Il libro

» V F, forgiato dalle ore in palestra, dalla routine agli arezzi, dalle rinunce, dagli infortuni e dalle viorie. Un corpo «Iestenuato dalla ginnastica e dal suo incanto. Una magia che ammalia una bambina di sei anni che vede per la prima volta in televisione un’atleta alla trave e insiste con la madre perché – dopo una prima rovinosa esperienza con la danza – la iscriva a un corso per provare le prime capriole, le rovesciate e le ruote. Un periodo spensierato e divertente, destinato presto a finire perché tui si accorgono che quella bambina è straordinariamente dotata. E questo talento non può essere sprecato, va coltivato, così una Vanessa ancora piccolissima conosce il volto spietato della ginnastica: le scuole serali, l’incubo del peso e l’ossessione della leggerezza, il diktat alimentare e gli allenamenti senza sosta soo la guida di Enrico, l’allenatore, la figura paterna, che plasma quella bambina fino a farle salire il più alto gradino del podio e diventare campionessa mondiale a quindici anni e mezzo. L’oro splende, e sarà la prima di molte medaglie; ma mentre l’atleta siede sul teo del mondo, alla ragazza non verrà concesso nemmeno di assaggiare la torta preparata in suo onore. L’incantesimo della ginnastica e i suoi demoni, il grave infortunio al tendine del 2008 e una carriera che sembrava finita. Il volo della farfalla e la sua caduta. Vanessa è oggi una donna di ventiquaro anni che ha fao pace con la ginnastica, è tornata a vincere contro tui i pronostici, e ha ancora un obieivo da raggiungere, un ultimo baito d’ali, le Olimpiadi di Rio del 2016. Ce la farà? La ginnasta italiana più titolata (e introversa) della storia è tornata finalmente a sorridere. Perché solo chi è felice vince davvero: adesso lei lo sa, e ha avuto voglia di raccontarlo in questo libro. L’autrice

Vanessa Ferrari è nata nel 1990. È la ginnasta italiana più famosa, la prima ad aver conquistato, a sedici anni non ancora compiuti, una medaglia d’oro ai Mondiali. Collare d’Oro del Coni, a diciassee anni è stata insignita del titolo di Cavaliere al merito dell’Ordine della Repubblica italiana. Ventun titoli ai campionati nazionali assoluti, dodici scudei in serie A1 con la Brixia, è la ginnasta più medagliata ai Giochi del Mediterraneo (oo ori), ha partecipato a due edizioni dei Giochi olimpici e nella sua carriera ha vinto cinque medaglie mondiali e dieci europee. Marco Archei è nato nel 1976. Ha scrio: Lola motel, Vent’anni che non dormo, Maggio splendeva, Gli asini volano alto, Sabato, addio, See diavoli, I giorni non si scavalcano. Collabora al «Corriere della Sera».

EFFETTO FARFALLA La mia vita raccontata a Marco Archei Effeo farfalla

Si dice che il baito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. The Buerfly Effect, 2004

«Diventerai la Nadia Comăneci italiana?» «Diventerò Vanessa Ferrari.» «La Gazzea dello Sport», 20 oobre 2006 Parte prima Da zero a oro

Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza guardi le stelle...

Dilegua, o noe! Tramontate, stelle! All’alba vincerò!

PUCCINI, Turandot, ao III, quadro I I

Cosa mi è saltato in mente? Non ci sono parole. Anzi, una c’è, ed è guaio. Mi sono dea: inutile girarci intorno, questa è la classica cosa che non dovrebbe mai accadere, figuriamoci in un momento come questo, nel bel mezzo dell’appuntamento più importante della mia vita sportiva e davanti agli occhi di tuo il mondo. Così, un momento fa, quando mi sono resa conto che la classica cosa che non dovrebbe mai accadere era invece appena accaduta, ho avuto un soprassalto e mi sono sentita gelare, ho visto il panico negli occhi di coloro che se ne sono accorti subito dopo di me e non ho potuto fare altro che chiedermi: sei impazzita? Dimenticare il numero in albergo? Come si fa? La Federazione internazionale e il Comitato di gara te ne assegnano uno, in doppia copia, e tu devi prendertene cura. Non è difficile, giusto? E invece non ce l’avevo. È stato tremendo, non me lo sarei aspeato da me. A giudicare dalle facce, nemmeno loro. Né il mio allenatore Enrico, né mia madre, né Folco Donati, il presidente della squadra. Tui con gli occhi fuori dalle orbite, esterrefai, terrorizzati, immobili. Per fortuna ci ha pensato mio padre a prendere il toro per le corna: è schizzato via senza pensarci un momento, nemmeno il tempo di contare fino a tre e stava già salendo le scale dell’albergo, una dopo l’altra fino a irrompere nella mia camera, dove effeivamente avevo lasciato il numero. In men che non si dica era già di ritorno. Allenatore, fisioterapista, compagne, tui a dirmi: «A posto, stiamo calmi. Non importa, non importa». Respiro profondo, ed ecco che finalmente il numero si trova al suo posto: sulla mia schiena. p E importa. Eccome se importa. Perché in questo preciso momento, prima della gara più significativa della mia vita e davanti agli occhi di tuo il mondo, io ci devo lavorare un momento.

Tre, sei, tre. Me lo ripeto un’altra volta, lentamente. Va a finire che quasi mi convinco. Tre. Sei. Tre. C’è il solito problema che sembra un dispari, ma non mi perdo d’animo, ho imparato come si fa. Con calma, senza saltare alle conclusioni: trecentosessantatré. È un pari? Non lo è. Ma io posso vederlo come un pari. Infai tre più tre fa sei, dunque è una specie di sei sei. E sei sei va benissimo, non è perfeo? È perfeo, nessuna paura. Tuo andrà come deve andare. Lo so, sono una pazza che odia la matematica ma non fa altro che invischiarsi nella matematica. Una matematica del tuo mia, ossessiva e scaramantica, priva di regole fisse, che riscrivo ogni volta. Il fao è che io non sopporto il quaro, da sempre. È proprio odio, dunque per me l’importante è che non sia mai quaro. Con l’oo va anche peggio. Quando me l’hanno affibbiato non ho perso un secondo e sono partita come una forsennata con la mia missione mentale. Ho passato una vita così, facendo tuo, tuo, tuo, per cambiare certi numeri e scomporli e trasformarli. In Spagna, l’anno scorso, mi hanno dato un sei. Ovviamente ero felice, perché un sei è il massimo. E infai è andata a meraviglia. Ma adesso è adesso, e sono qui: NRGi Arena, Århus, Danimarca, Campionati mondiali individuali femminili. Io e un palazzeo pieno. Io e il mio trecentosessantatré – io e il mio numero pari.

Pronti al decollo? Ci sono. Il solito sguardo a mio padre, seduto drio sugli spalti – annuisce, mi dà coraggio – e la solita certezza: non devo sbagliare. Non devo deludere nessuno, ma soprauo non devo deludere me stessa. Sono caduta dalla trave ma non mi sono lasciata scoraggiare. Enrico mi ha deo: «Ferrari, è il momento di fare sul serio, di meere la freccia!». E io ho pensato che sono la prima al mondo che nel corpo libero porta ben cinque diagonali. Il tappeto è lucido e per un momento mi sembra sterminato, poi quando lo toccherò col piede non mi sembrerà più niente e sarò sintesi e consistenza. Sarò raccolta e potenziale, feroce e lieve, pronta a far deflagrare la bomba della forza e a suonare il violino dell’equilibrio. La mia mente si vuota all’improvviso, come un bicchiere che qualcuno ha bevuto d’un fiato. Sono soltanto il mio corpo, predisposto a detonare perfeo e controllato, fuori da se stesso e secondo geometria. Devo solo respirare, immobile, col naso. Enrico me lo dice sempre: «Cosa ti cambia? Respiri con le spalle?». Be’, a essere sinceri sì, io respiro con le spalle. Invento la matematica e prendo aria dal muscolo sooscapolare: le alzo e le abbasso. Faccio scorta. Mi stringo la coda di cavallo afferrandola con le mani e separando i capelli con forza. L’elastico s’incolla alla testa. E parto. Prima diagonale. Tsukahara avvitato: salto doppio con due avvitamenti. Aerro bene – passo indietro. Altro tsukahara, perfeo. Coreografia e salto artistico. Guardo i giudici, ma non li vedo. Tre avvitamenti e arrivo leggera. Rondata, salto indietro teso con un avvitamento e mezzo. Non bao bene tra un salto e l’altro, quindi cambio. Sento che potrei cadere e tolgo il secondo avvitamento, dunque: un avanti teso senza g q avvitamento. Poi un enjambée cambio ad anello e un enjambée cambio drio. Dovrei fare tre giri ma ne faccio due e mezzo, finisco sbandando imperceibilmente. Mi preparo a un doppio carpio, l’ultimo. E oplà: aerraggio perfeo. È finita? Torno al centro, sorrido, il pubblico esplode. L’ho fao così bene? Non penso di averlo fao da Dio, ma mi sembra di essermi difesa. Saluto e corro via. Enrico mi viene incontro, mi abbraccia e mi solleva. Quindi la mia compagna Monica Bergamelli, e anche Salvatore il fisioterapista, deo Salva, mi brulicano addosso come formiche impazzite, sento l’elericità che emanano. Devo totalizzare almeno 15,225 per oenere il primo posto, ma secondo tui ho preso di più. Questo cambia le cose, e mi dico: sta’ a vedere che hai delle possibilità. Mi dico: sta’ a vedere che questa la porti a casa. Ci credo e non ci credo. Il mio corpo è caldo, stanco, ustionato. Le gambe vibrano come corde di chitarra. Mi aggiro, faccio su e giù, non riesco proprio a stare ferma. L’aesa – quest’aesa – è infinita. Il punteggio non esce. Per quanto dovrò starmene qui ad aendere che il mio destino sia tradoo in una cifra? Ancora la matematica. Ancora i calcoli. Sul tabellone, in ansia, leggo Longines mille volte. Leggo le pubblicità. Poi guardo il pubblico: lascio vagare un’occhiata lungo le gradinate dove so che siedono i miei genitori, poi plano a bordo campo e vedo la rumena Sandra Izbaşa, l’avversaria più temibile, la fuoriclasse, che si regge il mento con una mano guardando in basso. Il tabellone non dice ancora nulla e io ho un fiatone che mi stira i polmoni. Poi, all’improvviso, appare: 15,500. Totale: 61,025. p pp Il mio nome lampeggia. Il tabellone dice: 1. Vanessa Ferrari. Ed ecco che il mondo, in un aimo, sparisce. Come per lo scoppio di una granata, tuo va in pezzi. Saltano in aria i miei occhi, che registrano solo frammenti, come in un carosello febbricitante; salta in aria questo palasport, perché tui gridano e scatenano un terremoto; salta in aria mia madre, che sugli spalti spara in aria le braccia e grida: «Lo sapevo! Lo sapevo!». Salta in aria anche Folco, che sembra posseduto da un demone. Sta fermo solo il calendario, perché io l’ho inchiodato alla pagina di oggi, 19 oobre 2006: ho quindici anni e mezzo e sono la prima ginnasta italiana della storia a essere campionessa del mondo. Enrico mi solleva. Dovrei essere felice? Sono felice. Corro verso papà, che scende i gradini della platea furiosamente, corro e non capisco niente. Corro e intorno a me tuo corre anche più forte. Per un aimo è come se non stesse accadendo a me, ma mi dico sì, sono proprio io, non sto sognando, è tuo vero, non sono in camera d’albergo, non è la noe precedente, sono sveglia e sono qui. Corro per non pensare, per andarmi a riparare da tuo questo frastuono che non potevo immaginare. Corro e non so. Non so se vorrei scappare o buarmi ancora più dentro questa bellissima vioria, come un tuffo al centro di un’acqua azzurra e trasparente. Corro e vorrei – per sempre? all’infinito? – solo correre, correre, correre... II

