova spazio sulla stampa di oltreoceano e suscita l’interesse dei surrealisti a Parigi, – e di Breton in particolare che risponde ad alcuni quesiti del giovane Bernari con una lunga let- tera. Del resto, Zavattini è attentissimo alle novità: dall’epistolario con Bernari-Peirce, a partire dal 1932, si ha infatti la certezza che Za conosca bene il gruppetto di giovani artisti, e che stia tenendo d’oc- chio Bernari,in particolare, che proprio intorno al 1929 pubblica alcu- ne pagine del suo capolavoro neorealista su alcune riviste letterarie del tempo. Vedremo infatti come l’interesse di Za si focalizzi sempre più proprio su Bernari: nelle prime lettere, indirizzate a Bernard-Peir- ce, Paolo Ricci non viene nominato. Poi anche il nome di Peirce andrà via via sparendo. In una lettera del 1932 indirizzata solo a Bernard48 (che da subito è il referente privilegiato anche nell’intestazione delle lettere), Za taglia corto circa alcune querelle letterarie, per stabilire un contatto artistico diretto e il più ampio possibile col giovane amico:

[…] La mia cartolina un rebus? Io mi accorsi che in altre cose si divergeva teoricamente. Poco male perché sia tu che io in teoria siamo impegnati, come quelli che hanno fatto la polemi- ca pro e contro la Ronda. Ma possiamo stropicciarcene. Pensa che non ricordo neanche quali erano i punti del dissenso, ci vuole altro: e la nostra amicizia si sta facendo su un terre- no umano e, diciamolo anche se è una ripetizione, artistico. Caso mai, io credevo di essere crociano sino ad un mese fa e non avevo mai letto Croce. Poi mi è sembrato di non esserlo, assolutamente. E oggi non mi ricordo più perché mi sembrò di non esserlo. L’importante è essere sicuro su due o tre cose fondamentali e in quelle siamo d’accordo.

In questa lettera Za comunica a Bernari, più o meno direttamente, un’apertura di credito personale che va ben oltre i meriti teorico-arti- stici del gruppo udaista del ’29.

48 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”. Inedita (Archivio Carlo Bernari, Centro di Ricerca “La Sapienza”, Archivio del ’900, Roma). 35

Non si può stabilire con esattezza la data e l’occasione del primo incontro tra Bernari e Zavattini, certamente tra il 1929 e il 1930. Da Milano a Napoli passando per Firenze e Roma, gli amici in comune e i motivi di incontri sono innumerevoli. Certo è che, ambientatosi definitivamente a Milano verso la metà del 1930, forte del successo di Parliamo tanto di me pubblicato Bompiani nel ’31 e ormai certo di una sicura sponda e sostegno professionale nel mondo editoriale (Bompiani, Rizzoli e Mondadori saranno i suoi principali sponsor), Zavattini non dimentica gli amici più giovani Ricci, Peirce e soprat- tutto Bernari. Intanto, è certo che sono Bernari e Peirce a rivolgersi a Zavattini ai primi del 1931 per ottenere una sostegno dall’amico che ormai, nel mondo editoriale milanese, comincia a muoversi con efficacia. È interessante notare che la proposta indirizzata a Za ha come oggetto i disegni di Peirce. In risposta ad una lettera di Bernari (che fa parte di un gruppo di lettere distrutte nel 1937 dallo stesso Zavattini, per paura di compromettersi, quando Pierce fu arrestato dai fascisti), Za risponde con una lettera manoscritta49:

Cari amici, sono qui ancora tutto intontito dall’influenza. Per quei disegni non c’è proprio modo di piazzarli. Il solo che poteva pubblicarli, Piazzi, mi ha detto di no – io mi ero offerto di farci su un articolo. Che cosa devo dirvi? Di tutto il gruppo solo il Secolo XX50 poteva aiutarvi – ma anche là hanno paura di andare troppo in là – Come vedete, sono inerme e non rie- sco a farvi guadagnare un soldo. Ripeto, provate ancora con una novella. Ahimé, Milano è così – Vi abbraccio, scrivetemi e non abbiate paura di disturbarmi chiedendomi questo e quel- lo per voi: per male che vada, continuerò a far cilecca come sino ad ora – Vostro affezionatissimo Zavattini.

Pur non avendo a disposizione i riscontri di tutte le lettere inviate da Bernari a Zavattini, alcune come dicevamo distrutte da Za nel 1937, si intuisce dalle risposte da Milano che alle insistenze di Bernari (e

49 Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a “Bernard-Peirce / Via 4 Fon- tane / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). Si tratta della prima lettera in ordine cronologico pervenutaci dell’epistolario Bernari-Za. 50 «Il Secolo XX», settimanale edito da Rizzoli, “Grande rassegna d’arte, di lettere, di politica, di scienze. Documenti rari ed esclusivi”. Zavattini vi collabora a par- tire dal 1929. 36

Peirce, che però non sembra scrivere mai in prima persona), Zavattini continua a farsi in quattro per aiutare gli amici, come nella missiva da Milano del 6 agosto 193251:

Carissimo Bernard… ti assicuro che mi ricorderò di Peirce per l’Almanacco. Quei suoi tre disegni sono ancora inutiliz- zati mio malgrado, bisogna aspettare. Che noia, caro Bernard, vorrei andare a villeggiare in un bicchier d’acqua…

Zavattini incontra grandi difficoltà a “piazzare” i disegni di Peirce (curioso il gioco di parole col suo referente, il direttore Piazzi). Il perché è presto detto: questi disegnini sono avulsi dal contesto edito- riale/commerciale dei rotocalchi e quotidiani in cui opera Za. Il quale però manda a Bernari un messaggio preciso con l’espressione “pro- vate ancora con una novella” suggerendo agli amici una soluzione editoriale precisa per una “terza pagina” illustrata. L’idea sembra funzionare tanto che da Milano giunge una conferma:

Caro Bernard 52 […] È uscita la novella, finalmente. Ricevere- te il modesto compenso (L. 100) in settimana. Vedrete com’è ridotta, povera novella, con l’aggiunta e con i tali! Fatene un’al- tra.

I tentativi di Za di pubblicare i disegni di Peirce ottengono scarsi risultati, ma non per questo demorde. Da Milano parte una lettera53 in data 26 ottobre 1932: la missiva contiene una proposta grafica di come impaginare testo e disegno, idea che rivela l’attenzione di Za al ruolo dell’immagine e dell’illustrazione del testo.

Caro B. Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umo- ristico, comico) e tu potresti scrivere le cinque righe di com-

51 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, pubblicata in Carlo Bernari, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, cit., p. X (Archivio Carlo Bernari). 52 Lettera manoscritta [1932], inedita, autografa (Archivio Carlo Bernari). 53 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Il Secolo Illustrato, Secolo XX, Commedia, Novella, La Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione, Ragno d’Oro, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 37

mento, potrebbe essere immaginato così: (segue esempio grafico di impaginazione disegno, a sinistra, testo a destra, N.d.R.) questa impaginazione non è obbligatoria faccio per chiarire la mia proposta. Potrebbe essere una trovata, una forma di collaborazione. Me lo mandate subito? L’almanacco sta per andare in macchina. Ci conto? Voglio che in qualche modo i vostri due nomi ci sia- no. Lasciate passare questa bufera. È una vera bufera e spero fortemente che potrò fare qualche cosa per voi. Vi giuro che ora non basta la buona volontà. Vi scriverò presto. Un abbraccio vostro Za.

Dalla corrispondenza immediatamente successiva si evince che Ber- nari e Peirce non si stanno proponendo come, rispettivamente, auto- re di testi e illustratore: sembrerebbe infatti che entrambi scrivano e disegnino – una passione quella del disegno che Bernari, come dirò, coltiverà per tutta la vita. Da Milano in data 2 novembre 1932, Za insiste:

Carissimi 54 grazie, ma quello dell’Italia vivente è uno stelloncino pubbli- citario. Aspetto tre righe sul genere di quelle di ottobre. Come mai? Die vostri due pubblicherò quello coi soldi. Va bene? Per la novella aspettate ancora due giorni. Io l’ho già letta, ora la leggeranno gli altri. Ma so già il responso. Quasi… Sì, accidenti a tutto il mondo. Ma sbagliate giudicando come ave- te fatto. Chi non lo sa che le novelle di Novella sono quel che sono? Quando si dice: le vostre non sono adatte per l’amor di Dio, non si tocca il merito, anzi. Quest’ultima, per esempio, valeva un po’ più piena. Che cosa devo farvi? Io vi do le istru- zioni secondo il modello che qui hanno in testa e da quello non si muovono. Se dipendesse da me, mandatemene pure, io farò l’impossibile ma non ricadete nell’errore di credere, ecc. ecc. Dirò a Bompiani se può pagarvi quel disegno. Ma B. non mollerà, lo so, perché ciascuno collabora gratuitamente, salvo le rubriche. Insomma io sono addolorato di non potervi far

54 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 38

guadagnare soldi, ma che cosa posso farci? Ditelo francamen- te. Io sono sempre a vostra disposizione. Vi abbraccio vostro Za.

La tesi secondo cui Bernari e Peirce si stiano rapportando a Za, entrambi in qualità di artisti a tutto tondo, cioè entrambi come autori di testi e disegni, risulta evidente da un’altra breve comunicazione di Za datata Milano 27 dicembre 193255:

Carissimi, grazie degli auguri, li trovo qui tornando a casa. Anche a voi. Avete visto l’almanacco? È come è (o meglio come può esse- re). I disegni vostri ci sono, entrambi. Scrivetemi e io vi scri- verò più a lungo. Ora sono in mezzo, e peggio, guai finanziari. Vi abbraccio Za.

E ancora da Milano il 27 gennaio 193356 Za scrive:

Cari amici, aspetto, se fossi in voi tenterei ancora una volta, l’ultima, una novella per Novella, (vedeste che vi rubai un terzo di spunto in un mio raccontino? Ma così poco che potreste non esservene accorti, sul Fuorisacco57). Aspetto dunque i disegnini e farò l’impossibile per il secolo XX. Il solo che, lo capite da voi, possa ospitare il genere […].

L’abbinamento testo/disegno su cui Za insiste per una semplice ragio- ne editoriale, dal momento che i rotocalchi cui egli fa riferimento necessitano di quello che suol chiamarsi “alleggerimento in pagina” della parte narrativa, spinge Bernari, che proprio tra il 1932 e il 1933 sta dedicando ogni sforzo alla riscrittura di Tre operai, ad “alleggeri- re” la parte “letteraria” del capolavoro del neorealismo. Nascono così le didascalie dei capitoli del romanzo, che sono dei veri e propri sche-

55 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 56 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 57 Fuorisacco è una rubrica che Za teneva sul «Secolo XX». 39 mi da storybord58 cinematografico, didascalie che non sono presenti nella precedente stesura (Gli stracci). Non è difficile immaginare la possibilità di una versione illustrata del romanzo di Bernari utilizzando semplicemente queste didascalie che preannunciano il contenuto dei capitoli!

I - Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro. II - Teodoro s’è fatto licenziare per scarso rendimento. Ma ora si accontenterebbe di un qualunque lavoro. III - Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si può essere che operai. IV - Teodoro non ne può più: ha bisogno di Maria; ma anche un po’ di Anna. V - Teodoro deve prendere una decisione. VI - Teodoro non sa far nulla di buono: e tantomeno apprez- zare la povera Anna. VII - Teodoro ha deciso, parte con Marco De Martino che gli pare un uomo coraggioso e intelligente. VIII - Anna è libera: se ne va a Roma, e conosce i ladri dei poveri. IX - Teodoro fa colpo sulla prima donna che incontra; ma for- se il lavoro non è fatto per lui. X - Di uno che cerca un pacifico lavoro la vita può farne anche un rivoluzionario. XI - Praticamente Teodoro impara che la mentalità e le idee sono il frutto di determinate condizioni d’ambiente. X - Anna trova un uomo che le vuole bene ed un impiego. XIII - Teodoro ha studiato, s’è messo al corrente, ma i rifor- misti sono più forti di lui e gli fanno commettere una grande sciocchezza. XIV - Pippetto muore a Napoli. XV - Teodoro fa carriera nell’industria delle conserve alimen- tari. XVI - Marco trova un impiego: ed Anna muore. XVII - Agosto-settembre 1921: occupazione delle fabbriche. XVIII - Sbandamento.

Naturalmente c’è dietro la tecnica che risale al romanzo cinquecente- sco, in particolare Rabelais, nonché il fouilletton romanzesco che Za

58 Nello storybord la sceneggiatura viene esemplificata con disegni e didascalie del- le varie scene. 40

è impegnato a seguire e ad ottemperare nelle sue proposte, come si diceva, per evidenti ragioni editoriali. La polemica su «Novella», anzi sulle “novelle per «Novella»” è il tallone d’Achille di Za che deve far capire agli amici la situazione e, soprattutto, che non è in discussione il loro valore letterario. Anzi, aggiunge Za, è vero magari il contrario, che per scrivere novelle per questi giornali non c’è bisogno di alcun valore. Sta di fatto che, però, questa insistenza da parte del più anziano e navigato amico accasatosi nella grande editoria milanese, convince Bernari a rivedere molte cose della sua attività creativa. In primis ad utilizzare la scrittura come se fosse un disegno, una illustrazio- ne, come cogliendo l’implicito suggerimento: disegna prima con la mente quello che stai per scrivere. Ma è comunque vero che Bernari giungerà a questa forma nuova di rappresentazione ed interpretazio- ne dell’oggettività, il neorealismo, attraverso il complesso delle arti visive che intersecano la sua intera produzione letteraria. E la pittura in particolare, come si è detto, rappresenta, sia da un punto di vista teorico che sotto l’aspetto pratico, quel bacillo giovanile originario da cui scaturirà l’evoluzione rapida e drastica della sua scrittura.

In conclusione: il Manifesto Uda rappresenta il tassello del passaggio dalle arti visive, pittura e cinema59, degli anni ’20 e ’30, alla letteratu- ra con un corto circuito parola-immagine, logos-eikon, – da cui sca- turisce la scintilla di una nuova letteratura, appunto il “neorealismo” che deve essere allora così ridefinito. Naturalmente, le questioni rela- tive ai rapporti letteratura-cinema neorealista sono note e dibattute ampiamente dagli stessi protagonisti ed autori del tempo. La discus- sione che, alla fine degli anni ’50, assunse anche toni polemici circa la “morte” del neorealismo è conosciuta. Resta però – ripeto – ignorato l’antefatto che ha permesso la nascita di una cultura neorealista, ante- fatto che affonda le sue radici nelle arti visive e che ha nel Manifesto UDA del 1928-1929 un momento teorico essenziale.

59 L’influenza del cinema sulla letteratura del tempo è scontata, basti pensare al romanzo di Luigi Pirandello Si gira! del 1915 riscritto e ripubblicato dall’agri- gentino del 1925 col titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma val la pena ricordare che mentre in Pirandello si tratta di far letteratura partendo dal cinema, per gli scrittori della generazione successiva, Bernari, Moravia, Alvaro ed altri, si tratta del processo inverso, cioè di scrivere “come” per il cinema. Trasformando altresì il “romanzo” tradizionale, anche da un punto di vista di tecnica narrativa, in un “trattamento” vero e proprio dove la parola deve per forza trasformarsi in immagine in movimento. 41

È in questo contesto infatti in cui i cosiddetti protoromanzi neo- realisti di Moravia, Alvaro, Bernari, Pavese, Silone ed altri vengono alla luce come un nuovo modo di fare letteratura sfruttando, non solo e non tanto, le armi e le tecniche della “vecchia” letteratura, quan- to piuttosto la forza espressiva delle immagini derivate dal rappor- to logos-eikon dalle arti visive. E non è certo un caso che Bernari e Zavattini, come Moravia ed Alvaro, si dedicarono al cinema e al tea- tro, alla pittura e alla fotografia con la stessa passione e forza che alla narrativa. Realizzando così quella sintesi delle arti che Carlo Bernari rivendicò nel 1953 con un intervento dal titolo emblematico: Cinema, tra arte figurativa e letteratura60. In questo intervento Bernari parla della crisi della pittura neorea- lista che cede il passo al scomposizione del reale e all’astrattismo (di cui Bernari non dimentica affatto, si badi bene, i meriti e i risultati artistici):

[…] affiora sempre un risolino di scherno sulle labbra dell’in- tellettuale raffinato […] quando si parla di tentativi di recu- pero dei contatti con la realtà, rimasta troppo fuori e troppo distante dalla sfera delle arti figurative, per quel processo di decantazione dei contenuti cominciato circa un secolo fa e non ancora esaurito. Ma quale è la strada che riconduce le arti figurative nell’ambito di quel generale processo di rinnova- mento della nostra cultura che grazie alla letteratura e al cine- ma sembra muoversi in direzione di un realismo critico? Mi limito qui a fare solo tre esempi su tali prese di contatto con la realtà […]; la serie degli Orrori della oppressione nazista di Renato Guttuso, la serie degli Orrori della guerra di Corrado Cagli, eseguite ambedue durante la guerra, fra il ’44 e il ’45; e la serie di paesaggi e le figure lucane dipinta da durante il suo soggiorno coatto in Lucania. Si dice anche che la riuscita di un realismo pittorico sia problema unicamente di linguaggio: poiché mancando oggi i mezzi espressivi adatti si afferma che mancherebbe anche la possibilità non soltanto di affermarsi, ma anche di estrinsecarsi. Qualcosa del gene- re sosteneva Domenco Cantatore quando scriveva («Cinema nuovo», n. 9, aprile ’53) che: «a questa pittura (quella neore- alistica) manca una macchina da presa efficiente o perlomeno

60 Carlo Bernari, Cinema, tra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del Cinema italiano», agosto 1953, pp. 7-29. 42

adeguata ai suoi propositi» […] Ma il problema del neoreali- smo non si limita al linguaggio: i mezzi espressivi mancano quando manca una convinzione della necessità di ciò che si vuole esprimere. I mezzi espressivi, allorché occorrono, allor- ché una verità non deformata da intenzioni propagandistiche e commerciali s’impone alla nostra coscienza, sono sempre pronti alla nostra coscienza. È proprio in questa direzione che bisogna accettare l’esempio del cinema61.

Si tratta allora di cogliere l’essenza del nuovo modo di de-scrivere la realtà: una narrazione per immagini che diventa critica della realtà attraverso lo strumento della parola. Nel saggio del 1953 su cinema arte e letteratura, Bernari si richiama al filone neorealista della pit- tura, – che a suo giudizio rischia di esaurirsi per l’esplosione delle tendenze astrattiste, – un filone che da Sironi e Crisconio, attraverso Paolo Ricci e i Circumvisionisti, giunge a Carlo Levi, Renato Guttu- so, Domenico Cantatore, Alberto Sughi, Villoresi, Ernesto Treccani, Emilio Greco e Domenico Purificato62. Presentando nel 1980 l’opera pittorica di Domenico Cantatore, ad esempio, Bernari insiste sulla dialettica logos-eikon, immagine e parola:

Il confine che separa i colori della tavolozza del pittore, dalle parole dello scrittore è una linea sottilissima, talora invisibile. Spesso, fra l’una e l’altra attività, pittorica o letteraria, si deter- mina uno scambio in cui è difficile stabilire quale delle due espressioni ha prevalso […] Vi sono comunque casi singolari in cui lo scrittore che si dedica alla pittura, anche trasferendo in questa attività collaterale o suppletiva gran parte del suo mondo interiore, raggiunge talvolta traguardi di sorprendente autonomia […] Ma accade anche l’inverso, quando è il pittore ad invadere il campo vicino delle lettere. Il pittore allora tra-

61 Ivi, p. 27. 62 Bernari fu buon profeta fin dal 1950 della crisi dell’astrattismo, un tema ricor- rente nei suoi interventi critici e nei cataloghi delle mostre con la sua prefazione. Basti pensare alla recensione apparsa sul «Corriere della Sera» dell’autobiografia del critico Renato Barilli, notoriamente considerato il cuore e la mente della Neo- avanguardia (Autoritratto a stampa, Fausto Lupetti editore, 2010). Recensendo il libro autobiografico di Barilli scrive Pierluigi Panza: «Pure la Neoavanguardia, dopo la stagione rovente, anche sul piano sociale, degli anni Settanta perde forza, nonostante alcuni tentativi di rilancio negli anni Novanta […] c’è chi come Eco diventa scrittore borghese postmoderno e chi si rifugia negli studi storici, come Barilli, che prende a rivolgersi persino a Giovanni Pascoli […]». 43

sferisce nella scrittura, insieme ad una quantità di sensazioni visive, gran parte di quell’humus che dà vita al suo mondo pittorico; ma in modo aneddotico, oserei dire: narrativo; ecco, come se il pittore attingesse ad un altro cielo di verità.

Ecco dunque che il neorealismo si delinea come questa forma, questa capacità, questa potenza, sinergica tra le arti, di rappresentare la realtà attingendo, per dirla con le parole di Bernari, “ad altri cieli di verità”. Va da sé che allora il rapporto col cinema63, l’immagine in movimento che è una sintesi di arte figurativa64 e narrativa, come se le immagini venissero messe appunto in moto dalla narrazione, costituisce il fulcro, l’essenza del neorealismo. Un modo di rappresentare il reale che va ben oltre il documentarismo e mette in allerta l’astrattismo con quel monito con cui Zavattini conclude il suo discorso sul neorealismo:

Non crediate che tutto questo laboratorio (neorealista, N.d.R.) non serva anche alle altre forme di cinema, anche a quelli non neorealisti, in quanto sono svegliati di notte come i frati per sentirsi dire: avvicinati alla realtà65.

63 Cfr. Domenico Purificato,Domenico Purificato e il cinema. Tra teoria e pratica, Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis, a cura di Marco Grossi e Virgi- nio Palazzolo, pubblicato in occasione dell’omonimo incontro tenutosi a Fondi presso il Palazzo Caetani il 23 maggio 2010. Molti scritti teorici sul rapporto pittura cinema del pittore Domenico Purificato sembrano in qualche modo ispi- rati alle argomentazioni di Bernari. Del resto, tra lo scrittore Bernari e il pittore Purificato i rapporti sono stati intensissimi a partire dai primi anni ’60. Entrambi avevano lo studio estivo in una villetta liberty a Gaeta, in contrada Catena al numero 1 e frequenti erano gli scambi e le visite tra i due artisti. 64 Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, cit. p. 184. 65 Non c’è bisogno di ricordare, se non a piè di pagina, che Zavattini stesso fu pittore notevole di ispirazione surrealista e che il suo cinema “neorealista” ed ideologica- mente impegnato ha un’impronta surrealista inconfondibile. Questo comporta che il neorealismo sfugge ad ogni definizione e delimitazione in un ambito preciso, rappresenta un approccio soggettivo (del singolo artista) e critico alla realtà. Ha quindi ragione Antonio Vitti quando propone di usare il plurale “i neorealismi” al posto del singolare (Cfr. A. C. Vitti, Ripensare il neorealismo, Pesaro, Metauro, 2007). È del resto quanto sostiene Zavattini nel suo intervento su citato del 1953, quando sostiene: «Partiamo tutti insieme, per esempio accordandoci sulle esigenze fondamentali del neorealismo, mettiamo “Vita di un paesucolo”. Partiamo in venti, tutti insieme, ripeto, ma dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che può […] la partenza è comune e non si pongono limiti al neorealista, se non quelli che non deve appartarsi di fronte alla realtà; e deve trarre da essa e solo dall’esperienza di essa tutte le suggestioni che solo l’approfondimen- 44

Questo “avvicinamento alla realtà”, inteso da Za come una pre- disposizione, sul piano della forma, dell’artista all’impegno, è il leit- motiv della discussione a cavallo degli anni ’50. Abbiamo visto come Vittorini, nel passaggio storico del 1947, in seguito alla crisi della rivista «Il Politecnico», rivendica all’artista un ruolo indipendente, se non disimpegnato, nei confronti del contenuto – e dell’ideologia del partito. Questa “nuova” posizione di Vittorini, che dagli stretti legami con Togliatti passa ad una critica del cosiddetto realismo socialista, è però già all’ordine del giorno, perché ricalca sostanzialmente le tesi del 1929 del Manifesto udaista di Bernari & Co. Tesi che tornano di attualità venti anni dopo con Vittorini stesso, che pure originariamen- te le osteggiò, Zavattini e con Fellini che, nell’intervento del 1955 in difesa de La strada, scrive:

Se sono partito – per questa ricerca di come l’essenza del desi- derio e della possibilità sociale nasca in un rapporto – da una situazione così apparentemente inadatta, e astratta, e imme- diata, e squallidamente quotidiana, è perché credo che oggi il capovolgimento da un individualismo ad un giusto socialismo, per essere persuasivo, dev’essere tentato e analizzato come bisogno del cuore, come impulso dell’attimo, come linea in azione dentro il più dimesso corso della nostra esistenza66.

Va da sé che il “bisogno del cuore”, di cui parla Fellini, parte dal con- cetto rivoluzionario post-romantico e anti-idealistico, feuerbachiano, di sensibilità: che nel manifesto udaista del 1929 viene concepito come una forma di simpatia (e relativa empatia) tra il soggetto e l’og- getto della rappresentazione. È da questo grumo sanguigno, da questo snodo del 1929, che si dipartono dunque i nervi di quello che nel dopoguerra sarà definito “neorealismo”.

to di quest’esperienza può infinitamente dargli». Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, cit. p. 184. 66 Federico Fellini, Neorealismo, cit. p. 199. 45 Lorenzo Borgotallo

De Sica’s The Children Are Watching Us: A Subversive Orphanization

The traditional, bourgeois, concept of the family has been acute- ly defined by Italian mythologist Furio Jesi, in Germania segreta (1967), as a closed, fortified microcosm, whose safeness and “sereni- ty” is only apparent, insofar as the major threats to its falsely inexpug- nable walls are often coming not from the outside, but from within. Analogously, cultural studies scholar Paul Gilroy, in his seminal work Between Camps (2000), has amply demonstrated that camp-thinking inevitably affects even the supposed beneficiaries of the enclosed “camp” by forcing them to exclude, amputate, or subdue, whatever is deemed external and/or detrimental to the unity of the camp itself1. But the “excluded” will often come back to haunt the camp, like a Derridian ghost. According to Jesi, in fact, the fortified, bourgeois, microcosm of the family is destined to crumble and fall precisely because: «L’istituto matrimoniale borghese non regge all’affiorare di forze oscure nelle quali dovrebbe invece risiedere il fondamento sal- do, profondo e misterioso dell’unione sessuale» (Germania, p. 125). By putting into question precisely the internal and external mecha- nisms, both social and psychological, that dominate a typical petit- bourgeois family, De Sica was able to successfully portray in his 1943 movie, The Children Are Watching Us, a much larger situation of ethical breakup. Based on Pricò, a rather conventional and lar- moyant novel published by Cesare Giulio Viola in 1922, and written with the fundamental contribution of scriptwriter Cesare Zavattini,

1 According to Gilroy, camp-thinking can be defined by «the veneration of homoge- neity, purity, and unanimity that it fosters. Inside the nation’s fortifications, culture is required to assume an artificial texture and an impossibly even consistency. Cul- ture as process is arrested. Petrified and sterile, it is impoverished by the nation- al obligation not to change but to recycle the past continually in an essentially unmodified mythic form. Tradition is reduced to simple repetition» (p. 84). 46 the film actually opens up to capture and portray an entire zeitgeist, while focusing on the powerful emotions and reactions of its five-year old protagonist: Pricò. The little boy acts in the film as the desolate, but uncompromising, witness to the crumbling of his own world in a claustrophobic, petit-bourgeois context, characterized by false pre- tenses, subterfuges and lies, to which he can only oppose, in the end, his ethical and subversive refusal by consciously embracing, as we will see, the condition of the Orphan-child. The film begins with the mother’s hard-fought decision to aban- don her family and flee to Genoa with her secret lover, Roberto. The father, incapable on his part of dealing with the scandalous situation, leaves Pricò first with the aunt, and then with the grandmother, both of who will turn out to be completely self-centered and pitiless. The unexpected return of the mother, apparently repentant, is a sign of good hope: the father is willing to forgive her for the child’s (and the family’s) own sake and the three of them seem to find a rene- wed harmony, at least by the bourgeois standards of the time. But the summer vacations spent in a rich seaside town, amongst shallow and pretentious people, will be disastrous: tracked down by her lover, the mother ends up abandoning a second time her child and husband. Grief-stricken, the latter is now forced by the internal mechanisms of a typically dignified bourgeois society to send Pricò to a boarding school. Here, the child will soon be reached by the terrible news of his father’s suicide, but, this time, instead of seeking comfort in his mother’s arms, he will prefer to hug the old nanny, before turning his back once and for all on his mother and, more metaphorically, on the entire world she represents. The first merit of this subtly subversive film is its overt willingness to engage with disquieting themes and issues, such as petit-bourgeois adultery and suicide, or the unhappiness of children, which were deemed taboos by the Fascist censorship of the time. As Massimo Garritano pointed out, The Children Are Watching Us can be inter- preted above all as «una metafora del disfacimento del fascismo in quanto sistema di pensiero, attraverso due gesti che appaiono “rivo- luzionari” per quegli anni: l’adulterio e il suicidio» (p. 57). This is undoubtedly true: compared to the so-called telefoni bianchi movies of those years, evasively set in exotically distant kingdoms or unat- tainable past epochs, De Sica’s film appeared as an unexpected and subversive wakeup call for the audiences of 1943. Moreover, the film 47 is particularly successful in problematizing the bourgeois triangle by changing its focus from the usual suspects – the husband, the wife, and the love – to the figure of the child-protagonist, who becomes here the true bearer of the looming tragedy’s weight2. But, besides adultery and suicide, there is also a third truly revolu- tionary gesture that, to my knowledge, critics have not yet underlined. It is the ending itself, which can be interpreted here as a subversi- ve “orphanization” of the main character: a sorrowful five-year old who willfully turns his back once and for all on his family and on everything it represents. Pricò’s conscious acceptance of his orphan’s fate acquires the sense of an ethical choice, which transforms him into a powerful symbol of revolt against the encamped, fortified, and fal- sely serene microcosm of the agonizing Italian Bourgeoisie. Accor- ding to Jesi, in fact, the figure of the Orphan-child as such is a cultural leitmotiv, a powerful double-sided symbol of crisis and renewal:

Nelle grandi svolte della storia della cultura […], affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi cieca- mente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi (Letteratura, p. 13)

Now, if we start analyzing the movie in depth, we can notice that the opening sequence functions almost as a classical meta-narrative pro- logue, a sort of abridged mise an abyme of the entire film’s plot, inso- far as the puppet-show actually stages and anticipates the fatal love triangle that is about to be revealed in the movie: two men fight over the same woman until one of them dies. The subtle connection betwe- en this scene and the movie’s plot becomes even clearer in Pricò’s disquieting dream sequence, later on in the film, where the murderous

2 In this regard, Lino Micciché has effectively argued that The Children Are Watching Us: «è il film della coscienza borghese in crisi, che implica la denuncia della complicità morale col fascismo perché implica e vede criticamente la mora- le che la borghesia con il fascismo aveva difeso e per la quale gli aveva dato la propria complicità […] I bambini ci guardano è in questo senso il corrispettivo di Ossessione sia pure su una linea completamente diversa. Nel film di Visconti la critica alla società è fatta di sangue, di sensualità esasperata, di foia delittuosa intrisa di umori anarchici. In De Sica tutto è visto con apparente pacata delicatez- za, ma non per questo con minore convinzione e meno perusuasiva efficacia» (pp. 157-159). 48 male and female puppets appear to haunt the child’s conscience as they slowly turn into his mother and her lover, thus demonstrating how relevant that initial scene is: an image of violence that has deeply affected Pricò, if only unconsciously. But the puppet-show sequence functions as a meta-narrative prolo- gue also for a different reason, insofar as it allows De Sica to establish right away his ethical standpoint. During the scene of the killing, in fact, the camera suddenly cuts from the puppet-show to a little child in the audience who starts crying and tries to hug the mother. The woman, on her part, dismisses this reaction as a silly one and encourages the child to look on: «No! Guarda, guarda!». We may consider it, at first, an amusing little scene, but, at a closer look, it becomes evident that the child’s “innocent” gaze (as well as De Sica’s camera) reads and interprets the puppet-show for what it really is: a disquieting image of abuse, violence, and death, strengthened by the child’s inability to distinguish between reality and fiction. It is not simply a parodic rever- sal of the adulterous affair depicted in the film, it is actually the first act of child’s abuse portrayed in the movie. Moreover, De Sica’s ethical condemnation of the way the adult world relates to children continues, even more significantly, in the backstage of the puppet-theater, where we see the two puppeteers insulting and tugging ill-manneredly at a young girl, possibly their own daughter, because they deem her too slow in collecting the audience’s money: «Maria! Vai, stupida!». From a purely narrative point of view, both of the above men- tioned shots may actually appear irrational cuts, insofar as they add nothing to the main plot and have no apparent cause-effect link with the main puppet-theater sequence, but in fact they are fundamental in portraying and assessing right from the beginning the ethical stan- dpoint of the film. In other words, what De Sica is trying to establish here is precisely what Deleuze calls a time-image: a mental link – rather than an action-driven one – which makes new cerebral circuits possible, insofar as it forces the audience to find a different type of connection between the two shots3.

3 As stated by Deleuze in his two cinema books, the intrinsic limit of the move- ment-image (typical of pre WWII cinema, but still very common nowadays in Hollywood) is its “closed-ness”, the fact that it can give only an indirect image of time, insofar as it is governed by a strict sensory-motor schema, a link of cause- effect, that tends to close the image on itself and reinforce it as pure cliché. Nev- ertheless, if the sensory-motor schema jams or breaks, that is, if the single image 49

Overall, it is not by chance that the movie opens right away with a powerful, albeit indirect, critique on De Sica’s part of the ways in which the adult world relates to children. The title itself, The Children Are Watching Us, can in fact be read as a heartened appeal/warning to the sense of responsibility that each one of us must bear in his or her relationship with children, precisely because we, as adults, should always be held accountable for our behaviors and attitudes. One of the most striking and revealing aspects about the film is that (with the paradoxical exception of the painful and remorse-ridden adulte- ry of the main plot) all the love bonds depicted by De Sica seem to be driven either by some sort of light-hearted personal gain or by shallow eroticism, thus appearing almost as reprehensible because of their superficiality: from the aunt’s relationship with a much older and richer commendatore; to the vacuous chit-chatter of the four dressma- kers, commenting excitedly on the sexual revelry of one of them; to the not-too-innocent crush of Paolina for the local pharmacist; to the short but poignant scene of a random couple at the Alassio train sta- tion, in which the woman asks «Addio, caro. Pensami! Mi scriverai?» and the man on the platform doesn’t even bother to answer, but asks instead a casual question, while continuing to read his newspaper. Interestingly enough, the one thing that all of the above mentioned scenes have in common is the actual presence of Pricò, who functions (together with us) as the silent witness of the vacuous world depicted by De Sica. In the child’s presence, adults my often speak in half sentences – like the mother, the aunt, and the grandmother – or lower their tone of voice – like the dressmakers or Paolina – but their actions eventually betray their true intentions in the eyes of Pricò, as well as in our own. As stated by Deleuze in Negotiations, this type of “visio- nary cinema” has replaced the agent with the seer and the character has gained in an ability to see what he has lost in action or reaction (p. 51). In a way, what we are dealing with here, is a reinterpretation of the child’s “innocent gaze” trope, finally capable of shedding light from within and with honesty on the cracks that begin to appear in the fortified walls of the Italian Bourgeoisie, in total contrast with the models imposed up until then by the Fascist ideology. As Fellini once

is cut off from its motor development (through the use, for instance, of irrational or less probable links), a different type of image can emerge: a pure optical-sound image, a direct time-image, finally capable of breaking though the clichés, while making new cerebral circuits possible. 50 said: «Neorealism is a way of seeing reality without prejudice, […] not just social reality but all that there is within a man» (p. 152). Once again, the ethical attempt of the film is to actively put into question what Paul Gilroy calls camp-thinking – an all-encompassing, closed elaboration of the real – by fostering a new way of experiencing and experimenting with reality, that is, an actual neo-realism: a new way of looking at the world. In this perspective, we, as spectators, first learn about the mother’s love affair precisely through Pricò’s eyes and the change in his facial expression when he first “sees”, thanks to the innocence of his gaze, the threat that the man talking to his mother in the park represents. Analogously, Roberto’s face will express a mixed sense of surpri- se and guilt when, later on in the movie, he realizes that his love effusions on the beach are being silently witnessed by Pricò, as De Sica’s masterful use of the shot-reverse-shot technique readily reveals to us. But it is not only the child’s gaze to be subtly subversive. His words too tend to give an estranged image of the real, thus accompli- shing the Deleuzian ideal of «being foreign in one’s own language» (Negotiations, p. 41), while putting into question well-established and socially accepted interpretations of the real. At a closer analysis, we can identify several sites of subversion in which Pricò acts as a sort of bocca della verità “mouth of truth- fulness,” which inevitably forces the adults that surround him – or the audience, at least – to think and look at the world differently. In one of the initial scenes of the movie, for instance, we see the mother putting to bed the little boy. Before kissing him goodnight, she makes him recite a prayer, that is, she briskly requires him to repeat after her every single verse of it. This closed mechanism, conceivable here as a Deleuzian “sensory-motor schema” (Cinema 2, p. 20) transposed into the realm of language, seems to proceed smoothly right until the end of the prayer, when, all of a sudden, the linguistic machine jams. Pricò, in fact, breaks loose of the sensory-motor schema first by tran- sposing the actual words of the prayer into a purely rhythmical sound diversion: the Italian “che ti fu” turns into the playful and nonsensical expression “katafù”, repeated three times in crescendo. Then, most importantly, instead of simply repeating the conclusive expression “la pietà celeste”, the little boy adds a comment of his own: «la pietà celeste… e rosa», insofar as “celeste” in Italian is, first of all, a syno- nym for the color blue. In other words, from the child’s perspective, 51 there is no specific reason why heavenly mercy should be only blue. On the contrary, it might be both blue and pink. Of course, it is just an image, or just an idea – as opposed to a just idea, to paraphrase French director Jean-Luc Godard – but it is precisely this that makes it all the more powerful and revolutionary. As Deleuze puts it:

And… and… and… is precisely a creative stammering, a foreign use of language […] AND is neither one thing, nor the other, it’s always in between, between two things; it’s the bor- derline, there’s always a border, a line of flight or flow, only we don’t see it, because it’s the least perceptible of things. And yet it’s along this line of flight that things come to pass, becomings evolve, revolutions take place. […] Children are supplied with syntax like workers being given tools, in order to produce utterances conforming to accepted meanings. We should take him quite literally when Godard says children are political prisoners. (Negotiations, p. 38-41)

Now, going back to the opening of the movie, the first site of verbal subversion in Pricò’s attitude towards the adult world appears right at the end of the park sequence, when, after his significantly stubborn refusal to greet Signor Roberto, he looks up at his mother and asks her, as they are leaving: «Mamma, piangi?». Two simple but very powerful words, capable here of breaking through the wall of hypo- crisy erected by the typically dignified Bourgeois demeanor of the mother and that inevitably force her to lie: «No, e perché dovrei?». This same, potentially subversive, attitude of Pricò reappears again later in the movie, when, having just recovered from his nightmarish illness, he asks his mother for three times: «Perché non ti levi il cap- pello?», another simple but revealing question, which the woman is once again incapable of answering, since it would force her to disclo- se the real cause of her absence. A third, even more relevant, site of verbal subversion can be iden- tified in Pricò’s reaction to one of Paolina’s remarks, the girl suppo- sedly in charge of keeping him out of trouble during the time spent at his grandmother’s place. The two of them are walking down the street, but as they pass the pharmacy, the girl insistently turns around to exchange a series of explicit looks with the pharmacist, who is standing outside the shop. Pricò witnesses on his part the exchanges but is incapable of interpreting them and looks up at the girl for an 52 explanation. Having been caught red-handed, the girl reacts with ano- ther typically dignified and bourgeois demeanor, «Non ci si rivolta per la strada», to which Pricò readily answers: «E tu perché ti volti?». Once again, it is just a remark, as opposed to a just remark, but preci- sely because of its simplicity, it is all the more powerful in exposing the hypocrisy and double standard that the bourgeois microcosm is more then willing to embrace and apply whenever it feels threatened, either from the inside or from the outside. As it appears clear from all these examples, while children do watch and speak to us, we as adults are often unable to accept the implications of their innocent gaze and/or deal with their inconve- nient questions. Hence, Pricò’s narrative and ethical function in all of the above-mentioned scenes is precisely that of subverting the world that surrounds him by inadvertently denouncing its subterfuges and mechanisms of denial. Overall, the film offers an estranged image of the real by focusing precisely on what De Santi insightfully calls “angelismo eversivo” (p. 37) of children, a social and ethical attitude amply analyzed by Giorgio Agamben in his 1978 seminal work Infan- zia e storia. It is not by chance that several languages tend to refer to the world of the child only in the negative form: “infant,” he who does not speak; “innocent”, he who does not harm; “immature”, he who is not ripe, thus emphasizing what a child lacks, rather than what he or she has to offer. In other words, instead of acknowledging and cherishing the potentialities of renewal embedded in the children’s gaze, language and frame-of-mind, we prefer to dismiss their take on the world as nonsense, flawed from the outset because of their supposed inexpe- rience. It’s as if the “instability of the signifier” (p. 91), acutely identi- fied by Agamben with every child as such, is actually too disquieting and/or challenging for us to accept4. Nevertheless, it cannot be denied that children are the ones who can most readily realize the Deleuzian ideal of “being foreign in one’s own language” (Negotiations, p. 41). As Cesare Zavattini himself never ceased to repeat in his inter- views, letters, and writings:

4 According to Agamben, the “openness” of the child, conceived as an unstable signifier, makes him or her all the more threatening for the rest of the community. But, at the same time, «no society […] can do without its unstable signifiers and, although they represent an element of perturbation and menace, society has to keep watch in order for the signifying exchange not to be interrupted» (p. 91). 53

Noi li appartiamo, ma essi già vedono con i loro occhi, odono con le loro orecchie, giudicano, i bambini ci guardano insom- ma e ci giudicano e noi sembriamo affannati a impedire che esprimano questi loro giudizi, che sono spesso impressionanti, rivelatori, geniali, pieni di una esperienza misteriosa, con un suo tempo misterioso (qtd. in Siciliani de Cumis, p. 15)

In inaugurating their exceptionally fruitful collaboration (after their initial, underground, contacts for Teresa Venerdì in 1941), Zavattini gave a fundamental contribution to De Sica’s epistemological break with the shallow, mindless, and escapist cinema of the time5. In this perspective, the social control and morbid curiosity that animates in the film close relatives, friends, neighbors, and hotel guests alike, is the perfect incarnation of that “società ipocrita, bugiarda”, that De Sica openly identified as the main target of his attack (qtd. in Savio, p. 489), and that is here willfully portrayed in direct contrast to the subtle subversiveness of Pricò. Accordingly, all of the adult characters in the movie – with the sole, albeit significant, exception of the old nanny – are portrayed somewhat negatively. None of them, in fact, seems capable of establi- shing a true, compassionate, loving connection with Pricò, and this is true not only of family members and friends, but also of all the minor or secondary characters that punctuate the plot: from the magician at the hotel, who is evidently annoyed by his presence («Bambino, vai via…»), to the old lady at the railway station, who dismisses him with an arrogant nod, to the railroader on the tracks who chases him away («Via da qua!»), all the way to the drunken sailor on the beach who scares him just for fun or the two alleged representatives of the Law who suddenly loom over the little boy as a menacing presence, rather than a reassuring one. Moreover, Pricò’s desperate search for affec- tion throughout the movie is significantly underlined by his repeated requests for a simple goodnight kiss («Non mi dai un bacio?»), to which the mother, Paolina, and possibly even Agnese, all seem obli- vious, insofar as they all forget to bestow it spontaneously.

5 The title itself, for instance, was suggested to De Sica by Zavattini, insofar as it was inspired by I nostri bambini ci guardano, a weekly column, signed by Zavat- tini in the late ’30s on the Italian women’s magazine «Grazia», whose official declaration of intent already anticipated the reversed perspective that we witness in the film: «Qui non si tratta di insegnare ai fanciulli come devono comportarsi, bensì come voi dovete comportarvi davanti ai fanciulli». 54

Ironically enough, even the family picture that the father decides to take on the beach to seal once and for all the renewed harmony between the three family members is actually ruined – without them knowing it – by a mischievous kid named Ulrico, who enters the pic- ture behind their back and sticks his tongue out right before the click. It is almost a bad omen of the things to come, as if De Sica wanted to warn us that the happiness of this family reunion is only apparent and is not destined to last for long. Moreover, the fact that the mischie- vous kid actually belongs to the upper class and will later answer back to his own mother, quite aggressively «Lasciami stare! Non voglio venire con te!», while spitefully vexing a group of younger kids, sim- ply adds another element of ethical condemnation to the falsely gla- morous society portrayed in the seaside sequence. And yet, one of the greatest accomplishments of the Italian Neo- realist experience of the 1940s has been precisely its unique ability and willingness to acknowledge and render, both cinematographi- cally and literarily, the actual complexity of the real. According to De Santi, for instance: «Il realismo di De Sica non sceglie o strofineggia una cifra formale in cui lo stile scorra sempre uguale (sia pure sempre ad alto livello). C’è nel suo cinema una mobilità di innesti e investi- menti espressivi, e anche di esiti fortuiti» (p. 40). The same could be said about other Neorealist works of the 1940s: a movie like Roberto Rosselini’s , Open City (1945) defies all cinema genres, just like ’s first novel, The Path to the Spiders’ Nests (1947) or Pavese’s The Moon and the Bonfires (1950) do not really belong to any readily available literary category6. Following along these same lines, De Santi is one of the few criti- cs to have highlighted how complex the world depicted in The Chil- dren Are Watching Us actually is. In describing the mother’s remorse- ridden adultery, for instance, he insightfully points out the ambiguity of a love bond that is actually blameless, if read outside of the cul- tural coordinates of the time (p. 32). Similarly, he notices how De Sica does not impose on the father the code of the betrayed husband, which, in the Italian custom, could be viciously violent (p. 40). On the

6 In this regard, both Lucia Re’s Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrangement (1990) and Gregory Lucente’s The Narrative of Realism and Myth: Verga, Lawrence, Faulkner, Pavese (1981) have amply demonstrated how the abovementioned works effectively challenge the poetics of objectivity and realism traditionally associated with Italian Neorealism. 55 contrary, the film attempts to proceed against many of the stereotypes traditionally associated with the bourgeois love-triangle, especially in comparison to the novel on which it is based, which is full of late- Romanticism simpering and excesses. What we are dealing with here, then, is an attempt to present the traditional petit-bourgeois triangle from a different perspective altogether, namely the child’s: a simple reversal which allows, though, for a radical condemnation of clichés, a condemnation that Deleuze justly identified as one of the main cha- racteristics of Italian Neorealism as a whole7. Particularly revealing, in this sense, is the sequence in which the father is finally forced to face the truth as he reads the farewell tele- gram that his wife has sent him. Here, the shattering of the clichés traditionally associated with such scenes is achieved through what Deleuze would call a “disjunction of the sound and the visual” (Cine- ma 2, p. 267), insofar as the 1939 song playing in the background, Maramao perché sei morto, does not fit the pathos of the sequence, but it creates instead an uncanny, ironic, and incommensurable “gap”. It is, yet again, an irrational (audio-visual) cut, capable of expressing how complex reality actually is, while anticipating, at the same time, the tragic death that is about to unfold. To quote Deleuze’s words:

[…] when the sound image and the visual image become heautonomous, they still constitute no less of an audio-visual image, all the purer in that the new correspondence is born from the determinate forms of their non-correspondence […] The visual image and the sound image are in a special rela- tionship, a free indirect relationship (Cinema 2, p. 260-1).

7 In the first chapter of «Cinema» 2, Deleuze clearly states that: «a cliché is a sensory- motor image of the thing. As Bergson says, we do not perceive the thing or the image in its entirety, we always perceive less of it, we perceive only what we are interested in perceiving, or rather what it is in our interest to perceive, by virtue of our economic interests, ideological beliefs and psychological demands. We there- fore normally perceive only clichés» (p. 20). But one of the great merits of Italian Neorealism is precisely that of having put into question the movement-image’s sensory-motor schema, thus allowing the spectators to rethink their inherited and commonsensical conceptions of the world. As Deleuze puts it, in order to grasp the new situation brought about by WWII, it was necessary for cinema to create: «a new type of tale [récit] capable of including the elliptical and the unorganized, as if the cinema had to begin again from zero, questioning afresh all the accepted facts of the American tradition. The Italians were therefore able to have an intuitive con- sciousness of the new image in the course of being born» («Cinema» 1, p. 211-212). 56

If the intrinsic limit of every camp-thinking attitude is its inabi- lity to account for and/or acknowledge the complexity of the real, then The Children Are Watching Us is actually successful in breaking through the clichés of Fascist cinema, while offering an estranged image of the real, which enables us, in turn, to be foreign in our own language and to free ourselves from dangerous forms of automatism. In other words, De Sica’s art is, most importantly, an art capable of changing the way we look at the world. Thanks to its unswerving take on reality, considered as something intrinsically complex and problematic, the theme of the bourgeois triangle ceases to be banal and outworn. Once again, the ethical path chosen by the orphanized child-protagonist functions as a powerful eye-opening experience and a relentless wake up call for past and present audiences. To conclude, if we are to interpret Italian Neorealism first and foremost as an epistemological break from the Fascist frame-of-mind, a new way of experiencing and experimenting with the world after the closed-ness of totalitarianism, then ’s 1943 film, The Children Are Watching Us, should be considered not a simply proto-Neorealist endeavor, as many critics have stated in the past, but a fully Neorealist one, precisely because of its overt willingness – and effectiveness – in putting into question several established precepts of Fascist camp-thinking, through the powerful prism of a subtly subver- sive, and highly symbolical, “orphanization” of its main character. But if this is true, then, even the final shot of the film can be read as an open-ending full of puissance, which does not plunge us in a des- peration unredeemed by any prospect of hope, as many critics seem to imply in their analysis, but is actually full of agency for the audience, insofar as it calls us into action. De Santi is right when he notices that all of reality’s contradictions are still there, and that the film doesn’t resolve the contrast between morality and family, adults and children. On the contrary, the film destroys a pattern, whose contradictions cannot be overcome (p. 40). But, in my view, to cry out loud «the Emperor has no clothes» is already a powerful and subversive act of revolt, especially if its direct consequence is the willful and ethically charged (self-)orphanization of the main character, who consciously refuses in the end to be associated with the encamped, fortified, and falsely serene, microcosm of the agonizing Italian Bourgeoisie. As Furio Jesi puts it: «Riconoscere la malattia e la deformazione come tali e denunciarne l’orrore nell’istante stesso in cui se ne accusa l’ine- vitabilità, è già un atto di superamento» (Germania, p. 95). 57

Cited Works

Agamben, Giorgio, Infancy and History: On the Distruction of Expe- rience. Trans. Liz Heron, London, Verso, 1993. Deleuze Gilles, Cinema 1. The Movement-Image, Trans. Hugh Tom- linson and Barbara Habberjam, Minneapolis, University of Min- nesota Press, 1986. —, Cinema 2. The Time-Image, Trans. Hugh Tomlison and Robert Galeta, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989. —, Negotiations, 1972-1990, Trans. Martin Joughin, New York, Columbia University Press, 1995. De Santi, Gualtiero, La cognizione del dolore, in I bambini ci guar- dano di Vittorio De Sica: testimonianze, interventi, sceneggiatu- ra. Ed. Gualtiero De Santi, Roma, Editoriale Pantheon, 1999, pp. 31-41. Gilroy, Paul, Between Camps: Nations, Culture and the Allure of Race, London, Allen Lane, 2000. Jesi, Furio, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, Milano, Silva Editore, 1967. —, Letteratua e mito. 1968, Torino, Einaudi, 2002. Print. Fellini, Federico, Fellini on Fellini, Ed. Anna Keel and Christian Strich, 1976, New York, Da Capo Press, 1996. Print. Garritano, Massimo, L’infanzia perduta nei film di Vittorio De Sica, in I bambini ci guardano di Vittorio De Sica: testimonianze, inter- venti, sceneggiatura, Ed. Gualtiero De Santi, Roma, Editoriale Pantheon, 1999, pp. 57-61. Lucente, Gregory, The Narrative of Realism and Myth: Verga, Law- rence, Faulkner, Pavese, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1981. Micciché, Lino, “La ricerca di vie nuove”. Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Ed. Giorgio Tinazzi, Padova, Marsilio, 1966, pp. 149-161. Re, Lucia, Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrange- ment, Stanford, Stanford University Press, 1990. Savio, Francesco, Cinecittà anni Trenta, Roma, Bulzoni, 1979. Siciliani de Cumis, Nicola, Zavattini e i bambini. L’improvviso, il sacro, il profano, Lecce, Argo, 1999. Zavattini, Cesare, I vostri bambini vi guardano, «Grazia», 1 marzo 1938. 58 59 Ben Lawton

Divorce Italian Style: On the Firing Line between Omertà and Civil Society

Sicily has been misunderstood as often as it has been invaded1 and yet

1 Among the seemingly countless invaders of the beautiful Mediterranean island are the Phoenicians, the Greeks (starting around the 7th century B.C.E.), soon followed by the Carthaginians and the Etruscans around 480 B.C.E., and the Romans around 270 B.C.E. With the advent of the Common Era, the invasions did not cease. The Vandals arrived around 450, the Goths around 480, the Byzantines around 535, and the Arabs, who also arrived in the island in 535, eventually ended the Byzantine rule around the year 900. The Normans arrived in 1060 and conquered the island by 1091. In 1139 the island became a of the Holy See. In 1266 to Pope Innocent IV Pope Innocent IV crowned Duke Charles I of Anjou as the king of both Sicily and . Strong opposition to the French due to mistreatment and taxation saw the local peoples of Sicily rise up, leading in 1282 to an insurrection known as the War of the Sicilian Vespers, which eventually saw almost the entire French popula- tion on the island killed. With the passing of the French rule Sicily came under the house of Aragon until 1409. In 1713 Sicily was given to the House of Savoy, but this lasted for only 7 years when they traded it for Sardinia to the Austrian Haps- burg dynasty. The island then passed to the Spanish branch of the Bourbons who conquered Sicily and Naples. Further confusion ensued with the Napoleonic inva- sion of Italy. With the defeat of Napoleon, the island became part of the Kingdom of the Two Sicilies under the Bourbons. Sicily rebelled against Naples repeatedly and in 1948 became briefly independent. In 1860, aided more or less surreptitiously by the newborn Kingdom of Sardinia and Piedmont and by Great Britain, Giuseppe Garibaldi with some 1000 men came to the aid of the Sicilian uprising against the Bourbons of Naples. After the defeat of the Bourbons, Sicilians allegedly voted by plebiscite to join Italy. In 1866 the city of Palermo rose up against the Italians, but the rebellion was quickly suppressed. The Mafia was first identified as such in the 1860s and became a de facto alternative power structure in the Island. In the 1920s, the Italian Fascist government used extreme measures to repress it and succeeded to a considerable extent. In 1943 the Allies invaded Sicily as part of the Second World War. As they advanced through the island, U.S. forces replaced Fas- cist government officials with their sworn enemies, Mafia bosses. At the same time, Sicilians, who perceived the Italian state as just one more foreign invader, began to agitate for independence both through the political Movimento per l’indipendenza della Sicilia (MIS) [Movement for the Independence of Sicily] and its Esercito 60 to this day, every visitor, friendly and not, cannot resist the temptation to comment, analyze, and criticize. This is a process that is frequen- tly presumptuous and often somewhat akin to taking a blindfolded stroll through an uncharted minefield. Filmmakers from around the world have participated in this process. For the most part the “forei- gners,” in this context both non-Italians and “continental” Italians2, have simply used Sicily as an exotic setting populated by mysterious, romantic, and all too frequently dangerous “natives”3. Italian cinema has participated in this process with varying degrees of success deter- mined in large measure by the acknowledgement that “continentals” cannot possibly understand the island and its mores. Pietro Germi’s Divorce Italian Style (Divorzio all’italiana, 1961) is one of the few “continental” films that appear to understand the island, precisely because it clearly expresses the limits of that under- standing4. The awareness of this difficulty is best revealed by the Northern Italian representative of the Communist Party (PCI) when he addresses the communists of Agramonte regarding the appropriate response to the behavior of Mrs. Cefalù:

volontario per l’indipendeza della Sicilia (EVIS) [Voluntary Army for the Indepen- dence of Sicily]. By 1950 its last military leader, Salvatore Giuliano, was tracked down and assassinated by exponents of the Italian government and, in exchange for special status as an autonomous region, Sicily acceded to the nominal control of the island by the Italian state. 2 To this day, Sicilians frequently refer to mainland Italians as “continentals.” 3 For the most useful and complete list of films set in Sicilia, see:Cinema in Sicilia, 12 Sep. 2009, . See also Cine- matograpfia Siciliana: Sicilian Cinematography, 12 Sep. 2009, and Cinema in Sicilia, 12 Sep. 2009, . A majority of the films listed deal in one way or another with the Mafia either as criminal organiza- tion or as culture. Ironically, none list one of the first films set, at least in part, in Sicily, Giovanni Pastrone’s colossal masterpiece, Cabiria (1914). 4 Among others that address this issue explicitly, see Francesco Rosi’s Salvatore Giu- liano (1962) and ’s The Leopard (Il Gattopardo, 1963). Where the former is concerned, see the conversation between the water-seller and the reporter discussed elsewhere in this essay. For the latter, see Chevalley, the representative of the kingdom of Sardinia and Piedmont when he visits Prince Salina at Donnafu- gata. He, like so many over the centuries, arrives as a conqueror of sorts intending to change the mores of Sicily, but he too is compelled to retreat in confusion when confronted with a forma mentis he simply can’t understand. The fact that Sicilians, in turn, all too frequently do not understand “Continentals” is lampooned, among others, in Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore (1972). 61

Perché oramai è storicamente accertato che anche qui da voi nel vostra bel sud, che io ho il piacere di visitare per la prima volta, è giunto alfine il momento di affrontare il secolare pro- blema dell’emancipazione della donna, così come esso è stato affrontato e risolto per esempio dai nostri confratelli cinesi; pertanto io vi invito ad esprimere il vostro democratico parere sul fatto; cioè a dire, quale giudizio sereno ed obbiettivo meri- ta la signora Cefalù. [It’s a point of fact that historically, even here in the south, which I’m pleased to visit for the first time, the moment’s come to face the age-old problem of women’s emancipation as it’s been confronted and solved, for example, by our Chinese brothers. Therefore, I invite you to express your democratic opinion on these facts. In other words, what is the calm, objective judgment that Mrs. Cefalù deserves?]5.

The response of the assembled forces of what the film’s voiceover has described as the “progresso un po’ lento”, which grows in an over- whelming crescendo, is – to the amusement of movie audiences for now almost 60 years:

BOTTANA! (Whore!)

***

Divorce Italian Style won the 1962 Cannes Film Festival Best Come- dy Award, the 1963 Oscar for Best Writing, Story and Screenplay, Written Directly for the Screen, and the 1964 British Academy of Film and Television Awards as Best Film from any Source, in addi- tion to numerous other nominations6. Stuart Klawans, the long-time critic of The Nation, called it a “perfect movie” in his new essay The Facts (and Fancies) of Murder (p. 13). I tend to agree. The story, as described on the back cover of the Criterion Collection edition of the film, is rather simple, although obviously fraught with possible twists and turns. «Baron Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni) longs

5 Italian quotes from the film are taken from the script as found in Moscon and Germi. English language translations, unless otherwise indicated, come from the Criterion Collection edition of the film. 6 Divorzio all’italiana, Awards, 25 July 2009, . 62 to marry his nubile young cousin Angela (), but one obstacle stands in his way: his fatuous and fawning wife, Rosalia (Daniela Rocca). His solution? Since divorce is illegal, he hatches a plan to lure his spouse into the arms of another and then murder her in a justifiable effort to save his honor». The plot is something else entirely. As the film opens, the Baron is coming out of a W.C. on a train7. The rest of the film, except for the last sequence, about which more later, is an extended flashback seen, narrated, commented, and invented, for the most part, by Don Ferdinando’s internal monolog. While it is generally recognized as one of the foremost examples of commedia all’italiana [comedy Italian style], its qualities as art film have rarely been acknowledged (Rhodes)8. Among other things, roughly at the same time as Fellini’s 8 ½, (1962) it pushes the self- referentiality of the film and the foregrounding of the discrete con- stituent elements of the medium to a degree rarely if ever equaled in commercial cinema. Intertextual literary references abound, ranging from Marcel Proust’s A la recherche du temps perdu (Remembran- ce of Things Past, 1922), to Alessandro Manzoni’s I promessi spo- si (The Betrothed, 1827), to Giacomo Leopardi’s Il sabato del vil- laggio (Saturday in the Village, 1829), Giovanni Verga’s Cavalleria Rusticana (Rustic Chivalry, 1880), as do references to opera, Pietro Mascagni’s Cavalleria Rusticana (Rustic Chivalry, 1890), William Shakespeare’s Othello, and cinema, from the subtle the complete- ly explicit. Consider, for example, the scene in which the people of Agramonte, with the black clad women in the foreground, descend in perfect lockstep from the church during the funeral of Don Calogero. The scene is reminiscent of nothing so much as the Cossacks descen- ding the Odessa steps in Battleship Potemkin (Sergei M. Eisenstein, 1925). Consider also the scene, which may be unique in the history of cinema, in which an actor (Marcello Mastroianni as Don Ferdinando) must leave the screening of La Dolce Vita (Federico Fellini, 1960) to avoid seeing himself on the screen as Marcello Rubini. In this essay I will discuss briefly only one aspect of the film’s reflexivity – the separation and interplay between the visual image track and the sound track – because it serves to foreground the cogni-

7 W.C. stands for “water closet,” or toilet. It is now found almost exclusively on the doors of toilets on Italian trains. 8 For a useful overview see Enrico Giacovelli, La commedia all’Italiana, Roma, Gremese, 1990. 63 tive dissonance that exists within Don Ferdinando’s mind. Throu- ghout the film we see the almost invariably humorous juxtaposition of sound motivated by events on-screen (what different film scholars have called diegetic or actual or synchronous sound; henceforth, die- getic) and sound not causally motivated by events on screen (defined as extra-diegetic or commentative or asynchronous sound; hence- forth, extra-diegetic) which usually serves to comment on what we see: for example, the violin music during a love scene. This is nothing new, nor is the presence of external diegetic sound (we assume the sound has a physical source off-screen: we hear an off-screen shot; the character reacts), and internal diegetic sound or internal mono- log (we hear words which, presumably, constitute the thoughts of the character). What is revolutionary, at least in a commercial comedy is the use of meta-diegetic sound, that is, of sound that exists somewhe- re between the diegetic, the extra-diegetic, and the inner diegetic9. Consider, for example, the scene in the Agramonte church in which we are introduced to the Cefalù family through the internal monolog of Don Ferdinando (also known to his relatives and friends as Don Fefè). As he is confessing his love for his cousin Angela, although lust would better describe his urges, his wife, Rosalia, suddenly glan- ces up at him. His internal monolog stops abruptly; then, as Rosalia looks away, Don Ferdinando resumes his thoughts sotto voce as if to keep her from hearing him. Or consider the sequence in which we observe Don Ferdinando watch and listen to the peroration by lawyer De Marzi (Pietro Tordi), in defense of Mariannina Terranova (uncre- dited). As Don Ferdinando drives home from the trial, we continue to hear De Marzi’s voice as he drones on in defense of Mariannina. The scene then cuts to Don Ferdinando’s home where, as we watch him puttering about, we hear his internal monolog as he imagines the law- yer’s defense at his (Don Ferdinando’s) eventual trial for the murder of his wife. Don Ferdinando rehearses various scripts in his mind, at first in his own voice, then he invents the dialog in the voice of his lawyer, and finally, in his own voice he rejects what he has just said.

9 Claudia Gorbman coined the expression in «Teaching the Soundtrack», Quar- terly Review of Film Studies (November 1976), pp. 446-452. For a very useful essay that expands on her taxonomy see Mladen Milicevic, Film sound beyond reality: Subjective sound in narrative cinema, 25 July 2009, . 64

***

One might further argue that this film is a disquisition on the creative process, but that is a topic for some other occasion. The topic of this essay is Germi’s Divorce Italian Style: On the Firing Line between Omertà and Civil Society. Before I proceed I have to define my terms. When I speak of the Firing Line in this context, I am borrowing the expression from Pasolini’s “Cinema Impopolare” (1970)10. In that essay Pasolini writes that art is valid only when it is revolutionary, that is, when the artists are on the firing line, sadomasochistically breaking the laws of the system within which they operate. Thus, Pasolini rejected both traditional and avant-garde cinemas. Both, he argued, are consumer products since neither challenges its respective public. As for Omertà and Civil Society, without getting too bogged down in anthropology and sociology, the more widely accepted and conti- nuingly evolving theories regarding the development of society are predicated on the level of technology, communication, and economy and the manner in which they affect and are affected by social inequa- lity and the role of the state.

(1) Hunter-gatherer bands, which are generally egalitarian; (2) horticultural/pastoral societies, which are typically tribal and in which there are generally two inherited social classes, chief and commoner, as instances of social rank and prestige; (3) highly stratified structures or chiefdoms, with several inhe- rited social classes: king, noble, freemen, serf, and slave; (4) civilizations, with complex social hierarchies and organi- zed institutional governments; (5) virtual societies, societies based on online identity which are evolving in the information age11.

10 «Nuovi Argomenti» 20 (Oct./Dec. 1970), pp. 166-176. Reprinted in Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 273-280. Translated as The Unpopular Cinema (Pasolini, pp. 267-275). In Heretical Empiricism. Trans. Ben Lawton and Louise Barnett. Ed. Louise Barnett. Washington, DC, New Aca- demia Publishing, 2005. Rpt. in honor of 30th Anniversary of Pasolini’s murder. Expanded with Pasolini’s Repudiation of the Trilogy of Life. Trans. and introd. Ben Lawton. Original ed. Bloomington, Indiana UP, 1988. 11 Among many others see Franz Oppenheimer. 65

Parenthetically, I don’t particularly like the term “civilization” in this context because it can lead to confusion and misunderstandings predicated on a belief in the “progress” of civilizations and a rejection of cultural relativism (Boas). This caveat to the contrary notwithstan- ding, I think that the notion of cultural evolution, taken cum granu salis, is helpful for the purposes of my argument. Regarding Civil Society, while «there is no universally accepted definition of civil society», it is generally understood as voluntary participation by average citizens and thus does not include behavior imposed or even coerced by the state (Hauss). In other words, a civil society can exist only when citizens agree to submit voluntarily to democratically chosen laws, that is, when the parti voluntarily submit their particolare to the interests of the res pubblica (Bruni). When this voluntary compliance does not occur, regardless of the laws that are on the books and notwithstanding the power of the state, all you can have are conditions that range between totalitarian regi- mes, complete anarchy, and the kleptocracy that has brought about the recent near collapse of world financial markets. Given these premises we can return to Sicily. By and large, we all are acquainted with the history of Trinacria, the three cornered island. More than any other region of Italy, Sicily was, in the words of Machiavelli, “stiava et vituperata” [enslaved and humiliated], (Prince XII). As a result, it did not have its own laws – that is, again, according to Machiavelli, the premises for the creation of a res pubblica did not exist. In short, it remained blocked somewhere around the chiefdom level of society. Chiefdoms frequently retain some characteristics of tribal societies, characteristics that were already well established and described in biblical times. These societies were essentially extended families ruled by a patriarch. In these societies the honor of the family was and is of paramount importance. Why? In a civil society, that is, a society predicated on voluntary compliance with laws, the citizen must cede willingly the monopoly on violence to the state which must, in turn, protect its citizens. In a tribal society, where there is no state to protect the individual, transgressions against the family and its mem- bers cannot be tolerated. No slight, however trivial, can be forgiven. Hence, the obsession with “honor” (about which more shortly). In Divorce Italian Style this obsession with honor is presented as ludicrous and uncivilized. And, in a sense, this is correct because 66

Sicily had, at least in theory, been on the road to becoming a civil society at least since the notorious plebiscite of 1860. But, as we also all know, Sicily was not entirely a civil society for many reasons, one among which is that, at least in the view of many Sicilians, Italy was merely another in a long list of invaders. Thus, at least in part, Sicily continued to be a society with tribal characteristics in which, because of the abdication of its responsibilities by the Italian state, the people have all too frequently adopted the Mafia as a de facto alternative government12. After the murders of Falcone and Borsellino, the Ita- lian government finally became more actively involved in the war against the Mafia. One result was the arrest of Toto Riina, the Cosa Nostra “boss of bosses” in January 1993. The Mafia reacted furiously and violently engaging in terrorist attacks against tourist attractions in Florence, Milan, and Rome that left 10 dead and 93 wounded. The retaliatory direct attack by the Italian state seemed to force the Mafia to retreat and, according to some, to be vanquished. What actually happened was that when Bernardo Provenzano inherited the leader- ship mantle of Cosa Nostra in 1995, he renounced Riina’s violent methods and like an octopus13, had the Mafia disappear into the cracks and crevices of Italian society and go back to its principal activity: making money, once again in collusion with representatives of the Italian government and industry at virtually all levels. The new policy is described by the Mafia boss Tano Cariddi in La Piovra 10:

Non serve più fare la guerra allo Stato. Basta usare le leggi

12 This tendency has been discussed in a variety of films ranging from Frances- co Rosi’s Salvatore Giuliano, to Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore (1972), to Roberto Faenza’s Alla luce del sole (2005). The losing struggle by Sicilians to free their island from the tentacles of the piovra (octo- pus) is narrated in any number of films and television shows, ranging from Un uomo da bruciare (Valentino Orsini, 1962), Cento giorni a Palermo (Giuseppe Ferrara, 1984), Giovanni Falcone (Giuseppe Ferrara, 1993), Il giudice ragazzino (Alessandro Di Robillant, 1994), Cadaveri eccellenti (1999), Placido Rizzotto (Pasquale Scimeca, 2000), to I cento passi (Marco Tullio Giordana, 2000), L’at- tentatuni (, 2001), and Giovanni Falcone, l’uomo che sfidò Cosa Nostra (Andrea e Antonio Frazzi, 2006). 13 The Mafia in Italy is also called “la piovra” (the octopus), both because its ten- tacles seem to reach everywhere and because it has the ability to hide in virtually invisible crevices. One of the most popular and long lasting Italian television series, was called, La Piovra (Damiano Damiani,1984; Florestano Vancini, 1986; Luigi Perelli, 1987-95; Giacomo Battiato, 1997-98; Luigi Perelli, 2001). 67

che ci sono e costringere il potere centrale a farne delle nuove su misura per noi e per i nostri interessi. Non più meschine velleità di separatismi intrisi di bassa politica e di modesto affarismo, ma reale autonomia da ogni potere, che ci consen- ta di diventare il territorio più intoccabile del nuovo potere finanziario, la capitale della nuova economia. [It is no longer necessary to make war against the State. It is enough to use the existing laws and force the central power to pass new ones made to order for us and for our interests. No more pathe- tic ambitions of autonomy, drenched in low class politics and cheap and unscrupulous profiteering, but real autonomy from all powers, which consents that we become the most untou- chable terriroty of the new financial power, the capital of the new economy]14.

This is precisely the indictment issued by writer/director/producer Salvatore Fronio, in his Vota Provenzano (2007), the documentary of the fictional 2006 electoral campaign of Mafia boss, Bernardo Pro- venzano15. The filmmakers follow the fictional campaign as it pro- ceeds from Palermo to Naples and Torino, observing the reactions of authorities and ordinary citizens. It also focuses on products (pri- marily clothing) that exploit the marketing value of what might be described as “Mafia chic”. In a bitter and ironic “j’accuse” onthe film’s web page entitled “The Mafia has been defeated. The Mafia has won”, the director writes that association with the Mafia is no longer detrimental to politicians or industrialists; on the contrary, if anything, working with the Mafia now is a convenience which only foolish and impractical persons would reject. He concludes by writing, «The only way to fight it is to imitate it. Welcome to the twenty-first century. The Mafia has been defeated. Hurrah for the Mafia!» (Fronio)16.

14 12 Sep. 2009, . 15 Translation mine. 16 Interestingly, according to, among many others, Jeff Sharlet in The Family: The Secret Fundamentalism at the Heart of American Power (New York, Harper Collins, 2008), the members of the secretive fundamentalist Christian organiza- tion, also known as The Fellowship, describe themselves as the Christian Mafia. See also: 12 Sep. 2009, ; ; 12 Sep. 2009. . 68

***

I have repeatedly used the term “honor”, without defining it. What do we mean by honor? Avvocato De Marzi, the lawyer of Mariannina Terranova, the “concubine” accused of murdering her philandering boyfriend, tells the court that Niccolò Tommaseo, in his monumen- tal dictionary of the Italian language, defines honor as “The moral and civic attributes that render a man respectable and respected in the society in which he lives” (Moscon and Germi, p. 83). While this definition does serve to convey the common understanding of this concept in civil societies, it is not the meaning of honor in tribal societies. In tribal societies honor is, essentially, a synonym for respect. But how are we to understand their concept of respect? Don Ciccio Matara, he of the mysterious and dangerous [Mafia]17 friendships, tells Don Ferdinando at the funeral of Don Calogero (Ugo Torrente)18, «la vostra famiglia… “era” [emphasis in the ori- ginal] una famiglia onorata… Tutto il paese aspetta…», [yours was a respected family … all the town is waiting…] (p. 145). Now that he has become cucolded, it is no longer such. In order to regain that respect and honor he must exact revenge. Respect, in other words, does not mean admiration predicated on attributes and actions san- ctioned by law-abiding society, it means fear. It means not allowing transgressions against one’s person or property. Where there are no laws, no fines, and no jails, punishment for transgressions will ine- vitably take more violently drastic forms – hence the disproportio- nally high rate of homicide in Sicily. Gian Antonio Stella, L’Orda:

17 For the etymology of the word “mafia,” see Paola Ivaldi, Le origini della parola “mafia”, dalla sua prima attestazione fino all'ingresso definitivo nel vocabolario italiano, 12 Sep. 2009, , and Ben Lawton, Mafia Word Origins, 12 Sep. 2009, . 18 Calogero is a fairly common Sicilian name. Perhaps because it was the given name of a man who was considered by many to be the original “boss of all the bosses” of the Mafia, Don Calogero Vizzini, or perhaps because it sounds so “Sicilian” to “continentals,” any number of on screen mafiosi and Mafia bosses have been called Calogero. Among the more memorable are Don Calogero Seda- ra, in Luchino Visconti’s The Leopard and Don Calogero Tricarico in Lina Wert- muller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore. For many more see 12 Sep. 2009, . 69 quando gli albanesi eravamo noi (The Horde: When We Were the Albanese, 2003) states that the murder rate was 46.9 per 100 thou- sand in Palermo versus 3.0 in Milan in 1881 (p. 304)19. According to Enrico Giacovelli, at the time of the making of the film in the South there were approximately 1600 crimes of honor a year, roughly 4 a day. By comparison, he writes, the crimes of the Mafia were a joke (p. 77). Commonly understood as the code of silence, omertà actually refers to a code of manliness (omu, hombredad) of which the code of silence is merely one manifestation20. It implies «the categorical prohibition of cooperation with state authorities or reliance on its ser- vices, even when one has been victim of a crime» (Paoli, p. 109). The following, more contemporary, expanded definition of the code of omertà is helpful:

Whoever appeals to the law against his fellow man is either a fool or a coward. Whoever cannot take care of himself without police protection is both. It is as cowardly to betray an offen- der to justice, even though his offences be against yourself, as it is not to avenge an injury by violence. It is dastardly and contemptible in a wounded man to betray the name of his assailant, because if he recovers, he must naturally expect to take vengeance himself (Porello, p. 23).

This code is in effect wherever civil society does not exist, from Afghanistan, to Appalachia, to inner city USA where it is manifested in the proscription against “dissing”, that is, of disrespecting. A second related meaning of honor in tribal societies exists in rela- tion to women. Tommaseo, writes: «Parlandosi di donna, vale Pudi- cizia, Castità» [Speaking of women, it means modesty, chastity] (p. 611). He then goes on to give examples:

19 Unfortunately this important work has not been translate into English. The title, L’Orda: quando gli albanesi eravamo noi, compares Italian emigrants around the world to the recent Albanese immigrants into Italy who are perceived and stere- otyped all too often by Italians as a sort of devastating, criminal Mongol horde. 20 The theory that omertà originates from umiltà was already discarded by the first Antimafia Commission of the Italian parliament in the 1970s, which traces the origin to omu. See: Relazione conclusiva, Commissione parlamentare d’inchie- sta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Rome, 1976, p. 10. 70

Ma trattosi egli le mentite spoglie … l’onor suo le toglie» [But, having removed the deceitful mask … he took her honor]. (p. 611). [Ovid, Metamorphoses, 2-144].

Martire dell’onore, e della fede marital salisti, Casta Lucrezia, ad eternarti in cielo [Martyr for honor and for marital fidelity, you ascended, Chaste Lucretia, to become eternal in heavan]. (p. 612). [Francesco Redi, Opere. 1778, p. 173].

Filomena di Pregne era sorella. E fu che di Tereo data alla fede, Ei le tolse l’onor d’ogni donzella a viva forza [Filomena was Pregne’s sister. And so it happened that given into the custody of Tereo, he forcefully took the honor of any maiden]. (p. 612). [Gabriello Chiabrera, Rime.1808. No page.]

How is a man’s honor, understood as respect in the tribal sense, con- nected with a woman’s honor understood as chastity? According to Maurice Godelier and Jack Goody, with different nuances, the major difference between our closest biological relatives (chimanzees and bonobo) is the parental role assumed by human males, (Godelier; Goo- dy). With the evolution from more egalitarian hunter gatherer societies to the more hierarchical tribal and chiefdom societies women became a means of increasing the size, power, and wealth of the extended family/ tribe, chiefdom, or feud. With the awareness of the paternal connection with children, the chastity of women acquired importance for at least two reasons: One, it insured that the children one raises were one’s own. Two, chaste daughters had greater exchange value in what has been described as the formation of intergroup alliances through marital arrangements (Levi-Strauss; Johnson and Earle). In short, the chastity of women had a concrete market value. If taken by someone else (rape), it was the equivalent of any other theft and or pillage and thus had to be punished like any other manifestation of disrespect. If it was given away willingly, it was essentially a destruction of paternal property, and thus also disrespect, and had to be punished accordingly. Why women came allegedly to identify chastity with honor is a question for another time. One can understand that they might well treasure something that is valued by the family. But why commit suicide (see Lucrezia) or pre- fer to be killed (Maria Goretti)21.

21 In 508 B.C.E., Lucretia, wife of consul Lucius Tarquinius Collatinus, was raped by Sextus Tarquinius, son of Lucius Tarquinius Superbus, king of Rome. After 71

In the first case, there are at least two possibilities: one, the identifi- cation with the values of the father/husband is complete; two, it might have seemed preferable to kill oneself in a manner of one’s choosing rather than be murdered more brutally and painfully by one’s kinfolk. Parenthetically, this is still very much a contemporary tragedy. Whe- ther it is legally sanctioned by the Koran and Sharia is the object of considerable debate, but there is no question that an estimated 5000 women are murdered around the world by family members for beha- vior that is considered to shame the family, including rape – and not just in the Middle East22. The most bizarre instance I found concerned a «51 year old Iraqi woman Samira Jassim, who confessed to Iraqi police that she organized the rapes [of numerous women] so she could later persuade each of them that to become a suicide bomber was the only way to escape their shame»23. The notion that rape, while obviously traumatic, is somehow a fate worse than death seems inconceivable today. The idea that somehow it causes a dishonor to the family of the victim boggles the mind, and yet when I was in grade school no one suggested that there was anything irrational about the choices of Lucrezia and Maria Goret- ti. In fact, they were presented as admirable role models on a par with Patroclus, Hector, Muzio Scevola, Pietro Micca, Carlo Pisaca- ne and the “300 giovani e forti”24. The importance of chastity and

asking her relatives to avenge her, Lucretia killed herself in their presence with a dagger. The result was the overthrow of the monarchy, the expulsion of the Tarquinii family, and the foundation of the Roman republic. On July 6, 1902 eleven year old Maria Goretti was murdered by 20 year old Alessandro Serenelli because she refused to allow him to have sex with her because she believed it to be a mortal sin. On June 24, 1950 she was declared a “saint” by Pope Pius XII, thus becoming the youngest officially recognized saint ever. 22 “A Human Rights and Health Priority”. United Nations Population Fund, 8 Aug. 2009, . Retrieved on 2009-08-08. 23 Among the various sources for this see: 12 Sep. 2009, and . 24 The willingness to lay down one’s life for one’s friends (John 15:13) or for one’s country (dulce et decorum est pro patria mori: Horace’s Odes (III, 2.13) has always been considered the acme of human nobility. In Italian grade and middle school these lessons were reiterated regularly with examples taken from the past: Patroclus, who by donning Achilles’ arms to reinvigorate the flagging Greek forces went off to certain death in battle. Hector, who left the safety of the Trojan walls and his loving wife and child to face Achilles, enraged because 72 its economic implications are addressed explicitly in Divorce Italian Style. Angela’s (Stefania Sandrelli) father, Don Calogero concerned because he has become convinced, incorrectly, that his daughter has a lover, has her examined by the midwife, and subsequently, concer- ned about her reliability as protector of her own honor, decides to marry her off to a wealthy unknown against her wishes. In case we had somehow misconstrued his concerns and his intent, Germi has Don Gaetano Cefalù (Odardo Spadaro) say, «Mascalzone! Per soldi la vuole sposare… Si vuole strafogare di denaro!… Speculatore!!!!» [You scoundrel! He wants to marry her for money… he wants to gor- ge himself on money!… Profiteer!!! (p. 111). In the script, he adds, «Ma che schifo che mi fai» [You disgust me] (p. 111). As Don Ferdinando tells us after Rosalia’s flight has been discove- red, and as we watch Sisina’s (Margherita Girelli) father remove her from the household of the cornuto contento [happy cuckold]25, disho- nor contaminates everyone in «casa Cefalù, diretti titolari e indiretti, discendenti e future… insomma proprio tutti quanti, inclusa la serva» [Cefalù houhold, direct and indirect members, descendants and futu- re… in short, absolutely everyone, including the maid] (p. 139). In short, the town of Agramonte believes firmly in the values of omertà and everyone participates voluntarily in reinforcing them, from the priest to the members of the communist party, to the senders of ano- nymous letters, to, eventually, the local Mafia. But Agramonte is not completely buried in medieval mire. Both Mariannina Terranova, and Immacolata Patanè (uncredited) kill their respective men to avenge the insult to their honor. This is progress, slow progress perhaps, but progress nevertheless because it implies that there is a certain reci-

of the death of Patroclus. Pietro Micca, a Piedmontese soldier who, in 1706, to save the city of Turin from the invading French who had tunneled under the walls of the city, blew up the tunnel, the French, and himself; Carlo Pisacane, anarchist and revolutionary, attempted to liberate the peasants of the Kingdom of Naples In 1857; he and his 300 companions (the figure was inflated in emulation of the Spartans at Thermopylae) were butchered by local peasants convinced by Bourbon authorities and local priests that they were bandits. Their deeds are remembered in a poem by Luigi Mercatini [«They were 300, they were young and strong, and they are dead…», trans. mine] that we were required to memorize with little or no understanding of the real issues involved. 25 Agnese, Don Ferdinando’s sister, screams this, the ultimate insult in a male chau- vinist society, at her brother, when he fails to avenge the honor of their family and thus destroys her planned marriage. 73 procity of rights and duties. Woman is no longer simply chattel. To get a sense of the extent of this progress, imagine a Taliban woman remonstrating against her husband for any reason, much less killing him. Another step in the long and slow progress towards becoming a civil society has taken place in Agramonte. There are laws, expressed in the penal code; there are policemen and a justice system in which, the film tells us, however ironically, «la legge è uguale per tutti» [the law is equal for everyone]. Don Ferdinando, who is a lawyer, albeit not a practicing one, knows enough about the law to find in the Codice Rocco the article 587 which concerns the “crime of honor”. It reads:

chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione car- nale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni [whosever causes the death of the spouse, the daughter or the sister, at the moment of discovering the their illegitimate carnal relationship or because of the fury caused by the offen- se caused to his honor or that of the family, is punished by incarceration of from three to seven years]. (p. 84)26

Once again Germi takes liberties with reality to make his thesis even clearer. Unlike the preceding Zanardelli code, the Rocco code did not require that the illegitimate lovers be caught in flagranza [in the act]. It was enough that their relationship be discovered27. But, for the purposes of the film, Don Ferdinando feels that he must stress the “onore offeso” [offended honor] to make up for the flagranza lost by the elopement of the couple. Don Ferdinando believes neither in Omertà nor in Civil Society. Caught on the firing line between these cultures, he manipulates both with complete cynicism to achieve the object of his desires: Angela. My students, at least at first, tend to identify with the protagonists of films – whether they be heroes or anti-heroes. For the most part it does not occur to them to look critically at what is shown, to per- ceive that the protagonist is not necessarily a role model, no matter

26 The law went into effect in 1930 and was repealed with law n. 442 of 5 May, 1981. 27 12 Sep. 2009, < http:// www.liberliber.it/biblioteca/g/grande/l_onore/html/art_587. htm>. 74 how physically attractive or successful. Germi was worried that his Italian viewers had similar tendencies. To counter this state of affairs he himself admits to err on the side of clarity where the “sugo di tutta la storia” [the essence of all the story] is concerned (p. 45). In fact, he has said that he is «not modern, if that means leaving everything uncertain, the end of the film uncertain, undefined. Granted [he adds], life is ambiguous, but I want to give a conclusion to things, a moral» (p. 45). The moral of Divorce Italian Style, is revealed explicitly in one of the most brilliant pans in the history of the cinema. After the wedding, Don Fefe and Angela are on their honeymoon, on a yacht28. He is dressed casually; she is wearing a bikini; a sailor is steering. As she comes to lie at Don Ferdinando’s feet, he looks off into the distance, somewhat fatuously, and we hear his interior monolog: «It’s really true, life begins at 40». The camera pans down to reveal his prize: the largely naked body of Angela. It caresses her face, breasts, belly, legs, feet… and then we watch her begin to play footsie with the sailor. This last shot in the syntagmatic ordering of the film con- firms the epigrammatic wisdom of Yogi Berra when he said: «it ain’t over till it’s over».

***

Clearly Divorce Italian Style is on the firing line in many ways, from the quantum leap in the foregrounding of the medium to its content. The conflict in the latter is perhaps best expressed by avvocato De Marzi as he begins his peroration in defense of Mariannina Terra- nova: «Signori della corte… “bocca baciata non perde ventura!”… Ma io vi dico, parafrasando un testo ben più alto e ben piu sacro, “chi guarda una donna con desiderio, ha già commesso peccato nel cuor suo!”» [Gentlemen of the court… “mouth for kisses, was never the worse!”… But I tell you, paraphrasing a much higher and much more sacred text, “whoever looks at a woman with desire has already committed a sin in his heart”] (p. 82). The first quote, as we all know, is the summation and moral of Boccaccio’s Decameron, day 2, novel 7, which reads:

28 This is stated explicitly in the script of the film. 75

Ed essa che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella, e fecegli credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E perciò si disse: – “Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna”. [So she, who had lain with eight men, in all, perhaps, ten thousand times, was bedded with him as a virgin, and made him believe that a virgin she was, and lived long and happily with him as his queen: wherefore ’twas said: – “Mouth, for kisses, was never the worse: like as the moon reneweth her course”]29.

It is difficult to find a more immanent, progressive vision of relations between women and men. The second quote, as we also all know, comes from Jesus’ sermon on the mount (Matthew 5, 27-30), and concerns not just behavior (“don’t commit adultery”), but the very surges of those desires which we hide from others and, quite frequen- tly, from ourselves. Citing Pasolini, I added that Germi was engaging in a sadomaso- chistic process. How so? Sadistic, obviously, in that the film makes fun not just of the mores of Sicilians, but of Southern Italians in gene- ral and, to an extent, of all Italians. Germi was entirely aware of this. As an apology of sorts, in his introduction to the script he reiterates repeatedly his love of Sicily as well as his horror at the crimes com- mitted in the name of “honor”. It is masochistic because, as Pasolini pointed out, there will be those who condemn the director for washing dirty laundry in public. Again, in his introduction to the script, Germi writes of meeting in Catania, the city he calls the Milan of Sicily, a woman, the proprietor of an household appliances store, a thoroughly modern enterprise. He tells us that she repeated the old story of the linen that should not be washed in public30 and accused the cinema of showing only the ugly aspects of Sicily. «Everything is beautiful

29 12 Sep. 2009, < http://oaks.nvg.org/decameron1.html#2-7>. 30 «I panni sporchi si lavano in famiglia». This sentence, which has become both famous and notorious in Italy, was allegedly uttered about Vittorio De Sica’s Bicycle Thieves (1948) by Giulio Andreotti, then Undersecretary of the Presi- dency of the Ministers in the De Gasperi government. Between 1951 and 1953 he was, among other things, responsible for the supervision of entertainment in Italy, and in particular, of the cinema. It was he who decided the level of govern- ment subsidy predicated on artistic merit for individual films.12 Sep. 2009, . 76 here – she said – why do you defame us?” (p. 48). But, lest it be thou- ght that Pasolini was a complete pessimist, also added “the specific liberty of the spectator consists in ENJOYING THE FREEDOM OF OTHERS [emphasis in the original] (Heretical Empiricism, p. 269). Almost as an ante-litteram echo of these thoughts Germi wrote: «Or che in Sicilia vedranno il film: spero che non si irritino e cheDivorzio all’italiana risvegli un po’ il senso del comico anche in loro. Quando i siciliani saranno essi pure capaci di sorridere dei propri difetti, come i genovesi scherzano sulla taccagneria ed i veneziani sulle ciacole, credo che anche il delitto d’onore avrà i giorni contati» [Now that they will see the film in Sicily, I hope that they will not be irritated and that Divorce Italian Style will awken their sense of humor a bit. When Sicilians will also be able to smile about their own defects, as the Genoese joke about their stinginess and the Venetians about their gossiping, I believe that the days of the crime of honor will also be numbered] (p. 49). Has that moment arrived? Or, as the reaction to Salvatore Fronio’s documentary of the Vota Provenzano campaign suggests, is Sicily still mired in tribal loyalties and Omertà which keep it from finally fully becoming a Civil Society31?

Sources Cited

Apra, Adriano, and Patrizia Pistagnesi. Comedy, Italian Style, 1950- 1980, Torino, ERI, Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, 1986. Boas, Franz, Museums of Ethnology and their Classification «Sci- ence» 9: 589 1887. Boccaccio, Decameron. Bruni, Francesco, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, Il Mulino, 2003. Fronio, Salvatore, writ., dir., prod., Vota Provenzano, 2008, 11 Sep. 2009 Germi, Pietro, “Divorce Italian Style: Special Edition of the Film.” New York, Criterion Collection, 2005.

31 Vota Provenzano, written, edited, and directed by Salvatore Fronio, deserves to be seen and discussed. It is available at 12 Sep. 2009, . 77

Germi, Pietro, Divorzio all’italiana, IMDB. Germi, Pietro: Ritratto di un regista all’antica, Eds Adriano Aprà, Massimo Armenzoni, and Patrizia Pistagnesi, Parma, Pratiche edi- trice, 1989. Giacovelli, Enrico, La commedia all’italiana, Roma, Gremese, 1995. Giacovelli, Enrico, Pietro Germi, Il Castoro cinema, 147, Firenze, Nuova Italia, 1991. Godelier, Maurice, Thomas R. Trautmann, and Franklin Edmund Tjon Sie Fat, Transformations of Kinship. Smithsonian series in ethno- graphic inquiry, Washington, Smithsonian Institution Press, 1998. Goody, Jack, Review of Maurice Godelier, Métamorphoses de la parenté, Editions Fayard, Librairie Arthème Fayard, 2004. In New Left Review 36, Nov-Dec 2005. Hauss, Charles (Chip), “Civil Society.” Beyond Intractability. Eds. Guy Burgess and Heidi Burgess, Conflict Research Consortium, University of Colorado, Boulder, Posted: August 2003. 12 Sep. 2009. . Klawanns, Stuart. In Divorce Italian Style: Special Edition of the Film. New York, Criterion Collection, 2005. Lenski, Gerhard Emmanuel, and Jean Lenski, Human Societies: An Introduction to Macrosociology, New York, McGraw-Hill, 1982. Levi-Strauss, Claude. The Elementary Structures of Kinship, Boston, Beacon Press, 1969. Johnson, Allen W., and Timothy K. Earle, The Evolution of Human Societies: From Foraging Group to Agrarian State, Stanford, Calif, Stanford University Press, 1987. Machiavelli, Prince. Moscon, Giorgio, and Pietro Germi, Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Roma, Edizioni F.M., 1961. Oppenheimer, Franz, The State; Its History and Development Viewed Sociologically, New York, Arno Press, 1972. Paoli, Letizia (2003), Mafia Brotherhoods: Organized Crime, Italian Style, Oxford/New York, Oxford University Press. Pasolini, Pier Paolo, Heretical Empiricism, Trans. Ben Lawton and Louise Barnett, ed. Louise Barnett, Washington, DC, New Aca- demia Publishing, 2005. Rpt. in honor of 30th Anniversary of Pasolini’s murder. Expanded with Pasolini’s “Repudiation of the Trilogy of Life”, trans. and introd. Ben Lawton, original ed. Bloomington, Indiana UP, 1988. 78

—, Nuovi Argomenti 20 (Oct./Dec. 1970) 166-176. Reprinted in Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico (Milano, Garzanti, 1972, pp. 273-80. Translated in Heretical Empiricism as The Unpopular Cinema (Pasolini, pp. 267-275). Rhodes, John David, “Divorzio all’Italiana: Divorce Italian Style.” In Bertellini, Giorgio, The Cinema of Italy. 24 Frames, London,Wallflower, 2004, pp. 113-121. Sesti, Mario, Tutto il cinema di Pietro Germi, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. Stella, Gian Antonio, L’orda: quando gli albanesi eravamo noi, Mila- no, Rizzoli, 2002. Tommaseo, Niccolo, Bernardo Bellini, and Giuseppe Meini, 186-72. Dizionario della lingua italiana, Torino [etc], Unione tipografico- editrice. 79 Alan Perry

Giovannino Guareschi and the Italian South in a Cold War Context

In May of 1960 the Archbishop of Bari, Monsignor Enrico Nicodemo, successfully blocked the Socialcommunist coalition (Giunta comunale socialista) of his city from participating in the ceremonial blessing of the waters during the annual Saint Nicholas celebration. Soon after- wards, both Leftist and Centrist newspapers, based mainly in the South, criticized the bishop’s action. «L’Unità» said the bishop had behaved like Don Camillo who tried to prevent Peppone and his men from being present at the benediction over the Po, and «Il Corriere Meridionale» accused the bishop of intolerance and incivility (Piantedosi 18)1. But the journalist behind Don Camillo, Giovannino Guareschi, applauded Nicodemo’s maneuver in «Candido». In his opinion, Nicodemo had simply defended the rightful respect due to the Church in making sure that a religious function did not acquire a political hue – the bishop had never aimed merely to disparage public officials. Guareschi then publicly thanked Nicodemo for having honored the Holy Office’s long- standing decree against Communism, since he thought that so many other prelates of late had ignored the excommunication injunction, thus unfortunately confusing the faithful with their silence (“La bolla” 1)2.

1 In the tale La processione, first included in a longer story entitled Passa il Giro, Don Camillo forbids Peppone and his men to march in the procession if they carry the Communist Party flag. In protest, Peppone’s men menace the entire town and keep people from joining the sacred rite. Don Camillo strikes out alone, therefore, followed only by a small dog. When he gets near the Po River, Pep- pone and his followers attempt to block Don Camillo from proceeding closer to the waters. But at the sight of the crucifix, they remove their hats, bow their heads, and make way out of respect so that Don Camillo may pass. French film director Julien Duvivier captures this moment nicely in Don Camillo (1952), the first cinematic adaptation ofMondo piccolo. 2 Specifically, Guareschi stated: “[...] ecco il gesto dell’arcivescovo di Bari rendere impossibile ogni equivoco. La Scomunica, uscita dalla clandestinità, agisce alla 80

Not surprisingly, Guareschi’s position in the Nicodemo affair mir- rored his consistent opposition to Communism. The Left had attem- pted a political maneuver in Bari, and Guareschi commented accor- dingly. Scholars may be surprised to learn, however, that Guareschi’s opposition to Communism, in this case, also encapsulates quite nicely the essence of his particular political posture regarding the South: that of a geographical area integral to the Italian state whose people, like all Italians, were susceptible to Communism’s allure. Had the Nicodemo affair occurred in any other part of Italy, Guareschi likely would have responded in much the same way. In other words, Gua- reschi cast his gaze upon the South inclusively: he took stock of its economic and social concerns as equal to those in other regions. Guareschi’s Southern stance was disarmingly simple, and, as the subject of our present inquiry, this theme deserves our attention for several important reasons. First, such a study permits us to see just how Guareschi saw the South as vital to Italy’s identity and economy – Guareschi never sustained the radical notion that the South should be abandoned or somehow geographically lopped off from the more productive North. Indeed, the subjective idea itself of distinguishing the North from the South and Northerners from Southerners seemed frivolous and unproductive to Guareschi. Second, an analysis of Gua- reschi’s attitude toward the South allows us to grasp that he did not see Southerners as somehow intrinsically inferior to Northerners. He admired Southern culture, and, had he lived into the 1980s, he would have railed against the platforms of the Lega del Nord. Finally, and as we have already glimpsed, such an inquiry helps us to appreciate all the more just how an anti-Communism bent animated the core of his writing; he couched almost all discussion of the South’s economic wellbeing in the context of opposition to Communism. Because most readers know Guareschi as the creator of the Mondo piccolo, we would do well to begin our survey with a consideration of Don Camillo stories.

luce del sole. Mentre, da un lato, il diavolo socialcomunisti si veste da frate e, con pie mossette, cerca il colloquio coi cattolici, dall’altro i cristiano-marxisti, presi da furore aperturista, assecondano il gioco del diavolo marxista: ci voleva proprio qualcuno che, da autorevole Sede, parlasse chiaro spiegandosi con un esempio pratico.” (“La bolla” 1). 81

The South in Mondo piccolo:

Interestingly, of Guareschi’s 346 Mondo piccolo tales, only one story, “Il Terrone” written in 1961, offers a full depiction of a Southerner. The vast majority of these stories, of course, focus on the Cold War adventures undertaken by the feisty priest Don Camillo and Commu- nist mayor Peppone as each tries to win the hearts of their local con- stituents in the Bassa region of the Emilia-Romagna3. In Il Terrone, Concetto Delisanti has immigrated to the Bassa and found clandestine work as a farm hand, helping the landowner Bozzoni till and super- vise a large tract of land. Don Camillo likes Concetto: he is affable, seemingly devout, and a hard worker. After some time on the farm, it comes to light that Concetto (“Il Terrone”) has had a relationship with Bozzoni’s daughter Desolina – a woman of immense size and strength – and she has become pregnant. Desolina wants to marry him, but Concetto concedes that he already has a family to look after in the South. Eventually his wife and eleven children come for him, demanding with theatrical shrieking and wailing that Bozzoni do him no harm. With Peppone present to ensure good public order, Concetto manages to extricate himself from the Bozzoni family. Immediately, he departs by train with his wife and children for the South. Don Camillo, however, suspects a ruse. For him, some aspects of this entire affair are shady, and he has a parishioner tail the family to the Piacenza train station where Concetto gets off and says good- bye to his family that continues to the South. Don Camillo allows Concetto to settle into a new place and then decides to confront him. Concetto confesses that he really was not married after all – he had hired a makeshift family from an employment agency in Milano to make a huge scene at the Bozzoni farm as a way to rescue him from

3 The “Bassa,” refers to the low lying stretch of land in the Po river valley plain that, in general terms, runs West to East from Piacenza to the small town of Brescello, and North to South from the Po river to the Apennine Mountains. As Guareschi states in his introduction to Don Camillo (1948): “Il Po comincia a Piacenza, e a Piacenza comincia anche il Mondo piccolo delle mie storie, il quale Mondo piccolo è situato in quella fetta di pianura che sta fra il Po e l’Appenino. [...] il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di ter- ra [... ] (Tutto don Camillo vi-vii). In Il compagno Don Camillo, a Communist delegate from Naples takes part in the tour of the Soviet Union, but this minor character does not shed any light on how Guareschi viewed the South. 82 his fate with Desolina. He also tells Don Camillo that he has gotten another woman pregnant but, unlike his experience with Desolina, he really loves her and wants to marry her. Don Camillo tells him: «Giovanotto, il tuo sporco gioco è finito: o sposi la poveretta che hai compromesso o ti vengo a prendere per il collo e ti faccio sposare la Desolina» (p. 2052). Concetto swears to marry his new flame, and two months later Don Camillo receives a letter from Naples. Concetto lets him know that he is on his honeymoon, but that he really did not have to marry his bride who was never pregnant. He had told this white lie simply because he did not want Don Camillo to force him to marry Desolina. In closing, Concetto asks him for a blessing: «Vostro devotissimo Concetto Delisanti, che implora, come regalo di nozze, la Vostra Benedizione» (p. 2053) Don Camillo fires off a quick letter consisting of a single line: «Va a farti benedire!» (p. 2053). Il Terrone provides light entertainment without moral overtones that point to any Communist threat, and the tenor of the story is ligh- thearted. Guareschi does indeed employ several Southern stereotypes to this story: Concetto is shifty, quick witted, an expert in the arte di arrangiarsi, and sexually prolific; he is supposedly duplicitous, promising to marry a woman he has gotten pregnant while he has a wife and eleven children back in the South. Peppone, struck by the size of Concetto’s family, alerts the reader to the stereotype that Sou- thern families usually consist of many children. Furthermore, Concet- to’s highly emotional wife also plays up a Southern stereotype; she is a good band-leader who, as a wonderful actress, orchestrates the pitched cries of her children to recover their father. The stereotypes, however, do not indict or pillory Southerners in a vengeful spirit, and neither does Guareschi come across as a bigot. The comic thrust of this tale does not develop at the expense of any stere- otypically Southern fault or shortcoming, but rather in Don Camillo’s play on words in response to Concetto’s irresponsible behavior. Don Camillo matches Concetto’s fertile imagination that allows him to get out of a sticky situation by basically telling him to go to hell through a blessing that Concetto himself has requested. Guareschi prizes the comic power of the double entendre of this tale and not the stereotypes. Having considered this tale let us now turn our attention to Gua- reschi’s military training, an occasion that gave him his only direct experience of the South4.

4 As numerous sociologists and historians have indicated, the notion of “the South” 83 Guareschi’s Sojourn in Potenza

Guareschi grew up in the heartland of the Po river valley in the Emilia- Romagna. Since his family was relatively poor, he did not venture away from home until he became a newspaper correspondent when he traveled to Marina di Massa in Tuscany to cover two University Fasci- st Group (GUF) camping expeditions in 1931 and 19325. Two years later, he journeyed much farther South, this time to Potenza where he attended Officer’s Candidate School (Scuola Allievi Ufficiali) from November 1934 to May 1935 when, toting his Voigtländer camera, he captured several images of the people and local surroundings of Poten- za and Melfi. Later, he placed many of the photographs he had taken in an album, and he wrote short descriptions about the images either on the photos themselves or directly underneath them. Guareschi’s chil- dren published these pictures in 2000 with Rizzoli’s Un po’ per gioco. Fotoappuunti di Giovannino Guareschi. The images indicate that the dress and habits of the local vil- lagers touched him: he took several shots of children at play in cobble-stoned piazzas, women washing clothes or drawing water in traditional costume, groups of young and old Southerners lin- ing up against sunlit walls to stay warm, orphans dressed alike who gave the Fascist salute, and shepherds who wore full-length capes (tabarri). The poverty of Basilicata’s residents undoubtedly struck him and added to his nostalgia for home. For example, on the back of one photograph of Potenza’s Modern Hotel that shows its modest entrance blocked by a small, horse-drawn buggy he wrote: «Vedi? È supremamente molto bello / Il ‘Gran Modern Hotel’ di Pecoriello... /La limousine che c’è ferma dinnante /non ti par d’una grazia affa- scinante?/Ebbene, questa gran magnificenza/è la cosa più bella di Potenza!/Ti spieghi quindi ben perché io adesso/Pensi con nostalgia a bordo del Gesso!»

is subjective. Readers may find a good essay on this point with John Dickie’s “Imagined Italies” in Italian Cultural Studies: An Introduction (1996). From all that I gather in evaluating his newspaper articles, Guareschi understood the South to include the islands of Sicily and Sardinia and those regions located primarily to the South of Lazio: Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, and Campania. 5 He reported on these events for the Corriere Emiliano with “24 ore coi gogliardi Parmensi a Marina di Massa” (1931) and “Quando piove sul bivacco dei gogliar- di” (1932). Several photographs of festive dinners under large maritime pine trees accompanied his articles. 84

Unfortunately, neither his girlfriend and future wife Ennia nor his family members saved any of his written correspondence from this period of time. If these documents were available, we could possibly have an excellent window onto his personal reaction to Southerners; however, these letters simply are not included in the vast personal material of his archive. Thus, to comprehend Guareschi’s impressions of the South obtained via his military training, we have to examine carefully the captions that he used to describe his photographs and engage in good visual analysis6. Beyond these pictures, however, the earliest critical material that we have to surmise how Guareschi took stock of the South comes through two short fables, one written at the end of World War II while Guareschi was still in Sanbostel, Germany as a newly liberated Prisoner of War, and another published two years after his return to Italy.

Impressions of the South in Light of Reconstruction

The English Army liberated Guareschi and his compatriots in April 1945 but forced them to remain in their Prisoner of War camp until proper means could be established to repatriate them7. During the following weeks, life grew tense for the former inmates because it seemed that family, loved ones, and Italians in general had forgotten them. Homesickness became increasingly more difficult to overcome, and certain political agitators within the camp helped to whip up trou- ble and dissent for their officers. Even a criminal element had grown in size: a few soldiers turned into petty hoodlums and spent their time stealing.

6 Guareschi also traveled with Ennia to Assisi in 1955 upon completion of his prison sentence in order to recharge spiritually and physically. In 1963 he spent several weeks alone in Rome to splice and edit newsreel footage that he used for his film La rabbia. He did not leave behind any personal impressions of Umbrians or Romans that offer insight to how he took stock of cultural habits of Italians from different geographical areas than his own. 7 The Germans had captured Guareschi in Alessandria on 9 Sep. 1943 after he had been recalled to active duty several months earlier. He refused to swear allegiance to the Third Reich and later to the Republic of Salò and spent the next twenty-one months interned in Germany and Poland. For more on this experience he shared with more than five thousand former Italian soldiers, see Schreiber’s I militari italiani internati nei Campi di Concentramento del Terzo Reich 1943-1945. 85

Having to face these conditions, Guareschi decided to allay ten- sions through entertainment in the form of radio broadcasts.He and a few friends founded “Radio B90” in his barracks. They set up a transmitter and placed loudspeakers throughout the camp, and then Guareschi provided everyone an initial program of story telling, shar- ing humorous political commentary, letter reading, and performing skits. As Guareschi recalled:

I programmi erano congegnati piuttosto bene perché compren- devano rapide chiacchierate orientative composte sulla base di notizie captate attraverso la radio, piccola posta, scenette e raccontini umoristici, le canzoni del Lager eccetera. [...] Natu- ralmente Radio B90, che parlava con la voce del buonsenso ed era da tutti ascoltata, dava un tremendo fastidio agli agitatori [...] i quali aspettavano avidamente l’occasione per crearci dei guai. (“La Radio B90” p. 241)

That moment unfortunately came when one of the radio commen- tators, Lieutenant Ravaglioli, expressed an opinion concerning the need for greater economic commerce and communication between the North and South. Ravaglioli’s words seem harmless enough, but we have to keep in mind that the agitators were simply looking for an excuse to feign offense and thus have reason to cause trouble. Here is what he said:

Il destino unitario dell’Italia esce riconfermato dalla crisi: il Nord e il Sud hanno sofferto troppo per la reciproca mancan- za. La penisola e le isole oltre che sede di un popolo che parla la stessa lingua, sono un solo ambito economico produttivo, un solo mercato, un solo deposito di stimoli e di idee. Eppure il cordone allacciamento Nord-Sud non fluisce scor- revolmente. Noi stessi siamo stati testimoni di due modi di procedere, di due temperamenti, di due ritmi diversi fra i differenti gruppi di regioni. Memore di un’altra rivoluzione che era stata fermata a Teano, il Meridione avrebbe dovuto rispiegare la bandiera del Risorgimento approntando idée e uomini onde affrancare generosamente le città settentrionali, oppresse dal tedesco, ma due anni passarono e non sorsero i Carnet dell’organizzazione e i trascinatori. La rivoluzio- ne, stava invece, ancora una volta, in attesa fra Alpi e Reno, riconfermandosi peculiare energia del settentrione. Non 86

dovremo però fare che questi due anni di inerzia siano titolo di condanna: per noi equivalgono piuttosto all’acuto sintomo di un male che va assolutamente risanato. Mettere a profit- to terra e uomini, svegliare il traffico, iniettare la febbre alle intelligenze, portare cioè le forze del meridione dalla potenza all’atto. Se fosse possibile ordinare in gerarchia i problemi della ricostruzione italiana, diremmo che questo è il principa- le. (“Ravaglioli” n.pag.)

Southern agitators in the camp pounced on this transmission, using it to create further discord. They affixed a large poster on the entrance door to Radio B90’s transmission station that read:

Cara Radio B90, per vostra buona norma trascriviamo quanto i meridionali desiderano far conoscere al signor Ravaglioli. Meridionali! Un microcefalo oratore da strapazzo della Radio B90 ha usato verso di noi parole non benevole e considera- zioni quanto mai offensive alla nostra dignità di italiani, alla nostra indiscussa sensibilità di meridionali. Fin quando detto signore non farà alla detta radio le dovete scuse riconoscendo pienamente la sua profonda ignoranza del Meridione e sui fatti che si sono susseguiti dal settembre 1943 in poi, noi pretendiamo che detta radio cessi la sua attività: in caso contrario provvederemo di conseguenza.” (“La Radio B90” p. 242)

What specifically the agitators found offensive with Ravaglioli’s harmless transmission calling Southerns and Northerners to col- laborate together remains unclear. But, the protestors showed up in large numbers at the radio barracks and clamored to burn it down. As Guareschi relates: «In prima fila i “civili” autoelettisi difensori del Sud armati di bastoni e di grosse latte vuote decisi a impedire la trasmissione e a distruggere la baracca. Dietro, gli altri ospiti del cam- po venuti parte per difenderci, parte per vedere come ce la saremmo cavata e parte per assistere all’incendio della baracca». (“La Radio B90” pp. 242-243). Guareschi seized the occasion to calm everyone’s nerves. Hav- ing frequently read stories and vignettes to his fellow inmates during the war as a form of entertainment, he naturally felt inclined to tell those assembled a fable about the need for true cooperation between 87

Northerners and Southerners because they were all Italians8. Here is the short fable I cavalli e il carro in full:

C’erano una volta due cavalli che si riposavano in un praticel- lo. A un tratto uno dei due sospirò: – Che vitaccia fare il cavallo! – L’altro cavallo che era molto suscettibile drizzò le orecchie: – Ci risiamo! – esclamò – Vuoi dire che fai tutto tue e che io non faccio niente – Il primo cavallo non voleva dire questo ma incominciò subi- to il litigio e i due turbolenti personaggi vennero presto alle mani, anzi: agli zoccoli. – Non è il caso che vi scaldiate così – osservò un gufo saggio che stanziava nei paraggi. – Possiamo fare quello che vogliamo, adesso – urlarono i due cavalli – Siamo liberi! – Il gufo sogghignò: – E tutte quelle cinghie che vi fasciano il corpo? E quel morso che avete in bocca e quelle stanghe che avete ai fianchi e quel carro che avete dietro? – I due cavalli rimasero un po’ male perché si erano dimenticati di essere aggiogati a un carro. Poi si ripresero e gridarono: – Va bene! Però sul carro non c’è più nessuno che ci prenda a legnate. Il padrone è ruzzolato giù nel burrone. Spezzeremo anche questi finimenti! – In quel momento arrivò sulla groppa dei due cavalli una robu- sta frustrata e allora essi si volsero e videro che, sul carro, al

8 To help him survive life in the German Lagers, Guareschi had kept a daily log of his emotions and experiences as well as a diary in which he jotted down his attempts to come to terms with various experiences of prison life. After he had elaborated his thoughts, he would share these reflections in public as a form of entertainment in attempts to raise morale. He spoke about everything from hun- ger and longing to see his children to his conception of humor. Often the shape of his creative resistance took the form of fanciful tales or fables. One of his fellow prisoners, Claudio Sommaruga reflected after the war: “Giovannino Guareschi, con le sue battute, teneva alto il nostro morale a pezzi e difendeva, serissimo, l’inseparabile bicicletta, da un teutone privo di senso dell’umorismo che tenta- va di convincerlo della inopportunità di questa esportazione (“Meglio morti che schiavi” 202). Because of Guareschi’s skill at storytelling, former internees who lived with Guareschi in the camps have called him the “cantore collettivo” of their travails (Nello 44). Guareschi published several of his tales and speeches in his Diario Clandestino (1947), and Guareschi’s children published others in Ritorno alla base (1989). 88

posto dell’antico padrone, c’era una bellissima donna vestita di rosso, di bianco e di verde e con una stella in fronte. – Avanti! – disse la bella signora – Muoviamoci che dobbiamo portare i mattoni per ricostruire la casa! – E allora i due cavalli si rimisero in cammino e conclusero sospirando che è un mestieraccio fare il cavallo. Proprio così: è faticoso fare gli italiani, amici miei, e il carro bisogna tirarlo tutt’e due in modo uguale e bisogna studiar di prendere la strada migliore, quella più breve e meno faticosa. Non occorre mettersi a litigare per mettersi d’accordo sulla strada da prendere. La favoletta è finita: speriamo adesso che il sindacato dei cavalli non insorga per dire che ho offeso i cavalli confron- tandoli agli italiani. E questo mi preoccupa perché – se incominciamo a litigare così fra i reticolati – i cavalli avrebbero ragione. (“La Radio B90” pp. 243-244)

Everyone readily understood the moral of the story: the North and the South, as parts, were both equals, and they had to collaborate quite well together in order for Italy as a whole to move forward. The fable and allegory struck its point, and the agitators quieted down and left peacefully. Since Guareschi had forced everyone to reflect and use reason, he effectively disarmed the dissenters. Twenty years later, he humor- ously wondered if nothing violent occurred after he had told his fable because both Southerners and Northerners believed that, in reality they were the horse, while their geographical cousins represented the donkey. As he said: «E avevano ragione tutti, in definitiva, perché aggiogati al carro dell’Italia, ci sono due cavalli che, troppo spesso, si comportano come due asini» (p. 244). Two years later Guareschi nicely provided an echo to I cavalli e il carro with I punti cardinali sono sei published in Italia provvisoria, an album that contains vignettes, stories, and newspaper clippings of many different facets of Italian cultural life in the dopoguerra – the black market, deep seated suspicions for former fascists, banditry, vendettas born out of the civil war, and the growing Communist men- ace. If I cavalli e il carro speaks to regional equality and the need for Northern and Southern unity, I punti cardinali sono sei addresses the subjectivity of regional identification. 89

Fijlaos, a foreigner who makes his home near the North Pole, deci- des to visit Italy. He arrives in Milan and, since it is a hot, beautiful day, tells a headwaiter in a restaurant that as meridionali, they are very fortunate because of the weather. The waiter quickly corrects Signor Fijlaos, informing him that he is in the North, and that Milan is the capital of the Settentrione. In Florence, Signor Fijlaos, takes a ride in a horse-drawn carriage, and, also impressed by the good weather there, informs the coach- man: «Beati voi meridionali». The coachman quickly turns around and exclaims that they are in Florence and «se i punti cardinali non sono una buggeratura, Firenze è nel settentrione» (p. 93). Signor Fijlaos continues on to Rome, and here too he could not contain from voicing his wonder at all of the marvelous ruins. He tells his tour guide that he should thank God for being a Southerner and able to have all of these attractions. But the guide, shocked at what he hears, stops in his tracks, grievously offended, and he informs Signor Fijlaos that he needed to get a new guide «perché lui con certa gente non si voleva compromettere» (p. 92). Finally, Signor Fijlaos makes it to Messina, gets off the train and has a porter carry his baggage. Since here too natural wonders abound, he just has to interject, «Come vi invidio, voi meridionali!». But the porter quite emphatically explodes, «qui mica siamo a Catania! Qui siamo nel settentrione!» (p. 93). Traveling to Catania, he thinks that he finally has it right but is told that Catania too was in the North and that he should not be con- fused with Capo Passero. Continuing on then to Capo Passero, the Southern most point in Sicily, the lets a barber know how lucky he is to be from the North. The barber, of course, grows indignant at such a suggestion, and tells him: «Signore mio: noi siamo meridionali e ce ne vantiamo!» (p. 93). Working his way by boat back up the peninsula, Signor Fijlaos keeps quiet with other passengers until he arrives in Naples, and real- izing the number of kilometers he has traveled from Catania, he hap- pily exclaims to the captain, «Voi settentrionali siete della gente privi- legiata!» (p. 93); however, he hears this heated response: «Napoli è la capitale del meridione! … E chi lo nega è un figlio di malafemmina!» (p. 93). At that point, Signor Fijlaos promises himself that he will not say another word about his presumed geographical location until he arri- 90 ves at Monte Bianco. But, upon climbing the slopes of the mountain, his guide begins to make small talk to him: «Vede, signore, a differen- za di voi settentrionali, noi meridionali...» (p. 93). So, when Signor Fijlaos gets back to his North Pole home, his fel- low townspeople ask him to relate what Italy was like, and he respon- ds: «L’Italia è un paese complicato perché là i punti cardinali sono sei: un est, un ovest, due nord e due sud.» (p. 93). The moral of this tale is also easy enough to comprehend. Through humor, Guareschi tells us that the distinction between the North and South geographically is quite subjective and, ultimately, makes no sense, or, that it should make no sense and not really matter to Italians at all. Some Southerners are indignant that they could be meridiona- li while others are not, and a Northerner calls himself a Southerner since he recognizes that Signor Fijlaos comes from more northern climes. When it comes to reconstituting a strong nation, geographical considerations thus bear little weight. As all of these tales illustrate, Guareschi saw the South and Sou- therners as a vital part of the young, post-Fascist Italian nation, and he thought that regional distinctions between the North and the South were absurd. For Guareschi, Italian identity and collaboration for the good of the nation claimed primacy. Regional distinctions were rela- tive and should mean little to Italians throughout the peninsula. As we will see, in «Candido», Guareschi held that a strong national collabo- ration could best thwart the spread of Communism.

«Candido» and the Need for a Vital South

A little more than six months after he had been liberated at the end of World War II, and at Angelo Rizzoli’s behest, Guareschi founded «Can- dido», a new weekly satirical newspaper with a political focus9. The

9 The satirical newspaper’s success is truly unparalleled and central to Italian Cold War culture. In La satira politica in Italia, Adolfo Chiesa documents: «Passano pochi mesi e «Candido» conquista decine, centinaia di migliaia di lettori, rivelan- dosi una delle iniziative editoriali più fortunate del dopoguerra. E nonostante il conservatorismo, l’innato spirito reazionario del suo animatore, «Candido» resta l’ultimo vero, grande satirico che l’Italia abbia avuto» (p. 154). Guareschi was editor-in-chief from 1946 until 1957 but continued to contribute articles until 1961. Three days after he decided to break definitively with «Candido», the new- spaper folded. 91 right wing, conservative publication spared no venom when it came to attacking Communist rhetoric. Guareschi maintained that, just as Fascism had duped Italians before the war, Communism robbed indivi- duals of their personal freedom to reason as individuals. Although not as apparent in the first years of the newspaper’s production, Guareschi also saw the same danger in the political power of the Christian Demo- crats and lampooned those who blindly followed them or sought to use ecclesiastical power to garner votes (Rossini p. 862; Chiesa p. 165). Separatist rhetoric also vexed Guareschi. He took issue with Prime Minister De Gasperi who espoused regional autonomy for Trentino Alto-Adige, Aosta, Sardinia, and Sicily (Lettera ai contemporanei, p. 3) because such a political position undermined attempts to create a strong central government. Indeed, he opposed “divismo” of any type, seeing separatism a force that could corrode the unity needed to fight Communism. He articulated the main thrust of this argument in early 1946:

Per noi l’unico vero nemico del nostro popolo è la retorica. La retorica ubriaca le masse, di qualunque colore esse siano, e le spinge a ricadere in errori fatali. Retorica, divismo e mancanza di senso umoristico: ecco i nostri più grandi guai. «Candido» vuole semplicemente aiutarvi a trovare la via dell’umorismo per mettervi in grado di combattere la retorica. Quindi trascura gli uomini e le loro piccole miserie personali e si rivolge solo verso il costume. Si potrà dire che noi non riusciamo a mettere in pra- tica le nostre idee. Si potrà dire che la nostra voce suona gracile in mezzo a questo vociare. Ad ogni modo l’intenzione è buo- na. L’inferno è lastricato di buone intenzioni, metteteci anche le nostre. Se non altro staranno al caldo. (Sotto l’ometto p. 1)10.

10 Guareschi continued his line of thought almost two years later in December 1947 when he further delineated for his readers «Candido»’s overarching political slant: «Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta, l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana e siamo perciò con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono. Quan- do, a nostro modesto avviso, qualcuno si distacca da questo principio, chiunque sia (fosse anche il nostro parroco) noi diventiamo automaticamente suoi avver- sari. Siamo contro ogni forma di violenza, e perciò non possiamo ammettere nessuna guerra santa. Per noi la guerra è sempre un delitto da qualunque parte venga dichiarata. La nostra strada è diritta e su di essa comminiamo tranquilli. Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto” (“Sotto l’ometto” 1). 92

Guareschi parodied the rhetoric of regional separatism in a short column he created entitled Nord-Sud and poked fun at the positions, stereotypes and perceptions the North and South held about each other. He signed commentary for the North as Cisalpinus and for the South as Terronius. But only three editions of this column made it to print – La chiesa: Nord-Sud; Il cavallo: Nord-Sud; and Il telefo- no: Nord-Sud – and they precede his more famous editorials Vista da destra and Vista da sinistra that began in 1947. In the three articles of Nord-Sud, Guareschi lays out the way the North and South differ in their perceptions of the Church, horses, and telephones. Cisalpinus haughtily denigrates the use of the horse, the quality of the telephone, and the backwardness of the Church in the South. Terronius always begins by saying that the North has yet again gotten the better of the South – «Il Nord ci frega, fratelli!»; «Perfino le cose della religione il Nord ci frega.» – but the South’s saints, food, and traditions make up for any shortcomings. In ridiculing the way both the North and South see each other, Guareschi echoed the spirit of his two fables we analyzed above: he saw debates springing from geographical differences as simply silly. He knew that the North and the South had cultural and economic differences. Yet, he hoped that his readers would understand that throughout the peninsula, a horse was a horse, a telephone was a telephone, and the Church was the Church. The differences in each region had no distinction: they were irrelevant. Guareschi communicated the force of his position directly to one of his readers, a man from Bergamo, who had written «Candido» to complain that the government in Rome consistently discriminated against Bergamascans by subsidizing labor projects in the South with their taxes. The reader wished that Italy could be divided in two south of Florence in order to form a confederacy of northern regions based on a Swiss model. Guareschi thoroughly chided his misguided notion:

A questo argomentare da povero diavolo si potrebbe risponde- re che, quando c’è poi da farsi scannare in guerra, a rischiare la ghirba sono le pallottole non ci vanno soltanto i bergamaschi o i lombardi, ma anche gli abitanti di Matera e Potenza: ma non entriamo in discussione con quella categoria di squallida gente del Nord che afferma convinta che «se si potesse fare un canale che divida l’Italia da Firenze in giù, dopo si organizze- 93

rebbe nel Nord una repubblica tipo Svizzera che sarebbe una pacchia perché il Nord produce tutto». Una repubblica mera- vigliosa dove ognuno avrebbe 150 biciclette, 36 automobili, 200 paia di scarpe, 9.000 vestiti e una locomotiva a testa dato che si potrebbe evitare di vendere al Sud la roba che il Nord produce (Lettera a contemporanei, p. 3).

As we can observe, Guareschi, with a good dose of sarcasm, remin- ded this reader that Southerners were every bit Italian as Northerners. In the immediate dopoguerra, «Candido» often covered Southern banditry in a straightforward, non-sensationalistic manner in the same vein as reporting about the violence that plagued the North. For example, Guareschi reported these crimes that took place in the South in the summer of 1946:

A Palermo, in seguito a voci allarmistiche, il panico piom- ba in una processione di 100 mila persone e non fuggi fuggi 30 rimangono ferite. Nei dintorni di Palermo fatterelli vari: una testa recisa esposta nella piazza principale di Brizzi; un capraio mitragliato e un commerciate pugnalato a S. Giuseppe e a Salaparuta: la centrale elettrica di Salemi danneggiata da banditi; l’autocorriera di Alcamo nuovamente depredata; due corriere ripinate presso Balestrate, un cadavere mutilato non ancora identificato a Campofiorito; due contadini assassinati a Mazzera; carabiniere assassinato a Gela. Il sindaco di Curo- nia dottor Basilio Merlini rapinato e sequestrato (Cronachetta rosa p. 2).

In the same article, he reported how Northern Italy also seemed to be coming apart at the seams:

Sparatorie e lancio di bombe contro le caserme di Udine. Tre uomini pugnalati in 24 ore a Trieste dove i titisti chiamano ‘reazionari fascisti’ a tutti coloro che sono favorevoli alla solu- zione italiana. [...] a San Marcello Pistoiese dove tale Trinche- ri lancia una bomba contro il giovane Siro Lotto [...] a Susa vola un’altra bomba a sfondo politico-passionale (p. 2).

These reports verify that he held no particular bias against Southerners for banditry because any number of brutal partisan reprisals occurred in the North. Indeed, agrarian lawlessness, violent strikebreaking, and 94 political assassinations provide the historical backdrop to several Don Camillo tales. Guareschi advocated a strong governmental campaign against the mafia, but he doubted that a capable Minister of the Interior could enact severe penalties against it. In one editorial, he recognized how Mussolini had effectively damaged the mafia because Cesare Mori had hounded Casa Nostra so methodically. He called for the gover- nment in Rome to commission another strong anti-mafia Prefect in Sicily, one that «non si contentasse di curare i bubboni con le pezzuo- le calde, ma che avesse il coraggio di affondare i bisturi nelle carni, quando è dal bisturi, e solo dal bisturi, che dipende la vita del pazien- te». (Paura in Sicilia p. 11). But, he questioned where such a Prefect could be found, a person whom the mafia could not buy off and whom the government would unstintingly continue to support:

è questo il vero problema ed è per questo che in Sicilia tutto rimarrà, come prima. Alcuni ‘mafiosi’ andranno al confine, altri torneranno dal confine, ma le fucilate “a lupara” segui- teranno ad uccidere ed a terrorizzare, e le nostre autorità di polizia continueranno a svolgere le solite indagini senza con- cludere nulla, per il semplice fatto che esse non sono material- mente in grado di poter concludere nulla (p. 11).

Here Guareschi captures the real challenge in trying to defeat the : without true, deep, and lasting financial, administra- tive, and moral assistance sponsored faithfully by Rome, the fight against the mafia remains listless, vain and perpetually lost11. Often in «Candido» Guareschi would take issue with the Italian government’s strong tendency to minimize private initiative and entrepreneurship in helping to develop the South economically. He thought the South had tremendous potential to develop as a tourist haven because of its striking, raw beauty. But, he opposed legislation sponsored by Rome to develop the South’s tourism industry because he thought that so many bills were misguided and intended rather for personal political gain. In a 1961 published editorial, Guareschi sha- red his thoughts on how best to help Calabria develop economically:

11 One of the most accessible works on the Sicilian mafia that provides insight to the tragedy of compromised government officials who collaborate with the mafia remains Alexander Stille’s Excellent Cadavers (New York, Vintage Books,1995). 95

La Calabria come altre regioni del Sud, è la regione dell’av- venire. Sarebbe però opportuno che i nostri governanti ci pen- sassero ora e non domani. È ora che per il turismo si devono creare le premesse d’un formidabile sviluppo. Così come per l’agricoltura i cui problemi devono essere affrontati subito se si vuole evitare d’intervenire quando oramai sarà inutile qua- lunque intervento. Troppa gente fugge da quelle regioni per trovare lavoro nell’Italia settentrionale o addirittura all’estero. Dopo tanti errori commessi negli scorsi anni è ora possibile sapere ciò che deve essere fatto e ciò che non si deve fare. Ma i nostri illustri governanti pensano solo alle aperture, alle convergenze e ad altre alchimie del genere. La sua proposta per l’olivicoltura ci sembra degna di essere presa in conside- razione, se non altro come base di partenza di una concreta discussione. Ma provi a prospettarla al nostro ineffabile mini- stro dell’Agricoltura. Sentirà che discorsi difficili. E tutto per non farne niente (Strettamente confidenziale p. 15).

The errors to which Guareschi referred while addressing the eco- nomic potential of Calabria relate to the mismanagement he saw as inherent in the Cassa del Mezzogiorno, a massive governmental initiative that Guareschi thought was fundamentally flawed becau- se, with central rather than local oversight, proper funds could never reach meaningful work projects. The central administration of the Cassa’s funds opened the door to corruption in the form of kickbacks and political maneuvering for votes: certain construction projects thus received funding over others that truly deserved higher priority (Il cassone per il Mezzogiorno p. 1). Financial support for the most necessary projects, especially water transport and highway construc- tion, went awry, and the Cassa never truly made inroads in elimina- ting the misery of the South. Both the corruption and inefficiency left the door open for local Communist Party (PCI) representatives that could sponsor programs which resolved the problems more compe- tently. As such, for Guareschi, the problem with allaying economic problems in the South had little to do with the South but everything to do with Rome:

In quanto alla guerra contro Roma [...] La combattiamo tut- ti noi italiani che vediamo con orrore avanzare minaccioso il mostro dello statalismo, e sempre di più vediamo osteggiata e svilita l’iniziativa privata. Tutti gli italiani onesti, democrati- 96

ci, liberi e veramente liberali sono contro Roma pianificatrice, accentratrice, statizzatrice (Nord contro Sud p. 2).

All Italians – Northerners and Southerners – had to fight the corrup- tion and mismanagement in Rome or risk total political control of Italy by the Communists. For Guareschi, the lack of economic vitality in the South, caused by Rome’s managerial ineptitude and corruption, was most definitely tied to the Cold War. In addition to the topics of Southern criminality and the Cassa del Mezzogiorno, Guareschi also commented on the plight of Sou- thern immigrants who migrated in droves to the North and faced the hardships of integration and discrimination12. The particular notion that Southerners had brought an inordinate influx of petty criminals and undesirables to Northern cities captured Guareschi’s interest, and in Nord e Sud, an article he wrote in 1961, he attempted to explain the reasons that account for Southern criminality in the North. In the process, he made a fascinating claim. Guareschi recognized that, at least according to newspaper reports and police blotters, recent Southern immigrants to the North had com- mitted an inordinate amount of petty crimes, and he wondered what really lay behind this spike in malfeasance. He wrote:

Quanti meridionali, dall’avvento dell’unità d’Italia a oggi, si sono trasferiti quassù al Nord? Centinaia di migliaia, milioni. In ogni tempo l’immigrazione dal Sud sovrappopolato e pove- ro è sempre stata massiccia, ma non s’è mai verificata una situazione come quella d’oggi. Mai come oggi gli immigranti meridionali hanno alimentato con le loro tristi imprese la cro- naca nera. Anzi, qua da noi, come dovunque li ha portati la loro fame, la loro intelligenza, il loro spirito d’iniziativa, gli italiani del Sud hanno dimostrato di essere soprattutto gente dotata di vivo ingegno, di grande spirito di sacrificio e di for- midabile volontà.

12 Millions of Italians moved from one region to another, primarily from the South to the North, during roughly a ten-year period (1953-1963) known by historians and sociologists as “The Economic Miracle.” Huge social upheaval followed with different cultures, customs, and dialects clashing in the urban environments of the industrial North. Excellent studies on this phenomenon include Crainz’s Storia del miracolo italiano (1996) and chapter seven of Ginsborg’s Storia d’Ita- lia dal dopoguerra a oggi (1989). 97

Com’è che, adesso, la qualità degli immigrati meridionali sembra violentemente peggiorata? Dobbiamo forse concludere che il livello morale del Mezzo- giorno si è abbassato? No: si è semplicemente abbassato il livello morale dell’Italia industriale (p. 1).

He went on to explain: «L’aria del Nord è cambiata. [...] oggi essa risulta respirabile ai buoni e ai cattivi, agli onesti e ai disonesti, ai laboriosi e agli sfaticati, a chi conosce un mestiere e a chi non ne conosce. [...] Il vero guaio è che l’aria del Nord è diventata respirabile anche per la feccia» (p. 1). Guareschi blamed the growth of a Southern criminal element in the North as a direct consequence of the Merlin Law that abolished regu- lated and legalized prostitution. This remarkable hypothesis implied that Southern pimps would have brought their prostitutes wholesale to the North in order to serve a greedy clientele in industrial cities:

Il male vero è che, eliminando ogni controllo sanitario e di polizia, la legge Merlin ha “rivalutata” la prostituzione ren- dendola un mestiere facile, senza pericoli, altamente reddi- tizio. Un vero “mestiere d’oro” che alletta sempre maggiore quantità di donne. Di conseguenza è diventata un “mestiere d’oro” anche quello del ‘prottetore’. Ed ecco richiamati a frotte nelle ricche città dell’Italia indu- striale dove ‘corre il soldo’ e la mancanza di case chiuse è maggiormente sentita, i talent scouts, gli art manager della prostituzione. Ecco tanto lavoro per i duri, i mafiosi e altra feccia. La legge Merlin, favorendo l’iniziativa privata e liberando la prostituzione da ogni controllo statale, ha fatto della pro- stituzione un mestiere ricco, un’industria rispettabile. E le mondane girano oggi al volante di scintillanti “Giuliette” e possono permettersi di regalare “Giuliette” e appartamenti ai loro “protettori”. Se la cronaca nera è piena di ignobili storie di prostituzione e di sfruttamento, ciò è dovuto principalmente alla nefasta vec- chia e ai suoi compari demagoghi che, invece di curare il male alle radici, hanno cauterizzato una piaga infettando così l’inte- ro corpo. È uno dei tanti delitti della demagogia. 98

Non è peggiorato il Mezzogiorno: è peggiorata moralmente l’Italia del “miracolo economico” e del “miracolismo politi- co” (p. 1).

Note that Guareschi does not blame the rise in criminality on the eco- nomic disparity between Southerners and Northerners. For him, Sou- thern immigrants, who are at the bottom of the economic food chain, do not themselves account for a greater number of crimes attributed to them since the vast majority of Southerners are dedicated to making an honest living. Rather, Southern crime in Northern cities finds root in the criminal element that emigrated North which now finds a ripe market for its various wares, especially as it relates to prostitution. For Guareschi, an explanation of both Southern and Northern ethical turpitude, based on market demand, better accounts for the crime. Guareschi then links moral degradation to Communist political opportunism:

Il PCI, che nel disordine ci sguazza, collabora validamente a richiamare al Nord gli elementi più violenti del Sud. Gli servo- no maledettamente perché hanno il coltello e la pistola “facili”. I comunisti curano amorosamente i ragazzi del Sud: ospita- no fraternamente i giovani meridionali di leva nei loro circoli rionali e vanno a visitare e a confortare i meridionali che lavo- rano all’estero. [...] I comunisti non dormono e, qualunque rogna tu gratti, trovi il ‘dritto’ comunista e il fesso democri- stiano. (p. 1).

These thoughts reflect Guareschi’s vintage summations about the evils that destroy the Italian society – chief among them being ram- pant self-gratification13. Ironically, of course, in presenting his case, he abstains from considering how legalized prostitution itself may be morally questionable and tied to greed. Furthermore, he does not explain specifically how members of the PCI recruit pimps to the

13 The second half of La rabbia, a collaborative film undertaken with Pier Paolo Pasolini in 1963, provides us with one of the best sources to understand Guare- schi’s moral positions. As he wrote in his notes for the screenplay, Guareschi prized three primary values: “La salvezza? [...] Dio, Patria, Famiglia: i luoghi comuni che fanno ridere gli intellettuali” (Notes, n.p). The destruction of these ideas, he believed, came at the hands of a materialistic society that was interested in self-pleasure and forgetful of the evils generated by both rampant Capitalism and oppressive Communism. 99

North, or how this party actually manages to inspire or sponsor crimi- nal acts. But, he makes the case that the PCI – Italian society’s major threat – takes advantage of the sexual egotism found in the North. Here the Southern problem, for Guareschi, is the moral laxness cre- ated by Northern greed that has greatly benefited from the abolition of a law and a boom in illegal prostitution. For Guareschi, the Com- munists, as usual, stand at the ready to take advantage of a societal illness and to help them grow in power. Moral brokenness threatens to engender greater Communist control. Articles written by other journalists for «Candido» further bolster our understanding of Guareschi’s Southern stance. As editor-in-chief, Guareschi provided his reporters a clear indication of his particular views on political, economic, and social issues, and, although not all articles directly reflect his own conceptions, his journalists almost always seconded the spirit and verve of his vision. Throughout Gua- reschi’s editorship from 1945 to 1957, regular reporting on the South focused on culinary and spiritual customs, geographical wonders, and Neopolitan music14. Of course, several essays also examined the eco- nomic challenges the South constantly faced because of flood and earthquake recovery, political corruption, and organized crime. The greatest coverage «Candido» provided of the South’s econo- mic struggles occurred over fourteen separate issues, was authored by Luigi Barone, and took place right as Guareschi faced a harsh libel suit brought by ex-Prime Minister Alcide DeGasperi in the late winter and early spring of 195415. Unfortunately, because his readers focu- sed on the accusations, the trial, and Guareschi’s subsequent sentence that sent him to jail, the full force of Barone’s exposé, entitled La

14 Several of the journalists who worked for Guareschi were Southerners. Massimo Simili frequently covered events in Sicily and signed his articles Il Terrone dei Mari. He refined much of his material that appeared in «Candido» and publi- shed Briganti and Baroni in 1955. Marco Zanfagna, Mario Ferraguti, Andrea del Giudice, and Franco Pagliagno reported often in columns such as Vita segreta (ma non troppo) della provincia italiana, «Corriere di Napoli», and «Corriere di Sicilia». Vittorio Paliotti contributed frequently to «Candido» with Napoli è tutta ‘na canzone, a column that explored Neapolitan singers, songs, and songwriters in great detail. 15 Both Paolo Tritto in Il destino di Giovannino Guareschi and Alessandro Gnocchi in Giovannino Guareschi. Una storia italiana provide excellent studies of the DeGasperi case and its accusations, proceedings and sentencing. My own analy- sis of the case was published in The Italianist, n. 25, 2005, ii: pp. 239-59. 100

Questione Meridionale, probably went unappreciated. Barone’s study read today still provides masterful insight to the various problems that continue to plague the South16.We can clearly appreciate the impor- tance Guareschi placed upon examining the South’s economic and social problems since he undoubtedly had to have paid Barone’s quite well for his research and because he gave so much printed space to Barone’s investigative reporting. Barone tackled issues such as the failure of the Italian government to develop industry in the South (L’automobile senza benzina); the problem of illiteracy and the terrible physical conditions of Southern schools (Linea Gotica anche per la Scuola); the South’s inability to develop its tourism industry because of lack of governmental spon- sorship (I miliardi dello Stato; Delitto e Rapina); the misappropria- tion of funding by the Cassa del Mezzogiorno (L’operazione Giraf- fa); and, the failure to develop adequate resources of running water (Problema numero uno: Acqua). The thrust of this long study aimed not to place blame on any ele- ment of the Italian government or society. Rather, Barone, and indi- rectly Guareschi, sought to inform readers about possible solutions to help resolve the problems that caused Southern economic, social, and political strife:

Finché esisterà un Nord e un Sud economico l’Italia non sarà mai una Nazione veramente civile perché è assurdo che in uno stesso Paese vi siano livelli di vita così disuguali e conseguen- temente costumi, mentalità e aspirazioni tanto diversi. La col- pa è di tutti: degli uomini del Nord e degli uomini del Sud, delle cose, dei tempi e della fatalità, del passato e del presente. Il contrasto tra il Nord e il Sud non è tra alacrità e pigrizia ma tra dinamica demografica e mezzi di lavoro. Nel Sud ci sono troppi uomini e troppi pochi mezzi. I modesti redditi del Sud non consentono che modesti consumi e modesti risparmi, cioè limitate possibilità di formazione di capitale e conseguente- mente investimenti minimi. Bisogna trovare una soluzione. (Nord e Sud: Attenzione! p. 22).

16 Several essays in Lumley and Morris’s The New History of the Italian South: The Mezzogiorno Revisited (1997) provide excellent background to help read- ers understand the intricacies of Southern economic and social problems. John Davis’s essay Changing Perspectives on Italy’s “Southern Problem” in Levy’s Italian Regionalism (1996) also sheds light on these matters. 101

The moral imperative of finding a resolution to this age-old pro- blem loomed large because of Communism. The autonomous statu- tes given to Sicily and Sardinia had not alleviated the travails and suffering; in fact, they had exacerbated them, and the Communist Party had grown larger in number in the South (Le smanie dell’au- tonomia p. 18). To stem this growth, the correct application of eco- nomic aid needed to take place, or the South would turn all the more to the PCI:

I comunisti sanno che la strada della miseria è la strada mae- stra che li conduce a controllare le leve di comando di una nazione, sanno che dove più arretrata è la vita politica e socia- le, là il terreno è più favorevole, sanno che il comunismo è un regime per popoli che vivano allo stato semibarbaro. Ed hanno iniziato la loro grande battaglia; la macchina del partito si è messa in moto, hanno inviato nel Sud i migliori funzionari, hanno organizzato corsi specializzati per attivisti meridionali, agiscono con prudenza, tramite le camere del lavoro, le leghe dei contadini, le commissioni interne. (Vandea p. 23)

The problem, Barone posited, had to be solved together, «tutti quanti, costi quel che costi», or the Communists would begin their conquest of all of Italy from the South (p. 23). Barone thus saw the Southern Question in terms of a potential Communist takeover, the same posi- tion, as we have observed, that his editor espoused.

Conclusion

Guareschi, a writer born and bred in the North, left a solid record of his thoughts about Southerners and the plight of the South in pho- tographs, published articles and editorials in «Candido», two short fables, and a Mondo piccolo tale. These documents allow us to ascer- tain his belief that Southerners were a vital and integral part of the Italian nation, and that they needed to serve Italy along with North- erners in order to ensure a strong state. For him, the idea of Italians discriminating against each other because of regional identity was folly because, in the end, geographical identity was fluid and subjec- tive. The tales I cavalli e il carro and I punti cardinali sono sei espe- cially speak to this end. 102

Furthermore, he was aware of the various stereotypes that charac- terized Southerners, and in Il Terrone he makes light fun of Southern- ers and their penchant for emotional outburst, big families, and artful deception. But he clearly does not communicate any spite for South- erners. Other writings we have examined also confirm this point. He did not think that Southerners had an innate and particular penchant for crime, and he held that Northerners were just as prone to violence because they had the same moral shortcomings and struggles. Guareschi understood that the South faced social and economic challenges that the North did not. The historical reasons for these challenges, however, did not cause him to look askance at the South. Rather, for him, finding solutions mattered: all Italians had to help the South recover economically so that Communism did not make inro- ads there and then eventually take over all of Italy. Guareschi thought that the government in Rome did very little in providing concrete solutions to help the South because of political intrigue and corrup- tion, and, as editor of «Candido», he exposed the rife mismanagement of the Cassa del Mezzogiorno. The Questione del Meridione for him was, in actuality, a question of governmental ineptitude and did not reflect anything inherently flawed with the South or Southerners. Pro- blems that Southern immigration caused in the North reflected short- comings in the moral fabric of Northerners alike. Guareschi may have hailed from the North, and the root and branch of his greatest literary creation, the Mondo piccolo, may have sprung from the Po river valley in the Emilia-Romagna. But, as we have come to understand in this inquiry, Guareschi was truly inclu- sive in the way he viewed the South, and, in a Cold War context, he embraced Southerners as fully Italian as he was.

Cited Works

Primary Sources:

Guareschi, Giovannino, Notes, La Rabbia, Roncole Verdi Archive (PR). —, Ravaglioli, Cordone Nord-Sud: Post d’Ascolto, Roncole Verdi Archive (PR), Foglio n. 58, 3 giugno 1945, n.pag. 103

Secondary Sources:

Barone, Luigi, Delitto e Rapina, «Candido», n. 11, 14 Mar. 1954, pp. 22-23. —, I miliardi dello Stato, «Candido», n. 8, 21 Feb. 1954, pp. 18-19. —, L’automobile senza benzina, «Candido», n. 14, 4 Apr. 1954, pp. 18-19. —, Le smanie dell’autonomia, «Candido», n. 16, 18 Apr. 1954, pp. 18-19. —, Linea Gotica anche per la Scuola, «Candido», n. 15, 11 Apr. 1954, pp. 18-19. —, L’operazione Giraffa, «Candido», n. 10, 7 Mar. 1954, pp. 18-19. —, Nord e Sud: Attenzione!, «Candido», n. 1, 3 Jan. 1954, pp. 22-23. —, Problema numero uno: Acqua, «Candido», n. 2, 10 Jan. 1954, pp. 22-23. —, Vandea o Stalingrado?, «Candido», n. 18, 2 May 1954, pp. 22-23. Chiesa, Adolfo. La satira politica in Italia, Roma and Bari, Laterza, 1990. Crainz, Guido. Storia del Miracolo italiano: culture, identità, trasfor- mazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1996. Davis, John A. Changing Perspectives on Italy’s “Southern Prob- lem”. Italian Regionalism: History, Identity, Politics, ed. Carl Levy, Oxford and Washington DC, Berg, 1996, pp. 53-68. Dickie, John, Imagined Italies in Italian Cultural Studies: An Intro- duction, eds. David Forgacs and Robert Lumley, Oxford, Oxford UP, 1996, pp. 19-33. Ginsborg, Paul. Il “miracolo economico”, la fuga dalle campagne, le trasformazioni sociali, 1958-63. Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi: società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, pp. 307-43. Gnocchi, Alessandro, Giovannino Guareschi: Una storia italiana, Milano, Rizzoli, 1998. Guareschi, Giovannino, “24 ore coi goliardi parmensi a Marina di Massa”. Parma di una volta, ed. Tiziano Marcheselli, Parma, Gra- fiche Step, 2007, pp. 136-141. —, Cronachetta rosa, «Candido», n. 26, 29 June 1946: 2. —, Diario Clandestino, Milano, Rizzoli, 1949. —, Il Cassone per il Mezzogiorno, «Candido», n. 17, 24 Apr. 1960, p. 1. 104

—, Il cavallo: Nord-Sud, «Candido», n. 25, 22 June 1946, p. 1. —, Il compagno Don Camillo, Milano, Rizzoli, 1963. —, I punti cardinali sono sei. L’Italia provvisoria, New Edition, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 93-94. —, Il telefono: Nord-Sud, «Candido», n. 26, 29 June 1946, p. 1. —, Il Terrone. Tutto don Camillo, Alberto and Carlotta Guareschi, eds. Milano, Rizzoli, 1998, pp. 2044-2053. —, La “bolla” addormentata nel bosco, «Candido», n. 21, 22 May 1960, p. 1. —, La chiesa: Nord-Sud, «Candido», n. 27, 6 July 1946, p. 1. —, La Radio B90. Vita con Giò. Milano, Rizzoli, 1995, pp. 234-245. —, La processione (‘Passa il Giro’), Tutto don Camillo, eds. Alberto and Carlotta Guareschi, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 90-96. —, Lettere ai contemporanei, «Candido», n. 6, 8 Feb. 1948, p. 3. —, Nord contro Sud, «Candido», n. 25, 17 June 1956, p. 2. —, Nord e Sud, «Candido», n. 35, 27 Aug. 1961, p. 1. —, Paura in Sicilia, «Candido», n. 37, 9 Sept. 1956, p. 11. —, Quando piove sul bivacco dei goliardi. Parma di una volta, ed. Tiziano Marcheselli, Parma, Grafiche Step, 2007, pp. 142-144. —, Qui, con tre storie e una citazione si spiega il mondo di “Mondo piccolo”. Tutto don Camillo, Milano, Rizzoli, 1998, pp. V-XXI. —, Ritorno alla base, Alberto and Carlotta Guareschi, eds. Milano, Rizzoli, 1989. —, Sotto l’ometto, «Candido», n. 1, 5 Jan. 1946, p. 1. —, Sotto l’ometto, «Candido», n. 49, 7 Dec. 1947, p. 1. —, Strettamente confidenziale, «Candido», n. 39, 24 Sept 1961, p. 15. —, Un po’ per gioco – Fotoappunti di Giovannino Guareschi: Le sue fotografie dal 1934 al 1952, Milano, Rizzoli, 2000. Lumley, Robert and Jonathan Morris, eds. The New History of the Italian South: The Mezzogiorno Revisited, Exeter, Eng., Univer- sity of Exeter Press, 1997. Perry, Alan R., “No, niente appello!”: How De Gasperi Sent Guares- chi to Prison. «The Italianist», n. 25, 2005, II, pp. 239-259. Piantedosi, Claudia, Fu contesa stile Peppone e don Camillo, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 May 2008, p. 18. Rossini, Mariella. Umoristi e stravaganti del novecento. Letteratura italiana contemporanea, vol. 2, ed. Gaetano Mariani, Rome, L. Lucarini, 1980, pp. 845-882. Schreiber, Guido, I militari italiani internati nei Campi di Concen- 105

tramento del Terzo Reich 1943-1945, Roma, Industria Poligrafica Arte della Stampa, 1992. Simili, Massimo, Briganti e Baroni, Milano, Rizzoli, 1955. Sommaruga, Claudio, “Meglio morti che schiavi”: Autonomia di una resistenza nei lager nazisti. «Studi Piacentini: Rivista dell’Istituto storico della resistenza di Piacenza», n.3, 1988, pp. 199-228. Stille, Alexander, Excellent Cadavers: The Mafia and the Death of the First Italian Republic, New York, Vintage Books, 1995. Tritto, Paolo, Il destino di Giovannino Guareschi, Matera, AltreMuse Editrice, 2003.

Filmography:

Guareschi, Giovannino and Pier Paolo Pasolini, La rabbia, 1963. Duvivier, Julien, Don Camillo, 1952. 106 107 Antonio C. Vitti

La Resistenza nel cinema italiano: una memoria divisa

Ogni contrada è patria del ribelle, Ogni donna a lui dona un sospir, nella notte lo guidano le stelle forte il cuor e il braccio nel colpir. (Fischia il vento, testo di Felice Cascione, 1944)

Qualche badogliano propose di contrattaccare con una loro propria canzone, ma gli azzurri, … quale canzone potevano opporre, con un minimo di parità, a quel travolgente e loro proprio canto rosso? … Essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone. (Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny)

L’esaltazione della Resistenza come guerra patriottica (1943-45)1 ha consentito all’Italia e agli Italiani di superare e di dimenticare rapida-

1 I film maggiori sulla Resistenza italiana in cui i combattenti appaino come parti- giani sono: Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1945 Giorni di gloria di Luchino Visconti, Marcello Pagliero,Giuseppe De Santis e Mario Serandrei, 1945 Paisà di R. Rossellini, 1947 Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, 1949 Il generale Della Rovere di R. Rossellini, 1960 Tutti a casa di , 1960 L’Agnese va a morire di , 1961 Una vita difficile di , 1961 L’oro di Roma di , 1961 Le quattro giornate di Napoli di , 1964 108 mente la storia fascista. I sacrifici degli antifascisti hanno dato all’Ita- lia il diritto di autogovernarsi e la possibilità di essere inclusi nel club delle democrazie del dopoguerra. Salò, l’altra faccia della medaglia, soltanto verso la fine degli anni settanta è stato affrontato dalla storio- grafia italiana. Nel 1979 Gian Piero Brunetta scriveva:

“Il periodo di Salò costituisce una pagina di storia nazionale e di storia del cinema italiano che, solo da poco, si è cominciato a studiare … La storia di Salò costituisce quasi un linfonodo malato e cancerogeno nel vissuto collettivo che, per un tacito accordo tra soggetti che l’hanno vissuto, è stato rimosso dalla memoria2.

La Resistenza come guerra di liberazione inoltre è la base della reden- zione che ha risparmiato all’Italia umilianti conseguenze internazio- nali di stato sconfitto. Come ha affermato lo storico Renzo De Felice, la Resistenza è stato un grande evento storico che nessun revisionismo potrà mai negare. Nella seguente relazione saranno esaminate le rap- presentazioni cinematografiche dei film più importanti che riflettono la politicizzazione e le diverse fasi storiche in cui il cinema italiano ha narrato la Resistenza e la lotta dei partigiani. Il primo periodo storico in cui il cinema si è interessato della Resistenza, va dagli ultimi anni della guerra all’immediato dopoguerra fino alle elezioni del 1948. Il secondo comprende l’epoca della Guerra Fredda e il terzo comprende il periodo dalla fine della Guerra Fredda, il cosiddetto Disgelo, al con- temporaneo con dentro il post sessantotto e il terrorismo, il compro- messo storico, la caduta del comunismo e il periodo che vede l’entrata nel governo del Primo Ministro Silvio Berlusconi degli ex-neofascisti di Alleanza Nazionale.