... correre, correre, correre forte, più forte che posso. Un po’ perché ho paura, un po’ perché non ho scelta. Se mi beccano sono guai, laggiù non ci dovrei nemmeno andare, papà me l’ha ripetuto almeno cento volte. Laggiù c’è Ba. E con Ba ci si può fare male, male per davvero. Ba fa paura anche a Ivan e Michele, i miei fratelli. Ba fa paura a tui. Io, però, ci vado lo stesso. Sono faa così: gli sfreccio vicino con la biciclea rosa e sento in pancia un temporale. È successo anche a Michele: un giorno me l’ha rubata e, spaventato da Ba, ha pedalato come un mao, è inciampato in un tombino ed è finito gambe all’aria. Io ci passo, ma faccio finta di non guardare. Tanto poi va a finire che guardo lo stesso. E mentre guardo, faccio girare le gambe più che posso. Mi sento inseguita e fuggo – pedalo all’impazzata, una centrifuga di gambe, piedi, pedivelle. Ba è un’ombra scura. Ba è un mostro: anzi, il mostro. È pronto a prendermi se solo gli passo accanto, pronto a balzare fuori. Non appena comincia a far buio, Ba si risveglia e se ne sta accucciato in aesa. Quando gli passo vicino pedalando mi sembra di sentire addosso il suo respiro tetro, bronchiale, di spaventosa creatura. Mi sento sulla schiena il suo sguardo assassino anche se scappo. I suoi occhi, bianchi e fosforescenti nell’ombra, brillano nel punto del cortile dove nascono gli incubi, tra tui quegli immobili giganti di ferro. Primo piano sulla mia faccia: ho cinque anni e pedalo. Mi viene da ridere, a ripensarci adesso. Ma i giganti di ferro – et voilà, crolla tuo il cinema della mia infanzia – non erano affao giganti di ferro. Erano, semplicemente, macchinari da carpenteria pesante, cioè i torni e i compressori intorno a cui mio padre e mio nonno Angelo, che avevano messo su una piccola officina metalmeccanica da quindici operai, si affaccendavano tuo il giorno. Ovunque, mucchi di trucioli luccicanti, grigiastri e neri. Nemmeno a quelli potevamo avvicinarci. Ricordo che ero ossessionata e pensavo: se mi prende Ba, mi porta via per sempre. La paura di Ba superava la paura che avevo per qualsiasi altra cosa, tipo la ruggine. Ma la ruggine, pensavo, almeno non mi insegue e non mi divora. La paura della ruggine me l’ha faa venire mio papà in Bulgaria. Ripeteva che se mi fossi ferita con un ferro vecchio sarei morta.

Ricordo una volta, forse la prima. Ero piccolissima e non c’erano né Michele né Ivan, dunque sarà stato il 1992. Komarevo è sfocata, una nebbia bianca, un vapore da cui pian piano emergono i miei nonni: Atanas e Nikolina. Atanas Parvanov faceva il muratore, era nato in campagna e quel vapore era il suo paese natale; solo dopo sei anni dalla nascita di mia madre avrebbe preso la famiglia e l’avrebbe trasferita a Pleven. Aveva baffi a scopea con cui mi pungeva sempre, e due figlie femmine che per lui erano state una mezza disdea, perché avrebbe preferito due maschi. Era piuosto assente, dice mia madre, e un po’ freddo, e anche se lei l’aveva sempre desiderato – si era perfino comprata un body blu – le aveva proibito in tui i modi di fare ginnastica. Nonna Nikolina, invece, veniva da Dolni Vit, località sull’affluente del Danubio, ed era di stirpe lontanamente mongolica. Operaia in una fabbrica di scarpe, aveva un caraere accondiscendente, dolce, ed era dotata di un senso molto sviluppato dell’indipendenza. I miei genitori si conobbero al Golden Sands di Zlatni Pjasăci, una località mariima sul Mar Nero, nel golfo di Varna. Mio padre ci andava dal 1985, cioè da quando aveva terminato il servizio militare; mia madre aveva finito di frequentare la scuola di arredatrice e si trovava lì con la sorella Greta, maggiore di un anno. Quando si sono innamorati, lui le manifestò subito il suo proposito di invitarla in Italia. Rientrato alla base, le telefonava tui i giorni da mezzogiorno all’una e parlavano stentatamente, arrancando e ricorrendo a un idioma incerto, assemblato alla bell’e meglio come il vestito di un Arlecchino, con pezze di mille disuguali colori linguistici. Mio nonno Angelo, notando come fosse partito in quarta, cominciò a drizzare le antenne perché non gli piaceva l’idea che suo figlio piantasse tuo dall’oggi al domani e raggiungesse una ragazza in luoghi tanto remoti. Mio padre a quell’epoca giocava a calcio. Allora gli propose una scommessa, buò lì: «Ci vai solo se fai tre gol nella prossima partita». Be’, contro ogni ragionevole pronostico lui quei tre gol li fece, divenne la leggenda del paese, incassò i soldi e prese l’aereo per andare da mia madre, che nel fraempo si trovava a Plovdiv per frequentare un corso di ristorazione. Ed ecco che, la seimana successiva all’arrivo in Bulgaria di questo italiano esile e traboccante energia amorosa, cade il Muro. Mio padre intrecciò sentimenti e geopolitica, non ci pensò un momento di più e telefonò in Italia dicendo che, a causa delle questioni in corso, la sua partenza non poteva che essere rimandata. «Cause di forza maggiore.» Le chiamò così, ma in realtà quell’aereo l’aveva perso perché si era aardato, carta d’imbarco alla mano, in un prolungato e sentimentale saluto a mia madre. Fu in quell’occasione che le disse: «Sposiamoci». Appresa la notizia, nonna Nikolina scoppiò in pianto. Disse: «L’Italia non è dietro l’angolo». Ma nonostante questo, nel giugno 1990, a Pleven, davanti a duecento invitati, Galia Nikolova e Giovanni Ferrari si unirono in matrimonio. La festa ebbe luogo nel ristorante della zia di mia madre, la stessa che l’aveva incoraggiata a frequentare il corso che stava seguendo all’epoca, e che interruppe per venire in Italia.

Ospedale di Orzinuovi, provincia di Brescia: a novembre, a un anno esao dal crollo del Muro, in una pelliccia di volpe bianca in cui, leeralmente, sprofondava, entrò in ospedale. Di lì a ventiquaro ore mi partorì. Di fianco al suo leo una donna singhiozzava dalla maina alla sera. «Sono costrea, sono costrea...» «Signora, perché piange? Costrea a far cosa, scusi?» «A chiamare mio figlio Cosimo.» Io, per fortuna, mi chiamo Vanessa per libera scelta: un giorno, mentre era incinta, guardando la tv, mia madre aveva sentito la storia di una bambina napoletana di quaro anni che portava quel nome. Suo padre aveva avuto un infarto e la piccola aveva cercato immediatamente aiuto, tua sola, senza perdersi d’animo. Le sembrò una bellissima prova di coraggio. Le sembrò un bellissimo nome.

Quando ero piccola andavamo spesso in Bulgaria. Poi, pian piano, io diradai, soprauo a causa dei miei impegni sportivi. Tanto per cominciare, bisogna immaginare un paesaggio da cartolina: la campagna come un lenzuolo increspato, un fiume che taglia in due le schiene delle colline, le colline che si aprono dolcemente lungo il suo corso. Estate, casa di Komarevo. Io e i miei fratelli stiamo guardando nonno Atanas che conduce nel recinto i maiali; li guida, mugugna e ogni tanto li sollecita con la verga. A un certo punto, quel pomeriggio, i nostri genitori si accorgono della nostra sospea sparizione. Allora si meono alla ricerca, ma non ci trovano. Si spaventano, non hanno la minima idea di dove possiamo esserci cacciati. Ci scovarono dopo un bel po’: eravamo nel porcile, dentro il recinto, che menavamo fendenti a mani nude ai deretani dei porci. p Ci acciuffarono urlando, come se stessimo facendo il bagno nella vasca degli squali. Per papà era lo stesso, o quasi: ci sgridò e ci disse che era pericolosissimo, che quelli erano animali aggressivi e vendicativi. «Hanno buona memoria» diceva. «Si ricorderanno di voi!» Ba, la ruggine, i maiali. Non mi restava che andare dove tuo era più tranquillo: nel pollaio. Ci passavo tantissimo tempo. Quando non ero coi miei, stavo seduta in mezzo alle galline e ai pulcini, regina del pollame. Amavo anche i conigliei. E ricordo che, ogni tanto, andavo anche sul traore col nonno, oppure a «fare» la sabbia, a farla in senso leerale, perché all’epoca non la si comprava, bisognava andare a scavare. Poi, finite le vacanze in Bulgaria, tornavamo a Soncino dove vivevamo, nella nostra casa non grande ma con un grande cortile, in cui papà lavorava e noi potevamo fare lunghissimi giri in biciclea. Ba l’avevamo inventato noi. Nostro padre l’aveva cavalcato volentieri, generando a nostro uso e consumo, e ovviamente per il nostro bene, lo spauracchio che avevamo creato autonomamente; diciamo che ci rubò i dirii d’autore. Ba non era altro che l’eco scuro e catarrale dei macchinari. Ba era il rumore del raffreddamento di quando venivano spenti.