C’eravamo tanto amati di , 1974 Novecento di Bernardo Bertolucci, 1976 La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittori Taviani, 1982 Nemici di infanzia di Mangi 1995 Porzûs, di Martelli 1997 Piccoli maestri, di Daniele Luchetti, 1998 Il partigiano Johnny di Guido Chiesa 2000 Sangue dei vinti di Michele Soavi, 2008 Miracolo di Sant’Anna di Spike Lee, 2008 L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, 2009 2 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945. (Roma: Editori Riuniti, Seconda edizione giugno 2001), P. 346 109

Il 10 settembre 1943 Roma fu occupata dai Tedeschi. Prima della sua liberazione, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Mario Socrate, Aldo Scagnetti, Franco Calamandrei e Antonello Trombadori scris- sero una sceneggiatura sulle attività del Gruppo d’Azione Partigiana (GAP), partigiani urbani della capitale, lavorando segretamente nello studio del produttore Alfredo Guarini in Via del Traforo a Roma. Il progetto era stato promosso da Trombadori, il quale aveva esperienza diretta della guerriglia urbana. Il progetto deve essere registrato come uno dei primi tentativi di riprendere le attività dei partigiani a Roma, anticipando Roma città aperta di R. Rossellini. All’interno della sce- neggiatura compariva una notizia del tempo, ovvero l’incidente di una donna colpita a morte da dei proiettili tedeschi in Viale Giulio Cesare. La ricostruzione dell’evento fu in seguito inserita in Roma città aperta e la scena fu interpretata da Anna Magnani. Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, non era più possibile impedire la produzione cinematografica e coloro che erano coinvol- ti nella cinematografia, appartenenti a qualsiasi movimento politico clandestino, si unirono nel nuovo Sindacato Lavoratori del Cinema, per dare vita ad una nuova industria cinematografica italiana. Tuttavia gli alleati la pensavano in maniera diversa. In una direttiva consegna- ta dall’ammiraglio di divisione americano Emery W. Stone, dichia- rarono che la nuova Italia non aveva bisogno di una nuova industria cinematografica. Affermarono inoltre che quella esistente, una crea- zione del fascismo, doveva essere smantellata. Giorni di gloria e La nostra guerra entrambi del 1945 sono i primi film documentaristici sulla Resistenza e sulla lotta antifascista. Il primo è il risultato della collaborazione fra Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero, Luchino Visconti e Mario Serandrei, che si occu- pò del montaggio e della supervisione generale. Questo film a episo- di è la celebrazione della fine del fascismo, di una ritrovata libertà e un invito aperto ad unirsi nell’obiettivo comune di creare un futuro migliore. Il film combina spezzoni di cinegiornale, materiale docu- mentaristico girato durante la guerra ed episodi ricostruiti della lotta partigiana. I commenti furono scritti da Umberto Barbaro, il quale è anche il narratore di uno degli episodi del film. Il materiale docu- mentaristico e le sequenze ricostruite delle lotte partigiane utilizzano un linguaggio cinematografico molto simile a quello impiegato dai registi durante il fascismo. Le somiglianze sono evidenti nel ritmo, negli approcci iniziali, nei tagli e nelle soluzioni stilistiche. I parti- 110 giani in azione o mentre prendono posizione sono rappresentati in atteggiamenti eroici, mentre il loro valore e il loro impegno sono sottolineati dalle affermazioni retoriche del narratore. Le sequenze che celebrano la liberazione delle città settentrionali sono anch’esse girate nello stile dei documentari di LUCE. I partigiani che marcia- no sono ripresi da sotto, in inquadrature ad angolo basso, mentre la cinepresa stacca spesso sulla folla esultante, ripresa con un’ango- lazione leggermente rialzata per dare l’impressione di un maggior numero di persone e per enfatizzarne la solidarietà. Alfonso Canzia- ni, riferendosi a Giorni di gloria,3 scrisse che probabilmente questo segnava l’inizio della celebrazione retorica della Resistenza. Canzia- ni aggiunse che alcune sezioni degli episodi di Visconti, Pagliero e De Santis ostentavano una rottura con il linguaggio cinematografico dei precedenti film sulla guerra. Visconti ebbe la fortuna di registrare il processo di Pietro Caruso4, capo della polizia fascista di Roma durante l’occupazione tedesca, e la sua successiva esecuzione assieme al suo collaboratore Pietro Koch. Le riprese del procedimento penale dimostrano l’estrema abili- tà di Visconti nell’elaborare una notizia di cronaca in un episodio nar- rativo in grado di catturare l’attenzione del pubblico. La tensione del momento è comunicata attraverso un’alternanza di primi piani degli accusati e dei loro avvocati con campi lunghi che rivelano le reazioni della folla, dei testimoni e dei parenti delle vittime. Al fine di utiliz- zare al massimo le possibilità drammatiche del momento, Visconti utilizza due macchine da presa. Questo gli permette di immortalare anche il più piccolo dettaglio, come il gesto irato di una mano o le rughe sul volto di una donna disperata. De Santis, incaricato in un primo momento di filmare le sequenze sull’esumazione dei corpi, fu sopraffatto dalla nausea nell’entrare nelle catacombe. Il compito fu pertanto affidato a Marcello Serandrei e a De Santis toccò il terzo episodio, che racconta la ricostruzione della nazione. Il tono di que-

3 Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 270. 4 Luchino Visconti fu arrestato dai tedeschi durante il rastrellamento che seguì la fucilazione di 335 ostaggi italiani alle Fosse Ardeatine, nel marzo del 1944. Il massacro fu compiuto dai tedeschi come rappresaglia per gli attacchi dei par- tigiani contro le loro truppe appostate a Roma. Visconti, condannato a morte, evase di prigione con l’aiuto delle guardie e, nel 1945, tornò a lavorare a teatro fino a quando un gruppo americano di guerra psicologica gli chiese di riprendere i processi e le esecuzioni di Pietro Koch e Pietro Caruso. 111 sta sezione è molto ottimista e mostra ciò che le nuove forze stanno facendo per ricostruire l’Italia dalle rovine della guerra. L’influenza del cinema realista russo è molto evidente. L’approccio utilizzato nel descrivere la ricostruzione urbana e le tecniche con cui sono presen- tati i lavoratori coinvolti richiamano alla memoria Sergei Eisenstein e Dziga Vertov. Il treno che attraversa il ponte appena ricostruito nel- la scena conclusiva anticipa lo spezzone del treno in Caccia tragica (1946), primo film di De Santis, che attraverserà le pianure dell’Emi- lia Romagna trasportando i veterani di guerra, film che potrebbe esse- re anche letto come ultimo testimone delle lotte contro i fascisti e proprietari terrieri per il mantenimento delle cooperative contadine. Roma città aperta di R. Rossellini (1945) divenuto il manifesto per eccellenza del cinema italiano resistenziale nel mondo coincide con un determinato momento storico in cui il Sud è liberato, il Nord ancora occupato e Roma è sotto l’occupazione nazista e i fascisti han- no un ruolo subordinato di collaboratori benché reggano il governo della città. La storia del film racconta la lotta che contrappone da una parte i Tedeschi e Fascisti contro un gruppo che lotta per la libe- razione. I partigiani offrono un quadro vario delle differenti anime della Resistenza. Il più importante antifascista è il comunista Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero) responsabile della giunta del Comitato di Liberazione Nazionale interamente dedico alla lotta. Lo vediamo in azione contro i Tedeschi per liberare il partigiano Francesco (Fran- cesco Grandjacquet). Manfredi è torturato dal Maggiore Bergmann (Harry Feist) ma preferisce morire che tradire i suoi compagni. Pina (Anna Magnani) organizzatrice dell’assalto ai forni è una donna del popolo che vorrebbe una vita normale per potersi dedicare alla fami- glia. Collabora alla sconfitta dell’invasore, al fianco del suo uomo che viene ucciso mentre lei rincorre il camion che lo deporta. Film archetipo ma non al di fuori di ogni ideologia com’è stato sempre ripetuto. Don Pietro (Aldo Fabrizi), il sacerdote che collabora con i partigiani è il personaggio intorno al quale è costruito il messaggio resistenziale del film. La scena della tortura è costruita intorno alle parole del sacerdote che maledice i Tedeschi che cercavano di far presa sulle diversità tra i gruppi dei partigiani. Anche i ragazzi guidati da Romoletto, il futuro della nazione, imitano l’insegnamento degli adulti partigiani nelle loro azioni di guerriglia, ma per gli ideali futuri alla base della ricostruzione della nazione dovrebbero rifarsi a quelli del mondo cattolico, riferimento esemplificato dalla Cupola di San 112

Pietro sullo sfondo mentre il gruppo dei ragazzi si allontana dal luogo dove è avvenuta la fucilazione di Don Pietro5. Nel 1946 esce Paisà diretto da Roberto Rossellini che rievoca l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Settentrione. Il film è costituito da sei episodi che seguono l’avanzata dell’esercito alleato dallo sbarco in Sicilia, a Napoli, alla liberazione di Roma, la lotta per la liberazione di Firenze, la pausa nel convento nell’Appennino Emiliano e l’ultimo episodio a Porto Tolle nel Polesine prima della fine del conflitto. La narrazione del film sacrifica la rappresenta- zione individuale mostrando la somma delle esperienze e il senso dell’itinerario geografico diventa la risalita morale e la testimonian- za del riscatto collettivo degli italiani nella lotta contro l’invaso- re tedesco. Nel quarto episodio a Firenze la liberazione della città avviene anche per il contributo dato dai partigiani nella lotta casa per casa. La morte di Guido annunciata da un compagno partigia- no morente diventano iconografie dei giovani italiani morti per la liberazione. Nel sesto episodio durante l’inverno del 1944, lungo la foce del Po, la lotta vede in primo piano i partigiani insieme a truppe di paracadutisti americani. Nella dura battaglia il film mostra le violente rappresaglie dei nazi-fascisti, anche sui civili inermi e sugli eroi partigiani. I cadaveri dei partigiani che galleggiano con i cartelli attestano una rappresentazione scenica della legittimazione del diritto nazista di giustiziare il nemico ma per i partigiani diventa la denuncia dell’oppositore al nemico che delegittima i loro diritti. Il partigiano in ginocchio sulla sabbia che usa l’ultimo colpo rima- stogli sparandosi in bocca per non cadere nelle mani dei Nazisti, diventa l’icona dell’autodeterminazione e del riscatto di un popolo che lotta per la propria dignità e libertà. Il sole sorge ancora (1947)6 di Aldo Vergano e Giorni di gloria di L. Visconti, M. Pagliero, G. De Santis e M. Serandrei devono essere

5 Carlo Lizzani nel volume Cinema italiano, (Roma: Parenti, 1961), esaltò la forza del film nella molteplicità dei vari elementi, donne, bambini, il prete, il comuni- sta e tutto il quartiere che lottavano insieme per la stessa causa e definì il film la prima testimonianza poetica della Resistenza. 6 La sceneggiatura è di Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Aldo Vergano, tutti presenti anche nel cast: Lizzani è Don Camillo, De Santis è Tonino (l’inserviente del conte), Vergano è un ferroviere e Aristarco figura nel gruppo dei partigiani insieme al critico Glauco Viazzi. Il giovanissimo Gillo Pontecorvo interpreta la parte di Pietro, l’operaio fucilato, mentre il poeta appare brevemente nel ruolo di un macchinista. 113 considerati tra i pochi film dell’immediato dopoguerra che a differen- za degli altri film che hanno trattato la Resistenza oltre a esaltare lo spirito di rivincita che il popolo italiano aveva dimostrato durante la Liberazione, affrontano il problema della responsabilità storica degli Italiani nell’avere prima appoggiato il fascismo e poi per il ruolo avu- to da alleati dei nazisti. Nel primo film la Resistenza ha anche una forte componente di lotta sociale e la borghesia è chiamata in causa direttamente7. Per ritrovare l’impostazione storico-critica che distin- gue i film in questione bisogna arrivare agli anni settanta, decade in cui il cinema italiano affronta il problema della responsabilità e si inoltra nei controversi problemi politici di chi erano i collaboratori e chi i veri fascisti. Il sole sorge ancora fu finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) e prodotto dall’ex comandante dei parti- giani, Giorgio Agliani, che fungeva da consulente e il regista Aldo Vergano. Vergano era stato preferito a Goffredo Alessandrini perché il primo era stato un antifascista mentre il secondo aveva avuto a che fare con l’industria cinematografica fascista8. Alla sua uscita, il film venne criticato per il suo eccesso stilistico, per l’uso di elementi ete- rodossi nel lessico del film e per la riduzione del mondo ad una lotta manichea tra classi sociali rigide. L’influenza dei western americani è evidente nelle scene finali del film. Qui, sulle pianure lombarde, i partigiani organizzano l’ul- tima carica contro i Tedeschi. Scendendo dalle colline in groppa a un cavallo o nascosti come indiani in mezzo a branchi galoppanti, gli antifascisti aiutano eroicamente i contadini nella rivolta. Anche lo stile delle riprese ricorda quello utilizzato in molti western, con una serie di stacchi veloci fra primi piani di contadini che sparano dalle finestre e soldati tedeschi nei cortili sottostanti. Il sole sorge ancora (1947) come attesta il titolo, continua il discorso sulla lotta antifa-

7 «Il difetto organico del film non consiste, come ha scritto tanta gente, nel fatto che la polemica sociale, che vi è sottintesa, è basata su accuse inconsistenti, su caratteri astratti, su circostanze che non hanno riscontro […] ma nel fatto che la fantasia, la forza motrice del regista Vergano, non sono riuscite a rendere corpu- lente, per dirla col Vico, efficaci e correnti quelle grottesche immagini borghesi. Il dialogo reticente e l’interpretazione, approssimativa e distratta, non han gio- vato a dar carne sangue e nervi alla volonterosa, e per certi versi ispirata, regia di Vergano» P. Bianchi, «Candido», 18 gennaio 1947. http://www.cineclub.it/cine- clubnews/cn0303-i.htm 8 Giuseppe De Santis, “L’ANPI presenta,” p. 119. 114 scista e sulla ricostruzione nazionale intrapreso con Giorni di gloria dagli ex-collaboratori della redazione della rivista Cinema. Sia la tra- ma che la sceneggiatura furono scritte da De Santis e Guido Aristarco, che fornì informazioni di prima mano sulla Resistenza milanese, e Carlo Lizzani, che recita anche il ruolo principale di Don Camillo, il prete. Prima dell’inizio delle riprese De Santis, assieme a Lizzani e a Massimo Mida Puccini, si era trasferito a Milano per rilevare la rivista Film da Mino Doletti, ribattezzata Film d’oggi. De Santis, il cui ruolo era prevalentemente consultivo, continuò a pubblicare occa- sionalmente degli articoli, uno dei quali, “La giusta via,” annunciò Il sole sorge ancora, che considerava un punto di riferimento per il cinema realista italiano9. Nel 1952 in piena Guerra Fredda esce Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani non a caso vincitore del premio per la miglior regia al festival di Karlovy Vary10. Ambientato sulle Alpi Liguri racconta le ultime fasi della seconda guerra mondiale, protagonisti una brigata di partigiani sotto il comando di Vento (Giuseppe Taffarel) e del commissario poli- tico Lorenzo (Giuliano Montaldo) che dopo aver trovato la propria staffetta impiccata dai nazisti, si infiltrano in una fabbrica di macchi- nari che nasconde un deposito di armi necessarie per continuare le attività partigiane. Per trafugare le armi devono circonvallare i soldati tedeschi che vogliono smantellare la fabbrica per spedire i macchinari in Germania. I partigiani decidono che per liberare la fabbrica devo entrarci nottetempo e attaccare i tedeschi per poi fuggire con le armi. Eroicamente i partigiani mettono in atto il piano ma i soldati nazisti dopo aver ammazzato il capo fabbrica uccidono anche altri partigiani che cadono combattendo. Il colpo di scena che porterà alla vittoria dei partigiani arriva quando gli alpini che erano al fianco dei tedeschi si uniscono agli antinazisti e configgono il nuovo nemico e poi uniti creano con i sopravvissuti una nuova brigata e insieme si rifugiano in montagna. Il film deve essere annoverato come l’unico esempio di lotta partigiana in una fabbrica luogo poco visitato dal cinema italiano. La realizzazione del film di Lizzani è anche un’esperienza qua- si irripetibile nel cinema italiano che deve essere inclusa per poter valutare l’importanza di questo film perché aiuta anche a capire il

9 Giuseppe De Santis, citato da Mira Liehm in Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, Los Angeles, University of California Press, 1984, p. 61. 10 Durante la Guerra Fredda il Festival subiva la politica culturale del regime sovie- tico che spesso invitava e premiava film di autori italiani vicini al PCI. 115 momento storico e la spinta ancora esistente nel cinema italiano di sinistra. Lizzani stesso ha raccontato11 che l’idea del film nacque dopo una proiezione de La terra trema di Luchino Visconti in cui il regi- sta dichiarò che la trilogia di cui il film in merito apparteneva non si sarebbe realizzata a causa di mancanza di finanziamento. Viscon- ti aveva rinunciato a portare a termine la trilogia per mancanza di produttori disposti a finanziare il proseguimento del progetto. Massi- mo Girotti e Luchino Visconti lanciarono un’iniziativa. Giuliani De Negri e Giuseppe Dagnino furono i fondatori della cooperativa voluta dagli operai per finanziare il film. Le quote costavano 500 lire. La cooperativa raccolse fondi dal basso confidando in eventuali proven- ti per recuperare le spese. Questa coraggiosa iniziativa, nata come risposta all’industria privata che si rifiutava di finanziare film politici, deve essere vista come una dimostrazione del contrario di quanto si dicesse all’epoca e si continua a scrivere riguardo al gusto del popolo di non amare i film impegnati. Il film di Lizzani è una produzione dal significato progressista, il frutto di una comunità e di finanzia- tori non tradizionali che riuscirono a produrre un film che dovrebbe essere considerato un prodotto collettivo voluto da tanti che vollero raccontare e testimoniare quello che avevano vissuto. L’entusiasmo degli ex partigiani che collaborarono insieme all’iniziativa della pro- duzione contrasta con il pessimismo dell’industria cinematografica che all’epoca secondo la testimonianza di Lizzani stesso gli consiglia- va di non fare un film sulla Resistenza già considerata un argomento anacronistico e di poco interesse pubblico12. Nel film, le summenzionate peculiarità delle circostanze produt- tive e storiche influiscono sul discorso narrativo che insieme alla visione dell’autore compaiono in una rappresentazione celebrativa della Resistenza e dei suoi valori che prevale sulla coerenza storica. La brigata dei partigiani è unita, non ci sono dissidi interni. Essa affronta le difficoltà con spirito di sacrificio, dalla prima scena, sot- to il mal tempo, i partigiani si sacrificano per aiutare i compagni feriti. I giovani vogliono entrare a far parte delle bande partigia- ne. I capi sono democratici e i più valorosi, intraprendono le azioni più pericolose rispettando anche chi ha meno coraggio, oppure è

11 Conversazione con Lizzani avvenuta nella primavera del 2011 presso la sua residenza a Roma. 12 Ibidem. 116 meno temerario. Nel film si tratta con un certo riguardo anche chi ha vissuto bene ed è forse anche stato fascista durante il Ventennio, come si vede nelle scene nella villa con la figura dell’ambascia- tore e della giovane borghese. Gli anni in cui G. De Santis dalle pagine di Film d’oggi invocava un cinema realista in cui i conflit- ti apparissero anche in termini di lotta di classe, sei anni dopo gli eventi, sembra che la lacerazione politica dell’epoca imponga una visione onnicomprensiva ma non dialettica delle azioni e delle lotte che portarono alla nascita dell’Italia democratica e repubblicana. In Achtung! Banditi!, sembra quasi che gli autori vogliano annullare la nuova realtà storica degli anni Cinquanta, idealizzando un momento unico del passato nazionale, difatti la rappresentazione dei termi- ni della realtà italiana coinvolta nella Resistenza, sono inclusi in termini di classe e di regioni, creando una micro rappresentazione di una società sociale e geografica utopica. Tra i combattenti par- tigiani ci sono contadini, militari meridionali, romani, liguri, pie- montesi, che rappresentano laureati e le diverse componenti sociali e di classe italiane dall’alta borghesia, ai contadini che nascondo- no i partigiani, incluso un’adultera proprietaria, in tal modo il film crea utopicamente un collante ottimista tra le forze antifasciste. Tra questo gruppo eterogeneo ci sono anche gli industriali che voglio- no ribellarsi all’oppressione dello straniero. I personaggi positivi sono italiani mentre quelli negativi sono i Tedeschi. Inoltre, quasi a riflettere il periodo storico della Guerra Fredda e la nuova politica governativa riguardo alla produzione cinematografica, nel film non viene menzionata l’appartenenza politica dei brigatisti e tanto meno si fa riferimento alla situazione politica e storica dell’epoca in cui il film è ambientato escludendo qualsiasi riferimento ai Repubblichini di Salò, oppure agli Alleati. Il racconto filmico mostra una visione positiva dell’Italia nel sottolineare non soltanto l’eroismo dei parte- cipanti, e delle classi popolari ma anche nell’esaltazione di una coe- sione di unità nazionale che nel 1952 era in fase di dissolvimento. Anche dal punto di vista stilistico la narrazione è un insieme di una serie di contrassegni neorealistici ma che ricostruisce una storia che racconta fatti accaduti sei anni prima e non l’attualità tanto amata da C. Zavattini e dal primo neorealismo. Il mito unificante della Resistenza come base dell’identità ita- liana era venuto meno con l’esclusione della Sinistra dal governo voluta dagli Stati Uniti come condizione per ottenere i fondi dell’in- 117 tervento economico del Piano Marshall e sigillata con le elezioni del 1948. Un film che coglie bene questa involuzione è C’erava- mo tanto amati (1974) di Ettore Scola nel mostrare il sentimento postbellico della sinistra italiana vicina al PCI. I tre amici; Gianni Perego (), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) e Antonio () uniti durante la guerra partigiana, durante la ricostruzione e la guerra fredda si separano e si tradiscono. Il loro rapporto esprime la disillusione e il tradimento da parte degli intel- lettuali e della classe dirigente nei confronti del proletariato. Dopo il fermo macchina che lascia Gianni mentre si tuffa in piscina, il film in bianco e nero ripercorre brevemente gli anni della lotta armata mettendo in risalto l’importanza che la Sinistra dava agli intellet- tuali, nel film questa categoria è rappresentata da Gianni Perego, settentrionale di sinistra, il migliore dei partigiani e futura guida del cambiamento tanto aspettato e sperato. Con la conclusione del- le ostilità belliche, invece come sentenzia sarcasticamente la voce fuori campo del narratore “scoppia la pace.” Come risultato i tre partigiani si separano per seguire strade diverse. Nicola, intellet- tuale meridionale lascia Nocera Inferiore per seguire il suo sogno di utilizzare il cinema per cambiare e migliorare la società. A Roma vive nella sua torre d’avorio da cui critica senza offrire vere e reali- stiche possibilità per risolvere i problemi. Antonio (Nino Manfredi) lavora alternativamente come portantino e infermiere in un ospe- dale, promozioni e retrocessioni che riflettono gli alti e bassi della sinistra italiana. Malgrado la sua velleità rivoluzionaria, resta fedele ai suoi amici e ai suoi ideali, dopo varie disavventure finisce con lo sposare la donna dei suoi sogni, Luciana (Stefania Sandrelli), e alla fine si coinvolge nel migliorare la società come si vede durante il suo appello ai genitori che fanno la veglia con la speranza di arri- vare prima degli altri ad iscrivere i propri figli alla scuola pubblica. Gianni l’avvocato, invece, sacrifica l’amore per sposare Elide (Gio- vanna Ralli), la figlia di un corrotto magnate, costruttore di case, ex fascista, ora legato alla DC e alla Chiesa, che si serve della politica per ottenere appalti, senza rispettare le leggi, i diritti degli operai e le regole contrattuali e approfittando del boom economico, corrom- pendo politici si arricchisce costruendo alloggi scadenti. Attraverso la vita e le scelte dei tre personaggi maschili, Scola evidenzia gli ideali traditi della Resistenza, che politicamente non si sono realiz- zati anche a causa dell’esclusione della Sinistra a governare l’Italia. 118

Come risultato la Nazione è diventata un paese corrotto e senza ide- ali. Il tradimento di Gianni e il suo matrimonio per interessi con la figlia del Commendatore Catenacci è metaforicamente paragonabile al tradimento della DC che per ottenere i soldi del Piano Marshall si unisce alla politica Nord Americana tradendo gli ideali dell’Italia democratica e repubblicana nata dalla Resistenza, usufruendo dei voti dei Missini e dei Monarchici. Per un film di riflessione sugli ideali traditi e non realizzati della Resistenza come quello di Scola si è dovuto aspettare fino agli anni settanta, difatti dopo il film già discusso di Lizzani che presentava una coesione di unità nazionale già dissolta, la vita politica del Pae- se ha dovuto vedere l’insurrezione contro Fernando Tambroni13 per rivedere sullo schermo un recupero della Resistenza come fase costi- tutiva della storia della Repubblica. Durante la Guerra Fredda, equi- valenti ai primi quindici anni della Repubblica, la Resistenza era stata rimossa non soltanto dal cinema, ma anche dai banchi di scuola, in una circolare del 1955, il Ministero dell’Istruzione invitava per il 25 aprile di commemorare la nascita di Guglielmo Marconi invece della Liberazione. Con l’avvento del Disgelo, dopo quasi un decennio di silenzio la Resistenza torna sul grande schermo con Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961) tratto dal romanzo omonimo di G. Rimanelli.14 La novità del romanzo che narrava la Resistenza vista da un giova- ne meridionale apolitico che scopre gli orrori della guerra, offriva al cinema sulla Resistenza un’opportunità per riaprire il discorso politico

13 Il 29 aprile 1960, con l’appoggio dei missini ottenne la fiducia del Senato. Nel maggio dello stesso anno il movimento sociale italiano decise di convocare il suo sesto congresso a Genova, città decorata medaglia d’oro della Resistenza in cui era partita l’insurrezione del 25 aprile. Tale decisione spinse l’opposizione a scendere in piazza, con la conseguenza di un indebolimento del Governo Tambroni, che aveva anche appoggiato la scelta di svolgere il precedente congresso missino a Milano, anch’essa decorata con la medaglia d’oro e dove i missini appoggiavano la giunta comunale democristiana fin dal ’56. La protesta si fece sentire sempre più forte. Tambroni scelse la linea dura, originando i noti fatti di Genova del 30 giugno 1960, che si estesero rapidamente al resto del paese. Alla fine non ci fu altra scelta che impedire il congresso del MSI. I missini votarono conseguentemente contro la legge di bilancio del governo, facendolo cadere il governo di Tambroni. 14 Nel 1961 Dino Risi con Un vita difficile aveva narrato la storia dell’Italia dalla Resistenza agli anni sessanta attraverso le vicissitudini di Silvio Magnozzi inter- pretato da , ex partigiano, comunista, che dopo aver combattuto per un mondo nuovo vede i suoi ideali travolti al boom economico. 119 e storico sul tema ma produsse un film che non accontentò nessuno e fu accusato di ambiguità. Il film tradisce anche il contenuto/semantico e il significante/significato del romanzo. Nel testo di Rimanelli il pro- tagonista Marco Laudato sente gli orrori della guerra e percepisce la sua generazione come carne bruciata mandata a scannarsi. Il giovane ex salesiano non riesce a spiegarsi le ragioni di tanto odio e non è con- sapevole della realtà effettuale delle cose. L’incontro e il colloquio con Simone, il vecchio capraio che sta per raggiungere i partigiani è rivela- tore del dramma umano del giovane. Il vecchio capisce Marco ma non può essere d’accordo con la sua incapacità di fare una scelta politica:

Tu non capisci, perciò è tutto inutile che mi spieghi meglio … Tu provi disgusto della guerra, delle azioni che commettete contro la gente, ma non riesci a capire come stanno le cose. Non riesci a vedere chiaro. Perciò resti un ragazzo, figliolo, e ti costerà caro essere stato in una guerra come questa15.

Nel film di Montaldo, invece, Marco Laudato diventa un che alla fine va dai partigiani per passare dalla parte giusta. Il film evita di prendere in esame l’eredità fascista, il dissolversi delle certezze istituzionali, la fedeltà al passato ed evita persino di prendere in esa- me l’importanza della scelta ad unirsi alla lotta armata che era stata fondamentale nei film sulla Resistenza come guerra patriota. Nel 1976 l’uscita di L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo tratto dal romanzo omonimo di Renata Viganò la rappresentazione dei partigiani si arricchisce di una nuova interpretazione. La Resisten- za è vista dalla prospettiva di una lavandaia, donna anziana, analfa- beta che si unisce alla lotta armata dopo la morte del marito Palita da parte dei Tedeschi e lo fa con una decisione razionale, consapevole di essere dalla parte della ragione, spinta da un obbligo morale. Il film mostra che non esiste soltanto un modo di aderire alla lotta ma tanti modi diversi e per ragioni diverse, senza ideologismo. Ingrid Thulin interpreta benissimo il personaggio. Popolana solida, lavora- trice che vive una vita semplice dedita al marito e al lavoro dignitoso, Agnese si unisce alla lotta antifascista emozionalmente e soltanto con il tempo acquista una coscienza e una consapevolezza del suo ruo- lo di staffetta; una decisione razionale di una persona semplice ma consapevole di essere dalla parte della ragione. Agnese si assume le

15 Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Torino, Einaudi, 1991, p. 142. 120 responsabilità di staffetta ignorando la militanza politica del marito, spinta da un obbligo morale e acquisisce autostima e competenza che le permettono di affrontare l’avventura clandestina con successo e una coscienza elementare del suo ruolo nella lotta. Il film si divide in due parti, la prima segna la fine della vita familiare di Agnese, con la distruzione della sua casa che provocano l’ingresso nella vita di par- tigiana. La seconda parte racconta la vita di Agnese con i partigiani fino alla sua uccisione. La politica, per lei cose da uomini, non è alla base della decisione dell’ex lavandaia nell’entrare nella clandestinità ma anche senza la connotazione di eroina fa il suo dovere con dedi- zione. Il suo nuovo ruolo viene svolto come un nuovo compito. Le vicende di Agnese come staffetta sono mostrate attraverso quello che fa e come affronta i problemi e le difficoltà di tutti i giorni. La guerra è mostrata senza atti eroici ma tenuta a distanza, vissuta da una don- na qualunque che per queste sue qualità, congiunte alla realtà storica e alle vicende personali, viene chiamata a collaborare anche perché poco notabile ma importante per la riuscita della lotta. Mamma Agne- se muore come ha vissuto senza lamentarsi, senza fare niente di eroi- co, infatti mantiene il suo vero nome con l’aggiunta di Mamma. Il film segue il suo agire, la sua nuova vita, una storia dalla s minuscola di una persona che come il titolo attesta, sa che potrebbe morire, ma fa il suo dovere. Il film evita di mostrare gli scontri ma si sofferma sul quotidiano mostrando un lato poco conosciuto oppure poco mostrato della Resistenza; il ruolo avuto da tante donne. La grande novità della narrazione sta nel mostrare che non esiste soltanto un modo di aderire alla lotta ma tanti modi e per ragioni diverse. L’ambientazione del film nelle valli del Comacchio, contrappone la tranquillità alla guerra e alla morte, come se queste ultime fossero un’offesa al luogo. Altro grande merito del film è nella scelta di una luce opaca che caratterizza il film che contrasta con la luce abbagliante della morte di Agnese, che assume un alto grado di simbolismo. Nel 1982 La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittorio Taviani offre una visione della Resistenza che evidenzia le divisioni che esistevano anche in piccole comunità. La loro versione raffigura il movimento come una guerra civile brutale, benché la storia sia narrata attraverso la memoria di una bambina che ha assunto il ruolo dei fratelli Taviani all’epoca ragazzi nel rinarrare per mantenere viva la memoria e inse- gnare ai giovani di resistere a eventuali avversità: 121

Mentre fuggivamo all’alba, io e Paolo sentimmo lontano alle nostre spalle il boato infame della casa della nostra infanzia, della nostra adolescenza, dei sogni e dei progetti, che veniva distrutta come poi tante altre. Ad un tratto il nonno, vecchio ma forte come una quercia, ex ferroviere socialista di antica origine contadina, fermò i due giovani nipoti in cima al col- le e disse loro: «guardate e ascoltate e promettetemi che un giorno – avete ingegno e siete avidi di futuro – voi scriverete tutto questo in un libro perché anche chi verrà dopo sappia, e se altre sventure dovessero colpirlo sappia anche che l’unica risposta è resistere». I due nipoti promisero e dopo molti anni realizzarono la promessa con La notte di San Lorenzo. Si sono fatti più piccoli di età e hanno cambiato sesso: si sono calati in quella bambina di sei anni, attraverso i cui occhi spalancati passa la grande storia di quei giorni16.

16 La notte di San Lorenzo Dichiarazione di Vittorio Taviani per gli studenti della scuola italiana di Middle- bury Dopo quasi 40 anni, in un momento in cui il nostro paese, l’Italia, veniva minac- ciato da ombre neofasciste, sentimmo il bisogno di ricordare soprattutto ai gio- vani disorientati che cosa significa vivere sotto il nazi-fascismo e cosa significa lottare per la propria libertà ieri come oggi come sempre. Ci ricordammo che i grandi poemi omerici furono inventati quando Atene e Sparta – la grande Grecia - avevano perso forza e fulgore e ora dopo qualche secolo sotto il triste dominio dei Dori i giovani greci vivevano senza energia e senza speranze. Achille, Ettore, Agamennone vennero proprio a svegliarli e a ricordare loro chi erano stati i loro padri e a cercare di recuperare la loro grandezza. Resuscitammo così la nostra giovinezza. Raccontando i giorni terribili e magnifici di quell’estate del 44, quan- do sui colli della nostra Toscana conoscemmo l’orrore della morte nazista e la forza liberatrice dei partigiani. Giovani e non, contadini e cittadini, operai e bor- ghesi uniti da una sola certezza: quando tutto sembra perduto, tutto si può salvare se siamo uniti l’uno accanto all’altro in una comunità che vuole essere libera e giusta. Io e Paolo avevamo 14 e 16 anni circa in quell’estate del 44. La prima casa che i nazisti segnarono con la croce verde, che significava distruzione, fu la nostra. Nostro padre, l’Avvocato Taviani, era uno dei pochissimi antifascisti della città e per questo fu il primo ad essere punito. La famiglia numerosissima, genitori figli parenti e amici che per giorni e giorni si era rifugiata in una cantina nascosta, una notte prese la via della fuga attraverso i colli toscani. Il padre aveva deciso: «i tedeschi e il vescovo ci ordinano di andare tutti nella cattedrale – disse –. Dei tedeschi io non mi fido e il vescovo è troppo ingenuo. Andiamo a cercare gli americani. Laggiù ogni tanto sentite questo cupo rumore? Sono i cannoni dei liberatori. Ognuno prenda la sua decisione, ma chi viene con me prima si vesta di nero: dobbiamo trasformarci negli angeli o nei diavoli della notte». Metà segui- 122

Il film segue un gruppo di abitanti del piccolo paese toscano di San Martino che appreso che le loro case erano state minate dai Nazisti, scettici della promessa dei Fascisti che tutti i cittadini sarebbero stati sicuri nella cattedrale, sceglie di andare incontro agli Americani liberatori. Durante il loro cammino della speranza incontrano una brigata partigiana ma la loro sicurezza è di breve durata dato che si trovano intrappolati nel mezzo di un sanguinoso scontro a fuco. I fratelli Taviani mostrano epicamente uno scontro tra fascisti e partigiani in un campo di grano. La battaglia evidenzia la natura del conflitto in cui amici di lunga durata e conoscenti di tutto l’arco della vita si uccidono in nome d’ideologie diverse. La scena più atroce coinvolge un confronto fra i partigiani e un padre fascista con il figlio quindicenne. Immediatamente dopo la battaglia i partigiani trovano i due fascisti nemici disarmati e che si nascon-

rono la decisione del padre, l’altra andò nella cattedrale e molti vi morirono sotto le bombe o le mine, non si sa bene… Mentre fuggivamo all’alba, io e Paolo sentimmo lontano alle nostre spal- le il boato infame della casa della nostra infanzia, della nostra adole- scenza, dei sogni e dei progetti, che veniva distrutta come poi tante altre. Ad un tratto il nonno, vecchio ma forte come una quercia, ex ferroviere socialista di antica origine contadina, fermò i due giovani nipoti in cima al colle e disse loro: «guardate e ascoltate e promettetemi che un giorno – avete ingegno e siete avidi di futuro – voi scriverete tutto questo in un libro perché anche chi verrà dopo sappia, e se altre sventure dovessero colpirlo sappia anche che l’unica risposta è resistere». I due nipoti pro- misero e dopo molti anni realizzarono la promessa con La notte di San Lorenzo. Si sono fatti più piccoli di età e hanno cambiato sesso: si sono calati in quella bambina di sei anni, attraverso i cui occhi spalancati passa la grande storia di quei giorni. Ho finito ma c’è ancora una cosa che voglio dirvi. Di questa promessa mantenuta io e Paolo parlammo qui negli Stati Uniti, a New York a pochi giorni dalla distruzione delle Torri Gemelle. Nonostante la tragedia, il Moma volle dar corso al programma di presentazione di tutti i nostri film organizzato da più di un anno. Alla fine della proiezione di San Lorenzo ricordammo le parole di nostro nonno e tutti insieme, nella commozione generale, ripensammo la promessa: Resistere. Salina, Isole Eolie, Luglio 2011 Ringrazio Giovanna Taviani per avermi concesso di includere la lettera inviatale dal padre in occasione della presentazione del film in questione avvenuta nel luglio del 2011 presso la Scuola Italiana di Middlebury College. 123 dono su un albero, un partigiano spara al ragazzo che invoca l’aiuto del padre che alla vista del figlio morto, in un atto di disperazione si suicida. La rappresentazione della Resistenza in questo film presenta degli aspetti completamente diversi dai film precedenti discussi fino- ra. Difatti attribuisce la liberazione dell’Italia principalmente alle forze americane piuttosto che alla Resistenza. Dimostra alcuni ele- menti della popolazione italiana come ideologicamente allineati con i Nazisti e in alcuni casi ancora più crudeli. A questo proposito, il film mostra chiaramente la lotta armata italiana come una guerra civile tra la popolazione del paese, e mostra anche il comportamento di un sacerdote, che agisce ben diversamente da Don Camillo de Il sole sorge ancora e da Don Pietro di Roma città aperta, e in tal modo il film riesamina anche la cooperazione della Chiesa con il regime fasci- sta. Inoltre La notte di San Lorenzo sfida la nozione precedente della Resistenza come base di un’unità nazionale e mette in esame perfino la moralità dello scontro stesso. Notti e nebbia di Marco Tullio Giordana, miniserie prodotto dalla Rai con la tv francese TF 1, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Castellaneta del 1975, mandato in onda per la prima volta nel 1984, deve essere menzionato come primo film italiano che raccon- ta la storia della guerra civile nel Nord Italia dal punto di vista dei Repubblichini. Bruno Spada (Umberto Orsini) è un commissario di polizia a capo di un ufficio politico, convinto fascista, sposato con moglie remissiva. Conduce il suo lavoro raccogliendo delazioni e denunciando i propri amici e non esita davanti alle torture, forte delle sue certezze che però iniziano a vacillare davanti alla nuova realtà presentata dai combattenti partigiani che porteranno la fine del commissario. Negli anni novanta la nuova rappresentazione cinematografi- ca della Resistenza è influenzata dal libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, pub- blicata per la prima volta nel 1991 che aveva distinto gli eventi in tre guerre spesso combattute dai partigiani: in guerra patriota, guerra civile e guerra di classe, mettendo così a nudo gli aspetti laceranti della Resistenza e suoi conflitti, rendendola indubbiamente diffici- le da ricostruire in una versione ufficiale che potesse mettere tutti gli italiani d’accordo. Tale divisione è confermata dalle polemiche che hanno accompagnato Porzûs di Renzo Martinelli del 1997. Il 124 film racconta il massacro di venti partigiani cattolici della Divisione Ossoppo avvenuta il 7 febbraio del 1945 a Porzûs nel Friuli ad opera di partigiani comunisti che pochi mesi dopo la fine della guerra ave- vano progettato di unirsi ai soldati di Tito per favorire l’instaurarsi del comunismo in Italia. La disillusione di tutte le parti è forse simbolicamente rappresen- tata dal partigiano Johnny nel film di G. Chiesa del 2000, che coglie benissimo la casualità della guerra partigiana. Ne Il partigiano John- ny, tratto dal romanzo omonimo di Beppe Fenoglio, il regista Chie- sa identifica in una minoranza della popolazione italiana che prende consciamente in mano il proprio destino e decide di agire il recupero della vera umanità. Chiesa che aveva già fatto un documentario su Fenoglio, vede nella decisione dello scrittore di entrare a far parte della lotta armata la rappresentazione dell’essere umano autentico, che agisce razionalmente. Così Johnny il partigiano nella finzione autobiografica esprime la sua decisione non basata sulla base dell’ide- ologia, ma su una visione del mondo laica, illuminista e razionalista. Per Chiesa girare il film è ripercorrere il tentativo dell’autore nel tro- vare una lingua nuova per raccontare un evento senza la retorica della guerra di popolo, facendo diventare la storia quella di un partigiano qualunque che si scontra con gli altri partigiani politici e quasi per- cependo la lacerazione che accadrà nel prossimo futuro della storia italica. L’anno dopo esce Piccoli maestri di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo autobiografico di Luigi Meneghello pubblicato nel 1964 in cui l’autore rievoca la guerra partigiana come l’avevano vissuta, sull’altipiano di Asiago e nella città di Padova, lui stesso e alcuni suoi coetanei vicentini, perlopiù studenti ventenni. Il film racconta anche la storia di questi giovani universitari che nel 1943 decidono di lasciare l’università per darsi alla lotta di resistenza. Stefano Accorsi nel ruolo di Gigi, Meneghello, Giorgio Pasotti in quello dell’amico Enrico sono poco credibili come partigiani del 1943, appaiono troppo ben tenuti e moderni. Il film non rende la durezza della guerra e dei dubbi politici e le discussioni tra i partigiani che erano la parte vitale del romanzo. Il film più che aggiungere una nuova pagina alla lotta armata è una riflessione amara su quella tumultuosa, intensa, irripeti- bile stagione, piena di gioia e sofferenze. Sebbene diretto dal regista americano Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna del 2008, rientra tra i film italiani sulla Resistenza essendo 125 una co-produzione italo-americana, parzialmente prodotto e distribui- to da RAI cinema, include attori, personale italiano ed è stato girato in Toscana e a Cinecittà. Se questo non bastasse un rapido sguardo alle polemiche che ha scatenato sull’onore dei partigiani e sulle colpe dei nazisti,17 lo farebbero rientrare pienamente tra i film che presentano una rilettura della rappresentazione della Resistenza. Il film è tratto dal romanzo omonimo di James McBride e rac- conta un episodio della guerra che si è combattuta sulle montagne della Garfagnana, intorno al fiume Serchio nell’inverno del 1944. La storia gira intorno a quattro GI afro-americani che fanno parte della 92esima divisione dell’esercito americano, denominata Buffa- lo Soldier perché interamente composta da afro-americani, che han- no combattuto in Toscana durante la II Guerra mondiale. Il gruppo dei quattro GI include l’idealista Sergente Aubrey Stamps (Derek Luke), Bishop Cummings (Michael Ealy), il Sergente con i denti d’oro, il Caporale Hector Negron (Laz Alonso); l’interprete, il gigan- tesco semplice Sam Train (Omar Benson Miller), che hanno con loro Angelo Tornacelli (Matteo Sciabordi), un bambino che non parla, a causa di turbe nervose e che nasconde un segreto orribile; è sopravvissuto alla famigerata strage in cui i Nazisti uccisero 560 civili italiani nella città di Sant’Anna di Stazzema. Nella versione di Lee, quel massacro viene rappresentato come una risposta alle azioni delle forze della Resistenza italiana e mostra un partigiano che ha tradito la città in una riunione segreta con i Nazisti. L’ANPI ha accu- sato Lee di aver suggerito che il massacro degli SS di civili a Staz- zema sia stato attivato da un tradimento di un partigiano. Giovanni Cipolini che dirige l’associazione per la Resistenza di Pietrasanta ha dichiarato di essere preoccupato perché quando un regista famoso fa un film su un capitolo importante della storia, la gente crederà che la versione sia la verità.

17 In proposito il regista americano ha dichiarato: «Come regista di questo film, sen- to di non dover chiedere scusa a nessuno. Ci sono diverse interpretazioni di cosa accadde quel giorno, ma un unico fatto sicuro: il 12 agosto 1944, la Sedicesima divisione delle SS massacrò 560 civili a Sant’Anna di Stazzema. Uomini, donne, anziani, bambini. Questa è la sola cosa certa. Per il resto, non mi preoccupa che la mia pellicola provochi polemiche: discutere del passato, della Seconda guerra mondiale, è sempre un fatto positivo», http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/ spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/stazzema-miracolo/stazzema-miracolo.html. 126

Lee ha alimentato le polemiche dichiarando durante la promozio- ne del film:

I partigiani? Spesso fuggivano, abbandonavano le popola- zioni alle rappresaglie. Chi è stato partigiano sarà “suscet- tibile” ma capisce che il vento è cambiato, che il rispetto e la riconoscenza per chi ha messo a rischio la sua vita per la libertà di tutti, hanno lasciato il campo alla diffamazione e alla ostilità.

Tale provocazione ha fatto scendere in campo Giorgio Bocca che ha risposto per dovere storico alle accuse di Lee dichiarando:

… Un giorno della primavera del ’45 ero assieme a Livio Bianco sul monte Tamone in val Grana da cui si vede la pianura e la città di Cuneo. Indovinando il mio pensiero Livio disse: «Andrà già bene se non ci metteranno in gale- ra». I prudenti, i vili, la maggioranza non perdonano alle minoranze di aver avuto coraggio o semplicemente il sen- so di un dovere civico. Ci sono anche da noi molti antipar- tigiani semplicemente per una questione anagrafica, di non aver potuto per ragioni di età partecipare alla Resistenza. Ci sono molti antipartigiani che vedono nei partigiani un reducismo privilegiato e fastidioso. Curioso reducismo. Curioso privilegio. Cinque anni dopo la liberazione i cara- binieri della val Maira riferivano sul mio conto a un magi- strato: «Si ricorda che circolava armato con atteggiamenti spavaldi». E anche io, come dice Spike Lee, sparavo e poi scappavo18.

Lee è tornato a difendersi affermando:

Signor Bocca, io non sono suo nemico. Io non sono nemico dei partigiani. Il mio discorso completo esprimeva il concetto che i partigiani non erano universalmente amati dalla popo- lazione italiana. Del resto, come poteva essere diversamente, visto che l’Italia si trovava nel pieno di una guerra civile, con famiglie lacerate, fascisti contro partigiani? Conosco la sto- ria. Stavo facendo un esempio di guerra con tecniche di guer-

18 http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/ bocca-1ott/bocca-1ott.html. 127

riglia. Le tattiche usate dai partigiani contro i nazisti sono le stesse usate da Fidel e dal Che a Cuba, dall’Anc nel Sudafri- ca dell’apartheid, dai Vietcong in Vietnam, dai Mau Mau in Kenya e dai miei antenati contro gli schiavisti in America19.

La posizione assunta dal regista americano e le polemiche confer- mano il cambiamento avvenuto nella rappresentazione della Resi- stenza. Come quasi tutti i film sulla Resistenza dell’epoca contemporanea questo film ha suscitato delle polemiche furiose di accuse e controac- cuse. Anche se l’intenzione dichiarata di Lee fosse di raccontare una finzione ispirata a fatti storici, con lo scopo di richiamare l’attenzione a un fatto storicamente trascurato: il contributo dei neri durante la guerra, in Italia si è ritrovato a difendersi dall’accusa di aver offeso il valore storico della Resistenza. Nel 2009 esce diretto da Giorgio Diritti, presentato al Festival Internazionale di Roma dove vinse il Marco Aurelio d’Oro assegnato dal pubblico. Nella versione originale il film è in dialetto bolognese con sottotitoli in italiano e nei titoli di coda si dichiara che i perso- naggi e le vicende del film sono frutto di finzione, mentre lo sfondo storico (la strage di Marzabotto) è reale. Tuttavia alcuni personaggi del film sono realmente esistiti20. Difatti il film ambientato nel 1944 racconta gli eventi che precedono la strage di Marzabotto visti attra- verso gli occhi di Martina, una bambina di otto anni che aveva smesso di parlare. La strage è preceduta dall’arrivo del freddo che sembra predire l’arrivo della guerra. L’invadenza dei soldati tedeschi e di partigiani scompigliano l’ordine dettato dalle stagioni e dal lavoro agricolo. Lo sguardo profondo di Martina accompagna lo spettatore

19 Ibidem. 20 Riporto la risposta di Diritti a Cineuropa riguardo alle ricerche fatte in merito alla strage: Research that, however, was conducted for The Man Who Will Come… Yes, it was long and laborious: preparation lasted many years, during which – along with the studies and documents – we also met with survivors and Resistan- ce fighters, people who lived through those events. Normal people who dreamt of living, loving, raising their children, who suddenly found themselves overwhel- med by something external the sense of which they didn’t understand. It was a massacre of innocents, and I wanted to depict it “from below”, through the eyes of a child, Martina, in which all viewers can see themselves. http://www.cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=129024 128 attraverso la vita contadina di tutti i giorni e si sofferma sulla bellezza delle cose e su i semplici eventi che accompagnano il corso della vita. La quotidianità e il lieto evento della nascita del fratellino di Martina vengono interrotti dal rastrellamento dei soldati tedeschi che fanno una strage. Martina, illesa, torna a casa e sola accudisce il neonato fratellino cantandogli un ninna nanna. Martina che aveva smesso di parlare quando il precedente fratellino, le era morto in grembo, torna a parlare con il neonato in braccio. Diritti il regista, a differenza di Spike Lee non prende posizione, non ci mostra che cosa sia veramente accaduto a Marzabotto per far scattare la rappresaglia Nazista. Lo spettatore non capisce se i parti- giani abbiano una responsabilità. Il film si limita a raccontare i fatti che il regista è andato a ritrovare negli archivi. Il film si allontana dal genere resistenziale presentando la tragedia della guerra senza asse- gnare colpe, oppure meriti. L’uomo che verrà è forse rappresentato dal neonato e da Martina, entrambi scampati al massacro, e la loro sopravvivenza rappresenta il dono della vita sopra la follia umana. Loro diventano icone che devono insegnare alle future generazioni gli orrori sofferti da una comunità per evitare che gli uomini continuino ad ammazzarsi. Per concludere, la rappresentazione cinematografica del parti- giano combattente per la Liberazione in nome dell’antifascismo è scomparsa dal grande schermo con l’avvento della Guerra Fredda e quando è ritornata ha iniziato a mostrare le fratture che separavano le diverse anime della Resistenza affossando il mito di una Resistenza concorde e unanime. I film che hanno rappresentato la Resistenza mostrano non soltanto la storiografia del movimento antifascista e antinazista ma mostrano come il soggetto sia stato politicizzato nel corso degli anni. Dall’esaltazione dei partigiani si è passato a una maggiore comprensione della complessità del fenomeno fino a met- tere in discussione la legittimità del mito come vera fonte dell’iden- tità comune della nuova Italia repubblicana. Il patriottismo di tutti i partigiani offre ancora una serie di valori unitari nazionali e di espe- rienze unificanti che sono degni di una società democratica e antifa- scista anche se si continuerà a interpretarli politicamente e da ottiche diverse. Molti degli ultimi film sulla Resistenza spesso sembrano mettere in cattiva luce il ruolo avuto dalle brigate comuniste che invece all’inizio erano al centro dell’esaltazione patriottica, oppure denunciano gli orrori della guerra senza prendere posizione oppu- 129 re dare interpretazioni politiche, inoltre le stragi naziste diventano ammonimento universale contro la violenza21 senza ideologismi22.

Bibliografia essenziale

Battaglia Roberto, Storia della Resistenza italiana: 8 settembre 1943- 25 aprile 1945. Torino: Einaudi, 1992. Forgacs, David. Fascim and anti-Fascism reviewed; Generations, History and Film in Italy after 1968 in H. Peitsch, C. Burdett and C. Gorrara (eds) European Memories of the Second WOrl War, Berghanhn, New Tork. 1999. Scoppola, Pietro, 25 aprile. Liberazione, Torino: Einaudi, 1995.

21 Le risposte di Diritti alle domande del cronista di Cineuropa mettono in rilievo l’attteggiamento dei nuovi registi verso la Resistenza. Importanti appaiono anche le sue osservazioni sul film di Spike Lee. Cineuropa: Why did you choose to make a film about the Monte Sole massacre? And why do you think Italian cinema was so silent for so long on the subject? Giorgio Diritti: Not just our cinema, but Italy itself has essentially repressed the most heinous chapters [of its history]. It has not come to terms with what was a civil war, albeit an undeclared one. It has preferred to make films on the stereot- ypes of the Resistance, or else give in to triumphalism, instead of reckoning with the many facets of history, whose memory it is important to keep alive. Especial- ly when it comes to events such as the Monte Sole massacre. What happened 60 years ago in Italy is happening elsewhere today, and we must stay vigil so that civilians are always protected, and so that ideologies such as those that led to these massacres do not take hold. Before your film, Spike Lee also tackled these subjects. Have you seen Miracle at St. Anna [trailer]? Of course, but only after I finished shooting, I didn’t want to be influenced in any way. What I can say, and I’m sorry given my admiration for Spike Lee, is that his approach was not very historically attentive, and was instead “novel-esque”. Its limit is that it’s not credible, it belies the difficulty an American director has in understanding what happened in Italy, especially if lacking sufficient infor- mation. It’s as if I were to make a film about the Bronx without doing extensive research first. http://www.cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=129024 22 Questo non è il caso nel film di Michele Soavi, Il sangue dei vinti del 2009, ispirato all’omonimo libro del 2003 di Gianpaolo Pansa. In questo film la lettura ideologica evidente in tanti film del passato sulla Resistenza è sostituita da una falsa interpretazione della storia in cui i Partigiani e i Repubblichini sono due facce della stessa medaglia e per condannare quelli che erano dalla parte del giusto, si ricorre all’ipocrisia che bisogna rileggere la storia dalla parte dei vinti. 130 131

parte seconda

La commedia 132 133 Gaia Capecchi

Virzì e la “poetica dell’ovosodo” fra riso e malinconia

1. Paolo Virzì e la nuova commedia italiana

Toscano, classe 1964, Paolo Virzì è ormai considerato uno dei legit- timi eredi della «commedia all’italiana». Da essa ha mutuato la medietas popolare, la capacità di fondere riso e malinconia, nonché quell’affetto per i personaggi che non è mai disgiunto da uno sguar- do impietoso sui loro vizi. «Scrivi quello che conosci!», gli sugge- risce il suo maestro Furio Scarpelli, scomparso poche settimane fa e indimenticato autore, con Age, di molti dei capolavori della sta- gione d’oro del nostro cinema (da I soliti ignoti a La grande guerra, C’eravamo tanto amati o ). Virzì ascolta il suggerimento e resta tenacemente attaccato a ciò che sa, che ha vissuto, che ha potuto osservare con i propri occhi. Così lo vediamo muoversi ugualmente bene fra i vicoli stretti e spazzati dal vento della sua Livorno – il mare di là dal vicolo, dietro il prossimo angolo – o per le strade ampie e monumentali di una capitale estranea, che sembra sfarsi sotto al peso dei propri sogni, fasulli, di rivendicazione e di gloria. E i suoi film, mentre non dimenticano il passato di Monicelli, Risi, Scola, si aprono sempre al presente, rilasciando un ritratto amaro ma insieme anche buffo e appassionato della contemporaneità. Virzì si schermisce quando gli si ricorda questa eredità, eppure non la nega. Del resto, al di là delle citazioni e degli omaggi palesi presenti nei suoi film, il rapporto di filiazione è stretto, rintracciabile soprattutto in quella speciale mescolanza di tragico e comico, nell’at- tenzione allo sfondo sociale dietro ai personaggi e nella lontananza dal genere «alto». Certo, non si tratta di un pedissequo ricalcare le orme dei padri; anzi, Virzì stesso dichiara: 134

Le mie differenze dalla commedia all’italiana? A volte mi sen- to meno riappacificato con le cose della vita, credo che anche in Ovosodo ci sia un substrato di rabbia1.

Il fido compagno di scrittura Francesco Bruni rincara la dose:

L’accostamento con la commedia all’italiana di Monicelli, Age, Scarpelli, mi lusinga ma credo che nel frattempo si sia aggiunto un sentimento di pessimismo. Credo che abbia influ- ito anche la commedia inglese alla Ken Loach2.

Insomma, la rabbia e il pessimismo si aggiungono all’atmosfera tra- gicomica della classica commedia all’italiana e proiettano sulle storie del regista livornese ombre più tormentate, come si vede bene fin dal suo esordio e come si continuerà a notare in tutti i suoi film. Si assiste dunque a un aggiornamento moderno della commedia all’italiana, a un suo adattamento in chiave più angosciosa a questi tempi che appa- iono al regista cupi, confusi, melmosi. Eppure, il guizzo del sorriso spunta sempre; e la lacrima non è mai separata dalla risata schietta, cristallina. Ne è passato di tempo dalla sua prima opera (La bella vita, 1994), ma la luce di certe scene, l’amarezza dolciastra che resta attaccata in gola, l’allegria triste dei sorrisi quando ci si dice addio o si prova a dire una bugia, ecco, quelle non sono cambiate. C’è sempre quello struggimento, quella melanconia che lucida gli occhi, a dire che sì, è un film di Virzì che stai guardando, e di chi altri? La sua ultima opera, La prima cosa bella (gennaio 2010) è il titolo di una canzone di Nicola di Bari e riprende con un chiasmo evidente quello di sedici anni fa: “bella – bella”, a incorniciare volti di uomi- ni e donne che fanno tutto quello che possono, pur di non lasciarla scorrere invano, la vita. In effetti il tema della bellezza del vivere nonostante tutto, al di là dei dolori e degli inganni, anche in mezzo al sopruso, alle botte, alle illusioni infrante, non abbandona mai i per- sonaggi di Virzì, accompagnati sempre dall’occhio del regista che ne osserva ogni ruga, ogni anfratto dell’animo, ogni errore e ogni attesa. Caratteristica precipua di Virzì, infatti, è la sensibilità per il piccolo,

1 Maurizio Porro, «Corriere della sera», 7 settembre 1997. 2 Francesco Bruni, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, Rec- co, Le Mani, 2010, p. 168. 135 l’attenzione al minuto, la capacità di cogliere le minime sfumature dell’animo, sia esso fatto di purezza e di slanci sinceri, sia di avidità, egoismo e bassezza. Non c’è indulgenza ma neanche giudizio, quan- do la macchina da presa indaga le scelte dei protagonisti, le loro vite imperfette, perché c’è sempre la consapevolezza profonda, sgomenta e divertita, che le stesse scelte, gli stessi errori potrebbero essere i nostri. Anche noi vinti da quel senso di inadeguatezza, da quell’essere fuori luogo sempre e ovunque, che è uno degli aspetti più forti di tutto il cinema di Virzì. Gli occhi innocenti spalancati sul mondo, impauriti eppure curio- si; la paura e l’eccitazione che prendono quando si fugge via; l’an- goscia del sentirsi diversi e soli; la bellezza faticosa del vivere come si può. Tutto ciò anima i film di un regista livornese che è arrivato anche in America, avventurandosi in viaggi rocamboleschi e saltando di rincorsa da un treno all’altro, come un Huckleberry Finn dei giorni nostri. Gli aspetti sopra descritti sono facilmente rintracciabili lungo tutta la filmografia del regista ma i film in cui sembrano assumere un risal- to più evidente sono quattro: La bella vita (1994), Ovosodo (1997), Baci e abbracci (1999) e La prima cosa bella (2010).

2. La bella vita: «malinconia, grigiore, struggimento»

Il debutto di Virzì alla regia reca la data 1994 e il nome di una città di porto e di mare, di metallo e d’acciaio: Dimenticare Piombino. Il film, che esce poi nelle sale col titolo La bella vita, è interpretato dai giovani , Claudio Bigagli, Massimo Ghini e racconta la storia non nuova di un triangolo amoroso «di ambientazione popola- re» (come lo definisce lo stesso Virzì), ricalcata suRomanzo popolare di e su Dramma della gelosia di Ettore Scola: una bella moglie annoiata che lavora come cassiera in un supermercato tradisce il marito distratto e cassaintegrato con un amante belloccio, fatuo come lo sbuffo di una sigaretta (non a caso, viene scelto per lui il metonimico nome di Gerry Fumo). Anche se la vicenda ha per sfondo la crisi dell’acciaio degli anni Novanta, le agitazioni sindacali, la vita sempre uguale e monotona della piccola provincia, tuttavia il film non ha specifiche velleità di denuncia: infatti non è tanto una ricerca sociologico-politica, quanto umana, antropologica. È più che 136 altro la storia di una «piccola famiglia che va in crisi sotto i colpi della seduzione e della recessione» (ancora Virzì); la storia di un malessere visto dal basso, che schiaccia i tre umili protagonisti Mirella, Bruno e Gerry, ma che potrebbe toccare benissimo a ciascuno di noi. Quello che vuole Virzì è guardare dentro a queste persone, siano cassiere di supermercato o conduttori televisivi da pochi spiccioli:

Degli esseri umani mi interessa soprattutto la vicenda interio- re e questo può suonare strano nell’ambito della commedia. In realtà, io ritengo che la grandezza di certi bei film italiani venga proprio da lì: in mezzo ai lazzi e ai ritrattini ironici c’era fondamentalmente uno sguardo triste, c’era il dolce racconto dell’infelicità delle persone3.

Il film – che riceve a Venezia il Ciak d’oro come miglior lungome- traggio del «Panorama italiano», il Nastro d’Argento e il David di Donatello per il miglior regista esordiente – risente comunque di una certa imperizia da opera prima, come ammette lo stesso regista:

Credo che si veda, il film è rudimentale, coi primi piani e le scene ferme […] Forse quel film non ha proprio delle riprese spettacolari, da mozzare il fiato, ma non mi pare nemmeno che fossero necessarie. Servivano semmai malinconia, grigio- re, struggimento4.

Ed eccolo qua, lo struggimento. Guardiamo il suo primo film e già ci troviamo a fare i conti con uno dei sentimenti dominanti di tut- ta l’opera di Virzì: quella melanconia inspiegabile, quel consumarsi del cuore, quell’arrovellarsi dell’anima che tanta parte avranno nelle storie di tutti i personaggi futuri. La «malinconia e il grigiore» di que- gli sfondi che starebbero benissimo in un romanzo di Carlo Cassola, un autore che Virzì ama tanto, perché legato alla sua stessa forma di «realismo esistenziale», di attenzione a ciò che sembra contare meno, rimanere al di sotto della coscienza pratica, come egli stesso spiega:

3 Goffredo Fofi (a cura di), La tribù di sinistra e la tribù di destra, in ferie, ad agosto – Paolo Virzì, in «La Terra vista dalla Luna », n. 15, maggio 1996, p. 63. 4 Gaia Marotta (a cura di), Per fare lo sceneggiatore bisogna avere qualcosa da raccontare, per fare il regista bisogna essere un grande affabulatore, in . 137

La verità poetica non appartiene alla coscienza pratica, ma alla coscienza che sta sotto, alla coscienza subliminare. L’emozio- ne poetica è proprio di quei momenti privilegiati in cui l’at- tenzione pratica viene meno, si squarcia il velo opaco che nasconde le cose e queste ci appaiono nella loro realtà.

Una poetica che si sposa bene anche con Virzì, così attento a quegli infinitesimali «momenti privilegiati» in cui «si squarcia il velo» e si arriva alla poesia. L’emozione poetica e quel sorriso che non si sa se nasconde tristezza o gioia ma si apre quando, nel finale del film, Mirella e Bruno ormai separati si scrivono raccontandosi le loro pic- cole minutissime vite.

3. L’Ovosodo che non va né in su né in giù

Con Francesco Bruni e Furio Scarpelli, Virzì nel 1997 scrive Nato da un cane, sottotitolo La vita eccezionale di un ragazzo come tanti, poi diventato La vita di rincorsa e infine Ovosodo, dal nome del quartiere livornese Benci Centro, rinominato così perché durante il Palio mari- naro i vogatori indossano una maglia bianca con una striscia gialla al centro, che li rende simili a uova sode. Il terzo film è una delle opere più sentite e personali del regista, che lascia trasparire numerosi elementi biografici sia nella trama sia nell’ambientazione, una Livorno fatta tutta di ciminiere, facce bruciate dal sole, lingue svelte e cucine con le pareti gialle: una città di fiera tradizione comunista dove i quartieri popolari hanno nomi esotici come Corea e Shangai. La stessa Livorno da cui Paolo Virzì si è allontanato ragazzo per fuggire a Roma e con cui ades- so, forse, tenta una prima riconciliazione. L’amico Bruni ricorda:

È una città meravigliosa, però è anche chiusa. Un luogo cer- tamente ingenuo e naïf ma anche un posto dove è difficile esprimersi al massimo. Nel nostro lavoro c’è un’eco di quella sensazione di soffocamento che ci prese a un certo punto della nostra vita5.

La città di mare fa qui da sfondo a un bildungsroman tragicomico,

5 Francesco. Bruni, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 184. 138 tenero, sudato, dagli echi dickensiani: cresciuto in un quartiere coi panni stesi nei cortili e le vecchie alla finestra, Piero perde la madre da piccolo e vive con un fratello ritardato e un padre che non fa altro se non entrare e uscire di galera. Ha un’unica amica: la sua insegnante delle medie Giovanna (Nicoletta Braschi) che gli trasmette la pas- sione per la lettura e sembra capirlo nel profondo. Quando arriva al Liceo classico «Giorgio Caproni», all’Ardenza – luogo che per uno del suo quartiere è «esotico come Beverly Hills» – Piero si sente del tutto estraneo, diverso, isolato. Per forza, lui è cresciuto in un palaz- zone scrostato, fin da bambino si è dovuto scontrare con personag- gi poco raccomandabili e ha mangiato la terra del polveroso cortile comune, un posto che l’alternativo compagno di classe Tommaso (Marco Cocci) definisce: «Bellissimo. Sembra Napoli, Berlino, Buca- rest». Proprio la conoscenza con il ribelle Tommaso, capelli rasta e perenne bisogno di soldi, farà entrare Piero in un mondo meraviglio- so, eccitante e sconosciuto, fatto di corse in motorino, canne, occupa- zioni della scuola, ragazze; salvo poi scoprire che l’amico prediletto è il rampollo scapestrato di un ricco imprenditore, proprietario delle acciaierie che inquinano la parte povera della città. Fra liti, riconci- liazioni, perdite, viaggi a Roma, ragazze inutilmente amate o dolce- mente innamorate, Piero viene bocciato alla maturità e finisce a fare l’operaio. In mezzo a tutto questo, c’è spazio anche per il dolore sordo di un suicidio, quello dell’amata professoressa amica Giovanna, la cui fragilità non ha potuto far fronte all’urto della vita. Eppure, nonostan- te tutto, Piero, così apparentemente disadatto a tutto se non al sogno, non soccombe; ma anzi sposa la ragazza che lo ha sempre amato e si dichiara, alla fine, felice:

Tutte le mattine [ ] Susy mi accompagna al lavoro in mac- china. E tutte le mattine, che piova o ci sia il sole, lei mi dice la stessa identica cosa: – sei sempre più bello–. E io vado a lavorare contento. Chi lo sa, forse sono rincorbellito del tutto, o forse sono felice a parte quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico.

«L’ovosodo che non va né in su né in giù». Quel groppo alla gola che piglia e non si sa perché. Quel senso di rabbia frustrata o d’infelicità ingollata, quella piccola rivincita personale, quella felicità tuttavia, 139 fatta di nulla ma importantissima e vera per il giovane Piero che si diverte a raccontare ai compagni operai della fabbrica Grandi spe- ranze come fosse una soap-opera. Mentre l’ovosodo che gli balla nel cuore e nella gola, alla fine, si rivela l’unico modo per affrontare la vita, con qualunque faccia essa si presenti. Il titolo del film diventa allora manifesto, dichiarazione programmatica, cifra distintiva di un regista che cercherà sempre, nei suoi personaggi e anche nel pub- blico, di tirar fuori quel magone lì, quell’inesprimibile groviglio di emozioni compresse ma fortissime che sta nascosto dentro ciascuno di noi. L’esordiente Edoardo Gabbriellini è perfetto per impersona- re Piero, perché ha «un volto da tunisino, egiziano, greco, palesti- nese. Una vera faccia da livornese arcaico, figlio di figli del popolo mediterraneo»6 (Carlo Virzì) e nonostante non sia del tutto a suo agio con le regole del set, apporta al film una freschezza e una verità che colpiscono l’allora Presidente di giuria al Festival di Venezia, Jane Campion, che tributa a Ovosodo il Gran premio speciale della giu- ria. Il film di Livorno ha un travolgente successo anche fuori dalla città, racimolando nella stagione 1997-1998 oltre dodici miliardi di lire: segno che la storia, pur parlata e vissuta in terra toscana, trava- lica il regionalismo per diventare universale. Livorno diventa luogo dell’anima, entità metageografica, rifugio dell’innocenza e della fero- cia giovanili. Non si parla più solo di Piero Mansani, quartiere Ovo- sodo, Livorno, ma di ogni giovane uomo che tenti, goffo e roccioso, di affermare la propria «vita di rincorsa».

4. Baci e abbracci: una comune strampalata dove «non si soffre più!»

Il magone che Piero si tiene dentro si ritrova nei personaggi buffi, sgraziati e perdenti di Baci e abbracci, un film piccolo, diretto nel 1999 con attori quasi tutti dilettanti e ambientato nelle campagne del- la val di Cecina. La storia, in cui si alternano delusioni, speranze, attese trepide e amarezze, è quella di tre ex-operai che, pensando di trarne un grande profitto, aprono un allevamento di struzzi. Non otte- nendo però i risultati sperati, Renato, uno dei tre, decide di invitare

6 Carlo Virzì, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 100. 140 a cena per la vigilia di Natale l’ultimo fidanzato di sua sorella, un assessore regionale da cui spera un finanziamento. Per un equivoco, arriva invece al casale un ristoratore sull’orlo del fallimento (France- sco Paolantoni), reduce da un tentato suicidio (uno dei tanti tentati o riusciti nei film di Virzì). L’uomo si ambienta bene in questo clima di festa, fra ragazzini, donne procaci, vecchi e musicisti scalcagnati (gli Amaranto Posse, ovvero gli Snaporaz, il gruppo del fratello di Paolo, Carlo Virzì, che fornisce una vera e propria colonna sonora in diretta sul set). Quando, la mattina di Natale, la sua vera identità viene smascherata, il ristoratore invece di andarsene prepara un bel pranzo: intorno al tavolo, tutti mangiano, cantano, ridono e si scaldano; men- tre fuori, dalle uova, nascono dei piccoli struzzi. Sul set, sempre pieno di struzzi e di fango a causa dell’acqua arti- ficiale, con gli attori imbacuccati sotto vestiti pesanti per simulare l’inverno in piena estate e un abbondante rifornimento di bottiglie di Lupicaia rosso del conte Rossi di Medalana, si crea un’atmosfera conviviale da gita scolastica o da festa paesana, ideale per rappre- sentare la storia di questi lavoratori disoccupati che alla fine, dopo bugie, segreti, agnizioni, trovano un momento di ritrovata, chissà se solo momentanea, armonia. Durante le riprese, le campagne di Ceci- na diventano una sorta di circo permanente, di delirio organizzato che non spaventa affatto il regista: anzi si ha l’impressione che egli – cosa per lui non insolita ma già manifestata durante la lavorazione di Ferie d’agosto (1995) – non voglia disciplinare il set ma immerger- si nell’osservazione divertita degli attori, per sfruttarne al meglio le dinamiche, le tensioni, le energie sotterranee. La fotografia “sporca” e calda di Alessandro Pesci, che dà al film quel carattere invernale così intimo e familiare, è particolarmente suggestiva in una delle scene emblematiche del film: il momento in cui, alla sola luce di tremolan- ti candele, dopo canzoni di Natale e una I will survive suonata alla chitarra, s’abbracciano e saltano tutti insieme gridando in una specie di rito collettivo propiziatorio: «Non si soffre più! Non si soffre più! Non si soffre più!». In quel momento allo spettatore vengono i brividi per l’emozione, si sente anch’egli travolto da un’ondata di ottimi- smo stolto e vorrebbe abbracciare il suo vicino di poltrona, in preda allo stesso struggimento scomposto dei protagonisti del film. Ed ecco, ancora una volta ci sorprendono l’allegra mestizia o la malinconia gioiosa. Ancora un volta l’ovosodo che resta impigliato a metà gola non ci lascia scampo. 141

5. La prima cosa bella: un’autobiografia finta e struggente

Nella primavera del 2008 a Virzì viene voglia di ricordi di giovinezza. Sfoglia allora i vecchi album di famiglia, in cui trova le fotografie di sua madre Franca alle prese col canto; e decide di tornare a Livorno. Forse è pronto per recuperare quelle radici che ha, molti anni prima, estirpato, allontanandosi da quello che lui stesso più volte ha defini- to un «sublime posto di merda». Diventa forte adesso il bisogno di ritrovare se stesso, la sua famiglia, le sue vie. Nasce così, da questa urgenza di riconciliazione definitiva, La prima cosa bella, girato a Livorno nel 2009 e uscito nelle sale il 15 gennaio 2010. Scrivono la sceneggiatura con lui il fedele Bruni e Francesco Piccolo, che ha già collaborato a My name is Tanino. La storia della famiglia Michelucci, raccontata nel film, mostra dunque una decisa ispirazione biografica:

La famiglia Michelucci non è la mia famiglia, anche se cre- do di avere saccheggiato tante cose della mia vita. È un’auto- biografia finta, come quella praticata dai romanzieri. Bruno è un mio alter-ego, è un eroe letterario che ha qualcosa del suo autore. Ma è un trucco7.

Il film ci offre un racconto in apparenza tragico che si rivela però gioioso, struggente e pieno di sentimento:

È il kolossal livornese, un film sullo struggimento della fami- glia Michelucci, dove circola solo l’umanità.

Allora vediamola, la storia di questa famiglia Michelucci. Bruno (Valerio Mastandrea) è un insegnante di lettere e vive a Milano, dove si è trasferito dopo aver lasciato Livorno, la sua città. È un uomo tor- mentato e scontroso, che ha difficoltà a esprimere i propri sentimen- ti, fa uso di droghe e cerca di sopravvivere ai ricordi di un’infanzia travagliata. Ciò da cui più di tutto vuole tenersi lontano è l’ingom- brante madre Anna (Stefania Sandrelli), una donna esuberante e vita- le, prima bellissima e adesso malata terminale, che la sorella Valeria (Claudia Pandolfi) vuole però fargli riabbracciare prima che sia tar- di. Bruno intraprende dunque controvoglia un viaggio nei luoghi del passato che tanto ha detestato: ritorna a Livorno, rivede la bellezza

7 Paolo Virzì, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 163. 142 non voluta di quella giovane «Miss Mamma» (Micaela Ramazzotti) che lo metteva sempre in imbarazzo, ricorda il padre manesco che li cacciò di casa per troppa gelosia e rievoca con un dolore anche fisico l’incoscienza gioiosa di una donna che viveva sempre sorridendo. Nel film, costruito su un continuo alternarsi di presente e passato,« la luce casca su Anna» – come ha dichiarato in diverse interviste il regista –; è lei il centro vitale e luminoso di tutte le vicende. Ispirata in qualche modo alla madre di Virzì ma ricalcata soprattutto sulla figura della ragazza disponibile alla vita, lieve, svampita ma non sciocca che era l’Adriana di Io la conoscevo bene (1965), Anna Nigiotti in Micheluc- ci si staglia con nettezza vivida sullo sfondo gretto di chi la circonda: fragile e forte della propria autenticità, è vittima della chiusura e della malizia della gente, che non comprende la sua disperata gioia di vive- re. Quando alla fine, al suo capezzale, si ritrovano figli perduti o mai veramente partiti, si canta e ci si sposa, si soffre e si ride per l’ultima volta, allora prende vita di fronte a noi l’immagine del tutto sconclu- sionata di una felicità concreta, terrena, tangibile, che forse Bruno e Valeria credevano impossibile ma in cui Anna, invece, non ha mai smesso di credere:

Il mio film è un inno alle persone fragili, più che alla famiglia. Questa giovane donna, anche bischera e svitata, ha dentro la poesia del vivere. Come diceva Tolstoj, le famiglie si somi- gliano, ma ogni famiglia è felice a modo suo.

Così esci dal cinema e ti sembra che la vita sia tutta lì, in quei tinelli slavati dove accadono le cose, fra i vestiti stropicciati di due bambini e una donna, nelle vecchie strade scrostate di Livorno o nelle feste al mare con le lucine che dondolano. Il vento; il vento spazza tutto. Nell’aria il sale si sente e si sente la gioia, il dolore, la malinconia che ti spezza le vene da quanto è tanta, vigliacca, nascosta in uno zucche- ro filato, in un giro in motorino, in vecchie fotografie appese al muro o nascoste nei cassetti. In un figlio ormai uomo quando si lascia con malgarbo abbracciare dalla madre che balla. La vita è lì dove si respi- ra forte la passione, la paura, la dolcezza, la gelosia, la disperazione di uomini e donne che si prendono e si perdono, così, a strattoni e rin- corse sotto la pioggia. È la storia di esseri forti, rocce contro tempesta che però si spezzano; si sbriciolano fragili a terra, si decompongono sotto la bellezza – troppa –, sotto l’amore – troppo. Ma poi ritornano 143 sempre pietra e stanno in piedi o accucciati nella notte e non gliene importa più nulla del freddo, del male, della distanza: siamo tornati pietra, nessuno ci butta giù, noi si canta uguale, alla fine un posto si trova. E nello struggimento della musica, della carne, di Livor- no che è tutta spigoli ma pare stondata sotto la luce aranciata della memoria, c’è questa donna che cammina inciampando; questa madre che intrampola ovunque, vestita di fiori e sigarette rubate, coi capelli spettinati, bagnati, a volte senza verso, che le cadono dappertutto, addosso. Ha occhi grandi, sorride ma chissà e tutti ne pigliano un po’– di lei –, se n’abbeverano perché lei è così: bella come son belli i cerbiatti, le puttane, le tovaglie bianche. Che se passano davanti non ci si può fare nulla ma vien la voglia di sventrarli, amarli, sporcarli e tenerli per sempre appiccicati al cuore, anche se un po’ vergognando- si, svicolando di nascosto lungo i muri. È tutta una catastrofe nel suo farsi, questa storia, un continuo spaccarsi di qualcosa, uno slabbrarsi di vite, di famiglie, di sentimenti. Eppure tutto si ricompone: madri, figli, fratelli, mariti, amanti. Tutto alla fine appare comprensibile, per- sino giusto: è l’inevitabilità del vivere grosso, quando dietro le porte non ci si piglia solo a sberle ma anche si fa l’amore, ci si ritrova, ci si sposa. Son dolci i bambini quando sembra che non capiscano e invece capiscono, sono dolci ma anche tenaglie che ti stringono lo stomaco: e lei che ride e si stupisce e ha paura ma ride sotto la frangetta piccola; e lui che invece non ride mai e ha labbra all’ingiù e occhi neri di cane da guardia, appostato dietro i muri, negli angoli, da dove la mamma appare persa, fragile, sempre più bella. E insomma alla fine esci e sei preso dalla spaventevole meraviglia del ridere quando si muore, del cantare quando si sbaglia, del ferirsi quanto più ci si ama. Vuoi bene a tutti, fuori nella notte, e avresti voglia di fare un bagno al mare, proprio come Bruno nella scena finale. Ma sì, certo, lo sai benissimo cos’è tutto questo. È il solito ovoso- do. Quell’ovosodo che non va ne in su né in giù; che resta lì, a metà gola; che ti fa ridere e piangere e sentire, ancora una volta, vivo. 144 145 Claudio Mazzola

Gioventù bruciata all’italiana: tra James Dean e la mamma

La fine della Seconda Guerra Mondiale segnò, per la maggioranza delle nazioni europee, il ritorno alla normalità, politica se non eco- nomica, della fine degli anni trenta. Per l’Italia, invece, si trattò di voltare una pagina ben più pesante; si doveva ricominciare dagli anni venti, dagli irrisolti problemi che il paese si trascinava dall’unifica- zione e che il Fascismo aveva temporaneamente fatto dimenticare. Non sorprende, quindi, che qualsiasi mutamento di tipo economico o sociale che investì l’Europa post-bellica trovasse in Italia un terreno molto più complesso entro il quale manifestarsi. Ad esempio, la nuo- va generazione, che emerse a sostituire quella che aveva messo fine alla tragica esperienza nazi-fascista, si trovò di fronte a mutamenti economici così radicali che l’intero tessuto sociale ne avrebbe risen- tito. In Italia queste novità si scontrarono da un lato con una cultura prevalentemente di tipo contadino che da secoli era radicata su tut- to il territorio italiano e dall’altra con il ruolo ostruzionista sia della Chiesa che della Democrazia Cristiana (soprattutto dopo la vittoria elettorale del 1948). Il cinema, la cui popolarità nel periodo post bellico era in costante ascesa, fu la forma artistica più sollecita a dare rilievo alle vicissitudi- ni e alle traversie che caratterizzarono i primi passi dei giovani nella società degli anni ‘50. Fu il cinema americano a balzare alla ribalta di questo rinnovamento artistico; in parte perché una società come quel- la americana, contraddistinta da un mondo politico dinamico, dall’as- senza di una rigida divisione in classi tipicamente europea e da una cultura popolare ampiamente diffusa, aveva meno problemi a dare spazio all’atteggiamemto ribelle di registi e attori. Il primo passo del cinema americano di allora fu quello di rifiutare i valori tradizionali del mondo borghese all’interno di una società capitalista già ben sta- 146 bilita, valori consolidati sul grande schermo dalle grandi commedie degli anni ‘40. Attori come Marlon Brando, Paul Newman e James Dean, i cui ruoli cinematografici spesso si confondevano con atteg- giamenti anticonformisti espressi anche nella vita privata, divennero delle vere icone internazionali dell’inquietudine della loro generazio- ne. Anche il cinema italiano sembrò abbracciare questi cambiamenti: verso la metà degli anni ’50 si registro’ una vera e propria invasio- ne di film che avevano come protagonisti giovani teenegers italiani. Registi e produttori si accorsero che il prodotto cosidetto “giovanile” poteva rappresentare un buon investimento finanziario e cercarono in ogni modo di contrapporre ai nuovi eroi del cinema americano delle icone nostrane che segnassero uno stacco sia dal Neorealismo che dal cinema dei telefoni bianchi. I risultati, come vedremo, furono contra- stanti ma comunque significativi di questa volontà di ricerca di una propria identità attraverso un ricambio rispetto al cinema precedente. Un classico esempio di questa ricerca è Riso Amaro di Giuseppe De Santis, film nel quale il regista sperimenta con vari generi cinemato- grafici mescolando un ambiente tipicamente neorealista con un’ico- nografia tipica del cinema americano degli anni ’40. Indimenticabili sono le pose da vamp, stile Rita Hayward, di Silvana Mangano o le battute da duro con la pistola in mano, alla James Cagney, di Vittorio Gassman. Riso amaro rimase un esperimento abbastanza unico, ma evidenziò questa necessità di trovare nuovi volti, nuovi atteggiamenti e anche nuove modalità espressive e scatenò una vera caccia ad atto- ri e attrici che fissassero in qualche modo delle nuove modalità di comportamento tipicamente italiane. Ragazzi dai muscoli d’acciaio in canottiere attillate (ma sempre un po’ galletti e soprattutto tanto mammoni) e ragazze libere di mettere in mostra i loro seni prorom- penti (ma sempre fedeli a una concezione tradizionale del matrimonio e materne al massimo) divennero i paladini della rivoluzione culturale che avrebbe dovuto travolgere la società italiana da nord a sud. Nell’immaginario degli italiani, ormai alla soglia del capitalismo moderno, la guerra, i partigiani e il Fascismo dovevano diventare solo un lontano ricordo. Il cinema italiano apriva le porte a un’Italia diver- sa; niente più noiose storie di anziani pensionati senza soldi per paga- re la pigione, o di padri di famiglia senza bicicletta e senza lavoro. La nuova generazione, aliena da sensi di colpa per vent’anni di dittatura Fascista, e con pochi ricordi delle ferite di guerra, stava prendendo in mano le redini del paese. Il problema più grosso rimaneva il fatto che 147 le condizioni socio-economiche dell’Italia non erano ancora mature per uno strappo così deciso e quindi, alla resa dei conti, la nuova generazione fece fatica a bruciare quello che aveva dietro di sè. Nep- pure la cultura, laica o cattolica che fosse, guardava con molta sim- patia all’emergere della nuova generazione. Di fatto, poi, chi detene- va le leve del potere (e quindi anche la produzione cinematografica) comprese che il miglior modo di affrontare la situazione era quello di inglobare piuttosto che di combattere in modo aperto le nuove ten- denze e i nuovi modelli comportamentali. Come fa notare Masolino d’ Amico1, la censura non aveva ancora impostato un proprio codice morale operativo soprattutto perché l’incertezza politica del periodo non permetteva ancora scelte precise (anche se vi fu una chiara vira- ta a destra dopo le elezioni del 1948). Spesso la censura si limitava a salvaguardare certe istituzioni, quali la chiesa e le forze armate, ritenute, dallo Stato italiano, intoccabili. In un primo tempo vennero quindi colpiti soprattutto film d’autore, film intellettuali (cioè quelli neorealisti) mentre per il resto si cercava di trovare dei compromessi piuttosto che arrivare a un vero e proprio scontro frontale. Episodi di aperta interferenza censoria come quella che impose un prologo moralista all’inizio del film I Vinti (1952) di erano piuttosto rari e si sarebbe dovuto aspettare un clima politico più aspro e opere ben più radicali (quali quelle di Bertolucci, Bellocchio e Pasolini) per vedere in azione una censura attiva di stampo chiara- mente politico. D’altronde registi, ma soprattutto produttori, furono molto cauti nel non dare spazio ad argomenti che potessero incorrere nelle pur sempre imprevedibili maglie della censura. Gli ingredienti principali di quella che poi diventò una vera e pro- pria formula magica furono il riprendere situazioni e aspetti del neore- alismo (l’enfasi sulla gente comune, i loro problemi quotidiani, l’uso di un linguaggio medio-basso), mettere in ridicolo certi tabù e aspetti quasi atavici di malcostume della vita italiana (l’arte di arrangiarsi, il familismo, il gallismo, ecc.) e infine sottolineare l’inadeguatezza del costume degli italiani di fronte ai cambiamenti sociali post-bellici. Potrebbe quindi sembrare che la commedia di quel periodo prendesse l’iniziativa di mettere in un angolo e sbeffeggiare l’Italia corrotta e arraffona offrendo quello che Peter Bondanella definisce «…a dar-

1 Masolino D’Amico, La Commedia all’italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 26. 148 ker, more ironic and cynical vision of Italian life»2. In realtà, ciò che manca a questo cinema è proprio un vero atteggiamento cinico, una visione che evidenzi distacco e critica delle istituzioni corrotte. Gian- ni Canova sostiene che alla commedia all’italiana di quel periodo manca la grinta, il desiderio di far davvero male con le risate:

[…] la nostra commedia non (ha) mai saputo nè voluto fre- quentare una comicità feroce come quella di Groucho Marx. È un dato di fatto: da noi, nella maggior parte dei casi, la com- media non irride i potenti, li adula. […] celebra l’arte di arran- giarsi e la assolve ridendoci su3.

Canova mette il dito sul problema fondamentale della commedia all’italiana, che non è tanto quello di far ridere parlando di problemi seri, ma di ridere e compiacersi della risata, di lasciare che lo spetta- tore anticipi la battuta senza mai avere il coraggio di sorprederlo e spiazzarlo con una svolta inaspettata nella trama o una battuta depi- stante del protagonista; di fatto la prevedibilità è l’aspetto più tipico della commedia. Un classico esempio di questo tipo di cinema è Pane, Amore e Fantasia (1955) il film che forse per primo (visto poi i suc- cessivi “pani, amori … e altro” che arrivarono sugli schermi negli anni seguenti) stabilì alcuni dei parametri strutturali fondamentali su cui la commedia all’italiana poi sarebbe maturata all’inizio degli anni ’60: stessi attori, stessi sceneggiatori, ma soprattutto stesse situazioni ripetute all’infinito. L’esuberante sessualità della Bersagliera (una scoppiettante Gina Lollobrigida), il comportamento impenitente da incallito Casanova del maresciallo e l’ambigua situazione familiare della levatrice – sola con figlio a carico – sono spunti tematici poten- zialmente esplosivi nell’Italia degli anni ’50; ciò nonostante una sce- neggiatura che privilegia l’effetto assicurato della ripetitività (si badi, non della risata) affidandosi a scenette comiche innoque, una uguale all’altra, finisce con il minimizzare ogni spunto polemico. La comici- tà cessa di essere una graffiante e anarchica presa in giro di un certo malcostume della vita italiana o di un argomento tabù come il sesso e, quasi impercettibilmente, propone lo status quo quale unica salvezza dal caos e dal pericolo implicito nei cambiamenti. L’ordine sociale esistente finisce sempre con il prevalere nel finale che, miracolosa-

2 Peter Bondanella, Italian Cinema. Continuum, New York, 1983, p. 144. 3 Gianni Canova, L’occhio che ride, Milano, Editoriale Modo, 1999, p. 5. 149 mente, riappacifica tutte le parti in causa. Sicuramente meno facile è proporre soluzioni così riassicuranti quando, oltre ai vizi e alle virtù degli italiani, si aggiungono i problemi dei giovani alla ricerca di un proprio ruolo nell’Italia della ricostruzione postbellica. Un caso esemplare è Poveri ma belli (1955) di Dino Risi, dove la contrapposi- zione tra gioventù in fermento e la società italiana (ancora legata a una concezione tradizionale del lavoro, della famiglia e della religio- ne) è al centro della struttura del film. Al discorso narrativo (mise en scene, inquadrature, movimenti di macchina e montaggio), completa- mente costruito su brevi scenette ricche di stereotipi culturali facil- mente riconoscibili, fanno riscontro dialoghi di facile consumo che contrappongono in modo alquanto superficiale il vecchio al nuovo. La sicura presa sul pubblico è anche assicurata dal rigido controllo della minima unità significante, cioè l’inquadratura, organizzata in modo da dare massima rilevanza all’aspetto comico, alla battuta fina- le di ogni scenetta. Al contrario di quanto succede nei film del periodo neorealista (in particolare Ladri di biciclette o Umberto D) in cui i personaggi sono spesso isolati nelle inquadrature, stimolando così una possibile identificazione tra spettatore e personaggi, nella com- media all’italiana lo spettatore resta invece escluso perché la passività è la qualità essenziale di questa comicità. Una passività incentivata anche dal fatto che i protagonisti non rivelano una specifica identità propria, una loro autonomia caratteriale, ma sono invece riconoscibi- li per tratti stereotipici (il marito donnaiolo, la fidanzata gelosa, la suocera guastafeste, ecc.); mascherine vuote usate e riusate senza alcuna variazione. A fare da controparte a questi protagonisti stereoti- pici ruota una variegata folla di personaggi chiamati solo a fare da supporto all’effetto comico senza che essi interagiscano realmente con il personaggio principale stesso che, di fatto, non deve mai nè crescere nè mutare, onde evitare di perdere la maschera comica. La folla, quindi, ha una funzione simile a quella di un coro da operetta che allo stesso tempo sostiene e, però, si fa anche bonariamente burla del personaggio principale. Esattamente l’opposto di quanto succede, per esempio, in Ladri di Biciclette e in Umberto D, in cui la folla ha la funzione di un vero e proprio personaggio che interagisce con il protagonista, innesca reazioni e presenta atteggiamenti che vanno dalla solidarietà alla minaccia, sempre comunque in qualità di attiva presenza nello sviluppo del personaggio. Nella scena finale di Ladri di biciclette, ad esempio, quando Antonio Ricci decide di rubare una 150 bicicletta nei pressi dello stadio, ai primi piani del protagonista sem- pre più in difficoltà nel cercare di tenere sotto controllo la situazione, vengono contrapposte inquadrature in campo medio-lungo della folla che Ricci percepisce come ostile e minacciosa. Un montaggio veloce, con alternanza di primi piani e di campi lunghi, evidenziano la tensio- ne psicologica del momento. Ricci è combattuto tra la sua responsa- bilità privata di padre e quella sociale di padre-capofamiglia. Nel momento in cui Ricci ruba la bicicletta si espone – sia con il figlio che con la folla – e il suo personaggio muta, si trasforma; il furto della bicicletta segnala un cambiamento in cui pubblico e privato si aprono a una serie imprevedibile di reazioni. Nulla di imprevedibile succede invece in Poveri ma belli, dove la folla, spesso ripresa in campi medio-lunghi, che, come dicevamo, ha una funzione passiva. Le inquadrature sono affollate con una miriade di personaggi, spesso ragazzini, amici più giovani di Romolo e Salvatore, a cui questi ultimi vorrebbero fare da modello per la loro esperienza con il mondo in generale (e le donne in particolare). Il montaggio veloce dà maggior risalto al dialogo che è costruito tutto attorno alla battuta finale d’ef- fetto, quasi sempre basata sulla riaffermazione della morale comune. La mise en scene ripropone un quadretto familiare di liti becere e fastidiose; lo spettatore si confronta con il già visto, si accoccola all’interno di pareti domestiche tra un vociare che non fa veramente paura. Nessun cambiamento è sufficientemente rischioso o inquietan- te da mettere lo spettatore nella posizione di riflettere sulle scelte e le opportunità di questi personaggi; la mise en scene smorza qualsiasi potenzialità innovativa lasciando che una comicità opaca e ripetitiva prenda il sopravvento. Un esempio classico è la prestanza fisica di questi giovani, simbolo, in teoria, di una forza che non può più accet- tare compromessi, che rifiutando l’abbigliamento tradizionale ne rifiuta anche ciò che rappresenta. La stessa potenza fisica che diventa una parte essenziale della raffigurazione del ribelle nel cinema ameri- cano, in Poveri ma belli questo aspetto viene quasi ridicolizzato. I prorompenti muscoli di Salvatore, che le attillatissime canottiere met- tono in risalto in ogni inquadratura, non diventano simbolo di una nuova forza, di una visione diversa della vita borghese. Anzi, in un momento chiave del film, i muscoli di Salvatore si afflosciano allor- chè il potenziale eroe diviene vittima … degli orecchioni. La cinepre- sa mostra impietosamente il povero Salvatore ridicolmente abbindato come un bambino con una fascia sopra le orecchie mentre a letto, 151 impotente, è attorniato da una ciurma di ragazzini petulanti che lo prende in giro. Salvatore pensa a quello che avrebbe potuto fare se fosse stato in salute; situazione tipica di questi mancati eroi che pen- sano sempre a quello che avrebbero potuto essere e fare ma non han- no il coraggio mettere in pratica. Sono vittime della loro stessa inca- pacità di opporsi in modo chiaro alle ipocrisie o le ingiustizie della società, e alla fine sperano addirittura di veder le loro doti riconosciu- te all’interno di quello stesso contesto socio-culturale che invece avrebbero dovuto mettere in discussione. Il loro presunto comporta- mento “ribelle” (se ribelle si può chiamare la non voglia di alzarsi al mattino, il rifiuto di aiutare in casa, o l’interesse per letture di tipo popolari) non rivela un atteggiamento di critica nei confronti della società; di fatto, questi giovani accettano i parametri dominanti di una società maschilista e classisista che promuove un gallismo ridicolo e un riverente rispetto per le classi più abbienti. Il tutto senza che questi giovani dimostrino una componente essenziale della ribellione: la solidarietà di gruppo. Anzi, spesso isolati e ignorati, questi giovani divengono facile preda dell’ ironia e delle burle del resto della società. Si riafferma quel concetto dello spettacolo popolare in cui “il diver- so” (politicamente, sessualmente, economicamente) viene isolato e deriso, riaffermando così i valori della maggioranza. In fondo i pove- ri di Pane, amore e fantasia sorridevano contenti nella realtà un po’ utopistica del piccolo paese abbruzzese; felici di mangiare pane e fan- tasia mentre il maresciallo veniva rassicurato dalla rassegnazione del- le classi più basse. Nella Roma di Risi non è cambiato molto. Non servono più i bino- coli con i quali gli abitanti del paese spiavano le mosse del marescial- lo perché la città si reduce a un grande palcoscenico da dove si può comunque vedere e sapere sempre tutto di tutti. Gli appartamenti dei due amici sono collocati uno di fronte all’altro e le loro camere da letto sono praticamente collegate da una ringhiera esterna da dove passano quasi tutti i personaggi principali del film. La disposizione degli appartamenti ha un che di teatrale che ricorda certe commedie goldoniane: il palcoscenico è il luogo della messa in pubblico di vizi e virtù dei due protagonisti. Qualsiasi evento di rilievo succeda sembra che si finisca per discuterlo o per commentarlo su questo palcosceni- co pubblico. Per assurdo, anche gli esterni generano una certa clau- strofobia in quanto Risi ha selezionato un numero limitatissimo di ambienti, facilmente riconoscibili dallo spettatore, che danno il senso 152 di un limitato spazio d’azione. Si tratta di posti rassicuranti, famiglia- ri, che ricorrono con particolare regolarità: il Tevere nelle vicinan- ze di Castel Sant’Angelo e Piazza Navona. La piattaforma sul fiume (dove Salvatore lavora come bagnino) è frequentata da una torma di bagnanti e l’atmosfera che si respira, con cabine, ombrelloni e musica popolare, è quella un po’ pettegola e vacanziera, tipica delle spiagge intorno ad Ostia. Come nel caso dei loro appartamenti, da questo pal- coscenico sul fiume passano un po’ tutti i protagonisti che partecipano a scenette tipiche delle avventure amorose da spiaggia dai risulta- ti ben prevedibili. L’altro luogo che ricorre con frequenza è Piazza Navona, che però ha una funzione iconografica più complessa. La piazza rappresenta un punto di riferimento più per lo spettatore che per i personaggi stessi. È il luogo dove iniziano o si concludono molte delle scene chiave del film e serve a mettere a proprio agio lo spettato- re che non viene mai a imbattersi in luoghi sconosciuti o minacciosi. Dal tipo di montaggio si ha l’impressione che i luoghi importanti del film (il negozio del padre di Giovanna, l’abitazione dei due giovani e di Giovanna stessa) si affaccino proprio su piazza Navona. In un modo o nell’altro, non appena i protagonisti sono ripresi in esterni la piazza ritorna quale motivi visivo dominante. Spesso viene ripresa in campi lunghi che permettono un facile riconoscimento delle fon- tane e dell’obelisco. Liti e abbracci, incontri casuali e appuntamenti vengono consumati tra la simmetria familiare di Piazza Navona dove Romolo e Salvatore restano pateticamente immersi in situazioni sen- za uscita, accontentandosi di recitare la loro parte senza fine. Questo uso di ambienti familiari è in netto contrasto con il cine- ma americano di questo periodo, che, come abbiamo già detto, met- te in questione l’ambiente di casa, i valori borghesi, il perbenismo moralista al nascere della nuova realtà economica. È un cinema che lavora prima che sul costrutto narrativo, su un lavoro attento sull’in- quadratura. Enrica Capusotti rileva che nei film americani degli anni cinquanta le primissime inquadrature spesso pongono lo spettatore nella condizione di affrontare una diversità spaziale con cui è difficile identificarsi. In questo caso, lo straniamento serve da vero e proprio stimolo liberatorio. È il caso di James Dean che in apertura di Gioven- tù Bruciata (1955), completamente ubriaco, espone tutto il suo rifiuto per la società e la sua disperata solitudine in una scena di imbaraz- zante violenza; stesso rifiuto, anche se non autolesionista come quello di Dean, è quello di Marlon Brando che appare fin dall’ inizio nella 153 sua iconografica prestanza fisica a bordo della sua motocicletta ne Il Selvaggio (1954). Enrica Caposutti fa notare che:

… quando il gruppo di motociclisti compare sullo schermo è evidente che nulla potrà contrastare il fascino suscitato dai bikers che, cavalcando fiammanti motociclette e indossando blue jeans, giubbotti, guanti e cappelli di pelle, sono il simbolo del piacere della rivolta4.

L’iconica immagine di Marlon Brando, pronto a percorrere lunghe strade senza una chiara destinazione, stimola l’immaginario degli spettatori, pronti a sognare di prendere rischi al di fuori dalla realtà conosciuta; il cinema italiano, invece, si insabbia, si arena tra imma- gini che negano l’apertura verso spazi diversi e la narrazione presenta scontri tra il nuovo e il vecchio che finiscono in burla perché non esi- ste neppure lontanamente un’ipotesi lontana di alternativa al tradizio- nale mondo del lavoro e della famiglia. In fondo, Romolo e Salvatore si accontentano di correre dietro a qualsiasi sottana gli passi vicino ed evitare qualsiasi fatica senza mai credere in qualcosa o qualcuno. Sor Alvaro, il tranviere di mezza età che affitta il letto di Salvatore duran- te il giorno, si scontra ogni mattina con Romolo che non vuole alzarsi perché non vuole andare al lavoro. Appena alzato, Salvatore pensa solo alle donne e a farsi bello. Di fronte all’esausto Alvaro, (simbo- lo dell’onesto lavoratore tradizionale che non ha grilli per la testa) Salvatore decanta le qualità della brillantina “Fiori d’Arabia”, che, come lui sostiene ripetendo uno slogan pubblicitario, «…vi assicura il successo nella vita»; poi prosegue nella sua “cavalcata rivoluziona- ria” sostenendo, anche se in modo peraltro goffo e poco convincente, tutto il suo interesse per “Cittadini dello spazio” il romanzo di fanta- scienza che sta leggendo e commenta dicendo: «Aho, sò forti ‘sti libri di fantascenza». Battuta infelice perché suona completamente falsa in bocca di Salvatore il quale, dopotutto, ha come ambizione prin- cipale quella di fare una vita tranquilla e, come dice lui stesso: «… senza pensieri e con un sacco de soldi». Il film sembra non decidersi se fare di Romolo e Salvatore dei giovani con qualche ambizione per cercare di uscire dal loro ghetto culturale oppure se siano solo dei sempliciotti di borgata da prendere in giro. Certo è che i due eroi passano da una pessima figura all’altra; sembrano grandi playboy,

4 Enrica Caposutti, Gioventù Bruciata, Firenze, Giunti Editori, 2004, p.126. 154 uomini di mondo avvezzi alla vita mondana ma in realtà non sanno nulla del mondo che li circonda, di come vivere in società e diventano facili vittime di chiunque incontrino. Sono ridicolizzati da Giovanna durante il loro primo incontro quando entrano nel negozio del padre di lei e, in assenza del padre, credono di poter sedurre facilmente la ragazza. Quest’ultima sta al gioco e propone a entrambi di provarsi dei pantaloni, e mentre i due si ritirano nel camerino già fantasticando un possibile menage à trois e si autocongratulano per la facile conqui- sta, Giovanna li ridicolizza davanti ai loro stessi amici aprendo il lato del camerino che dà sulla strada mettendo in mostra i due galletti in mutande pronti a un alquanto improbabile avventura galante. Durante questa sequenza Salvatore fa una battuta che descrive benissimo il bonario squallore in cui sguazzano i due aspiranti casanova. Di fronte a quella che loro credono un’imminente avventura sessuale, Salvatore dichiara di essere dispiaciuto di non essersi cambiato le mutande quel- la mattina. Dopo una battuta del genere è chiaro come i due giovani siano in balia dell’intelligenza di Giovanna, la quale per quasi tutto il film si dimostra una donna moderna, intraprendente e libera di fare le proprie scelte. Eppure il personaggio femminile mostra una incon- gruenza che risulta piuttosto sorprendente e anche rivelatrice della morale che sta dietro molte delle commedia all’italiana. Giovanna domina con scaltrezza il rapporto con Salvatore e Romolo, mette in mostra una capacità oratoria che intimidisce i due uomini e quando vuole sa anche prendersi gioco di loro; nel frattempo controlla senza troppi problemi il suo ex-fidanzato, dimostrando di sapere molto bene quello che vuole dagli altri. A questa determinazione, però, seguono un paio di momenti in cui Giovanna dichiara con sorprendente dispe- razione il proprio amore sia per Romolo che per Salvatore, sottomet- tendo così la sua intelligenza a quella non molto brillante dei due ragazzotti. Atteggiamento inspiegabile non tanto perché Giovanna sia pronta a seguire il proprio cuore quanto piuttosto perché narrativa- mente risulta una scelta poco credibile. Si ripresenta qui la situazione già vista in Pane, amore e fantasia per cui, ai problemi contingen- ti si può porre rimedio con un pò di fiducia nella dea dell’amore e nella buona volontà degli uomini. La sintesi di tutto è nelle parole di Salvatore che, descrivendo il suo particolare stato euforico dovu- to all’infatuazione per Giovanna – mentre dal suo balcone guarda le stelle – rivela a Romolo che quando sei innamorato: «ti senti il cuore pizzicare come l’acqua minerale» e aggiunge lapidario: «…facciamo 155 i bulli, le donne le prendi di petto e poi il cuore si innamora pure a noi». E così finisce la ribellione dei poveri di Dino Risi a cui non resta che contare sulla propria bellezza per migliorare la loro condizione e quella dell’Italia, proprio come ai poveri affamati di Comencini non restava che mangiare il pane con la fantasia per poter sopravvivere. Questo buonismo mescolato a una certa dose di paternalismo nei confronti delle classi più basse, facendo inoltre ricorso a stereotipi che consolidavano ulteriormente pregiudizi e paure, sono ingredienti spes- so presenti nella Commedia all’Italiana tra il 1955 e la fine degli anni ’60. Se fosse un atteggiamento reazionario o qualunquista oggi poco importa, rimane il fatto che si fondava su un bozzettismo superficiale che finiva con l’imporre una morale finale sconcertante in cui o si trova rifugio all’interno dell’establishment pre-esistente (la Chiesa, la fami- glia, il lavoro sicuro) o si finisce male (si rischia di diventare prostitu- te o ladri). In questa contrapposizione di valori, la città, corrotta dalla modernità, è contrapposta al piccolo paese, dove i valori tradizionali sono gelosamente custoditi. Che la maggioranza di questi film fosse girata in ambienti urbani lo si deve soprattutto alla necessità di sfruttare l’aspetto comico derivato dallo scontro tra il vecchio e il nuovo (pre- sente in modo ovvio nelle grandi città); la morale dominante tendeva a sottolineare come si finisce male se ci si lascia corrompere dalle nuove idee; di fatto si ridicolizza il futuro e si sorride bonariamente al passato, illudendosi e illudendo che il resto d’Italia vivesse ancora nell’idilliaco mondo del piccolo paese di Pane, amore e fantasia dove non ci sono problemi e il peggior nemico è il terremoto e non tanto la modernità. Bisogna aspettare Fellini per veder esposte le ipocrisie e le ango- sce della provincia di quegli anni vengono. Nonostante con I vitelloni (1954) lo stile di Fellini si stesse già evolvendo, allontanandosi sem- pre di più da trascrizioni realistiche, lo squallore della vita in provin- cia è colta con inusitata precisione. All’utopistica rappresentazione di Comencini, Fellini contrappone un’abulia esistenziale di stampo moderno che avvicina la provincia dei giovani alla grande città. Fatti i dovuti assestamenti socio-culturali, si scopre che il gruppo che pas- sa le giornate a guardare il mare e a immaginare avventure in luoghi impossibili con donne altrettanto impossibili non è molto diverso da quello che sognano Romolo e Salvatore. Unica differenza tangibile è la presenza tra i giovani della provincia di un’illusione che la realtà urbana ha già tradito. I vitelloni sperano ancora che vi sia una realtà meno claustrofobica di quella che ognuno di loro vive nel loro pic- 156 colo paese: Alberto sogna una Roma luculliana con fiumi di alcool, Leopoldo sogna l’Africa di Hemingway e Moraldo, il più giovane, accarezza costantemente l’idea di partire, anche se non sa esattamente per dove. I cinque amici sono legati da una comune avversione verso l’ambiente provinciale che contestano attraverso l’irrisione e la burla contro tutto e tutti. Per alcuni di loro è chiaramente un atteggiamento passeggero, mentre per altri è una crisi profonda che si potrarrà nel tempo. Questa differenza all’interno del gruppo è messa in evidenza dalla voce fuori campo, che, pur presentandosi con un “noi” che ne indica l’appartenenza al gruppo, usa un tono ironico verso gli amici che mette in rilievo la discrepanza che esiste tra quello che i cinque amici sono e quello che vorrebbero essere. Nella prima sequenza del film, la voce fuori campo presenta a uno a uno i cinque giovani, e pare alquanto ironico che colui che viene indicato come il loro capo spirituale, cioè Fausto, venga sorpreso dalla cinepresa proprio mentre tenta di sedurre una ragazzina con la fidanzata lo aspetta poco lonta- no. Fausto affronta ogni situazione imbarazzante con assoluta sfac- ciataggine, come quando scopre che la sua fidanzata è incinta e non solo decide di scappare, ma propone addirittura a Moraldo, fratello della fidanzata, di scappare con lui. La stessa mancanza di pudore la mostra Alberto, capace di fare del moralismo verso la sorella che lavora e reclama la sua indipendenza, mentre lui non esita a chieder- le continuamente soldi per scommettere ai cavalli. Alberto si erge a paladino dei valori della morale comune investendosi del poco pro- babile ruolo di capo famiglia, ricorrendo a un’autorità che la società gli attribuisce quasi per diritto, in quanto maschio, ma che non ha nessuna qualità per meritarsela. Alberto teme il giudizio della società e degli amici che, nonostante sembrino così aperti, sono ancora legati a una morale comune che riprende posizioni chiuse e bigotte. Fausto e Alberto sono un altro Romolo e un altro Salvatore; il loro andare controcorrente è più che altro un atteggiamento passeggero, non è dif- ficile prevedere che abbandonati dalla gioventù, i due ripiegheranno su se stessi a ricalcare le orme di quanti li hanno preceduti, negli stessi luoghi e nelle stesse situazioni. Il tempo trascorre ciclicamente e nulla cambia; le ore, i giorni e le stagioni si susseguono senza scosse di alcun tipo: la fine di una tipica giornata in provincia viene annunciata con tono ironico e monocorde dalla voce fuori campo. Al momento del loro ritorno a casa dopo un’altra giornata sprecata nel nulla, i cin- que amici si ritrovano a fronteggiare i soliti problemi di genitori che si 157 lamentano per orari non rispettati e per responsabilità evitate. Mentre tutti mestamente si coricano nei loro lettucci di casa accompagnati dalle voci di madri e zie, Moraldo, il più giovane, il più onestamente disinamorato della realtà provinciale, si aggira senza meta per le stra- de vuote della cittadina. Quasi guidato inconsciamente dal desiderio di viaggiare, si reca nei pressi della stazione dove sogna di partire per Roma. Sono le tre e mezza del mattino e Moraldo si sorprende di vedere un ragazzino ancora in piedi a quell’ora vicino alla stazione. Con sua grande sorpresa però, il ragazzino gli rivela che sta andan- do a lavorare alla stazione. L’equivoco non fa altro che rafforzare in Moraldo i dubbi sulle scelte possibili a disposizione dei giovani in una piccola cittadina come la loro. La domanda che rivolge al ragaz- zo, sul sentirsi o meno felice, rivela il tormentato stato di Moraldo che in realtà la domanda la fa più a sè stesso che non al ragazzino. Moral- do ha intuito che deve uscire dal circolo vizioso in cui tutto il gruppo è chiuso; d’altro canto, però, si sente ancora legato a quell’ambiente; per certi versi è intrappolato tra il machismo di Fausto e il mammi- smo di Alberto. Le vie d’uscita sono poche e difficili da perseguire; Moraldo finisce con l’accettare certe situazioni imbarazzanti per non dispiacere agli altri: si limita quindi ad osservare passivamente Fausto tradire sua sorella Sandra con qualsiasi donna gli passi davanti, accet- ta di partecipare a uno stupido furto organizzato da Fausto per ripicca nei confronti del padrone che l’ha licenziato e infine aiuta Alberto a tornare a casa dopo la colossale sbronza di Carnevale nonostante la sua fidanzata lo stia aspettando. Proprio il Carnevale è un evento par- ticolare perché è un momento di festa caratterizzato dall’assenza di qualsiasi regola, la normalità viene messa da parte e tutto diventa pos- sibile e i cinque vitelloni si ritrovano sul loro terreno favorito, quello della burla, del gioco senza regole. Questo stato euforico però non dura, è temporaneo, ma questo loro non lo vogliono sapere. Quan- do tutto finisce, non sono in grado di affrontare la realtà quotidiana che ha ripreso il sopravvento; a questo punto le due personalità più deboli del gruppo crollano. Alberto si trascina ubriaco nella grigia luce mattutina inveendo contro tutto e tutti, incapace di darsi pace all’idea che le regole siano tornate a dominare il loro comportamento e che la sorella abbia finalmente deciso di andarsene di casa; mentre Fausto da parte sua, non se ne accorge neppure della fine del Carne- vale e confonde l’atteggiamento giocoso della moglie del principale durante la festa per un’improbabile disponibilità sessuale. Quando 158 il giorno successivo Fausto azzarda ad abbracciarla, viene respinto con forza, ed è la donna stessa a ricordargli che il carnevale è finito. Ritratti negli ambienti domestici, i vitelloni si scontrano costantemen- te con le regole imposte dall’autorità a rispetto dei valori tradizionali. Simbolicamente quando sono ripresi in esterno i cinque amici sono costantemente isolati dalla comunità. Campi lunghi ce li mostrano passeggiare per deserte spiagge invernali o per le vuote strade not- turne della loro città. Il gruppo è estraniato dal proprio ambiente e i cinque si trovano a loro agio lontano dai luoghi consacrati alle attività quotidiane del paese. Vivono il loro paese in luoghi e in momenti in cui gli altri non ci sono. Ognuno di loro ha un sentore che si potreb- be definire epidermico, quasi animale, del proprio stato, ma non sa comprenderlo razionalmente, per questo nessuno trova il coraggio di tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla famiglia e al paese e alla fine tutti, tranne Moraldo, ripiegheranno su se stessi. Il quartiere popolare di Roma o la piccola città di provincia sono il teatro di una battaglia che i giovani combattono contro la mancanza di opportunità, contro una moralità chiusa e becera e una sessualità concepita ancora come imposizione di un’anacronistica predominan- za maschile. Solo Moraldo, alla fine del film, ha il coraggio di pren- dere il treno ed andarsene lontano anche se poi il viaggio verso la città non porta a immediati cambiamenti sostanziali. Ne La dolce vita, Marcello (il Moraldo de I vitelloni) si dibatte nella grande città con gli stessi problemi di insoddisfazione esistenziale di prima. Marcello è insoddisfatto del suo lavoro (per aver successo deve fare del giorna- lismo di bassa lega), della sua fidanzata (che già lo tratta come se lei fosse sua mamma) e dei rapporti superficiali con gli amici. Quando il padre arriva improvvisamente a Roma dalla cittadina di provincia (la Rimini di Moraldo) porta con sè ancora la mistificazione sulla vita in città che avevano i vitelloni. Il padre si entusiasma davanti al caos, alla vitalità, alla mondanità di Roma e di Via Veneto. È sintomatico che Fellini ricrei una Via Veneto in studio quasi ad indicare che per trovare una Via Veneto che potesse tener testa alle illusioni del padre, fosse necessario inventarla: quella vera era molto meno interessante di quella che il padre si immaginava. La gioventù degli anni cinquanta, che spesso nel cinema america- no andava incontro a una fine tragica, quasi a sottolineare la necessità di un sacrificio per raggiungere gli scopi prefissi, nel cinema italiano fa fatica a staccarsi da casa, a liberarsi dai tentacoli della famiglia 159 e il finale, per certi versi quasi incestuoso di Poveri ma belli, dove i due amici si scambiano le sorelle, lo sottolinea in modo piuttosto chiaro. Non è un caso che, mentre il cinema americano stabiliva con sicurezza delle immagini simbolo, dei personaggi di opposizione, una frontiera da superare, il cinema italiano eleggeva a simbolo della sua generazione il gestaccio ribelle che Alberto ne I Vitelloni fa a dei lavoratori lungo il ciglio di una strada mentre lui e i suoi amici sfaccendati passano in macchina. Come dice Maurizio De Benedictis:

Nel gesto-suono della pernacchia…, che in un punto Sordi rivolge a degli operai, traspare un’ancestrale provocazione: un mandare al diavolo non solo quelli – “lavoratori della mazza” – ma tutti quanti, compreso il pubblico e anche chi lo compie5.

Alla gioventù italiana di quegli anni non restava che dibattersi tra la vaga speranza che ci fosse un altrove non ben identificato e utopistico dove le cose potessero andare meglio e il rifiuto un pò anarchico e sterile come quello di Alberto. È significativo che quell’immagine di Alberto entrò nell’iconografia del cinema italiano, simbolo di una ribellione (mancata), del coraggio che svanisce di fronte alla prima difficoltà, della totale mancanza di coerenza ideologica. Alberto, abbindato con una sciarpa sulla testa che non lo rende certo guerriero della nuova gioventu’, non appena raggiunto dagli operai a cui aveva fatto il gesto, cerca mille scuse per evitare lo scontro: è l’immagine più rappresentativa della cultura italiana di quel periodo.

Filmografia essenziale

La dolce vita, Federico Fellini, 1959. Pane, Amore e fantasia, Luigi Comencini, 1955. Poveri ma belli, Dino Risi, 1955. Rebel without a cause (Gioventù bruciata), Nicholas Ray,1955. Riso Amaro, Giuseppe De Santis, 1947. I vitelloni, Federico Fellini, 1953. I vinti, Michelangelo Antonioni, 1952. The wild one (Il Selvaggio), Laslo Benedek, 1953.

5 Maurizio De Benedictis, Da Paisà a Salò e oltre: parabole del grande cinema italiano. Avagliano Editore, Roma, 2010, p. 175. 160 161

parte terza

Tra il vecchio e il nuovo 162 163

Gian Piero Brunetta

Cinema nel limbo: la storia del Sergente nella neve di Olmi e Rigoni Stern

La storia del cinema è fatta anche di progetti non realizzati, di inve- stimenti di tempo, denaro ed energie, che, in una misura ancora non quantificata e valutata, vengono dispersi senza lasciare tracce. Biso- gnerà, prima o poi, decidersi a dedicare l’attenzione che si meritano ai progetti che hanno avuto una gestazione importante per uno sceneg- giatore, un regista, un produttore e che, per una serie di motivi, non sono mai giunti mai a vedere la luce. Vi sono film di cui è impedito lo sviluppo già allo stato embrionale, opere interrotte in fase avanzata di riprese (è il caso di Que Viva Mexico! di Ejzenstejn) e film che non hanno avuto mai il battesimo della sala, anche se sono stati completati in tutte le loro parti. Le storie di queste opere, che mi piace chiamare ombelicali, perché fortemente legate al mondo di chi le ha concepi- te, o limbiche perché si situano in una zona neutra, prenatale, sono storie in cui giocano molti fattori e molti vincoli e condizionamenti, economici, politici, produttivi, censori. Un ruolo importante lo hanno giocato anche spesso le leggi del caso o del caos. Nell’opera di tutti i registi, ma anche nella storia dei grandi produt- tori, la storia dei film non realizzati ha un peso tutt’altro che irrilevante per capire quella delle opere realizzate il percorso creativo e la poetica di un autore e le relazioni tra la storia del cinema e il contesto storico politico e culturale più generale. Pensiamo solo al blocco dei soggetti e sceneggiature di film d’argomento resistenziale o bellico da parte del governo agli inizi degli anni cinquanta e alle varie forme di censura preventiva messe in atto per impedire la realizzazione di argomenti scomodi o considerati pericolosi. Il regista Aldo Vergano non può rea- lizzare un film sui fratelli Cervi, né uno sull’attentato Zaniboni a Mus- solini. Fuga da Lipari, scritto da Salvatore Laurani e Luigi Marchi e che parla della fuga di Emilio Lussu, Fausto Nitti e dei fratelli Rosselli 164 dal confino dell’isola siciliana e della loro lotta antifascista, non tro- va produttori interessati. Tanto meno Il delitto sull’auto, ricostruzione del delitto Matteotti fatta da Umberto Barbaro, e Lucio Battistrada. Il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire adattato per lo schermo da Massimo Mida e Gianni Corbi rimane nel cassetto. Al soggetto dedicato alla strage di Cefalonia si interessano in molti e poi, come racconta uno degli autori, Massimo Mida «la cen- sura americana pose il suo veto». Le soldatesse, scritto nei primi anni cinquanta da Ugo Pirro, per ricordare le imprese più erotiche e sessuali che militari dei soldati italiani nella campagna di Grecia vedrà la luce solo quindici anni dopo grazie a Valerio Zurlini…

La vicenda che intendo raccontare riguarda la sceneggiatura per un film tratto dal Sergente nella neve da parte di Ermanno Olmi, che prende vita già nel 1959, l’anno del suo esordio nel lungometraggio con Il tempo si è fermato. Benché non realizzato e a dispetto dell’osti- nazione del regista nel cercar di trovare, lungo quasi un quindicennio, le condizioni per farlo decollare, Il sergente nella neve rimane come un passaggio importante, decisivo, nel romanzo di formazione artisti- co e umano di Olmi.Il sergente nella neveIl sergente nella neve, come l’abbiamo conosciuto e letto nell’edizione dei Gettoni vittoriniani è la quarta stesura di un racconto nato in forma di note di diario duran- te la prigionia in Germania nel 1943. Come vedremo dai documenti già all’indomani dell’uscita della prima edizione Rigoni riceve alcune proposte di portare il racconto sullo schermo. Ma si tratta per lo più di proposte che cadono dopo i primi scambi di corrispondenza. Con Olmi le cose vanno da subito in maniera diversa e la diffidenza inizia- le dello scrittore lascia presto il posto alla fiducia e all’amicizia che si consoliderà in poco tempo. È stato lo sceneggiatore e regista Ernesto Guida a far leggere nel 1959 al giovane regista il libro di Rigoni Stern ed Olmi ha voluto conoscerne l’autore, ne ha acquistato i diritti con un’opzione anticipando la somma di 3.200.000 milioni di lire. Ecco come Rigoni ha ricostruito per il catalogo di una mostra rievocativa del circolo culturale di Padova “Il Pozzetto”, dove era andato con Olmi nel 1960 a presentare il progetto l’incontro con il regista: «Al principio del 1959 delle Case cinematografiche romane cointeressa- te nella produzione USA, o magari solamente prestanome di queste, avevano avanzato delle proposte per avere i diritti cinematografici del Sergente, ma contemporaneamente lo fece anche Olmi che allora 165 era un regista sconosciuto. Olmi, correndo sul tempo,venne a farmi vedere un suo documentario e pensando a quello che gli americani avrebbero realizzato (alpini/marines o alpini/cowboys) telegrafai al mio editore dicendogli che se dipendeva da me, optavo per Olmi. E l’Editore fu d’accordo». Olmi avanza la proposta per conto di una neonata casa di pro- duzione genovese, la Società Golden Star of Italy, fatta nascere per iniziativa di padre Angelo Arpa, un gesuita appassionato di cinema, che in quegli anni si è fatto conoscere per la difesa appassionata della Dolce vita di Fellini. La Golden Star of Italy aveva prodotto, come primo film, Era notte a Roma di Roberto Rossellini. Con esiti cata- strofici al botteghino, che la porteranno al fallimento nel 1961. Dopo aver lanciato vari ultimatum per poter iniziare le riprese entro una certa data sembrerà chiaro ad Olmi che per tener in vita il progetto bisogna esplorare altre strade. Il regista – forse anche grazie alla quasi decennale attività di docu- mentarista per conto della Montedison, che lo aveva portato a colla- borare con , Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich – ha sempre creduto possibile riuscire a produrre i film lontano dagli studi di Cinecittà, anche se per la produzione di questo film le sirene roma- ne hanno esercitato un richiamo forte per diverso tempo. E anche la nascita di questo progetto è coerente con la sua visione di una via italiana alla produzione alternativa a quella romanocentrica. Nonostante le ammirevoli capacità di riuscire a realizzare film con budget ad economia francescana Il sergente nella neve, soprattutto nella seconda parte, che richiedeva grande spiegamento di mezzi militari e imponenti scene di massa, avrebbe comunque avuto biso- gno di un impegno economico piuttosto consistente (erano previste oltre diecimila comparse nel primo piano di produzione) e sicura- mente al di là della portata reale dei mezzi messi a disposizione dalla Golden Star of Italy. Mezzi che, come si è detto, svaniscono presto spingendo Olmi a rivolgersi ad altri produttori: Dino De Laurentiis in prima battuta e poi grazie all’entusiastica mediazione di Valerio Zurlini, a Gustavo Lombardo della Titanus. La sceneggiatura per il film sulla guerra di Russia, che avrebbe dovuto costituire il secondo o il terzo lungometraggio della filmogra- fia olmiana, rimarrà nel cassetto, oltre che per il fallimento della casa genovese, per una serie di problemi che Olmi si troverà ad affronta- re negli anni successivi, anche se proprio quegli elementi di verità 166 assoluta e bilancio dei valori umani di fronte alla morte, dichiarati quasi in forma di manifesto poetico in una delle sue prime interviste sul progetto del film, resteranno come un punto di riferimento e ric- chezza patrimoniale acquisita grazie a questo passaggio attraverso la memorialistica di guerra. Passaggio che tornerà utile nei successivi documentari sulla resistenza realizzati negli anni settanta con Corra- do Stajano e raggiungerà una diversa e del tutto olmiana forma cine- matografica quarant’anni dopo nelMestiere delle armi. Anche se non realizzato il progetto – che verrà abbandonato per sempre da Olmi solo nel 1974, dopo una serie molto lunga di tentativi andati a vuoto di realizzarlo in un paese dell’Est, se non nella stessa Unione Sovietica – oltre che del tutto compatibile con la poetica del giovane autore del Tempo si è fermato e de Il posto e con la sua pres- soché unica capacità di rappresentare la gente di montagna senza ste- reotipi o deformazioni e la loro metamorfosi antropologica alle soglie dell’industrializzazione, ci appare oggi come incontro “necessario” nel processo di formazione e di visione del mondo di Olmi. Olmi troverà modo di realizzare qualche anno dopo per la Rai, assieme a Rigoni Stern, che scriverà un soggetto per la televisione e il cinema e a Tullio Kezich, I recuperanti, ambientato nell’Altopiano di Asiago, con personaggi che vivono recuperando residui di materiali della pri- ma guerra mondiale e sembrano i fratelli o i compaesani degli alpini del film sulla ritirata di Russia.

Ho scelto di ricostruire questa storia in forma cronachistica, lasciando parlare i documenti e gli stessi protagonisti cercando di muovermi con rispetto e partecipazione lungo un percorso tormentato, fatto di entusiasmi e speranze, di lunghe anticamere e di brucianti delusioni, che però ha il merito di consolidare poco alla volta un’amicizia, un rapporto umano e un vero e proprio processo di avvicinamento crea- tivo tra il giovane regista e Rigoni. Per la verità, come risulta anche dal ricordo di Rigoni, la prima proposta di riduzione cinematografica del Sergente risale già alla metà degli anni cinquanta, precedendo dunque di quasi cinque anni quella della Golden Star of Italy. Eccone la cronistoria come si ricostruisce grazie ai documenti e ai ricordi dei protagonisti: il 7 febbraio 1955 riceve una lettera da parte di Mario Pietrucci, a nome della Compagnia Generale Cinematogra- fica di Bologna: «Ho parlato con i miei amici produttori di Roma ed 167 ho incontrato una favorevole occasione per produrre il filmIl sergen- te della neve. Sono anche loro reduci dalla sacca e vedono la cosa fattibile e realizzabile. È necessario che lei s’impegni con me per la esclusività del soggetto. Mi faccia una proposta. Io ho già parlato per una partecipazione agli utili in modo che il SERGENTMAGJU’ non sia preso per il collo da nessuno». La casa Editrice Einaudi, a cui lo scrittore si rivolge subito, gli risponde a stretto giro di posta il 12 febbraio consigliandolo di rispon- dere «che le trattative per l’acquisto dei diritti cinematografici devono essere svolte con noi». Passano dieci giorni e Mario Pietrucci scrive in una seconda lettera: «Mi sono battuto e mi sto battendo per fare il film con un produttore serio che capisca l’importanza della cosa. Penso di essere prossimo al traguardo. È necessario però che lei si svincoli dalla Ditta Einaudi e mi mandi subito un’opzione per trattare con le carte in regola… ». Passano pochi mesi e in questa fase di incertezza Rigoni decide di chiedere aiuto al suo mentore Vittorini in cui ha piena fiducia e gli chiede di fissargli un appuntamento con una lettera del 24 luglio: «Caro Vittorini avrei bisogno di trovarmi con lei per avere un consi- glio su certe proposte che mi sono state fatte. Si tratta di una probabile riduzione del Sergente e data la mia incompetenza al riguardo non saprei a chi rivolgermi. Molto probabilmente in questo periodo lei si troverà in vacanza e allora le sarei grato se volesse indicarmi il giorno e il periodo in cui potrò trovarla a Milano». Il progetto con Pietrucci sembra fermarsi qui, mentre quattro anni dopo, nel giro di pochi mesi, vengono avanzate non una, ma ben tre proposte di acquisto dei diritti per la riduzione cinematografica. «Sono un giovane regista avrei intenzione di realizzare un film dal suo libro, Il sergente nella neve. – Gli scrive ai primi di dicembre 1959 Santi Colonna – Le sarei quindi grato se mi volesse concedere un’opzione per un anno». Entro tale periodo, se il progetto andasse in porto, il giovane si impegna a versare allo scrittore 500.000 e ad assumerlo per la sceneggiatura. «Nel malaugurato caso – aggiunge – invece che non riuscissi a realizzare il film Ella resterebbe libero di poter cedere a chi vuole i diritti cinematografici del Suo libro». Rigoni gira anche questa lettera alla casa Editrice e anche questa proposta non procede oltre. La seconda proposta viene da Ernesto Guida, aspirante all’esordio registico, ma con un’ultraquindicennale esperienza di aiuto regista, 168 soggettista e sceneggiatore. che scrive nel luglio del 1959 all’Einaudi perché lo mettano in contatto con lo scrittore e poi così contatta lo scrittore:

Caro signor Rigoni sono interessato al suo libro Il sergente nella neve in relazione a una possibile riduzione cinematografica. Desidererei quindi discuterne con lei qualora, come credo, ella sia ancora titolare dei diritti in questo campo. Non sono un produttore, bensì un giovane regista. Sarei veramente lieto ed onorato se la mia prima fatica potesse essere Il sergente nella neve.

Rigoni si dichiara subito disposto ad incontrarlo, sempre ricordan- do che il vero interlocutore è la casa editrice. Olmi appare dunque in seconda battuta, ma subito diventa il vero interlocutore, lasciando a Guida un ruolo tuttora difficile da mettere a fuoco con esattezza, anche se il suo nome figura nella prima versione della sceneggiatura. Un anno dopo la richiesta viene dalla Romor Film di Milano per mano di un suo amministratore, l’avv. Alberto Mortara, che in data 3 agosto 1960, chiede a Rigoni se il suo libro sia «tuttora libero da impegni», o, nel caso, se è possibile rilevarne i diritti. La risposta immediata informa che al momento i diritti sono già venduti. In effetti già il 26 novembre con un telegramma della casa editri- ce «Ricevuto proposta riduzione cinematograficaSergente tre milioni meno commissione agenzia… preghioamovi telefonarci suo benesta- re stop condizioni sembraci buone et casa cinematografica idem cor- dialità Einaudi». Il 12 dicembre, grazie all’intervento dell’Agenzia Letteraria Inter- nazionale di Erich Linder, che ha controllato tutte le clausole nell’in- teresse dello scrittore e della casa editrice, ha chiarito i dubbi solle- vati dall’autore e provveduto a riscuotere l’anticipo, Rigoni è entrato con molta circospezione e non pochi sospetti nella nuova avventura, ma ha firmato un primo contratto con una controparte costituita da Ermanno Olmi e Giuseppe Tortorella per conto «di una ditta da nomi- narsi entro il 31 dicembre 1960». La clausola 2 del contratto stabilisce che «qualora il primo giro di manovella non fosse stato dato entro il 31 marzo 1960 il presente contratto si intenderà decaduto a tutti gli effetti e la somma acquisita resterà al cedente a titolo di risarcimento danni per la mancata rea- 169 lizzazione della pellicola entro il termine concordato… ». La stessa clausola prevede però la possibilità di prorogare il contratto con un accordo tra le parti. Il contratto verrà perfezionato con la Golden Star of Italy, ammini- strata da Giovanni Romanengo e rappresentata per delega da Gianni Amico nella medesima forma e con le stesse clausole. Il 23 marzo dello stesso anno è lo stesso Rigoni a informare il suo agente letterario che per il ritardo nell’elaborazione della sce- neggiatura è necessario differire la data d’inizio delle riprese: «… la stesura della sceneggiatura non è del tutto soddisfacente alle esigenze artistiche dell’opera che s’intende fare. Pertanto dato che un affret- tato inizio nuocerebbe indubbiamente sul valore della realizzazione credo sia necessario rimandare ad altra data l’inizio del primo giro di manovella». Il progetto ha ormai preso così corpo nella testa del regista e dell’autore che insieme a Manlio Dazzi, Federico Comandini, Giorgio Moscon e Giancarlo Fusco, vanno a presentarlo a Padova al Circolo del Pozzetto in data 12 marzo 1960 in una tavola rotonda intitolata Il sergente nella neve… e il cinema. Dibattito sul soggetto cinematogra- fico tratto dal libro di Rigoni Stern. «Davanti ad una sala gremita da uno scelto uditorio – racconta la cronaca anonima del Gazzettino di Venezia del 13 marzo – l’uomo del cinema ha detto di aver scelto Il sergente nella neve quale sua prossima fatica cinematografica, perché è innamorato della storia che si narra nel romanzo e anche perché la natura dei personaggi è rimasta intatta. È seguita la parola di Mario Rigoni Stern, il quale ha appog- giato il giovane regista nelle sue idee dicendo che esse rispondono effettivamente alle esigenze del libro da lui steso». Quella sera, oltre ai relatori previsti «parlarono – ricorderà Rigoni nella testimonian- za per il catalogo sulla storia del Pozzetto – Olmi, Comisso, Manlio Dazzi, Tono Zancanaro, Cesare Cases, Giancarlo Fusco e certamen- te Ettore Luccini che pacatamente dirigeva il dibattito… La sera fu particolarmente animata. Non so ma credo che una tale atmosfera sia oggi irripetibile». Nel corso dell’anno la Golden Star fallisce e lo scrittore invia una prima raccomandata al curatore fallimentare chiedendo di tornare in possesso dei diritti sulla base dell’art. 2 del contratto. La risposta di Attilio Rossi, revisore dei conti, rivela che alcu- ni documenti sono andati perduti presso la casa produttrice che 170 secondo alcune testimonianze dei dirigenti della società i contratti erano due e che il secondo, firmato da Gianni Amico per delega, non prevedeva l’impegno a realizzare un film, ma solo ad acquisi- re i diritti sull’opera per un’eventuale riduzione cinematografica. Rigoni risponde con una raccomandata molto circostanziata il 3 del mese successivo in cui riafferma la validità del primo contratto e la cessione dei diritti di riduzione cinematografica con la clausola limitatoria dell’art. 2. A dieci mesi di distanza dal contratto e di fronte a questa nuova situazione l’avvocato Alberto Soffientini, amico di Olmi, risponde a una lettera di Rigoni datata 30 gennaio 1961 consigliandogli di dar mandato all’avvocato Werner di Milano di iinviare un ultimatum alla Golden Star, scaduto il quale lo scrittore potrebbe rientrare in posses- so dei diritti del libro e cederli ad altri produttore d’accordo col regi- sta: «Ormai è passato quasi un anno dal termine stabilito nel contratto ed anche con la proroga concessa, se il film si vuol fare entro il 1961, il produttore dovrebbe muoversi immediatamente, se no ci troveremo nell’impasse dell’anno scorso…». Il I febbraio Rigoni scrive all’avvocato Werner; «La prego di voler intervenire, nel mio interesse e in armonia con gli interessi dell’amico Ermanno Olmi presso la società Golden Star, per ottenere che essa dia corso, senza ulteriore indugio, all’esecuzione del filmIl sergente nel- la neve, o, in difetto, e fermi i suoi obblighi di rimborso assunti verso Olmi, si renda operativa la clausola di decadenza prevista dall’art. 2 del contratto. In quest’ultimo caso io sono pronto a trasferire i diritti di utiliz- zazione cinematografica dell’opera a una nuova società indicatami da Olmi al quale, come Le è noto, io ho in realtà e originariamente ceduto i diritti stessi». A poche settimane di distanza l’avvocato Meda di Milano scrive una lettera a Rigoni in cui lo informa di aver fatto un primo passo per conto di Olmi, ora impegnato nelle riprese di Due fermate a piedi (primo titolo de Il posto) presso la Golden Star e di aver deciso di por- re, in accordo con l’avvocato Warner, come termine indilazionabile il 31 marzo 1961, scaduto il quale i diritti ceduti sono da considerarsi revocati. Gli chiede di rispondergli nel caso non sia d’accordo. Rigoni risponde firmando una diffida alla Golden Star e dicendo all’avvocato di dire a Olmi di «ricordarsi di Asiago, anche se sta facendo due fer- mate a piedi». 171

Verso la fine dell’anno i rapporti con la Titanus si infittiscono e portano alla decisione della casa di Lombardo di assumersi l’onere giudiziario di un’eventuale causa con la Golden Star e di giungere al più presto ad una nuova definizione del contratto con lo scrittore. La cosa viene confermata da Alberto Soffientini insieme ad un auspica- bile ed imminente inizio delle riprese: «Ermanno la settimana ventu- ra, al ritorno del dr. Clementelli dalla Russia (dove è andato a trattare del film) andrà a Roma per gli ulteriori contratti e successivamente verrai interpellato direttamente dall’Ufficio legale della Titanus per la definizione del tuo contratto di sceneggiatura» . Il contratto sarà firmato il 27 aprile 1962 e riguarderà il lavoro di sceneggiatura. Il pagamento sarà dilazionato in quattro tranches, che come si evince da alcune lettere estive a Clementelli non verrà onora- to per intero, o almeno rispettato alle scadenze previste. Con questa storia, abbastanza significativa dell’aleatorietà in que- gli anni dei rapporti degli autori con le case di produzione, che spesso vivevano lo spazio di un film, si intreccia e consolida, nonostante il fal- limento del progetto, un rapporto umano che avvicina da subito scritto- re e regista, mettendo in luce una straordinaria familiarità e progressiva intimità. Mi sembra utile considerare a parte l’insieme di lettere scritte da Olmi a Rigoni tra il 1959 e il 1963, lettere che non nascondono le difficoltà progressive in cui il progetto s’imbatte, dopo che all’inizio tutto sembra facile e a portata di mano, ma che ci restituiscono la fidu- cia del regista di portarlo prima o poi a termine, senza lasciarsi abbatte- re da ostacoli sempre maggiori e in apparenza insormontabili. La prima lettera è del 16 dicembre 1959:

Caro Rigoni come ti ha telefonato l’altro ieri la signorina non sono potuto venire per via di queste nuove possibilità circa la realizzazione in co-produzione con la Russia. In verità non sono molte ma vale la pena di tentarle. Ho telefonato anche a Novello il quale aveva ricevuto la tua lettera: si è dimostrato molto entusiasta di poter collaborare, ma non vuole assumersi la responsabili- tà della scenografia perché lui non si sente preparato tecnica- mente. Scrupoli da galantuomo! Ti mando anche un pezzo di scaletta che avrei preferito rac- contarti a voce, ma comunque spero sia sufficientemente chia- ra, dato che è stata buttata giù velocemente. 172

Il 24 dicembre dopo aver ricevuto il plico con il materiale elaborato da Rigoni gli annuncia che nel frattempo sono successe cose interes- santissime di cui parlerà nella sua venuta ad Asiago dopo Capodanno. Verso la fine dell’anno una seconda lettera in cui informa lo scrit- tore chiamandolo ancora «Caro Rigoni» di essere uscito «illeso dalle Feste e per Feste intendo capponi, panettoni, parenti carichi di dol- ci… Ora riprendo a lavorare al Sergente che ha avuto in questi giorni grande interessamento da parte di tutti (Bagutta è stata la culla di questi commenti )». Olmi conferma la sua intenzione di recarsi ad Asiago per lavorare alla sceneggiatura ai primi del nuovo anno. La lettera successiva del 10 febbraio è accompagnata da una pri- ma idea di sceneggiatura. Passano alcuni mesi e a maggio la nuova lettera, scritta a mano, si rivolge in modo più familiare e affettuoso al «Caro Mario» e racconta di un colloquio fruttuoso con la Golden Star con cui è stata chiarita ogni cosa: «e quindi non si tratta che di conclu- dere. Sono stato anche alla Lux – lo informa – ed ho avuto uno scam- bio di idee interessantissimo. Comunque sono indietro di 30 anni!… Abbi fede, vecchio, intanto io faccio dire rosari a mia zia! Ciao». Nell’agosto del 1960 arriva un’altra lettera in cui si annuncia un nuovo contratto da parte della Golden Star: «Quante battaglie, sapes- si, e non sono ancora tutte vinte». Nell’annunciargli una sua visita ad Asiago aggiunge che «molto probabilmente farà una capatina anche Padre Arpa, che già conosci e che combatte la nostra battaglia (come vedi le guerre non finiscono mai… )». Nel frattempo una lettera di Soffientini, a nome di Olmi, informa che sono stati presi i contatti con la Titanus e con la Dino De Lauren- tiis: «Zurlini ha scritto ad Ermanno ed è veramente entusiasta per la storia e per la sceneggiatura che dichiara la più bella che abbia mai letto». La via De Laurentiis è al momento ferma in attesa che Erman- no si decida a scegliere un produttore rispetto all’altro. La lettera successiva di Olmi, del 22 novembre, è sorprendente in quanto all’improvviso apre un nuovo fronte di possibile collabora- zione, con la richiesta di storie nuove, non di guerra, forse più vicine alle corde poetiche del regista: «Voglio raccogliere tutte le cose che hai già scritte sul tuo paese. Sempre di più mi convinco dell’interesse e della validità di un film come tu sai. Mi raccomando. Riunisci tutto anche tu. Mandami anche Esami di concorso. E scrivi se puoi una 173 storia d’amore – ma che sia vera come sai scriverla tu. Appena ci sarà materiale ne parlerò al noleggio. Ciao Vecio!». Di nuovo silenzio per qualche mese ( Olmi è occupato con la post- produzione del Posto ) e poi una lettera del 31 luglio 1961: «Lombar- do ha letto la sceneggiatura e ne è rimasto entusiasta (e con lui tutti i suoi collaboratori). Mi pare molto impegnato e mi dice che farà il possibile per farcelo fare in Russia (Io per ora non faccio commenti date le precedenti esperienze, qui però pare tutto più serio).Conto di venire appena terminato il lavoro di edizione del Posto». Più amara, anche se ancora con una fiducia intatta nella possibilità di realizzare il progetto, la lettera successiva del 13 dicembre: «Caro Mario come pensavo per quest’anno non potremo fare Il sergente nel- la neve. Del resto tu sei pratico delle lunghe strade che però prima o poi portano a casa. Si dice in giro e con motivi precisi che la causa di questo rinvio sia dovuta proprio a un gruppo di “nostri amici” i quali quest’anno non potranno fare il film perché in Italia nessuno glielo vuole produrre. Questo film venne proposto anche a Lombardo il quale si è rifiuta- to dicendo chiaramente che gli interessava sì un film sulla ritirata di Russia, ma questo film eraIl sergente nella neve e nessun altro. La risposta dei russi è che il loro programma di lavoro per questa stagione è già completo. La nostra risposta è questa: siccome desi- deriamo fare il film con il massimo impegno e serietà rimanderemo di un anno l’inizio della lavorazione, sperando di poterci inserire nei loro programmi ed a questo proposito in gennaio Lombardo andrà in Russia e molto probabilmente anch’io. Per ora la preparazione del film continua. Verranno definiti i primi personaggi, fatti i contratti e tutto il resto. Mi incontrerò con dei giornalisti come ho fatto a Roma». In effetti il regista in alternativa alla possibilità di girare il film in Russia è andato in Slovenia e in Cecoslovacchia per trovare i luoghi adatti a ricreare la steppa russa, ed ha anche tentato di immaginare di poter girare per intero o in buona parte il film d’inverno sull’altipiano di Asiago. Di questa ricerca esistono dei servizi fotografici realizzati dallo stesso regista, che ci danno l’idea della cura e della forza poetica con cui è entrato nel progetto. Il contratto con la Titanus è firmato e poi perfezionato per quanto riguarda il lavoro di sceneggiatura che nel frattempo ha raggiunto la sua forma pressoché definitiva. Ma tra una cosa l’altra passano altri due anni. 174

Nell’ottobre del ’63 è Rigoni a mandare ad Olmi una copia del contratto e i dati editoriali del libro, invitandolo ad andare ad Asiago «dove le giornate sono bellissime» e dove i lavori della sua nuova casa, in contrada Rigoni di Sopra, proseguono «come si deve» (anche grazie agli anticipi dati dalla Titanus). Di lì a poco anche Rigoni deci- derà di costruirsi una casa accanto a Olmi sul limitare del bosco. Il viaggio cinematografico delSergente almeno per quanto riguar- da i documenti e il diretto coinvolgimento di Rigoni si fema qui. Olmi cercherà ancora per una decina d’anni di esplorare nuove possibilità di realizzarlo, trovando di volta in volta nuovi ostacoli che lo porteranno alla rinuncia definitiva verso la metà degli anni settanta. La visione laica di Rigoni Stern, ma così influenzata dallo spirito lucreziano, virgiliano e tolstojano, sembra trovare una naturale con- sonanza e congruenza con la ricerca di una religiosità immanente di Olmi. Il gruppo di alpini, che appartengono alla 55ª compagnia del bat- taglione Vestone, di cui fa parte il sergente Rigoni, ispira il giovane regista, per il fatto di essere una microcomunità (simile ad una comu- nità cristiana primitiva) coesa e solidale di uomini giovani, in terra straniera, che non conoscono le vere ragioni per cui sono mandati a combattere, ma che pur nello stato di abbrutimento progressivo a cui li conduce quella guerra, e nella consapevolezza che la morte li può sorprendere in qualsiasi momento, non perdono mai né la percezione di essere parte di un gruppo, né la loro dignità e quel carattere che si portano dietro dalla vita civile. La condizione in cui si trovano esalta il loro naturale senso di altruismo e solidarietà, insieme condividono eguali valori e qualsiasi bene, eguali speranze di tornare presto a casa dalla madre, moglie o morosa, o da chi altro hanno lasciato. E, pur in stato di privazione di tutto, riescono a ridere, a scherzare, a mangiare e bere insieme, a giocare alle carte e a ricreare, nei loro rifugi, non poche condizioni quotidiane di quella vita che hanno lasciato da civi- li. All’interno di ogni bunker/tana non esistono i gradi e le gerarchie, vige piuttosto, in ogni momento, il senso della sacralità dei riti di condivisione della mensa, per lo più ricavata da prodotti razziati dalla terra circostante, e tutti, dagli ufficiali ai semplici alpini, sono portati a condividere anche le stesse paure e lo stesso orizzonte d’attese (per tutti la patria è la casa, così ben identificata dal tormentone di Giua- nin: «magiù, ghe rivarèm a baita?»), ad anteporre al desiderio di sal- vezza individuale, il senso del bene comune, la capacità di soccorrere 175 chi ne ha bisogno, di trasmettere e mantenere alto il senso di fiducia nelle possibilità di salvarsi tutti insieme, prima che individualmente. Il film – se ne consideriamo la sceneggiatura e le ipotesi produttive – ha dunque ormai una forma avanzata di ideazione e progettazio- ne cinematografica, sembra quasi nato da un processo di filogenesi e d’evoluzione naturale dalla forma originale dell’Io narrante, che filtra nel vissuto personale e rielabora la memoria, riportandola al presente, alla forma di un’esperienza collettiva condivisa, narrata in terza per- sona, colta nella sua immediatezza e varietà di registri, ora comici, ora drammatici, ora tragici, ora epici. Rispetto al racconto la sceneggiatura è suddivisa in un numero di scene eguale (ottanta e ottanta) per ognuna delle due parti, Il caposal- do e La sacca. Nella sua forma compiuta di Opera-Mondo non realizzata e non trascodificata, la sceneggiatura delSergente è esemplare nella sua dop- pia natura, che ho voluto chiamare limbica e ombelicale. Ombelicale per il forte legame col testo di partenza, da cui deriva i geni e i valori profondi, e anche con la lezione del neorealismo e di Rossellini, a cui il film sembra voler rendere implicito omaggio. E limbica perché va ad ingrossare, come ho detto, quell’enorme giacimento di soggetti non realizzati che si possono comunque considerare come un capitolo importante della storia del cinema italiano, un filone aureo mai finora studiato nel suo insieme, un termometro di energia implicita, che non riesce a manifestarsi, per una quantità di elementi del contesto politi- co, economico e storico, che incidono nel processo di realizzazione di un film, ma resta sottotraccia e agisce da struttura connettiva, in molti casi illuminante, nell’opera dei vari autori. A distanza di poco meno di cinquant’anni questo manoscritto si presenta ancora, così com’è, come esempio di sceneggiatura “perfetta”, capace di sfidare il tempo e di riuscire a parlare anche all’eventuale spettatore di oggi. Olmi non ha voluto in passato e forse non ha avuto vere occasioni di raccontare le ragioni della non realizzazione del Sergente che sen- tiva così suo, di cui riteneva di aver del tutto metabolizzato la mate- ria umana e di cui aveva già ben immaginato i luoghi possibili delle riprese, i personaggi scelti tra montanari e alpini piemontesi, lombardi e veneti. Solo qualche anno fa ne ha parlato sul «Corriere della Sera» con Barbara Palombelli (Quando la sinistra mi impediva di lavora- re, «Il Corriere della Sera», 9 luglio 2005, p.36), ipotizzando, forse per la prima volta, tra le ragioni del fallimento, anche un ostracismo 176 da parte sovietica e del partito comunista per il suo essere un autore cattolico e come atto di protezione territoriale e ideologica del film di De Santis, Italiani brava gente, realizzato prima dell’eventuale inizio delle riprese del Sergente a cui come si è visto aveva già accennato in una lettera a Rigoni. Un vulnus, dopo il quarantennio trascorso, che non si è cicatrizzato del tutto: («Con Goffredo Lombardo, gran signo- re napoletano che regnava sulla Titanus, prima casa di produzione nazionale, provammo a fare un film sulla ritirata di Russia, raccontata nei suoi libri da Mario Rigoni Stern. Andai a cercare i luoghi adatti, partii prima per Mosca e poi per la Cecoslovacchia e finalmente tro- vai il paesaggio giusto. Eppure, dopo tanti incontri, sempre con le stesse persone, non riuscivo a capire perché mancasse sempre l’auto- rizzazione finale. Dopo un anno di tentativi, il mio intermediario del PCI mi disse: ma non hai ancora capito? Tu non sei affidabile. Non ci garantisci. E l’anno dopo, Giuseppe De Santis, iscritto al partito, girò Italiani brava gente, lui era in linea. Io no. Rimasi addolorato allora. Adesso sorrido»). A mio parere si tratta di un caso di confluenza di elementi contrari tra cui non va comunque trascurata la debolezza e l’improvvisazio- ne produttiva iniziale della Golden Star, che sta alla base del primo decisivo atto mancato, a cui si aggiunge con un peso determinante il flop di Italiani brava gente di De Santis e la sfortuna di giungere in un momento in cui l’unica memoria della guerra che sembra bene accolta dal grande pubblico cinematografico è quella contenuta nella commedia. La mancata mediazione da parte del PCI è assai probabi- le e tutto sommato prevedibile, ma non è l’elemento decisivo, se vi fosse stata comunque la volontà di girare il film in luoghi più vicini. Nel passaggio dal racconto di Rigoni alla sceneggiatura si proce- de a una trasformazione e ad una sorta di selezione e filtraggio dei materiali originari in parte analogo all’operazione di macinatura della segale che apre il progetto cinematografico. Considerandone la natu- ra ibrida, il fatto che Rigoni Stern vi abbia certamente messo mano, ma che abbia piuttosto preferito veder rispettato lo spirito delle sue pagine e che il soggetto, pur con le molte riduzioni, sembri mantenere i caratteri e il completo riconoscimento del suo padre naturale, lo si potrebbe considerare opera a metà del guado tra la quinta stesura del Sergente e il terzo lungometraggio nella filmografia di Olmi. Sen- za nulla voler sottrarre alla paternità dello scrittore il racconto nella sceneggiatura, pur non avendo raggiunto una perfetta forma olmiana 177 sul piano dell’opera realizzata, è stato adottato per intero dal regista e sentito da subito come proprio, come ben si capisce dalle interviste che il regista ha rilasciato, dai suoi ricordi, dalla scelta del materiale, dal susseguirsi delle scene, dal tipo di sguardo che la sceneggiatura lascia immaginare. In ogni pagina, se si apprezza la presenza e il controllo della qua- lità della scrittura e dell’esattezza della ricostruzione da parte di Rigo- ni, si avverte come il regista abbia preso le misure di ogni elemento, quasi riesca a pre-vederne la sua trasformazione audiovisiva. Come ho detto dall’inizio, oltre che convinto dell’importanza del- lo studio delle opere non realizzate per capire certi momenti della storia del cinema sono sempre stato anche certo che nella filmografia di un regista si possano e debbano considerare i progetti non realizzati quando servono a illuminarne lo sviluppo del percorso poetico, quan- do, come in questo caso, funzionano comunque da modificatori non solo del lavoro, ma della vita di una persona. Olmi, in effetti, è stato così affascinato, oltre che dal libro dal modello di vita dello scrittore e dal suo habitat che decide di andare a vivere ad Asiago accanto a lui e, come si è detto, ha continuato a coltivare ancora ostinatamente e appassionatamente l’idea della realizzazione di questo film per alme- no un quindicennio. Se, come diceva Pasolini, la sceneggiatura è una struttura che vuo- le essere un’altra struttura, a noi, in questo caso di una struttura che non si è mai realizzata, può interessare cogliere come avviene il pas- saggio di testimone tra un narratore che rinuncia alla sua presenza di cantore di un’epopea e accetta di diventare parte di un flusso di narra- zione audiovisiva in cui la sua esperienza è osservata da uno sguardo che la vuole cogliere come parte di un’esperienza collettiva.

Questo saggio vuole ricordare, oltre che gli autori e in particolare Rigoni, scomparso da un anno, anche il formarsi tra il regista e l’Alti- piano: un amore a prima vista, che, quest’anno, festeggia le sue nozze d’oro.

Questo articolo è una rielaborazione/riduzione, con l’aggiunta di nuo- vi documenti, del saggio Il sergente di Olmi e Rigoni Stern disperso negli anni del disgelo, postfazione di Ermanno Olmi e Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. La sceneggiatura, Einaudi, Torino, 2008. 178 179 Peter Brunette

Bertolucci Was Right: We Can’t Live Without Rossellini

It’s true that, as one of Bernardo Bertolucci’s characters says in Prima della rivoluzione, “non si può vivere senza Rossellini”, or, “we can’t live without Rossellini”. For me, Roberto Rossellini has always been a kind of ur-signifier for all that the Lumière Brothers’ branch of the cinematic family has ever tried to accomplish. In my mind at least – and I think this is what drew me to start writing about Rossellini in 1979 – he stands in for the many permutations a certain aesthetic stance toward the world and its cinematic representation, dubbed rea- lism, has taken over the decades since he was born in 1906. (I should add parenthetically that when I use his name throughout this paper I mean, really, to invoke the entirety of that multi-faceted movement, Italian neo-realism, for which he stands as its synecdoche). Of course, Georges Méliès and his subsequent clan have delighted and astonished us, as recently as James Cameron’s Avatar, and they too are essential. In Italy, this side of the family thrives in brilliant recent films like Paolo Sorrentino’sIl Divo, made in 2008 (that annus mirabilis of contemporary Italian cinema), a film in which the cine- matic imagination is allowed to run free and untrammeled. Yet I can’t help thinking that the German critic and theorist Sieg- fried Kracauer was right when he insisted, in the subtitle of his cele- brated book Theory of Film, that the true vocation of cinema was, finally, the redemption of physical reality. After all, every other visual art form manifests a potential for non-representational stylization, but none, with the exception of analog photography, is so blessed and, possibly, cursed, by its unavoidable connection with a real-world referent, as Roland Barthes concluded in Camera Lucida. What’s so important about Rossellini, though, is that he went beyond mere physical reality, so supremely visible, so “superficial” 180 in the literal meaning of the word, to redeem other, felt realities as well: the inner, particular, often invisible reality of emotion, as well as the macro and equally invisible reality of history. Neither of these “realities” is always visible on the surface, of course, are as real as anything that readily gives itself to sight, even if they must be appro- ached sideways. Above all, Rossellini was after what he called “truth”, a word, like Art with a capitai A, that sticks in our craw these days, or at least in mine. [Both of these words are stili being unproblematically tossed around by Michael Haneke, the subject of my most recent book]. I myself don’t believe such an entity as truth exists, and thus I don’t believe it can ever be found. Yet I do believe, as Jacques Derrida always did, despite what his antagonists claimed, in the search for truth as the supreme motiva- ting force behind all human intellectual and aesthetic inquiry. It’s one ofthose “as if” situations: despite our qualms, we must proceed as if such a thing existed or else be condemned to remain in our lonely solipsistic basements sucking our thumbs. We know that cinema is uniquely prepared to aid us in this “as if” search for the truth about reality, and the inquiry continues in many forms, long after Rossellini’s death 35 years ago. The list of his lega- tees is long. Nevertheless, his legacy is also a decidedly mixed one, and it’s the contours ofthat complicated but vitallegacy that that I want to very briefly explore today. To begin in contemporary Italy, where the overwhelming influen- ce of neo-realism has been as much curse as blessing, there’s the magnificent Gomorrah directed by Matteo Garrone, which came out in 2008, the same year as Il Divo. It’s a film of such unvarnished power and such apparent authenticity that it can suddenly make you wonder what you ever saw in The Sopranos and why you invested 80 plus hours of your life in that seductively entertaining and dange- rously humanizing soap opera. If Gomorrah can never re-enact any “complete” truth about the Italian under world – in this particular instance, the Neapolitan – its sudden outbursts of inexplica- ble, ruthless violence convey the clear idea, readily verifiable in the daily Italian newspaper, that they are little more than unredeemable scum that have continued for decades to poison an entire nation. The ostensibly neutral recording of what is simply there as an indexical sign of the evil that lies just below the surface, clearly refers back to 181 the glories of neo-realism, as many commentators have pointed out, and to Rossellini specifically as a key progenitor of this movement. Rossellini thus lives on, and vitally, in his native land. Yet not everything that looks and sounds Rossellinian, of course, is so. Thus the contemporary Italian cinema is also capable of produ- cing a pseudo neo-realist work like Respiro, directed by the overrated Emanuele Crialese in 2002, a film which has been lauded by many. The beautiful people who populate this film, especially Vale- ria Golino, seem like aliens who have been magically transported direct from Planet Hollywood to gritty, real locations. Here the most obvious, most easily replicated signifiers of neo-realism – like having southerners say “lo saccio” instead of “lo so” – have been co-opted purely for commerciai purposes and have little to do with any putati- ve “search for truth”. But then again perhaps it’s precisely on Planet Hollywood, or at least on an independent, smaller planet nearby, that the legacy of Ros- sellini, broadly speaking, lives on most powerfully. Here l’m thinking of this year’s winner of the Oscar for Best Pictu- re, Kathryn Bigelow’s The Hurt Locker. The film’s been praised, and properly so, for the intense realism with which the life of a member of a bomb removal squad, in Iraq, is conveyed. But realism toward what end? What purpose does it serve? It’s exciting, ves, and it keeps you breathless and on the edge of your seat throughout its entire running time, but I wonder if it does anything else with its realism. Is it ever anything more than gripping? Is this the most that we can hope for from Kracauer and Bazin’s dreams for a realist aesthetic? Of course it’s true that Rossellini’s Open City is often superficially and calcu- latedly exciting and suspenseful, but then again it uses these Hol- lywood elements to arrive at something grander and more crucial than Hollywood, a emotionally and psychologically devastating portrait of a certain people at a certain time in history. More obviously and more importantly, Open City, despite the fact that it’s Rossellini’s most famous film, is also his least typical. I think Bigelow’s intention in The Hurt Locker was to depict, if not exactly condemn, overtly, the adrenaline high that a gung-ho cha- racter like Captain James lives for, but in this very depiction, doe- sn’t it replicate the same high in its audience? Doesn’t Captain James emerge precisely as an exciting devil-may-care figure to be emulated? 182

This is of course the danger of ali committed representation, espe- cially representation that purports to present things neutrally – that it can easily stimulate a desire for precisely that which it may, on other levels, seem to condemn. (Here l’m thinking of the Japanese direc- tor Kenji Mizoguchi, and Rossellini himself, depicting the travails of women while perhaps indirectly enjoying at some subconscious level this very administration of pain, or the supposed anti-violence of a very violent film like Clockwork Orange, or the anti-war film Platoon which, years ago, made the two sons of one of my students want to join the army). Another figure who comes to mind is the talented director Paul Greengrass, who is probably best known for his recent Green Zone and for his two Bourne films, ali of which star Matt Damon. More interesting, though, are his careful re-creations of historical events, United 93 (2006), which concerns the piane that was brought down in Pennsylvania during the terrorist attacks of September 11, and Bloody Sunday (2002), a dramatization of the massacre of Irish civil rights protestors by British troops thirty years earlier. The re-creations in both instances are meticulous and viewers experience the sensation of having been placed in the middle of the event as it is happening. Part of this effect arises from Greengrass’s wise, clearly neo-realistinspi- red choice to avoid stars or other well-known character actors in his re-creation – I was so happy that I didn’t have to hear Tom Cruise say “let’s roll!” – a decision that greatly heightens the sense that we are watching a kind of magic documentary, made during the fact, rather than after. But, again, one wonders about the ultimate purpose of films like these. They’re exciting, you feel like you’re really there, their sur- faces positively gleam with authenticity, but is there anything else? In fact, I think there is, because both ofthese Greengrass films car- ry a moral charge that, if at times somewhat inchoate or vague, can nonetheless be felt. In fact, it is probably this very vagueness that enhances the reality effect, for any clearer thematic statement would tend to reveal and emphasize the film’s constructedness. This much seems clear: Greengrass has a point of view, however unspecific, and wants to convey a certain ambiguous IItruth” about these events. This is exactly what Rossellini, in the majority of his films, whether based on historical figures or completely fictional ones, was after as well. The historical re-creations of Paisà and, somewhat more bombasti- 183 cally, of Open City, specifically, do not seem ali that different fram what Greengrass is trying to accomplish more than sixty years later. (Incidentally, it’s interesting how this “real” but completely accessi- ble filmmaking, where everything is visible, has made YouTube and other real-life videos – for example, the Iranian woman killed in the protests, or the recently revealed video of the helicopter gunships sho- oting and killing reporters in Iraq – seem disappointing and unreal, precisely because they are not available to a lacanian imaginary that that seems to grant us a full, mastering vision in the movie theater). One of the most fascinating things about realist films of the last thirty years or so, is that the ubiquitous hand-held camera, heavily in use in both Bigelow’s and Greengrass’s films, has become the chief formai signifier of cinematic realism and, by extension, of the real itself. Of course, the lightweight equipment that has made this tech- nique possible was not available during Rossellini’s time and it is interesting to speculate on whether Rossellini would have used it had it been available when he was making films. The answer, I think, is a definite maybe. On the one hand, the director was more than welco- ming to new cinematic technology and was one ofthe first to adopt the new zoom lens, however sparingly, in his film General della Rovere in 1959. By the time he began making his historical docu-dramas for television, his own manually-operated zoom, which he invented and which he manipulated during filming, would in fact become virtual- ly the sole camera movement used in these films. (He also liked it because it saved on editing costs, since he could, in effect, edit “in the camera” while shooting). On the other hand, I think Rossellini would have rejected the aes- thetic and epistemological meanings that have accrued to the use of the device – in other words, the handheld camera as signifier of a more direct access to the real. Rossellini’s realism, of course, was never a function of camera technique or any strictly speaking “cine- matic” technique, but always one of embodiment (in his non-profes- sional actors), location, and mise-en-scène. Moving from the sublime to the ridiculous, one of the more bale- ful offspring of the Rossellinian realist aesthetic is so-called reality television, which seems always on the point of expiration, only to rise from the dead once again, like the vampire craze which has begun to threaten the hegemony of “reality” over the airwaves. What television executives like about the genre, of course, stems not from any com- 184 mitment to the redemptive power of television as a revealer of reality, either physical or invisible, but from the fact that reality shows are much cheaper to produce than a dramatic show or news show. On the other hand, what average viewers seem to enjoy most about the genre is the unadulterated scopophilia or protected voyeurism that it seems to allow and even foster. Though most of the shows are in fact heavily scripted, at least in terms of the generai direction of the plots and situations, nevertheless audiences seem enthralled by the fast that the actual word-by-word dialogue is not. Potentially, this could be a good thing and bring with it a sense of Barthes’s writerly or what John Fiske would cali the “producerly,” (even if it the writerly or producerly here is attached to the show’s participants, a kind of intermediate group between sen- ders and receivers, and not the spectators themselves). As such, it could potentially represent a momentary release from the banality and hegemony of the rigid rules of the televisual apparatus, in the largest sense ofthat word, produced by the dominant ideology. It seems like a case in which, according to an older terminology, parole may quite possibly deviate from, or exceed, the langue that structures television drama, and thus threaten it. But what a far cry from anything ever attempted by Rossellini! Attacking reality TV is like shooting fish in a barrel, of course, but still. The point of most reality shows seems to be to uncover the worst, grossest traits of human beings, not their courage, hope, and higher aspirations, ali important values to Rossellini. Here what seems to be chiefly sought is embarrassment and humiliation. But are these suppo- sedly novel, endlessly mesmerizing, apparently unscripted situations any more “real’’ than anything else? Or are they just less frequently represented? As they have since the beginning of spectacle, viewers seek the thrill of the forbidden, a quick glimpse of some coloring out- side the lines, a brief vision, perhaps, of Lacan’s Real that however fleetingly, appears to escape the manufactured “reality” oftelevision. But maybe we don’t always get what we think we like. I once tried to watch an episode of The Bachelor and I felt so bad, and more importantly, so embarrassed, for the pathetically needy young woman chasing an unexceptionable young man, that I was forced to change channels. [My discomfort watching reality shows, I hope, is one of the few areas where I really show my age!]. 185

Rossellini was a passionate defender of television, of course, and, as president of the jury at Cannes in 1977, argued, a few weeks before his death of a heart attack, for the Palme d’Or to be given to the Tavia- ni Brothers’ filmPadre Padrone, which was originally funded by, and made for, RAI television. For Rossellini, ali of it was film, and what did it matter whether it was shown on a big screen in an auditorium or a little screen at home? In the last part of his career, in fact, Rossellini himself turned almost exclusively to television, making documentaries on various historical figures such as Pascal, St. Augustine, Descartes, Socrates, Cosimo de’ Medici, and Jesus Christ, and on subjects as disparate as the history of the Iron Age and the contemporary art museum in the Centre Beaubourg in Paris. Many of these productions about the historical figures, especial- ly, can, quite frankly, seem exceptionally longwinded and not a little amateurish in technical execution. But Rossellini was never much interested in a slick presentation, or in history’s surface reality in these projects – since the reproduction of the putative physical rea- lity of such historical periods could in any case only be conjectural – emphasizing rather the “reality” of certain powerful ideas, elabo- rated in long, static discussions between characters, that have deeply affected the progress of civilization. Here, surface reality seems to be little more than the expendable “parergon” elaborated by Kant and dissected by Derrida, to the real essence, the “ergon” of ideas. Another, perhaps more diffuse Rossellinian legacy is the commit- ment to dead time and dedramatization, and its formai concomitant, the long-take, that was evident as early as the late forties in the films made with Ingrid Bergman, and of course in the sublime Europa 51 of 1952 and Viaggio in Italia of 1954. I think it is not too much to claim that Rossellini and his ilk are largely responsible for the long- take aesthetic that dominates the films of many auteurs in Europe and especially Asia, that unhurried glimpse of “real life” in which “nothing happens”, but which can in fact reveal so much. In Euro- pe, the Belgian Dardenne brothers come to mind, with their brilliant, apparently superficial and unfocused films like La Promesse, The Child, The Son, and Rosetta. These films manage to reveal an enti re inner world of the individuai, and the equally invisible social world, through their relentless focus on an apparently unimportant exterior. In Asia, among countless examples that could be cited, l’ve recently 186 re-watched Maborosi, made in 1998, the brilliant first film of Japa- nese director Hirokazu Kore-eda in which powerful if barely spoken meanings are conveyed indirectly through the glimpses of banal, eve- ryday life that slowly accrete. The technique of focusing on the banalities of reallife, without the addition of any overt “drama”, is of course a staple of Iranian cinema as well. I recently re-watched Jafar Panahi’s The Circle, made in 2000, and was impressed by its apparent aimlessness as its various “stories” play out on the real streets of Teheran. But a closer look shows how carefully structured the film is, in an almost literary fashion, with the use of various motifs like the circle, smoking cigarettes, and so on. The apparent aleatory quality that the film offers is a ruse to disguise what is actually tightly controlled, within an “uncontrolled” context. The greatest filmmaker in Iran, Abbas Kiarostami, of course, is the master of this purposeful indirection. I am thinking here especially of his 1997 masterpiece, Taste of Cherry. But this aleatory approach is also a dangerous technique in the hands of the untalented. I saw a film at the Berlin Film Festival in February, which shall go unnamed, mostly because I can’t remember the title, which lar- gely contented itself with a lackadaisical observation of the banali- ties of everyday life, but which remained stubbornly at that level, in other words, unrelievedly banal. It was literally true in this film that “nothing ever happened”, neither on the level of plot or thematic reve- lation. It stands in strong contrast to a great if challenging film like the recent Romanian production “Police, Adjective”, whose frankly quite often annoying but finally purposeful indirection and lack of forward progress are powerfully redeemed in the last fifteen minutes when ali the philosophicalloose ends are brilliantly brought together. Finally, I want to speak of an informai new movement in American independent cinema that the New York Times’ critic A. O. Scott has recently dubbed “Neo-neo-realism”. It’s too soon to tell, of course, but this collection of films and filmmakers may very well turn out to be one of Rossellini’s most significant legacies. The movement, such as it is, is led by figures like Ramin Bahrani, the director of Man Push Cart (2006) and Chop Shop (2008), who told Scott that he was greatly influenced by Rossellini’s 1951 filmThe Flowers of St. Fran- cis in the making of his excellent recent film Goodbye Solo. Other key directors in this fledgling movement are Kelly Reichardt, who is 187 best known for Wendy and Lucy, and Lance Hammer, who made the powerful film Ballast, what I call the real “Precious”. Again, astute and masterful indirection, coupled with apparent aimlessness and a fierce commitment to the reality of specific places, make these reve- latory films very special. In an article published about a year ago in the New York Times Magazine, Scott took issue with those who believe that, given our current hard times, what we really need, as during the Great Depres- sion, is the fantasy and the escapism embodied in the Fred Astaire movies so popular at the time: «What if, at least some ofthe time, we feel an urge to escape from escapism? For most of the past decade, magical thinking has been elevated from a diversion to an ideologica I principle … To counter the tyranny of fantasy entrenched on Wall Street and in Washington as well as in Hollywood, it seems possible that engagement with the world as it is might reassert itself as an aesthetic strategy. Perhaps it would be worth considering that what we need from movies, in the face of a dismaying and confusing real world, is realism». (March 17, 2009). As Scott summarizes his argument later in the piece, «American film is having its Neorealist moment, and not a moment too soon». In other words, Rossellini finally comes back again to a meretricious and Hollywoodized America, desperately in need of redemption on so many levels, maybe his true home after all. 188 189 Andrea Ciccarelli

Fra viaggio e stasi: considerazioni sul cinema italiano contemporaneo

Nel cominciare devo innanzi tutto spiegare il titolo di questo saggio. Non intendo puntare ad esaminare se le due tematiche del titolo siano più o meno sfruttate o presenti in momenti specifici del cinema italia- no; né tantomeno proporre una verifica quantitativa che identifichi e censisca il rapporto fra i due temi e determinati registi; ma desidero, semmai, inquadrare in un discorso più generale il soggetto del titolo. È mia intenzione esporre, insomma, più l’idea critica alla base di que- sto progetto di ricerca che non esemplificare con dei risultati parziali. Fra i tanti approcci con cui ci si può accostare criticamente al cine- ma, ho scelto quello di sondare se il cinema italiano contemporaneo, almeno in alcuni dei suoi registi più rappresentativi, mostri interesse per i due temi o, meglio, per il contrasto che nasce fra il grande tema del viaggio e la stasi, cioè, il suo contrario, sebbene, in un certo sen- so, ne sia anche il suo complemento. Perché la stasi sia il contrario del viaggio è chiaro; perché ne sia anche complementare può esserlo meno, visto che, solitamente, si contrappongono nettamente le due correnti che attraversano e informano la cultura occidentale. Senza dimenticarci che qualsiasi teoria va poi confrontata e verificata nel concreto del linguaggio artistico a cui si fa riferimento, vorrei sof- fermarmi su un discorso tematico, per poter appurare se si possa far rientrare il cinema italiano – o parte di esso – all’interno di un discor- so teorico e tematico più univoco. Il viaggio e la stasi sono due forme di conoscenza: la prima si basa sull’esplorazione, la seconda sullo scavo interiore. Chi esplora apprende perché confronta continuamente le proprie conoscenze con i nuovi dati acquisiti. Il paesaggio, la flora, la fauna, gli usi, i costumi, l’arte, la lingua, tutto è istintivamente riportato e paragonato a quanto già si sa, arricchendone il bagaglio, sia che si tratti di accettare o di 190 rifiutare la novità. L’atteggiamento sottinteso al viaggio è l’ammissio- ne implicita che, al di fuori di sè, vi siano elementi nuovi, possibilità di risultati diversi e, forse, migliori di ciò che si conosce. Chi è stan- ziale, invece, può arrivare a sviluppare una eccezionale sensibilità del proprio territorio, di ciò che è (o dovrebbe essere) familiare; affonda radici in profondità perché rinuncia all’esplorazione ulteriore, si bloc- ca ai confini del proprio terreno reale e ideale: ciò che ha già visto o quello che intravede sbirciando dal proprio rifugio (o, persino, quel- lo che gli è stato raccontato da altri) del mondo è sufficiente a farlo rimanere saldo, fermo nel proprio spazio che viene esaminato dal di dentro, scrutato in verticale più che in orizzontale; come chi vive in paese arroccato in cima a una collina. Il presupposto di chi rinuncia al viaggio è la scarsa fiducia nella reale possibilità di trovare soluzioni diverse da quanto già si conosce1. Ma, come accennato, viaggio e sta- si sono figure fisiche e metaforiche contrapposte, ma anche comple- mentari, perché rispecchiano impulsi diversi ma che s’intrecciano a secondo delle circostanze. Si può viaggiare per tante ragioni diverse, naturalmente. Perché si è forzati da eventi esterni (calamità naturali o umane, politiche; necessità, desiderio di migliorare, etc.), con o senza la possibilità del ritorno. La nostalgia di quanto lasciato, nel primo caso, spinge al desiderio innato di ritornare (Ulisse); nel secondo sol- lecita a trovare un luogo che sostituisca quanto abbandonato (Enea). Nell’uno e nell’altro caso, però, la riuscita del viaggio (breve o lungo, avventuroso o lineare) dipende dalla volontà di interpretare i segni che marcano il cammino come fonte di arricchimento personale, assorbendoli nel proprio bagaglio d’esperienza che viene accresciuta e modificata a secondo delle situazioni incontrate. Il viaggio fine a se stesso, senza uno scopo (ritorno o rifondazione), o è un atto di con- quista (si pensi all’Iliade), un’usurpazione, una rapina; oppure finisce

1 Sul contrasto fra il viaggiare come forma di conoscenza e il ritorno inteso come rientro nel proprio territorio conosciuto, da cui poter ripensare e apprezzare (anche nel senso di rifiutarle) le novità osservate vi è una bibliografia sterminata. Qui posso rinviare ad alcuni autori che, a mio avviso, hanno colto maggiormen- te la conflittuale poliedricità di questo contrasto conoscitivo. Oltre ai lavori di Magris (1982 e 1999), si veda la densa autobiografia culturale di Said (in parti- colare la prefazione e le pagine iniziali), The Redress of Poetry (1996) di Seamus Heaney e L’Ignorance (2000) di Milan Kundera. So bene che quest’ultimo è un romanzo e non un saggio, ma è un romanzo che s’interroga, forse più di altri scritti sull’argomento, sul nodo della conoscenza affidata al contrasto fra migra- zione forzata, viaggio voluto e stanzialità cercata. 191 per collimare con un vagare improduttivo, che rischia di implodere per l’incapacità di individuare una meta o un’azione che lo giustifichi e lo concluda, magari per poi ricominciarlo2. Sappiamo che sin dagli esordi della cultura occidentale (Iliade e Odissea) il movimento, il viaggio, l’esplorazione dello spazio che si ha di fronte, che ci circonda o che possiamo solo immaginare, diventa necessaria allegoria per un lavoro che aspiri alla narrazione del mondo3. Fermo restando che le due figure di viaggio non sono affatto lineari, possiamo sostenere che l’Iliade proponga un viaggio centrifugo, che si spande verso la conquista di uno spazio nuovo, ambito e concupito da chi non è soddisfatto dal proprio essere e dal proprio avere (che sia rappresentato dall’ambizione di Agamennone o dall’avidità degli altri re greci o dal desiderio di gloria di Achille è, in un certo senso, irrilevante: sono tutte facce dello stesso impulso di conquista)4. L’Odissea invece è centripeta, come un predatore che gira concentricamente intorno alla vittima prescelta e la stringe sem- pre più nel cerchio delle sue peregrinazioni, fino a diventare tutt’uno con essa, nella morsa della lotta fra vita e morte. Paradossalmente, il viaggio di ritorno di Ulisse è molto più vario e molto più viag- gio, insomma, che non quello sottinteso allo sbarco degli Achei sulle sponde di Ilio – dove poi sostano e diventano stanziali, si accasano per dieci anni in attesa di penetrare le mura invincibili della città. 2 Questa sensazione di movimento inerte, senza un preciso senso d’identità che si vuole rinforzare o recuperare è quello che Magris chiama “odissea rettilinea”, in cui il protagonista, non avendo punti di riferimento, non (ri)conosce e non sem- bra poter raggiungere un’identità diversa o più profonda di quella di partenza: la personalità non si arricchisce, ma si sgretola nella presa di coscienza del nulla continuo (1999, pp. 59-60). 3 Quando si parla degli albori della civiltà occidentale non si sottolinea forse a sufficienza la sua radice fortemente mediterranea, una radice in cui la conflit- tualità fra il viaggio (per mare, ma non solo) e la volontà stanziale o di ritorno è insita nella stessa conformazione geografica dei luoghi dove nasce il mito. Gli insediamenti aggrappati in cima a scogliere, dirupi o colline che si specchiano sul mare offrono un’immagine dissonante nei confronti dell’acqua che invita alla navigazione e all’esplorazione. 4 Sulla conflittuale circolarità dei due poemi omerici e sulla loro presenza e influen- za nella cultura italiana si veda Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione. Milano, Mondadori, 1991. Riprendo da questo libro, già pubblicato in forma leggermente diversa nel 1974 (Milano, Bompiani) e poi nel vol. 5, Le questioni, della Letteratura Italiana Einaudi diretta da Asor Rosa (Torino, 1985), le due definizioni qui usate per descrivere il moto narrativo dei due poemi omerici. 192

Figura di questa stanzialità, necessaria alla stessa riuscita del viaggio (la conquista di Troia), sono le navi arenate dagli stessi prìncipi Achei che issano le loro tende intorno alle navi e ne fanno, così, la loro nuo- va dimora. La nave-tenda-casa diviene simbolo della temporaneità di tale insediamento (l’agognato viaggio di ritorno è insito perfino nella struttura stessa della costruzione), ma anche lo sgradito emble- ma di uno stanziamento imposto. Da questa prospettiva, l’incendio delle navi greche da parte dei troiani, ha una doppia e contrastante valenza, quindi: da un lato rappresenta il logico tentativo bellico di tagliare loro la via (il mezzo) di fuga; dall’altro, un’azione che mira a distruggere un indesiderato insediamento colonico. L’Odissea inve- ce, anche quando narra del lungo periodo presso Calipso, lo fa come se fosse parte di un’avventura perenne; una fonte di apprendimento continua, insomma, che deve la sua riuscita, appunto, al necessario susseguirsi del viaggio. Conosciamo tutti le ragioni intrinseche alla narrazione che giu- stifica la saga e le avventure: Ulisse paga il fìo per aver sfidato pri- ma Apollo, il dio sole, avendo profanato Troia; poi, per aver imbro- gliato Ajace, protetto da Poseidone, signore del mare. Il sole e il mare: senza la luce (e la verità) del primo si vaga nel buio come un cieco; senza l’aiuto del secondo, si naufraga5. Quello che qui mi preme ricordare è che chi (come Ulisse) si muove spinto dal nostos, dal vento del ritorno, dalla nostalgia per la propria terra e per la propria famiglia, finisce per partecipare – a volte controvoglia, ma spesso volentieri – ad un peregrinare diviso in viaggi e viaggetti punitivi e formativi, che apportano nuova conoscenza, sia del dato oggettivo – del mondo esterno che si esplora volenti o nolenti – che del proprio spazio interiore. Più Ulisse riflette sulle proprie espe- rienze esterne e più medita sulle verità del proprio cuore. L’eroe che vuol assolutamente tornare a casa scopre e tocca lidi sconosciuti che lo aiutano a comprendere meglio i suoi stessi confini interiori; vuol tornare, certo, ma assapora cibi e bevande che diventano più forte dell’assenza, cioè del desiderio di restare, di stare, una volta riottenuta la sua posizione iniziale, all’interno di uno spazio che non

5 Potrà essere utile ricordare che, da un punto di vista dell’antropologia mitica, la luce di Apollo rappresenta quindi la ragione, la capacità di calcolare le proprie azioni, mentre Poseidone la fortuna, necessaria per la riuscita di ogni impresa. Le due doti, insomma, che non difettano ad Ulisse che, diventa così emblema sovraffino di sopravvivenza. 193 può offrire altro che il conosciuto. Uno spazio in cui gli oggetti che ritroviamo contrastano con la forza del nostos che li colorava con tinte ben diverse, perché lontani6. La stasi, quindi, non è solo il contrario del viaggio, ma ne è anche complemento, anzi lo completa: quello che appare come un conflitto insolubile di estremi opposti, si tocca e nutre entrambi gli aspetti conoscitivi, gnoseologici della realtà. Ulisse viaggia perché costretto; continua a viaggiare perché la nostalgia lo spinge a cer- care il ritorno e, nel far così, acquista una conoscenza del mon- do e di se stesso, invidiabile. Questa conoscenza – o, forse, questa voglia di conoscenza – diventa come una proteina indispensabile per il suo organismo, un nutriente che non c’è nei cibi di Itaca e di cui si sente la mancanza, una volta riguadagnata la stasi cui si ambiva fin dall’inizio. Ilnostos si è rovesciato: ora, comincia a spin- ger via, come sappiamo da un breve, ma significativo, accenno alla fine del grande poema. Odisseo, una volta riaccasato e ricongiun- to con Penelope sente una pulsione che prelude ad un’altra, non prevista, ma sentita partenza. La conversione da uomo di stasi a uomo di viaggio è avvenuta interamente: non si dimentichi, infatti, che all’inizio del poema Odisseo non ha alcuna voglia di partire da Itaca, anzi, si finge pazzo pur di restare nella sua rocciosa isola, ma, non riuscendo nell’inganno, è costretto a partire7. Ecco che un personaggio stanziale, trasformato suo malgrado in viaggiatore, una volta riacquistata la stasi di partenza non può più acquetarsi, pro- prio in nome di quella conoscenza data e dettata dall’avventura che lui bandiva. Quindi, da un lato, l’assedio di Troia (a cui partecipa, eccome, Ulisse) diviene figura (coloniale) di un viaggio di conqui- sta che si può concretizzare solo grazie ad una stasi che strangola lentamente la vita di chi viene invaso; dall’altro, la sua conseguenza culturale più nota, le peripezie di Odisseo, diventa invece simbolo di una forma di conoscenza basata sul movimento, sullo scrollarsi 6 Sull’ineluttabile confusione che la miscela di nostalgia e ricordi crea nella mente dell’esule, oltre ai lavori citati di Kundera e Said, v. anche le pagine finali di Esilio di Enzo Bettiza, Milano, Mondadori, 1995 (specie p. 443 e sg.). 7 Mi riferisco, naturalmente, a uno dei preamboli dell’Iliade stessa, quando Ulisse, nel tentativo di eludere la partenza per Troia, vuol far credere a Palamede, inviato da Agamennone, di essere impazzito e si fa trovare, tutto trasandato, che ara la sabbia della spiaggia spargendo sale. Palamade, però, non cade nel tranello e mette il piccolissimo Telemaco davanti all’aratro; Ulisse smette immediatamente di arare, rivelando, così, di essere perfettamente sano di mente. 194 di dosso la stasi che ci insidia. Lo status quo (ereditato o imposto) non può cambiare se non ci si affida (e non ci si fida del) al viaggio come veicolo di conoscenza nuova. Il modello, sia nel suo contrasto fra viaggio e stasi, che nel suo conflitto, viaggio di sè, esplorazione interiore e viaggio di conoscenza oggettiva, si ripete nelle letterature occidentali moderne, naturalmen- te e, nella cultura italiana, è forse incarnato più di tutti dalla dicotomia rappresentata dal binomio Dante-Petrarca. Il primo non può neppure scrivere (la Commedia) se non parte, se non si affida ad una guida che lo aiuti ad attraversare mondi sconosciuti che aprano dimensioni nuo- ve (si pensi all’ultimo verso del I canto dell’inferno: «allor si mosse e io li tenni dietro», ma si pensi anche alla spiegazione del perché si scrive la Commedia: «ma per cercar del ben ch’io vi trovai/ dirò de l’altre cose ch’io v’ho scorte»; la soluzione dell’esilio morale è nel cercare e trovare una dimensione nuova). La metamorfosi, in Dante, è vita, in altre parole. Petrarca, invece, scrive poesia proprio perché rifiuta il nuovo, rifugge il cambiamento in nome di ciò che non è più e che si rimpiange («la vita è breve sogno»), ma che, contrariamente al viaggiatore Ulisse (o Dante), non si può più raggiungere se non tramite una memoria elegiaca: l’esilio, in lui, non è transitorio, ma è perenne. Da questa contrapposizione fra Dante e Petrarca alle umo- ristiche peregrinazioni finto-forzate di primo Novecento di Mattia Pascal-Adriano Meis il tragitto è meno lungo di quel possa sembrare. Oppure, si pensi, per restare nella tradizione poetica, alla contrap- posizione fra gli allegri naufragi di Ungaretti (il quale, nonostante le burrasche della vita prosegue il viaggio, come un vecchio lupo di mare che sa solo ripartire: «E subito riprende/ il viaggio») e i viaggi fortunosamente evitati negli Ossi di seppia (1925) di Montale (che, invece, indica la salvezza proprio nelle mancate (ri)partenze: «è l’ora che si salva solo la barca in panna./ Amarra la tua flotta fra le siepi»)8.

8 La poesia Allegria di naufragi dà il titolo provvisorio (dal 1931diventerà, L’alle- gria) alla raccolta di Ungaretti del 1919, che include anche le poesie pubblicate nel libro d’esordio, Il porto sepolto (1916). La lirica citata dagli Ossi, Arremba sulla strinata proda, appartiene proprio alla sezione che dà il titolo alla prima rac- colta montaliana del 1925. La modernità affronta il dualismo fra Dante e Petrarca condendolo con il sorriso dell’ironia e dell’umorismo che rovescia qualsiasi pun- to fermo per svelare come il suo contrario sia altrettanto plausibile: l’ambiguità diventa il fulcro del discorso artistico, come si evince, ben prima che nel saggio stesso sull’Umorismo di Pirandello (1908), dallo stesso Fu Mattia Pascal (1904), naturalmente. Resta, comunque, una distinzione netta fra la prelavenza dell’una 195

Ma questo stesso tragitto scorre su un filo logico che, dalle rifles- sioni estetiche sorte durante e all’indomani del primo conflitto mon- diale, attraversa il fascismo per (rag)giungere sino a certa filmografia del neorealismo, ove la tensione cinematografica nasce e cresce pro- prio per poter giustificare il viaggio infernale causato dalla distruzione morale e fisica della guerra e poterlo proiettare verso un futuro, se non proprio di speranza, comunque diverso dal tempo appena trascorso9. Per fare un esempio su tutti, si pensi al finale di Roma città aperta, dopo la fucilazione di don Pietro, il quale, non dimentichiamolo, è con- dannato per non aver tradito la fiducia di Giorgio, uno dei capi comuni- sti della Resistenza, ma, soprattutto, per aver sfidato dialetticamente le asserzioni pseudo-religiose del comandante della Gestapo («Quest’uo- mo è un sovversivo, un senza dio, un vostro nemico!»), al quale il sacerdote oppone la propria verità etica («Credo che chi combatta per la giustizia e la libertà cammini nelle vie del Signore»). Mentre i bambini dell’oratorio (a modo loro tutti partecipi alla Resistenza) si allontanano sconsolati dal luogo dell’esecuzione, abbracciandosi e camminando a testa china, sullo sfondo si vede la città con la cupola di san Pietro che si staglia al centro dell’immagine. È ovviamente il simbolo della vita spirituale votata al sacrificio per gli altri per cui don Pietro si è immo- lato; ma è anche simbolo di rinascita perpetua – e non necessariamente

o dell’altra corrente tematica: in entrambi i casi, il lavoro artistico è veicolo di conoscenza che rivela la difficoltà del vivere. Ma, chi predilige prevalentemente la corrente introspettiva sembra rassegnato a ribadire la negatività della vita; chi, invece, vede la propria esperienza come qualcosa che possa pur sempre svelare una seppur minima via d’uscita, tenta di indicare una strada per superare o smi- nuire tale negatività. 9 La seconda guerra mondiale è stato uno spartiacque etico e morale, imprescindi- bile, fra il prima e il dopo, per l’intera generazione intellettuale che aveva operato fra le due guerre o aveva cominciato ad affacciarsi al lavoro intellettuale negli anni della guerra stessa. Su questo aspetto, rinvio alle ancora attualissime pagine scritte nel 1945 da in un articolo, L’inferno e il limbo, che poi dà il titolo al libro omonimo (1949 e, in edizione accresciuta, 1964). Luzi identifica l’inferno con il male di vivere che ha prima causato la guerra e che è poi sta- to fomentato dalla guerra stessa, ma lo indica, dantescamente, come tempora- neo, non importa quanto lungo l’esilio da una soluzione positiva possa essere. Il viaggio, il tentative di trovare strade nuove è dunque la soluzione estetica da seguire. Identifica invece il limbo con la nostalgia elegiaca (esemplata sulla poe- tica petrarchesca) che, avendo conosciuto il male, per rifuggerlo, si chiude nella memoria ed evita qualsiasi tentativo di imboccare strade nuove, scavando dentro di sè, ma schivando ogni opportunità di viaggio conoscitivo che, in tale concezio- ne, non può che portare a fallimento. 196

(o non solo) in senso religioso, ma, forse, soprattutto, in senso sociale e umano10. Il viaggio spirituale di don Pietro corrisponde al suo cam- mino fisico «( Non è difficile morir bene. Il difficile è vivere bene», risponde al cappellano poco prima di essere ucciso): è assassinato da dove si vede sia la sua città, Roma, che ha amato e servito fino al sacri- ficio, ma anche la piccola città al suo interno, con la cupola enorme evidenziata perfino dalla sua sovrapposizione con la parola “FINE” che chiude il film11. Roma, allora, è città aperta anche e soprattutto perché volta verso una nuova era, che non è certo profetizzata come facile o euforica, come si evince dalla sconsolata camminata dei bambini, ma che sarà certo migliore del male assoluto che l’aveva assediata e stretta durante la dittatura prima e la guerra dopo. I bambini, pur ciondolanti e tristi, si confortano l’un l’altro, e dimostrano, dunque, di essere consci del loro ruolo di testimoni. Nonostante il dolore, devono continuare a resistere, e devono ricordare e riportare la loro esperienza a chi non ha visto: ma per denunciare e raccontare, non per recriminare. Denunciare significa andare avanti, cambiare, sostituire, sperare; la mera recrimi- nazione tiene invece fermi sul posto, è soggetta a livore impotente. Il regista sembra suggerire come il proseguimento del viaggio della vita, qualunque cosa ci aspetti, sia l’unico modo per onorare l’insegnamento di don Pietro e poter così offrire a se stessi, e alle generazioni seguenti, una vita diversa. I bambini, perciò, si avviano lentamente verso il cuore di una città eterna e antica, ma rinnovata dal sacrificio di tante persone. Sono essi stessi allegoria dolente di un domani incerto e difficile, ma pur sempre differente dalla stasi letale, asfissiante, imposta dalla dit- tatura nazifascista. La vita come viaggio, come moto che si distacca, senza dimenticare ma senza cadere nel rimpianto, è l’unica ipotesi che può portare a qualcosa di nuovo12.

10 In passato, la critica, ha forse insistito un po’ troppo sia sulle presunte simpatie marxiste (o, propriamente, per il PCI) da parte di Rossellini, che sul supposto cattolicesimo del regista, a causa, forse, di una lettura letterale, poco dialogica, di certe scene. Per sottolineare la complessità spirituale e tematica del film, basti ricordare che la nobile figura di don Pietro è assistita, nei suoi ultimi momenti, da un cappellano che, sin dai suoi primi gesti impacciati, mostra una ritualità superfi- ciale nonchè una certa connivenza con i carnefici; le sue preghiere – contrariamen- te a quelle pronunciate dal martire – non hanno assolutamente nulla di spirituale. 11 Mi pare chiaro, anche, il riferimento al nome del sacerdote: come il primo degli apostoli diviene pietra d’angolo di nuova vita, sacrificando la propria. 12 Su questo punto che ruota intorno alla necessità di proseguire il viaggio, a dispet- to della forte tensione verso la stasi, rinvio, ancora una volta a Mario Luzi, in 197

Passando ai nostri giorni, possiamo chiederci se e come il cine- ma degli ultimi anni si collochi in questo scenario fra viaggio e sta- si. Le circostanze storiche, dal dopoguerra agli anni duemila, sono mutate drammaticamente e, paradossalmente, quanto anticipato nel- la prima parte del novecento si ripresenta più attuale in tempi più vicini a noi che non nel periodo del dopoguerra, quando, per cause di forza maggiore, prevale un dualismo più netto, come si è appena visto. Che la dicotomia fra le due tematiche, nel mondo moderno, non possa essere così lineare come nell’universo antico è ovvio. Ho già accennato a Pirandello e al suo personaggio perennemente rove- sciato nell’umoristico tragitto da vita a morte a vita statica in attesa della terza e definitiva morte… La stasi e il viaggio sono appiccica- te insieme come i libri incollati dall’umidità nella biblioteca che il protagonista morto-resuscitato-ritrovato cerca di mettere, svogliata- mente e casualmente, in ordine. Il punto di sutura sfuma nell’umore, fisico e metafisico, e non si riesce più ad identificarlo in modo netto e, tutto sommato, forse non serve nemmeno farlo una volta capi- to l’andirivieni del gioco della vita13. Il migliore cinema italiano degli ultimi anni è, in buona parte, figlio del contrasto fra questi due temi. Ci sono registi che si prestano a questa dicotomia che, spero di aver dimostrato, è anche conseguenziale e unisce i due estremi. I nomi sono tanti, naturalmente; qui, vorrei soffermarmi, brevemente, su due dei principali registi contemporanei: Gabriele Salvatores e Matteo Garrone. Il primo ha girato film, spesso tratti da romanzi o racconti, che sono apertamente divisi fra pulsione di scoperta e l’istintuale chiusura che, all’inizio, rifiuta la diversità proprio per timore di doverla accettare come migliore in un inevitabile termine di paragone con la stasi di partenza (si pensi a Marrakesh Express,

particolare alla poesia Il duro filamento (dalla raccolta del ’65 Dal fondo delle campagne): «Passa sotto casa nostra qualche volta,/ volgi un pensiero al tempo ch’eravamo ancora tutti./ Ma non ti soffermare troppo a lungo». 13 «Don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appic- cicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali». Non c’è forse bisogno di sottolineare che quel “notare” serve a rammentarci, e siamo nelle primissime righe del libro, che, riflettendo su ogni evento, si può rovesciare qualsiasi assunto. 198

1989; Puerto Escondido, 1992; Io non ho paura, 2003; ma anche al thriller Quo Vadis, Baby? 2005)14. Garrone, anche se si pensa solo a Gomorra (2008) e ai suoi impli- citi giochi fra viaggi tentati, strozzati e soppressi, gioca con entrambi i temi, imbevendoli di sentimenti contrari e molteplici, che accenna- no all’impossibilità di uscire dall’inferno della camorra, se non per una scelta imposta o individuale, che, però, resta dissonante dal resto del tessuto societario. Il film, come il libro di Saviano da cui è trat- to, è complesso e composito, visto che segue diverse storie che s’in- trecciano fra di loro e che rappresentano i vari strati di penetrazione della malavita organizzata nel napoletano (e non solo). L’ impianto del film, che segue a fondo (ma non fino in fondo) diversi personag- gi15, lo rende una delle opere recenti più simili al genere epico, con il suo grande affresco narrativo che snocciola il caotico molteplice della vita grazie allo sviluppo della storia del singolo. Qui, prendo ad esempio, schematicamente, tre di questi episodi. Gomorra si apre nello scuro più completo, con un rumore di sot- tofondo che, per qualche secondo, lascia pensare ad un motore, quasi si stesse per vedere un veicolo che esce da una galleria buia. In real- tà si tratta del rumore del compressore di una sala abbrozzante dove alcuni killers della camorra, rei di voler passare ad un altro clan o di non aver rispettato i patti, stanno per essere trucidati dai loro compa- ri. La pellicola si chiude coerentemente con un’altra mattanza, quella dei due giovani sconsiderati che vogliono competere con il crimine organizzato. Il trattore che porta via i loro cadaveri nel cavo della sua pala li depositerà, verosimilmente, in qualche buco non meno buio dell’immagine iniziale. Il film si apre e si chiude, dunque, con il bru- tale ma efficace modus operandi di chi non desidera cambiamenti di

14 Puerto Escondido è tratto dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci (1990); Io non ho paura dal romanzo di Niccolò Ammaniti (2001) e Quo Vadis Baby? dal romanzo di Grazia Verasani (2004). 15 Non diversamente da molte delle epopee antiche, ma con un occhio anche a quelle moderne (Pirandello, Joyce), il film, come il libro, narra per lo più di eventi in atto, non ancora conclusi al momento della stampa o della produzione filmica, e lascia perciò sospese e aperte le conclusioni. Se alcuni di questi personaggi potranno o sapranno applicare la lezione dell’esperienza esposta nel film, lo possiamo solo dedurre. Il plot del film è complesso, come si è detto, e non si può riassumere facilmente in poche righe. Basti sapere, per chi non ha avuto occasione di vederlo, che segue almeno cinque storie distinte che s’intersecano sullo sfondo del dilagare della camorra e della violenza quotidiana di certe zone del napoletano. 199 sorta; di chi sfavorisce qualsiasi moto che non riconduca al servizio di una divinità immobile nel nome del profitto e del sopruso. L’avventura scomposta e sguaiata dei due giovani guappi che pensano di potersi mettere in proprio finisce in una stasi perenne, unostatus quo amorale, che conferma sia la loro evanescenza etica, infantile, che la mancanza assoluta di ogni sentimento umano da parte di chi li uccide16. Il loro è un finto viaggio; in realtà, sono fissi, congelati negli inferi regolati da una prepotenza fisica ed economica che viene emulata e scimmiottata per quello che è: falso movimento, avventura fittizia. Lo scopo, infatti, non è quello di cercare e trovare qualcosa di diverso, che tramuti o, almeno, modifichi in parte il punto di partenza negativo, ma, al contra- rio, si vogliono raggiungere solo conferme che aiutino ad entrare in un sistema corrotto, annodato su se stesso, che non si desidera sciogliere, ma del quale si vogliono semplicemente le chiavi. Contraltare di questa cecità dettata da avidità, ignoranza, imita- zione di falsi modelli-feticci e, alla fin fine, soprattutto dalla povertà economica, strutturale e morale che circonda le vite violente e misere di questi manovali del grande crimine è l’avventura di chi si ribella, seppur in ritardo, alla stasi etica e civile prodotta dal crimine. È il caso di Roberto, il giovane laureato che abbandona il suo ruolo di tuttofare per il mediatore (Franco) senza scrupoli che organizza la rimozione illegale dei rifiuti tossici. È una rivolta individuale che porta ad un mutamento di rotta parziale (Roberto non denuncerà i soprusi di cui è stato partecipe e testimone) e che è rappresentato, fisicamente, dal suo scendere dal vistoso SUV di Franco per proseguire il cammino a piedi, da solo: in questo caso, l’apprendimento di fatti ed episodi nuovi por- ta, almeno, all’autocoscienza di ciò che non si vuole. L’episodio che scatena la rivolta e fa scendere Roberto da un veicolo che lo trasporta ogni giorno sempre di più a ritroso nella disumanizzazione provocata dalle loro azioni è significativo. La ribellione scatta quando Franco gli chiede di gettare delle pesche che una vecchia contadina gli aveva donato, perché contaminate dai rifiuti tossici che loro fanno scaricare nelle campagne. La vista delle pesche gettate a terra, sul ciglio di una desolata strada di campagna, più ancora che gli effetti terribili sulla pelle di un operaio che era entrato in contatto con il liquido di uno dei

16 Signifiativo della miseria etica dei due ragazzi è il loro imitare gangsters da film; un comportamento che contrasta, psicologicamente e fisicamente, con i veri gangsters che poi li uccidono. 200 bidoni di rifiuti, innesca la molla che fa scattare la presa di coscienza di Roberto. Il dover disonorare un dono, simbolo sincero e antico di ospitalità, ricevuto in una delle sue esplorazioni condite dalla falsità degli intenti che mirano a convincere delle proprie buone intenzioni chi viene costantemente e lentamente avvelenato dagli stratagemmi escogitati da Franco, diviene un punto antropologico di non ritorno. Il suo lavoro, il suo vagabondare, i suoi tanti contatti con la gente, invece di metterlo in sintonia con i luoghi che visita e le persone che incontra, lo isolano in un’alienazione sempre maggiore. Il suo non è un viaggio di scoperta: è un agitarsi interno di fronte alla ripetizione ossessiva del male che perpetua. Quando finalmente lo scopre e ha la forza di agire di conseguenza, lo fa, ripartendo grazie alle proprie gambe, come fosse necessario riportarsi al grado zero del movimento umano per poter scrollarsi di dosso il lerciume perpetrato anche gra- zie ad aerei, macchine e treni che facilitano il distacco dalla terra che si sta avvelenando. Infine, si pensi alla figura del sarto, Pasquale, il quale, per gua- dagnare qualcosa in più, ma spinto anche dall’amore per la sua pro- fessione, finisce per accettare di insegnare sartoria, di nascosto, in una fabbrica abusiva di cinesi. Un atto sconsigliato per chi lavora in un ambiente lavorativo che smercia grazie alla protezione (voluta o meno) della camorra; è un’azione che vorrebbe preludere alla tra- smissione di esperienze, all’insegnamento di un’arte che può cam- biare la vita di altri, migliorandola. Ma questa è una sfida all’establi- shment di chi, pensando solo al proprio miglioramento (economico), non gradisce alcun movimento orizzontale, che produca soluzioni alternative. Dopo la sua prima lezione notturna, Pasquale torna a casa all’alba e deve scansarsi per far passare, sulla statale senza marcia- piedi dove vive modestamente con la sua famiglia, un camion che sfila veloce nelle luci del primo mattino estivo. È un’immagine che prelude al suo stesso destino. Sopravvissuto ad un attentato proprio per aver azzardato una via non autorizzata dal mondo semi-sommerso che regola la vita del posto, finisce per abbandonare il lavoro che ama per fare, lui stesso, il camionista: diventa, cioè, egli stesso veicolo di viaggio perenne, al di là di ogni metafora. Il culmine della sua storia esistenziale è raggiunto quando, ad una stazione di servizio, vede in televisione un abito che lui ha disegnato, indossato da una star di Hol- lywood (Scarlett Johansonn). La sorpresa, l’incredulità di Pasquale nel vedere il proprio vestito in televisione, in quel contesto brillante e 201 famoso che contrasta ferocemente con la desolante anonimità del luo- go dove lui si trova, è seguita da gesti e smorfie che accennano appena ad un sorriso e trovano il loro culmine quando sale nella cabina del grosso camion che, scopriamo proprio in quel momento, ora guida per lavoro. Nell’accendere il motore sembra rimpiangere per un attimo le proprie scelte, per poi ripartire senza troppi indugi. Anche in questo caso, sembra delinearsi l’impossibilità di identificare una strada certa che trasporti fuori dalla selva oscura del male, se non rassegnandosi ad abbandonare per sempre la propria Itaca, rappresentata dall’amore per il proprio mestiere di sarto, strappato per sempre, quasi fosse un contrappasso dantesco, dalle sue abili mani ora costrette a manovrare un volante e viaggiare avanti e indietro su percorsi prestabiliti, nei quali, la novità, se giunge, arriva in un autogrill, da un televisore che trasmette immagini legate ad un passato che non si può integrare con il presente o il futuro del protagonista. Vorrei concludere questo excursus tematico, soffermandomi bre- vemente su Salvatores. Nel suo caso, possiamo forse intravedere la tentazione di accarezzare entrambi i modelli: quello più netto, di un mondo in cui i colori sono chiari, e quello più sfumato della moderni- tà. Basti pensare a film comePuerto Escondido o Marakkesh Express, i cui finali, pur diversi, comprovano che la partenza, forzata (PE) o volontaria (ME), acquista senso solo nella chiusura, ironica, del cer- chio delle avventure: da una stasi che i rispettivi protagonisti non (ri) conoscevano come tale, ad un viaggio verso un ignoto che, se non presenta un lieto fine, presenta almeno un fine utile, sia a livello psi- cologico che etico17. In ogni caso, l’uscita dalla stasi è vista come necessaria per provare ad ottenere qualcosa di altro, anche se l’ironia e l’umorismo cambiano continuamente il risultato di questo altro. Ma se prendiamo, per esempio, l’intera struttura del progetto di Io non ho paura, vedremo come qui il regista si distanzi dalla maggior realismo del libro, in cui anche i protagonisti infantili partecipano in buona misura ad una brutalità esistenziale da cui si può solo fuggire solo grazie al viaggio interiore, onirico, del bambino-protagonista, Michele. Il libro è in flashback: Michele, adulto, ricorda e racconta come e cosa abbia imparato dal suo viaggio che, prende forma, solo

17 In entrambi i film, dopo molte peripezie, i protagonisti, oltre a ritrovarsi o a tro- vare una nuova linfa vitale, riescono in qualche modo a far perfino del bene alla popolazione locale. 202 perché coscienza del ricordo. Nel film, vediamo tutto in contempora- nea insieme agli occhi di Michele. L’azione si svolge in un villaggio del Sud, semi-abbandonato, dove la scarsa popolazione locale è tut- ta coinvolta nel rapimento di un ricco bambino milanese (Filippo). Michele, il figlio di uno di uno dei rapitori, mentre gironzola e gioca con gli amici, scopre casualmente il covo sottoterra dove tengono pri- gioniero Filippo e lo va a trovare ogni giorno, acquisendo pian piano coscienza che deve aiutarlo a fuggire. Quando i rapitori cambiano il covo di Filippo e Michele capisce che lo stanno per ammazzare, Michele cerca e trova il nuovo nascondiglio e l’aiuta a fuggire appena in tempo, rimanendo lui stesso ferito da un colpo di pistola sparato da suo padre. La stasi iniziale da cui i protagonisti adulti e infantili bramano di fuggire è certamente infernale, ma ricorda anche un po’ il limbo, per- ché la desolazione dei luoghi e delle persone sottolinea il loro rista- gnante malessere, una staticità che sembra ravvivarsi nel momento in cui i protagonisti cominciano un delirante viaggio mentale che, nei loro sogni strozzati, dovrebbe portarli lontano, verso l’eldorado del Nord. Tutto questo è ben rappresentato dalla centralità feticistica della televisione, che diventa il vero idolo cui pagare omaggio ogni sera per vedere se il notiziario parla di loro, della loro impresa che deve restare segreta per ovvie ragioni (il rapimento del bambino) ma che loro vorrebbero gridare ai quattro venti per far vedere a tutti che anche loro sono importanti, sono in viaggio verso un qualcosa di nuo- vo e diverso che li porterà ad un nuovo status di riconoscimenti e ono- ri. Ma, per tornare alla realtà della storia, sono gli occhi di Michele che ci guidano e ci raccontano in diretta i contorni e le contraddizioni dei vari eventi e protagonisti. Michele non sente su di sè la condanna della stasi letale che affligge gli adulti e anche alcuni degli altri bam- bini; lui, non diversamente dal suo coetaneo Filippo, il bimbo rapito, viaggia continuamente con la sua fantasia sia per evitare il male che lo circonda che per rassicurarsi un ritorno nel suo nido, nella sua Itaca rappresentata dalla sua diroccata casetta e camera da letto. La stasi, inconsciamente, nutre la voglia di partire ogni giorno per un’avven- tura diversa; avventura che, per un bambino, non avrebbe senso se non vi fosse il punto di riferimento del ritorno assicurato. Il dramma prende una svolta improvvisa proprio quando lui trova sia lo spazio esterno che quello interno, rappresentato dalla sua cameretta da letto, occupato da Sergio, il bandito venuto da Roma nel libro e dal Nord 203

(Milano) nel film. È proprio la presenza inquietante e attraente del cattivo, Sergio, che scioglie gli ultimi dubbi di Michele e lo spinge a prendere coscienza che quella che sembra un’avventura quotidiana, un passatempo, deve diventare una missione, liberare Filippo; con- sentire anche a lui il suo nostos, il suo ritorno a casa. Proprio perché tutto nasce da un gioco e da un vagabondaggio di bambini il film ottiene una sua coerenza nell’equilibrio fra male e bene, fra coscienza della colpevolezza e innocenza: il finale può non piacere nella sua quasi edulcorata innocenza dei bambini che si toccano le mani pri- ma di essere separati per sempre, ma è necessario per sottolineare come il cerchio di questo viaggio di conoscenza si possa chiudere, in qual modo positivamente, solo al loro livello, soltanto e solamente per loro, per chi, avendo subìto il male, non lo ha ancora perpetrato, contemplato e può ancora sperare di restare, di stare, una volta ritro- vata la strada di casa.

Opere citate:

Bettiza, Enzo, Esilio, Milano, Mondadori, 1995. Ferrucci, Franco, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione, Milano, Mondadori, 1991. Heaney, Seamus, The Redress of Poetry,1996. Kundera, Milan, L’ignorance, Paris, Gallimard, 2000. Luzi, Mario, L’inferno e il limbo, Milano, Il Sagggiatore, 1964. Magris, Claudio, Itaca e oltre, Milano, Garzanti, 1992. —, Utopia e disincanto, Storie speranze illusioni del moderno, Mila- no, Garzanti, 1999. Said, Edward W., Out of Place, New York, Alfred A. Knopf, 1999. 204 205 Federico Pacchione

Giuseppe Tornatore in viaggio attraverso il padre

Il valore di uno studio intertestuale non risiede nell’identificazione di un legame, ma piuttosto nella possibilità che tale legame ha di illuminare la natura di un’opera o di un’arte. Sarà quindi importante capire se un recupero di un certo linguaggio felliniano o il confronto con luoghi del suo cinema indichino la presenza di una koiné, o di un’esigenza di mercato in quanto aderenza a una formula accettata di film d’arte, oppure attestino a un omaggio o una smorfia verso una delle figure più rappresentative del cinema italiano come il tentativo di attraversare e esorcizzare un modello divenuto forse opprimente e scomodo, o ancora se gli echi felliniani sollevino una coincidenza di ricerche parallele. Quello di Tornatore è stato definito un cinema “filmofago” (Fit- tante, p. 44), e infatti dietro i suoi film si assiepano folte le memorie cinematografiche e spiccano modelli come Ettore Scola, Francesco Rosi e Luchino Visconti (p. 35; p. 41). Prima di questi si staglia tutta- via l’ombra lunga di Federico Fellini che per Tornatore è equivalso fin dall’infanzia al cinema stesso e al quale egli deve l’impulso di lascia- re la Sicilia per inseguire la carriera di cineasta. Tutto ciò è rievocato da Tornatore in un’intervista della fine del 1993:

… compravo le sceneggiature dei suoi film pubblicate dall’editore Cappelli, leggevo le sue biografie, collezionavo le musiche di Rota, organizzavo al liceo alcuni cineforum ten- tando impacciate quanto appassionate introduzioni a La stra- da e Otto e mezzo che avevo già rivisto più volte… Mi accorgo oggi di avere sempre nutrito un affetto particolare per i film di Federico Fellini. (Tornatore, p. 32) 206

Tornatore doveva esprimere questa equazione tra cinema e Fellini nel finale di Nuovo cinema paradiso, dove al termine della sequenza dei baci, avrebbe voluto mostrare di sfuggita Fellini nei panni del proiezionista. Fellini rifiutò giustificandosi che avrebbe distratto dal film e consigliando a Tornatore di filmare invece sé stesso, ma di qui nacque il loro incontro durante il quale Tornare gli mostrò il film. Anche se il finale poi venne realizzato diversamente, la presenza di Fellini rimane nella sequenza che mostra un pubblico intento a guar- dare I vitelloni, film che, come nota Bondanella, ha in comune con Nuovo cinema paradiso il tema della maturazione e la nostalgia per il piccolo borgo e la sua vita (p. 68). Nel ricordo del giovane regista si coglie chiaramente l’ansia con la quale attendeva il responso del maestro, proprio come il giudizio di un padre:

È un episodio che non dimenticherò mai… Io tremante d’emo- zione me ne andai in cabina e per tutta la durata del film rimasi appiccicato alla finestrella della proiezione a spiare nel buio i suoi movimenti, per capire quali scene del film potessero annoiarlo o infastidirlo. In tutta la mia vita non ho mai fis- sato così a lungo una persona di spalle! Dopo la proiezione s’intrattenne a parlarmi, mi incoraggiò, diede qualche piccolo suggerimento, disse che potevo telefonargli. (Tornatore, p. 33)

Sarebbe giustificato allora chiedersi se il tema della ricerca del padre che appartiene a Nuovo cinema Paradiso, e che è stato persino studia- to secondo le categorie campbelliane del mito psicoanalitico (Thiel), abbia già qui delle radici meta-cinematografiche. O ancora, come ha fatto Giacomo Striuli, se dietro a Nuovo cinema Paradiso si nascon- da, per le strategie metanarrative e l’enfasi posta sul ricordo e sullo scavo nell’identità, una discendenza pirandelliana come filo condut- tore tra Fellini e a Tornatore. Il passaggio da Pirandello a Fellini può essere tuttavia saltato in questo caso in quanto Tornatore condivide con il drammaturgo prima di tutto la sicilianità. Rimane però ormai un dato di fatto che, per l’esplorazione meta-cinematografica sulla natura della creatività, e cioè per il cinema nel cinema, Fellini è ormai canone istituzionalizzato per tanti registi; in particolare penso, con le debite differenze e cautele, a Woody Allen (Stardust Memories, 1980), Nanni Moretti, Francois Truffaut (La nuit américaine, 1973), Bob Fosse (Sweet Charity, 1969; All That Jazz, 1979), Paul Mazursky 207

(Alex in Wonderland, 1970) e alla coppia Spike Jonze-Charlie Kau- fman (Adaptation 2002). Ma ecco come direbbe Tornatore riguardo ipotesi di influenze felliniane nel suo lavoro:

Spesso i giornalisti mi chiedono se l’opera di Fellini abbia avu- to influenza sui miei film. Generalmente taglio corto con diffi- denza, glisso per paura di essere frainteso, ma la vera risposta è che il cinema di Fellini non ha influito sui miei film, ha influito invece sulla mia volontà di fare film. (Tornatore, p. 32)

È naturale e giusto che l’artista si preservi il diritto (che è poi anche un dovere) di testimoniare l’unicità del suo rapporto con la propria creazione. Allo stesso modo sta allo studioso il diritto e il dovere di constatare l’esistenza di rapporti storici e intertestuali tra le opere d’arte di vari autori e di descriverne la natura. È inevitabile però met- terci un tocco di malizia e leggere dietro il bisogno di Tornatore di tenere i propri film lontani da quelli di Fellini l’ansia del figlio che vuole distinguersi dal (e di fronte al) padre. Ma gli studiosi hanno avuto poco ritegno nell’approfondire que- sto legame, e noi speriamo di averne ancor meno, sempre comunque nella speranza di non “fraintendere” il regista e di ascoltarlo invece nel suo linguaggio più intimo. Nel caso specifico e concreto di Torna- tore e Fellini siamo di fronte a un rapporto artistico molto complesso che non si può risolvere nell’idea di una filialità accondiscendente, piuttosto il dialogo che Tornatore istaura con l’opera cinematografica felliniana si svolge per vie che sono sia apparenti che nascoste e rivela un rapporto non privo di conflitti, dubbi e contraddizioni. In Stanno tutti bene, Tornatore segue la storia dolceamara di Mat- teo Scuro, un padre siciliano che attraversa la penisola per andare in visita ai suoi figli dispersi in grandi città italiane quali Napoli, Roma, Firenze, Milano e Torino. Il film viene realizzato dopoNuovo cinema paradiso, ma è concepito prima del 1988, ed è quindi da considerarsi un film situato nel pieno della nascita della carriera registica di Tor- natore (Vitti pp. 64-65). Non sorprende quindi che in questo film egli faccia i conti con la figura del padre, sia quello biologico siciliano, che quello cinematografico, ovvero Fellini, chiedendosi se quest’ulti- mo sia ancora un valido modello da seguire oppure no. Nell’attraversare questo secondo livello di paternità, Tornatore si confronta con una serie di motivi e stili di stampo felliniano e così 208 facendo dà alla luce un film che è anche tassonomia e reinterpreta- zione personalissima del cinema di Fellini. È stato per via di simili elementi che alcuni critici e spettatori hanno accusato il cinema di Tornatore di pretenziosità e falso poetismo. Rimanendo aldilà del film, così si esprime Paolo Mereghetti nel suo dizionario:

All’opera terza, Tornatore fa un passo falso… lo stile spesso fellineggia (la mongolfiera sulla spiaggia). Facili moralismi, trovatine che vorrebbero fare poesia (il cervo sull’autostrada), e tanti chiché… Mastroianni, ingrigito e imbambolato, è quasi insopportabile. (p. 2503)

Era inevitabile quindi che Stanno tutti bene ricevesse una tale accusa, in quanto Tornatore per attraversare Fellini non poteva che mettere in scena il linguaggio felliniano, e quindi come koiné e insieme di formule. Come si intende dimostrare in questo saggio, con Stanno tutti bene non siamo di fronte a una grossolana imitazione di poetica, ma a un doloroso e complesso tentativo di comprendere e risolvere una paternità cinematografica, nei suoi limiti e nelle sue promesse. Seguiamo quindi insieme alcuni dei passaggi più salienti di questo confronto con il padre. Come preambolo, è interessante aprire una parentesi per notare come la relazione padre-figlio diStanno tutti bene fosse già prefigurata da un episodio della Dolce vita, quello della visita del padre di Mar- cello che presenta in modo embrionale temi che saranno poi ripresi e sviluppati da Tornatore: il personaggio del padre commerciante1, il suo arrivo alla grande città dalla provincia, il suo entusiasmo per cose considerate ovvie dai giovani, l’incapacità di riavere una giovinezza attraverso il ballo e la sessualità, e la preoccupazione di fondo sul reci- proco stato di salute e felicità (la ricorrente domanda: “come stai?”). Naturalmente Tornatore recupera anche, in Matteo Scuro, il prota- gonista considerato alter ego di Fellini, ovvero il provinciale inurbato Moraldo-Marcello frutto dell’epopea eroicomica di I vitelloni, Moral- do in città, La dolce vita, e 8 1/2, incarnato soprattutto dallo stesso

1 Matteo Scuro dice di essere un commerciante di vite, lavorando all’anagrafe. Inoltre all’origine del personaggio vi è una reale commesso viaggiatore che Tor- natore osservò e di cui volle inventare la storia (Antonio C. Vitti, Dal “pedi- namento” all’affabulazione cinematografica in Stanno tutti bene”, «Italica», vol.80, n.1, Spring, 2003, pp. 64-65). 209

Mastroianni. In La città delle donne, Fellini aveva lasciato Marcello già invecchiato, un po’ ottuso e miope alle prese con la fantasmagoria femminile della sua psiche. Nel finale di quel film, il protagonista si risvegliava dal sogno con gli occhiali mezzi rotti, una lente a posto e l’altra frantumata, con un occhio rivolto al buio interiore, l’incon- scio, e l’altro al mondo esterno con una rinnovata consapevolezza di ciò che costituisce proiezione dei suoi sogni. Tornatore insiste che Mastroianni indossi anche nel suo film dei grossi occhiali da vista, che a detta dell’attore stesso erano “più spessi di fondi di bottiglia” (cit. in Dewey, p. 275). Anche in Stanno tuttti bene, gli occhiali sono collegati allo sguar- do della mente, tuttavia entrambe le lenti sono troppo spesse e trat- tengono perennemente lo sguardo di Matteo rivolto all’interno, nei suoi ricordi, sogni e fantasie. Il nome stesso del personaggio bisbiglia qualificazioni di pazzia, di oscurità, e dominato dall’aggettivo “scu- ro” sottolinea una cecità o un’opacità. Sia in La città delle donne che in Stanno tutti bene, che iniziano entrambi con viaggi in treno nell’alternarsi tra la luce e l’ombra delle gallerie dei sogni, lo sguardo interno dietro il vetro deformante dell’occhiale è trasmesso dall’altra lente, quella della telecamera, che ci porta in entrambi i casi a sondare le profondità della psiche. Di particolare rilievo è la sequenza del sogno ricorrente di Matteo Scuro dove si recupera, attraverso i toni di un surrealismo di maniera, il sogno iniziale di 8 ½ fondendolo a un’altra famosa visione prove- niente da Giulietta degli spiriti. La fine del sogno giunge a Matteo mentre passa la notte a casa della figlia Norma a Torino. L’ameba nera e tentacolare sopraggiunge sulla spiaggia con lo stesso senso di ine- luttabile decadenza del barcone di fantasmi bitumosi che Giulietta tira fuori dal mare del suo inconscio. Dalla loro spiaggia daliliana fuori dal tempo, i figli di Matteo si aggrappano e sono rapiti dall’enorme mostro volante, contemporaneamente familiare e alieno all’isolano Matteo Scuro come infondo gli è la modernità stessa. La misteriosa medusa è il simbolo attraverso il quale Matteo spiega l’incognita for- za che ha portato via i suoi figli (che prima si aggrappano e poi strilla- no aiuto). Ed è lo strattone di una corda, proprio come nel sogno di 8 ½, a culminare e terminare l’ansia del sogno, ma con un’interessante variazione. Il sogno di 8 ½ è ripreso ma è anche rovesciato, come è reso espli- cito dalla sveglia che ridesta Matteo, che segna il titolo del film letto 210 al contrario. Inoltre, mentre l’elevazione e il volo erano per Guido, protagonista di 8 ½, elementi di serenità, per Matteo sono motivo di terrore. Il linguaggio onirico felliniano viene quindi riadattato da Tor- natore ai propri fini per esprimere la paura del protagonista di fronte alla crescente distanza tra i suoi figli e la mitica e fantastica terra della sua identità. Inoltre, lo spazio del volo e dell’immaginazione, proprio come avevamo visto per gli occhiali, è esacerbato in toni negativi e perde la sua qualità e simbologia liberatoria e salvifica. Vediamo quindi come nel valutare lo stato di salute del suo padre cinematogra- fico, nonché liberarsi una volta per tutte dalla sua influenza, Tornatore decostruisce la koiné felliniana dall’interno. Dopo aver attraversato il volo onirico, Tornatore attraversa anche quell’energia e senso di movimento, o meglio quella qualità danzante trasmessa dal cinema di Fellini a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, qualità che non a caso ha favorito fino ad oggi uno scambio con il musical di Broadway. La sequenza nella sala da ballo di Rimini è senz’altro un momento di riflessione sull’anzianità (Vitti, p. 62), ma è anche il marcato e fallimentare tentativo di Matteo di rivivere un’avventura amorosa e di recuperare una vitalità giovanile, e quindi un ulterio- re accenno alla stanchezza del padre cinematografico nei ultimi anni ottanta. Come a Matteo mancano le energie per sostenere il ballo, così viene meno la possibilità di ritornare alla danza creativa che fin dagli anni ’60 era divenuta, per mezzo delle parole messe in bocca a Orson Wells da Pasolini nella Ricotta, bandiera del cinema poetico di Fellini. E la stessa passeggiata lungo la spiaggia esistenzial-surrealista, memore di alcune immagini ormai indelebili di I vitelloni, sembrerà aprirsi a uno spiraglio di miracolo, una voce dal cielo che però si appiattisce in effimera quotidianità. Il viaggio alla fonte della crea- tività, nella terra d’origine del padre, Rimini, si dimostra inefficace, un sogno grigio, ottuso e muto, come le facce dei passeggeri dietro i vetri del pulman che conferma soltanto una spenta vecchiaia (un altro frammento del sogno che apre 8 ½). E allora il passo incalzante della colonna sonora del film stesso, che infila le varie sequenze al ritmo di una marcia un po’ boriosa e ridicola, è il segnale dello svolgersi di un’epica eroicomica al centro della quale sta questa molteplice figura di padre. L’elaborazione e realizzazione di Stanno tutti bene, coincide con il più drammatico nonché ultimo momento della carriera di Fellini, 211 spesso visto dagli stessi protagonisti come un punto di esaurimento e di disfatta. Mi riferisco ovviamente a La voce della luna, anch’esso del 1990, il film che più di ogni altro manifesta una visione registica intrappolata in uno stato di imbarazzo e paralisi verso la realtà con- temporanea, e sclerotizzata nell’iper-stilizzazione di un orientamento autoriale che non è più in grado di attingere il suo giusto nutrimento dall’apporto di collaboratori fedeli come Tullio Pinelli (Pinelli cit. in Barbanente, p. 114). Per l’appunto il valore dell’ultimo film di Fellini è proprio quello di mettere in scena l’emarginazione generazionale e l’impasse di un’arte che non ritrova più i suoi stimoli e le sue ragioni di essere nel mondo che una volta era il suo. In un recente saggio, Antonio Vitti ha parlato di come dietro a Stanno tutti bene si celi un discorso sulla perdita di presa sulla real- tà del cinema nell’era della televisione, in contrasto alle prospettive del pedinamento neoreliastico al quale il film è ricco di riferimenti. L’impasse cinematografico di Stanno tutti bene può senz’altro essere spiegato come lo scontro tra il pedinamento zavattiniano della realtà, di cui il viaggio di Matteo Scuro potrebbe essere similitudine, e le trasformazioni antropologiche e storiche che lo stesso Matteo, dietro la lente deformata dell’occhiale/macchina da presa, fatica a guarda- re. Tuttavia è unendo tale prospettiva con una discussione dei forti richiami alla ricerca cinematografica nell’inconscio del cinema di Fellini, al suo fascino e al suo allora precario stato di salute, che si può comprendere a fondo il significato del film e la sua collocazione storico-culturare. Tornatore aveva una profonda familiarità con La voce della luna, in quanto ne aveva seguito la lavorazione sul set (Tornatore, p. 33). Non c’è dubbio che il rifiuto e l’emarginazione dalla modernità sia- no al centro di entrambi i film, e con essi la nostalgia per il passato. Non a caso, avvicinando il cinema di Tornatore a quello di Fellini, Peter Bondanella ha parlato di un consimile cinema della nostalgia assieme a una simile ricerca espressionistica dei visi. Se il secondo punto ci pare meno rilevante in quando tale aspetto estetico non è di certo un primato felliniano, l’elemento della nostalgia risulta invece opportuno e profondo al rapporto tra questi due artisti e, come vedre- mo, centrale anche alla presente discussione su Stanno tutti bene. Tornatore stesso ha sottolineato questa comunanza sulla nostalgia della provincia: 212

Li ho sempre sentiti [i film di Fellini] molto familiari, mi tro- vavo assolutamente a mio agio nel vederli e rivederli, c’era qualcosa in quel mondo di fantasmi di provincia, in quell’iro- nica malinconia, che mi ricordava paradossalmente Bagheria e i personaggi della mia adolescenza. E il fatto che i suoi fanta- smi romagnoli, la sua malinconia, la sua provincia, lo avessero reso così grande nel mondo incoraggiava in qualche modo il mio desiderio di tradire la mia provincia, di allontanarmene per sempre, di andare altrove, dove si faceva il cinema. (Tor- natore, p. 32)

È interessante notare come questo sentimento di nostalgia nasca per Tornatore, così come poi anche per Fellini (che scelse Viterbo e Ostia per inscenare una cittadina adriatica), da un desiderio di mantenere le distanze. Potremmo dire allora che la nostalgia condivisa da i due registi non desideri un ritorno ma bensì un allontanarsi, per meglio immaginare e per meglio raccontare. Si veda poi come Patrick Rum- ble abbia chiamato in causa, indirettamente, l’elemento nostalgico del cinema di Tornatore nello spiegare come il suo successo con il pubbli- co nord americano sia dovuto al senso di un recupero di un’autenticità identitaria emanato da un film qualeNuovo cinema paradiso. Ed è certamente per esprimere la distanza dalla modernità e la nostalgia del passato che Tornatore sceglie per Stanno tutti bene uno sceneggiatore come Tonino Guerra che, con la stessa intensità di un Pasolini e un Volponi, ha espresso con la sua opera il massimo rifiuto delle trasformazioni antropologiche acceleratesi dalla metà del secolo in poi. Non solo, ma l’apporto di Guerra era anche alla radice dello svolgimento lirico di tale motivo di nostalgia e amarezza nei film di Fellini stesso quali Amarcord, Ginger e Fred e E la nave va. Più di ogni altro sceneggiatore, Guerra infatti rappresenta e incarna nell’ope- ra felliniana l’attrito con la contemporaneità, portando nello schermo modi della sua poesia come la riscoperta di una corporalità grezza ma proprio per questo nobile e affrancata da un’artificiale igiene moderna (Gramigna, p. 5). La penna di Guerra si rintraccia facilmente nell’uso simbolico dell’animale come portatore più diretto di una tale corpo- ralità; e il cui effetto era stato trasportato nello schermo felliniano nella forma di buoi, gabbiani e pavoni. Proprio al colorato uccello che interrompe i fermenti della banda di giovani sotto la neve di Amar- cord rimanda infatti la silenziosa e regale apparizione del cervo che 213 blocca il traffico nell’autostrada su cui Matteo Scuro viaggia con la figlia Tosca. Questo motivo della presenza sacrale della bestia tornerà anche nel mediometraggio di Tornatore Il cane blu, uno degli episodi di La domenica specialmente (1991), scritto interamente da Guerra. È interessante allora notare a quale profondità Tornatore risalga per rapportarsi a Fellini e al suo linguaggio, ingaggiando in collaborazio- ne uno dei fautori stessi del suo ultimo cinema quale Tonino Guerra. Altro che falso poetismo! Stanno tutti bene è quindi da considerarsi il momento principe di un attraversamento, un punto di non ritorno e il passo più significativo verso l’indipendenza dell’identità artistica di uno dei maggiori espo- nenti del nuovo cinema. In questo film Tornatore risolve a sé stesso il proprio legame artistico con il cinema di Fellini, nonché la propria posizione come regista del cinema nuovo. Si tratta della ricerca di un chiarimento, la testimonianza di un impellente bisogno di attraver- sare una figura chiave e il risultato è duplice: da una parte abbiamo un omaggio entusiasta per un cinema carico di emotività e capace di andare nel profondo, dall’altra un allarme per la crescente separazio- ne di questo stesso cinema dal mondo attuale. Tutto ciò implica anche un superamento, che poi si manifesterà nel gesto spavaldo del film seguente, Una pura formalità (1994), dove Tornatore dimostrerà di saper affrontare il tema dell’aldilà come Fellini non ha saputo o volu- to fare con il suo Mastorna. E proprio su questo set, Tornatore ricorda:

Quando giravo Una pura formalità io e Polanski ci rimandava- mo in continuo battute, quiz e piccole memorie felliniane. Una volta, dall’altro capo del set mi chiamò e mi domandò: “Asa Nisi Masa?”. Tutti gli altri ci vedevano scambiarci questi sor- risi e cenni di intesa. (Tornatore cit. in Sesti e Crozzoli, p. 12)

È difficile giudicare se sia un bene o un male che Matteo Scuro fatichi a riconoscere la mediocrità delle vite dei suoi figli, tuttavia è indiscutibile che Matteo giunga alla fine del suo viaggio a delle conclusioni: ovvero che i figli, o per lo meno i nipoti, devono essere cresciuti liberi dal peso di gloriose quanto illusorie promesse, non a “essere qualcuno” ma a essere “uno qualsiasi”. Il risvolto cinematografico di questa nuova pro- spettiva è la proclamazione del bisogno di accettare il proprio presente, anche nei suoi aspetti meno poetici, piuttosto che fuggire in un fastoso sogno del passato, con la consapevolezza che infondo, come scopre 214

Matteo nel sogno finale il vino, e anche il cinema, si fa con l’uva. Si tratta di un’immagine polivalente, e senz’altro anche di un richiamo a un’arte più radicata e spontanea. Assistendo alla propria nascita in sogno, Matteo capirà anche che affinché i giovani crescano forti e for- tunati si deve mettere in mano, la prima volta che gli si tagliano le unghie, un milione: i nuovi registi, nei primi passi della loro crescita, hanno bisogno solo di un po’ di incoraggiamento finanziario.

Bibliografia

Barbanente, Mariangela, Tullio Pinelli. Ritratto di uno scrittore cine- matografico, Diss. Università Degli Studi di Roma La Sapienza, 1994-1995. Bondanella, Peter, La memoria di Federico Fellini sullo schermo del cinema mondiale. Atti del Convegno internazionale di studi Rimi, 7-9 novembre 2003, Rimini, Fondazione Federico Fellini, 2003, pp. 62-65. (Esiste anche una versione aggiornata di questo saggio: La presenza di Fellini nel cinema contemporaneo. Considerazioni Pre- liminari, Fellini Amarcord 1-2, agosto 2007, pp. 35-50.) Dewey, Donald, Marcello Mastroianni: His Life and Art, New Nork, A Birch Lane Press Book, 1993. Faustini, Giuseppe, Stanno tutti bene: l’Italia amara di Tornatore”, American Journal of Italian Studies, Web., Jul 28, 2005. Fellini, Federico, dir. Amarcord, 1973. —, dir. E la nave va, 1983. —, dir. La voce della luna, 1990. Fittante, Aldo. Giuseppe Tornatore: il cinema si fa con l’uva, in Sici- lia e altre storie. Il cinema di Giuseppe Tornatore, ed. Valerio Caprara, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiana, 1996, pp. 35-46. Gramigna, Giuliano, Preface. Storie dell’anno Mille, Milano, Bom- piani, 1977, pp. 5-9. Mereghetti, Paolo, and Alberto Pezzotta. Il Mereghetti: dizionario dei film 2006, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005. Rumble, Patrick. Tornatore e l’America: il cinema dell’anamnesi, in Sicilia e altre storie. Il cinema di Giuseppe Tornatore, ed. Valerio Caprara, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiana, 1996, pp. 11-20. Sesti, Mario and Andrea Crozzoli, eds. Il viaggio di Fellini. Fotogra- fie di Gideon Bachmann, Pordenone, Cinemazero, 2003. 215

Striuli, Giacomo, Pirandellian Echoes in Giuseppe Tornatore’s Cine- ma Paradiso, «Italian Culture» n. 20, 2002, pp. 11-24. Thiel, Lydia Distefano, Cinema Paradiso: Search for the Father. «Romance Languages Annual», n. 3, 1991, pp. 321-325. Tornatore, Giuseppe, Amarcord Fellini. Giuseppe Tornatore, a cura di Sergio Toffetti, Torino, Lindau, 1995. pp. 31-33. (Originariamente pubblicato in: «Periodico bimestrale del Banco di Sicilia», v. 20, novembre-dicembre, 1993). —, dir. Stanno tutti bene, 1990. —, dir. Il cane blu, episodio di La domenica specialmente, 1991 —, dir. Una pura formalità, 1994. —, dir. L’uomo delle stelle, 1995. —, dir. Nuovo cinema Paradiso, 1988. Vitti, Antonio, Dal “pedinamento” all’affabulazione cinematografica in Stanno tutti bene”, «Italica», vol.80, n.1, Spring, 2003, pp. 53-66. 216 217 Anthony Tamburri

Il Vecchio Mondo in opposizione a quello Nuovo: la coincidentia oppositorum nel Nuovomondo di Emanuele Crialese

«Voi siete il futuro nostro!» Il prete di Petralia Sottana mentre saluta Rita e Rosa

Le scene iniziali di Nuovomondo di Emanuele Crialese stabiliscono le premesse per una serie continua di contrasti che cresce ed evolve nel corso del film. Da una parte, questi contrasti si basano su differenze reali tra le condizioni di vita dei personaggi e quello che possono aspettarsi negli Stati Uniti. Dall’altra, sono basati su credenze irrea- listiche come, ad esempio, le enormi monete e verdure che Salvatore e la sua famiglia vedono nelle cartoline inviate alla famiglia dagli Stati Uniti, dove il fratello americano era emigrato anni prima. Sullo stesso tono, troviamo anche i protagonisti a nuoto in un fiume di latte circondati da gigantesche carote galleggianti.

Nella madrepatria

Il nostro primo incontro con la Sicilia di Salvatore avviene nel territorio montuoso nel quale si apre il film. Un paesaggio che non potrebbe esse- re più lontano dalle aspettative che Salvatore e la sua famiglia nutrono verso gli Stati Uniti. Il mondo di Salvatore è presentato allo spettato- re come una zona della Sicilia arida e rocciosa, che apparentemente non ha altro da offrire se non la speranza che le cose miglioreranno. È questa che porta Salvatore e il figlio Angelo a scalare la montagna per portare omaggio e chiedere soccorso alla Vergine Maria, cui è dedicato un piccolo e scarno santuario in cima al versante grigio e pericoloso. Salvatore è insomma alla ricerca di un qualche segno che gli con- fermi la validità del suo desiderio di seguire il fratello ed emigrare negli Stati Uniti. 218

Due delle caratteristiche più salienti della scena iniziale sono (1) cosa portano e (2) come sono vestiti. Per ovvi motivi pratici, indossano camicie e pantaloni stracciati; sono scalzi e portano delle pietre in bocca e, avendole portate così lontano, le loro labbra sanguinano leggermente. Altrettanto icastica è l’inquadratura iniziale; vediamo una roccia bianca che potrebbe essere una montagna vista da lontano; improvvisamente appare una mano, quella di Salvatore, il quale si sta arrampicando sulla roccia e contemporaneamente nel nostro spazio visivo appare con una voluminosa roccia nella bocca sanguinante. Tutti questi elementi stan- no chiaramente a indicare lotta e sacrificio; in senso immediato e con- creto per quanto riguarda la fatica compiuta da questi due uomini nello scalare la montagna e portare in sacrificio le pietre alla Madonna; in senso metaforico, invece, a rappresentare sia le lunghe lotte e le soffe- renze della madrepatria sia quello che li aspetta. In altre parole, la scena assolve la doppia funzione significante di esprimere (1) nel presente, le difficoltà che i personaggi incontrano quotidianamente in questa terra apparentemente abbandonata da Dio, incapace di nutrire il suo popolo, e (2) a lungo termine, sacrifici simili a quelli che faranno durante il viaggio verso gli Stati Uniti e nelle loro vite future una volta arrivati. Non toccano mai le pietre che portano in bocca prima di consegnar- le. È come se dovessero portarle alla Madonna incontaminate da mani umane, affinché conservino la purezza del sacrificio che stanno offren- do. Ricoperti di stracci, scalzi e lordi dalla scalata, vengono inghiottiti da una fitta foschia man mano che s’inerpicano più alto, come se stes- sero entrando nella sfera del divino, aperta solo a quei mortali che ne sono degni per mezzo del loro sacrificio. Questa distinzione, tra ciò che è apparentemente divino e ciò che è umano, è evidenziata anche da un’altra scena marcata dall’originale e brillante uso che Crialese fa della macchina da presa. Mentre Salvatore e Angelo sono impegnati nella scalata del pericoloso versante, la macchina da presa a un certo punto indietreggia allargandosi in un lungo campo dell’intera collina fatta principalmente di rocce marroni e grigie. Lo spettatore, qui, può a malapena distinguere le due figure che scalano la montagna. Nel frat- tempo, la macchina da presa indietreggia ulteriormente in un’inqua- dratura a volo d’uccello dell’intero versante, lasciando i due uomini completamente avvolti nei suoi toni marroni e grigi e in una foschia che lentamente copre tutto il paesaggio, momento in cui il film taglia su una nuova scena. 219

Segni per/della meraviglia

Quando Salvatore e Angelo raggiungono finalmente la vetta, uno scarno santuario con una croce fatta da tre rami, depositano le pietre, lasciandole letteralmente cadere dalle loro bocche ai piedi del san- tuario, e implorano per un segno che indichi loro se restare o partire, promettendo che non lo faranno finché non riceveranno in risposta un qualche segno. Quel segno si materializzerà presto; prenderà la forma di cartoline inviate dall’America. L’altro figlio di Salvatore, Pietro, apparentemente un ragazzo muto, arriva all’improvviso con in mano alcune cartoline spedite dallo zio americano. Sono foto truccate di scene irrealistiche che Salvatore interpreta come un segno per partire per gli Stati Uniti: un’immagine mostra una cipolla gigante in un car- retto, un’altra un albero dei soldi, e la terza un pollo gigante. L’ascesa dei due uomini alla vetta, alla ricerca di una giustificazio- ne per partire alla volta del nuovo mondo, è subito giustapposta a un esorcismo da vecchio mondo che la madre di Salvatore Fortunata, una guaritrice locale, compie su una giovane donna che crede di essere maledetta, apparentemente posseduta da un serpente nello stomaco. Le due scene, una chiaramente diretta verso il nuovo mondo e l’al- tra fortemente radicata nel vecchio, si contrappongono e formano una nitida coppia di opposti. Una simile coincidentia oppositorum emerge qui anche in altra forma. Quando una delle due giovani donne desti- nate a partire per l’America, Rosa, porta alla madre di Salvatore una busta contenente le cartoline suddette, Fortunata risponde: «No, no, io non mi fido a leggere parole di carta», cui la giovane donna ribat- te: «No, no, queste non sono parole di carta, queste sono cose vere». Vengono, aggiunge quindi, dalla “terra nuova”. Una volta esaminate le cartoline, Fortunata dice al nipote Pietro di bruciarle, cosa che natu- ralmente lui non fa. La breve conversazione tra Fortunata e la giovane donna pronta a partire per l’America è significativa per due ragioni. In primo luogo, siamo qui testimoni di uno scontro tra la mentalità del vecchio mon- do e l’avventurismo del nuovo. Fortunata è una guaritrice “naturale” immersa nei modi del vecchio mondo legati alla natura e alla super- stizione1. Il suo desiderio di rimanere tale si manifesta quando ordina

1 Più avanti nel film, quando l’intera famiglia è sul punto di abbandonare la Sicilia e deve passare per una città, che possiamo assumere sia Palermo con la burocra- 220 al nipote di bruciare le cartoline, un atto che, per quella che possiamo considerare la filosofia ben sistematizzata del vecchio mondo, elimi- nerebbe qualsiasi segno, per quanto esagerato, che possa persuadere Salvatore a partire per il nuovo mondo. La “terra nuova” semplice- mente non può coesistere col vecchio mondo, neanche in forma di rappresentazione fotografica, perfino se truccata. In secondo luogo, troviamo anche un elemento extra-testuale e, in gran parte, retoricamente auto-riflessivo. Nella brevissima conversa- zione tra Fortunata e la giovane donna con le cartoline, capiamo che le parole non hanno alcun valore perché Fortunata non si fida di loro: «No, no, io non mi fido a leggere parole di carta». La giovane donna, invece, replica, che queste non sono «parole di carta, queste sono cose vere». In altri termini, quello che viene rappresentato con parole, il logos, non è attendibile; non possiede alcuna valenza semiotica per Fortunata. Invece, quello che ha valenza semiotica sia per Fortunata sia per la giovane donna è l’immagine, il visivo; «queste sono cose vere» perché appartengono alla sfera visiva. Ciò che è oculare è, di conseguenza, anche percettibile, discernibile, e quindi “reale”, men- tre ciò che è verbale non lo è. Il visivo in questa scena dunque sopraf- fà il logos2. Proprio questo è l’elemento auto-riflessivo; Crialese racconta la sua storia tramite le immagini, non le parole. Così facendo, adultera anche il valore semiotico delle immagini che impiega. Sebbene siano tutte perlopiù realistiche, colpisce la maniera con cui il regista altera la loro combinazione. L’inizio del film suggerisce già, velatamente, questa manipolazione. È come se Crialese, attraverso questa giovane donna, voglia informare lo spettatore su cosa sta per vedere. Tuttavia, facendo rifiutare a Fortunata perfino quelle immagini che le viene

zia che la caratterizza, un dottore vuole vendere a Salvatore una cura per il muti- smo di Pietro. Fortunata, incredula, interviene dicendo che quello che l’uomo cerca di rifilare è robaccia, cosa che lei sa bene dato che è una “medica,” come si definisce lei, creando così un’ancora maggiore elasticità semiotica nei segni che incontriamo nel film. 2 Uno potrebbe anche pensare ad altri due motivi perché le “parole di carta” non avrebbero alcuna valenza semiotica per Fortunata. Innanzitutto, lei è analfabeta; e non essendo in grado di leggere e, di conseguneza, non capire qualunque mes- saggio per iscritto, non può che non fidarsi di qualcosa che non comprende in nessun modo. Secondo, la scrittura, specialmente ciò che potrebbe sembrare sia ufficiale sia forestiera in ogni senso del termine, risulta ugualmente inaffidabile a chi non vive all’interno del burocratico mondo socio-politico dell’epoca. 221 detto sono “cose vere”, Crialese sembra voler avvertire lo spettatore che il significato apparente, soprattutto a prima vista, di alcuni segni che incontrerà, deve essere accantonato. L’avvertimento che il visivo può a sua volta essere oggetto di scet- ticismo è messo in evidenza quando ci viene detto che la seconda giovane donna è maledetta; ha un “serpente in pancia” da quando ha saputo che Don Ercole l’aveva promessa, insieme all’amica, a due ricchi uomini negli Stati Uniti, che loro ovviamente non conoscono. Fortunata stessa rafforza allora la possibilità di scetticismo semiotico nel visivo compiendo un cosiddetto esorcismo per liberare la don- na dalla maledizione. Dopo averla legata in quello che sembra uno schema a forma di x, Fortunata porta la mano sotto il vestito della donna, dove sembra lottare con qualcosa per un po’ di tempo, tirando poi fuori un serpente nero. Il tutto avviene all’interno, in una stanza scura, così non abbiamo mai una vista chiara dei dettagli della scena, incluso del serpente. Quello che evidenzia lo scetticismo è piuttosto la reazione stessa di Fortunata, la quale, sia prima di tirare fuori il serpente sia subito dopo, continua a sorridere. È il secondo sorriso a seminare scetticismo, credo, giacché la scena termina così. Allo spettatore non resta, quindi, che riflettere meravigliato innanzitutto su cosa è successo veramente nell’oscurità, e in secondo luogo, su cosa voglia mai dire il sorriso di Fortunata sia per la giovane donna sia per lo spettatore.

La calma prima della tempesta

Quando Salvatore, la sua famiglia e le due giovani future mogli desti- nate a sposarsi negli Stati Uniti lasciano il paese, pesa sulla scena una calma inquietante e un cielo minaccioso; in cielo si vedono nubi scure che portano tempesta e che, giustapposte al terreno desolato che è all’orizzonte, possono solo far presagire allo spettatore uno sviluppo negativo. Ma è soprattutto l’ignoto a pesare sulla scena. Sui visi dei viaggiatori possiamo leggere smarrimento, se non paura, proprio per- ché non sanno ancora cosa dovranno affrontare. Ritroviamo qui la convergenza degli opposti. Quando Salvatore, la famiglia e le due promesse spose lasciano il paese di Petralia Sotta- na, s’incamminano verso la città, dove per emigrare devono ora fare i conti con la burocrazia amministrativa. Della città colpisce subito 222 la vista di un mercato di piazza sovraffollato e la cacofonia che l’ac- compagna. Osserviamo che la famiglia è letteralmente sopraffatta da questo ambiente quasi urbano rispetto alla tranquilla vita di paese che conoscono bene. Salvatore è chiaramente preso in contropiede dalla frenesia e dalla folla che gli sono così poco familiari. Non desidera altro che sfuggire alla folla. Scaturisce da qui il conflitto tra i due stili di vita: la tranquillità del paese di montagna e l’agitazione del mercato urbano. Degna di nota in questo contesto è anche la messa in scena della partenza dal paese. La prospettiva della macchina da presa è, infatti, curiosa. Posizionata alle spalle della folla, mostra le schiene di quei paesani che rimangono mentre guardano partire Salvatore e i suoi compagni. A un certo punto la folla esce dal paese attraversando un piccolo passaggio ricavato in un muro di pietra; di là dal muro è visi- bile solo una carrozza, una netta separazione così presto nel film. In cima alla carrozza con lo sguardo rivolto indietro c’è Salvatore che sparisce insieme agli altri passeggeri dietro ad un muro ancora più alto. Il dado è tratto, o perlomeno così sembra; non si può più tornare indietro. Da questa scena, con gli alti muri in pietra e i tre asinelli, reminiscenze dello stile di vita contadino, passiamo direttamente a pietre molto diverse, più scure: i ciottoli della piazza del mercato che si anima subito freneticamente come le è tipico. Non va sottovalutato il significato di queste due superfici a questo punto del film. In un certo senso, esse rappresentano una specie di tabula rasa su cui i Mancuso devono ancora scrivere la loro storia. Mentre lasciano il paese, la tabula rasa è bianca, un simbolo tra gli altri di purezza, ma anche, dobbiamo riconoscere, un simbolo doppio, poiché può significare sia rettitudine sia credulità, due attributi che possono nuocere ai Mancuso3. La tabula rasa che introduce la scena del mercato è, invece, scura, quasi nera. Ci troviamo dunque in un regno di significanti molto diverso. In termini fisici, il nero rappresen- ta l’esperienza visiva di un occhio cui non arriva la luce; in termini metaforici, quindi, l’ignoto. Il nero, però, è anche il colore dell’autori- tà, della solennità; non a caso è nella città che i Mancuso vengono per la prima volta a contatto con la burocrazia e i suoi numerosi addetti.

3 Ricordiamoci che mentre nella maggior parte dei paesi occidentali il bianco è il colore della sposa, in Oriente è associato al lutto ed ai funerali. In questo con- testo, va considerato che la Sicilia, sotto molti aspetti, è il crocevia, nel bacino meditterraneo, dove l’Oriente incontra l’Occidente. 223

Troviamo qui anche una delle scene non realistiche del film, che è intenzionalmente comica e letteralmente vignettistica. I Mancuso si mettono in posa dietro a una tipica sagoma di cartone; questa, però, rappresenta una famiglia dell’alta borghesia che Salvatore, Fortunata, Pietro e Angelo completano con i loro visi. Stranamente è proprio qui che Lucy viene a occupare il campo visivo con i Mancuso, i quali l’hanno incontrata prima solo indirettamente. La vediamo avvicinarsi con calma al personaggio di Salvatore dietro alla sagoma; lo guarda lentamente e quindi altrettanto lentamente si volge verso la macchina da presa nel momento in cui la foto è scattata. È qui stabilita un’altra serie di opposti. Da un lato, abbiamo una chiara distinzione tra fin- zione e realtà. I Mancuso, contadini, posano qui come una famiglia alto-borghese, cosa che non sono affatto. Il contrasto è ulteriormente messo in risalto dalla presenza di Lucy, una vera donna d’alta classe, o perlomeno così sembra, che viene qui a contatto diretto con i Man- cuso. Il contadino analfabeta, Salvatore e famiglia, si trova letteral- mente spalla a spalla con l’individualista d’alta classe, Lucy, istruita, inglese e perfino bilingue! Gli opposti non potrebbero essere più netti.

Il processo di un viaggio

Nuovomondo si occupa soprattutto dell’emigrazione italiana; l’immi- grazione è invece largamente relegata in una zona extra-testuale del film. Proprio questo contraddistingue il film – il fatto che sia più sul viaggio verso gli Stati Uniti che sull’esperienza quotidiana degli emi- granti negli Stati Uniti; li vediamo solo a Ellis Island e mai fuori da quel fatidico porto d’entrata. Il film ci fa testimoni del processo d’emigrazione a inizio secolo che include la decisione dell’emigrante di lasciare la madrepatria e le aspettative e ansie che ne risultano, così come lo smarrimento, la confusione e la meraviglia che accompagnano lui e la famiglia. Come mostrato in precedenza, questi sentimenti sono palesi fin dall’ini- zio del film: l’anticipazione prima della partenza, il senso di paura e smarrimento che sembrano pesare sui Mancuso e le due fidanzate mentre lasciano il paese, nonché la sensazione di sopraffazione sia al mercato sia all’ufficio amministrativo nell’innominata città portuale di partenza. Tutti questi elementi contribuiscono all’aura di mistero e d’ignoto che accompagna e contemporaneamente assilla i viaggiatori. 224

Oltre alle prime, eloquenti scene della scalata, della nebbia e dell’esorcismo – che contribuiscono all’aura di mistero, se non per- fino sur-realtà, collocando la storia al limite tra il reale e il surreale – un’altra scena ricca di significati è la partenza. Inizia con una panora- mica sulla massa di persone in fila, con i Mancuso accodati in fondo. Pietro, l’ultimo in fila della famiglia, cammina a testa alta mentre si gira, con occhi pieni di meraviglia, pur continuando ad andare avanti. La macchina da presa si fissa quindi sulla massa di persone sedute, tutte in ovvia attesa di imbarcarsi su questa nave o su un’altra che deve ancora arrivare. Intorno a loro vediamo gli intrallazzatori che fanno gli ultimi tentativi per vendere i loro imbrogli: falsi rimedi salu- tari o ciondoli vari in omaggio ai santi. A questo punto c’è un eloquente cambio di scena. Il film taglia bru- scamente sull’imbarco e l’inquadratura dall’alto mostra brevemente la fine dell’imbarco della prima classe. Il campo quindi si allarga e sentiamo una voce chiamare la “terza classe”. Allargando ulterior- mente l’inquadratura sulla grande folla della terza classe, vediamo la ressa spintonare nello sforzo di salire a bordo. In mezzo alla calca ci sono i Mancuso, centrali nell’inquadratura mentre arrivano sulla passerella d’imbarco. Due riflessioni sorgono qui per lo spettatore. Innanzitutto, vediamo Salvatore assediato ancora una volta da una massa soffocante; prima si trattava del versante inanimato nel paese natio, questa volta della massa animata di emigranti, tutti in partenza per lo stesso scopo: per trovare una vita migliore negli Stati Uniti. Nel primo caso, Salvatore letteralmente e metaforicamente scala la vetta della montagna. Anche nel secondo caso raggiunge letteralmente la cima, questa volta però della passerella4. Per riuscirci, deve entra- re assieme agli altri viaggiatori della terza classe nella pancia della nave e noi osserviamo ogni individuo sparire al di là della porta della nave. Si sovrappone qui una scena dove Pietro, scrutando l’enorme e strana struttura della nave su cui dovrebbe salire, mostra chiaramente il timore dell’ignoto nascosto dietro la porta e si gira nel tentativo di tornare indietro, ma viene invece tirato in avanti dal padre. Entrambe queste azioni possono facilmente assumere significati secondari. L’atto di attraversare la soglia che porta nella pancia della nave, per esempio, può essere inteso come un riferimento alla spari- zione dell’immigrato dalla propria patria. La prolungata assenza dal

4 Come vedremo più avanti, raggiunge la vetta anche in un altro senso, metaforico. 225 paese causerà una specie di perdita di memoria nella coscienza collet- tiva del paese natio e quindi l’immigrante in quanto italiano cessa di esistere. Questa potenzialità nello stato dell’immigrante lo colloca in uno spazio interstiziale, quel mondo di liminalità, dove l’ambiguità, l’indeterminazione e, in senso positivo, l’apertura regnano5. Oppu- re, com’è forse stato il caso per l’immigrazione, ogni chiaro senso d’identità viene relegato sullo sfondo portando a un potenziale stato di smarrimento socio-psicologico e forse anche culturale. Quest’as- salto congiunto di rimozione (vedi, essere dimenticati) e incertezza (vedi, liminalità) induce Pietro a girare le spalle alla nave transatlan- tica, ormai un forte segno premonitore dell’annullamento d’identità. Troviamo qui una delle scene più convincenti del film, la partenza della nave dal porto. Si tratta di nuovo di una ripresa a volo d’uccello dove le persone occupano l’intera inquadratura; la maggior parte sono della stessa misura e solo alcune più piccole. Le persone di misura maggiore si muovono in massa verso sinistra accompagnate da un minaccioso suono metallico e da qualche altro rumore della nave; le persone, invece, sulla nave e sulla banchina rimangono silenziose. Quando la nave si allontana dal porto, il suono metallico continua con lo stesso ritmo mentre i pistoni del motore sembrano acquistare velocità. Ogni singola persona nella scena rimane silenziosa; l’acqua tra la nave e il porto aumenta segnalando la separazione tra un gruppo e l’altro, e quindi dalla patria; ciononostante i due gruppi continuano a fissarsi di là dal divario che cresce costante. La scena taglia brusca- mente sulle persone a bordo e il fischio della nave sale assordante. Tutti i passeggeri improvvisamente guardano verso l’alto, verso la macchina da presa; alcuni si coprono le orecchie, sempre in silenzio. La macchina continua ancora per sedici secondi con una panoramica dei passeggeri in coperta, calmi e silenziosi rivolti verso l’alto per poi tagliare velocemente sulla terza classe e la loro esperienza frenetica e, letteralmente, buia all’interno della pancia della nave. Prima di questo cambiamento di scena, tuttavia, i nostri amici viaggiatori si ritrovano nuovamente al centro dello schermo. Questa volta, però, appaiono solo le tre giovani donne; le due promesse spose stanno al fianco di Lucy, “la rossa” come l’ha chiamata il burocrate

5 Faccio ovviamente riferimento alla nozione del liminale di Victor Turner (The Ritual Process: Structure and Anti-Structure, Chicago, Aldine Transaction, 1969/1995), il quale a sua volta attingeva da Arnold van Gennep (The Rites of Passage, Chicago, U of Chicago P, 1961). 226 a terra, la quale ora indossa dei guanti rossi sulle mani conserte che attirano subito l’attenzione dello spettatore grazie al contrasto con lo sfondo blu, grigio e nero. Il fatto che queste tre donne siano messe così in evidenza invita a riflettere sulle loro possibili funzioni semio- tiche. In quanto donne rappresentano, di più rispetto agli uomini, una funzione creativa e quindi perpetuante per l’immigrato italiano negli Stati Uniti. Sono forse loro il futuro dell’emigrazione? Stanno forse a rappresentare coloro che troveranno successo a seguito del viaggio? Queste sono solo alcune possibili domande; in modo retrospettivo, risulterà poi chiara la funzione di Rita, Rosa, e Lucy nel grande dise- gno del piccolo mondo dei Mancuso. La loro “intentio operis” emer- gerà e avrà un forte impatto, inevitabilmente, sulla nostra “intentio lectoris” in quanto spettatori6. Quando i viaggiatori cominciano a scendere sotto coperta per sistemarsi nei posti loro assegnati sul transatlantico, li osserviamo mentre si assestano nella cabina di terza classe. Testimoniamo così le condizioni di vita, l’affollamento nella terza classe, o meglio nella stiva; facciamo conoscenza con le varie città da cui provengono gli emigranti. L’analfabetismo dei più viene messo in evidenza e pren- diamo perfettamente coscienza di quanto fosse limitato l’universo di Salvatore, ristretto esclusivamente a Petralia Sottana, come ci fa capi- re quando si domanda come farà a sopravvivere durante il viaggio dormendo in mezzo a tanti “stranieri”. Siamo in altre parole testimoni della completa innocenza di Salvatore per quanto riguarda la cono- scenza, o meglio la mancanza di conoscenza, del mondo al di fuori del suo piccolo paese. Quest’innocenza si manifesta in varie forme. Innanzitutto proprio quando si riferisce a tutti quegli “stranieri” por- tando un altro viaggiatore, Nicola Esposito, a rispondere:

Stranieri? Ma dove sono tutti questi stranieri? Qua siamo tutti italiani. [Nicola] Italiani? [Salvatore] Italiani. [Nicola]

6 Dovrei forse più accuratamente affermare che la nostra “intentio lectoris” emer- gerà, in quanto non sarà mai possible conoscere veramente l’“intentio auctoris” di un testo, sebbene possiamo forse connotare una “intentio operis.” Per questi tre concetti, rimando a Umberto Eco, Intentio Lectoris: The State of the Art, «Diffe- rentia, review of italian thought», n. 2, 1988, pp. 147-68. 227

Ci sono poi anche i dubbi che nutre sulla lingua, di che cosa parli ciascuno:

E se ci son quale lingua parlano? [Salvatore] Perché lei non lo sa che è italiano? [Nicola] Se lo dici tu. [Salvatore]

Considerando il coraggio dimostrato da Salvatore col desiderio e infine la decisione di trasferire la famiglia negli Stati Uniti, la sua limitata esperienza e conoscenza del mondo esterno sono in un certo senso sorprendenti. Si manifesta qui anche linguisticamente con le varie definizioni dell’aggettivo straniero: “stranieri” è usato, infatti, per coloro che vengono da un altro paese locale, un paese che giace nei confini geopolitici dell’Italia, piuttosto che per coloro di un altro stato sovrano. Italiano può quindi essere inteso come l’etichetta usata per riferirsi alla lingua comune del gruppo sulla nave, indipendente- mente dalle inflessioni e accenti regionali7. Un esempio d’inflessione particolare potrebbero essere i pronomi usati da Salvatore e Nico- la. Alla domanda posta da Salvatore su quale lingua parli ciascuno, Nicola risponde con il formale “Lei”, mentre Salvatore ribatte con il colloquiale «se lo dici tu». Una simile distinzione in questo caso non può che dimostrare la differenza sociale e culturale dei due uomini in questione. Salvatore rappresenta l’immigrato genuinamente inno- cente e/o ingenuo, il quale, se le cose diventassero problematiche, potrebbe facilmente diventare vittima di truffe e disgrazie. Infine, sempre nell’ambito linguistico, assistiamo, in senso eti- mologico, alla confusione della lingua orale. Salvatore domanda a Nicola, il viaggiatore più informato, quando potranno vedere «’sto grande Luciano», al che una terza persona risponde, «no, certo vuol dire l’oceano, il grande oceano». Questo episodio, fugace ma commo- vente, costituisce uno degli atti comunicativi più ricchi di significato costruito da Crialese. Da una parte mette in risalto l’assoluta man- canza di conoscenza mondana di alcuni degli emigranti, tanto da non essere in grado di distinguere, a livello uditivo, il suono di “grande Luciano” da “grande oceano” (o, forse, “grande l’oceano”). Una spie-

7 “Italiano” può anche essere inteso come un nome/aggettivo per descrivere qualsiasi lingua – dialetto o standard – parlato dai viaggiatori tra loro. Una tale categorizzazione universalizzerebbe chiaramente la nozione di “dialetto” e, così facendo, aumenterebbe anche il suo “valore” sociolinguistico. 228 gazione si trova certamente nella loro stessa lingua e nella differente pronuncia tra dialetto e italiano standard, per cui la pronuncia dia- lettale di “l’oceano” può essere fraintesa col nome maschile “Lucia- no”. Dall’altra parte, l’episodio indica anche, a livello retorico, un elemento auto-riflessivo sulle proprietà polisemiche della lingua per cui un segno (“l’oceano”) viene scambiato per un altro (“Luciano”)8. La lingua, come capiamo da questo convincente scambio, ci ánco- ra; rivedendo il proverbiale motto di Cartesio “Cogito, ergo sum”, potremmo proferire “Loquor, ergo sum”, una regola empirica ovvia per quanto riguarda quest’aspetto linguistico in Nuovomondo9. Tutta- via, la lingua, come abbiamo osservato quando Fortunata dice a Rosa che non ha fiducia nel “leggere parole di carta,” è palesemente in stretta competizione con il visivo, se non ne è addirittura secondaria. Lo scontro tra alfabetizzazione e analfabetismo continua; il primo esempio vede le donne sistemarsi nei loro alloggi, dove una donna contadina reclama come suo il letto di Lucy. Quando Lucy spiega che si tratta del suo letto e mostra alla donna contadina la ricevuta che lo prova, Rosa rimane momentaneamente interdetta ma acconsente, forse alquanto seccata, affermando che non sa leggere:

Scusi, signora, questo è il mio letto. [Lucy] No, qui ci sto io. [Rosa] Vede, è scritto qui. [Lucy] Non lo sacci’ a leggere io. [Rosa]

Quest’ammissione di analfabetismo sembra essere la sua giustifica- zione per la confusione di posto. Tuttavia è anche indicativa, ancora una volta, dello scetticismo verso la lingua e tutto quello che essa rap- presenta: indeterminatezza, ambiguità e incertezza da un lato; buro- crazia e quindi potere dall’altro; in entrambi i casi, comunque, manca un sincero legame con la realtà. Non è un caso, dobbiamo dunque ammettere, che questo malinteso con Lucy coinvolga Rosa; era stata infatti Rosa a portare le cartoline a Fortunata insistendo già all’inizio del film che quelle rappresentavano “cose vere” a differenza della inattendibile rappresentatività delle “parole di carta”.

8 Tale trasmutamento linguistico ricorderà il titolo del film di Gianni Amelio, Lamerica. 9 Questa manipolazione della lingua va riconosciuta come opera di Criale- se, con tutto il rispetto per Salvatore e i suoi compagni viaggiatori. 229

Il viaggio: una favola semiotica

La traversata dell’oceano è impregnata di significati di genere e clas- se. Finalmente al largo, i passeggeri cominciano ad apparire in coper- ta e troviamo Lucy che si sporge dal parapetto. Mentre alza il capo volgendosi da una parte, appaiono il ben curato Don Luigi con due amici, tutti estremamente ben vestiti e solerti nel salutarla da veri gentiluomini. Lucy si gira allora nella direzione opposta, dove Sal- vatore e i due figli, sorpresi nell’atto di osservarla, distolgono subito lo sguardo. Segue quasi un gioco e rimpiattino: mentre i tre uomini si voltano di nuovo lentamente verso di lei, la scoprono già intenta a sorridere nella loro direzione, accennando perfino un gioviale «Buon giorno». La scena può facilmente avere un’altra funzione semiotica, perlo- meno doppia. Lucy è letteralmente intrappolata tra due uomini, Don Luigi da un lato e Salvatore dall’altro. Si trova quindi nel mezzo tra due “corteggiatori”, almeno in apparenza. L’essere “tra” luoghi e stati è caratteristico del viaggio stesso e della condizione di genere. Lucy sem- bra rimanere l’oggetto amoroso di entrambi gli uomini, sebbene Don Luigi assuma anche il ruolo di “organizzatore di matrimoni”, volen- do essere magnanimi, introducendo Lucy al gentiluomo ben curato, il Signor Belvedere, “il più grande rivenditore di ghiaccio a New York”. Tale condizione offre a Lucy anche un certo privilegio, poiché le dà la possibilità di scegliere, per quanto possa esserle difficile. Questo doppio viaggio, fisico e di genere, è ulteriormente accen- tuato da un terzo elemento che è la classe sociale; assistiamo, infatti, anche a un viaggio socioeconomico basato su chiare differenze sociali; queste non possono essere più evidenti che nella contrapposizione tra l’elegante gentiluomo e Salvatore con i due figli vestiti di stracci. Si forma qui una specie di triangolo, tre possibili punti di riferimento al cui centro c’è Lucy. La donna diventa un segno peirciano definito dalla capacità di avere significati molteplici su livelli molteplici. È però un segno peirciano che ricorda anche il nodo semiotico, dato che i molte- plici significati possono potenzialmente cancellarsi a vicenda10. In un certo senso, Lucy è tutto e nulla nel processo semiotico, cambiando

10 Penso qui al concetto di Floyd Merrell “one, two, three and back again”; si veda Sensing Corporeally: Toward a Posthuman Understanding, U Toronto P, 2003, pp. 33-51. 230 costantemente nel corso del film funzionalità significanti per il letto- re. È proprio il suo essere nulla che supporta l’essere tutto11. Lucy è genere, classe e viaggio; è il segno assoluto che ancora, in modo signi- ficativo (gioco di parole voluto), i diversi segni che costituiscono l’ap- parente rete semiotica del film, il suo comunicato potenziale. In questa posizione di centralità, analoga sicuramente alla sua liminalità, Lucy serve dunque da pilastro definitivo che lega i diversi aspetti dell’espe- rienza di emigrazione e/o immigrazione all’inizio del ventesimo seco- lo, dal generale allo specifico (ossia dal fisico all’ideologico). L’elemento concretamente fisico del viaggio si manifesta in diver- si modi nel film. Abbiamo già analizzato la partenza dal paese natio e il conflitto tra culture esposto una volta che arrivano in città. Abbia- mo inoltre visto il trattamento subito dai protagonisti quando lascia- no la città (con lo spietato rivenditore di merci e intrugli miracolosi, per mancanza di un altro termine). Abbiamo anche assistito a come i passeggeri della terza classe in particolare si stringono in gruppi sul porto, come forzati in gabbia spinti da una forza dominante. Que- ste sono solo alcune delle sfide fisiche e mentali che gli emigranti devono affrontare. Tuttavia, uno degli episodi forse più significativi del viaggio è la tempesta. È con questa che gli aspetti più pericolo- si, quelli che possono potenzialmente mettere a rischio o trasformare una vita, sono reificati in una serie di scene in cui i passeggeri della terza classe vengono sballottati di qui e di là fino a perdere coscien- za. Quest’aspetto della tempesta è reso efficacemente dal continuo

11 Come ho notato altrove, (Centering on Nothing: and Giorgio de Chirico Signing On, «Signifying Behavior. An International Journal of Semiotics», 1.1, 1994, pp. 255-73, e Narrare altrove: diverse segnalature letterarie, Firenze, Franco Cesati Editore, 2007), scrivendo di Perelà di Palazzeschi e dei centri vuoti della poesia di Palazzechi e dei primi dipinti di de Chirico, “questo nulla che occupa i centri dei loro testi si presenta come una specie di combinazione di segni che sono autonomi e, per di più, slegati da qualsiasi referenzialità concreta. Essi poi costitu- iscono in termini peirceiani una “libertà illimitata”, un nulla (dal latino ne + ullus [non alcuno]), che, ciononostante, continua a significare; esso significanessuna (dal latino ne + ipse + unus) cosa. Nulla è la potenzia- lità illimitata per la generazione illimitata di alcuna cosa, ovvero non una cosa stessa (ne + ipsa + una) – cioè, il significato, il valore semantico, l’interpretazione, la quale è vera, per il lettore, solo in quanto essa sia ‘semioticamente reale’ (Merrell, 1991, p. 198)”. 231 cambiamento in ritmo e illuminazione: a momenti il movimento è regolare e domina l’oscurità, altre volte, invece, c’è un rallentamento e la luce scompare completamente, e viceversa. Gli effetti immediati della tempesta sui passeggeri della terza classe si rivelano anche sulla nave. Una serie d’individui comincia ad apparire lentamente in coperta tra le macerie sparse. Ciascuno è impegnato a trascinare o portare un malato, o forse, a nostra insa- puta, un morto. Una delle tragedie di questo viaggio viene reificata attraverso la giovane donna che trasporta un neonato morto. Vagando smarrita, dà inizialmente il neonato a Lucy, la cui espressione indica il fato del bambino. La madre riprende allora il neonato nelle brac- cia e ricomincia a vagare senza meta, questa volta verso il parapetto, dove, pienamente cosciente di non poter conservare il figlio morto a bordo, lo seppellisce in mare, gettandolo fuori bordo mentre crolla a terra svenuta. Subito prima che lo getti, vediamo sullo sfondo un cielo nuvoloso in cui sorge il sole, bloccato dalla figura della madre, la quale ne risulta quindi oscurata con la luce solare quasi a farle da aureola. Una tale desolazione, la madre è costretta a seppellire il figlio in mare da sola, viene espressa in toni quasi religiosi con l’aureola, diminuendo leggermente, perlomeno si vuole sperare, gli aspetti tra- gici del viaggio12. Una tale supposizione sembra confermata dalla scena seguente. Le donne della terza classe siedono come a catena, ognuna intenta a spazzolare l’altra come se si stessero preparando per un qualche evento. La panoramica ci fa prima notare una giovane donna con il capo abbassato e subito dopo intravediamo in fila tutte e quattro le donne che conosciamo. Da davanti a dietro, vediamo prima la donna, impassibile, che ha dovuto seppellire in mare il figlio e che ora si fa pettinare da Fortunata, la quale a sua volta viene pettinata da Rita; più indietro troviamo Lucy che spazzola un’altra donna. Le quattro donne hanno tutte una forte rilevanza. La prima significa perdita di un figlio, una delle esperienze più struggenti del viaggio; la seconda rappresenta il coraggio e la tenacia del vecchio mondo; la terza, come aveva affermato il prete prima della partenza da Petralia, il futuro13; la

12 Si può considerare una diminuzione in considerazione del fatto che l’aureola evoca la religione che per i cattolici significa il ritorno a Dio dell’anima del neo- nato. 13 Non dimentichiamo quello che il prete ha affermato al momento della partenza. Per prima cosa ha chiesto a tutti, sia ai viaggiatori sia a coloro che sarebbero 232 quarta, il segno assoluto che qui, contestualizzandolo, sta per rischio, coraggio e buona fortuna14.

Lucy e Salvatore: gli opposti si attraggono

Ulteriormente complicata dall’apparente indipendenza di Lucy, la questione di genderè sempre centrale quando è presente durante il film, mentre Fortunata e gli altri hanno ruoli secondari. Come nota- to in precedenza, l’indipendenza di Lucy e il coraggio mostrato imbarcandosi da sola evidenziano un unico atteggiamento femmini- le caratteristico dell’epoca15. Una tale risoluzione è rafforzata dalla determinazione di Lucy di avvicinarsi ai Mancuso, i quali, almeno in apparenza, non hanno niente in comune con lei, come viene chiara- mente mostrato visualmente quando Salvatore e la famiglia posano dietro le sagome di cartone. Come notato prima, una delle numerose coppie di opposti nella scena è naturalmente quella di Lucy – Salva- tore: lei, urbana, alto-borghese, istruita, inglese e bilingue; lui, analfa- beta, contadino che parla dialetto e crede nella magia della sua patria. Dall’inizio del film ad adesso, appena prima di sbarcare ad Ellis Island, Lucy e Salvatore sono al centro di tre scene ricche di signifi-

rimasti indietro, di sorridere. Quindi, guardando i viaggiatori, in particolare Rita, ha esclamato: «Voi siete il nostro futuro!». Una tale dichiarazione è ricca di signi- ficato e mette in luce una serie di domande rilevanti che fino a poco tempo fa non erano mai state poste. Perché, ad esempio, sembra che l’Italia abbia abbandonato la propria emigrazione storica e la progenie di coloro che partirono? Deve forse qualcosa l’Italia a coloro i cui genitori, nonni e bisnonni lottarono sia durante sia dopo il viaggio? Non è questo il luogo per una discussione così impegnativa, molto deve ancora essere detto. Ciononostante, rimando il lettore a un mio pre- cedente saggio in cui ho affrontato queste questioni: (Appunti e notarelle sulla cultura diasporica degli Italiani d’America: ovvero, suggerimenti per un discor- so di studi culturali, «Campi immaginabili» 34/35, 2007, pp. 247-64; inoltre le ho anche discusse nel primo capitolo di questo studio. 14 Indipendentemente dal mistero che l’avvolge, (e.g. le supposizioni paesane su chi possa essere, se esiste, il marito), Lucy è una donna in un paese straniero (l’Italia) che decide di emigrare da sola. 15 Potremmo considerare analogo il personaggio fittizio di Umbertina nel romanzo di Helen Barolini, Umbertina, New York, Seaview, 1979). Cia- scuna donna rappresenta un tipo femminile nettamente distinto, ma acco- munato dall’inusuale indipendenza per questo periodo della storia, tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. 233 cati. La prima è proprio quella del ritratto di famiglia con le sagome di cartone. La seconda ha luogo invece in coperta mentre camminano in direzioni opposte, pur continuando a guardarsi e a farsi cenno fino a incontrarsi, com’era inevitabile dato il loro movimento. La terza scena avviene invece subito prima dello sbarco, dove possiamo forse notare un cambiamento del punto di vista nel momento in cui Salva- tore e Lucy hanno la conversazione più intima e personale del film. Dopo aver visto Lucy prendere il controllo della situazione all’ini- zio del film, unendosi ai Mancuso sia per la foto sia come membro del gruppo di viaggio, vediamo adesso, invece, che Salvatore comin- cia ad acquisire notevole coraggio. In questa seconda scena, infatti, Salvatore nota Lucy sbirciando da dietro uno di quei grandi fuma- ioli sulle navi; la guarda mentre cammina lentamente, ovviamente dall’altro lato della nave; i movimenti rallentati dalla macchina da presa. A un certo punto, lei sparisce dietro un’altro di quei fumaioli per riapparire subito dopo guardando direttamente verso Salvatore. Ripetono gli stessi movimenti finché finiscono per incrociarsi, uno di fronte all’altro. Il tutto dura due minuti cui segue una scena irre- alistica. Durante questo secondo gioco a rimpiattino, quando Salva- tore guarda per l’ultima volta Lucy, lo vediamo scomparire dietro un fumaiolo ancora più grande, completamente bianco che offre così una transizione a uno spazio vuoto in cui viene poi a galla un cappello e pian piano comprendiamo che stiamo vedendo Salvatore emergere in un mare di latte. Mentre si guarda attorno con sgomento, viene rag- giunto da Lucy. Si sorridono e un’enorme carota passa galleggiando e loro vi si aggrappano immediatamente; vi si appoggiano come fosse un salvagente. La camera si ritrae e la scena finisce16. A un secondo sguardo, notiamo che i due non si parlano mai durante la scena. In coperta, si guardano e sorridono solamente; non c’è nessuno scambio di parola. Naturalmente una scena simile ha dei riferimenti intertestuali, in particolare per lo spettatore familiare col cinema italiano. Viene subito alla mente la famosa scena in Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) quando Mimì (Giancarlo Gian- nini) e Fiore (Mariangela Melato) conversano solo con espressioni

16 Senza dubbio la scena possiede una certa referenzialità fallica. Possiamo perfino ripensare all’esorcismo durante il quale Fortunata toglie, o perlomeno sembra, un serpente dalla pancia di Rita, annullando così la maledizione. Il potenziale refe- rente fallico per entrambe le scene merita certamente uno studio approfondito, ma in altra sede. 234 facciali e gesti17. Anche qui abbiamo una situazione molto simile; per tutta la camminata in coperta, Lucy e Salvatore si guardano, sorri- dono leggermente, ma non parlano mai; perfino quando finalmente s’incontrano, Salvatore fa solamente un cenno col cappello e sorride. Anche in questo caso, il visivo sopraffà la parola, il logos. È la terza scena a marcare un cambiamento decisivo nella relazio- ne tra Lucy e Salvatore. Fino a questo momento, si sarebbe potuto facilmente sostenere che Lucy aveva il controllo. Durante la scena con le sagome, la vediamo invadere il loro spazio; osserviamo in seguito come si accoda alla famiglia Mancuso. Non presenta certa- mente un carattere titubante. Le cose sembrano però alterarsi, seppur leggermente e gradualmente. Sebbene sia sempre lei a prendere il coraggio per chiedere Salvatore in matrimonio, lui si sente ormai più sicuro e risponde immediatamente di sì, domandando solo quando e come: «Ma certo, magari ora!». Lucy, con l’onestà e il candore che le sappiamo propri, precisa che non lo sposa per amore, bensì che ha bisogno di un uomo per entrare negli Stati Uniti. Salvatore, a sua vol- ta, sicuro come prima, ribatte sullo stesso tono: «Amore, e se manco ci conoscemo! Queste cose, ci vuol tempo. È giusto, è giusto?». Lucy risponde con un incerto «sì», seguito subito dal gesto superstizioso di Salvatore che le taglia un ricciolo di capelli affinché non si perda- no: «Accusì non ci perdemo», le dice. Quando lei gli risponde che non crede alla “magia”, la risolutezza di Salvatore si rivela rafforza- ta dall’affermazione: «Col tempo ci insegno tutto cos’è». La scena termina con un primo piano silenzioso dei due, come se stessero per baciarsi, ma non lo fanno, e Salvatore, almeno per il momento, sem- bra aver vinto questa partita. Da qui in avanti, i loro ruoli si alternano; secondo le circostanze uno dei due assume la posizione più attiva. Quando il nome di Lucy non viene chiamato durante l’appello di chi deve sposarsi, è lei a farsi avanti per dire all’ufficiale dell’immigrazione che hanno dimenticato il suo nome. Salvatore mostra assoluta confidenza, ma il suo anal- fabetismo lo costringe ad appoggiarsi a Lucy, la quale spiega agli ufficiali perché non aveva compilato i moduli necessari. In questo nuovo mondo, Salvatore, ancora l’uomo di campagna pragmatico e di buon senso, impara presto che dovrà per forza di cose imparare ad

17 Mimì metallurgico ferito nell’onore, dir., Lina Wertmüller, Euro International Film, 1972. 235 affrontare la lingua e la burocrazia. La sua prima reazione di fronte ai moduli è di pensare che Lucy non voglia più sposarlo, cosa che le chiede con apparente malcontento e delusione. Lucy prende ora le redini della situazione e dice all’ufficiale dell’immigrazione che è in realtà il suo ruolo nella relazione di prendersi cura di queste cose, riempire moduli e simili. Qualcosa d’intrigante avviene quindi in seguito. Il cappello di Lucy cade mentre continua a riempire i moduli. Due caratteristiche fisiche sono qui degne di nota: i capelli e i guanti rossi; ciascuno dei quali è già stato messo in risalto, seppur brevemente. Proprio il colore rosso evidenzia quello che possiamo tranquillamente definire la differenza di Lucy; è una donna inglese, bilingue, e presumibilmente bicultu- rale. Non sarebbe esagerato affermare che nel corso del film Lucy rappresenta, tra le varie possibilità, la differenza dal vecchio mondo, e dunque il “nuovo mondo”. Il colore in sé contrasta visivamente con l’oscurità che sembra circondare invece i Mancuso e tutto quello che rappresentano. È questo che rende Lucy veramente e letteralmente un pilastro, come menzionato in precedenza. La sua domesticità con i moduli permette sia a lei sia a Salvatore di entrare negli Stati Uniti, da sposati, superando la burocrazia che voleva tenerli fuori dal paese. Occupa quindi una posizione centrale; la sua liminalità costituisce un certo privilegio che favorisce lei e chi le sta vicino. Noterei altresì che questa liminalità è rivelata anche dal fatto che Lucy non accetti il fio- re tradizionale, ma prenda invece il tubino di Salvatore, simbolo del vecchio mondo, cosicché il vecchio e il nuovo mondo possano unirsi come Lucy e Salvatore, ora pronti a imbarcarsi assieme per una nuova avventura nel nuovo mondo. La liminalità di Lucy funge semioticamente da ponte tra due cultu- re come esemplifica perfettamente una scena breve, e apparentemente insignificante, che precede quella discussa sopra; si tratta della scena in cui le donne sistemano le loro cose in valigia nella sezione letto. A un certo punto, la scena rallenta e cominciamo a sentire della musi- ca da chiesa. È interessante notare la posizione delle quattro donne: Lucy è al centro dello schermo, Fortunata alla sua destra (la sinistra dello spettatore), mentre Rosa e Rita, una di fronte all’altra ma con lo sguardo rivolto verso il basso, sono alla sinistra di Lucy (la destra dello spettatore). Con l’avanzare della scena, a rallentatore, Rita e Rosa rimangono nella stessa posizione. Fortunata, invece, si gira ver- so sinistra, mentre Lucy verso destra. A un certo punto le due donne 236 si ritrovano di fronte e sembrano farsi un cenno del capo, lentissimo, in accordo. Non sappiamo ancora su cosa possano essere d’accor- do. La scena, tuttavia, insieme allo sguardo che si scambiano, mostra acquiescenza e non disaccordo; esaminandola ulteriormente, notiamo che metà del viso di entrambe le donne rimane fuori dalla vista dello spettatore. Se potessimo avvicinarle ancora, otterremmo un’immagi- ne ancora più intrigante e significante; avremmo un viso composto dalle due metà di queste donne, una del vecchio e l’altra del nuovo; sullo sfondo, poi, pronte a beneficiare da questa nuova persona, da questa nuova donna, ci sono Rita e Rosa, sul punto di andare avanti nel modo più avvantaggioso. Le tre parti che costituiscono il segno di Lucy, una triade di genere, classe e viaggio, confluiscono qui assieme e lasciano presagire un esito positivo.

Il [non]arrivo

Precedentemente in questo capitolo ho dedicato una sezione al “pro- cesso” del viaggio. Come notato a quel proposito, non è tanto il viag- gio di per sé a essere significativo, ma piuttosto l’esperienza di inte- ragire col “nuovo” che si prospetta agli immigrati: in altre parole, le persone che incontrano, le conversazioni che tengono, e i cambia- menti che risultano da queste e altri nuovi eventi. Gli ultimi quaranta minuti circa del film sono dedicati a vari esami fisici e psicologici sugli immigrati, così come ad altre procedure che devono affrontare. La differenza tra il trattamento riservato alle donne e quello agli uomini è notevole. Mentre gli uomini vengono lasciati in un’atmosfera alquanto caotica; le donne incontrano un ambiente più sensibile. Anche qui però molte sono le differenze culturali che saltano all’occhio e che vanno oltre a Italia/America e città/campa- gna. Fortunata, ad esempio, non è abituata ad alcuni esami medici e protesta vivamente. C’è anche una questione di praticità, soprattutto per quanto con- cerne cosiddetti esami d’intelligenza, quando agli immigrati viene chiesto di rimettere nella cornice pezzi di legno di varie forme così da formare una superficie piatta. Salvatore costruisce invece una mini baracca e un’altra struttura, cose che tornerebbero utili a qualsiasi lavoratore di campagna com’era Salvatore a Petralia Sottana in Sicilia. In risposta, lui mostra, sorridendo compiaciuto, la propria soddisfa- 237 zione nel risultato prodotto. Tuttavia, è forse ancora più significativo osservare l’esperienza di Lucy con questo tipo di test d’intelligenza. Lei li considera più come giochi da tavolo, come afferma e mostra nel porre una domanda all’esaminatore avviando la seguente conver- sazione:

May I ask, I thought you were looking for illnesses, and con- tagious diseases? [Lucy] [Mi permetto di chiederLe, ma non dovreste controllare per malattie e altri mali contagiosi?] [Lucy] Unfortunately, Ma’am, it has been scientifically proven that lack of intelligence is genetically inherited, and it’s contagious, in a way. We are trying to prevent below-average people from mixing with our citizens. [State Examiner] [Sfortunatamen- te, Signora, è stato provato scientificamente che la mancanza d’intelligenza è ereditata geneticamente ed in un certo senso è contagiosa. Stiamo cercando di evitare che persone al di sotto della media si mischino con i nostri cittadini. [Esaminatore dello Stato] What a modern vision? [Lucy] [Cos’è una visione moderna?] [Lucy]

Quello che oggi sarebbe considerato scioccante, era più che accetta- bile per la comunità scientifica a cavallo del secolo. In Italia c’erano scienziati quali Cesare Lombroso e la sua nozione di determinismo biologico, non molto diversa da quello che l’esaminatore di stato implica nella risposta a Lucy18. Inoltre, la nozione di mescolanza raz- ziale (miscegenation) o altro simile era anch’essa altamente scorag- giata. Difatti, durante l’esame medico delle donne, una delle infermie- re americane dice a Lucy che «[i]t is highly unlikely for an English woman to be traveling with Italians, you’ll be questioned about that» [è molto improbabile che una donna inglese viaggi con degli italiani, Le verranno fatte domande in proposito]19. Questo è il “nuovo mondo” come spesso viene definito anche qui. Certamente, la questione del vecchio contro il nuovo e di cosa questi

18 Vorrei ricordare ai lettori che Lombroso affermava l’esistenza di un archetipo di italiano di “razza meridionale” opposto a uno “di razza settentrionale” (Si veda La Nuova Antologia,1902). 19 La differenza etnica e il fatto che tale differenza fosse già presente nel periodo coloniale è stata elegantemente analizzata da Stephen Steinberg nel classico: The Ethnic Myth: Race, Ethnicity, and Class in America, Boston, Beacon P, 1981-1989. 238 rappresentino è messa in rilievo quando Fortunata, chiamata al tavolo per l’esame d’intelligenza, dice all’esaminatore di Ellis Island che sta bene dove siede. L’aspetto più significativo di questa scena è quando lei interroga l’esaminatore chiedendo «Che volete da noialtri?», al che lui risponde «Them who?» [Loro chi?]. E lei allora insiste quasi con affetto: «Tutta questa gente che è venuta dal vecchio mondo», in quanto si vede chiaramente come parte di un mondo che è diverso proprio perché è il “vecchio mondo”. Questa coincidentia opposito- rum è consolidata in seguito dall’esaminatore stesso quando afferma che vogliono essere sicuri che: «they are fit enough to enter the new world” [siano idonei per entrare nel nuovo mondo» (corsivo mio)]; e mentre la conversazione continua, l’espressione “nuovo mondo” vie- ne ripetuta varie volte. Queste sono solo alcune delle spiacevoli concomitanze che gli immigrati dovevano affrontare. Umiliazione e denigrazione erano parte integrante del sistema. Lo stesso vale anche per il riconosci- mento formale dei cosiddetti accordi matrimoniali. È a causa di questi che le donne, in particolare, sono costrette sopportare un processo di ansia, stress e, come dimostrato qui, delusione proprio perché (1) sono letteralmente esposte e (2) incontreranno finalmente per la prima volta gli uomini a cui sono state promesse in spose. Mentre gli uomini in attesa e le donne appena arrivate prendono i loro posti, esse sono praticamente messe in mostra; e l’inquadratura è molto significativa in quanto presa dal punto di vista degli uomini, posizionata dietro a loro, permettendoci di vedere soltanto la cima delle teste maschili, esponendo invece completamente le donne, molte delle quali guarda- no verso il basso. Questa prima presentazione delle donne en masse, in un atteggiamento così sottomesso per di più, può significare (1) l’opinione che gli uomini nutrono dei loro confronti, poiché condi- vidiamo la loro prospettiva e/o (2) la loro posizione nei matrimoni futuri. Oltre all’ufficiale riconoscimento a Ellis Island di Lucy e Salva- tore come fidanzati, diventiamo testimoni di molti altri fidanzamen- ti. Mentre la macchina fa una panoramica ravvicinata sulle facce delle donne, non possiamo non notare la loro trepidazione. Rita, ad esempio, non riesce neanche a guardare il futuro marito negli occhi; rimane con testa e occhi chinati verso il pavimento anche da seduta. L’opposto si verifica, perlomeno inizialmente, nella reazione di Rosa. Scoprendo il promesso sposo molto più corto e vecchio di quanto le 239 avesse fatto credere, lo attacca urlandogli che è un mentitore disgra- ziato e brutto. La scenata potrebbe aver già stabilito le basi per la loro relazione futura; non lo sapremo mai. Certamente, non avrebbe avuto bisogno di lasciare l’Italia per questo; come lei stessa afferma, un padre lo aveva già là. C’è poi il caso della donna spagnola promessa a qualcuno, il quale, per sfortuna di quest’ultima, non si presentava da qualche giorno e lei era così costretta ad aspettarlo a Ellis Island. Finalmente, quando la donna lo implora un’altra volta ad identificarsi, un uomo, notevolmente parecchio più giovane della spagnola, si alza lentamente, loro si guardano, e ciascuno si rimette a sedere in silenzio e con la testa in giù20.

Come indicato dal titolo di questa sezione, non assistiamo mai all’ar- rivo degli immigrati sulla cosiddetta terra ferma; li lasciamo a Ellis Island anche alla fine del film. La maggior parte dei nostri immigrati, in altre parole, non vedono mai veramente l’America mentre siamo tutti insieme, protagonisti e spettatori. Quando sono ancora sulla nave e la terra si avvicina, la nebbia è troppo densa per vedere la costa. Perfino una volta aver apparentemente terminato il processo d’inchie- sta e l’esame che li permetteranno di entrare negli States, gli uomini si ritrovano in una stanza con alte finestre di vetro smerigliato. Per vedere New York sono in pochi ad arrampicarsi fino in cima, dove il vetro è liscio. Come già osservato in precedenza, Crialese offre qui allo spettatore una scena iconica dei tre uomini, ormai solo ombre contro la finestra illuminata; la scena ricorda un qualche dipinto clas- sico italiano, come un trittico di tre uomini, non prodotto all’inizio del ventesimo secolo ma piuttosto nel Rinascimento se non nel Medioe- vo. Anche questa, potremmo sostenere, è una forma di coincidentia oppositorum, dove il vecchio mondo è posto in netto contrasto con il nuovo, e gli uomini si ritrovano nel mezzo, in quello spazio liminale dei migranti in cerca di un prefisso che non è né “e” né “im”. A questo punto, come in un altro episodio del film, la dicotomia “vecchio mondo/nuovo mondo” risalta e si accosta a un altro bino- mio di opposti “vecchia generazione/giovane generazione”. Vediamo

20 Dalla prospettiva del gender, la scena è pregna di significati e sottolinea la posi- zione sottomessa della donna immigrante sia per motivi economico-sociali sia per ragioni di età, che l’uomo può pure essere di un’età maggiore a quella della futura moglie ma non viceversa. 240

Fortunata e Pietro seduti uno accanto all’altro, silenziosi e apparen- temente incapaci di comunicare finché Pietro, guardando la nonna, le afferra il viso e scuote la testa in disapprovazione. Lei, invece, fa un cenno d’assenso e distoglie lo sguardo. Quindi, la macchina taglia bruscamente su un’altra scena in cui l’intera famiglia Mancuso occu- pa lo schermo: Fortunata, la matriarca del vecchio mondo, è al centro circondata dal figlio e dai nipoti. Proprio adesso l’amministrazione di Ellis Island, quindi gli Stati Uniti, “fa la parte di Dio”, come Fortuna- ta aveva insinuato prima. Dicono a Salvatore che sua madre è troppo debole di mente e il figlio muto, due caratteristiche per cui, secondo le politiche degli Stati Uniti, gli immigrati vanno rimpatriati. La risposta che offre Salvatore va ricondotta alla praticità del vec- chio mondo; è questa che lo porta a fare una serie di domande per poi offrire una soluzione elementare, logica. Con tutta questa terra e tutto questo lavoro, infatti, perché mai lascereste fuori della gente? E se suo figlio non sa parlare, meglio per tutti; non darà fastidio a nessuno e non potrà neanche lamentarsi di niente. Infine, per quanto riguarda la madre, se parla troppo come dicono21, la terrà chiusa in casa. Que- ste sono soluzioni semplici, pratiche, secondo Salvatore, a problemi che lui chiaramente non considera tali. Una tale praticità da vecchio mondo era già apparsa durante il test d’intelligenza con i pezzi di legno da risistemare nella cornice; invece di metterli a formare una superficie piatta, li aveva usati per costruire piccole baracche. Se Fortunata era effettivamente una persona che parlava troppo, e Pietro muto come tutti pensavamo fosse, la coppia di nonna e nipote trova ora il proprio significato e capiamo così come siano inestrica- bilmente connessi. Per buona parte della prima metà del viaggio, For- tunata è sicuramente molto loquace e ostinata. Tuttavia, col procedere del viaggio, sembra diventare più silenziosa; un gran numero d’im- migrati è silenzioso. Il silenzio di Fortunata verso la fine del viag- gio, stranamente, non le impedisce di comunicare col nipote Pietro; cosa che avviene alcuni minuti prima della scena finale con tutta la

21 È a dir poco curioso che Salvatore faccia l’equivalenza tra “debole di mente” e parlare troppo, mentre gli ufficiali di Ellis Island potrebbero averlo visto come un segno di disordine, come veniva a volte caratterizzato. Atti eccessivi, in par- ticolare se atti sociali, erano considerati come potenziali sintomi di debolezza di mente. Rimando ad esempio a Henry Herbert Goddard, Feeble-mindedness:­ Its Causes and Consequences, New York, McMillan, 1914 e Edgar A. Doll, Clinical Studies in Feeble-mindedness, Boston, Richard G. Badger, 1917). 241 famiglia riunita. Qui l’opposizione tra “vecchia generazione/giovane generazione” si manifesta al meglio. Fortunata è ormai muta, capace di comunicare con il figlio e i nipoti solo tramite espressioni facciali. E dopo che Salvatore fa l’ultimo appello per far rimanere la madre e il figlio negli Stati Uniti, è il figlio Pietro, il muto, e non la madre, ad articolare verbalmente il desiderio di lei di tornare in Italia, mentre gli altri devono rimanere negli Stati Uniti:

Papà, la nonna mi disse che vuole morire a casa. E mi disse pure che noialtri dobbiamo stare accà.

Mentre Pietro pronuncia queste due convinzioni, Fortunata accarezza prima il viso di Salvatore con le mani, quindi passa ad Angelo, con lo stesso affetto, e solo alla fine arriva a Pietro, che accarezza con un lungo sorriso. La scena riprende tutti e quattro, con Fortunata ancora al centro; Salvatore e Angelo fissano la macchina mentre Fortunata e Pietro guardano verso il basso. Con una dissolvenza, la scena sfocia poi nell’ormai mitico fiume di latte in cui adesso troviamo non solo la famiglia Mancuso, ma, di fatto, molti degli immigrati che hanno viaggiato con loro. La combinazione delle due affermazioni di Pietro e le sue azioni si dimostrano due dei momenti più significativi del film dal punto di vista degli opposti: ossia vecchio mondo/nuovo mondo e vecchia generazione/giovane generazione. Fortunata rappresenta il vecchio mondo e la vecchia generazione; insieme al nipote costituisce la metà nel binomio che evidenzia la coincidentia oppositorum ormai chiara- mente a due strati. È una dualità che è allo stesso tempo orizzontale (da un mondo all’altro) e verticale (ossia cronologica, dal vecchio al più giovane). Il nuovo mondo, in questo momento, ha un impatto notevole su entrambi i membri della coppia. Fortunata, vecchio mon- do, non può rimanere nel nuovo; supplica di tornare per poter “morire a casa,” dove “casa” costituisce la parola chiave. Questo perché il pro- cesso del viaggio e il primo incontro col nuovo mondo, si dimostrano antitetici all’essere di Fortunata; lei non può immaginarsi in questo nuovo spazio. Pietro, d’altro canto, vive una specie di metamorfo- si che è sia spirituale sia fisica; soprattutto in confronto alla scena dell’imbarco, quando voleva scappare giù dalla nave, Pietro sembra ormai tranquillo del suo fato nel nuovo mondo, capace di comunicare sobriamente al padre il desiderio di Fortunata. La nuova capacità di 242 parlare è adesso contrapposta al mutismo selettivo di Fortunata e i due personaggi si scambiano di posto; Fortunata, una chiacchierona, come lo stesso Salvatore l’ha descritta, è messa a tacere nel/dal nuovo mondo, mentre Pietro, tranquillamente silenzioso come muto seletti- vo nel vecchio mondo, diventa loquace nel nuovo22. L’esistenza di paese condotta da Pietro in voluto mutismo è ora annullata e, per prosperare nel nuovo mondo, deve adattarsi e il primo requisito è l’acquisizione della lingua. Pietro deve adesso fare affida- mento alla lingua, l’onnipotente logos, per cui, come discusso in pre- cedenza riguardo a Tusiani, il famoso “Cogito ergo sum” di Cartesio è nuovamente trasformato nel motto dell’immigrato italiano “Parlo, dunque sono”. Questo viene anche sottolineato ironicamente dall’uso di Pietro della parola “disse”. È ironico, in senso letterale, proprio perché da quanto possiamo giudicare, il modo di comunicazione a questo punto tra Fortunata e Pietro non è linguistico; non parlano tra di loro, comunicano solo con espressioni facciali e gesti. Eppure, Pie- tro dice, «la nonna mi disse». Inoltre, l’impiego della parola dire da parte di Pietro, «la nonna mi disse», accentua ancora di più il fatto che Pietro fino a questo punto non ha articolato alcuna parola. In quanto spettatori, siamo testimoni di un cambiamento ironicamente chiasma- tico nel linguaggio verbale e nell’idioma dei gesti, qui nel mezzo visi- vo del cinema, come illustrato nello schema seguente:

22 Il mutismo selettivo è una malattia sia nei bambini sia negli adulti, i quali, nono- stante il loro silenzio, sono in realtà capaci di parlare e di capire una lingua. Questo si capisce presto essere il caso di Pietro; benchè non parli, è chiaro che può sentire e capire cosa dicono le persone intorno a lui. Il mutismo selettivo è, tuttavia, una condizione estremamente complessa e sconcertante. Per maggiori informazioni su questa condizione, rimando a Sheila A. Spasaro and Charles E. Schaefer, eds., Refusal to Speak: Treatment of Selective Mutism in Children, Northvale, N.J., Jason Aronson, 1999; Norman H. Hadley, Elective Mutism, A Handbook for Edu- cators, Counselors, and Health Care Professionals, Dordrecht & Boston, Kluwer Academic Publishers, 1994; Thomas R. Kratochwill, Selective Mutism: Implica- tions for Research and Treatment, Hillsdale, N.J., L. Erlbaum Associates, 1981. 243

Attraverso il personaggio di Fortunata, capiamo che quei modi incrollabili del vecchio mondo non sono adattabili al nuovo. Non solo lo implicano gli esaminatori di Ellis Island quando la giudicano “debole di mente” e decidono di rispedirla indietro; la stessa Fortu- nata lo capisce e per questo ha deciso di tornare in Italia dove vuole “morire a casa”. Pietro subisce una trasformazione simile. La paura iniziale del viaggio e tutte le sue conseguenze sono ormai dissipate, conscio di appartenere ormai al nuovo mondo – una coscienza che, vorrei sottolineare, ha le sue origini nel vecchio mondo, ossia in For- tunata, come spiega egregiamente Pietro: “la nonna disse che vuole morire a casa,” ma, ancora più significativo, è “la nonna” che «disse … che noialtri dobbiamo stare accà». Ironicamente ancora una vol- ta, quindi, non è tanto che il nuovo mondo sopraffaccia il vecchio; piuttosto, il vecchio mondo è riuscito a capire il nuovo e l’inevitabile necessità di adattarvisi se si desidera risiedervi per migliorare le pro- prie condizioni personali ed economiche.

La fine dell’inizio: tutto è possibile

Come menzionato prima, Nuovomondo si concentra sul viaggio e non sulla vita dell’emigrante negli Stati Uniti. Il processo è al centro del film. I Mancuso e Lucy subiscono una trasformazione durante l’espe- rienza migratoria che ha un impatto considerevole sul loro futuro pro- prio perché ha un impatto sul viaggio dall’Italia negli Stati Uniti. Attra- versano e superano le prove e le tribolazioni del pericoloso viaggio, dove una qualunque disgrazia come tempeste, malattie infettive, e vio- lenza causata dal sovraffollamento potrebbe abbattersi in ogni momen- to. Sopravvivono anche alla visione “moderna” della burocrazia di Ellis Island, con i suoi medici indottrinati nella teoria dell’eugenia che decideva del fato di coloro che rischiavano il viaggio nella stiva della nave; quelli che credono di essere «Gods who decide who is and is not fit to enter» [dei che decidono chi è idoneo e chi no], come sottolinea Fortunata alla fine, rifiutando di seguire le «rules of the new world» [regole del nuovo mondo], come afferma l’ufficiale di Ellis Island. L’ultima scena realistica alla fine del film, quella del ritratto di famiglia dei Mancuso che hanno lasciato l’Italia, dissolve in un fiume di latte. Il cambiamento porta a galla un certo numero di questioni. Innanzitutto, la prima inquadratura è completamente bianca, una spe- 244 cie di tabula rasa su cui, metaforicamente, i nostri immigrati possono scrivere la loro nuova storia nel nuovo mondo23. In secondo luogo, dalla destra appare Lucy che gradualmente si dirige verso il centro. Mentre si sistema in questa nuova posizione, tre teste finiscono per apparire da sotto la superficie: Salvatore, Angelo e Pietro. Mentre si assestano, si dispongono nella stessa posizione del ritratto finale dei tre uomini e della madre/nonna. Abbiamo ora di fronte a noi il ritratto della Mancuso, quella che abiterà nel nuovo mondo. Nelle veci di Fortunata (ossia il segno del vecchio mondo), trovia- mo Lucy (il segno del nuovo mondo), quel segno triangolare come menzionato prima, la cui funzione significante è di genere, classe e viaggio. Lei è il pilastro che rafforza i vari aspetti dell’esperienza migratoria all’inizio del ventesimo secolo. Per più di trenta secondi la nuova famiglia Mancuso occupa l’in- tero schermo, mantenendo le posizioni del ritratto originale della vecchia famiglia, mentre sullo sfondo si sente musica del ventune- simo secolo. Una volta che quest’immagine viene impressa ferma- mente nella mente dello spettatore, la scena comincia ad allargarsi, e vediamo così gli altri immigrati nel fiume di latte, o piuttosto il mare di latte, alla fine ripreso a volo d’uccello per mostrare solo le teste/ cappelli di questi americani nuovi di zecca. Quest’angolazione serve da perfetto contrappunto a una delle due precedenti inquadrature a volo d’uccello. Quando la nave lascia il porto, abbiamo visto come una moltitudine di viaggiatori emigrati, chiaramente ansiosi alza lo sguardo verso la macchina, mentre la sirena della nave suona rumo- rosamente alla partenza. Non è più necessario vedere le loro facce, dato che, dopo questa loro rinascita terrena, riceveranno nutrimento dal fiume di latte e in seguito da latte e miele, come vuole la credenza, 24 per la loro rinascita spirituale. Inoltre, ed egualmente significativo nel contesto migratorio, il fiume apocrifo di latte era anche il luogo dove le persone erano finalmente premiate, come si legge di seguito24:

L’angelo mi disse un’altra volta: «Seguimi, ti farò entrare nella città di Cristo». Stava ritto sopra il lago di Acherusa e mi fece

23 Ricordo al lettore della tabula rasa precedente, sicuramente simile a questa, quando i Mancuso arrivano per la prima volta nella città da cui poi partono. 24 Si veda Hilda M. Ransome, The Sacred Bee in Ancient Times and Folklore, New York: Houghton Mifflin Co., 1937, p. 280. Per maggiori dettagli, rimando al capitolo 21, “Ritual Uses of Milk and Honey” (pp. 276-84). 245

salire su una nave d’oro; davanti a me c’erano circa tre migliaia di angeli che cantavano un inno finché non arrivai alla città di Cristo. […] quattro fiume la circondavano: uno era un fiume di miele, un altro di latte, un altro di vino, un altro di olio. Dis- si all’angelo: «Che cosa sono questi fiumi che girano attorno alla città?». Mi spiegò: «Sono quattro fiumi che scorrono così copiosi da saziare coloro che vivono in questa terra della pro- messa. Ecco i loro nomi: il fiume di miele si chiama Fison, il fiume di latte Eufrate, quello di olio Geon e quello di vino Tigri. Come coloro che, mentre vivevano nel mondo, non hanno usato questi beni, ma se ne sono privati per il Signore Dio, così, quan- do entrano in questa città, il Signore offre loro queste cose con un’abbondanza al di là di ogni misura»25. […] Poi mi condusse dove scorreva il fiume di latte, e lì vidi tutti i bambini che il re Erode aveva ucciso per il nome di Cristo. Mi salutarono, e l’angelo mi disse: «Tutti coloro che preservano la castità con la purezza, quando escono dal corpo, dopo aver adora- to il Signore Dio, vengono affidati a Michele e vengono condotti presso questi bambini; li salutano dicendo: Ecco i nostri fratelli, amici e membra! Con loro erediteranno le promesse di Dio».

Quelli premiati nel fiume di latte sono anche quelli che vengono ammazzati da re Erode – una metafora certamente appropriata per gli immigrati che, come bambini, erano vittime innocenti di circostanze al di là del loro controllo, quali disastri naturali e fattori socio-politici del vecchio mondo ed anche del viaggio rischioso e della filosofia basata sull’eugenia del nuovo mondo. Inoltre, al posto delle «tre migliaia di angeli che cantavano un inno finchè non arrivai alla città di Cristo», il film chiude con sette minuti della classica versione in 10 minuti di Sinnerman di Nina Simone, uno spiritual tradizionale della fine del secolo, spesso cantato durante riti religiosi. I Mancuso con tutti i fratelli e le sorelle con cui hanno fatto il viaggio si ritrovano ora nel “fiume di latte” che “sfocia” nel nuovo mondo dove, come lo spettatore può ora narrare semioticamente, «con loro erediteranno le promesse» del nuovo mondo, quella “terra nuova” cui Rosa, sempre presciente, ha fatto riferimento prima nel film26.

25 Si veda: Apocalisse di Paolo in Apocalissi Apocrife, a cura di Maria Luisa Lucca, Milano, Sugarco Edizioni, 2000, pp. 23-31. 26 Ringrazio Alessandra Senzani per la sua traduzione italiana del mio testo origi- nale in inglese, e, a sua volta, Roberto Dolci per la sua acuta ri-lettura del mio saggio e le sue curiosità su alcuni punti della mia “lettura” del film. 246 247 Maria Rosaria Vitti-Alexander

Raccontare il Sud ne La terra di Sergio Rubini

Ricca la letteratura meridionalista italiana come altrettanto lo è la cine- matografia che si impegna a raccontare il Sud1. Con la formula “regi- sti meridionali” ci si vuole rifare naturalmente non ai dati anagrafici di questi artisti ma piuttosto essa ci permette di identificare ciò che caratterizza nell’insieme quei film che vogliono narrare il Sud: un par- ticolare impiego di elementi psicologici, di costume, di ambiente, di problematiche di una certa tipologia, di particolari tecniche filmiche, e per finire l’uso didascalico e operativo programmaticamente culturali che ne vengono fatti. Se si dovesse trarre una singola conclusione di questi film che raccontano il Sud si dovrebbe dire che sono caratteriz- zati da una dialettica bifronte: da un lato si vedono intenti dichiarata- mente di polemica e di denuncia, di un Sud ancora dimenticato, lonta- no dal modernismo odierno, di un Sud che resta tuttora un mondo in transizione con un passato ed un presente in difficile convivenza. Ma allo stesso tempo dall’altro lato questi film presentano polemicamente un Sud come un mondo da tutelare anche in tutte le sue incongruenze perché culla di atavici insegnamenti che potrebbero ridiventare guida all’uomo tra i meandri caotici della vita moderna. Il film in questione La terra2, di Sergio Rubini uscito nel 2006, manifesta un’esemplificazione storico-culturale di un particolare tempo e il suo narrare deve essere visto in due modi: il primo è da trovarsi nella descrizione analitica della realtà sociale ed economica del Sud; il secondo, stretto derivato del primo, studia un rapporto tra Sud-Nord, società meriodionale e società settentrionale attraverso la focalizzazione del singolo personaggio di Luigi De Santo.

1 Per una lista abbastanza completa di lavori che trattano del Sud rimando all’arti- colo di Raffaele Crovi in «Il Menabò», n. 3, 1960. 2 Il film La terra è stato girato nel paese di Mesagne provincia di Brindisi. 248

È il tema della società che apre subito il film, di un Sud in bilico tra tradizione e progresso, fra la stagnante quotidiana realtà della piazza e delle feste tradizionali di paese e le nuove realtà provocanti del Nord, due condizioni che stridono mentre il tutto è rigorosamente filtrato dalla scomoda e tormentosa presenza del camorrista Tonino, presenza ormai onniscente ed onnipotente del paese. Ed è nella contrapposizio- ne di queste due condizioni Nord e Sud che si evolve il film, e che fa scattare in Luigi, immediatamente al suo arrivo, una lenta ma ineso- rabile riscoperta del passato e di se stesso, seguita dalla dissoluzione- ricostruzione di un tipico nucleo familiare di stampo meridionale. Molti dei film che raccontano il Sud ricorrono ad una tecnica speci- fica: raccontano di un padre, forte come un toro e dispotico, prepotente con i figli e la moglie; riferiscono di un figlio maggiore che si scaglia contro tale padre per poi allontanarsi o essere forzato a farlo; narrano di un figlio ormai grande che torna per ritrovarsi dolorosamente alle prese con un passato e con un mondo che credeva recisi da sé e che invece inesorabilmente lo risucchiano sia nel bene che nel male. La terra di Sergio Rubini si attiene a queste particolarità. Il film ha inizio con il ritorno in Puglia di Luigi, ormai un signore di mezza età e distinto professore di filosofia a Milano. La ripresa a lungo rag- gio che introduce il protagonista evidenzia subito la difficoltà del suo rientro: Luigi è solo, valigia in mano in una strada deserta che cammi- na lentamente verso il paese, punto invisibile all’orizzonte. Qualcuno si è dimenticato della sua venuta? Si tratta di un ritorno non volu- to? Dai flashback che hanno accompagnato Luigi nel suo viaggio si scopre che i De Santo non sono affatto pochi, ce ne sono altri tre, due fratelli e un fratellastro bastardo. Ma soprattutto veniamo a sapere che il ritorno è particolarmente difficile perché crudele ed ingiusto è stato il suo allontanamento dal paese. Un allontanamento-punizione che si è abbattuto sul giovane liceale che aveva provato a ribellarsi ad un padre-padrone, prepotente e violento con la moglie ed i figli, e spudoratamente orgoglioso di avere “altre donne”. Dopo una lunga assenza dal paese nativo Luigi è tornato, ma solo per necessità, richiamato da uno dei fratelli per regolare la proprietà di famiglia, terra e cascina, possedimenti dei De Santo in questo paesino del Sud, un posto che ormai Luigi sente ostile, estraneo e nemico. Pos- sente si rivela la cinepresa di Sergio Rubini nel mettere a fuoco tutta la forza di questi sentimenti: estraneità, spaesamento, solitudine, moti dell’animo che sono generati certamente dalla lunga lontananza e da 249 nuove abitudini acquisite nella diversità di Milano dove ormai Luigi vive. Allo scontro delle due realtà presenti nel subcosciente di Luigi –l’acquisita coscienza nordica e quella latente meridionale – risulta soprattutto solitudine e distacco come evidenzia la cinepresa con le sue lunghe riprese e inquadrature dall’alto che mettono in risalto un Luigi nel mezzo di una piazza strozzata da edifici, disperatamente solo e alienato da tutto ciò che lo circonda, a telefono con quella sua altra esistenza. Questo, il paesino meridionale è mondo del caos e dell’ir- razionale, quello, Milano è regno del razionale e della compostezza, l’unico mondo con il quale Luigi pensa ormai di riuscire a comunicare. Solitudine ed alienazione continuano ad accompagnare Luigi al suo rientro nella casa paterna in mezzo al paese. Ad aspettarlo trova solo stanzoni deserti, mobili impolverati, foto sbiadite sulle pareti. Solitu- dine ed alienazione avviluppano Luigi al suo rientro nel cascinale di famiglia. La ripresa a lungo raggio del casale e della terra di famiglia porta avanti e denuncia la presente condizione di Luigi, psicologica- mente piccolo e sperduto su quella che era l’aia della sua casa. La Terra è un film di memoria, soprattutto quella di Luigi. Ma la memoria non è un puro e semplice repertorio di cose meccani- camente registrate, essa non serve a nulla se manca la dimensione della coscienza. E la coscicenza con la sua intenzionalità è capace di cogliere il senso delle cose al di là della loro pura e semplice esistenza empirica mettendo in moto la dimensione evocativa. Evocare significa testimoniare in due modi: nel modo oggettivo, l’essere considerati testimone di qualcosa, e nel modo soggettivo, il sentirsi testimone di qualcosa. In La terra ambedue le testimonianze, soggettiva ed oggettiva hanno corso per Luigi.In questo film vediamo che sono le cose che iniziano a raccontare, a parlare e che fanno di Luigi il testimone di un passato che lui aveva creduto finito, relegato per sempre nei meandri di ricordi dolorosi di una volta. Ed è la terra, proprio la sua terra, che gli si era presentata al primo impatto estranea e nemica, ad iniziare il recupero della testimonianza; sono le maesto- se distese di ulivi e mandorli, tesori del Sud, a riaprire dolcemente il dialogo con il personaggio Luigi per riportarlo indietro nella memoria, a sussurargli ricordi brutti e belli, il dolce-amaro del passato, e che Rubini ci fa scivolare dolcemente sotto gli occhi. Sono i prodotti della terra del Sud che scandiscono lo sviluppo della trama. È il sacco di mandorle che offre il posto ideale dove nascondere l’arma per ucci- dere; è l’atavica processione degli incappucciati del Venerdi Santo, 250 identità nascosta dal cappuccio come vuole la tradizione e la solennità dell’occasione, a procurare il momento opportuno per l’eliminazione di Tonino, camaorrista, sfruttatore ed usuraio, anima marcia del paese. Il filo della memoria continua a srotolarsi, e Luigi si lascia trasci- nare alla riscoperta di se stesso: la difficile relazione con il padre, la dolcezza della morbida spiaggia dorata del paese, la piccola Angela innamorata del giovanetto Luigi, la scuola. L’ingresso nella vecchia scuola e nell’aula B prepotentemente investono Luigi con le grida di amici di un passato creduto per sempre dimenticato, ombre sbiadite che invece riacquistano vita e spessore. Sempre sul filo della memo- ria Luigi capisce che deve prolungare la sua venuta, la porta che si è riaperta sul suo passato non può essere richiusa ora che il processo di riappropiazione e di riconoscimento si sono messi in moto. Ed è a questo punto che la memoria dell’offesa – del padre e dell’imposto allontanamento dal paese -acquista dunque una duplice valenza, come dono personale di riscoperta, e come seme che poi ger- moglierà in un apprezzamento per quello che il Sud può dare ai suoi figli. L’ordine del mondo tradizionale, la sua capacità di fare storia al di fuori della storia, il suo istintivo amore per la vita che sembra tra- dursi in una regola di confidenza nei semplici rapporti sociali, è tutto quello che Luigi lentamente inizia a riafferrare e di cui si riappropria. Con lo sviluppo del film la concretizzazione dei due mondi diversi e in opposizione è evidente, l’altro mondo – Milano – pur senza mai apparire viene contrapposto al paesino del Sud. Milano è l’italiano impeccabile di Luigi, le telefonate a Laura alla quale descrive, in un linguaggio forte ed alienante il paesino, come luogo attanagliato da “follia totale”. Luigi mette in rilievo “l’irrazionalità”, la disarmonia di questa sua famiglia del Sud, che gli appare estranea e diversa come tutto il paese, come se ogni cosa fosse controllato da un frenetico susseguirsi di eventi fortuiti e non calcolabili. L’insofferenza, l’irrepremibile necessità di focalizzare solo “l’ir- razionale”, “la follia” del paese non fanno altro che evidenziare la presente condizione di Luigi: il lento rigurgito del suo altro Ego, che lui credeva non esistesse più, la sua meridionalità che ormai inarresta- bilmente si ripresenta. Se ne accorge subito Laura, la sua compagna di Milano che venuta a cercarlo nel paese sembra non riconoscerlo. Se ne accorge Tonino il mafioso che con l’intimidazione cerca di allon- tanarlo dal posto. Lo stridio del contrasto tra l’intellettuale del Nord, Luigi, e il mafioso del Sud, Tonino, è forte, raggiungendo il massimo 251 una volta che quest’ultimo, anima del paese corrotta e corruttrice, trova in Luigi suo degno contrapparte. Tonino, dopo averlo visto in situazioni che lui considera compromettenti cerca di intimorire Luigi. L’ultima minaccia avviene in un vicolo deserto. Tonino, circondato dai suoi uomini blocca Luigi, gli si accosta e con il gesto intimidato- rio proprio del mafioso gli morde un orecchio sussurandogli di stare accorto perché Milano non è poi tanto lontana per una resa di conti tra loro. La reazione di Luigi è composta di due momenti, la coscienza dell’offesa è in un primo momento “razionalmente” dimenticata da Luigi uomo del Nord. In un secondo momento essa riaffiora e Luigi, tornato a capire le leggi che governano la terra del Sud, se ne riap- propria, le gestisce e si vendica. Nella follia e nel caos della follia bisogna adattarne le regole, e Luigi lo fa, razionalmente. Il messaggio di Rubini è chiaro, non ci si può sottrarre alla pro- pria terra. Uno ha un bell’andare via e trovarsi una terra diversa: ci si traveste, perché sotto sotto l’impronta è quella, e quando il segnale giusto arriva, non c’è niente da fare, si capitola. Ognuno capitola davanti a qualcosa. Luigi capitola davanti al ricostruirsi della vecchia autorità della famiglia d’origine. A lui, il più vecchio, e dunque capo famiglia, ognuno dei fratelli chiede qualcosa; come repentino era sta- to il suo rientro in paese, allo stesso modo Luigi, improvvisamente e senza veramente averlo voluto, si ritrova il centro. Uno alla volta tutti si fanno avanti risucchiando Luigi nel loro mondo del Sud e in quegli intricati legami di famiglia patriarcale: – Aldo, il fratellastro, è rimasto il passato. Vive governato dall’an- tica scienza contadina che ricava dalla terra l’esistenza. E gli si fa addosso con la difficoltà della sua situazione, il casale e la terra non si possono vendere, lui ed altri ci vivono su e ci campano. Per Aldo, come appunto era nel passato, ogni creatura deve restare nel proprio ambiente, vivere secondo le leggi della morale naturale non corrette dall’uomo – coltivare, raccogliere i frutti, allevare gli animali. Ed è difatti il frutto di questa loro terra, un sacco di mandorle da portare ai poveri ammalati, che regala al fratello Mario ed è proprio qui, in que- sto sacco che Mario trova il nascondiglio ideale per l’arma del delitto. – Michele, coinvolto in politica si è lasciato scivolare nel mondo dell’usura che ormai lo sta stritolando. Michele si è allontanato dalle leggi di un mondo tradizionale, si è lasciato corrompere dal canto di sirena della vita moderna cadendo nel baratro senza fondo dalla sua corsa frenetica ai guadagni. 252

– Mario si è perso nell’illusione che il lavoro di volontariato, la cura degli altri, dei diversi, dei malati mentali, possa ridargli quella famiglia che a lui è stata negata. Mario, nella sua solitudine si cerca nei bisognosi, diventa quel padre che lui avrebbe voluto avere, come farà sapere al fratello maggiore, Michele che aveva cercato di fargli da padre senza riuscirci (“Non volevo un padre come te”, gli dice Mario senza pudore). Un ritorno complesso abbiamo detto, che il regista scandisce con riprese lunghe e lente, la macchina da presa che scende e sale lascian- do Luigi solo, in piazze vuote, vicoli bui, case deserte. Poche sono le scene solari, bella quella con Angela al mare, ma ciò era stato possi- bile prima che si venisse a conoscenza dei problemi di soldi di Miche- le; prima della conoscenza della desolata solitudine di Aldo infeli- cemente innamorato di una clandestina al servizio di Tonino; prima ancora che si venisse a conoscenza di Mario perso nel suo sogno di un mondo più umano. Mario, un ragazzo solo, che studia Pascal nel tentativo di sentirsi meno solo, meno stritolato da questo Sud così dif- ficile, sordo e incapace di riconciliare il suo passato ancora vivo ed un presente che preme alle porte. Rubini focalizza questa situazione di bilico quando riprende Mario all’uscita dall’Associazione dove lavo- ra. La scena in un vicolo deserto e buio e circoscritta da palazzi e alti muri quasi volessero schiacchiare il giovane Mario, che con occhi ammirati rivela al fratello maggiore Luigi venuto ad incontrarlo, il suo grande cruccio, “tu sei diverso,” gli dice, “hai avuto il coraggio di ribellarti.” Certamente parla della ribellione al padre ma sottintesa è la ribellione alla tirannia del Sud intero, all’assurdo dei fatti che ne governa l’esistenza. La terra, è un riuscito film che racconta il Sud e il suo grande dilemma, un impasto di ieri e di oggi, quell’impasto primordiale di cui esso è fatto: gente che pur restando in cuor suo attaccata a certe tradizioni vuole prendere un’altra via, imparare un’altra lingua, sen- tirsi parte di un nuovo mondo. Ma sulla via della trasformazione c’è oro e c’è fango. Talvolta il gioco delle apparenze fa si che una cosa sembri l’altra e la vita diventi un grande punto interrogativo, come è appunto successo a Michele Di Santo, il fratello più esposto alla sire- na della trasformazione e che ha confuso il buono del suo mondo con il male dell’altro, sacrificando tutto. Il Sud va capito, studiato e rein- serito nel mondo di oggi. Come è stato per Luigi, un ritorno al Sud sta a significare un viaggio di apprendimento, un rifare la strada a ritroso 253 per imparare dal Sud la sacralità della famiglia e la responsabilità verso di essa, l’appartenenza ad un posto e la necessità di mantenere viva la memoria di se stessi per poterne trarne forza e perseverenza. Luigi, che si era creduto fuori da una famiglia patriarcale, estraneo da questi fratelli che lui ha lasciato ragazzi e che ritrova uomini, è invece vicinissimo ad essa, riconosciuta la forza primigenia del paese, cose che si era illuso di aver dimenticato, si riavvicina e si riappropria di persone e di problemi. Ed è Luigi ad iniziare il processo di riavvicinamento con i fratelli prima per sé e poi per gli altri. Si riavvicina ad Aldo, il fratellastro che è quello che beve, gioca e va a donne eppure lavora, è divenuto il paladino del podere di famiglia, terra e cascinale, che invece il fratel- lo Michele vorrebbe vendere per le esigenze consumistiche del mon- do moderno. Poi il riavvicinamento tocca a Michele, quello che si è rivelato il più fragile nei confronti della vita moderna, della politica, del lusso e del facile guadagno. Alla fine con Mario, il più giovane e il più offeso perché lasciato solo negli anni difficili della crescita, Luigi si fa padre, pronto a sacrificare tutto pur di salvarlo. E dunque come l’atto supremo della rimozione di Tonino, cancro del paese, por- tatore di un modernismo distruttivo è toccato a Mario, il più puro dei fratelli, così è compito di Luigi, l’intellettuale, quello che è andato via, che ha imparato la razionalità e l’ordine a dover risolvere la dif- ficile situazione di famiglia. Luigi, chiamato dalla severità dell’ac- caduto, rientra nel ruolo che gli è dovuto, della “auctoritas paterna” e senza incertezza bara. Lo scotto da pagare è alto, tocca a quella stessa ‘roba’, terra e cascinale di famglia che aveva fatto rientrare Luigi in paese a riscattarli. Seguendo il principio del contrappasso dantesco la colpa deve essere espiata in ugual misura. Mario ha ucciso Tonino per vendicare la morte di Ugo, uno dei suoi pazienti-amici handi- cappati, eppure la scomparsa di Tonino comprende tutti i fratelli De Santo, per ognuno di essi viene a significare una qualche liberazione. Per Michele, Tonino era l’incubo dell’usura e per Aldo la doppia vita di Tania. Se il gesto di Mario ha liberato gli altri, la colpa deve essere redenta da tutti e lo scotto può solamente venire da tutti e quattro, ed è la terra, quella che li aveva voluti separati e nemici nella morsa di una maledetta possidenza. Podere e casolare, “la roba” nel tipico lessico del Sud, tutto viene ceduto alla famiglia dell’ucciso in cambio di un fantasioso omicidio, e come fosse la fine di una maledizione, la perdita della “terra” riporta l’unione tra i fratelli. 254

La scena di chiusura del film è rivelatrice di questa necessità di conoscere ed imparare il Sud, con il suo passato da non dimenticare perché sorgente di guida per un presente spesso labirinto meandrico di troppe possibiltà. Alla domanda precisa di Laura di un coinvolgi- mento dei fratelli nell’omicidio di Tonino segue la risposta di Luigi che però resta inpercettibile. La cinepresa focalizza le labbra di Luigi che si muovono, che raccontano, che parlano, la zona luce si alterna alla zona d’ombra passando dolcemente da chi parla a quello di chi ascolta. Nel lungo disquisire di Luigi non si riesce a cogliere il con- tenuto delle parole. L’irrazionalità dell’accaduto non potrebbe essere recepita da una mente “razionale”, una mente diversa com’è appunto quella di Laura, meglio non sapere, un passato non si può semplice- mente raccontare lo si deve conoscere e capire. Nel romanzo Il giorno della civetta3, Leonardo Sciascia fa dire al capitano dei carabinieri: “ Niente fantasia gli aveva raccomandato il maggiore. Va bene, nente fantasia. La Sicilia è tutta una fantastica dimenzione: e come si può star dentro senza fantasia?” Con La terra siamo in Puglia ma la dimensione fantastica del Sud rimane, e di fatti “al niente fantasia” richiesto dal capitano si riscontra solo “fantasia,” senza la quale non si potrebbe procedere. Ed è solo ora, alla chiusa del film che le parole pronunciate da Luigi a Laura al suo arrivo in paese “mi sono perso” assumono il giusto significato; indubbiamente Luigi si è perso, ma non come crede Laura con un ritorno in un paese che lui non conosce più, piuttosto il suo perdersi è successo a Milano, quando ha invece cercato di cancellare il suo passato, quello che lui è veramente, annullare le radici della sua irrazionalità invece di accet- tarle e farle convivere con la razionalità della sua altra realtà. Il viaggio al paese è stato uno di apprendimento e Luigi ha impa- rato, come ci suggeriscono le chiavi di casa che Luigi si ritrova in tasca sul treno di ritorno per Milano. La parternza questa volta non è per sempre. E il suo “non scappo più” detto come una promessa, è sottolineato da una ripresa lunga della cinepresa che ne documenta in modo arioso e liricamente efficace questa decisione: Luigi è di nuovo circoscritto da un muro, ma questa volta non è solo, sul terrazzo è con tutti gli altri fratelli e in lontananza la scena è accarezzata dal dolce suono di canti dialettali. La cinepresa si allontana per poi riavvicinar- si, si alza e vola in alto, dal terrazzo chiuso spazia sui campi, abbrac-

3 Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961, p. 34. 255 cia tutti i quattro fratelli nello stretto spazio del terrazzo, a sua volta circondato da case, terrrazzi, muri, in un cerchio concentrico sempre più vasto che comprende le dolci terre del Sud coperte da uliveti e mandorleti, il Sud tutto, in un abbraccio che si ripete all’infinito. 256 257 Marguerite Waller

Il Circo Postcoloniale: Luna e l’altra di Maurizio Nichetti (Traduzione di Nicoletta Da Ros)

What is happening to the world lies, at the moment, just outside the realm of common human understanding. It is the writers, the poets, the artists, the singers, the filmmakers who can make the connections, who can find ways of bringing it into the realm of common under- standing. (Arundhati Roy, 2001, p. 32) [Quello che sta accadendo al mondo si trova, al momento, appena fuori dalla sfera della comune comprensione umana. Sono gli scritto- ri, i poeti, gli artisti, i cantanti, i registi che possono creare le connes- sioni, che possono trovare il modo di portare ciò che accade entro i confini della comprensione comune].

Teorizzare il postcoloniale

Nel ‘call for papers’ pubblicato dalla Modern Language Association in occasione della conferenza del 2011, i teorici del postcolonialismo Shu-mei Shih e Panivong Norindr espongono chiaramente il proble- ma epistemico che ogni teorico/studioso del postcolonialismo deve affrontare: “No two postcolonial conditions are alike”. [Non esistono due condizioni postcoloniali uguali]. Quindi chiedono ai partecipanti di impegnarsi a trovare risposta per una, o entrambe, delle seguenti domande: «Can there still be gronds for “postcolonial theory”?» [C’è ancora spazio per “la teoria del postcolonialismo”?] e «If not, what would comparative postcolonial theory look like?» [Se no, come si presenterebbe la teoria comparata del postcolonialismo?] Il regista/ clown Maurizio Nichetti ha proletticamente dato risposta a entrambe le questioni in una commedia esteticamente e metafisicamente post- coloniale, Luna e l’altra (1996), apparsa durante un impeto di atti- vità politica neofascista e anti-immigrazione in seguito alla caduta 258 del muro di Berlino, al crollo del Partito Comunista Italiano, e alla diffusione di pratiche economiche neoliberali messe in atto da istitu- zioni finanziarie e commerciali internazionali. Studiosi del periodo coloniale italiano, e delle sue conseguenze, hanno sottolineato che uno degli aspetti più singolari di questo periodo storico è la relativa assenza di una riflessione collettiva sull’epoca coloniale. La sconfit- ta militare che ha decretato la fine del colonialismo italiano dopo la seconda guerra mondiale ha bloccato l’insorgere di movimenti anti- colonialisti nelle colonie e nella penisola stessa, mentre le restrizioni post-belliche che limitavano l’accesso agli archivi coloniali, insie- me alla riluttanza a discutere della sconfitta della nazione, hanno scoraggiato l’analisi intellettuale. Pasquale Verdicchio sostiene che una simile amnesia circonda le violenze perpetrate dall’Italia setten- trionale nei confronti del Meridione durante “l’unificazione” (Ben- Ghiat and Fuller, 2008, pp. 1-3; Verdicchio 1997b). Anche se i film di Nichetti non si presentano prevalentemente come cinema politico italiano, le strategie di drammatizzazione in Luna e l’altra sono cali- brate precisamente per favorire l’apertura di uno spazio postcoloniale nel quale l’insieme delle conoscenze soggiogate dalla colonizzazione possano galvanizzare un nuovo immaginario culturale.

Relazione barocca

La situazione specifica e locale alla quale il milanese Nichetti sembra rispondere con Luna e l’altra è la comparsa di due nuovi partiti politi- ci in Italia. La Lega Nord di Umberto Bossi, secessionista, xenofoba, anti-immigrazione e anti-meridionale, ha vinto le elezioni comunali a Milano nel 1993 e nel 1994 è diventata parte della coalizione di governo di centro-destra guidata dal magnate della comunicazione, e presunto predatore sessuale, Silvio Berlusconi (Andrews, 2005). Gianfranco Fini, che nei primi anni ’90 aveva apertamente raccolto l’eredità di Mussolini rilasciando numerose ed esplicite dichiarazioni in favore del fascismo, più tardi ha formato e presieduto il partito di Alleanza Nazionale, nato dall’unione di elementi del Movimento Sociale Italiano, di matrice fascista, e della Democrazia Cristiana, avvolta dagli scandali (Andrews, 2005, p. 18). Fini è diventato vice Primo Ministro di Berlusconi nel 2001, fomentando le violente azioni della polizia contro i manifestanti che si opponevano al G8 tenutosi 259 a Genova nello stesso anno1. Bossi e Fini, nonostante i loro dissidi, firmarono la tristemente nota legge Bossi-Fini (entrata in vigore nel 2002), la più punitiva legge anti-immigrazione in Europa (Andrews, 2005, pp. 62-4; Parati, 2005, pp. 149-52; pp. 154-6). Per dare una risposta significativa all’ascesa di nuove forme di fascismo e xenofobia, Nichetti ambienta la narrazione di Luna e l’al- tra nella grigia, squallida periferia di una città del nord Italia nel 1955, durante la depressione del dopoguerra. Indubbiamente Nichetti, il direttore della fotografia, e la costumista, hanno lavorato incessante- mente per ricreare non solo gli abiti, le pettinature e gli arredi d’epoca per i personaggi, ma anche per dare al film lo stile e l’atmosfera tipica dei film anni ’50 (Nichetti 1996a). Questa autenticità serve tuttavia ad accentuare nel film il richiamo simultaneo agli anni ’90, che prende varie forme. Prima si intravede nella figura del direttore scolastico e del suo vice, chiara caricatura di Bossi e Fini. Poi si ritrova nella coppia formata dal giovane circense afro-italiano e dal suo cammello, che rievocano l’immigrazione dall’Africa del nord e sub-sahariana. Infine, si individua in un televisore, allusione all’impero mediatico di Berlusconi, il cui schermo, che presenta un logo statico, è fissato intensamente da un gruppo di circensi che si chiedono se sia il caso di utilizzare questo mezzo per risollevare le sorti dei loro mesti introiti al botteghino. Nel film riecheggiano diversi altri momenti politicamente importanti: l’apice dell’era coloniale italiana, rievocata con una breve ricostruzione di una sequenza dal film di scuola antifascista Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo; gli anni della seconda guerra mondiale, mostrati attraverso l’allegoria dell’inesplosa bomba tedesca sotterrata nell’area della scuola fascista; infine, il “miracolo economico” degli anni ’60, che trova un potente richiamo nella sequenza finale diLuna che, come la sequenza finale del felliniano8 ½ (1963), si svolge nella pista di un circo. Queste sequenze, tuttavia, non sono presentate né in modo cronologico né evolutivo. Il termine “barocco,” nell’accezione usata dal poeta caraibico e teorico del postcolonialismo Édouard Glissant (1997) per descrivere la “poetica della relazione” postcoloniale, è adatto a caratterizzare la stratificazione temporale su cui opera il film. Più semplicemente, il

1 Un manifestante fu ucciso, e ci furono centinaia di arresti. I manifestanti incarce- rati, secondo la testimonianza visiva dell’autore Geoff Andrews, furono obbligati a cantare inni fascisti (2005, p. 13). 260 film di Nichetti pianifica le sequenze temporali in modo che possano interagire figurativamente. Secondo quanto suggerito da Glissant, il barocco di Nichetti si potrebbe paragonare al modo in cui la disposi- zione delle sculture e dei dipinti in una cappella del Bernini, ad esem- pio, produce i propri schemi di prefigurazione e realizzazione, mentre la struttura verticalmente palinsestica della cappella crea al contempo un contesto spazio-temporale nel quale le diverse sequenze temporali interagiscono le une con le altre. Durante il processo di interazione verticale e orizzontale, le immagini e gli eventi si caricano di molte- plici possibilità figurative, contestualizzandosi fluidamente l’una con l’altra nell’immaginazione dello spettatore. Una sorta di temporalità dello spazio – la temporalità della contemplazione dello spettatore – è indispensabile per la messa in atto di questo processo (Alei, 2008). Ogni momento o immagine può fornire elementi per interpretare que- sta dimensione figurativa, come sottolineano i fermo-immagine alla fine del film, di cui discuterò più avanti. Nel caso del Bernini, que- sta dimensione figurativa è pregna di significato teologico, mentre il barocco di Nichetti, rappresentato nel film dal circo itinerante, si avvicina più alla soggettività nomade di Gilles Deleuze e Félix Guat- tari (1987). In entrambi i casi, le relazioni non sono determinate dalle immagini; al contrario, le immagini emergono in modo contingente, prodotte dalle loro relazioni figurative2.