I miei fratelli, Ivan e Michele, sono gemelli e hanno solo tre anni meno di me. Da piccola ero molto gelosa di loro, al punto che quando sono nati mi scaraventavo di continuo contro il vetro del reparto cercando di impedire a tui i parenti di guardarli, ostruendo loro la vista con le braccia. In famiglia ancora ne ridiamo. A Soncino abbiamo vissuto fino al 2001, poi ci siamo trasferiti a Genivolta, sempre in provincia di Cremona, dalle parti di Soresina. La maestra Caterina è uno dei miei pochi ricordi dell’asilo. Un altro è che non volevo mai indossare i pantaloni, ma la gonnellina. Se non mi accontentavano, mi meevo di traverso e g piantavo grane. Amavo in particolar modo un vestitino a pois che mi aveva regalato mio zio Mirko, era l’epoca in cui in tv impazzava Sailor Moon e chissà, forse è a causa della sua leziosa divisa alla marinarea che avevo maturato quell’ostinata predilezione. Ricordo anche che una volta mi scelsero per fare la Madonnina nel presepe vivente. E poi che non volevo mangiare niente – il pesce con le lische, del resto, non lo mangio nemmeno adesso. I miei si erano perfino rivolti a un pediatra, il quale aveva deo che non c’erano problemi, ero faa così. Se spremo un po’ la memoria, incontro con piacere anche «le Laure», due amiche con cui passavo la maggior parte del tempo. Araversai pure la fase tipica, quella in cui dicevo: «Io non mi sposo perché non mi piacciono i maschi e non voglio baciare nessuno».

Avevamo un camper. Fu, quello, un bel periodo, soprauo per nostro padre. Era amante di quel tipo di vita, noi un po’ meno, ma niente da fare, era regola non scria che dovessimo obbedire e basta. Negli anni successivi la famiglia mi avrebbe seguito spesso, per le mie gare, a bordo di quel pachiderma marca Rimor. Nel fraempo mia madre era occupatissima a tenermi d’occhio. Voleva capire se avessi qualche tipo di talento, e fare qualcosa per aiutarmi a manifestarlo. Provò con le canzoni e mi comprò tua una serie di cassee dello Zecchino d’Oro. Cassee che non degnai della benché minima aenzione.

A Soncino ho frequentato le elementari fino alla terza. E questo è il momento di presentarvi la terza Laura della mia vita: la maestra. Le volevo molto bene, ho pianto inconsolabilmente quando ce ne siamo dovuti andare. È stata insegnante anche di Michele, lo mandava sempre dal preside e lo rimproverava ammonendolo: «Non sei come tua sorella». Ma io non so com’ero. So solo che amavo disegnare. Peraltro non stavo in classe durante l’ora di religione, perché, quando i miei mi avevano chiesto se volessi seguirla o fare altre aività, io avevo risposto senza tentennamenti: «Altre aività». Allora l’insegnante mi parcheggiava un po’ dovunque, io stavo buona e disegnavo. I miei fratelli non sono nemmeno baezzati. Io sì, e solo perché, pare, la mia nonna italiana insistee con forza. Ma i miei genitori dissero al prete di non chieder loro niente, di non pretendere niente. In classe eravamo in tre a non fare religione: tre minuscoli piori erranti, sessanta minuti di esilio nei confini di un’altra classe, carta Fabriano e pastelli a cera tra le mani.

Un giorno, spaparanzata sul divano a guardare la tv – erano in corso i Mondiali del 1994 –, vidi una ginnasta su una trave. Ne restai incantata: più la guardavo e meno riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Folgorazione, come san Paolo sulla via di Damasco. Mi piacque subito, tanto da non riuscire a tenerlo per me. Così ne parlai con mia madre. E mia madre mi iscrisse a danza. La verità è che a Soncino non c’era nessun corso di ginnastica e ogni volta che mi lamentavo, lei promeeva: «Quando trovo il corso giusto, ti ci porto». Io non vedevo l’ora che lo trovasse, ’sto benedeo corso, perché il mio impao con la danza, devo confessarlo, fu un disastro. In realtà non facevamo nemmeno danza in senso proprio: diciamo che le istrurici cercavano di stimolare la nostra motricità secondo criteri vagamente artistici o preartistici. Ci disponevano in cerchio e giocavamo con gli hula hoop, in un classico salone tuo specchi, con tanto di sbarra per gli esercizi. Mia mamma rimaneva con me per l’intera durata della lezione. Io facevo quel che dovevo, ma odiavo ogni minuto in cui stavo chiusa in quella stanza. La musica classica, che non sopportavo... Quei movimenti ridicoli... Gli ingredienti per farmi impazzire erano tui lì, insieme e contemporaneamente, roba da non crederci. Risento ancora le note argentine del pianoforte, il loro sgocciolio. Rivedo tue noi alla sbarra, una in fila all’altra, come minuscole galline nella rastrelliera, a fare i plié. A un certo punto le istrurici disponevano gli hula hoop in terra, quindi accendevano la musica e quando la spegnevano il nostro compito era farci trovare tue dentro un cerchio. Io saltellavo e non mi toglievo dalla testa la ginnasta sulla trave, il corpo perfeamente elastico, il suo guizzo bellissimo – mi chiedevo: cosa c’entra questo con quello che vorrei fare davvero? Partecipai anche a un piccolo saggio, e dato che in questo libro ho deciso di vuotare il sacco, sarò sincera: fu la prestazione più fallimentare della mia vita. Non tanto l’esibizione, che bene o male andò. Ma il finale. Fu quello a bollarmi di vergogna pubblicamentei. Innanzituo oenni la parte della principessa solo perché mia madre, su specifico mandato, si era affreata a lagnarsi con l’insegnante che invece, giustamente, valutata la scarsità delle mie doti, aveva pensato che fossi più adaa a un innocuo e marginale ruolo da coniglieo. Il punto è che io volevo essere un’importante principessa, non un superfluo roditore. Così alla fine fui principessa: corona e vestitino fucsia – una principessa shocking. Terminata la mini esibizione, per congedarci dal pubblico avremmo dovuto seguire un percorso prestabilito, sfilare davanti alla platea e, a tema libero, salutare e ringraziare producendoci in un particolare movimento; non certo un entrechat dix, ma insomma, qualcosa di minimamente elaborato, un approssimativo port de bras, un accenno di développé, una goffa ma volenterosa révérence. Ognuna fece quindi il suo: ed ecco che la disciplinata froa delle bambine incartate come caramelle si sbracciava artisticamente davanti alla platea degli ammiratissimi genitori. Quando toccò a me, mi sfraarono le stelle e mi accolsero le stalle: inciampai nel vestito e rotolai in terra, rovinando prona davanti a tui. La corona tempestata di lapislazzuli di cartone colorati a pennarello, ruzzolando, abbandonò ingloriosamente la mia testa. Nonostante tuo tirai drio e completai la mia infelice spaccata, ma credo di non aver mai provato vergogna più grande. Da quel giorno, umiliatissima, mi impuntai. Dissi ai miei che non volevo più sentir parlare della danza e tornai alla carica con la ginnastica. Con oimi risultati: oenni quel che volevo.

Ho cominciato il mio primo corso nel 1997, a Soncino. La mia prima istrurice, Elisabea, notò che avevo una spiccata predisposizione, infai due mesi dopo ero già stata trasferita alla Liberi e Forti di Castelleone soo le cure di Alberto. Rispeo a Soncino, la cui palestra era come tante (tuavia, eterna gratitudine: è lì che mi hanno insegnato le ruote, le rovesciate e le capriole), avevano qualche arezzo in più e ci mandavano le più bravine. Dunque sono bravina, è ufficiale. Guardando al passato – guardandoci adesso – direi che all’epoca era tuo molto divertente e disimpegnato. Non ricordo stanchezza, seppure i miei allenamenti cominciassero a diventare un poco più impegnativi. Ma imparavo e stavo bene, mi sentivo eccitata, mi presentavo in palestra con l’entusiasmo del neofita che abbraccia una disciplina che sente corrispondere alle proprie inclinazioni. In ogni caso, durante la prima, piccola garea a Castelleone, caddi dalla panca durante una rovesciata. Ci stavo prendendo gusto? Non pensai nemmeno per un momento di fermarmi, e portai a termine l’esercizio.

Nel fraempo mia madre non aveva smesso di informarsi. Si era accorta che qualcosa scaava, in me, non appena meevo piede in palestra. Non ne avevo mai abbastanza, e se a scuola mostravo un caraere introverso e poco incline, sui sarneige mi trasformavo e non sembravo la stessa. In più, essendo lei bulgara, aveva un solido retroterra di cognizioni nel campo, di cui si serviva per orientarsi al meglio. Così, chiedi a destra e chiedi a sinistra, le avevano consigliato di portarmi a Milano o a Brescia, ossia gli unici posti dove avrei potuto frequentare la scuola e non perder tempo nei trasferimenti. Quello stesso pomeriggio chiamò la sede della società sportiva Brixia. L’avevano fondata nel 1984 Enrico Casella, un ingegnere nucleare con cento presenze nella serie A di rugby, sua moglie Daniela Leporati e Paola Riei. Le rispose proprio lui. Disse: «Porti la bambina tra due giorni». Quindi – erano i primi mesi del 1998 – ci presentammo. Mi valutarono e mi presero. Ricordo i primi allenamenti, che erano impostati allo stesso modo per tui: riscaldamento, corsa, movimenti di braccia, quindi coreografia, salti artistici per trave e corpo libero e, per finire, potenziamento e arezzi. Mia mamma mi accompagnava e tui i giorni facevamo avanti e indietro tra Soncino e Brescia, compreso quando avevo i rientri pomeridiani e finivo alle 16.30. Se avevo scuola solo la maina, arrivavo in palestra alle 14 e ci stavo tre ore.