Un passaggio angusto

Lo stesso Nichetti, figlio del dopoguerra nato nel 1948, ha ricevuto l’educazione elementare negli anni ’50. In un altro film,Stefano quan- te storie (1993) ha esaminato la casualità degli eventi che lo hanno portato da una prima giovinezza convenzionalmente borghese, attra- verso i fermenti politici dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70, ad approdare al teatro, all’animazione, all’interpretazione e alla regia mentre alcuni dei suoi contemporanei entravano nelle forze dell’or- dine o diventavano insegnanti, e altri ancora, apparentemente indi- stinguibili dal primo gruppo e da lui stesso, languivano in prigione o

2 Deleuze e Guattari usano l’esempio dell’orchidea impollinata dalla vespa per spiegare la contingenza delle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni (la vespa diventa orchidea; l’orchidea diventa vespa) delle relazioni rizomatiche (1987, p. 10). 261 perdevano la vita a causa del loro attivismo contro il sistema dirigente. Iniziando con Ratataplan (1979), Nichetti ha diretto e interpretato una serie di brillanti commedie politico-filosofiche, portando in scena una figura clownesca che ricorda Keaton, Chaplin, Totò e Tati; questo gli permette di giocare con le “quivering ontologies” [ontologie frementi] (Marciniak, 2006) prodotte dallo scavalcare i confini di ogni genere, incluso quelli tra un decennio e l’altro (Ho fatto Splash, 1980) o tra la Terra e lo spazio (Domani si balla, 1982). La contrapposizione si trova in Ladri di saponette (1989) in cui Nichetti, in una parodia di se stesso, diventa la vittima di un permeabile sistema mediatico di stampo indu- striale dove la coesistenza di spazi, generi, e temporalità nel paesaggio virtuale dello schermo televisivo minaccia di ridurre tutto il significato al livello di una pubblicità di saponette (Waller, 1997). In altre parole, Nichetti arriva alla soglia dell’immaginario post- coloniale con l’esperienza delle sfide estetiche e concettuali che si spiegano davanti al soggetto borghese occidentale alla ricerca di un accesso ad un altro livello metafisico. Graziella Parati, studiosa e sostenitrice della cultura dell’immigrazione in Italia, scrive in modo convincente di un “narrow door” [angusto passaggio] offerto dagli immigrati del ventesimo secolo in Italia che potenzialmente «opens the European/Italian tradition to nonwestern traditions» [apre la tradi- zione Euro-italiana alle tradizioni non occidentali] (1997, p. 175). Para- ti e altri hanno rilevato nella presenza di lavoratori, famiglie, scrittori, artisti e intellettuali immigrati una forza trasformatrice della propria interpretazione della storia, della geografia e della cultura “italiani” (Clò, 2003; Lombardi-Diop, 2010; Matteo, 1999; 2001). Ciò che ne deriva, secondo Parati, è una dimensione non tanto “extra” naziona- le, intesa come extracomunitaria, quanto piuttosto “internazionale” – «both within the margins of the nation space and in the boundari- es in-between nations and peoples» [sia all’interno dei confini dello spazio nazionale che nei confini tra le nazioni e i popoli] (1997, p. 175, citando Homi Bhabha, 1990, p. 4). Se si legge la prima parte dell’esposizione di Parati attraverso la lente delle formulazioni del teorico giapponese del postcolonialismo Naoki Sakai (1997; 2006), che si è interrogato in modo esaustivo sull’uso di termini come “moderno” e “non occidentale” nella misura in cui questi rafforza- no la divisione del mondo in “l’Occidente e il Resto,” si noterebbe un’enfasi posta sugli incontri che avvengono negli spazi intermedi, interazioni che si sviluppano (solo) quando i percorsi e le soggettività 262 sono stabiliti in modo non tassonomico all’interno delle cronologie, delle posizioni e delle identità, indipendentemente dalla loro prove- nienza. Come Parati, anche Nichetti invoca un non-Occidente e un non-Nord, ma, sempre come Parati, Nichetti presenta questi “altri” spazi in modo discorsivo piuttosto che geografico, come si verifica in ogni contesto nel quale anche il “Nord” e l’“Occidente” colonizzatore vengono riprodotti3.

Una guida omofonica all'identità e alla diversità

Ancora prima che inizi il film, il titolo Luna e l’altra si presenta allo spettatore come una mise-en-abyme di un gioco di parole che de-essenzializza il titolo. Luna può anche essere udito come l’una; quindi, “luna” (il corpo celeste) può essere allo stesso tempo sia l’una che l’altra. Ancora più in senso lato, se il lettore/spettatore ignora lo spazio tra le lettere e si apre uditivamente ad altre possibilità omofo- ne, altra può trasformarsi in al tra, nel senso di “verso lo spazio inter- medio,” trasformandosi in un’entità completamente differente – un passaggio, o forse una porta, “verso lo spazio intermedio”. Considerando la luna come vista dalla Terra (un’immagine ricor- rente nel film), possiamo dedurre ulteriori suggerimenti riguardo a dove il film può condurre lo spettatore da un punto di vista filosofico, politico, ed estetico. Spesso consideriamo la luce proveniente dalla luna come un fatto secondario, mera riflessione della luce del sole. Tuttavia, l’apparizione di questo familiare corpo celeste può presen- tarsi in termini meno gerarchici. Le sue molteplici forme sono, dopo- tutto, il prodotto tanto dell’ombra quanto della luce. Inoltre, le forme lunari, tranne quando la luna è piena, sono il risultato del nostro sguar- do al contempo localizzato e simultaneo diretto sia al lato illuminato che a quello in ombra. Da una prospettiva meno Terra-centrica, la luce della luna e l’apparire dei suoi cicli sono ancora più relativi, creati dall’intersezione della luce del sole con un oggetto materiale in movimento, la luna, che a sua volta gira intorno ad un altro oggetto materiale, la Terra, che al contempo si muove sia lungo il proprio

3 Credito va dato a Tanya Rawal per la sua analisi della produzione discorsiva del “Sud globale” attraverso vari elementi letterari e cinematografici, come esposto nella sua tesi di Master, What Arbitrary Assignments!: Revising the Global South & Engendering Community (2010). 263 asse che intorno al sole. Le immagini della luna funzionano in modo quasi analogo nel cinema, dove, in una stanza scura, i materiali che compongono la celluloide e lo schermo insieme trasformano la luce proveniente dal proiettore in modelli, o immagini, che acquisiscono significato. Il film di Nichetti avvalora tutte queste interpretazioni, non solo della luna, ma di modelli in generale – siano essi storici, politici, sociali o culturali4.

Colonizzatori colonizzati

Il film si apre con il rumore di passi a ritmo di marcia e una voce che intima “sinistra… sinistra”, seguito nella colonna sonora da una fanfara e un’esecuzione dell’inno nazionale italiano (come per Luna/ l’una, qui sinistra destabilizza in modo scherzoso l’univocità de “Il Canto degli Italiani”). Un’inquadratura totale dall’alto mostra una cerimonia scolastica nella quale due bambini scoprono un busto in bronzo raffigurante una giovane donna. L’elogio funebre che accom- pagna l’azione, durante il quale il busto viene dedicato a “ricordo perpetuo” della maestra Luna di Capua, rivela tristemente che la giovane donna in questione si è sacrificata per proteggere la vita dei suoi studenti e colleghi. Al primo piano del busto si sovrappone in dissolvenza un primo piano di Luna ancora viva, e il film intraprende quello che a prima vista sembra un flashback postumo degli eventi che hanno portato a questa solenne commemorazione. La narrazio- ne, tuttavia, non ritorna al finale presentato all’inizio. Nella sua pagi- na web, Nichetti (1996b) scrisse in modo provocatorio, durante la distribuzione iniziale del film: «Prima di scoprire il segreto nascosto nell’eroica morte della maestra occorrerà far scorrere le immagini di tutto il film... Immagini che poi sono solo ombre che si rincorrono su uno schermo bianco». La storia e la memoria sono presentate in modo misterioso piuttosto che esplicativo. Due scene che hanno luogo nelle aule, una lezione di geografia sull’Africa e una lezione su vari tipi di artiglieria, inclusa la bomba inesplosa ancora interrata nel cortile della scuola, rievocano la com-

4 Cristina Lombardi-Diop fa notare che i poemi dedicati alla luna e al suo valore filosofico dal poeta romantico Giacomo Leopardi sono possibili significati sottin- tesi del film (2010). 264 plicata storia geopolitica dell’Italia sia nel ruolo di soggetto coloniz- zatore – in Africa, Albania, nel Dodecaneso e in Croazia – che (for- se in modo più ambiguo) in quello di soggetto colonizzato – prima dall’alleato Nazista dopo la caduta di Mussolini, e più tardi, proba- bilmente, dall’occupazione postbellica da parte degli Americani (che continua tutt’oggi con la presenza di numerose basi militari). Entrambi gli aspetti della storia coloniale italiana si manifestano rapidamente nei personaggi del film e nelle loro interazioni. Mentre viene allestito il circo appena arrivato, due bambini, quello dalla pelle scura con il cammello e il suo compagno dalla pelle più chiara (il figlio della donna barbuta), vengono regolarmente iscritti a scuola, causando notevole fastidio agli amministratori razzisti. Assegnati alla classe di Luna, i bambini creano scompiglio, anche se comprensibilmente in quanto Luna immediatamente gli sequestra una lanterna magica che i due avevano rubato al mago russo del circo. Interpretando alla lettera l’or- dine di Luna di scendere dal davanzale, il secondo bambino salta dalla finestra e sale sul tetto della scuola, stimolando Nichetti a ricreare una scena memorabile dal classico film anarchicoZéro de conduite/Zero in condotta (1993) di Jean Vigo, in cui gli studenti bombardano genitori e insegnanti dalla sommità del tetto della scuola il giorno della festa dei fondatori del collegio. Questa allusione a Vigo situa Luna nel doppio ruolo di soggetto colonizzato e colonizzatore, replicando gli schemi di colonizzazione perpetrati e subiti dallo stato-nazione Italia sul piano della vita professionale della donna. Nonostante venga sfruttata senza ritegno e sia considerata un oggetto sessuale sia da parte dal preside che dal suo vice, Luna continua ad applicare la disciplina militare della scuola nei confronti dei suoi studenti. Anche sul piano più intimo, in casa, in un buio appartamento seminterrato, circondata da vicini ostili e anti-meridionali, Luna e suo padre ricreano le dinamiche della colo- nizzazione. La rigida e inflessibile Luna e suo padre, un napoletano macho e avverso ai lavori di casa, ricreano un altalenante teatro gran- guignolesco di oppressioni e ribellioni reciproche.

La pattumiera della storia

Il bidello della scuola, Angelo Franchini, una figura clownesca di stampo Keatoniano, interpretato dallo stesso Nichetti, non è né un 265 colonizzatore né, come clown, un efficace soggetto colonizzato. Angelo è timidamente e profondamente innamorato di Luna, ostaco- lata nel contraccambiare, o addirittura notare, l’affetto di Angelo dai suoi strenui sforzi di interpretare il ruolo di maestra perfetta. Angelo suona il flauto in una banda composta da brizzolati partigiani comu- nisti reduci dalla seconda guerra mondiale che suonano i loro vecchi inni, Bandiera Rossa e Bella ciao ai funerali dei compagni. Questa è la stessa banda che suona l’inno nazionale alla cerimonia di comme- morazione, cogliendo la casuale connotazione politica presentata dal comando “sinistra” nella sequenza di apertura del film. L’apparen- temente ovvio riferimento creato tra l’età avanzata dei membri della banda e la caduta del comunismo italiano dopo il crollo del muro di Berlino viene complicato in modo interessante da un secondo riferi- mento intertestuale a uno dei classici film politici europei dell’ante- guerra. Mentre suona il flauto nella sua uniforme da bidello, il perso- naggio di Angelo crea un riferimento comico alla figura del tragico aristocratico francese Capitaine de Boeldieu, ne La grande illusione (1937) di Jean Renoir. De Boeldieu, un anacronismo nel contesto dei massacri di massa e dei combattimenti in trincea della Grande guerra, perde la vita suonando un ottavino per distrarre i secondini tedeschi nell’intento di coprire la fuga di due compagni prigionieri di guerra meno blasonati (un proletario e un ebreo). Angelo, il bidello che suo- na il flauto, non arriverà al punto di sacrificare la propria vita, ma alla fine del film si troverà ad abbandonare sia il flauto che l’uniforme da bidello per esibirsi nel circo (indossando un turbante e pantaloni alla zuava). Se il comunismo e l’identità sociale del proletariato italiano sono destinati a finire nella pattumiera della storia, come suggerito dal riferimento a Renoir, allora forse il fulcro dell’azione si trova pro- prio nella pattumiera

Una notte buia e tempestosa

Dopo aver portato a casa la lanterna sequestrata, Luna dorme son- ni agitati. Ad un tratto, durante uno dei numerosi violenti temporali del film, un fulmine aziona lo strano congegno. L’ombra di Luna si separa dal corpo, e la mattina dopo se ne va per la sua strada, mentre l’ignara Luna si reca al lavoro, inconsapevole di avere perso la sua 266 ombra. L’ombra di Luna è identica alla sua proprietaria, dopo esser- si tolta di dosso i residui dell’oscurità, e gode dell’essersi liberata dal carattere oppresso e opprimente di Luna. Riesce a sorprendere il Signor di Capua parlando il dialetto napoletano e dimostrandosi molto affettuosa. Al calar della sera, dopo essersi sistemata nel bor- dello cittadino, l’ombra comunica a Luna la sua decisione di unirsi al circo e andarsene dalla città. Perché il suo piano funzioni, tuttavia, Ombretta (letteralmente “piccola ombra,” ma non senza una conno- tazione di carattere infido e cattiva reputazione) deve ridare vita al circo, specialmente in seguito ai falliti tentativi del mago russo di continuare la sua esibizione nello spettacolo delle ombre senza l’aiu- to della sua lanterna magica, tentativi che coinvolgono Angelo in un inquietante esibizione con il volto dipinto di nero (blackface). All’ar- rivo di Ombretta, gli artisti circensi ammettono che il loro program- ma è sorpassato, e per un momento considerano la possibilità che la soluzione possa risiedere nell’uso della televisione – un riferimento chiaro alla figura del magnate della comunicazione divenuto Primo Ministro, Silvio Berlusconi. Una sequenza che mostra il logo statico della RAI mentre cattura lo sguardo fisso e immobile del pubblico su uno schermo claustrofobicamente piccolo rivela immediatamente le differenze tra lo sguardo nazionalista/neofascista e quello figurale/ palinsestico. Anche i manager del circo assetati di profitti rifiutano questa pietrificazione del corpo e dello spirito, creando la possibilità per Ombretta di proporre un nuovo spettacolo, che si rivela essere una radicale trasformazione del numero della lanterna magica del mago russo, e richiede la collaborazione del proletario di turno, Angelo. Tuttavia, prima che si possa realizzare quest’alleanza gramsciana tra Nord e Sud, è necessario risolvere la tossica intersezione fallocen- trica tra nazismo e fascismo, nazionalismo e colonialismo, sessismo e razzismo, che permea ogni luogo nel film - la scuola, la casa, la macelleria, il bordello, e perfino il circo. Una catena di eventi, che culmina nell’esplosione della bomba tedesca, indirizza il film verso la rivelazione del segreto celato sotto la morte eroica della maestra. La morte del padre di Luna/Ombretta, di cui parlerò più avanti, dà inizio a queste trasformazioni. A conseguenza di questo evento, Ombretta si sostituisce a Luna in occasione della Festa dell’Albero a scuola, durante la quale il vice preside (la caricatura di Fini) accidentalmente dissotterra la bomba tedesca. Mentre tutti si ritraggono terrorizzati, Ombretta raccoglie l’oggetto fallico e lo trasporta fuori dal cortile 267 della scuola, verso un orinale al lato della strada. Un’esplosione tre- menda, magistralmente diretta e fotografata in una lunga sequenza, fa saltare in aria l’orinale - il simbolo ordinario del privilegio maschile – e sembra colpire anche Ombretta. Al contrario, Ombretta rimane illesa, in quanto lei è “solo un’ombra”, e decide di riunirsi a Luna a condizione che Luna abbandoni la sua tediosa carriera di maestra e (con la scusa della “morte eroica”) si unisca al circo con Angelo. La sequenza di chiusura del film si svolge nella pista del circo dove Luna e Angelo inscenano una nuova e più radicale versione dell’alleanza tra il proletariato del Nord e del Sud immaginata da Gramsci in The Southern Question (1995).

Da qui non ci si arriva

Il processo di fare “accadere” qualcosa dal punto di vista epistemico, però, non può essere rappresentato (il caos provocato dai temporali e l’esplosione rappresentano questa impossibilità nel film). Lo sposta- mento di soggetti emarginati al centro della scena è più complicato rispetto, ad esempio, al posizionare i due ragazzi del circo sul palco durante la cerimonia della Festa dell’Albero, come ammesso rapida- mente nel film. Quando la bomba viene portata alla luce direttamente di fronte a loro, la loro posizione sul palco li mette in grande pericolo. Acquisire visibilità all’interno dell’episteme che determina l’assen- za e l’invisibilità dell’individuo può avere conseguenze letali. Come, allora, può il film (e il pubblico) passare dall’“repressed inquietude” [inquietudine repressa] dello “obsolete but arrogant, modernist, xeno- phobic, colonial, misogynist, patriarchal, nation-state” [stato-nazione obsoleto ma arrogante, modernista, xenofobo, coloniale, misogino, patriarcale] (Sakai, 1997, pp. 165-66) a un altro/altrove “postcolo- niale” e non patriarcale? Il montaggio fulmineo, brillante e tentatore, il tratto surreale di animazione, la complessità iconografica di ogni sequenza, e la fisicità luminosa dell’interpretazione, in particolare quella di Iaia Forte nel ruolo di Luna e Ombretta, creano una rete seduttiva di piaceri cinematografici che permettono al film di muover- si sul piano metafisico senza che lo spettatore sia consapevole, a livel- lo “cosciente”, di ciò che “accade”. Il processo di fare sì che qualcosa “accada” da un punto di vista epistemico si può verificare, infatti, solo se gli spettatori non esercitano quel tipo di “conoscenza” che sottende 268 un senso di dominio, ma solo se, come Walter Benjamin teorizzava, sono intrattenuti in uno stato di “distrazione” (1969, pp. 240-1). Un esempio di come gli spettatori di Nichetti siano invitati ad atti- vare le immagini nella sua cappella barocca ci porterà più vicini al “segreto” accennato sul suo sito. Un colpo di tuono interrompe l’in- treccio a cui stavamo assistendo, che ha come protagonista un macel- laio, Tito, che è anche il direttore della banda musicale di Partigiani con il quale Angelo suona. Tito è il proprietario del bordello locale, che lui stesso incoraggia i membri della banda a visitare dopo le prove nella macelleria. Dopo una delle sessioni di prova, Tito si reca a visi- tare la moglie di uno dei musicisti, mentre il musicista si trova in visi- ta al bordello5. Improvvisamente la finestra dietro il letto dove Tito e la moglie stanno per avere un rapporto sessuale diventa cornice per la testa e le gobbe di un cammello, mentre la colonna sonora presenta rombi di tuono accompagnati da un tema musicale vagamente medio- rientale e dal suono della pioggia. Primo di numerosi temporali nel film, questo scroscio preannuncia anche una svolta nel nostro modo di usare e interpretare le sue immagini. L’inquadratura del cammel- lo dall’interno della camera da letto è seguita da una scena esterna, dove assistiamo all’arrivo in città di un corteo di camion del circo, il cui asse si interseca perpendicolarmente con l’asse dell’inquadratu- ra della camera da letto. Utilizzando un’intersezione “accidentale” (piuttosto che narrativamente motivata) tra la finestra della camera e il cammello come punto di transizione, il film intraprende una nuova direzione narrativa che coinvolge il circo. Il divario tra le due nar- razioni reindirizza la nostra attenzione allo spazio aperto tra di loro. Spostando lo sguardo dello spettatore dalla composizione di immagi- ni all’interno di cornici (il nostro sguardo viene allontanato proprio prima della scena di sesso!) alla serie o flusso di immagini, raffigurata dalla processione circense felliniana, il film costruisce un diverso tipo di esperienza audio-visiva6. Quello che si inizia a intravvedere sono i bordi delle scene e gli spazi che si creano tra di loro. Qui, in partico- lare, la nostra attenzione è diretta sul contrasto tra Tito ed i due piccoli uomini e la donna barbuta che indirizzano il circo per le vie notturne

5 Il lavoro sessuale delle donne nel bordello “di sinistra” di Tito raffigura ironi- camente un compendio del capitalismo. La forza lavoro delle donne non è solo sfruttata per creare un prodotto, ma sono esse stesse mercificate. 6 La connessione tra Nichetti e Fellini è importante per la mia discussione, ma questo affascinante argomento esula dallo scopo di questo saggio. 269 della città. I personaggi del circo non normativi, illuminati dai lampi all’esterno, delimitano il sistema di identità sessuale/di genere ete- ronormativo, paradossalmente esemplificato dalla coppia “normale” adultera. Il cammello finirà con l’esercitare un affascinante effetto visivo di disgiunzione durante tutto il film, in particolare quando vie- ne legato al di fuori della scuola – il punto di partenza per inculca- re le nozioni di geografia e storiografia nazionalista che sottacciono la violenza coloniale, epistemica ed empirica, e le sue conseguenze sia per i soggetti colonizzatori che quelli colonizzati. L’incongruità del cammello legato nel cortile della scuola richiama l’attenzione sui legami storici e culturali tra Italia e Africa, in particolare quando il vice preside nota una vecchia gavetta militare, da cui il cammello beve acqua fangosa, credendo si tratti della bomba tedesca.

Il circo postcoloniale

Il paradigma epistemologico ed estetico del circo, sineddoticamen- te presenti nel cortile della scuola, è un supplemento interessante e “pericoloso” per entrambi i paradigmi di organizzazione epistemolo- gica e sociale inculcati dallo Stato attraverso i suoi sistemi educativi e di intrattenimento (Derrida, 1976, pp. 141-64). Il circo, inteso come una serie di esibizioni senza una struttura gerarchica o narrativa, ma ognuna con una genealogia propria, propone alternative interessanti all’esclusionismo perpetrato dalle politiche di partito, dalla geografia e dalla storiografia nazionalista, e dalle dicotomie di realizzazione del sé e dell’altro che continuano a perpetrare il fallocentrismo delle politiche del potere (Trinh, 1997, p. 417). Visivamente, il tendone del circo nel film assomiglia ad un morbido e luminoso disco volante appoggiato delicatamente a terra sotto la luna piena. All’interno di questo spazio itinerante, effimero, ed inclusivo, gli spettacoli sono interconnessi tra loro attraverso molti processi: tra questi, il modo in cui gli spettaco- li stessi si susseguono, la collaborazione e la convivenza degli artisti transnazionali in una comunità la cui personalità collettiva emerge e si adatta ai tempi e ai luoghi in cui essi si esibiscono, senza dimenticare i diversi modi in cui ogni spettatore interseca la sequenza non-narrativa degli spettacoli con l’angolo di visuale personale, a seconda della pro- pria posizione nel circo. In che modo questa comunità non è, in realtà, specchio delle comunità di spettatori per i quali si esibisce? In altre 270 parole, il circo viene relegato nella sfera del carnevalesco o dell’extra- terrestre proprio perché rappresenta i meccanismi di differenza gene- rativi, originari e privi di dicotomie, della creazione di una comunità, un’immagine che minaccia l’egemonia dei rapporti di potere domi- nanti? Sul tema delle identità e delle relazioni di potere, la regista e teorica del postcolonialismo Trinh Minh-ha ha scritto:

To raise the question of identity is to reopen the discussion on the self/other relationship in its enactment of power rela- tions… In such a concept the other is almost unavoidably either opposed to the self or submitted to the self’s dominance. It is always condemned to remain in its shadow while making attempts at being its equal. (1997, p. 415) [Sollevare la questione dell’identità significa riaprire la discussione sul rapporto tra l’io e l’altro nella sua messa in atto delle relazioni di potere… In questa concezione l’altro è quasi inevitabilmente in opposizione all’io o sottoposto al dominio dell’io. È sempre condannato a rimanere nella sua ombra, mentre cerca di essere suo pari.]

Il bordello, situato tra la scuola e il circo, offre una versione “sicu- ra” e mercificata del paradigma del circo, suggerendo che persiste il desiderio di intrattenere ulteriori rapporti sociali polimorfi, anche se la realizzazione di tale desiderio è possibile solo in modo molto circoscritto e solo per maschi adulti (quasi tutti i maschi adulti nella comunità frequentano il bordello di Tito, senza distinzione di credo politico), e alle spese sia delle lavoratrici del sesso che delle mogli. Il bordello è paragonabile quasi a una droga, o forse a un servizio pub- blico, mantenendo (per gli uomini) un accesso sicuro a soggettività e interazioni non-egemoniche che sono, tuttavia, sempre già ristabilite all’interno dell’economia capitalista, patriarcale, e coloniale sia del denaro che del desiderio che garantirà loro questo accesso. Cosa è necessario fare per uscire da questo circuito chiuso e compiere il per- corso dal bordello al circo? Con l’arrivo del circo in città, le figure autoritarie iniziano a incon- trare difficoltà, così come le incontra la narrazione lineare. I personag- gi, e le narrazioni di cui credono di fare parte, iniziano ad intersecarsi, a prescindere da quali siano, per il momento, in primo piano. Anche Tito, che sembra ricoprire tutti i ruoli in quanto musicista, macellaio, comunista, capitalista, compagno, e adultero, viene colto alla sprovvi- 271 sta quando tenta di palpeggiare Ombretta, apostrofandola in accordo con i suoi due ruoli (macellaio e proprietario del bordello) come un “bel pezzo di carne”. Con una potente ginocchiata all’inguine e uno schiaffo dato con una fetta di carne, l’ombra della femmina subalterna rimasta fino ad ora inosservata relegal’uomo nell’ombra extra-diegetica. Anche il padre di Luna/Ombretta scompare, e non senza pathos. Confortato dell’affetto di sua figlia (Ombretta), il Signor di Capua riacquista il suo brio napoletano, avventurandosi fuori dall’apparta- mento per celebrare il suo trionfo artistico nel circo con una visi- ta al bordello. Ombretta, nel frattempo, è riuscita ad istruire Angelo nell’arte della seduzione reciproca. La riconciliazione tra padre e figlia è insostenibile, come suggerito da questa asimmetria nella loro vita sessuale. Il desiderio di Ombretta è incompatibile tanto con il machi- smo del Signor di Capua quanto lo è con il fascismo dei suoi datori di lavoro. Inoltre, se, come sostiene Pasquale Verdicchio, l’“unifica- zione” d’Italia è in realtà un alibi creato dal Nord per la conquista e la colonizzazione del Sud (1997a, pp. 1-2, 21-51), la posizione anelata dal Signor di Capua è di per sé una posizione da soggetto colonizzato. In realtà, il macho del Sud si trova a suo agio all’interno del fascismo del Nord, come dimostrato dal successo elettorale del partito di Fini nel meridione. Ma Ombretta, l’ombra, si è fatta strada da sola, per- ché ha abbandonato il sistema gerarchico di creazione dell’identità che la metteva in secondo piano rispetto a Luna, e che rendeva Luna subordinata agli uomini nella sua vita. Durante una delle esibizioni di Ombretta e Angelo, l’ombra di papà entra improvvisamente nel tendone da circo, si avvicina e abbraccia Ombretta, e sale verso l’al- to, facendo un cenno d’addio con la mano. Nel frattempo al bordello scoppia il pandemonio, mentre la cinepresa mostra il corpo immobile del Signor di Capua, seduto in una vasca da bagno, ridotto al silen- zio da un infarto, con un grande sorriso sul volto. Lo statico cliché del machismo napoletano non può resistere al flusso di desideri, il riconoscimento del piacere altrui e il piacere stesso di esserne parte del Signor di Capua, nonostante il carattere stereotipato delle sue per- formance. La sua trans-figurazione – la sua capacità di attraversare le diverse inquadrature – gli permette di unirsi ad altre figure che potrebbero entrare o uscire in qualsiasi momento, ma non gli permet- te più di dominare Luna. Sulla scia della sua dipartita, la frattura tra Luna e Ombretta inizia a sanarsi. 272

Eclissi di luna

Dove, quando, e chi siamo noi, chiede Sakai, dopo aver messo in evidenza che termini deitticamente spazio-temporali come “occiden- tale” e “moderno” sono artefatti del colonialismo? (2006, p. 166). La doppia messa in scena della morte del Signor di Capua, avvenuta sia nel bordello che nel circo, mette in luce questa questione spinosa che ha ossessionato la teoria postcoloniale, decostruttiva, queer, e di frontiera, da un punto di vista sia concettuale che affettivo. Il momen- to culminante del film e il suo epilogo affrontano la questione di ciò che succede ai soggetti secondari – subordinati, soggiogati, occlusi, colonizzati – in assenza dei termini principali – il padre, il centro, il logos, il fallo, l’Occidente, il moderno, la metropoli, la nazione. In una sequenza speculare, il film ritorna all’enigma posto dal passaggio dallo stadio secondario a quello primario (Luna/l’una) e al modo di immaginare l’“altro” (l’altra/l’al tra) di questo “io”. In una scena coreograficamente complessa tra Luna e Ombretta che segue la morte/trans-figurazione del Signor di Capua, lo status ontologico relativo del mondo delle ombre e di ciò che consideria- mo il mondo empirico, materiale e fenomenologico è prima ribal- tato, e poi reso irrilevante – non è il nodo della questione, dopotut- to. Un’inquadratura d’ambientazione delle due figure nel camerino di Ombretta al circo inquadra Luna (apparentemente) in piedi sulla destra, rispetto alla sua doppelganger, Ombretta, seduta sulla sinistra. Ombretta si riflette nel suo specchio da tavolo. Tuttavia, mentre Luna si avvicina a Ombretta, le loro posizioni apparenti sono ribaltate. Lo schermo intero, in effetti, si rivela essere uno specchio (o immagine speculare), quando la figura di Luna viene improvvisamente - eclis sata dal suo stesso procedere all’interno della stanza in direzione di Ombretta. Ciò che la doppia immagine di Ombretta rivela ora è che la cornice nella cornice (lo specchio nello specchio) ha creato l’illusione ottica di primo piano e sfondo, centro e margine, immagine speculare e corpo materiale. In altre parole, i bordi, o margini, creano l’imma- gine in modo così fondamentale quanto l’immagine stessa determina i bordi/margini. Gilles Deleuze, scrivendo a proposito di una nuova generazione di immagini cinematografiche e il desiderio che è all’ori- gine della loro creazione, allude al loro evolversi su un piano imma- ginario piuttosto che fenomenologico: 273

[W]e no longer know what is imaginary or real, physical or mental… not because they are confused, but because we do not have to know and there is no longer even a place from which to ask. It is as if the real and the imaginary were running after each other, as if each was being reflected in the other, around a point of indiscernability. (1989, p. 7) [non sappiamo più cosa sia reale o immaginario, fisico o mentale… non perché siano confusi, ma perché non abbiamo necessità di sapere, e non c’è più nemmeno un punto da cui partire per interrogarsi. È come se il reale e l’immaginario si rincorressero, come se l’uno si riflettesse nell’altro, intorno a un fulcro di indistinguibilità].

Tuttavia, non tutti condividono l’entusiasmo di Deleuze per l’aboli- zione della distinzione tra il reale e l’immaginario, e tale realizzazio- ne su carta o su film risolve le questioni create dai rapporti di forza in gioco.

Panico epistemico

Prendo a prestito il termine “panico” nel senso elaborato da Eve Sedgwick nella sua discussione del “panico omosessuale” in Epi- stemology of the Closet. Sedgwick descrive una reazione difensiva ad una “crisi di definizione del sesso maschile” attraversata da un individuo incerto sulla propria identità sessuale. È l’intero sistema, però, che permette l’esistenza di questo panico “individuale” negan- do la possibilità di trovare identità nell’incertezza, un’incertezza che può essere scatenata con la stessa facilità dall’interazione tanto con le donne quanto con gli uomini, come sottolinea Sedgwick (1990, p. 20; 177 e 198). Per analogia, è più probabile che siano quelle identità maggiormente basate su (e approvate da) un’epistemologia naziona- lista/colonialista a reagire in difesa delle molteplici crisi d’identità sofferte quando gli “altri” (usati come parametri per definire se stessi) varcano la soglia, quando gli “stranieri” diventano residenti o addirit- tura cittadini. «Quando c’era “lui”» (Mussolini), farfuglia il preside della scuola di Luna, «i cammelli restavano in Africa». L’esibizione di Luna/Ombretta e Angelo al circo, alla fine del film, affronta questo panico per mezzo di una refigurazione di corpi e ombre. Nelle esibizioni precedenti, Ombretta cambiava forma dietro 274 un telo, mentre Angelo si esibiva davanti a esso. Ma Luna/Ombretta e Angelo appaiono insieme, prima come ombre dietro il telo, e poi, mentre avanzano per inchinarsi, come figure tridimensionali reali, a colori. Il loro “emergere dalle tenebre”, un tropo familiare utilizzato per il riconoscimento dei soggetti subalterni e clandestini, è, tuttavia, rapidamente reso ironico dalle azioni buffe di due altre figure, un nuo- vo paio di ombre, che si intrufolano sul palco che Luna/Ombretta e Angelo hanno appena lasciato, per mandare saluti e inchinarsi davan- ti ad un pubblico implicito in un altro spazio, tangente allo spazio dell’azione reale. Quando infine le due coppie analoghe si riconosco- no l’un l’altra attraverso il confine ora poroso creato dal telo, trasfor- mano la gerarchia tradizionale dei corpi e delle ombre.

Figura 1 275

Terra di nessuno

Trinh Minh-ha scrive che «Interdependency… consists of creating a round that belongs to no one, not even to the creator» [l’interdipen- denza… consiste nella creazione di un terreno che non appartiene a nessuno, nemmeno al Creatore] (1997, p. 418). Lo spostamento da una a due coppie al termine di Luna e l’altra è sorprendente tanto quanto l’apparizione della testa del cammello nella finestra della camera da letto ha creato un terremoto cinematografico. Il film met- te in scena, attraverso immagini miracolosamente efficaci e senza pretese, l’effetto creato dal desiderio di rimozione dei termini e dei principi di dominazione, o dalla rimozione del desiderio per questi ultimi. Non solo non scompaiono gli spazi che possono essere acces- sibili attraverso l’attenta decostruzione delle dicotomie, ma questi spazi addirittura proliferano. La descrizione “postcoloniale” fatta da Sakai e Solomon della stessa situazione che induce il panico episte- mico dall’interno del sapere “occidentale” rivela che la conoscenza aumenta come conseguenza del voler «[to] replace the sovereignty of bodies of knowledge with the sociality of knowledgeable bodies» [sostituire la sovranità della conoscenza con la socialità della cono- scenza] (2006, p. 18). Queste interazioni non riguardano solo le pos- sibilità interpersonali polimorfe, ma anche imprevedibili possibilità interconcettuali (Waller, 2005). Fra i sistemi concettuali, se non sono immaginati come “culture” omogenee chiuse su se stesse, può crearsi uno spazio di eterogeneità che permette la creazione di una comunità, perché non appartiene a nessuno. Due fermo-immagine alla fine del film emergono come tropi nar- rativi per la precarietà degli spazi euclidei, le inquadrature del pro- scenio, e le temporalità lineari di politiche, storiografie, geografie nazionali di esclusione. In primo luogo la coppia tridimensionale viene congelata, oscurata, e le si sovrappongono i titoli di coda. Un momento dopo, la coppia ‘ombra’ segue la prima coppia attraverso il fermo immagine, verso l’oscurità – la stessa fertile oscurità, come ho spiegato altrove, verso cui Fellini indirizza i suoi circensi alla fine di 8 ½ (Waller, 2011). Creato grazie alla ripetizione di un singolo foto- gramma - in termini temporali 1/24 di secondo – tante volte quante sono necessarie per raggiungere la durata desiderata della sequenza, il fermo-immagine dilata l’immagine di una frazione di secondo per diventare esso stesso la cornice del continuum temporale da cui è sta- 276 to ricavato. Mette in scena il potenziale che ogni frazione di secondo possiede, in ogni dimensione concettuale (letterale, figurale, fisica, mentale), di assumere questo potere di focalizzazione, e viceversa, ne sottolinea la precarietà. Nichetti generalizza il potenziale epistemico, estetico ed affettivo di questo “segreto,” giocando sulla teoria e la pratica dialettica del montaggio elaborate dai suoi rivoluzionari predecessori russi, Sergei Eisenstein, Lev Kuleshov, e altri (da cui la presenza del mago russo con la lanterna magica). Per i primi cineasti sovietici, la potenza del montaggio aveva a che fare con lo spostamento degli spettatori da un piano di lettura delle immagini letterale e referenziale a un piano concettuale in cui nuove forme di pensiero e percezione potessero prendere forma (Eisenstein, 1977, p. 238). Ma l’obiettivo di questo salto nella “montage understanding” [comprensione del montaggio] come Eisenstein scrive nel suo influente saggioDickens, Griffith, and the Film Today, è quello di creare un nuovo realismo, che comporta la proiezione di una nuova unità globale. Il montaggio cinematogra- fico, il cui scopo era estendersi sinesteticamente attraverso tutti «ele- ments, parts, and details of film-work» [gli elementi, le parti e detta- gli dell’opera cinematografica] dovrebbe adoperarsi per creare «an organic embodiment of a single idea or conception» [l’incarnazione organica di una sola idea o concetto] (p. 255). L’ immagine a schermo intero si trasforma in una nuova “unità”. Con il raddoppiamento e il sequenziamento dei fermo-immagine, Nichetti rifiuta l’unità, anche una versione dialettica di unità, come obiettivo. Nessun fermo-imma- gine inquadra l’altro; è lo spazio di interazione tra le inquadrature che emerge come originario, permettendo al telo traslucido di servire da punto di connessione piuttosto che linea di esclusione tra le figure e le loro ombre. Il passaggio da una coppia a due consente a entrambe le coppie non di unirsi, ma di separarsi, e dà modo a ciascuna di creare spazio per ulteriori “altri” (il cast e la troupe, in questo caso). Sovrap- posti contingentemente in entrambi gli spazi e tempi, i fermo-imma- gine creano un ulteriore, e più efficace ancora, “lo spazio intermedio”. 277

Bibliography

Alei, P., 2008. Class lecture on Bernini’s Chigi Chapel. U.C. Rome Study Center. Rome, Italy, April 22, 2008. Andrews, G., 2005. Not a normal country: Italy after Berlusconi. London: Pluto Press. Benjamin, W., 1936. The work of art in an age of mechanical repro- duction. Translated from German by H.Zohn. In: H. Arendt. ed. 1969. Illuminations. New York: Schocken Books, pp. 217–51. Ben-Ghiat, R. and Fuller, M., eds., 2008. Italian colonialism. New York: Palgrave Macmillan. Clò, C. 2003. Italy in the world and the world in Italy: Tracing alter- native cultural trajectories. Ph.D. University of California, San Diego. Deleuze, G. and Guattari, T., 1987. A thousand plateaus: Capitalism and schizophrenia. Translated from French by B. Massumi. Min- neapolis: University of Minnesota Press. Deleuze, G., 1989. Cinema 2: The time-image. Translated from French by H. Tomlinson and R. Galeta. Minneapolis: University of Minnesota Press. Derrida, J., 1976. Of grammatology. Translated from French by G. Spivak. Baltimore: The Johns Hopkins University Press. Eisenstein, S., 1949. Film form: Essays in film theory. Translated from Russian and ed. by J. Leyda. 1977. New York: Harcourt, Brace, Jovanovich. Glissant, É., 1997. Poetics of relation. Translated from French by B. Wing. Ann Arbor: The University of Michigan Press. Gramsci, A., 1995. The Southern question. Translated from Italian and introduced by P. Verdicchio. West Lafayette, Indiana: Bor- dighera, Inc. Purdue University. Lombardi-Diop, C., 2010. Discussion of Leopardi’s poems dedicated to the moon and its philosophical implications. [email] (Personal communication, 26 April 2010). Marciniak, K., 2006. Alienhood: Citizenship, exile, and the logic of difference. Minneapolis: University of Minnesota Press. Matteo, S. and Bellucci, S., eds., 1999. Africa Italia: Due continenti si avviciniano. Santarcangelo di Romagna: Fara Editore. Matteo, S., ed., 2001. ItaliAfrica: Bridging continents and cultures. 278

Stony Brook: Forum Italicum Publishing. Nichetti, M., 1996a. Discussion about Nichetti’s films. [Conversation] (Personal communication, Milan, Italy, 4 July1996). Nichetti, M., 1996b. Pagina ufficiali dell’artista. [online] 1996. Avail- able at: [Accessed 3 March 2003]. Norindr, P. and Shih, S., 2010. Call for convention paper propos- als, Modern Language Association. [online] 2010. Available at: [Accessed 16 March 2010]. Parati, G., 1997. Strangers in paradise: Foreigners and shadows in Italian literature. In: B. Allen and M. Russo, eds. 1997. Revision- ing Italy: National identity and global culture. Minneapolis: Uni- versity of Minnesota Press, pp. 169–90. Parati, G., 2005. Migration Italy: The art of talking back in a destina- tion culture. Toronto: University of Toronto Press. Rawal, T., 2010. What arbitrary assignments!: Revising the global south and engendering community, unpublished M.A. thesis. Uni- versity of California, Riverside. Roy, A., Power politics. 2001 Cambridge: South End, 2001. Sakai, N., 1997. Modernity and its critique: The problem of univer- salism and particularism. In: Sakai, N. ed. Translation and subjec- tivity: on “Japan” and cultural nationalism. Minneapolis: Uni- versity of Minnesota Press, pp. 153–76. Sakai, N. and Solomon, J., 2006. Introduction: Addressing the multi- tude of foreigners, echoing Foucault. In: Sakai, N. and Solomon, J. eds. 2006. Translation, biopolitics, colonial Difference. Hong Kong: Hong Kong University Press, pp. 1–35. Sedgwick, E., 1990. Epistemology of the closet. Berkeley: University of California Press. Trinh, M., 1988. Not you/Like you: Postcolonial women and the interlocking questions of identity and difference. In McClintock, A., Mufti, A., and Shohat, E. eds. 1997. Dangerous Liaisons: Gen- der, Nation, and Postcolonial Perspectives. Minneapolis and Lon- don: University of Minnesota Press, pp. 415–19. Verdicchio, P., 1997a. Bound by distance: Rethinking nationalism through the Italian diaspora. Madison: Fairleigh Dickinson Uni- versity Press. Verdicchio, P., 1997b. The preclusion of postcolonial discourse in Southern Italy. In: Allen, B. and Russo, M. eds. 1997. Revisioning Italy: National identity and global culture. Minneapolis: Univer- 279

sity of Minnesota Press, pp. 191–212. Waller, M., 1997. Decolonizing the screen: From Ladri di biciclette to Ladri di saponette. In: Allen, B. and Russo, M. eds. 1997. Revi- sioning Italy: National identity and global culture. Minneapolis: University of Minnesota Press, pp. 253–274. Waller, M., 2005. One voice kills both our voices. In: Waller, M. and Marcos, S. eds. 2005. Dialogue and difference: Feminisms chal- lenge globalization. New York: Palgrave Macmillan, pp. 113–42. Waller, M., 2011. The Postcolonial Circus: Fellini and Nichetti. Unpu- blished paper presented on the panel “Circus Thoughts” at the Annual Convention of the Modern Language Association, Los Angeles, CA

Filmography

8 ½, 1963. [film] Directed by F. Fellini. Italy: Cineriz. Ratataplan, 1979. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Vides Cine- matografica. Ho fatto Splash, 1980. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Vides Cinematografica. Domani si balla, 1982. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Vides Cinematografica. Ladri di saponette, 1989. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Bam- bú Cinema e TV. Stefano quante storie, 1993. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Bambú Cinema e TV. Luna e l’altra, l996. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Bambú Cinema e TV. La grande illusion, 1937. [film] Directed by J. Renoir. France: RAC. Zéro de conduite, 1933. [film] Directed by J. Vigo. France: Fran- filmdis.

280 281 Vito Zagarrio

Il neorealismo prima del neorealismo

Continuità o rottura?

Continuità o rottura? Questo è il dilemma che si pone spesso nella sto- riografia italiana. Continuità o rottura tra Italia liberale e Fascismo? Continuità o rottura tra regime fascista e “regime” democristiano? Fu il Fascismo una “rivoluzione”, come proclamavano i quadrunviri, o una “rivelazione”, come sosteneva Giustino Fortunato, la rivelazione di conflitti che esistevano già nell’Italia pre-fascista? Mi sembra ovvio, dunque, porre il problema continuità/rottu- ra anche in ambito politico-culturale, specie in un terreno delicato come l’analisi filmica. E vorrei capire in questo saggio quali siano le eredità che il cosiddetto “Neorealismo” si porta dietro dal cinema “fascista”, quali le radici che affondano nel cinema degli anni trenta e dei primi quaranta. Gli elementi di “rottura” e di “rivoluzione” nel fenomeno neorealista sono ovvi e ampiamente enfatizzati: la rappre- sentazione dei ceti meno abbienti, la fotografia del malessere sociale, la “presa diretta” (non in senso tecnico) sulla “realtà”, l’uscita fuori dai teatri di prosa, l’uso di attori non protagonisti, il “pedinamen- to” dell’uomo qualunque, del vicino di casa, il collante antifascista, l’esaltazione della Resistenza. Ma quali sono gli elementi di “conti- nuità” e di “conservazione”? Quanto l’“interventismo della cultura” fascista applicato al cinema ha influito sulla nascita dei quadri del futuro “neorealismo”? Sul tema della continuità tra Fascismo e Neorealismo vale la pena, ormai nel nuovo secolo, di fare una seria riflessione: se historia non facit saltus, si deve ammettere che la – pur contraddittoria – politica statale e industriale del fascismo ha contribuito, inconsapevolmente, a produrre professionalità, personalità, strumenti tecnologici e lingui- 282 stici, motivazioni e retroterra teorici di fondo che saranno indispen- sabili alla generazione che balzerà agli onori delle cronache col Neo- realismo. È anche grazie all’idea del cinema come “arma più forte” (secondo lo slogan di Mussolini mutuato da Lenin), agli investimenti sull’industria da parte dello Stato, ai confronti con industrie straniere cardine come quella statunitense, quella sovietica e quella tedesca, alla creazione di Enti e di apparati, alla fondazione di Cinecittà, del Centro Sperimentale di Cinematografia, della Mostra di Venezia, alla formazione di talents, vale a dire di quadri tecnici, di maestranze spe- cializzate (non solo registi ma direttori di fotografia, montatori, sce- nografi, ecc.) che i vari Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis, Anto- nioni, Fellini, Lattuada troveranno un terreno fertile alle loro nuove elaborazioni ideologiche e stilistiche. I registi “neorealisti” imparano il mestiere e plasmato la propria personalità autoriale proprio “sotto”, o “durante”, o “nonostante”, il regime fascista. E con loro centinaia di elettricisti, macchinisti, operai specializzati in costruzioni per il cinema, maestranze che formano il loro talento proprio nella “cinecittà” italiana di questo periodo.

La generazione dei redenti

A volte la “continuità” viene scambiata per “opportunismo”. È il caso di un libro, con le cui tesi non concordo ma che ha avuto un cer- to successo in Italia: I redenti di Mirella Serri1. I “redenti” sono gli intellettuali degli anni trenta-quaranta che vissero una “doppia vita”: una prima volta sotto e con il fascismo, una seconda nel dopoguerra sotto e con l’egemonia della sinistra. Ebbene, il libro inserisce tra gli intellettuali “che vissero due volte”, tra gli artisti che si inseri- rono nel processo di continuità e di redenzione, Roberto Rossellini. Un regista, come la storia del cinema sa da sempre, la cui nascita artistica non deve essere datata al convenzionale 1945 di Roma cit- tà aperta, alla “trilogia della guerra” neorealista (Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero), ma deve essere retrodatata, oltre che ai primi esperimenti, alla “trilogia della guerra” fascista: La nave bian- ca, Un pilota ritorna, L’uomo dalla croce. La Serri sembra colpita

1 Cfr. Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005. 283 dall’ambiguità rosselliniana: i tre film trattano, strategicamente, di tre “armi” della guerra fascista - la marina, l’aviazione e la fanteria -, a Un pilota ritorna collabora nientemeno che Vittorio Mussolini, figlio del Duce, e L’uomo della croce si distingue per il suo anticomunismo. Come può Rossellini, nel giro di due anni, raccontare la storia di un prete anticomunista (il protagonista de L’uomo della croce, 1943) e poi la storia di un prete antifascista e filocomuista (il Don Pietro- Aldo Fabrizi di Roma cità aperta, 1945?). Il capitolo della Serri su Rossellini si conclude con una battuta (che dà poi il titolo all’intero paragrafo): Dall’Odeon all’Odeon. Al cinema Odeon era stato proiet- tato L’uomo dalla croce, nella sala dell’Odeon viene proiettato, non molti mesi dopo, Roma città aperta. «Il grande artista – nota la Serri – seppe cogliere la realtà politica, come rilevò, un po’ maliziosamen- te, l’amico Amidei dopo la sua morte: “Era in fondo un realista che sapeva stare nella realtà politica”. Dall’Odeon all’Odeon, il passo era stato breve»2. Con Amidei, sorride e ammicca maliziosamente anche l’autrice. E il termine scherzoso di “realista” dell’amico sceneggia- tore (aggettivo che aprirebbe peraltro infinite querelles) suona come “cinico” e “opportunista”. È una contraddizione, certo, ma che non sta in un ventilato oppor- tunismo di Rossellini (che pure era uomo “tattico” e intelligente ven- ditore di se stesso: si vedano l’abilità e il tempismo nel costruire Open City e l’operazione internazionale di Paisà), ma in una magma- tica situazione storica e in una più sottile ambiguità dell’arte. È vero che Rossellini deve essere visto in direzione di una continuità: ma la continuità non è quella tra il regista “fascista” e il regista “antifasci- sta”, che risulterebbe banale e sin troppo semplice; è invece quella “poetica” ed estetica, che permette di non porre soluzioni di conti- nuità tra un “primo” Rossellini resistenziale, un secondo esistenziale (il periodo legato a Ingrid Bergman), un terzo televisivo, ecc. Quello che interessa a Rossellini è un percorso coerente di ricerca interiore, di indagine sull’anima, di coniugazione del reale col trascendentale. Una re-visione (in questo caso la parola è adattissima) del cinema rosselliniano permette di non appiattirlo sull’ideologia, vuoi quella antifascista, vuoi quella cristiana. Gli studi più recenti dimostrano che la trilogia della guerra resistenziale deve essere riletta, invece che come cinema di denuncia o peggio come “stile documentario”

2 Mirella Serri, op. cit., p. 233. 284

(questa è una vulgata del neorealismo), come dramma universale, complessa operazione simbolica, strategia estetica e spirituale com- plessa3. Come non c’è tanta differenza tra il Rossellini di Germania anno zero e quello di Europa 51, così non c’è tanta differenza tra L’uomo della croce e Roma città aperta. Nei film “fascisti” e bellici come in quelli antifascisti e antibellici c’è la stessa tensione ascetica, c’è l’attenzione alla Storia da un lato, e alle storie individuali dall’al- tro. La nave bianca è sì un film sulla marina italiana, ma guardata dal punto di vista di chi soffre (protagonista è una nave ospedale, la nave “bianca”, appunto); Un pilota ritorna è sì un film sull’aviazio- ne, persino con l’uso di certi codici del film di guerra americano, ma il suo nucleo è la guerra dalla parte delle vittime, non certo da quello degli eroi: nonostante, infatti, l’impresa del protagonista che, prigio- niero, ruba un aereo al nemico a ritorna in patria, il nucleo del film è un viaggio insieme alla popolazione avversaria in guerra ma vicina nell’umanità e nella sofferenza. Non appaiono, in questa prospettiva, tanto differenti i due preti del ’43 e del ’45, uniti dallo steso anelito spirituale – seppur ideologizzato. Certo che l’esperienza sul set del Rossellini “fascista” non può non aver formato il regista che si troverà già pronto all’indomani del- la liberazione per l’impresa di Roma città aperta. Stesse considerazioni si possono fare per quanto riguarda la colla- borazione di Rossellini con De Robertis, che la Serri pare vedere nel senso di un coinvolgimento militaresco: da anni proprio Uomini sul fondo di De Robertis, pur voluto dal Ministero della marina, è consi- derato un precursore del neorealismo, ed anzi – in tempi più recenti – un esempio di possibile lettura non stereotipa del neorealismo stes- so4. Quale sarebbe allora il giudizio della Serri su Blasetti, “regista con gli stivali” del fascismo (Vecchia guardia) e poi precursore del neorealismo (Quattro passi tra le nuvole), uomo di regime e pacifista (le due anime convivono ne La corona di ferro), prima fascista e poi

3 Si veda Stefania Parigi (a cura di), Paisà, Venezia, Marsilio, 2005. Mi permetto di rimandare in particolare al mio saggio, contenuto in quel volume, Uscire dal tunnel. Il quarto episodio, p. 85. 4 Cfr. Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano Vene- zia, Marsilio, 1976 e AA.VV. Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943, Ancona, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1977. Per una rilettura meno stereotipa, devo rimandare ancora a mio saggio: Bassifondi. Appunti su due film “fascisti” di De Robertis, in Aa.Vv., In fondo al mare…Il cinema di Francesco De Robertis, Bari, Edizioni del Sud, 1996. 285 antifascista socialisteggiante? È anche lui, a modo suo, un “reden- to”, o comunque un “assolto” dalla “fonte battesimale” comunista (si sa che Blasetti era stimato proprio dai De Santis, dagli Ingrao, dai Visconti)? Ho voluto chiarire la mia posizione, perché è facile essere fraintesi quando si parla di una continuità tra Fascismo e dopoguerra. Sono molto distante dal dilagante “revisionismo” che tende a rivalutare il regime mussoliniano nelle sue varie componenti (cultura, società, mass media) e porta inevitabilmente a rivedere anche la Resistenza. È il caso, ad esempio dei best sellers di Giampaolo Pansa, ex giornalista di «» e «L’Espresso», che negli ultimi anni si è dedicato a una – a mio avviso maniacale – rilettura della Resistenza, scoprendo i lati oscuri e meno gloriosi5: Il sangue dei vinti, in particolare, e Sco- nosciuto 1945 cavalcano l’ipotesi di una guerra civile dove tutti sono colpevoli e dove i partigiani non sono più gli “eroi” della tradizionale retorica postbellica; e si inseriscono comunque in un filone di revi- sionismo politico in cui si propone che i “partigiani” debbano essere equiparati, nella memoria e nel giudizio storico, ai “repubblichini”, morti anch’essi in nome di un “ideale”. Questo dibattito interessa da vicino anche il cinema: Il sangue dei vinti è diventato un film, per la regia di Michele Soavi (specialista in film di genere); dal filone-Pansa viene anche Miracle at Sant’Anna di Spike Lee, film hollywoodiano girato in Toscana e sponsorizzato dalla locale Film Commission, che ha destato enormi polemiche proprio per la sua provocatoria proposta di una Resistenza non tutta luminosa ed anzi, a volte, colpevole o complice delle stragi naziste. Quello che mi interessa, invece, è individuare gli elementi di con- tinuità sul terreno della forma, del linguaggio, della grammatica filmi- ca, della messa in scena, della rappresentazione della realtà. E in que- sto senso gli elementi di somiglianza, o le “tracce di Neorealismo” nel cinema anni trenta-quaranta sono sorprendenti.

5 Cfr. I figli dell’Aquila, Milano, Sperling & Kupfer, 2002; Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003; Prigionieri del silenzio, Milano, Sperling & Kupfer, 2004; Sconosciuto 1945, Milano, Sperling & Kupfer, 2005; La grande bugia, Milano, Sperling & Kupfer, 2006; I gendarmi della memoria, Milano, Sperling & Kupfer, 2007; I tre inverni della paura, Milano, Rizzoli, 2008; Il revisionista, Milano, Rizzoli, 2009. 286 La “scoperta” della continuità

Questa rilettura del cinema “fascista”, o più correttamente prodot- to durante il Fascismo, è cominciata alla metà degli anni settanta, nell’ambito di una più profonda riflessione storiografica. La risco- perta del fascismo come “regime reazionario di massa” consente in quel periodo di mettere a fuoco gli anni trenta come nodo centrale dello sviluppo della storia italiana - e spinge il taglio dell’analisi da una parte verso gli “strumenti” concepiti dal fascismo in funzione del consenso, e dell’altra verso i “contenuti” veicolati attraverso i vari mezzi di comunicazione di massa. Asor Rosa lancia uno slogan for- tunato, quello del fascismo come “totalitarismo imperfetto”6, cioè di un regime compatto e ben direzionato in funzione del “consenso”, ma che per far questo paga nei confronti delle aree intellettuali, lasciando ampi spazi di autonomia e, quindi, di potenziale dissenso. Il totalita- rismo italiano è «imperfetto» perché risulta, alla fine, un ampio cal- derone che ospita le tendenze più disperate e in apparenza opposte: basta vedere il dibattito sulla cultura e le polemiche tra Farinacci e Bottai sull’ “arte fascista”, ma è interessante anche la doppia strategia verso il cinema (costruire un cinema di Stato, come vorrebbe Freddi, o favorire gli industriali, come farà Afieri). Si accentua così l’interesse per la politica culturale del fascismo, come momento essenziale per la comprensione dell’impatto del regime non solo sugli intellettuali ma sulla popolazione nel suo complesso, si punta l’indice sull’organizza- zione dell’adesione a livello di massa, sulla “fabbrica del consenso”7. Risulta subito chiaro, da tutta una serie di riflessioni che si fanno in quel periodo, che di certo è il cinema lo strumento di indagine più importante per investigare sulle strutture economico-politiche e sulle componenti socio-culturali dell’Italia fascista, perché rappresenta il mezzo di organizzazione e di diffusione della propaganda dal ruolo più nuovo e dalla portata più ampia. Il cinema diventa così, alla metà dei settanta, il baricentro di una ondata di studi che si trova inesora- bilmente coinvolta nell’annosa polemica sulla continuazione tra pre e post-fascismo.

6 Cfr. Alberto Asor Rosa, Storia d’Italia Einaudi, vol. IV, Dall’Unità ad oggi, 2, La cultura, Torino, Einaudi, 1975, p. 1502. 7 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, con una prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, 1975. 287

La verifica è nel dibattito che avviene nell’ambito della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, momento cruciale di svolta nella riflessione sulla storia del cinema italiano: un convegno del 1974 (passato alla storia per il calibro dei personaggi intervenuti) affronta il nodo storico e ancora irrisolto del Neorealismo.8 Ne discute gli stereotipi, ne affronta, ormai finite le letture meramente ideolo- giche dell’immediato dopoguerra, le dinamiche autoriali e gli stili. E finisce, inevitabilmente, col fare i conti con il cinema precedente. Non solo quello definito, con una semplificazione, “pre-neorealista” ( i tre “casi” famosi sono i film del ’42/’43 Quattro passi tra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Viscon- ti, più gli antesignani Sole e 1860 – ancora Blasetti –); ma anche il cinema degli anni trenta in generale, verso cui il Neorealismo non può non guardare indietro. È così che, per un naturale procedere del dibattito, nel settembre 1975 il festival di Pesaro affronta il cinema fascista mettendo attorno a una tavola rotonda gli storici del cinema e gli storici puri, coniu- gando l’analisi testuale dei film con l’indagine storiografica attenta alla politica culturale fascista9. Naturalmente c’è anche un pubblico di movie buff che vanno in delirio per le proiezioni dei film degli anni trenta. I film “fascisti” vengono visti per la prima volta da più di una generazione, si scopre che molti di questi prodotti non sono poi così fascisti, e i più giovani applaudono a dive e storie sino ad allora etichettati sotto il “periodo dei telefoni bianchi”, a film rimossi o addirittura giudicati senza mai essere stati visti, per il solo fatto di essere stati fatti durante il regime. Vasto il ventaglio di posizioni, e accanite le dispute ideologiche che coinvolgono i partecipanti alle visioni pesaresi,10 anche perché si percepisce che la riscoperta del cinema “fascista” si inserisce nel- lo sfondo di una più ampia reinterpretazione dei momenti fondanti del cinema nazionale, e che va inevitabilmente a modificare i giudizi assodati sul Neorealismo, il quale appare sempre più legato a filo dop- pio ai suoi antecedenti prebellici.

8 Cfr. Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1976. 9 Materiali sul cinema italiano 1929-43: Blasetti, Camerini, Poggioli, Pesaro, undicesima mostra internazionale del nuovo cinema, 1975. 10 Cfr. Steve Ricci, Cinema & Fascism, Los Angels, University of California Press, 2007. 288

Dal punto di vista dei “testi” filmici, la re-visione della kermesse filmica di Pesaro porta alla identificazione di tre “autori”, e conse- guentemente di tre linee estetiche, all’interno dell’industria cinema- tografica del ventennio: Blasetti, Camerini, Poggioli. Blasetti èun inventore di Cinema, propugnatore della “Rinascita” del cinema ita- liano, assertore del realismo ma anche raffinato regista di commedie sofisticate o vigoroso confezionatore di avventure, persino precursore del “neorealismo”; Camerini è il regista di mestiere per antonomasia, abile confezionatore delle storie piccolo borghesi di cui è eroe un attor giovane che farà strada, Vittorio De Sica (il suo cinema sarà forse funzionale al consenso più del cinema di propaganda vero e proprio, come dice qualche critico, ma dimostra certo una grande padronanza della messa in scena); Poggioli è il regista raffinato che preannuncia le nuove stagioni autoriali del dopoguerra. Nell’ottobre del ’76 il gotha critico italiano si ritrova a Pesaro a dibattere sul cinema fascista, e continua la riscoperta di film mai visti, letteralmente rimossi per trent’anni, che nel frattempo vengono risco- perti e restaurati dalla Cineteca Nazionale. Si studiano strutture nar- rative, topoi, figure femminili, rapporti edipici; si alternano la rilet- tura ideologica a quella semiotica. Un volume, edito per l’occasione, pubblica materiali d’archivio, studia le riviste specializzate in cinema e non, la presenza del film nei quotidiani, o nei fogli dei Guf. Salta dunque una sorta di tappo storico e psicologico, e da ora in poi si può vedere il cinema “fascista” senza reticenze e con, in più, il gusto della scoperta. In questa prospettiva, si cominciano a ricercare le deriva- zioni mitiche, i “modelli” sottesi dal nuovo “immaginario” fascista. E i grandi modelli di riferimento non possono che essere Hollywood e il cinema sovietico. Su una analisi dell’influenza del cinema ameri- cano punta ad esempio uno studio di Sergio G. Germani11, la cui tesi è che dei due miti – l’americano e il sovietico – il secondo resti solo teorico e che il cinema italiano sia “cinema americano minore”: «si ha un’indiretta delega al cinema americano a coprire il settore del divertimento popolare. L’affermazione fatta nel dopoguerra da Sola- roli sul “cinema americano come il vero cinema fascista”, se spo- gliata delle sue implicazioni moralistiche, può aiutarci ad avanzare […] un’ipotesi […] quella cioè del cinema italiano come “cinema

11 Sergio Grmek Germani, Cinema italiano sotto il fascismo: proposta di periodiz- zazione, in Materiali sul cinema italiano…, cit. 289 americano minore”, come forse il più vicino internazionalmente al cinema americano»12. Viene fuori l’idea di una “americanizzazione” del cinema italiano, confermata dall’evoluzione dei generi (melo- dramma, commedia, film di guerra, film noir), che si formano negli anni trenta e che costituiscono gran parte dei codici testuali del cine- ma postbellico: «Nel cinema italiano sotto il fascismo si fa difficoltà a trovare un modello di “cinema fascista”, nel senso in cui si può parlare di architettura fascista o di modello cinematografico nazista nei film di Riefenstahl […]. Il cinema italiano sotto il fascismo è stato innanzitutto un cinema capitalistico, su cui si sono innestati i caratteri del fascismo» 13.

De Sica prima del Neorealismo

Questa “americanizzazione” del cinema anni trenta è fondamentale se si vuole capire non solo la commedia di , ma anche De Sica, non solo attor giovane in Camerini ma anche regista di un certo successo ben prima dell’esplosione neorealistica. Come si con- cilia l’autore “impegnato” di Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D. con con il metteur en scène leggero ed escapista di Rose scar- latte, Teresa Venerdì, Maddalena zero in condotta, Un garibaldino al convento? Sarebbe facile sposare la teoria dei “redenti” o degli “opportunisti”. È probabile che anche De Sica, come Rossellini, “fiuti l’aria” nuova, da buon imprenditore di stesso. Ma è certo che ci sia una faticosa maturazione, dovuta al procedere della guerra, della crisi del fascismo, e accelerata magari grazie ad incontri eccellenti, come quello con Cesare Zavattini, che il giovane De Sica ha incontrato sul set di Darò un milione (di Camerini). Quanto questi film di genere (di un regista e di un attore già spe- cialista nel campo) sono debitori nei confronti del cinema hollywo- odiano? Quanto essi sono “funzionali” al fascismo, o quanto sono invece impermeabili se non escapisti rispetto all’ideologia del regi- me? La questione coinvolge tutta la commedia italiana degli anni trenta, compresa quella cameriniana di cui è stato interprete proprio il giovane De Sica. Rimando, in questo senso, alle riflessioni fatte a

12 Ivi, p. 339. 13 Ivi, p. 359. 290 suo tempo attraverso i convegni e i volumi del Festival di Pesaro14, e in generale alla opposta interpretazione che ha visto la commedia vuoi “fascista”, in quanto funzionale al “consenso”, vuoi “afascista”, poichè indisponibile ad appiattirsi sulla retorica del regime e comun- que lontana dai suoi provincialismi. La cosa che stupisce, semmai, è la totale impermeabilità di trame, personaggi, gesti e situazioni alla tragedia della guerra che incombe sull’Europa e sul mondo. Comunque, la commedia diretta, oltre che interpretata in prima persona (magari solo attraverso un cammeo) da De Sica sembra voler aprire le atmosfere italiane alle arie internazionali (generi e sotto- generi hollywoodiani), e pare sposare gli elementi tradizionali della commedia dello scambio (nella screwball comedy o nella commedia degli equivoci) con momenti di comicità più surreale e bizzarra. Ed è un genere che contiene inevitabilmente degli elementi di “realismo” quotidiano: l’edicola del Signor Max, il negozio, il bar, il taxi, l’auto, i cartelloni pubblicitari, la Fiera di Milano de Gli uomini che mascalzo- ni, ecc. non possono non fare i conti anche con una realtà, pur spesso ricostruita in Teatro di posa. Una commedia cosciente, comunque, e matura, che sta al passo con le tendenze internazionali più alte. Ma anche una commedia che cede il passo, presto, al dramma. È il caso de I bambini ci guardano, fosco melodramma familiare che è stato giustamente giudicato un caso di forte rottura rispetto al cinema di quegli anni. Era, ad esempio, un cavallo di battaglia di Lino Miccichè, che metteva il film di De Sica in un trittico di film del 1942-43, insieme a Quattro passi tra le nuvole di Blasetti e Osses- sione di Visconti, che possono essere considerati sicuramente pre- neorealisti 15.Ora, il dibattito storico è andato molto avanti e non credo più all’interpretazione di questi tre capolavori come anticipatori del neorealismo alle porte, se non mettendo in discussione l’intera nozio- ne di “Neorealismo”: Ossessione è un fosco melodramma, un noir di ispirazione letteraria, una crime story che ha solo alcuni elementi neo- realisti (gli esterni, l’insistenza sul paesaggio, il Po); Quattro passi… è una favola capriana, negata solo dalla nota parentesi di inizio e fine

14 Cfr. Mino Argentieri (a cura di), Risate di regime, La commedia italiana 1930-1944, Venezia, Marsilio, 1991; Andrea Martini (a cura di), La bella forma, Venezia, Marsilio, 1992. 15 Vedi ancora Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, cit. 291 film, in cui il commesso viaggiatore tocca con mano la dura real- tà della vita. Forse I bambini ci guardano prefigura più chiaramente le nuove atmosfere etiche ed estetiche; si possono cogliere già qui, nella storia disperata del bambino protagonista, gli angosciati sguar- di infantili di Ladri di biciclette e di Sciuscià, ma anche le tragedie degli Edmund di Germania anno zero (Rossellini, 1948), dei vecchi- bambini alla Umberto D. La forte sequenza del treno che sta per tra- volgere Pricò, infatti, non può non ricordare il tentativo di suicidio nel finale del film del ’52; mentre la morbosa curiosità delle vicine, la descrizione del condominio e lo stesso sguardo angosciato del bambi- no rimandano in qualche modo a Bellissima (Visconti, 1951). Rispetto a Ossessione e Quattro passi, poi, I bambini… è meno legato a modelli letterari, a riferimenti musicali o a codici di gene- re, ed è più marcatamente “realista”; anche nella descrizione della contemporaneità, nella scelta di alcuni esterni, nella ruvidezza del trattamento del tema. Il tono, semmai (fotografico e drammaturgico), assomiglia più ai melodrammi – anche “popolari” – degli anni cin- quanta: si veda la scena-madre finale al collegio religioso, in cui il figlio rifiuta di abbracciare la madre, in abito di lutto ma incapace di agire un vero sentimento di solidarietà materna. Ma lasciando da parte l’annosa questione di una appartenenza o meno de I bambini al clima neorealista, di certo il film di De Sica (insie- me anche a quelli di Visconti e di Blasetti) descrive un Paese ango- sciato, dove pesano ormai le ombre della guerra, dove esplodono le contraddizioni familiari non più risolvibili nel contesto retorico della società. Alla donna e sposa ideale del fascismo, alle mogli che dona- no le vere alla patria, Visconti risponde con una donna che tradisce il marito e istiga l’amante ad ammazzarlo, Blasetti ci fa intuire il disamo- re del protagonista verso la compagna aspra e irascibile, verso i gesti intollerabili della quotidianità; De Sica rappresenta un padre non “viri- le”, una moglie altrettanto debole ma capace di causare una tragedia, un bambino che assiste all’adulterio e al suicidio. Una trama, come si vede, lontanissima dai toni sorridenti di poco tempo prima. Il tradimen- to della madre viene descritto in maniera moderna, quasi capito se non giustificato nella sua appassionata sincerità, ed anche l’amante non è il cattivo seduttore di turno, ma un uomo che soffre davvero per amore. I bambini ci guardano è un film duro, senza happy ending pos- sibile, non riconciliante, che segnala una cesura forte rispetto al De Sica precedente; forse per la presenza tra gli sceneggiatori di Cesare 292

Zavattini, che da questo momento accompagnerà a lungo la filmo- grafia di De Sica, diventandone in qualche modo co-autore16. È un film senza De Sica attore, quasi il regista avesse pudore a mettersi in scena in questo nuovo clima rappresentativo. Ed è un film, infine, che evidenzia una rottura anche dal punto di vista dello stile. Bella registicamente, ad esempio, è la scena del sogno, durante il viaggio in treno prima del provvisorio ritorno della madre. Bellissima la lun- ga sequenza della fuga di Pricò che, dopo aver sorpreso la madre ad abbracciarsi con l’amante, fugge e tenta di raggiungere il padre a Roma; prima rischia di essere travolto dal treno, poi fugge di notte sulla spiaggia, seguito da un lungo carrello di cui forse si ricorderà Truffaut ne I quattrocento colpi. Insomma, si tratta certamente di un film duro, forte, un punto di svolta nella storia del cinema italiano, anche al di là della possibile prefigurazione del cinema postbellico; un film che dichiara che non c’è più niente da ridere e che la commedia non risolve più, neanche in modo metaforico, le angosce dell’oggi. «Qui c’è gente che non ha nessuna voglia di ridere…», dice il controllore a un gruppo di attricet- te del teatro “Eldorado” all’inizio de La porta del cielo. C’è infatti, ne I bambini, un distillato di dolore puro che si riversa direttamente ne La porta del cielo, un prodotto a cavallo tra fascismo e dopoguerra17, che si deve inserire in questa fase della maturazione di De Sica prima della sua esplosione postbellica. Il film è un interessante, seppur non riuscitissimo, tentativo di mescolamento di elementi documentari con altri di pesante teatralità. È la storia di un doloroso convoglio di malati che si recano al santuario di Loreto per ottenere un “miracolo”. Una sorta di travel film, un film di viaggio fisico e metaforico, in un’Italia addolorata e funerea, pur nella prospettiva della speranza cristiana. A ogni stazione si aggiunge un vagone, e si aggiunge un personaggio col suo fardello di storia. La semplice struttura della sceneggiatura, infatti (firmata anche qui da Zavattini insieme a Diego Fabbri), permette un incrocio di

16 Il film è tratto dal romanzo di Cesare Giulio Viola Pricò, e gli altri sceneggiatori sono, oltre allo stesso Viola e a De Sica, Aldo Franci, Gherardo Gherardi, Mar- gherita Maglione e Cesare Zavattini. 17 La premessa del cartello iniziale, infatti, ne dichiara l’appartenenza al periodo della “liberazione”: «Durante la prigionia di Roma, lottando contro difficoltà di ogni genere, uomini del cinematografo italiano realizzarono questo film sospinti dal desiderio di servire, con l’arte, la fede cristiana». 293 quattro storie principali: un ragazzo paralitico che viene “adottato” da una donna di buon cuore (Maria Mercader); una donna che va a pregare perché non succeda un dramma familiare (un vedovo vuole risposarsi, i figli lo accusano di “tradire” la memoria della madre, ma si scopre che è stata invece la madre a tradire – sessualmente – il padre; un tema ossessivo, come si vede, l’adulterio, di questa fase di De Sica); un pianista che ha perso l’uso di una mano e che medita il suicidio; un uomo che accompagna un ex amico di cui ha causato la cecità. Gli episodi sono tutti raccontati in flash back, così che il treno diventa una sorta di contenitore di memorie, e di sogni. Le quattro storie si concluderanno con un – relativo – lieto fine: il ragazzo paralitico fa amicizia con un anziano handicappato e ricostru- isce una sorta di “nucleo familiare”; il cieco non riacquista la vista ma l’amicizia del suo compagno; il pianista non guarisce ma abbandona i suoi propositi suicidi (è questo il vero miracolo) e viene guardato con amore da una bella infermiera. E c’è anche un miracolo vero (una vecchia che riacquista l’uso delle gambe) attorno a cui si galvanizza l’eccitazione delirante della folla: una scena che ricorda quella del finale di Viaggio in Italia (Rossellini, 1954), con la coppia Bergman- Sanders che si abbraccia in mezzo alla massa di gente intervenuta alla processione napoletana. Anche nel film di De Sica un dolly iper-cine- matografico nega l’assunto pseudo-documentaristico della sequenza. Oscillando tra prefigurazioni del futuro e citazioni del passato, segna- lo un’altra sequenza, che sembra un voluto omaggio ad Acciaio di Ruttmann (1933): è quella – in uno dei flash back – in cui i due amici (Massimo Girotti e Carlo Ninchi) competono per una donna; lavorano in una fabbrica di ghiaccio e i lingotti ghiacciati vengono maneggia- ti minacciosamente come le lunghe barre di acciaio fuso del film di Ruttmann. Poi l’incidente provocato dal geloso Ninchi (il vapore che esce violentemente da una valvola), in cui Girotti (fresco protagonista di Ossessione) perde la vista. Con La porta del cielo si conferma che c’è stato un cambiamento di sguardo: pur in un impianto teatrale (si veda l’uso del trasparen- te per mostrare i paesaggi esterni dagli scompartimenti del treno), emergono momenti di crudo realismo anche in certi esterni ferroviari; la fotografia è tra dramma realista e film “nero”; e come ne I bam- bini…, la regia si esibisce in movimenti di macchina, in invenzioni di messa in scena da autore ormai maturo. Prendo come esempio la lunga sequenza notturna, in cui la mdp vaga per il treno, cercando di 294 cogliere i pensieri e i sogni nascosti dei vari protagonisti. E aggiungo, più per motivi ideologici che per la messa in scena, una sequenza in cui emerge il conflitto di classe: un treno di ricchi si accosta a questo treno di poveri malati, e un signore che sta mangiando nella vettura ristorante abbassa in modo cattivo la tendina del finestrino. È una sequenza molto simile a quella, più celebre, di Riso amaro (De San- tis, 1949), in cui la mdp panoramica dal vagone letto al campo delle mondine in cui si accinge a ballare Silvana Mangano. A questo proposito, è incredibile come da questo gruppo di film di De Sica si possano cogliere indizi del cinema passato e futuro, dello stesso regista o di altri cineasti della sua generazione. A dimostrazio- ne che c’è in questa sua fase un crocevia di ispirazioni, di intuizioni, di citazioni, di suggerimenti per opere future; un mèlange magmatico di fonti e modelli, di generi e codici, di arte e merce che fa capire come il maestro di Ladri di biciclette non nasca all’improvviso, ma porti con sé un ricco bagaglio di esperienze e di sperimentazioni del proprio indiscutibile talento.

Altri indizi di continuità

Le tracce di una riflessione sul mondo che poi sarà raccolta dal neore- alismo vanno comunque al di là della – forse ovvia – scoperta di una continuità autoriale in Rossellini e in De Sica. C’è tutto un clima cul- turale in cui si possono trovare forti indizi di quella che sarà la poetica neorealista. Anche perché tutti gli anni trenta italiani ed europei fanno i conti con la nozione di “realismo”. Nozione ambigua, del resto, che in Europa viene applicata dal nazismo e dallo stalinismo, ma anche dai Fronti popolari francesi; in America dai film realisti della Warner Bros. o dal documentario sociale. In Italia è una nozione che nelle arti visive può essere cavalcata dal Guttuso della Crocifissione o dal realismo filonazista propugnato da Farinacci, in letteratura da Vittori- ni ma anche dalle riviste fasciste, nel cinema dai comunisti Alicata e De Santis ma anche dal cinema di propaganda (Passaporto rosso, Il grande appello o L’assedio dell’Alcazar). Una sorta di “neorealismo” è teorizzata da alcune riviste fasci- ste, nell’ambito di un variegato panorama di fogli e pubblicazioni che indicano comunque un ampio dibattito culturale, specialmente a 295 livello giovanile. Penso soprattutto alle riviste facenti capo al gruppo di “Strapaese” (che, contrapposto a “Stracittà” di Bontempelli, tende a valorizzare la provincia e la “terra” contro la città e la borghesia) e quelle ideologicamente organiche al regime (sono infatti per lo più organi di federazione o fogli sindacali), ma caratterizzate da un’intran- sigenza che diventa, alla fine, critica allo Stato, oppure inserite nell’area delle elaborazioni teoriche più avanzate del corporativismo cosiddetto “di sinistra”. Cito su tutte «Il Selvaggio» di Maccari, «L’Italiano» di Longanesi e, seppure non inscrivibile propriamente tra gli strapaesa- ni, «Prospettive» di Malaparte. Tutte e tre dedicano un numero unico al cinema. Ma mentre Maccari, leader del movimento di “Strapaese”, snobba il cinema e lo attacca come fenomeno corruttore e perverso, la posizione di Longanesi, direttore de «L’Italiano» è molto più articolata. Partendo dallo stesso piano di Maccari, quello del realismo regionale, Longanesi vi innesta però positivamente il cinema. Non è, quindi, con- trario al cinema in assoluto, ma semmai a “questo” cinema, quello che «si accontenta di ritrarre gli aspetti più sciocchi della vita italiana senza aggiungervi un grano di intelligenza, una protesta, una critica». «L’Italiano» dedica nel ’33 il suo numero unico al cinema18. Lon- ganesi vi interviene in prima persona con una Breve storia del cinema italiano e con un altro tentativo di sistematizzazione, Il film italiano. Sostanzialmente, la “storia” di Longanesi rovescia il consueto giudi- zio positivo sul cinema italiano prebellico (nel senso di Prima Guerra Mondiale): si tratta, in realtà, di un cinema piccolo borghese che con- tinua anche nel dopoguerra. Mentre i grandi scontri di classi e di ide- ologie segnano il mondo, il cinema italiano si attarda in estetismi che nascondono, sotto, le basse trame degli speculatori e dei pescecani:

Il nazionalismo, l’industria pesante, i pescecani hanno trova- to la loro espressione nell’arte muta (…) Al bolscevismo e al fascismo in lotta, si oppone un’estetica tramontata con la guer- ra di Libia (…) Il cinema è un ottimo investimento di capita- li. Fare del cinema è una maniera come un’altra per entrare nel giro bancario. L’arte muta è un titolo di borsa come la Montecatini (…) Quel che si chiama il glorioso decennio della produzione italiana cinematografica non è che un decennio di immediata fortuna industriale19.

18 «L’Italiano», n. 17-18, 1933. 19 Ivi, p. 23, p. 24. 296

Longanesi distrugge Pittaluga, la Cines e persino Blasetti. Il suo Sole non è altro che «una banale pellicola d’imitazione sovietica, con butteri ragionieri e contadine di Via Veneto»; l’unica soluzione è fare piazza pulita:

Un noto critico italiano scrisse […] che alla macchina da presa occorreva sostituire una mitragliatrice: d’allora nulla è muta- to: si tratta solo di procurare il nastro delle cartucce e quel critico20.

La soluzione alternativa, però, esiste. Per «L’Italiano» sta nel recupero della realtà quotidiana, degli squarci di “vero” che ci offrono gli angoli della nostra provincia; in questo senso vanno le dichiarazioni teoriche di Longanesi, la stessa struttura del numero unico (organizzato per far risultare questa tesi, attraverso brani di Chaplin, Grosz, Fulop-Muller, Kerr) e, molto indicative, le proposte di sceneggiature pubblicate, tra- me ricavate dalla cronaca quotidiana e dalla vita vissuta.

Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere assieme pellicole quanto mai semplici e povere nella messinscena, pellicole senza artifizi, girate quanto più si può dal vero. È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna get- tarsi alla strada, portare le macchine di presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezz’ora, con gli occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano naturale e logico21.

Questa è l’ipotesi radicalmente innovatrice, contro il film italiano fat- to di «una serie di cartoline patinate, messe in fila». Anche l’interven- to dello Stato è inutile:

Ora, in Italia, cosa può fare lo Stato? Alla testa di chi può mettersi? Della cadente, passiva e banale cinematografia italiana? Vuole difendere l’estetica e la morale di una cine- matografia piccolo borghese, figlia delle pochades francesi?

20 Ivi, p. 28. 21 Ivi, p. 35. 297

Qualunque cosa egli faccia, non ne verrà fuori nulla: non si tratta di organizzare22.

«Conclusione: la cinematografia italiana è un cadavere nella stiva di una nave in cammino». Si salvano invece altri esempi di cinema: quello comico, al quale, vistosi rifiutato dalla letteratura, «non rima- se che buttarsi nelle braccia della vita»: il film americano che, come scrive Grosz, riproduce, nei suoi topoi e nei suoi personaggi standard, situazioni e tipi peculiari e caratteristiche della realtà del paese; il cinema russo che «non fa la realtà, ma la rispecchia: naturalmente l’ha rifatta in precedenza». Un cinema, questo, dal carattere colletti- vo, perché rispecchia il carattere del russo; un cinema che per questo va a trovare nella vita, per la strada, i propri personaggi. «Ben spesso si tratta di veri e propri uomini della strada»23. Si noti questa formula che sarà poi caratteristica del Neorealismo. Si può dire, infatti, che il Neorealismo abbia in questo numero spe- ciale de «L’Italiano» il suo termine ante quem, la sua prima, inconscia, formulazione teorica: nelle proposte di Longanesi, nei film dal vero e nei motivi per un film italiano, troviamo elementi che saranno cari al neorealismo: la bicicletta, la ferrovia, la pensione; dalle stesse foto- grafie (di realtà documentaria, la fiera, il dopolavoro, la conferenza, la piazza del mercato e addirittura lo sciuscià napoletano) viene fuori energicamente questa esigenza di “nuovo realismo”. Voglio ancora sottolineare le sue frasi, che sembrano davvero precorrere Zavattini:

È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna get- tarsi alla strada, portare le macchine di presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezz’ora, con gli occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano naturale e logico.

È quello che ci ha raccontato Fellini a proposito dei cineasti che non avevano bisogno di soggetti, nell’immediato dopoguerra, perché i soggetti erano dietro l’angolo della strada24.

22 Ivi, p. 60. 23 Ibidem 24 Cfr. Federico Fellini, Intervista sul cinema, Bari, Laterza, 1976. 298

Ci sono, naturalmente, anche tutti i limiti del Neorealismo futuro: il populismo, il paternalismo, la tendenza al bozzetto. Nel ’39 Comen- cini25, su «Corrente di vita giovanile» (una delle riviste “di tendenza” più importanti nella fase finale del Fascismo), riprenderà le tematiche di quel numero unico a proposito di Batticuore, di cui Longanesi era sceneggiatore. Ecco il suo giudizio:

L’impressione prima era quella di uno sforzo per dimostrare la cosa ormai ben nota, che in Italia abbondano i tipi e gli ambienti per dare materia a un film, mentre nulla si fa di buono seguendo la falsa via dei drammi e delle commedie conven- zionali (…) Cosa ricavammo da quel numero 17-18 dell’Ita- liano? La certezza che Longanesi era intelligente, che aveva anche un certo buon gusto (…) che “vedeva” certe scene con occhio del cinema, ma infine, che non sapeva comporre un film, e, quel che è peggio, che non s’avvedeva della insuffi- cienza dei suoi “bozzetti”.

La tendenza a un “nuovo” realismo è dunque diffusa all’interno del Fascismo, o almeno all’interno di alcune delle sue aree (visto che il regime non è così compatto come potrebbe sembrare, ma composto di tendenze variegate). Nel cinema, indizi – o “desideri” – di un “neo” realismo si possono rintracciare – come è ormai stato studiato – in Blasetti: negli esterni di 1860, nei dialoghi in presa diretta con l’uso dei dialetti di quel film (si veda la sequenza in cui vari volontari in partenza coi “mille” di ritrovano in treno); in Sole, con l’uso di uno “stile documentario” che Bazin individuerà nel Neorealismo; in Terra madre, che riflette l’ideologia “strapaesana” (la terra sana e la città corrotta). In questo film la campagna è quella difficoltosa ma virile, disage- vole ma ricca di valori etici cui il proprietario alla fine ritorna; la città è quella più easy, vissuta a ritmo di swing, ma anche tentatrice e cor- ruttrice, incarnata dalla femme fatale. Un tema che percorerrà molto cinema degli anni Trenta, e che si ritova anche in altre cinematogra- fie, come quella americana dei primissimi anni del decennio. Anche Vecchia guardia, uno dei pochissimi film che parla della Marcia su Roma, è un film dichiaratamente e apertamente “fascista”, che però

25 Luigi Comencini, Il cinematografo a riposo, in «Corrente di vita giovanile», n.4, 1939. 299 pare più interessato alla ricostruzione della provincia, alle atmosfere del paese, ai personaggi quotidiani riuniti attorno al negozio del bar- biere, o all’osteria26. Ma è soprattutto 1860 che diventa un enorme serbatoio di spezzo- ni del cinema futuro: Leda Gloria avvolta da uno scialle nero riman- da alla futura Terra trema, il rosario recitato dal prete e dai pastori arrestati dai soldati svizzeri-borbonici ricorda Il sole sorge ancora, la morte del garibaldino che invoca la mamma tra le braccia di Gesuzza riporta all’episodio fiorentino diPaisà . Questo spiega perché – anche senza ricorrere a Quattro passi tra le nuvole – Blasetti sia stato considerato “pre-neorealista”. Indizi forti di un nuovo realismo sono infatti – paradossalmente ma non troppo – proprio nel cinema di fiancheggiamento, apparen- temente più vicino all’ideologia fascista. Nel già citato Acciaio, per esempio, con l’insistenza sugli elementi complementari della tradi- zione e della modernizzazione: l’osteria, la strada popolata di facce antiche, da un lato, e la fabbrica di acciaio dall’altra. Nei film appa- rentemente di propaganda (Il grande appello, Squadrone bianco), che contengono sorprendenti segmenti di realismo. E soprattutto nei film para-documentaristici di De Robertis, su tutti Uomini sul fondo che coniuga certi stereotipi del film hollywoodiano con lo stile del cinema sovietico e con questo nuovo desiderio di “verismo” che permea la società e i media. È ovvio come De Robertis faccia cinema con un occhio documen- tario e realistico, capace di cogliere con “oggettività” dettagli tecnici o psicologici. Basti pensare alla dovizia di particolari con cui il regi- sta ci mostra con competenza la tecnologia usata per il salvataggio del sottomarino in Uomini sul fondo, oppure all’attenzione per gli interni familiari, per il contesto`antropologico del singolo marinaio sia in questo film che inAlfa tau. Il cinema di De Robertis è un “docu- mento” di fondamentale importanza, una fonte storica eccellente per ricostruire non solo i mezzi tecnici della guerra di allora, ma anche gli interni borghesi o gli spaccati sociali del paese non belligerante. De Robertis mette al centro del suo cinema l’uomo, né più né meno

26 Persino nelle rare commedie blasettiane (insisto sugli elementi di “realismo” nel- la commedia) emerge una società contemporanea descritta in modo “realistico”, seppur vista dai ceti medio-alti (si veda Contessa di Parma, con l’atelier di moda, il calcio, le automobili, le corse dei cavalli, ecc.). 300 come suggeriva Visconti parlando di “cinema antropomorfico”27; anche se i suoi film, come la maggior parte delle opere pre-neoreali- ste, vanno oggi rivisti alla luce dei modelli di cinema di allora, a fron- te dei modelli di immaginario filmico di cui era permeata la cultura di quel tempo. Ci sono sapori hollywoodiani, arie russe e francesi, in questo film che non è solo fonte di una realtà sociale degli anni qua- ranta, ma anche sintesi dei miti e dell’immaginario collettivo di que- gli anni. In questo senso è lampante il caso di Alfa tau, che ripropone le ambiguità di Uomini sul fondo, con una operazione ancora più ibri- da. Se lì c’era l’esercitazione prebellica, qui c’è l’azione guerresca, se là c’era la rassicurazione sull’efficienza dei nostri mezzi, qua c’è la rassicurazione sulla vita che continua normale nonostante la guerra. Il film inizia e si conclude come un war film, prima filtrato dalla base a terra e narrato dai racconti dei protagonisti, poi mostrato nella rico- struzione fiction più classica; in mezzo, invece, come racchiuso tra due parentesi, c’è un altro film, che narra vari episodi simultanei, col pretesto narrativo della breve licenza di alcuni ufficiali. Insomma, il cinema di De Robertis, così come emerge da questi due film, è un pastiche, spesso irrisolto ma certo molto interessante, che comunque non può più essere letto solo in funzione del Neorea- lismo che in qualche modo precorre. C’è invece, grazie a molteplici eredità filmiche, una poetica mista che permette di tratteggiare una galleria di personaggi drammatici e comici, retorici e antiretorici, rea- listici e antirealistici, e di fornire immagini diverse del Paese. Nel met- tere in scena personaggi e situazioni, De Robertis bilancia due registri molto diversi: il realismo teorizzato in maniera sin troppo schematica, e la fiction dotata di tutti i suoi artifici più tradizionali. Da un lato notiamo dunque l’uso delle convenzioni generiche più stereotipate (film hollywoodiano sul “sommergibile”, film di guerra, commedia, melodramma), ma dall’altro prefigura Zavattini. Vediamo, in questo senso, i titoli di testa di Alfa Tau: «In questo racconto tutti gli elementi rispondono ad un verismo storico e ambientale. L’umile marinaio che ne è il protagonista, ha realmente vissuto l’episodio che nel racconto rivive. Così pure il ruolo che ogni altro personaggio ha nella vicenda, corrisponde al ruolo che ognuno di essi ha nella realtà della vita». Veri- smo storico e ambientale, realtà della vita, attori non professionisti che

27 Luchino Visconti, Il cinema antropomorfico, in «Cinema», nn.173-174, settem- bre-ottobre 1943. 301 interpretano nient’altro che se stessi: c’è, come si vede, la posizione più estrema del neorealismo, quella alla Umberto D. Titoli simili ritroviamo ne La nave bianca di Rossellini, che di De Robertis è stato collaboratore. L’incipit del film mostra quattro cartelli iniziali che fanno riflettere, e gettano nuova luce anche sul Rossellini di Paisà:

Come già in Uomini sul fondo anche in questo racconto nava- le tutti i personaggi sono presi nel loro ambiente e nella loro realtà di vita e sono seguiti attraverso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno. Hanno partecipato: le infermiere del corpo volontario, gli uffi- ciali, i sottufficiali e gli equipaggi Il racconto è stato realizzato sulla nave ospedaliera “Arno” e su una nostra nave di battaglia.

Insomma – sottolinea il giovane Rossellini –, i protagonisti interpre- tano se stessi, il film è stato girato on location, e «sono seguiti attra- verso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno». È già Neorealismo. 302 303

parte quarta

La nuova generazione 304 305

Maura Borgonzoni

La Paura di Pippo Delbono1: breve riflessione sul documentario

Una coltre di primule… Scheletri col vestito… Quando una troupe… Vedo la troupe in ozio… Un solo rudere… Ci vediamo in proiezione… Lavoro tutto il giorno… Supplica a mia madre La ricerca di una casa La realtà (Pasolini, Poesia in forma di rosa)

Ogni anno vengono presentati nei vari festival italiani e internazionali film che non riescono a raggiungere il grande pubblico, in parte per il tipo di cinema che propongono, ma soprattutto perché in Italia la distribuzione risulta difficile. In particolare, il documentario italiano, nonostante abbia un proprio pubblico, un pubblico anzi in crescita, è

1 Pippo Delbono nasce a Varazze nel 1959. Forrmatosi sotto la guida di, fra gli altri, Iben Nagel Rasmussen e Pina Bausch, nel 1986 fonda con Pepe Robledo La compagnia Pippo Delbono con la quale realizza tutti i suoi spettacoli: Il tempo degli assassini (1987), Morire di musica (1988), Il muro (1990), Enrico V (1993), La rabbia (1995), La rabbia. Un omaggio a Pier Paolo Pasolini (1995), Barboni (1997), Itaca (1998), Guerra (1998), Her Bijit (1999), Esodo (2000), Il silen- zio (2000), Gente di Plastica (2002), Urlo (2004), Racconti di giugno (2005), Questo buio feroce (2006), Obra maestra (2007), La menzogna (2008). Come regista cinematografico, dirige Guerra (Premio Donatello 2004), Grido (2006), Blue sofa (2009) diretto in collaborazione con Lara Fremder e Giuseppe Baresi e vincitore del premio Clermont-Ferrand International Short Film Festival 2010. Il sito di Pippo Delbono è www.pippodelbono.it. 306 relegato alla proiezione in sale circoscritte e spesso per periodi brevi di tempo2. Il documentario di creazione nello specifico, il documen- tario cioè che predilige una originalità stilistica e un punto di vista personale all’interno di una struttura narrativa, sta vivendo un periodo decisamente complesso e contraddittorio. La complessità è dovuta al fatto che alla qualità di questi documentari spesso non corrisponde un pari riconoscimento, specialmente in Italia. Questo non vuole essere un, seppur motivato, cahier de doléance, citando l’introduzione di Vittorio de Seta a L’idea documentaria curato da Marco Bertozzi, tut- tavia la produzione da parte degli enti statali o privati (RAI o Media- set) è carente e la visione è condizionata da ragioni di mercato che prediligono la distribuzione – o addirittura la sovvenzione – di film che fanno cassetta come i “cinepanettoni”. La polemica innescata dal giornalista del «Corriere della Sera» Paolo Mereghetti a proposito del film (Parenti 2009) non è altro che una delle tante querelles che investono il cinema italiano, combattutto nel tentativo di coniugare o mediare tra l’aspetto economico e quello pro- priamente artistico e culturale. Natale a Beverly Hills avrebbe potu- to essere dichiarato “film d’essai” e in quanto tale, secondo la legge Urbani3, avrebbe avuto diritto di ottenere quelle agevolazioni fiscali e

2 Interessante a questo proposito è l’esperienza della distribuzione di Un’ora sola ti vorrei (Marazzi 2002) che, avendo raggiunto una certa notorietà dopo aver vinto il Festival di Torino 2002, “[…] fece una serie di giri di proiezioni qua e là e ogni proiezione era sempre affollatissima. Ma non ne esistono copie in 35mm, quindi è sempre stata vista una copia in video. Per un paio di anni si andò avanti così, noi inizialmente avevamo anche parlato con Procacci, proponendogli di distribuire il film, ma non sene fece nulla. Poi parlammo con Mikado che decise di fare una piccolissima uscita al cinema a Milano e a Roma […]. Avevano deci- so di programmare il mio film alle ore 13 al cinema Anteo di Milano; solo che è venuta così tanta gente che hanno ampliato la programmazione. Era ormai il 2004. Inoltre, la Marazzi continua “[…] eppure ancora ricevevo tante lettere in cui mi dicevano ‘Ho sentito parlare del tuo film, come posso recuperarlo?’. Così nel 2006 ci fu la proposta da parte della Rizzoli per l’edizione DVD: sono stam- pate novemila copie e sono state vendute tutte. […] Comunque ancora oggi mi scrivono persone che hanno sentito parlare di questo film e non l’hanno trovato. I canali di diffusione restano abbastanza misteriosi, non prevedibili più di tanto.”. (Marazzi pp. 144-145) 3 A proposito della legge Urbani del 19/5/2004, Mariuccia Ciotta del «Manifesto» afferma: «Il film che fa cassa, riempie i cinema, si assicura i passaggi in prime- time, omologato agli standard tv, merita l’aiuto pubblico, gli altri sono prodotti “ideologici”, pellicole avvelenate dallo spirito post-sessantottino, film da cine- club destinato a pubblici residuali. Con questi parametri, la legge Urbani 2004 307 monetarie nella distribuzione nelle sale, aiuti che andrebbero invece indirizzati a sale diverse dai multiplex dove solitamente film di questo genere vengono proiettati.

Invece “trasformando” in cinema d’essai anche i multiplex che proiettano opere come Natale a Beverly Hills (nella stessa riu- nione ha già ottenuto lo stesso riconoscimento Winx Club 2) si finisce solo per sottrarre ulteriori finanziamenti a quei piccoli esercenti che, con un pubblico più attento alla qualità dei film che del pop corn, sono l’ultimo baluardo per la difesa di un cinema degno di questo nome. Altrimenti rischiano di diven- tare pura demagogia tutte le richieste di maggior efficienza e moralizzazione che la Politica rivolge a questo settore: se non si cambia al più presto questa legge, le occasioni per essere orgogliosi della nostra cinematografia diventeranno ogni gior- no più esigue. Con o senza il marchio d’essai. (Mereghetti)

Dopo ben due mesi di polemiche le commissioni ministeriali depu- tate all’individuazione dei film d’essai hanno definitivamente sanci- to l’esclusione del film a quel titolo che avevano inizialmente rico- nosciuto. Il documentario ha sempre sofferto del complesso di Cenerentola. Saranno le facce sporche “non da fiction”, come le descrive Gianfran- co Pannone, che lo tengono ai margini della cinematografia italiana (Pannone p. 39). Sarà l’assenza di un interesse della tv di stato, come tutti i produttori lamentano (la RAI o Mediaset sono raramente pre- senti ai festival internazionali o europei di documentari, dove invece la BBC e la tv francese sono di casa, investendo molto anche sui documentari italiani), sarà che ancora l’idea di fare cinema è legata al film di narrazione con attori e sceneggiatura. «Bene, bravo, ma ora devi fare un film», il commento che spesso Pannone si è sentito fare, anche dagli stessi Giuseppe DeSantis e Carlo Lizzani (Pannone p. 39). Il documentario ha quindi vita difficile in un alternarsi di momenti più favorevoli alla produzione a momenti di assoluto disinteresse. Dopo

mise a punto la sua formula magica per sostenere il cinema italiano, e varò il reference system che elargiva punti a cast e produzioni “ricche”. Chi ha più punti vince e accede alla qualifica di “film d’interesse culturale nazionale”, chi fa soldi ne avrà ancora. A proposito di comicità sgangherata, l’ex ministro della cultura superò Neri Parenti», (Ciotta 25/12/09), http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuori- pagina/anno/2009/mese/12/articolo/2056/. 308 l’esperienza di Tele+ che programmaticamente produsse documentari girati da Andrea Segre, Carlo Mazzacurati, Paolo Virzì, Silvio Soldini e molti altri registi del panorama italiano, i quali hanno saputo impor- si anche al pubblico internazionale, rivitalizzando il documentario italiano in “stato agonizzante” (Grosoli p. 350), la produzione ora è di nuovo relegata alla iniziativa più sporadica e a budget più limitati.

Oggi quegli spazi marginali, anche come orari di programma- zione, ma con molte possibilità creative, sono sostanzialmente sostituiti dai canali satellitari4 sia della RAI che di altri net- work. Il problema di lavorare con i canali satellitari è quello del budget: troppo esiguo, ridotto all’osso, insufficiente per produrre un progetto di più vasto respiro. Registi e produttori sono costretti a sforzi di fantasia pazzeschi per trovare le co- produzioni […]. Qui apro una piccola parentesi a favore di quegli enti pubblici che in questi anni sono stati lungimiranti e hanno aiutato molti progetti a svilupparsi, a prendere forma. (Cannizzaro p. 359)

Lo sforzo di enti pubblici soprattutto a livello locale e regionale è veramente encomiabile sia nel produrre e distribuire, che nella for- mazione di cineasti. Ne è un esempio la Cineteca di Bologna5 che in questi ultimi anni ha contribuito nella produzione e distribuzione di film di interesse culturale come L’uomo che verrà (Diritti 2009), vincitore del premio Donatello 2010. Il regista di nuova generazio- ne Gianni Zanasi, che si è formato anche grazie alla sua frequenta- zione della Cineteca, afferma: «[…] ho scoperto che quello era un pezzo di Parigi incastrato a Bologna» (Zanasi p. 266). La Cineteca ha contribuito anche alla diffusione del documentario di Pippo Del- bono, riversandolo in pellicola 35mm per una più facile distribuzione nelle sale italiane. D’altra parte, come afferma il regista Delbono, la distribuzione diventa anche un problema di iniziativa personale. «Ci

4 Uno di questi, Current Tv, fondata da Al Gore, sta ponendosi sempre più all’at- tenzione del pubblico. 5 Sviluppatasi dalla Commissione Cinema della città di Bologna nata nel 1963, la Cineteca si occupa di recuperare il patrimonio cinematografico, dialogando con altre cineteche a livello internazionale, e della produzione e distribuzione di film del presente, oltre che promuovere incontri a livello accademico. Ogni anno il Festival del Cinema Ritrovato vede la partecipazione folta di un pubblico di studiosi e di cinefili da tutto il mondo. 309 si deve inventare il metodo distributivo. Io ad esempio giro molto per presentare il mio film. Bisogna reinventarsi il lavoro altrimenti è mol- to difficile se si aspetta la casa distributrice. Anche l’uso del cellulare rientra in questa ottica» (Delbono, intervista 18/12/09). Pippo Delbono gira La Paura (2009) con il solo ausilio di un cel- lulare di ultima generazione. Il regista ha intrapreso questo percorso rispondendo ad un invito del Forum des images6 che ha fatto al regista una proposta singolare: un telefonino con videocamera e una racco- mandazione:

“Fai quello che vuoi”. Non avrei mai immaginato che si potes- se fare un film con un oggetto così minuscolo. Mi sono insi- nuato nei miei sogni più oscuri e in quelli del mio paese. La paura è divenuto un viaggio attraverso un presente deformato da questo sentimento. Il telefono filmante abbatte i muri tra me e quanti si invitano nel film, aprendo così a momenti emo- tivi particolari che, senza questo strumento, andrebbero persi. (Pippo Delbono, Newsletter)

Tramite il viaggio e un carrello inusuale dato dall’uso del cellulare, Delbono coglie una fotografia dell’Italia contemporanea in cui non solo domina la paura, come afferma il regista stesso, ma anche un senso di vuoto culturale preoccupante. Il cellulare fotografa scritte razziste sui muri, vetrine lussuose che contrastano con l’immagine dei senzatetto sdraiati sulla strada, lo schermo onnipresente della Tv che propone programmi svilenti la dignità umana. E di dignitosamen- te umano rimangono il dolore dei parenti e amici di Abdul Guiebre al funerale, i bambini del campo nomadi che insistemente richiedono di essere fotografati con i loro cani e gli sguardi di Bobò e Gianlu- ca, gli attori della compagnia teatrale di Delbono. Il film offre un ritratto dell’Italia grazie all’immediatezza di un mezzo così facile da utilizzare e ad una chiave di lettura del reale basata su un linguaggio filmico che privilegia l’immagine con suono d’ambiente (evitando l’intervista), la presa del suono in diretta, non disdegnando tuttavia il commento musicale o parlato in alcuni momenti, e il montaggio per associazioni nella ricerca di uno stile innovativo e personale. La pau-

6 Il Forum des images di Parigi, come la Cineteca di Bologna, si occupa della con- servazione del materiale cinematografico d’archivio e della produzione di film documentari tramite anche l’uso delle nuove tecnologie. 310 ra a pieno titolo entra nel panorama del documentario di creazione italiano per queste sue caratteristiche di ricerca stilistica e interesse a ritrarre il reale “coniug[ando] lo sguardo etico, capacità di esposizio- ne e istanze espressive” (Pannone p. 37). Il documentario di creazione, l’erede del cinema di Roberto Ros- sellini, , Carlo Lizzani, Francesco Rosi e Pier Paolo Pasoli- ni, ha forse avuto vita difficile anche per l’assenza di una tradizione documentaristica vera e propria, come afferma Adriano Aprà in un suo saggio del 1995.

Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una “terra di nessuno”, senza esperienze e tradizioni alle spalle. Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa strana “assenza” del documentario: da una parte la riluttanza a usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italia- no dai primi anni quaranta ai primi anni ottanta (oggi, almeno nel campo del lungometraggio, la situazione è un po’ diversa, grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e un po’ anche all’ostinazione di alcuni critici isolati); dall’altra l’assorbimento delle pratiche realistiche da parte del cinema di finzione, a cominciare dal neorealismo. (Aprà,Studi 281)

Tuttavia dalla fine degli anni ’90 il documentario italiano ha saputo rinnovarsi, restituendo il suono in presa diretta7 ed eliminando spes- so la voce fuori campo, the voice of god, limitando l’intervista, evi- tando un pretesa superiore oggettività e ricercando linguaggi e stili che rendono il documentario italiano un terreno vitale di sperimenta- zione. È il documentario che, secondo Gianfranco Pannone, ci porta conoscere altre realtà e apre un mondo che si focalizza sull’uomo (Pannone pp. 33-43). La complessità del documentario è dovuta anche dalla definizione stessa del genere. La linea di confine che divide il documentario dal film di narrazione si è assottigliata sempre di più: così come già Fran- cesco Rosi aveva uno stile documentaristico nel suo Salvatore Giulia- no, ora i documentari invece propogono un’ontologia e degli stili che si allontanano molto dalla classica idea del semplice “documentare la

7 Caratteristiche che i documentari di Vittorio DeSeta avevano già dalla fine degli anni ’50 e forse proprio per questa sua capacità innovativa è rimasto ai margini della cinematografia italiana per molti anni. 311 realtà”, e del “basarsi sul principio, opposto a quello della finzione, che ciò che la macchina da presa o la videocamera registra è ‘reale’. È una vecchia storia, che data almeno da Dziga Vertov: ‘la finestra sul mondo’ aperta dai Lumière, posto che fosse ‘oggettiva’ ha subito negli anni una graduale erosione che ha fatto emergere a livello inter- nazionale […] il bisogno di soggettivizzare lo sguardo sulla realtà” (Aprà, L’idea p. 189). Pier Paolo Pasolini stesso in Comizi d’amore (1965) si chiedeva quanto le sue interviste potessero rappresentare la realtà italiana sulla questione sessuale, innanzitutto per uno sponta- neo autoselezionarsi dei suoi intervistati che decidevano volontaria- mente di partecipare alla sua inchiesta e per una scelta di linguaggio che fosse veramente adatto ad esprimere chiaramente le domande e a riprodurre il pensiero dell’interlocutore. Anche nei documentari successivi Pasolini, continuando questa sua riflessione sulla realtà, dedusse che inevitabilmente essa viene interpretata anche dalla forma espressiva con cui viene resa. L’impossibilità di uno sguardo vergine dopo l’accumularsi di immagini e suoni riprodotti ha implicato una riflessione sull’atto stesso del guardare: i documentari diaristici, auto- biografici di narrazione che interrompono l’illusione della realtà del cinema documentario sono sempre più presenti nel panorama italiano. L’attenzione viene spostata “dallo sguardo al montaggio degli sguardi (e dei suoni)” (Aprà, L’idea p. 189). La narrazione e la finzione han- no modificato il documentario italiano rifondandolo su basi nuove che non permettono più una sua distinzione così netta dalla finzione. Come anche Pannone afferma “Ma cos’è reale e cos’è fiction? Anche il documentarista esprime un pensiero, una verità, dunque porta a sin- tesi un punto di vista personale sulla realtà, un’interpretazione che non potrà mai restituirci la realtà oggettiva” (Pannone p. 39). Fin dall’inizio del documentario Pippo Delbono, già regista tea- trale di molti spettacoli di influenza pasoliniana e non solo (La rab- bia. Un omaggio a Pier Paolo Pasolini, 1995), presenta la propria dichiarazione di intenti nell’identificare il punto di vista soggettivo. Il regista riprende la vetrina con i manichini esposti e rivela la propria immagine riflessa. Nessun intenzione naturalista o presunzione di fal- sa oggettività dei mass-media. Egli stesso dichiara nell’intervista: “Io cerco di cogliere la verità ma non come naturalismo. Sono i fram- menti di una storia, mai naturalista. Non mi piace l’intervista. Non è un’indagine sociologica. Sono sempre apparizioni, memoria, sogno, dimensione pittorica” (Delbono, intervista 18/12/09). Il regista inten- 312 de quindi presentarci la propria visione di quello che è diventata l’Ita- lia, “La saturazione visiva della società contemporanea porta il docu- mentarista verso una scelta di carattere qualitativo. […] A distanza di anni risulta più attuale il metodo interattivo di Jean Rouche che quello di auto(re)-annullamento di Leackock” (Perniola pp. 219-220). L’immagine che ne risulta è quella di una Italia nel suo cambiamento antropologico che ci ricorda molto la visione pasoliniana del corpo deturpato e reso simbolo dell’omologazione.

Sia il Vaticano che il Pci hanno dimostrato di aver osserva- to male gli italiani e non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile. [. . .] L’omologazione che ne è derivata riguarda tut- ti: popolo, borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto socia- le è mutato nel senso che si è estremamente unificato. […] I giovani dei campi fascisti, i giovani delle Sam, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni si chiamano e vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tut- to identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Cultu- ralmente, psicologicamente, somaticamente ?ripeto? non c’è niente che li distingua. (Pasolini, Saggi pp. 308–11)

Il corpo come identificativo di una trasformazione avvenuta a causa del consumismo rimane sempre in primo piano. La scelta di un inci- pit che ci presenta, insieme alla prospettiva soggettiva, l’attrazione esercitata dalle vetrine e dai corpi da vetrina ne sottolinea ulterior- mente l’oggettivazione. Il corpo, che viene visto come strumento di oppressione così quanto la macchina industriale alienante, si impone nella lettura della realtà che Delbono propone. L’immagine di automi impegnati agli attrezzi ginnici con ripresa dall’alto ci ricorda Tempi Moderni (Chaplin 1936): le pecore ammassate, allegoria degli operai all’entrata in fabbrica. L’ossessione dell’immagine di un corpo per- fetto si contrappone all’ossessione per il cibo. Il cibo controllato, il cibo negato, il cibo eccessivo della trasmissione sui bambini obesi. Lo sguardo del regista si sofferma sullo schermo della Tv che tra- smette il solito programma che offre consigli, da come curare la gotta al come potare le rose. Lo zoom della camera/cellulare è sulla bocca del medico che vomita consigli, sempre quelli, come da copione a ricordarci quanto l’omologazione investa anche il linguaggio televi- 313 sivo. Meccanicamente le frasi di rito sull’argomento obesità si susse- guono. Il contrappunto del regista consiste nel mettere in primo piano la bocca che, se da una parte rigurgita consigli, dall’altra mima anche l’atto della masticazione. La masticazione diventa per associazione leit-motif. Il suono in presa diretta della continua masticazione del regista accompagna in suoi passi mentre, spostandosi per la città, riprende la realtà circostante. Il cibo, la masticazione sono simbolo di una società che ingurgita tutto, acriticamente: come marionette, per vincere l’obesità o il timore della obesità, ci sottoponiamo all’aliena- zione delle macchine ginniche, o acriticamente divoriamo ogni pro- posta televisiva, quella anche più svilente la dignità umana. Delbono riprende momenti de La Corrida, programma televisivo per dilettanti, commentando in voce over le immagini deliranti dei vari partecipanti, fra i quali un uomo che imita i molteplici versi del caprone, con la Divina Commedia. E sceglie il canto politico del Purgatorio, il IV, con l’incontro tra Dante e Sordello, il quale in un’amara apostrofe definisce l’Italia serva, luogo di dolore e bordello. Il consumismo della merce, il consumare il cibo e il consumare tv come pratica di indigestione sono ricorrenti nel film. L’ossessione per il mangiare non è più pratica primordiale legata alla sopravvivenza, (come anche tanta parte del cinema italiano, soprattutto la commedia, ha presentato), ma diventa invece spreco, esibizione e spettacolo. Il sacrificio legato alla ritualità dello spettacolo televisivo è atto meta- foricamente cannibalico della divorazione dei corpi, quelli dei parte- cipanti agli show. Ma se in Pasolini l’atto cannibalico corrispondeva ad una forma di ribellione in Porcile (1969) o alla sacralità dell’ul- tima cena come nella La ricotta (episodio in Ro.Go.Pa, 1962), nella nostra quotidianità il mangiare ha perso quella forza ed è diventato passivo ingurgitare. Il regista stesso in questo suo percorrere la cit- tà nell’atto della masticazione si propone come metafora del nostro passivo ingurgitare. D’altra parte il corvo intellettuale di Uccellacci e Uccellini (1966), colui che come maestro guidava e accompagnava nel cammino fornendo una interpretazione critica del reale, è già stato divorato (Bazzocchi pp. 57-82). Il documentario denuncia l’agonia culturale italiana. Il corpo perfetto da palestra viene dissacrato dalle immagini del corpo del regista che si espone alla beffa. La ripresa dall’alto evi- denzia le forme non propriamente scultoree di Delbono che si gonfia smisuratamente e gioca con la propria immagine mimando una danza 314 con il proprio addome. Anche in questo momento, la dissacrazione di memoria chapliniana8 della retorica del corpo come potere, viene proposta per sottolineare l’insensata adorazione di un corpo apparen- temente perfetto. Le immagini successive di animali imbalsamati o di scena putrefatti o distrutti, legate alle prime immagini della palestra dallo stesso commento musicale, la colonna sonora di Sergei Proko- fiev Alexander Nevsky, indirizzano la narrazione verso una riflessio- ne sul tema della caducità ed effimerità, del vanitas vanitatis, omnia vanitas, ma non solo. Delbono va oltre la demistificazione per propor- re l’anti-retorica del corpo: si annulla il corpo da copertina attraverso le immagini del corpo nudo di Bobò, vissuto per quarantasei anni rin- chiuso in un manicomio. “È un corpo politico, un corpo dimenticato, un corpo pornografico. Il corpo che rappresenta la problematica dei nostri tempi, dei trans, della moralità, del corpo bandito” (Delbono, intervista 18/12/09). Il montaggio delle immagini gioca un ruolo decisivo nella costru- zione del film che utilizza i piani sequenza nei momenti in cuisi coglie la realtà della città o del campo nomadi di Moncalieri, ma si avvale di un montaggio basato su corrispondenze per commentare, criticare e offrire di nuovo una prospettiva soggettiva del regista. L’interpretazione della realtà viene giocata su diversi piani: dal mon- taggio per associazioni alla Eisenstein, dove chiaramente è il giustap- porsi di immagini a formare una visuale critica della realtà (penso alla giustapposizione dei corpi-automi palestrati in fila e del corpo-indi- viduo che afferma la propria autonomia nel deformarsi fisicamente), al montaggio giocato più sulle corrispondenze sonore e visive (penso alla musica di Prokofiev che collega i corpi perfetti ai corpi putrefatti) in una specie di danza, come Pippo Delbono ha dichiarato nell’inter- vista. A questo proposito, volevo accennare ad una riflessione sullo stato del documentario italiano che mi sembra cambiato dall’ultima pubblicazione sulla teoria del documentario italiano di Marco Ber- tozzi. Nell’articolo molto interessante di Ivelise Perniola che tratta da un punto di vista teoretico dell’ontologia del documentario ita- liano, si afferma, a proposito della voce del documentario, una certa arretratezza del documentario che ancora non si è affrancato dalla voce fuori campo, voce che tende al dogmatismo con un’impronta

8 Penso, fra le altre, alle immagini iniziali di Le luci della città (1931) in cui Cha- plin si avvinghia alla statua appena donata ai cittadini. 315 marcatamente autoritaria. Mi sembra che ultimamente i documentari italiani, e fra questi anche i documentari di Pippo Delbono, ma penso anche a Un’ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo anche le rose (2007) di Alina Marazzi, non propongano più dogmaticamente un testo cari- co di “autoritarismo epistemico” (Perniola p. 223). Il punto di vista è ovviamente presente, ma il commento è lasciato più alle immagini, al montaggio (che tuttavia può comunque rischiare una certa ideologia e dogmatismo, se pensiamo ad un montaggio fortemente caratterizzato dalle concezioni di Eisenstein) o a testi di carattere personale e sog- gettivo, che non hanno la pretesa di autoritarismo. La scelta poi dei suoni acusmatici, nel caso del suono della masticazione del regista, o della lettura del testo dantesco offrono una interpretazione soggettiva che non impone tuttavia una unidirezionalità discorsiva. Il documentario è strutturato sulla componente montaggio senza tralasciare tuttavia anche la componente di osservazione tramite il carrello che, muovendosi per i luoghi, registra una realtà fortemen- te distopica. Ciò che vediamo cogliere dall’occhio del cellulare è la città dello schermo, della televisione, della pubblicità o della pro- paganda dogmatica della chiesa. La televisione e gli schermi sono oggetti onnipresenti. Lo schermo sembra essere diventato la nuova imago Dei da adorare e venerare. Ci ricorda dal punto di vista sce- nografico e tematico Blade Runner (Scott 1982) e il testo da cui il film è tratto, Do Androids Dream of Electric Sheep? (Dick 1968), dove l’omologazione è data dalla produzione massificata segnata dal sopravvento degli elettrodomestici, dalla scatola empatica di Mercer e dagli androidi, che controllano e governano la società del cacciatore di taglie Deckard, una volta caduta qualsiasi ideologia politica e idea di territorialità. La tv assume una dimensione religiosa. La scena in cui viene presentata la investizione degli educatori della diocesi di Milano mi sembra rafforzi ulteriormente non solo l’idea di un pote- re mediatico che governa e determina i nostri comportamenti grazie al fascino che esercita. Come il documentario Videocracy (Gandini 2009), La Paura ci pone di fronte alla consapevolezza di una dittatura televisiva accentratrice, in relazione esclusiva con un pubblico che non si accontenta più di essere tale ma ne vuole essere parte inte- grante, imitando, scimmiottando il modello dell’homo televisivus, fondando la propria identità nel videor ergo sum. L’investizione degli educatori avviene secondo i canoni di un programma televisivo alla Festivalbar. Il ritratto felliniano della chiesa romana nella sfilata di 316 moda di Roma (Fellini 1972) presenta la stessa accattivante capacità di madre ecclesia di trasformarsi in evento spettacolo. Ma vi è anche un chiaro rimando alla capacità della chiesa di sapersi trasformare all’uopo in relazione al contesto sociale in cui è immersa per mante- nere un potere ideologico dogmatico inquietante. Potere ideologico dogmatico ben rappresentato da quello – di nuovo – schermo lumi- noso che sovrasta la piazza in cui, come mantra, si afferma al mondo questa visione assolutamente manichea e fondamentalista del motto “Maybe I’m right and the world is wrong” eliminando anche ogni traccia di dubbio con il “maybe” cancellato dalla croce. L’uso di que- sto specifico segno convenzionale della correzione, a mio avviso, si carica di simbolismo: un ulteriore riferimento, non casuale, che affer- ma la forza della dottrina cristiana.

L’immagine della diocesi di Milano che investe i nuovi edu- catori della loro missione è un evento plateale, come una trasmissione televisiva con il vescovo che ha il ruolo di con- duttore televisivo. La chiesa ha adottato le stesse modalità. Sono tutti uguali, soprattutto in questo paese dove la moda ha la meglio. Anche la chiesa si è adattata alla moda. (Debono, intervista 18/12/09)

Inoltre, l’accostamento delle immagini dell’investizione e della tra- smissione televisiva La Corrida sottolinea ulteriormente per associa- zione la spettacolarizzazione della Chiesa e rende comune ad entram- bi i momenti, questa volta per il tema proposto, il commento della voce over: l’aspra condanna della Chiesa temporale da parte di Dante nel canto VI del Purgatorio. Il cogliere la realtà in modo casuale, così come si presenta all’os- servatore, classifica lo sguardo del regista come “sguardo accidenta- le” (Nichols in Perniola pp. 217-218), pregno tuttavia di una valenza etica nel momento in cui Delbono si sofferma su determinate situazio- ni e accadimenti e soprattutto quando le sei ore di girato, tramite mon- taggio, si trasformano in narrazione critica dell’Italia attuale. Sono solo le immagini a parlare, scarne e nude con il suono in presa diretta quando vengono ripresi i senzatetto e la città con le scritte xenofobe sui muri, scritte che –indici forse di una insufficiente scolarizzazione e cultura– tra il comico e il tragico presentano errori ortografici. L’in- teresse nel cogliere la realtà come pura immagine evitando il com- 317 mento avvicina il cinema di Debono alla concezione di cinema che Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini avevano9. Antonioni esprime la sua predilezione per l’immagine sulla parola, «si vuole semplicemente indicare l’essenza del cinematografo […] nel quale l’immagine ha una posizione preminente rispetto alla parola. […] l’autenticità del cinematografo […] è e rimane prettamente visiva e ritmica» (Antonioni p. 330). Se inizialmente Pasolini interpretava il cinema come ulteriore possibilità linguistica ed espressiva, successi- vamente fu sempre più convinto della inadeguatezza della parola nel poter ritrarre la realtà perché fondata su un sistema arbitrario di sim- boli che in quanto tali non erano la realtà, ma rimandavano ad essa. Nel cinema invece la realtà è presenza.

Esprimendomi attraverso la lingua del cinema – che altro non è, ripeto, che il momento scritto della lingua della realtà – io resto sempre nell’ambito della realtà: non interrompo la sua continuità attraverso l’adozione di quel sistema simbolico e arbitrario che è il sistema dei linsegni. Che per «riprodurre la realtà attraverso la sua evocazione», deve per forza interrom- perla. (Pasolini, Empirismo p. 229)

Delbono, infatti, afferma:

Con cinema c’è la possibilità vera di osservare le cose. Nel cinema c’è l’idea del viaggio: viaggio verso il fuori e verso il dentro, entrare come sonda nell’animo umano, il lasciarsi guardare dentro attraverso il primo piano, un gesto… Lo spa- zio del teatro è più verso l’esterno. Con il cinema si ritrae il grande paesaggio (ciò che ci circonda) e il piccolo paesaggio (noi stessi). (Delbono, intervista 18/12/2009)

Il viaggio è un tema comune ai suoi precedenti film, in particolare a Grido (2006), film poetico sull’incontro fra Delbono e Bobò, sul viaggio di due persone che si trovano e, citando dal film, «salvano e vengono salvate» in un reciproco scambio di amore e condivisio- ne. Interessante è l’uso del carrello in questa occasione. Il viaggio interiore viene rappresentato anche dal viaggio a Napoli, città che ha

9 Pippo Delbono nell’intervista dichiara la sua predilezione per Pasolini e Anto- nioni tra i registi che hanno contribuito alla sua formazione (Delbono, intervista 18/12/09). 318 significato molto per il regista dal punto di vista della propria cresci- ta. Le immagini colte dall’autobus turistico in cui si ritrae la solita Napoli si differenziano enormemente dalla immagini girate in vespa, alla scoperta di luoghi altri, allegoria dei luoghi interiori. Non è la Napoli da cartolina, ma una Napoli del viaggio interiore. Così come l’Italia de La paura è il luogo della scoperta anche della propria paura soggettiva, di come l’Italia si è trasformata10. Dallo sguardo accidentale che porta il regista a cogliere scorci di realtà nel suo vagare per l’Italia, si passa ad uno “sguardo interven- tivo” (Nichols in Perniola pp. 217-218) e allo stesso tempo umano quando Delbono si reca al funerale di Abdul Guiebre, il ragazzo ucci- so per aver rubato una scatola di biscotti. Parlo di sguardo interven- tivo perché questo è l’unico momento in cui la voce del regista si fa sentire chiaramente contro l’indifferenza delle istituzioni e anche dei partiti di sinistra, mostrando tutta la sua indignazione. In questo fran- gente il cellulare si rivela strumento privilegiato di un incontro con i volti dei presenti al funerale che probabilmente la macchina da presa, o anche la telecamera digitale, non avrebbe permesso. Come afferma Delbono nell’intervista, la scelta del cellulare risulta fondamentale nel riuscire ad incontrare lo sguardo dell’altro. Il potere della nuova tecnologia digitale sta proprio in questo essere in grado di cogliere la realtà nell’evento non programmato e nella possibilità di mettersi in relazione in modo più facilitato con gli altri, nel dialogo con l’altro o semplicemente nell’osservazione non interventiva. Certamente la tecnologia digitale non supplisce la mancanza di idée, come critica Silvano Agosti in una intervista a proposito delle nuove tecnologie (Agosti). Allo stesso modo, i film indipendenti possono essere girati

10 A questo proposito, il dibattito sul rapporto tra luogo e cinema è ancora attuale. Sono trascorsi più di sessantanni da Paisà (Rossellini 1946) e il girare in luo- ghi altri che non siano studi o le solite locations di Roma che rendono l’Italia immagine da cartolina è ancora atto anticonvenzionale di ribellione che vuole dimostrare una certa filosofia di fare cinema. «Basta vedere le locations che scel- gono per girare i loro film (il regista fa riferimento a Ferzan Özpetek e Cristina Comencini n.d.r.). Non sanno che cosa è l’Italia. Sono girati in quattro angoli di Roma. Poi vedi un film girato a Scampia e allora dici, ma l’Italia non è solo quella dei quattro angoli. Anche Sorrentino ha girato a Roma Il Divo, ma la Roma di Sorrentino è completamente diversa da quella ‘da cartolina” che è la loro. […] è un discorso politico: l’idea che attraverso un certo tipo di film passa una certa visione della realtà e del mondo». Dall’intervista di Dario Zonta al regista indi- pendente Daniele Gaglianone (Gaglianone p. 79) 319 anche senza questo tipo di apparato tecnico che Carlo Lizzani vede invece come in parte risolutivo per sostenere la produzione di film a budget limitato (Assante). Tuttavia, rimane il fatto che il digitale rende l’accesso al mezzo filmico democratico, realizzando più facil- mente la filosofia del “pedinamento” alla Cesare Zavattini. Il documentario si conclude con le immagini di Bobò che, nudo, fa la doccia e con le parole del regista: «vorrei essere analfabeta come Bobò, che come il lupo, anche se lo addomestichi, guarda sempre verso la foresta». Il commento in voce over del regista ci rende par- tecipi di nuovo della sua paura. Il contesto sociale italiano pare fon- darsi su un sistema di valori che celebra una solidarietà di comodo, ad esempio quella nei confronti degli animali domestici, espressa dalla registrazione del programma televisivo Pongo e Peggy: gli animali del cuore, mentre dimentica le condizioni di vita dei campi nomadi e le leggi proposte dalla Lega per la raccolta delle impronte digitali dei popoli Rom e Sinti. Il desiderio di analfabetizzazione è chiara protesta nei confronti di quel sistema mediatico che ha svilito e detur- pato il linguaggio, sproporzionato rispetto al contenuto che esprime e specchio di superficialità e arroganza. Nella chiosa finale inoltre si riassume la dichiarazione di intenti del regista: lo sguardo critico e l’impegno di un cinema politico.

Bibliografia

Agosti, Silvano, Intervista a Silvano Agosti sul cinema digitale, http:// www.youtube.com/watch?v=s9nNfelmzMU. Antonioni, Michelangelo, La vita impossibile del Signor Clark Costa, «Cinema», 19, 10/11/40, pp. 328-330. Aprà, Adriano, Itinerario personale nel documentario italiano, in Studi su dodici documentari d’autore in cortometraggio, a cura di Lino Miccichè, Torino, Associazione Philip Morris – Progetto Cinema/Lindau, 1995, pp. 281-295. —, La rifondazione del documentario italiano, in L’idea documen- taria: altri sguardi dal cinema italiano, a cura di Marco Bertozzi, Torino, Lindau, 2003, pp. 187-192. Assante, Ernesto, Lizzani, film in due set virtuali lo spettacolo diven- ta globale, «La Repubblica», 15/10/2007, http://www.repubblica. it/2007/10/sezioni/spettacoli_e_cultura/cinema/roma/lizzani-glo- 320

bal/lizzani-global/lizzani-global.html?ref=search. Bazzocchi, Marco Antonio, I burattini filosofi: Pasolini dalla lettera- tura al cinema, Milano, B. Mondadori, 2007. Cannizzaro, Piero, La luce in galleria, in L’idea documentaria: altri sguardi dal cinema italiano, a cura di Marco Bertozzi, Torino, Lindau, 2003, pp. 353-363. Chaplin, Charlie, City Lights/ Luci della città, United Artists, 1931. —, Modern Times/Tempi moderni, United Artists, 1936. Ciotta, Mariuccia, Quanto ci costa il , «Il Manife- sto», 25/12/2009, http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/ anno/2009/mese/12/articolo/2056/. Delbono, Pippo, Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, Terza edizione, Milano, Ubulibri, 2003. —, regista, Il grido, Compagnia Pippo Delbono, 2006. —, Racconti di giugno, Garzanti, 2008. —, regista, La paura, Compagnia Pippo Delbono, Forum des images, 2009. —, Intervista rilasciata a Bergonzoni Maura il 18/12/2009. —, Newsletter Mensile Cineteca, n. 322, 22/02/10. De Seta, Vittorio, Il mondo perduto, Cineteca di Bologna, 2008. Dick, Philip K., Do Androids Dream of Electric Sheep?, New York, New American Library, 1969, c1968. Fellini, Federico, regista, Roma, Turi Vasile produttore, 1972. Gaglianone, Daniele, Cinema vivo. Quindici registi a confronto, A cura di Emiliano Morreale e Dario Zonta, Edizioni dell’Asino, 2009, pp. 75-92. Gandini, Erik, regista, Videocracy, Atmo Media Network, 2009. Grosoli, Fabrizio, Doc in Tv. L’esperienza Tele+, in L’idea documen- taria: altri sguardi dal cinema italiano, a cura di Marco Bertozzi, Torino, Lindau, 2003, pp. 346-352. Marazzi, Alina, regista, Un’ora sola ti vorrei, Bartlebyfilm, RTSL Televisione Svizzera, TELE+, 2002, pp. 141-159. —, Regista, Vogliamo anche le rose, MIR Cinematografica, RAI CINEMA, 2007. —, Cinema vivo. Quindici registi a confronto, a cura di Emiliano Morreale e Dario Zonta, Edizioni dell’Asino, 2009. Mereghetti, Paolo, Natale a Beverly Hills è un film d’essai. O almeno così lo riconosce la legge, «Il Corriere della Sera», 23/12/2009, http://www.corriere.it/spettacoli/09_dicembre_23/Natale-a- 321

Beverly-Hills-paolo-mereghetti_3d8e43f4-ef9a-11de-b696- 00144f02aabc.shtml. Pannone, Gianfranco, Sono diverso ma sono uguale. (La natura ambigua del documentario), in L’idea documentaria: altri sguar- di dal cinema italiano, a cura di Marco Bertozzi, Torino, Lindau, 2003, pp. 33-43. Pasolini, Pier Paolo, regista, La ricotta, Episodio in Ro.Go.Pa., Arco Film, 1963. —, regista, Comizi d’amore, Arco Film, 1965. —, regista, Porcile, New Line Cinema, 1969. —, Empirismo eretico, II Edizione, Aldo Garzanti Editore, 1981. —, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1999. Perniola, Ivelise, Il cinema dicotomico in L’idea documentaria: altri sguardi dal cinema italiano, a cura di Marco Bertozzi, Torino, Lindau, 2003, pp. 215-229. Scott, Ridley, regista, Blade Runner, Warner Bros Pictures, 1982. Zanasi, Gianni, Cinema Vivo. Quindici registi a confronto, a cura di Emiliano Morreale e Dario Zonta, Edizioni dell’Asino, 2009, pp. 263-276. 322 323 Flavia Brizio-Skov

Esiste un nuovo cinema politico italiano oggi?

Premessa teorica

Esiste un nuovo cinema politico italiano oggi? Per rispondere a que- sta domanda bisogna innanzitutto chiedersi che cosa s’intenda per cinema politico. Di solito per la definizione classica di cinema poli- tico ci si rifà ad André Bazin che, nel suo famoso saggio, Che cosa è il cinema?, analizzando le caratteristiche del cinema neorealista ita- liano, è stato uno dei primi ad affermare che i film di Rossellini, De Sica, Visconti, ecc. manifestano il rifiuto di una società ingiusta ma, invece di immergere i fatti e i personaggi di cui si racconta in una narrativa a tesi, predisposta e quindi strumentalizzata al fine di tra- smettere un certo messaggio politico-sociale, questi registi lasciano libero lo spettatore di ricostruire il messaggio politico a posteriori. Il film neorealista non fornisce messaggi, o risposte, secondo Bazin, bensì costringe il lettore a interrogarsi sul “reale”. Lo spettatore non viene pedagogicamente istruito dall’alto, ma diventa attivo artefice della produzione del significato politico1. L’altro esempio di cinema politico, spesso citato, è quello del dopo-sessantotto, un cinema impegnato che si considerava parte vitale del progetto di trasformazione socio-politica del Paese. Un cinema che si opponeva a uno Stato poco garantista che esercitava la censura, difendeva il grande capitale e manteneva la televisione sotto stretto controllo. Era un “fare cinema” (come si usava scrivere allora) che credeva in un possibile cambiamento della società, in un futuro in cui le cose sarebbero cambiate per il meglio, in altre parole era un “cinema militante”2. Purtroppo le cose da allora sono cambia-

1 André Bazin, What is Cinema?, Berkeley, CA, University of California Press, 1994, pp. 13-60. 2 Sylvia Harvey, May ’68 and Film Culture, London, BFI Publishing, 1980, pp. 3-33. 324 te: è innegabile che oggi sopravviva un territorio del dissenso, ma si presenta spezzettato, atomizzato. Inoltre, secondo il critico francese Jeanpierre Jeancolas, il cinema ha perso la sua funzione pedagogi- ca, non ci si può più avvicinare alla realtà con preesistenti valori ideologico-politici la cui validità viene dimostrata dalla storia sullo schermo: il tempo dei programmi di partito è finito3. Quando si parla di cinema politico oggi bisogna, intanto, pren- dere le distanze non tanto dalla definizione di Bazin, che per molti versi, come vedremo in seguito, è tuttora valida, bensì dal concetto di cinema politico post-sessantotto. Oggi il cinema politico, collocan- dosi all’interno della massiccia sconfitta della Sinistra storica, ope- ra in un contesto molto diverso da quello degli anni intorno al ’68, ragion per cui deve assumere forme diverse e deve essere giudicato secondo altri parametri. Il nuovo cinema politico, come suggerisce O’Shaughnessy, si colloca nella zona intermedia tra le politiche di ieri e quelle di domani, in uno spazio in cui la lotta e la solidarietà di classe è sparita, la classe lavoratrice è stata smantellata, la grande narrativa di emancipazione della Sinistra crollata, e il neo-capitali- smo ha trionfato4. Si è assistito negli ultimi anni al collasso del Partito Comunista e al declino della forza carismatica e contrattuale dei sindacati, mentre il capitalismo si è re-inventato attraverso la tecnologia, le multina- zionali e la globalizzazione. Solidarietà e lotta di classe sono espres- sioni dalla semantica obsoleta. De resto Badiou sostiene che la nar- rativa storica di emancipazione (quella della Sinistra marxista) non può più spiegare la situazione sociale contemporanea, le masse non si riconoscono più come soggetti politici capaci di emancipazione attraverso la lotta, ma come individui isolati che sono personalmente responsabili della loro emarginazione sociale. Il forte immaginario della Sinistra che in passato ha dato significato e direzione alle lotte operaie, e portato alla luce l’oppressione delle masse, oggi non è più concepibile5. L’opposizione al capitale attraverso un’unica coerente struttura – l’unica che secondo Gramsci potesse dare coerenza e forza

3 Si veda l’articolo di Jeanpierre Jeancolas sul cinema politico apparso su Positif (434: 56-8). 4 Martin O’Shaughnessy, The New Face of Political Cinema-Commitment in French Film since 1995, Oxford, Berghahn Books, 2007, pp. 1-34. 5 Si veda Badiou, Balibar, Rancière- Re-Thinking Emancipation by Nick Hewlett , London, Continuum, 2007, pp. 1-81. 325 alla lotta contro l’egemonia –, oggi non è più concepibile in quanto il paradigma marxista, che univa il locale al nazionale-internazionale, si è sfaldato. Oggi l’offuscamento delle classi sociali, l’uso della vio- lenza senza il suo incorporamento in un programma di emancipazio- ne, l’emergere di movimenti sociali vivi, ma staccati dalle istituzioni politiche, ci pone davanti a una società frammentata6. Recentemente però il successo di pubblico e di critica di molti documentari, negli Stati Uniti quelli di Michael Moore, nell’ambi- to italiano Videocracy (2009) di Erik Gandini, Draquila (2010) di Sabina Guzzanti e Fratelli d’Italia (2009) di Claudio Giovanne- si sottolineano un rinato interesse per il “reale”7. Mentre il docu- mentario impegnato cerca di scoprire le operazioni dei potenti, e di documentarne l’opposizione (globalizzazione e anti-globalizzazio- ne, fast-food e slow-food ecc.), il cinema politico invece, secondo O’Shaughnessy, deve concentrarsi su coloro che sono vittime degli effetti dell’economia globale, ma sono staccati dai circuiti del potere. Nonostante le interessantissime tesi del critico inglese che costitui- scano l’ossatura critica del presente saggio, ci pare che questa sua

6 Cfr. Jason Barker, Alain Badiou-A Critical Introduction, London, Pluto Press, 2002, pp. 83-149. 7 Esistono molti documentari politici di notevole interesse, si vedano, per esem- pio, Super Size Me di Morgan Spurlock (USA, 2004) sull’influenza venefica del fast food sulla salute; Food, Inc. (USA, 2008) di Robert Kenner sugli abusi dell’industria alimentare americana; An Inconvenient Truth (USA, 2006) sul glob- al warming e Waiting For ‘Superman’ (USA, 2010) sui problemi dell’educazione, entrambi di David Guggenheim; Inside Job (USA, 2010) di Charles Ferguson sulle cause della crisi finanziaria americana; No End in Sight (USA, 2007) sul- la condotta dell’amministrazione Bush e la guerra in Iraq; The End of the Line (UK, 2009) di Rupert Murray sul rischio dell’estinzione entro il 2048 di molti speci ittiche a causa di metodologie peschive scriteriate; The Cove (USA, 2009) sullo sterminio dei delfini da parte dei Giapponesi; Black Gold (USA, 2006) sull’industria globale del caffé; Bananas!* (Sweden, 2009) di Fredrik Gertten sulla causa dei lavoratori delle banane nicaraguensi contro il gigante multinazi- onale Dole Food; e naturalmente i documentari di Michael Moore: Capitalism: A Love Story (2009), Sicko (2007), Fahrenheit 9/11 (2004), Bowling for Columbine (2002), and Roger & Me (1989), rispettivamente su Wall Street e il suo impa- tto sul governo americano a scapito della democrazia, sui servizi mutualistici americani (HMO) e quelli, statalizzati e migliori di altri paesi, sulla strumentaliz- zazione dell’attentato del 9 Settembre da parte dell’amministrazione Bush a fini militari, sulle stragi di civili ad opera di civili e sulle armi da fuoco nella società americana, e sulla chiusura della fabbrica di Flint, Michigan, da parte della Gen- eral Motors e della conseguente perdita di lavoro di 30.000 persone. 326 affermazione limiti un po’ troppo l’area del cinema politico. Se è senza dubbio vero quello che egli afferma, ciononostante a noi sem- bra che gli effetti nefasti della globalizzazione possano essere osser- vati non solo negli strati altamente disastrati della nostra società, ma in tutto lo spettro sociale. Prima di passare ad esaminare alcuni esempi di nuovo cinema politico italiano, tuttavia, è d’uopo citare un’ulteriore definizione di cinema politico che non possiamo tralasciare in quanto ci aiuta a con- solidare ulteriormente la nostra tesi, aiutandoci a capire quello che questo cinema non è. Secondo i critici di Cahiers du Cinema bisogna fare una distinzione all’interno del cinema politico tra i film che sem- brano politici o si proclamano tali, ma non lo sono, e quelli che lo sono veramente. I primi sono film che hanno un contenuto progressi- sta, ad esempio parlano di uno sciopero o di una repressione di stato, ma diluiscono la dimensione politica concentrandosi sul dramma dei personaggi, e in pratica riproducono sullo schermo quello che il letto- re già sa, lo status quo. Questi film non problematizzano il reale bensì raccontano al lettore quello che lui già conosce. Mentre i falsi film politici ci restituiscono il “familiare”, creando un “realismo immo- bile”, il vero cinema politico destabilizza quello che noi pensiamo di sapere8. O’Shaughnessy, citando il critico di Cahiers du Cinema, Jean-Pierre Garnier, scrive che i registi piccolo-borghesi portano lo sfruttamento, il razzismo, la violenza urbana e le classi sociali sullo schermo, ma solo al fine di de-politicizzare il tutto. La lotta di classe viene dissolta in una critica a formula della borghesia, ci si concentra sulle emozioni dei personaggi, le vere cause della disoccupazione, per esempio, si ignorano e le questioni sociali si trasformano in fatti personali.

Una volta stabilito che il nuovo cinema politico è un cinema che si occupa del “reale”, secondo la definizione di Bazin e degli altri critici citati, ci troviamo di fronte ad un ulteriore problema. Il “rea- lismo”, cioè la riproduzione della realtà in letteratura o cinema è ovviamente un’impossibilità, l’abisso ontologico tra la realtà feno- menica e l’arte che la ricrea è, come rileva Cassirer, incolmabile. Ne consegue che quando parliamo di realismo nell’ambito del cinema

8 Jean-Pierre Garnier, Le social sans le politique in «L’Homme et la Societè», 142 (2001), pp. 65-89. 327 ci riferiamo soprattutto a “strategie narrative” e, pur tenendo pre- sente che il contenuto deve aver a che fare con la realtà sociale, qui si parla del modo in cui i mezzi tecnici del cinema possano “rico- struire la realtà”. Nel cinema politico le caratteristiche del realismo da noi men- zionate sono basicamente quelle teorizzate dal neorealismo e ormai diventate parte del linguaggio del cinema mondiale. Il cinema neo- realista/realista deve usare attori non-professionisti e nel caso ricorra ad attori professionisti, questi dovrebbero avere parti che contrastano con la loro persona cinematografica. Si veda come esempio clas- sico Anna Magnani e Aldo Fabrizi che, pur essendo attori comici del varietà e della commedia (Avanti c’è posto, 1942; Campo de’ fiori, 1943), assumono ruoli drammatico-tragici in Roma Città Aperta (1945) di Roberto Rossellini. Inoltre, questo tipo di cinema predilige gli esterni e la luce naturale perché, come insegnava De Sica, bisogna mettere la cinepresa nel mezzo del flusso della vita, nelle strade, nelle caserme, nelle stazioni… e filmare quello che fa inorridire i nostri occhi. Insomma, le regole dettate dal neorealismo sono, come sottolinea Bazin, “una trionfale evoluzione del linguag- gio cinematografico”9. Oggi si parla di cinema politico quando il film aspira a creare un’oggettività quasi documentaristica, mostra preferenza per i campi lunghi e medi con profondità di campo (alla Nanook, per intenderci), segue con la stadycam il personaggio stan- dogli addosso e pedinandolo, quasi ‘asfisiandolo’ zavattiniamente, ed esegue le riprese negli ambienti in cui gli eventi della storia nar- rata sarebbero dovuti accadere (si vedano, per esempio, i primi film di Lars von Trier, quelli del gruppo DOGMA 95 e quelli dei fratelli Dardenne come Rosetta, L’enfant). Sovente questo cinema realista-politico evita anche l’happy end del cinema hollywoodiano, preferendo una finale aperto, concetto che Umberto Eco aveva già da tempo teorizzato nei riguardi dell’opera narrativa.10 Infine, questo tipo di cinema dovrebbe cercare di far coin- cide, almeno secondo gli esempi francesi, la durata della storia narra- ta sullo schermo con la durata degli eventi rappresentati, rifuggendo, per esempio, dall’uso del flash back. Nel cinema neorealista i personaggi delle storie erano come dei

9 André Bazin, op. cit., pp. 9-30. 10 Cfr. Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962. 328 topi da laboratorio intrappolati in un labirinto apparentemente gover- nato dal caso. De Sica, per esempio, costruisce la storia di Ladri di Biciclette come se le avventure di padre e figlio fossero governate da un fato avverso, quindi il suo film, anche se tecnicamente frutto di un lavoro meticolosissimo come sappiamo dalle interviste, crea nel- lo spettatore l’illusione che tutto succeda per caso. Come suggerisce acutamente Bazin, lo spettatore che esce dalla sala cinematografica dopo aver visto Ladri di biciclette non arriva alla conclusione che in questo mondo ci siano, purtroppo, dei ladri di biciclette, ma è convin- to che in una società che si rispetti non ci dovrebbe essere un livello disoccupazione tale che la perdita di una bicicletta si trasformi in tra- gedia per una famiglia. Se Ladri di biciclette fosse stato un prodotto di Hollywood a metà della storia sarebbe arrivato un poliziotto buono e super dotato alla Schwarzenegger che avrebbe arrestato i cattivi e restituito la bicicletta al protagonista (Ricci), cosicché il film si sareb- be concluso con padre, madre e figlio che felici e sorridenti brindava- no con panettone e spumante. Lo spettatore poteva quindi tornarsene a casa contento con la coscienza tranquilla perché tutto si era risolto per il meglio e con la certezza che in “questo mondo” le cose funzio- navano come dovevano. Questo sarebbe, a nostro avviso, un esempio di falso film politico. In un film di propaganda politica come quelli del realismo sovietico, costruiti secondo la teoria del rispecchiamen- to di Lukács, le cose invece sarebbero andate diversamente11. In tale film il nostro eroe, Ricci, non avrebbe ritrovato la bicicletta, avrebbe cercato di rubarne una, ma mentre fuggiva, sarebbe stato ammazzato dalla polizia. Il film si sarebbe concluso con suo figlio che si avviava piangente e solo in mezzo a una strada, intrappolato senza speran- za nel circolo vizioso della povertà e dell’abiezione causato da una società ingiusta. Questo sarebbe ovviamente un esempio di film a tesi. De Sica per fortuna nostra, non ha seguito nessuna delle suddette alternative, il suo protagonista perde la bicicletta e quasi sicuramente perderà il lavoro, ma la tesi sociale emerge a posteriori nella mente del lettore dopo aver assistito al dramma morale, psicologico ed emo- tivo dei due protagonisti. Alla fine del film, infatti, padre e figlio si allontanano mano nella mano senza bicicletta, ma con un rinnovato patto di solidarietà umana tra di loro più stabile di prima, cosa che naturalmente scatenerà una forte reazione emotiva nello spettatore

11 Cfr. György Lukàcs, Saggi sul Realismo, Torino, Einaudi, 1950, pp. 7-34. 329 che al colmo dell’indignazione si domanderà come sia possibile che esistano tali ingiustizie sociali12. Questa disquisizione su Ladri di Biciclette ci serve per sottoline- are che oppressione, povertà, crimine, disoccupazione ecc. ovvero i temi del neorealismo, sono tuttora parte della tematica dell’attuale cinema politico. A questo punto però è doveroso fare una distinzio- ne. O’Saughnessy nel suo illuminante libro The New Face of Poli- tical Cinema (2007) si occupa di cinema francese, e i film che cita come esempi del nuovo cinema politico sono tutti prodotti che trat- tano di temi molto simili a quelli del neorealismo: le banlieue – le zone industriali francesi dove un tempo prosperava una combattiva classe operaia ora diventate zone di rovina, droga, degrado – l’im- migrazione clandestina, i problemi d’integrazione razziale, l’emar- ginazione, la disoccupazione, il lavoro in nero, i sans-papiers ecc. Indubbiamente esiste un gruppo di registi in Francia e Belgio che hanno costruito un nuovo cinema politico trattando queste temati- che, tuttavia, dovendo considerare l’attuale cinema politico italiano dobbiamo fare delle distinzioni.13 Per prima cosa l’Italia vive una situazione diversa dalla Francia sia socialmente che politicamente, inoltre pensiamo che il nuovo cinema politico non debba necessa- riamente parlare solo dei temi cari al neorealismo o al cinema poli- tico francese. “Politico” è un aggettivo che incorpora il personale e il pubblico, perché il personale è condizionato profondamente dal pubblico come hanno insegnato le teorie femministe, e se vogliamo scegliere come comune denominatore del cinema politico di ieri e di oggi il binomio oppressione/ingiustizia, dobbiamo allargare le coordinate del “reale”14. Nel panorama del cinema italiano, esistono molti film politici che però si allontanano dai parametri di cinema impegnato alla vecchia maniera e sono politici in una maniera nuova, pur ricadendo perfet-

12 Si veda anche per un discorso più ampio sul neoarealismo, Italian Neorealism di Mark Shiel, London, Wallflower, 2006, pp. 17-95. 13 I film che O’shaughnessy tratta sono quelli di Jean-Pierre and Luc Dardenne (La Promesse ’97, Rosetta ‘99, Le Fils 2002, L’Enfant 2004), Reprise di Harvé Le Roux, Robert Guédiguian (Marius and Jeanette ’96); i film di Beauvois, Jolovet, Siri, Kassovitz (La Haine ’95), Richet, Zonca (La Vie rêvée des anges, ‘97), Lae- titia Masson, Poirier, Vincent, Dumont, Cabrera ecc. 14 Cfr. Bernadette Luciano e Susanna Scarparo in The Personal is still Political: Films ’by and for Women’ by the New Documentariste in «Italica» Vol. 87, n. 3 (2010), pp. 488-503. 330 tamente nell’”estetica del frammento” teorizzata da O’Shaughnessy. Oggi si vive in una società dello spettacolo, dominata dal consumi- smo e dalla mercificazione, una società globale e frammentata. La vecchia classe lavoratrice fautrice della resistenza collettiva e delle trasformazioni sociali è relegata al passato. Oggi il cinema politico può solo registrare la sconfitta e vedere tra i relitti di questo affonda- mento se ci sia qualcosa da salvare. Ne consegue che questo nuovo cinema politico è condannato a registrare “frammenti di speranza, favole del possibile, piccole narrative di resistenza, atti isolati di lotta individuale, momenti di solidarietà circoscritta”15.

Esempio 1: Mio fratello è figlio unico

Prendiamo un film comeMio fratello è figlio unico (2007) di Daniele Luchetti16. Il film non parla di diseredati né di zone disastrate del- la società, ma narra la storia di una famiglia operaio-cattolica dal 1962 al 1975, ovvero dal boom economico agli anni del terrorismo, e riscrive la storia dell’Italia attraverso i due protagonisti del film, Manrico e Accio, due fratelli che partecipano in campi avversi, uno militando nella sinistra e l’altro nel partito missino, agli eventi poli- tici del Paese, dalle lotte del ’68 al terrorismo degli anni Settanta. Il film non segue i dettami del neorealismo, vi sono attori profes- sionisti, è girato in interni ricostruiti in studio, non usa nessuna tec- nica documentaristica (come cinepresa mobile, colori naturalistici ecc.), ma è filmato come un dramma tradizionale. Tuttavia, ci pare sia esemplare, giacché esibisce molte delle caratteristiche del nuovo cinema politico. Innanzitutto, ricordiamo che la ribellione che vie- ne rappresentata in molti film recenti italiani può essere apprezzata solo se la si considera all’interno della perdita di una cornice politica generale della Sinistra, una cornice che un tempo esisteva e all’in- terno della quale si poteva dare significato e direzione a tutte le lotte incanalandole in una prospettiva di giustizia futura. Tuttavia, dopo lo smantellamento della classe operaia, della lotta collettiva e la fine della visibilità socio-politica delle classi lavoratrici, nella frammen-

15 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 57. 16 Il film esce nel 2007, la sceneggiatura è di Sandro Petraglia, Stefano Rullie Daniele Luchetti, tratto molto liberamente dal romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi del 2003 (Mondadori). 331 tazione sociale attuale, le lotte sociali e le ribellioni possono essere solo di natura locale17. A dimostrare questo sta il fatto che nel cinema politico italiano attuale abbondano i film in cui individui o piccoli gruppi fronteg- giano l’impatto della disintegrazione sociale e l’oppressione econo- mica con poche se non nulle risorse simboliche su cui contare. Se si guarda al cinema attuale in quest’ottica i film politici sono numero- si, si pensi, per citarne solo alcuni, a Il posto dell’anima (2003, Ric- cardo Milani), La febbre (2005, Alessandro D’Alatri), Tutta la vita davanti (2008, Paolo Virzì), La nostra vita (2010, Daniele Luchet- ti), ecc. La ribellione violenta o meno non fa più parte di un’ottica di emancipazione generale, la ribellione esiste solo all’interno di una prospettiva di emancipazione locale. La lotta di oggi nel cinema politico quindi può essere rappresentata solo frammentariamente, per questa ragione molti film politici italiani, se giudicati secondo il modello d’impegno tipico del passato non sembrano film militanti. Mio Fratello è un testo esemplare, in quanto registra il disfacimento della Sinistra dopo il ’68, mostrando come essa abbia perso forza e la frangia estremista si sia dispersa nella lotta armata underground, ottenendo come risultato quello di farsi sopprimere dagli appara- ti repressivi dello stato senza riuscire a ottenere nessun risultato sociale tangibile. Nel film, infatti, Manrico, divenuto terrorista vie- ne freddato dalla polizia. Mio fratello non potrebbe essere collocato facilmente nella scu- deria di film che O’Shaughnessy considera politici, perché qui non navighiamo nelle zone altamente disastrate della società, la famiglia protagonista del film non appartiene alla classe operaia militante, ma a quel proletariato operaio che per decenni ha mantenuto al potere la Democrazia Cristiana. Nella famiglia Benassi il padre, operaio in fab- brica, è un fervente e obbediente cattolico che passa tutto il suo poco tempo libero in parrocchia; la madre, casalinga, si arrangia col lavoro a maglia in casa per sfamare i tre figli; tutti quanti vivono in una dimora fatiscente che nel corso del film diventa pericolante, ma non possono permettersi di trasferirsi per mancanza di mezzi. Nonostante questo, sia padre che madre accettano la loro condizione di “poveri” con rassegnazione. I genitori sono rappresentativi di una larga parte della classe lavoratrice italiana, conservatrice, cattolica, sottomes-

17 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 46. 332 sa, che passa dal fascismo alla Democrazia Cristiana senza in realtà cambiare di molto la propria ideologia. Una classe lavoratrice che si sciocca quando scoppia nel ’68 la ribellione dei figli, disapprovando sia l’attivismo politico fascista di Accio sia quello sinistrorso di Man- rico, e scandalizzandosi ancora di più per la ribellione femminista e sessuale della figlia. Nell’Italia dei primi anni Sessanta i Benassi rappresentano una famiglia operaia di lavoratori timorati di Dio che si sacrificano per mandare a scuola i figli. Non dimentichiamo che se è esistita una classe operaia attiva e combattiva nel passato, in Ita- lia è sempre esistito uno zoccolo duro cattolico e conservatore anche all’interno del proletariato. Esaminando Mio fratello, inoltre, notiamo che il protagonista prin- cipale, Accio, dopo essere stato disilluso dall’ipocrisia della Destra e non essere riuscito neppure a entrare nell’ottica della Sinistra, decide di rifugiarsi nel latino. Accio diventa un latinista perché, amando la verità e cercandola in un mondo che non può dargliela, finisce col rifugiarsi nell’erudizione (appunto le traduzioni dal latino). Il giova- ne si diletta con una lingua “morta” dalle regole fisse, le sue tradu- zioni sono sintomo del bisogno di fuga dalla confusione del mondo ipocrita, falso e violento in cui vive. La purezza d’animo di Accio è sottolineata anche dall’incipit del film quando abbandona il semina- rio, riconoscendo nella sua incapacità di astenersi da “atti impuri” l’impossibilità di una vita religiosa sincera, causando non poco disap- punto nei genitori cattolico-conservatori per i quali un figlio prete “fa sempre comodo”. Alla fine del film, Accio, tornato a casa dopo aver assistito alla morte del fratello ucciso dalla polizia, ormai consapevole del fatto che la rivoluzione non si farà, compie il vero atto rivoluzionario del- la storia. Stanco di vivere in una casa pericolante, si ribella e deci- de di risolvere il problema delle case popolari non assegnate dalle autorità competenti né alla sua famiglia né a tante altre famiglie di lavoratori come la sua; quelli che sul fascicolo dell’Ufficio Case Popolari sono bollati come “Ultimi”. Accio opera un atto di soli- darietà collettivo, locale e circoscritto, un atto di resistenza isolato che richiama e ricorda una solidarietà altra, ovvero la solidarietà di massa del tempo passato. Di fronte alla sconfitta del progetto rivo- luzionario del fratello – ricordiamo che Accio nel bar pochi minuti prima dell’arrivo della polizia, chiede a Manrico: «Ma allora, la fate ’sta rivoluzione o no?», domanda che rimane senza risposta per via 333 dell’arrivo della polizia e della conseguente sparatoria – Accio non si arrende, ma agisce. Mentre la lotta di Manrico appare come un atto elitista, minoritario, e fondamentalmente inutile, Accio col suo atto rivoluzionario, utile e comunitario sembra riesumare una lotta sociale di antico stampo. Accio testimone della sconfitta della drammaturgia di sinistra del dopo ’68, conscio della fine del progetto estremista avvenuta con l’eliminazione fisica degli elementi più radicali come il fratello, arriva alla conclusione che lottare è possibile e necessario e che l’isolamen- to degli “Ultimi” non è inevitabile. Il giovane entra di notte nell’uffi- cio delle case popolari, spacca la serratura, si impossessa delle chiavi delle case finite di costruire, ma non distribuite, telefona alle famiglie e poi fa in modo che tutti insieme si installino negli appartamenti, così da occuparli e ostacolare un possibile intervento della polizia. Accio dimostra allo spettatore con il suo agire che anche agli “ultimi” spetta il diritto di vivere in una casa decente, che le classi al fondo della piramide sociale non sono soggetti bisognosi di aiuto e da compatire (come invece succede nei film falsamente politici), ma sono soggetti oppressi dal sistema. Nel risolvere la situazione di “senza tetto” di molte famiglie come la sua, Accio salva gli “Ultimi” con un atto di ribellione che porta a risultati concreti e tangibili e riesce a dare un senso politico e militante alle cose. Il film non offre politiche esplicite, se mai narra della disfatta dei grandi paradigmi della Destra e della Sinistra attraverso la sofferenza di individui come Accio che non sono a loro agio né nella vita privata (si vedano i suoi difficili rapporti con la famiglia) né in quella pubblica (si veda la marginalizzazione di Accio in tutti i gruppi politici frequen- tati). Il giovane appropriandosi dei beni dello stato (le case popolari), compie un atto che implica l’equa distribuzione dei beni, cosicché alla fine è lui il vero rivoluzionario della storia (e non Manrico). L’atto rivoluzionario di Accio è un atto collettivo che lo avvicina a valori di emancipazione e quindi gli conferisce una voce politica che prima non aveva. Il nostro ‘eroe’ rifiuta il ruolo di emarginato, esce dal silenzio, rifiuta la posizione di “ultimo” e apre uno spazio che forse lo condurrà fuori dal suo isolamento verso la collaborazione sociale. La lotta contro l’ingiustizia, tema fondamentale del cinema poli- tico odierno, è centrale in Mio Fratello perché, come dice O’Shau- ghnessy, nell’estetica del frammento la lotta è sempre immediata e locale. In questa estetica l’individuo, avendo perso il paradigma 334 sociale che poteva dare un senso alla sua vita, senza la fede nel- la lotta per un futuro migliore, è condannato a vivere nel presen- te in una condizione in cui ogni azione sembra senza senso. Accio per la maggior parte del film, è un essere recalcitrante perché non possiede un linguaggio che gli permette di esprimere il rifiuto di quello che gli succede, ma alla fine, attraverso il suo atto coraggio- so, esce dall’isolamento. La ribellione di Accio è senz’altro mini- malista, localizzata, ma esprime un impegno umanitario radicale. Accio come il fratello Manrico e la sorella Violetta, è simbolo di una generazione alla quale sono mancate le risorse simboliche sulle quali ordinare il mondo, visto che i paradigmi che adottano, quelli degli estremismi del ’68, si rivelano instabili, e il paradigma del padre, ancorato a modelli ideologici ottocenteschi e retrogradi, è inaccettabile. Il film non “finisce”, ma termina con una bellissima immagine di Accio, che finalmente padrone di un balcone, il primo della sua vita, di fronte alla vastità del mare, rivede se stesso bambino, e sorride. Accio non ha avuto un’infanzia felice, ma sembra essere arrivato a patti con il suo turbolento passato. Sorridendo al suo “io fanciullo”, accetta la vita passata e allo stesso tempo guardando la vastità del mare simbolo di infinito movimento e di libertà, sembra guardare verso uno “spazio” in cui forse saranno possibili altri atti di rivolta collettivi che lo spingeranno fuori dal suo isolamento verso la colla- borazione sociale, verso altre rivolte grazie alle quali sarà possibile eliminare un po’ di ingiustizia dal mondo. Qualcuno potrebbe obiettare che il registro melodrammatico del film contrasta con il contenuto realista del film. Invece il melodram- ma è, secondo noi, maieutico, esso estrae quello che altrimenti rimar- rebbe nascosto. Il melodramma grazie alle strategie usate, alle forti emozioni e ai conseguenti conflitti che si sviluppano tra i personaggi penetra sotto la superficie delle cose e produce un “potenziamento” del reale. Secondo Rancière con la caduta della Sinistra, l’oppres- sione delle masse rimane, lo sfruttamento perdura, ma il mondo è diventato “opaco”, quello che prima era evidente nelle dinamiche tra le classi sociali adesso è offuscato. Con la globalizzazione del capita- le si è verificata una spaccatura nelle classi lavoratrici tra coloro che hanno un lavoro fisso e quelli che non ce l’hanno. I primi sono dei privilegiati e quindi condannati al silenzio per paura di perdere quel- lo che hanno e i secondi sono pure condannati al silenzio perché si 335 ritrovano ad avere bisogno di assistenza e quindi sono degli “oggetti bisognosi” e non dei “soggetti con dei diritti”. Per di più con l’av- vento della società dei consumi, con il nuovo sistema di produzione e con l’utopia pervasiva della democrazia si è verificata un’opaciz- zazione delle classi sociali, queste sembrano non esistere più, giac- ché pare che tutti appartengano a una felice “middle-class”. Stiamo assistendo a uno strano fenomeno per cui i problemi degli “ultimi” paiono essere di natura patologica, si opina che costoro si ritrovano a mal partito per colpa loro, cosicché meritano solo compassione o repressione18. In questo nuovo cinema politico, i personaggi rifiutano posizio- ni “ragionevoli”, propendendo invece per posizioni emotivamente estreme, drammatizzando le situazioni. Sempre secondo Rancière, la voce che rifiuta il silenzio collettivo e si ribella è necessariamente

18 Cfr. Todd May, The Political Thought of Jacques Rancière, University Park, PA, Pennsylvania Sate University Press, 2008, pp. 1-38. Secondo Rancière, la nostra è un’epoca di passività, e di eguaglianza passiva. Noi crediamo nella creazio- ne, preservazione e protezione dell’eguaglianza che ci è data dalle istituzioni governative, invece dovremmo combattere per ottenere un’uguaglianza attiva. Lo sviluppo dell’economia capitalistica è la risposta a domande che una volta forse sembravano politiche e sociali come l’idea della distribuzione della ric- chezza e dei poteri, in realtà oggi il ruolo dello stato è quello di aiutare a creare le condizioni per un’efficiente funzionamento del mercato capitalistico, di velare l’ineguaglianza esistente grazie al fatto che a tutti viene dato un posto nell’ordine politico, e di assicurarsi che le divisioni politiche non si vedano, infatti a tutti vie- ne concesso un minimo di sostentamento per sopravvivere nell’ordine economi- co. Nel nome del consenso, i politici cercano di ridurre le lotte sull’uguaglianza a problemi di ordine tecnico legato al progresso economico e alla distribuzione dei beni. Ci fanno credere che siamo tutti d’accordo e che tutti viviamo in un mondo senza disaccordo circa quello che dovrebbe essere fatto. L’approccio tecnologico del governo è tale che esso si preoccupa della distribuzione delle merci piutto- sto che della partecipazione del popolo nella creazione delle loro vite. Quelli che soffrono sono vittime, la soluzione è l’assistenza umanitaria, la carità invece della solidarietà, se non addirittura l’intervento dello stato. Il popolo nel governo tecnocratico deve riconoscere che chi governa sa più di loro (niente dissenso), infatti, se il popolo resiste si tratta di ignoranza e non di opposizione. I cittadini non creano le pratiche quotidiane, ma sono creati dalle pratiche quotidiane; quan- do i centri commerciali rimpiazzano il mercato pubblico come centro di riunione; quando università, musei e altri centri di cultura sono governati secondo i dettami dell’efficienza economica; quando incominciamo a pensare alle nostre vite in termini di shopping, noi entriamo nella prospettiva economica che rinforza la visione politica dalla quale siamo esclusi. 336

“teatrale”19. I personaggi come Accio devono uscire dal ruolo a loro assegnato e sfidare l’ordine sociale esistente, devono diventare sog- getti denuncianti in quella che viene definita come la “nuova teatra- lità politica”. Il cinema politico quindi, deve rendere l’oppressione visibile, deve rendere trasparente l’opaco e assicurarsi che i problemi dei margini vengano ricollegati al centro. Che è appunto quello che Accio fa nel film. Accio esibisce una forte fisicità e una continua rea- zione sopra le righe (teatralità) verso le persone o gli ostacoli che gli si presentano e spesso ricorre al corpo nella sua rotta di collisione col mondo. La sua insoddisfazione personale e sociale si esprime in dia- loghi feroci, gestacci e botte, che nell’infanzia rivolge alla famiglia e, nell’adolescenza, riversa sui suoi antagonisti. Il giovane esprime, attraverso la sua gestualità/fisicità, la sua emarginazione, il suo esse- re un pesce fuor d’acqua in famiglia come nel mondo. Accio entra in collisione con famiglia e società finché arriva a una scelta fonda- mentale, la distribuzione delle case, un atto ribelle e liberatorio che dà valore etico-politico al mondo privo di giustizia in cui vive. Alla fine del film, il nostro ‘eroe’ si schiera con gli oppressi, non a parole come il fratello, ma a fatti. Infatti, egli esce dal suo isolamento, con- fronta l’ingiustizia pubblicamente e vi pone “rimedio”, sfidando l’or- dine esistente e riuscendo a creare un “teatro” in cui colloca al centro del palcoscenico quello che prima non c’era, l’ingiustizia sociale. Mio fratello non è solo la storia di Accio, ma la storia di una fami- glia immersa nella Storia italiana, e come tale rende palesi diversi punti fondamentali del nuovo cinema politico. Se le storie di famiglia tendono a avere un risvolto conservatore, la storia di Accio invece mette in luce come il ragazzo superi i suoi legami di sangue e si apra verso il benessere non solo dei suoi, ma della collettività. La fami- glia tradizionalmente è una forza conservatrice, lo spazio domestico è dove si preserva la specie, dove si fa argine al mondo circostante. Nel caso di Accio questo spazio domestico diventa il luogo in cui si possono osservare meglio gli influssi del pubblico sui figli, dove le ribellioni sessantottine acquistano risonanza emotiva, specialmente quando viste attraverso le reazioni abnormi della famiglia patriarcale. Concordiamo con O’Shaughnessy quando asserisce che il melodram-

19 Cfr. Nick Hewlett, Badiou, Balibar, Rancière – Rethinking Emancipation, Lon- don, Continuum, 2007, in special modo la parte intitolata Jacques Rancière: Politics is Equality is Democracy, pp. 84-108 337 ma è diventato il veicolo ideale per ridare eloquenza e trasparenza al reale20. Nonostante Mio Fratello non si concentri su sobborghi, periferie, ex-zone industriali, ci pare che si concentri ugualmente sui margini e non sul centro. Secondo O’Shaughnessy il realismo del nuovo cinema politico deve operare a diversi livelli: quello tematico, cioè occuparsi di temi socio-politici contemporanei (mondo del lavoro, disoccupazione, immigrazione, emarginazione ecc.); deve presentare immagini natu- ralistiche, quindi evitare pittoreschi panorami da cartolina illustrata, in pratica deve avere un look documentaristico e presentare dei per- sonaggi in rotta di collisione con il mondo circostante, ovvero deve mostrare un conflitto. Inoltre, suddetto cinema dovrebbe preferire l’uso di cineprese mobili, attori non professionisti e avere una trama episodica con più personaggi o gruppi di individui o famiglie. Non siamo al cento per cento d’accordo con il critico inglese, certamente i temi sociali sono di primaria importanza, ma sulle caratteristiche documentaristiche o le cineprese mobili non concordiamo. Mio fra- tello è stato girato in una cittadina della Puglia che, secondo il regi- sta, assomiglia a Latina agli inizi degli anni Sessanta. Luchetti ha evitato accuratamente i luoghi pittoreschi, le icone storiche tipiche del mondo della pubblicità, i luoghi celebrati da sempre dal cinema, i paesaggi da guida turistica. In Mio fratello le inquadrature dei monu- menti sono presenti solo quando devono ricordare allo spettatore che la cittadina è stata costruita da Mussolini, l’impronta fascista però non si limita all’architettura, ma si estende anche all’ideologia di molti personaggi. Le incursioni di Accio a Roma, a Genova e a Tori- no, avvengono in zone anonime: bar, stazioni, vie ingolfate dal traf- fico, in luoghi che potrebbero appartenere a qualsiasi città italiana dell’epoca. In questi nuovi film politici, spesso una macro-storia e una micro- storia coesistono. Nel nostro caso, infatti, come è stato rilevato prece- dentemente, abbiamo la storia della famiglia Benassi e la Storia ita- liana, storia personale e storia pubblica. Sia Accio che Manrico sono integrati in uno spazio nazionale e simbolico durante la giovinezza, il primo facendo parte del Movimento Sociale Italiano, il secondo del Partito Comunista. Questa integrazione però non funziona né per l’uno né per l’altro. Il primo uscirà dal partito missino e il secondo

20 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 157. 338 entrerà nei gruppi extra parlamentari. Manrico si marginalizza in una ribellione lontana dalla lotta di classe collettiva, il secondo, scoper- to il vuoto che si cela sotto la retorica fascista, esce dal gruppo, ma rimane un outsider. Per sottolineare questa emarginazione, il regista fa muovere tutti i personaggi, ma soprattutto il protagonista, sempre lontano dal centro anche negli spazi fisici delle città che attraversa e percorre con disagio, incavolandosi col traffico, gridando insulti, come a sottolineare la sua infelicità, la sua immersione in un locali- smo frammentato. La mobilità, tipica qualità della nostra società a tecnologia avan- zata, è un’altra caratteristica di questo nuovo cinema. La disponibi- lità finanziaria che permette alle persone di muoversi velocemente nel mondo, esibendo una mobilità sia fisica che di classe, avviene solo col denaro. I poveri sia letteralmente che figurativamente sono “immobili”, imprigionati in una staticità economica che non gli per- mette di cambiare la loro situazione fisica – non possono andare in vacanza, cambiare città, paese – né possono mutare la loro identità, il loro ambiente, il loro lavoro, così come non possono muoversi a loro agio con i propri mezzi di trasporto. I poveri devono stare a “loro posto”, così come non possono reinventare se stessi. Accio non ha la macchina, fa l’autostop o viaggia in autobus o in treno o va a piedi, e la sua mobilità è limitata anche dal punto di vista sociale. La famiglia per motivi economici costringe Accio a prendere il diploma da geo- metra, impedendogli di studiare nonostante sia bravissimo a scuola, e negandogli, per mancanza di soldi, l’accesso al liceo dove pure lui voleva andare; la famiglia gli impedisce automaticamente l’accesso all’università e di conseguenza gli nega ogni mobilità futura. La ribel- lione politica di Accio e del fratello sia a Destra che a Sinistra, è un modo per tentare di asserire il proprio diritto a cambiare il mondo, anche se poi non ci riescono. Accio però, riabilitando gli “Ultimi”, resiste alla sconfitta e nel suo piccolo la sovverte. Nonostante la man- canza di un paradigma politico nel quale poter inserire la sua ribellio- ne, e la mancanza di un progetto elaborato per l’emancipazione delle masse, Accio riesce a mutare il suo “presente” con un coraggioso atto di solidarietà. 339

Esempio 2: Tutta la vita davanti

Un altro film in cui un piccolo gruppo fronteggia l’impatto della disintegrazione sociale e l’oppressione economica con poche o nulle risorse simboliche su cui contare è Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Il film narra la storia di una ragazza, Marta, che laure- atasi a pieni voti in Filosofia affronta il mondo del lavoro, ma non trovando un impiego adeguato si ritrova a fare la telefonista tempo- ranea presso una multinazionale, la Multiple, che vende aggeggi inu- tili alle casalinghe. La vicenda tratta della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei giovani, rappresentando con acume il disfacimento della classe lavoratrice e la vittoria del neo-capitalismo. Il film rien- tra nella categoria del nuovo cinema politico per ragioni diverse da quelle esaminate nel caso di Mio fratello è figlio unico. Marta, la pro- tagonista della storia, intelligente, istruita, vorrebbe conseguire un dottorato in filosofia e scrivere, ma a causa della sua precaria condi- zione economica deve trovarsi subito un’occupazione per mantener- si. Marta possiede il logos necessario per far sentire la sua voce, ed è appunto lei che registra l’alienazione delle sue colleghe, costrette come lei a declamare ogni mattina slogan che celebrano il successo individuale, alimentano la competitività, e che, in teoria, dovrebbe- ro trasmettere felicità alle ragazze, nonostante a queste sul lavoro vengano controllati anche i tempi delle pause bagno. Marta e le altre venditrici telefoniche sono costrette a mostrare grande entusiasmo, inneggiando al successo, gridando slogan di finta felicità. La ragaz- za, come le altre compagne, deve rinnegare il suo “io” ogni giorno e soccombere alle esigenze del capitale, con la differenza che nel suo caso, grazie all’istruzione, il logos le permette di dominare e incap- sulare l’oppressione e poi di agire contro di essa. Il film attraverso le vicissitudini di Marta ci conduce nella vita delle sue colleghe, delle sue amiche e della madre single senza istruzione con figlia piccola a carico con cui Marta condivide l’appartamento, la quale una volta perso il lavoro non possedendo altre risorse, decide di mercificare il suo corpo cadendo in un’alienazione peggiore di quella sofferta alla Multiple. Tutta la vita davanti descrive magistralmente come la multina- zionale abbia creato un mondo parallelo, moderno, fuori Roma, in una zona periferica e isolata, con un’architettura aereoportuale di 340 capannoni e scale mobili che, a prima vista, crea un senso di moder- nità e di efficienza, mentre in realtà nasconde un mondo artificiale, isolato dal resto della società e corrotto. In questo mondo satellitare arrivano e partono continuamente autobus carichi di turniste (dello sfruttamento) che si alternano. Il call center della Multiple è quindi situato in un non-dove, nel quale i boss sono riusciti a promuove- re con apparente successo, attraverso certi riti giornalieri imposti ai lavoratori, il mito della ricchezza, della super-produttività e del successo individuale. Il trionfo personale di chi sposa questi ideali avviene inevitabilmente a spese di chi soccombe a questa dura logi- ca che promuove una continua catena di oppressione: infatti, per essere premiati bisogna buggerare le casalinghe raccontandogli sto- rie, vendere a una classe economicamente modesta elettrodomestici inutili, insomma truffare, con il sorriso sulle labbra, il prossimo. Naturalmente la logica estrema del successo, il mito dello spettaco- lo, della ricchezza, l’ideologia che celebra le vette di successo del vincitore, e l’idea che si debba salire sempre più in alto per raggiun- gere sempre maggiori profitti, ha come contropartita gli abissi dei perdenti, la loro emarginazione, la loro alienazione e in alcuni casi anche la loro pazzia. Dopo aver assistito alle pericolose reazioni di coloro che incapaci di tenere un tale ritmo di produzione vengono licenziati e finiscono per tentare di uccidersi, Marta diventa un sog- getto denunciante, raccontando al sindacalista quello che succede alla Multiple. Tutta la vita davanti scava dietro la facciata dorata del consumismo estremo, per rivelarne le ineguaglianze, le esclusioni e le oppressioni che vi si celano dietro. Anche Marta a un certo punto, come Accio, entra in rotta di collisione con questo universo lavorativo corrotto e oppressivo e con la scelta di denunciare quello che succede alla Mul- tiple dà valore etico-politico a un mondo privo di giustizia. Accio in Mio fratello sceglie di agire in favore della collettività, anche Marta lo fa, usando le parole e denunciando al sindacato e alle autorità i fatti accaduti. Anche in questa storia abbiamo un micro-cosmo, quello di Marta e delle sue amiche, e un macro-cosmo quello della società dei con- sumi e del benessere in cui l’apparenza regna sovrana. Un mondo in cui i perdenti vestono male, sono dimessi, mentre i vincenti sono sempre perfettamente agghindati, sorridenti e apparentemente feli- ci. Naturalmente la ricchezza non è la chiave della felicità indivi- 341 duale, la manager delle donne (Ferrilli), all’apparenza incarnazione perfetta della “donna arrivata”, elegante, vincente, in realtà dimo- stra di essere anche lei vittima dell’alienazione, della solitudine e dell’infelicità, nonostante il successo materiale conseguito. La don- na, infatti, uccide il padrone della Multiple (Ghini) che l’ha messa incinta, ma non la ama, e con questo folle gesto dimostra che la pazzia è un sintomo che colpisce non solo le vittime del potere, ma anche chi lo amministra. Come Accio anche Marta ha difficoltà di inserimento, lo spazio fisico in cui si muove è troppo grande per lei, anonimo, impersonale, all’interno di esso la vediamo sempre correre. Marta manifesta la sua insoddisfazione camminando velocemente ovunque, come a cercare di sfogare la sua frustrazione nel movimento; anche il “linguaggio del capitale”, linguaggio della competitività e del successo, è in totale discordanza con il linguaggio filosofico con cui Marta si esprime e col quale, quando scrive, cerca di razionalizzare quello che vede e sente. Se il logos filosofico aprirà a Marta probabilmente la strada del mondo accademico, grazie alla pubblicazione del suo saggio su Martin Heidegger e le multinazionali, il rifiuto del codice egemonico non la porta solo a denunciare le ingiustizie, ma la conduce anche alla scoperta della solidarietà verso le altre donne che non possiedono alcuna “voce”, e facendosene portavoce, compie un gesto di solida- rietà collettiva. La Roma in cui Marta e gli altri personaggi si muovono è anch’es- sa frammentata, la Multiple come abbiamo visto è in un non–dove periferico, staccato dalla città, ma le strade di Roma, gli uffici posta- li, i ristoranti potrebbero appartenere a qualsiasi zona metropolita- na contemporanea. La perenne corsa di Marta trasmette al lettore il suo essere fuori dal “centro”, immersa in un localismo frammentato, correndo sembra cerchi di sfuggire a quella “immobilità” alla quale la società l’ha condannata. Marta riuscirà a mutare la sua situazione sociale e probabilmente a reinventare se stessa perché la sua cultura le permette di farlo; la ragazza agisce, svela la natura ingiusta della società contemporanea, rifiuta il consenso, resiste e sceglie la solida- rietà umana e collettiva. Come Mio fratello è figlio unico, Tutta la vita davanti non utiliz- za né l’estetica documentaristica né attori non professionisti, non è neppure un melodramma centrato su una famiglia, ma la storia di un gruppo di individui. È un dramma tradizionale, ma è anche un film 342 politico che spinge il lettore verso un linguaggio di opposizione, a confrontarsi con l’alienazione e la precarietà lavorativa dei giovani oggi, un film che svela lo sfruttamento che si cela sotto il velo di una società apparentemente felice ed economicamente florida. Accio assegnando le case popolari e Marta denunciando la Multiple pubbli- camente, scoprono l’implosione della società, rifiutano il silenzio e si oppongono alla violenza socio-economica.

Conclusioni

Per concludere, dopo l’analisi comparata dei due film sopra citati e il riferimento all’ermeneutica proposta da O’Shaughnessy e dagli altri teorici, ci pare che questo nuovo cinema politico più che uno stile cinematografico secondo i dettami del “realismo”, si avvicini agli insegnamenti neorealisti in quanto pone al suo centro problemi etico- socio-politici. Questo nuovo cinema si allontana dalle forme estetiche e ideologiche della cinematografica tradizionale di tipo Hollywoodia- no, nonostante conservi quelle caratteristiche drammatiche indispen- sabili per catturare l’attenzione dello spettatore e per trasmettergli quella dose di indignazione morale necessaria a spingerlo ad agire nel suo sociale. Questa nuova forma di cinema engagé propone una lettura di quello che una certa realtà significa, di come funziona, e di come essa possa essere cambiata. Di solito la complessità di questa “real- tà” ricostruita sullo schermo è sottolineata da un’ambigua immagine finale. Infatti, questi film raccontano “storie aperte”, che non pre- sentano una fine nel senso tradizionale del termine; le vicende non si risolvono, ma lasciano allo spettatore il compito di porsi quesiti, è lui che deve formulare delle ipotesi. Del resto, la risoluzione dei problemi sociali presentati, se e quando avvenisse, sarebbe un pro- cesso che dura nel tempo e quindi in linea di massima eluderebbe lo spazio e il tempo filmico all’interno di un’ottica che mira al neo- neorealismo21. In un certo senso questo nuovo cinema ricade nel- la definizione di Fernando Solanas e Octavio Getino che nel 1965 promuovevano un cinema della sovversione, ovvero un cinema che documenta tutto quello che è “indigesto” al potere. In quest’ottica la

21 Si veda nota 22 per la definizione di neo-neorealismo. 343 produzione di Hollywood è il “primo cinema”, il cinema alternativo che oggi si chiamerebbe cinema indipendente sarebbe il “secondo cinema”, e il cinema sovversivo sarebbe il “terzo cinema”, quello che ha un impegno etico-politico con la vita di tutti i giorni. Direm- mo quindi che molti dei nuovi film politici italiani rientrano in que- sta categoria di “terzo cinema”, un cinema che “svela” tutto ciò che dalla realtà non trapela palesemente con il risultato di turbare lo spettatore22.

22 Nel suo illuminante saggio “Strade, muri, terra, città, mare. Sud Italia e mediter- raneità postmoderna nel cinema del terzo millennio”, Eusebio Ciccotti parla di “neo-neorealismo” per il cinema italiano a partire dagli anni Ottanta, affermando che i film in oggetto manifestano “un innegabile ‘modo oggettivo’, influenzato dal documentario, nel filmare la realtà, simile a quello del neorealismo stori- co: un atteggiamento estetico che presenta alla base un comune denominatore che potremmo chiamare modo neorealista”(California Italian Studies Journal, escholarship.org/uc/item/7zf7j73q, 2010, pp. 13-14). Il film apripista di questo modo sarebbe stato Amore tossico (1983) di Claudio Caligari, seguito da una quindicina di film realizzati tra Mery per sempre (1989) e Cuore cattivo (1995). Questi film esibiscono: con-fusione dei generi, orizzontalità degli spazi fisici, viaggio attraverso il corpo Italia, pedinamento (Zavattini), attori non professioni- sti, atteggiamenti documentaristici nell’ordito finzionale, uso dell’illuminazione naturale in interni ecc. Ciccotti nel suo saggio si occupa di film che narrano del Sud come Mio cognato (2002, Alessandro Piva), Certi bambini (2004, Andrea e Antonio Frazzi), La guerra di Mario (2005, Antonio Capuano), Miracolo a Palermo (2005, Beppe Cino), La terra (2006, Sergio Rubini), Galantuomi- ni (2008, Edoardo Winspeare), Gomorra (2008, Matteo Garrone), La siciliana ribelle (2009, Marco Amenta). Questi film come Amore tossico e i precedenti sopra citati rientrano in quel folto gruppo di film italiani che si occupano delle “zone” degradate della nostra società, di periferie, mafia, camorra, corruzione, degrado, droga, povertà ecc. A nostro avviso questo filone di film, non solo esibi- sce un modo neorealista, ma si trova in sintonia perfetta con i nuovi film politici francesi di cui parla O’Shaughnessy nel suo saggio, sia per stile filmico che per contenuti. Flm come Certi bambini o La guerra di Mario, per esempio, sono molto vicini a Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne. Tuttavia, rima- niamo dell’opinione che anche altri film italiani recenti di impianto più tradizio- nale come Mio Fratello è figlio unico e Tutta la vita davanti rientrino nel nuovo cinema politico e nell’”estetica del frammento”, nonostante non seguano in tutto e per tutto il modo neorealista e non trattino di “zone” particolarmente degradate della nostra società. 344 345 Tania Convertini

La difficile partita familiare di un padre e di un figlio: Anche Libero va bene di Kim Rossi Stuart

Il calcio è una metafora della vita. Jean Paul Sartre

Libero: sul campo di calcio e in famiglia

“Il calcio è una metafora della vita” sostiene Jean Paul Sartre1. Anche Libero va bene, opera prima di Kim Rossi Stuart porta nel titolo, in particolare in quel libero dal valore polisemico, il riferimento alla lingua calcistica, che si svela solo alla fine del film quando il picco- lo Tommi, protagonista insieme al padre dell’intera vicenda, ottiene finalmente dal genitore, inizialmente contrario all’idea, di poter gio- care a calcio. Tommi vorrebbe giocare come centrocampo e al padre che gli suggerisce il ruolo di libero, risponde per l’appunto: «Anche libero va bene». È proprio grazie a questa affermazione che lo spet-

1 Giorgio Casadio, nell’articolo Quando i libri facevano Goal apparso su «Il sole 24 ore» del 14 Giugno 2010 propone un interessante excursus del calcio nella letteratura. Sono molti gli artisti che hanno trovato ispirazione nel gioco calcisti- co, nelle sue dinamiche e nella lingua che lo distingue. Da Leopardi con la sua canzone A un vincitore nel pallone dedicata a Carlo Didimi di Treia, a Saba con le sue cinque poesie sul calcio, a Montale che utilizzandolo come metafora sur- realista dichiara: «Sogno che un giorno nessuno farà più goal in tutto il mondo» e infine a Pasolini, per il quale il calcio era una vera e propria religione. L’autore ne era affascinato al punto da scrivervi un intero saggio, analizzandone il valore semiotico: «Il calcio» scriveva Pasolini «è un sistema di segni, un vero linguag- gio, con una sua sintassi, che si esprime nella partita che, è un vero e proprio discorso drammatico». Nel suo testo Voce e Silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini Giacomo Manzoli cita un articolo del 1971 nel quale Pasolini affronta il tema della semiologia del calcio, definendolo un sistema di segni. L’articolo, intitolato Una semiologia per il Goal si trova anche in Una vita futura. 346 tatore attribuisce significato al titolo, inizialmente inteso esclusiva- mente come richiamo a più astratte e indefinite forme di libertà, che lasciano poi spazio ad una nuova chiave di lettura dell’interazione e delle dinamiche tra padre e figlio, del loro sguardo alla realtà e del loro modo di rapportarsi alla vita ed interpretarla. Il libero non ha una posizione fissa, e deve all’occorrenza soste- nere l’attacco o la difesa dimostrandosi capace di agire e muover- si fluidamente. Con questa metafora il regista apre il campo (e non mi sottraggo io stessa al linguaggio calcistico) a quella metafora che andrà ad inserirsi efficacemente come sotto-testo del film. Padre e figlio sono, infatti, entrambi giocatori di una partita familiare e socia- le difficile e complessa. Ciascuno a proprio modo, e dal proprio punto di vista, devono essere in grado, come il libero del titolo, di difendere o attaccare, in funzione di ciò che le circostanze richiedono. La vita di questa famiglia, in cui il ruolo del padre e il suo rap- porto con i figli, in particolare con il figlio maschio, costituiscono l’elemento centrale della storia è, infatti, una gara quotidiana contro i problemi del lavoro precario, degli affetti mancanti, e della soli- tudine.

La famiglia e la società in un gioco di spazi

Kim Rossi Stuart nel narrare un intreccio di affetti difficili e trava- gliati si fa efficacemente portavoce dei problemi sociali che afflig- gono le nuove famiglie italiane. Se il termine “sociale’, nella sua accezione più ampia e tradizionale, indica quel sistema di organiz- zazioni e attività non strettamente legate alla vita personale dell’in- dividuo e della famiglia, il regista dimostra, per contro, come la distinzione tra individuale e sociale non sia affatto netta, e come la vita della famiglia e i suoi spazi emotivi vengano influenzati dalla società che la circonda, i suoi problemi, i suoi valori, nonché la sua stabilità economica. Il tema famiglia-società e individuo-socialità, viene enfatizzato dal regista attraverso l’elaborazione del contrasto spaziale tra interno e esterno, proposto sin dalla prima scena del film. I bambini al risve- glio, colti nel loro ambiente familiare, sono, infatti, i primi ad essere inquadrati dalla telecamera, che indugia sulla reticenza del piccolo 347

Tommi ad uscire dalle coperte, sui dispetti della sorella più grande che lo sveglia bruscamente rovesciandogli l’acqua di un bicchiere nel letto e sui cuscini tirati scherzosamente.

Tommi inquadrato sullo sfondo della finestra

Il padre di Tommi inquadrato sullo sfondo di una finestra

Dal buio della stanza, ancora non illuminata dalla luce del giorno, viene offerto, attraverso la finestra dalle tende semiaperte uno scorcio dell’esterno. È questa una delle prime immagini di contrasto interno/esterno che il regista ci offre. La casa, l’intimità e il calore dell’ambiente domestico in contrapposizione al mondo sociale, la scuola, il lavoro e le istituzioni, entrambi luoghi della difficile partita familiare gio- cata da padre e figlio, vengono ripetutamente visualizzati dal regista che inquadra spesso i due nella cornice di una finestra o di una porta 348 o di un androne buio che si apre all’esterno, verso un mondo da sco- prire e da capire. Gli sguardi di padre e figlio, filtrano e osservano le due realtà: la famiglia, rappresentata dalle mura e dagli ambienti domestici, con le sue abitudini, centro di gravità degli affetti, presenti e assenti, e il socia- le, costituito dall’universo esterno fatto di luoghi istituzionali, come la scuola, o la piscina, dove Tommi è forzato dal padre a sostenere una competizione non voluta, cercando di superare se stesso e gli altri. L’esterno è soprattutto rappresentato da spazi aperti: il campet- to, dove i bambini giocano a calcio, un ristorante in campagna, un deserto fittizio, set improvvisato di una scena pubblicitaria nel quale il padre lavora come operatore freelance (sinonimo di precario senza sicurezze), e una spiaggia dove, miracolosamente, la famiglia si riu- nisce e ricostituisce come tale, sebbene per una sola giornata, isolata dai problemi assillanti della quotidianità.

Tommi sul tetto del suo palazzo

In particolar modo, l’esterno è rappresentato dal tetto del palazzo, dove il piccolo Tommi si arrampica indisturbato per osservare il mondo dall’alto. Dal punto di vista della semiotica degli spazi il tetto assolve alla funzione di protezione, copertura e riparo, rivestendo, allo stesso tempo, il ruolo di linea di demarcazione ideale tra cielo e 349 terra. È in questo spazio, ancora facente parte della casa, eppure al di sopra di essa, che Tommi, nelle sue fughe pressoché quotidiane tro- va un suo personale rifugio e matura uno sguardo nuovo alla realtà, attraverso l’esplorazione del senso di libertà e della prospettiva di superiorità sui problemi del quotidiano e sul mondo che lo circonda. In equilibrio sulle tegole, muovendosi disinvolto e sicuro davanti allo spettatore ansioso e preoccupato per la sua sicurezza, Tommi osserva dall’alto la strada, le case, le macchine e le persone che si fanno pic- cole sotto di lui in una condizione di solitudine e allo stesso tempo di padronanza e possesso dello spazio esterno. Uno spazio che pare appartenergli e che egli pare dominare più di quello interno, capace, per contro, di generare in lui confusione e ansia. Il tetto, luogo eletto di rifugio, in cui il mondo circostante, confuso e distante, assume nitidezza attraverso le lenti di un binocolo, ha anche un chiaro significato topologico-culturale, trovando un riferimento nei rapporti e nelle opposizioni spaziali in cui viene rappresentata la real- tà. Secondo il modello spaziale di Lotman le contrapposizioni spazio interno vs spazio esterno, basso vs alto, vicino vs lontano e chiuso vs aperto, sono in relazione con altre categorie oppositive come caldo- freddo, sicuro-nemico, suono-silenzio, nonché alla contrapposizione eroe dinamico-antieroe statico (pp. 261-273). Nella loro partita fami- liare, padre e figlio sono entrambi eroi dinamici, se pure l’uno (il figlio) in uno stadio più evoluto dell’altro. Il padre, eroe imperfetto nelle sue manifestazioni di debolezza e di rabbia, pronto ad un gioco all’insegna dei cambiamenti; il figlio, eroe catalizzatore delle trasformazioni e dei cambiamenti, capace di adattarsi alle nuove situazioni e di giocare più ruoli allo stesso tempo, come il libero anticipato nel titolo.

I rapporti di genere

La dicotomia interno-esterno, così frequentemente proposta dal regi- sta, se considerata come sinonimo di pubblico e privato, apre lo spa- zio a un’altra considerazione in merito ai rapporti di genere e ai loro effetti sui ruoli della maternità e della paternità. Se nella famiglia tra- dizionale, infatti, l’uomo svolge le attività nella sfera prevalentemen- te pubblica e la donna in quella privata, nel nuovo modello di famiglia italiana, che Kim Rossi Stuart propone, la polarità pubblico privato è superata. Nel suo studio sulle interazioni tra giovani e il nucleo 350 familiare il sociologo della famiglia Carmelo Carabetta fa opportuna- mente notare che2:

Alla stregua di un veliero in mezzo al mare sempre inquieto, oggi la famiglia, spesso, è costretta a navigare senza equipag- gio. Metaforicamente, su quel veliero, non di rado, si registra la presenza di un solo genitore, paragonabile al comandante e quasi sempre manca tutto l’altro equipaggio, ovvero il marito o la moglie e i figli, in un contesto slegato dal gruppo parentale e dalle altre storiche appartenenze, che nel passato rappresen- tavano una provvidenziale rete per la mediazione dei conflitti e la risoluzione di tanti problemi. In assenza di quei rilevan- ti appoggi e di altri punti di riferimento certi, o quantomeno conosciuti, il percorso di vita familiare si caratterizza come indeterminato, confuso e sperimentale e le scelte più semplici diventano difficili e problematiche in quanto non risolvibili con le metodologie segnate dagli schemi culturali tradizionali (39).

È proprio questo il clima in cui si muove la famiglia che il giovane regista propone, sofferente e alla ricerca di un equilibrio spesso irrag- giungibile in cui Il padre e il bambino devono giocare “liberamente” i loro ruoli, muovendosi tra una dimensione e l’altra e vivendone bene- fici e difficoltà.

Una nuova famiglia

Il privato delle mura domestiche, proposto nella prima scena del film, può apparire, ad una prima analisi, un quadro familiare mattutino del tutto comune: bambini al risveglio e un padre impegnato nell’incom- benza, non facile, di avviare la giornata. Ma quando Tommi, undi- cenne poco incline a svegliarsi, si nasconde sotto le coperte e si riad- dormenta, la voce fuori campo del padre, urlante e autoritaria, prende possesso della scena.

2 Per un approfondimento delle tematiche relazionali tra giovani e famiglia si veda lo studio sociologico Giovani cultura e famiglia, in cui Carmelo Carabetta ana- lizza i molteplici mutamenti culturali che hanno investito l’universo familiare e le sue componenti, prestando particolare attenzione al ruolo dei figli e ai loro rapporti dinamici con i genitori. 351

Il padre di Tommi in una scena domestica

La prevedibilità domestica, inizia a vacillare non appena l’uomo viene inquadrato, coperto da una maglietta che gli copre solo parzialmente le natiche nude. Il suo tono imperativo e autoritario, la voce forte e altisonante con la quale impartisce ordini e somministra rimproveri, appaiono in netto contrasto con il suo aspetto dimesso, trascurato e, al tempo stesso, poco credibile. La sua posizione dietro a un asse da stiro, nell’atto di stirarsi una camicia, il ferro in mano, brandito quasi come un’arma, anticipano l’assenza di un perno familiare importante: la madre. Il regista, sottilmente ma con efficacia, pone l’accento sulla condi- zione della nuova famiglia italiana in cui, tra i suoi nuovi molteplici volti, quello monoparentale è sempre più diffuso3. Tuttavia, se fino a qualche decennio fa, come rilevano Barbagli e Saraceno4, la respon- sabilità dell’andamento domestico nella famiglia monoparentale era prevalentemente femminile, oggi, all’insegna di una rivoluzione dei rapporti di genere, sempre più padri vengono investiti del ruolo di genitore unico. Il lavoro di cura, che per millenni è stato considera- to compito femminile privilegiato, a partire dalla fisiologicità della maternità al conseguente accudimento, alla responsabilità delle rela- zioni affettive e di crescita in seno alla famiglia, fino alla creazione

3 Per un approfondimento delle problematiche relative alla famiglia monoparenta- le si veda Corsi. 4 Per un approfondimento si veda lo studio di Marzio Barbagli e Chiara Saraceno sullo stato delle famiglie in Italia. 352 del ben noto mito di “angelo del focolare”, è ora non più appalto esclusivo delle donne ma coinvolge, a pieno titolo gli uomini.

La madre? “Lei va e viene”

Ad enfatizzare la forte presenza paterna, e l’assenza della madre dal quadro familiare, la telecamera di Kim Rossi Stuart si sofferma sull’uomo, impegnato nelle sue incombenze quotidiane, dalla prepa- razione della colazione, al rimprovero dei bambini per il disordine della loro camera, allo spiacevole ruolo di regolatore del tempo d’uso del computer. Indugia poi, a sera, nel buio della camera da letto, sui volti di padre e figli, addormentati insieme, nel letto, in un atteggia- mento di intimità affettiva che insinua nello spettatore un senso di mancanza, di vuoto e di sottile tristezza. La madre è assente e, per usare le parole di Tommi, “lei va e viene”. La donna non è, infatti, in grado di rimanere legata al suo ruolo di madre e moglie con le respon- sabilità affettive che ne derivano. È attratta da uomini più ricchi o più interessanti e, per seguirli, si allontana ogni volta dalla famiglia, per poi tornarvi e allontanarsene nuovamente. Infatti, quando ci sia- mo abituati all’ idea della sua assenza, quando l’abbiamo accettata e razionalizzata, eccola che ricompare, prodiga di attenzioni e desiderio di essere perdonata e reintegrata nel ruolo di madre dai propri figli.

Non importa che tipo di madre un bambino abbia perduto, o quanto difficile sia vivere con lei. Non importa se le sue mani lo abbracciano o gli fanno del male. Separarsi dalla madre è peggio che essere nelle sue braccia mentre intorno esplodono le bombe. Separarsi da lei è peggio che non stare con lei anche se la bomba è lei. Perché la presenza della madre – di nostra madre – significa sicurezza. La paura di perderla è il primo terrore che conosciamo. […]. L’angoscia di separazione sca- turisce dalla pura verità che, senza una figura che si occupi di lui, il neonato morirebbe (Viorst p. 22)5.

È così che la psicoanalista Judith Viorst descrive l’abbandono subito da parte della madre.

5 Judith Viorst, psicoanalista e scrittrice di libri per l’infanzia, ha studiato appro- fonditamente la relazione madre-figlio/a. Il suo testo più significativo, dal quale citiamo è: Necessary Losses. 353

Il trauma, a parere della studiosa, può provocare danni permanenti, ferite da cui è difficile guarire. I bambini, aggiunge Judith Viorst, pos- sono reagire diversamente all’abbandono materno e non è infrequente assistere a reazioni di distacco e sospetto ad un eventuale ritorno della madre. Ciò avviene quando il bambino mette in atto una chiusura dei sentimenti affettivi allo scopo di auto proteggersi da ulteriori soffe- renze (p. 23)6.

La triade madre e figli ricongiunta al ritorno della madre

È questo il caso di Tommi, che possiede l’intuito e l’esperienza di chi è già stato abbandonato troppe volte e non può fidarsi e affidarsi, con- cedendosi nuovamente all’affetto della madre. Al suo ritorno teatrale di madre pentita in cerca di perdono, Tommi reagisce con moderata cau- tela, pensoso e riflessivo sul da farsi, desideroso dell’abbraccio materno ma incapace di abbandonarvisi. Viola, la sorella, alla disperata ricerca di una figura d’identificazione femminile, accetta invece con gioia il ritorno della madre e si schiera complice al suo fianco, anche correndo il rischio di un ennesimo abbandono. La bambina, che nel suo tentati- vo di compensare la mancanza della figura materna, si era lanciata in un’esplorazione quasi ossessiva del proprio corpo e della sessualità, è in cerca di un modello con il quale identificarsi e la madre, con il suo ritorno, potrebbe offrirsi come tale, colmando il vuoto esistente.

6 Citazione non testuale, parafrasata e tradotta dal testo inglese. 354

Particolarmente espressiva un’inquadratura dei tre, nell’anticame- ra di casa, seduti su una panca, in attesa del padre e del suo giudi- zio. La madre e la figlia, vicine, i volti accostati in un atteggiamento di intimità, riprendono senza difficoltà la comunicazione interrotta dall’abbandono. A sottolineare la vicinanza tra le due, una corrispon- denza di identità, sottolineata dal colore uguale dei loro maglioni che ripropone l’eterno gioco di madre e figlia, l’una specchio dell’altra. Tommi le osserva, silenzioso e pensoso, a dovuta distanza, timoroso di colmare quello spazio fisico e affettivo che lo separa dalla madre. Il volto della donna è illuminato in un gioco di luce/ombra ad eviden- ziare il contrasto insito nella sua natura sfuggente, il suo desiderio di essere riaccolta e il suo costante bisogno di fuga. Il personaggio della madre, anche nelle intenzioni del regista è complesso e pieno di contraddizioni e, certamente, non concepito come negativo tout court. Così Kim Rossi Stuart la descrive in un’intervista: «La madre è il motore drammaturgico della storia. Non è una persona superficia- le, una casalinga annoiata. L’ho sempre pensata complicata, ha delle nevrosi profonde che la spingono nel baratro della voragine emotiva; a quel punto, può solo scappare»7. In questa partita familiare, difficile e spesso dolorosa, Kim Rossi Stuart ha il pregio di non schierare i buoni contro i cattivi. La sua è una storia fatta di compromessi, accettazioni, accomodamenti e sco- perte graduali in cui padre e figlio, uniti da un amore profondo, gio- cano i loro ruoli da molteplici posizioni e punti di vista. Le violenze verbali e fisiche, prima e istintiva reazione del padre al ritorno della moglie, alla quale non può perdonare l’abbandono, lasciano presto il posto al desiderio di riannodare i fili spezzati di un affetto familiare e di un amore di coppia per la cui mancanza tutti in famiglia hanno sofferto a lungo. Se il padre è desideroso di credere al ritorno e al cambiamento che possono significare la ricostruzione di un quadro familiare di normalità, Tommi, al contrario già anticipa il suo nuovo abbandono: «tanto se ne rivà», sono le sue parole al padre quasi a metterlo in guardia da una nuova sofferenza. L’intermittenza del rapporto con la madre, che non è stata testimo- ne costante della sua crescita, ha segnato Tommi in modo definitivo. Ad una visita dal dottore la donna non è in grado di rispondere ad

7 Intervista pubblicata sul sito culturale della RAI «Italica». Riferimento completo in bibliografia. 355 una semplice domanda di routine sulle malattie infettive contratte dal bambino. «L’ha avuta la varicella?» le chiede il medico, ma i suoi vuo- ti di presenze, il suo andare e venire di madre, che è uscita ed entrata dalla vita della famiglia e dei suoi figli, non le permettono di ricorda- re. È il bambino che deve sopperire alla mancanza, testimoniando per se stesso, e le proprie malattie, e assumendosi così la responsabilità del proprio presente e del proprio passato. I segni di insofferenza che la giovane donna ha per la vita familiare e per le sue responsabilità non tardano a mostrarsi e, dopo una breve apparizione, foriera di una passeggera illusione di normalità, scompare nuovamente. È proprio Tommi, tornando a casa, una sera, a notare la finestra dalle luci spente e a mettere immediatamente in relazione, forte delle precedenti espe- rienze, l’oscurità con l’assenza e l’ennesimo abbandono.

La famiglia perfetta del terzo piano

Alla famiglia sofferente, dagli affetti instabili e carenti, il regista con- trappone un altro tipo di famiglia, dai rapporti stabili e sereni: la fami- glia del terzo piano, significativamente posizionata, anche dal punto di vista spaziale, in un piano di perfetta medianità ed equilibrio. Bene- stante, felice, ed equilibrata, la famiglia del terzo piano rappresenta il prototipo di gruppo familiare radicato nell’immaginario collettivo. A conferma ulteriore del suo equilibrio, tre sono i suoi componenti: la triade mamma papà bambino, uniti in un rapporto di amore e reci- proca comprensione. Tre è il numero perfetto dell’equilibrio, nonché la tipologia di composizione più frequente della famiglia italiana for- mata da due genitori e un figlio unico8. Anche la famiglia di Tommi è una triade ma, contrariamente alla famiglia del terzo piano, i membri sono tre, a seguito di una sottrazione, e non in virtù dell’equilibrio e della perfezione. I genitori della famiglia perfetta vanno d’accor-

8 Lo statistico Roberto Volpi, ha attentamente analizzato la costituzione delle fami- glie italiane e afferma che: «la percentuale di coppie con un solo figlio supera decisamente, già oggi, il 45 % di tutte le coppie con almeno un figlio. Quasi una coppia su due tra quelle che hanno figli ha un solo figlio. Non sappiamo – sia chiaro – se questo figlio resterà l’unico, sappiamo che se fotografassimo oggi l’Italia delle coppie troveremmo che il figlio unico lungi dal rappresentare una rarità è già, a questo momento, una tipologia molto frequente e che si appresta a diventarlo ancor di più» (C’erano una volta i bambini p. 12). 356 do, parlano con il figlio e tra di loro, si comprendono a vicenda e sono felici, avendo costruito un sistema di relazioni e comunicazioni sia affettive che fisiche, gratificanti per tutti i componenti del gruppo familiare, contrariamente alla famiglia di Tommi, dove i rapporti quo- tidiani sono difficili e carichi di ansie, difficoltà, sofferenze e conflitti. Quando Tommi entra per la prima volta nell’appartamento dell’amico, dalle stanze ordinate, luminose e spaziose, in netto con- trasto con lo spazio abitativo occupato dalla sua famiglia, sempre nell’ombra e sommerso dal disordine, trova l’amico Antonio in un momento di intimità fisico-affettiva con la mamma. Il bambino le sta facendo un gentile massaggio alla schiena e tra i due corre una vibra- zione di reciproca confidenza che Tommi, per conto suo, ignora e che rimane ad osservare stupito e cosciente della mancanza.

L’amico del terzo piano e sua madre: un rapporto di intima confidenza

Quali modelli familiari per Tommi?

Se la famiglia, tra le sue molte funzioni, ha quella di offrire dei model- li a cui fare riferimento per la crescita, è evidente, dal contrasto tra i due nuclei familiari, come per Tommi, tali modelli siano pieni di con- traddizioni e problemi non risolti. La madre è immatura e incapace di offrire garanzie. I suoi comportamenti, quando è presente in fami- glia, sono all’insegna della violazione di ogni regola sociale. Il primo effetto del suo ritorno a casa è un giorno di vacanza dalla scuola per i bambini. Allo stesso modo, senza alcun preavviso la donna decide di 357 concedere a sé e a Tommi un giorno speciale e lo sottrae, senza pre- avviso, nel bel mezzo della lezione, ai suoi normali impegni scolastici e sportivi. Quando il bambino le fa notare che ha preso una multa per divieto di sosta, la sua immediata e istintiva reazione è gettarla nel più vicino cestino per la spazzatura, ignorandone il valore di sanzione e il conseguente prezzo da pagare. Il padre, se pure mosso da un grande amore verso i figli e da un costante desiderio di creare una famiglia per loro, è incline a frequenti scatti di rabbia e amarezza nei confronti della società che lo ha relegato in un ruolo senza sicurezze familiari o lavorative. I bambini, tanto Tommi che Viola, sono testimoni dei suoi scoppi d’ira, delle violente discussioni e del suo temperamento irruento. Nell’ufficio di un cliente da cui deve riscuotere da tempo del denaro per una parcella mai saldata, impone al figlio la vista di una scena sgradevole e violenta. Gli insulti e la violenza fisica e verbale producono tuttavia il risultato voluto (il cliente gli firma l’assegno richiesto) offrendo così a Tommi l’esempio che l’attacco è il mezzo più consono per ottenere ciò che ci spetta e difendere i nostri diritti.

Tommi e suo padre: se si gioca da liberi si vince

Lo scoppio d’ira più brusco e violento è diretto proprio a Tommi. Il quale, nel desiderio di allontanarsi dalla realtà familiare cupa e diffi- cile, chiede al padre di passare una settimana bianca con Antonio, il fortunato amico del terzo piano. Il desiderio è quello, per una volta, di sottrarsi alle preoccupazioni, alle urla, alle lotte che le giornate porta- no con sé per immergersi, anche se per pochi giorni, nella normalità di un’esistenza sicura e senza scosse. Alla sua richiesta, la rabbia del padre esplode: «Siamo sommersi dai debiti, ci stanno per togliere la casa, sto nella merda fino a qua, e tu vuoi andare in settimana bian- ca?» urla l’uomo in un’esplosione di violenza fisica e verbale che tra pugni agli oggetti che lo circondano e bestemmie, si conclude nella cacciata di casa di Tommi, letteralmente buttato fuori dalla porta di casa. Rabbia e disperazione hanno lo stesso volto, in questa scena, in cui l’uomo, è incapace di controllare la sua frustrazione familiare e sociale. Due mondi si scontrano davanti ai suoi occhi: la sua famiglia in preda alla lotta quotidiana contro i debiti, che rischia di perdere anche la casa, ipotecata nell’estremo tentativo di inseguire un sogno di stabilità lavorativa, e gli altri, quelli diversi da loro, la famiglia 358 borghese con i condizionatori d’aria alle finestre e la domestica che serve a tavola, quelli che nella società hanno ottenuto il loro posto e possono permettersi la settimana bianca, da sempre status symbol sociale di successo. «Ma pagano loro…» dice Tommi, pensando di mitigare la rabbia del padre e colpendolo, invece, ancora più a fondo, nel suo amor proprio. La violenta e incontrollata reazione che investe il piccolo Tom- mi, lo lascia, ancora una volta solo ad affrontare la realtà e a dover decidere da che parte stare. Partire per la settimana bianca e lasciarsi alle spalle, anche se per breve tempo, la difficile realtà familiare o tornare invece tra le mura che sono la sua casa e i suoi affetti? A Tom- mi non interessa vincere, né stare dalla parte di quelli che vincono. Una madre assente e inaffidabile, un padre arrabbiato e in lotta con il mondo eppure sempre impegnato, nel bene o nel male nel difficile e faticoso ruolo di genitore, hanno offerto a Tommi gli strumenti e la maturità emotiva che gli permettono di muoversi nelle situazioni della vita da libero, fluidamente, cercando nella realtà quel che c’è di buono e adattandovisi. Per questo Tommi torna da suo padre, anche dopo essere stato malamente cacciato di casa. Torna per riconciliarsi, per offrirgli quel supporto che è poi la base dei rapporti familiari, all’insegna della comprensione ma anche del- la mediazione, uniche condizioni per rimanere in gioco nella partita familiare. È in un gesto di estremo avvicinamento verso il figlio, che il padre rinuncia ad imporgli lo sport del nuoto permettendogli di giocare a calcio. Tommi vorrebbe giocare da centrocampo ma il padre suggeri- sce: «A me mi piace libero». «Anche libero va bene» è la risposta di Tommi al padre, laddove, libero è il ruolo a cui il padre aspira e quello che Tommi ha giocato, con naturalezza e abilità per l’intera storia.

Works Cited

Anche Libero Va Bene, Kim Rossi Stuart, 2005, 01 Distribution, DVD. Barbagli, Marzio, Chiara Saraceno, Lo Stato delle Famiglie in Italia, Bologna, Il Mulino, 1997 Carabetta, Carmelo, Giovani, cultura e famiglia, Milano, Franco Angeli, 2010. 359

Casadio, Giorgio, Quando i libri facevano Goal, «Il sole 24 ore» 14 Giugno 2010. Corsi, Michele, La famiglia: una realtà educativa in divenire : storia, teoria e prassi alle soglie,degli anni 2000, Milano, Marietti, 1990. Intervista al regista Kim Rossi Stuart sul film Anche libero va bene, RAI, http://www.italica.rai.it/index.php?categoria=cinema&sche da=ancheliberovabene_intervista. Leopardi, Giacomo, I canti di Giacomo Leopardi, Firenze, Sansoni, 1902. Lotman, Jurij M., La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1976. Manzoli, Giacomo, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, Bologna, Pendragon, 2001. Pier Paolo Pasolini, Una semiologia per il goal in Betti, Laura, Gio- vanni Raboni, e , PierPaolo Pasolini: Una vita Futura, Milano, Garzanti-Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1985. Saba, Umberto, Il canzoniere, Milano, A. Mondadori, 1963. Viorst, Judith, Necessary Losses: The Loves, Illusions, Dependencies, and Impossible Expectations That All of Us Have to Give Up in Order to Grow, New York, The Free press, 1986. Volpi, Roberto, C’erano una volta i bambini, Venezia, La Nuova Ita- lia, 1998. 360 361 Salvo Cuccia

Il cinema di De Seta e la trasformazione della società. Dal Meridione visto da De Seta ad oggi, attraverso la poesia del reale e il documentario d’autore

Sono passati quasi 60 anni ormai dal primo documentario di De Seta sulla pesca del pesce spada, più di mezzo secolo lungo il quale la for- ma del documentario ha attraversato alterne fortune. Vinni lu tempu di li pisci spata? è pura poesia del reale, eppure il suono e l’immagine non venivano girati da De Seta nello stesso momento: dedicava alcu- ni giorni alle riprese delle immagini e altri a quelle del suono. Anni fa il mio grande maestro “involontario” Raùl Ruiz sottolineava con ironia il fatto che il cinema neorealista fosse tutto doppiato e non si spiegava allora dove stava la realtà. Per un grande maestro del cine- ma immaginifico come lui, è pressoché impossibile parlare di realtà in senso oggettivo e di cinema del reale tout court. Anche De Seta fu costretto a doppiare in italiano dal sardo il suo Banditi ad Orgosolo, opera prima vincitrice a Venezia nel 1961. Ad ogni modo De Seta con i suoi documentari degli anni ’50 introduce nel cinema italiano una modalità di suono dal vero – che spesso veniva escluso per dare corpo alla voce fuori campo – che restituiva la voce ai poveri pescatori, ai contadini, agli zolfatari siciliani, ai pastori e alle donne sarde, ai dere- litti di quel sud lontano da tutto e abbandonato a se stesso. Ed è dun- que portatore di una grande volontà di sguardo sul mondo dalla parte dei poveri, dei dimenticati (come titola il suo ultimo documentario dei 10 degli anni ’50). Il corpus dei 10 documentari è un tesoro ine- stimabile non solo dal punto di vista cinematografico, ma soprattutto dal punto di vista poetico e antropologico: De Seta si accorge che quel mondo sarà definitivamente cancellato e lo fissa per immagini e suoni in un racconto che si snoda attraverso vari luoghi del sud, dalla Sicilia alla Sardegna e alla Calabria, con una sensibilità nuova, inedita. Le stesse immagini della mattanza si vedono in altri film documentari 362 precedenti, come ad esempio anche quelli della Panaria film, altro capitolo importantissimo per il cinema siciliano che si propaga per importanza in Italia e all’estero, ma gli obiettivi sono diversi: per De Seta i corpi, i volti, gli sguardi, il paesaggio, le azioni degli uomi- ni si fondono in una sinfonia naturale. Il contrappunto tra il raccon- to della società arcaica, i suoni naturali, l’utilizzo delle tecnologie più antiche e l’irruzione della modernità – attraverso i motori dei pescherecci o il rumore della trebbiatrice che arriva al tramonto in “parabola d’oro” diviene il nucleo centrale del racconto desetiano. De seta racconta una vita che si è svolta fino a quel momento con quelle modalità fin da 5000 anni prima e che adesso viene messa in discussione dal nuovo che incede. Utilizza il colore e il formato lar- go, cinemascope, in quasi tutti i documentari, cosa che lo distingue da tutti gli altri autori del tempo che nei documentari utilizzavano il formato più stretto e il bianco e nero. Anche l’utilizzo di questi elementi diversi creano una nuova sensibilità e una volontà di speri- mentare, di mettersi in gioco. Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di incontrare un grande autore argentino, tra i fondatori del nuovo cinema latino americano: Fernando Birri, che ha fondato la scuola di cinema di Santa Fe e nell’85 la scuola di cinema dei tre mondi di Cuba, voluta da Gabriel Garcia Marquez e da Fidel Castro. Birri inizia negli anni ’50 in Italia diplomandosi al Centro Speri- mentale di Cinematografia, attratto, come tanti in Sud America, dalla nuova onda italiana di quegli anni: il neorealismo. Il cinema italiano era altissimo e tutti ne erano affascinati, da tutte le parti del mondo. Il neorealismo, partendo dal suo autentico seme? come mi racconta Birri? e cioè Gramsci, prorompe per espandere le sue modalità ad altre cinematografie anche lontane. Non per niente Birri è considerato il fondatore del nuovo cinema argentino alla fine degli anni ’50, pren- dendo energia e ispirazione dallo slancio dato da film come La terra trema e da Zavattini. E gira prima in Sicilia, proprio in questa Sici- lia, tre cortometraggi di cui uno irrimediabilmente perduto, Alfabeto notturno del 1952, sull’alfabetizzazione. Gli altri due sono Selinunte (1951) e Immagini popolari siciliane (Sacre e Profane) (1952), que- sto ultimo con la co-regia di Mario Verdone, che era suo insegnante alla scuola di cinema. È stato assistente di Cario Lizzani nel film Ai margini della metropoli (1953), di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini nel film Il tetto (1954) e ha sceneggiato nel 1955, col regista messi- cano Emilio Fernández -El Indio-, un «remake» de Las abandonadas, 363 mai realizzato, che avrebbe voluto girare sempre in Sicilia, a Torret- ta, dove vedeva le stesse donne del Messico. E in queste imprese si lega a Vittorugo Contino, allora operatore di macchina e in seguito fotografo di scena di De Sica e altri autori e a Enzo Sellerio, che inizia proprio dal 1952 a fotografare. Dunque parliamo di una gene- razione 25/26enni, oggi ultraottantenni, che in un incontro privato da me registrato tra Birri e Sellerio, parlano di utilizzo di tecnologie digitali come se fossero dei giovanissimi: allora mi chiedo dove sta la vitalità se non da quelle parti. Sellerio dice che non tornerebbe mai più alla camera oscura avendo ottimi laboratori che gli stampano il digitale nel suo bianco e nero! E Birri che replica dicendo che anche lui gira in digitale! E De Seta che ha girato il suo ultimo film Lettere da Sahara tutto in digitale, mettendosi di nuovo in gioco con le nuove tecnologie. E il centro di interesse per me sta proprio in questa curiosità, in questa voglia di sperimentare di una generazione che possedeva e possiede tuttora uno strumento oggi paradossalmente perduto per la maggior parte dei giovani documentaristi e cineasti: la profondità dello sguardo e la volontà di sperimentare. E non solo: la profondi- tà dell’indagine sulla realtà che aveva il carattere dell’esattezza (per citare uno dei parametri dettati da Calvino nelle sue Lezioni ameri- cane, perché il loro lavoro era profondamente politico, sociologico, umano (con l’uomo al centro delle immagini, come dice De Seta) e allo stesso tempo viscerale e istintivo. Ma di cosa è testimone De Seta, insieme a quellidella sua generazione? È testimone dell’inizio di quella Grande Trasformazione, come la chiama il geografo Eugenio Turri (autore di un imperdibile saggio? Semiotica del paesaggio ita- liano?), Grande Trasformazione che traghetterà il nostro paese dalla società arcaica a quella caotica e mediatica dei nostri giorni. De Seta aveva conosciuto il gruppo della Panaria Film e ne prende le distanze, per indole e per intenti, pur riconoscendo loro la capaci- tà di sperimentazione pionieristica senza precedenti. Lui però punta al racconto poetico e realistico allo stesso tempo di un mondo che sarebbe scomparso di lì a poco, preferendo la forma del documentario anche quando intraprenderà la strada del cinema di finzione:Banditi a Orgosolo è girato con i pastori e le donne di Orgosolo e non con attori professionisti. E anche a distanza di anni ripeterà l’esperienza nei pri- mi anni Settanta con Diario di un maestro film in 4 puntate per la RAI con i ragazzini della periferia romana, che in qualche modo contribuì 364 non poco a creare un dibattito pubblico sulla scuola moderna, ricco di polemiche provenienti da più parti. Le polemiche erano scoppiate anche anni prima col suo secondo film Un uomo a metà, primo film psicanalitico girato in Italia: da sinistra gli rimproveravano di aver “tradito” il suo esordio con Banditi a Orgosolo perché si trattava di una storia borghese in un momento in cui bisognava sostenere invece quella lotta di classe che non poteva lasciare niente al privato. Paso- lini e Moravia, voci solitarie e potenti, furono tra i pochi a difendere il lavoro di De Seta. Al Tribeca Festival del 2005, Scorsese invitò De seta e il sotto- scritto per il suo Tribute to De Seta. De seta raccontava al pubbli- co dei suoi incontri con Fellini a Roma e di come Fellini avendo conosciuto lo psicanalista che gli presentò De Seta fosse approdato al progetto del suo magnifico 8 e 1/2. Mentre lo ascoltava, Scorsese guardava il pubblico come volesse dire: «Guardate chi vi sto facendo conoscere!», anche lui con lo stesso atteggiamento e la curiosità di un giovane all’inizio della sua carriera! Scorsese mi raccontò che il giorno prima aveva incontrato Jack Nicholson (stavano per iniziare le riprese di The departed) che gli aveva raccontato di aver fatto un film western che era il remake di Banditi a Orgosolo. E dunque il cine- ma italiano continuava ad essere un modello per altre cinematografie e per Hollywood. E lo sarà fino alla fine degli anni ’70. Anche in questo caso, pur trattandosi di un film fortemente autoriale, politico. Dunque tutto cambia dagli anni ’50, quando Andreotti aveva forte- mente limitato il neorealismo liquidandolo come cinema “pessimista” che l’Italia non si poteva permettere, alla fine degli anni Sttanta che si chiudono con l’omicidio Moro da parte delle Brigate rosse che segna la vera fine del compromesso storico DC-PCI e l’avvento del Craxi- smo e del nuovo corso degli anni ’80, in cui cambiano molte cose, fino alla caduta del muro e oltre. Sono gli anni dell’ascesa mediatica di Berlusconi e delle sue televisioni e dunque della trasformazione del modo di vedere la realtà. Gli sguardi iniziano ad essere sempre più viziati dalla cattiva influenza della televisione commerciale. Ma facendo un passo indietro, il nostro desiderio di cambiamento si esprime nell’utilizzo del cemento e poi dell’alluminio anodizzato materiale quest’ultimo che Woody Allen definisce diabolico addirit- tura – che diventano i simboli di una trasformazione che va avan- ti velocissima e che allo stesso tempo fa in qualche modo un passo indietro rispetto al passato perché non ha fondamenta culturali tali da 365 poter durare, come i palazzi costruiti dal sacco di Palermo in poi o ai nuovi quartieri di Napoli di cui ci parla Rosi nel suo Le mani sulla città. È a questa nuova realtà “imprenditoriale” a cui il sud rimane attaccato fio ai nostri giorni e con cui fa i conti continuamente. Personalmente sono stato catturato dall’opera di De Seta per il fatto che appartengo ad una generazione che ha vissuto sulla propria pelle il proseguo di questa Grande Trasformazione di cui quella gene- razione racconta la genesi. E ho trovato nel suo cinema e nel cinema di tanti altri di quel periodo, alcuni elementi di risposta a quello che erano stati il mio malessere e il mio disagio adolescenziali, che non erano un fatto solo mio intimo e personale, ma che appartenevano alla mia generazione, che si trovava negli anni ’70 al centro di quel trasbordo, almeno in Sicilia. Nel ’68 avevo assistito allo sbarco sulla luna e dalle mie parti c’era stato quel terremoto che lascerà strascichi per decenni: lì c’era Danilo Dolci che fa politica, quella vera, che lotta per l’acqua, per i diritti fondamentali delle classi povere, per l’alfabetizzazione, per il diritto al lavoro. E che fonda la prima radio libera in Italia. Libera e clandestina: viene chiusa dopo meno di 48 ore ma rimane nella storia. La Radio dei poveri cristi che intende dare voce ai poveri e ai terremotati. Il Sessantotto è anche il momento di un altro terremoto, quello generazionale. E io mi trovavo ancora ragazzino in un piccolo paese della profonda provincia siciliana dove c’erano i contadini che si chiedevano come mai la Democrazia Cri- stiana incentrava di continuo le campagne elettorali sulla costruzione del famigerato ponte sullo Stretto, di cui non a caso si continua a parlare oggi. E mi è rimasta impressa come immagine di sintesi quella di un contadino che passa con il suo mulo davanti ad un muro su cui è affisso uno di quei manifesti con questo ponte lontano mille miglia dal suo mondo che era circoscritto e si estendeva solo per pochi chi- lometri: da casa sua, stalla compresa, alla campagna dove ogni giorno si recava per lavorare sotto il sole o sotto le intemperie. E un?altra immagine di sintesi per me rimane quella dell’accostamento di due mondi: le immagini di Jimi Hendrix da un lato e quella di un don di mafia dall’altro. Mi piace condensare così quel periodo, i miei anni ’70 che per certi versi erano simili a quegli altri anni che li avevano preceduti, perché quasi niente era cambiato. Ho registrato tempo fa una testimonianza di un altro grande foto- grafo siciliano: Ferdinando Scianna, durante un suo ritorno in Sicilia per una sua mostra che ripercorreva i suoi anni sessanta e settanta 366 a Bagheria, stessa città di Guttuso e Tornatore. Città in cui muore anni dopo Giacomo Giardina, poeta pecoraio e futurista, che quando ero ragazzo conobbi a Godrano, paese ai limiti del bosco di Ficuzza, ad un passo da Corleone. Luoghi del poeta che Marinetti incoronerà futurista. E alla mostra di Scianna ho osservato a lungo il viso scavato di Giardina nell’atto declamatorio. Era strano vederlo declamare a Godrano negli anni Settanta tra gli allevatori e i vaccari del luogo: con quel viso imperscrutabile andava avanti tra l’interesse di qualcuno e l’indifferenza di altri, di cui aveva l’accortezza di non curarsi comple- tamente. Credo che quel volto sia una testimonianza forte di un emis- sario di cultura, di poesia, di creatività e creazione in un microcosmo che per assurdo ospitava tutti. Oggi invece non c’è più spazio per la poesia e l’immaginazione e il paradosso è che viviamo in un epoca di immagini e il grado culturale della popolazione dovrebbe quanto- meno essere più elevato: ma ciò è solo un’apparenza, una formalità.

Ciò che mi è rimasto impresso è il racconto di Scianna sulla partenza e sul ritorno, di ciò che cambia e di ciò che si ritiene nella propria memoria, immutabile e che invece si trasforma con lentezza e allo stesso tempo con velocità. Scianna mi parla di quell’Itaca che si lascia e che non c’è più perché vive solo nel ricordo, perché al ritorno tutto è cambiato e niente è come te lo se immaginato negli anni e nel tragitto di ritorno. E Scianna nasce artisticamente con il sostegno di Leonardo Sciascia, il grande scrittore e intellettuale siciliano. E la vita letteraria di Sciascia nasce molti anni prima proprio in quelle stanze in cui ho incontrato Fernando Birri e Enzo Sellerio. I suoi inizi sono all’inse- gna del grande rapporto intellettuale e professionale con Elvira Selle- rio, rapporto che si propaga nel tempo. Scianna è tenuto a battesimo dal suo “nume tutelare” come lo definisce egli stesso, Leonardo Scia- scia, il grande scrittore e intellettuale siciliano, ma anche da Cartier Bresson e da altri intellettuali e artisti, tutti di calibro internazionale. Mi racconta anche di aver “ritrovato” la sua Bagheria nella prima notte passata in una Bagdad post prima guerra del golfo, tra stril- li incomprensibili per i suoi compagni di viaggio (gente del nord), che sembrano inneggiare alla guerra e all?insurrezione. Niente di tut- to questo: gli strilli a lui diventano improvvisamente familiari per- ché riconosce in quelle voci in arabo, le voci siciliane di quelli che “abbanniavano” i tragitti delle corriere che collegavano negli anni ’60 Bagheria a Palermo, Porticello e altri paesi vicini. E in quel luogo 367 lontano ritrova improvvisamente la sua Itaca, in un altro luogo e in un altro tempo. E Sciascia lo ritrovo invece in una collaborazione con Folco Quilici nel suo splendido Italia dal cielo, Sicilia degli anni Set- tanta, in cui viene rappresentata una Sicilia ancora arcaica e piena di difetti e tic che, vista dall’alto ritrova la sua magnificenza e che si può osservare con distacco. La stessa cosa diceva Sciascia da Parigi: «da qui le cose mi appaiono più chiare». È il paradosso del vivere dentro i luoghi e le situazioni e di rivederli poi nella loro interezza da lontano, in un gioco tra macro e microcosmi. E Sciascia lo troviamo giovanissimo al suo debutto con gli editori Elvira ed Enzo Sellerio, che sono i primi a pubblicare i suoi libri. Nel- le stesse stanze della casa editrice in cui si animavano dibattiti intel- lettuali e che generavano tanta cultura, ritrovo pochi giorni fa Sellerio con Birri a parlare degli anni ’50 come se il tempo non fosse trascor- so. Scianna viaggia, tutti viaggiamo, anch’io viaggio. Forse qualcosa si può concretizzare alla fine del viaggio, come una summa, maè sempre molto poco. Si può fare una sintesi, estrarre un pensiero pos- sibile, più spesso frammenti e riflessioni sparse, da mettere insieme a seconda della propria sensibilità. Se si cerca un senso nelle cose, esso sfugge immediatamente, perché bisogna afferrare ciò che si vive durante il viaggio per metterlo a confronto con ciò che si ricorda del viaggio. Scianna mi dice che non è nella rappresentazione del tutto, ma anche in un solo frammento di quel tutto. Per tale motivo non ritengo mai chiusa un’opera, ma aperta a qualcos’altro che non cono- sciamo e che continua anche dopo l’opera stessa. C’è qualche prolun- gamento a cui ci porta un film o un documentario, una zona nuova, un punto da cui ricomincia il viaggio, l’esplorazione, la sperimentazione. Per questo un film non finisce mai.

Io la mia Itaca ideale e visionaria l’ho ritrovata in un film fondamen- tale di De Sica-Zavattini: Il giudizio universale. Film corale, ambien- tato in una Napoli in cui tutti sono intenti nei loro piccoli e grandi traffici, tra mille contraddizioni. Film in cui si sublima ciò che da lì in poi ho sempre pensato come momento di espressione alta: la fusione del reale e dell’immaginifico. Una voce da quel cielo plumbeo di una Napoli piovosa annuncia che alle 5 ci sarà il giudizio universale! Questi elementi che si innestano e divengono uno parte dell’altro rappresentano il sud nella sua totalità e interezza. Un mondo fatto di crudeltà, di magia e di imbroglio. Un mondo 368 fatto di credenze e di intrighi, di malandrini, fattucchiere, mafiosi, trafficanti e povera gente, di gente normale che vuole malgrado tutto vivere una vita “normale”, europea si dice oggi quando si parla delle città del sud che sono diventate europee: ma non lo sono sempre state a modo loro? Da “il pensiero meridiano” di Cassano in poi, abbiamo sognato un sud che si tiene a parte e che ci tiene a parte della sua ricchezza culturale e intellettuale e che contiene tutto e niente allo stesso tempo. A me interessa più il nulla come dato culturale. Anni fa Miriam Palma, una mia cara amica, artista della voce ineguagliabile mise in scena uno spettacolo dal titolo I paesi del nulla, lei di Santo Stefano Quisquina, dove c’è una grotta in cui si dice abbia albergato Santa Rosalia, la Santuzza di Palermo: una città che ha come Santa protettrice una Santa bionda, normanna che è anche un mito (non si sa se sia veramente esistita, eppure fa miracoli), non può che essere pur nella sua durezza, una città immaginifica, in cui il potere della visio- ne dei suoi abitanti è più forte persino di quello della parola. Voglio reinterpretare a modo mio il detto palermitano “La migliore parola è quella che non si dice”: non rappresenta per me l’omertà solo per come la conosciamo, ma perché il valore delle nostre visioni è così forte che le parole a volte o sono superflue o insufficienti.

Ma per tornare ai “Paesi del nulla” proporrei oggi Villafrati, il mio paese di origine, piccolo centro di 3000 abitanti, all’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità. E lo proporrei insieme a tutti gli altri paesi siciliani e del sud. Il nulla è questo deserto con cui, svoltato l’angolo della via principale, ti ritrovi a tu per tu. Un deserto mentale e psicologico che per paradosso ti invita al superamento di ogni cosa, di ogni difficoltà. E diviene luogo di percezione assoluta, sotto un sole che è come una coltre beyussiana, un enorme feltro che ricopre tutto e tutto diviene oscuro, inestricabile. E da questo celare nasce l’espressione, l’immaginazione, il racconto. Perché sotto que- sta coltre è nascosto un tesoro incommensurabile. E quel nulla di cui parla, Miriam Palma lo sintetizza in un gesto metronomico che scan- disce il tempo come il direttore d’orchestra che dirige un brano di John Cage: usa le braccia come due lancette d’orologio. O come le anziane riunite attorno ad un braciere d’inverno in un paese qualsia- si della Sicilia, che, arrivate al silenzio scandiscono le parole «ma ccà semu» (che sta all’incirca per «beh, siamo qua», siamo ancora vive). Tra quel “ma” e quel “ccà semu” risiede la natura della Sicilia, 369 in quella memorabile pausa ripetuta tante volte, che è un sentimen- to di sospensione in cui tutto non avviene o forse sta per avvenire, ineluttabilmente. Il senso dei racconti dei miei incontri – De Seta, Turri, Scorsese, Birri, Sellerio, Scianna, Sciascia (quest’ultimo non l’ho conosciuto ma ho fatto un documentario diversi anni fa, che mi ha dato il senso di un incontro a posteriori, avvenuto dopo la sua morte) e molti altri –, intende sublimarsi in una visione del sud che per me è come un arci- pelago che il cinema, la fotografia, la letteratura e le arti hanno fissato, o hanno tentato continuamente di fissare: e le immagini si sciolgono forse per il caldo o forse per una singolare indole autodistruttiva, o forse per un sentimento di orgoglio che un attimo dopo diventa viltà, o anche per una assenza. Ci assentiamo dalla nostra storia e dalla nostra cultura e dimentichiamo. Forse è per questo che mentre la televisione continua ad annunciare incessantemente, minuto per minuto, le sue “verità assolute” di un mondo parallelo, come in internet si diramano le “voci di amicizia virtuale e non reale” di Facebook – in molti oggi dedichiamo il nostro tempo e i nostri sforzi a ridare alla luce gli ele- menti sparsi e reconditi del nostro modo di sentire la realtà. È il tempo, che ci trasforma.

370 371 Cosetta Gaudenzi

Locals, Italians and Foreigners in Mazzacurati's La giusta distanza

In La giusta distanza (2007), the director Carlo Mazzacurati demon- strates once more his fondness for the Po Valley and continues to pursue his interest in encounters between Italians and foreigners, two features already seen in his Notte italiana (1987), Vesna va veloce (1996), and L’estate di Davide (1998)1. The film La giusta distanza, which is set in Concadalbero, a little village in the Po Delta, features three protagonists: a local eighteen-year-old named Giovanni (played by Giovanni Capovilla), who aspires to become a journalist and narra- tes the whole movie with occasional comments in voiceover2; a young substitute elementary teacher by the name of Mara (Valentina Lodovi- ni), who has just moved to the small community from Tuscany; and a Tunisian man, Hassan (Ahmed Hefiane), who has been a mechanic in the area for some time. Throughout the film, Mazzacurati pays special attention to the issues of acceptance and integration of foreigners3. In fact, one of the major purposes of La giusta distanza, I suggest in this essay, is to educate the audience about living together peacefully and respectfully4. In line with such a goal, the director employs a system

1 Mazzacurati’s most recent film,La passione (2010), is also set in a small village, this time in Tuscany, and features among its prominent characters a woman from Eastern Europe. 2 Over the course of the movie, Giovanni tells us of his transformation from a bud- ding correspondent providing local insights for a senior journalist from Vicen- za (Fabrizio Bentivoglio), to a young columnist for a paper in the large city of Milan. 3 In an interview published on the internet site of Italica, Mazzacurati affirmed the following about La giusta distanza: «Volevo … dare un segno di speranza, di comprensione per l’“altro”» («I wanted … to give a sign of hope, of understand- ing for the “other”») 4 Tullio Masoni and Paolo Vecchi, authors of a monograph on Mazzacurati, have also noticed the director’s ethical agenda (p. 17). 372 of cinematic devices which, reminiscent of Luigi Pirandello’s concept of social mask5, and Stuart Hall’s idea of negotiation of meaning6, progressively lead spectators to abandon pre-determined negative judgments of the “other”. Mazzacurati begins the didactic process by bringing to his audience’s attention the notion of reception (briefly defined as the act of receiving and processing information), through specific uses of the camera, such as subjective takes and shot rever- se shots. Then, by employing subjective camera takes from different perspectives, the director suggests that the significance of individuals is not simply inherent within them, but is created within the relation- ship between them and their observers. Any knowledge which derives from such a process is necessarily in constant flux and consequently has the potential to be misleading. Finally, Mazzacurati’s movie plays with the typical narrative structure of the Italian giallo7 – crime fic- tion or mystery, which deliberately presents different interpretations of particular events and characters – so that he can offer and discard at the same time the opinions of those characters who, relying on prejudices and stereotypes, look at an immigrant as the more likely offender. In outline, then, the first two sections of this essay illustrate Mazzacurati’s discourse on immigration through a detailed forma- listic discussion of early scenes in La giusta distanza, and through an examination of the interactions of Mara and Hassan with Italian locals and foreigners living in the village. In the third section, turning to broader issues of interpretation, I consider the movie within the framework of past Italian cinema and culture. Comparing La giusta

5 Pirandello has exerted a notable influence on Italian cinema thorough his theatrical and prose works as well as through his scholarly articles on the motion pictures. (See Manuela Gieri, Gian Piero Brunetta, and Francesco Callari.) The concept of the social mask is treated at length in Pirandello’s novel Uno, nessuno e centomila (1926), where the main character, Vitangelo Moscarda, slowly realizes that, far from being a unique and a unified whole, he is essentially non-existent, a product of the different social masks applied to him by other people in society. And when Moscarda tries to take off such masks, he is consequently considered crazy. 6 Stuart Hall is one of the main proponents of reception theory in media studies. According to his theory of encoding/decoding, the audience negotiates the mean- ing of the text, which therefore depends also on the cultural background of the public. 7 The Italian giallo is a twentieth-century genre in literature and film, the name of which derives from the yellow cover that the publisher Mondadori employed to introduce an influential series of mystery novels in 1929. For a detailed discus- sion, see Peter Bondanella’s A History of Italian Cinema (pp. 372-75). 373 distanza to earlier films set in the Po Delta, I highlight the meticulous intellectual achievement of Mazzacurati vis à vis his cinematic past.

I

La giusta distanza opens with an aerial view of the thick birch forest of the Po Delta. The camera is then progressively lowered in the direction of the horizon, slowly following the course of the river, and gradually zooming in on a blue country bus as it leaves a little village. In the following scene, as the focus is further limited to people, we meet young Giovanni driving in a small vehicle, an Ape, with Bolla (Roberto Abbiati), an eccentric man from Concadalbero. The adole- scent activates the film’s plot by recounting a particular event which changed his life, the coming of Mara to his home village. The lively young female teacher arrived one day by bus (the same country bus we see at the beginning of the film), and immediately became the cen- ter of the villagers’ attention. Giovanni’s narration of Mara’s arrival is accompanied by the director with a cross-cutting cinematic techni- que, moving from her walking the main street of the community in a red coat while gazing at her new neighbors, to the curious staring directed at the young teacher by old men sitting at the local bar, by several old ladies near their houses, by two storekeepers from behind their windows, and by the male and female tobacconists standing next to their shop. In this complex sequence – by recording Giovanni’s voiceover commentary, which provides the film narrator’s own per- ception of reality, and by presenting in cross-cutting the reactions of Mara to her new environment and those of the local inhabitants to her, which encourages viewers to notice the acts of observing and being observed – Mazzacurati cinematically suggests from the opening of La giusta distanza that his film will also be a reflection on reception. A similar cinematic emphasis on reception is achieved by the use of subjective camera, not only in the sequence of Mara’s arrival, which presents the Concadalbero inhabitants through the eyes of the teacher, but also in other notable parts of the movie that will be investigated below. After her arrival, Mara attracts the attention of several males in Concadalbero: Guido, the bus driver, who helps when Mara is having a car problem, and seems later in the film to regret being engaged to another girl; Amos, the rich tobacconist and deep-sea fisherman, who 374 takes her on a trip around the Po Delta on his powerboat, but whom she later dismisses as sexually aggressive, calling him “the octopus” of Concadalbero; Bolla, who oddly or lustfully stares at the young teacher on more than one occasion, causing her to feel somewhat une- asy; Giovanni, who while assisting the young teacher in installing her internet connection steals her e-mail password so that he can learn more about her; and, finally, Hassan, the foreign mechanic who falls immediately in love with Mara and spends more than one evening standing outside her home watching her. Mazzacurati often shoots Mara through the eyes of the aforementioned locals, thus making her a construction of desire. A noteworthy instance of this phenomenon occurs in a sequence presenting Hassan secretly watching Mara at night. While the Tuni- sian is hidden behind a tree next to her house, looking at the teacher blowing her hair and smearing cream on her legs, he is in turn seen by Giovanni, who is also furtively observing the scene, apparently trying to discover the clandestine night visitor outside the teacher’s home previously mentioned by her in an email to her friend Eva8. The episode highlights, among other things, a major issue of reception theory, that characters are active interpretations of their observers. While Hassan provides a perspective of Mara as a sexual object, the protagonist Giovanni adds to our view of her the aspect of apparent victim of sexual harassment, as becomes evident from his disappoin- ted reaction when he discovers Hassan spying on Mara. By supplying different viewpoints on Mara, the director shows how knowledge is somehow partial and imperfect. In addition, by inserting the layers

8 The following shots compose the peeping sequence outside Mara’s house: low- angle shot of Mara (M) from Hassan’s (H’s) point of view; zoomed low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle close up of black boots; close up of Giovanni (G) coming out from behind a tree; close up of G’s back as he presum- ably watches H in the distance looking at M; close up of G looking ahead; close up from G’s point of view of H’s back as he looks at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H advancing towards the house; close up of G looking ahead; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; close up of G looking ahead and leaving the scene; close up from G’s perspective of H’s back looking at M; edit to the morning and beginning of a new sequence with close up of G looking ahead in the direction of H’s workshop. 375 of Giovanni the character who observes Hassan watching Mara, and Giovanni the narrator who is telling us the entire story of the film, Mazzacurati also makes his audience aware that truth relies not only on the partial perspective of who observes (what Giovanni the cha- racter sees might lead one to think, wrongly, that Hassan is a stalker), but also on the time when the observation occurs (Giovanni the narra- tor knows much more than Giovanni the character about the intimate relation between Mara and Hassan). A storyteller who depicts himself in a condition of past ignorance, commenting at times in voiceover as Giovanni does in La giusta distanza, calls to mind a notable figure of Italian culture, the narrator of the Divina Commedia. Like Dan- te the pilgrim, Giovanni the storyteller in La giusta distanza serves to underscore the importance of reception in the signifying process, and to add layers of interpretation to the work, thereby rendering its reception more complex9. If we analyze the peeping sequence through the help of a psycho- analytic approach, we can begin to identify what is behind Mazzacu- rati’s emphasis on and manipulation of reception in La giusta distan- za. In this sequence, Hassan is living a condition of film spectator and voyeur, as discussed in Laura Mulvey’s notable essay “Visual Pleasure and Narrative Cinema”10. The darkness of the auditorium in which the film is shown is reproduced within the movie by the lack of sunlight, and the illuminated windows of Mara’s house become the screen. The director shoots and cross-cuts the sequence from three different points of view: Hassan’s, Giovanni’s, and his own. By repre- senting Mara through the eyes of Hassan, the director portrays his female protagonist as a passive, sexual object that plays to and signi- fies male desire, a condition we see symbolically supported here by the red color of objects inside Mara’s house11. According to Mulvey, such depiction in film of a female character is not only “scopophilic”, in that Mara here works for spectators as an object of sexual stimula- tion through sight, but it is also “empowering”, in the sense that it rea- ches the spectators through a subjective shot (Hassan’s eyes) which

9 On Dante and reception, see Richard Lansing’s Dante Encyclopedia under the topic “Theory and Criticism”. 10 The influential essay was first published in 1975 in Screen and is now part of a book collection by Mulvey (Visual and Other Pleasures, pp. 14-26). 11 The color red appears also in other scenes. For instance, Mara often wears red clothes. 376 contributes to their identification with the male protagonist who is the actual controller of the look. On the one hand, then, Mazzacurati has created a partial condition of acceptance of the foreign male in his audience. (Mara seen through Hassan’s eyes might make spectators associate with the Tunisian and favorably regard him as a timid lover unable to express his own feelings.) On the other hand, by adding the point of view of the character Giovanni to the sequence, in such a way as to make the budding journalist the major controlling figure of the event (through whose eyes we see Hassan observing Mara), the direc- tor undermines the spectators’ recently constructed identification with Hassan so that the Tunisian might also be seen negatively as a stalker. In the peeping sequence described above, the director’s complex use of subjective camera (which is a recurrent shooting technique in film noir)12, together with other cinematic hints, such as the myste- rious discovery of a murdered dog on several occasions13, slowly turn Mazzacurati’s work into a giallo movie. (In the past, Mazzacurati has worker for RAI as a scriptwriter for gialli.)14. In fact, La giusta distan- za is also, and very importantly, a murder story. Towards the end of the film, Mara is found dead near the river bank by her house. Suspi- cions of the villagers fall immediately on the Tunisian, with whom the young teacher had spent time the evening before the murder, to say goodbye before leaving for a new job in Brazil. Shocked and sad- dened by the death of his beloved Mara, Hassan attempts to defend himself with calm and dignity in court, but ends up being convicted of her murder and commits suicide soon thereafter. Giovanni, who refuses to follow the advice of a senior journalist to maintain “the right distance”, will take a personal interest in the case, eventually clearing the mechanic’s name. The young journalist discovers that Mara’s real killer is actually an unsuspected local of Concadalbero, Guido, who, drunk and mistakenly thinking Mara is flirting with him, attempts to rape her and ends up fatally pushing her and knocking her head against a heater. Viewing La giusta distanza through the critical filter of the Italian

12 For instance, one of the earliest uses of subjective camera was made in Rouben Mamoulian’s Dr Jekyll and Mr Hyde (1931). 13 The case of dead dogs around the Concadalbero area arouses the investigative instincts in the film’s characters, and audience and it insinuates the presence of evil within the village. 14 See Filippi (p. 38). 377 giallo enriches our appreciation of the film. With its multi-layered structure which plays with different interpretations of a particular subject or fact, the Italian giallo becomes a cinematic device which Mazzacurati skillfully employs to make his spectators progressively more aware of the potentially misleading nature of the prejudicial and stereotypical “knowledge” which guides our everyday actions. Quite brilliantly, the director has drawn from a film genre that is self- reflexive, suggesting a similarity between the investigation underta- ken by the character Giovanni and the viewing process itself. And the final success of the budding journalist – who solves the case despite his own initial, limited view of Hassan as a stalker and regardless of the prejudicial opinions of the Tunisian held by the inhabitants of Concadalbero, who conveniently prefer to place the blame of the murder on an outsider – becomes also the success of the director, who manages to illustrate in a convincing way how deceptive and fateful pre-determined judgments can be15.

II

Having explored Mazzacurati’s discourse on immigration through a detailed examination of the visual and narrative techniques of La giusta distanza, I now investigate the same topic by means of an in- depth analysis of the movie’s main characters. The various interac- tions among Mara, Hassan, and the villagers become pedagogical tools with which the director achieves three major results in the film. Through his use of these characters, Mazzacurati guides his specta- tors in recognizing how easily we can be misled by prejudicial views of foreigners (accomplished also by some of the film’s cinematic devices, as discussed above), he problematizes the basic concept of Italian identity, and he finally provides positive and negative models of integration.

15 Mazzacurati prepares his viewers for the exculpation of Hassan in the film’s finale already in the second sequence, where the mechanic’s virtue is contrasted with local corruption. After Amos visits Hassan’s workshop for a presumed prob- lem to his car engine, the Tunisian’s local helper, who is represented as lacking professional ethics, scolds Hassan for not taking advantage of the tobacconist by making him pay a lot of money. Instead, the problem is solved by the foreign mechanic in a minute at no cost. 378

Mara and Hassan represent first of all different kinds of- immi grants to the village of Concadalbero, respectively, one domestic (form Tuscany), and the other one foreign (from Tunisia). Mazza- curati’s La giusta distanza retells an old story, that of the immigrant mistreated in an unfavorable new environment, in a clever, postmo- dern way, effectively pointing out the limitations of the conceptual framework categorizing people as locals and foreigners16. Who is the real Italian and who the real immigrant in the film? Mara is an Ita- lian and Hassan a foreigner. But Mara is also a Tuscan and therefore herself an outsider to the village of Concadalbero. On the other hand, Hassan, who speaks very good Italian, has been living in Concadal- bero longer than Mara and is therefore more of a “local” than she is. The two main characters of La giusta distanza, by virtue of their com- plex geographical ties, call into question the very concept of Italian identity17. More precisely, Mazzacurati’s treatment of Mara and Has- san illustrates that the epithets “local”, “Italian”, and “foreign” are too inflexible to describe adequately the complexities of reality. Such words exemplify people’s need to fossilize the continuous flux of life in images of certainty and stability. And La giusta distanza clearly shows that a staunchly conservative culture – like that of Concadalbe- ro18, which refuses to accept its own diversity and openly rejects any new, vital foreign influences in favor of steadiness and security – runs the risk of becoming stagnant or decaying, an image which is evoked towards the end of the film when the lifeless corpse of Mara is found at the bank of the river Po, which keeps on rolling and moving.

16 A similar strategy is evident in Amara Lakhous’ Scontro di civiltà (2004), a poly- phonic work in which the Algerian writer gradually demonstrates the inaccuracy of categorizations like “Italian” and “foreign” by placing side by side narrations of the same events under the different perspectives of immigrants and “Italians”. 17 Other Italian movies about immigrants question the concept of Italian identity. For instance, Aine O’Healy has pointed out that Amelio’s Lamerica, through the character of Gino, «shows a particular postmodern understanding of culture and identity, deliberately problematizing the terms “Italian” and “Albanian” as slip- pery, mutable categories» (p. 253). 18 The lack of progress and evolution in Concadalbero is well illustrated by a dia- logue between Giovanni and Franco, the telephone repairman. When Franco says, «Certo che una volta qua era tutta campagna» («It’s true that this was once all open countryside»), Giovanni amusingly replies, «Franco, qua è ancora tutta campagna». («Franco, here it’s still all open countryside».) Franco then agrees: «Te ne sei accorto anche tu, eh? Non è cambiato niente» («You’ve realized that too, huh? Nothing has changed at all»). 379

Mara and Hassan share not only a similar “immigrant status” – which, as he recognizes, arises from rather different circumstances, since he was motivated by necessity and a basic will to survive, while she pursues a somewhat fickle desire to enrich her experiences and learn about the world – but they also follow a similar final path of their lives, since after a few problematic initial encounters, they end up having a love affair and both eventually die during the film. The fact that Mazzacurati depicts Hassan and Mara, a man and a woman, as partaking in a similar destiny contributes additional overtones to the movie. Mazzacurati appears to be drawing a comparison between the contemporary condition of foreigners in Italy with that of other “subalterns” in this country, namely women19. Much as Gianni Ame- lio’s Lamerica (1994) reminded Italian moviegoers of their own past as immigrants20, to lead them empathize with non-natives at a time when Italians were faced with increasing waves of foreigners moving to their country, so does Mazzacurati’s pairing of an immigrant man with an Italian woman in La giusta distanza remind viewers of Italy’s past and present battles for women’s rights, so as to invite us to reflect on both categories of the “other” and treat them with respect21. The relationship between the leading characters is then not the only aspect of the film that points to a connection between the status of foreigners and women. The sequence in which immigrant prostitutes are treated poorly by local men, suggests that the fates of both categories of the “other” are interrelated. This point is also evident, on more than one occasion, in the wealthy tobacconist’s patronizing treatment of his internet bride from Eastern Europe. Indeed, intolerance is a deeply-rooted problem, very difficult to extinguish, as the villagers of Concadalbero well exemplify in their positive and negative interactions with Mara and Hassan. On the one side, from the earliest scenes of La giusta distanza, we are presented various cases of presumed integration. Hassan is the owner of a small

19 I am borrowing the term “subaltern” from the notable essay Can the Subaltern Speak? by Gayatri Chakravorty Spivak, where the scholar posits a similarity between the condition of women and that of immigrants. 20 See Caminati (p. 604) and Vitti (p. 252). 21 Compared to American women, Italian women obtained legal rights much later: the vote only after the Second World War; and abortion and divorce only in the mid seventies, when finally a new family law provided them with some economi- cal clout within the family. See Gino Moliterno’s Encyclopedia of Contemporary Italian Culture under the topics “woman” and “family”. 380 auto-repair shop where he works in smooth accord with a local hel- per22. Mohammed, his brother-in-law, is gainfully employed at a suc- cessful small restaurant. And Galja, the Rumanian wife of a wealthy man, Amos, works in the family’s tobacco shop. Finally, at the party celebrating Amos’ big tuna catch, Hassan’s local helper cheerfully dances with an Asian girl who works in the village as a bartender, and we see the male tobacconist thank the Tunisian for his prompt repair of the stereo with a toast and an Arab song. On the other side, the film also presents various hints that any apparent integration remains only partial and superficial. For instance, we learn that a local inhabitant had threatened Mohammed one night when denied a drink because it was closing time. Many foreign prostitutes work at a local gas station, and through Hassan’s eyes we see them treated arrogantly by Giovan- ni’s father. And, most importantly, after Mara’s death every inhabitant of the village points to Hassan as the murderer. While suggesting the lack of full integration between locals and newcomers, Mazzacurati’s La giusta distanza also offers characters like Mara, Hassan, and Mohammed as tentative models of genuine friendship and harmonious coexistence. The initial point is made through food. The substitute teacher is pleasantly surprised when she learns that Mohammed, a Moroccan who works as a cook, makes a very good piadina, an Italian specialty of the neighboring region Romagna. Conversely, Mara is later astounded to learn that Hassan, a Tunisian, claims not to remember the ingredients of couscous, a well-known North-African dish, so she offers to prepare it herself for one of their dates. Just as Hassan and Mohammed’s food choices represent their respect for Italian culture and their wish to integrate in their new country, so does Mara’s interest in a dish from Hassan’s native land symbolize her open-mindedness and eagerness to learn about other customs. The willingness to assimilate to Italy embodied by Hassan and Mohammed is evident also in matters of language and religion. Has- san for instance speaks very good Italian and, yielding to some heavy pleading, he even drinks a glass of red wine during the celebration of Amos’ fishing accomplishment (something discouraged by his native

22 For instance, Hassan’s local helper is respectful of the Tunisian’s privacy and leaves his boss alone when he needs to speak with Mara at the workshop. Also, Hassan’s helper includes the Tunisian in the life of the village by inviting him to go out together on the weekend. 381 religion). Most importantly, Hassan justifies his readiness to integrate to his new country after Mohammed mockingly refers to his hav- ing forgotten how to make couscous, «Ma lui vuole fare l’italiano e dimentica di tutto» («He wants to act Italian and has forgotten about everything»). Hassan defends himself by saying, «No, non è vero. Ma non mi piace questa nostalgia degli stranieri. Se stai qui, stai qui e basta» («No, it is not true. But I don’t like this nostalgia of foreign- ers. If you are here, you are here, and that’s it»). The Tunisian’s affir- mation of his decision to place his past culture in a minor position, it should be noted, does not imply that he considers Italian culture superior. He is simply acting in a practical way, «If you are here, you are here, and that’s it». Mazzacurati’s decision to portray the Tunisian as one who dismis- ses the sentimental nostalgia of some of his fellow foreigners, brings to mind contemporary literary works created by immigrants to Italy, like the novel Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, written in 2004 by Amara Lakhous, an Algerian immigrant to Rome. In Lakhous’ book, the main character Ahmed speaks, like Hassan, very good Italian and tries to distance himself from his past and from any strong belief in general that would restrain his individuality23. Mirroring contemporary trends in immigrant literature, Mazzacurati shows himself to be in tune with foreigners in Italy and to let them speak in their own words. Moreover, there is an extent to which the very title of his movie, La giusta distanza (The Right Distance), might be interpreted as an allusion to the cultural dilemma that immigrants everywhere are continuously facing: what is “the right distance”, la giusta distanza, that one should keep from one’s own past and from the new present? The dilemma is faced on one level by the male pro- tagonist Hassan, who left North Africa for Italy; on another level by the female protagonist Mara, who traveled from Tuscany to Conca- dalbero, and then intends to move to Brasil; and even by the narrator Giovanni, who leaves Concadalbero for Milan.

23 Lakhous’ Ahmed in Scontro di civiltà is such an integrated immigrant that every- body thinks he is Italian. 382

III

In the two previous sections of this essay, I discussed how Maz- zacurati employs certain characters, shooting techniques, and a specific film genre to present his particular ethical response to the contemporary social crisis of immigration in Italy. In the following analysis, I offer a wider interpretation of La giusta distanza, placing it within its cinematic and cultural background. By affirming in a past interview that the “language” of cinema evolves continuously and enriches itself because it nourishes itself from what preceded it, Mazzacurati has revealed the possibility that his work might con- sciously adapt and manipulate earlier Italian movies24. Indeed, from Marco Pettenello, one of the film’s screenplay editors, we know that La giusta distanza was initially inspired by Antonio Pietrangeli’s La visita (1963) – a movie set in the provincial Po Valley, dealing with the problem of women’s solitude – but was adjusted to discuss the broader and more contemporary issues raised by immigration in Italy25. Of course, Pietrangeli’s work was only a partial source for La giusta distanza, a simple point of departure for Mazzacurati’s more complex interaction with past Italian cinema. In fact, the most influential currents upon the film under scrutiny appear to come from neorealist films or similar works which attempt to escape the rigi- dly descriptive agenda of neorealism. Accordingly, in this section, I identify the most significant aspects of the movie which tend toward a documentary or realistic style, and then I attempt to trace their possible origins in the work of directors like Rossellini, Antonioni, and Fellini. The purpose of this discussion is, among other things, to assess to what extent interactions with past Italian films, as exempli- fied in Mazzacurati’s work, might contribute to the merits and limits of contemporary cinema in Italy. A partial interest in authenticity is evident on the part of the Italian cineaste from the second sequence of La giusta distanza, when Gio- vanni’s voice-over introduces the film’s story as his own autobiogra- phical recollection, thereby presenting it as a “true event.” Further- more, several characters in the film are portrayed quite realistically. Hassan, for instance, is a sort of hybrid documentary reproduction of

24 See his published interview from 1995 with Andrea Filippi (p. 56). 25 Interview published in June 2008 in «Oggi» p. 7. 383 an actual migrant to Italy26, who, after overcoming the first obstacles of reaching his new country, and after surviving there the possible vicious circle of crime, drugs, and violence, has managed somehow to achieve a measure of economic security27. Of course, Hassan is also more than a factual character, since, as illustrated above, he is portra- yed as an almost impeccably good immigrant, symbolically useful for conveying the director’s sympathetic perspective on non-natives to a general audience, and for providing a positive model of integration to foreigners in Italy. Such a supportive depiction of immigrants is typical of many Italian films on immigration (but differs from the ste- reotypical treatment of foreigners that is still at times detectable in the Italian mass media). This positive trend, in my opinion, is yet another manifestation of the general tendency in some contemporary Italian films toward civic commitment, a phenomenon observed and partly connected to neorealism in Italian films on immigration (Amelio’s Lamerica, Vincenzo Marra’s Tornando a casa, 2001; Francesco Mun- zi’s Saimir, 2004)28, in movies with a testimonial function (Francesco Rosi’s The Truce, 1997; Roberto Benigni’s Life is Beautiful, 1998)29, and also in anti-Mafia films with a memorialist function (Marco Tul- lio Giordana’s I cento passi, 2000; Pasquale Scimeca’s Placido Riz- zotto, 2000)30. In this respect, at least regarding its socially-bound subject matter, which treats a realistic event in a morally engaged manner, La giusta distanza appears to display some similarities with past neorealist cinematic works. An objective echoing of Italian reality is also perceivable in Maz- zacurati’s movie at the level of casting and language. The actors playing the protagonists, for example, are either not well known

26 Luca Caminati has observed that many Italian films on migration exhibit a condi- tion of generic hybridity, standing somewhere between fiction and documentary (p. 597). 27 The difficult conditions faced by immigrants are extensively portrayed, for instance, in Marco Tullio Giordana’s Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005). 28 See Caminati and O’Healy. For an updated list and basic report on the most sig- nificant Italian films on immigration, see Sonia Cincinelli’sI migranti nel cinema italiano (2009). 29 Marcus has defined this trend as the “return to the social referent and to the moral accountability of neorealism” (After Fellini p. 11). 30 See Marcus’ article In Memoriam: The Neorealist Legacy in the Contemporary Sicilian Anti-Mafia Film (p. 290). 384

(Ahmed Hefiane), or acting for the first time in a leading role (Valen- tina Lodovini), or local non-professionals (Giovanni Capovilla was chosen from among a group of adolescents attending a high school in Veneto). The employment of some actors from the local area, and the definite exclusion from the film’s protagonists of well-known profes- sional performers, potentially fulfills several purposes. It allows the director to work with actors who do not possess strong professional connotations, so as to more easily impose his own agenda on them; it helps direct the audience’s attention to the particularly secluded setting of the movie; and finally it seems to satisfy the neorealistdesi - deratum of representing reality objectively. Similar purposes are also attained in La giusta distanza through language. Adopting a mimetic linguistic technique, Mazzacurati pro- duces a film which is verbally hybrid, with an almost spotless Italian uttered by Giovanni and other educated movie characters, a standard Italian spoken with a slight foreign accent by Hassan and Moham- med, an Arabic used among the Tunisian and his in-laws, and a local dialect and inflection employed by some of the minor characters. The scenes with linguistic regionalisms particularly contribute to depic- ting the setting as isolated and provincial, further emphasizing the difference between natives and immigrants. The verbal encounter between the two groups is well exemplified in an amusing sequence where Amos, a local inhabitant, uses a dialect phrase with Hassan, a non-native resident, as a prelude to thanking him. After driving to Hassan’s workshop, at first upset because of a burnt smell coming from his new car, and then relieved after learning that the particularly bad odor was only a melted plastic sack on the exhaust pipe, Amos utters, in a mixture of Italian and local dialect, «Che spavento fijo mi» (“what a fright, my son”). The vernacular expression, “fijo mi”, which is a sort of interjection, apparently adding no relevant literal meaning to the speech, acquires in this specific dialogue with Hassan the signi- ficant value of erasing social differences between the two, treating the Tunisian not only as one of the Concadalbero inhabitants who can understand dialect, but also, literally, as an in-law. Ironically, Amos shows gratitude to the foreigner through a linguistic expression which symbolically patronizes him and obliterates his culture. The realistic and documentary-like choices at the level of the film’s subject, casting, and language, which I have been discussing above, are visually complemented by the director’s on-location shootings of 385 the Po Delta. By providing yet another view of a region close to his place of birth (Padua) – one which he has already filmed (for the first time in Notte italiana in 1987), and which had also been shot by ear- lier cineastes (to name the most distinguished and relevant ones for La giusta distanza, Roberto Rossellini and Michelangelo Antonioni) – Mazzacurati creates a work that is both partially autobiographical and constructed on foundations established by previous films. One of the first films that comes to mind after watching Mazzacu- rati’s La giusta distanza is the Neorealist Paisà (1946), a collection of six short stories from World War II that range in their setting from Sicily to the Po Valley. Not only does Mazzacurati’s work share the general location of the last episode of Paisà, the Po Delta, but, it also treats the river as an important presence and features a dead per- son in it31. In Rossellini’s movie, according to Marcus, the river Po may be symbolically associated with, among other things, historical progress towards the Liberation of Italy (After Fellini p. 38). A simi- lar impression is generated by Mazzacurati’s film, where movement, represented by the rolling river from the movie’s opening scenes and emphasized throughout by a steady depiction of moving buses, cars and boats32, has a positive value and is contrasted with the stagnation of an excessively conservative community. The point is forcefully illustrated by the image of Mara’s inert corpse stranded lifeless on the river’s bank, a tableau which recalls the cruelty of the nazis’ kil- lings of partisans in Rossellini’s Paisà and seems to cast blame on the conservative community of Colcadalbero. The voyages of Mara’s life have come to an abrupt end, but the river flows on.

31 In Paisà, Dale and Cigolani free the dead body of the partisan floating in the relentless current of the river and give it proper burial. In La giusta distanza, the body of Mara eventually frees itself of the weight with which it had been thrown into the river and emerges near a bank. 32 It is significant, for instance, that the film’s initial and penultimate sequences both display an aerial view of the Po Delta, zooming in and out on a country bus first arriving and then leaving Concadalbero. On the one hand, the aerial shots fram- ing the beginning and closing of La giusta distanza make the area appear not only fascinating, because of its still uncontaminated natural beauty, but also immu- table, because nothing has visibly changed from the opening takes. On the other hand, the coming and going of the bus serves as a cinematic narrative vehicle for introducing and then leaving behind the story of a remote region of Italy as well as symbolically suggesting the transience of the lives of men and women on earth like Hassan and Mara, who arrive and then soon depart. 386

Another factor which seems to draw Paisà and La giusta distan- za together is civic commitment. Rossellini’s film first represents the difficulties of constructing Italian national identity through cinematic fragmentation and mimetic portrayal of regional differences, but then also employs its montage to suggest the concept of unity in diversity (After Fellini p. 16). Through Paisà, Rossellini imposes on his vie- wers the task of interpreting the disjointed parts of the movie and con- structing in their own minds a national unity, an act which exemplifies the democratic consent needed in a nation (After Fellini pp. 16-17). In today’s Italy – where the country’s unity is constantly called into question by various demands for increased federalism, and where its social equilibrium is under continuous pressure from waves of new immigrants – Mazzacurati reconsiders and redraws Rossellini’s idea of unity in diversity by asking his audience to expand and render more flexible their concept of national identity to include the foreign. There is an interesting scene in La giusta distanza which may fur- ther exemplify Mazzacurati’s desire to redraw the cinematic idea of Italy and its territory. After a family lunch, Giovanni’s aunt Giacinta yells at his little brother who is refusing to come down from a tree: «vien zo delinquente che te copo! Se te caschi mi non te porto all’ospe- dale!» («Come down, you criminal, so I can finish you off! If you fall, I will not take you to the hospital!»). This humorous episode, which recalls the memorable moment in Federico Fellini’s Amarcord (1973) when the short nun curtly demands that Titta’s uncle descend from a tree, might invite us to reconsider that film’s depiction of the com- munity of Rimini. In Amarcord the Riminesi are generally connoted positively and outsiders negatively, because the latter are represented as importers of a conservative fascist ideology33. But, more than thirty years later, in La giusta distanza, where Mazzacurati addresses global influences on a contemporary Italian community, those who leave the limits imposed by the circle are portrayed positively: not only immi- grants like Hassan and Mara who have left their own homeland, but also the narrator Giovanni, who, in the film’s finale, moves to Milan, starting the career he wanted as a journalist and becoming himself an immigrant of sorts. The symbolic references in La giusta distanza to Paisà and, to

33 See Cosetta Gaudenzi’s Memory, Dialect, Politics: Linguistic Strategies in Fellini’s Amarcord. 387 a lesser extent, to the world of Amarcord, show that Mazzacurati has attempted to maintain “the right distance” from his cinematic past. While the cineaste seems to recognize in neorealism a power- ful model of civic commitment, as typified by Rossellini’s Paisà, he also moves beyond the seemingly outdated model of national identity presented by that film. Likewise, La giusta distanza distances itself from the cinematic and critical tradition of associating regionalism with neorealism. In an interview with Francesco Gatti, the director discusses the film’s setting at length, providing a sort of interpreta- tive key. Mazzacurati affirms that the Po Delta was first represented by him in Notte italiana because of the nature of its landscape, which offered him a kind of blank sheet or studio where he could film with- out too many external influences. But after twenty years, the area has acquired for him a more familiar meaning, and in La giusta distanza in particular, it has become «Un luogo un po’ immaginario e un po’ reale, l’ultimo lembo della pianura padana quasi intatto dove si svol- ge lo scontro tra arcaicità e modernità». («A place which is a little imaginary and a little real, the last nearly intact strip of the Po Valley where the clash between archaism and modernism is occurring»)34. Mazzacurati’s comments in this interview suggest that the village of Concadalbero functions in La giusta distanza as a realistic but also symbolic land which might exist almost anywhere35. Consequently, the documentary touches in the film’s setting, far from being sim- ply realistic descriptors recording reality objectively and recalling neorealist paradigms, might also be interpreted as cinematic devices employed to connote somewhat negatively the village as isolated and conservative. Mazzacurati’s treatment of the film’s setting testifies therefore to a complex use of the regional in Italian cinema, focus- ing not so much on the local as an object to be described, but rather

34 Interview with Francesco Gatti published on You Tube in 2007. 35 To complement the film’s opening sequence, the director employs as soundtrack a hybrid music from the group Tin Hat which mostly uses jazz mixed with blues, a folk genre that evokes the delta of another great river, the Mississippi. On one side, this music recalls the many comparisons that twentieth-century literati like Pier Vittorio Tondelli and have drawn between the American plains and the Po Valley. On another side, it provides the film with a connotation which detaches it from a particular Italian region and thus makes it more universal. From this perspective, the Po Delta becomes a non luogo, an interpretation which is supported by an interview with the actress Valentina Lodovini (Mara) released in the dvd extras. 388 employing it to dramatize the effects of contemporary immigration on conservative communities36. As suggested above, Mazzacurati redraws a link with Italy’s cine- matic past while rethinking its value for a contemporary audience. Another master of Italian cinema who has undoubtedly influenced the director of La giusta distanza in his attempt to escape from the static and descriptive cinematic agenda of neorealism, and who has provi- ded a significant visual input to the director’s film, is Michelangelo Antonioni. Indeed, the aerial shootings which start and close La giu- sta distanza recall Antonioni’s documentary work on the Po. On April 25 of 1939, the Ferrarese cineaste published in the journal Cinema an article, “For a Film on the River Po,” illustrated by photographs of the area, some of which were aerial. In 1942-43, Antonioni then shot the documentary Gente del Po (finally edited and released in 1947), which offered an unusual take on the region. In different ways, both Anto- nioni’s article and his documentary are in line with his later cinema- tic modernism, as Noa Steimatsky has recently pointed out (pp. 1-39). Through particular uses of the camera, Antonioni offered a new per- spective on the regional which entailed not only the realistic description of a particular locality, but also the fragmented modernist questioning of the conditions of perception and of narration. Though admittedly to a lesser degree, we have a similar impression while watching La giusta distanza. Aerial views where man is no longer the measure of all things, such as those employed by Antonioni and Mazzacurati, symbolically problematize our usual perspective on things. From the beginning of La giusta distanza, aerial shots entice the audience to know more about the area and persons hidden below, while they also suggest a broader perspective for looking at immigrants and people in general. Antonio- ni’s work seems therefore to have provided Mazzacurati a visual model which accommodates his purpose of bringing to the audience’s atten- tion the notion of reception, as discussed above. In conclusion, Rossellini, Antonioni, Fellini, and even Pietrangeli serve as cinematic points of departure for Mazzacurati’s La giusta distanza. In an earlier interview (1995), the director had expressed the necessity of starting out from some cinematic place that counted37.

36 See for instance Giorgio Diritti’s Il vento fa il suo giro (2005). 37 In a 1995 interview with Andrea Filippi, Mazzacurati observed: «Noi abbiamo dovuto ricollegarci al cinema degli anni ’50 e ’60 per ritrovare un filo, come se ci fosse stato un precipizio in cui tutto è rovinato, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio 389

Much as the Medieval author Dante felt a need to cite and then to rewrite the literary models of Virgil, Ovid, Statius, and Lucan in cre- ating his Commedia, Mazzacurati, like other contemporary Italian cineastes, stands in comparable need of a reliable authority, something familiar to catch the audience’s attention, which can then be remade and re-imagined in modern terms so as to create a continuity with the cinematic past. As illustrated by my preceding analysis of Mazzacu- rati’s work, it is possible to make a film which keeps its “right distan- ce” from the past and is neither totally subservient to it nor in total contrast with it. The creation of a new and diverse Italian cinema does not necessarily require the drastic measure of parricide, “uccidere i propri padri” (“to kill one’s fathers”), as suggested so provocatively at the 2010 Venice Cinema Festival by Gabriele Salvatores. Such a radical approach would imply the suppression of an entire appara- tus of Italian cinema as well as a valuable part of Italian culture and history. Instead, as suggested by the preceding interpretation of Maz- zacurati’s La giusta distanza, not only immigrants, but also Italy’s cinematic past, should be viewed from “the right distance”, which is of course difficult to define, but which excludes outright rejection and includes a measure of sympathetic consideration.

Works Cited

Bondanella, Peter, A History of Italian Cinema, New York, London, Continuum, 2009. Brunetta, Gian Piero, L’onda lunga di Pirandello sul cinema moder- no. Pagina, pellicola, pratica, Ed. Rebecca West. Ravenna, Lon- go, 2000, pp. 23-30. Callari, Francesco, Pirandello e il cinema, Venezia, Marsilio, 1991. Caminati, Luca, The Return of History: Gianni Amelio’s Lamerica, Memory, and National Identity, «Italica», 83.3-4 (2006), pp. 596-608. Cincinelli, Sonia, I migranti nel cinema italiano, Roma, Edizioni Kappa, 2009.

degli anni ’80» [«We had to re-connect to the cinema of the 1950s and 1960s in order to find a thread, as if there were a precipice where everything was ruined, between the end of the 1970s and the beginning of the 1980s»], (Filippi p. 56). 390

Filippi, Andrea, Carlo Mazzacurati, Città di San Giminiano, Quader- ni del Cinestate, 1995. Gaudenzi, Cosetta, Memory, Dialect, Politics: Linguistic Strategies in Fellini’s Amarcord, in Federico Fellini: Contemporary Per- spectives, Ed. Frank Burke and Marguerite R. Waller, University of Toronto Press, 2002, pp. 155-168. Gieri, Manuela, Contemporary Italian Filmmaking: Strategies of Subversion, Toronto, University of Toronto Press, 1995. Hall, Stuart, “Encoding / Decoding”. Television: Critical Concepts in Media and Cultural Studies, ed. Toby Miller, London, Routledge, 2003, Vol. 4, pp. 43-53. Lansing, Richard, ed. The Dante Encyclopedia, London, Routledge, 2010. Marcus, Millicent, After Fellini: National Cinema in the Postmodern Age, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2002. Marcus, Millicent, In Memoriam: The Neorealist Legacy in the Contemporary Sicilian Anti-Mafia Film in Italian Neorealism and Global Cinema, ed. Laura E. Ruberto and Kristi M. Wilson, Detroit,Wayne State University Press, 2007, pp. 290-306. Masoni, Tullio and Paolo Vecchi, ed. Carlo Mazzacurati, Savignano sul Rubicone, Alphabet, 1995. Moliterno, Gino, ed. Encyclopedia of Contemporary Italian Culture, London, Routledge, 2003. Mulvey, Laura, Visual Pleasure and Narrative Cinema in Visual and Other Pleasures, ed. Laura Mulvey, Bloomington and Indianapo- lis, Indiana University Press, 1989. O’Healy, Aine, Lamerica. The Cinema of Italy, ed. Giorgio Bertellini, London, Wallflower, 2004, pp. 245-253. Spivak, Gayatri Chakravorty, Can the Subaltern Speak? in Marxism and the Interpretation of Culture, ed. Cary Nelson and Lawrence Grossberg, Urbana, Chicago, University of Illinois Press, 1988, pp. 271-313. Steimatsky, Noa, Italian Locations: Reinhabiting the Past in Postwar Cinema, Minneapolis, The University of Minnesota Press, 2008. Vitti, Antonio, Albanitaliamerica: viaggio come sordo sogno in Lamerica di Gianni Amelio, «Italica», 73.2, 1996, 248:61. West, Rebecca, ed., Pagina, Pellicola, Pratica: Studi sul cinema ita- liano, Ravenna, Longo, 2000. 391 Manuela Gieri

L’urgenza della storia nel cinema italiano contemporaneo

Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro per- ché non si può raccontare l’età della propria vita allo stesso modo in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo dall’esterno, di seconda o di terza mano, attraverso le fonti dell’epoca o le opere degli storici successivi. (Eric Hobsbawn, Il secolo breve)

È difficile mettersi d’accordo su di una data che segni l’inizio del Risorgimento [...] perché non appena ammettiamo che l’Italia dovesse “risorgere”, qualsiasi momento della storia della penisola può essere considerato uno spostamento da e verso l’unità. (Sorlin p. 103)1

Da anni rifletto su cinema e storia, ed anche, quasi conseguenza inevi- tabile, sulla storiografia del cinema. Da anni, rifletto sui tanti film ita- liani che affrontano con puntualità i nodi storici della nostra moder- nità, e, dunque, il Risorgimento, il Fascismo, la guerra, la Resistenza, gli anni di piombo, ed anche, negli ultimi due decenni, il problema- tico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, le migrazioni, le tante grandi questioni della nostra contemporaneità. Di recente, e fors’anche in parte stimolata dall’incontro sul cinema italiano con- temporaneo organizzato dall’Indiana University a Bloomington nella primavera del 2011, mi sono interrogata su quella che mi è parsa una nuova ed originale attenzione rivolta a questioni di carattere storico

1 Il testo apparve prima in inglese col titolo The Film in History: Restaging the Past (Oxford, Basil Blackwell, 1980). Nel saggio faccio riferimento allo scritto di Sorlin nella sua versione italiana. 392 presente nel cinema italiano dell’ultimo ventennio, ma anche a quello che mi è sembrato un modo nuovo e diverso di affrontare la questione della testimonianza, così come quella del ricordo e della memoria. Testimonianza, ricordo e memoria per decenni, nel contesto della sto- ria italiana del secondo dopoguerra, sono state questioni intimamente legate alla più ampia problematica dell’identità nazionale. Quando poi da essa si sono slegate, per i motivi più diversi, ecco che il nostro cinema non riusciva più né a testimoniare né a ricordare, né ovvia- mente a fare del ricordo un bagaglio collettivo che potesse divenire memoria. Nel suo ultimo volume sul cinema italiano, Gian Piero Brunetta si è spinto ad affermare, infatti, che la generazione degli anni ’90 «[…] sempre più deambula meccanicamente senza bussola o punti di riferimento entro paesaggi vuoti di senso, privi di valori, come se i personaggi fossero i superstiti di un’esplosione atomica»2. A proposi- to di questo, come sostenne a suo tempo Gianni Amelio, sembrerebbe allora davvero profetica la visione apocalittica con cui Federico Fel- lini ci ha lasciato, e cioè La voce della luna (1990), un film che oggi più che mai appare come il testamento ideale di un’intera generazio- ne, e cioè quella che aveva traghettato la nazione e i suoi spettatori fuori dalla Seconda Guerra Mondiale e nel Neorealismo, nonché poi nel boom economico e nel grande cinema degli anni ‘60, ma che non era forse riuscita a dare un senso a quel passaggio generazionale ed epocale che sono stati gli anni ’70, e cioè gli anni di piombo. Come profetico appare oggi anche lo sguardo di Michelangelo Antonioni nei suoi lavori della tetralogia3 che riecheggiano la convinzione da lui espressa al Festival di Cannes nel 1960, e cioè che «[…] modern man lives in a world without the moral tools necessary to match his technological skills; he is incapable of authentic relationships with his environment, his fellows, or even the objects which surround him because he carries with him a fossilized value system out of step with the times»4; così come sempre più profetici ci appaiono i capolavori

2 Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo da La dolce vita a Cen- tochiodi, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 628. 3 Nello specifico,L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), e Deserto rosso (1964). 4 Michelangelo Antonioni, Festival di Cannes 1960, in George Amberg, L’Avven- tura: a Film by Michelangelo Antonioni, New York, Grove Press, 1969, p. 213 («L’uomo moderno vive in un mondo privo di strumenti morali adeguati alle sue 393 che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato, sullo schermo e sulla pagina, partendo già dal romanzo Ragazzi di vita (1955) e dai saggi contenuti in Passione e ideologia (1948-1958), volume pubblicato nel 1960, e dal suo film di esordio Accattone realizzato nel 1961, per finire con l’apocalittico Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Tutte queste opere indubbiamente straordinarie, che hanno consunstanziato di se anni ugualmente straordinari, terminavano ponendo domande urgen- ti, ma che poi, troppo spesso, non hanno trovato risposte, e conse- guentemente sembrano, oggi più che mai, prefigurare quel mondo che verrà, o meglio quel mondo che è già venuto, senza offrirci però una chiara e inequivocabile via d’uscita, nonché un’altrettanto chiara e inequivocabile chiave di lettura del reale. È così, poi, che andarono a trascorrere gli anni ’80, proponen- do spesso sul grande schermo le storie asfittiche e “afasiche” di una generazione di “orfani”, come le definiva Lino Micciché, cioè un panorama sconfortante nel quale i padri continuavano a costituire per i figli obiettivi ineguagliabili, e per i “nipoti”, orizzonti irraggiungibi- li, che non riuscivano più nemmeno a rappresentare exempla plausi- bili e perseguibili5. Si consumava così una fondamentale incapacità a

risorse tecnologiche; è incapace di rapporti autentici con il suo ambiente, con le persone con cui si trova o addirittura con gli oggetti che lo circondano, poiché porta in sé un sistema di valori fossilizzato, fuori passo con i tempi»). 5 Lino Micciché, Gli eredi del nulla. Per una critica del giovane cinema italiano, in Franco Montini (a cura di), Una generazione in cinema. Esordi ed esordienti ita- liani 1975-1988, Venezia, Marsilio, 1988, p. 252. Per una discussione sul nuovo cinema italiano, si vedano anche Mario Sesti, Nuovo cinema italiano. Gli autori i film le idee, Roma-Napoli, Theoria, 1994; Vincenzo Camerino (a cura di), Il cinema italiano degli anni ottanta...ed emozioni registiche, Lecce, Piero Manni, 1992. Si vedano altresì, il numero speciale di «Segnocinema» xiii.64, novembre- dicembre 1993, e particolarmente il saggio di Flavio De Bernardinis, Caro cine- ma italiano… (pp. 11-13) e quello di , Proposta decente (pp. 14-16), e pure «Segnocinema» 10.41, gennaio 1990, e specialmente l’articolo di Marcello Walter Bruno, Introduzione al nemico. Televisione, pubblicità e nuove tecnologie nel cinema italiano degli anni ’80 (pp.11-15), e quello di Marcello Cella, La natura indifferente. Il paesaggio nel cinema italiano degli anni Ottanta (pp. 16-20). Di Marcello Walter Bruno, si veda anche Meta in Italy. La via nazio- nale al cinema-sul-cinema, in «Segnocinema» xi.51, settembre-ottobre 1991 (pp. 10-13); e di Morando Morandini, Il regista è finito? Breve viaggio intorno agli autori del cinema italiano degli anni ’80, in «Segnocinema» vi.22, marzo 1986 (pp. 4-6). Si veda anche «Cineforum» 29.10, ottobre 1989 e 30.7/8, luglio-agosto 1990, poiché entrambi i numeri sono dedicati al giovane cinema italiano, ed han- no signicativamente lo stesso titolo, Sperduti nel buio. Per una discussione sul- 394 ricostruire la mappa coerente di un mondo che, di conseguenza, fosse convincente e credibile, vicino e pur anche omologo a quell’universo ‘reale’ in cui ci si muoveva con crescente difficoltà, incapaci di pro- iettarsi in una prospettiva che riuscisse a farsi Storia, di una genera- zione e della sua nazione. Quel decennio, però, si chiudeva con una sorta di impennata del cinema italiano, con film quali Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, che nel 1989 portava alla storia di questa cinematografia un riconoscimento internazionale che mancava da moltissimi anni, ma anche con lavori quali Palombella rossa di Nanni Moretti che, nello stesso anno, ricevette il plauso della critica, in primis di quel- la francese, sempre attenta e sensibile alle storie del nostro cinema nazionale: in quell’anno 1989, dunque, alcuni dei registi che avevano vissuto il loro esordio negli anni ’70 parvero indicare la strada per una possibile ripresa della nostra pulsione al racconto di una storia che, come sempre era stato ed è per noi, fosse sia individuale sia collettiva. Indubbiamente, quell’anno 1989, e cioè, tra le altre cose, signifi- cativamente, la data della caduta del muro di Berlino e della fine del “secolo breve”, come lo definì Eric Hobsbawn, pare essere anche una delle date fondative nella storia gloriosa del nostro cinema: come lo fu il 1908, e cioè, secondo alcuni, l’anno d’inizio di quella che fu l’età d’oro del cinema italiano degli esordi; come lo fu il 1942, data di apertura della straordinaria temperie neorealista con lavori quali I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti; come lo fu il 1959, quell’anno in cui, in condivisione con i nostri vicini d’oltralpe, sancivamo l’esplosione del modernismo cinematografico europeo, con lavori quali La dolce vita di Federico Fellini e L’avven- tura di Michelangelo Antonioni; come il 1969, l’anno in cui Fellini ci regala il suo Satyricon, personalissimo adattamento di un prosimetro della letteratura latina, testo lacunoso e frammentario, e Pasolini la sua Medea, trasfigurazione idiosincratica della tragedia euripidea, e cioè due lavori che mettono in scena l’insanabile conflitto tra l’antico e il moderno, tentando di dare una risposta all’inesausto bisogno di orgine che segna il percorso dell’umanità, nonché, più concretamen- te, alla conflittualità che stava imperversando nel contesto sociale ita-

la rinascita del cinema italiano contemporaneo, di enorme interesse è un’intera sezione nel numero speciale di «Cinema nuovo» 41.1, gennaio-febbraio 1992, pp. 13-31, la sezione è intitolata Il “che fare” per il cinema italiano ed è dedicata ad alcune interviste rilasciate da registi italiani. 395 liano contemporaneo; ed alfine, il 1989 arriva dopo quasi due decen- ni (gli anni ’70 e ’80) di un precario arrancare dei nostri cineasti, sostanzialmente incapaci di ricucirsi addosso un’identità, e dunque una storia personale e collettiva, che fosse, come dicevo, credibile e condivisibile. D’altronde, come ci ricorda proprio Eric Hobsbawn nel suo volu- me Il secolo breve:

La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei mec- canismi sociali che connettono l’esperienza dei contempora- nei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo è cresciu- ta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa si che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimentica- no, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici croni- sti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione6.

Cercando di percorrere la strada qui indicata da Hobsbawn, e scor- rendo, ad esempio, gli annali del nostro cinema nazionale a partire da quell’anno 1989, si fanno alcune scoperte interessanti: da un lato si può agevolmente notare come un numero consistente dei film rea- lizzati in Italia negli ultimi vent’anni e poco più, scelgono a proprio soggetto uno dei momenti cruciali della nostra storia moderna – sia esso il Risorgimento, come accade nel tormentato Noi credevamo (2010) di Mario Martone, o il Fascismo, come in Vincere (2009), rac- conto sapientemente diretto da Marco Bellocchio sulla controversa figura di Ida Dalser, l’amante segreta di Benito Mussolini, sia esso la Resistenza, come in I piccoli maestri di Daniele Luchetti nel 1998 o ne Il Partigiano Johnny di Guido Chiesa del 2000, o la caduta della Prima Repubblica, come accade ad esempio sia nel Caimano diretto da Nanni Moretti nel 2006 sia nel Divo realizzato da Paolo Sorrentino nel 2008, oppure privilegiano una delle tante questioni che più hanno

6 Eric Hobsbawn, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1999, p. 13. 396 segnato il nostro percorso verso quella stessa modernità – e dunque, gli anni di piombo in lavori quali La meglio gioventù diretto da Marco Tullio Giordana nel 2003 o La prima linea di Renato De Maria del 2009, le migrazioni e la questione dell’integrazione (e qui l’elenco sarebbe davvero lungo e articolato, ma vorrei ricordare almeno due film, e cioè Un’altra vita di Carlo Mazzacurati, che nel 1992 inau- gura una nuova stagione filmica per la questione dell’immigrazione e dell’integrazione culturale, a cui seguiranno nel 1994 Lamerica di Gianni Amelio, i tanti film di Ferzan Ozpetek, e poi, sull’annosa e dolorosa questione dell’emigrazione degli italiani in America appunto, un film davvero particolare come Nuovomondo diretto da Emanuele Crialese nel 2006), ma anche il rapporto difficile tra pubblico e pri- vato, la questione meridionale nelle sue varie articolazioni, e così via. Una visione attenta di questi lavori, obbliga lo spetttore ad altre osservazioni, e, prima di tutto, certamente a notare come anche in questi ultimi due decenni, così come nei quattro che li hanno precedu- ti, il cinema italiano si stia ancora confrontando con quella che Gianni Canova, in un suo recente lavoro, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo millennio, definisce con indubbia provoca- zione “la maledizione del neorealismo”, affermando poi anche quanto segue,

il cinema italiano è ossessionato dal confronto – che a volte assume anche i toni del rimpianto – con la stagione più alta e più nobile della propria storia. È periodicamente indotto… a fare i conti con le ricorrenti apparizioni di quel fantasma. Oltre che con l’idea… che un buon film sia quello capace di “mostrare la realtà”. Come se il cinema fosse un dispositi- vo inerte che sta fuori dal mondo e può tutt’al più ambire a rispecchiarne la forma già data7.

Eppure, pur confrontandosi con la tradizione, poiché sarebbe nei fatti impossibile fare altrimenti, mi pare che questo nuovo cinema italia- no abbia superato l’ansia dell’imitazione, ed abbia invece ben chiaro il fatto di poter fare molto di più che semplicemente ‘rispecchiare il reale’, e fare i conti con quel ‘fantasma’, come ci insegna molto banalmente già la visione di un film con il quale Ettore Scola chiude

7 Gianni Canova, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo mil- lennio, Venezia, Marsilio, 2010, p.13. 397 la prima metà degli anni ’70, e cioè C’eravamo tanto amati (1974) per poi specificarne l’argomentazione nei successivi Brutti, sporchi e cattivi (1976), Signore e signori, buonanotte (1976), Una giornata particolare (1977), I nuovi mostri (1977), nonché il film rivelazione con cui apre i suoi anni ’80, e cioè La terrazza (1980)8. Riprendendo una distinzione categoriale proposta da Paolo Bertet- to, si potrebbe certo affermare allora, come fa Canova, che l’ostinato tentativo di rispecchiamento del reale nasce dal fatto che il nostro cinema pare abbia, coscientemente o meno, scelto di operare in un regime dello specchio e non in quello del simulacro. A sostegno di tale valutazione, si possono ricordare, come è stato fatto, i titoli dei giornali che nel 2008 salutarono la duplice vittoria del cinema ita- liano a Cannes con Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone. «Torna il cinema della realtà», si disse. Giustamente, però, Canova osserva poi che

[…] quel che non si capiva (o si voleva far finta di non capi- re…) è che quei due film vincevano e vincono non perché mostrano un presunto “reale” dissimulato o nascosto dagli altri media e dimenticato dai film coevi, quanto piuttosto per- ché trovano entrambi una forma capace di rivelare qualcosa del mondo a chi con quella forma entra in relazione9.

È indubbio infatti che per anni, tanta parte della critica pare attra- versata dall’incapacità, o forse meglio, dalla non volontà di cogliere la reale e sostanziale novità dei lavori di registi quali Sorrentino e Garrone – e cioè, appunto, la ricerca formale, così come era accaduto prima di loro, a Calopresti, e così come accadrà dopo di loro, fra gli altri, a Giorgio Diritti (per menzionare solo due nomi di coloro di cui si potrebbe certamente discorrere in questa prospettiva). Dunque, pare contraddittorio affermare che «Quel feticismo della “realtà” e quel dogma del verosimile che hanno irretito il cinema italiano per tutta la seconda metà del Novecento» abbiano «continuato ad agi- re e a operare anche nel primo decennio del nuovo millennio»10, di

8 Per una discussione esaustiva di tale questione, rimando al mio Italian Contem- porary Filmmaking: Strategies of Subversion. Pirandello, Fellini, Scola, and the Directors of the New Generation, Toronto, University of Toronto Press, 1995. 9 Ibidem. 10 Ivi, p.14. 398 fatto inibendo la capacità del nostro cinema a intraprendere strade nuove e privilegiare registri diversi – dal visionario all’onirico, dal sublime al grottesco, e così via. Pare contraddittorio poiché invece sembra indubbiamente vero quanto afferma sempre Canova, e cioè che, a fronte di un decennio, quello dal 2000 al 2009, che ha visto «il trionfo del reality show come forma compiuta di desertificazione del reale […] il cinema italiano – per quanto possa ancora valere una simile denominazione geografica e identitaria – si presenta come un organismo tutt’altro che sguarnito o sprovveduto»11. E non è sguar- nito e sprovveduto principalmente poiché, come si affermava qui in precedenza, questo nostro cinema non sente più il peso di quel fan- tasma, ed invece questa nuova generazione, diversamente da quel- la che l’ha preceduta, non subisce più l’obbligo e la responsabilità dell’imitazione. Per questo, ad esempio, se è vero che La seconda volta (1995) di Mimmo Calopresti è segnato dall’ossessione della cinepresa/spec- chio, tale desiderio ossessivo non è poi accompagnato dalla sua rea- lizzazione, i personaggi non guardano mai veramente “in macchina”, e il loro sguardo è sempre “decentrato”, così come decentrate sono le loro motivazioni: ad un’azione non succede mai una reazione defini- ta, definitiva e imprescindibile, la loro storia personale non obbedi- sce a quelle ragioni superiori e generali che motivavano le narrazioni del Neorealismo, ma rispondono, se e quando rispondono, soltanto a motivazioni private, personalissime, singolari. Per questo, interrogata da un’amica sulle ragioni delle sue passate azioni, Lisa12 risponde laconicamente ma con decisione «Io non mi ricordo di niente. Non c’ho più pensato...Non ci voglio più pensare». In La seconda vol- ta, i movimenti di macchina di Calopresti accompagnano le pulsio- ni dell’anima, seguono il respiro stesso, a volte rallentato e a volte accelerato, dei suoi protagonisti, poiché la storia che qui è messa in scena è quella del percorso personale, intimo, di chi vuole con deter- minazione riprendersi il proprio primo piano, la propria centralità, dopo essere stato per anni obliteratoto, nella Storia collettiva di una nazione in cui, per altro, si faceva fatica a riconoscersi, sia i sicari sia le vittime, tanto che anche quei ruoli, fissati dalla Storia ufficiale,

11 Ibidem. 12 La protagonista femminile, in un passato che qui, per lei, nonostante tutto, appare lontanissimo, aveva sparato al professore interpretato da Nanni Moretti. 399 devono, di necessità, essere rivisti, reinterpretati, alla luce di quelle pulsioni, sotto la spinta di quei respiri. Tesi a ridare centralità ma anche storicità allo sguardo paiono essere tanti altri tentativi che hanno trovato spazio e forma nel nostro cinema degli ultimi due decenni, non ultimo quello di Giorgio Dirit- ti in un film straordinario come L’uomo che verrà. Emozionante e appassionato, onesto e rigoroso, il film è ambientato sull’Appennino Tosco-Emiliano, a pochi chilometri da Bologna e vicino a Marzabot- to, e racconta la difficile quotidianità di una famiglia di contandini, i Palmieri, dall’inverno del 1943 all’autunno del 1944: i nazisti pre- sidiano ostinatamente la Linea Gotica, i partigiani tentano costante- mente di sabotare le loro azioni, e a volte ci riescono, e i civili cer- cano di sopravvivere, subendo le intimidazioni arroganti e violente degli uni e le richieste pressanti di partecipazione degli altri. La vita, ovviamente, continua il suo corso: circondati dai loro famigliari, tro- viamo Lena che porta in grembo l’«uomo che verrà» a cui si riferisce il titolo, e suo marito, Armando, che lotta con determinazione tra i vincoli della mezzadria e le imposizioni dei nazisti; tutti i componenti della famiglia Palmieri, insieme agli altri contadini che abitano nella stessa cascina, condividono la dura vita quotidiana ma anche quello che rimane dell’anelito alla condivisione, del desiderio tutto umano di guardare con leggerezza al giorno, e al mondo, che verrà. In questo affresco di vita contadina, di olmiana memoria se non fosse per la minaccia costante della tragedia incombente, lo spettatore è guidato dallo sguardo penetrante di Martina, la piccola figlia di Lena e Armando, diventata muta dopo la morte di un fratellino, ed ora pre- murosa custode di quello in arrivo: grazie a lei veniamo a conoscenza dei movimenti e dei comportamenti delle truppe naziste, ma anche delle fughe precipitose dei contadini nei rifugi ritagliati nei boschi, delle azioni dei partigiani, delle sconfitte e delle morti, ma soprattutto dell’inevitabile intrusione della guerra, e della sua violenza, nella vita di tutti i giorni, riuscendo così, alla fine, a dare un nome a quel senso di tragedia incombente che segna tutta la narrazione, già allo scorrere dei titoli di testa, sino alla sua necessaria ed inevitabile esplosione. In un incipit che non può non riportare alla memoria l’atmosfe- ra magica e notturna de La notte di San Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani, tutto è uguale perché tutto cambi: infatti, ove là era la paro- la (quella di una madre al suo bambino) che traghettava il racconto da un tempo all’altro, da un luogo all’altro, qui si vuole riaffermare 400 la supremazia dello sguardo nella piena consapevolezza che «l’oc- chio (come la scrittura) [ha] una storia e, di conseguenza, [esisto- no] differenti modi di ‘valorizzare’ le immagini nella varie direzioni del sacro, del mito, della magia o dell’arte» (Franzini pp. 60-61). È questo il tempo dello sguardo, e in una luce magicamente blu l’oc- chio della cinepresa, inequivocabilmente assunto alla posizione dello sguardo che poi scopriremo essere quello della piccola Martina, ci conduce nell’interno silenzioso della casa, su per le scale che portano alle povere stanze da letto. Da quel momento in poi, la cinepresa non abbandonerà mai, o quasi mai, lo sguardo di Martina, che alla fine di un racconto tragico e straziante, e che riassume gli eventi di Monte Sole in cui persero la vita circa 700 persone inermi, dopo averci nuo- vamente riportato all’interno della casa, in un percorso speculare a quello iniziale, con la dolorosa consapevolezza della mancanza che è frutto di un vissuto personale, ma di una vicenda improvvisamente riconoscibile come Storia collettiva, Martina esce all’esterno, si siede su un tronco, spalle alla cinepresa, con in braccio il piccolo uomo che è venuto, ritroverà la voce, e reciterà una ninna nanna dolce e antica, rompendo per la prima volta il suo lungo silenzio di parola. È stato da più parti definito un capolavoro questo film di Giorgio Diritti, che si concentra sulla sofferenza e sulla disperazione di tutti coloro che il cinismo della Storia ufficiale vuole essere «danni colla- terali», e che normalmente rimangono, loro sì, soltanto fantasmi in un racconto in cui la luce troppo spesso si fissa solamente su quei pochi che decidono le umane sorti dei tanti. Per mostrare il dolore e la tra- gedia di quella moltitudine di fantasmi della Storia, Diritti rifugge da soluzioni facili e prosaiche, non amplifica gli elementi spettacolari ed, al contrario, privilegia uno stile asciutto, come asciutta è la sua gente, e sceglie, dunque, il silenzio sulla parola. A quegli uomini, a quelle donne e a quei bambini che vanno incontro alla morte, con paura e lacrime vere, lo spettatore si affeziona, sostiene un critico, poiché ne riconosce la semplicità, la condizione umanissima, la vita difficile, e giunge a sen- tire quasi l’odore di terra e di stalla che li circonda, soffrendo della loro stessa povertà, ascoltando la durezza di una lingua, necessariamente il dialetto (con i sottotitoli che per questo non disturbano), che ha le stesse asperrità dei loro volti13.

13 Mereghetti afferma poi che lo stile di Diritti «sarebbe piaciuto a Bazin e a chi come lui rivendicava al cinema la capacità di restituire sullo schermo la forza del- 401

In chiusa di questa brevissima incursione nell’evoluzione del cine- ma italiano degli ultimi vent’anni, vorrei ricordare le parole di Alessan- dro Manzoni che, ancora una volta, forse, ci può aiutare a meglio com- prendere quello che a mio avviso sta avvenendo in una cinematografia che oggi davvero non pare né afasica né asfittica né deambulante in spazi privi di senso. Sono le parole che si leggono nella Lettre a Mon- sieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la Tragédie, un sag- gio di poetica scritto in francese da Manzoni nel 1820 e diretto al critico Victor Chauvet in risposta alle sue critiche mosse nei confornti della tragedia Il conte di Carmagnola (1816): «Expliquer ce que les hommes ont senti, voulu et souffert, par ce qu’ils ont fait, voilà la poésie drama- tique: créer des faits pour y adapter des sentimens, c’est la grande táche des romans, depuis mademoiselle Scudéri jusqu’à nos jours»14. Forse allora l’esigenza del nostro cinema contemporaneo è pro- prio quella di ritrovare la poesia del reale—sintomo della vicinanza— e ritrovarla in tutta la sua drammaticità, registrarne la forma e la voce, portare sullo schermo quella moltitudine di storie multiformi e colo- rate che fanno davvero la storia di questa nostra bistrattata umanità, e tentare una volta e per sempre di superare le necessarie limitazioni che l’impulso prosastico—sintomo della distanza— impone al racconto, non riconoscendone più né l’urgenza né la veridicità. In occasione dell’uscita nelle sale di Nuovomondo, Emanuele Crialese incontrò la stampa romana e in quell’occasione affermò, infatti, quanto segue:

Penso che la poesia non sia mai voluta, e guai se lo fosse. La poesia deve nascere da sola: non si scrive mai nulla per essere

la realtà: gira dal vero, mescola volti di professionisti (Sansa, Rohrwacher, Casa- dio: tutti eccellenti) a altri presi sul posto (la piccola Greta Zuccheri Montanari ma anche i tanti vecchi dei luoghi, alcuni, da giovani, testimoni del vero eccidio nazista), evita luoghi comuni e cadute retoriche. E riesce a regalarci una delle più belle prove di un cinema finalmente necessario, di altissimo rigore morale e insieme di appassionante e coinvolgente forza civile. Un capolavoro». («Corriere della sera», 20 gennaio 2010). 14 Alessandro Manzoni, Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la Tragédie, in http://www.classicitaliani.it/manzoni/chauvet3.htm: «Spie- gare quel che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto attraverso quel che han- no fatto, in questo consiste la poesia drammatica; inventare dei fatti per adattare ad essi dei sentimenti è, da Mademoiselle Scudéri ai giorni nostri, il grande difet- to dei romanzi». Testo di riferimento Opere varie di Alessandro Manzoni, edi- zione riveduta e corretta dall’autore (Milano, Stabilimento Redaelli dei Fratelli Rechiedei, 1870), pp. 395-451. 402

apprezzati a priori, sono dei segni che esprimono un’urgenza. C’è del mistero in questo, non c’è vera consapevolezza. Tutte le arti sono legate all’azione inconscia e inconsapevole, biso- gna fidarsi di più dei propri istinti e delle proprie paure, tutto parte dalle viscere15.

Nell’invocare la possibilità, o meglio, quasi, il proprio diritto a rap- presentare ciò che si è “sentito, voluto e sofferto”, come scriveva Manzoni, attraverso ciò che si è fatto “veramente”; nell’invocare la sostanziale supremazia dello sguardo, e del suo potere nel tracciare la mappa della propria rinnovata capacità di testimoniare, e dunque di ricordare e costruire, così facendo, una propria memoria personale, che può, ma non deve necessariamente, farsi collettiva; in questa vera e propria ‘invocazione’ al silenzio come luogo e tempo dell’unica verità possibile, articolata nei modi più diversi, pare risieda la forza nuova di questo nostro cinema italiano contemporaneo. In conclusione, mi piace ricordare le parole con cui Federico Fel- lini volle chiudere La voce della luna, la sua ultima fantasia registica e quasi il suo testamento ideale, dando la parola a Roberto Benigni/ Ivo Salvini, quand’egli sussurra: «Eppure io credo che, se ci fosse un po’ più di silenzio...forse qualcosa potremmo capire!», mentre si dirige verso il pozzo per ascoltarne le “voci”, con lo sguardo rivolto alla Luna.

15 Nuovomondo: incontro con Emanuele Crialese, a cura di Gabriele Marcello, 20 settembre 2006, http://www.cinefile.biz/?p=1714. 403 Paola Lorenzi

I Am Love: Italian Antidote to the Hollywood Cinema of Aliens, Mutants & Vampires

Abstract

This essay examines how Luca Guadagnino’s I Am Love (2009), master- fully reflects a distinctive stylistic heritage common to a new genera- tion of Italian filmmakers. Furthermore, the article explores how the death of the American Dream and the consequent Hollywood studios’ choices were instrumental to the successful expression of uniquely human sentiments as portrayed in I Am Love.

What is the dominant trend emerging in American cinema in the midst of a devastating economic recession? What we are witnessing is a massive production of films moving towards the reassuring port of the supernatural, epic and fantastic heroes. Society is abandoned as alternate realities are seen as the only viable retreat. In the mix of these very peculiar worlds of avatars, flying vampires of the twilight, X-men and monsters of all assortments, sizes and disguises, I Am Love, represents a dramatic and vivid portrait of the landscape of human love. It reaches the American audience’s desensitized perceptions and reawakens their senses at last. As in one of its pivotal sequences, love impetuously breaks out like an epidemic and contagiously envelops its victims in a natural and almost primordial embrace. Seemingly it is the unraveling of the finely weaved nuances of love, which capture and mesmerize the viewers. I will explore how Luca Guadagnino’s film, almost completely ignored in Italy, received great recognition of critics and audiences and gained international acclaim. As periodically happens, savvy critics attempt to resurrect the idea of a new Italian cinema and its prominent presence in the international markets, envisioning a new, prolific generation of Italian “auteurs” as in the case of Life Is Beautiful (1997). Such expectations are almost 404 always followed by seasons of invisibility, longing for a much-antici- pated new wave of Italian filmmakers. In a recent interview director Quentin Tarantino stated:

The Italian films I have seen in the last three years are all the same. They talk about boys growing up, or girls growing up, couple having a crisis, parents or vacations of the mentally impaired. What has happened? I so much loved the Italian cinema of the 60s and 70s and a few films of the 80s, and now I feel it is all over. It’s a true tragedy1.

Tarantino’s point of view, limiting the Italian cinema to its mere con- tent, constitutes a narrow view of the most recent Italian productions. I will establish, rather, how the contemporary Italian cinema is in fact, the result of precise and deeply entrenched stylistic cinematic tradi- tions and how I Am Love is a masterful interpretation of such a heri- tage. Paradoxically, it is Hollywood’s studio productions that lack a human discourse, disguise a true crisis of themes and values, drown in the shallow waters of the super hero stories and bury the American dream beneath unreal and phantasmagoric worlds.

The Cinematic Heritage

I will proceed by isolating the most prominent models that have marked the path of the evolution of the Italian cinematic language, a fountain from which today’s directors such as Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino and others draw from. These very same models have shaped both Italian production companies and vie- wers’ choices. The first model is the realistic movement of Roberto Rossellini, which responded to a necessity of combining the lack of means and the need of postwar directors to convey their ideological and artistic vision. Rossellini, in expressing his marked documentary stylistic preference by capturing the deepest pathos of postwar reality, tran- scends the mere recording of facts typical of the documentarian tra- dition and the restraint of the Verismo’s literary heritage. He created a

1 Baldocci, Rosa, I nuovi film Italiani? Una tragedia, «TV Sorrisi e Canzoni» 1st June 2007: 23 Print. 405 new cinema capable of redeeming and elevating his visual narrative beyond these limitations, thus opening a new, unparalleled horizon in the future of Italian filmmaking with Rome, Open City (1945). He focused on the predicaments of ordinary people and turned the camera lens on landscapes of the Italian peninsula, until then unimaginable, as in Paisà (1946). Attention pointed towards reality, the discovery of unusual faces and often times unappealing places, storylines built around marginal characters and abrupt language are also found in a few other seminal works of the same period, as in the works of De Sica, Sciuscià (1946), Bicycle Thief (1948), Unberto D (1952), and Luchino Visconti’s The Earth Trembles (1948). The earlier pionee- ring works of Four Steps in the Clouds (1942), Luchino Visconti Obsession (1943) and De Sica The Children Are Watching Us (1943) must also be mentioned here as they paved the way for Rossellini’s Rome, Open City. The next model is the whimsical world brought forth by Federico Fellini in his magical, dreaming, almost surreal narratives, derived from the deepest dimensions of daily living. This marks the polar opposite cinematic discourse. It is not a cinema of special effects; it is instead the result of a creative imagination free to mix memories and present, dreams and reality, archetypes and burlesque characters. From this inexhaustible material he derives the recurrent presence of symbolic places like the circus, the sea, the fog, the dream and many unforgettable characters that characterize his cinema. It is Fellini’s legacy and lasting tradition that has influenced, for example, Roberto Benigni’s recent works. The third model is a cinema targeting a larger audience, striving to produce widely appealing and vivid entertainment, however still refined and thought provoking. The film heritage of Mario Camerini and Alessandro Blasetti is found in the works, crafted by true artisans, for a broad audience enticing with a fine populist charm and laughter- inducing gags. It is the high-grossing box office cinema legacy forged by the “comedy Italian style” filmmakers such as Mario Monicelli, Luigi Comencini, Pietro Germi, Dino Risi, Lina Wertmüller just to mention a few. The final model, the one more specifically reflective of Luca Gua- dagnino‘s I Am Love, is the one of beauty. The research of aesthetic and artistic elements was finely celebrated in the works of Luchi- no Visconti, and from a polar opposite perspective, by Michelangelo 406

Antonioni. To Visconti, beauty is filling the image with opulent sets, costumes and a lavish cast ensemble. In Antonioni’s films, beauty is absence and space is emptiness as the narrative unfolds through slow camera movements and their juxtaposition, characters enter and exit the screen. Both directors are seeking to create in the audience the perception and the direct experience of beauty. This grouping should not be interpreted as constituting an attempt to label into static boxes the production, the cinematic discourse of certain filmmakers, or a rigid matrix characterizing the evolution of Italian cinema. On the contrary, it aims to outline the prominent dif- ferent sources from which our young directors have inherited their stylistic preferences. These predilections have become an integral part of their artistic DNA and in a sort of cross-contamination we find transported the legacy of many of our world-renowned directors. However, it is necessary to mention that the majority of recent Italian cinematic productions depend upon regional commissions or government financing. Furthermore their quality has been influenced by the uncertainty of their distribution and/or still heavily control- led by two television giants, Mediaset and Rai. This reality has also been confirmed by the president of Cinecittà Luce, Roberto Cicutto when he stated, “Let’s not forget that in the eighties we had a new development in commercial television that came when media tycoon Mr. Silvio Berluconi set up his private television network. Instead of generating great competition he just put a lot of money into the market, which transformed that money into images without a good story, without a good cast thus ruining the market. For years we could only do the movies that Mediaset and Medusa decided to produce and distribute. Their monopoly was something that gave the Italian cinema more visibility as they spent more money in P&A but they destroyed us independents because we couldn’t compete we those giants. Now we have decided to take back our identity by telling the politicians that we need the instruments, like tax credits, to develop the industry. So we know why we have been trapped in this situation yet we have a brighter future knowing that we have the variety of directors, cast and writers. I feel in the next five years you will be pleasantly surprised.”2

2 Cicutto, Roberto, “Cinema Italian Style: symposium on Italian Cinema”, Royce Hall, University of California Los Angeles, Los Angeles, 9 Nov. 2010. Address. 407

Today’s Italian film productions inspired by the more -commer cially appealing comedy Italian style tradition are the franchise works of Giovanni Veronesi in The Manual of Love (2005), Federico Moc- cia’s Sorry if I Love You (2008), ’s The Night Before the Exams (2006) or Paolo Virzi’s Hardboiled Egg (2000), A Whole Life Ahead (2008) and The First Beautiful Thing (2010) Italian ent- ry for Best Foreign Language Film at the Academy Awards in 2010. In a similar commercialized vein can be found Gabriele Muccino’s Italian productions, The Last Kiss (2001), Remember Me My Love (2003) and Kiss Me Again (2010), to mention a few. More artistically complex and thematically ambitious are Giuseppe Tornatore’s Male- na (2000), The Unknown Woman (2006) and the most recent Baharia (2009), official Italian entry for Best Foreign Language Film at the Academy Awards in 2010. The latter is a striking ensemble work that traces back to the detailed sets, sophisticated reconstructions, impres- sive camera work, editing and sound mixing, found in the majestic productions of Bertolucci’s 1900 and The Last Emperor. It is, howe- ver, lacking the same compelling narrative and cohesiveness. The cinema of socio-political realism is evident in the recent pro- duction of Michele Placido’s Crime Novel (2005) where long chap- ters of Italian history are told through the eyes of a band of criminals; or also in The Big Dream (2009), through the perception of a young police officer during the Italian civil tumult of 1968. With a soft and endearing voice, reminiscent of Ettore Scola’s We All Loved Each Other so Much (1970), Marco Tullio Giordana speaks to the audience in 2003 with The Best of Youth. Through a multiple storyline nar- rative, he engages in detailed character analysis and story develop- ment that spans a thirty-year period. Gianni Amelio’s Stolen Children (1992) and Lamerica (1994) adopted both the socio-political legacy of directors such as Pier Paolo Pasolini and Francesco Rosi and the neo-realism of Rossellini, thus capturing in a unique style the moral- sense of reality while remaining free from its aesthetic rendering. Flourishing in the light of the cinema of social criticism is the even stronger minimalist biting “heart-noir” of Matteo Garrone. His care- fully composed monochromatic images, depicting emotionless and never-predictable characters in their daily pathological deformity, offer a great example of the renewed Italian cinema in The Embalmer (2002), First Love (2004), Gomorrah (2009). This rebirth is accen- tuated in Paolo Sorrentino’s The Consequences of Love (2008), The 408

Family Friend (2006), and Il Divo (2009), Jury Prize Cannes film festival winner. Sorrentino explores the psychological aspects of interpersonal relations with marginal characters seemingly deprived of their pathos and portrayed in their continuous progression through life. Although Sorrentino and Garrone adopt a completely opposite cinematic style, both Il Divo and Gomorrah make a bold claim to the realist heritage of “denuncia”. Their films are directly related to their venerable predecessors’ cinema of strong ethics and social commit- ment, yet superseding it in form and style. While Garrone celebrates exasperation and deformities, Sorrentino depicts political engage- ment with a unique semiotic playfulness and esthetic exuberance. The Fellini legacy, which could be referred to as the parable model, is instead well preserved in Roberto Benigni’s Life Is Beauti- ful (1997), Pinocchio (2002) The Tiger and the Snow (2005), and in Ermanno Olmi’s Singing behind Screens (2003) and Hundred Nails (2007). Younger director Emanuele Crialese finds his vivid voice swimming through the waters of myth in Respiro (2002) and surreal places in Golden Door (2006). It is the classic look of Visconti’s expert eye for fine details, ela- borate and sumptuous sets and the almost ostentatious beauty of his films, which we find transmuted, magically recreated in the life of the aristocratic Recchi family in Luca Guadagnino’s I Am Love. A thick mantel of snow covering the family villa brings back to memo- ry the white, dusted faces of the Prince of Donnafugata in Visconti’s The Leopard. Seemingly, the images of Milan’s Pirelli building in Antonioni’s La Notte, or the cold, bare wall against which Lidia is dwarfed, and her strolling away through suburbs, is renewed in the Milano of Emma Recchi as she walks to the top of the cathedral to find a space. The camera movement exudes meaning beyond the rea- lism of the image itself. This self-recreating quality of Italian cinema, capable of finding its new identity and gaining international visibility by deeply sinking its roots in its symbolic heritage, is clearly not a casual matter of good fortune or to the contrary a lack of captivating content as director Tarantino stated. Rather, it lies in its carefully pre- served traditions, which remain the source from which new directors continue to derive their strength, courage and inspiration. 409

The American Dream and the super-hero’s storytelling

On the other hand, American cinema, with sixty-four productions in 2010, and an even larger number of super-heroes in 2011, exces- sively celebrates the death of the American dream. As the Hollywo- od industry is in keeping with the studio tradition of entertaining the audience, it drifts further away from movies reflective of the present day socio-economic status where the ideals of fairness, justice and meritocracy are abandoned. Such productions are oriented toward the non-threatening worlds of Pandora, werewolves, Transformers, X-men, Wolverine, the Avengers, and Captain America, all promising an adrenaline rush and easy entertainment. Monsters, mutants and vampires are the new heroic symbols for all, where vast audiences can comfortably bury their dismay, concerns and their lack of spiri- tual security. Hollywood has also disguised the death of the dream by responding to a new wave of technological innovation. It has brought forth a new industry of computer-generated images, fast syncopated editing of apocalyptic disasters and a vast array of transmedia3 (Jen- kins 21) creatures securing high-gross box office returns for studio executives. The American Dream can be defined as a general belief in freedom that allows all citizens and residents of the United States to achieve their goals through hard work - a person can prosper regardless of his or her social or class upbringing. It implies a general opportunity of betterment and prosperity offered to everyone without constraints of class, caste, race, religion or ethnicity. It rests upon the liberal tradi- tion that property leads to liberty and thus happiness. It is stated in the Declaration of Independence: « …all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable rights, that among these are life, liberty and the pursuit of happiness». The Ame- rican Dream is based upon the belief that citizens must have equal rights, and opportunities as well as the freedom of trade and compe- tition, which allows them to maximize their skills. Hard work is the only variable which one must choose or not to achieve the dream. The

3 Jenkins, Purushotma, et al. Confronting the Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st at the most basic level transmedia stories or TS «are stories told across multiple media. At the present time, the most significant stories tend to flow across multiple media platforms» (p. 46). 410 success of one’s dream is measured by accumulated material gain and perhaps less clearly through philanthropic endeavors - rarely through spiritual values and service to mankind. It is necessary to briefly outline the progression of the American Dream in filmmaking to comprehend how the present Hollywood productions constitute a fine attempt to turn imaginary situations into reality and to make characters look “true” – thus concealing a power- ful escape from “social attention”4. “The Classic American Dream” is depicted in westerns and the settlement of the frontier. This is masterfully celebrated by Geor- ge Stevens’s Shane (1953), in John Ford’s My Darling Clementine (1946) and in Howard Hawks’s Red River (1948). The second stage could be defined as the “Corruption of the Clas- sic Dream”. Movies such as Fred Zinnemann’s High Noon (1952), or Sam Peckinpah’s The Wild Bunch (1969) and Martin Ritt’s Hud (1963) are just a few examples of this stage. The frontier is settled or nearly so, as the roots of bribery are evidenced in characters, moved by greed and power, who battle the community and typically lose their personal integrity. The third stage may be called “The Defined American Dream”. The frontier is now settled. The Dream is reborn and redefined, alive and vibrant seems to be the future of all. Victor Fleming’s The Wizard of Oz (1939), Vincent Minnelli’s Meet Me in Saint Louis (1944), and the movies of the fifties in general, celebrate this ideal phase. The fourth stage can be referred to as “The Crisis of the Dream”. The frontier remains settled, while the institutions are shaken, someti- mes working and at other times failing. Movies such as Arthur Penn’s Bonnie and Clyde (1967), Mike Nichols’s The Graduate (1967) Fran- cis Ford Coppola’s The Godfather (1972), Martin Scorsese’s Taxi Driver (1976) are indicative of this stage. The fifth stage reflects “The Dream in Terminal Crisis”. People live in a society but find their values outside of it or within themsel- ves. Movies such as Sam Mendes’ American Beauty (1999), Steven Soderbergh’s Traffic (2000) and Ocean’s Eleven (2001) celebrate this theme. The last phase, “The Burial of the Dream” brings us to today.

4 Carpenter, Frederic, American Literature and the Dream, Philosophical Library, New York, 1955. Print 411

Society is abandoned, new heroes and worlds are sought as the only possible escape from failing institutions. Chris Columbus’ Harry Potter (2001), Andrew Stanton’s Wall-E (2008), and all super-hero movies fit this model. The lack of a new dream reflects the general belief that the Ame- rican Dream has not fulfilled its promise – coincidentally twenty- percent of Americans control eighty-four percent of the American wealth5. It generates a false sense of entitlement, and a get-rich-quick “mind no one” mindset. The flourishing of a large number of superhe- ro stories and fantasies of becoming an overnight millionaire rein- force this assumption while moving further away from offering any alternative spiritual or emotional security in lieu of the material one that the Dream has failed to fulfill. Hollywood genre storytelling of “escapism” and the absence of a profound human discourse, has been inadvertently a catalyst to the success and recognition of Guadagni- no’s third feature film by the American public and critics. Because I Am Love echoes of its heroine being torn between today’s dream of material wealth, status, security, and her freedom to love, it has cap- tivated viewers.

I Am Love: uniquely human sentiments

As I Am Love’s opening titles begin to roll over a series of tableaux of the northern city of Milan covered in snow, we immediately have the perception of being introduced to one of the characters. Milan, very seldom the ideal set for a romantic drama, is a city that almost conceals its authentic beauty behind the grey facade of its austere architecture, which offers a bold contrast to the beauty of the interior of its buildings. Milan represents the most developed city in Italy, home to an almost extinct ruling class of capitalistic industrialists, here well portrayed by the Recchi family. As the camera comes to rest on the stark, marble steps symbolically covered by powdered dunes of dusted snow of the impressive Villa Necchi Campiglio, built in the 1930’s by Milanese architect Piero Portaluppi, we know we are about

5 Alen, William, “American Vastly Underestimate Wealth Inequality, Support “More Equal Distribution of Wealth”: Study, in «Huffpost Business», 23 Sept. 2010, n. pag. Web 29 March 2011. 412 to enter a very well guarded world of an Italian dynasty. The Recchi, distinguished textile barons, are gathering to celebrate Edoardo Sr., the old patriarch’s birthday. Three generations are seated at the lavish dining table, while perfectly trained, white-gloved servants carefully ladle Ukha, a clear Russian soup as a starter to the sumptuous dinner. The Recchi’s are old family money, as suggested by the poised man- ners, soft-spoken conversation, impeccable etiquette and by the abun- dant display of Giorgio Morandi paintings on the walls. The setting is crowned by the patriarch’s proud speech when he rises and declares, «We carved our name into the country’s history». This is not done without dutiful compromise with the regime, as one brother argues in a later scene, «While he exploited Jewish workers… that’s what we Recchi are». Perhaps sensing that he will soon pass away, he states, «My dear friends, I don’t want to die», and announces the division of his empire between his son, Tancredi, and his grandson, Edoardo Jr., Tancredi and Emma’s son. He pompously continues while his impeccable wife Allegra, known as Rori, nods her apparent approval. With a mixture of shrewdness and arrogance he proclaims with King Lear intensity, «It will take two men to replace me!» Henceforth, as in the Shakespe- arean drama, disruption sets in. This is the first of a few impetuous changes the family is about to experience. Emma and Tancredi’s daughter, Betta, decides to pursue art studies in London, while Edoardo Jr., “Edo”, proposes marriage to his girlfriend Eva and embarks on a business venture with a new friend, a talented chef. The camera indulges over the deep, delica- te, expressions in Emma’s eyes, looking secretly for her son’s loving smile across the table so as to establish their deep connection. She is the icon of the Recchis’ status; beautiful, sophisticated, distant, and respected, she directs the house with a soft touch as if it were an inna- te quality. We learn she is a Russian native, clearly having married into the family wealth, as evidenced in her friendly relationship with their housekeeper Ida, atypical of a high-society household. «Why don’t you dine with me this evening?» she later tells her housekeeper friend and confidant. Who will survive the rivalry of generations? Who will continue the dynasty? And who is the fellow knocking at the door during the snowy, dark night? It is the young chef Antonio, who won a car race against Edo earlier that day. He brings a consolation present to the 413 defeated one and to the Recchi family. It is a box that could contain anything from a peace offering to an unexpected explosive. It is, inde- ed, a very special cake, as is the person carrying it. So exceptional that it compels Edo to call his mother to meet the chef. To emphasize her emptiness, suddenly we see Emma, in a shot from above, dwarfed and alone against the glowing carpet of the entryway. She rushes upstairs to spy from the safety of her bedroom window, as the unexpected visitor slips away in the fresh, falling snow. Emma’s loneliness is again expressed through the subtleties, grace and bracing honesty of her facial expressions. The springtime sees Emma walking the streets of Milan, wearing the same color of her surroundings, melting into and almost hidden in the grayness of the city. The camera assumes her point of view reflec- tive of Tilda Swinton’s (Emma) predilection for bold, female main characters as she portrayed in Orlando. Emma makes a quick stop at a drycleaner where she picks up a CD containing a note Edo forgot in his laundered jacket. The stark geometry of Milan’s architecture evo- kes Antonioni’s imagery as she makes her way to the top of Milan’s Cathedral, climbing through a forest of pinnacles and gothic spires. The camera lingers on her slender body, her somber elegance, the effortless flow of her clothes, reaffirming symbols of her affluence. She sits down and reads Betta’s revealing note found inside the CD. It is a liberating confession addressed to her brother Edo in which she shares the joy of her new found lady-love she met in London. Upon returning home, Betta openly discusses with Emma her newly discovered preference. Betta, bearing an incredible resemblance to her mother’s pale complexion and coloring, confesses to her, “It is not a passing thing, I am sure”. Something sparks in Emma; it is indeed a contagious fire, which not even the providential spring showers clo- sing the scene can extinguish. Emma later joins Rori and prospective daughter-in-law Eva, for a Recchi women’s luncheon at Antonio’s restaurant. As Eva proves herself to be worthy of the Recchi by sha- ring her concern over Edo’s haste to open a restaurant with his new friend chef Antonio, the meal, ironically signals Emma’s emotional break from the Recchi clan. In this pivotal scene, Antonio prepares a specific dish for each woman. The camera takes her point of view as she is beamed alone in a halo of light in front of a perfectly composed cluster of luscious, translucent prawns, as bright red as her renewed wardrobe. The room’s surrounding conversations are muffled as she 414 takes her first bite and finds herself enthralled in a blissful ecstasy of sensorial pleasure. Guadagnino echoes pervasive Renaissance pain- tings of religious illumination, as Emma’s face fills the screen, sugge- sting the reawakening of all her senses with every morsel. In literature, a most memorable association between the sense of taste and love remains Marcel Proust’s enchanting description of the elation provoked by the taste of a madeleine soaked in a cup of tea6.