Passò un anno. Un bel pomeriggio, tornando a casa, mia madre mi comunicò che avrei cominciato ad andare a scuola a Brescia. Era il 1999. Mentre lei guidava venni a sapere che ero stata inclusa nel loro progeo SIB, Sviluppo Integrale Brixia, un’idea che avrebbe permesso a molte ginnaste di svolgere le consuete due sedute di palestra giornaliere senza rinunciare a una basilare formazione scolastica. Andava così: se avevi le carte in regola, cominciavi facendo parte dei gruppi di preagonistica e lavorando con obieivi mirati a tre sedute di allenamento da due ore l’una; poi passavi al gruppo delle allieve agoniste: cinque sedute da tre ore; da lì, le più brave passavano a circa trenta ore in cinque sedute. Ho frequentato, alle serali, la quarta e la quinta: in palestra di maina e di pomeriggio, poi a scuola dalle 16.30 alle 19. Tuo organizzato. g Ero felice, non avevo ancora idea del fao che quell’aività mi avrebbe risucchiato la vita, mangiandosi sempre di più tuo il mio tempo. Mi piaceva quello che facevo e lo facevo senza chiedermelo. Qualcosa, però, sarebbe cambiato presto. Quando cominciai le scuole private in palestra non c’era più solo il divertimento, gli allenatori cominciavano a esigere sempre di più, la strada si stava facendo ripida e i ritmi si intensificavano esponenzialmente. A scuola eravamo un po’ stanche, certo, ma ce la facevamo senza drammi. Poi, tra il 1998 e il 1999, le cose successero in frea, come in discesa. Il tempo mi sembra tuo lo stesso tempo, indistintamente, una massa non sempre a fuoco di giorni e seimane: e in quella sfilata di ore che passano senza chiedermi il permesso, ci sono io, piccola, che un po’ mi rendo conto e un po’ no, che un po’ non vorrei ma poi mi lascio trascinare, che sto bene e non mi faccio troppe domande. Le priorità della mia vita – priorità che non avevo deciso io – cominciavano a cambiare. La vita, tramando a mia insaputa, invertì l’ordine di importanza delle mie aività: prima la palestra, poi la scuola. III

Piscine Delfino, via Roma 27. Se Charles Dickens avesse ambientato un romanzo in una palestra, sarebbe stato lo sfondo ideale. Le ragazze della Brixia si allenavano in questo edificio tuo azzurro, decorato da fluuanti ginnaste bianche disegnate alle pareti. L’ambiente era piuosto angusto: da muro a muro non più di dieci metri, il tuo disposto su due piani. Le vasche erano state riempite in alcune parti, quelle rimaste vuote erano diventate le buche. Per quanto riguardava gli arezzi, ci si doveva arrangiare. C’era un corpo libero addossato ai muri e assai più corto, cioè con una striscia in meno, quindi sbarre e specchi tu’intorno. Come se non bastasse, il soffio era basso, per cui ci scaldavamo tue insieme, poi lì ci lavoravano solo le più piccole, le più grandi avrebbero rischiato di farsi male – anche negli anni a seguire, alla Delfino avrei messo a punto solo le coreografie e nient’altro. Le travi a disposizione erano tre, una bassa e due più alte; all’inizio imparavamo sulla trave bassa, poi si prendeva confidenza con le altre due, dotate di un’uscita da un metro e mezzo che dava sul bagno: facevi il tuo esercizio e, se «uscivi lunga», ti presentavi alle turche. Al piano di soo c’erano le parallele in buca e fuori buca. Quelle fuori buca erano, da un lato, appiccicate al muro, e di fronte anche. La parete era stata prudenzialmente foderata con un tappeto. Mancavano i regolamentari 25 metri di rincorsa, infai ne avevamo a disposizione solo 18. Fuori buca non si poteva saltare, avevamo una semplice strisciolina per correre. Per il corpo libero avevamo un’unica facilitante, molleggiata. Lì facevamo acrobatica e ci piazzavamo la «linguona» per il volteggio. Insomma, se non si fosse capito, lavorare in quella palestra consisteva in un allegro slalom tra comiche inefficienze e asprezze autarchiche di ogni genere. Inevitabilmente, per i collegiali, traslocavamo a Milano, in via Ovada, dove tra l’altro fanno base anche le riprese del programma «Ginnaste-vite parallele» in onda su MTV. Lì c’era una palestra con tui i crismi, si provava ogni esercizio per come doveva essere fao, e per noi che venivamo dal disagio logistico, quello era un paradiso a perdita d’occhio. Tue le seimane andavamo a fare il weekend a Milano, e a Brescia portavamo a termine solo parte delle preparazioni, questo, per lo meno, fino al 2007. Ma è stato alle piscine Delfino che ho cominciato a fare sul serio. È stato alle piscine Delfino che, per la prima volta, ho incontrato colui che sarebbe diventato il mio allenatore: Enrico Casella.

Ma non ci avrei lavorato subito. Nel primo periodo era meno presente e si occupava a tempo pieno delle senior. Certo, impartiva direive su quel che dovevamo fare, sui carichi e i ritmi di lavoro, e quando ho cominciato lo vedevo sempre andare avanti e indietro, tuavia non eravamo ancora entrati in pieno contao. Da principio mi allenavo con Claudio Nobilini, ma soprauo col mitico Jan Zifcak, che noi chiamavamo Jano. Era arrivato in Italia una decina di anni prima, e a Brescia dal 1995. Già allenatore della Nazionale giovanile slovacca, era figlio d’arte, perché se non sbaglio i suoi genitori erano quotati allenatori di ginnastica artistica. Aveva una tipica faccia dell’Est, rupestre, squadrata, parlava un italiano buffo ed emeeva sentenze ancora più buffe. Una volta, io e Paola Galante avevamo considerato l’ipotesi di buar giù un libriccino con le cosiddee «Janate», progeo microeditoriale che purtroppo non è mai davvero decollato. Fu un vero peccato, perché certe perle sgrammaticate che lui dispensava a piene mani, secondo me, erano degne di nota. E dire che all’inizio mi p g faceva paura... Poi, conoscendolo meglio, mi ci sono affezionata, e a volte, se penso a lui, mi manca ancora adesso. Rievocando le sue sparate, rido ancora da sola. Per esempio, dopo un esercizio portato a termine con affanno, in debito di fiato o con qualche goffaggine di troppo, era capace di guardarti e dirti: «Mi sembri come pinguino in deserto». O anche: «Chi sei? Gesù dopo trentatreesimo anno?». Amava molto questo genere di baute, e noi anche. Se l’esercizio era stato eseguito bene, diceva: «Ora hai fao più meglio di prima. Ora brava». L’ultima volta che l’ho visto è stato ai Mondiali di Roerdam nel 2011 e ne sono stata felicissima perché Jano appartiene ai ricordi migliori che ho, a un periodo spensierato. Mi sono allenata con lui per tuo il 2003, mentre Enrico era spesso via con Monica Bergamelli per gli Europei, i Mondiali o le Coppe del Mondo. Le doti migliori di Jano erano la calma, la capacità di capire l’atleta e il suo cuore, non solo il suo corpo. Non si alterava mai se sbagliavi, soprauo se capiva che stavi davvero provando a fare quel che lui ti aveva chiesto. In quel caso, qualunque esito sarebbe andato bene, perché preferiva che tu eseguissi un esercizio con l’impostazione correa, piuosto che mirassi solo al risultato, trascinandolo approssimativamente nei suoi passaggi. Tantissime cose me le ha insegnate lui. Tecnicamente solidissimo, era una vera scienza in materia di parallele e corpo libero. A Brescia allenava di maina, di pomeriggio andava a Travagliato. Da quando ha cominciato il suo pendolarismo, ho diminuito il numero degli allenamenti con lui. Nessun trauma, per carità, il passaggio è stato graduale. Diciamo che veniva sempre meno, finché a un certo punto era diventato normale vedersi solamente alle gare di serie A. Da quel momento Enrico ha cominciato a seguirmi più da vicino, e devo ammeere che il clima non è stato più lo stesso: per me raccoglieva l’eredità di Jano, che avevo amato, indirizzandomi da lì in poi nel trao più impegnativo della mia vita sportiva. Più severi gli obieivi, più severo lui. g p Voleva sacrificio e testa. Voleva le cose giuste e basta. Senza tante storie. Senza troppe chiacchiere.

Infai nessuna apriva bocca: non ci si azzardava a protestare o a dire alcunché, ci si allenava e non si baeva ciglio. Quando, il giorno in cui con i miei genitori e i miei fratelli varcai la porta sbilenca delle piscine Delfino per farmi «testare», mi fece subito una forte impressione. Soggezione? Direi proprio che di Enrico avevo paura. È un uomo intelligente e carismatico, gliel’ho sempre riconosciuto, ma anche molto severo. Era noto per le maniere brusche e a volte, forse, eccessivamente sbrigative. Mio padre non era da meno, e il giorno in cui Enrico lo portò davanti alla fotografia di Francesca Moroi e gli disse: «Ci vogliono oo anni di lavoro duro per arrivare qui, e Vanessa può nutrire qualche speranza perché ha qualità di gran lunga superiori alla media» lui gli cedee parte dello scero educativo. Ero brava? Ero in grado di raggiungere certi risultati? Ebbene, come allenatore avrebbe avuto carta bianca. Ogni mezzo che avesse giudicato necessario per oenere da me il massimo sarebbe stato quello giusto.

Il provino lo ricordo benissimo. Ho la scena davanti agli occhi anche adesso: eccomi che arrivo al centro della corte familiare, preceduta da mia madre e mio padre e seguita dai miei fratelli. Eccomi che entro in palestra. Durante le presentazioni, Enrico mi squadra, parloa coi miei e intanto io mi scaldo. Li sogguarda e dice: «Siete piccolini tui e due, molto bene, la ragazza non dovrebbe diventare troppo alta». Poi mi chiama e mi chiede di fare alcuni esercizi. Mi fa lavorare alle parallele e mi osserva saltare da uno staggio all’altro; quindi mi indica la trave, una da 50. Mi dà dei colpi sulla pancia, sempre più forti, araverso i quali vuole saggiare la mia struura muscolare e vedere se faccio anche solo una piega. Non la faccio. Resto impassibile. Infine mi porta al bordo di una vasca diventata buca, riempita di pezzi di gomma. Me li fa toccare e mi chiede di saltarci dentro. Ci salto. Poi saliamo al secondo piano, dove c’era una specie di ballatoio con balconata da cui si provavano i tuffi. Mi chiede di scavalcare la balconata e di starmene lì, ferma, sul cornicione. La scavalco e, come da direive, resto impalata. Mi chiede di buarmi. Voleva verificare il mio sprezzo del pericolo? Be’, io il pericolo lo sprezzo eccome, e mi buo senza pensarci un aimo. Mio fratello Ivan, invitato a fare lo stesso, si lancia dopo di me. Michele: passo avanti, occhiata sceica verso il basso, passo indietro. A un certo punto – saranno state le 16.30 dato che le ragazze più grandi si stavano cambiando per andare a scuola – Enrico tuonò: «Castelli, esci dallo spogliatoio!». E io: «Chi è Castelli?». «Tu non ti preoccupare.» In automobile, di ritorno a casa, mia madre mi raccontò che a quella ragazza lui aveva dato una lavata di capo epica, perché l’aveva sentita rivolgergli a mezza bocca un insulto. Piacesse o meno, Enrico era questo: un uomo saldo, molto preparato, amante della disciplina, che sapeva dove voleva arrivare e conosceva i metodi giusti per realizzare gli obieivi. Dice sempre che alla prima occhiata ha pensato che fossi un rospeo, e che mi sono leeralmente trasformata alle prese con gli arezzi: saltavo come una molla, avevo una notevole reaività in pedana ed ero energia allo stato puro; insomma, una piccola bomba atomica. Racconta che pian piano si sarebbe reso conto anche di un’altra caraeristica importante: la mia – come ama definirla – alta allenabilità. Sono d’accordo, difai lavoravo sempre con entusiasmo, non mi tiravo mai indietro e non mi si doveva pregare perché facessi qualcosa. Non mi ammalavo mai e non ero mai assente. Altra caraeristica fondamentale? Dopo ogni allenamento miglioravo significativamente. Guadagnavo in scioltezza e non avevo paura di fare alcun esercizio. Spingevo e spingevo senza problemi. Deo questo, io gli inizi li ricordo duri, ma forse quel che dice Enrico è vero, dato che non trovo, nei cassei disordinati della memoria, immagini di me minimamente intenzionata a retrocedere. Soffrivo un po’ il lunedì maina, a dir la verità, ma questa è un’altra storia. La voglio comunque raccontare: quando mia mamma, alle 8.30 di un maino magari invernale, dopo un pacifico weekend, mi scaricava davanti all’edificio delle piscine, mi sentivo venir meno e appassivo in un lungo istante di scoramento. Mi vedevo piccolissima, al cospeo di quell’infinita scalinata che sembrava costituita da giganteschi tasti di un gigantesco pianoforte che, se avesse suonato soo i miei passi, non avrebbe di certo intonato la marcia trionfale. Allora sospiravo e mi voltavo in cerca di conforto. Ma vedevo solo la sua auto che filava via.

Dal momento in cui meevo piede in palestra, pensavo solo alla palestra. Non ho mai vacillato, nemmeno quella volta, la prima, in cui Enrico, dopo avere steso un tappeto sulla trave, si mise alle mie spalle chiedendo che mi ci sdraiassi perpendicolarmente. Mi allungai in apertura e lui mi tirò le spalle, tendendomi come una fisarmonica. Crepitio di schiocchi lungo tue le vertebre. Il suono fu lo stesso, solo un poco più autito, di quando si schiaccia una noce a più riprese. Ricordo di aver pianto per il dolore. Ero sbigoita, ancora priva di una significativa esperienza. Negli spogliatoi, mia mamma, vedendomi preoccupata, e preoccupata lei stessa, mi garantì: «Vanessa, guardami: se vuoi non torniamo più». Mi sono messa a strillare: «No, no e no! Io voglio andare avanti!». E sono andata avanti: nel 2002 facevo i salti doppi, e dopo aver vinto tue le gare, a Fermo, ho vinto il Campionato italiano Allieve. g p Ma fu ai Regionali dell’anno prima che conquistai il primo successo: Guendalina Salvi era bravissima e gareggiava nella Brixia come me, aveva un anno in più, e all’ultima gara riuscii a baerla. È stata gioia pura. Mi sono sentita orgogliosa del mio lavoro e delle mie capacità, non mi era mai successo prima d’allora. Tuavia, in quel periodo, ho avuto anche le prime noie al tendine, il dramma della mia vita sportiva. Un giorno sentii una fia a quello sinistro. Lo segnalai e mi diedero un’occhiata. Daniela, la moglie di Enrico, mi disse che dovevo saltare la gara Interregionale perché il problema era abbastanza serio e che sarebbe stato meglio risolverlo subito, altrimenti me lo sarei portata dietro chissà quanto. Piansi: se mi fossi qualificata agli Interregionali avrei potuto fare anche i Nazionali. Lei mi incoraggiò: «Non ti disperare. Vediamo come va, non è ancora del tuo escluso che tu faccia i Nazionali». Li ho fai, con uno spesso bendaggio che mi avvolgeva tua la gamba. Fu anche comico, perché sembravo una mummia. Mi classificai quarta. IV

L’anno del passaggio in serie A è stato il 2003. È da quel momento che Enrico ha cominciato a seguirmi con sempre maggior aenzione e scrupolo. Cosa resta, nei miei ricordi, di questo periodo? Tuo, direi. Perché tuo fu, senza mezzi termini, elerizzante. La competizione non mi intimoriva. Ero agitata, ma nulla di più. Niente paralisi, niente tempeste emotive. L’adrenalina scorreva come un fiume di energia positiva, ravvivando il mio sangue e i miei nervi. Quell’anno, essendo campionessa italiana con la Brixia, feci i quarti di Coppa Europa. Poi all’inizio dell’estate andai in Bulgaria per una seimana di vacanza, che passai con la famiglia a Pleven. Tornai da sola in aereo, mentre i miei rimasero là. Feci due giorni di allenamento a Brescia, basati su un massiccio potenziamento iperintensivo, quindi il pomeriggio seguente partii, per arrivare a destinazione in serata. Nantes: in ritiro con la Nazionale, aggregata alle più grandi. Ero un po’ intimorita, non del tuo felice. Cosa c’era che mi raristava? Perché quello straccio sporco sul fondo dello stomaco? Presentimenti? Ho cercato di non badarci. Dopotuo, mi dicevo, era normale avere qualche preoccupazione, no? Un collegiale è impegnativo, si traa pur sempre di un ritiro. In più, quando sei via – dico una cosa ovvia – non è come essere a casa. A casa è tu’altra musica, e quando hai finito l’allenamento, esci, ti dedichi agli affari tuoi, sei tra cose e persone note. Se ti trovi all’estero no, anzi può essere un’autentica roura di scatole, dato che la sensazione più frequente che si prova è quella di essere in caserma. q Come una coppia di cadei, io e Roberta Galante, classe ’90. E Nantes era uno dei nostri primi collegiali, certamente il più serio. Gli allenatori federali erano due: Paolo Pedroi, che da atleta fu campione italiano Juniores nel 1973, poi responsabile della preparazione tecnica della squadra femminile (parlava a voce bassa e con la bocca chiusa, tipo Dino Zoff, e si arrabbiava se qualcuno non capiva) e Rodica Demetrescu, una tecnica rumena.

Partiamo dalla fine. Siamo state in Francia una seimana, e al termine di questa via crucis avrei voluto cadere in ginocchio e ringraziare che non fosse durata di più. L’impao, infai, fu terribile e angoscioso, e se non ne rimasi traumatizzata è stato solo perché sapevo che si traava di un periodo circoscrio. Mi sarebbe toccato altre volte, ne avevo piena consapevolezza, ma se la mia vita sportiva fosse stata tua, dal primo all’ultimo giorno, come sperimentai quella volta in Francia, credo che avrei mollato nello stesso istante in cui me ne fossi resa conto. Furono molti i faori che concorsero a rendere quei giorni difficili. Innanzituo, durante i collegiali il controllo praticato sulla vita degli atleti è totale. Oggi è di gran lunga minore rispeo a quando li facevo io, noi tenevamo ritmi altissimi, ai limiti dell’insostenibilità. Il riposo era sempre insufficiente perché facevamo allenamento per tua la maina, il pomeriggio lo passavamo interamente agli arezzi, quindi la fatidica e sfinente ora finale di potenziamento, articolata secondo tre minuti di lavoro e uno di riposo. Ricordo che una volta una ragazza svenne, col sangue che le colava dal naso. Io ero certa che non sarei svenuta (ho sempre avuto una fibra piuosto resistente), per cui la scena non mi impressionò più di tanto, però ricordo che ne parlai a cena con le compagne. E veniamo al secondo aspeo, il più terribile: ho deo cena, vero? Sarebbe meglio chiamarlo spuntino serale. Perché sì, fu il cibo l’altra grande questione che mi lasciò di stucco. Io ero piccola, non mangiavo granché già di mio, però ricordo di aver sofferto la fame. E lo ricordo perché, fino a quel momento, non mi era mai successo. p q Fame. Fame vera. Fame nel senso leerale della parola. A peggiorare la situazione c’era anche il fao che a tavola ci presentassero pietanze per me disgustose. Ricordo acquitrinosi passati di verdura e fangose pappe liquide, e che la carne la vedemmo una volta sola. Così è andata a finire che, anche per colpa mia, ho mangiato pochissimo. Le dosi proposte non erano comunque generose, basti pensare che ci servivano il cibo su un piaino da dolce, vuoto per metà, e io lì che fissavo la parte bianca, lucida, e non riuscivo a pensare ad altro che a casa mia. Non mi consolava nemmeno sapere che l’anno precedente fossero stati ancora più severi, e che le ragazze non dovessero darci dentro nemmeno con l’acqua, perché – cito leeralmente quel che mi riferirono – «faceva aumentare di peso». Mangiavo soprauo i semi di girasole che mi aveva dato mia madre, abitudine che anch’io avevo preso in Bulgaria. Qualche volta, di sera, io e Roberta sgranocchiavamo qualche cracker, ma lo facevamo di nascosto e con terrore, anche perché – altra premonizione? – sentivo che gli allenatori avrebbero potuto approntare lì per lì un controllo a sorpresa, magari irrompendo nelle nostre camere. Prima di infilarmi in bocca il cracker, lo guardavo. E mi sembrava chissà cosa. Finché una sera, Roberta, suggestionata dai miei sospei, cominciò a innervosirsi e a farsi sbranare dall’ansiaperquisizione. Aprì la sua sportina, guardò al suo interno come se fosse il pozzo delle meraviglie e mormorò: «Vanessa, sai una cosa? Dobbiamo mangiarci tuo». Dal terzo giorno, gli allenatori annunciarono ufficialmente che avrebbero potuto farci dei controlli random. A maggior ragione la trovata di Roberta non mi sembrava molto brillante, perché se avessimo spazzolato tuo e avessimo poi denunciato un peso sospeo sulla bilancia del giorno dopo, gli allenatori avrebbero fao due più due e le punizioni non si sarebbero fae aendere. Del resto da lì non si scappava: ci pesavano ogni sacrosanta maina e ci spiegavano che dovevamo calare «a gruppo», in base al nostro peso totale. Che scuse avremmo mai potuto accampare se i numeri della bilancia fossero andati su, anziché giù? Così, quella sera, Roberta si intrufolò di camera in camera per smerciare la roba. La conseguenza negativa fu che, siccome si era liberata di tui i cracker, ci consegnammo alla fame per i giorni che restavano, ma ci andò bene comunque, perché il giorno dopo, quando scaarono i controlli paventati, fummo salve: ci raccontarono che gli allenatori avevano rovistato perfino nello sciacquone dei cessi, pescando i cracker di Roberta. A colazione l’andazzo non era più roseo. Avevamo dirio a una ciotolina minuscola di cereali, ovviamente quelli modello-base, i classici corn flakes, appena inumiditi da un misero bicchierino di lae. E questo era il pasto in cui si mangiava di più, se ricordo che la sera sognavo la colazione – questa colazione. Dovessi soopormi oggi a questo regime, cadrei a terra di schianto dopo mezza rondata. Risultato? All’epoca pesavo 28 chili. Finito il collegiale, una volta rientrate a Brescia, dopo soli see giorni, la bilancia diceva: 26.