An exquisite pleasure had invaded my senses, something isolated, detached, with no suggestion of its origin. And at once the vicissitudes of life had become indifferent to me, its disasters innocuous, its brevity illusory – this new sensation having had on me the effect which love has of filling me with a precious essence; or rather this essence was not in me it was me. (1:45)

The quotation is necessary to appreciate the parallelism of Proust’s and Emma’s experiences. They both are taken in a sudden ecstasy without logical explanation. It is possible that Emma, in her earlier life, was familiar with the special dish Antonio has prepared for her and its taste viscerally brought her back to a previous life she wanted to erase. At this point Proust begins his “recherche” to find the con- nection between a madeleine, a tea, and the memory of past things; Emma instead begins the “recherche” of herself, Kitesh, the indepen- dent woman she was before marrying Tancredi. It is also peculiar that Proust compares his elation with the effects of love and concludes by affirming that this precious essence “was not in me, it was me.” Hen- ce, I am love. Italo Calvino offers another interesting literary connec- tion between the sense of taste and erotic drive in Under the Jaguar Sun. In this short story Calvino explores the food, exotic atmosphere and ancient rites a couple experiences during a vacation in Mexico. The hot sauces, the spices, added to the sacred meaning of Mexi- can temples and human sacrifices excite in both of them the desire to devour each other (Calvino pp. 3-29)7. As in the magical realism of Alfonso Arau’s feature Like Water for

6 Lorenzi, Paola, trans., À la recherche du temps perdu, Du Cote de chez Swann, Vol. 1, By Proust, Marcel, Paris, Gallimard, 1954. Print. 7 Calvino, Italo, Under the Jaguar Sun, trans. William Weaver, San Diego, Har- court Brace, 1988. Print. 415

Chocolate (1992), the surreal power of a well-prepared dish seems to be able to elicit from the fortunate recipient a vast array of cathar- tic sensations upon its consumption. Over the years this has become almost a cinematic cliché. Emma’s awakening, as she begins to slow- ly recognize herself, opens the doors to Antonio’s subliminal element of erotic suggestion so profoundly presented on her plate. The drama- tic necessity given to foreseeable events is masterfully overshadowed by the special way in which Guadagnino brings the situation to life on screen, revealing a filmmaker with a vast emotional sensitivity, able to evoke all senses. The narrative is, at times, elliptical and allu- sive as the camera indulges on an empty screen waiting for characters to appear. In alternating long shots and extreme close ups, it retains and conveys a human quality that instantly draws the audience into Emma’s world. Summertime arrives with Betta’s invitation for Emma to join her in Nice to look for a space for her exhibit. During the drive there, Emma’s subconscious is at work bombarded by a continuum of frag- mented voices inciting her to break free from her past. She stops in Sanremo where she knows Antonio has his organic vegetables heaven and where he and Edo are planning to open their restaurant. John Adams’ intricate yet non-judgmental score masterfully complements Emma’s game of “hide and seek” with Antonio. It is carefully played through the streets of Sanremo, where she sees him from a distance and follows him in a crescendo of musical intensity and camera angles reminiscent of Hitchcockian suspenseful elegance. Emma doesn’t project her anxious feelings, rather she personifies the emotional ten- sion preceding their sudden encounter outside of a bookstore, when she finally bumps into her prey. Her personal transformation begins to take place when they drive together to his farm in the surrounding hills of Sanremo, as she abandons herself to the Amor Fati (Nietzsche p. 223)8. Beautifully photographed by Yorick Le Saux, enveloped in a bac- chanal of light, skin, flowers, smells, sounds, insects, with the taste of a summer in full bloom, she is finally free to accept their fated love. Adams’ vibrating score accentuates the call to the primary senses. The lovemaking scene is fragmented, glimpsed. The beautiful imper-

8 Nietzsche, Friedrich, The Gay Science, trans. Walter, Kaufmann, New York, Vin- tage, 1974. Print. 416 fection of her body becomes central to the frame, almost impossible to be contained on the screen. The subtlety and suppleness of move- ments are captured in a montage of intertwined bodies, nature, and pollinating insects, and it is within this naturalness she embraces the unpredictable imperfections of life – in direct contrast to the orderly Recchi’s world she is about to abandon. The scene is a supreme bra- vura of the Italian cinema and the brightness marks a definite contrast from the dark palette defining the more somber moments at the Rec- chi residence. For Guadagnino the antidote to the rigid verticality of the capitalistic and aristocratic world lies in the horizontal flow of nature and in the couple’s blissful immersion in the natural landscape. After their encounter Emma returns to Tancredi’s home. Swinton’s faithful, direct, distinctive acting style embodies Emma’s happiness rather than passion. Her actions reflect her new desires and the con- finement she feels in her cushioned, insular world of wealth. She no longer wants to be another ornament in the Recchi’s collection. Emma is now strong enough to reclaim her identity, starting with her first name, Kitesh, that Tancredi had carefully changed to Emma to Italianize her persona. This is followed by different tones of oran- ge and reds in her wardrobe and a very short haircut, all of which underline her inner transformation. Emma had surrendered to the enchantment of the western world as she confessed earlier to Anto- nio, «When I arrived in Milan I stopped being Russian» and her fasci- nation for material security she had chosen when she married into Tancredi’s wealth, «There was too much of everything in the street, in the shops». With Antonio, she expresses her passion for cooking and how she used to prepare her grandmother’s soup, Edo’s favorite dish, Ukha, whenever she felt homesick. She then prepared for him the family recipe sharing her expertise in rendering the broth perfectly clear so as to reflect oneself in it. Meanwhile in London on a business trip, against Edo’s advice and wishes, Tancredi sells the Recchi’s company to an Indian globalist, Mr. Kubelkian who promises to take the Recchi name and make it global. Edo is distraught as their dynasty’s name is now reduced to a role of a brand, moved into the realm of pure capital. However Betta does not share Edo’s concerns, «We will be richer» she tells him. Edo feels the rudderless change on the path of quick profit as disruptive, and a premonitory sign of bigger disorder as he tearfully hides his face in the housekeeper’s comforting embrace. 417

It will take the imploring invocation of Umberto Giordano’s opera lyrics, “I am love”, that Emma watches at the opening of the third act, to disclose the doors to the post modern melodrama. The powerful aria suggests her inevitable destiny and carries the narrative to its presumable conclusion9. A dinner celebration seals the business deal, and pulls the curtains over the personalities of these finely woven characters. Antonio, wan- ting to surprise Edo, prepares his favorite dish. When the perfectly clear broth is served at the dinner table each one can see their reflec- ted image in it. This leads Edo to the bitter realization of his mother’s betrayal of his love. The two leave the table to confront each other in her native language Russian, outdoor by the pool. He says, «You are lying, you even gave him our Ukha» then switching back to Italian he continues, «You are nothing to me». Stretching her arm to touch him, she replies, «Trust me Edo». He, trying to abruptly avoid her, loses his balance and hits his head against a corner of the pool. Futile are the efforts to save his life at the hospital. In a torrential rain after Edo’s burial, Tancredi follows Emma into an empty church where they engage in a final, dramatic confronta- tion. Emma, resembling a scarecrow, stands barefoot in the middle of the church, motionless. She stares into space, her hair, now short, is dripping wet. He drapes his jacket over her shoulders as a large bird suddenly flies across the ceiling dome, while he states, «We have to carry on together». Then a second bird flies across the dome and lands to rest on a windowsill as she utters, «I love Antonio». At this decisive moment the drama takes expressionistic wings. Tancredi, promptly takes back his jacket and declares her disowned with his final words, «You don’t exist». His comment seems to echo Edo’s last sentence «You are nothing to me». This scene represents the underlying dehu- manizing effects of all forms of extreme dominations, whether eco- nomic, political or interpersonal. No further words are spoken. Emma rushes to gather her belongings and leaves the Recchi home followed by Betta’s approving, tearful eyes. Guadagnino clearly condemns the disruptive capitalistic power that the Recchi’s world represents. The very same concentration of wealth and power is the cause of the death of the American Dream. Without the middle class the dream can not survive. The crisis of the

9 Giordano, Umberto, La Mamma Morta, Walford Town Hall, 1954, CD. 418

Dream is the crisis of unequal wealth, which adds to the growing lack of trust in institutions, in progress and in mankind’s future. Similarly, the Recchi by exploiting their workers and selling their company they grow “even richer” thus contributing to economic disparity. As the final credits roll, a dark, blurry image of Emma and Anto- nio in a cave appears beneath the titles. This image is perhaps symbo- lic of the mythic tale of Ariadne and Dionysus, where, after Theseus abandons Ariadne on Naxos, Dionysus offers her shelter in his cave (Cotterell p. 83)10. With this final scene Guadagnino confirms that his criticism is not addressed to the characters’ choices but rather to the physical space they inhabit and which they have built for themselves. In their bourgeois villa they are trapped in a statuary mis en scene. In returning to nature, to the primordial order symbolized by the cave and the two lovers clinging to one another, Guadagnino suggests his sympathetic yet not completely benevolent outlook. The cave is also enveloped in darkness so as to infer the momentary nature of the har- mony and peace of the lover’s newfound Eden. In their embrace they are finally at ease in the environment. Luca Guadagnino’s sensitive and keen perfectionism exemplarily validates the model of beauty established by Visconti and Antonioni’s indelible heritage, merging it in an ultramodern cinematic style with a poised, at times, an even austere classicism – recreating a remarkable piece of Italian cinema in the new millennium. I Am Love, with its star cast, pulsating score, meticulously creative production designer’s representation of a social class, Oscar-nomi- nated costumes, is a powerful ensemble piece. It is genuinely enter- taining with its sumptuous viewing, dynamic listening and gourmet tasting. Furthermore, by offering to the American audience an inten- sely human tale of love proves itself to be a formidable antidote to the mainstream Hollywood cinema of monsters, mutants and vampires.

10 Cotterell, Arthur, The Encyclopedia of Mythology, New York, Smithmark Pub- lishers, 1996, Print, p. 83. 419

Making people feel. It is all about the transforming power of love 11

During his visit to Los Angeles for the screening of I Am Love, nomi- nated for a 2011 Golden Globe award in the best foreign language film category, director Luca Guadagnino graciously agreed toan extemporaneous short interview.

PL: Did you have in mind a specific mythological meaning to the final image of Emma and Antonio in the cave beneath the ending titles?

LG: The closing image, almost lost under the ending titles is intentio- nally left open to the public’s interpretation. It was not my intention to give the image any predetermined meaning or a specific key of interpretation, mythological or else. I wanted to force the audience to think and to come up with their own conclusions.

PL: What do you think has been your main literary inspiration for this movie?

LG: I love Thomas Mann’s Buddenbrook. It’s the book of my life. It is my inspiration behind the story and the decadence of a family that wants to stay the same. Every repressed feeling once it comes to sur- face really has a lot of power.

PL: How long have you been working on this film? How did this project come to life?

LG: It goes back at least seven years, when I first worked with Tilda Swinton on a short documentary: Tilda Swinton: The Love Facto- ry, which is a documentary about love. The idea was entirely built around Tilda’s character. I have been working with Tilda since our first project together in 1999, The Protagonists. I never found that Tilda was simply an actress. I think when I talk to her about movies it is like talking to another filmmaker. The process of makingI Am Love was very long and very difficult, financially in particular. What I love about this movie is that many people gathered together and brought

11 Guadagnino, Luca, Personal Interview, 15 Jan. 2011. 420 to life the idea behind the movie, which is how, the mysterious force of love, can change everything even when you don’t think you want to feel anymore. I wanted very much to show a woman dealing with love and its transforming power and how then she deals with material security, ideals, being part of a large aristocratic family, a kind of an exile within the exile. As always, ideas transformed in the course of their genesis and evolution.

PL: Why a Russian? Why this outsider?

LG: I always had a fascination with Russia. I once met with Giulietto Chiesa, a journalist, who explained to me how Russian women can be very strong, very open but also very soft, very mysterious. The idea of this woman that thinks herself to be very integrated but still has her individuality, an essence that you didn’t expect to be there, and that’s what I wanted to represent. I also liked very much the idea of contamination of places and identity, especially hers which is still there and vibrant.

PL: What do you think of the critics comparing your work of Visconti and even Antonioni?

LG: I am very humbled by the comparison to Visconti’s film and even to Antonioni, I would be lying if I wouldn’t admit that I really studied their movies, yet I think it is really important to be very meticulous and precise about the world you want to portray. Antonioni’s Milano has been consciously and unconsciously a great inspiration for all of us.

PL: Which painters have inspired you? Is there any painter in parti- cular that you feel had influenced your work in I Am love?

LG: I have studied a lot of painters and their work. Paintings have been the guide that influenced in particular, influenced the choices in photography. Among the painters we viewed I immediately can men- tion the work of Giovanni Boldini and his contemporary Giuseppe Denittis especially for his paintings of aristocracy and bourgeoisie in general. Louise Coupe guided our choices for the images of nature and for the factory and how to render the abstract images of lines. I further explored and especially I studied a lot the works of Kazi- 421 mir Malevich and his view of rendering a familiar landscape into an abstraction.

PL: What do you think about the success of your film in the US?

LG: I am always surprised by the success of my film and of film in general, because the audience is an abstract entity and their appro- val and validation always remains something abstract and far remote from the mind of the director, in particular, mine.

PL: What is your next project you are working on? A new feature film?

LG: No, I just completed a documentary named Italian Unconscious about the Italian war in Ethiopia.

PL: Thank you Luca and good luck at the Golden Globes.

Works Cited

Bazin, André, What is Cinema? 2 Vols., trans. Hugh Gray, Berkley, University of California Press, 2005. Print. Brunetta, Gian Piero, Il cinema italiano contemporano. Da La Dolce Vita a Centochiodi, Bari, Laterza, 2007. Print ―, ed Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo eco- nomico 1945-1959, 4 Vols., Roma, Editori Riuniti, 2001. Print. Calvino, Italo, Under the Jaguar Sun, trans. William Weaver, San Diego, Harcourt Brace, 1988. Print. Carpenter, Frederic, American Literature and the Dream, Philosophi- cal Library, New York, 1955. Print Cotterell, Arthur, The Encyclopedia of Mythology, New York, Smith- mark Publishers, 1996. Print. Giordano, Umberto, La Mamma Morta, Walford Town Hall, 1954, CD. Metz, Christian, Semiologia del Cinema, Milano, Garzanti, 1989. Print Nietzsche, Friedrich, The Gay Science, trans. Walter, Kaufmann, New York, Vintage, 1974. Henry, Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New Media 422

Collide, New York, New York UP, 2006. Print. Henry, Jenkins, Transmedia Storytelling 101, 22 March 2007, http:// www.henryjenkins.org/2007/03/transmedia_storytelling_101. html. Jenkins, Purushotma, Clinton, et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st Ventury, Chicago, The John D. and CatherineMcArthur Foundation, 2007, . Proust, Marcel, À la Recherche du Temps Perdu, Du Cote de chez Swann, 7 Vols., Gallimard, Paris, 1954. Print. Sarris, Andrew, The American Cinema: Directors and Directions, 1929-1968, 1st ed. New York, Dutton 1968. Print. Thompson, Kristin and David, Bordwell, Film History. 3rd ed., New York, McGraw-Hill, 2009. Print. 423 Diana Parisi

Mimmo Calopresti e il cinema dell’esser-ci. Ricerca, riflessione, rivoluzione.

Uno dei pochi che sopravvive ancora al concetto di autore, Mimmo Calopresti può essere definito tale grazie alla sua lotta incessante con- tro la diffusa incapacità di riflettere e ritrarre. La risata grassa e poco intelligente sembra l’unica cosa che chiede il nuovo spettatore, inedu- cato all’immagine. Nonostante questa condizione endemica dalla quale attualmente sembra difficile uscire – perseguire una poetica autonoma e libera, nel cinema di Calopresti, più che un obiettivo è il diritto-dovere di chi non si limita a fare il mestiere di regia ma il “mestiere del cine- ma” tout court. Allora il compito di chi “fa cinema” continua ad essere la scoperta e la messa in scena di un pezzo di realtà. Che sia interna o esterna, che si tratti di un paesaggio, di un volto, di uno stato d’animo, di un sentimento o un’esistenza, ciò che bisogna mostrare è la realtà. Cesare Zavattini sosteneva che chiunque allarga l’area della cono- scenza con la macchina da presa è un autore. Tale è Calopresti, che attraverso il suo cinema esplora e non esclude nulla aprioristicamente, confrontandosi in modo sempre nuovo col mezzo cinematografico e con le sue forme, aprendo i suoi film a una ricchezza di senso e di interpretazione che li rende sempre vivi e attuali. Un cinema che si alimenta di una dimensione autoriflessiva e in divenire senza additare, quali soluzioni definitive, verità legate a un punto di vista che in quanto tale è soggettivo, dunque mai assoluto. Con straordinaria abilità, Calo- presti modella l’humus vivente attraverso quell’azione di antropizza- zione insita in tutto il suo cinema; ci fa viaggiare nelle emozioni e nelle circostanze più eterogenee: immagine e concetto si fondono in un mix di contenuti emozionali, tematici e stilistici che seguono una direzione ben precisa: si parte da una sorta di incapacità/difficoltà dell’uomo di relazionarsi a se stesso e agli altri, e si arriva ad un’irrinunciabile e con- tagiosa spinta propulsiva verso il centro del mondo. Si pensi a un film 424 come La seconda volta (1995), suo lungometraggio d’esordio, dove i personaggi sono intrappolati in un passato che nega loro la possibilità di un incontro nuovo. Ne La parola amore esiste (1998), tutto sembra procedere troppo lentamente. In Preferisco il rumore del mare (2000), i personaggi compiono un ulteriore passo in avanti prendendo delle deci- sioni, facendo delle scelte, ma il loro background resta un fardello trop- po pesante per essere lasciato alle spalle e – come i protagonisti degli altri film – rifiutano qualsiasi tipo di aiuto rinchiudendosi nella gabbia della reticenza. Sono tutti troppo ancorati a se stessi per sentirsi dispo- nibili a un incontro con l’Altro. Una solitudine asfissiante e logorante quella che oscura l’ironia latente di antieroi moderni spaventati perfino di se stessi. La lentezza segna l’inizio di un match faticoso in cui i per- sonaggi caloprestiani giocano in silenzio, schivandosi di volta in volta. Questa condizione di “congelamento” si scioglie nei film successivi: La felicità non costa niente (2003) e L’abbuffata (2007). Ci si affronta. La paura scompare. La riflessione lascia il posto all’azione rendendo immediatamente riconoscibile l’evoluzione linguistica dell’autore. In campo, rapidi movimenti di macchina seguono uomini che corrono incalzando sogni, verità, passioni. Una peculiare architettura tematica e formale configura, dunque, la filmografia di Mimmo Calopresti. -Amo re, paura, solitudine, felicità, amicizia, matrimoni, tradimenti. Tutto ciò che fa parte dell’essere umano viene messo in scena con l’abilità di chi riesce a individualizzare l’universale e viceversa, rendendo caratteristi- ci i tratti culturali del nord e quelli insiti nella gente del sud, camminan- do tra l’anonimato della città e la sua riconoscibilità, muovendosi tra il caos ed il silenzio. Con straordinaria naturalezza, Calopresti passa dalla difficoltà di comunicare alla difficoltà di amarsi e di incontrarsi, attra- verso un cinema inquieto e introspettivo che vanta personaggi confusi, ambigui, falliti: uomini che faticano a capire e ad esternare sentimenti e passioni, donne fragili e insicure che cercano rifugio nella psicanalisi, nell’amicizia, in un amore che può nascere istintivamente o può essere costruito secondo indizi.

Per me i film sono il tentativo di mettere in scena un pezzo di vita, sono la radiografia della difficoltà che tutti proviamo nell’affrontare l’esistenza1.

1 Mimmo Calopresti in Incontri. Mimmo Calopresti: Preferisco il rumore del mare, Gianni Canova, «Duel» n.78, marzo 2000, p. 30. 425

Diverse sono le tipologie di solitudine affrontate dall’autore: quel- la di una ragazza figlia di una mamma soffocante ma soprattutto pri- gioniera di ansie e ossessioni (La parola amore esiste); quella di un uomo e una donna che si imbattono insieme e contemporaneamente soli nel loro passato, senza trovare via d’uscita da esso (La seconda volta); quella di un uomo in preda alla crisi dei quaranta anni che improvvisamente destruttura un apparato sociale solido solo in super- ficie, sconquassando così tutto il suo environnement (La felicità non costa niente). E ancora, l’acido solipsismo di chi ha chiuso le pro- prie aspirazioni in un ruolo bloccando ogni possibilità di varcare altre soglie (L’abbuffata). L’elemento che distingue Calopresti da altri autori – i quali si avvi- cinano al proprio oggetto d’analisi senza arrivare a toccarlo – è la sua perizia nel filmare ciò che non è immediatamente visibile, ciò che è impalpabile: il pensiero, il sentimento. Il regista riesce a cat- turare anche la materia onirica e la non-materia ma – parallelamente ai suoi personaggi – cammina sempre su un terreno reale. Allora il terrorismo è lo scenario che permette di leggere La seconda volta in chiave politica; i gap tra regioni e generazioni presenti in Preferisco il rumore del mare, sono tratti di un paesaggio sociale che non è affat- to lontano da noi. Anche quando si mette in scena la sfera emotivo- percettiva, il punto d’arrivo di un’analisi che si è poggiata su basi nebulose e imprecise, prende la sua consistenza. Così, un pranzo in terrazza condiviso diventa la porta per accedere alla felicità e il para- diso si fa terreno e terrestre. Tormenti e difficoltà, così come sogni e felicità, emergono lavorando per sottrazione, spogliando qualsiasi tipo di realtà con cui entra in contatto. I concetti e le immagini che inondano i suoi film sono paradigmatici di un cinema che solca un percorso sempre più aperto alla moltitudine di situazioni, tangibili e impalpabili, concrete e astratte, che ogni uomo, a suo modo, è chia- mato a vivere. Calopresti sente l’esigenza di guidare il suo cinema anche dall’in- terno, di dare forma col proprio corpo a ciò che aveva concepito mentalmente, di dare importanza alla fisicità alla maniera pasoli- niana. Dopo aver interpretato personaggi minori, ne La felicità non costa niente l’autore si riserva il ruolo del protagonista, marcando con la sua impronta un film in cui anche il livello attoriale è soggetto all’evoluzione-rivoluzione che costella tutto il cinema di Calopresti. Con questa immissione della vita nel cinema e viceversa, l’autore- 426 attore dà espressione concreta al desiderio di raccontare non tanto una vita quanto il pensiero di questa vita, incarnando qualcosa di immate- riale come la felicità. Facendosi concetto, attraverso il suo personag- gio, Mimmo Calopresti svela la sua Weltanschuung – fatta di quella ribellione e di quella libertà che ritornano qualche anno dopo ne L’ab- buffata, una sorta di film-verità in cui molti degli avvenimenti a cui assistiamo sono reali. La riflessione, dunque, avviene attraverso l’autoanalisi ma anche attraverso la memoria. Ed ecco che questo diventa il “metodo” con cui si intrecciano la grande Storia e le storie individuali. La seconda volta ci riporta agli anni di piombo senza parlare del terrorismo in maniera esplicita ma attraverso il “pedinamento” circolare di Lisa e Alberto, protagonisti dell’episodio cardine che ha legato le loro vite ad un’organizzazione clandestina: le Brigate Rosse. Il film mette in scena un ritorno della e nella memoria. Una riflessione sul rimosso di una generazione che ancora elude il cuore della questione: perché i terroristi hanno ucciso persone senza alcuna responsabilità politica (giornalisti, studiosi, docenti universitari, ecc.)2? Un discorso a poste- riori – su un’epoca che si considera passata – elaborato secondo due punti di vista opposti ma complementari, incarnati nei protagonisti. Calopresti non ricerca le motivazioni che hanno spinto Lisa Venturi ad entrare a far parte delle Brigate Rosse né, in una prospettiva più ampia e generale, intende delineare le cause che hanno dato vita ai movimenti terroristici; come un esploratore, egli indaga le modalità percettive che hanno caratterizzato il vissuto di Lisa e Alberto, senza dispensare giudizi, imputare colpe o propinare soluzioni. Con tocco discreto e sguardo attento, passa attraverso i sentimenti senza alcuna pretesa di tipo storico-politco, al fine di far emergere la dignità della persona e il rispetto per essa. Lo stesso regista ha dichiarato che la sua intenzione era dare alla vittima e alla terrorista lo stesso spazio, sen- za privilegiare nessuno. Partendo da questo presupposto, ha costruito un personaggio che ha solo tentato di uccidere, che non ha portato a compimento la sua azione e che è rimasta coinvolta nella lotta armata in modo del tutto casuale. Diversi critici hanno definito La seconda volta un “racconto morale”.

2 Francesco Bolzoni, La seconda volta, «Rivista del cinematografo» n.1, gennaio 1996, p. 17. 427

Si tratta di un racconto morale, assai raro in Italia, a parte i film di Nanni Moretti. Si tratta di un tema ancora più raro, la cognizione del dolore, il senso di colpa, la terribile inutilità e vanità di eventi pubblici che hanno devastato tante vite pri- vate. Un film rarissimo che trascura la cronaca per riflettere sulla storia italiana recente; che per la prima volta descrive l’esistenza attuale degli ex terroristi3.

Il film non vuole parlare del terrorismo, quanto dell’impossibilità di capire fino in fondo un “buco nero” della nostra storia: non è un film sulle ideologie, ma sulla tristezza, la solitudine, l’implacabile rimo- zione da esercitare nel presente. Muovendosi tra fiction e documen- tario, Calopresti compie un perenne moto di andata e ritorno. Da una parte, le vicende narrate e i riferimenti alla cronaca sono del tutto cre- dibili e rappresentativi di un pezzo di contemporaneità che ci appar- tiene mentre lo guardiamo; dall’altra, alla rappresentazione oggettiva della realtà affianca la soggettività umana, con i suoi eterni istinti e le sue incontrollabili pulsioni. Su questo doppio binario viaggiano tutti i suoi film:La seconda volta poggia su un substrato fatto di terrorismo, prigionia e situazione industriale italiana; la trama di Preferisco il rumore del mare si sviluppa partendo dalla corruzione dei dirigenti industriali del nord e dall’organizzazione mafiosa piaga del meridio- ne; Volevo solo vivere (2006), con le sue testimonianze, ci rende par- tecipi di un dolore mai tramontato. La fabbrica dei tedeschi (2008), composto da una duplice struttura, quella di finzione unita a quella propriamente documentaristica, ha permesso all’autore di racconta- re nella sua interezza il mondo delle persone coinvolte, direttamente e non, nell’incendio avvenuto la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 all’interno della ThyssenKrupp – fabbrica nata dalla società france- se Vandel (1890) e divenuta tale dopo un secolo di incorporazioni con altre società, compresa la Fiat. Il documentario è anche un atto d’accusa contro i sindacati, che si occupano della politica nazionale e dell’eventuale ripresa economica mentre la gente muore. La politica è indifferente e l’informazione troppo veloce perché ci si possa fer- mare e capire veramente cosa sta succedendo. Calopresti non crede nel cinema politico come categoria perché non esiste l’immediatezza della rappresentazione ma crede che

3 Bruno De Marchi, Primi materiali per l’intelligenza del cinema di Mimmo Calo- presti, EuresisEdizioni, Milano 1999, p. 55. 428

nel cinema il tempo non esista ed elimini sempre tutto. Al cine- ma una storia è sempre attuale perché racconta la vita degli individui e questo rende di per sé ogni film sempre politico4.

Ma cosa intende Mimmo Calopresti quando parla di politica?

La politica è la capacità di mettere insieme tante persone diverse fra loro. Tutto è politica, lo diceva persino Aristotele. Il problema non è la politica o chi la esercita, il problema è la politica di chi vive: uno è un mestiere, l’altra è una parte di tutti gli esseri umani, di relazione. Per noi comunque è fonda- mentale, è la capacità di relazione fra le persone, di costruire le regole dei rapporti; la politica perfetta è quella che mette insieme interessi diversi senza sopraffazione di uno sull’altro.

Lotte che non esistono più e spazi per raccontarsi ormai scomparsi hanno portato Mimmo Calopresti a girare nelle fabbriche, a stare in mezzo a quegli uomini che non vengono più ascoltati e considerati e che alla fine sono i veri produttori. Bisogna ricominciare a ribellarsi, a dire no a ore di lavoro eccessive, mal pagate e svolte in condizio- ni molto pesanti e poco sicure. La fabbrica dei tedeschi è un film realizzato per ascoltare persone rimaste sole. Con lo stesso intento concettuale su cui ha costruito Volevo solo vivere, racconta la loro vita, di ieri e di oggi, concentrandosi sui loro sguardi e le loro voci ancora segnati dall’orrore, alternandoli a oggetti e fotografie che sono squarci di vita quotidiana e attraverso i quali ci restituisce la memoria di chi non può più esprimersi e insieme di chi è sopravvissuto. Ciò non porta a un cinema che estetizza e quindi anestetizza, come alcuni critici hanno sostenuto, ma a narrare emozioni con una partecipazione discreta e con quel rispetto che l’autore nutre nei confronti dell’altro. Occhi che sfuggono all’obiettivo della macchina da presa e mani che si muovono nervose ci impongono l’indiscutibile presenza di eventi che non possiamo negare né tacere, e che spogliano dolore e tragedia di qualsiasi dimensione spazio-temporale che voglia circoscriverli. Accanto al tentativo di ricostruire un pensiero che sembra scompar- so, di non farci dimenticare che oggi il lavoro è il centro della vita dell’uomo, si percepisce la necessità di cominciare a raccontare di

4 Mimmo Calopresti in «Corriere del Mezzogiorno» – Redazione napoletana de «Il Corriere della Sera», 29 Marzo 2006, www.cinemaepsicoanalisi.com. 429 nuovo il lavoro, come succedeva negli anni ’60 e ’70, anni che sono stati protagonisti di grandi trasformazioni sociali e di quella che l’au- tore definisce la “politica intelligente” ormai scomparsa. Decenni che negli ultimi documentari di Calopresti non sono un semplice sfondo su cui si muovono i “personaggi” ma veri trait d’union di quella pas- sione estetica e quella passione politica di cui parla un grande politico italiano appassionato di cinema come Pietro Ingrao in Anch’io ero comunista (2011). Le lotte contro l’eredità fascista (1960-I ribelli, 2010), le provocazioni verso il regime dittatoriale di Pinochet (La maglietta rossa, 2009), i ricordi di un tempo passato in cui la poli- tica era speranza, possibilità di cambiamento, vocazione dell’anima (Anch’io ero comunista), sono i primi attori di film nati dalla voglia di ricordare momenti storici importanti e dall’esigenza di mostrare due grandi limiti del presente: il predominio della logica economi- ca su quella ideologica (con la conseguente inesistenza odierna di valori non quantificabili) e la mancanza del “fare rivoluzionario col- lettivo” – quello della seconda metà del XX secolo, quello scritto nel DNA della classe operaia principale oggetto di rappresentazione in tanti documentari di Calopresti, quello che colorava la realtà torinese nella fabbrica di Tutto era Fiat (1998) – documentario sulla storia della più grande azienda italiana ripercorsa attraverso i racconti degli intervistati. Dall’orgoglio dei più anziani di essere stati operai Fiat, si passa alla rabbia e alla stanchezza causate dalle condizioni di lavoro inaccettabili createsi negli anni ’60; agli scioperi del decennio suc- cessivo fatti per rivendicare un’umanizzazione del lavoro: aumento del salario, riduzione dell’orario di lavoro, ritmi meno pesanti, più diritti sindacali. Poi arriva il 1980, con i 14.000 licenziamenti effettivi (la Fiat avrebbe voluto farne 15.000) trasformati in 23.000 provvedi- menti di cassa integrazione dopo l’occupazione degli stabilimenti da parte di quarantamila impiegati e capireparto. I quadri intermedi mar- ciano contro gli operai per rivendicare il loro diritto di lavorare; un gesto che segna la rottura dell’unità dei lavoratori e una svolta poli- tica importante che vede la sconfitta dei sindacati. L’ultima tappa è il ridimensionamento apportato negli anni ’90, quando in fabbrica non c’è nulla di eccessivo o anormale e si ha anche il tempo per riposare. Si è dissolto il rapporto viscerale che legava l’operaio alla fabbrica: le testimonianze degli operai più giovani dimostrano come la fabbrica sia solo una parte della loro vita; un lavoro come tanti altri, non più una scelta totalizzante. «Chi lavorava alla Fiat era un uomo finito, non 430 aveva alternativa»5. Tutte le strade portavano a Mirafiori, oggi non più così e qualcuno si chiede dove porteranno. La classe operaia ha perso la sua identità e la fabbrica non è più il centro di costruzione del presente e di progettualità del futuro ma un momento di transizione in attesa di una situazione migliore: aprire un bar o diventare attore, que- sti alcuni sogni dei ragazzi morti nell’incendio della ThyssenKrupp,

La grande fabbrica appare come un luogo perfetto e sicuro, che quasi si autoalimenta senza avere bisogno di risorse uma- ne: l’operaio diviene un semplice controllore e non è più un operatore. Ma è veramente così? I 7 morti della Thyssen ci hanno risvegliato dal sogno e ci hanno messi davanti alla real- tà: un incubo fatto di pericoli, fuoco, fiamme e lavoratori, ope- rai che ancora oggi mettono a repentaglio la propria vita sul luogo di lavoro. Gli invisibili dell’azienda modello diventano, in una sola notte, tragicamente visibili, non solo mostrando- si come vittime, ma facendo riapparire, in modo determinato e concreto, la “popolazione” della fabbrica. Nessuna teoria: possiamo entrare in contatto con quegli operai, ascoltarne i racconti, vederne i volti. La loro storia arriva da lontano6.

La fabbrica dei tedeschi è un altro film che, con la presenza in cam- po del corpo dell’autore, si erge a simbolo della sua intelligenza e della sua sensibilità, nonché della sua manifesta volontà di essere lì, in quel luogo e in quel momento, non solo fisicamente ma prima di tutto moralmente. Ogni cosa mostra il bisogno di condivisione di un certo stato d’animo e di (re)azione contro una contingenza ingiusti- ficabile, dunque il senso di una partecipazione attiva a una tragedia insieme pubblica e privata. Un film che è un’ulteriore prova del grado di responsabilità etico-politica che Calopresti è in grado di assumer- si. Allo stesso modo, Dov’è Auschwitz (2004), documentario realiz- zato durante la visita nel campo di concentramento fatta dall’autore – accompagnato da Walter Veltroni (allora sindaco di Roma), da un gruppo di studenti romani e da sei testimoni italiani sopravvissuti al genocidio ebraico – è il risultato di una volontà forte di parlare di un passato caratterizzato dall’assenza di speranza e dalla morte vista come qualcosa di naturale a cui un anche un bambino si abitua; a

5 Dal film Tutto era Fiat. 6 Cristina Cosentino, La fabbrica dei tedeschi, Roma, Rizzoli, 2008, p. 8. 431 tutto ciò, si accompagna l’intenzione di riflettere con i giovani sulla situazione attuale, sull’esistenza di forme di discriminazione che non cessano di colpire chi ha un diverso credo o una condizione economi- ca disagiata. Un presente, dunque, che ci dimostra quanto il rischio di cedere alla superficialità, deprivando azioni e sentimenti quotidiani della loro importanza, sia lenito forse soltanto dalla minaccia della sofferenza. E allora l’immagine, testimone della storia, deve aiutarci a ricordare. Calopresti sfrutta fino in fondo le qualità del cinema, il potere che ha questo mezzo di mettere insieme realtà e sentimento, di elaborare un avvenimento che attraverso l’informazione quotidiana si consuma in un attimo; il film invece rimane, e questo offre il tempo necessario per non lasciarsi travolgere dal bombardamento e dall’as- suefazione cui ci ha abituato la televisione. Le sue parole continuano la critica, già intrapresa ne L’abbuffata, alla tv, o meglio a chi si lascia imprigionare da essa, a chi la guarda senza giudizio e coscienza criti- ca così da asservire la propria mente al potere mediatico. Attraverso i suoi documentari, Calopresti parla, agisce, insegna; aiuta se stesso e noi spettatori a capire e a non dimenticare ma soprattutto a combatte- re due dei mali peggiori della società: l’immobilismo e l’indifferenza. L’unico strumento in grado di combattere l’ignoranza e la rimozione è la conoscenza, la memoria. Per rendere più efficace lo sguardo rivolto al passato, Calopresti usa spesso immagini di repertorio, portando a galla quello che definisce “il carattere eterno dell’immagine”: tutto si consuma troppo rapidamente mentre l’immagine prima o poi ritorna e alla fine bisogna confrontarsi con la sua inconfutabilità. L’immagine, conservando il suo carattere eterno, diventa il mezzo attraverso cui il cinema di Calopresti mostra la potenza straordinaria del suo essere sempre narrazione di storie di persone, che si tratti di fiction o di non-fiction. Rispetto alla prima, il passo in avanti che l’autore compie attraverso il documentario è l’aggiunta di un elemento: la concretezza del suo essere lì di fronte agli altri. I suoi documentari guardano al passato per cercare di comprenderlo in modo tale da dirigere meglio il presente, in una ricerca che ha il sapore del rischio e della conta- minazione, in una propensione a una rivoluzione che viene costruita gradualmente sul confronto esistenziale, dunque sull’incontro-scon- tro con se stesso e con l’Altro. Calopresti cerca la forma più adatta per non tradire quella realtà che intende comunicare allo spettatore senza distorcere qualcosa che esiste di per sé – si tratti di uomini, luoghi o avvenimenti. «Pasolini riusciva a raccontare quasi con misticismo la 432 vita di chi sta ai margini. Oggi ci manca questo modo di guardare gli altri»7. Calopresti questo modo lo possiede e lo fa emergere in modo del tutto naturale fin dai suoi primi documentari. Remzija (1992), ad esempio, è un video-documentario in cui una nomade slava che vive nella periferia di Torino racconta se stessa e la sua storia. Il lavoro presenta alcune costanti metodologiche che saranno presenti nelle sue produzioni successive e che si configurano come virtù costanti del suo cinema: la scelta di soffermarsi sul volto e sui gesti dell’intervistato piuttosto che narrare la sua vita attraverso le immagini del campo, dei bambini, della sporcizia; la scarsa presenza (che negli anni è cresciu- ta) della figura e della voce fuori campo del regista. L’aver privilegia- to questi elementi, ha fatto sì che la donna fosse guidata nel racconto ma non costretta a seguire esclusivamente il punto di vista di chi si trovava di fronte a lei, in ascolto alla sua storia. Le considerazioni che vengono catturate dalla macchina da presa, sono esemplificative della condizione a cui l’uomo non può sottrarsi: «La sofferenza è uguale per tutti e appartiene a tutti, non fa distinzione alcuna».

Il popolo zingaro è un popolo di grande cultura, che che se ne dica. Oggi è vero alcuni di loro si sono dati al furto. Siamo stati noi a fare scomparire i loro mestieri. Il creare recipienti di rame era il lavoro degli zingari. Li abbiamo sempre per- seguitati. In questi giorni è stato data la cattedra a Trieste a Santino Spinelli di lingua e cultura zingara. Se gli diamo la possibilità di emergere non c’è nessuna razza, non c’è razza inferiore o razza superiore. Diamogli il tempo e la possibilità. Ho visitato un campo zingari a Roma e ho avuto l’impressione di essere tornato ad Auschwitz. Non cerchiamo di emarginarli ancora. Ad Auschwitz ho visto morire 9000 zingari in una not- te. Famiglie che vivevano insieme nel campo affianco al mio separati da fili spinati elettrificati [per loro non era stata deci- sa la soluzione finale], loro avevano tutti i capelli, cantava- no, c’era gioia nel loro campo, eppure è bastata una notte… e dopo il silenzio. Tutto il loro blocco era stato evacuato. Quella notte in 9000 erano stati mandati nelle camere a gas. Per fare spazio ad altri prigionieri. Ogni giorno non sapevi se saresti stato tu il prossimo. Funzionava così ad Auschwitz8.

7 Mimmo Calopresti in YouDem, in onda Pasolini, 18 ottobre 2008, www.parti- todemocratico.it. 8 Testimonianza di Piero Terracina, Io, deportato ad Auschwitz, Claudio Verniari (a cura di), www.triangoloviola.it. 433

Remzija, così come Adriano Panatta ne La maglietta rossa, sono uomini e donne che raccontano se stessi. L’operazione compiuta non è dissimile a quella attuata nei film di finzione. I personaggi calo- prestiani, infatti, sono “tipi” umani, “persone vere” che cercano di affrontare il proprio disagio e l’esistenza in generale senza accon- tentarsi di una conoscenza limitata di se stessi e di una condizione esperenziale superficiale. L’autore stesso afferma che i suoi lungome- traggi condividono con i documentari la necessità di porre al centro varie individualità umane: borghesi, nomadi, operai, dirigenti politi- ci, terroristi, uomini sopravvissuti a tragedie umane come Auschwitz, sono i volti e le voci che Calopresti mette in campo senza inficiare il loro punto di vista, senza contaminare la loro verità, oltrepassan- do sempre ogni giudizio o pregiudizio, ogni stratificazione sociale preesistente. Accanto alla ricerca c’è quindi un pensiero, una verità, un’emozione con cui ci si deve confrontare e che attiva meccanismi emotivi e cognitivi che costringono a mettere in discussione il proprio vissuto. Attraverso il documentario, l’autore si avvicina al passato per sottoporlo a nuove domande e farlo partecipe di perplessità, confusio- ni e dimenticanze odierne. Ci troviamo allora di fronte a un cineasta che si assume la responsabilità di ciò che mostra e che si rivolge a uno spettatore che non può più esimersi dal vedersi, dal riconoscersi; uno spettatore che sembra non avere più scampo. Lo strumento di indagine prediletto è l’apertura, ovvero la pos- sibilità di porsi domande sempre nuove. Più si appropria del mezzo cinematografico in maniera del tutto personale, più l’autore raggiunge una maturità stilistico-contenutistica che innalza il livello di libertà di un cinema volto alla ricerca permanente, aperto all’esperienza e alla conoscenza e capace di scardinare i meccanismi della finzione; un cinema in cui si fa evidente la capacità dell’autore di adattare lo stile alla materia filmica senza fossilizzarsi in stilemi preconfezionati. Tutto, nel cinema di Calopresti, ci fa muovere dalla semplice descri- zione al più complesso coinvolgimento. Le persone che si buttano a capofitto nelle situazioni più diverse, i personaggi che prendono in considerazione le scelte più difficili, i sentimenti che trapelano dall’osservazione del comportamento umano, sono tratti di penna che disegnano la linea di congiunzione tra la vita e il cinema. I due termini hanno un denominatore comune che ci “costringe” a non assopirci di fronte alle trasformazioni cui siamo irrimediabilmente soggetti: il movimento. Un cinema in movimento, dunque, che impressiona luci 434 e ombre della realtà per fissarle sullo schermo dell’irrealtà, l’unico luogo in cui è possibile trattenere una verità, un racconto, una vita. In movimento sono anche i personaggi, sempre in rotta verso il cam- biamento. Dinamismo e velocità aprono La felicità non costa niente: Velocità astratta di Giacomo Balla, unito a Marcia su Roma, ci intro- duce nella dimensione di azione, trasformazione e rivoluzione, che percorrerà tutto il film, il più affascinante dal punto di vista estetico. I movimenti sinuosi della macchina da presa seguono con leggiadria i personaggi immersi in una Roma più che mai surreale. L’alternanza tra soundtrack e brano di repertorio infonde all’immagine un ritmo costante ma non monotono, restituendoci una sensazione estetica immediata dovuta anche ai continui riferimenti all’arte: la raffigu- razione della donna in volo che scorre sotto i titoli di testa, l’opera di Giosetta Fioroni presente nella casa del protagonista, i dipinti di Calopresti. C’è un movimento fisico che fa avanzare i personaggi caloprestiani, sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, di migliore rispetto a quanto già si possiede. E poi c’è un movimento intellettuale dato da uno sguardo a metà fra l’empirico e il teoretico che s’insinua tra le varie identità di un’Italia che conosce differenze geografiche e conflitti generazionali: il nord della fabbrica e della corruzione, il sud dallo sfondo mafioso e dalle bellezze naturali; il rapporto tra i ragazzi, vero e diretto, in netta opposizione a quello tra gli adulti – vincola- to dalla presenza di sovrastrutture che non consentono un contatto così profondo e immediato da riuscire ad arrivare in fondo alle cose, alle situazioni, ai sentimenti. Così, la messa in scena prende la forma del suo contenuto eliminando la separazione tra i due termini: dai movimenti di macchina che nei primi film seguono lenti i personaggi, un’accelerazione improvvisa caratterizza i successivi, conferendo a tutta la messa in scena un dinamismo armonico. La fotografia rispec- chia i colori delle regioni italiane: dalla Torino grigia de La secon- da volta e di Preferisco il rumore del mare, si passa alle sfumature romane de La felicità non costa niente e all’azzurro che colora la Calabria de L’abbuffata. La purezza auspicata attraverso l’esclusione degli eccessi e della retorica, conduce a un cinema sobrio, denso di stimoli intellettuali ed emotivi; un cinema che approfondisce la realtà psicologica dei suoi personaggi senza cadere in facili psicologismi e che denuncia la situazione sociale esistente evitando sociologismi convenzionali. Calopresti non si limita a registrare ciò che vede in un mero atto riproduttivo ma, attraverso il vedere, filma, in un perfetto 435 equilibrio tra ratio ed emozione, organizzazione e istinto, oggettività e soggettività che gli permette di superare la soglia del visibile. Instaurando un rapporto dialettico con la realtà che scruta, e fon- dendo l’uomo con l’ambiente e con la storia, Calopresti si addossa la responsabilità di comunicare e denunciare. Lo fa adottando uno sguardo libero, discreto e rispettoso nei confronti di chi si trova di fronte, assu- mendo una posizione mai ingombrante che lascia alla realtà il diritto e il dovere di emergere in tutta la sua evidenza e la sua verità. Ciò non gli preclude la possibilità di guidare il racconto e l’immagine attraverso uno occhio etico ed estetico in grado di catturare l’esistente nella sua totalità, cercando non il bello in sé ma la forza primordiale che deriva dallo stare in mezzo alle cose. Lascia che le persone si raccontino senza cercare di stravolgere la realtà e la verità ma non per questo ci priva di un forte impatto emotivo che continua a costruire in montaggio, non una semplice fase di “messa in fila” di inquadrature ma creazione di un senso che l’autore imprime al suo film secondo una giustapposizione concettuale delle inquadrature, mettendosi nella condizione essenziale di ascoltare e di domandarsi fino alla fine cosa si sta raccontando e in che modo. Per non perdere di vista questo aspetto, Calopresti si appro- pria della quarta dimensione anche mentre gira. Cerca di obbedire alle leggi del set senza farsi sopraffare dai suoi ritmi ferrei e frenetici e curando al massimo il rapporto sia con gli attori dei film di finzione, sia con gli attori sociali con cui interloquisce nei documentari. Una quotidianità interiore informe e caotica si materializza, facen- dosi figura antropomorfica, nella scelta di un cinema dell’essenza più che dell’apparenza; in un cinema che offre solo interrogativi che ci denudano di fronte a noi stessi. Calopresti scava negli strati più pro- fondi perché c’è sempre un livello altro da scoprire e da vivere. Il suo cinema è il cinema delle possibilità. Così, trasparenza e immediatez- za, assenza di filtri e di confini, si rivelano assiomi fondamentali della vita reale e filmica dell’autore. Dietro il suo stile più volte definito semplice, dietro l’apparente leggerezza della scrittura, si nasconde una macchina complessa ed elegante, fatta di film mai chiarificatori e mai completamente chiusi; film che continuano ad esistere nello spettatore oltre il tempo di proie- zione; mondi reali e immaginari in cui l’importante è essere ed esser- ci. Questi gli elementi primari che conferiscono al cinema di Mimmo Calopresti quel senso di “al là delle cose” per i quali è possibile defi- nire il suo cinema profondamente e orgogliosamente “autentico”. 436 437 Roberta Rosini

Gianni Amelio e il Sud. Erranza e costituzione identitaria: il viaggio meridiano come autoscoperta e trasformazione del Sé in Il ladro di bambini (1992)

1. Il viaggio come ricerca identitaria

Il presente saggio muove dall’individuazione di un parallelismo tra paesaggio geografico ed esteriore e paesaggio mentale ed interiore, del- la stretta interconnessione che lega esteriorità ed interiorità. Così nelle parole della studiosa contemporanea Giuliana Bruno, che ha dedicato il suo Atlante delle emozioni1 a questa tematica: «Il paesaggio non è solo una questione di esteriorità: l’impatto del paesaggio si prolunga all’interno, nel nostro paesaggio interiore. […] Esterno e interno sono figurativamente connessi: l’immaginazione geografica include e attra- versa entrambi»2. In particolare, la spazialità rimanda ad una dimensio- ne passionale ed emotiva, che pertiene in maniera peculiare al mondo femminile: «La cosa è particolarmente manifesta nella cultura femmi- nile del viaggio. Qui, si è attirati verso la topografia: la terra provoca una risposta emozionale; la geografia è un modo di esprimere i pro- pri sentimenti»3. Il paesaggio delinea allora una geografia emozionale come mappa di sentimenti, di pulsioni, di desideri. Lo spazio diventa il campo in cui l’identità dell’individuo si costituisce come soggetto e la geografia dei luoghi si traduce in una mappatura emozionale. Dalla definizione di questa geografia emozionale a partire dalla corrispondenza tra esteriorità ed interiorità, discende l’idea del viag- gio come ricerca identitaria ed esistenziale all’interno di un processo d’identificazione personale. Il viaggio geografico si fa allora metafora di un viaggio psichico ed interiore, l’itinerario nello spazio esterno

1 Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni. Il viaggio tra arte, architettura e cinema, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2006. 2 Ivi, p. 335. 3 Ivi, pp. 335-336. 438 diventa segno di un percorso spirituale e soggettivo di autoscoperta e trasformazione del Sé: «Il viaggio […] si rivela un viaggio di auto- scoperta. In questo tipo di esplorazione il paesaggio italiano era un sito privilegiato: […] il paesaggio italico si prestava come pochi altri a fare da veicolo ai viaggi psichici e soggettivi»4. La trattazione della tematica dell’erranza si rivela centrale nella riflessione filosofica del secondo Heidegger, quando cioè, a partire dal 1930, l’indagine del filosofo subisce una «svolta»5 (Kehre) deci- siva, in quanto da analisi esistenziale per la determinazione del senso dell’essere diviene una ricerca che riconosce all’essere stesso l’ini- ziativa dello svelamento dell’essere. Nella riflessione heideggeriana sull’esistenza e la finitudine dell’uomo la condizione esistenziale dell’uomo o esserci (Dasein) è quella di essere gettato nel mondo, “abbandonato” da qualunque fondamento o essere metafisico. L’uo- mo dunque si viene a configurare non come una realtà sostanziale e determinata, piuttosto come un ente individuato, singolo, concreto e finito, posto di fronte a scelte, progetti e possibilità di realizzazione ed autenticità. La caratteristica precipua dell’esistenza infatti risiede nel fatto che essa si definisce essenzialmente come possibilità di essere: «L’Esserci – scrive Heidegger – è sempre la sua possibilità»6. L’esi- stenza dunque non si caratterizza come una realtà fissa e predetermi- nata, ma come un insieme di possibilità fra cui l’uomo deve scegliere: l’uomo, in quanto possibilità, è ciò che egli stesso sceglie o progetta di essere. L’uomo o esserci così caratterizzato come progetto-gettato, risulta non avere fondamento. Da qui discende la nullità (Nichtigkeit) di base che lo costituisce: la «nullità esistenziale»7 dell’uomo, la negatività strutturale dell’esistenza. Al concetto dell’uomo in quanto esserci caratterizzato come nulli- tà esistenziale si connette la tematica dell’erranza, intesa nel duplice senso di errare e di errore. L’erranza, quale condizione dell’esistenza,

4 Ivi, pp. 336-337. 5 Il termine è usato dallo stesso Heidegger per indicare un riorientamento del suo pensiero. Tra la molteplicità degli scritti della cosiddetta svolta ricordiamo come particolarmente rappresentativi testi quali Dell’essenza della verità (1930), L’es- senza della poesia di Hölderlin (1936), Contributi per la filosofia (1936-1938), Domande fondamentali della filosofia (1937-1938), Lettera sull’umanismo (1947), Sentieri interrotti (1950), Introduzione alla metafisica (1953), Saggi e discorsi (1954). 6 Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, par. 9. 7 Ivi, par. 58. Ivi, p. 4. 439

è insita nella ricerca della verità. Infatti se la verità si identifica con l’essere, allora l’uomo o esserci, ontologicamente distinto dall’essere, in quanto gettato nel mondo e nell’esistenza, non può che configurarsi come un errore, fuorviamento o sviamento dall’essere e la sua condi- zione propria e connaturata appunto come un erramento, un errare, un vagare nell’esistenza. Così nelle parole di Heidegger, nel saggio Dell’essenza della verità in un paragrafo intitolato per l’appunto La non-verità come erranza:

L’irrequietezza dell’uomo, che lo spinge ad allontanarsi dal mistero (dell’Essere) per volgersi alla realtà praticabile, e che lo fa passare via via da un oggetto all’altro della realtà cor- rente, senza accorgersi del mistero, è l’errare (Irren). L’uomo erra. Non è che l’uomo cada nell’erranza (Irre), ma si muove già sempre nell’erranza, perché e-sistendo in-siste, e quindi sta già nell’erranza. L’erranza, per la quale l’uomo va, non è qualcosa che, per così dire, passi vicino all’uomo e in cui egli a volte cada, come in una buca; al contrario, l’erranza fa parte della costituzione intrinseca dell’esser-ci in cui l’uomo storico è coinvolto. L’erranza è l’ambito di quella svolta nella quale agevolmente l’e-sistenza in-sistente si perde e si sbaglia sempre di nuovo. […] L’erranza è l’opposizione essenziale (Gegenwesen) all’essenza iniziale della verità. L’erranza si apre come quell’ambito aperto a ogni opposizione alla veri- tà essenziale. L’erranza è la dimora aperta e il fondamento dell’errore (Irrtum). L’errore non è un errore particolare, bensì il regno (il dominio) della storia delle intricate trame di tutti i modi dell’errare. […] L’erranza domina l’uomo e lo fuorvia8.

2. Il cinema di Gianni Amelio e la filosofia

Il primo studioso che ha riconosciuto la valenza e la portata filosofica del cinema di Gianni Amelio è individuabile in Nicola Siciliani de Cumis. Questi mutua dal filosofo contemporaneo Eugenio Garin una concezione “allargata” della filosofia, secondo cui bisogna ampliare il quadro storico e teorico delle potenzialità filosofiche riconoscibili in un’opera, estendendo in tal modo il campo di pertinenza che la

8 Martin Heidegger, Dell’essenza della verità, in Martin Heidegger, Segnavia, Milano, Adelphi, 1994, pp. 151-152. Ivi, p. 6. 440 tradizione ha assegnato alla filosofia concepita come disciplina pura9. Da questa definizione lata del concetto di filosofia discende il rico- noscimento di una dimensione filosofica e morale propria anche del cinema, come emerge dalla ripresa della questione posta da Carlo Giulio Argan: «Il grande problema è, anche per il cinema, quello del valore. Produce valore? Destituisce e sostituisce altri valori, come quello dell’arte, o istituisce nuovi valori»10. Il cinema stesso, in particolare quello di Amelio, va considerato secondo Siciliani un valore e ne va riconosciuta la portata e la valenza filosofica: il cinema dunque «come valore etico-estetico»11,

come pretesto filosofico-espressivo, come categoria etico- mentale, come fatto ideologico utile a mettere in gioco e a smascherare l’ideologia, e quindi come dimensione morale “altra”, come dover essere del vivere quotidiano, ben oltre la storia, la realtà, le cose, come “sono”. […] Un’idea di cine- ma come fatto di responsabilità […]. Il cinema, quindi, come scepsi e come maieutica individuale/collettiva […] che dà la scossa alla testa e al cuore, e di più alle viscere degli spetta- tori. Un cinema, questo di Amelio, […] come laboratorio di prospettive morali e di valori etici12.

Con particolare riferimento al cinema di Amelio, Siciliani rileva la presenza di valori filosofici e morali veicolati dall’opera di questo autore, riconoscendo il valore filosofico ed etico del cinema ameliano. Parla infatti di una filosofia dei valori insita nel cinema dell’au- tore e che in esso si esprime: «la filosofia dei valori che nel cine- ma di Amelio si esprime, ha una sua logica, intima coerenza. E va

9 Cfr. Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, in «Cinema Nuovo», a. 45°, n. 2 (360), maggio-agosto 1996, p. 2. A sostegno di questa tesi Siciliani cita Leopardi e il filosofo Antonio Labriola, i quali rispetti- vamente hanno asserito: «Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofico, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo» (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori Editore, Milano 1999, p. 466) e «alla filosofia ci si deve poter arrivare didatticamente per qualunque via, come per qualunque via ci arrivarono sempre i veri pensatori» (Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 6). 10 Nicola Siciliani De Cumis, Un capitolo fondamentale nella storia del criticismo (G. C. Argan), in «Cinema Nuovo», a. 45°, n. 1 (359), gennaio-aprile 1996, p. 4. 11 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 12 Ivi, p. 4. 441 riconosciuto»13. Lo stesso regista assegna una valenza filosofica al proprio cinema, nel momento in cui lo definisce luogo privilegiato di riflessione ed analisi che indaga oltre l’apparenza del reale:

Il problema del linguaggio cinematografico è per me essenzia- le […] non mi serve il cinema per costruire pezzo dopo pezzo un prodotto-film ma mi sta a cuore una dimensione stilistica che trasformi la scrittura cinematografica in uno strumento di analisi […] per togliere qualsiasi illusione riproduttiva e indi- care quel che si nasconde sotto l’apparenza delle cose14.

In particolare Siciliani riconosce che tali valori sono presenti nel cine- ma di Amelio precipuamente sottoforma di sentimenti ed emozioni: i valori nel cinema di Amelio non si caratterizzano in termini platonici ed idealistici, «camminano invece sulle gambe degli uomini, tradu- cendosi quindi in precisi atteggiamenti, comportamenti, sentimenti, emozioni»15. Il cinema etico di Amelio, fondato su sentimenti e pas- sioni, appare dunque quanto mai distante dalla concezione tradiziona- le della moralità basata sulla ragione: «l’infiammabilità morale brucia sotto le ceneri della ragione»16. Questa priorità assegnata nel cinema ameliano al sentimento e all’emozione viene collocata nel quadro di una «poetica del disoccultamento»17, secondo cui il cinema ha la capa- cità di sollevare dalla realtà una sorta di velo di maya che impedisce di vivere «senza ricatti e mistificazioni», «alla maniera degli uomini semplici»18. Da questa poetica discende una «morale della sottrazio- ne, della differenza»19, che sottrae i personaggi dei film ameliani dalla realtà e dalla storia e propone le loro vicende in una chiave poetica:

È come se egli (Amelio) ci dicesse: tutto ciò che ricostruiamo filologicamente, storicamente, di questo nostro mondo presen-

13 Ivi, p. 6. 14 Gianni Amelio, Per La Città del Sole ingresso libero, in «Il Dramma», marzo- aprile 1973, pp. 157-158. 15 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 16 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresen- tazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, Comune di Ancona, Ancona 1993, p. 12. 17 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 18 Gianni Amelio, Per La Città del Sole ingresso libero, in «Il Dramma», marzo- aprile 1973, pp. 157-158. 19 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 442

te-passato in corsa verso il futuro, ha una sua intrinseca illuso- rietà, e a me, Amelio, non interessa impegnarmi nella “docu- mentazione”. L’unica cosa che esiste davvero, assolutamente, è il cinema, in quanto esiste per me; benché irreale anch’esso, come tutte le cose di questo mondo. Il cinema è tuttavia il mio mondo: è e non è. Tertium datur […]. È la realtà dell’emozio- ne, del sentimento, che nessuno può negare, e che produce in ogni caso una reazione: e, con la fondatezza dell’espressione poetica, una sorta di recensione estetica del mondo etico20.

Il cineasta dunque non è interessato alla veridicità del racconto e a rappresentare documentaristicamente la realtà storica, ma quella dei sentimenti, delle passioni e delle emozioni, sempre al centro delle sue opere: la sottrazione si rivela allora «un’acquisizione di valore»21. Siciliani evidenzia poi come tali valori siano assegnati da Amelio all’infanzia e all’adolescenza, intese non in senso strettamente ana- grafico ma come condizione esistenziale. Queste età sono caratteriz- zate, secondo l’analisi del filosofo, da non consumabilità, in quanto anche se gli adulti usano i bambini e ne abusano, questi tuttavia non sono passivi, piuttosto la loro reazione e la loro crescita emancipa moralmente e “salva” in un certo qual modo gli adulti; e da intransi- tività, nel senso che l’esperienza infantile e giovanile è irripetibile e non trasmissibile22. Tuttavia l’opera ameliana è lontana da qualsiasi didatticismo e didascalismo morale. Ciò che vale per Amelio è individuabile in elementi essenziali e fondamentali, quali la vita come «supremo valore»23, da cui scaturisce una ricca simbologia che ritorna ripetuta- mente nella produzione ameliana – l’acqua, il cibo, il pane, le mani, la lingua e le parole; il valore dell’utopia, presente più o meno esplicita- mente in tutti i film; e quello dell’altrove come valore incommensura- bile e ineffabile: «L’essenziale per lui (Amelio) è l’immedesimazione nell’oggetto individuale della visione cinematografica, ed al tempo stesso il trarsene fuori»24, come avviene per la Calabria rappresentata esplicitamente o evocata quando viene descritta attraverso un pae- se straniero. Centrale nell’opera ameliana è inoltre la denuncia dei

20 Ivi, p. 3. 21 Ibidem. 22 Cfr. ivi, p. 4. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 6. 443 disvalori25, quali la corruzione e la volgarità celate dietro l’apparente perbenismo: si pensi ad esempio in Il ladro di bambini alla filosofia familistica e mafiosa del geometra Papaleo che emerge, durante la festa al ristorante, nella discussione col carabiniere a tavola sugli abu- si edilizi, o alla malignità della giovane donna che scopre e si affretta a svelare l’identità della bambina, additandola a mostro da copertina di rotocalco. Il discorso narrativo dunque, nel cinema ameliano, risulta inessen- ziale rispetto al discorso metafisico-esistenziale: la storia serve a vei- colare un significato filosofico sotteso nel racconto. Così non sempre gli accadimenti all’interno dei film di questo autore hanno una spiega- zione causale, non sempre gli eventi sono connessi da un rapporto di causa ed effetto, piuttosto l’elemento dominante si rivela quello della casualità. La narrazione appare dunque subordinata all’aspetto filo- sofico implicito che percorre sotterraneamente l’opera, di cui quello narrativo rappresenta un’estrinsecazione. Il pensiero filosofico insito nel cinema ameliano assume, come si è detto, una valenza etica, si caratterizza come un vero e proprio discorso morale. Assume in particolare una rilevanza significativa nel cinema di Amelio lo sguardo dei personaggi, che riveste una valen- za morale, in particolare quello delle figure dei bambini-adolescenti come metafora dell’innocenza:

I protagonisti dei suoi film sono personalità introverse, silen- ziose, pensierose, riflessive fino ai limiti estremi del mutismo, dell’autismo. Comunicano gli sguardi. Sguardi incrociati che alludono o sognano, che smarriscono o rintracciano. Gli occhi danno l’impressione d’essere intenti a cose che vale più la pena di guardare, rispetto a quelle che al momento stanno loro dinnanzi26.

Le lunghe inquadrature che persistono e si soffermano sui volti muti, sugli sguardi intensi dei personaggi rappresentano il tentativo del regista di comprendere e cogliere la loro interiorità, nei suoi risvolti

25 Per i valori filosofici presenti nell’opera di Amelio, quali il valore della vita, l’utopia e l’altrove, e per la denuncia dei disvalori, cfr. ivi, pp. 4-6. 26 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresen- tazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., p. 12. 444 più intimi, sostanziali e autentici. In particolare lo sguardo dei perso- naggi lascia intravedere, rivela la loro dimensione affettiva ed emo- zionale: «la “descrizione” dell’emozione affiora proprio grazie alla “scandalosa” discrezione dello sguardo»27. Si può parlare allora di moralità dello sguardo: lo sguardo dei personaggi dei film di Amelio è sempre uno sguardo morale. Così nell’affermare la responsabilità del cinema nei confronti di un ordine sociale corrotto e logoro e di un mondo di adulti inadempienti, Amelio ha reintrodotto una forza etica nel cinema e assegnato ad esso un compito morale. La moralità del cinema di Amelio è connessa ad un altro aspet- to fondamentale quale il realismo caratteristico dell’opera di questo autore. Il realismo ameliano, che deriva dall’influenza del cinema degli anni Sessanta, ha come presupposto basilare la ricerca della verità e come intento fondamentale quello di rappresentare la realtà così come essa appare e si manifesta, di restituire allo spettatore la verità della realtà. Questa si viene a delineare come una scelta morale: «lo stile diventa […] indistinguibile dalla ricerca di significato, cioè una vera e propria esperienza morale»28; e Amelio come un autore che

fa della forma una questione morale, definita dallo sguardo sulle cose […]. In tal modo, lo stile viene restituito alla sua sostanza, a una morale della necessità nella quale non si può più distinguere il “fatto” e la “forma”. Non si tratta di adottare una “espressione” in accordo con i fatti o con le esigenze di un certo pubblico […]. Si tratta d’altro: fare dello stile la forma di una morale29.

L’unione tra linguaggio e morale, stile ed etica discende dal neoreali- smo, riferimento essenziale del cinema di Amelio30: nel neorealismo infatti «la forma cinematografica era la sintesi di una esigenza etica

27 Ivi, p. 10. 28 Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Poetica del ritardo. Gianni Amelio nel cinema ita- liano, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, Torini, Lindau, 1999, p. 20. 29 Maurizio Grande, L’innocenza dello sguardo non-innocente, in Emanuela Marti- ni, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 27. 30 Amelio, per questo stretto legame con il neorealismo, è stato definito come «il regista attualmente forse più importante in Europa per la rivitalizzazione del neorealismo», Godfrey Cheshire, L’immagine persistente, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 62. 445 e di una pressione stilistica indissociabili»31. Il cinema neorealista si fonda infatti su una morale dello sguardo, ripresa dal nostro autore, che impressiona la vista con il dramma della realtà; questa morale della forma rappresenta un modo diverso di guardare e mostrare la realtà. Il cinema neorealista, e con esso quello di Amelio, si imposta allora su un’indistinzione tra linguaggio, realtà e morale dello sguar- do. Il cinema ameliano dunque, caratterizzato dal bisogno di «rimane- re sulle cose»32, si caratterizza come un cinema «concreto»:

i suoi personaggi esistono, sono di carne, anche nel disastro della loro identità, anche nella loro afasia affettiva, anche nelle percezioni confuse e irrisolte della loro giovinezza e nei pre- concetti rigidi della loro maturità, parlano la lingua della gente comune, si muovono in ambienti a tre dimensioni, “stanze” riconoscibili di una geografia umana e sociale33.

Lo stesso Amelio ha rivendicato una propria collocazione realista: «sono arrivato a considerare il realismo l’unica mia chiave di appar- tenenza alle cose proprio perché tutte le altre mi sono sembrate un tradimento delle mie radici. E d’altra parte ritengo che è anche il mez- zo più onesto e più pulito per rispettare queste radici: ossessivamente riporto tutto a quelle radici»34. Rivela ancora l’autore:

il concetto che deve governare la messa in scena è il concetto di necessità. In rapporto a che cosa? In rapporto all’emozione, in rapporto al giusto, in rapporto al vero […]: il rispetto per il vero, […] per il vero che sta dentro le cose che racconti […]. È il rispetto per quella verità che ti detta il modo per rappre- sentarla; il fine deve essere l’emozione35.

31 Maurizio Grande, L’innocenza dello sguardo non-innocente, in Emanuela Marti- ni, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 29. 32 Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Poetica del ritardo. Gianni Amelio nel cinema ita- liano, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 20. 33 Emanuela Martini, Gianni Amelio, Milano, Il Castoro, 2006, p. 29. 34 Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, Roma, Donzelli, 1994, pp. 60-61. 35 Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio, intervista a Gianni Amelio a cura di Emanuela Martini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 124. Amelio per esplicitare il concetto di verità che deve governare la messa in scena, fa riferimento al “comandamento di Renoir”: «Per arrivare a questo, devi avvicinarti a quello che filmi con il minimo tasso di 446

Infine, alla domanda se l’impressione di realtà è la base del cinema il regista ha risposto: «Assolutamente. Il patto è con la realtà»36. L’influs- so neorealista si ripropone in Amelio anche nella scelta degli interpreti, che sono spesso ragazzi, adolescenti o vecchi presi “dalla strada”. Così i suoi debuttanti sono sempre «veri»37. Anche quando si tratta di attori illustri (quali Volonté, Trintignant, Laura Betti, etc.), questi mettono al bando ogni artificio; quando poi fa da sfondo un personaggio celebre o storico (come Bertolucci, Herrmann, Majorana o Fermi), Amelio lo pone al livello dello spettatore, mettendone in luce la dimensione uma- na e personale piuttosto che quella pubblica e storica. Risulta poi imprescindibile, nell’analisi del cinema ameliano, l’intimo legame tra il dato biografico e l’opera dell’autore, la stretta interconnessione tra formazione dell’autore e formazione dei risul- tati cinematografici. La dimensione autobiografica è sempre presen- te, sottesa ed implicita nei diversi film, percorre sotterraneamente ed influenza tutta la produzione del cineasta. L’esperienza di vita costi- tuisce dunque la base principale del suo percorso di autore. L’opera cinematografica del regista si configura infatti «inumidita di realismo

premeditazione; oppure, se ti avvicini all’oggetto da filmare con la premeditazio- ne naturale che il regista deve avere, devi fare in modo che le cose, in qualche maniera, ti si rivoltino contro. Penso che il credo di Renoir dovrebbe diventare legge. Renoir sosteneva che la realtà che tu metti davanti alla macchina da presa deve essere per forza una realtà pensata fino in fondo proprio per la macchina da presa; quindi, tu devi chiudere la porta al resto delle cose, perché la vita non si deve mischiare con il cinema. Però, aggiungeva Renoir, devi lasciare aperta una finestra, in modo tale che la realtà della vita, le cose vere che giustamente hai lasciato da parte, ti entrino di soppiatto e ti sconvolgano questa costruzio- ne. Questo è probabilmente uno dei comandamenti, forse “il” comandamento da seguire, da portare alle conseguenze estreme. […] Perciò, fermo restando che la prima parte è fondamentale, dovrebbe diventare ancora più forte la seconda, che probabilmente non lo è più. Il cinema, mentre prende sul serio a tutti i livelli la prima parte del comandamento di Renoir, anche senza conoscerlo, trascura la seconda parte. Perché spesso, facendo cinema, si fa confusione con il teatro. Quanto è distante, invece, il teatro dal cinema… Quando sono a teatro c’è il patto tacito, sottinteso, tra me e gli attori, il patto della finzione. […] Mentre invece al cinema questo patto non è possibile. Nessuno al cinema riesce a farti entrare in questo patto, nel senso che, quando la luce si spegne e lo schermo si accende, tu devi credere che quello che c’è davanti a te stia avvenendo realmente», ivi, pp. 150-151. 36 Ivi, p. 152. 37 Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, Venezia, Marsilio, 2000, p. 28. 447 ma soprattutto intrisa di memoria, d’una moltitudine di istanti passa- ti, di evocazioni (auto)biografiche, d’energie emozionali rimosse e riaffiorate»38. Per penetrare autenticamente l’opera di Amelio assume dunque un rilievo particolare la sua biografia, da cui discende un’in- terpretazione delle sue opere cinematografiche come elaborazione della sua esperienza e ricerca esistenziale. Infatti

non c’è film di Amelio che non abbia per oggetto il suo mon- do, che non disegni figure che attengano alla sua formazio- ne giovanile, sofferta come a tutti gli adolescenti può toccare in sorte, ma nel suo caso segnata da inquietudini che solo un ragazzo del Sud, figlio dell’emarginazione, può conoscere39.

Proprio il suo essere un uomo del Sud, spiega il forte senso di solida- rietà e vicinanza che lo lega agli emarginati, agli oppressi, ai deboli e agli ultimi, protagonisti indiscussi dei suoi film, che assurgono a detentori della moralità. Lo stesso autore ha rivelato:

Io sono nato in una comunità di poveri. Ero affratellato a tutti quelli che avevano dei bisogni elementari, e non riuscivano se non con grande fatica a soddisfarli. Mi sento ancora parte di una gente che ha bisogni forti, duri, primari: il pane, le scarpe, il vestire40.

Amelio racconta infatti un’infanzia tragica: solitudine, padre lontano – emigrato in Sudamerica – povertà estrema e il «bisogno di soprav- vivenza imposta come dovere… sei chilometri a piedi per arrivare a scuola e eccellere, autocostrizione»41. Nella sua infanzia dunque, come il regista ha dichiarato, «non c’erano né spensieratezza, né sere- nità, solo autocostrizione»42. A proposito della sua esperienza scola- stica, su cui incombeva il peso della sua povertà, l’autore ha rivelato:

38 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresen- tazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., p. 9. 39 Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, op. cit., p. 11. 40 Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit., p. 43. 41 Mario Sesti, Autoritratto di Gianni Amelio, intervista a G. Amelio a cura di Mario Sesti, in Mario Sesti (a cura di), Regia di Gianni Amelio, Napoli, Edizioni scien- tifiche italiane, 1992, p. 8 42 Ibidem. 448

mi comportavo strabene, pur detestando la scuola. E lo facevo per evitare che mia madre o mia nonna andassero a domanda- re come mi comportavo. Perché mia madre e mia nonna non parlavano la lingua italiana, e questo per me era un elemento di tale vergogna di cui oggi mi vergogno. Poi, all’epoca erano molto fiscali nelle scuole, ti facevano visite mediche, aveva- no il terrore della tubercolosi. Gli inquisitori ogni sei mesi ti chiedevano quante volte alla settimana mangiavi la carne; e io dicevo sempre tutti i giorni43.

Dunque il Sud, inteso come naturalità opposta a cultura, si configura come un “rimosso” autobiografico e personale della vita e della storia di Amelio, che riemerge e riaffiora nei film del regista, caratterizzan- do tutta l’opera di questo autore. I personaggi bambini e adolescenti di Amelio dunque replicano la sua autobiografia tragica, sono testi- monianza della sua infanzia e adolescenza perdute: appaiono nei suoi film come in una prigione, e mettono in atto sempre un estremo e disperato tentativo di fuga. Un altro elemento autobiografico che si rivela centrale nell’opera di Amelio è il difficile e sofferto rapporto con il padre, da cui deriva il desiderio struggente di paternità trasfigurato nei suoi film. A proposi- to dell’assenza del padre l’autore ha raccontato:

ero nella classe più importante dell’unico liceo classico di Catanzaro, con tutti i figli più importanti, il giudice, il sindaco, il primario chirurgo. E sul registro erano indicate le rispettive professioni paterne e materne […]. Io avevo: Amelio Giovan- ni, di Giuseppe, impiegato. L’avevo detto io, perché mio padre non c’era, mio padre stava in Argentina e io potevo spacciarlo come impiegato. Ero l’unico figlio di impiegato; guai se aves- si detto che non avevo idea di quello che faceva, che magari stava a chiedere l’elemosina in qualche angiporto di Buenos Aires. Nemmeno io lo sapevo, quello che faceva. Ogni tanto da ragazzino chiedevo a mia madre: che fa papà? E lei era vaga quando rispondeva: fa l’elettricista, fa il meccanico, gui- da la macchina. […] Accade che un giorno, in quarta ginnasio, si faccia un tema: «Parla di tuo padre». Passano un paio di giorni, il professore torna con i temi corretti e dice che c’è un

43 Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio, intervista a Gianni Amelio a cura di Emanuela Martini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 110. 449

tema straordinario, senza dire di chi è. Dice «Io vorrei legger- lo, però vorrei chiedere il permesso», e si volta verso di me: «Posso leggere il tuo tema?». E io dico «No». E lui dice «Dob- biamo rispettarlo». A quel punto, cade il silenzio su tutta la classe, e tutti si voltano a guardarmi. E, dopo un anno e mezzo o due, una delle mie compagne mi ha svelato che da quel gior- no tutti quanti si sono confermati nel sospetto che avevano: che non avessi il padre, che fossi figlio di cosiddetto NN44.

Emerge dunque quello che Amelio ha definito come il suo «dramma, del ragazzo senza padre, […] che è deriso dai compagni perché è sospettato di essere figlio di NN»45. Così il «dramma» personale di Amelio legato al rapporto sofferto con il padre si ripercuote sull’ope- ra dell’autore e si ritrova, più o meno esplicitamente, in tutti i suoi film. Il mondo poetico di Amelio infatti ruota intorno alla figura del padre. Nei suoi film la figura paterna viene connotata negativamente e caricata di ogni responsabilità negativa: l’autore incolpa il “padre”, o chi ne riveste il ruolo, delle disillusioni che un “figlio” subisce. L’ina- dempienza paterna si concentra sul tema della cultura. Nella polarità tra cultura e naturalità, l’autore opta per la natura e critica la cultura in quanto ritiene, proprio per averlo sofferto in prima persona, che al vertice della scala dei valori si trova la necessità di sopravvivere e la vita, piuttosto che la cultura. L’inquietudine dell’adolescente-Amelio discende dall’assenza di una figura di adulto/padre/maestro in grado di svolgere il ruolo di guida: «Perché dove il maestro esiste, rivela il dono maligno di ingannare e d’ingannarsi; e si deforma in una carica- tura ipocrita capace di distruggere l’equilibrio fragile dell’allievo»46. Così la figura del padre, o chi ne fa le veci, risulta inadempiente per l’incapacità a porsi come guida: infatti l’impossibilità di avere una guida che alla dimensione intellettiva e culturale associ anche quella umana ed affettiva diventa la causa della profonda solitudine e del malessere esistenziale dei piccoli protagonisti dei film di Amelio. Questa accusa al mondo dei padri di «tarpare le ali ai figli»47 si esten- de fino a significare la consapevolezza dell’autore della difficoltà di stabilire un autentico rapporto umano, che superi gli scarti generazio-

44 Ivi, pp. 110-111. 45 Ivi, p. 111. 46 Alberto Cattini, op. cit., p. 13. 47 Ibidem. 450 nali e le barriere di classe. Così Amelio risolve la condizione umana nella solitudine, intesa come impossibilità e impotenza a costruire rapporti umani autentici, solidi, pieni e definitivi. Inoltre, continuan- do ad attingere all’autobiografia, sostiene che tale solitudine si insedi nel nucleo familiare, quale radice prima del dolore umano. Così la forza di questo autore «sta non solo nel riconoscersi nelle vittime, ma nel saper individuare e smascherare i carnefici»48. Il tema basilare su cui sono incentrati i film di Amelio è dunque il rapporto dialettico tra la figura dell’adulto-padre-maestro e quella del bambino-figlio-allievo. Tale rapporto si configura come un conflitto ovvero come distacco, freddezza, alterità, estraneità ed incomunicabi- lità tra queste due figure. Infatti i film dell’autore trattano i fragili equi- libri tra due figure in continuo scambio e opposizione, sono costruiti per opposizioni tra due personaggi: l’uno rappresentante l’infanzia o l’adolescenza e l’innocenza, l’altro la maturità e la responsabilità. Queste due figure fondamentali nei film di Amelio possono essere considerate invero non solo e non semplicemente come due entità anagrafiche (un bambino-adolescente, nel quale sicuramente l’autore si riconosce maggiormente, e un uomo), ma anche e soprattutto come le rappresentazioni divaricanti e antitetiche di un modo di sentire e di essere dell’autore stesso. Il conflitto tra l’adulto-padre-maestro – rappresentante la dimensione intellettiva e razionale dell’uomo – e l’adolescente-figlio-allievo – simbolo e metafora delle passioni, del- le emozioni e dei desideri – elemento basilare e portante dei film di Amelio, non si configura cioè unicamente come un conflitto tra i due personaggi deuteragonisti. Esso può, secondo un ulteriore e più pro- fondo livello di lettura, essere introiettato all’interno dell’interiorità del regista ed essere letto come una scissione tra ragione e passioni interna all’autore stesso. La razionalità e le passioni incarnate nei vari film dai protagonisti in rapporto dialettico devono allora essere con- siderate non soltanto e non semplicemente come due caratteristiche antitetiche appartenenti a due personaggi distinti, ma vanno anche e soprattutto concepite come due lati e aspetti interiori compresenti e coesistenti all’interno dell’uomo, e in primo luogo dell’autore stesso che nei suoi personaggi si identifica. Così in ognuno dei suoi protago- nisti – adulto o bambino che sia – Amelio sembra ritrovare un tratto del proprio cammino, il suo percorso di figlio e di padre. All’interno dei film di Amelio è possibile individuare una scala

48 Ibidem 451 gerarchico-piramidale49 che costituisce la struttura filosofico-concet- tuale soggiacente alle opere filmiche a cui si possono ascrivere i diver- si personaggi. Il vertice di tale scala gerarchica filosofica è occupato dall’elemento metafisico-eteronomo: si tratta di un’entità e un’au- torità esterna e superiore rispetto all’uomo, al soggetto individuale. Tale elemento eteronomo, in quanto trascendente e sovrannaturale, si configura come eterogeneo, ontologicamente distinto e contrapposto rispetto a quello terreno, umano, naturale e finito. Questo ente esterno all’uomo – autoproclamandosi superiore e portatore di valore – rifiu- ta, reprime, domina, sottomette ed annichilisce l’elemento naturale e umano (che viene a rappresentare l’alterità, l’altro da sé, il diverso), considerato inferiore e negativo. L’elemento eteronomo si presenta nel film sia nell’accezione metafisico-religiosa come un’autorità teo- logica, che in quella positiva e statuale come un’autorità mondana. Si tratta delle istituzioni religiose da una parte e dello Stato, della società odierna e della famiglia istituzionale dall’altra, enti verso cui il regista muove una radicale critica in quanto si rivelano inadeguati e falla- ci. Sulla loro trattazione è incentrata solitamente la prima parte del- le pellicole ameliane: l’autorità religiosa e quella statuale-societaria costituiscono infatti il primo “incontro” e dunque la prima tappa dei protagonisti lungo il viaggio alla scoperta, o meglio ri-scoperta, di sé. La parte centrale della storia è occupata poi dall’esposizione e dal- la trattazione del secondo stadio della scala gerarchica filosofica, cor- rispondente alla seconda tappa del viaggio compiuto dai protagonisti. Si tratta dell’elemento terreno, umano e finito, che – rovesciando la dicotomia tradizionale tra autorità e uomo – si riconosce autonomo. Così la positività, la priorità di valore viene assegnata non più all’ele- mento trascendente, esterno e superiore rispetto alla natura e all’uomo, ma al contrario proprio all’elemento terreno, umano, naturale e finito; si teorizza allora il ruolo centrale e prioritario della natura, finita e immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo. Si giunge così all’affermazione dell’individualità e dell’autonomia personale, ovvero al riconoscimento dell’indipendenza del soggetto individua- le da qualsivoglia autorità esterna e superiore. In particolare l’essere umano viene qui connotato in termini razionalistici: questo atto di

49 Cfr. Eugenio Lecaldano, Etica, Torino, UTET Libreria, 1995. La scala gerarchi- ca presentata dal filosofo morale contemporaneo viene qui mutuata dal campo dell’etica ed utilizzata in ambito estetologico. 452 supremazia è cioè assegnato all’uomo, che in quanto tale si configura come essere razionale. Il soggetto dunque, connotato in termini razio- nalistici, riconosciutosi indipendente ed autonomo, rifiuta qualunque entità e autorità esterna, superiore e trascendente rispetto alla realtà e all’orizzonte naturale e umano, in base ad un’interpretazione secondo cui la realtà va fondata in termini naturali, terreni e finiti. Si istituisce inoltre un altro dualismo filosofico (analogo a questo tra l’autorità esterna e superiore all’uomo e l’uomo inteso come esse- re razionale) che si caratterizza anch’esso come una contrapposizione antitetica tra due elementi differenti ed eterogenei quali appunto la razionalità umana da una parte e il lato naturale dell’uomo, costitu- ito dall’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti dall’altra. Si afferma così la sostanzialità dell’anima, dell’identità personale, ovvero la consistenza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza, dell’Io – che resta chiuso e confinato in se stesso – e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teo- rizza dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza dalla sfera pas- sionale ed istintiva, che viene a rappresentare allora l’alterità, l’altro da sé, il diverso. Tale aspetto razionale dell’uomo – di cui, come abbiamo visto, si afferma la posizione di supremazia e privilegio – rifiuta, nega, reprime, domina, sottomette e annichilisce la dimensione corporea e la sfera pulsionale ed istintuale – propria precipuamente dell’animalità e definita come il lato oscuro dell’uomo, luogo dell’immoralità – rite- nuta inferiore e negativa. Il concetto di razionalità umana, che si con- figura solitamente come tratto peculiare di uno dei due protagonisti, è oggetto anch’esso – come il concetto di autorità – di una radicale critica da parte del regista. Il protagonista che incarna questa facoltà, è la figura dell’adulto che svolge una funzione di padre e insegnante. Si entra così nel nucleo costitutivo e nel cuore poetico del cinema di Ame- lio, quale la trattazione del rapporto dialettico tra la figura dell’adulto/ padre/insegnante e quella del bambino/figlio/allievo. Questo rapporto tra adulti e giovani, tra padri e figli si configura come un vero conflitto che si risolve nella negazione, rifiuto, repressione e annichilimento del bambino/figlio/allievo – che impersonifica la dimensione sentimentale e istintuale – da parte dell’adulto/padre/insegnante – che esemplifica l’aspetto razionale dell’uomo. Il protagonista che incarna la facoltà della razionalità, ovvero la figura dell’adulto/padre/insegnante, risul- ta anch’essa – proprio come lo Stato e la famiglia tradizionale – una figura inadempiente e incapace a porsi come guida. Anche il modello 453 della famiglia putativa allora, come quello della famiglia tradizionale e biologica, si rivela inadeguato e fallace. Al centro dell’opera di Ame- lio, in linea con la contrapposizione dialettica tra le figure dell’adulto/ padre/insegnante e del bambino/figlio/allievo, si iscrive inoltre quella tra cultura e natura, Nord e Sud, opulenza e miseria, classe borghese e società contadina, presente o futuro e passato. L’epilogo, approdo del viaggio geografico e spirituale dei protago- nisti, è caratterizzato da un rovesciamento della situazione e dei ruoli. Si assiste infatti ad un capovolgimento della tradizionale dicotomia tra ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. La priorità di valore viene assegnata non più alla dimen- sione razionale, piuttosto proprio alla sfera passionale ed istintiva, di cui si riconosce il ruolo centrale e prioritario all’interno dell’esisten- za dell’uomo. Si ha infatti la negazione della sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale: l’individualità del Sé e la sua separa- tezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’alterità, l’altro da Sé, il diverso – si rivelano un’illusione, una costruzione. La consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto perma- nere della Coscienza di Sé viene a dissolversi, e dunque il fondamento stabile dell’Io, oscurato e minato, viene meno. Infatti l’alterità50 non resta confinata, al contrario tende ad invaderci: il Sé è intessuto di altro, è permeato dall’alterità: si assiste all’introiezione dell’altro, secondo una concezione dividuale della soggettività. Tale alterità e diversità consiste appunto nella sfera passionale, emotiva ed istintuale, incarna- ta dalla figura del bambino o dell’adolescente, che, assumendo il ruolo di figlio ed allievo, si pone in rapporto dialettico con quella dell’adul- to/padre/insegnante. Nel finale si assiste al rovesciamento della dialet- tica tradizionale tra adulto/padre/insegnante e bambino/figlio/allievo, cioè al capovolgimento dei ruoli tradizionali in base ai quali l’adulto- padre è la figura che insegna ed educa e il bambino-figlio quella che impara e apprende. La figura del bambino/figlio/allievo dunque come simbolo della diversità e come metafora dei sentimenti, delle passioni e delle emozioni. Infatti l’alterità si configura come l’insieme di quei sentimenti e valori propri precipuamente appunto dei più deboli, degli

50 L’alterità è costituita non solo da ciò che risulta esterno rispetto al soggetto, ma si rivela anche interna allo stesso Sé, quale appunto l’insieme delle passioni, emozio- ni, pulsioni, istinti e desideri dell’individuo. Infatti il tema del rapporto con l’alte- rità si ritrova all’interno dello stesso Sé, le problematiche dell’intersoggettività si rivelano una problematica intrapsichica caratteristica della stessa interiorità. 454 ultimi esemplificati per antonomasia dai bambini. Con la riscoperta di tali valori e sentimenti – di cui si rivelano custodi per eccellenza i bambini – e con la rivendicazione della loro centralità nell’esisten- za umana, emerge l’umanesimo del cinema ameliano: il regista si fa portavoce della rivolta degli innocenti, dei derelitti, degli emarginati e dei diseredati e propone la riabilitazione e una vera epopea dei vinti, dei deboli, dei semplici e degli ultimi. I vinti, i deboli e gli ultimi sono appunto i bambini di Amelio – detentori di valori e sentimenti – che con la loro innocenza e purezza denunciano il mondo inadempiente degli adulti e un ordine sociale corrotto. Questi sono dunque i piccoli eroi quotidiani celebrati da Amelio: gli emarginati, i deboli e gli inno- centi che, nonostante l’indifferenza degli adulti e la corruzione delle istituzioni, conservano l’animo di bambino. Se i diversi personaggi possono essere collocati all’interno di que- sta scala gerarchica filosofica sottesa ed implicita nel cinema di Ame- lio, nelle opere appartenenti all’ultima fase dell’autore – a partire da Il ladro di bambini in poi – il personaggio del protagonista-eroe si rivela più complesso. Infatti nei lavori più recenti del regista il protagoni- sta non è ascrivibile univocamente ad uno stadio definito, in quanto nel dispiegamento della storia si disvela un processo di evoluzione e crescita psicologica ed intellettiva interno all’eroe. Così nella prima parte delle pellicole il protagonista impersonifica l’elemento eterono- mo nella sua accezione positiva e statuale, in quanto, rivestendo un ruolo istituzionale, rappresenta un’autorità mondana. Nella parte cen- trale della storia poi il protagonista, contestata l’autorità superiore ed esterna, va ad incarnare l’eroe emblema di razionalità. Infine nell’epi- logo si assiste al crollo e al dissolvimento dell’identità personale e dell’unità dell’Io e all’identificazione del protagonista con l’alterità, attraverso il riconoscimento e l’accettazione della propria dimensione passionale ed istintuale. Emerge allora il ruolo di primo piano e la funzione centrale che il viaggio riveste all’interno del cinema di Amelio, quale forma di rac- conto privilegiata delle opere di questo autore. Il viaggio – elemento sempre presente e centrale nel cinema ameliano – che i personaggi intraprendono nel corso della storia non si caratterizza unicamente come un viaggio che i personaggi compiono nell’ambiente esterno, ma si configura inoltre come un percorso interiore e spirituale che i personaggi, in modo particolare il protagonista, compiono all’interno della propria soggettività ed interiorità. Il viaggio geografico si con- 455 figura dunque in Amelio come metafora di un percorso psicologico e intellettivo di crescita ed evoluzione interno agli stessi personaggi, di un processo d’identificazione personale e ricerca esistenziale, di autoscoperta e trasformazione del Sé.

3. Il ladro di bambini (1992)

Si intende analizzare la tematica del Sud nel film Il ladro di bambi- ni (1992) di Amelio, in cui tale questione viene trattata in stretta con- nessione con quella della ricerca identitaria. Nella pellicola di Amelio infatti la discesa nel cuore del Meridione compiuta dai protagonisti vie- ne a caratterizzarsi proprio come una ricerca identitaria, dove il viaggio geografico verso il Sud – immagine metaforica di una naturalità e di valori archetipici ormai perduti – si configura come metafora di un pro- cesso d’identificazione personale e ricerca esistenziale, di un percorso interiore e spirituale soggettivo di autoscoperta e trasformazione del Sé. L’elemento eteronomo si presenta nel film sia nell’accezione meta- fisico-religiosa come un’autorità teologica, che in quella positiva e sta- tuale come un’autorità mondana. Sulla loro trattazione è incentrata la prima parte della pellicola: l’autorità religiosa e quella statuale-societa- ria costituiscono infatti il primo “incontro” e dunque la prima tappa dei protagonisti lungo il viaggio alla scoperta, o meglio ri-scoperta, di sé. Si tratta delle istituzioni religiose da una parte e dello Stato, della socie- tà odierna e della famiglia istituzionale dall’altra, enti verso cui il regi- sta muove una radicale critica in quanto si rivelano inadeguati e fallaci:

Come ha detto lo stesso regista, Il ladro di bambini «è un film sulla vergogna che non sappiamo ancora provare», ed è tante altre cose che riguardano la nostra società, dispersa nei mille egoismi del benessere, incerta, diffidente, incapace di guardare se stessa con spirito critico e costruttivo e di ricercare le poten- zialità di un sentimento che esprima un’autentica sensibilità verso chi è diverso51.

La Diversità, rappresentata dalla naturalità e dalla finitezza della sfera passionale ed emozionale, è incarnata nel film dalle figure dei bambini.

51 M. Garritano, La trasfigurazione poetica del quotidiano, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 149. 456

L’innocenza dei bambini costituisce in Amelio una Diversità negata, repressa e annichilita da istituzioni religiose corrotte e inadempienti e da un ordine sociale logoro. Infatti per quanto riguarda l’autorità teolo- gica, gli istituti religiosi rifiutano di accogliere la bambina, visti i suoi trascorsi52. Per quanto riguarda poi l’autorità statuale e positiva, essa è rappresentata dalla famiglia tradizionale ed istituzionale – quale nucleo primordiale della società – aspramente criticata e contestata dall’autore:

La figura del genitore si disintegra qui con il gesto più osceno, quello di vendere il corpo della propria figlia. Ma non a caso il padre non si vede, dà il seme, genera i bambini e poi sparisce. […] C’è questa disintegrazione dei valori che costituivano la base della società contadina, da cui padre e madre sono usci- ti. L’emigrazione ha condotto all’abbandono di quei pilastri che sono forse antichi, ma che sostenevano un modo di vivere meno disumano53.

L’alterità della sofferenza infantile è dunque incarnata dai personaggi dei due bambini Rosetta e Luciano, la cui fanciullezza ed innocen- za sono state rubate, violate e negate. Infatti Rosetta è una bambina di appena undici anni prostituita dalla madre. Per quanto riguarda Luciano poi, esemplificativo di questa negazione è lo sguardo54 del bambino che apre il film: è lo sguardo di un bambino che ha già perso l’innocenza, lo sguardo di un bambino – come rivela lo stesso auto- re – «che sa tutto, che capisce tutto, e che non può dire niente […], lo sguardo addolorato e impotente del mio piccolo protagonista, che vorrebbe difendere le sue donne, ma non sa come fare. E allora tace. E si ammala»55. Infatti il mutismo e la malattia (l’asma) del piccolo protagonista – come anche il suo rapporto duro con la sorella – sono segni sintomatici della negazione della sua infanzia.

52 «Ma non sono loro (i preti e le suore) comunque che fanno le “giornate per la vita”, non sono loro che dicono: procreateli comunque, noi li accoglieremo tut- ti?», Antonio Faeti, Bambini estranei, bambini rubati. Bambini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., pp. 52-53. 53 Jean A. Gili, Utopia di una famiglia nuova, intervista a Gianni Amelio a cura di Jean A. Gili, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 146. 54 Riguardo alla rilevanza significativa e alla valenza morale dello sguardo nel cine- ma di Amelio cfr. § 2 Il cinema di Gianni Amelio e la filosofia. 55 Lidia Ravera, Il maschio deve stare fuori, intervista a G. Amelio a cura di Lidia Ravera, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., pp. 136-137. 457

La sopraffazione, la violazione e l’annichilimento di questa alte- rità che è incarnata sempre dai più deboli, interna alle dinamiche tra i personaggi del racconto, si riflette anche all’esterno nel paesaggio, nello spazio filmico. L’Italia infatti, attraversata da nord a sud dai tre protagonisti durante il loro viaggio, si configura come un’Italia deva- stata dal degrado culturale e dallo scempio ambientale. L’Italia appare come «un’Italia spogliata»56, come «un’Italia adagiata nello squallore morale, nella corruzione diffusa, nella devastazione ambientale»57, come «l’Italia del degrado culturale e dello scempio ambientale […] ferita nei paesaggi naturali più belli dalla cementificazione selvaggia, dall’abusivismo edilizio, dai perenni lavori in sospeso»58, come

l’Italia distrutta e incompiuta, vacillante sulle macerie d’un cambiamento irrimediabile, esemplificata da una casa - meri dionale “moderna” perennemente in costruzione e aperta ai venti, rappresentata da ragazzi delinquenti e istituzioni indif- ferenti, ostili o non funzionanti, da bambini venduti e compra- ti che alla fine del film girano le spalle al mondo, ma non alla speranza. […] L’Italia brutta, in cui una modernità provvisoria e barbara si sovrappone alla bellezza classica59.

Il paesaggio appare distrutto: «la costiera, il mare sono sconciati da una strada che puzza di camion e di macchine roboanti, di case che nascono a caso e costruite, come il ristorante, a metà, di euforia del denaro»60. Così «la metafora di un’Italia espropriata della propria cul- tura e memoria si scioglie in quanto metafora e deve essere presa alla lettera. All’Italia è stata sottratta, per davvero, l’anima e quello che rimane è rovina, sgretolio, cocci e frantumi»61. Il regista, quale uomo del Sud, appare particolarmente sensibile

56 F. De Bernardinis, Una poetica della sottrazione, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 151. 57 U. Casiraghi, Una storia lineare e complessa, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 168. 58 E. Ghini, Un bambino sempre più violato, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 166. 59 Lietta Tornabuoni, Dove la storia si sta svolgendo…, in Emanuela Martini, Gian- ni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 37. 60 Goffredo Fofi, Mettiamoci a fare i bambini, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 159. 61 F. De Bernardinis, Una poetica della sottrazione, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 154. 458 alla tematica della devastazione e del disastro culturale e ambientale che la filosofia del progresso, del consumo e del successo propria del Nord ha prodotto nel Sud Italia, distruggendo e annientando i suoi valori primigeni. Esemplificano la società capitalista odierna – ogget- to appunto dell’aspra e radicale critica di Amelio – anche personaggi minori (che compaiono più avanti nel film), che hanno sposato questa politica consumistica ed arrivistica importata dal Settentrione rinne- gando i propri valori meridionali originari: la sorella di Antonio che sta costruendo una casa abusiva in Calabria, «tutta spinta all’avere e con ciò stesso al distruggere»62, e i benestanti appena arricchiti vol- gari e corrotti che compaiono nel film durante la festa al ristorante, come il geometra Papaleo, la cui filosofia familistica e mafiosa emerge durante la discussione col carabiniere a tavola sugli abusi edilizi, e la giovane donna che scopre e si affretta subito malignamente a svelare, con una perfidia perbenistica protetta dal senso comune e socialmente trionfante, l’identità della bambina additandola a mostro da coperti- na di rotocalco. A questi personaggi – emblema appunto della classe piccolo-borghese (che vive avidamente il presente e si proietta, con i suoi interessi egoistici capitalistici, verso il futuro) – si contrappone quello della vecchia nonna, che, col suo orticello assediato dalla stra- da, simboleggia i valori tradizionali e ancestrali del passato contadino del Sud dell’Italia: il piccolo orto si fa allora poetica metafora della residualità del passato della tradizione contadina che, nel Meridione, ancora sopravvive e resiste alla sterminante fagocitazione capitalista (l’autostrada che incombe minacciosa). Inoltre l’autorità statuale e istituzionale, quale ente esterno e supe- riore al soggetto individuale, è incarnata anche dall’arma dei carabi- nieri. Nel film compaiono infatti il collega corrotto di Antonio che lo abbandona tradendo il servizio e il carabiniere napoletano che tenta di “prendersi delle libertà” con Rosetta. Ma anche l’autorità punitiva del- la burocrazia statale impersonificata dai superiori di Antonio, i quali nell’epilogo – che esamineremo in seguito – accusano il protagonista (che nel corso del film va ad incarnare – come vedremo – anch’egli l’alterità rispetto all’autorità) di essere un “ladro di bambini”, passi- bile del reato di sequestro di persona. È interessante notare come il discorso dell’autorità punitiva sia pronunciato in italiano quale lin-

62 Goffredo Fofi, Mettiamoci a fare i bambini, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 159. 459 gua ufficiale utilizzata dalla burocrazia statale, in contrapposizione al dialetto – a cui è affidata gran parte del film – dei protagonisti. La contrapposizione linguistica tra l’italiano ufficiale dell’autorità e il dialetto esemplifica l’inconciliabilità dei protagonisti con la società: «Il valore di Il ladro di bambini risiede in primis […] nel raffigurare la diversità dei tre protagonisti come inconciliabile con la realtà»63. In questa prima parte della pellicola il protagonista stesso (Antonio) è un esponente dell’autorità statuale, rivestendo il ruolo istituzionale di carabiniere. All’inizio il carabiniere è infastidito per una missione cui, dovendola compiere da solo, si sente impreparato. Anche i bam- bini gli sono ostili: Luciano, chiuso nel suo mutismo, è ostile a tutti, specialmente alla sorella, e Rosetta, ferita e violata, riversa e palesa la sua frustrazione nella duplicità dell’essere donna e bambina nello stesso tempo, secondo un atteggiamento altalenante tra quello da don- na, quale è stata costretta a diventare prima del tempo suo malgrado, e quello di bambina capricciosa e aggressiva. La parte centrale della storia è occupata poi dall’esposizione e dal- la trattazione del secondo stadio della scala gerarchica filosofica, cor- rispondente alla seconda tappa del viaggio compiuto dai protagonisti. Si tratta del soggetto individuale, connotato in termini razionalistici, che si riconosce autonomo da qualsivoglia autorità esterna e supe- riore. Tale facoltà si configura – all’interno della parte centrale del film ameliano – come tratto peculiare del protagonista. La figura di Antonio, definita come «una delle più complesse e più belle espresse dal cinema italiano dell’ultimo decennio»64, incarna infatti l’ideale dell’eroe razionale che si riconosce autonomo ed indipendente dal- la propria dimensione naturale originaria come anche dall’autorità: allontanatosi dalla naturalità delle proprie origini per integrarsi in un sistema istituzionale strutturato ed artefatto, si pone poi anche al di fuori del sistema stesso e si scaglia contro di esso, contro la società e l’autorità che lo sovrasta e lo governa. Antonio infatti dismessi i panni del carabiniere, con la sua fierezza, la sua lealtà, la sua onestà e la sua schiettezza, con il suo semplice e puro senso del dovere si sostituisce ad uno Stato assente. Viene così accusato dai suoi superiori di essere un “ladro di bambini” perché ha “rubato” alla società e al sistema

63 M. GARRITANO, La trasfigurazione poetica del quotidiano, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 150. Ivi, p. 149. 64 Ivi, p. 149. 460 l’umanità e la dignità per i più deboli: infatti – spiega lo stesso Amelio – «per vivere i sentimenti siamo spesso costretti a rubarli. In questo senso Il ladro di bambini ruba qualcosa al proprio tempo, al proprio sistema, per concedere a se stesso un’altra dignità»65. Dunque Anto- nio viene accusato di essere un “ladro di bambini” appunto perché – rivela il regista –

ha fatto l’ultima cosa che può fare uno come lui, ha inter- pretato in modo del tutto personale la sua missione, che era di trasferire due bambini in un istituto. Lui invece li ha fatti dormire in un albergo perché erano stanchi, li ha portati da sua sorella perché si riposassero, li ha fatti mangiare perché avevano fame, si è fermato con loro al mare perché facessero il bagno… E lo ha fatto anche per se stesso, non solo per i bambini66.

L’idea centrale del film consiste appunto nella trattazione del rapporto e confronto tra adulto e bambino, rapporto che si configura – spiega lo stesso autore – come una «violenza dialettica», un’«attrazione- opposizione»67. Infatti se all’inizio il carabiniere Antonio è infastidito dalla missione che gli è stata assegnata e i bambini gli sono ostili, a poco a poco, nel corso del viaggio68 che i tre protagonisti sono costret- ti ad affrontare insieme, si assiste ad un cambiamento e ad una tra- sformazione del rapporto tra i personaggi. Nel carabiniere nasce un affetto paterno per i bambini violati e questi cominciano teneramente ad aprirsi verso di lui: Rosetta si apre al sorriso, il mutismo e l’asma sintomatico di Luciano vanno pian piano dissolvendosi quando il bambino inizia a considerare Antonio come il padre che gli è sempre mancato e anche il rapporto tra i due fratelli diventa più sereno. Così l’innocenza e la fanciullezza perdute dai due bambini vengono man mano, nel corso del viaggio, ritrovate. Emerge dunque in Il ladro di

65 Jean A. GILI, Utopia di una famiglia nuova, intervista a G. Amelio a cura di J. A. Gili, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 146. 66 Ibidem. 67 E. Soci, Il ladro di bambini, intervista a G. Amelio a cura di E. Soci, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 134. 68 Emerge dunque come il viaggio, elemento sempre presente e centrale nel cinema di Amelio, si configura come una metafora del processo psicologico di crescita ed evoluzione del protagonista e dei rapporti e delle dinamiche interpersonali e intersoggettive tra i personaggi (cfr. § 1 Il viaggio come ricerca identitaria). 461 bambini l’ideale utopico di una famiglia nuova, putativa, che si forma e nasce sulle ceneri della famiglia biologica e tradizionale – criticata e contestata, come abbiamo visto, dall’autore. Amelio infatti dichiara:

Io ho raccontato di figli che non erano figli ma era come se lo fossero, o di figli che erano figli, ma qualcuno non li rico- nosceva. […] Quindi, nello stesso racconto qualcuno che non era padre naturale dava delle cose e qualcun altro che invece l’aveva messo al mondo le toglieva. […] La famiglia “giusta” è quella inventata, trovata strada facendo, i cui componenti si sono scelti69.

La scena chiave del film è infatti quella del mare – elemento fonda- mentale e presenza costante nel cinema ameliano – metafora dell’uto- pia. In questa scena tra il giovane carabiniere e i bambini, che deve tradurre in un istituto per l’infanzia, nascono una sintonia e un’ar- monia che superano ogni barriera prestabilita costituita dai ruoli, dai ceti sociali e dalle età, e rimandano ad un’età dell’oro, a un paradi- so terrestre, al tempo di un’origine mitica sfiorata ma non raggiunta, come rivela l’autore: «C’è un senso di utopia che sembra sul punto di realizzarsi, che non si realizza, ma lascia una forte traccia di sé»70. Dunque è presente nel film, come accade spesso nelle opere di Amelio, un momento centrale in cui il protagonista ha portato a termi- ne il compito che si era proposto, ha realizzato la sua missione, è con- vinto di aver raggiunto il suo scopo: in Il ladro di bambini la missione del protagonista Antonio è quella di tradurre i bambini da uno stato di infelicità e disperazione ad uno stato di realizzazione dell’essere, di benessere e serenità. Questo momento è individuabile nella scena in cui i protagonisti si ritrovano intorno al tavolo di un ristorante in riva al mare a cibarsi. Si tratta di un’attività semplice, primordiale, basilare e fondamentale – sempre centrale nei film dell’autore – che evoca una dimensione originaria e ancestrale e crea la famiglia, è il momento fondante della famiglia, appunto di quella famiglia che si sceglie: padre e figlio, al di là del discorso biologico, si scelgono,

69 Emanuela Martini, Gianni Amelio, cit., p. 12 (si tratta di una dichiarazione di G. Amelio raccolta da Emanuela Martini nel giugno 2006). Nella scelta della nazio- nalità delle due ragazze il regista richiama e omaggia il cinema francese. 70 Ivi, p. 112 (si tratta di una dichiarazione di G. Amelio tratta da un’intervista a cura di Emanuela Martini). 462 per cui il padre è la figura che insegna ed educa e il figlio quella che impara e apprende. Questo film infatti, come altre opere del regista, si fonda sulla dialettica tra la figura dell’adulto/padre/insegnante e quella del bambino/figlio/allievo. In questa scena emerge inoltre il realismo peculiare del cinema ameliano: i due attori (Enrico Lo Verso che interpreta Antonio e Giu- seppe Ieracitano che impersona il piccolo Luciano) sono realmente “in presenza” e interagiscono tra di loro. Infatti la verità, ricercata dal realismo, nasce dalla co-presenza: essa restituisce allo spettatore la verità della realtà, in questo caso la realtà del rapporto tra due persone – in particolare qui emerge il medesimo spirito metafisico-esistenzia- le che accomuna i due personaggi che dialogano insieme. In questa scena si ritrova anche un’altra tematica centrale in Amelio quale quel- la del linguaggio, attraverso il racconto da parte del carabiniere di una barzelletta. La barzelletta richiama infatti la questione linguistica in quanto si configura come un gioco che si compie sul linguaggio: per comprendere una barzelletta essa non va intesa in senso letterale, ma si deve intendere e scoprire un doppio senso nascosto, l’errore71. Lo stesso titolo Il ladro di bambini costituisce un paradosso (è parados- sale infatti designare un carabiniere “ladro di bambini”), appunto un “errore” linguistico, un capovolgimento di senso. Il discorso lingui- stico viene ripreso più avanti nel film quando la bambina compie un errore linguistico dicendo «marocco» anziché «barocco»; anche nel gioco delle carte (cronologicamente antecedente nel film) si ritrova l’errore, in quanto tale gioco sottende la truffa basata sull’“errore” che compie la percezione. Nell’epilogo del film – come di consueto nel cinema ameliano – si assiste ad un rovesciamento della situazione e dello stato di cose che si era raggiunto. Il bambino chiede al carabiniere se gli piacciono le due turiste francesi72, sedute ad un tavolo vicino nel ristorante: si intravede già un capovolgimento di ruoli per cui il bambino diventa adulto e l’adulto diventa bambino. Infatti al momento in cui il prota- gonista pensa di aver raggiunto il suo scopo e compiuto la sua missio- ne succede il momento della perdita e del crollo totale dell’identità. Per una causa narrativa contingente Antonio si ritrova in una stazione

71 Riguardo al concetto di errore nell’esistenzialismo filosofico heideggeriano cfr. § 1 Il viaggio come ricerca identitaria. 72 Nella scelta della nazionalità delle due ragazze il regista richiama e omaggia il cinema francese. 463 di polizia: viene accusato dal commissario di essere un “ladro di bam- bini”, rischia di essere addirittura accusato di sequestro di persona e gli viene chiesto di riconsegnare il tesserino. Il protagonista viene cioè privato dell’identità ufficiale: non viene però in tal modo distrut- to l’Io soltanto in quanto realtà sociale e storica, ma anche in quanto realtà metafisico-esistenziale e in quanto realtà psicoanalitica. Si ha così la negazione della sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale: l’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano l’alterità, l’altro da sé, il diverso – si rivelano infatti un’illusione e la sua consistenza, unità e coerenza, oscurata e minata, viene a dissolversi. Infatti l’alterità non resta confi- nata, al contrario il Sé è intessuto di altro, è permeato dall’alterità: si assiste all’introiezione dell’altro, secondo una concezione dividuale della soggettività. È centrale così nell’epilogo lo scacco esistenziale del protagonista, scacco a cui l’uomo è votato secondo l’esistenzia- lismo filosofico heideggeriano. Anche in questa scena fondamentale in cui si assiste alla disgregazione e al disfacimento dell’identità per- sonale è centrale la questione linguistica: infatti – come già rilevato – il discorso della burocrazia statale è pronunciato in lingua italiana, in contrapposizione al dialetto di Antonio. La contrapposizione tra i due personaggi è enfatizzata cinematograficamente dal primo piano di Antonio (il primo piano nel cinema ameliano offre alla coscienza spettatrice la realtà metafisico-esistenziale del personaggio) alternato a quello del commissario che lo interroga. Così il viaggio comporta la destrutturazione e il disfacimento dell’individualità e della sostanzialità dell’identità personale; ma con l’approdo dei protagonisti nel Meridione, loro luogo d’origine e ulti- ma tappa del travagliato viaggio, tale smarrimento e perdita di sé si rivela una conquista, in quanto costituisce l’occasione per la struttu- razione di una nuova ed autentica costituzione identitaria, fondata sul riconoscimento dell’aspetto passionale e pulsionale e della moltepli- cità dell’Io e sulla riscoperta di sé e delle proprie radici dimenticate. È evidente allora come la discesa nel cuore del Meridione compiuta dai protagonisti venga a caratterizzarsi come una ricerca identitaria: il Sud, finalmente raggiunto ora che i tre sono tornati nella terra nativa, evoca un’immagine metaforica di una naturalità e di valori primigeni e archetipici perduti. La riscoperta di sé e di questa dimensione natu- rale ed originaria consistente in tali sentimenti e valori primordiali ed atavici avviene in Antonio infatti solo quando egli torna nel profon- 464 do Sud, patria abbandonata, dove ritrova le proprie rimosse ma ine- ludibili radici73. Al centro dell’opera di Amelio si iscrive infatti una contrapposizione dialettica tra artificialità ed originarietà, istituzioni sociali e natura, Nord e Sud, opulenza e miseria, classe borghese e società contadina, presente o futuro e passato. Nella polarità tra natu- ra ed istituzioni l’autore opta per la naturalità propria di un Sud che viene a configurarsi come un’origine dimenticata e rimossa. L’alterità e la diversità di cui l’Io del protagonista nel finale del film si scopre intessuto consiste appunto proprio in questa dimen- sione originaria e naturale. Tale dimensione naturale ed originaria consiste nella sfera passionale, emotiva ed istintuale, incarnata nel film dapprima solo dalle figure dei bambini, e propria poi nell’epilogo anche dello stesso protagonista; protagonista adulto il cui Io razio- nale si è ormai dissolto e annientato e che ritorna quindi in qualche modo bambino74. Infatti «il corpo è “bambino”, la mente è “adulta”. Il ladro di bambini è la mente, la mente di un adulto che, nel torna- re bambino, torna a farsi corpo»75. Così il carabiniere amorevole e “paterno” è costretto a riconsegnare il tesserino perché nella società odierna «il sentimento non è più di competenza dell’individuo, ma una dimensione impersonale e anonima di cui l’uomo è irrimedia- bilmente espropriato. […] Senza più “spirito”, crolla anche l’imma- ginario di un consorzio umano»76. Antonio infatti viene accusato dai suoi superiori di essere un “ladro di bambini” perché ha “rubato” alla società e al sistema quell’umanità, quella dignità, quella solidarietà propri precipuamente appunto dei più deboli, degli ultimi esempli- ficati per antonomasia dai bambini. Sentimenti e valori originari e

73 Il Sud viene a caratterizzarsi come un “rimosso” autobiografico della storia per- sonale dello stesso Amelio, che riemerge e riaffiora nel film del regista, secondo un intimo legame tra dato biografico e opera quale elaborazione dell’esperienza e ricerca esistenziale dell’autore. 74 Così se Il ladro di bambini è un film incentrato sul problema del rapporto interge- nerazionale, interpersonale e intersoggettivo tra i tre protagonisti, tale problema- tica si rivela poi anche una problematica intrapsichica interna allo stesso protago- nista, caratteristica della stessa interiorità di Antonio: l’alterità infatti è costituita non solo da ciò che risulta esterno rispetto al soggetto, ma si rivela anche interna allo stesso Sé, quale appunto l’insieme delle passioni, sentimenti, emozioni, pul- sioni, istinti e desideri del soggetto. 75 Fabio Bo, Corpo a cuore, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 59. 76 F. DE BERNARDINIS, Una poetica della sottrazione, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 154. 465 primordiali che al termine del viaggio vissuto insieme ai bambini – custodi per eccellenza di questa dimensione naturale, cui appartengo- no tali sentimenti e valori – Antonio ha da loro appreso e fatto propri, introiettato e scoperto o meglio ri-scoperto in se stesso, nel proprio animo di bambino. Si assiste così al definitivo rovesciamento della dialettica tradizionale tra adulto/padre/insegnante e bambino/figlio/ allievo, cioè al capovolgimento dei ruoli tradizionali in base ai quali l’adulto-padre è la figura che insegna ed educa e il bambino-figlio quella che impara e apprende. Con la riscoperta di tali valori e sentimenti naturali ed originari emerge l’umanesimo del cinema ameliano: il regista si fa portavoce della rivolta degli innocenti, dei derelitti, degli emarginati e dei dise- redati e propone una vera e propria epopea dei vinti, dei deboli, dei semplici e degli ultimi. Infatti

[l’] umanesimo irriducibile (di Amelio) intacca la superficie dell’orrore e va a stanare i clandestini sentieri dove la gen- te fa correre con ostinazione la propria pretesa a una qualche innocente felicità. È l’affettuoso protocollo di una quotidia- na resistenza, combattuta con armi giocattolo, con il minu- scolo eroismo dei vinti che non si arrendono mai a perdere. È una liturgia di gesti minimi, poveri. L’orto tagliato a due passi dalla statale, col rombo dei Tir che cancella a casaccio la poche parole snocciolate in dialetto, il bambino vestito da Zorro, quella volta che si va al mare e si impara a nuotare, un verso di una canzone di Vasco Rossi per cacciare la paura, un panino in un treno che non arriva mai, le foto di Maratona sul letto, avere qualcuno che ti compra le patatine, scoprire come è bella una chiesa bella, farsi la foto il giorno della prima comunione, sognare di farsi una casa in un posto devastato da geometri e speculatori, che però è vicino a dove sei nato e se ti giri a destra vedi il mare e se ti giri a sinistra vedi i monti. Sono briciole di nulla. […] E raccontate da Amelio diventano i focolari di una rivolta silenziosa e a suo modo feroce: quella di cui son capaci i semplici77.

I vinti, i deboli, gli ultimi sono appunto i bambini di Amelio – deten- tori di valori e sentimenti primigeni ed archetipici – che con la loro

77 A. BARICCO, Raccontare l’Italia com’è, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 158. 466 innocenza e purezza denunciano il mondo inadempiente degli adulti e un ordine sociale corrotto. Nel mostrare il farsi bambino di Anto- nio, Il ladro di bambini insegna la capacità di tornare all’infanzia, sepolta e relegata in profondità, sotto la crosta di un contesto orren- damente “adulto” e di un ordine sociale prestabilito. Tale dimensione naturale ed originaria, peculiare dei bambini e nell’epilogo del film ritrovata dallo stesso carabiniere, è incarnata anche dal personaggio della vecchia nonna che, con il suo piccolo orticello ai margini della strada, simboleggia emblematicamente i valori tradizionali ed atavici del passato contadino del Sud dell’Italia. Questi sono dunque i pic- coli eroi quotidiani celebrati da Amelio: gli emarginati, i deboli e gli innocenti «che vivono gli affetti, credono nell’onestà, hanno gesti di sincera solidarietà, e che, nonostante tutto, conservano gelosamente l’animo del bambino»78 e con esso un sistema di valori primigeni ed archetipici e una naturalità propri di un Sud ormai scomparso, origine rimossa ma ineludibile. Il finale del film – come è tipico nel cinema ameliano – si caratte- rizza come aperto, ambiguo, ambivalente, soggetto a multiple inter- pretazioni. Lo spazio filmico in cui si svolge la sequenza finale è un’automobile, simbolo del viaggio e dell’erranza79. In questa ultima scena del film si rivela centrale la tematica dell’abbandono. I prota- gonisti, giunti al termine del loro rocambolesco viaggio, si trovano nei pressi dell’istituto che ospiterà i due bambini: Antonio si addor- menta, o finge di dormire (è in uno stato di incoscienza), come per dare ai bambini l’occasione di scappare, ma all’alba i due bambini sono ancora là, seduti sul bordo del marciapiede. Rosetta copre con la giacca il fratellino che ha freddo e gli dice: «Magari in istituto c’è il campo di pallone. Vedrai che ti pigliano subito a giocare». In questa scena si disvela il ruolo centrale e prioritario che riveste il personag- gio di Rosetta all’interno del film e la figura della donna nel cinema ameliano. Infatti con il coraggio di questo gesto di amore e maturità Rosetta decide di occuparsi di suo fratello, prendendo così su di sé tutta la consapevolezza e la responsabilità della famiglia mancata. Il regista rivela appunto:

78 E. GHINI, Un bambino sempre più violato, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 167. 79 Riguardo alla tematica dell’erranza nell’esistenzialismo filosofico heideggeriano cfr. § 1 Il viaggio come ricerca identitaria. 467

la mia bambina è una che diventa adulta facendo un gesto ver- so il fratello che la disprezza e la umilia, verso il bambino che per tutto il film ha detto «È colpa tua». Ovviamente, perché l’ha detto? L’ha detto per il dolore terribile di non poter far nulla, lui maschio, ma piccolo, per una madre e una sorella puttane, che gli altri uomini, come lui maschietti, hanno fatto diventare puttane. Il bambino è in assoluto il personaggio più sofferente, perché è anche il più debole, non capisce fino in fondo, e quindi vive il rancore sulla sua pelle. Allora la bam- bina ha questo scatto di maturità straordinario, che le fa posare la giacchetta sulle spalle del fratello che ha freddo, e che per la prima volta non la respinge80.

Così il personaggio della ragazzina, nato per ultimo, si rivela il perso- naggio fondamentale del filmIl ladro di bambini, film che nel finale si rivela essere quello che sotterraneamente appariva fin dall’inizio: «il film di Rosetta»81. Infatti lo stesso autore rivela che «il gesto finale di Rosetta è un gesto di forza: il carabiniere si arrende perché lo costrin- gono ad arrendersi, mentre vince la bambina, che è la più disgraziata; e vince proprio in quanto vittima, con una tristezza infinita»82. Così con l’assegnazione all’interno del film di un ruolo tanto fondamenta- le e prioritario al personaggio di Rosetta, che assurge a vera eroina, Amelio teorizza l’esaltazione della figura della donna. Nella don- na infatti l’autore rintraccia un elemento etico essenziale, indica la donna come la vera fonte della moralità: questo è il ruolo che rive- ste nel film sia la nonna di Antonio, «fonte definitiva di - ispirazio ne della comprensione morale»83, che la piccola Rosetta, che «con il suo piccolo gesto maturo, ci offre persino un barlume di speranza collettiva»84. La donna è infatti colei che si assume la consapevolezza e la responsabilità della sofferenza propria e altrui: emerge appun- to nell’opera ameliana – come spiega lo stesso autore – «il concetto della donna che ti deve lenire il dolore, deve tenersi dentro un po’ del suo e consolare te, perché tu maschio sei più debole, mentre lei è più

80 Emanuela Martini, Gianni Amelio, cit., p. 111 (si tratta di una dichiarazione di G. Amelio tratta da un’intervista a cura di Emanuela Martini). 81 Ibidem. 82 Ivi, p. 112. 83 Godfrey Cheshire, The Compassionate Gaze of Gianni Amelio, in «Film Com- ment», n. 4 (1993), p. 88. 84 Emanuela Martini, Gianni Amelio, cit., p. 112. 468 consapevole. Rosetta si porta addosso una croce»85. Il piccolo Lucia- no accetta, senza sottrarsi e schivarlo come avrebbe fatto in passato, il gesto d’affetto della sorella. Si tratta, come lo definisce il regista, di un «gesto di riconciliazione»86, un gesto morale di profondo affetto, fratellanza e solidarietà: esso indica il riconoscimento da parte dei due bambini della loro reciproca fragilità e solitudine e quindi, ora che il carabiniere è fuori dalle loro vite, la necessità di assumersi la responsabilità l’uno dell’altro e il bisogno di solidarietà. Il film Il ladro di bambini dunque narra e celebra «l’altruismo paziente delle persone generose, il sogno del meglio, i sorrisi dell’in- nocenza sporcata, i gesti dell’ingenuità»87, ovvero l’insieme di valori e sentimenti88 primigeni e naturali dell’animo umano – quali la digni- tà, l’onestà, l’innocenza, la semplicità, la speranza e la solidarietà. Emerge dunque in maniera ancora più pregnante nel finale l’idea fondamentale che percorre e caratterizza tutto il film e in generale il cinema umanistico di Amelio: l’idea che i bambini e quindi i vinti, i deboli, gli ultimi, gli innocenti e gli emarginati siano i veri custodi e detentori di un patrimonio di valori e passioni primordiali ed archeti- pici, emblema di un’originarietà e una naturalità che il mondo adulto e la società odierna hanno irrimediabilmente perduto.

85 Ivi, p. 20 (si tratta di una dichiarazione di Gianni Amelio tratta da un’intervista a cura di Emanuela Martini). 86 Gianni Amelio, L’ultima scena, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 142. 87 Lietta Tornabuoni, Dove la storia si sta svolgendo…, in Emanuela Martini, Gian- ni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 37. 88 Lo stesso Amelio dichiara: «Con Il ladro di bambini mi pareva di aver dato il massimo, proprio nel senso della comprensione, del sentimento, del cuore», Emanuela Martini, Gianni Amelio, cit., p. 105 (si tratta di una dichiarazione di Gianni Amelio tratta da un’intervista a cura di Emanuela Martini). 469 Alicia Vitti

Il resto di niente through the Lens of Antonietta De Lillo

In 1997 Neopolitan film director Antonietta De Lillo1 acquired the rights to Enzo Striano’s2 novel Il resto di niente3, committing her- self to the challenge of making a historical film based on a book so immensely popular in the Naples region to have been termed a cult novel. This work, considered Striano’s masterpiece, was first pub- lished in 1986 by Loffredo Editore and re-launched eleven years later, after the author’s death, in a series of editions by Avagliano [1997,

1 Antonietta De Lillo (Naples, 1960) worked as both journalist and photographer before beginning her cinematic career as assistant cameraman in various films and television productions. In 1985 she directed her first feature length film,Una casa in bilico which won the Silver Ribbon as Best First Film. She has also made documentaries and video-portraits many of which have gained recognition in international festivals. In ’95 she directed I racconti di Vittoria which won the FEDIC award at the 52nd Venice International Film Festival, in ’97 Maruzzella an episode of I Vesuviani and in 2001 Non è giusto, presented at the 54th Film festival of Locarno. 2 Enzo Striano (Naples, 1927-87) Journalist and writer was a member of the Com- munist Party in the early fifties and on the Neapolitan editorial staff of L’Unità, where he worked until 1957. In the following years he taught and developed innovative scholastic editions, publishing several novels in the seventies: I gio- chi degli eroi, Il delizioso giardino e Indecenze di Sorcier. In the eighties he produced Il resto di niente, although he did not live to see its success. In 2000 Mondadori published an early work of his, Giornale d’adolescenza. 3 The film was produced by Factory di Napoli and partially financed by the Dipar- timento dello Spettacolo del Ministero per i beni e le attività culturali. Il resto di niente stars Maria de Madeiros in the role of Fonseca Pimentel, Rosario Sparno as Gennaro, Imma Villa as Graziella with Enzo Moscato in the role of Gaetano Filangieri. In the cast a total of 44 actors were Neapolitan. Screenplay: Giuseppe Rocca, Original music: Daniele Sepe, Cinematography: Cesare Accetta, Produc- tion Design: Beatrice Scarpato, Costume Design: Daniela Cianciò, Editing: Gio- giò Fanchini. 470

2002] and Rizzoli [1998, 2001, which brought it more fully to nation- al attention. The novel, fruit of extensive and meticulous research recounts the tumultuous events in the Kingdom of Naples, during the life span of Eleonora Fonseca Pimentel the court poetess and aristo- crat of Portuguese origin who became a crucial figure in the Partheno- pean revolution of December 1798 and who died on the gallows less than a year later after the capitulation of the so-called “Repubblica dei martiri” to the monarchist army. The novel takes us through the Naples of her childhood and youth, marked by the reformist period of Ferdinando IV and on to the advent of a revolutionary government triggered by the entrance in Naples of the French Republican armed forces which prompted Ferdinando and his court to abandon the city. We witness the ensuing establishment in Naples of a short-lived Jaco- bin Republic destined to end in June 1799 when the army of the Santa Fede recaptured the city imprisoning 8,000, executing more than a hundred, and forcing many others into exile. Through the eyes of Fonseca, in both novel and film, we are afforded a view of what those days must have been like for the cultural elites that animated the revo- lution; a revolution which has come to be remembered by many as an ill-fated experiment, propped up by the French military presence and whose demise can been attributed to the abysmal disparity dividing the intellectual class from the masses, in sum, what Vincenzo Cuoco termed “la rivoluzione passiva”, passive because no democratic order attempting to replicate a foreign model could ever correspond to the Neapolitan specificity. Striano’s novel has undoubtedly contributed to the rediscovery of Fonseca as a national heroine who is most remembered today for her role as principal writer and sole editor of, Il Monitore, a polemical and animated chronicle of the fledgling Republic, as well as the journa- listic voice most closely aligned. His novel gives Fonseca a modern rereading that contrasts distinctly with the more canonic treatment of her figure as revolutionary icon, symbol of the Risorgimento, or “madre della patria” that it has assumed in various periods. De Lillo, as well, is motivated by the desire to make this important personage known to a wider audience but to achieve this she has in her own words, “turned the novel upside down”. While Striano’s work fea- tures a significant second protagonist – the city of Naples itself, and gives ample space to an urbanistic reconstruction and the surrounding panorama, this approach, which De Lillo calls “vedutistico”, is nota- 471 bly absent from the film where the figure of Eleonora is the sole focal point. Originally intended to coincide with the bicentennial celebration [1999] of the Parthenopean revolution, the film was only presented in 2004 at the 61st Venice Film Festival, still not in its definitive ver- sion, and released the following year in movie theatres. The recep- tion of critics was generally favorable for the sensitive treatment of the subject, the artistically crafted scenes and intellectual caliber of the content. In 2005 the film was awarded the David of Donatello for Best Costume Design, and nominated for Best Production Design while Maria de Medeiros in the role of Fonseca was nominated for Best Actress. De Lillo has repeatedly confirmed her intent to capture the senti- ments and passion of that generation who believed firmly in the revo- lution and despite varying currents of dissent, followed this ideal to their death. Seeking to create an “anti-historical” film, not focused upon factual documentation, she creates instead an intimate portrait of the woman Eleonora encompassing episodes of the protagonist’s marital experience and motherhood without neglecting her intellec- tual attributes and aptly highlighting some of the debates most cru- cial to the revolutionary movement. Like Striano, De Lillo reveals an underlying sense of commitment towards what she calls her city of “eterna arte e cronaca” although in many ways the cinematic tran- sposition of Il resto di niente departs from the literary narrative, the director in an interview states: «Ho seguito Striano nel voler raccon- tare le emozioni e l’energia di questi ragazzi nobili, colti,… credo che sia necessario oggi ricordarsi di quel che hanno fatto e di riacquistare un senso etico, ma anche utopico della vita»4. Like Striano, De Lillo makes Fonseca a vehicle for retelling the story of the revolution from within the inner circle, offering us a moving vision of this tragic figure unique for her voice and visibility in a period when women did not participate in political life nor appear in certain public places. The camera carries out an intense scrutiny of Eleonora in an introspective journey revealed through flashbacks. De

4 http://www.movieplayer.it/film/articoli/antonietta-de-lillo-su-il-resto-di- niente_1117/, «I followed Striano in wanting to tell about the emotions and energy of these cultivated young people from the nobility.. I think that today what they did should be remembered and we should reacquire an ethical, but also a utopian vision of life». 472

Lillo’s lens lingers on the protagonist with empathy, seeking to expo- se through her personal experience and memories the evolution of a utopian dream – the founding of a democratic republic. The film presents itself as a product for an informed public alre- ady familiar with the events and public figures of the period. In Il resto di niente narrative modalities and stylistic choices disregard the conventions of the historical costume drama. Much of the film’s exposition occurs in a non-chronological manner and some scenes are differentiated by time dilation. The director uses frequent close-ups to heighten the presence and intensity of the leading actress Maria de Medeiros in the midst of a myriad of characters both historical and commonplace. She employs lengthy and complex dialogue to capture the crux of many republican debates or ideological differences and chooses decorative effects, created by Oreste Zevola, suggestive of painted theatrical backdrops and panels to recount the events of 1792. Thus, the flight of King Ferdinando, the arrival of the French, upri- sings and clashing forces, as well as saintly intervention, are repre- sented in a fashion unusual for today’s cinema ― but in keeping with entertainment forms of the epoch such as the tableau vivant and popu- lar theatre. Recourse to this stylistic device relieves the austerity of the film’s tone even as it resolves budgetary constraints. The opening shots of Il resto di niente channel historical events into an intimate personal dimension. Here as in later episodes, a still camera signals the inauspicious moment by capturing straight-on, the entrance or exit of the characters in an elongated interior space. The initial scenes are shot in an ornate baroque setting that seems to frame the protagonist as a portrait would. In a long frontal shot the figure of a soldier appears at the end of a vestibule; at the other end, in an opulent salon rather than a prison cell, Eleonora is seated awaiting the decision regarding her execution5. The soldier admits a small girl who advances hesitantly, ragged and barefooted, bearing a cup of coffee, which according to historical account was Eleonora’s final request. However, at Eleonora’s invitation to be seated she flees down the hallway, terrified. As she turns her back on the prisoner and exits, the slight figure of the girl is replaced with that of Eleonora the child, cueing us that the story will be told in a series of flashbacks

5 Eleonora Fonseca Pimentel was hung on August 17, 1799. Her request to be beheaded, as would befit someone of noble lineage was denied. 473 and foreshadowing a fundamental theme which occupied much of the historical Fonseca’s energies, the insurmountable problem of commu- nication between the masses and the revolutionary elites. We see the child Eleanora mount in a carriage that will take her family to Naples and travel scenes are superimposed against a decorative background effect of shifting hand-painted images, lending a dreamlike quality to the journey that will bring our protagonist into contact for the first time with her adopted city. An adept visual and auditory blending effectively conjures up the emotion and bewilderment of the girl in that crucial event. The figure of the adult Eleonora undergoes a definite transforma- tion in the hands of De Lillo. The heroine’s silences are more frequent and perhaps more eloquent than her speech. There are few traces of the woman we would call today a political activist, well-known to the Neapolitan populace because she addressed her public in the local dialect. An outspokenness and bent for social engagement are inhe- rent in the vision of her that has been passed down to us; the first writer to create for posterity such an image of high-mindedness was her contemporary Vincenzo Cuoco who in his Saggio storico [1801] compared her to Camilla at war, moved to go to battle for love of country. In I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848 Atto Van- nucci reports: «She excelled in all those qualities that can be praised in a woman… and possessed moreover what many women lack… an energetic heart» and a quality that he called, “sensi virili”. Alexandre Dumas in I Borboni di Napoli [1863] perpetuates an aura of high culture and heroism comparing Fonseca to Madame Roland, writer and influential member of the “girondisti” who died on the guilloti- ne, while more recently Maria Antonietta Macciocchi termed her the most formidable female intellectual leader, “la più temibile”, not for any endorsement of violence but for her spirit of sacrifice and unflag- ging will to educate the masses6. One might ask though, in De Lillo’s film, where is that woman who according to historical account donned male clothing, armed her female companions and risked her life to raise the tricolor flag at Sant’Elmo where she reportedly recited scornful verses of hatred for the monarchy? The physical fragility of the film’s main character who

6 Maria Antonietta Macciocchi presents her portrait of Eleonora in Cara Eleonora, a fictionalized biography published by Rizzoli in 1993. 474 is delicate, questioning, and soft spoken, is in sharp contrast to the emblematic Eleonora to which we have been accustomed. This aspect of De Lillo’s interpretation is similar to Striano’s comprehensive ren- dering of the character who in the end, portrays herself as one merely caught up in revolutionary events rather one who has fostered them. A vital key to the interpretation of the film can be found in the sequences in which Eleonora, in her final hours, converses with an imaginary Gaetano Filangieri, embodiment of the Neopolitan Enlightenment who died in 1787, never witnessing the political and social upheavals to follow. His influence is alluded to in a macabre scene in which Queen Carolina publicly slashes his portrait declaring him a traitor for having poisoned the minds of the kingdom’s youth. He is present intermittently in the scenes that interrupt the retrospec- tive unfolding of Fonseca’s story, always bringing the spectator back to the point of departure in which her execution is imminent. Filangi- eri and Eleonora muse aloud over the course events have taken, over their own responsibility in the matter, and over the true desires of the masses. He counsels, as he hears out the thoughts and misgiv- ings of the heroine, confiding his own desperation. In this way De Lillo amply underscores some of the issues at the heart of the revo- lutionary initiative, the nature of happiness and its pursuit, the recon- ciliation between plebian classes and elites and the power of ideas to beguile. Filangieri pronounces phrases that ring with resignation such as «I figli uccidono i padri. Ogni popolo ha i padri che camminano avanti…»7, recognizing the role of the intellectuals as forerunners, destined to be misunderstood. In the words of De Lillo, Il resto di niente is a film that deals with the inadequacy of utopia. «Il film è molto attuale» she states, «la Napoli di oggi è la stessa di un tempo, una città estrema che vive un conflitto eterno. Il resto di niente deve arrivare al popolo napoletano per risvegliare in lui, quell’orgoglio e quel desiderio di riscatto, di libertà e di felicità che da troppi secoli non riesce a raggiungere»8. The cinematic version does not propose to represent official histo-

7 «Sons kill their fathers. Every nation has fathers that show the way». 8 http://personaggi-film.70mm.it/antonietta-de-lillo/interviste/37582.html. «The film is very up-to-date. Naples today is the same as it was, a city of extremes that endures an eternal conflict. Il resto di niente has to reach the Neapolitan people to rekindle in them that pride or desire for liberation and happiness that they haven’t been able to attain for too many centuries». 475 riography though it seeks to emphasize the importance of the revo- lution. It is a review that highlights moments crucial to determining Fonseca’s character and role in the Parthenopean Republic. We obser- ve her entry as a prodigy of sorts into a prestigious literary society and the first contacts with the Court, which is often presented in sati- rical and grotesque fashion. The revolutionary days, as depicted in the film, also adhere closely to Striano’s narrative, bringing to light many of same fictional episodes such as the scene of the Neopolitan bas- si and the smuggling of revolutionary pamphlets, the distribution of censured material in the royal palace, as well as much that is strictly factual: Fonseca’s arrest and interrogation at the hands of magistrate Guidobaldi; the conquest of Sant’Elmo and subsequent formation of the revolutionary government as well as the treacherous role of Lady Hamilton and Lord Nelson in determining the destiny of the captu- red patriots, which the historical Eleonora could have only surmised. The film proceeds inexorably to Fonseca’s final moments with icono- graphic exactitude for those familiar with the chronicle: the denied request for underclothing, the final cup of coffee and lastly, the bitter- ly pronounced phrase…, il resto di niente, – a device of Striano who used the Neapolitan expression of resignation to sum up the apparent futility of the revolutionary party’s actions and the hopelessness of their cause. Departing significantly from the novel to be much more pro- nounced in the film, is a feminist angle evidenced by Eleonora’s empathy and awareness of the female condition, acquired through contacts with common women in prison and the ranks of domestic servitude. This evolution in consciousness is marked clearly in a key scene after her escape from la Vicaria. We find her, dining once again among her aristocratic friends but as she listens distractedly to their idle and stilted chatter her attention becomes riveted upon the fema- le servants who seem to take on the semblance of her former pri- son mates. After a lengthy exchange of gazes in which time seems to decelerate, Eleonora bounds to her feet and defends the lazzari who are in that moment being maligned by her companions. In the film, Eleonora’s relationship with Graziella, the servant, is even more important than in the novel where it remains in the realm of servant/ mistress. De Lillo develops it in various phases that go from mere benevolence, to forgiveness for Graziella’s betrayal, and then from companionship to an almost sisterly affection. In the film Graziella, 476 representative of the lazzari, is one of the major characters and esca- pes it would seem, to life her live as best she can, while Striano’s Gra- ziella disappears in the turmoil of the revolution. De Lillo does much to enhance this facet of the fictitious Fonseca, almost making her an indirect proponent of female solidarity spanning social classes – and though Fonseca can certainly be considered one of the first female activists in modern terms, the concerns of the historical personage could in no way be called “feminist”. With regard to the revolution, De Lillo chooses to reiterate above all, the failure of the elites to speak what Vincenzo Cuoco in one scene calls “la lingua dei bisogni”, the language of the people. The final segments of the film underscore the ineffectuality of the circum- stances that had been brought about in Naples and the incomprehen- sion of Eleonora who asks herself and Filangieri «Where did we go wrong?». As she is escorted to her execution in Piazza del Mercato a simple priest approaches citizen Fonseca and their brief exchange exemplifies this fundamental difficulty. Desirous of helping the illu- strious prisoner who has refused confession, but not knowing how, the priest states: «Con voi è difficile, siete una letterata e io sono un semplice frate». Fonseca replies that nothing can be done, nothing is left – il resto di niente and merely suggests that he say a prayer for her. From behind, we see her proceed along a passageway toward the gallows, silhouetted against the light as if approaching the end of a tunnel. She walks alone, accompanied by background music sung by a solo female voice to a lilting rhythm tinged with melancholy. This scene seems to lighten in some way her terrible destiny and suggests that her efforts might serve as an example and inspiration. Just before mounting the scaffold, the historical Eleonora supposedly remarked: «Servirà a qualcosa ricordarsi questo?». For De Lillo the response is “yes” and she has adeptly provided us with a vehicle to revisit both the lightness and the gravity of that six month revolutionary experiment, which we glimpse episodically through her well-rounded reconstruc- tion of a highly enigmatic and somewhat contradictory figure. With this film the director affirms her belief in the need for positive enga- gement even in the face of social immobility. De Lillo, moreover, has humanized the image of Eleonora Fonseca Pimentel making her not a mere patriotic icon nor a tragic romantic figure but a very plausible modern heroine, that encompasses in her female nature both vulnera- bility and intellectual valor. 477

Essential Bibliography

Albanese, Camillo, Cronache di una rivoluzione, Napoli, Franco Angeli, 1998. Colletta, Pietro. Storia del Reame di Napoli, Milano, S.A.R.A, 1992. Cuoco, Vincenzo, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di) Pasquale Villani, Bari,Laterza, 1980. d’Ayala, Mariano. Eleonora Fonseca Pimentel, in Vite degl’italiani benemeriti della libertà e della patria, uccisi dal carnefice, Roma, F.lli Bocca, 1883. De Nicola, Carlo, Diario napoletano (dic. 1798-dic. 1825), Milano, Giordano, 1963. Gargano, Pietro, Eleonora e le altre. Le donne della rivoluzione napo- letana, Napoli, Magmata, 1998. Imbruglia, Girolamo, ed., Naples in the eighteenth Century: the birth and death of a nation state, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. Macciocchi, Maria Antonietta, Cara Eleonora, Milano, Rizzoli,1993 Rao, Anna Maria, Il regno di Napoli nel Settecento, Napoli, Guida Editori, 1983. —, Napoli e la Rivoluzione, «Prospettive Settanta», No. 3-4, luglio- dicembre, Napoli, Guida Editori, 1985, pp. 403-476. Rinieri, Ilario (Padre), Dall’Arcadia al capestro. Di Eleonora Pimen- tel Fonseca letterata e giacobina, Roma, Tip. Befani, 1900. Sanvitale, Francesca, (scelta e intro.), Le scrittrici dell’Ottocento: da Eleonora de Fonseca Pimentel a Matilde Serao, Cento Libri per Mille Anni, dir. Walter Pedullà, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995. Scafoglio, Domenico, Lazzari e giacobini: cultura popolare e rivolu- zione a Napoli nel 1799, Napoli, L’Ancora, 1999. Urgnani, Elena, La vicenda letteraria e politica di Eleonora de Fon- seca Pimentel, La Città del Sole, Napoli, 1988. Vanucci, Atto, I Martiri della Libertà italiana, dal 1794-1848, Mila- no, Treves,1887. Zaghi, Carlo, L’Italia giacobina, Torino, Libreria UTET, 1989. 478 479

parte quinta

Narrativa 480 481 Sheryl Lynn Postman

Lost in the Dark Woods of the Past: Giose Rimanelli’s La terra dei padri

On the third anniversary of the Allied Forces invasion of Sicily and Salerno, Giose Rimanelli, a young boy of not even twenty years old, concluded an initial draft of his first ever manuscript, unpublished to this day, “La terra dei padri.” This composition predates the author’s first acknowledged published work,Tiro al piccione, by a few years.1 The author began to write this tale as a boy of fourteen, sheltered in a monastery of le Puglie, while studying for a possible future religious life, in the period that precedes the Italian Civil War. Sporadically through the postwar years, until the early 1950s, the writer self edits his work. This withheld book serves, however, as the author himself annotates 62 years later, as:

[…] riferimento storico/psichico, e stimolo durante la stesura dei miei primi due romanzi, Tiro al piccione e Peccato origi- nale (Mondadori, Milano, 1953 e 1954), scritti contempora- neamente a Casacalenda, Molise, mio paese natale, dopo aver rinunziato alla carriera ecclesiastica.2

1 The first unpublished version ofTiro al piccione was dated during the last months of 1945, shortly after the Italian Civil War. In its manuscript form Tiro al piccione was written before La terra dei padri. The publication of that novel was desig- nated to come out in 1950 after the approbation of Cesare Pavese. However, the suicide of Pavese cancels the already in print novel for another three years. Elio Vittorini advises Rimanelli to take Tiro al piccione to Mondadori and the novel comes out in its Medusa degli Italiani in 1953 instead of the Coralli by Einaudi. Giose Rimanelli, Tiro al piccione,Torino, Einaudi, 1991, p.iii. 2 Giose Rimanelli, La terra dei padri, MS, p. 4. All references that come directly from this text and edition will be placed, with their page number, in parentheses, within the body of this essay. 482

Characters, places and themes that appear in this early text will, ultimately, resurface in a more developed and thorough manner in many of the author’s future published works, most notably his second published novel, Peccato originale3, his autobiographical work, Moli- se Molise4, and Moliseide5, a collection of 100 poems written in his native Molisan dialect and in Italian. In this first composition the neo- phyte writer weaves a subtle and intricate tapestry of everyday life, predominantly the period of the Fascist and postwar years of a small Apennine village, Casacalenda, a locus amenus separated, geographi- cally and culturally, from the outside populace by a mountain range that disunites this area from the rest of the peninsula and the world at large. The intertwined pattern that emerges from within the fabric of life of this rural community is of two distinct and independent threads, the aristocracy and the peasantry, each dependent on the other creating a dimorphous universe which counterbalances the harsh and brutal realities of the day: poverty, misery and the urgency of immigration. It is a universe in which the poor are constantly searching for their earthly paradise, a land prohibited to them ab initio, that would allow them to survive without hunger and illness. However, whereas G-d prevented man from reentering Eden, it is the wealthy land owner who forbids their ingress into the sanctified, fertile land that they control. The author to show clearly the duality of this stifled culture, moreo- ver, presents a bigeminal voice narration: the first is the omniscient narrator describing, at length, the horrific provincial existence of the poor and, at the same time, the necessity of these wretched victims of a cloistered society to immigrate and, hopefully, better themselves socially and economically; and the second is that of a character whose family has already emigrated to the North, leaving behind the dread- fulness of this feudal world in which he was, fortunately, able to pro- gress beyond the boundaries of an enclosed, restricted environment. Both narrators have, for the most part, an objective perspective of the social conditions in this devastated region of the South. However, the physical presence of Don Giose within this small rural community allows for a subtle inquiry into the ruinous socioeconomic situation

3 Idem, Peccato originale, Mondadori Editore, Milano, 1954. 4 Idem, Molise Molise,Isernia, Libreria Editrice Marinelli, 1979. 5 Idem, Moliseide: Songs and Ballads in the Molisan Dialect, translated by Luigi Bonaffini, New York, San Francisco, Bern, Frankfurt am Main, Paris London, Peter Lang, 1992. 483 that the omniscient narrator does not have. It is, by definition, there- fore, much more personal. The function of this binary narration is to show the two sides of the same coin: the devastated Southern regions of a forgotten area of the Italian peninsula. Il problema del Sud and the infernal conditions and in which these misfortunate people must exist and the subsequent journey they must endure in order to escape the horrors of their everyday life comes to the foreground. To further illustrate the dichotomous nature of the narrative and, simultaneously, of this region of the South, Rimanelli has placed a dedicatory page at the start that describes his home region of Molise: “Cardo e sorriso.”6 The choice of these two juxtaposed adjectives sets the stage for the adversarial twofold socioeconomic universe (poor and wealthy) in which the reader is about to enter. The underprivile- ged are those who suffer the thorns of poverty due to their inability to escape their past social condition. The rich, in turn, are able to smile at their good fortune in their prosperity and their ability to prevent the wretched to encroach on their “eminent” domain. The basic story is a simple one: a poor family, the Amitrano’s, is preparing to immigrate to America. They are anxiously awaiting the official documents that will let them move to Canada. There they believe they will prosper. One evening, a tragic event occurs to the family: the eldest daughter is brutally and savagely attacked. To avoid any problems with the immigration officials, they do not want to be involved in any legal matters. Simultaneously, there is digression that tells about the return of a refugee from the North, Don Giose. He is now educated, prosperous and socializes with the wealthy in the com- munity. The Amitrano family is immigration at its inception whereas Don Giose is the result of the immigrant experience from the region. The bridge between these two idiosyncratic ambiences, societal wealth/poverty and environmental openness/closeness appears within the text in the character of Don Giose, a refugee who, because of his parent’s migration, was able to break the chains of the past. Structurally the manuscript is divided into three sections that cover a period of three distinct months: October through December. Additio- nally, the events that transpire, within this three-month period, appear to occur within a time frame of three particular days. There are a total of 27 chapters. The first part of the manuscript ends with chapter XV and

6 Idem, La terra dei padri, p. 5. 484 the second ends with XXVII. The third part consists of a sole chapter as an Indice. This unpublished document, still to be realized, however, does not have the mathematical precision of Rimanelli’s later novels. Time is, for the most part, lineal although there are brief moments of flashbacks to earlier periods that occurred in the same area: the recent Civil War and the earlier military endeavor of Italy in Africa. The manuscript, however, is not complete nor is it finished. At the start of the narrative, the author informs the reader that this text «restò chiuso in un mio cassetto» (p. 4) and that it remained in a suitcase from1945 until the present day. It is, as he states, the incipit of his literary career7 and sheds a light on emerging themes and styles that will reappear and blossom in the future works of the author. Pages are obviously missing, particularly at the end of the written document, and characters names have changed from the start of the text to the end. The birth of Rimanelli’s second published novel, Peccato originale, comes more into focus in these final pages of the text: a family prepa- ring for their transatlantic journey to America to escape their miserable existence and, also, the appalling violation of the eldest daughter. There are notable similarities between Peccato originale and this narrative. Both books deal with a family preparing to immigrate to America in search of the American dream. Both families come from Molise. In each there is a brief appearance by Vincenzo Rimanel- li, the author’s father. The parents in each of the books are named Nicola and Ada and have two daughters: the eldest, Michela, and the youngest who never speaks. Michela, in both sagas, is virtually raped and terrorized by three men. At the same time, one of these men is in love with her, although rejected as a suitor by the father, and it is he who protects her from the actual rape by the others. At the end of both tales, the “innocent” man, who protected Michela, is savagely castra- ted by the women of the town as retribution for her attack. But differences also abound in the two tales. Names of several cha- racters are dissimilar. Here in this early work by Rimanelli, the father of Michela’s surname is Amitrano whereas in Peccato originale it is Vietri. The guard in love with Michela is Penelope, but in the later ver- sion it is Ramorra. The baby sister, who doesn’t speak in either text and only moans and whimpers, is originally called Sofia but later the name is changed to Sira. For the most part, these changes are cosmetic. The

7 Ivi, p. 4. 485 most noticeable deviation between the two texts is that in La terra dei padri there are two distinct narrators: the first voice, in the third per- son singular, is the omniscient storyteller, relating the everyday lives of the rural, miserable classes in Casacalenda; and the other, a former child of the working poor of this particular region who escaped the socioeconomic misery by moving North, is the voice, in first person singular, describing and observing the wealthy land barons. Peccato originale deals with the “original sin” of poverty. But here, in La terra dei padri the wickedness of impoverishment is augmented to include the problema del Sud as seen, not only through the eyes of the poor, but as, also, justified by the wealthy, who maintained for centuries the marked division between the classes without letting the poor progress beyond their imposed social and cultural limitations. The specificity of the problema del Sud enters into this text in a conversation that occurs between Don Giose and an attorney of the area discussing the Italian southern present day reality:

[…] Ma teme, voi col vostro mestiere di ficcanaso, che possiate parlare di questi luoghi d di noi, tornando in città, deformando la realtà. Ormai- permettetemi di dirlo -è un vezzo deformare. Deformano I pittori, deformano gli scrittori e, udite, persino I musicisti. Cos’è, infine, la dodecafonia di Scionberg, se non la deformazione? Quel Carlo Levi, se voi lo conoscete, ha sol- levato un vespaio col suo libro. Io sono stato in Lucania a Tricarico, da un mio amico sindaco, e vi garantisco che non è poi tutto oro quello che Carlo Levi fa rilucere. (p. 98)

Carlo Levi’s book, Cristo si è fermato a Eboli came out in 1945, shortly after the conclusion of World War II, and is a personal chroni- cle of his time spent in exile in Lucania (Basilicata) during the 1930s. This region of Italy, historically, was one of the poorest and most backward regions of Italy’s impoverished south. Levi’s portrayal of the daily hardships suffered by the local peasants, comprehensible and nonideological, thrust the problema del Sud into a national dialo- gue after the war. According to Frederic Spotts and Theodor Wieser, 1949 was a pivotal moment in the peninsula in which southern peasants started to occupy, without permission, some of the large estates (latifondi), and the government had no choice but to, finally, deal with the issue 486 of the poor. The spreading discontent of the underprivileged forced the authorities to enact a modest land reform program (in 1950) to purchase large estates and then to sell them in smaller parcels to the peasants. The landowners, however, resisted. Ultimately, because of the landowners’ opposition and subterfuge, at most half the available land was distributed by the government. However, the soil acquired by the administration was of a miserable and inferior quality and pro- ved to be an inadequate means to support a family. The poor, unable to support themselves, abandoned the rural areas and moved to the city; they left the South and headed North8. The presence of Don Giose should not confuse the reader into believing that La terra dei padri is an autobiography. The manuscript does not create, as Philippe Lejeune defines, an autobiographical pact9; there is no unity in the relationship between narrator/protago- nist/and author. All are distinguishable. Furthermore, Rimanelli is not, as Georges Gustorf explains, the historian of his own life10, but the first narrator, the omniscient voice of this tale who acquaints the reader, as a matter of fact, with the peasantry domain of this rural community. There are, however, autobiographical elements of the author diffused within the text. Rimanelli’s father, Vincenzo, makes a brief appearance as a person who has already escaped this confined world and is willing and eager to assist his friends in Casacalenda do the same. Additionally, Vincenzo, married to an American, has three sons, one of whom has not made the journey with the family to Ame- rica because of his career as a writer in Italy11. The name of Vincenzo Rimanelli’s son, Giose, is never spelled out within the text. Gusdorf’s

8 Frederic Spotts, Theodor Wieser, Italy, A Difficult Democracy: A Survey of Ital- ian Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. 232. 9 Philippe Lejeune, On Autobiography, translated by Katherine Leary, Minneapo- lis, University of Minnesota Press, 1989, pp. 5-7. 10 Georges Gusdorf, Conditions and Limits of Autobiography, in Autobiography: Essays Theorethical and Critical, edited by James Olney, Princeton, Princeton University Press, 1980, pp. 31-35. 11 «…quel suo amico Vincenzo che adesso stava bene in America, e scriveva che lo mandava a prender, era cotto una volta di Ada, su moglie. Le diceva che l’avreb- be sposata e lui, Nicola, già pensava di adocchiare un’altra puledra, poi comparve una ragazzina americana che portava il padre a morire nel Molise e Vincenzo Rimanelli le si buttò dietro come un cane affamato, con le sue serenate, riuscendo infine a cuocerla e con lei ave poi ben tre figli maschi, il primo dei quali rimase in Italia come scrittore, svogliato per il momento circa possibili viaggi nelle Ameri- che, che infine vennero… ma dopo» (p. 7). 487 theory that all literature is autobiographical in nature12 substantiates Rimanelli’s own statement, in an essay written for Rivista di Studi Italiani, in which he maintains:

My literature is almost all autobiographical in nature: novels, poetry, literary criticism. I date everything I write; on each completed work I mark down the hour, the day, the month, and the year. And this is because I feel I am alone in the world. My writing in fact, has never been directed at the world; rather, it reflects the reality of my own existence in direct contact with practical facts or ideals offered by my world’s historical contingencies. My discourse, therefore, is more narrative than critical, more personal than objective. I learn by writing13.

The Giose that appears within the text, the second narrator of the ari- stocratic populace of Casacalenda, is not the same as the one who wri- tes the introduction to this manuscript. The names are the same, yet their personal histories are different. The author, in brief words, tells his childhood biography within this small Apennine community and his personal chronicle does not correspond to that of the fictional character. Don Giose makes clear that his father dug up rocks in order to survive daily life and that his mother took in laundry that she washed by hand. This is a marked contrast to Rimanelli’s personal history in which he explains that his father was disabled and that his mother was Canadian. Moreover, the fictional Giose explains that, although he was born in Molise (he never specifies a town), he was taken from the region at a very young age and reared and educated in the North. His visit to this impoverished area is his first encounter with the region since his departure as an infant. Not much else is known about this character other than the fact that he does not want to be addressed with the title of “Don”14 because of his humble roots. Giose, the author of this manuscript, was sent away from this enclave, also at a young age, but not as an infant. Furthermore, he

12 George Gusdorf, Conditions and Limits of Autobiography, p. 46. 13 Giose Rimanelli, Notes on Fascist/Antifascist Politics and Culture From the Point of View of a Misfi(s)t, University of Toronto, «Rivista di Studi Italiani», Anno II, no. 2, Dec. 1984, p. 73. 14 «Non sono un “Don”, non l’ho già detto? Mio padre scavava le pietre per soprav- vivere, e mia madre lavava i panni a casa, con le sue mani! Qui si tratta, per continuare il iscorso, di una favola triste», dissi. (p. 45) 488 was sent to Ascoli Satriano to study for the priesthood in the southern region of le Puglie, a region in close proximity to his native Molise, whereas Don Giose was educated in the North, far removed from his place of origin. The people of this small town, both the weal- thy and the poor, are convinced that this person is a stranger to them (and would always be) because of his northern speech patterns15. The writer, coincidentally, points out in his introduction that he, too, is considered by many in his hometown as a stranger, not for his spoken language skills, but because he left:

Io sono forestiero per questa gente che non si ricorda della fame e del freddo che ho fatto nascendo in mezzo a loro, e mi guarda oggi con occhi curiosi, come a chiedere: «Ma chi sei? Da dove vieni?» (p. 3)

Yet, although no one in the town of Casacalenda knows the Don Gio- se of the manuscript, many in the town still remember the author (his father’s and his own friends) as a child running around barefoot at the age of ten. Rimanelli returned (and still returns) frequently to his place of origin16. There is, moreover, a very tangible link between the author and his home community. The reader may remember that Rimanelli, on more than one occasion, writes about his native town of Casacalenda in several of his novels17 and the region of Molise appears in nearly all of them18.

15 «Sono nato da queste parti, ma partii ragazzo – dissi allora al Barone. – Ho amato sempre il Molise, come una patria non conosciuta». «Ottimi sentimenti, ottimi sentimenti, don Giose – disse il Barone. – Ma restate sempre uno straniero per il Molise. Avete la parlata della gente del Nord», p. 26. 16 Adesso c’è sempre un qualcuno in giro che mi sgarra il nome, chiamandomi “Gesù”, («… quel Gesù venuto dall’America…»), ma tutti, in genere, mi cono- scono col nome che mi appartiene, che è Giose. I vecchi, tuttavia, anche se a volte sgarrano la pronuncia del nome, per sentito dire o aver letto un qualche mio libro, senza in reltà conoscermi o riconoscermi mi regalano sempre una speciale dolcezza: l’illusione che da lì non sia mai partito… (p. 4). 17 Casacalenda is specifically mentioned by name in the author’s novels Tiro al piccione, Familia, Isernia, Iannone,2000, Il viaggio, Isernia, Iannone, Dic. 2003, and in his collection of short stories Il tempo nascosto tra le righe, Isernia, Mari- nelli editore,1986 in which Marco Laudato of Tiro al piccione reappears some 20 years after the war in a new locale: Detroit, Michigan. 18 Sheryl Lynn Postman, Crossing the Acheron: A Study of Nine Novels by Giose Rimanelli, New York, Legas, 2000. 489

Mircea Eliade postulates, that sacred space evidences itself as an energy, and therefore, ultimately as a reality19. Rimanelli expresses, in his autobiography, Molise Molise, that his religion, his only faith, is that of his roots and that they are, as such, his sacrosanct world:

La mia religione sono queste radici. E per questa religione ho potuto viaggiare e anche morire. Ma non sono mai morto per me stesso, non sono mai morto per queste contrade. Il sacro che mi circonda è azzurrissimo anche dentro di me, perché non l’ho mai perduto20.