E questa è la storia di come ho messo su due chili in tre giorni. I miei erano ancora in Bulgaria. Enrico una maina ci portò dal fisioterapista e poi ci lasciò lì. A un certo punto arrivò mio nonno e scaò un’ovazione. Lo guardammo tue con gli occhi a cuoricino e gli chiedemmo se, per favore, poteva andare a comprarci delle piadine. Lui, ignaro, ci andò, forse chiedendosi la ragione di tanto entusiasmo nei suoi confronti. Quando le portò, le aggredimmo come assatanate. Ma non ne avevamo abbastanza, e ne chiedemmo un altro giro. Nessuna di noi si preoccupò del fao che, dal giorno dopo, ci saremmo dovute giustificare, drie su una bilancia che avrebbe indicato, col suo impietoso ago, una verità che ci avrebbe messo nei guai. Per fortuna non accadde. In quel periodo, infai, non sempre gli allenatori ci controllavano come durante i collegiali, così anch’io coglievo spesso la palla al balzo per fregare un paio di ei; va deo che a Brescia non ci hanno mai pesato con puntiglio maniacale, non avevano questa fissazione, il peggio era più che altro quando andavamo a Milano, o durante i ritiri. In ogni caso, per chiudere con Nantes, a parte la questione alimentare, non posso tacere l’altro punto dolente: l’allenatrice Rodica Demetrescu. Il rapporto con lei non funzionò praticamente mai. Io ero abituata alla disciplina, lo sono sempre stata, in palestra non si scherzava, gli obieivi erano chiari e bisognava sostenere senza fiatare il ritmo di rigide tabelle di marcia e di lavoro. Mio padre aveva autorizzato Enrico alla massima fermezza e nessuno si tirava indietro. Ho passato momenti difficili, di indicibile stanchezza fisica e mentale, soprauo tenendo conto del fao che avevo tredici anni. Ma non ho mai, e dico mai, voluto smeere di fare ginnastica per colpa di un allenatore. Bene, lei stava quasi per riuscire nel miracoloso intento. Non ci fu mai il minimo feeling tra noi, né, da ambo le parti, voglia di lavorare affinché ce ne fosse. La ricordo ancora perfeamente, e ripensarci non è piacevole. L’avevo conosciuta durante una seimana di collegiale a Milano. Bionda, un po’ grassoella, con gli occhi piccoli, a fessura, che sprizzavano livore. Aveva un ciuffo laccato e una frangia che le cascava sulla fronte, gli zigomi sporgenti, un po’ gonfi, e un’espressione guardinga e anaffeiva. Mi allenava alla trave. Dopo un solo weekend di lavoro con lei, non volevo ce ne fossero altri. È stata l’unica volta in cui mi sono lamentata coi miei genitori. Lo dissi apertamente: «Io non voglio più andare a Milano». Rodica era sempre nervosa, urlava e mi ficcava unghiate nella carne. Mio padre non riuscì a togliermela dalla testa. Si rese conto che il problema era serio, e ne parlò con Enrico, tanto mi aveva visto determinata. Andò a finire che alla trave mi allenò lui. In seguito, dal 2005, Rodica – non certo per colpa mia – fu allontanata dalla Federazione. Da quel momento in poi, ogni volta che mi capitava di vederla in giro, sentivo un peso perfino nel dover emeere il fiato per salutarla. g p p p Una volta mi chiese: «Vanessa, perché non mi saluti?». Credo di non aver rivolto un «ciao» più polare a nessuno. Nantes, soo molti punti di vista, segnò un punto e a capo. Fu in quel periodo che capii con chiarezza che la mia vita non sarebbe mai più stata come prima.

Novità del 2003: una nuova bilancia digitale. Forse il visibile aumento di peso post Nantes mise sul chi vive gli allenatori, oppure no, il nesso non c’è stato. Sta di fao che nessuna chiese spiegazioni, ma tue capimmo che da quel momento non ci saremmo più potute permeere di scherzare. Dovevamo stare aente per davvero, perché se ci avessero beccato col peso non a posto, gli allenamenti sarebbero diventati un inferno, severamente struurati in base alle necessità punitive che sarebbero derivate dallo sfasamento ponderale. A ripensarci mi viene da ridere. Nel periodo della strage delle piadine, ricordo che un giorno stavo facendo un movimento alle parallele (movimento che peraltro ora non faccio più, ma era grosso modo: gambe aperte, rotazione intorno alla parallela, riunione delle gambe in alto) e, be’, non ero in grado. Continuavo a sbagliare, non riuscivo a respirare a causa dell’ingrassamento e facevo fatica a saltare anche nel corpo libero, come avessi sempre appena mangiato. Va deo che quel periodo durò poco, anzi, pochissimo, perché desideravo tornare in forma come poche altre cose, dunque mi rimisi immediatamente in carreggiata. E a Montevarchi vinsi il Campionato di categoria. A Mestre, nei Campionati assoluti, arrivai quinta nel generale individuale e seconda al corpo libero e alla trave. Infine, con la Brixia, vincemmo lo scudeo contro l’imbaibile – per lo meno fino a quel momento – GAL Lissone, il quarto nella storia della società. L’unica macchia fu che purtroppo cominciai a litigare con Roberta Galante. Si stava facendo strada in me l’idea che lei fosse un po’ gelosa, perché all’inizio eravamo più o meno allo stesso livello, anzi, lei era sembrata più brava di me. Poi, col salto di categoria a Juniores, io p g sono leeralmente esplosa, ho fao il boom, e lei è migliorata meno. In ogni caso, a scanso di equivoci, vorrei specificare: non parlo di gelosie tragiche. I soliti baibecchi tra ragazzine, non certo rancorose isterie da atlete capricciose o gelose. In realtà non ho mai avuto, né prima né dopo quel momento, problemi significativi con nessuna delle mie colleghe, non si sono mai verificate situazioni di competitività malevola né ci sono mai state ancor più malevole chiacchiere. Anzi, l’unione fece davvero la forza se alla GAL Lissone, di cui ci eravamo già sbarazzate in serie A (baerla fu un risultato leggendario), riuscimmo a presentare il conto di un’altra sonante lezione.

Europeo per club. Charleroi, Belgio: la storia ce le ha ripresentate. In finale c’eravamo noi e loro. Della cià di Charleroi non ricordo molto, potrei tornarci domaina e non ritroverei nemmeno un angolo, una strada, un viale. Ma è normale, dopotuo la mia vita è stata come quella del capitano Stormfield di quel libro di Mark Twain che ci hanno fao leggere a scuola, quando dice: «Ho visto il contorno di molte terre ma l’interno di nessuna». La carta geografica della mia vita sportiva è stata, in gran parte, nient’altro che questo: unire i puntini. Non mi è sembrato di viaggiare, se non per il fao che mi sono spostata fisicamente. Ho visto palestre, villaggi olimpici, campi gara di molti posti che, alla fine, erano tui lo stesso posto. Nella mia mente sono un grande gomitolo, chi può distinguerne i fili? Amsterdam, Charleroi, la Grecia, la Spagna... un paesaggio in corsivo che si srotolava fuori da un finestrino. Invece ricordo benissimo i quarti di finale a Mortara che precedeero quell’impresa europea perché mi ci sono piuosto divertita: era una delle mie prime trasferte più serie ed Enrico in quel frangente fu bravissimo. Lo devo ammeere: spesso lui è determinante per me, soprauo perché è un tranquillizzatore nato. Ogni tanto non so, non capisco, in giro vedo allenatori che poco prima di una competizione parlano, g p p p p parlano, parlano, ripercorrono con l’atleta tuo l’esercizio, non smeono mai, blaterano e blaterano, quasi che il loro obieivo non dichiarato sia impaurire un ginnasta, rimbambirlo, paralizzarlo con l’agitazione. A che scopo? Lui, per fortuna, non è così. Lui è di un’altra pasta. Io in gara voglio solo Enrico perché sa cosa dire, quando dirlo, e se dirlo. E poi parla poco. Diciamo che parla il giusto. Lascia che io mi concentri e mi carichi emotivamente, non mi spiega a cosa devo pensare. Fa qualche bauta scema per farmi ridere e mi raccomanda di non perdere la concentrazione sugli aspei importanti. Nessuna reiterazione inutile. Nessun melodramma. Nessuna drammaturgia.

Ma torniamo a bomba: Belgio. Faccia a faccia, nel duello finale, Davide-Brixia e Golia-Lissone. Loro erano davvero una maestosa, imponente corazzata, erano più grandi e poi vantavano un gran numero di atlete che gareggiavano in Nazionale. Al nostro arco, invece, la sola freccia di Monica Bergamelli che, con sei anni più di me, era la maggiore. Avremmo bissato? Ce l’avremmo faa? Avremmo saputo trovare la spinta, l’energia, il cinismo che servono per vincere? Baerle in serie A fu una cosa bellissima. Ma ribaerle ai Campionati europei fu anche meglio. I miei genitori, come sempre, erano venuti a vedermi, e anche i miei fratelli e i miei nonni – mio nonno Angelo, peraltro, piange ogni volta che faccio una gara. Dimostrammo di valere, facemmo un’oima figura, riuscimmo a dire la nostra con autorevolezza e ci candidammo, da quel momento in poi, a essere la squadra da baere. Io lo vissi come un momento di gloria autentica. Avevo fao tui quei sacrifici? Dopotuo valevano la pena, se il risultato era così clamoroso. Dopo la gara, mia madre mi raccontò di aver sentito tra il pubblico una sconosciuta commentare il mio corpo libero e dire: «Questa ragazza è bravissima. Strano, di solito le italiane non sono così forti». E lei: «È mia figlia. Io sono bulgara». «Svelato il mistero.» Comunque, a parte la gioia puramente sportiva per avere sbaragliato per ben due volte uno squadrone, facendo venire a tui il legiimo sospeo che il vento stesse girando, non ricordo grandi festeggiamenti. Eravamo minorenni, e poi ci controllavano con la rigidità di cui ho deo. Ma era solo l’inizio. Infai il copione sarebbe stato il medesimo ancora a lungo: viorie su viorie, ma a nanna alle dieci.

Nel fraempo, di sera frequentavo le scuole medie e di giorno facevo sempre doppio allenamento. La scuola non mi pesava, sarà perché, a dirla tua, ne facevamo davvero poca. In quel periodo, poi, ero molto concentrata nello sport e nonostante il futuro, come succede a chiunque abbia solo tredici anni, fosse un’idea vaga, senza forma, e chissà se più un sogno o uno scarabocchio, io avevo le idee un po’ più chiare della media. A questo proposito, c’è un episodio rivelatore. 2004, eravamo a Trieste per i collegiali. Non sono sicurissima di questa data, in ogni caso, ogni volta che ci incrociamo, lo rievochiamo sempre. Ilaria Cortinovis era bergamasca, si allenava alla Brixia ed era nel giro della Nazionale, diciamo che la tenevano d’occhio. Era di due anni più grande ed era stata con me ai collegiali di Nantes. Un giorno, in piena crisi, mi aveva deo: «Vany, io voglio smeere». Mi sorpresi e le risposi che non doveva nemmeno pensarci, cosa le prendeva? Lei, però, insistee. «Non ce la faccio. E poi non ne ho più voglia.» Cercai di incoraggiarla. La spronai: «Non devi smeere, Ilaria. Devi continuare! Io, per esempio...». Feci una pausa e la guardai negli occhi. g «Tu cosa?» «Io sono sicura che diventerò fortissima.» «Beata te.» «E sono anche sicura che...» «Che...?» «Baerò tue quelle russe e tue quelle rumene.» «Oh, Vany...» «Credimi, sicurissima.» «Aspea, frena.» «Te lo posso giurare.» «Ma guarda che... Le hai viste, no?» «Certo che le ho viste.» «Quelle sono forti. Forti per davvero.» «Fortissime. Ma io le baerò. Ne sono certa.» V

Uno. Due. Tre. A ogni tonfo, gioia e terrore. Quaro. Cinque. Sei. Fiato traenuto e dita incrociate. «Fai presto, dai.» Occhiata a sinistra. «Abbiamo finito?» Occhiata a destra. Gli snack carambolano giù uno dopo l’altro: noi, col cuore in gola, li abbranchiamo tui e li ficchiamo di corsa in un saccheo. Boino fao, si fila in camera. Tre rampe di scale. Porta aperta pianissimo, con dita vellutate da ladre. Porta chiusa e due giri di chiave. Riprendiamo fiato. Poi ridiamo e li spargiamo sul leo. Sei Snickers fiammanti: carta marrone, scria blu su fondo bianco, incorniciata di rosso. Un boino meraviglioso. Un boino da scartare. Ebbene sì. Il mio primo ricordo degli Europei Juniores per Nazionali, che si sono tenuti ad Amsterdam dal 29 aprile al 2 maggio 2004, è il distributore delle merendine.

Il secondo: l’alba. Roberta, in camera con me, si svegliava prestissimo e alle sei in punto la carta degli snack che crocchiava mi dava il buongiorno. Ne abbiamo mangiati a bizzeffe, non esagero se dico che fu quasi indigestione. g Era un periodo così: meno ci facevano mangiare, più cercavamo di mangiare. La questione alimentare è sempre stata uno spauracchio, un’ombra scura che si allungava a raffreddare ogni gioia mi procurasse una vioria nella ginnastica. Voglio aprire una parentesi. Tornerò più diffusamente sull’argomento, ma voglio essere chiara: secondo me è un bene che ora ci sia, in generale, meno severità in un mondo come il nostro in cui già la si respira quotidianamente in ogni aspeo. Certo, è importante capire che una ginnasta pesante non può combinare nulla di buono, le sue articolazioni soffrono più del dovuto e il rischio di farsi male è più concreto, ma la cosa giusta è responsabilizzare l’atleta e contare sul suo autocontrollo. Me ne sono resa conto in prima persona: l’equilibrio alimentare è basilare. Essendo un’atleta seria, non meerei mai in pericolo una prestazione sportiva per un maxi gelato, tuavia, finite le gare, sul maxigelato (ho deo uno) mi buo senza pensarci due volte. Da quando Enrico è direore tecnico della Nazionale è stato esplicito con tui gli allenatori, chiarendo che non vuole più che si faccia il peso davanti a tui. Un conto è che ti pesi il tuo preparatore, ma le pesate colleive sono state abolite. Se dovessero tornare disgraziatamente in auge io mi rifiuterei. Ho il nome e il cursus honorum per potermelo permeere, ma magari una ragazzina più giovane no. Lo farei, dunque, anche per lei. Il buio è buio, ed è tremendo. Parlo da sopravvissuta? Parlo come chi, purtroppo, sa quel che dice. E per me è davvero un bene che ci sia più sensibilità e più cultura in merito. Per esempio una volta il pane era vietato e oggi no. A Tokyo, nel 2014, a cose fae, Enrico mi ha addiriura portato una pinta di birra. Beviamoci su, dunque! Ma tra un sorso e l’altro torniamo alle vicende eminentemente sportive. Ad Amsterdam ci siamo io, Giorgia Benecchi, Francesca Benolli, Federica Macrì e Roberta Galante. Eravamo felicissime, però ricordo che temevo la trave e le parallele. Purtroppo con ragione, dato che le parallele le ho sbagliate tue, sia in qualifica, sia nell’all-around. Non è finita qui, infai si verificò un altro faerello spiacevole. Alle parallele, la classifica era questa: oava Roberta, nona Francesca, decima io. Per regolamento, si qualificavano solo le prime oo, due per nazione. Enrico fece due rapidi conti e pensò che, se io avessi fao tuo per bene, avrei potuto entrare in lizza almeno per una medaglia. Dunque prese la sua decisione: Roberta e Francesca dovevano ritirarsi per lasciare che fossi io a giocarmi l’unica possibilità che avremmo avuto. Alla fine, pur cadendo, sono arrivata oava. Portammo a casa una medaglia di bronzo nel concorso a squadre e io vinsi l’argento nell’individuale generale con un bel 35,950 dietro Steliana Nistor – avevo fao meglio di lei al volteggio e alle parallele, e avevo preso di più al corpo libero – e un bronzo alla trave; come dice Enrico, stavo dimostrando sempre più di essere «un animale da gara»: mi preparavo, andavo, facevo, e tuo con quella beata leggerezza dell’età. In ogni caso, malgrado il nostro buon risultato, Roberta non digerì la manovra strategica. Ci rimasi male. Non avevo chiesto io di passare avanti – notoriamente le parallele non sono una mia specialità – ma penso anche che gli ordini di scuderia vadano rispeati. Fa parte della disciplina, non ci trovo nulla di sbagliato. Al contrario, questo è il ragionamento giusto: se anche il punteggio ci vede tue vicinissime e una ha sbagliato ma ha più possibilità di medaglia, si fa passare la possibile medaglia. Ma non tuo fu così scontato, evidentemente, e da quel momento il rapporto tra me e Roberta si sfaldò. Non litigammo apertamente, questo no, ma si stabilì un clima di freddezza. Mi è dispiaciuto, però devo ammeere che io non sono il tipo che dà peso a queste cose. Se una collega vuole essermi amica e ci si aiuta, io sono sempre disponibile. Altrimenti va bene lo stesso, e tiro drio per la mia strada. Senonché, cambia anche quella. Ero iscria al liceo artistico, ma non durò. La classe era una stanza con un tavolo, nella sede del Cepu di Brescia. Frequentavo dalle 16.30 alle 19.30, ci portavano lì dopo ogni allenamento. Molte ragazze avevano già smesso, dunque ci si contava davvero sulla punta delle dita. Ognuna faceva la sua lezione individualmente, a tu per tu con l’insegnante. A me non dispiaceva che la classe fosse numericamente così ridoa, avevo la sensazione di seguire e capire meglio. Ho sempre amato disegnare, ma non tuo filava liscio, odiavo la matematica e avevo un feeling fragile anche con l’inglese, che ho messo a punto a furia di andare in giro per il mondo, non certo sui banchi di scuola. Insomma, faccio il liceo, mi barcameno, nei miei sogni cullo una mezza idea di frequentare Belle Arti. Il temperamento artistico ce l’avevo, l’ho preso da mia mamma. Ma un giorno mi comunicarono che dovevo cambiare scuola: tui a fare il liceo della comunicazione a indirizzo sportivo Gianni Brera! Non protestai. Non dissi nulla. Obbedii e basta, ma non ero per nulla felice del cambiamento. Così, il secondo, il terzo e il quarto anno lo frequentai sempre con le compagne della Brixia, e anche se eravamo di classi differenti, facevamo scuola tue insieme. Gli insegnanti dividevano le ore, si occupavano di alcune di noi, poi ci affidavano compiti ed esercizi e si dedicavano alle più grandi, quindi, in un secondo momento, tornavano a noi, ma non prima di aver impegnato le altre. Finché era così, non mi trovavo nemmeno male. Ogni tanto ripensavo con nostalgia al disegno, ma avevo poco tempo anche per immaginare quel che avrei dovuto smeere di immaginare – insomma, niente Belle Arti, ormai era chiaro. Il quinto anno fu il peggiore e mi affaticò. Non mi trovavo bene né coi compagni né coi professori. A quel punto, però, nella mia testa aveva preso forma una specie di indifferenza onnicomprensiva: p p p mandatemi dove volete, pensavo. Fate un po’ come vi sembra più giusto. E tiravo avanti – tiravo a campare. L’errore madornale fu non impegnarmi in quell’ultimo anno, che sarebbe stato il più difficile, anche perché l’esame l’avrei dovuto dare come tui. Mi sentivo molto spaesata. La matematica che avevo studiato all’artistico era una versione liofilizzata, semplificata e digeribilissima, e farsi promuovere non era mai stata una pratica complicata, bastava garantire un minimo di rendimento (proprio il minimo). L’aria sarebbe cambiata? Dovevo aspearmi guai? I miei nodi sarebbero presto venuti al peine scolastico.

Sentenza paterna: «L’importante non è vincere, e nemmeno partecipare. L’importante è dare il massimo». Lo diceva sempre, e mi ripeteva: «Alla fine di ogni allenamento devi andare a casa che hai imparato una piccola cosa in più». Quindi, in bellezza, concludeva: «Solo così si diventa grandi». Il 2005 è l’anno giusto. L’anno in cui divento grande, esplodo e faccio danni: sui Giochi del Mediterraneo ad Almería e sull’EYOF, il Festival olimpico della gioventù europea, misi la mia firma. È stata anche la prima volta che ho avuto a che fare con un vero e proprio infortunio. La prima volta di tante cose. Ma andiamo con ordine. Innanzituo è necessario dare una definizione che nel corso del racconto si rivelerà importante, perché è qualcosa che è stato importante anche per me, che ha impresso un marchio alla mia vita sportiva. Tsukahara avvitato. Un nome che nella prima parte sembra un cognome (magari del protagonista di un cartone animato giapponese?) ma nella seconda si svela e suggerisce l’idea che lo descrive meglio, di implacabile balistica. Si traa di un doppio salto raccolto indietro con seecentoventi gradi sull’asse longitudinale. È un’acrobazia molto impegnativa, una vera e propria catena cinetica rigorosissima, di cui va rispeata la consequenzialità. Non è semplice, bisogna aivare i muscoli giusti, nel giusto ordine, uno dopo l’altro. Fino a quel momento, nel mondo, a saperlo fare erano soltanto in due. Saremmo presto diventati tre? Forza più accelerazione – accelerazione più forza. Grado di difficoltà, H. Il più alto. VI