In the early works of Rimanelli, Molise has always functioned as his reverent space. It is the center of his emotional and literary world. The sanctity of this geographical area, nevertheless, was transmuted when the family immigrated to America. Now with his entire family residing in the United States, the author, who still turns to them for security, realizes that Molise still has a function within his literary and psychic universe. The dichotomous pathway that initiates in this saga with the cre- ation of two separate narrative voices extends simultaneously to the geographic localities within Casacalenda: the malaria-laden area of the poor, a land that produces deadly illnesses for its lack of irriga- tion; and the fertile soil of the wealthy land barons, a zone that repro- duces an Eden like garden from which the poor are prohibited. Rima- nelli creates two separate worlds and shows them separated by their respective development. In one world, the reader is confronted with a medieval universe. In the other, we have the modern era. The people of this town must go to the local spring in order to bring water into their homes. There they must wait in line for hours to retrieve the water. At the same time, the social order is maintained at that local spring by two Carabinieri. The horse and cart are still the only method by which Nicola, and the others, must transport the water from the spring to the house. There are no indoor facilities. As in the Middle Ages, there is no separation in the bedroom between the parents and the children. They all share the same room. Nicola and Ada divide their sleeping quarters with their daughters and their

19 Mircea Eliade, The Sacred and The Profane, San Diego, New York, London, HBJ Book, 1959, p. 12. 20 Op. Cit., p. 13. 490 private space is apportioned by the use of a thin hanging curtain. At the same time, Ada must go to the river to wash the family clothes. The wealthy, on the other hand, have all the luxuries of the modern era: indoor plumbing, automobiles, American cigarettes, phonograph and records of American jazz. Michael Ricciardelli, in discussing Peccato originale, the author’s second published novel, states that the impact of that novel lies in the fact that the characters are trying to break away from the feudal age in which they live21. The same is true in La terra dei padri and is shown to have been successful with the appearance of Don Giose, the adult child of the immigration experience. Moreover, the story of Don Giose functions as a type of frame narrative within this text. His family left the horrors and brutality of the everyday life in the South and immigrated to the North, thereby allowing for the son to prosper. The unfortunate people of Casacalen- da, who desperately want to break away from their socioeconomic ordeal, have no idea what their future holds in their desire to go to America. They believe that whatever they find in the New World, will be better than the reality they have in Italy. They dream of a better life, yet are terrified of the unknown. Don Giose, the son of émigrés, is the result of the immigrant experience and his successful tale may be seen as a foreshadowing of the future that these “still to leave” immigrants will produce. From its induction the reader is bombarded with the desperate economic and health crisis of the misfortunate in this southern region of the country:

La mattina, quando non servivano il Sindaco o le monache per faccende private, tre spazzini passavano con carriole e bidon- cini di creolina come al tempo del Podestà. I bambini dei vico- li avevano pance gonfie e braccini scheletrici per la malaria, ma il mediconzolo baffuto che viveva lì da cinquant’anni dice- va che stavan bene i ragazzi, così grassi nonostante gli occhi malinconici di capre. (p. 9)

Italy through the beginning of the 20th Century was infamous as the most malarial country in all Europe. The dissemination of the dise- ase increased extensively after the unification of the country with

21 Michael Ricciardelli, Development of Giose Rimanelli’s Fiction, «Books Abroad», Autumn 1966, vol. 40, number 4, p. 388. 491 the clearing of hillsides and the deforestation of the land. The excess water formed stagnate pools, natural breeding grounds for malaria bearing mosquitoes. The disease was usually contacted in the pre- dawn and twilight hours of the day22. Malaria was, according to Frank Snowden, the major public health issue in the country until the end of World War II. The disease was so intertwined within the Italian rural society that it was widely regarded as the “Italian national disease”, and the Italian word for the illness entered into the English lexicon. More important, however, malaria is a classic social malady, an occu- pational ailment, and the disease of poverty and social neglect23. The contrary to this dismal malaria-infected world is the land of the Barone. Here the contadino encounters the plush, rich garden of the wealthy, a land that Nicola believes is granted to the Barone as a gift from G-d:

[…] era un pozzo grande, di pietra, con la carrucola che porta- va i due secchi, e tutt’intorno era verdura, solchi di verdi pepe- roncini e ombrelli di canne con grappoli di pomodori, foglia rossigna, quasi gialla di patate nei solchi e poi rose, rose in lar- ghe stagnole intorno al pozzo. Nicola adesso scavava le patate con la mani, freneticamente: colmava i fossetti con terra vi ripiantava la foglia rossastra sopra, come se tutto fosse al suo posto intoccato; strappava peperoncini e melanzane e fagiolini e metteva ogni cosa nel cesto quasi colmo. (p. 14)

Creating the distinction between the two worlds, Rimanelli suggests that the universe of the peasant is the zone in which man was fated after his expulsion from paradise, the land East of Eden. To prevent man from reentering this now prohibited zone, G-d placed the cheru-

22 Jerre Mangione & Ben Morreale, La Storia: Five Centuries of the Italian Ameri- can Experience, New York, Harper Perennial Edition, 1993, p. 76. 23 Frank Snowden, The Conquest of Malaria: Italy, 1900-1962, New Haven, Yale University Press, 2006, pp. 2-3. Professor Snowden further states that the Nazis in an attempt to halt the advance of American and British military troops in Italy unleashed malaria carrying mosquitoes. The plan was designed to hinder the advance of the Allied Forces from the South and, at the same time, to punish the Italians for switching their allegiances to the Allies. The Allied Forces were prepared with quinine, unfortunately, malaria began to surge, once again, in Italy. This was, moreover, the only know attack of biological warfare in history. http:// www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/italy/1510482/Nazis-tried-to- halt-Allies-in-Italy-with-malaria-epidemic-attack.html. 492 bim with the flaming sword as a guard and physical deterrence24. In a similar, yet ironic manner, the Barone, and not the Almighty, places an armed sentinel on his property to prevent the peasants from ente- ring. However, where the cherubim did not allow man to reenter the earthly paradise, Penelope, the Barone’s sentry’s, makes distinctions in who may and may not penetrate this hallowed area25. Moreover, the name of this guard, Penelope, brings to mind the classic Greek tale of Homer’s Odyssey, the archetype of the arduous and long journey. However, in an ironic twist, the author has the cha- racter appear as the opposite of the original. In the prototypal tale, Penelope is the faithful wife of Odysseus, keeping all suitors at bay while waiting for the return of her husband. In Rimanelli’s version, Penelope is a man who decides the future of others based on his per- sonal whim. He has no loyalty to the Barone, who pays him a salary, and no loyalty to the town in which he resides. His actions are totally self serving. The Barone’s garden, a paradise in appearance, is for the poor a sanctified area, blessed, according to Nicola, by G-d. An obstacle now stands between man and his desired dream of reentering this terre- strial heaven, thereby establishing, what Mircea Eliade calls, sacred and profane space. Eliade further adds that man of the archaic socie- ties tends to live as much as possible in the sacred space or in close proximity to consecrated objects26. Nicola, living just outside the domain of the Barone’s garden, an orchard reminiscent of the biblical Eden for all its grandeur, attempts to enter this sacred zone of his town, without being caught, and bring home some food. The land of the peasants, which does not produce anything other than malaria, is profane space; it is without any numi- nous power. The penalty for crossing the threshold of this sanctified area is harsh: prison. Three men of the community have already been

24 Genesis 3: 24. 25 «Non mi consegnerai alla Forza, allora, come hai fatto per Tromma e Lazzaro Pecora?» disse lentamente Nicola, guardandolo. L’altro rise. «No», disse. «Tu non puoi fara la loro fine». «Neanche loro potevano fare la fine che hanno fatto». «No», disse l’altro, Penelope. «Quando c’è simpatia, Cola, si può fingere di non vedere. Io, adesso, non ho visto niente. Puoi riportarti il cesto, io non ho visto niente, d’accordo?» (p. 16). 26 Eliade, pp. 11-12. 493 seized and castigated for their crime. However, time served for the transgressor is only part of the punishment. Their families, the inno- cent bystanders, were left without any means of financial support and food. Hunger becomes a secondary sentence. The region of Molise, like the entire South, has been victimized by the many wars of the nation. Rimanelli, in his introduction, annotates:

La guerra, poi, è passata per queste terre incenerite dalla vec- chiaia ma non ha portato niente di diverso, per gli uomini e le cose. Solo un po’ di angoscia è rimasta nei paesi dopo che i carri armati e i cannoni del generale Montgomery hanno proseguito per le strade del Nord, perché i morti del Molise sono ugual- mente numerosi, sparsi dappertutto in tanti anni di guerra. (p. 3)

Nicola has participated in two different combats: the war in Africa and the recent Civil War. The African campaign, according to Musso- lini, was a war to civilize the Black man27 and the Civil War, any civil war, is always a story of fratricide. Nicola remembers the time in which the mayor of the town sta- ted, during the war in Africa and in Spain, that «La guerra è lo stato naturale del maschio» (p. 36). This political logo of the governmental official, resonating the words of Mussolini who stated that «La guerra sta all’uomo come la maternità alla donna28», corresponds to the the- ory of René Girard’s that physical ferocity can be a hallowed act. He states; «violence is the heart and soul of the sacred»29. According to Girard, murder without sacrifice is the ultimate sacrosanct act becau- se it is the re-embodiment of Cain and Abel’s story. The sanctity lies in that the sacrificial casualty is forgotten and, ultimately, replaced by a surrogate victim30. Therefore if, as Girard points out, brutality was

27 «Tuttavia Mussolini volle quella guerra in un paese che noi del Sud nemmeno sapevamo esistesse», Nicola disse a se stesso, «per civilizzare quei poveri negri tagliatori di teste. E civilizzammo, infatti. E la guerra fu anche una cosa non troppo lunga» Nicola rifletté. Ma fosse mai sceso in Italia, Mussolini, con la sua voglia di civilizzare! Ci sono i pozzi e i poveri bianchi accoltellatori,in Italia, che hanno bisogno di tutta la civiltà portata ai poveri negri tagliatori di testi. (p.119) 28 Discorso di Mussolini al Parlamento, 26 Maggio 1934, S. e D., Vol. IX, p. 98, as stated in http://cronologia.leonardo.it/storia/a1936e.htm 29 René Girard, Violence and the Sacred, translated by Patrick Gregory, Baltimore and London, The John Hopkins University Press, 1989, p. 31. 30 Ivi, p.5. 494 a consecrated act, then war, lo stato naturale del maschio, would be an action that transports man back in illo tempore. Cain’s penalty was not to be obliterated by G-d, but he was forced to work the barren land, East of Eden, that produced nothing, and he too, according to G-d, would reap nothing31. In a parallel manner, these misfortunate people of the South were constantly engaged in war, a hallowed act prodded on by a gover- nment that never supported them, and although they never compre- hended the political realities of such endeavors, it appears that they, like Cain, were condemned. The political machine, their higher power, encouraged them to participate in a war with promises of a better life, an existence that after the war, never materialized. The war in Africa, moreover, caused the government to borrow extensive amounts of money and, at the same time, redirect their industrial production into one of armaments, which led to a poor state of the Italian economy in the years up to 1940. Money, therefore, was not available for the rural, agricultural South and it left them, the southerners, still in a pre-unification state of affairs. Yet the souther- ner could not understand the reason for which the government had sufficient funds to go to war and not build or repair the bridges and aqueducts of their home regions. Moreover, they saw the war, accor- ding to Carlo Levi, as

[…] una delle solite disgrazie inevitabili, come alle imposte o alla tassa delle capre. Non avevano paura di dover partire soldati. – Vivere qui come cani, – dicevano, – o morire come cani laggiú, è la stessa cosa – 32.

The southerner, although not at all interested in the war in Africa, did not see any great difference in dying in Ethiopia than that of dying of malaria on their own land. In a conversation that the Barone has with Don Giose he explains that the reason for which the poor are condemned is that they live in sin constantly:

Si accoppiano per le campagne, Signor mio, nelle fratte e nei pagliai; non battezzano i figli, negano a Dio quello che è di

31 Genesis 4: 12 32 Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino: Einaudi, 1945, p. 124. 495

Dio. Vivono in un costante peccato mortale, e non sanno che è per questa loro povera ma spregiudicata vita che il Signore manda la grandine e la siccità a volte, e altre volte la malaria e le frane. Mi sono spiegato? (p.25)

The Barone believes that the poor deserve their harsh punishment because, as he perceives it, they live outside the established boundari- es of the Church. Characteristically, the Barone is unable to recogni- ze that the wretched are unable to bestow any type of tribute to the Church, due to their economic situation, and therefore, according to him, cannot be saved. He does not recognize that their financial posi- tion is tied directly to his and it’s his harsh treatment of them that does not allow them to progress socially or fiscally. Moreover, he does not pay them sufficiently nor does he believe it necessary. He considers that he suffers more financially than they do because of the unending taxes that he must pay33. At the same time, many of the rural people of the town, because of their lack of formal education, have blended their religious beliefs with ancient superstitions that predate the Christian era. Superstitions are based on fears, erroneous beliefs that contradict the very precepts of the Catholic Church because it denies a lack of trust in divine provi- dence of G-d. The uncertainties of these poor rustic people are simple: poverty, hunger, disease, jail, the unknown. To counterbalance these negative elements, the inhabitants of this bucolic area, put their faith into the unexplained: magic. Many women in Casacalenda on the eve of San Giovanni place the white of the egg outside their window, as a symbol for good luck. However, because the times are dire and people are without food, Ada, sees this practice as useless; suffering from hunger, she would prefer to eat the egg, if she were to have one.

33 […] «E io soffro a vederli partire…» «Voi li amate, barone?» «Le mie terre… » egli disse. «Voi li amate, barone?» «Le mie terre… » egli disse. «Con questa gente che scappa non avrò più braccia che me le lavorano. Dovrò chiamarli dal Nord, gli uomini. E questo non mi piace.» «Se gli date la possbilità di vivere, alcuni resterebbero. Io credo che non sono tipi che cercano avventure… ». «Oh, la possibilità di vivere, certo! Le paghe sono quello che sono; i miei terreni li lavorano da anni, e nessuno mai è morto di fame. Sono io che impoverisco, invece, con tante tasse, sussidi, contributi unificati e via dicendo… ». (p. 41) 496

The Barone justifies his religious righteousness by explaining that once a year, for the past 45 years, he has donated, as a spiritual tax, a pig to the Church. He explains that the priests protect and feed the animal well, for a period of one year. After that time, the Church sells the hog and the community celebrates with a festival. The implication is obvious: the Barone purchases his redemption with the delivery of the pig to the Church. The impoverished country folk, on the other hand, are too poor to follow the religious rites of the Church because they lack the necessa- ry finances. Unable to pay the tribute, they avoid, if possible, the reli- gious rites which cost them money that they do no possess. Poverty, therefore, is the sin of the contadino. This small digression, at the same time, reminds the reader of Rimanelli’s future poem Bèllàte du Puórk, written some 42 years after this manuscript34. Moliseide, the tome to which this poem belongs, is Rimanelli’s homage to his cultural roots. It is, as the author states, «the memory of your roots… »35. In the poem the author explains how the poor raise the piglet, as if it were a member of the family, for an entire year having it live, eat and sleep with them because they will, ultimately, subsist, the following year, on the meat of the pig. There is, simultaneously, within this episode of the annual pig, an implied criticism of the clergy. Don Scocchera, the local priest, is willing to forgive the wealthy for their transgressions, but not the poor. For years this local priest went around the community asking for alms to help in the preservation of the statutes of the local saints. During the good years, and donations were plentiful, the community celebrated with fireworks and music. The monuments had, however, fallen victim to the weather and time, and were now worn with age being stored in the basement of the church. Today, in the post-war period, the poor were unable to contribute to the maintenance of these religious artifacts. Don Scocchera decided that as a punishment for the poor not contributing, he would no longer exhibit the statutes of the Saints in the location and deprive them to the townspeople. There would be no more festivities and the people would no longer see the posters announcing «Tutta la cittadinanza è sfarzosamente illumina-

34 Giose Rimanelli, Moliseide: Songs and Ballads in the Molisan Dialect, translated by Luigi Bonaffini, New York, Peter Lang, 1992, pp. 70-73. 35 Ivi, p. XIX. 497 ta». (p. 24) The lights that shown from within the townspeople for contributing their hard earned money to the Church went dim by the decree of the spiritual leader for their lack of financial donations. Additionally, this same priest did not want to give last rights to a man who died because his wrongdoing was that of being a communist and therefore would not be willing, accordingly, to share his money with the Church. However, when the priest was made aware that the “communist” was not the defunct, but rather his son, he was more than agreeable to comply with his religious obligation. Furthermore, Don Scocchera’s sister, whose husband had died and had since run away with a man to live in sinfulness in northern Italy, left her son to be raised and educated by the priest, her brother, who now denied the existence of his own sister. Don Scocchera’s religious obligations are based, apparently, on the amount of financial remuneration given to him by others, and forgiveness, a prerequisite of the clergy, is not part of his personal credo. Rimanelli’s anti-clerical attitude, perhaps born out of his own per- sonal experience of his five years cloistered in a religious seminary, is subtly reminiscent of his classic Italian literary tradition and the Decameron of Giovanni Boccaccio comes to mind. Moreover, Rima- nelli’s utilization of various digressions within this saga, as a literary technique, is evocative of this renaissance master and is indicative of a narrative style that will reappear in his future works, such as Una posizione sociale, Tragica America, and Familia. Additionally, the use of irony in this writer’s narrative parallels the Florentines’ in its delicate and, yet, poignant approach. If, according to Giuseppe Maz- zotta, the game plan strategy of Boccaccio in the Decameron, is to make luminous the blackness of the plague by contrasting it with the beautiful, abundant gardens of the locus amenus of Florence, a design «which suggests, but not quite a chiasmus36», Rimanelli’s tale, set during the socioeconomic plague of the 20th century (the pre/ post and war years) is in an area that is hardly an earthly paradise. The writer sets off the disparity of this geographic area by creating a marked distinction between the lands of the poor (dry and unable to produce) and those of the rich (fertile and burgeoning). Moreover, the young author sets into bas-relief the absurdity of the local priest searching

36 Giuseppe Mazzotta, The World of Play in Boccaccio’s Decameron, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 16. 498 for money among the desperate poor to restore the religious icons of the village when these same people do not have enough financial resources to even feed themselves. The anti-clerical satirical elements of La terra dei padri, moreo- ver, bring to mind (at least to this reader) the classic picaresque nar- ration of Lazarillo de Tormes37. In that anonymous work the author, employing a sharp and cutting linguistic style, sets up the negative personal and professional characteristics of the various clergy mem- bers of the Catholic Church. In the second treatise of the novel (Cómo Lázaro se asentó con un clérigo, y de las cosas que con él pasó), Lázaro works for a town priest who receives food from his local members. Rather than share the provisions with the young boy, the priest hides it all in a chest under lock and key. The young child, una- ware of the all the supplies in the locked trunk, is starving to death. In a similar manner, the priest of Casacalenda receives food, as spiritual payment from his religious flock, and shares the bounty only with his nephew, while the people of the town are, as Ada states, starving to death38. The priest eats a hearty meal (unlike the poor people of his town) while his parishioners, like Lázaro, are dying of hunger. The impoverished life of the contadini contrasted sharply with the prosperous existence of the well to do landowners reminds the rea- der of the works of Giovanni Verga. Verga’s compositions show the exploitation and the oppression of the peasants by the rich property owners of the region. It was a view of Sicily in the 19th century that actually extended well into the 20th. Moreover, the works of Verga have an incredible impact on the artistic movement that is born out of the economic and moral devastation of the Italian Civil War: Neoreali- sm, a movement in which Rimanelli’s first two novels,Tiro al piccione and Peccato originale, have been categorized39. For Verga, mankind’s

37 La vida de Lazarillo de Tormes y sus fortunas y adversidades, 1554. 38 «Tu, Ada», le gridò Prizia, «la metterai la chiara d’uovo alla finestra?» Secca, asciutta, irritata per il gran ciclare dell’amica, Ada rispose: «Se avessi un uovo lo mangerei. In questa pazza stagione anche le galline hanno il morbo. Io, alle mie, non ho fatto fare le iniezioni». (p. 47) 39 In conversations with the author, Rimanelli has rejected the labeling of Tiro al piccione as being Neorealist. He sees it, as he told Cesare Pavese, as «the story of a young boy who fought on the wrong side of the war». It is his fictionalized, albeit, personal chronicle of the Italian Civil War. However, he acknowledges that Peccato originale, on the other hand, may be considered as belonging to the classification of Neorealism. 499 greatest evil, as shown in his short stories and novels, is poverty, a the- me that reverberates in the work of Rimanelli, specifically in Peccato originale and this unpublished narrative, La terra dei padri. The tale of La terra dei padri is the theme of immigration owed to the grim and primitive conditions of a region of the country that has not advanced nor developed for the unfortunate, uneducated residents and the abuse that they endured from the aristocracy and at the same time, the government that basically abandoned them. The old, no lon- ger hoping for change in their social situation, are awaiting death. In his introduction to this tale, the author states:

[…] Ma i più giovani guardano lontano, fissano gli sguar- di oltre le proprie colline e pensano che in un paese diverso anche la loro fame sarà diversa, avrà magari il colore di stagio- ni che fino ad oggi non hanno potuto conoscere. (p. 3)

Ironically it is the journey out of Casacalenda, a southern town that has suffered centuries of abuse and neglect that proves necessary for the survival of the young. These poor individuals were forced, in many cases, to leave the country for lack of employment, and search for a better life outside. America offered hope, a new beginning, a new life outside of the obligatory restrictions of an unsympathetic society that refused to allow them to escape their social and economic bondage. This subject is not new to the works of Rimanelli, and this is the earliest mention of it in his narrative opus. The astute reader of his work perceives the migratory motif in such works as Peccato origi- nale, Biglietto di terza40, Una posizione sociale41, Tragica America42, Detroit Blues43, Moliseide and Other Poems, and Familia44. America, as symbol, surfaces as a dream of prosperity and ultimately takes a major function in the reality and creativity of this Italian writer. In Peccato originale, there is the dream of America and the future it may hold; in Biglietto di terza, the actual voyage on a ship with the migrants to the New World; Una posizione sociale reinvents the story

40 Giose Rimanelli, Biglietto di terza, Milano. Mondadori Editore, 1958. 41 Idem, Una posizione sociale, Firenze, Vallechi Editore, 1959. A new edition of this book came out with a new title: La stanza grande, Cava dei Tirreni, Aveg- liano Editore, 1996. 42 Idem, Tragica America, Genova, Immordino Editore, 1968. 43 Idem, Detroit Blues Welland, Ontario, Editions Soleil, 1997. 44 Idem, Familia, Isernia, Iannone, 2000. 500 of relocation by reversing the journey of the refugee only to encounter that the Italy of the 1930s is comparable to America of the 1890s; in Tragica America, the author takes an intensified look within the con- sciousness of American life of the 1960s; in Detroit Blues, a peek into the already socially incorporated Italo/American existence with second-generation actualities pervades the novel; in Moliseide and Other Poems he sings of America as well as his homeland, Molise, as a traveler journeying between these two countries; and in Familia includes the social, economic and political realities of two worlds, the Old and the New, separated by an ocean and his own personal history serves as a paradigm of the immigrant experience. The myth of America has been present in Italy’s consciousness for more than a century. It was circulated among the poor and unedu- cated through the returning correspondence of the emigrant. It was, at the same time, viewed in the lighthearted Hollywood films of the 1930s with their promise of a better future. Donald Heiney states that the more uneducated and uninformed the peasant the more the folk- lore of America becomes tantamount to earthly paradise, a second impression of Eden; a legend that was essential for the struggling and oppressed European:

… America to the European mind was a myth from the begin- ning, a myth the Europeans believed in because they needed to believe that somewhere there was a land free from the plagues and famines, the dynasties and social classes, the hypocrisies and cynicisms, of the Old World. If there were no America it would have been necessary to invent one, as the Greeks inven- ted the myth of Atlantis45.

This idea runs parallel with the anthropologist Mircea Eliade’s notion of allegory in primitive societies. According to Eliade, myth relates a sacred history, a primordial event that took place at the beginning of time, ab initio. The parable, therefore, is the history of what took place in illo tempore, the etude of what the gods or semi divine beings did at the inception of time46.

45 Donald Heiney, America in Modern Italian Literature, Rutgers University Press: New Brunswick, N.J., 1964, p. 9. 46 Mircea Eliade, The Sacred and the Profane, San Diego, New York, London, A Harvest/HBJ Book, 1959), p. 95. 501

However, in La terra dei padri the myth of America as earthly paradise is contrasted sharply by the letters that the immigrants recei- ve from those who have already departed. Ironically, in two of the author’s later novels, Peccato originale and Biglietto di terza, Rima- nelli’s father, in correspondence with friends in his hometown, paints a picture of the difficult life that the immigrant must endure in the new World47. Contrarily to his earlier descriptions of the troubles of the migrant, in his narrative Tragica America, a narrative that looks at the sociopolitical problems of the1960s in the United States, Vin- cenzo Rimanelli, now a citizen of Detroit, Michigan, has learned the American lifestyle, explaining to his son the manner in which the immigrant must, ultimately, accept their new existence in America. He states that, in order to understand all the political ramifications of a new country, the immigrant must, by necessity, personify the country and see it as the spouse you know to be a little unbalanced, but unwilling to divorce48.

47 «… dear Italy how much more dear you are now, only I’ve got a bum leg and, Scocchera, you know it’s true, but the boss comes and he says Shake a leg, and I can’t tell him I’ve got a broken thigh bone, otherwise I’m out on my ear and that’s the end of that, and then this week I had spend fifteen dollars to buy glasses for my wife, and she says she’ll be glad when my son Giose is here with us–but only if he decides to be done with books, because they’re no good here, nobody reads here, they’ve all got businisse on the brain. And then, I won’t even tell you about the Italo-Americans. They’re all hopping madmen, and if things keep on the way they’re going we’ll be off our heads too. And now, just thinking it over real goo, America is a big fat bluff, they treat us like pack asses…», Giose Rimanelli, Original Sin, New York, Random House, 1957, p. 92 and; «cara Italia come sei più cara adesso, ma io ho una gamba rotta e tu lo sai, Scoc- chera, ma il boss viene e mi fa: su con quella gamba, e io non posso dirgli che ho una gamba rotta al remore se no mi slacca e addio, e poi questa settimana ho da spendere 15 dollari per comprar gli occhiali a mia moglie che pure lei lavora e no ci vede bene. E poi degli italo-americani no ti voglio parlare, son tutti pazzi sfu- riati e pensano solo a fare businesse, e se la cosa continua diventeremo anch noi nevrastenici, e a pensarci bene l’America è un bluff tondo così, e noi ci trattano da somari», Biglietto di terza, p. 9. 48 «America bella, America cieca» mio padre dice. «Accoglie tutti e a tutti offre qualcosa, ciecamente, quasi senza pensare. E poi si ficca nei guai, sia a casa che nel mondo. Le piace soffrire. Ci gode quasi, quando riesce a soffrirci. E come una sposa un po’ matta, che non si vuole divorziare. Te la devi perciò tenere cosí com’è, mettendole a volte anche le corna, ma per poi tornare a volerle bene. Ci sono batticuori, ma il divertimento è maggiore». Poi si rivolge a me e quasi grida: «Ma… mi sai un po’dire cosa vuole, l’America?» 502

Here in this first outing of the new author, his father enthusiastical- ly helps his friends escape the bonds of the past: he, through suppor- ting authorities, is able to get them the necessary papers for their tran- satlantic journey. The difficulty of the refugee experience, although not mentioned by Vincenzo Rimanelli, is alluded to by the correspon- dence that Nicola receives from his patron in Canada49. Each letter writer, moreover, suggests that America is not the idealized universe of the streets paved with gold or the land of milk and honey but rather one made of the blood, sweat and tears of the migrant worker. Nevertheless, although Nicola’s friend in Canada, Anthony Perno, warns him of the grueling life that he and his wife suffer in the New World, the aspiration of emigrating, departing the hellish experience of his and his family’s existence in Molise, does not dissipate the hope in this imminent traveler. He believes that everything is possible there. It is enough, from his perspective, to leave their horrible life style in Molise, a place without any future prospects, allowing for a potential not available to them in this southern region of the country. Although Canada, according his friend, is difficult and not the earthy paradise he had hoped, Nicola will not and does not allow anything to impede his future odyssey. The voyage, as metaphor for achieving self knowledge is not new to Italian literature nor to Rimanelli’s narrative style. It is a motif that repeats itself in many of his future works and initiates in this, his first ever narrative. The presence of the Florentine, although understated and seen within the sub text of Rimanelli’s antifascist writing50, plays an equally important role in his manuscript La terra dei padri. The dantean references are seen, in many of the author’s novels, within

«Non lo so, padre» rispondo. «Non lo so proprio». Op. cit., pp. 59-60. 49 «Carissimo Cola, tu mi scrivi che vuoi venire in America, e mi parli delle tue figlie che crescono senza pane, e mi spezzi il cuore a ricordarmi gli occhi della piccola Sofia. Io ho capito ogni cosa delle vostre condizione, ma ti dico che qui dove mi trovo io si zappa si zappa si zappa, e c’è un freddo un freddo un freddo un freddo che taglia le budella… e l’America che noi abbiamo sempre sognato sulle cartoline e vista in cinematografo, da soldati, non so neanche se esiste. Certo che se esiste è molto distante da qui, e sarà quella degli Stati Uniti. Ma io mi trovo in Canada e questa è un’altra cosa: si zappa e si zappa e c’è un freddo, un freddo che taglia i coglioni… (ma scusami, ti prego, la necessaria nomina di questo privato plurale…)», (p. 12). 50 Crossing the Acheron: A Study of Nine Novels of Giose Rimanelli. 503 the specificity of the text. Here, Dante is perceived by the varied generated allusions to the caustic life and the unending misery that the wretched poor in the towns of southern Italy sustain. Their escape from these horrors, an existence that has them already living in the avernus of a society that does not care, is the link that the reader will observe, both within the particulars of the text and, at the same time, between the lines. The infernal conditions of this primitive world are, initially, wit- nessed within the specificity of the manuscript and appear in two dis- tinct moments referring to life in Molise. The references, moreover, are aligned with each of the two main characters: Nicola, the hope- ful immigrant; and Don Giose, the émigré who has returned. Nicola, still waiting for the required letters that will allow he and his family to depart, is awakened from a pensive moment, with the sound of a call, a strident voice that; … è qualcosa nel rumore d’inferno della macchina da breccia. (p. 39). At a later time, Don Giose and the town attorney are having a drink in the local bar discussing the brutal attack of Nicola’s daughter, Michela. In describing the penalty for one of the accused, the lawyer states; «Oh, se il diritto non fosse così maledetta- mente arido, forse sarebbe possibile mutare l’inferno carcerario in un purgatorio per i responsabili a metà». (p. 104) At the start of La divina commedia Dante informs the reader that he is «nel mezzo del cammin di nostra vita»51. Accordingly, this would suggest that the poet is approximately 35 years old. The calculations are based on Psalm 89:10 which expounds that the life of man is 70. In a similar manner, Nicola, waiting for some day labor, to acquire a little bit of money, and remembering the recent past, with all the pro- mises Mussolini made in the prewar period, states:

È duro dimenticar ciò che si è fatto in un luogo per metà della tua vita, dimenticare che lì ci sono i tuoi padri sotto poca terra, ci sono i tuoi sogni di quand’eri ancora un ragazzo scalzo, che viveva d’aria e s’inventava le distanze col fiato. (p. 38)

However, whereas Dante was 35, Nicola, in the present time period, is roughly 4052. The difference between their two ages is minimal. The

51 Inferno I: 1. 52 «Ed è duro ricominciare a quarant’anni, in un posto ignoto, che non è mai stato tuo». (p. 38) 504 voyage, although originating later than that of the poet, is about to commence for this provincial man. It is his journey that will, ultima- tely, indicate the monstrous conditions of this poor southern region. The present day passage from Italy’s contemporary infernal socio- economic state to the expected future American paradise clearly brings to mind the Orphic voyage of Dante. His initial step to escape Inferno is by boat, a means by which, correspondingly, these immi- grants must, too, employ. All perspective immigrants in Casacalenda must commence their travels by passing through the doors of the local Immigration officer, Primiano Manolunga.

[…] Primiano aveva una faccia bianca e lustra come un bianco d’uovo, tutta levigata e strana che sembrava la faccia di un altro tipo, e quei suoi occhi minuti sul naso a pollice ricur- vo avevano trasalimenti e bagliori in mezzo al fumo d’oro di quella stanza. (p. 55)

The description of this character brings to mind the boatman, Caronte, who must carry the lost souls of hell from one side of the river Ache- ronte to the other without ever having them depart the infernal regions. He transports them to their necessary and designated first step on their journey. In portraying this Greek mythological personality, Dante sta- tes that he was; «un vecchio, bianco per antico pelo»53. More impor- tantly however, it is Caronte who, in the final analysis, must choose which passengers may or may not enter his boat in order to get to the other side of the river. In a similar manner, the character of Primiano Manolunga decides the fate of the aspiring emigrants. He, alone, will render the decision for those citizens who will need to go, first, to Rome, in order to complete their immigration papers, and then, ulti- mately, be able to continue their future escape to the Americas. Additionally, in order to cross the Acheronte, a passenger must pay the fabled ferryman with a coin, usually an obolus or a danake, placing it in the mouth of a dead person. For the individuals of Casa- calenda to hasten their voyage across the waters, a great deal of whom do not have sufficient funds for the journey, many need to borrow money from Primiano, paying a high interest rate for the loan54.

53 Inferno III: 83-84. 54 «Senti, aspetta…» fece Nicola. «Potresti favorirmela tu quella somma?» «Io ? E che sono ricco, io?» fece Primiano. 505

Nicola, finding out his total travel expenses for four persons on the transatlantic ship, requests to borrow, from Primiano, the necessary $500 United States dollars. Primiano specifies that it must be United States currency and not Canadian, even though Nicola’s destination is Canada. This contemporary Caronte informs the future passenger that he will assist him, at a cost, in his travel expenses if he is able to acquire 50% of the total cost. The parallel between these two distinct literary characters becomes more crystalline in that the residents of this small town, like those of Inferno, must pay an additional fee for them to continue on their journey. At the same time, Primiano, like Caronte, is always threatening the perspective travelers: «Con questo baccano» urlò Primiano, «chi non ha da fare se ne vada dalle palle! E se c’è qualcuno che non gli piace come la penso, nel mio ufficio poi, dovrà avere la faccia di farsi avanti. Posso personalmente sistemarlo…da solo!» (p. 58). And as Caronte, who yells «Guai a voi, anime prave!». Primiano shouts at those who wait in his office to be seen and, ultimately, allowed trans- port to the other side of the waters. Once this initial allegorical correlation is understood, then the remaining pieces of the dantean-like reality, within this text, are easily discernable. Nicola’s passage from the old world to the new initiates the morning in which he awakens, in the dark early hours of the predawn period, and everyone is still asleep. Nicola, out on the street before the sun rises, hopes for news about his family’s pending departure; «guardò in alto, le stelle» (p. 9). Dante, finding himself in the political selva oscura of his life, awakens from slumber and sees the navigational signpost of his imminent journey, a voyage he hopes will take him out of his personal nightmare and back to his precious Florence55. Dante lived in an extremely political world. Italy, during his histo- ric time, basically, had two political factions: the Guelfi and the Ghi- bellini. The Ghibellini believed in the separation of Church and Sta- te while the Guelfi affirmed that there should be no detachment; the Pope, and therefore the Church, according to this party, should have a role in civil matters. In doing so, the Pope would be all powerful.

«Siedi, non fare quella faccia di uomo onesto – disse Nicola, minaccioso. – Tu hai favorito la somma a diversa gente. Gli hai fatto sempre un mutuo ipotecario del sessanta per cento. Roba un po’ sospetta, Primiano…» (pp. 58-59). 55 Inferno I: 16-17. 506

Dante, like other poets of his time, was a Ghibellino and, therefore, did not want the Pope to have that much authority. Italy, of the postwar period, had just emerged from a 30-year period (1922-1943) in which there was only one political party. In 1923, the Acerbo Laws established that the country would have a single party system: the National Fascist Party. Now in the postwar period, there is a multiplicity of parties that range all spectrums of the political landscape. Nicola, in the midst of this sociopolitical incubus in which the poor are still unable to break away from their established social strata and the wealthy control everything, is attempting to move his family out of the shadows of despair that permeates these ancient southern regions of Italy and take them to the glow of a new reality in a modern universe. The politics of the present day postwar years, also, comes to light in a discussion between Don Giose and the town attorney discussing the various professions of each of these wealthy people in a gathering. Everyone was boasting and the attorney explains:

Voi ve lo siete dimenticato. Ma qui tutti sono fascisti, meno i cafoni che ne hanno piene le tasche. È un fascismo di cam- pagna, senza violenze, ma le abitudini sono fasciste, si saluta da fascista e si pensa sempre alle quadrate legioni. Il M.S.I. ci manda le idee nuove, a mezzo bollettini ciclostilati, e noi prepariamo il terreno per la Resurrezione. (p. 66)

The land barons of southern Italy, during this metamorphosis politi- cal period, still clung to their fascist politics, albeit that administra- tion officially no longer existed. The Italian Social Movement (MSI) was formed in 1946 by the supporters of Mussolini. They were the guardians of the failed fascist crusade, firm to the social adaptation characterized by the RSI (Italian Social Republic), thereby creating a neo-fascist party with the hopes of its former doctrines being reborn. The popular endorsements came mostly from the rural oligarchy. For many of the supporters of this political party, the M.S.I., it was a denotation to the Repubblica di Salò, the (puppet) government of the Nazi’s in northern Italy and, at the same time, a means by which these people showed reverence to Mussolini: «Mussolini sei immortale». The story of the Repubblica di Salò and its political harshness and cruelty that threw the country into an 18-month civil war, is the the- 507 me of Rimanelli’s first published novel, Tiro al piccione. The author paints a grim portrait of the life of a young boy who fought on the wrong side of the Italian Civil War56. The saga is the coming of age of a youth, a rite of passage in primitive societies, and his bitter rea- lization of the horrors and futility of war. Umberto Eco has stated that Rimanelli was the first Italian author to ever discuss, openly, the Italian Civil War and that no other writer better depicted this internal, bloody conflict period57. Moreover, the horrors of this bitter ordeal were firmly rooted in his narrative opus and seen in many of his nar- ratives such as Graffiti, Detroit Blues, Familia, and Il Viaggio58. The reference, however, of the Molisan attorney to the fascist life, a rural fascism without violence, suggests the sociopolitical reality of the southern regions of the peninsula that were visible in the prewar years, has now resurfaced in the postwar period. Although the poli- tical extremism of the Italian Civil War was supposedly eradicated with the death of Mussolini and his political party, the extreme righ- tist political philosophy of the prewar period has become an inherent element in the everyday practices of the wealthy landowner in the postwar years. Simultaneously, the poor, who were victimized becau- se of their lack of education, are now unable to make the changes necessary to obliterate the passage that will take them back in time to a period in which freedom was not part of their vocabulary: the feudal society of the fascist era. Nicola does not believe there is a difference between the period of Mussolini and the return to the concepts of the podestà59. The term podestà in the contemporary period brings to mind the corruption of the Fascists. In 1926, by decree of Mussolini’s Senate, the Fascists restored the former designation to be employed for the mayors of cities and, therefore, created a (corrupt) senate elected position. The inspiration, however, of the podestà originated in the Middle Ages and this person was the envoy of the Holy Roman Emperor. He had

56 «la storia di un giovane della mia età che vede la Resistenza dalla parte sbagliata» Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Torino, Einaudi, 1991, back book jacket 57 Umberto Eco, Il ritorno dello spettro, o yeah! Abbozzo di commedia all’ italiana, in «L’Espresso», 26 Maggio 1995, p. 218. 58 Giose Rimanelli, Il viaggio, Isernia, Iannone, Dic. 2003. 59 «Abbiamo portato sempre le toppe sul culo, coi fascisti e con tutti gli altri, e ades- so fa rabbia sentirli parlare in quel modo, a dir bene di Mussolini e dei podestà» (p. 36). 508 total authority in the area in which he was located. Both, the present era and the distant past, have the poor subjugated to the land without the possibility of advancing in society. Don Giose, in his conversation with the attorney the evening of the political discourse, is informed of the now existing political parties in the area. He is told that the predominant affiliation for the landowners is the M.S.I. He rejects the appellation of being an anarchist, called to him for his inquiry, preferring the term individualist. He does not ver- balize an opinion of the ultra conservative politics, but rather listens and observes the people around him. Outside the Salone degli antichi, where the wealthy are partying, the poor are without food, without employment, without water and without hope. Inside the location, the social elite are smoking Ame- rican cigarettes, listening to American music and dancing American jazz. Yet, the inherent politics of the period, in this southern region, is the antithesis of the current American reality. The Americans, of all social strata, prefer democracy, the Molisans of the upper classes, pre- fer fascism. These elite few of Casacalenda are living a pseudo Ame- rican lifestyle while preaching an antiquated political philosophy that has already crashed and burned in the country, and as a consequence, its revival suggests that it is doomed to fail again. The wealthy see America as a land of costly items that they can purchase, at a price, in their own locale. The poor, on the other hand, see America as an escape from their horrific life in which they can never progress. A place they can start anew without a personal history that chains them to the past. Yet, in this southern region of the count- ry, there are people who are, simultaneously, profiting from the those who need to break loose. Primiano Manolunga is neither a member of the upper classes nor of the lower. He is a governmental representati- ve who falls into the middle social category. He claims to be helping the poor yet he makes money out of their desperation. In so doing, he does not need to go to America to get rich, he has already found the American dream of economic security in Italy60. At the same time, this character reminds the reader of Mussoli- ni’s “social revolution” that promised that it would remake the Italian

60 «Tu I soldi te li sei fatti sul sangue della povera gente. Tu dici, da dietro al banco: Andate in America, miei gran fessi. Io, da parte mia, l’America l’ho trovata qui» (p. 61). 509 people. The persons who most gained an advantage from the fascist social policies were members of the middle and lower middle clas- ses. These people filled positions in the expanding government wor- kforce taking on low level administrative posts that allowed them to oversee the political landscape in their areas of the day. It did not, however, have an impact on the peasantry, who only seemed to suffer more under the Fascist authority. Although these programs were more successful in northern and central Italy, and in the urban areas, their accomplishments in the south, in the rural peasant zones, were limi- ted61. Primiano, a low-level administrator, is reaping rewards from his position, an arrangement that allowed him to benefit during the fascist period and now, again, in the post fascist era. The cyclical viconian nature of history has brought the primitive times of the feudal period back to the present day reality in Casaca- lenda. Moreover, the original concept of the podestà reminds the rea- der of the German House of Hohenstaufen which, in Italy, became the political reality of the Ghibellini and the connection to Dante beco- mes, therefore, more palpable within the sub text of this narrative. In order for Dante to initiate his escape from Inferno, he must, by necessity, cross the Acheronte, the first river in Hell. Virgil, his master and author62, is his guide on his journey and it is he who will direct the poet along the necessary path to enlightenment. In Rimanelli’s story, the dichotomous nature of the manuscript further extends to the Virgilian-like characters that will assist the characters, Don Giose and Nicola, through the hellish conditions of this small southern town. However, they will have two different purposes. Don Giose will voyage down a path in which he will, ultimately, testify to the sociopolitical and economic reality that exists in Casaca- lenda. His is a personal expedition that allows him to view the pover- ty and despair that his family left behind, and, at the same time, to examine, closely, a socioeconomic situation that hasn’t changed in centuries. His unsuspecting guides on this voyage, the Barone and the town attorney, both of whom are referred to as his guide63, do not attempt to enlighten the young traveler as to the social authenticity of

61 Patricia Knight, Mussolini and Fascism, London, Routledge, 2003, pp. 72-75. 62 Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore. (Inferno I: 85-87) 63 Op. Cit., p. 27 and p. 64. 510 the poor, but rather justify the distinction that exists between the two disparate classes. More important, however, is that Don Giose will, through his obser- vations, become the implied Virgil for the reader. It is his return to this impoverished area that allows us to plunge into the dark underbelly of the social condition that trapped the poor in a dantean infernal actuality that never allowed them to escape by illuminating a pathway out. Nicola, although destined to travel to Canada with his family, will only plunge deeper into the avernus of a miserable life, unfortunately (the reader perceives this because the narration is not complete), from which he will never escape. His pseudo guide to life in America is his patron Anthony Perno. However, Perno informs the future traveler that life is not easy in Canada: the land is unproductive and the weather is always cold. The image of America that, according to his friend, they have seen in postcards and in the cinema does not exist for the immi- grant64. He does not dissuade the future journey of Nicola; nor does he indicate the necessary passageway to success in that Promised Land. The American dream of affluence is not an immediate certainty for the immigrant. It is a progression that takes years, and the inheritors of the journey are not the immediate travelers, the immigrants them- selves, but the future generations born out of the hardships faced by these pilgrims in their new environment. The Barone, in a discussion with the attorney, acknowledges that America is not the end of their journey, as the immigrant believes, but rather their start:

[…] «L’America, come vi ho detto, è diventata il rifugio di tutti i nostri poveracci: dei falliti, dei rifiuti, di quelli che qui non riposano! Ma potessero, in America, – ed io non lo credo –, trovare almeno il loro nuovo punto di partenza!» (p. 160)

The Barone is cognizant of the difficulties that these poor people will face in a new world. He recognizes that their departure will not produce, immediately, the end results that they expect. It is, as he

64 «[…] e l’America che noi abbiamo sempre sognato sulle cartoline e vista in cine- matografo, da soldati, non so neanche se esiste. Certo che se esiste è molto distante da qui, e sarà quella degli Stati Uniti. Ma io mi trovo in Canada e questa è un’altra cosa: si zappa e si zappa e c’è un freddo, un freddo che taglia i coglioni… (ma scusami, ti prego, la necessaria nomina di questo nostro privato plurale… )» (p. 12) 511 mentions, a starting point. There is a great deal of work yet to be done in order for them to pass through their desert of hope in order to reach the Promised Land. The ones, however, who will profit from their journey beyond the boundaries that they know, will be the future generations. The Barone, moreover, doesn’t offer these fleeing peo- ple any possibilities or reasons for them to remain. There is no finan- cial incentive to have them stay put. He just watches as they depart, knowing that the life they find on the other side of the mountain, the unknown, arcane experience will be more demanding than the one they are leaving behind. In his book Biglietto di terza, Rimanelli, in describing the journey that the migrant endures, writes:

Siate felici, stranieri. Siamo in terra canadese. Sí signora. Siamo nella terra promessa. Abbiamo attraversato il Mar Rosso e ci aspettano, ora, grappoli d’uva dolce grandi come grattacieli65.

Like the Jews fleeing their enslavement from Egypt traversing the Red Sea, the refugee must survive the hardships of a new land. Cros- sing the waters, although freed from the bondage of Egypt and pro- mised the land of the Canaanites, proved to be even more demanding for the fleeing Jews: they were not granted immediate entry into the Promised Land. Punished for forsaking their faith in G-d, they were forbidden to enter the land of Canaan. It proved to be the start of yet another strenuous odyssey for them, a voyage that would last for generations and only their descendants would be sanctioned to enter the pledged paradise66. In a parallel manner, the reality of the future generations inheriting a better life in their “promised land” is evidenced in the figure of Don Giose, child of immigrants to the North, who returns to visit Molise and is accepted by the landowner aristocrats. He does not interact with the poor, he only questions their actions. The theme of second generation Italian migrants, those who have reaped the rewards of their parents hard life in a new environment, is seen in many of the author’s recent novels, such as Detroit Blues, Familia and Il viaggio. In each case, the child of the refugee knows little of his parents’ horri-

65 Biglietto di terza, p. 28. 66 Exodus 34: 6-8. 512 fic experiences in Italy. However, due to a personal crisis in their own current universe, this second generation Italian American decides to explore his familiar legacy in order to better grasp the current social reality with which he is confronted. Nicola does not have a “true” guide on his journey to America because it is a specific voyage that he will never take. The image of his dead father, a man known in the community with the nickname of il Profeta, will prepare him for another journey that will have him never, physically, leaving Casacalenda. The father got his nickname from his ability to interpret dreams. He is described as a man with a white flowing beard like Elijah, ascending to heaven in the flaming chariot, and this will suggest the future path that Nicola will next take. It is a travel that Nicola visualizes through his dreams:

[…] «a uno che sogna di essere sulla nave, in viaggio per l’America», brontolò Nicola Amitrano, riflettendo, «significa che resterai a terra. Farai tanti altri viaggi, meno quello che più desideri». (p. 11)

However, Nicola’s father, more than a Virgil for the future passage of Nicola, is a messenger of things to come, the prophet. He, ultimately, will indicate the unanticipated journey on which his son will embark: death. The demise of Nicola is not spelled out in the manuscript. The text, as stated earlier, is not a completed work. There is no ending to this narration and elements from another tale by the author appear to be spliced within this manuscript. Toward the end of this written material, pages from another narrative, Peccato originale, appear within the boundaries of this story. However, the similarities alrea- dy explained between this composition and the later published novel would, strongly, suggest the death of this character. The dantean connection is further suggested by the appearance of the number three, appreciable to the medieval world, the Poet’s opus and suggestive of the impact on Rimanelli’s writing. The numeral three is of great magnitude and consequence. Christopher Ryan, in his essay The Theology of Dante, states the solemnity of the number:

For Dante, the striving of the human being both to come to individual perfection in knowledge and love, and to reach the 513

perfection in and through a community, has its source in the already perfect life of the Trinity67.

Erich Auerbach, additionally, maintains that the structure of the clas- sic poem consists of three systems fused together that are conceived as corresponding to divine order. There is, according to Auerbach, a physical, ethical and historic-political scheme; each has to deal with the synthesis of different traditions68. La terra dei padri is, in a simi- lar vein, divided into three parts, each dealing with three distinct days and each representing a different stage of fortune for Nicola and his family. In the first part, innocence shines, for Michela and the Ame- rican dream of Nicola; in the second, the soiled purity of the eldest daughter; and in the third, the revenge of the towns’ women against the “innocent” attacker of Michela. There are three women in the Amitrano family: Ada, Michela and Sofia. The three females seem to be analogous to the three obstacles that Dante faces at the start of his journey through Inferno: la lonza, il leone, la lupa69. Each of the Ami- trano women can, in someway, deter Nicola’s ultimate crossing into financial paradise. Ada, although she agrees to go to America because of her husband’s desire, does not want to leave, preferring to remain in her native Molise; Michela, a victim of a brutal attack, produces an atypical response in Nicola, who refuses to react vengefully against the perpetrators, by either pressing charges, seeking financial retribu- tion, or attending the court case, for fear of being denied passage to America; and Sofia, a mute, whose disability could cause complica- tions for entry into the new promised land70. Simultaneously, the three Amitrano females bring to mind the three parcae of Latin Mythology: Clotho, Lachesis, and Atropos. Ada, like Clotho, spun the thread of life. She was the mother of Michela and Sofia and of two other children who died at birth. Michela, like

67 Christopher Ryan, The Theology of Dante, in The Cambridge Companion to Dante, edited by Rachel Jacoff, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 151, 68 Erich Auerbach, Dante: Poet of the Secular World, translated by Ralph Man- heim, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1988, p. 101. 69 Inferno I: 30-60. 70 Immigration laws stipulated that handicapped or challenged persons were not allowed to enter the country. It was feared that these people would ultimately cause a burden to the State and that the State would be forced to financially sup- port them. The Story of Ellis Island, The Arts and Entertainment Network, 1997. 514

Lachesis, assigned to each man his destiny in life. Michela, in love with the nephew of the town priest, once victimized by the three men, no longer wanted to be with him, relegating the young man to spend time with his mother who had already rejected him. Penelope, the man who saved her from the brutal rape, although escaping capture by the local authorities, ended up back in town with the hopes of seeing, once more, Michela, the woman he loved. His fate was to be seen and then surrounded by the women of the village, punished for the crime he did not commit, and, ultimately, castrated like an animal, as the three Amitrano women left for America. Sofia, is Atropos, the cutter of the thread of life. Her mental disability could keep the entire family out of the New World, in such a way killing the desired dream of her father to take the entire family to America. At the same time, there are three distinct types of immigrants within the pages of the narration: the soon to be immigrant; the alre- ady émigré; and the seasonal migrant worker. Nicola and his family are the hopeful refugees. Don Giose is the successful product of his parents leaving the area. Giuseppe Vacco, an elderly man in Casaca- lenda, is a third type of migrant. He is a seasonal traveler who went back and forth between Italy and the United States in order to make money to support the family. By going seasonally between the two countries, he has one foot in the Old World and another in the New, thereby not belonging totally to either culture. He left his wife and children every year, for a period of several months, in order to earn the necessary money to keep the family alive. His story is not dissimi- lar from others. Family ties in Italy did not permit him to permanently move to America, yet he was able to take care of his relatives by lea- ving them behind and going to the “promised land” in America. The purpose was simple: to financially support his household in Europe, something he was unable to achieve while in his hometown. Ironical- ly, his heaven on earth, where this migrant was able to make a living to support his family in Casacalenda, was Minnesota, a frigid and barren land that brings to mind the description of the icy cold city of Dis (Dite), in Inferno71. Relying on his classic literary tradition, Giose Rimanelli, in his unpublished manuscript La terra dei padri, shows the modern day social fiscal reality that engulfed the mezzogiorno regions of Italy,

71 Inferno XXXIV: 20. 515 during the Fascist and postwar years, forcing thousands of the poor to take an obligatory journey into the unknown. The text is more than a social history. It transcends il problema del sud by focusing its atten- tion on a specific actuality: the abject poor and their inevitability to immigrate in order to better themselves. A corrupt political system generated the Orphic journey of Dante through the selva oscura of his day, and in a similar manner, Rimanelli’s text shows a societal classification that did not allow for the poor and abused to alter their predestined paths. Their only escape for these wretched souls was to leave, abandon their homes, their families, and journey beyond the limits of their physical geography. The author, in an attempt to show the horrific personal catastrophes of the underprivileged masses, jux- taposes two distinct storylines: the pending immigration of a misfor- tunate family and the successful migration of another. At the same time, La terra dei padri is a unique opportunity for the literary critic. This is the author’s first ever written document, predating his notable first novel Tiro al piccione by several years. Themes that will occupy the author in his later compositions (abuse of political, social, religious power, and the subject of immigration) are set as a cornerstone to his future literary opus. Structure and style are in the initial stages and will be polished as he continues his litera- ry career. Language will become more precise. This narrative illustra- tes the embryonic creative process of a young writer still to be born, taking seed. The critic, like the reader of La terra dei padri, is taken on the maiden voyage of an author about to embark on a campaign that initiated more than 60 years ago… a journey that is still going strong today. 516 517

Daniela Priviteri

Dal silenzio imposto al riscatto della parola: percorsi di sicilianità da Verga a Camilleri

È nota a tutti la visione stereotipata di una Sicilia mafiosa e silenzio- sa, una terra in cui, il solo fatto, di appartenervi e di abitarvi, sembra, quasi essere una colpa per via di cliché stigmatizzati che etichettano i Siciliani come uomini d’intrallazzo e di silenzio. E tuttavia, l’arma “disarmante” con cui il popolo siciliano ha rivelato la sua significativa presenza è stata da sempre la parola come antitesi al silenzio ingom- brante, ferito e vilipeso dalla cultura del pressappoco e dall’idea che tutto in Sicilia è mafia. Si deve, infatti, ai “siciliani d’alto mare”1, la diffusione di quel segno d’identità che è la sicilianità, la quale, al di là dei luoghi comuni, si identifica con una condizione dell’anima connaturata alla vita stessa del siciliano. Essa è logos, affabulazione, ma sopratutto un indissolubile amalgama di silenzio e parola. Oggi, fugato ormai ogni dubbio sulla discutibile e superata tesi della “Sicilia seque- strata” di cui parlava Gentile (Il tramonto della cultura siciliana, 1919), immaginando un’isola scarsa di contenuti e fortemente anco- rata a una “cultura dal carattere regionalistico”; occorre interpreta- re il canone letterario siciliano (da Verga a Consolo, da Camilleri e Maraini) come lancinante testimonianza della crisi anticipata di un moderno non compiuto descritta attraverso una storia di silenzi e parole. Ma ripensare la storia della Sicilia attraverso un percor- so vissuto a metà tra silenzio e parola, equivale ad una discesa nel cuore dell’isola da cui risalire per liberarla dallo stereotipo di terra omertosa con cui essa è passata alla storia. Raccontare l’antimafia attraverso le parole dei siciliani significa indagare nel vissuto a metà tra silenzio e parola; penetrare nel territorio dove la letteratura pre-

1 La definizione è di Vittorio Nisticò, giornalista de «L’Ora» che individuava nei Siciliani la duplice natura di siciliani “di scoglio e siciliani di mare aperto”. 518 figura la realtà e dove i personaggi di carta incidono oltre la linea dell’inchiostro. Ma quale valenza ha il silenzio in Sicilia? A sentire Sciascia, il silenzio è una dimensione gnoseologica ed esistenziale che gli consente di conoscere, nel “sistema di isole nell’isola” la sua isola-paese: Racalmuto

A Racalmuto […] sono nato sessantaquattro anni addietro; […] E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, […] nelle sue violenze e nelle sue rassegnazio- ni, nei suoi silenzi, […] mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi. Che non sono quelli della prudenza e dell’omertà. O più esattamente: che non sono solo quelli2.

Il silenzio – aggiunge lo scrittore –

è un elemento distintivo del carattere siciliano. Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero ser- vano a fortificare il raro parlare, quando si parla, si sa essere precisi, arguti, affilati3.

La misura del silenzio, suggerisce Sciascia, non esclude però, il peso della parola, soprattutto quando la forza del logos emerge dalle pagine della letteratura. Se, infatti, esiste una Sicilia silenziosa, attanagliata dal sopruso, dalla faida dei morti bocconi sull’asfalto e dall’imbarazzo dell’ignavia, c’è anche il logos della protesta, la parola che non predica ma mostra cioè, la parola della letteratura. Si ricordi, ad esempio, che il silenzio eloquente, molto più di mille icastiche descrizioni, riecheg- gia, nell’Opera di Pirandello ove l’immagine del grottesco investe il mondo delle parole non dette: nella novella Mal di Luna, la piazza assolata e silenziosa dietro la quale si cela l’occhiu de genti (l’opinione pubblica) “urla” di fronte alla confessione del licantropo, e, analoga- mente, di silenzi assordanti si muore o si patisce come accade ai tanti personaggi verghiani chinati come giunchi dalla miseria e dai soprusi. Un silenzio eloquente è invece quello che regna nella piazza, tea- tro dell’omicidio di Salvatore Colasberna, nell’incipit de Il Giorno della civetta4:

2 Cfr., Leonardo Sciascia, Notizia, in Occhio di capra, Adelphi, Milano, 1990, p.12. 3 Ivi, p.14. 4 Cfr., Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Fabbri, Bergamo, 1995, p.9. 519

L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle.

Tuttavia, a proposito dei rapporti tra letteratura e mafia, gli scrittori siciliani vennero accusati, da certa critica5 e dal giornalismo d’as- salto, di silenzi colpevoli e mutismo connivente. Sul finire del XIX secolo, l’etnologo G. Pitrè, fu accusato di aver creato una mitologia linguistica sulla mafia per ciò che egli scrive inUsi e costumi, creden- ze e pregiudizi del popolo siciliano6 ove si legge che

La voce mafia valse e vale sempre bellezza, grandiosità, per- fezione eccellenza nel suo genere […]. All’idea di bellezza la mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior specificato della parola.

Secondo Pitrè, disgraziatamente dopo il 1860, il termine cominciò ad avere un’accezione negativa con Giuseppe Rizzotto autore della com- media I mafiusi de la Vicaria, ove, si cominciò a considerare “mafia” la delinquenza e l’arroganza comuni alla camorra (termine che Pitrè adotta per indicare il brigantaggio e la delinquenza)7. Pitrè non fu il solo a coltivare un’idea romantica del mafioso: anche Luigi Capuana, contemporaneo di Pitrè, non si discosta da que- sta posizione confermando che il termine “mafia” aveva in origine il significato positivo di “baldanza, orgoglio, grandiosità e bellezza”. Tra tanto parlare e scrivere di mafia, «non deve stupire che Pitrè abbia fornito quelle spiegazioni sul significato etimologico del termi-

5 Il pensiero va alle accuse infamanti di Sebastiano Vassalli e che rispettivamente sul «Corriere della sera» (luglio 1993) e (del 31 maggio 2005, p.35) – intervista di Paolo di Stefano a Luigi Malerba – tacciarono come omertosi gli scrittori siciliani. io 6 Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Paler- mo, 1889, pp.287-337. 7 Si veda ciò che lo storico D. Mack Smith scrive a proposito della commedia: «Nel 1863 una commedia in dialetto che descriveva la vita nella prigione princi- pale di Palermo ottenne un enorme successo: si chiamava I mafiusi della Vicaria, e questo titolo rese popolare una parola del gergo della malavita di un suburbio di Palermo. La mafia esisteva da molto tempo […] ma dopo il 1860 prosperò come non mai prima». Cfr., Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari, Laterza, 2009, (9° ed), p.604. 520 ne ed espresso opinioni che tante polemiche continuano a suscitare ai giorni nostri. L’etnologo indicò nelle rappresentazioni della commedia di G. Rizzotto la prima degenerazione popolare, del significato origi- nale della parola, concludendo con un certo cruccio che la voce fino a ieri era, espressione di una cosa buona ed innocente, ora è obbligata a rappresentare cose cattive. Il che, è tuttavia ben diverso dall’afferma- re che la mafia, nell’accezione moderna del termine, sia un fenomeno positivo, da agevolare o quanto meno da non contrastare»8. Ciò che si stentò a comprendere fu probabilmente il fatto che Pitrè, da etnologo, mantenne un animo essenzialmente poetico e rimase ancorato «ai suoi ricordi di età fanciullesca e riluttò ad allontanar- sene, rinnegarli, donde gli venne l’accusa d’ingenuità»9; così come Capuana preferì ottusamente mitizzare nell’idea di perfezione la sua terra, come dimostra il titolo di un suo libro dedicato appunto alla celebrazione oltranzista della Sicilia definitaL’isola del sole (1914). E tuttavia, non di ottusità ma di «sincera tristezza e indignazione»10 parla Sciascia a proposito del saggio di L. Capuana La Sicilia e il bri- gantaggio (Roma, 1892) che costituì l’avvio polemico dello scrittore contro l’inchiesta di Franchetti e Sonnino che avevano dato un’imma- gine non certo decorosa della Sicilia. Lo scrittore di Mineo, non senza ingenuità, si chiede il perché di tante gratuite offese alla Sicilia soste- nendo che il malessere sociale, le trasgressioni della legge e i delitti ci sono in tutte le regioni italiane e pertanto la «mafia non esiste almeno nel senso in cui hanno voluto interpretarla Franchetti e Sonnino». Ma, bastano le ingenuità di due esponenti della cultura siciliana di fine ottocento a tacciare di omertà la vasta congerie di scritti della letteratura dell’isola? Sul fronte dell’accusa che, non arriva a essere etichettata come “omertà” ma come “decriminalizzazione del mafioso”11 operata dalla letteratura siciliana, va annoverata la definizione del “mafioso aureo- lato” creata da P. Mazzamuto, secondo il quale, in tutta la letteratura siciliana, da Pitrè a Sciascia, si diffuse lo stereotipo romantico del

8 Giovanni Tessitore, Il nome e la mafia. Quando la mafia non si chiamava mafia, Milano, F.Angeli, 1997, p.280 9 Per questo argomento cfr., Gaetano Falzone, Storia della mafia, Palermo, Flacco- vio, 1987. 10 Cfr. Leonardo Sciascia, Letteratura e mafia, in Cruciverba, Opere, a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani, 1989. 11 Cfr., Pietro Mazzamuto, La mafia nella letteratura, Palermo, Andò, 1970 521 mafioso: una sorta di Robin Hood siciliano che troverà veicolo di diffusione attraverso tanta letteratura d’appendice, notoriamente con- sumata da comuni e poco smaliziati lettori. Il mafioso aureolato, diverso dal delinquente comune, opera con- tro chi detiene il potere per difendere gli abitanti locali. Rientrereb- bero in questa categoria molti personaggi letterari descritti dai più illustri scrittori siciliani: da L. Pirandello, che ne La lega, racconta la storia di un mafioso che fa pagare ai proprietari terrieri una tassa con la quale integra la miserabile paga dei contadini fino a Sciascia, con il personaggio di Don Mariano (Il Giorno della Civetta) che, nel- la celeberrima graduatoria di «uomini, e mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà» viene riconosciuto dal capitano Bellodi come un vero “Uomo”. Ma la vera crociata contro i Siciliani parte, però, dal Nord e si scatena dalle colonne del “Corriere della Sera” per opera dello scrit- tore Sebastiano Vassalli, che in occasione dell’uscita del suo libro, Il Cigno 12 nel quale si ricostruiscono le vicende del primo omicidio di Mafia (il delitto Notarbartolo), esordì con le seguenti parole:

[…] I Siciliani sono gli unici scrittori che avrebbero potuto impugnare il bisturi, ma la loro cultura gli ha sempre impedito di parlare in modo concreto”.L’omerta’ è un vizio della lettera- tura siciliana («Corriere della sera», 6 luglio 1993).

Secondo Vassalli, tutti gli scrittori di Sicilia sono omertosi: da Verga, che mai proferì parola contro la mafia, a Pirandello che ne I Vecchi e i giovani descrive Mauro Mortara come un personaggio positivo, fino a Sciascia, che appare a Vassalli addirittura colpevole direti- cenza (perché non chiama le cose con il loro nome: Regalpetra e non Racalmuto) e per di più, imputato della colpa di avere orientato, la cultura italiana verso una valutazione errata del fenomeno mafioso. Lo scrittore aggiunge, a poca distanza di tempo, che «i mafiosi rac- contati da Sciascia sono avvolgenti, sono un po’ Toto’ Riina, un po’ Sciascia stesso. Per questo mi sembra indiscutibile la sua compromis- sione letteraria»13. Naturalmente, contro l’accusa infamante della Sicilia dei silen- zi si alzò alta la protesta degli intellettuali siciliani e non mancaro-

12 Sebastiano Vassalli, Il Cigno, Einaudi, Torino, 1996. 13 «Il Corriere della Sera», 19 dicembre, 1993 522 no le repliche a mezzo stampa di M. Onofri, («Corriere della Sera», 19 novembre 1996) e di L. Baldacci («Corriere della Sera», 16 luglio 1993) a testimonianza dell’infondatezza di quella teoria. E, infatti, dall’isola plurale, mista di luce e di lutto, ove la verità della pena si coniuga con gli splendori della retorica, la parola letteraria trae la forza della sua accusa divenendo, prova, documento umano, atto di protesta. Non è pertanto un atto di presunzione affermare che nessuno degli scrittori preferì mai tacere a cominciare da G. Verga che nella novel- la La chiave d’oro14 ritrae senza finzione l’ambiente della campagna siciliana alla fine del Regno delle due Sicilia raccontando come il camparo Surfareddu, («un uomo – precisa Verga – che aveva fatto più di un omicidio»), guardiano malavitoso di un canonico corrotto e senza scrupoli, uccide a schioppettate un ladruncolo. Grazie ai poten- ti agganci del Canonico con i giudici, il processo fila liscio per la sua strada, con Surfareddu che torna a fare il camparo dopo l’indulto di Garibaldi e con il Canonico, odioso corruttore, che, ripensando al Giudice connivente al quale aveva regalato “su richiesta” una chiave d’oro, esclama: «Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena»15. È sempre il Verga nel Mastro Don Gesualdo a non tacere sulla discussa “onorabilità” del canonico Lupi e del barone Zacco perfetti mafiosi legati al meccanismo economico della mafia dei campi. Su mafia e potere non taceva neanche lo scrittore verista Federico De Roberto che ne I Vicerè tratteggia l’immagine di una Sicilia feudale piemontizzata che si accinge alla conquista di Roma. Nel romanzo c’è il fallimento del Risorgimento in Sicilia (peraltro trattato dallo stesso Verga nella novella Libertà) e la prefigurazione di tutto il sistema di “Tangentopoli”16 (dagli appalti pubblici al voto di scambio), sancita

14 Pubblicata definitivamente nel 1884, nella raccolta Drammi Intimi, edita dal Sommaruga, la novella affronta l’arduo tema della giustizia corruttibile nella Sicilia postunitaria. 15 Giovanni Verga, La chiave d’oro, in Opere di G. Verga, a cura di Gino Tellini, Milano, Mursia, 1988. 16 La definizione lessicografica del lemma nel Sabatini Coletti è la seguente: «Scan- dalo delle tangenti nella pubblica amministrazione, in principio con riferimento alla sola città di Milano». Il termine, nel linguaggio corrente, indica un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito aipartiti ai livelli più alti del mondo politico e finanziario italiano dove furono coinvolti ministri, depu- tati, senatori, imprenditori, perfino ex presidenti del Consiglio. L’inchiesta condotta dal PM Antonio Di Pietro iniziò nel febbraio del 1992. 523 dall’unione tra l’affarismo siciliano e quello romano. Anche ne I vec- chi e I Giovani17, Pirandello rompe il silenzio e prova l’azzardo della parola descrivendo l’ambiente politico di Girgenti dove «nessuno ave- va fiducia nelle istituzioni, né mai l’aveva avuta. La corruzione era sopportata, come un male cronico, irrimediabile». Lo scrittore allude alla mafia fin dalle prime pagine, quando torna a casa Roberto Auriti, candidato dal partito di Crispi, e a Capolino, che dubita ancora che il motivo di quella venuta sia elettorale, il Pre’ ola risponde: «Ma che dice, avvocato?… Se sono andati a prenderlo alla stazione quattro mascalzoni, studentelli dell’ Istituto tecnico? Se sono arrivate in paese la mafia e la massoneria, capitanate da Guido Veronica e da Giambat- tista Mattina? Non c'è dubbio, le dico! E venuto per le elezioni». Ma è sicuramente Leonardo Sciascia lo scrittore, che ha trattato, in molta parte della sua narrativa il tema della mafia. Il romanzo più emblematico è Il Giorno della civetta ove nel personaggio di Don Mariano Arena si tratteggia la figura dell’antico mafioso del feudo, il rappresentante di una mafia rurale, detentore di una filosofia di vita che egli chiama impunemente “pratica del mondo”. Con il romanzo, si compie un vero e proprio “miracolo della letteratura” nella misura in cui questa rivela il paradosso della realtà. Lo scrittore è convinto che la letteratura debba svelare gli omissis della Storia, perciò egli, che aveva scelto il poliziesco come strumento per affrontare l’oscura e terribile realtà siciliana, ritiene, da intellettuale engagé, che si deb- ba far luce sul fenomeno mafioso, smentendo ciò che il Governo e la Storia ufficiale dichiaravano. Non è senza significato che egli appon- ga, proprio alla prima edizione del 1961 una “Nota” in cui dichiara la verità sottintesa alla finzione del romanzo. La nota sarà poi ribadita con forza in un’Avvertenza all’edizione scolastica del 1972 ove lo scrittore precisa :

Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960. Allora il Gover- no non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava. La seduta alla Camera dei Deputati, rappresentata in queste pagine, è sostanzialmente, nella rispo- sta del Governo ad un’interrogazione sull’ordine pubblico in Sicilia, vera. E sembra incredibile: considerando che appena tre anni dopo entrava in funzione una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. A quel momento, sulla mafia esisteva-

17 Su quest’argomento cfr Luigi Baldacci, «Corriere della Sera», cit. 524

no inchieste e saggi sufficienti a dare al Governo e all’opinio- ne pubblica nazionale la più precisa informazione: non ancora pubblicata, ma nota nei risultati, l’inchiesta parlamentare sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia (1875) e quella parallela, condotta di propria iniziativa da due giovani studio- si, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (e questi doveva poi arrivare, nel 1906 e nel 1910, a presiedere il Consiglio dei Ministri); gli scritti di Napoleone Colajanni; il saggio di un ex funzionario di Pubblica Sicurezza, Giuseppe Alongi, intitolato “Maffia”; le memorie dell’ex prefetto Cesare Mori che negli anni del fascismo era stato mandato in Sicilia per reprimere, con pieni poteri, ogni manifestazione mafiosa. Ma di opere lettera- rie, romanzi racconti teatro, e sono quelle che meglio del saggio e dell’inchiesta raggiungono e informano un pubblico più vasto, ce n’erano soltanto due: una di livello popolare, ed era popola- rissima, che rappresentava un mondo di piccoli mafiosi di quar- tiere- ladri soverchiatori violenti: ma non privi di sentimento e suscettibili di redenzione - che si intitolava “I mafiusi di la Vicarìa” (commedia in dialetto di Giuseppe Rizzotto e Gaspa- re Mosca; e la Vicarìa era il carcere di Palermo, allora famoso quanto oggi quello dell’Ucciardone); l’altra”Mafia”pure scritta per il teatro, in italiano, da Giovanni Alfredo Cesareo(professore all’Università di Palermo, poeta e traduttore di Shakespeare), che rappresentava una borghesia che assumeva la mafia qua- si come una ideologia e la praticava come regola di vita, dei rapporti sociali, della politica. Entrambe le opere, a livello diverso, erano un’apologia non della mafia come associazione delinquenziale(che in questo senso si negava esistesse), ma di quello che il più grande studioso delle tradizioni popolari sici- liane, Giuseppe Pitré, chiamava “il sentire mafioso”: cioè di una visione della vita, di una regola di comportamento, di un modo di realizzare la giustizia, di amministrarla, al di fuori delle leggi e degli organi di Stato. Ma la mafia era, ed è, altra cosa: un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economi- ci e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debo- le o manca) ma “dentro” lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta(…)18.

18 Cfr. Leonardo Sciascia, Avvertenza a Il Giorno della civetta, collana Gli struzzi – Letture per la scuola Media, Einaudi, 1972, pp. 137. 525

A rivelare i limiti di un giudizio riduttivo e fazioso sulla letteratu- ra siciliana tacciata di omertà, è ancora la denuncia di una scrittrice come Silvana La Spina che ne L’ultimo treno da Catania (Bompiani, 1992) descrive, con la dolente profondità di uno stile ossimorico e ricercato, una Catania avvinghiata nella cieca bramosia dalle trame di palazzo che si oppongono «al senso di giustizia dei tanti siciliani che credono e sperano negli apostoli di un’idea come Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino». La letteratura come documento a metà strada tra il dossier e il vocabolario dell’alfabeto mafioso è invece il libro di Andrea Camil- leri Voi non sapete, un romanzo costruito sui pizzini di Bernando Provenzano, boss mafioso, catturato nel 2006 dopo quarant’anni di latitanza. Il lettore ha di fronte «un libro di amara onestà e feroce iro- nia non estranei ad un diffuso senso d’allarme per una società che se vuole salvarsi deve reinventare un linguaggio, semplice e condiviso lontano dalla vischiosità mafiosa». A sostenere la potenza della Parola contro la cultura dell’inespri- mibile è infine Dacia Maraini, donna e scrittrice nota per l’impegno civile, che, in un denso e profondo libello dal titolo, Sulla Mafia, invi- ta a non distrarsi e a partecipare celebrando la cultura della parola:

Non sono io è Falcone a dire che la mafia viene conosciuta per quello che è solo quando i pentiti cominciano a parlare È sulle parole degli stessi mafiosi che si comincia a delineare la struttura della Cupola. C’è evidentemente un cambiamento di cultura, qualcosa di antropologico che muta nel modo di rappresentarsi […] Il fatto è che la parola, considerata fino ad allora pericolosa e traditrice, indegna di essere adoperata da chi si votava all’omertà e al silenzio, diventa una inaspettata arma di guerra contro i propri simili Ma questo non sarebbe potuto succedere senza una presenza di una cultura della paro- la e dello scambio. (Sulla mafia, p.8/9, Giulio Perrone, 2009)

Con il riscatto della parola, la Sicilia migliore, sottoscrive, pertanto, il suo tributo antimafia raccontando i miracoli di una terra in cui il mito e il rito continuano ad intrecciarsi, per rivelare, tra orgogliosi sofismi e splendide semplicità, le meraviglie del pensiero. La Parola, dunque, non muore mai, anzi, diviene strumento di riscatto, forza che incide, atto comunicativo che dichiara un disagio ma trova anche la strada per risolverlo. 526

Si comprende allora che il silenzio e la parola sono un’erma bifronte che genera una voce salvifica come la disperata resistenza di Colapesce19, il leggendario marinaio che preferì rimanere sott’acqua sostenendo la Sicilia che stava per sprofondare a causa di una colonna corrosa. Se la forza della parola è il pensiero che travalica la realtà meschi- na ed angusta di un silenzio imposto, la sicilianità allora prende forma e diventa un modus vivendi che trasforma la parola in viva carne, ed esporta fuori dall’isola un patrimonio culturale del “continente Sici- lia” che si ha nella testa. Al di là dei limiti di qualunque caratterizzazione sociologica, la dignità dei Vinti verghiani da Rosso Malpelo a Nedda, non è, dun- que, rassegnazione o sconfitta ma semplicemente documento umano, denuncia. Analogamente, la metafora del mondo offeso di cui ci parla Elio Vittorini diventa un tema universale, su cui riflettere “per costrui- re una civiltà diversa dalla realtà visibile”. La forza del logos siciliano è il riscatto della parola che nasce dal silenzio; è ciò che consegna alla scrittura il dovere di mostrare e non di predicare; è la sfida della ragione di Sciascia che racconta la sua terra e il suo popolo senza assolverlo ma con la convinzione che non esista nei siciliani il gene della mafiosità innata.

19 La leggenda di Colapesce è un racconto dalle molte varianti di cui alcune risal- gono al XIV secolo. Nella sua versione più conosciuta, si narra che il pescatore, abile nel nuoto, scendendo in profondità vide che la Sicilia posava su tre colonne delle quali una consumata dal fuoco dell’Etna, quindi decise di restare sott’ac- qua, sorreggendo la colonna per evitare che l’isola sprofondasse. 527 Flavia Laviosa

Dalle periferie alla world music: ritmi e danze del Sud

Il ritorno alla tradizione non è, come molti temono, la vittoria della nostalgia e della regressione, ma al contrario l’occasione per un’idea di libertà ricca e concreta, capace di affrontare le sfide della comples- sità. […] Una tradizione aperta è come un elastico, sembra andare indietro, ma è solo un prendere la rincorsa, un rilanciare in un’orbita planetaria le voci di una terra. (Cassano pp. 17-18)

Le musiche del Sud sono state a lungo espressioni sonore di aree mar- ginali e periferiche. Questi repertori di canti e danze “di villaggio” sono legati alle regioni rurali e quindi manifestano un forte rapporto di interdipendenza con i cicli della vita agricola e il lavoro nei cam- pi, il succedersi delle stagioni e l’imprevedibilità dei fenomeni della natura, le cerimonie stagionali e i rituali religiosi. Pur trasformandosi, la musica popolare è cambiata sempre seguendo i tempi lunghi del- la storia. In questo lento passare del tempo, le culture dell’oralità si devono difendere dal pericolo della perdita, e quindi insistono sulla permanenza e continuità delle loro tradizioni. Come Sandro Portelli1 spiega, «mentre [queste culture] usano la dimenticanza come stru- mento di cambiamento, si difendono dalla dimenticanza come rischio di scomparsa» (p. 138). Pertanto è stata proprio la trasmissione orale di questi testi, ritmi e balli che ne ha protetto la ricchezza musicale e ne ha preservato l’espressività coreutica. Gelosamente e sapiente- mente custoditi, i canti, gli strumenti e le danze popolari hanno rap- presentato per secoli preziosi patrimoni artistici e simboli identitari delle civiltà contadine del Sud.

1 Docente di Letteratura Americana alla Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Uni- versità la Sapienza di Roma e Presidente del Circolo Gianni Bosio. 528

Lo scopo di questo saggio è di esplorare le ragioni per cui la musi- ca tradizionale delle aree rurali del Meridione sia diventata negli ulti- mi trenta anni non solo oggetto di recupero filologico attraverso gli studi di etno-musicologia, ma anche fonte di ispirazione per forme di revival artistico. Inoltre, in questo saggio si esaminano i fattori socio- culturali e gli interessi commerciali che hanno favorito il passaggio della musica popolare dalla sua storica marginalità nelle periferie contadine ad una fruizione urbana e diffusione internazionale. Infine, in questo saggio si ripercorrono le tappe dello sviluppo del festival la Notte della Taranta per illustrare il graduale incontro della musicalità popolare del Salento con nuovi generi musicali, la sua ibridazione con le sonorità di altre culture, e il suo alto livello di popolarità nella world music. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si assiste in Italia al risveglio culturale della musica popolare riproposta in chiave moderna e all’elaborazione di temi nuovi musicati con sonorità anti- che e internazionali. La nascita delle “posse” e di altri gruppi reggae- etnici dialettali2 si colloca in un quadro di evoluzione del mercato discografico orientato verso la world music. Un importante fattore di stimolo, nelle fasi iniziali del movimento, è stata l’esplosione del movimento musicale salentino del ragamuffin deiSud Sound System3. Con questo gruppo scoppia il fenomeno de ‘lu raggae selentinu’ dove l’uso del dialetto, come elemento comune di miscela di ritmo gia- maicano e “stile salentinu”, produce una rivoluzionaria commistio- ne di elementi delle culture metropolitane e del mondo contadino. Si assiste quindi all’inizio del fenomeno della contaminazione come modalità di riutilizzo dei patrimoni tradizionali per adattarli a nuove forme di gusto culturale. Il cantautore Eugenio Bennato4, impegnato nella ricerca artistica e nei processi di ibridazione, come nel progetto Musicanova, fondato

2 Alcuni dei più importanti sono i Mau Mau da Torino, I Pitura Freska da Venezia, i 99 Posse e gli Almamegretta da Napoli, gli Agricantus dalla Sicilia, i Sa Razza dalla Sardegna. 3 Variante locale delle posse e dell’hip hop che si sviluppa in Italia intorno al 1990 a partire da alcuni centri sociali, soprattutto Bologna, Napoli e Roma e dalle uni- versità occupate dagli studenti della “pantera”. 4 Bennato fonda nel 1969 la Nuova Compagnia di Canto Popolare, all’epoca il primo e più importante gruppo di ricerca etnica e revival della musica popolare dell’Italia meridionale. Negli anni 70, la NCCP conquista i giovani e influenza considerevolmente gli artisti italiani che formano la famosa “Scuola Napoletana”. 529 nel 1976, è tra i maggiori compositori che hanno compiuto i primi passi verso la creazione di una musica d’autore ispirata alla tradi- zione5. Questa ricerca ha dato vita al movimento artistico Taranta Power6, fondato nel 1998, che segue il grande interesse del pubblico giovanile per il ritmo della taranta di cui Bennato si fa portavoce, ispirandosi alle musicalità del Salento, del Gargano, della Basilicata e della Calabria, terre diverse, ma unificate dalla magica energia della taranta, perché «dove c’è taranta, c’è ritmo e […] dove c’è ritmo c’è taranta» (Bennato p. 86). La famosa canzone Grande Sud7, presentata al Festival di Sanremo

5 Bennato realizza numerosi LP di successo, fra cui Brigante se more (1979), con- tenente brani sul brigantaggio meridionale ancora oggi popolari tra il pubblico giovanile. 6 Taranta Power (1999) diviene anche un lavoro discografico: la sintesi musicale di un movimento che segna una frattura con il passato modo d’intendere la musi- ca popolare in Italia. Tra il 2000 ed il 2001 Bennato cura la pubblicazione di altri due CD: Lezioni di tarantella e Tarantella del Gargano, due raccolte antologiche di tarantella meridionale. 7 C’è una musica in quel treno / che si muove e va lontano / musica di terza classe /in partenza per Milano / c’è una musica che batte / come batte forte il cuore / di chi parte contadino / ed arriverà terrone. / C’è una musica in quel sole /che negli occhi ancora brucia / nell’orgoglio dei braccianti / figli della Magna Grecia / in quel sogno di emigranti / grande come è grande il mare / che si porta i bastimenti / per le Americhe lontane / E chi parte oggi pe’ turnare crai [Domani] / e chi è partuto ajere pe’ un turnaremai. / Grande sud che sarà / quella anonima canzone / di chi va per il mondo / e si porta il sud nel cuore. / Grande sud che sarà / quella musica del ghetto /di chi va per il mondo / e si porta il suo dialetto. / None none none none / Lieva la capa da lu sole / Ca t’abbruciarrai lu viso / Perdarrai lu tuo colore / None none none none / Piglia lu libro e va alla scola / Quando te ‘mpari a legge e a scrive / Tanto te ‘mpari a fa l’amore / C’è una musica nei sogni / di chi dorme alle stazioni / negli antichi sentimenti / delle nuove emigrazioni / c’è una musica nel viaggio / dalla terra di nessuno / di chi porta nel futuro / i tamburi del villaggio. / Zehey maro nandeha / Nandeha ny lefa jialy / Nmatsiaro anareo / Matsiaro antanana. [Mettersi in cammino, per sfuggire la povertà, nell’anima chi ci ama e chi ci pensa]. / Grande sud che sarà / quella anonima canzone / di chi va per il mondo / e si porta il sud nel cuore. / Grande sud che sarà / quella musica del ghetto / di chi va per il mondo / col suo ritmo maledetto. / E sarà quel racconto / E sarà quella canzone / Che ha a che fare coi briganti / E coi santi in processione / Che ha a che fare coi perdenti / Della civiltà globale / Vincitori della gara / A chi è più meridionale. / E chi parte oggi pe’ turnare crai / e chi è partuto ajere pe’ un turnaremai. / Zehey maro nandeha / Nandeha ny lefa jialy / Nmatsiaro anareo / Matsiaro antanana [Mettersi in cammino, per sfuggire la povertà, nell’anima chi ci ama e chi ci pensa]. / Muessi warire ure, / muesi warire ja, / muesi wala niripa- chungo [Quella luna che illumina, quella luna che illumina chi fa innamorare] / 530 del 2008, con un coro multietnico e una danzatrice di “pizzica” salen- tina, insieme agli album Sponda Sud (2007) e Grande Sud (2008), costituisce l’espressione della volontà di coinvolgere, attraverso la musica, popoli che condividono un Sud, vasto e complesso, segnato dalla storia delle loro civiltà, pur riconoscendo le loro radici comuni e rispettando le peculiarità di ogni forma musicale. L’artista napole- tano accomuna le voci, le melodie e i balli di Napoli, del Gargano e della Calabria a quelli di Algeri, Casablanca, Cairo, dell’Etiopia e del Monzambico perché sostiene che «Ogni tappa musicale è una sco- perta e un riconoscimento, lungo il filo di un’emozione e di un’idea, in un percorso alternativo rispetto alla devastante logica del business e dell’appiattimento globalizzante, contro la quale silenziosamente combattono i tamburi di ogni villaggio» (CD Sponda Sud 2007). Lo stile etno-rock della musica di Bennato tende quindi ad unificare le rive del Mediterraneo in un insieme di voci e stili che costituiscono un continuum di sonorità e una ricca forma di contaminazione tran- snazionale. La connessione trans-culturale, espressa nella sinfonia dei ritmi e dalla policromia delle immagini evocate nelle sue canzo- ni, contribuisce al dibattito intellettuale teso a reinterpretare il ruolo moderno del Sud. Negli anni Novanta si sviluppa nel Salento il neo-tarantismo come movimento artistico e musicale. Il tarantismo, ormai estinto e non più osservabile dal vivo, si ripropone nella messa in scena teatrale, cine- matografica o di spettacolo musicale nelle piazze dei paesi. Il Salento quindi reinterpreta il ruolo della terra del mito aracnoideo e diven- ta l’epicentro di un movimento di riscoperta della musica popolare. Secondo uno spirito di valorizzazione e di moderna proposta del pas- sato, si recupera la tradizione della ‘pizzica’ con i suoi ritmi arcaici e danze locali, che nell’universo contadino del passato scandivano il tempo sacro e quello profano, guidavano l’esorcismo per guarire dal morso della mitica taranta e accompagnavano l’esplosione liberatoria della festa. Pertanto, il ritorno della ‘pizzica’ si inserisce in un processo nazio- nale e internazionale di cambiamento dei gusti musicali. Il terreno per questo risveglio era stato preparato negli anni Settanta da alcuni

wash ddani ghir lsani ma bqit nawed tani / wash ddani ghir Imor ma bquit nawed sar. [Mi ha tradito la mia lingua ma non lo farò mai, la vita è troppo amara e io non racconterò mai i segreti]. / Grande sud che sarà / quella anonima canzone / di chi va per il mondo / e si porta il sud nel cuore. 531 anziani musicisti e cantori come Luigi Stifani e Uccio Aloisi impe- gnati in una ricerca filologica sul campo e in un lavoro di riproposta di antichi motivi. Sulla scia delle ricerche dell’etnologo (1908-1965), dell’etnomusicologo Diego Carpitella8 (1924- 1990) e successivamente di un gruppo di intellettuali guidati da Rina Durante9 (1928-2004), si arricchiva il vasto archivio di canti e suo- ni della musica popolare del Salento. Queste ricerche rispondevano ad un’esigenza matura dei gruppi musicali, ispiravano l’intuizione imprenditoriale dei produttori e trovavano appoggio nella volontà politica degli amministratori della Grecìa Salentina, una regione nel cuore del Salento10. In questi anni si tessono le fila del Salento Folk Revival che si esprime con le splendide ballate del Canzoniere Grecanico Salentino e che conduce un’opera di divulgazione nelle piazze e nelle sagre di paese. La tradizionale “pizzica”, in passato associata ai rituali tera- peutici per la cura delle vittime del mitico morso della tarantola e ai riti intorno alla cappella di San Paolo a Galatina, i canti di lavoro e di carcere, le passioni e i lamenti funebri, le follie e le nenie, le canzoni narrative, le serenate e gli stornelli, vengono recuperati e riproposti da musicisti e produttori come prodotti culturali. L’incontro tra gli anziani musicisti ed una folta schiera di giovani autori, in occasioni rituali come la festa di San Rocco a Torre Paduli e nelle numerose feste locali autogestite di quegli anni, spiana la strada ai primi gruppi del secondo revival degli anni Novanta come il Can- zoniere di Terra d’Otranto. Quindici anni di lavoro sulla musica tradi- zionale salentina hanno in seguito prodotto gli Officina Zoe’, Masca- rimiri, Nidi D’Arac, Aramirè, Arakne Mediterranea, Ensemble Terra d’Otranto e moltissime altre formazioni, e hanno favorito lo sviluppo del fenomeno ‘pizzica’ oltre i confini del Salento. In questo quadro

8 Il fondatore della moderna etnomusicologia italiana. 9 Una delle protagoniste della ricerca sulla cultura popolare salentina del secondo dopoguerra, con lo scopo di renderne sempre viva la memoria fra i salentini e per sottolineare il valore scientifico e l’impulso alla ricerca sulle tradizioni locali. 10 La Grecìa Salentina è una regione così chiamata perché, nei dodici comuni che la compongono, si parla il Grìko o il Grecanico, un dialetto di antiche origini gre- che. I paesi che appartengono a questa area sono: Alessano, Calimera, Carpigna- no Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Martignano, Soleto, Sternatia e Zollino. Questa comu- nità linguistica è ufficialmente riconosciuta e legalmente protetta dall’Unione Europea. 532 storico ed etno-musicale si realizza una nuova sensibilità musicale e coreografica che si colloca all’incrocio tra l’esperienza degli anni Settanta, con il respiro lungo della tradizione, e i nuovi bisogni di consumo culturale da parte del mondo giovanile. Si assiste dunque allo sviluppo di una definizione e fruizione moderna della tradizione popolare che esprime l’esigenza del rein- cantamento. All’origine di questo fenomeno si attribuisce il desiderio della riscoperta di una ritualità antica reinterpretata in chiave identita- ria. La valorizzazione di un patrimonio artistico è anche ritrovamen- to di un’identità sommersa e dimenticata con la sua costellazione di valori; è un cammino a ritroso alla ricerca di un ritmo sopravvissuto alle modernizzazioni, per arrivare alle radici culturali sedimentate nella storia millenaria. Il risveglio della ‘pizzica’, nelle sue espressio- ni moderne, rappresenta un paradigma del nuovo rapporto tra locale e internazionale. Questo revival, che nasce da una simbiosi tra tradizione e post- modernità, riflette il percorso che ha portato all’istituzionalizzazione dei ritmi e delle danze salentine come elementi centrali di un neo- tradizionalismo e neo-meridionalismo. È quindi possibile partire da questo movimento per tracciare le coordinate di un sé politico e cul- turale. Teso alla rottura del Pensiero unico, e rivolto alla valorizza- zione del Pensiero meridiano – secondo il quale il Sud dall’“essere pensato”, pensa da sé, dall’“essere parlato” parla per sé, e dall’“essere rappresentato” si rappresenta, questo fenomeno riflette un capovolgi- mento ideologico e filosofico secondo il quale si passa dall’immagine di un meridione forzato a rincorrere lo sviluppo e la modernizzazione del Nord e dell’Occidente, all’autonomia di un Sud auto-centrato che non persegue i modelli economici e gli stili di vita importati da un capitalismo settentrionale. Oggi la “pizzica” non è solo un ballo, è un emblema, un forte richiamo e un nuovo mito culturale che crea moda, spettacolo, cinematografia, teatro, turismo, mercato editoriale e musi- cale. Il Salento quindi si configura in Italia anche come un importante laboratorio di idee sul ruolo che la tradizione può avere nella società post-industriale e multimediale e nei processi di sincretismi culturali interetnici. Attraverso il reggae e l’hip hop, si risveglia l’interesse per le fon- ti antiche della musica popolare dalle magiche rime in dialetto e il Salento diventa il polo di un nuovo movimento musicale e coreogra- fico che trascende i confini locali e si afferma tra le più apprezzate 533 forme della world music. Lo spirito animatore di questo risveglio sca- turisce dalla consapevolezza che la tradizione è una forma «di sapere e di saper fare del popolo» e che quindi essa rappresenta un prezioso patrimonio all’interno del quale il canto, spiega Sergio Blasi11, «non è solo sinonimo di canzone, ma è anche luogo marginale, rifugio latera- le (farsi da canto), alla periferia della storia”» (p. 4). È proprio questa periferia geo-culturale, di un estremo lembo di terra, finibus terrae, tanto irrisa negli anni Sessanta, che oggi ha una propria voce nell’in- crocio di suoni e messaggi che vi approdano da tutto il mondo. Il revival di antichi motivi nelle lingue locali, nel generare nuovi rapporti tra la cultura salentina e il gusto per la musica internazionale, ha favorito l’iniziativa della Notte della Taranta, un progetto voluto dall’Istituto Diego Carpitella12 e dai comuni della Grecìa Salentina. Dal 199813, ogni anno questa notte di musica propone nel mese di agosto i suoni della tradizione che, da essere patrimonio di pochi resi- duali depositari e di un manipolo di ricercatori ed etnomusicologi, diventa spettacolo per tutti. Alle procedure esecutive degli strumenti della civiltà contadina – tamburello, violino, organetto, fisarmoni- ca, ghironde, flauti doppi e ciamarella, si affiancano le grammatiche musicali dei sintetizzatori, tastiere, batteria ed effetti elettronici, che alimentano i nuovi percorsi della scrittura musicale contemporanea. La Notte della Taranta, nella sua veste di grande festa popolare di suoni e canti, strumenti e balli, si rivolge al passato e al locale, si apre al futuro e al multietnico e coinvolge, nelle varie edizioni, artisti di altri folk provenienti dall’Europa e dall’Africa. La prima Notte della Taranta è diretta da Daniele Sepe14, polistru- mentista, compositore e musicista affascinato da percorsi trans-musi- cali. Musicisti tradizionali e moderni suonano insieme per la prima volta sul palco di Melpignano e trovano un linguaggio comune in arrangiamenti nuovi e variazioni insolite durante l’esecuzione dei brani classici Ronda, Cogli la rosa, Pizzicarella, Nia Nia Nia, Rilolla-

11 Sindaco di Melpignano. 12 L’istituto si propone di studiare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale del Salento, supportato da numerosi enti promotori locali. 13 La Notte della Taranta è stata presentata per la prima volta il lunedì 24 agosto 1998, in Piazza San Giorgio, a Melpignano, un piccolo comune nel cuore della Grecìa Salentina. Dal 2000, il festival si svolge nel piazzale del Convento degli Agostiniani a Melpignano. 14 Il disco Spiritus Mundi (1997) lo ha consacrato come uno dei personaggi più alternativi della musica italiana. 534 là Rilollalà, Kalinifta, Fimmine Fimmine, Lu Santu Paulu, Lu rusciu de lu mare, Bendirì e Antidotum Tarantulae. Il concerto è il momento conclusivo di tre giorni di workshop per la preparazione dello spetta- colo e la Notte della Taranta diventa un’occasione di incontro, su un unico palco in piazza, di musicisti provenienti dai palchi e dalle piaz- ze dei Comuni della Grecìa Salentina, secondo la formula dei concerti “a ragnatela”. Fino al 1999, con la direzione del Maestro concertatore Piero Milesi, il programma prevede l’esibizione in simultanea di più gruppi nei diversi paesi, prima di confluire tutti insieme a Melpigna- no. In ogni comune, alle ore 21.00 scatta “l’ora della taranta” a ritmo di “pizzica” con i concerti simultanei dei maggiori gruppi salentini15. Al termine di questi concerti, il ritrovo finale è sul palco di Piazza San Giorgio a Melpignano per la sintesi del Concerto Notturno, un primordiale miscuglio di suoni salentini, un evento pensato come una grande jam session nel 1998 e uno spettacolo orchestrato di musica popolare nel 1999. Dal 2000 la Notte della Taranta diventa festival e cambia formu- la. Dura dodici giorni ed è itinerante per i Comuni dell’Unione della Grecìa Salentina, per dare la possibilità al sempre crescente pubblico di assistere ai diversi concerti e poi al Concertone finale a Melpi- gnano. Gli ultimi dieci anni hanno prodotto una profonda contamina- zione musicale mettendo i ritmi del Salento a confronto con culture musicali diverse. Nel 2000, ne sono un esempio le narrazioni sonore elettro-jazz di Joe Zawinul16, con le quali il grande jazzista austria- co, e Maestro concertatore del festival, modifica alla tastiera i brani salentini, elaborando una taranta “elettrica”. Nel 2001 la Notte della Taranta, con il ritorno di Piero Milesi come Maestro concertatore, assimila tradizione con la sinfonia dell’orche- stra e modernità con elementi di elettronica e hip hop creando una “pizzica sinfonica”, un esperimento di dialogo della musica popo- lare con la tradizione sinfonica. Nel 2002, Melpignano si sintoniz- za sull’Europa e questa quinta edizione della Notte della Taranta, in diretta televisiva, diventa sempre più un evento importante anche dal punto di vista mediatico. È nel 2002 che il festival, con la direzione

15 Si esibiscono i gruppi Canzoniere Grecanico, Avleddha, Arakne Mediterranea, Aia Noa, Astèria e Pierpaolo De Giorgi con i Tamburellisti di Torrepaduli, Mena- menamò, Argalìo e Radici, Mascarimirì, Ariacorte, Ghetonia, Ensemble Terra d’Otranto, Xanti Yaca. 16 Fondatore dei Weather Report e del suo Zawinul Syndicate. 535 del Maestro concertatore Vittorio Cosma, incontra la sua ibridazione più esplicita con un repertorio di rock, pop, hip hop, venature etniche ed esperimenti di “tradinnovazione”17. Si assiste alla prima forma di “pizzica internazionale” con la presenza di Noa, la cantante israelia- na, di origine yemenita, nota per le sue doti vocali che, attraverso dia- loghi musicali con il cantante palestinese Nabil Salameh dei Radio- dervish, esprime il suo impegno per la pace nel Medio Oriente. Nel 2003, la Notte della Taranta è immortalata dalla batteria di Stewart Copeland18. Travolgente sul piano del ritmo e per le scelte della sca- letta musicale, lo spettacolo è pensato proprio per far danzare decine di migliaia di spettatori. La Notte della Taranta di Copeland inoltre è la prima a girare sui palchi d’Italia e d’Europa. Tra gli ospiti ci sono anche Teresa de Sio e Raiz. Nel 2004, si forma l’Orchestra Popolare della Notte della Taranta per un’edizione che cambia registro rispetto agli anni precedenti e propone armonie dolci e frenetiche degli organetti, tamburelli, chi- tarre battenti, zampogne, percussioni, ghironde, mandole e mandolini dell’orchestra del maestro ed etnomusicologo Ambrogio Sparagna. Inizia quindi il cambiamento di rotta assunto dal festival, un’inversio- ne di marcia sul tragitto della world music. Alla Notte della Taranta non c’è più la musica popolare che esplora un possibile terreno di confronto con altri generi e sonorità, ma ci sono artisti e altri generi che si misurano sul percorso della musica tradizionale, rispettando il proprio stile e personalità musicale. Sono nomi di rilievo quelli che partecipano alla prima Notte di Sparagna, come per esempio Gianna Nannini e Franco Battiato. Nel 2005 il Salento e la sua orchestra danno voce e musica alla canzone popolare italiana. Per il secondo anno Sparagna disegna un percorso musicale ricco e variegato che attraversa l’Italia da Nord a Sud partendo dalla Puglia. La Notte della Taranta ospita numeri sem- pre crescenti di spettatori, accoglie ospiti illustri e ospita persino la TV cinese, annunciando le prossime grandi trasferte in Cina. Questo è l’anno di Francesco de Gregori, Piero Pelù, Giovanna Marini. Il Concertone del 200519 è segnato anche dall’esibizione dei Sud Sound System.

17 Eseguiti dai Mascarimirì con Manu Thèron e Xuacu Amieva. 18 Ex batterista dei Police. Il suo concerto fu pubblicato su DVD. Come ringrazia- mento, Copeland fu insignito della cittadinanza onoraria melpignanese. 19 Anche il Concertone 2005 fu pubblicato su DVD. 536

Nel 2006, la Notte della Taranta raggiunge il record di centomi- la spettatori e, dopo tre anni di direzione orchestrale, l’organettista Ambrogio Sparagna chiude il suo trionfale ciclo da Maestro concer- tatore di questo evento. Tra gli ospiti che partecipano al festival arri- va dalla Spagna un grande artista della cornamusa galiziana, Carlos Nùñez e, tra gli autori italiani, si esibiscono Carmen Consoli e Lucio Dalla il quale accompagna, con voce e vocalizzi e clarinetto, i musici- sti salentini in alcuni canti tradizionali per poi lanciarsi nella sperimen- tale esibizione della sua famosa Disperato erotico stomp in versione pizzicata. Nel 2007, la Notte della Taranta cambia direzione e con il Maestro Mauro Pagani prende la strada della multiculturalità per

Riscoprire con l’aiuto di tutti le radici più lontane e più vere della tradizione musicale della Grecìa Salentina e riaccendere odori e memoria. Provare a riassaporare la preziosa comples- sità della cultura bizantina, le poliritmie dei Balcani, l’irruen- za melodica e ritmica dei turchi, le struggenti malinconie di chi cerca di non dimenticare. E, alla fine, gettare tutti questi ingredienti, profumati e stordenti come spezie, nel pentolone ardente e irresistibile della pizzica, che immancabilmente tra- scinerà tutti in un vortice senza fine. (Pagani p. 99)

Questo è il lavoro di Pagani che apre l’Orchestra salentina al Medi- terraneo, alle sue sponde e ai suoi suoni, facendo incontrare ritmi e suoni tradizionali con quelli della musica popolare del grande bacino di civiltà, lingue, popoli e voci. Spettacolare è il senegalese Badara’ Seck, misteriose sono le voci bulgare dell’Eva Quartet, indimentica- bili sono i musicisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio con una forma- zione multietnica. Tra i pugliesi partecipano i Cantori di Carpino e tra gli artisti italiani Massimo Ranieri, Giuliano Sangiorgio dei Negra- maro e Giovanni Sollima. La Notte della Taranta del 2008 si articola su quattordici concerti in cui si alternano quasi cinquanta fra gruppi ed artisti singoli chiama- ti a dare vita alla rassegna, che ospita alcuni dei nomi più rappresenta- tivi della ‘pizzica salentina’ e comprende numerosi progetti speciali, frutto delle collaborazioni tra artisti salentini e musicisti di altra estra- zione geografica e culturale. Sul grande palco di Melpignano si esibi- scono musicisti internazionali come Richard Galliano e Rokia Traorè e italiani come CapaRezza, e i gruppi Apres la classe, Sud Sound 537

System e Radiodervish. Il gran finale è con l’Orchestra La Notte della Taranta, composta da una ricca sezione di voci e strumenti e diretta per il secondo anno consecutivo da Mauro Pagani. In questa edizione, il rapper molfettese CapaRezza20 si esibisce nella canzone di protesta Vieni a ballare in Puglia21. La parola rappata di CapaRezza si pone come riflessione sul pre- sente economico e politico e come espressione estetica del disagio e del conflitto sociale. La canzone infatti affronta il tema scottante dei caduti durante il lavoro, le cosiddette “morti bianche”, e fa pre- ciso riferimento alla situazione in Puglia, con un velato riferimento a un grave incidente avvenuto a Molfetta22. Nella canzone sono toc- cati anche altri temi, ad esempio gli incendi nel Gargano del 2007, e soprattutto la grave situazione di inquinamento ambientale causato dalla diossina che affligge la città di Taranto, sede dell’area indu- striale più grande d’Italia. Il titolo è in realtà una dura provocazione, infatti con “ballare” CapaRezza intende “morire”: lo si deduce dalle parole cantate nell’introduzione, in cui si dice che i delfini vanno a “ballare” sulle spiagge, gli elefanti in cimiteri sconosciuti, le nuvole all’orizzonte e i treni in musei a pagamento23. In conclusione, la Notte della Taranta ha rimesso in luce le risorse di un giacimento musicale meridionale, strappandolo alla marginalità e riportandolo al centro della cultura mondiale, oltre che a farne un elemento di orgoglio salentino e di marketing territoriale. I numerosi musicisti che hanno contribuito alla sua fama artistica hanno svolto percorsi diversi e trasversali, cercando un equilibrio tra l’ambienta- zione world delle musiche dei vari mondi e una solida appartenenza alla propria tradizione. Il sociologo Franco Cassano spiega che,

Lungi dall’essere una prigione, la tradizione si è rivelata vei- colo di una curiosità nuova e di un’immagine forte del Salento nel mondo […] ma questo è accaduto perché il recupero della tradizione è stato molto di più di una stucchevole e narcisistica

20 Pseudonimo di Michele Salvemini. Capa rezza, in dialetto molfettese, significa testa riccia. 21 Canzone è tratta dall’album Le dimensioni del mio caos (2008). 22 Comune in provincia di Bari e paese di origine di CapaRezza. 23 Il video della canzone gioca su un umorismo macabro con CapaRezza nei panni di una guida turistica di clienti provenienti dal ‘Sud del mondo’, che cerca di nascondere ai visitatori i cadaveri disseminati lungo il paesaggio. Alla fine della canzone i morti si risvegliano come novelli zombie. 538

riscoperta dell’identità salentina. I ritmi della pizzica infatti non sono stati recuperati da una collocazione residuale che sembrava destinarli ad un declino e ad una scomparsa, ma sono stati inseriti in un contesto del tutto nuovo, in una dina- mica di confronto con le musiche del mondo. (p. 132)

Infatti la Notte della Taranta ha cercato in questi anni di praticare sia la riscoperta delle radici, che di attuare la loro proiezione nel mon- do internazionale, favorendo “l’uscita dall’isolamento filologico e feticistico, senza però vendere l’anima” (Cassano p. 132). Inoltre la “pizzica” non è un neo-campanilismo regionale o una forma di auto- celebrazione locale, perché «Il tam-tam nella pizzica manda messag- gi e aspetta risposte di tamburi lontani, cerca il confronto, permette incontri» (Cassano p. 20). Questo festival pop, la cui fortuna ha origine nella musica di tra- dizione orale, costituisce una delle maggiori novità nel panorama culturale degli ultimi dieci anni nel Mezzogiorno ed è diventato uno dei più importanti appuntamenti musicali di massa della scena italia- na e internazionale. Sebbene la Notte della Taranta non abbia nulla in comune con il rito plurimillenario del tarantismo, la presenza di oltre centomila spettatori, per lo più giovani, che condividono que- sto evento cantando e ballando ispirati dall’entusiasmo degli artisti sul palco, costituisce una forma di rito moderno, quello proprio dei grandi raduni rock. In una terra segnata attraverso i secoli da una disponibilità al sin- cretismo, la “pizzica” con il suo retroterra culturale e geografico si configura come un vero e proprio segno di identità ibrida, aperta e danzante, che ricerca continuamente lo spazio e le modalità di un dia- logo con l’altro. L’interesse delle nuove generazioni al riappropria- mento dei canti in vernacolo e in grecanico salentino, all’indagine etno-coreutica e alla riflessone critica sulle tradizioni del ballo della “pizzica” dal contesto contadino a quello di spettacolo, così come la tendenza al recupero di tradizioni rinverdite e rivendicate come radici, archetipi, ed espressioni di un habitus locale, nascono dalla ricerca di una diversa forma di socialità, di un tempo liberato nella dimensione comunitaria della festa. 539

Bibliografia

Bennato, Eugenio, Le leggi musicali della tarantella in Tarantismo e Neotarantismo, a cura di Anna Nacci, Nardò, Besa, 2001, pp. 83-92. Blasi, Sergio, Dalla festa alla sfida del nuovo Sud, in La Notte della Taranta 1998-2007, a cura di Dario Quarta, Lecce, GuiTar Edizio- ni, 2007, pp. 3-5. Cassano, Franco, Danzare contro la solitudine, in Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, a cura di Vincen- zo Santoro e Sergio Torsello, Lecce, Edizioni Aramirè, 2002, pp. 15-21. Cassano, Franco, La pizzica e lo spariglio, in La Notte della Taranta 1998-2007, a cura di Dario Quarta, Lecce, GuiTar Edizioni, 2007, pp. 132-133. Pagani, Mauro, 2007 La Pizzica multietnica, in La Notte della Taran- ta 1998-2007, a cura di Dario Quarta, Lecce, GuiTar Edizioni, 2007, pp. 99-102. Portelli, Sandro, Il mito dei ragazzi, in La Notte della Taranta 1998- 2007, a cura di Dario Quarta, Lecce, GuiTar Edizioni, 2007, pp. 137-139. 540 541 Giacomo Pilati

Le Siciliane, il silenzio e l’urlo

Le donne siciliane urlano o stanno in silenzio. Poche le abitanti della terra di mezzo. Le donne siciliane amano gli estremi, l’apertura o la chiusura degli usci. Basta fare un giro nei villaggi oppure nei quartie- ri delle città grandi. Le porte delle case governate dalle donne sono spalancate. Oppure sono chiuse, con le imposte serrate, giusto un filo di luce. Quelle aperte mostrano le camere da letto, con i quadri di san Giuseppe sul capezzale, i bambini che allungano la strada fino alla cucina. Esibiscono la vita di dentro. Oppure sono chiuse. E allora fuori arrivano gli odori, appena un soffio, le voci attutite dagli altri rumori. Qualche volta si indovinano due occhi che si affacciano fra le fessure. Urla o silenzio, il resto appartiene al mondo sconosciuto. Protagoniste oppure comparse, difficilmente interpreti della loro vita. Occupano spazi ingombranti in una società costruita dagli uomini per gli uomini. E l’unico rimedio alla rassegnazione è l’urlo. Straziante, angosciante, coraggioso, talvolta perfino seducente. Un urlo spiantato dal cuore, dalle viscere dello stomaco, per affermare una storia, una identità, a volte basta soltanto un pensiero. Le donne sono state troppo tempo in silenzio: per anni hanno nutrito passioni e dolori nel chiuso delle loro case. L’emancipazione è recente. Fino a qualche decennio fa non potevano accedere ancora a tutte le università. Hanno votato per la prima volta nel 1946. Nella pubblica amministrazione la Sicilia poi è al penultimo posto per la presenza di donne nei consigli comunali, provinciali e alla regione. Questa cortina di ferro se da un lato ha compromesso per sempre il cammino dell’umanità, dall’altro ha difeso i loro sentimenti da cor- ruzioni e contaminazioni. Sono le loro parole nuove che mi hanno sedotto di più. L’indecifrabile attaccamento alla verità. La verità e basta. Donne che non vivono di ricatti presenti o passati. Che sono 542 forza e basta. Lontane anni luce dai modelli imposti dalla televisione, dai giornali e purtroppo anche dalla politica. E per questo, dopo, è difficile uscirne fuori rimanendo gli stessi. Le urla e i silenzi delle mie donne siciliane le ho incontrate in due libri (Le Siciliane e Le Altre Siciliane, entrambi pubblicati dall’editore Coppola); in tutto ventiset- te storie che mi hanno ammaliato come sirene. Mi ricordo la prima, la Pastora di Castelbuono, incontrata per caso lungo le strade della transumanza. È stata lei a farmi comprendere per prima la bellezza intima di questi racconti.

Di questa vita mi piace il silenzio. Ascoltare il vento, gli animali. Ognuno di questi rumori per me è silenzio. Il silenzio è la mia vita. Durante la giornata dirò al massimo cento parole. Le parole mi fanno paura. Mi sembrano fatte per prendere in giro la gente. Una volta ogni due anni cambio il pascolo. Mi sposto con le peco- re e le mucche alla ricerca di erba più verde. Io ho otto mucche e cin- quanta pecore. Trovare una stalla e un recinto in affitto con poco non è difficile. Faccio quella che si chiama la transumanza. Certe volte mi allontano a poco a poco per diverse decine di chilometri. Qualche anno fa mi spostavo ogni tre mesi. Alla fine dell’anno mi sono accorta che ero nella provincia di Messina. Io le vacche le chiamo tutte per nome. Una si chiama Aurora e ancora deve figliare. Un’altra si chiama melanzana ed è un poco vastasa. È golosa, salta sempre e non capisce mai quello che le dico. Dentro la stalla, per esempio, se le parlo sta calma. Se sto zitta comin- cia ad agitarsi. Poi c’è Minnuzza che è una buona vacca, è sempre contenta. Una si chiama Santina, quest’anno ha figliato, ha fatto un vitello morto e lei stava morendo. Io stessa l’ho curata senza dottore. Acqua di mare, aceto e olio. Poi c’è Balena che è nervosetta, ma si può domare. Quando loro si arrabbiano, io mi arrabbio più di loro e comincio a suonargliele sulle corna. Dopo si calmano. Le pecore invece hanno un altro carattere. Sono più stupide. Ma anche più sensibili. Quando prendo un agnello dal gregge per ammazzarlo, tutte le pecore si dispongono a cerchio creando un vuo- to proprio nel posto dove si trovava l’animale che ho preso. Poi per due notti belano ininterrottamente. Piangono la fine del loro compa- gno. Sembra una favola ma è la verità. Io le sento tutta la notte pian- gere. Mi alzo e vedo che hanno gli occhi lucidi. Si guardano attorno per cercare il compagno che non c’è più. E piangono. Mi si strappa il 543 cuore, ma non ci posso fare niente. Loro sono nate per dare da man- giare a noi. Non sono io che ho inventato questa regola. Il mondo per loro va così. E non è colpa mia. Mi piacerebbe farmi una famiglia, avere dei figli. Ma ormai è troppo tardi. Sono così abituata a vivere in mezzo agli animali che ora mi piace. Non potrei vivere senza di loro. Li chiamo per nome e si voltano, li accarezzo, li punisco se sbagliano. Proprio come dei figli. Ci parlo pure. E loro mi ascoltano. Ma soprattutto sono libera. Si, sono una donna libera. Non ho bisogno di guadagnare centomila lire al giorno per essere felice. Me ne bastano dieci, quindicimila. I soldi mi servono per affittare le stalle, per le medicine degli animali, per comprare altre bestie, per il toro da monta, mi servono per quando un giorno deciderò di non fare più questo lavoro. E quando prenderò questa decisione lo farò in libertà. Penso di non fare più niente. Forse mi abituerò a vivere in una città. Diventerò una donna normale. Forse tutta la mia vita è sbagliata. Vivo come una zingara fra le montagne. Chi mi conosce, e sono veramente pochi, mi prende per pazza, per maschio. Ma loro non sanno niente di me. Mi conoscono di più le mie bestie. A loro non importa se sono donna o uomo, sanno che mi prendo cura delle loro vite. E in cambio mi danno da vivere. Ma anche io sono contenta certe volte di stare in mezzo a loro. Ogni giorno mi offrono la possibilità di respirare l’aria pura, inghiotto sorsi di vento che mi riempiono lo stomaco. Quando in montagna respiro a pieni polmoni, mi sento l’aria attraversare tutto il corpo. Mi sento il vento scendere giù come se stessi bevendo o mangiando. Questa per me è la libertà.

Da qui ho deciso di cominciare un viaggio fra le donne siciliane alla ricerca dei pezzi mancanti, le storie che non avevo ascoltato, le cose che mi mancavamo. Una telecamera e sono partito. Alla fine ho capito che non potevano restare servizi televisivi, reportage. Ho pensato allora che andavano lette con calma, lentamente, per entrare dentro a ciascuna di esse. Per sentire le loro voci, per provare un’emozione, magari un brivido. Voci di donne: solitudini, ambizioni, grandi battaglie, qualche sconfitta e tanto coraggio. Sussurri ma più spesso urli. Penso all’incontro con Felicia Bortolotta, la mamma di Peppino Impastato. 544

Quando è morto Peppino non me l’hanno lasciato vedere perché era a pezzi. Sui binari hanno raccolto solo le mani e i piedi. E io mi sarei accontentata di vedere anche solo questi poveri resti suoi. Gli investigatori seguirono subito due piste: l’attentato terroristi- co fallito e il suicidio escludendo senza alcuna ragione l’omicidio. Ma io non ci ho creduto. Io sapevo che l’avevano ammazzato. Peppi- no era minacciato. Lo sentivo che alla fine me lo avrebbero ammazza- to. In tutti questi anni ho cercato di abituarmi al dolore. Ho imparato ad averne rispetto. Mi fa compagnia. Certo ho ancora rabbia dentro e tante altre cose. La rabbia per il disprezzo dei parenti del padre. Di loro nessuno mi è stato vicino. Sono ancora convinti che Peppino questa fine se la sia un po’ cercata. Io all’inizio volevo stare zitta. Ero impietrita dalla paura. Ho deci- so di parlare quando ho capito che il mio silenzio era stato coperto dai rumori di chi aveva interesse a fare passare mio figlio per pazzo, per terrorista. Allora ho alzato la mia voce su tutte le altre e per la prima volta sono diventata autoritaria. L’autorità che dà la dignità del dolore. E da quel momento non mi sono più fermata. Ho par- lato per difendere la memoria di mio figlio e la difenderò sempre. Sono vecchia, che mi possono fare. Anche se mi ammazzano non mi possono togliere la libertà che con la sua morte mi ha regalato mio figlio. La libertà di non avere paura, la libertà di avere detto la mafia fa schifo quando nessuno lo diceva. E poi della mia vita ormai non m’interessa più nulla. Il bene più grande me lo hanno già tolto. Io ho due nipotini, un maschietto e una femminuccia. Tutti e due sono sempre stati incuriositi dai miei vestiti neri. Ma come si fa a spiegare il lutto a due bambini? Non si può. Mancano le parole. Era difficile da piccoli parlargli di Peppino. Quando la bambina ha cominciato a leggere, ha trovato fra le mie carte un manifesto dove c’era scritto “La mafia uccide e il silenzio pure”. È andata a chiedere a mia nuora il significato di quelle parole. La mamma non sapeva cosa dirle, cosa spiegare. Ed è venuta a chiedere a me. “Quando la gente ha paura non dice quello che pensa, diventa cattiva e bugiar- da. Per questo - le ho detto- non bisogna mai avere paura”. Poi il maschietto, che aveva saputo da suo padre che lo zio Peppino era stato ammazzato dagli uomini cattivi, mi ha chiesto se Giuseppe era ricco e se l’avevano ammazzato per questo motivo. Gli ho detto che Giuseppe non era ricco di soldi ma di coraggio. Era un politico che parlava male della mafia quando nessuno ne parlava per paura. E gli 545 uomini cattivi erano i mafiosi. Allora mi ha detto: «Lo hanno ammaz- zato come Borsellino e Falcone?». Certo – gli ho risposto. Facevano cose diverse ma la morte è stata la stessa. Tutti e tre lottavano contro la mafia. Tutti e tre lottavano da soli troppi nemici.

Alcune storie sono famose, ma molte sono sconosciute, scovate una per una nel cuore della provincia siciliana. Come Rosa Martino, catanese, a venti anni promessa dello spetta- colo italiano, tradita da un amore soffocante che ha finito per asfissiar- la. Pensate che il marito, un barone siciliano l’aveva conosciuta in tea- tro e per convincerla a sposarlo aveva minacciato di uccidersi con una pistola davanti a lei. Lei che aveva le ali lunghe e sapeva volare alto.

Dopo il matrimonio per cambiare aria andammo a vivere in cam- pagna. Nessuno doveva sapere del mio passato. Anzi si inventò che c’eravamo conosciuti a Torino dove io studiavo taglio e cucito in un orfanotrofio. È riuscito a nascondere il mio passato e quasi quasi a convincermene. Come se io e la soubrette fossimo persone diverse. Qualche volta ero tentata di scappare, ma poi pensavo al bambino, pensavo alla pistola, avevo paura e finivo col restare. Veniva fuori la siciliana che ero sempre stata nonostante le minigonne, i panta- loni, gli Stati Uniti. Mi ero illusa di potere essere diversa solo per- ché a quattordici anni avevo lasciato la Sicilia per il continente, solo perché avevo respirato la polvere del palcoscenico, perché avevo un lavoro che mi aveva fatto girare il mondo, perché avevo conosciu- to il successo. Occasioni queste che raramente venivano offerte alle donne di qui negli anni ’50. Era stata un’illusione. I cromosomi non erano cambiati e alla prima occasione si erano svelati con tutta la loro indolenza, paura, subordinazione. Quando è morto mio marito è stata una liberazione. Finalmen- te avevo veramente cambiato aria. Per tutta la vita mi sono sentita dire «ti farà bene cambiare aria». Ma mai mi ero accorta dell’odore diverso che può avere l’aria quando si è liberi. Me lo hanno detto tut- ti. Mio padre, dopo la morte della mamma, per convincermi a vivere con lui in campagna. La zia per indirmi a vivere con lei dopo la morte di mio padre. Mio zio per portarmi in compagnia. Mio marito per allontanarmi dallo spettacolo. «Cambia aria, cambia aria, cambia aria», il tormentone della mia vita. Quando poi l’aria è cambiata veramente ho trovato il coraggio di dire tante cose. Quando i polmoni 546 respirano bene, il fiato è più lungo. E c’è più coraggio. E così ai miei figli ho spiegato ogni cosa. Ho detto che la loro mamma era stata una star dello spettacolo e che papà per paura che loro non capissero mi aveva proibito di parlarne. Si sono entusiasmati subito. Mi hanno fat- to tirare fuori dal baule tutte le foto e le locandine dei miei spettacoli. I manifesti più belli li hanno appesi alle pareti delle loro case. Per me è stata una grande soddisfazione vedere i miei figli orgogliosi di un passato che per quasi quaranta anni ero stata costretta a nascondere. Ora sono felice. Sono tornata ad andare al teatro- mio marito mi ave- va proibito pure questo- e a cantare. Canto per i miei nipotini, fieri di avere una nonna che un tempo è stata famosa come la Cuccarini.

E poi ho voluto raccontare anche dei punti di vista, delle opinioni. Di chi è stata in prima linea nella lotta per la conquista della demo- crazia in questa isola e di chi invece ha lottato in silenzio senza che nessuno se ne accorgesse, anonimamente. Maria Guccione che ha strappato la sua laurea che la doveva por- tare lontana dalla sua isola, per fare la guardia a Favignana, paladina di mille battaglie a difesa dell’ambiente. Maria Saladino, maestra battagliera di Camporeale che nella sua terra ha costruito dieci case di accoglienza per tutti i giovani vittime di violenze o di miserie. Un’altra grande storia di umanità di una pro- vincia che ad un tratto diventa il mondo. Sentite il suo urlo:

Avevo 25 anni quando ho scoperto che mio padre era stato un mafio- so. Quando ho saputo del suo passato sono caduta in crisi. «Papà perché facevi queste cose?» gli ho chiesto. E lui si discolpava sempre dicendo «Io? Non ho rubato, non ho ammazzato. Sono santo». E non era vero. Mentiva per non perdere il mio amore. In quegli anni sul paese incombevano due mafie, una stava per morire e l’altra per nascere. La prima con un codice d’onore, la secon- da spietata e sanguinaria. Tutte e due comunque terribili. La prima era capeggiata da ‘u zu Ninu Saladino. Non ammazzava i bambini e le donne come fa ora. Ma era sempre mafia. E seminava lo stesso il terrore. Camporeale poi offriva un terreno ideale al proliferare della vecchia mafia. C’era molto analfabetismo, ignoranza, miseria. Facevo scuola alle due del pomeriggio e le bambine piangevano per la fame. E io le soccorrevo come meglio potevo. Compravo i libri, i vestiti. Il 547 pane e la pasta. Facevo la maestra e lo stipendio se ne andava tutto così. Queste cose alla vecchia mafia non piacevano. I poveri dovevano restare poveri e bisognosi. Sempre. E ad aiutarli dovevano essere solo i mafiosi. Aiuti s’intende mai disinteressati. Finalizzati ad ottenere com- plicità, connivenze fra i meno abbienti. In mezzo non c’era posto per nessuno. E se una maestra come me si metteva a consolare questa gen- te aprendo gli occhi dei disgraziati era un guaio. E andava ostacolata. Ci sono voluti quasi venti anni prima di costruire il mio primo istituto. Venti anni di battaglie contro tutti. Un braccio di ferro contro la mafia, la politica e la burocrazia. Un incontro di forze diverse con l’unico fine di farmi stancare, desistere. Non avevano però fatto i conti con la mia testardaggine. E così alla fine ho vinto io. Perché ho saputo resistere. Le storie che abitano questi muri sono inenarrabili. Le violenze e le sevizie che hanno subito questi ragazzi sono al di fuori dell’immagi- nazione umana. Bambini che hanno visto il padre morire accanto a loro, crivellato da raffiche di mitra. Alcuni hanno il padre malato di AIDS e la madre carcerata. Altri sono stati costretti a prostituirsi a otto, dieci anni. A diventare spacciatori di droga. Ci sono femminucce violentate dal padre, vendute dalla madre. Bambini vissuti in mezzo ai problemi dell’alcol, della cocaina. Bambini poveri, abbandonati dai genitori, senza mangiare. Lavoro e amore. Questa è la ricetta. Io sogno sempre. Sono una sognatrice. Sogno cose bellissime. Bambini liberati dalla fame e dalla violenza, una giustizia sociale più vera, una socie- tà senza il dominio dei prepotenti, libera dalla mafia. Poi sogno altri centri di accoglienza, un grande coinvolgimento di volontari, una città per i ragazzi sfortunati. Non lo so quanti anni mi servono per realizzare tutte queste cose. Mio papà è morto 97 anni, mia madre a 89. Mi basta arrivare a 90 anni per completare tutti i miei progetti. Io ringrazio Dio per avermi dato il cuore di un fanciullo sempre pieno di meraviglie, di entusiasmo, di gioia. Ci sono i momenti di tristezza, quando passo nottate senza dormire, con tante difficoltà, con tante sofferenze. A volte sto male per l’insonnia e per l’anemia e vado avanti come un automa, con la testa vuota e con le gambe vacillanti. Ma nel cuore ho sempre 20 anni. Aiutare gli altri mantiene giovani.

Poi ci sono le battaglie intellettuali. La Sicilia vista attraverso la storia e l’impegno di una grande foto- grafa Letizia Battaglia. Attraverso l’immagine che diventa denuncia e racconto. 548

Oppure vista attraverso le straordinarie note di una biologa che non si laurea più per non cedere un giorno alla tentazione di abbando- nare la musica: Marilena Monti. Mi è piaciuto molto raccontare solo storie di donne. Ho trovato freschezza, autentica passione, sentimenti vissuti sempre con sincero coinvolgimento. Donne quasi mai compromesse con un certo tipo di potere maschile. Donne che si sono scrollate di dosso le decisioni degli altri, le con- venzioni ambientali, l’ipocrisia delle tradizioni, il vittimismo. Hanno spezzato una certa cultura siciliana patriarcale. Fra due mondi. La cultura patriarcale e la cultura liberale dell’occidente più progredito. Hanno demolito l’antico per costruire il moderno, hanno trasfor- mato e nello stesso tempo custodito. È fortissima in loro la sfida di realizzare se stesse, un urlo conto il patriarcalismo estremo. È un viaggio attorno al pianeta inesplorato delle libertà femminili dominato da energia, coraggio, onestà, dalla rottura col passato. Non sono però riuscite ad interferire nella vita politica, e questa è la cosa più grave, perché è qui alla fine che si decidono le cose. Queste storie raccontano di ribellioni ad un mondo creato, costruito e mantenuto dagli uomini. Si riconoscono nella cultura del loro gruppo di appartenenza, ma senza complicità. Emerge un quadro complicato. Per alcune, la condizione di vita è ancora molto arretrata, di forte marginalità, per altre è di totale immersione nella modernità. Il lavoro e le modalità di lavoro, il precariato, i lavori pesanti e mal pagati, lo sfruttamento, la mancanza di asili nido. Ancora oggi costrette a scegliere fra carriera e famiglia. Sono que- sti gli elementi che condizionano maggiormente la vita delle donne. L’Istat parla di donne più istruite ma emarginate dai ruoli di comando. Ed è questo un dato su cui bisogna riflettere In queste storie ho trovato emozioni vere, battaglie portate avanti sempre fino all’ultimo. Con coraggio e grande coerenza. La distruzione del vecchio per costruire il nuovo non ha però signi- ficato abbandono del passato, ma capacità di selezionare e di trovare in esso cosa c’è da salvare. Cambiare e conservare: la grande capacità mediatrice delle donne sa operare ogni giorni questo miracolo. 549

Storie, drammi sociali, collettivi e personali. Ma anche bizzarrie che denunciano la diversità di donne che hanno deciso. Hanno punta- to un perno al centro della loro vita, hanno stravolto l’epilogo costrin- gendo la parola fine a diventare continua. Come nell’ultimo libro Le Altre Siciliane, il secondo ed ultimo pezzo di questo viaggio intrigante fra i sussurri e le urla delle donne. Amelia Scimone per esempio. Sorella del mitico Chico Scimone – suonatore, viveur che ha animato le notti a Taormina e in mezzo mondo – rievoca la sua vita spericolata, stracondita di musica (suo- na ancora oggi al San Domenico) e di amori. A 90 anni, se ne frega dell’anagrafe, e sogna di svolazzare anche tra le mangròvie dell’“Iso- la dei famosi”. Lei che con i vip veri ci passava le meglio serate nei separé o nella pista da ballo de “La Giara” di Taormina, sarebbe pronta a partecipare al reality Rai. Ma dice che non disdegnerebbe nemmeno di folleggiare con i giovanotti del “Grande fratello” sul canale concorrente. Gli anni non hanno placato la sua brama di mon- danità, la sua voglia di vivere di volo in volo, magari sotto i riflettori del jet set. Come ai bei tempi quando le serate trascorrevano lievi, quattro chiacchiere con Liz Taylor e Sofia Loren, uno slow guancia a guancia con Alberto Sordi, sguardi persi con Richard Burton. Ai suoi piedi, amici d’infanzia e conoscenti raccattati strada facendo, poveri diavoli e miliardari, tutti persi per la più bella ragazza nei dintorni dell’Etna. Donne, tutte diverse, accomunate però dalla voglia di farcela. Da un carattere di ferro che non le ha fatte indietreggiare di fronte al bello e al brutto che la vita ha offerto loro nel menu quotidiano. Queste altre siciliane” quello che avevano da spendere lo hanno speso tutto, non indugiano sui rimpianti. Si lasciano solo andare a un grande desiderio, quello di scavare dentro gli abissi del loro cuore. Alcune, si mostrano in una dimensione nuova. Come se affidare i loro pensieri a un libro fosse un buon motivo per scorticarsi l’anima più a fondo. Le donne che si raccontano incrociano con le loro vite straordinarie briciole di Storia. E tutte insieme danno l’idea di come possano essere coraggiose, determinate, testarde, incoscienti, combattive e sentimen- tali le donne siciliane. Di come possano essere così realiste da crede- re nell’impossibile, sposare cause perse, uomini complicati, progetti visionari. In ognuna una piccola miniera di dettagli e segreti, perché le don- ne possono anche restare in silenzio, ma raramente dimenticano. 550

In ognuna di queste vite c’è un momento che la cambia e la tra- sforma, un bivio imboccato per amore o per necessità che non per- mette più di tornare indietro. Di ogni percorso, ho cercato di cogliere il punto cruciale, quello in cui il dolore, la perdita, la sconfitta potevano essere la fine e invece sono l’inizio di una nuova sfida. Storie che potrebbero essere monologhi, potrebbero essere canzo- ni o romanzi. C’è dentro troppa verità, troppa commozione per essere solo interviste. Vediamole da vicino le altre protagoniste di questa passerella di emozioni. Margherita Asta cerca nella memoria la sua vita normale prima che una bomba mafiosa destinata al giudice Carlo Palermo sulla stra- da di Pizzolungo dilaniasse il 2 aprile 1985 i corpi di sua madre e dei suoi due fratelli gemelli.

Quella mattina me la ricordo bene. Datemi i pennelli e mi metto a dipingerla precisa a come ce l’ho in testa. I gemelli non vogliono saperne di vestirsi. Io non voglio fare tardi a scuola. Mi dà un pas- saggio una vicina. Mia madre è dietro al cancello. «Margherita cosa ti compro per la gita di domani?». Il rumore del motore. «Le fette biscottate, mamma». «Non la vuoi la brioche del forno?». Il cancello si chiude. «No, bastano le fette biscottate». «Va bene. Buona giornata». Lo sportello della macchina. «Ciao mamma». La prima traversa. La seconda. L’angolo. La strada. Il mare. Erano le otto meno qualcosa. Le ultime parole. Di solito scendeva- mo tutti assieme per andare a scuola. Quel giorno è stata una eccezio- ne. Loro non volevano vestirsi perché uno voleva mettersi i pantaloni dell’altro, e l’altro non aveva nessuna intenzione di toglierseli. Cose di bambini. E io non volevo arrivare a scuola con il portone chiuso. Ora sono in classe e c’è la professoressa di educazione artistica. Bussano alla porta. Entra la bidella. «Asta in presidenza». Il divano, due poltrone, la bandiera dell’Italia e la fotografia del 551

Presidente della Repubblica. Il preside. La segretaria di mio padre e un operaio della fabbrica. «Ti dobbiamo portare a casa». La campanella che suona. «Prendi la cartella. Ti aspettiamo giù». Forse mio padre si è sentito male, ha subìto da poco un intervento al cuore. Certo però che loro le facce ce le hanno strane. Il preside mi firma il permesso e usciamo. La terza ora. Le undici di mattina. La tragedia è di tre ore prima. E loro non sanno come dirmelo. «Giù c’è stato un incidente e dobbiamo girare di qua». Posti di blocco, sirene, macchine della polizia. Siamo arrivati a Pizzolungo. C’è gente dappertutto. Confusione. Mi ritrovo nel bagno con mia zia. È l’unico posto tranquillo. «La mamma ha avuto un incidente. Lei e i fratellini sono all’ospedale». «Io voglio andarci». «Sì, sì. Ora ci andiamo». «Voglio andarci subito». Fazzoletto di carta. Il naso che tira aria. «No, sono morti». E comincio a piangere. Io volevo vedere mio padre, ma lui stava male ed era a letto. Quel momento è stato un terremoto, mi sono sen- tita annientata, non sapevo cosa fare. Si è aperta la terra sotto di me, e io ci sono sprofondata dentro. Cosa faccio? Come cambia la mia vita? Come posso andare avanti? No, sono morti. «Coraggio, Margherita mia. La mamma ti guarda dal cielo». Ma io che me ne faccio di mia madre che mi guarda dal cielo. Io la voglio di nuovo qua con me. Che mi porta le fette biscottate. Che mi guarda mentre lava i piatti e io faccio i compiti. Che mi pettina i capelli e dopo mi profuma la testa e mi dà un bacio sulla guancia. Io la voglio e non m’importa nulla di quello che è successo.

Sonia Alfano, figlia di Beppe, ucciso a Barcellona dalla mafia, fa accapponare la pelle quando rievoca il flash back del dramma.

Il silenzio di Barcellona a un certo punto si è rotto. Le sirene dei carabinieri. Giravano attorno al ponte e poi dietro casa. Squilla il 552 telefono. È un collega di mio padre. Lavora alla «Gazzetta del Sud». «Pronto c’è papà?». «No, ma sarà qui a momenti». «A Barcellona c’è stato pochi minuti fa un omicidio. Appena arriva fammi chiamare subito». Chiamo la redazione de La Sicilia. «Sono Sonia Alfano. C’è papà lì?». «No, non c’è». «Ma l’avete sentito?». «Sappiamo che c’è stato un morto proprio vicino a casa tua. Se lo vedi digli che lo cerchiamo». «Ma chi hanno ammazzato?». Una voce in fondo al silenzio del telefono. Una risposta lontanis- sima. Un lamento. Una lama. Una ferita al cuore. «Hanno ammazzato Beppe Alfano». Ho chiuso il telefono e ho guardato mia madre. «Mamma, hanno ammazzato papà».

Una lezione di dignità che lascia senza respiro. Sono asciutte le parole di Pina Maisano. Non considera «morte cercata» quella del marito Libero Grassi che non solo si oppose al racket, ma lo scrisse in una storica lettera agli estortori pubblicata sul «Giornale di Sicilia». E ha trovato nei “nipotini” di Addio Pizzo compagni di strada nel percorso impervio di strappare la mala pianta mafiosa dal suolo siciliano. I ragazzi la vanno a trovare einsieme progettano futuro.

Aveva girato l’angolo per andare a prendere la macchina che per precauzione non posteggiava sotto casa. Cinque colpi di pistola. A terra. Sangue. Io non l’ho voluto vedere. C’eravamo salutati serena- mente. Non volevo vederlo sfigurato dalle pallottole. Mi sono seduta sui gradini e mi sono messa a pensare E ora che faccio? Mi sentivo in un altro posto, fuori dal contesto. E ora che faccio? Già vedevo l’oscenità del dolore ostentato. Mio marito era dietro l’angolo e io ora che faccio? Sono venuti tutti. Li avrei cacciati con la scopa. Per un mese mi sono rifiutata di partecipare al lutto collettivo. Io lo sapevo cosa era successo, non avevo bisogno che qualcuno me lo raccontasse sui giornali. 553

Cosa faccio? Ricominciare, ecco la risposta. Vero, ma dopo che hanno ammazzato Lima. Dopo la morte di Libero apparentemente la mia vita non è cam- biata. In effetti però ora è molto diversa. C’è un senso di rabbia pro- fonda dentro di me, che non avevo prima. Io sono sempre arrabbiata. E morirò con questa rabbia se non vedrò che ci sarà la possibilità per mio nipote di vivere e lavorare nel suo paese con la sua intelligenza e la sua cultura. Senza bisogno di emigrare. Senza bisogno di essere amico degli amici. Ho scelto di essere una testimone, per non fare dimenticare quello che è successo a Libero. E ho fatto bene. Dopo quindici anni ecco i ragazzi di Addio Pizzo. Quando è uscito il loro manifestino “Un popolo che paga il pizzo è un popolo sen- za dignità”, io ho risposto a una giornalista che non conoscevo gli autori di quella frase, «ma li considero miei nipoti perché la penso esattamente come loro». Dopo due giorni sono venuti a trovarmi tre ragazzi…: «Siamo i tuoi nipoti». Ed è nata questa nostra amicizia. Oggi a Palermo è cambiato poco. Molti imprenditori continuano a pagare il pizzo. Ma ci sono segnali confortanti. Io mi sento bene quando parlo con i ragazzi di Addio Pizzo. È emozionante condivide- re con i giovani i propri ideali. Siamo una minoranza, lo sappiamo. E nei momenti elettorali lo vediamo. Nei quartieri c’è il trenta per cento di evasione scolastica. Vuol dire che una fetta importante della popolazione non ha senso critico, non ha gli strumenti per capire quello che succede. E non si fa scrupoli a votare il primo che gli paga la bolletta della luce o gli dà trenta euro. La classe politica non può fare finta di non sapere che qui c’è il trenta per cento di analfabeti, questa è una tragedia nazionale. Libe- ro diceva che la cattiva qualità del consenso determina la cattiva qualità della politica. Finché ci saranno voti di scambio e voti com- prati non c’è nulla da aspettarsi. Oggi a me sembra anacronistico il pizzo. Coi traffici di droga, di armi, dovrebbe essere superato. E invece resiste perché è uno stru- mento che consente alle cosche di controllare militarmente il terri- torio. Bisogna far capire ai commercianti che non è più pericoloso denunciare l’estorsione. Il segreto è stare tutti insieme. 554

Quando si presenta come parte civile Addio Pizzo o l’Antiracket in sei mesi arriva il risarcimento. Per non avere paura bisogna mettere fuori la dignità del proprio lavoro. Non svendere la propria libertà. Denunciare e farsi difendere dallo Stato. Libero non ha sbagliato nulla. Il suo non era solo un nome. Era un aggettivo.

Anna Giordano, unica italiana insignita del premio Nobel per l’am- biente, ha sgominato l’esercito di bracconieri che ogni anno faceva stragi di uccelli migratori sullo Stretto di Messina. E ora, nello stesso posto, si dice pronta a mettere l’elmetto per andare alla guerra contro il ponte. Il suo è un teatro del dolore. Leggi la sua storia e capisci perché. Emma Dante, regista acclamata in tutta Europa, è segnata, ma non annichilita, dai drammi che hanno costellato la sua esistenza. La mor- te prematura di un fratello e della madre, l’amore al veleno, sono oggi forza interiore. Caterina Milana a ottant’anni può guardare con orgoglio ai tan- ti centri accoglienza costruiti in mezzo mondo, Africa, Sudamerica, Asia, alle disperazioni lenite di migliaia di donne, ai numerosi bam- bini sfamati, facendo fondo a tutto il suo patrimonio. Il tutto in una strada accidentata da malevolenze, invidie e qualche infamia. Bice Mortillaro – cresciuta in una famiglia in cui si respirano i valori risorgimentali, quelli della rivoluzione francese, e ancora cami- ce rosse garibaldine e Fasci dei lavoratori – è stata per tutta la vita in prima linea nelle battaglie delle donne, nelle trincee dei quartieri a rischio. è una delle fondatrici del Laboratorio Zen. «In questi anni la nostra presenza qui è servita. Ora le donne hanno preso coscienza. D’estate si riuniscono, escono, vanno in pizzeria». Sembra poco ma è una rivoluzione. Graziella Proto, catanese di Paternò, ultimo direttore de «I Sici- liani», porta nelle edicole, tra mille difficoltà «Casablanca», l’organo ufficiale dell’antimafia siciliana. Da fondo a tutti i suoi averi, si inde- bita, batte casa riceve piccoli oboli. Ma non si è mai pentita delle sue scommesse. Tanta stanchezza, ma sempre ligia all’insegnamento del nonno comunista: “Pane e dignità”. La vera Gattoparda è Maria La Rocca di San Silvestro, blasonata doc, donna ardimentosa, nella sua dimora di Lentini scopre per caso la Casa dello scirocco, una struttura di origine romana seppellita per seco- 555 li per coprire uno scandalo antico, come accade ne Il cane di terracotta di Camilleri. Ne fa il primo agriturismo dell’Isola, un grande business. Nina Di Giorgio, racconta la sua struggente storia d’amore con l’americano Nat Scammacca, uno dei poeti di quell’Antigruppo che anima le piazze palermitane negli anni Sessanta. Un amore che attra- versa anche il labirinto della pazzia di Nat.

Io mi sono dedicata più a Nat che ai miei figli. Forse questa è stata una colpa. Loro ogni tanto me lo rimproverano. E hanno ragione. Sì, credo di averlo amato con ognuno dei miei sensi. Tutti i suoi libri li dettava a me passeggiando, poi io li battevo a macchina o al computer. Ho condiviso ogni cosa che faceva. Mi bastava guardarlo per essere felice. Negli ultimi anni era diventato sordo. Si sedeva davanti al balcone con la coperta sulle gambe e stava ore a guardare il mare, incantato dai tramonti. Ogni tanto prendeva la penna e scriveva una poesia. Con lo sguardo perso nella falce di questa città, lui continuava ad essere poeta. Non era molto contento di come lo avevano trattato i trapanesi. Molti hanno continuato a considerarlo un americano eccentrico fino alla morte. Non hanno mai capito quello che si sono persi. Negli ultimi tempi si è avvicinato alla religione cattolica. Strano, perché lui era sempre stato un ateo convinto. Raccontava di avere avuto una apparizione, un segnale divino. In sogno aveva visto il Cristo morto e questo gli era sembrato un messaggio. Lo ho accompagnato da un prete, si è confessato e ha preso la comunione. I suoi amici non volevano crederci. Pensavano alla paura della morte che conduce a Dio. Io non so cosa gli sia successo veramente. Forse si sforzava di credere e certe volte io me ne accorgevo. Era cambiato, questo sì. Non si arrabbiava più. Viveva con i suoi ricordi. Pensava alla sua vita. Al tempo che gli mancava. Al silenzio ho dedicato gli ultimi giorni di Nat. Lui con la matita fra le mani e un quaderno posato sul tavolino. Io che avrei voluto che lui prendesse quel quaderno, ma sapevo pure che non l’avrebbe fatto. Così immobili per ore senza dirci nulla.

Nel dialetto siciliano non esiste la coniugazione al futuro. Molte di loro invece hanno parlato di cosa faranno, dei loro sogni, delle spe- 556 ranza. Forse delle loro illusioni. Hanno capovolto sogni che se mai pronunciati sarebbero nati e morti dentro ciascuna di loro. I racconti fanno emergere, con forza, la voglia di esistere al di fuori delle regole date. Regole di morte, di silenzi imposti, di cancellazione. Tutte queste cose mi hanno colpito. E devo essere sincero mi hanno affascinato. Soprattutto per la forza passata e presente con cui colpiscono i beceri luoghi comuni che incombono sulle donne siciliane. Chiaramente il libro non racconta tutte le Siciliane. Chissà quante altre storie avrebbero meritato di avere voce. Ed è pure vero che di queste Siciliane il libro non racconta tutta la storia. Io ho soltanto rubato dei momenti, dei batticuori, forse sono riuscito a catturare anche qualche emozione. Con un occhio ai disegni che nascevano dalle loro voci e l’altro ai colori che questi mi suggerivano. Ma una cosa è certa: se ho scritto questo libro è perché loro, le donne siciliane, la loro storia l’avevano già scritta. Alcune col sudore, altre col sangue. Ma sempre con l’inchiostro limpido di chi ha fatto della propria vita una scelta, sempre consapevoli di dovere pagare alla fine il prez- zo più alto. Perché nasce, alla fine, il fondato sospetto che fuori da quest’isola queste storie avrebbero avuto altri risvolti, altri destini, altri colori. Probabilmente altri disegni. Un motivo in più per affermare con forza il grande debito di ricono- scenza che questa terra ha nei confronti di queste e di tante altre don- ne siciliane, spesso ostacolate e colpevolizzate solo per avere minato le basi di una società patriarcale e mafiosa, o più semplicemente per avere occupato spazi non previsti. Perché queste storie siano il lievito per una coscienza civile nuova, per altre battaglie di democrazia, per il diritto ad avere realmente pari opportunità. Perché questa società tutta al maschile cominci a diventare finalmente un poco femmina.

Info: www.coppolaeditore.com [email protected] 557

I Libri

Giacomo Pilati, Le Siciliane, Trapani, Coppola editore. Giacomo Pilati, Le altre Siciliane, Trapani, Coppola editore. Giacomo Pilati, Sicilian Women, Coppola e Legas. 558 559 Ermanno Rea

Riflessioni sul centocinquantesimo anniversario dell'unificazione

L’Italia si avvia a celebrare il 150mo anniversario dell’unificazio- ne. Ma si è unificata veramente l’Italia? Io desidero stasera parlarvi soprattutto di questo perché credo che sia il tema più scottante oggi sul tappeto. Soltanto qualche giorno fa un Ministro della Repubblica ha affer- mato che per lui esiste una sola bandiera, quella padana… Ma voglio parlarvi di questo anche perché si tratta da tempo di un mio chiodo fisso, tanto è vero che si può dire che il mio libro La dismissione lo agiti in continuazione, attraverso il racconto dello smantellamento di un’acciaieria che ha identificato per circa un secolo la storia di Napoli e le sue aspirazioni a diventare una metropoli moderna, degna della sua storia gloriosa. Che cosa è La modernità? Lo so che nel mondo occidentale essa ha un solo significato: svilupparsi attraverso il processo indu- striale. Questo sviluppo, questo processo di modernizzazione attraverso l’industria è stato negato al Mezzogiorno d’Italia. Da chi? Lo sappia- mo tutti: dalle classi dirigenti sia del Nord che del Sud. Ma parlere- mo dettagliatamente di tutto questo. Vedete, io ho scritto tre libri su Napoli il che costituisce una prova, se non qualitativa quanto meno quantitativa, del mio attaccamento, e diciamo pure passione, per la città in cui sono nato. Tre libri che sono una continua, quasi nevrotica interrogazione sulle ragioni per le quali una città straordinaria, colta, europea non sia riuscita a diventare quella metropoli efficiente e in linea coi tempi che meritava di diventare. Una ETNIA PESANTE, UNA PASSIONE… Vi voglio raccontare un piccolo aneddoto: Napo- li non è un misterioso ALTROVE… Io sono nato all’impegno civile e politico nell’immediato dopoguerra. Facevo il cronista, il “raccatta- 560 notizie” all’Unità. E quale era il nostro ideale più profondo. Crede- temi, non tanto il socialismo e la giustizia universale. Questo ideale era appunto la modernizzazione di Napoli. Il riscatto della nostra città natale dal suo storico sottosviluppo. Era questo il senso del nostro impegno politico. Militavamo in un partito lacerato da mille contraddizioni, laico soltanto a parole, in realtà attraversato da fondamentalismi di ogni genere, inquinato da un grottesco culto della personalità. Quel partito però si mostrò anche capace di una mobilitazione sociale di rara gene- rosità. La speranza nel vicolo. La speranza di una industrializzazione della città in grado di traghettare Napoli nella modernità… Del resto non avevamo neppure bisogno di andare a scomodare Marx per col- tivare la nostra fede nella classe operaia e nello sviluppo industriale del Mezzogiorno. Ci incoraggiava a tanto lo stesso pensiero liberale nelle sue espressioni più alte e rigorose. Non era stato forse lo statista Francesco Saverio Nitti a dichiarare, tra la fine del XIX secolo e i pri- missimi anni del ’900 «Napoli muore lentamente sulle sponde del Tir- reno. Tra tanto cielo e tanto mare tutto un grande dramma si svolge» aggiungendo che lui non vedeva altra soluzione per il Mezzogiorno, e segnatamente per Napoli, se non una generale svolta produttiva di tipo industriale?

1) Lo sanno tutti: fu Nitti a volere un’acciaieria a Napoli. Un’accia- ieria che secondo lui avrebbe dovuto costituire una vera e propria terapia contro tutte le infezioni della società napoletana. Una terapia destinata a rinvigorire le esigue rappresentanze dell’operosità citta- dina. Questo fu il disegno di Nitti, incurante ma certo non ignaro del fatto che per i ceti dirigenti italiani, sconsideratamente impazienti di imprese coloniali, sarebbero state invece ben altre le esigenze cui la fabbrica avrebbe dovuto corrispondere. Del resto lo scrisse egli stesso in modo esplicito.

Da principio una grande acciaieria non potrebbe sorgere che per i prodotti militari; potrebbe diventare in seguito prevalen- temente industriale. Lo stesso cammino hanno seguito Krupp, Il Creuzot, eccetera. Lo stato ha formato a Temi il capitale; ha assicurato la vendita dei prodotti. È proprio ingiusto che faccia assai meno per Napoli? Siano gli stessi azionisti di Temi, siano altri poco importa; ciò che importa è che se un nuovo impianto 561

si deve fare (ed è quasi indispensabile) si faccia dove le condi- zioni sono più adatte e il bisogno maggiore.

2) Non chiedeva la luna, non chiedeva alla borghesia italiana di modi- ficare i propri progetti. Chiedeva soltanto che essi riuscissero a pro- durre almeno un effetto socialmente rispettabile.

3) Io non conosco un’altra fabbrica che sai nata con una esplicita mis- sione salvifica sul piano sociale. Va bene, dice Nitti, l’llva produrrà l’acciaio necessario alla fabbricazione dei cannoni, ma salverà Napoli dal suo degrado morale ed economico.

4) Badate: la ricetta di Nitti mica era condivisa da molti. Era soste- nuta dai socialisti, ma non certo dal direttore del Mattino Edoardo Scarfoglio che anzi era legato agli ambienti più retrivi della città formati in gran parte da una piccola borghesia servile e dai grandi proprietari terrieri assenteisti dell’intero Mezzogiorno che vivevano a Napoli da nababbi dilapidando ai tavoli da gioco i loro immensi patrimoni accumulati alle spalle di braccianti e contadini sfruttati in modo infame. Attenzione: quella che vi vado raccontando non è vecchiume, protostoria, archeologia sociale. Sto parlando degli ultimi anni dell’800 ma in realtà è come se parlassi di oggi, del pre- sente, di Berlusconi, del leghista Bossi e via elencando. Il dramma dell’Italia sta principalmente nella pietrificazione della sua storia. Che non muta mai. Che nella sostanza reitera di anno in anno se stessa con la sola differenza di mostrare ogni volta ferite più profon- de, più disgustose e maleodoranti.

5)Torno all’ Ilva, vicenda per me paradigmatica che già racchiude, con cento anni di anticipo, l’attuale caso Napoli, anzi caso Italia. Lasciate che vi narri a questo punto una storia molto istruttiva, una storia che ci dice che cos’era l’Italia – l’Italia in generale e quella meridionale in particolare – negli ultimi anni del XIX secolo.

6) Di Scarfoglio vi ho già detto. Non vi ho detto dei suoi stretti legami con il deputato al Parlamento nazionale Alberto Aniello Casale e con il sindaco di Napoli dell’ epoca, un tal Summonte, con i quali costitu- isce una sorta di perversa triade che tiene in pugno la città. 562

7) A questo punto lasciate che ceda la parola a um importante storico napoletano che ha ricostruito con dovizia di dettagli l’intera vicenda. Questo storico è Francesco Barbagallo e il suo libro si intitola Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno (1900-1914).

8) Nella Napoli di fine Ottocento, degradata e priva di un ruolo produttivo adeguato alle sue dimensioni fisiche, la trasformazione dell’attività politica in gestione clientelare e “camorristica” della cosa pubblica era un fatto compiuto. Uno stretto intreccio di interessi lega- va la classe politica locale con il capitale straniero dominante il setto- re dei servizi pubblici, i gruppi capitalistici locali operanti soprattutto nei campi finanziario e commerciale e il diffuso e articolato ceto dei percettori di rendita urbana. Questo blocco di potere era cementato e sostenuto nell ‘opinione pubblica da una stampa cointeressata che in Edoardo Scarfoglio trovava la più brillante espressione e tutelato infine dalla tacita connivenza governativa che non vedeva soluzioni diverse per l’aggravata situazione dell’antica capitale borbonica.

9) Questo è il ritratto della Napoli fine Ottocento che ci propone Bar- bagallo. Una città in ginocchio, terreno di scorribande da parte di approfittatori di ogni genere. Una situazione apparentemente inattac- cabile. INVECE… LA PROPAGANDA.

10) Questo giornaletto, spiega Barbagallo, «avrebbe rappresentato un punto di riferimento importante e significativo nel Mezzogiorno per tutto il primo quindicennio del secolo».

11) Alberto Aniello Casale descritto come «Il tipo politicamente più basso della scala… il padrone del Comune», il maggiore responsabile della corruzione e del disordine amministrativo e del suo uso a fini di arricchimento personale.

12) Casale querela per diffamazione i ragazzi della Propaganda che però intensifica la propria azione come risposta alla querela.

13) Bisognava dimostrare ai napoletani spiegarono successivamente gli stessi redattori della Propaganda – che la banda alta della camorra non era poi invincibile… Era tanto il lavoro che la mente si confonde- va e le braccia cadevano. Camorra nel Municipio, camorra nella Pro- 563 vincia, camorra nelle Opere Pie, denaro pubblico destinato a sollazzi privati, fortune improvvise nelle mani di pezzenti dell’ieri, impunità ai ladri, ai pregiudicati, ai lenoni purché elettori fedeli di tizio o di Caio E più in alto, alcuni deputati… ad essi facevano capo da un lato gli interessi più lucidi degli elettori corrotti e dei criminali, e da essi partivano legami col potere centrale, che li appoggiava. Poiché una delle più grandi vergogne di Napoli era proprio questa: il governo, e per esso i prefetti di tutti i tempi, meno qualche eccezione rara, teneva bordone e lasciava andare, pur di avere con sé la rappresentanza poli- tica napoletana solidale in tutte le avventure, in tutti i brigantaggi, in tutte le vigliaccherie, in tutte le reazioni.

14) È un brano, quello che ho appena letto, che fa veramente impres- sione. Che cosa è mutato dalla fine dell’Ottocento? Assolutamente niente. Ma tutta la faccenda della Propaganda appare terribilmente di attualità.

15) Guardate che il Casale non riuscì affatto a spuntarla sui ragazzi della Propaganda. La storia talvolta si diverte a cambiare le carte in tavola. Barbagallo la racconta così. «Il 22 ottobre del 1900 comincia il processo per la querela sporta dall’onorevole Casale. Il dibattimen- to produce l’immediato rovesciamento delle parti. Le testimonianze dell’ex prefetto Cavasola e dei deputati Altobelli e De Martino avevano gia’ trasformato Casale da accusatore in accusato. Dopo varie vicen- de processuali alla fine Il pubblico ministero Raffaele De Notaristefani considerò raggiunta la prova dei fatti ritenuti diffamatori dal querelante e chiede l’assoluzione della Propaganda al Tribunale, che si pronunciò in tal senso, aggiungendo la condanna del Casale al risarcimento dei danni e alle spese di giudizio. Nella stessa giornata del 31 ottobre il Casaole si dimetteva da deputato e da consigliere provinciale… ».

16) Il clamoroso esito del processo ebbe enorme risonanza a livello nazionale e la pressione dell’opinione pubblica insieme allo stato di disfacimento in cui versavano gli enti locali della maggiore città del Mezzogiorno, indussero Il governo Saracco a istituire um commissio- ne d’inchiesta su Napoli.

17) La Commissione nelle mani del senatore Saredo lavorò intensa- mente per dieci mesi raccogliendo prove sul malgoverno della città di 564

Napoli in particolare sotto il dominio della triade Casale Summonte Scarfoglio, vera e propria agenzia d’affari al servizio del capitale stra- niero dominante il settore dei servizi pubblici e delle aziende locali interessate agli appalti delle opere pubbliche. La Commissione lavora accanitamente benché boicottata da varie parti e dallo stesso governo che l’ha costituita. La difesa degli interessi colpiti dalla Commissione fu assunta dall’onorevole Rosano, molto vicino a Giolitti. Accadde di tutto. Fu deciso perfino di infliggere una severa ammonizione al procuratore De Notaristefani. Il ministro della Giustizia, al princi- pio del 1901 veniva apertamente accusato di intralciare l’opera della Commissione.

18) L’arte di imbrogliare le carte in tavola da parte della destra camor- rista. raggiunse traguardi di rara raffinatezza. Permettetemi di legger- vi per intero questa pagina del Barbagallo.

19) È arrivato il momento di concludere su questo punto. Figlia dell’inchiesta Saredo sarà la legge speciale su Napoli del 1905 e figlia della legge speciale sarà la creazione di un’acciaieria a Napoli: l’Ilva di Bagnoli. Nitti insomma avrà partita vinta e il sogno di una indu- strializzazione della città capace di avviare Napoli sulla strada della modernizzazione sembrerà acquistare una certa credibilità.

20) Qui dobbiamo chiederci i perché di una vicenda economica così convulsa; i perché dell’ invincibile spaccatura tra un Nord industriale e un Sud succubo di un’ agricoltura tra le più arretrate del continente europeo. Mi limito per brevità a una illuminante citazione di Antonio Gramsci che sui Quaderni del carcere a cura di Gerratana annotò: «L’egemonia del Nord sarebbe stata normale e storicamente benefica se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe stata allora questa egemonia l’espressione di una lotta tra il Vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione eco- nomica di carattere e ampiezza nazionali anche se il suo motore fos- se stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione sto- 565 rica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente perpetua per l’esistenza di un’ industria settentrionale».

21) In sostanza al Nord non si ha nessun interesse a modificare la situazione esistente. Per la verità non si tratta soltanto di motivi egoi- stici, allo scopo di avere un’area da sfruttare come mercato e come riserva di manodopera. Si tratta di non entrare in conflitto con gli inte- ressi parassitari dei grandi proprietari terrieri del Sud che intendono mantenere inalterati i loro interessi feudali su braccianti e contadini ridotti sempre più allo stremo.

22) Io desidero invitarvi alla letture delle prime pagine del volume di Barbagallo che si apre con queste parole: «Il XX secolo si apre nel Mezzogiorno con un grande sviluppo dell’ emigrazione transo- ceanica. Un’agricoltura completamente arretrata fondata su arcaici. rapporti di proprietà, e di produzione… risultava sempre più croni- camente incapace di sopperire alle primordiali esigenze di vita delle masse contadine».

23) Il Mezzogiorno veniva ridotto così a mercato coloniale per il con- sumo dei costosi manufatti settentrionali, pur rimanendo un mercato povero e privo di reali capacità di espansione.

Concludo qui queste citazioni. La verità è che l’Italia non riesce a risolvere più le sue contraddi- zioni. E la gente continua a chiedersi: ma che cosa succede a Napoli? Invece di chiedersi: ma che cosa succede in Italia? Ecco perché io sono tornato a Napoli quando è cominciato lo smantellamento dell’Ilva di Bagnoli. Quei colpi di piccone sembra- vano abbattersi su l’ultimo barlume di speranza che aveva accompa- gnato la mia giovinezza: per Napoli, per il Sud d’Italia si concludeva nel segno del fallimento tutta una lunga e travagliata vicenda. 566 567 Helen Barolini

Il colpo di fulmine: come mi è nato il romanzo Umbertina

Lo scrittore Arthur Miller, parlando del ruolo svolto dall’ispirazione, nonché della fatica, in una sua opera letteraria disse, «Uno scrittore va in giro con una sbarra di ferro incastrata in testa, diretta verso il cielo, aspettando che il fulmine che dovrebbe essere l’ispirazione lo colpisca». Se è così, io ho subito il mio colpo di fulmine quando da bam- bina, all’età di circa quattro o cinque anni, per la prima volta, ebbi coscienza di che cos’è “l’altro”, cioè, quella persona o persone che ci sembrano diversi – non come noi. Quando la mia famiglia di Syracu- se si riuniva annualmente con i nostri parenti di Utica, ci trovavamo sul prato del lago Cazenovia, radunati per il picnic estivo di tutta la parentela. E lì, era sempre presente un personaggio strano, una vec- chia misteriosa, sempre vestita di nero, coi capelli bianchi e vaporosi che non parlava la nostra lingua. Sì, sapevo che era mia nonna, la madre della mia mamma, ma che altro sapevo di lei? Questa figura rimase un mistero finché, passati molti anni, le ho ridato vita come l’Umbertina del mio romanzo. Quando avevo circa nove anni, questa misteriosa nonna morì e da quel momento in casa nostra, c’era un curioso cuoricino di latta che mia madre aveva recuperato dagli effetti della nonna. Di questo cuo- ricino mia madre non sapeva nulla, e allora io inventai la sua origine e lo feci figurare nel mio romanzoUmbertina. Poi trascorsero molti anni, e molte vicende nella mia vita. Nell’ago- sto del 1967, con Nicoletta, la mia terza figlia, allora bimba di cin- que anni, e che porta il nome della famosa nonna, insieme a una mia cugina, feci in macchina il viaggio verso la Calabria, alla ricerca del villaggio di Castagna, dove nacque questa misteriosa, illusoria nonna. Ho tenuto vari diarii della mia vita a Roma, annotando incontri 568 avuti nel corso di feste letterarie con noti autori del momento, come , Dacia Maraini, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Danilo Dolci e tante altre figure prominenti. Il diario di quel viag- gio in Calabria comincia con la nostra partenza da Roma il 2 agosto, 1967 e con la nostra prima fermata a Monte Cassino, rifatto dopo la distruzione della seconda guerra mondiale. In quell’occasione notai la grande folla di turisti e la poca pazienza di uno dei monaci che ci negò l’entrata alla biblioteca, un punto di particolare interesse per mia cugina studiosa, con la borsa di studio “Fulbright”. Quando feci notare che avevamo già visitato i manoscritti presso il monastero di Subiaco, il monaco rispose bruscamente, «Lasci stare Subiaco!», e quindi siamo subito partite. Il diario mi è stato una fonte preziosa dal quale poter ricreare il panorama del romanzo. Vi ho descritto tutto il tragitto mano mano che scendevamo lo stivale: gli scavi di Paestum, la scoperta di Maratea, e l’arrivo finalmente a Cosenza in Calabria. Da Cosenza arrivammo in trenino a San Giovanni in Fiore dove le donne locali erano ancora vestite nei costumi tradizionali e dove ho potuto comprare il famoso copriletto, che diventerà uno dei simboli più potenti del romanzo. In quel periodo c’era ancora la lira come moneta legale e dal mio diario posso ricostruire le spese sostenute durante il viaggio insieme ad altre notizie del tempo. Per esempio, all’arrivo a Salerno, siamo state accolte dalla bellissima vista di un castello normanno arroccato sul monte e che faceva da sfondo alla città. Cenammo in un ristorante sopra il mare dove Niki ha potuto guardare, estasiata, la vita marina. Ma i prezzi erano alti: a Salerno, una camera doppia costava circa 5.900 lire a notte e il mangiare era ugualmente caro. Dall’altro lato però, a quei tempi, all’Hotel Villa Cheta, nella frazione di Acquafred- da di Maratea, una camera doppia, pensione completa, costava circa $8 a persona – quasi niente pensando all’abbondanza del cibo e all’in- canto delle vedute sul mare. Il copriletto, a San Giovanni in Fiore, fu acquistato per l’equivalente di $50 di allora. A me sembrava caro, ma mia cugina sapeva che a Lord & Taylor’s di New York, tali copriletti venivano venduti a $200. Guidando lungo la costa fino ad Amalfi, vedemmo costruzioni magnifiche, quali torri antiche, costruite per tenere la guardia contri i Saraceni e divenute ville. Altre ville erano moderne, ma altrettanto bellissime, con scalinate scolpite nelle montagne ed ornate con anfore piene di fiori. Dalla strada, dall’alto, si vedevano bellissime insenna- 569 ture accessibili solo dal mare. Poi a Cetara, sempre nelle vicinanze di Salerno, trovammo l’Hotel Cetus – un posto da sogno, dove purtrop- po non sono mai tornata. Arrivando ad Agropoli, non c’era alcuna possibilità di pernottare, così perseguimmo fino a Paestum, sito magnifico dei templi dell’an- tica Magna Grecia. Era già sera e rimanemmo deluse perché di notte i templi non vennero illuminati; cosa che avrebbe dato luogo ad una vista incantevole. Invece, per strada, i venditori ambulanti di souve- nir godevano tutti quanti di perfette illuminazioni. Trovammo posto all’Albergo delle Rose con il mare proprio lì, a venti metri, e ciò sem- brava migliorare un pochino la fatiscenza del cosidetto hotel. Mi ricordo di aver letto dei viaggi in Italia dell’eccentrico viag- giatore inglese, Crauford Amage. Descrive, come, in una notte del 1828, rimase seduto fino a l’una di notte nel tempio di Era (giàa quell’epoca dedicato a Nettuno) prima di fare ritorno al suo pessimo alloggio. Anche lui doveva arrivare ad Agropoli! Ma almeno lui non dovette passare la notte a sentire il rumore di una radio tenuta accesa tutta la notte. Lasciando Paestum cominciammo a salire le montagne verso l’an- tica città di Elea, oggi conosciuta come Velia Scavi. Arrivammo pro- prio a mezzogiorno, e come degli insensati viaggiatori inglesi, sca- lammo le rovine antiche nel pieno del soleone, fino all’Acropoli con il suo notevole arco là, dove si trova la Porta Rosa. Sotto un ulivo, parlando con il custode, imparammo che fu proprio lui, nel 1962, a trovare il busto di Parmenide, il filosofo di Elea. Poi di nuovo in macchina, per attraversare le montagne – solo qua- ranta miglia dagli scavi di Elea fino a Sapri, passando lungo la strada delle ragazze che vendevano uva e per le quali, Niki sentiva una gran pena. Ci volevano ore di macchina per arrivare a Sapri dove c’era un paradossale Eden Hotel, senz’acqua, né per lo sciacquone del water, né per lavarsi. Faceva molto caldo ed eravamo un po’ in ansia per le molte cur- ve della strada, ma finalmente arrivammo all’Hotel Villa Cheta ad Acquafredda, una frazione fra Sapri e Maratea. Il posto era delizioso ed era frequentato da famiglie inglesi e francesi. Il mare era un po’ come un minestrone – tiepido, con, infatti, pezzi di verdura galleg- gianti nell’acqua. Villa Cheta (che vuol dire “villa quieta”) era situata in alto, con sentieri, boschetti, uliveti e fichi, intorno ai quali giravono capre. C’erano pergole, terrazze, e mura; e una sculura di Garibal- 570 di, nascosta in una nicchia deliziosa. Le piante sembravano fare una giungla, tanto erano floride e grandi; con petunie, begonie, gerani, bougainvillea e limoni. Si scendeva, poi, una ripidissima pista scoscesa per andare alla spiaggia, fatta di insenature, e tutta ricoperta da sassolini neri e bian- ci; segnati, naturalmente, da tracce del tutto assomiglianti a delle let- tere. Il posto era incantevole, e poi venimmo a sapere che i proprietari erano di Trento.

Ci fu un incidente a rendere scommodo il nostro soggiorno sulla spiaggia di Maratea e che mi fece pensare a quelli del Sud – silen- ziosi, superstiziosi; che non sono abituati a rapportarsi, a sviluppare i contatti umani. Non riescono a superare secoli di diffidenza nei con- fronti con gli stranieri; il disdegno per le donne, il senso di ridicolo verso gli onesti o la sottornissione al potere. E come notava Norman Douglas, mille anni d’incursioni e saccheggi saraceni sulla costa, lasciarono il loro segno. L’incidente era a Sileno sulla spiaggia di Maratea: un uomo snello, scuro e pelloso ci guardava costantamente per ore. Anche quando ci siamo mosse verso un posto nell’ombra di una roccia, lui ci ha seguite, fissandoci, senza né parlare né salutare. Naturalmente, gli abitanti avevano lasciato la costa per l’entroterra. Il giorno del sette agosto, ci alzammo di buon’ora per viaggia- re nel fresco e, arrivate a Praia a Mare, fummo finalmente giunte in Calabria. A Belvedere Marittima, un artigiano aveva appeso le sue anfore in vendita sull’albero davanti alla propria casa. Passando per i piccoli paesi, mi sembrava di notare gli Italoamericani, tornati al luogo natio: li riconoscevo dalle camicie colorate, a maniche corte. Sulla costa, non notammo la miseria nera di cui si sentiva tanto parla- re quando si tratta del Mezzogiorno. Poi, facendo da Paola, sulla costa, il Passo della Crocetta, entram- mo nell’entroterra Calabrese, dove mi venne in mente la parola brul- lo vedendo il paesaggio: bruciato, arido e spoglio. Ma come diceva Norman Douglas, un altro viaggiatore inglese, sono state le capre ad aver guastato la Calabria. Un paesaggio devastato dai terremoti, dal disboschimento, dalla sovracoltivazione – una vera tragedia a mano degli uomini. Le grandi quercie, descritte da Douglas nel suo libro, Old Calabria, erano sparite: tagliate e vendute dai proprietari assenti. Percorrendo una strada eccellente, arrivammo finalmente a Cosen- za – una città belllina sulle rive di due fiumi; piena di alberi e fornita 571 di carrozze tirate da cavalli. La gente era attraente e piena d’energia. Riscontrammo, ancora una volta, altri segni degli invasori normanni, come un castello sovrastante la città, e un gran numero di persone dagli occhi chiari. Alcune donne portavano ancora il costume regio- nale: la camicetta ricamata e la gonna lunga, con sopra il grembiule. C’erano molti negozi d’artigianato ma, strano dirselo, le edicole offri- vano solamente quotidiani tedeschi, e le spiaggie, come Bagamayo, erano gestite da Tedeschi o da Svizzeri. Si vedevano tantte piccole Fiat, targate Torino, luogo dove molti operai meridionali trovavano lavoro, per, tuttavia, tornare in Calabria per le vacanze. Tante facce sembravano familiari – assomiglianti a Joe Di Maggio, oppure ai miei cugini. Visitammo la tomba d’Isabella d’Aragona nelle catedrale, ma il castello normanno, a quei tempi, era ancora da riparare dai tanti segni lasciati dai terremoti; che fecero tanta distruzione. Fra la gente non c’erano mendicanti, tranne i monaci che cercavano di vendere ritratti di santi e santini. Quando ci fermavamo a compare qualcosa, i ven- ditori ci facevano tante domande: chi siete, da dove venite, perché siete qui? Vendendoci i biglietti del trenino per San Giovanni in Fiore, il capostazione ci disse qualcosa per noi assurdo: che lui mandava roba invernale ai suoi parenti nel Wisconsin. A San Giovanni in Fiore, sopra Cosenza, incontrammo donne vestite nel tipico costume del luogo: busto di velluto e gonne lunghe; coi riccioli dei capelli fatti con il grasso di maiale. Ma per comprare il tanto sospirato copriletto, fu necessario aspettare un’ora e quaranta minuti in una stazione ron- zante di mosche, fare un viaggio di due ore e mezzo abbordo il treni- no, seguito da un viaggio in carrozza, dare una mancia di mille lire al ragazzo che ci portò dalla tessitrice e, in fine, dargli ancora un’altra mancia per portare i nostri acquisti fino alla stazione. Per pranzare a mezzo giorno, il cibo locale ci sembrava molto gustoso ma era sempre circondato dalle mosche, quindi, per evita- re brutte conseguenze, ordinammo o pasta o riso, siccome era bol- lito; mentre da bere, si prendeve sempre la Coca Cola. Ci sembrava una vera gioia di trovarci a 1700 metri di altitudine, circondate da un meraviglioso paesaggio: pineti e castagneti, ruscelli scintillanti e prati di montagna dove pascolavano le mucche. Il copriletto comprato, e ancora conservato, ha lo sfondo di un giallo vivace ed un fitto disegno di ricami di grappoli d’uva, di foglie, 572 di fiori della regione e di tante lettere “n” minuscole, forse per indica- re il nome della tessitrice. Ma per me, potevano stare per mia nonna, Nicoletta, l’ispirazione di Umbertina. È roba di campagna, un tessuto grezzo ma bello e solido, con colori vibranti. Adesso è parzialmente scolorito, effetto degli anni e del sole, ma mi è sempre molto caro perché pieno dei ricordi di quel viaggio tanti anni fa, ad una Calabria che non c’è più. Viaggiando per Castagna, nell montagne sopra Cosenza, l’aria si fa fresca e la strada è affiancata da boschetti e da tanto verde. Pas- sando per Soveria Mannelli, il sito del mercato dove Garibaldi ha pernottato il 30 agosto, 1860, prima di combattere contro i Borboni, vedemmo un negozio di “Articoli da Regalo”, con il nome del pro- prietario identico a quello di un nonno che non ho mai conosciuto. A dodici chilometri si scende per valicare il Fiume Corace sul Ponte Castagna, e si risale il versante pieno di curve di Monte Ticina, e poi si arriva a Castagna. Prima di salire al paese, ci fermammo per vedere le rovine dell’abbazia normanna. Poi, all’entrata di Castagna, c’è il ruscello che figura nei ricordi del mio personaggio, Umbertina. Castagna è molto piccola: una frazione di Carlopoli che si trova ad un paio di chilometri più in là. L’unico telefono in Castagna, si trovava presso il tabacchaio, con orario normale e festivo. Le strade erano ripide, quindi lasciammo la macchina e andammo a piedi. La gente sbirciò dalle porte delle case per guardarci quando andammo a visitare il prete. La nostra guida ci disse che gli abitanti del paese erano 1200, ma il prete, di Lovorno, affermò che c’erano 400 gli abitanti nel paese. Questo prete si trovava lì da quattro anni e ci raccontò che, al suo arrivo, erano in 800, ma che in seguito, sono migrati al nord dell’Italia, oppure in Germania, o negli USA. Nessuno, secondo lui, tornava per aiutare il paese, dove il lavoro non c’era. Infatti, non vidi campi coltivati, ne gregge. Non vidi nemmeno l’artigianato come a San Giovanni; perfino le brocche di argilla vengono da Carlopoli. La scuola aveva solo le classi ele- mentari. Il prete ci disse anche che, quando arrivò, non era in buona salute, ma che l’aria pura e la pace del posto, gliel’avevano ridata. Infatti, l’aria era buona e davanti alla chiesa, la vista, guardando verso le montagne, era magnifica. Devo dire che sentivo una grande emozione nell’essere a Casta- gna, cioè alle origini della mia famiglia materna. Immaginavo gli immigranti in cammino, colmi di roba, giù per la strada, verso Sove- 573 ria Manelli, per poi arrivare al porto d’imbarcazione. Come sono riu- sciuti a farlo mi chiedo? Mia nonna Nicoletta, ha portato con sé un copriletto, il cuoricino di latta e il ricordo della sua terra, con la sua acqua del sorgente di montagna. Mentre da sempre ero consapevole della durezza di vita del luogo, provai un grandissimo piacere nel vedere la belezza del posto. Come ricordo, portammo via delle castagne, e bevemmo alla fon- tana. Non riuscì che comprare altro che dei francobolli al tabacchaio e un caffè al bar. Poi via, il nostro viaggio fatto, con, nel mio cuore, la promessa di tornare. Fu con grandissima sorpresa per me, per non dire piacere, a sapere che alcuni mesi dopo il fatto, il NY State Regents Examination in English del 2007, abbia scelto come passo letterario da analizzare, una descrizione narrativa relativa a mia nonna, già apparsa nel Sou- thwest Review, Winter, 1992. Il passo la descrive all’annuale picnic estivo ed anche in casa, dov’era sempre in cucina. Narra anche come al nostro saluto, ci sorrideva e ci pizziccava affettuosamente le guan- ce; però mi appariva comunque, come una figura misteriosa e strana. È da questo richiamo della mia infanzia e da queste impressioni che emerse, tanti anni dopo, la figura immaginaria di Umbertina e che creò un ponte fra noi in America e le nostre radici della terra ancestrale. 574 575

interviste 576 577 Intervista a Giuseppe Piccioni a cura di Claudio Mazzola

Il cinema italiano tra difficoltà e fermento

Vorrei iniziare con discorso generale sul cinema italiano che, da alme- no un decennio, si dà per malato se non addirittura moribondo. È in fondo un cinema che si dà per spacciato per lo meno da quando negli anni novanta ci si è ritrovati senza i padri che avevano illuminato il cinema del dopoguerra. Secondo te, come sta il cinema italiano oggi?

Credo che oggi il cinema italiano sia in un momento di difficoltà e allo stesso tempo di grande fermento. In fondo la crisi non è diversa da quella che affligge altre cinematografie, nel senso che non c’è una patologia che colpisce in modo particolare I registi italiani. Se poi uno guarda al modo in cui spesso I film italiani vengono accolti in manife- stazioni all’estero, mi sembra che il cinema italiano sia ancora seguito con affetto e attenzione. Credo che ci sia un problema nel modo di produrre e di operare delle scelte. È molto più difficile di ieri rischiare qualcosa perché un regista italiano avverte che c’è un mercato che vuole sbarazzarsi di lui. Il cinema italiano oggi non è molto vantaggioso né produttiva- mente né tanto meno politicamente; per cui c’è una classe politica che non ha un assetto anche quando il cinema italiano ottiene dei risultati come quelli ottenuti da Garrone e Sorrentino al festival di Cannes con Il Divo e Gomorra. A proposito di film festival, si può dire che ci sia anche un problema che si manifesta nel momento della selezione dei film che partecipano ai vari festival, problema che poi si ripresenta anche nelle scelte fatte per i premi da assegnare. È come se ci fos- se una quota di invasività nel comportamento che possiamo definire “genericamente politico”. Oggi il cinema italiano ha delle possibilità d’affermarsi, ci sono dei talenti, però in generale mi sembra sia un po’ imbrigliato e manchi anche quel grado di attenzione e di rispetto che 578 magari si può trovare in altre cinematografie. È una passività verso il cinema italiano che si manifesta anche nella mancanza di trasmissioni televisive che parlino di cinema italiano, nella mancanza di attenzione sui quotidiani – un vuoto nei confronti soprattutto del cinema quanto cinema e non come comunicazione propaganistica. Molto spesso sui giornali escono pezzi cosidetti di colore, di presentazione, operazioni abbastanza pigre dal punto di vista della discussione e che non favo- riscono una comprensione del cinema italiano.

Durante il Film Festival di Venezia del 2010, Gabriele Salvatores, che era membro della giuria, di fronte alla totale assenza di premi attribuiti al cinema italiano, ha detto che quello italiano è un cinema che deve svecchiarsi. Cosa intendeva, secondo te, Salvatores con questa frase?

In generale quando si parla di cinema vecchio o giovane bisognerebbe fare delle distinzioni. Certi film che hanno un ritmo molto scandito con immagini apparentemente visionarie, poi in realtà possono essere film vecchi, conformisti, videoclippistici o magari film che cercano una seduzione piuttosto facile, modernisti nell’atteggiamento ma poi nella sostanza film vecchi. Oggi un film che invece possa sembrare che va controcorrente dal punto di vista estetico potrebbe essere estre- mamante moderno. Quella di Salvatores mi è sembrata una giustifica- zione di fronte all’evidente imbarazzo che i giurati italiani hanno pro- vato nell’arginare la totale disinvoltura con cui Quentin Tarantino ha orientato la giuria. Questo mi sembra chiaro negli atteggiamenti, dal modo in cui ha risposto Tarantino alle domande che gli sono state fatte, però, poi, la responsabilità di quello che avviene da molti anni a Vene- zia, pur condividendo quello che Martone e Bellocchio hanno detto in risposta a Salvatores, cioè che il cinema italiano esce con le ossa rotte, è responsabilità del direttore del festival. Per assurdo chi dovrebbe, per statuto, valorizzare al meglio il cinema italiano finisce con il fare delle scelte opinabili per quanto riguarda le opere selezionate e anche sulla scelta dei giurati stessi. Questo credo sia un problema perché non ci dovrebbero essere considerazioni personali nella scelta di un film. È sempre stata una mostra attenta ad assecondare certi poteri; quelle due o tre produzioni che hanno già una forza sul mercato ne esco- no rafforzate quando invece la mostra dovrebbe avere un altro tipo di atteggiamento. E quindi generalmente è una mostra vecchia dove il cinema italiano esce fortemente sciupato, un’immagine che secondo 579 me è molto distante dalla realtà perché quello italiano è anche oggi un cinema che ha un suo reale valore che in molti casi è quantomeno apprezzabile. Quello che succede da tempo è il riproporre “b-movies” o certo cinema “trash”, quasi per trovare un argomento di discussione gossipparo e televisivo. Dico questo non perché abbia qualcosa contro i “b-movies”; al contrario in Italia questa rivalutazione è stata fatta con un’attenta analisi di questo cinema da più di venti o forse trenta anni e quindi non c’è niente di nuovo. Va detto inoltre che tipi come Taranti- no o altre persone che non fanno altro che parlare dei “b-movies”, die- tro questa presunta rivalutazione nascondono sempre un certo sorriso, una certa crudeltà da fiera, un po’ intellettualmente razzista, proprio nei confronti dei film che pretendono e dichiarano di amare. Mi sem- bra che quando si intervistano questi registi, che dovrebbero essere dei veri professionisti, spesso si ridacchi e credo che questo si possa riscontrare in Tarantino stesso, con le sue dichiarazioni d’amore sem- pre accompagnate da un certo sarcasmo malcelato. Questa, secondo me, è una forma di razzismo, di crudeltà e meschinità.

Torniamo un attimo al panorama del cinema italiano. Come vedi te stesso e i tuoi film inseriti in questo panorama?

R: Penso che quella che ho intrapreso sia una strada abbastanza com- plicata, non di facile identificazione. È una strada che tenta di entrare in questa porta stretta. Il mio cinema si colloca tra il cinema commer- ciale, nel senso che tenta di essere presente nel circuito di distribuzio- ne, di presenza mediatica, di voglia di raccontare storie a un pubblico che ha voglia di ascoltare, e allo stesso tempo è anche un cinema che ha l’intenzione di essere personale. Cioè è un cinema che presenta uno specifico sguardo, un mondo particolare; cosa che a volte non ti è perdonata dalla critica. Anche se poi questa scelta personale mi dà grandi soddisfazioni, un rispetto e una stima che vale oro al di là di qualsiasi grande successo, ho la sensazione di essere sempre sul punto di non essere mai veramente appagato, di avere sempre la ten- tazione di dichiararmi incompreso e di temere, negli incubi notturni, di essere rivalutato postumo.

È cambiato qualcosa da quando hai fatto il primo filmIl Grande Blek nel 1987. Parlo soprattutto a livello produttivo, visto che il film fu prodotto dalla tua stessa casa, la Vertigo film. 580

È cambiato moltissimo soprattutto per quella dose di ingenuità naïf che c’era in tutto il nostro gruppo alla Vertigo film. Eravamo un grup- po di ex-studenti di una scuola di cinema tra cui c’era anche Domeni- co Procacci che si cimentò nella produzione proprio con il mio primo film. C’era anche la grande sensazione che un film fosse l’afferma- zione personale di chi lo dirigeva per cui Il Grande Blek è uno dei miei film più personali perché raccontava anche frammenti della mia storia, della mia adolescenza, e però, allo stesso tempo era anche un film molto condiviso, è stato un film d’esordio per molti di noi, non solo per me, ma anche per il montatore, il direttore della fotografia e per alcuni che facevano allora gli sceneggiatori. Rivederlo mi crea oggi qualche imbarazzo, però trovo che ci sia anche questa generosi- tà, forse eccessiva, dell’opera prima. Forse rimpiango questo tipo di generosità quasi indifesa, in cui non c’era nessuna preoccupazione diciamo “politica” verso i critici o il resto del cinema italiano. C’era solo il desiderio di esprimersi e di manifestarsi. Anche il modo di produrre fu abbastanza anomalo. A quell’epoca i giovani registi nel 95% dei casi non avevano una distribuzione; il mio film trovò una piccola distribuzione, diventò un piccolo caso, vinse dei premi, se ne parlò, incoraggiò altre esperienze simili. Adesso c’è più il rituale di un individuo che lavora in maniera solitaria che è il regista Giuseppe Piccioni che ha un progetto e che cerca sempre di conservare un grado di libertà e di generosità però c’è qualcosa nel modo di produrre che non mi soddisfa del tutto. Ho cercato di avere altre esperienze, pro- prio per non essere preso da una sorta di sclerosi o dalla ripetizione di una formula; ho cercato cioè di uscire da una routine di lavoro anche se io faccio un film almeno ogni tre anni, quindi non è poi una routine intensa. Mi piacerebbe comunque fare delle cose al di là della durata, mi riferisco a film che non siano veri e propri film, a una scrittura e un piano di lavoro diverso, a un momento più vicino tra la progettualità e la realizzazione. Vorrei arrivare a un certo grado di sperimentazione che forse oggi in Italia manca. In genere quando c’è la sperimentazio- ne sei marginale, fuori dal mercato; bisognerebbe riuscire a fare dei film più indipendenti e più che a livello produttivo mi riferisco a film che abbiano dietro un pensiero indipendente e che abbiano qualche aspirazione a misurarsi con il mercato e che riescano a creare qualche risultato, che aiuti e orienti anche un pubblico diverso da quello che c’è adesso. 581

Parlando proprio del pubblico di oggi, abituato ai film d’azione e a un montaggio veloce; se mi permetti, I tuoi film sono caratterizzati da un ritmo piuttosto lento, ogni singola inquadratura dura molto di più della media, pensiamo a Fuori dal mondo per esempio. Ci può essere un pubblico interessato e paziente con questo tipo di cinema come è il tuo?

Questo tipo di cinema può sopravvivere e crescere se c’è un certo tipo di attenzione da parte di chi crea opinioni nel nostro paese, da chi orienta I gusti a prescindere da amici e da appartenenze. Io credo di avere un pubblico che mi segue, di avere un piccolo zoccolo duro che mi ama. Anche perché la vita di un film è strana,Il Grande Blek ebbe un risultato abbastanza debole al botteghino, però nel corso degli anni, non so se sia diventato un’affezione per quel film che mi ha rag- giunto ovunque però tantissime persone l’hanno visto, non so come perché non esiste nemmeno più il DVD del film. Per cui oggi con SKY e altri canali satellitari è possible che si possa creare un pubblico di affezionati, però è vero che si fa fatica, nel senso che oggi un’at- tenzione per un certo di film è più rara. Salvo che non si tratti di auto- ri che abbiano già ricevuto un riconoscimento nel tempo, parlo, ad esempio, di registi come Bertolucci e Bellocchio, che però sono delle mosche bianche. Sento quindi che la tentazione di avere una parentesi più “easy” potrebbe giovare al successo commerciale e non nascondo che nel modo di esprimersi ci dovrebbe essere un rinnovamento, una leggerezza perché uno non dovrebbe essere sempre condannato a fare il film rigoroso e personale. Credo che qualche volta si possa anche tentare qualche altra strada, appunto con più leggerezza. Questa è una cosa su cui ho riflettuto molto e che vorrei anche mettere in atto. però la soddisfazione maggiore sarebbe quella di trovare tre o quattro miei film in un cofanetto e pensare che quei film mi rappresentino e non mi vergogno di averli fatti. Del resto ognuno nella propria vita ha un cofanetto ideale, e pensi che queste sono le tre o quattro cose che ho fatto e che mi rappresentano.

Passando a parlare dei tuoi film, ricordo che quando Fuori dal mon- do usci’ negli Stati Uniti la critica maggiore fu che il film era come una “soap opera”, cioè aveva dei ritmi molto blandi. Cosa risponde- resti a questo tipo di critica? 582

A parte il fatto che ci fu solo una critica negativa e forse una delle più importanti, e fu quella di Vincent Canby del New York Times, e comunque spesso la carriera di un regista e il destino di un film fini- scono con il dipendere proprio da quell’unica recensione negativa, soprattutto quando il film esce a New York e il giornalista orienta i gusti del pubblico proprio per un film così di nicchia. La cosa strana è che in tutte le conferenze stampa che feci, misi proprio in rilievo il fatto che se uno legge la sinossi del film la prima tentazione che ha e di dire: “Beh, ma questa è una soap opera. Una suora, un bambino abbandonato…”. Invece il film racconta tutto questo ma dentro ha delle rivelazioni, delle sorprese. C’è soprattutto sia nella scrittura che nelle riprese una particolare attenzione a evitare l’ovvio. Tra l’altro è un film che parla di sentimenti ma dice anche qualcosa sulla moder- nità. Un’attrice con cui ho lavorato, Piera degli Esposti, ha detto una cosa molto interessante su di me. Ha detto che io, nei miei film, ho una dolcezza crudele. Nel caso di Fuori dal mondo, sembra che il film non racconti nessun dramma, però vorrei rilevare che quic’è una suora che non lascia il convento, che non fugge verso il Messico, come sarebbe invece accaduto in certi film generazionali. Questa è una specie di crudeltà che si impone allo spettatore, un punto di vista fortemente reale e c’è anche un grande rispetto del personaggio che non asseconda le aspettative facili del pubblico. Poi c’è una ragazza che abbandona il figlio e non se lo riprende. Tra l’altro voglio men- zionare che sono stati aquistati i diritti del film e quindi temo che se si farà un remake nell’edizione americana questo aspetto della storia sarà difficilmente riproponibile. Nel film c’è un’idea della famiglia di sangue poco edificante. È una famiglia strana, composta da un bam- bino abbandonato, un lavandaio cinico e la suora. Diciamo che io amo un certo cinema del passato dove la componente sentimentale è importante ed è spesso affidata a figure femminili come quelle rappre- sentate da Greta Garbo e Ingrid Bergman. Ho anche voglia di diffe- renziarmi da un certo tipo di cinema in cui il soggetto del racconto già definisce un certo tipo di consenso. Cioè di solito se uno fa un film su un tema particolare, contro qualcosa, sa già che ha un pubblico che è contro quella cosa e quindi è dalla sua parte. Al contrario io faccio dei film che sembrano storie d’amore e poi non lo sono. Questo richiede un lavoro più profondo e personale (da parte del regista) che invece viene sottovalutato. Nessun argomento nobilita o meno un film. Non è detto che raccontando una storia d’amore, di sentimenti, ci sia un 583 disimpegno. I film che ci cambiano sono dei film inaspettati rispetto a quello di cui parlano. Possiamo essere cambiati da film che parla- no di argomenti non necessariamente da prima pagina dei giornali. Questa strada dritta spesso io la evito e allora corro dei rischi, come li hanno corsi altri registi, come Antonio Pietrangeli, che hanno vissuto la loro contemporaneità in modo piuttosto doloroso e personale. Sto pensando a film comeIo la conoscevo bene, La visita, La parmigiana. Parlare giornalisticamente dei miei film richiede un certo impegno e soprattutto un atteggiamento un po’ diverso.

Parlando dell’andare contro corrente mi viene in mente La vita che vorrei. Il cinema italiano ha fatto film in costume quando aveva gran- di temi storici o politici da proporre. Il tuo invece è un film parzial- mente in costume che sviluppa temi molto personali.

La vita che vorrei è stata una concessione a me stesso. Ho pensato che al mio settimo film potevo fare un film sul lavoro che faccio, ed in particolare qualcosa che secondo me è molto importante come la recitazione e la direzione degli attori. Soprattutto quell’aspetto che mi scombussola internamente che è la presenza fisica dell’attore e il suo modo di vivere la finzione. Sento turbamento e attrazione pro- fonda per questo atteggiamento dell’attore di esibizione a metà strada tra l’osceno, il promiscuo e il sacro. E quindi ho raccontato questa storia che poteva essere molto scivolosa perché il cinema nel cinema offre degli esempi nobili e terribili al punto da scoraggiare chiunque a riprovarci. Invece fare questo film è stato un grande piacere. Anche qui abbiamo l’impressione di trovarci davanti a quel cinema che, come dicevamo prima, affronta temi da “soap opera”. C’e indubbia- mente una mia quasi nascosta passione per registi come per esempio Raffaello Matarazzo; il mio amore per un certo tipo di letteratura alta ma che affronta certi temi bassi cioè quello che nella nostra cultura è una presenza molto forte: il melodrama. Per cui mi piace usare mate- riali apparentemente sentimentali per trovare una risposta a quelle domande che l’ uomo medio si farebbe. Tipo quelle domande banali che si potrebbero fare alla suora di Fuori dal mondo, per esempio se lei crede in Dio e se ha mai fatto l’amore con un uomo o se Dio esiste, e chiederle, come il protagonista del film fa, il perché di tutta quella devozione esagerata. A questo punto la suora risponde che in fondo l’amore è esagerato e contrattacca chiedendo a lui se abbia mai amato 584 qualcuno senza essere esagerato. C’è sempre il tentativo di cercare una verità umana e profonda a un argomento quasi da rotocalco. Nel film c’è la possibilità di capire che, al contrario di quello che si dice molto spesso, cioè che questa è la società dell’apparire, invece questa è la società che disprezza l’apparire. L’apparenza a volte racconta chi siamo, rivela la sostanza. I personaggi della Vita che vorrei raggiun- gono un certo grado di verità attraverso l’apparenza, attraverso l’arti- ficio. Riescono a dirsi qualcosa in un film dove parlano il linguaggio dell’Ottocento, dove hanno costume, parrucche, baffi finti. In questo mondo di finzione sono veri, invece nella vita, nella loro relazione non hanno questo grado di verità. Tutto ciò mi ha fatto riflettere sul fatto che la nostra società è di fatto una società di un “apparente appa- renza”, nel senso che disprezza le nostre storie, ci riforma e ci omolo- ga secondo canoni che sembrano quelli del successo però sono quelli della svalutazione di sé. C’è da parte mia questa specie di desiderio di sintonia tra quello che si è e quello che si ha, il trovare la strada di casa e sentirsi a casa. Io credo che lo spettatore di fronte ai miei film avverta delle emozioni vedendo queste storie che parlano di amori, parlano di storie che ti riguardano da vicino. Mi piace quando un film ti rivela che sta parlando anche di te.

A proposito di apparenza e sostanza. In Luce dei miei occhi mi sem- bra che la protagonista non si nasconda dietro mai nulla, che dica quello che pensa in modo esplicito, quasi brutale, a volte scioccan- do il personaggio maschile. Il dialogo sembra, come dicevi prima, parlare allo spettatore per cui quando ci aspettiamo che vada in una certa direzione e poi va in tutt’altra direzione, rivelando il lato meno conosciuto della figura femminile.

Quando uno scrive un dialogo, è come se, tra mille cancellature, ad un certo punto arriva una goccia del tuo sangue che si trasforma in dialogo, qualcosa quindi che ti riguarda oltremodo. È come quando si ascolta un cantautore, ascoltandolo ti riconosci nelle parole, a volte nella veste di carnefice, a volte in quella di vittima. In Luce dei miei occhi più la storia si allontana da un certo conformismo sentimentale e più diventa poetica, ti rivela una verità profonda che ti emoziona. Nell’ultima scena di Fuori dal mondo, quando i protagonisti si salu- tano, io ho fatto in modo che non ci fosse nessun contatto fra di loro. Mentre invece il desiderio dello spettatore è quello di vederli abbrac- 585 ciarsi prima di lasciarsi per sempre. C’è solo una breve frase in cui lui chiede: «Se ci fosse stato un altro al mio posto, sarebbe stato lo stes- so?» Che è una frase che abbiamo già seminato nel corso nel film e mentre prima aveva detto che lo avrebbe fatto per qualsiasi altro, ora dice di no. Quella frase è molto più di un bacio, di una carezza. ciò dà quasi un senso di frustrazione, ed è attraverso questa frustrazione che io comunico un’emozione forte, di verità; che è una verità che provie- ne dalla vita che ho vissuto ma anche dalla letteratura, dai libri che ho letto, dai film che amo. I “film noir” per esempio, la presenza di una femme fatal, qui più prosaica e quotidiana, però il modello è quello, di donne di cui mi sono innamorato anche vedendo film come La mia droga si chiama Julie di Truffaut. In fondo è partito da li’ questo mio amore per un certo tipo di dialogo che evita la frase tipica tipo: «voglio stare con te» dice lui, «mi dispiace io, no» dice lei. Ad un cer- to punto in macchina lei dice: «Non mi batte il cuore quando ti vedo e non mi sento perduta quando te ne vai» che è una frase bellissima e che dice in forma scritta qualcosa di profondo. Mi piace che a volte i personaggi non parlino come mangiano, mi piace invece “scriverli” i dialoghi, con un piccolo scarto tra il dialogo e la verità. Perché poi in molti film c’è una certa pigrizia nei dialoghi che diventano una forma di complicità con lo spettatore. Non c’è più l’idea del miracolo, che possa accadere qualcosa di inatteso che ci salvi. E questo ritorna in un dialogo tra Silvio Orlando quando parlando di Maria irride al senti- mentalismo di Antonio. Maria è rocciosa, ostacola questo sentimento di armonia, che poi è ingenuo perché Antonio e quasi insopportabile nel suo essere un cavalier servente, però questo amore ostinato lascia trasparire una conquista ancora più nobile, che ambizione nobile con- quistare il cuore di Maria! Mi piace molto questa cosa.

Giulia non esce la sera è l’unico tuo film in cui succede qualcosa di veramente tragico: la morte della protagonista. Poi, però, sembra che il film si rivolga, si concentri su qualcos’altro, per esempio il premio letterario a cui partecipa il protagonista. Che funzione ha la morte nell’economia generale del film?

È vero, il personaggio di Giulia giganteggia quasi a livello di eroi- na da tragedia greca. È una persona che ha perduto la possibilità di appartenere al mondo di tutti. Ha oltrepassato il segno che è rappre- sentato dal suo omicidio. Ha perduto tutto, la sua famiglia, sua figlia. 586

Vive in uno stato di non vita, di non ritorno. Questa è una dimensione nuova. È un segno molto forte che dovrebbe dare al senso della storia più vitale nel senso che il suo suicidio non è penosamente sociolo- gico, è un suicidio che ha una grandezza tragica. È anche una forma di ribellione; la posta in gioco è molto più alta del lavoro che svolge e delle aspettative futile dello scrittore. Il suo ambiente, il suo pae- saggio intellettuale è piccolo a confronti della crudezza degli eventi che riguardano Giulia, eventi che rivelano anche un disagio della sua funzione come scrittore e della sua capacità di raccontare il mondo circostante. C’è ovviamente anche una piccola divagazione sul mon- do dello scrittore che potrebbe essere anche un riferimento a quello del cinema. C’è anche da dire che Guido non ha una vera e propria vocazione, non ha compiuto delle scelte. C’è una certa distanza tra la sua vita e quella degli altri, come per Giulia e la vita che ha alle sue spalle. Questa irrisolutezza quasi amletica, di dubitare di sé, delle proprie forze, il criticare il mondo a cui si appartiene e allo stesso tempo il non riuscire a non volere appartenerci. Criticare certi aspetti dell’ambiente ed ottenerne dei vantaggi. Questo rappresenta anche un po’ quello che siamo noi oggi, artisti, intellettuali, incapaci di avere una vera libertà e di sottrarci a delle regole.

Per concludere una domanda sul finale di Giulia non esce la sera, il quale come il finale di Fuori dal mondo, è caratterizzato da un gesto quasi banale, triviale. In Fuori dal mondo c’è Silvio Orlando che scarta un pezzettino di cioccolato mentre qui è Guido che si mette a mangiare dolci con la figlia mentre all’interno si sta celebrando il vincitore del premio. È quasi uno sguardo che trascende la realtà fino ad allora raccontata. È un po’ come in Ultimo tango a Parigi, quando Marlon Brando viene sparato e esce sul balcone e prima di morire attacca il pezzo di chewing gum che aveva in bocca alla ringhiera del balcone. È quasi un annullare la gravità di quello che è appena successo.

Come ben sai a certe scelte non si giunge con una totale consapevo- lezza. La tua annotazione è più chiara di come possa aver io immagi- nato quel finale. A volte si è attratti da una suggestione, da un’idea che rappresenta in quel momento una fuga da ciò che si pone davanti con la prepotenza dell’inevitabile. Come hai detto tu, in Giulia l’evidenza drammatica della sua morte e la conseguente sconfitta sia personale 587 che artistica di Guido è quasi trascesa da questa fuga, che tra l’altro è quasi un atto di libertà, una zona intima, esclusiva. Si volta le spalle alla vicenda principale e trova un habitat suo inattaccabile. Questa parabola di Guido è anche la comprensione di chi è veramente parte della sua vita, cioè la figlia. Giulia è un po’ la prova per essere vicino alla ragazza, per capirla ed esserne quasi conquistato, quasi come se i ruoli si fossero ribaltati e l’adulto fosse la figlia. C’è una condivisione sul piano del possible, quasi triviale, dei dolci. Esiste comunque que- sto tentativo di annullare l’evidenza del tema fondamentale, mi piace.

Roma, maggio 2010 588 589 Intervista con Marco Tullio Giordana su I cento passi a cura di Edward Bowen

Secondo lei, c’è un fascino della mafia in Italia?

Dal punto di vista letterario o cinematografico è indubbio che la mafia – al pari di qualsiasi fenomeno criminale – eserciti una forte sugge- stione di tipo “drammaturgico”. I caratteri dei suoi protagonisti, la loro vita estrema, le crudeltà, i labirinti psicologici – in poche parole: l’eterna lotta del Male contro il Bene – è un buon materiale per il Nar- ratore. Il Narratore però ha il potere di governare questa seduzione, di dominarla. Diverso è quando il fascino del “mafioso”, di chi vive al di sopra delle leggi, contamina gli anelli più fragili della nostra società. Soprattutto nelle aree sottosviluppate del Mezzogiorno – ma questo vale ormai anche per le periferie delle grandi città del Nord – molti giovani senza prospettive e senza lavoro rischiano di trasformarsi in manovalanza per le organizzazioni criminali, le uniche a offrire un “lavoro” e un’identità.

Da Il giorno della civetta al suo film, che cosa è cambiato nella rap- presentazione cinematografica della mafia?

Ogni regista realizza il suo film seguendo le proprie inclinazioni. Il gusto, la sensibilità, la passione, la cultura e, vorrei dire, anche i pro- pri difetti. Mi sembra difficile paragonare tra loro film così diversi. Nati in contesti storici assai differenti, rivolti a un pubblico che nel frattempo è completamente cambiato. Ammiro il film di Damiani, così come ho ammirato molto il romanzo di Sciascia da cui è tratto. Negli anni ’80 proprio Damiani ha realizzato per la televisione La Piovra, un serial sulla mafia siciliana di grande impatto spettacolare. Ebbe un enorme successo non solo in Italia e creò un vero e proprio 590

“genere”. Dopo La Piovra il cinema italiano ha quasi completamente abbandonato questo soggetto, come se di mafia fosse possibile parlare solo nella declinazione popolare e “fiabesca” fattane dalla televisione. I cento passi hanno riportato al cinema questo fenomeno raccontando un aspetto meno conosciuto ed evidente, quello del conflitto famiglia- re e generazionale, del tentativo di emancipazione dalla monocultura mafiosa.

Può parlare del personaggio Anthony nel film? Il suo ritratto ha qual- cosa in comune con gli stereotipi dei mafiosi nei film americani?

Più che i “goodfellas” dei film americani avevo in mente molti sicilia- ni trasferitisi da generazioni negli USA (e non necessariamente tutti mafiosi!) che in estate tornavano in Sicilia a trovare i loro parenti. Insieme a Ninni Bruschetta, l’attore che lo interpreta, abbiamo molto studiato certe inflessioni e contaminazioni linguistiche proprio perché questo personaggio fosse il più realistico possibile.

Come può interpretare il pubblico gli argomenti con cui Don Cesare e Tano sostengono che la mafia porta stabilità e lavoro alla Sicilia?

Sono gli argomenti del buon senso, del luogo comune, della mora- le conformista. Hanno un fondo di verità che potrebbe anche farli prendere per veri. Ma gli spettatori de I cento passi non hanno mai equivocato, non li hanno certo presi per buoni! Si tratta di propa- ganda, di pubblicità. Una “stabilità” fondata sul sopruso, un “lavoro” protetto dall’illegalità, non hanno portato niente di buono ai siciliani. Qualcuno ne avrà approfittato, qualcuno si sarà anche arricchito, ma la maggior parte dei cittadini ne rimane tagliata fuori. Anzi, ne è la vittima. Bisogna infatti sfatare il luogo comune che i siciliani sia- no tutti mafiosi in pectore. I siciliani sono nella grande maggioranza persone per bene, ingannate, vessate, compresse e impoveriti da una minoranza corruttrice, prepotente e odiosa

Qual è il suo giudizio sulla polizia e lo stato in questo film?

All’epoca le forze dell’ordine, soprattutto i Carabinieri, forse con- niventi, forse pensando di cavalcare le divisioni in seno alle fami- glie mafiose, operarono un vero e proprio depistaggio. Orientarono 591 le indagini sull’ipotesi del fallito attentato e addirittura del suicidio anziché su quella macroscopicamente evidente del delitto mafioso. In seguito, anche per la pressione dell’opinione pubblica, la verità si è fatta strada. Per molto tempo il comportamento dello Stato fu ambi- guo: si preferì convivere con la mafia, scendere a patti, addirittura negarla. Questo rende ancor più eroiche le figure di magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, o poliziotti come Nini Cassarà, o giornalisti come Mauro De Mauro, che combat- terono i mafiosi a viso aperto al punto da venir eliminati. Penso che il comportamento dello Stato risenta molto della pressione dell’opi- nione pubblica: se questa è vigile, forte, determinata anche i quadri dell’Amministrazione si sentono più motivati a essere intransigenti. Se invece l’opinione pubblica, i giornali, la televisione, la cultura, sono distratte o addirittura assenti, anche lo Stato si indebolisce. Io ho sempre pensato che in buona sostanza lo Stato siamo noi.

Come sarebbe riuscito a realizzare il film se non avesse trovato il Lo Cascio l’interprete ideale?

Ho incontrato Luigi Lo Cascio una settimana prima delle riprese, già deciso a ritardare l’inizio del film dato che non riuscivo a trovare un protagonista convincente. Luigi mi apparve subito, fin da quando lo vidi venirmi incontro in una sera d’estate a Mondello, come l’in- terprete ideale. Mi colpì l’intelligenza febbrile del suo sguardo, una forte inquietudine che intuivo nascosta nella sua grande affettuosa e spiritosa grazia. Ricordo che dentro di me pensai: «Dio mio, fa’ che sia bravo!». Gli feci un provino e – ormai posso rivelarlo – Luigi fu piuttosto deludente. Non aveva mai fatto cinema, forse era intimidito dalla macchina da presa. Buttai il provino, gli chiesi di tornare. La seconda volta fu strepitoso, come poi l’avreste visto nel film. Per me ora è impossibile immaginare un altro al suo posto, la sua interpre- tazione fu semplicemente straordinaria, superata solo dal lavoro che fece subito dopo ne La meglio gioventù. Considero Luigi Lo Cascio uno dei grandi attori viventi, non solo italiani. La morale è: mai fidarsi dei provini. Fidarsi solo del proprio intuito.

Oltre alla letteratura pasoliniana, lei è stato ispirato anche dal suo cinema? 592

L’influenza di Pasolini è stata per me quella di un Maestro. Le sue poesie, i suoi saggi, i suoi articoli, sono stati per me fronte di vere e proprie illuminazioni. Anche i suoi film naturalmente. Ma quel misto di religiosità e realismo, di senso del sacro, di amore creaturale e, più tardi, di fascinazione del Mito era possibile solo a lui: Pasolini era inimitabile: si possono imitare Fellini, Visconti, Antonioni, Bertoluc- ci… non si può imitare Pasolini! Ritengo che i suoi film mi abbia- no regalato alcune fra le più importanti emozioni della mia vita ma non credo di aver mai cercato di seguirne la “maniera”. Forse solo nell’uso della musica…

Lei sente il bisogno di indagare, capire, e chiarire la storia della sua generazione e la storia dei comunisti in Italia?

Trova che mi occupi molto di comunisti? I comunisti fanno parte del- la nostra storia a pieno titolo e fra loro ci sono state grandi persona- lità, straordinari intellettuali, figure morali integre ed esemplari. Ho ammirazione per queste figure ma considero anche i molti errori, le molte reticenze, le molte lacune, i silenzi, le prudenze, soprattutto sul piano delle libertà individuali. Francamente non mi sento parte della loro storia, vengo da una famiglia di tradizioni liberali e, anche se nutro per la destra italiana lo stesso disprezzo che nutro per le carica- ture, mi considero piuttosto un conservatore. È vero che qualcuno dei personaggi che ho raccontato nei miei film – per esempio Pasolini o Impastato – erano comunisti. Ma erano comunisti eretici, problema- tici, fastidiosi, mal sopportati per la loro indipendenza e per il loro spirito critico. Mi affascinano le personalità in contro-tendenza, gli irregolari. Mi interessa il conflitto fra l’individuo e la morale corrente. In un certo senso potrei dire che i miei film riuotano attorno alla figura araldica di Antigone, l’eroina della tragedia di Sofocle che simboleg- gia la rivolta contro la Legge ingiusta. Nei miei film l’interessa per la storia è la conseguenza della passione e curiosità verso il mio tempo, verso il mondo in cui mi trovo a vivere. Cerco di vedere, cerco di capire.

Può parlare del lato romantico della rivolta del protagonista?

In una scena del film Peppino legge al fratello e alla fidanzata la pagi- na di un libro. Si tratta del Don Quijote di Cervantes, un testo che 593 adoravo leggere da ragazzo. La follia di Quijote, il suo amore total- mente inventato per Dulcinea, la lotta contro i mulini a vento! Mi ha sempre incantato la sua epica grandiosa e ingenua, credo che – insieme all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto – sia stato uno dei personaggi della letteratura che più mi ha fatto sognare. Si vede che ho un debole per i visionari e i folli, per i perdenti sotto ogni cielo. C’è qualcosa di necessario nella follia degli utopisti, nel loro desiderio di cambiare il mondo e di lasciare un segno, qualcosa in cui evidente- mente mi identifico. Non saprei nemmeno io dire perché.

29 agosto 2006

Si ringrazia il regista Marco Tullio Giornata per la sua disponibilità e Angelo R. Turetta per la foto del regista sui tetti di Cinisi. 594 595 Intervista a Mimmo Calopresti a cura di Elisabetta D’Amanda

parte i – Incontro alla “Gagè Produzioni” di Calopresti, 2 giugno 2005

Volevo che mi raccontassi come hai iniziato. L’inquadramento gene- rale della mia tesi è Torino come città laboratorio.

Perfetto. Io sono un laboratorio vivente… Tutta la mia storia è una storia da laboratorio per quanto riguarda il cinema forse per quanto riguarda poi tutte le scelte che faccio nella vita e quello che ho fatto e come ci sono arrivato e forse anche in questo momento continuo ad aver voglia di pensare che il cinema si fa così cioè cercando. Cercan- do le storie, cercando le cose da raccontare anche il legame che c’è tra le persone e la mia vita e la vita delle persone con la loro rappresen- tazione. Un’ idea di ricerca abbastanza e ha dei momenti in cui faccio altre cose però alla fine torno sempre da dove ho cominciato, forse gli inizi sono importanti. Per chiarirti chi sei cosa vuoi…

E come hai iniziato?

Ho iniziato sinceramente con il cinema perché pensavo che fosse il momento di raccontare me stesso e le persone che mi stavano intorno con un’idea molto piccola. Mi è sembrato sempre che sia iniziato così e poi invece oggi rivedendo da lontano mi sembra che sia iniziato molto prima da dove sono nato, in Calabria quando ero bambino, con le immagini che c’avevo allora eccetera e quindi Torino è stato uno dei passaggi di questa voglia di raccontare attraverso il cinema. Il problema è come ci arrivi e il tempo che ci metti a volte…A quel punto lì c’era una situazione di movimento, di trasformazione, 596 di cambiamento delle persone ed io ero inserito in un grande gruppo che elaborava questa possibilità di cambiamento di quello che stava intorno a noi. E per poterlo fare ognuno di noi si è dotato di strumenti. Una delle possibilità era la politica intesa come capacità di lavora- re insieme a tante persone sull’esigenza di sentirsi protagonisti. Al di là dei grandi discorsi, sulla rivoluzione e il cambiamento della società, c’era secondo me una spinta ad essere protagonisti di questa società E io ci provavo con mezzi diversi insieme ad altri in modi che potevano essere diversi: le riunioni politiche, fare dei giornali, occu- parsi di musica, occuparsi di tempo libero. E alla fine è arrivato il cinema per me. Forse come risposta a questi gruppi che avevano un grande problema che era la parola, cioè la possibilità di raccontare e raccontarsi quasi fino allo sfinimento. E invece improvvisamente, dopo una lunga crisi e forse l’impossibilità della parola ad esprimere quello che io ero e che erano gli altri vicino a me, è arrivato il cinema. Ho deciso che era l’immagine la possibilità di rappresentazione e quindi è iniziato un tentativo come dico sempre ‘con i propri mezzi’. Anche questa è una cosa che sta tornando stranamente nella mia vita e sto cercando di trovare la possibilità di raccontare con pochi mezzi, pochi soldi, in modo familiare, con quello che c’è. In modo poco spettacolare e “con ogni mezzo necessario” (citazione di Malcom X) potrebbe essere lo slogan di quel momento delle scelte… e quindi c’era libertà assoluta, quindi un’idea infantile di poter fare quello che mi pareva insieme alle persone che mi piacevano e creare delle possi- bilità di racconto anche minime, anche che non sapevano bene dove andavano, perché erano fatte. Perché c’era un’esigenza del racconto di quello che era intorno a me, che mi sembrava che valesse la pena di raccontare perché era escluso da altri tipi di informazione. Era un momento in cui essere alternativi voleva dire raccontare le persone, le cose, i paesaggi, le condizioni di chi era escluso dall’informazione che era la televisione in quel momento là, i giornali e anche il cinema ufficiale.

Che impatto ha avuto la nascita del video sul tuo modo di lavorare?

Strapositivo perché ha significato la possibilità di lavorare non con quello che il cinema era in quel momento lì: la pellicola, le grandi cineprese, i grandi apparati per potersi esprimere, ma qualcosa di più immediato. 597

Tu hai una preparazione tecnica classica di scuola di cinema?

No, facevo l’università in quel momento lì e non mi sembrava ade- guata alla mia voglia di conoscenza. Come tutte le scuole poi alla fine in realtà servono e sono importanti anche quando le contesti anche se non ti piacciono perché mi ha permesso di guardare in maniera siste- matica il cinema, quindi conosco tutti i film neorealisti italiani, tutta la Nouvelle Vague francese, il cinema indipendente americano e mi ha permesso di sistematizzare quella conoscenza. Però mi sembrava che l’università non mi permettesse di diventare io protagonista di quel mondo lì e mi sono detto “basta università, bisogna lavorare”, cioè basta con la teoria andiamo avanti conla prati- ca. Il video era un mezzo semplice, poco costoso, facilmente usabile, alternativo e devo dire che adesso dopo tutti questi anni mi trovo con un parallelo con il digitale. Negli ultimi due anni ho iniziato a lavora- re in digitale, usando una tecnologia più semplice rispetto alla ripro- duzione dell’immagine e ho ricominciato a fare esattamente quello che facevo all’inizio, dei documentari di racconto della realtà, quello che mi capita tutti i giorni, dei contatti che ho con le persone, produ- cendo molto materiale anche inutile, che poi cerco di sistematizzare col montaggio. Però che mi permette di dire, per esempio, un gruppo di studenti di Roma va a Auschwitz, insieme ai sopravvissuti, insie- me al sindaco della città e mi chiedono se mi piacerebbe andare con loro a documentare questo momento e io lo faccio. Perché mi è molto semplice creare una struttura che mi permette di seguire questo tipo di esperienza e oltretutto vado là e non ho altro da fare che riprendere quello che succede. Poi lo posso montare e adesso quel progetto è diventato anche un film in pellicola che è prodotto per le scuole e cioè diventa grande cinema però alla sua partenza è qualcosa di molto diretto e immediato.

Quindi questa apparente semplicità è un pò una chiave del tuo lavoro in generale?

Si, cerco molte volte nei film che faccio, e non ce la faccio… non mi riesce sempre e forse ci vorrà tempo perché mi riesca, l’idea di arrivare a qualcosa di immediato, di diretto, senza sovrastrutture, di semplice, nel senso migliore del termine. 598

La sensazione che si ha guardando alcuni dei tuoi film è di entrare in punta di piedi nella vita diqualcuno e però entrare anche molto in profondità e di essere molto intimo…

Quest’idea dell’intimismo nasce su due cose. Una quando lavori sulla realtà, quando fai documentari, ti accorgi, mi sono accorto io nel mio lavoro, che immediatamente ti sembra che stai facendo qualcosa di importante perché stai facendo vedere quello che succede, dopo di che ti accorgi che esiste una persona che è più di quello che rappresenti in quel momento, molto di più. E probabilmente, questo molto di più è qualcosa su cui puoi lavorare per esempio con la finzione. E qui nasce quest’idea in cui c’è questo continuo parallelo e incontro tra la realtà e la finzione e la finzione intesa non come la irrealtà ma come una realtà neanche nascosta, ma che è difficile da vedere immediatamente, che le persone hanno. Il molto di più che le persone hanno rispetto alla vita.

Che importanza ha per te l’infanzia e il giovane per te? C’è un ele- mente di mentore e di ‘padre’nel tuo lavoro con questi personaggi giovani. Penso a Preferisco il rumore del mare (2000) e non so se ci lavorerai anche in futuro…

Anche in futuro penso che lavorerò molto su quello. Sto cercando in questo momento di fare un film dove racconto di nuovo di ragazzi che hanno dai sedici ai diciotto anni che è il momento della scoperta. Questo momento che, secondo me, è fondamentale. È il momento del sogno nel senso migliore del termine: di quello che vogliono fare, che vorrebbero fare, che gli sembra che sia possibile fare, e si scontrano con la realtà. E qui c’è quel rapporto tra la realtà e quel di più che sei nella vita. Per esempio in questo momento mi sto occupando di racconta- re una storia di ragazzi che hanno quell’età lì in un paese nel sud dell’Italia oggi, che può essere la Calabria perché ci sono nato io e magari questo mi aiuta, ma potrebbe essere qualsiasi paese del sud del mondo. E in questa storia c’è questo momento in cui puoi ancora permet- terti di sognare, non sei ancora formato, stai pensando a quello che devi fare e lì c’è il momento di scontro tra la realtà e te stesso. E io quel momento lì lo trovo bellissimo, perché è il momento delle deci- sioni della vita, della formazione. 599

Vedo dei paralleli con il lavoro di Amelio con questa sua ricerca nel mondo giovanile e nello scontro di queste realtà con quelli che li circondano.

Li’ c’è una questione fondamentale che è un problema di rapporto con il mondo inteso anche con la politica con quello che ti succede intorno, quello che sta succedendo e che non sai bene cosa sarà, e là dentro c’è la vittoria e la sconfitta delle proprie vite. A quell’età puoi sognare, puoi provarci e puoi anche essere sconfitto da tutto questo. In Preferisco il rumore del mare, in fondo per esempio per me questo ragazzo che alla fine se ne torna da dove era partito e che sta di fronte al mare, di fronte a se stesso, può sembrare una sconfitta perché non è riuscito ad integrarsi, ma invece è una vittoria. Qualche volta i tentativi di integrazione sono tentativi che non ti permettono di esistere e di essere libero mentre scelte che sembrano più difficili, più da sconfitta forse sono una grande vittoria. Lui è molto più forte di quando era partito e conquista se stesso. Mi piace quell’età perché puoi decidere il tuo destino. Anche in letteratura il romanzo di formazione diventa il centro del racconto. Ma poi in fondo l’oggi, secondo me, è sempre un momento di formazione di tutti noi. Anche quando hai 50 anni il tuo oggi è un momento di formazione rispetto a quello che farai tra un anno, tra due anni, tra un pò. Fai delle scelte e non capisci se stai facendo la cosa scelta giusta. Come dice Spike Lee in Fai la cosa giusta (1989), per me è importante. Cerchi di fare la cosa giusta anche se non hai sicurezza, non sai se veramente la stai facendo o no eccetera, ma quel momento di passaggio in cui non hai sicurezze, non hai certezze, non sai bene quello che ti succederà è fondamentale. Indubbiamente è compito di una società di creare dei paracadute per non farti male se sbagli e anzi compito di tutti, di una comunità di impedire che quel momento diventi troppo rischioso quando fai delle scelte. Quindi è un momento fondamentale. E questo discorso che tu fai di quell’età per me va ancora più lon- tano. Prima ti dicevo che le cose tornano sempre. In questo momento mi sto accorgendo che le scelte che facevo che mi sembravano legate a un periodo della mia vita, che erano gli anni ’70, ma in realtà nasco- no da più lontano, nasce dalla mia infanzia. 600

Scusa se apro una parentesi sul cambiamento tecnologico nel mon- taggio, cosa pensi del montaggio classico non digitale? E più in generale dell’aspetto artigianale del cinema?

Ho avuto la fortuna di lavorare ancora in un film in cui si faceva anco- ra il montaggio classico. Dove c’è l’idea del taglio “fisico”. Penso che ancora oggi il cinema abbia la sua forza in questo modo di lavorare, che comunque è ancora simile ad una bottega, può essere una grande bottega come Spielberg che c’ha la “Dreamworks” che è una enorme bottega però l’idea di come si fa cinema penso che sia rimasta uguale e mi sto convincendo in questo periodo di ‘grande crisi’ del cinema, in cui leggiamo che la gente va meno al cinema e che la televisione vince, che invece di quel modo di raccontare lì non se ne farà mai a meno.

C’è questa retorica della crisi del cinema, tu ci credi?

No, puoi avere difficoltà. In questi anni mi sono accorto che all’idea di cinema per ragioni diverse si è cercato di sostituire sempre delle risposte. In questi anni ha vinto – e poi comincia a perdere e quella in realtà la crisi – ha vinto una specie di ingegneria produttiva, come l’ingegneria finan- ziaria. Per dieci anni abbiamo creduto o si è fatto credere che c’era la possibilità di creare una struttura finanziaria che risolveva i problemi economici delle persone, diventavamo tutti ricchi perché c’era uno scienziato dell’economia che ce l’avrebbe permesso. E non è avvenu- ta questa cosa e tutti i paesi sono in crisi, c’hanno paura della Cina… Con il cinema è successa la stessa cosa, invece di pensare al prodotto, a quello che si racconta, come si racconta, che tipo di prodotto stiamo facendo, si è ricominciato a pensare che arrivassero i maghi della pro- duzione che mettevano in piedi dei meccanismi sicuri di produzione e il risultato è che non è vero. E tutti quelli che hanno fatto questo sono più in crisi di prima.

E questo non credi che porti anche grande mediocrità?

No, porta al fatto che non sono gli ingegneri produttivi a risolvere la situazione. 601

E che forse anche nel panorama italiano non esista l’industria cinema?

Perché non ha il coraggio di fare quello che ogni industria sana dovreb- be fare e che è quello di investire sulla creatività. Allora nel cinema se uno vuole occuparsi di cinema, uno deve occuparsi di questa cosa stra- na, una variabile che non è scientifica che è la creatività. C’è una parte degli esseri umani che non è scientificamente provata o vista. Se io vado sul set, il mio lavoro è creare qualcosa di non imme- diatamente visibile che è un’emozione. Quest’emozione non è una merce o meglio lo è anche, ma è come la realizzi industrialmente è il difficile. L’onestà sta però nel fatto di dire che le persone pagano le tasse per avere una situazione di vita migliore e il cinema come la letteratura è una componente anche questa nella sua realizzazione ed è necessario investire su una cosa che si chiama creatività. Non è una macchina…

Dopo la tua esperienza di collaborazione con Spielberg per il pro- getto sulla Shoah di Volevo solo vivere (2006), che differenza vedi tra qui e gli Stati Uniti, per quanto riguarda la macchina produttiva americana?

La macchina produttiva americana è enorme. La differenza in quel paese lì il cinema è una parte grossa del fatturato nazionale e deve andare bene per forza. C’è rispetto, e anche se ha all’interno dei pro- blemi grossi. Per esempio mi viene in mente Spielberg che riesce a fare una cosa difficile e vale a dire che la propria merce è una buona merce e riesce a stare all’interno del sistema senza grandi compro- messi. È una buona merce, per tutti, di gran mercato in cui trovi: etica, morale, capacità, maestria. Sono una serie di caratteristiche che la rendono una buona merce e questa cosa qui è importante perché, ven- diamo del buon cibo o del cattivo cibo, vendiamo del cibo in scatola o del cibo naturale? Spielberg è capace di vendere buon cibo e il suo cinema è di grandissima qualità anche se è inserito in un meccanismo industriale difficile e potente, difficile.

E qui perché non succede?

Intanto perché siamo un piccolo paese. Siamo un paese piccolo e bisogna avere il coraggio di dircelo. Poi siamo un paese che ha diffi- 602 coltà a trasformarsi e a volte anche per delle cose positive. Ha paura di quello che succederà, per esempio il cambiamento delle famiglie. La società americana è molto più mobile nel concetto della famiglia. Qui c’è ancora quest’idea di difesa della famiglia in quel modo lì, l’impossibilità di concepire la possibilità di avere rapporti familiari felici e sereni anche in una mobilità; invece qui c’è sempre l’ango- scia, la paura che la mobilità ti porti via gli affetti. Poi siamo anche paese piccolo geograficamente, ma credo che la difficoltà più grande che abbiamo sia nella trasformazione e nei cambiamenti. C’è poca voglia di futuro, di reale trasformazione e di non avere paura. È un paese che ha paura.

Ti sembra che i grandi fenomeni del cinema italiano, con la completa assenza delle macchina cinema per esempio alla fine della guerra, stiano a significare qualcosa nella nostra storia?

Sì. Tutte le volte sono saltati i meccanismi di controllo produttivo in Italia penso che si sia realizzato il meglio.

Quindi mentre in America l’organizzazione può aiutare, qui invece la mancanza di mezzi sembra che porti fuori il meglio…

Nell’industria americana c’è la possibilità della sperimentazione, del- la ricerca, nel cinema mentre in un paese come il nostro tutto questo è messo da parte. Manca la ricerca e questa come te la costruisci? Te la costruisci quando non ci sono grandi possibilità, ti arrangi come puoi e sei costretto a ricercare.

Il tuo anarchismo di fondo rispetto alla macchina produttiva e il voler tornare alla mancanza di mezzi ha anche un rapporto con questo sce- nario italiano?

Sai, prima parlavamo della “crisi”…quando penso alla “crisi” penso sempre ad una stanza dove ci sono tutti quelli che fanno il cinema che sono lì ad arrovellarsi su come fare ad uscirne, cosa raccontare, come. Sono lì tutti i produttori, i finanziatori mentre fuori sta succe- dendo qualsiasi altra cosa e loro non se ne accorgono e un giorno la porta di quella stanza verrà sfondata da qualcun’altro che fuori men- tre c’è la tempesta si sta organizzando per sopravvivere e arriverà e 603 sfonderà. Sarà un ragazzino con una piccola camera che sta facendo il film più bello, più importante che tutti vogliamo vedere. E arriverà in quella stanza e ci spazzerà via… ed è la novità di cui tutti abbia- mo paura. Dobbiamo decidere se stare dentro la stanza a difendere il nostro potere o stare fuori e partecipare nel cambiamento. Siamo in una situazione in cui non riusciamo a vedere quello che dobbiamo raccontare e questa è la cosa più grave, abbiamo paura perché i nume- ri non tornano, perché i mezzi non tornano. Leggevo sul giornale una proposta semplice del regista Sodenber- gh «voglio essere libero di fare un film che esce contemporaneamente su tutti i mezzi possibili: internet, dvd, pay tv, con un pubblico che sceglie qual è il suo mezzo per guardare il mio film». È un modo di rompere un meccanismo che è forte perché ha poteri economici da assecondare. Chi gestisce la sala ha paura che le persone vadano in edicola a comprarsi il film. Quelli delle pay tv dicono, bisogna distri- buire alla pay tv subito prima della distribuzione in edicola. Io dico facciamo una cosa più interessante: lasciamo che il pubblico scelga e non glielo imponiamo noi. Se un ragazzo va su internet e pirata un film e fa un atto grave per il mercato, per noi autori però forse in questo atto grave c’è un fatto positivo. Molti miei film sono arrivati più lontani di quello che sarebbero potuti arrivare sul mercato grazie al fatto che ci sono i pirati, non li voglio difendere ma dobbiamo fare attenzione…

Questo mi fa pensare anche che noi non sentiamo la musica che sento- no i ragazzi giovani, anche le radio alternative non propongono vera- mente quello che sta succedendo sulla scena musicale e i ragazzi san- no quello che sta succedendo perché conoscono la scena direttamente mentre noi non lo sappiamo perché siamo usciti da quel gruppo…

Questo discorso che fai tu che a me sembra interessante mi riporta ad un’intuizione che ho sempre avuto che alla fine il problema sta nel fatto che è vero che esiste un sistema, ma esiste sempre un individuo che deve permettersi e che può e che sarà capace di cambiarlo quel sistema, trasformarlo e affermare quello che è. E quindi è compito nostro di fare delle cose belle, di fare delle cose che ci piacciono e di fare arrivare agli altri la nostra idea di bellezza e vedere l’idea di bellezza negli altri, recepirla e rimandargliela. Perché noi come artisti abbiamo un carico di responsibilità che è quello di occuparci della bellezza, dei sentimenti, della difficoltà 604 degli uomini di esistere, dell’eternità, del sistema politico che non funziona. Abbiamo quel ruolo lì e quel ruolo ce lo dobbiamo prendere al di là del sistema che abbiamo intorno in un dato momento. Credo molto in quell’idea anarchica di cui parlavi tu. In questo momento io l’estremizzo. Dobbiamo avere un’azione anarchica indi- viduale neanche più collettiva.

Credo che gli educatori, di cui faccio parte io, abbiano una gros- sa responsabilità etica verso i giovani con cui lavorano di creare speranza, proteggere i loro sogni e di ciò che uno si porta dentro e la possibilità di cambiamento. A maggior ragione credo che questa responsabilità ce l’abbiano gli artisti…

Negli ultimi anni sono andato all’università per dei corsi di cinema e questi ragazzi mi fanno incavolare perché li trovo svaccati, non hanno neanche fisicamente la voglia di affrontare il cinema. Questo per me è anche combattimento, conquistare le cose che vuoi vedere, conqui- stare le cose che vuoi fare vedere agli altri. La mia idea di fare cinema è iniziata così e mi piacerebbe vederlo anche in altri questo tipo di atteggiamento. E questa cosa l’ho vista negli Stati Uniti mentre ero alla New York University dove ho visto dei ragazzi che erano pronti ad andare in guerra per fare un film. Quasi esagerati, ma hanno una tensione per quell’obbietivo che è altissima e un pochino mi aveva dato quasi fasti- dio ma poi ho visto gli studenti italiani e ho notato che hanno l’atteg- giamento esattamente contrario, nessuna idea di combattere, di scon- trarsi, di confrontarsi con quello che sta succedendo nella tua vita e ho pensato che probabilmente quello è il problema della loro vita quello. Se serve a qualcosa che io vada lì è a capire cos’è la spinta, aiutare a farla venir fuori, crescere e comunque confrontarla con la mia. È la cosa che va più salvaguardata dell’idea di cinema, che poi è la salvezza del cinema. Ma non partono da quella cosa lì. C’è un’idea che il cinema è fascino, tutti sono affascinati dall’idea a diventare delle star, dei grandi registi, perché c’è l’idea di un mondo che non esiste, che non è reale, noi non siamo reali per il pubblico siamo quel- lo che loro immaginano e come vorrebbero essere nella loro vita… Quest’idea non realista, non praticabile, dobbiamo salvaguardarla. C’è il rischio di diventare un po’ snob quando si fa cinema. Ma dob- biamo salvaguardare quell’idea, per tornare indietro quindi a perché 605 racconto i ragazzi di 16 anni. E per tornare a quel momento lì, il momento del sogno, c’è un’idea nelle persone che nel cinema si pos- sono realizzare i sogni. Quell’idea lì costi quel che costi dobbiamo salvarla perché è il cinema perché penso che il sogno faccia parte completamente della vita degli uomini. E probabilmente io comincio a fare cinema quando sto a sei anni in un paesino della Calabria e vado al cinema con altri bambini a vedere i western. Noi con pochi soldini potevamo avere un gelato, una sala e questo momento di buttarsi nell’avventura per un’ora e mezza e ho quest’immagine nella testa e il cinema rimane quello: il sogno, l’avventura che mi era possibile fare da piccolo mentre oggi guardo ad un bambino di sei anni e mi accorgo che non posso neanche immaginare che vada al cinema da solo, oggi un bambino di sei anni non va al cinema da solo. Mi ritengo una persona fortunata, quando penso ai bambini oggi che non hanno questa possibilità diretta di stare a contatto con i propri sogni e capisco poi perché i miti diventano altri poi nella vita.

Allora non c’era la televisione, non c’era il computer, altri mezzi…

Sì allora il cinema era l’unica possibilità forse…di qualcosa di diver- so, di completamente diverso. Era un’invenzione. Qualcuno mi dice- va in questi giorni oggi un bambino di sei anni forse va su internet e sta lì da solo e fa lì l’avventura che io facevo il sabato e la domenica da bambino.

Però mi spaventa un pò la mancanza di socializzazione che vedo in questo. Il computer mi sta bene ma mi preoccupa l’isolamento.

Facendo cinema è uno dei problemi che mi sono posto…per molto tempo i critici mi dicevano “racconti la solitudine” ma io la racconto in un modo positivo. Oggi ci sono troppe cose di massa, di gruppo, di categorie. E quasi sempre sono categorie commerciali. Molte forme di solitudine anche l’incomunicabilità a volte sono una fortuna. Per fortuna a volte non puoi comunicare con gli altri e ti puoi preoccupa- re di te stesso e di quello che stai facendo, comunicare solo con tuo figlio e la tua famiglia. Vedo tutte queste cose qui non come denunce ma come possibilità, non si comunica, meno male, e quindi cerco di comunicare almeno con me stesso, purché non diventi patologico. 606

Tornando al cinema laboratorio, un film è sempre un laboratorio, dove si cerca di scoprire delle cose. Delle volte ci sono degli autori che lavorano sull’estremo. A volte quello può esser usato in positivo. L’intolleranza, La violenza, il terrore ma a volte questa cosa qui fun- ziona in positiva. L’etica è questa: si lavora per delle cose positive – magari usando anche strumenti violenti. Io non lo faccio. Per creare una scena vio- lenta ci penso, non l’ho ancora fatta, nei miei film ci sono solo dei piccoli gesti che trovo violenti. Una scena di violenza gratuita forse non la farò mai. Ma in alcuni film vedo la violenza usata in maniera positiva per entrare in comunicazione con me come spettatore. Il mio cinema è un cinema che vorrei rimanesse nell’ambito di un cinema etico, non politico ma etico. Vorrei che dentro alla libertà di racconto ci sia qualcosa di positivo nel rapporto con gli altri che hanno modi diversi di essere e di raccontarsi che non sono i miei e che posso anche non accettare Mi ci metto nello scontro però ho il rispetto di sapere che la mia idea non è l’unica. Per me dovrebbe essere la politica, l’arte di mettere insieme le diversità. Per esempio vorrei più giustizia, vorrei che le persone che hanno livelli sociali diversi pos- sano stare insieme dignitosamente. Non è la mia responsabilità come artista. La mia responsabilità come artista è quella per esempio di scegliere di raccontare i più poveri di questa società. Passo per strada e mentre me ne passo tranquillo per andare a dormire a casa mia, mi accorgo che qualcuno dorme fuori. Quell’immagine la voglio ripro- durre per fare il mio mestiere bene. Sta ai politici occuparsi del fatto che quella persona, che io racconterò, ha voglia di avere una casa e può averla. Io non posso che raccontare quello che vedo.

Ti chiami fuori dalla politica quindi? Perché stai creando una sala multimediale a Roma e sei coinvolto con operazioni non strettamente di cinema allora?

Mi piace l’idea che esiste un posto nella città dove è possibile rac- contare questa città. Raccontiamo Roma, ci vuole tanta gente che lo possa fare, allora vorrei creare un posto dove ci sia un racconto della città e un posto dove oltre ad avere immagini della città e della sua storia che si possono studiare e rivedere, una persona anche può rac- contare la propria storia. 607

Un bel progetto, a proposito di socializzazione.

Lo facciamo in un quartiere che si chiama Tiburtino terzo che non è più periferia, ma lo era fino a poco tempo fa. La periferia e il centro non sono più come erano prima. Il centro storico non è più il centro. La gente vive e studia in altre zone dove ci sono anche le università ora e si sono creati poli diversi e modi di vivere diversi.

Volevo tornare solo un momento a Torino, perché non abbiamo poi finito di parlare della città laboratorio.

Per quanto mi riguarda è stata un laboratorio. A Torino mi sono abi- tuato a mettere insieme tante cose diverse. Torino è la città della Fiat che era il centro industriale del paese, ma era anche il centro della lotta contro la Fiat. Era la città dei nuovi immigrati, ma la città anche della grande aristocrazia borghese, l’elitè. Il posto dove c’è la ciocco- lata più buona del mondo e ci sono stati i primi quartieri dormitorio in centro di fianco ai caffè del cioccolato. E tutto questo si trasforma poi anche nell’arte. C’erano centri di aggregazione giovanili capaci di produrre musica, teatro alternativo insieme al posto dov’è nato il cinema. E non è un caso che la città dove è nato il “Festival Cinema Giovani” più alternativo del mondo. Questo stare tra potere e contro- potere, per definirlo facilmente, crea il laboratorio. Noi stavamo con il contropotere però devo dirti che dall’altra parte c’è stato il dialogo e il confronto/scontro. Torino ha avuto l’avvocato Agnelli come suo principe supremo per molti anni che alla fine si vantava di incontrare gli artisti, di amare il cinema, con un’immagine che comprendeva la parte che gli era avversa che lui aveva creato. E secondo me questa componente di Torino è molto interessante, il fatto che ci può stare il potere e il contropotere. Torino io l’ho raccontata nei miei film sia dalla parte che ha subito sia dalla parte che ha comandato. Ho rac- contato la borghesia con voglia perché in quel mondo diverso da me, c’è l’idea della bellezza di cui dobbiamo appropriarcene tutti. Valori che stanno a volte dove tu non sei e te li devi conquistare. Una certa borghesia torinese mi piace nelle cose che fa, ha un’idea morale del lavoro. C’è voglia di cose serie. In questi giorni che mi sto occupando di Pasolini, lui diceva che l’unificazione peggiore che c’è stata in Italia è l’unificazione lingui- stica. Quella data dalla televisione. L’unità dell’Italia non si è mai fatta sui grandi valori. L’Italia l’ha unita la lingua e la televisione. 608

Il cinema italiano è un cinema che è capace a raccontare le comunità. Lo ha fatto anche il grande cinema americano. Mettere insieme la politica nel senso alto del termine e raccontare la storia di una persona e se la storia di quella persona per qualche motivo diventa la storia di tutti, anche se sei diverso da quella persona, il cinema arriva al mas- simo della sua magia. Il grande cinema iraniano in questo momento riesce a fare questo. Sono mussulmani, hanno il problema dello scontro con il nuovo e il moderno e anche se la storia è ambientata in un piccolo paese al confine con l’Afghanistan, parla del problema del mondo. Ti accorgi che il racconto di un villaggio, del rapporto di un padre tradizionalista che non fa uscire la figlia – questo film si chiamaLa pomme- raccon- tando questa storia piccola, racconta il mondo e lo scontro che c’è nel mondo ora. Il padre che non fa uscire la figlia, in realtà è il vero prigioniero. L’idea è bella perché in quel film si racconta il mondo e cinema così diventa anche commerciale. L’immagine di un burka non ha bisogno di molte parole. Il cinema ha la potenza delle immagini e quindi è uno dei mezzi di compren- sione della realtà. Per esempio, lavorando sul progetto della Shoah e vedendo come per le persone coinvolte nel progetto e considerano questo è il lavoro più importante della loro vita ho capito che queste persone stanno molto attente e sanno che i film continueranno ad esi- stere e quindi a comunicare. Quando ho fatto Dov’è Auschwitz (2005), ho deciso di non usare immagini di repertorio perché a volte quelle immagini ti allontanano il momento storico invece di tenertelo presente. Ero ad Auschwitz con persone che in quel posto ci sono state e che lo stavano raccontan- do ad altri. Ho capito che o c’erano loro che erano capaci di farlo rivi- vere o non c’era immagine capace di farlo al posto loro. L’immagine dipende molto da come la usi e come ci lavori sopra. Per l’immagine storica bisogna essere capaci di capire qual è quella veritiera.

Allora, perché il documentario?

Perché c’è un’esigenza del racconto della realtà, ma allo stesso tempo questa ti dice che ce n’è un’altra realtà, spostata che si chiama fin- zione, che però sono due parti che stanno insieme e che non possono stare l’una senza l’altra. 609

Parlando di documentario, c’è gente che parte dal documentario e va al cinema e c’è chi sta sempre con il documentario, in genere. Tu invece li vivi come mondi paralleli.

Paralleli e che si integrano. Semplifico con una frase, “è la possibilità di raccontare ‘la terra e il cielo’. Di metterli insieme. Qualche volta non ce la fa da solo il documentario o la finzione. Il film ideale è quello che riesce a fare questo: raccontare il paesaggio interiore ed esteriore delle persone. Non importa che sia un documentario o finzione. Sono due strumenti diversi per poterlo fare. Mi sembra che però uno non abbia risolto l’altro. Per esempio, a volte nei film io uso attori e non attori perché penso che mischiare questi mondi faccia bene a tutti.

A proposito di attori, perché l’attore Calopresti?

Per questa ragione, perché a volte puoi essere tu direttamente a descri- vere quello che c’è da raccontare senza mediazioni. E di stare con il cinema in tutte le sue espressioni. Pensa ad uno come Orson Welles che ha fatto tutto nel cinema e che ha anche perso. Il cinema è un mon- do con cui ci si esprime in molti modi. Io devo stare dentro a quello che sta facendo e allora penso che devo avere il coraggio di starci fino in fondo, fino alla fine. E non è detto che chi non lo fa, sta sbagliando.

Per te non è come l’alter ego Morettiano?

No, mi piacciono gli attori che recitano. E interpreto ruoli che stanno vicino a quello che sono io.

parte ii – Incontro al parco di Colle Oppio con Mimmo Calopresti, 9 giugno 2007

Mi hai detto recentemente che stai creando una scuola di documen- tario. Perché?

Intanto la faccio a Napoli proprio perché è un atto politico e perché si fa a Bagnoli dove c’era la vecchia acciaieria e ora Bagnoli e un posto di trasformazione dove non c’è più la vecchia fabbrica ma ci sono 610 solo le ciminiere e non è ancora il nuovo posto che diventerà, ma è in questa fase di mezzo e c’è questa cosa che si chiama la “Città della scienza” dove c’è una specie di rappresentazione della tecnologia e questo posto è quasi sinonimo di un documentario. E mi piace questa idea, Bagnoli è un posto giusto per fare la scuola per i contenuti. Sai poi creare una scuola è difficile perché non è che esista la ‘scienza del documentario’ però forse se crei un luogo dove ti occupi di quello forse nel giro di qualche anno ci riesci. Perché poi a Napoli il fatto che arrivi qualcuno che dica “si può fare” è già un atto politico.

A proposito di partire dal sud, quando stavo guardando e analizzando Preferisco il rumore del mare (2000) mi è sembrato che tu abbia fatto una decostruzione del libro Cuore (1868) come romanzo di forma- zione, di cui abbiamo parlato l’ultima volta, ma che tu abbia anche voluto dare un segnale della necessità di ricominciare a costruire l’Italia dal sud.

Abbastanza, abbastanza! Tu sai che ho finito in questi giorni que- sto film e che uscirà ad ottobre e che si chiama L’abbuffata (2007). Costruito al sud con un breve viaggio di quattro ragazzi del sud che vanno a Roma per trovare un grande attore per il loro film, che non trovano, e poi tornano al sud. E poi arriva il grande attore, Gerard Depardieu… Ma a parte la trama, c’è una scelta forte – con questo film, con la scuola di Bagnoli e il film che inizierò a girare a Napoli tra qualche mese – di lavorare al sud. Mi piace il sud, mi sento un uomo del sud – ho riconquistato l’essere del sud – e mi chiedo perché e forse perché il sud ha una speranza in più. Sembra devastato ma c’è ancora qualcosa di incompiuto, che forse ci permette di fare qualcosa di nuovo e di interessante e c’è spazio di trasformazione.

E questa tesi mi sembra che ci sia questa tesi anche in Amelio e cioè non esista un’identità giovanile del mezzogiorno e che proprio per questo motivo andiamo a crearla.

Certo. Anche rompendo tutti i luoghi comuni del sud. Per esempio, se tu guardi per esempio ai ragazzi del mio film, sono completamente fuori dai canoni abituali di rappresentazione giovanile del sud. Non parlano in dialetto, non hanno la fisicità tipica. Una delle ragazze è bionda anzi è di origine russa. 611

Comunque non ho mai una tesi forte, non ho bisogno di costringere il film in una tesi. Costruisco una struttura e poi in qualche modo mi lascio andare senza sapere se questa struttura senza sapere se vada bene oppure no. Metto degli ingredienti, dico sempre che il cinema è vicino alla cucina, per esempio puoi provare a fare un soufflè e poi ti va giù… capita, c’è questa cosa della casualità. Non costringo il cinema alla mia tesi ma neanche come nel cinema hollywoodiano, dove se scrivi la sceneggiatura giusta poi il film funziona. Credo in un film libero, non perché si permette di dire una tesi azzardata, ma libero perché non ha un rapporto di costrizione con il mezzo. È a metà tra il tuo modo di pensare e il linguaggio. Perché quel mondo lì secondo me è proprio la differenza tra il mondo creativo e quello non creativo. C’è un mondo che fa cinema in modo non creativo e in maniera egregia, senza essere critico, e poi c’è un’altra parte che tende alla creatività senza controllo. Per esempio, ora qui potremmo descrive il posto dove siamo in molti modi, per posizione geografica o storica, ma invece a me potrebbe interessare il fatto che vedo te che stai al sole e che ci stai bene e questo e meraviglioso e basta. E magari un documentarista te lo racconterebbe in un modo diverso…

Però penso che la tua documentaristica informi molto il tuo cine- ma di finzione. E penso che il tuo lavoro migliore sia proprio dove quest’informazione è stata più profonda e più sentita proprio come in Preferisco il rumore del mare e i documentari sulla Fiat. E ora sento che lavori ancora sul sud da cui sei partito anche nel tuo racconto documentario.

Assolutamente. Per esempio in quest’ultimo film dove ci metto il cinema, ma inteso come vita. Loro vogliono fare il cinema che è il loro sogno e che i sogni si possono realizzare. Chiunque può farlo. E in questo film che è, se vuoi, il più finto di tutto perché è una com- media, con Diego Abatantuono e Nino Frassica per cui attori classici della commedia, ma c’è molta gente del posto mischiata e gli attori sono truccati per essere più vicini alla popolazione locale. E ho anche cercato di mischiare e la terra e il mare che si incontrano e rappresen- tano un pò la mia ossessione tra la realtà e la finzione. E se poi ci pensi bene, quasi tutti i documentari hanno bisogno di un pò di finzione. Mentre il realismo qualche volta è più forte nei film. 612

A questo proposito, l’ultima volta che abbiamo parlato del tuo cine- ma mi dicevi che ti interessa ‘quel di più’ che le persone hanno. E questo mi sembra “larger than life” come dicono gli americani. E se tu riesci a cogliere questo, il risultato è sempre “più grande della vita” stessa.

Per esempio in questo film faccio molte citazioni di Fellini, senza molte pretese, invece quando io vedevo Fellini da ragazzo non lo capivo, ma invece la costruzione quasi finta di questo mondo fanta- stico è quello che ha un senso. Io sogno e ricompro il sogno. Il sogno è qualcosa che non controlliamo completamente però quella cosa lì quando si realizza, il sogno diventa realtà. Domina le nostre vite e il cinema ha quella possibilità. Per esempio oggi si criticano anche le realtà virtuali come “Second Life” ma in fondo non sono così virtuali. In fondo è sempre stato così. C’è un bisogno di avere una parte del- la nostra vita non concreta e segreta. Per esempio, sognare ad occhi aperti, io ho sognato di essere un condottiero, se invece si formalizza con il computer o con il cinema non c’è differenza e puoi raccontare una parte che non vedi tutti i giorni.

E rispetto all’inseguimento della realtà del neorealismo come ti poni?

Ieri sera parlavo proprio di questo. Mi chiedevano qual è il mio regi- sta preferito e io dico sempre Rossellini…il neorealismo così oggi forse non esiste. Esistono i registi con i loro film: De Sica, Rossellini, eccetera che è forse più interessante. Se pensi a Rossellini che passa da raccontare Roma città aperta (1945), la città e quello che era suc- cesso quasi subito, quasi una cronaca diretta al cinema, e poi su quella stessa nozione crea Germania anno zero (1948) che è un’altra cosa e va a Berlino dove ci sono ancora le macerie e racconta il nemico. È qualcosa di intimissimo e doloroso che quasi tradisce il neorealismo. Era una realtà così forte che avevano intorno loro e comunque alla fine diventa qualcos’altro e che si svilupperà nel suo lavoro in seguito. Non mi piace parlarne del neorealismo come un’idea fissa. È vero in Rossellini c’era una capacità di farsi da parte rispetto alla realtà come regista. La Magnani sembra una che passi per strada. È bello di non avere bisogno non esistere come regista, con la tua manipola- zione. E la manipolazione è quell’allontanarsi e lasciare che la realtà si esprima. 613

De Sica invece è molto più manipolativo.

Sì ma lo fa con sentimento. De Sica in Ladri di biciclette (1948) col- pisce di più, ma non è quello che sembra. Se io guardo il film dal punto di vista del figlio che attraversa la città a piedi, che è il protet- tore di questo padre, diventa un altro film. È il padre che è fragile e il bambino è molto forte. De Sica è un uomo di grandi sentimenti. Per questo mi piace. Il mio film preferito di De Sica è Umberto D. (1952) è molto raf- finato soprattutto nel finale. Con Rossellini c’è una differenza che è lui era geniale. Era un pigro e ha ottenuto quello che voleva con gran intelligenza…

A proposito di De Sica, lui ha recitato come maestro del libro nel film Cuore (1947) interpretando la parte del socialista paternalista e mi diverte il fatto che lui interpreti questo ruolo che in fondo lo rappre- senta anche come intellettuale del cinema.

Il libro Cuore quando l’ho letto da ragazzino mi ha affascinato per la purezza dei sentimenti anche se paternalista e populista.

Ma credo che la critica che fai tu al testo sia proprio la spinta pater- nalistica che ha “le buone intenzioni” ma non provoca una trasfor- mazione reale.

Sì ma c’è un qualcosa del discorso del cinema. Facendo il racconto di vite individuali, ti puoi permettere di non fare giudizi troppo grandi, non di gruppo. E quindi di aderire a delle cose piccole, come dire il sentimento di dignità. Il cinema ha quella bellezza lì, può raccontare nei dettagli, rispetto alla grande storia, delle periferie della storia.

Sempre parlando di Preferisco una curiosità era il nome Rosario nel film che è il nome di una città in Sud America in Cuore che vede un ragazzino andare alla ricerca della madre partendo da Genova, pro- prio come Rosario partendo dalla Calabria cerca la madre anche lui ma ovviamente non la può trovare ma ritrova il femminile. M’interes- sava la negazione del femminile e il fatto che fosse un film maschile, dove l’uccisione di Miriam è l’atto sacrificale che esprime l’apoteosi della negazione del femminile. 614

È un film maschile. Anche per autocriticare. Perché gli uomini a pro- posito del tema dell’amore e i sentimenti non sono spesso rappre- sentati. Che poi è costruito per contrasti Rosario non parla, ma vive i sentimenti. Tutti hanno il terrore di fare film di quel genere e quindi per me è un pò una sfida.

E a proposito di sfida La parole amore esiste (1998) va nella stes- sa direzione, anche se urlata e si esprime in modo completamente opposto.

Ci sono talmente tante contraddizioni nelle persone che si possono raccontare dei pezzi però comunque non hai soluzioni. Nessuno di noi ha in mano la soluzione alle nostre vite e mi piace molto. E quindi parlare d’amore è importante ma non è più importante della mia storia d’amore. In questo senso “la parola amore esiste” perché ognuno di noi può fare grandi discorsi ma in fondo il nostro modo di amare è importante. E se c’è una che lo fa tutti i giorni in maniera ossessiva, lasciamoglielo fare. Smitizzare la nostra capacità di controllo sulla vita, sulle nostre vite e su quelle degli altri. E questo è uno dei motivi per cui mi piace molto Rossellini. Perché non prende tutto sul serio ma anche con l’impotenza.

E nella Felicità non costa niente (2003) che approccio hai preso?

Esattamente lo stesso de La parola amore esiste. Ma la versione maschile. Un discorso sulla responsabilità e la vita. Ti devi prendere la responsabilità della tua vita e avere il coraggio di farlo. Anche se può essere doloroso e difficile ma devi farlo. E quello è un percorso alla ricerca di questa responsabilità della vita.

Interpreti l’ultimo filmL’Abbuffata ?

In modo marginale, come ne La parole amore esiste, qui faccio l’atto- rucolo che involontariamente aiuta i ragazzi del film.

E il prossimo di cosa parlerà?

Il prossimo l’ho iniziato appena a scrivere – ed è un po’ l’opposto de L’Abbuffata dove esiste la speranza – ma parla di ragazzi del sud di 615

Napoli che vivono una vita disgraziata e il loro mito è la malavita e la brutalità che vivono tutti i giorni. Voglio raccontare queste vite che come falene vanno suicide verso la luce. Lo fanno quasi volontaria- mente. Un sogno che sai che è destinato ad essere tragico. È legata alla storia di due amici di gang di Napoli che è tratta da un caso di cronaca, ma completamente rielaborata nella finzione.

E lavorerai con i ragazzi di Bagnoli su questo progetto?

Sì li farò venire. E forse a loro servirà. Per loro potrebbe esser più formativo di altri ambiti. Soprattutto la preparazione di un film che è molto più importante del set con il suo immaginario mitico. Ci sono aiuto regista che sono bravissimi tecnicamente ma non capiscono nul- la di cinema. Molte persone non sanno che cos’è. Si impara molto di più dal vedere un regista che lavora in preparazione ad un film e visita le zone dove farà le riprese e intanto parla con le persone del luogo che non stando sul set. Per altro ho una grande etica del lavoro. È un’etica torinese a cui sono molto affezionato. I miei ragazzi mi prendono in giro perché dico sempre “lavorare, lavorare, lavorare” Questa etica mi ha dato dei risultati. Magari sono disordinato però c’è un lavorio continuo.

L’ultima domanda che ti volevo fare è il lavoro di documentarismo sull’Olocausto. Che direzione sta prendendo quella?

Sto facendo tutto un lavoro sul genocidio e sto creando una fondazione sul genocidio. Per esempio lavoreremo sul Darfour. Per esempio ho scoperto che i vari politici e diplomatici si scontrano sulla definizione di genocidio in Darfour. Ed è clamoroso, lo scontro tra la parte musul- mana e cristiana, e Colin Powell lo ha trasformato in un conflitto etni- co-religioso e forse non lo è. In Europa si dice non genocidio perché ci sono solo 200.000 morti… e passano le giornate intere a occuparsi di definire il genocidio da due anni invece di intervenire ed è pazzesco. Mi sono accorto occupandomi di questo tema, che il linguaggio della politica non è assolutamente adeguato alla vita delle persone e a quello che gli succede anche di grave. È assurdo e mi ferisce, avendo creduto alla politica come possibilità di trasformazione, che la discussione si sposti su cose tecniche ma il problema vero nella sua grandezza è secondario. 616

Allora dico il neorealismo, andiamo lì e facciamo parlare queste persone che non hanno voce. Questo è il primo di una serie di documentari. E il primo lo pro- duco ad Alessandro Angelini, che è un mio ex-aiuto regia. Poi vorrei continuare e lavorare sulla Bosmia. Vorrei continuare a lavorare su un cinema etico. Invece di fare politica e pensare che si sta già facendo il massimo, come in Italia. Il servizio agli altri che è molto presente negli Stati Uniti e va oltre e al di là della scena politica in se stessa. E lo stesso vale per il cinema. Non trovi molti registi che vanno in giro ad aiutare giovani e insegnano come servizio.

Forse l’unico è Olmi.

Vero. Lui ha fatto un bel film Cento chiodi (2007) e ha un’immagine iniziale molto forte di libri inchiodati, un’immagine potente. 617 Intervista a Guido Chiesa a cura di Elisabetta D’Amanda

Incontro a casa del regista il 2 giugno 2006

Allora inizierei da questo, l’inquadramento della mia tesi è su Torino come città laboratorio. Secondo te esiste Torino come città laborato- rio? E non solo in quanto cinema.

Ovviamente anche per questioni biografiche non vorrei dire cose che poi vengono smentite dai fatti. Io nel 1983 me ne sono andato. Poi nel ’90 sono tornato in Italia, per tre anni sono vissuto fra Roma e Torino e poi nel ’93 mi sono stabilito a Roma. Quindi la mia conoscenza di Torino non è più così immediata. Comunque, Torino è stata un laboratorio e lo è tuttora sicuramente nel tentativo di passare da città operaia a qualcosa che non si capisce ancora che cos’è. E su questo io sono abbastanza scettico e non per sfiducia nell’amministrazione o nei torinesi, ma perché è un grosso problema. Si dice tanto passare al terziario, ma non si sa esattamente cosa vuole dire. Mi aveva colpito una battuta durante il confronto all’americana. E Prodi ha detto che dobbiamo puntare molto sui gio- vani e sul futuro. E diceva che del resto ogni anno si laureano 150 mila ingegneri. E una domanda che allora sorge spontanea è: per- ché l’Italia dovrebbe continuare a produrre ingegneri? Ce ne sono in Cina… Ce ne sono tantissimi anche in Cina, preparati come i nostri o anche meglio dei nostri. Quindi il problema non è solo di Torino. Torino ha un problema molto grosso, a differenza di altre città, è che ha avuto una così forte cultura operaia e industriale. Uno dei tentativi è stato quello di spostare una parte dei giovani ad attività anche lega- te al mondo della cultura, dell’arte etc. E l’amministrazione locale 618 da questo punto di vista ha fatto tantissimo. Da “Settembre Musica” a tutte le iniziative per il cinema, il fondo per portare il cinema a Torino. Specificamente la Film Commission della regione Piemonte e del comune di Torino, che ha sostituito l’aiuto diretto precedente del comune e della regione, che è un ente privato finanziato dal pubblico che elargisce dei fondi su temi piemontesi o gira in Piemonte. Questo ha permesso a moltissimi di venire a lavorare in Piemonte e ha per- messo a tutta una generazione di tecnici, registi, montatori e anche attori di emergere. Il problema è che ora ci sono meno soldi perché c’è una grande crisi finanziaria e uno dei primi tagli è all’arte e alla cultura. Per cui hanno ridotto molto gli incentivi e la maggior parte di questi attori e tecnici stanno emigrando a Roma. Perché o la città è in grado di creare entità permanenti o tutto crolla. Le società torinesi nel settore pubblicità che avevano avuto un boom negli anni ’90, oggi la maggioranza di queste società stanno chiudendo. Ora però non riguarda solo il cinema. L’idea che la città potes- se essere un laboratorio è stata sviluppata negli anni ’90 e in questo decennio con un forte investimento, ma con due problemi che vanno al di là di Torino, ma che si declinano a Torino nella sua realtà: il primo è che non si è mai risolta la questione della destinazione della città – una volta finita la fase industriale, che cosa deve diventare Torino nel futuro? Non si è ancora capito – il secondo non si è deciso su cosa puntare dal punto di vista dell’altezza dell’intervento – o si punta sulla cultura bassa e popolare (come gli studios a San Maurizio Canavese che producono soap e serie televisive) o punti sulla cultura alta (per esempio inviti Ronconi a fare il suo lavoro) –. Perché l’inter- vento su tutta la linea non funziona. Certo la cultura popolare porta i posti di lavoro però devi scegliere perché senno ti disperdi. E questo riguarda anche la musica e la cultura, scegliere dove collocarsi, dove collocare Torino in generale. Visto che la Fiat sta chiudendo e non è più la città industriale, se puntiamo sulla cultura dove ci collochiamo? La cultura pop e facciamo i mega concerti. Per il cinema facciamo un festival spettacolare. O puntiamo sulla nicchia e che arrivi gente di qualità e spenda, non si è ancora deciso.

Pensando alla realtà del “Festival Cinema Giovani” ora “Torino Film Festival” cosa succede? 619

È una realtà in crisi come tutte le realtà sviluppate negli anni ’90. C’è una crisi di identità. Che non si traduce tanto nei numeri, perché la gente continua ad andarci. Però a cosa serve quel festival? Se non a dare lavoro ad un numero limitato di persone. E se è queste che si spendono tutti questi fondi, viene da chiedersi se il gioco vale la candela. In termini creativi, bisogna fare un passo indietro lì c’è stato negli anni ’80 il risultato dovuto agli anni precedenti. L’immigra- zione e soprattutto i meridionali hanno contribuito a cambiare la cultura piemontese. Se prima degli anni ’70 non c’erano registi tori- nesi se non Faenza e Soldati, che non era neppure un puro regista, negli anni ’80 arrivano i primi registi, Ricagno, Segre Badolisani, io, Calopresti,Tavarelli e Gaglianone…

Esiste una scuola torinese?

No, non esiste una scuola. È una matrice comune. Il fatto di apparte- nere ad una cultura piemontese che aveva altissimi studi accademici e cultura universitaria, che per la prima volta negli anni ’70 dall’in- contro, soprattutto, con la cultura meridionale e poi anche con il con- tributo delle donne e il femminismo incrina quest’immagine seriosa. Negli anni ’70 fare l’attore era essere un “pagliaccio” ora è possibile e concepibile, pensa a Chiambretti. Questo entra in crisi negli anni ’80 ed è stato molto positiva per la cultura, la musica - pensa ai Mau Mau, gli Africa Unite – e poi gli attori, scrittori da Baricco a Culicchia sono scrittori bassi che raggiungono il grande pubblico e la stessa cosa è successa nel campo del cinema. Si può dire che nella musica esiste una scuola? No, I Mau Mau e i Subsonica non hanno nulla a che fare. Sono amici. È vero che ci conosciamo tutti, veniamo tutti da questa cultura che è l’incrocio della cultura accademica, la borghesia torinese, la cultura operaia e questo incontro che c’è stato negli anni ’70 con i giovani meridionali che hanno spezzato un po’.

E la fine del movimento degli anni ’70?

Il movimento degli anni ’70 non si può capire se non si può capire che cosa è successo con questi giovani meridionali e le donne. Le donne vale [come discorso] in tutta Italia ma il giovane meridionale è 620 a Torino che dice, piuttosto che lavorare alla Fiat faccio il disoccupa- to. E questa è una rottura. C’è una scolarizzazione di massa, ci sono nuovi bisogni e quel tipo di vita diventa insostenibile. Questo fa si che tutta una serie di persone agli inizi degli anni ’80 con la crisi del movimento quel gruppo di persone si sposta dalla politica all’arte. E questo è un fenomeno che avviene anche in altre parti in occidente ma che a Torino è un’assoluta novità perché non era mai successo prima che una così ampia fetta del settore giovanile si sposti verso la cultura, l’arte e l’intrattenimento. Questo fa si che c’è una comunità con un humus comune ma una scuola direi proprio di no. Siamo mol- to diversi.

Parlando di te e dei tuoi inizi. Tu sei andato negli Stati Uniti e in che modo questo ha influenzato i tuoi inizi?

A prescindere dal fatto delle ragioni personali per cui io possa esse- re andato negli Stati Uniti, credo che l’ambizione era di uscire dalla dimensione provinciale, che mi porterò sempre dietro, ma credo che a Torino si avvertisse di più che in altre città, in quegli anni e tutt’ora, vedendo per esempio a Milano, penso a Bigoni o Soldini, per loro non era così una novità fare il regista. Per un romano non parliamone o per un bolognese o un napoleta- no. A Torino mi ricordo che a volte facevo vedere per la prima volta i miei cortometraggi in superotto al Movie Club, l’atteggiamento era “tanto prima o poi tornerai a casa”. E la mentalità era “non fare niente perché sennò ti criticano” che era insopportabile e quindi da lì e il desiderio di allontanarsi. Poi c’era anche un’attrazione per una città veramente laboratorio, che è stata NY credo fino agli anni ’80. L’in- contro con quella cultura mi ha segnato e mi ha segnato anche in parte per un recupero della cultura europea. Un’attenzione per una cultura europea e anche per un certo cinema non americano l’ho sviluppata stando negli Stati Uniti. Prima di partire per gli Stati Uniti ero affasci- nato dal cinema americano a 360 gradi e arrivato a NY ho cominciato a capire che mi interessava un certo tipo di cinema indipendente e alternativo mentre il cinema hollywoodiano non rappresentava nes- sun tipo di interesse. Che so mi ricordo che mi colpì molto che vidi La notte di San Lorenzo (1982) e piansi come non so cosa. E si recuperò qualcosa. 621

Anche perché stando lontani, vedi meglio, è il fenomeno dell’esilio. Passando da questo alla musica, tu hai lavorato con i gruppi musicali per un bel po’ di tempo, è un fatto sostanziale della tua formazione, come questo ha influenzato il tuo modo di fare cinema? C’è un rap- porto musica e cinema nel tuo fare cinema?

Certo. Per cui ho sempre una grande attenzione per la musica, un tipo di metrica, di sintassi della musica soprattutto della musica rock mi appartiene anche in qualche modo per immagini e narrazione. Per altro mi ha tenuto troppo a lungo a contatto e incontro non tanto una sotto cultura, che non è negativo di per se, ma una cultura un po’ adolescenziale da cui ho faticato molto ad allontanarmi. E non so se ci sono ancora riuscito. Anche nel campo del cinema. Da cui ho fatto fatica ad allontanarmi.

Cosa vuoi dire con questo?

Di avere imparato a confrontarmi nel corso degli anni con una men- talità un po’ settaria che è tipica delle riviste del rock, di un certo ambiente del rock, in cui, banalizzando, se un artista ha successo non va bene. Le cose più interessanti le fai con il primo disco. Che è una cultura che se guardi anche nel campo del cinema, soprattutto negli ultimi anni, a prescindere dal mio caso, con una certa cinefilia si grida al capolavoro subito. Jarmusch, con cui ho lavorato, al primo film gli anno detto che aveva fatto un capolavoro e ora continua da vent’anni a fare lo stesso film. Questo tipo di ambiente mi ha un po’ bloccato per certi aspetti. Nel senso che tendo un po’ a vedere come referente non il mio lavoro e il mondo in senso ampio, ma piuttosto “quel tipo di pubblico”. Cam- bi magari il tipo di pubblico. Prima ero preoccupato da quello che avrebbero detto quelli che si occupano di Resistenza e poi quello che avrebbero detto quelli che si occupano di Fenoglio. E non funziona così. L’ho visto in particolare nell’ultimo film dove per la prima volta mi sono sentito un po’ meno preoccupato di rispondere alle attese di un certo pubblico. Credo che riguardi un po’ tutta la cultura occidentale, nasce all’in- terno della cultura pop che è molto settorializzata, dove c’è chi sa tutti dei gruppi rock ma ignora quello che è successo nel campo della musica colta e vive la cultura come un consumo, con un’attenzione 622 molto breve e con una tendenza al collezionismo. Devi avere visto tutti i film… Col tempo ho cercato di allontanarmi anche pagando le conseguenze di questo. Poi la musica così come l’arte, la sociologia, la filosofia, sono parti degli strumenti con cui hai a che fare. La musica è uno degli strumenti privilegiati essendo [il cinema] immagine-suono e gioca un ruolo fon- damentale in tutti i film che faccio, ma non più nelle scelte di carattere pittorico, piuttosto che di carattere compositivo o sociologico.

Per te come è andato il passaggio alla pellicola digitale, qual è il tuo rapporto con le nuove tecnologie?

Dico cose super banali. Mi trovo bene e non sono assolutamente avversario della tecnologia. Tutta la storia del cinema, dell’arte in generale, ma del cinema in particolare, è una serie di rivoluzioni tec- niche: il sonoro, il colore, etc. E quindi non l’ho vissuto come un gran problema. Anche se ho iniziato ad usare il video e poi il digitale molto tardi perché mi piaceva la pellicola. Perché, mentre in Italia nei pri- mi anni ’80 l’arrivo del video ha rappresentato l’opportunità di poter usufruire di un supporto relativamernte economico, sicuramente mol- to più economico della pellicola, e quindi poter iniziare con quello, cosa che è poi cresciuta in maniera esponenziale con l’arrivo del digi- tale, invece abitando a NY in quegli anni era molto facile girare in pellicola. Non costava molto, grazie a New York University, grazie al fatto che conoscevo altri ragazzi che lavoravano nel cinema che mi hanno aiutato, i miei primi due cortometraggi che ho girato a NY sono costati veramente molto poco. E non voglio stabilire una gerarchia, ma sicuramente all’epoca la pellicola permetteva sicuramemente tutta una serie di soluzioni espressive che il video non permetteva, io gira- vo in pellicola.

E questo tipo di formazione però te la sei portata anche nel cinema tecnologicamente avanzato?

Sì nel senso che io sono contento di essere cresciuto con la pellicola perché prevedeva procedimenti molto più lenti, che ora sono com- pletamente scomparsi. Lo vedevo recentemente questo nei montatori di nuova generazione, per esempio quelli formati nel montaggio “on line” vanno velocissimi. Cosa che di per sè non ho nulla al contrario, 623 ma che toglie il tempo della riflessione. Cosa invece con la lentezza della pellicola era necessario. Io tendo ad utilizzare molto il digitale nei documentari proprio perché il documentario è un luogo di sperimentazione perché è un luogo meno costoso e, visti i tempi che hai a disposizione perché ormai ti danno sempre meno soldi e sempre meno giorni di lavora- zione, giri molto in fretta, ma non stai più tatno attento ad una serie di cose. E ora io capisco che chi è nato con quello strumento e si è formato con quello strumento, finisce per poi portare quello anche al cinema. Essendo ancora nato con il cinema: provavi molte volte, la luce, guardavi l’inquadratura, ci guardavi dentro e questo ti obbligava a riflettere di più sulle cose che facevi.

Parlavo proprio di questo con i miei studenti, tra i quali alcuni sono fotografi, a me disturba un po’ questa cosa della foto sempre e comunque. Non c’è molta riflessione e c’è una grande inflazione di produzione di immagine. E non so in termini di qualità…

Cambia, cambia. Noi non sappiamo ancora in termini di esiti che cosa produrrà. Non credo che per ora abbiamo già visto un cinema. C’è stato un settore che è quello dei video musicali che di questo ha beneficiato verso al fine dello scorso decennio un livello di complessità. Questo è andato in parto anche al cinema. Il cinema videoclip. Il problema è che questo tipo di esiti sono esiti superficiali. Gli esiti di carattere neurologico, profondo si vedranno tra 10, 15 anni. E ci sarà la pro- duzione di testi audiovisivi e musicali che non saranno più cinema probabilmente. Forse il videogioco assorbirà in parte. Sarà una nuova forma. Sappiamo i danni che questo sta provocando. La maggior parte dei giovani occidentali guarda più la televisione che il volto di sua madre. E questo credo che a lungo andare porteranno conseguenze gravi. Per me il fattore più devastante è la mancanza di rapporto primo fra tutto tra genitori e figli e poi tra persone in generale. Perché la televisione prima e internet dopo hanno separato le persone. La quantità di psi- cofarmaci che i bambini stanno prendendo è sintomo di qualcosa di più grande.

624

Cambiando ora tema e arrivando al tuo rapporto con il lavoro di Fenoglio, molto banalmente, perché proprio Fenoglio?

Da una parte perché era un provinciale che però guardava a modelli alti per staccarsi dalla provincia, con un’ambizione non provinciale. Dall’altra perché credo che Fenoglio rappresentasse, per quanto mi riguardava, lo strumento attraverso cui fare i conti della mia idea che l’esssere umano autentico è quello che agisce razionalmente. Questi due elementi su cui Fenoglio per altro ne mette in scena i limiti senza esserne consapevole. Erano temi che mi appartenevano molto e che mi hanno accompagnato per molti anni. Il Partigiano Johnny (2000) nello specifico è proprio la storia di un intellettuale che decide di non nascondersi ma di agire, con forte spirito critico tanto che non è mai d’accordo con nessuno, tanto che questo suo isolamento lo porta a un suicidio finale. Questa è una parabola di un’azione in nome della ragione a cui io mi sentivo molto vicino.

Parlando della scena finale. Tu la senti fedele alla pagina scritta?

Alla pagina scritta non lo so, ma allo spirito direi di sì. Fenoglio che non ha mai finito quel romanzo, nella prima scrittura che era in inglese Johnny viveva e incontrava le missioni alleate, nelle versioni successi- ve moriva. E già questo ti fa pensare un’indicazione. Non solo, sappia- mo benissimo che la storia da cui venne desunto Il Partigiano Johnny (1968) era un unico grande romanzo che lui scrisse nei primi anni ’50 e iniziava durante gli anni del liceo di Johnny durante la guerra e finiva con la fine della guerra. Una gran epopea. Poi Livio Garzanti e Citati che lavorava alla Garzanti, decidono di pubblicare solo la prima parte, perché il resto non li convinceva, e decidono di chiamarla Primavera di bellezza (1959) che sarebbe stato il titolo scelto da Fenoglio per l’intero lavoro. La prima parte finisce l’8 settembre 1943, Johnny si unisce ai partigiani nelle Langhe, fa due azioni e alla seconda muore. Infine mentre la parte successiva lui la nasconde in un cassetto e, solo anni dopo un giornalista de La Stampa Lorenzo Mondo scopren- dola la pubblica con il titolo Il Partigiano Johnny, dalla seconda parte non pubblicata da Garzanti Fenoglio ne estrapola una piccolissima parte e la chiama Una questione privata (1963) e la fa finire con la morte del protagonista. Tutto questo mi fa pensare che Fenoglio aves- se in mente che Johnny doveva morire. 625

Però nell’ultima pagina scritta come mi sembra anche interpretato nel tuo film, la cosa è lasciata aperta, non abbiamo la certezza che lui muoia.

C’è quel margine di ambiguità che ti permette di domandarti: morirà o non morirà e se muore perché muore?

E lascia, ancora più importante, un senso di speranza rispetto agli ideali della resistenza. Secondo te ce n’era l’intenzione.

Non credo in Fenoglio e sicuramente non in me. No, da un punto di vista squisitamente storico il mio interesse con la Resistenza finisce ancora prima di fare Il Partigiano Johnny. Questo film ha avuto una lunga gestazione intorno al tema della resistenza e il tema della ‘Resi- stenza tradita’ non mi appartiene più nel momento in cui faccio il film. Mi interessava di più la questione umana’ di cui la Resistenza è sicuramente un bell’esempio in cui una minoranza della popolazione italiana prende consciamente in mano il proprio destino e decide di agire individualmente in nome dei destini collettivi. Cosa non mi ero ancora reso conto – e poi ho capito poi perché il romanzo mi affascinava tanto – era che Fenoglio lo fa sulla base di un fortissimo spirito critico razionale. Johnny riflette sempre. Attra- verso tutto. Tutte le volte che incontra qualcuno Johnny ci ragiona sopra. Ed esprime un giudizio non basato sulla base delle ideologie ma su una visione del mondo laica, illuminista e razionalista che porta alla solitudine. I suoi partigiani in altri romanzi, finita la guerra sono scontenti.

E questo perché il suo soldato di Cromwell non ha a che fare con la cultura italiana e non trova una collocazione…

Direi che il suo soldato di Cromwell è un soldato che ha fallito. Cioè il grande sogno volterriano e cromwelliano che la ragione avrebbe guidato l’umanità ci ha portato ad Auschwitz, ci ha portato alla bom- ba atomica, ci ha portato ad un capitalismo che sta distruggendo il pianeta. Fenoglio non ne era consapevole ma aveva ‘un sentimento’ che c’era qualcosa non funzionava. 626

Forse in maniera proprio molto piemontese… tu parli del suo univer- salismo e provincialismo, queste sono radici molto forti.

Sono molto forti anche nella cultura piemontese. C’è questo doppio legame che non si è espresso mai nel campo dell’arte ma piuttosto della politica e il Piemonte è stato la patria italiana di questo pensie- ro razionalista critico, pensa a Cavour, pensa a D’Azeglio, pensa a Bobbio, l’epitome dell’intellettuale razionalista laico. E secondo me, Fenoglio, hai detto bene, aveva il ‘sentimento’ che qualcosa non fun- zionava.

C’è una cosa molto specifica ne Il Partigiano Johnny che è la “questio- ne della lingua”. Un’operazione che rende questo materiale transcul- turale molto prima che questo fenomeno esistesse in altre operazioni artistiche. Che rapporto hai avuto e come lo hai utilizzato nel film?

Nella realizzazione cinematografica è un fenomeno che ho messo quasi da parte. Sappiamo benissimo che il punto suo non era l’esotismo, ma il punto suo è di trovare una “lingua nuova”. Come diceva il suo amico Piero Corsini «Gli italiani non avevano mai fatto una guerra civile e non hanno una lingua per raccontarla». Da questo punto di vista l’unica cosa che rimane di tutto questo [nel mio lavoro] è il tentativo di tenere vivo – perché appartiene a me e a quelli che hanno lavorato con me – lo spirito e non tanto la pagina. Lo spirito era di inventare una lingua. Di raccontare la guerra come noi italiani non l’avevamo mai raccontata. Perché l’avevamo raccon- tata o sotto l’egida della retorica, della guerra di popolo raccontata, con momenti alti in Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), ma ha anche tutta una vulgata resistenziale insopportabile. Oppure di rac- contare la guerra come un fenomeno dall’alto, la guerra dei generali, dei comandanti, degli eserciti, etc. E invece la guerra te la racconto attraverso la storia di un partigiano qualunque e quindi vicino allo spirito di Fenoglio.

Ho notato che hai usato questa lingua tra l’inglese e l’italiano nel film quando presentavi il pensiero di Johnny. 627

Lì è una parte su cui non sono particolarmente felice. È una cosa che non c’era in sceneggiatura e di cui non ci eravamo resi conto in sceneggiatura. Nel romanzo il protagonista è privo di psicologia, un po’ come i protagonisti dell’epica. Al massimo Johnny ti dice quello che vede e non quel che pensa. Quindi lontano dall’eroe tradizionale del romanzo borghese che oggi è l’eroe del cinema, è un eroe con cui tu devi empatizzare. Cosa che con Johnny si fa una gran fatica ad empatizzare. Quando abbiamo testato il film, una parte degli spettatori hanno detto che non capivano cosa il personaggio avesse in testa. E allora abbiamo optato per questa soluzione intermedia, di cui non è che sono particolarmente felice. Non credo che abbia fatto una grande differen- za, perché bisognava riscrivere completamente il film. Un amico ci disse «è la prima volta che vedo un film di guerra e non provo paura che il personaggio muoia» che è vero. Allora il pensiero è servito ad alimentare questo pathos che ci hanno detto che mancava.

Sembra che hai spostato la tua attenzione ad altre cose nel film suc- cessivo a Il Partigiano Johnny?

Se potessi la sposterei ancora… voglio dire che c’è un percorso. Johnny c’è un’esperienza individuale e Lavorare con lentezza (2004) è un’espe- rienza collettiva. Anche il racconto è collettivo e si rifà all’esperienza della radio Alice a Bologna L’agire inizia ad abbandonare la razionalità e fa entrare in gioco i sentimenti, gli affetti. Oggi mi interessa sempre di più l’integrazione e il ridimensionamento della razionalità in primo luogo e in secondo luogo mi interessa sempre di più, come posso dire, più che il “fare” lo “stare”. Che è un problema molto forte della politica di oggi. La politica si è sempre occupata del fare e meno dello stare. La grande novità negli anni ’70 era l’interesse su “come stare”. Oggi questo problema mi sembra esploso e mi sembra molto più importante parlare dello stare. Perché per fare qualcosa anche nel sociale e collettivo è importante lo stare. Lo stare in particolare mi interessa come si declina nei vari passaggi della vita e in particolare dell’infanzia. Tutto questo mi interessa di più della dimensione politi- ca che mi sembra aver raggiunto una sorta di atrofizzazione. La poli- tica alta è slegata dalle dinamiche sociali reali, ma è legata al mondo finanziario e imprenditoriale. 628

Per altro, gli anni ’70 hanno fatto morire l’idea leninista del par- tito e della rivoluzione. Quegli anni hanno inciso profondamente è stato a livello dei costumi. E lì trovo anche compiendo dei grossi errori, giustificabili all’epoca per reazione ad una cultura molto retro- grada. Tutta la questione delle droghe, del femminismo e dell’aborto andrebbero ridiscusse. Però il fatto di avere posto il problema dello ‘stare’, mi interessa molto. E il film che vorrei fare, se me lo lasciano fare, parla di questo argomento. È tratto da un romanzo di una ragaz- za modenese, Marilù Manzini e si chiama Io non chiedo permesso (2004). Narra il naufragio esistenziale di una ragazzina ricca borghe- se. Me lo hanno proposto, mi ha colpito il romanzo e mi è sembrato uno strumento utile per raccontare questo mondo di genitori assenti però pesantissimi nella loro assenza. Ragazzi lasciati a se stessi con gran risorse economiche e pochissime risorse affettive che non sanno gestire e che si dilaniano in una competizione tra di loro. L’altro lavoro che sto preparando con Nicoletta [N.d.R. moglie di Guido Chiesa] è la storia della vita di Maria da quando scopre di aspettare di Gesù fino al primo anno di vita. Non ci sono elementi soprannaturali e il taglio è umano basato sulla storia di questa donna.

Come colleghi quest’idea al tema dello “stare”?

Il titolo è Let It Be. Quindi proprio “lascialo stare”. Perché se vieni al mondo senza troppe pressioni, imposizioni e paure, forse cresci e sei una persona più serena e autentica.

E tu vedi questo nella figura cristologica? Una persona realizzata nel suo pieno potenziale perché gli viene permesso di essere quello che è?

È l’unica figura storica che dice, «se sarete come i bambini, entrerete nel Regno dei Cieli». Fuor di metafora cosa vuole dire? Non creden- do nel “Regno dei Cieli”, credo che volesse dire «potrete vivere una vita serena, non alienata». Quando parla degli “umili”, la parola umili significa in realtà “attaccati alla terra” che è un altro modo per dire “coloro che vivono secondo la natura”. E la natura ha previsto certe cose che se noi non le infrangiamo, viviamo più sereni. Questo si traduceva negli anni ’70 con il “privato”. Cosa vole- va dire, voleva dire semplicemente stare più attenti a questo tipo di 629 cose. E da questo punto di vista l’esperienza degli anni ’70 è stata un’esperienza importante, perché ha riportato l’attenzione sul fatto che il pubblico e il privato sono collegati e non possono essere scissi. Per riportare questo al centro, occorre ripensare alla politica collegata a questo “stare”. E mi sempra troppo facile teorizzare lo stare solo in funzione del resto e bisogna cambiare il paradigma che “tu stai male perché c’è la crisi economica” o vale a dire che queste siano le uniche cause. Ci sono con-cause: se non hai soldi, se non hai lavoro, se c’è la guerra, ma il problema è anche se metti il figlio di fronte al televisore.

E c’è una perdità di umanità.

Il termine umano è la parola chiave. 630 631 Intervista a Dacia Maraini a cura degli studenti di Middelbury College - WRMC -

Ricardo: In Italia ci sono molti grandi scrittori conosciuti per una delle loro opere: Dante per esempio è famoso per aver scritto la Divina Comme- dia, Machiavelli è ricordato per aver scritto Il Principe. Volevo chie- derle, per quale dei sui capolavori le piacerebbe essere conosciuta?

Grazie per la domanda perché mi mette in compagnia di grandi scrit- tori, non so se lo merito. È difficile rispondere perché io sono sempre affezionata all’ultimo libro che ho scritto. Stando però al pubblico dovrei rispondere La lunga vita di Marianna Ucria, che ha venduto più di un milione di copie in questi anni. Dico questo perché secondo me non dipende tan- to dall’autore quale sarà il libro che rimarrà di più nel tempo, l’autore magari ne preferisce un altro, ma si verifica una selezione naturale per cui un libro poi prevale sugli altri. Io sinceramente non lo so, però stando alle preferenze del pub- blico in questo momento, senza ombra di dubbio La lunga vita di Marianna Ucria.

Alan: Come possiamo capire la figura di Medea attraverso la letteratura?

È stato scritto molto sulla Medea. Tra le numerose interpretazioni, oggi si fa strada l’idea che Medea sia stata demonizzata: le venivano attribuiti dei crimini che probabilmente non aveva commesso, ma che la città di Corinto le accollava perché era una straniera proveniente da una terra considerata barbara, quindi capace di qualsiasi nefandezza e portata alla violenza. 632

Questa interpretazione moderna vede Medea come qualcuno che si trova davanti a una violenza inaudita e che fa delle scelte anche crudeli, che però non riguardavano l’uccisione dei figli. I figli forse vennero uccisi dai corinzi per vendicarsi della sua non sottomissione alle decisioni di Giasone che si voleva risposare con la figlia del re. Noi non sappiamo perché Medea appartenga al mito, non è un per- sonaggio realmente esistito. Piace però molto questa interpretazione moderna, il cui culmine viene raggiunto con il romanzo di Christa Wolf, Medea appunto.

Alan: Secondo lei come è cambiata la letteratura alla luce delle trasfor- mazioni che la cultura e la società italiana stanno subendo in questi anni?

Ritengo che la cosa più importante della “nuova letteratura”, della “letteratura giovane”, sia la riscoperta dell’impegno. L’esempio più importante di questo fenomeno è Gomorra, un romanzo di che parla della camorra e che ha fatto scalpore in Italia per lo scandalo e polemiche che ha sollevato. Il fatto che questo giovane di ventotto anni abbia scritto un libro così impegnato (che fra l’altro non è una semplice operazione giornalistica, ma è un libro anche lirico e scritto molto bene) a me fa davvero tanto piacere. Io stessa sono sempre stata considerata una scrittrice impegnata. Negli anni ’80 si pensava però che l’impegno fosse una cosa passata che apparteneva agli anni ’60. Questo mi faceva sentire un po’ fuori moda. Vedere che oggi molti giovani scrittori riscoprono l’impegno e la letteratura attenta alla cultura sociale mi da molta allegria.

Ashley: Che cosa pensa della Scuola Italiana del Middlebury College e degli studenti che imparano la lingua italiana?

Vedere tanti giovani americani che sentono questa attrazione, questa simpatia, questa ricerca che per la lingua italiana mi riempie di gioia. L’obbligo per gli studenti di dover parlare sempre e soltanto in ita- liano mi fa uno strano effetto, è una cosa che trovo molto simpatica. L’atmosfera è buona, l’atmosfera è allegra, l’atmosfera è famigliare. 633

Non c’è quel regime burocratico un po’ da collegio che qualche volta si trova nelle scuole e nelle università. Questo mi fa sentire molto a mio agio.

Laura: Lei in classe ha parlato di quando viveva in Giappone da bambina. Ha qualche bel ricordo di quel periodo?

Di quel periodo ho dei ricordi belli, ma, purtroppo, ne ho anche di brutti. Il Giappone è stato un paese accogliente, dove, nei primi anni della mia infanzia, ho vissuto felicemente. Poi c’è stato il campo di concentramento durato cinque anni, quello è stato un periodo molto brutto che mi ha lasciato delle memorie tristi, di paura, di fame, di dolore. Io però distinguerei il Giappone della gente comune dal Giappone dei militari: il primo era molto accogliente e generoso; il secondo era duro, sadico, rigido, violento e repressivo. Perciò quando ricordo il Giappone come popolo, nel suo insieme, ho una memoria molto positiva, se ricordo invece quei poliziotti del campo, ho una memoria molto negativa.

Britney: Quale è stato il momento più bello della sua vita?

Uno dei momenti più belli della mia vita, da una parte è rappresentato dagli anni in cui abitavamo nel nord del Giappone, in una piccola casa di legno. Vivevamo in una zona molto fredda, con molta neve, ma c’era un calore interno della casa che era effettivamente molto piacevole. Poi ci sono i ricordi della Sicilia, di quando il mare era ancora pulito, di quando le coste erano integre, prima della “rapina del ter- ritorio”, come la chiamo, prima cioè che le coste venissero riempite di cemento e di case abusive, prima che il mare diventasse sporco. Questo mi addolora, ma il ricordo di quella Sicilia dalle coste pulite, integre e profumate addirittura, tra le alghe, il mare ed i gelsomini. È un ricordo di grande bellezza che mi accompagna sempre, ma è un dolore ritornare in Sicilia e vedere come sono state rovinate queste coste. 634

Erica: C’è una scrittrice o uno scrittore che l’ha ispirata?

Nella prima parte del mio apprendimento letterario ci sono stati soprattutto scrittori padri (in Italia abbiamo una specie di empireo di padri). Poi ho pensato che ci dovevano pur essere delle madri lette- rarie, ho iniziato a cercarle, le ho trovate e mi hanno dato molto. Ho scoperto per esempio che esistono scrittrici come Grazia Deledda, come Anna Maria Ortese, come Lalla Romano, come , tutte grandi scrittrici del ’900 di una generazione precedente alla mia. Penso che i padri letterari siano indiscutibili e necessari, ma anche le madri hanno la loro importanza. Purtroppo, se si vanno a leggere giudizi critici sulla letteratura italiana del ’900 ci si rende conto che vengono menzionati solo nomi maschili, è molto raro che venga fuori un nome femminile. Nella letteratura italiana abbiamo grandi scrittori come Svevo, Calvino, Moravia, Pasolini, Cassola, Pavese e tanti altri, ma abbiamo altrettante grandi scrittrici che purtroppo ancora oggi vengono discri- minate nelle antologie per le scuole, nelle panoramiche per creare modelli letterari. Questo credo che sia un grande errore.

Thompson: Quali sono le cose più importanti che gli studenti devono imparare della lingua, della cultura e della letteratura italiana?

Si potrebbe dire una passione per l’apprendimento, anche rischiosa, e una voglia di scoprire e capire l’universo. Pensiamo a Leonardo Da Vinci, a Galileo Galilei, ai grandi teorici, ai grandi storici, ai gran- di filosofi, abbiamo tante menti alle quali aggiungerei anche alcune donne. Importanti in questo senso sono state le scrittrici mistiche che hanno scritto dei testi molto belli e una matematica del ’600 che si chiamava Gaetana Agnesi, che si tende a dimenticare, ma che è stata importantissima. Direi un amore per la conoscenza, per la scrittura come strumento di espressione e di conoscenza. Poi direi, anche l’amore per la natura. Ci sono molti scrittori che hanno approfondito questo tema: pensiamo a Leopardi che ha scritto una poesia che si chiama Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. È una poesia bellissima nella quale 635 si rivolge alla luna dicendo: Che fai tu, luna, in ciel?Dimmi, che fai, silenziosa luna? È bellissima perché racconta di un dialogo a tu per tu con la luna, di come il paesaggio ne viene illuminato, di come il pastore cammina nella notte alla luce della luna. Credo che questa sensibilità verso il paesaggio, e stiamo parlando del 1700, sia stata anche un esempio per la letteratura di altri popoli e di altri Paesi. Queste sono alcune piccole cose. Si potrebbe parlare tantissimo anche della filosofia, della scienza italiane, però mi fermi qui.

Rebecca: Qual è il messaggio che vuole trasmettere al pubblico con Buio?

Non c’è un messaggio chiaro, ma c’è l’idea che il senso della giustizia è molto forte. Tutti, anche i bambini, conoscono il sentimento della giustizia e non bisogna tradire tale sentimento, perché così facendo si inferte una ferita gravissima ad una persona che arriva e cresce in questo mondo. Buio, che parla soprattutto di bambini, esprime un bisogno di giu- stizia che si traduce inevitabilmente in un bisogno di verità. È pro- prio questo il motivo che li spinge a cercare questa verità, perché la verità non è soltanto importante per il diretto interessato. La verità ha un’importanza intrinseca. Anche se non ci riguarda direttamente, la verità ci tocca, tocca tutti quanti. I latini dicevano: Amicus Plato sed magis amica veritas (Mi è amico Platone, ma mi è più amica la verità). La verità va al di sopra del sentimento di amicizia e della famiglia. In una famiglia mafiosa, invece, la verità è messa all’ultimo posto: viene prima la famiglia, poi il senso di omertà, il silenzio, gli interessi da difendere, poi, in coda, troviamo la verità, che ormai è disprezzata e non conta più niente. Io penso, come i latini, che prima dell’amicizia, della famiglia, dell’amore, prima di qualsiasi cosa c’è la verità. Questo è il nucleo del libro.

Lei ha scritto alcune opere ispirate alla tradizione dei gialli, ma con una protagonista femminile. Cosa la attira di questo genere letterario?

Quello che mi piace di quelli che noi in Italia chiamiamo “gial- li”, ovvero dei libri polizieschi, è l’enigma. Mi appassiona l’enigma da risolvere. Non mi piace, invece, tutto quello che viene chiamato 636

“noir”, e cioè il compiacimento nella descrizione del sangue, delle ferite, dell’orrore. Mi piacciono i “gialli” perché quello che appare come un proble- ma poliziesco si rivela, in realtà, un problema psicologico, di rapporti con gli altri e quindi culturale. L’autore di “gialli” che più mi appassiona è Simenon, perché non è interessato a descrive il sangue, le ferite, i cadaveri, ma cerca di risolvere un enigma e nel frattempo rivela qualcosa di profondo sulla società francese del ’900. Per lo stesso motivo mi piace molto anche Agatha Christie. Mi piacciono, insomma, scrittori che non hanno interesse per l’aspetto truculento della criminalità. Il primo grande giallo è Edipo re che narra la storia di una città invasa dalla peste che si chiede per quale ragione gli dei le fossero avversi. L’indovino disse: «C’è un colpevole in mezzo a voi! Ha com- piuto un delitto: ha ucciso suo padre e si è coricato con sua madre. Il responsabile sei tu Edipo!» Edipo cacciò via dicendo: «Non è vero! Io non ho mai ucciso nessuno, non ho mai ucciso mio padre…» ed inve- ce poi si scopre che è vero. Lui senza saperlo aveva ucciso suo padre e si era coricato con sua madre. Il primo enigma viene dalla sfinge e Edipo riesce a risolverlo, poi c’è anche un delitto per il quale si cerca un colpevole. La cosa interessante è che il colpevole è il capo, il re della città. Questo credo che sia il primo esempio di libro poliziesco.

Alessandra: Nel Buio tutti i protagonisti hanno nomi molto particolari che spie- gano la personalità di questi personaggi. In che modo sceglie questi nomi?

I nomi vengono un po’ per caso. È vero che salgono dall’inconscio, però è anche vero che spesso i nomi riflettono una personalità. Se devo cambiare un nome faccio fatica perché a quel nome associo quella persona. Non si tratta però di nomi scelti a tavolino, ma è pro- prio una identificazione che faccio attraverso la mente con i nomi delle persone. Bisogna anche dire che io vengo da un’eccezionale esperienza familiare di nomi strani: mio padre si chiama Fosco, un nome abba- stanza originale e poco comune; mia madre si chiama Topazia, un altro nome assolutamente inusuale; per quanto riguarda le mie sorelle, una si chiama Yuki, che in giapponese vuol dire fiocco di neve, l’altra 637

è più normale si chiama Antonella, però si doveva chiamare Akiko perché è nata in Giappone, ma sotto il fascismo era proibito dare nomi stranieri ai propri figli, quindi l’ambasciata italiana in Giappone negli anni ‘40 ha detto che non le si poteva dare quel nome e hanno dovuto mettere quello del nonno, Antonello appunto. Ho anche una zia che si chiama Fiammetta e un’altra zia che si chiama Manina. Per non parla- re del mio nome che è abbastanza strano, anzi, è molto insolito. Dacia deriva dal latino datio, è un nome romano, ma nessuno si chiama così in Italia, o se ci sono, sono pochissimi. Io da bambina avrei preferito chiamarmi Maria, perché non mi piaceva avere un nome strano. I bambini sono conformisti, vogliono essere come tutti gli altri. Poi da grande ho imparato ad apprezzare un nome fuori dal comune perché non si ha bisogno del cognome per identificare una persona. I nomi hanno effettivamente un destino linguistico che secondo me tocca profondità che non sempre l’autore conosce. Bisognerebbe interrogare Freud.

Mierka: Quando si parla con uno scrittore famoso, si discute spesso di libri, ma a volte ci si dimentica che questo scrittore è anche una persona. Io volevo quindi chiederle se c’è una memoria che volesse condivi- dere con noi.

Ho tante memorie, a cominciare da questi giorni a Middlebury. È un posto dove con molta familiarità si conoscono delle persone, si entra in contatto di conoscenza, di simpatia, di scambio. Credo che questa sia la cosa più bella di questo College e della Scuola Italiana. Non so se anche le altre scuole riescano a creare questo clima famigliare, questa simpatia, questa cortesia, che certamente nella Scuola Italiana non mancano. Infatti io non sono qui soltanto in veste di scrittrice, ma sono qui innanzitutto come persona.

Costanza: Quest’anno in psicologia abbiamo parlato di come si ispirano le per- sone. Abbiamo parlato di un poeta che descriveva l’ispirazione come un cane o un cavallo che gli saltava addosso mentre lavorava nella sua fattoria e, quando succedeva, lui correva subito a scrivere una poesia. Vorrei sapere come le vengono le idee per i suoi libri e da cosa trae ispirazione? 638

Non vorrei deluderti, però questa per me è un’idea un po’ romanti- ca dell’ispirazione. Secondo me l’ispirazione è disciplina, è lavoro quotidiano: si ha un’idea, la si sviluppa e ci si lavora tanto. Per scrivere un romanzo mi ci vogliono almeno tre anni, è quindi chia- ro che non può essere il cavallo che arriva improvvisamente. È un lavoro che si fa quotidianamente, con molta determinazione, lavo- rando momento per momento, giorno per giorno e pian piano questo lavoro cresce. Certo, ci sono dei momenti in cui uno si sente ispirato, che si sente preso da una certa passione, però il lavoro letterario, e soprattutto la scrittura di un romanzo, richiede una grande forza e un grande progetto. Per la poesia è diverso, perché si può scrivere anche in cinque minuti o in mezz’ora, ma questo sicuramente non vale per il romanzo. Scrivere un romanzo è come costruire un palazzo: si comincia dal- le fondamenta, poi si costruisce lo scheletro, il soffitto, il tetto, i pavi- menti, le finestre e, solo alla fine, si possono mettere i tavoli, le sedie, i divani ecc… È quindi un lavoro che richiede un procedimento ben determinato nel quale non si possono invertire le fasi: non si possono mettere le sedie se non ci sono ancora i pavimenti. In definitiva, il romanzo è un lavoro a lungo termine, che richiede molto tempo e che ha bisogno di tanta disciplina, determinazione e pazienza.

Riggio: Ripercorrendo le fasi della sua vita vediamo che lei è nata a Fieso- le, che ha trascorso l’infanzia prima in Giappone e poi in Sicilia, a Bagheria, che ha passato la sua giovinezza a Roma e tutt’ora vive tra l’Abbruzzo ed il Lazio. Volevo chiederle se si sente di appartenere ad un luogo in particolare oppure avendo vissuto in tantissimi posti non sente di avere legami?

Io mi considero un po’ nomade a dire la verità, perché ho sempre viaggiato, fin da bambina. Ho abitato in tanti posti diversi e quindi non sono di quelle “persone cozze” o “persone vongole” che si attac- cano alla roccia e rimangono li per sempre. Sono più come un pesce che gira per le acque marine. Mi piace molto esplorare e questo forse lo devo a mio padre, che essendo antropologo, era sempre in giro per il Mondo. Anche mia nonna, però, nei primi del ‘900 era una grande viaggiatrice: ha attra- 639 versato da sola tutta la Persia a piedi. Per una donna di quell’epoca era una cosa straordinaria. Mi piace avere una casa però, un posto dove tornare, un posto mio, dove ho i miei libri, le mie memorie, le mie fotografie. Mi definirei quindi come una nomade che però ha dei luoghi dove poi torna e si ritira a scrivere.

Ilaria: Il tema onnipresente nella letteratura di Dacia Maraini è sempre sta- to il ruolo delle donne. Le protagoniste dei suoi romanzi sono sempre state donne combattive e di forte tempra. Nel mondo di oggi si parla sempre di emancipazione femminile, di femminismo, ma cosa è rima- sto oggi di quel femminismo che i nostri genitori hanno vissuto e nel quale hanno creduto?

Ci troviamo in un momento di regressione, in cui le ideologie sono tutte morte, femminismo compreso. Rimane invece il sentimento del- la giustizia, che è quel sentimento che crea indignazione di fronte alle discriminazioni e alle varie ingiustizie culturali e sociali. Quando parlo con le giovani nelle università e nelle scuole, mi ren- do conto che danno per scontati dei diritti che noi abbiamo faticato molto per conquistare. È bello che questi diritti si considerino acqui- siti, ma quello che queste giovani non sanno, forse perché non se ne rendono conto, è che questi diritti si possono anche perdere. Questo è un concetto che vale per tutti, non solo per le donne. Ci si deve rendere conto che i diritti vanno difesi, perché niente è per sempre. In alcuni Paesi, diritti che sembrano universali, sono oggi messi in discussione. Non sto parlando di diritti qualsiasi, parlo di libertà personale, di liber- tà di manifestazione del pensiero, parlo di diritto al voto. Consiglio ai giovani di fare molta attenzione e di non disinteres- sarsi alla vita politica e sociale del proprio Paese perché c’è sempre qualcuno che vuole soffocare i nostri diritti. È molto importante par- tecipare, anche semplicemente andando a votare, perché la parteci- pazione e l’interesse per il sociale fanno si che i nostri diritti non vengano calpestati.

Ilaria: L’impressione che si ha in generale sui giovani di oggi è quella di una dilagante insicurezza. Dopo la rottura con il modello di donna con- 640 cepita come madre, sposa e donna di casa (di fatto rifiutata da parte delle femministe), esistono dei modelli validi di donna da seguire o da ricostruire? Molte sono le immagini di donna che circolano (la donna manager, la casalinga, la velina, ecc…), ma ce n’è una che possa rappresentare un modello per le nuove generazioni che non sia contro la donna, ma che ne favorisca la piena libertà di espressione?

Io non credo che ci sia un modello unico di donna, anche perché sareb- be un po’ triste. Ci sono tante donne che hanno aspirazioni diverse, sen- timenti diversi: c’è chi trova soddisfazione nel matrimonio, chi invece nella carriera. Io sono per la libertà. L’unica cosa su cui metterei delle condizioni è proprio la libertà. Una donna può decidere di fare il solda- to, io non credo che l’emancipazione passi attraverso il fucile o le bom- be o le mitragliatrici, però rispetto la libertà di scelta. Sento di battermi per quella libertà. Se non c’è libertà, nessuna scelta è possibile. I modelli convenzionali hanno il guaio di essere imposti da qualcun’altro e non scelti. Se vogliamo scegliere dobbiamo essere innanzitutto liberi di poterlo fare. Non esiste un modello femminile ideale, ciò che è importante è che le donne siano libere e che si bat- tano per la propria libertà. All’interno di questa libertà poi ognuno sceglie il proprio modo di essere: c’è chi sceglie di fare la mamma, chi preferisce la carriera, chi vuol fare la pellegrina, chi la nomade e chi invece preferisce stare a casa a coltivare il proprio orticello. Se questa condizione basilare di libertà viene a mancare si piomba nel totalitarismo, ed il totalitarismo è nemico prima di tutto delle scel- te e naturalmente delle donne.

Paola: Com’è stato il suo rapporto con Moravia? Quali sono le dinamiche tra due personalità di grande spessore come le vostre?

Il rapporto con Moravia è stato molto bello perché lui era un uomo molto generoso e molto rispettoso della libertà altrui. D’altronde se non fosse stato così non avrebbe potuto sposare una grande scrittrice come Elsa Morante, non avrebbe potuto convivere con me per tanti anni e non avrebbe avuto come terza moglie un’altra scrittrice mol- to autonoma e indipendente. Questo vuol dire che era una persona rispettosa della libertà altrui. 641

Lui è stato molto rispettoso della mia libertà e della mia autonomia, credo che questo sia abbastanza raro negli uomini italiani, e mi rife- risco soprattutto alle generazioni più vecchie, perché pensano che vivere con una donna voglia dire possederla. Lui invece non ha mai pensato così, ha sempre ritenuto che vivere con una donna significhi rispettarne la libertà e l’autonomia. Questa è la ragione per cui io l’ho amato moltissimo e per cui sono stata felice con lui, perché non ha mai cercato né di imporre, né di insegnare qualcosa: avevamo un rapporto di grande autonomia e di grande rispetto reciproco.

Riggio: Che rapporto ha Dacia Maraini con la musica?

Io amo molto la musica. Devo dire che sono stata cresciuta ed educata alla musica classica, perché questa era la formazione della mia fami- glia. Ho quindi conosciuto in età giovanile compositori come Bach, Mozart e Vivaldi. Ho poi imparato ad amare i grandi cantautori italiani, ma ho impa- rato tardi. Mi piacciono molto Guccini, De Andrè, Dalla, la Vanoni, Gianna Nannini, Conte, che amo particolarmente, e tantissimi altri. Mi piacciono i cantautori perché per me la musica non è soltanto una bella voce, ma bisogna avere anche qualcuno che pensa, che riflette sul mondo, che scrive poesie, che da una forma di pensiero alla sua musica. Ho conosciuto poi di persona tanti di questi cantautori e secondo me sono un orgoglio per il nostro Paese.

Riggio: Che effetto fa avere l’attenzione di centinaia di persone addosso? Le capita mai di aver paura di non essere ascoltata?

L’ascolto deve sempre essere reciproco. Penso che la persona che mi sta davanti mi ascolti così come io l’ascolto quando si avvicina a me. Non do per scontato che l’ascolto sia sempre generoso, però mi piace pensare che chi ascolta sia in un atteggiamento si simpatia, di simbiosi, di apertura verso il discorso dell’altro. Io mi considero molto aperta ad ascoltare e mi aspetto che gli altri mi ascoltino con altrettanta apertura. Il giudizio è libero naturalmente: si può essere o non essere d’accordo 642 con quanto affermato. La cosa che però non deve mai mancare in un dialogo è il grande rispetto per gli altri, questo per me è essenziale. Non posso concepire che ci sia cinismo, distrazione, un buttar li le cose con un’aria che si pensa disinvolta e che invece poi nasconde disinteresse per l’altro. Credo che anche un rapporto minimo, basato su un dialogo fra due persone, debba essere sempre basato sulla reci- proca stima e la voglia reciproca di conoscersi onestamente. Ho notato che se so ascoltare anche gli altri poi mi ascoltano. Que- sta per me è una regola. È sempre un dialogo, mai un soliloquio. Non si può parlare da soli, c’è sempre un altro che ascolta, esiste ed è importante. Io chiedo sem- pre i nomi proprio perché mi piace rivolgermi ad una persona data e non ad un numero o ad una persona anonima.

Middlebury, 15 luglio 2009 643 Flavia Laviosa incontra Franco Cassano

“L’angustia, l’asfissia di un unico modello culturale che pensa di poter fare da parametro a tutto il mondo…”

Franco Cassano (Ancona, 1943) è docente di Sociologia e di Sociolo- gia della Conoscenza alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Ha diretto la rivista «Rassegna ita- liana di sociologia» e il Centro Inter-dipartimentale di Ricerche sulla Pace dell’Università di Bari. Cassano ha inoltre rivestito la carica di presidente di Città Plurale, un’associazione per la cittadinanza attiva. Cassano è un intellettuale di punta del marxismo meridionale e autore dei seguenti libri pubblicati dalla casa editrice De Donato di Bari: Autocritica della sociologia contemporanea Weber, Mills, Habermas (1971); Marxismo e Filosofia in Italia (1973); in collaborazione con Remo Bodei, Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione (1977); e Il teorema democristiano (1979). Negli anni Ottanta, Cassano ha avvia- to una riflessione teorica sul Sud rivolta verso nuovi orizzonti. Il suo pensiero sociologico e filosofico ha preso forma nelle pubblicazio- ni: La certezza infondata. Previsione ed eventi nelle scienze sociali (Dedalo, 1984); Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro (Il Mulino, 1989); Partita doppia. Appunti per una felicità terrestre (Il Mulino, 1993). È con Il pensiero meridiano (Laterza, 1996), il suo libro più celebre, che Cassano pone le basi teoriche di un nuovo meri- dionalismo secondo cui il Sud viene pensato a partire da parametri nuovi, valorizzandone l’osmosi con il mare, l’“andar lenti”, contro il mito moderno dell’“homo currens”, e la sua dimensione di frontiera. Autore prolifico, Cassano ha inoltre scritto Mal di Levante (Later- za, 1997) e Paeninsula. L’Italia da ritrovare (Laterza, 1998) in cui estende la sua riflessione a Bari e all’Italia; Rappresentare il Medi- terraneo: lo sguardo italiano (Mesogea, 2000) in collaborazione con Vincenzo Consolo; Modernizzare stanca: perdere tempo, guadagnare tempo (Il Mulino, 2001); il saggio Oltre il nulla. Studio su Giacomo Leopardi (Laterza, 2003); e Homo civicus. La ragionevole follia dei 644 beni comuni (Dedalo, 2004). Inoltre, è degno di menzione il volume collettaneo curato insieme a Danilo Zolo, L’alternativa mediterranea (Feltrinelli, 2007), seguito da Tre modi di vedere il Sud (Il Mulino, 2009); e L’umiltà del male (Laterza, 2011). Franco Cassano è uno dei pensatori più liberi ed originali del pano- rama intellettuale italiano contemporaneo per la sua indomita curio- sità intellettuale che supera barriere tra discipline e ideologie. Con la teorizzazione del “pensiero meridiano”, secondo cui il Sud pensa se stesso, il sociologo propone la legittimazione e l’auto-rappresenta- zione del Mezzogiorno puntando sulla sua cultura, tradizione e storia sociale. Il “pensiero meridiano” è nato sulla sponda Sud-Ovest del Mediterraneo, dalla feconda mente del grande scienziato e filosofo Albert Camùs. Cassano si ispira al contributo del pensatore algeri- no per intraprendere un percorso teso all’elaborazione di un nuovo paradigma, svincolato dall’ideologia dominante del Nord-Ovest e del progresso e velocità, che definisce il Sud come una pesante appendi- ce, luogo di arretratezza, nostalgicamente ripiegato sul ricordo di un glorioso passato, e obbligato e rassegnato ad una insensata rincorsa per tenere il passo al ritmo del suo tiranno settentrionale e occiden- tale. Secondo Cassano, il Sud, con le sue caratteristiche specifiche e positive, quali la lentezza, la resistenza all’accelerazione, i legami familiari, deve anelare all’emancipazione dal Nord. In questa intervista il sociologo analizza alcuni punti cardine del suo “pensiero meridiano” partendo da come e perché nasce la sua insoddisfazione verso una cultura dominante, omologante e uni-ver- sale definita solo dai valori della modernità, la velocità, la produzione e l’individualismo. Cassano inoltre spiega come tutto ciò che ha defi- nito il Sud in negativo, può invece essere di insegnamento all’Occi- dente, ed il sociologo elabora il concetto secondo il quale con il ‘pen- siero meridiano’ non si intende un chiudersi a Sud, ma un individuare il bisogno delle qualità del Sud. Lucida è la definizione di integrali- smo, profonda è la critica dei fondamentalismi culturali, che Cassano offre, come espressione di primitivismo perché tendono a imporre e ripetere le proprie risposte anche quando esse sono la causa dei pro- blemi, e non la soluzione. Nell’affrontare il tema dell’immigrazione e dell’accoglienza, Cassano ironicamente risponde mettendo a con- fronto l’ordine e l’efficienza del Nord con il disordine e il rumore del Sud come condizioni che rispettivamente manifestano fastidio oppure paziente accettazione dell’altro. 645

Professor Cassano potrebbe spiegarmi come nasce il suo “pensiero meridiano” secondo il quale il Sud si ripensa e si riscopre nella riva- lutazione delle sue tradizioni, non in forma reazionaria, ma con la consapevolezza delle sue risorse umane e culturali?

Se dovessi descrivere il mio percorso, il momento in cui esso diventa più visibilmente “altro” rispetto al passato, dovrei fare riferimento al mio libro Approssimazione. Esercizi di Esperienza (1989) in cui pro- vo a mettermi dal punto di vista dell’altro, cioè degli animali, dell’al- tro sesso, dell’altra età; e poi anche ad un altro libro Partita doppia. Appunti per una felicità terrestre (1993). Questo percorso è incomin- ciato da un’insoddisfazione che riguarda la cultura dominante. Ho scelto di mettermi dal punto di vista degli animali, non per un anima- lismo che comunque rispetto, ma per capire che ci sono altri modi di guardare il mondo perché, quando si ha una diversa conformazione fisica, come per esempio il camaleonte che ha gli occhi indipendenti, si vede il mondo in modo completamente diverso dal nostro. Quindi il mio percorso partiva soprattutto da questa insoddisfazione nei con- fronti dell’omologazione dei punti di vista. Perché sottolineo questa priorità rispetto al tema del Sud? Perché spesso la lettura del Sud vie- ne percepita come una sorta di campanilismo teorico. Il mio percorso è stato di riscoperta, come è espresso nel mio libro Il pensiero meri- diano (1996) sia nel senso di avere un riguardo verso il Sud, sia nel senso di riguardare, cioè tornare a guardare il Sud. L’esperienza di una certa generazione è stata quella di non seguire i modelli culturali forti del Sud, che in qualche modo risultavano meno convincenti. Anche io mi sono lasciato sedurre dal modello vincente dell’Occiden- te con i dogmi del produttivismo, la competizione, un individualismo esasperato, con la caduta di ogni meta collettiva e dell’idea di bene pubblico. In un articolo definivo questo percorso come un processo di secolarizzazione infinita, in altre parole non solo cadono le grandi trascendenze, ma anche le piccole trascendenze e si rimane desolata- mente soli con il proprio io, qui ed ora. Quindi era questa inquietudine che mi ha portato a fare quella operazione che significava riscoprire, rivedere, riguardare i luoghi. Il libro Il pensiero meridiano ha rappre- sentato il bisogno di molti di guardarsi diversamente e di rifiutare il modello dominante, cioè quello di “diventare come”, cioè quello dell’omologazione. Ovviamente un’operazione di questo tipo non solo è complicata, ma si espone anche al rischio di non essere capita 646 e quindi di essere letta come un’operazione reazionaria di nostalgia antimoderna. Ne Il pensiero meridiano non si parla di un integralismo del Sud, ma dell’idea fondamentale che il Sud non sia un elemento di pura negatività, come viene generalmente rappresentato, perché nel modo di vita del Sud ci sono elementi che possono essere interessan- ti per l’Occidente. La cosa che mi ha molto colpito è che il tema della lentezza, molto forte nel “pensiero meridiano”, è presente nei lavori di diversi autori mitteleuropei, registi e scrittori americani. Credo che il Sud rappresenti gli elementi di un modo di vivere che nella cultura dominante sono percepiti come assoluta negatività, o che vengono recuperati in chiave totalmente mercificata: cioè si compra un pezzo di mare e di cielo. Mentre non si tratta solo di riscoprire qualcosa della propria identità, ma di ritrovare in questa identità qualcosa che interessa tutti i luoghi, il Sud e il Nord. Quindi con il “pensiero meri- diano” non si intende un chiudersi a Sud, ma un individuare il biso- gno di Sud che è molto diffuso, ma che purtroppo, in un mondo che procede sempre più di corsa, viene rimosso continuamente. Io dico che abbiamo i libri neri dei totalitarismi. I totalitarismi hanno una loro spietata contabilità perché il totalitarismo mette dentro, mette in pri- gione. Quindi se uno va a fare i conti, sa quello che c’è dentro. Il modello nuovo è un modello che mette fuori, è un modello di esubero con disoccupazioni, incertezza e insicurezza. Questo mondo di pato- logie senza nome, non ha una contabilità, ma è fatto di grandi lacera- zioni, tra cui l’idea di essere ossessivamente chiusi in una corsa nella quale se perdi è spesso colpa tua, oppure riversi l’aggressività sugli altri. Tutto questo non ha nessuna contabilità, ma ha comunque un costo altissimo che viene pagato. Allora il Sud non è tanto una banale esemplarità, ma è la capacità di riflettere partendo da livelli alti dello sviluppo per capire che esso non è solo una negatività da superare, ma è qualcosa attraverso gli occhi della quale noi possiamo guardare den- tro i modelli di vita dominante e individuare un elemento di criticità. Quindi, questo è tutt’altro che un banale “passatismo”, anche se io non ho nulla contro la nostalgia, ma non mi faccio colonizzare la mente pensando che ciò che c’era prima fosse necessariamente una premessa di ciò che è oggi, e che ne sarebbe il superamento progres- sivo. Questo non è assolutamente vero. C’è per esempio la situazione nella quale l’assistenza sanitaria passa dall’essere un diritto universa- le a qualcosa che invece dipende dal reddito, dall’assicurazione. Insomma questo non è un progresso, viene dopo, ma è un regresso. Si 647 tratta allora di usare il Sud come qualche cosa che appartiene a noi meridionali e che ci consente di ripensare, di riguadagnare un punto di vista che non contrappone se stesso, nella propria perfezione, ad un altro, ma è qualcosa che è capace di vedere le incrinature di un mondo più sviluppato. E pertanto il “pensiero meridiano” parla sicuramente al Sud, ma anche al Nord e all’Ovest. Inoltre ritengo che non tutto migliori velocizzandosi, per esempio non migliora velocizzandosi l’educazione, perché non credo si possa comprimere l’istruzione. Se come docente ho l’ambizione di incidere sulla forma del discente, devo aspettare, cioè gli devo porgere degli strumenti e lui deve poter riscontrare nella sua esperienza qualcosa che gli consenta di misurare ciò che gli ho detto, e inoltre non posso iper-modularizzare, in altre parole, comprimere tutto in poco tempo. Uno getta le basi e poi ognu- no ha il suo il metabolismo. Spesso siamo in un’ottica in cui pensia- mo che la quantità di nozioni coincida con la forma di educazione, ma non è così. Anche per l’amore, l’amore perde tutto il sapore se diven- ta veloce, se diventa acquisto dell’amore a pagamento, quella è la forma di amore più veloce nel quale l’altro non c’è, è un amore sup- posto. Quindi la gamma di ricchezza dell’esperienza che il Sud rap- presenta è l’elemento essenziale che credo i meridionali conoscano e che debbano presentare a coloro che non sono meridionali. In tutto questo non c’è nessuna auto-indulgenza nei riguardi del Sud perché molti dei difetti che vengono rimproverati al Sud sono la sua subalter- nità, cioè il fatto di essere stato sconfitto. Costruire la propria autono- mia significa essere molto severi con se stessi, in altre parole si dete- riora molto di più chi è indipendente perché cerca qualcosa esclusivamente con le proprie forze. A volte uso l’espressione ‘prosti- tuzione culturale’ per chi impiega le proprie risorse per comprare i favori, qualche mancia da chi è più ricco e più forte. Quindi l’autono- mia è una strada molto severa se si vuole migliorare, e non c’è nessun vezzeggiamento nei riguardi del nostro Sud. Per noi Italiani del Sud, leggere la nostra collocazione significa anche cambiare lo sguardo, perché in genere l’Italia del Sud, rispetto al gran corpo dell’Europa, è la parte estrema, più molle. Guardandolo invece nel contesto del Mediterraneo, è un luogo di mediazione, il che significa valorizzare per intero anche una storia, la capacità sincretica, cioè anche di rove- sciare le dominazioni, e di essere cerniera e collegamento tra i punti cardinali, i continenti, le religioni, quindi di mettere a valore qualcosa che ci appartiene e che noi stessi viviamo esclusivamente e pratichia- 648 mo come un limite, come un difetto. In questo periodo c’è una con- nessione tra valorizzazione della specificità del nostro paese, come un grande ponte che va da Nord a Sud, valorizzazione della dimensione del Sud e pace tra le nazioni del Mediterraneo, perché l’Italia è linea della comunicazione tra le civiltà. Quindi la dimensione Sud si intrec- cia anche con la dimensione del Mediterraneo. E non si tratta di inte- gralismo del Sud. Una nozione per me molto importante è quella di frontiera. Noi qui viviamo in un punto cerniera decisivo in cui uno rimane se stesso e allo stesso tempo deve abbandonare la propria motivazione integralista, ed è importante che lo facciano tutte e due le culture. Noi sappiamo molto bene cos’è il fondamentalismo altrui, ma forse dovremmo renderci conto del nostro fondamentalismo. Io trovo ogni fondamentalismo di un primitivismo mostruoso, perché tende a replicare le proprie risposte anche quando esse creano problemi. L’angustia, l’asfissia di un unico modello culturale che pensa di poter fare da parametro a tutto il mondo, presuntuosamente chiuso su se stesso, apologetico nei riguardi di sé, che di fronte al mondo che gli si ribella continua con le sue cure, e invece le sue cure sono malattie, è un modello integralista. Quindi interrompere questo meccanismo dell’integralismo allarga il mondo. Non è da parte del Sud un volersi dare una funzione essenziale di ombelico del mondo, ma di leggere in modo non provinciale la propria collocazione per arricchirla e portar- la ad altri come un contributo, e per imparare da altri quello che ci possono insegnare. Quindi da questo punto di vista, il ritorno alle radici è un movimento complesso perché non è lineare, ma è un ritor- no che richiede un modo per sprovincializzarci, per toglierci dal quell’unico ruolo di chi apprende passivamente rispetto ai modelli dominanti.

Lei fa riferimento al Mediterraneo che si è riaperto ai movimenti migratori e all’arrivo di popoli la cui presenza favorisce trasfusioni di cultura sul nostro territorio, con la Puglia e Lampedusa come nuo- ve frontiere e terre di passaggio. In occasione dell’arrivo degli Alba- nesi nel 1991 lei ha definito la Puglia un luogo non isterico. Potrebbe spiegare cosa intende con questa definizione?

Il problema è questo: noi ci troviamo nel punto di incrocio tra due globalizzazioni, quella delle merci e quella delle persone, quindi que- sto è un problema che non si può affrontare né solo come Sud, né solo 649 come Italia, perché la complessità della situazione richiede una plura- lità di strumenti e bisogna lavorare su vari livelli. La politica dell’ac- coglienza è anche un modo in cui si costruisce l’Europa, che non deve essere una fortezza chiusa nel suo cuore continentale, ma deve capire la rilevanza del Mediterraneo nel rapporto con le culture che stanno da un’altra parte. Quindi in primo luogo, la risposta è a livello gene- rale in un rapporto tra Europa e Mediterraneo per non rimanere sem- pre nell’ottica dell’emergenza. Per quanto riguarda la Puglia, bisogna dire che non dobbiamo gonfiare troppo il petto perché il non isterismo deriva anche dal fatto che molti immigrati possono andare altrove, quindi noi gestiamo solo la prima fase di questo passaggio. L’ele- mento al quale io mi richiamo quando dico non isterico, non è solo a proposito dell’arrivo della grande nave del 1991 che fu uno shock per tutti. Comunque ho visto un tipo di reazione a questi arrivi che non è mai stata di intolleranza, di fastidio, di repulsione, e la reazione degli anni successivi è spesso stata di solidarietà e di accoglienza, che tutta- via non ha fatto da corollario ad una politica istituzionale seria e forte da parte del governo. Da questo punto di vista sicuramente la reazione dei baresi non è stata isterica, però doveva essere più matura e capace di crescere per sentire la complessità del problema. A me piace dire, con una battuta, che forse al Nord, essendoci società più organizzate, stabili ed efficienti, l’arrivo di altri rappresenta un elemento di disor- dine. Nel disordine del nostro Sud invece nessuno se ne accorge se c’è qualcuno che fa più disordine. In una casa rumorosa se arriva qualcun altro che fa chiasso, nessuno si lamenta. Infatti, gli episodi di acco- glienza erano generalmente nelle fasce popolari dove questi mecca- nismi di solidarietà e di identificazione scattavano più rapidamente. È intrigante questo problema perché ci fa capire che a volte la collo- cazione è un grande meccanismo di riscoperta e di riclassificazione. Ritengo che nella nostra collocazione geografica ci sia un silenzioso suggerimento politico perché l’Italia può essere interessante solo nel- la misura in cui diventa un ponte o una porta protesa nel Mediterra- neo proprio perché una parte di sé è fatta di traffici, arrivi e partenze. L’idea generale è che l’Occidente sia un monolite o un baricentro da transito fondato sul Cristianesimo occidentale e nemico sia del Cristianesimo orientale che dell’Islam. Il che è in contraddizione con l’idea di Europa che invece comprende il Cristianesimo orientale. Per l’Europa e per il Mediterraneo l’equilibrio tra terra e mare, non è solo geografico, ma è anche un equilibrio tra appartenenza e libertà, per- 650 ché noi siamo entrambe queste cose. Secondo me il fondamentalismo dell’oceano è quello della libertà individualistica e anonima, per cui non si hanno più radici e si è continuamente ed ossessivamente soli in un percorso di tipo nomade. Questo volersi liberare di un fardello, quello della comunità, io lo trovo unilaterale tanto quanto l’ingessare l’individuo dentro al gruppo, dentro all’appartenenza.

Passo ora alla sua divisione dell’umanità in quattro punti cardinali che sono chiaramente simbolici. Lei propone una lettura geografica che ci divide in uomini est, uomini ovest, uomini nord e uomini sud. Nella sua cardinalità c’è movimento, oppure questi sono punti statici?

Il movimento c’è per molte ragioni. In primo luogo per l’obiezione che si può fare ad un discorso di un “nord rispetto a chi”, un “sud rispetto a chi”, o un “est rispetto a chi”. I punti cardinali sono sempre un po’ relativi e per me sono soprattutto una metafora. È ovvio che c’è mobi- lità perché sono costruzioni, quindi un passaggio continuo sta nella dinamica, elemento essenziale per una lettura dei punti cardinali. 651