Prima dei Giochi, Enrico ci portò a fare i collegiali a . Io avevo dovuto rinunciare agli Europei di Debrecen per limiti di età, poi, al momento di selezionare le ragazze per andare in Spagna, Francesca Benolli si era infortunata, dunque per lei l’esperienza si chiuse ancora prima di cominciare. Siamo partite io, Monica Bergamelli, Federica Macrì, Ilaria Rosso e Daria Sarkhosh. Arrivammo ad Almería con qualche giorno di anticipo per provare gli esercizi. Insieme a noi, le titolatissime francesi. Ricordo la campionessa europea Marine Debauve, ma soprauo Émilie Le Pennec, medaglia d’oro alle parallele alle Olimpiadi 2004; il suo viso lungo, il naso drio, gli occhi come minuscole biglie. Mi sentivo bene, anzi, a dir la verità non mi sono mai più sentita così. Lo dimostra quel che combinai durante un test. La Le Pennec faceva stretching e aveva problemi, era molto lenta a carburare, io invece andavo che era una meraviglia, sembravo una saea e provavo il corpo libero dopo un solo quarto d’ora di riscaldamento. Lei era sempre in vantaggio di un bel po’ di lavoro rispeo a me, ma quando tentava lo stesso esercizio si spiaccicava. Quella volta la guardai e senza pensarci due volte presi la rincorsa percorrendo la diagonale come un alfiere indiavolato lungo una scacchiera senza caselle. Eseguii un perfeo tsukahara avvitato, piroeando con precisione matematica e aerrando piedi uniti a un palmo dai loro nasi, stoppando il salto a regola d’arte. Le francesi rimasero a bocca aperta. p Enrico, di sasso. Del tuo incredulo, continuava a dirmi: «Gliel’hai stampato davanti! Brava!». Ricordo ancora le espressioni dei loro occhi. Non è mai più successo in tua la mia carriera, quella è stata l’unica stagione della mia vita in cui mi sono sentita invincibile. Non vorrei sembrare presuntuosa, in realtà sono sempre stata meno fredda e sicura di quanto tui credessero, ma non posso nemmeno tradire la verità. Mi ripetevo che, se fossi stata bene, non ce ne sarebbe stata per nessuno. Questo fu lo spirito con cui mi presentai il 25 giugno in Almería. Volevo fare bene? Ero sicura che avrei fao anche meglio. Vincemmo un oro a squadre davanti a Francia, Spagna, Grecia, Croazia; io uno al volteggio, alla trave, al corpo libero e nell’all- around, col punteggio più alto mai preso da un’azzurra: 37,750. Alle parallele mi fu assegnato un argento. Avevo vinto tuo? Be’, quell’argento mi indispeì. Anzi, sincerità per sincerità: mi arrabbiai proprio. Io non amo vincere per vincere. Non nego sia una sensazione bellissima, ma per me non è una droga come per altri sportivi. Io amo vincere perché è il debito coronamento di mesi e mesi di lavoro e di sacrifici. Io non vinco per il pubblico o per sentire un palazzeo che rigurgita di gioia urlando il mio nome. Io voglio vincere perché vuol dire che ho lavorato e che sono stata capace di fare tuo quel che mi sono proposta. L’esercizio potrei anche eseguirlo a porte chiuse o in una bolla – in realtà, mentre lo faccio, sono in una condizione non dissimile, quanto a concentrazione e distacco da tuo quel che ho intorno. Io sono felice di vincere perché mi viene riconosciuto quel che mi spea, e quando non mi viene dato perdo il controllo. Mi considero una meritocratica nel senso leerale della parola. Non così le giurie – non sempre. La delusione che si può provare praticando questo sport è tanta, talvolta i giudici si esprimono in maniera del tuo incomprensibile, e secondo me quell’anno ad Almería andò proprio così. La spagnola che prese l’oro, per quel che ricordo, non meritava quella medaglia. Forse non potevano non dargliela, ma perché dargliela per forza? In ogni caso, il mio punteggio alla trave fu 9,625. Quello al corpo libero, 9,600. Quest’esercizio mi è capitato di riguardarlo di recente, e devo dire che l’ho fao benissimo. Quel che ancora mi colpisce, però, è altro: la scioltezza con cui mi muovo. Non ero così sciolta, quando ho cominciato a fare ginnastica. Ci ho lavorato duro, limando, correggendo, rinforzando. È davvero notevole la sicurezza con cui pesto, salto e aerro, la gioia fisica con cui rimbalzo. Una farfalla bianca dispiegava le ali sul peo del body rosso. Volavo ed ero felice di volare. Nonna Giuseppina, quando rientrai in Italia, mi accolse facendomi trovare il cancello di casa decorato di festoni e palloncini. Gli articoli dell’epoca, conservati da mio padre, mi chiamavano «la pulce di Orzinuovi».

Ma la pulce deve essere un leone, perché di tempo per tirare il fiato non c’è: mi aspea l’EYOF, a Lignano Sabbiadoro, ai primi di luglio. Il villaggio degli atleti si trovava all’interno del centro Ge.Tur., che ospitava 2400 persone e meeva a disposizione anche una spiaggia riservata. Di fronte alle rappresentative di quarantoo Paesi, feci miei due ori: uno nell’individuale e uno nel corpo libero davanti a Sandra Izbaşa e a Ksenia Afanasyeva, nomi di grande prestigio. Misi in bacheca anche un argento nel volteggio e un bronzo nelle parallele (sono quasi caduta all’uscita). Mi sono classificata quarta alla trave (con caduta), ma abbiamo incassato un bronzo di squadra. Mi sentivo in crescita continua, era a dir poco esaltante. Come se la strada davanti a me non dovesse mai interrompersi, io correvo e pensavo che avrei potuto correre anche di più. Non mi chiedevo se una sensazione del genere fosse destinata a durare, se si traasse di un miraggio, di una fantasticheria o, nella gg peggiore delle ipotesi, di un’illusione, perché tuo quel che facevo oeneva riconoscimenti sempre maggiori e io ero stracarica. Per la prima volta mi presi anche il lusso di qualche giorno di vacanza, ovviamente villeggiando a Brescia. Quindi mi misi di lena a preparare il Campionato di categoria, che avrebbe avuto luogo a dicembre.

È il 10 dicembre, sono a Firenze. Sto provando per la gara e sono alle prese col Tarzan, alle parallele. Lo so fare bene: dalla verticale dello staggio alto scendo, mollo le mani e con mezzo giro mi aacco a quello soo. Ma quel maledeo giorno, nell’arrivare sullo staggio basso, mi si torce la mano. Sento un terrificante crac e il dolore di un atroce colpo di zappa sul polso. Tuo diventa nero. Enrico allibisce e le ragazze presenti ammutoliscono. Il fatidico istante di silenzio in cui si passa dalla percezione di qualcosa alla sua piena comprensione: Diego Pecar, un allenatore che aveva visto tuo, ma che, soprauo, aveva sentito il tremendo scrocchio, corre a procurarsi del ghiaccio in quantità industriale. Cerco di riprendermi. La mente è una baraonda, mi ripeto di continuo che devo stare calma e che qualsiasi cosa sia successa... non è successa. Non posso darmi per vinta, anche se la fia non mi dice niente di buono, è devastante, mi impedisce perfino di ragionare. Vorrei solo cacciare un urlo dal profondo dello stomaco e non fermarmi mai più. Dopo avermi lasciato un po’ di tempo per riprendere fiato, Enrico mi dice: «Come stai? Te la senti di andare avanti?». «Sì.» «Prova a farmi una verticale.» Ma non sono in grado, la mano non tiene. Tra carpo e metacarpo mi trafigge la freccia di un dolore acutissimo. «Vanessa, non fai la gara. Non puoi. Stop.» La mano è congestionata, pulsa e mi sembra sia enorme. Spine roventi lungo tua l’ossatura. Non riesco nemmeno a reggere i vestiti in spogliatoio, e non se ne parla nemmeno di togliermi il body, per quanti sforzi faccia e per quanto tenti di agevolare l’operazione col braccio e la spalla. Ricordo che i miei proposero di tagliarlo, ma risposi loro male, non volevo.

Mio padre mi accompagnò a fare una lastra. I medici mi chiesero di toccarmi l’indice col pollice ma io non ci riuscivo, era come se avessi dovuto issare una tonnellata per falange, non chiudevo e non aprivo la mano. Non rispondeva. Quello stesso lunedì feci altri controlli e l’esito fu chiarissimo: mano roa. Dovevo operarmi. Quando me lo dissero scoppiai in un pianto diroo ma, come quasi sempre, non potevo fare altro che rassegnarmi. Così, il 20 dicembre, all’istituto ospedaliero Poliambulanza, andai soo i ferri del door Guido Zaoni. Anestesia totale: paura di non risvegliarmi mai più. Invece mi risvegliai. E un secondo dopo che aprii gli occhi mi misi a fare gli addominali sul leo. Mi dicevano di stare ferma, io un po’ capivo e un po’ no. Quel risveglio è ormai un minuscolo, intermiente bagliore tra le tenebre farmacologiche, ma quegli addominali disperati e volitivi li ricordo perfeamente. Come la prima domanda che feci al professore. «Quando posso ricominciare ad allenarmi?» La mia frea fu assecondata: il giorno dopo. Un ginnasta, si sa, non può perdere tempo. E appurato che non perderà l’uso della mano, quel che lo aspea è un serio potenziamento alle gambe.

Guardare sempre e solo avanti. A febbraio sarebbe cominciata la serie A? Siccome ci trovavamo in difficoltà quanto a presenze in squadra, il conceo fu subito chiaro: mi dovevo riprendere in tempo record e fare la trave per forza. p p p Nel fraempo, aspeando che la convalescenza facesse il suo corso, allenavo la scioltezza e facevo le verticali su un braccio. I medici erano stati tassativi: non potevo prendere colpi alla mano. Il door Zaoni aveva deo che potevo cominciare ad appoggiarla, ma con estrema circospezione, e mai e poi mai avrei dovuto sooporla a boe o traumi. Feci tua la preparazione così, senza mani. Avevo una fifa blu di cadere, di «arrivare» storta o di sbaerla malamente da qualche parte. In pratica feci la trave senza mai appoggiare. Mi allenai anche agli altri arezzi senza appoggiare, era fondamentale non restare troppo indietro. Eseguivo esercizi su esercizi in modo da mantenermi, fisicamente, a un buon livello, così che, quando avessi potuto di nuovo usare la mano, non avrei dovuto faticare troppo: riuscire finalmente ad appoggiare e non poter contare sul resto della preparazione fisica sarebbe stato del tuo insensato. Quindi recuperai la mano e portai un esercizio alla trave concepito perché lo potessi interpretare senza mai appoggiare. Quell’anno vincemmo il sesto scudeo societario. Agli Assoluti di Ancona misi in cassaforte un oro nel generale individuale, uno alle parallele e uno alla trave, e un argento al corpo libero.

Cominciavo a soffrire l’incalzare degli impegni, ma fu lì che presi una decisione di metodo: capii che per me era meglio mantenere una certa costanza nel lavoro anziché perdere la forma per godermi due seimane di stop e poi dovermi sorbire la fatica di ricostruirla. Certo, il problema è che tuora vengo presa un po’ alla leera, e per esempio, quando rientro dai Mondiali e mi meono soo come se dovessi ancora partire per concorrere, non sono felicissima. A volte dopo grossi impegni vorrei semplificare gli esercizi, rifiatare un minimo, tuavia i miei allenatori fanno le facce. Fino al 2008, diciamoci la verità, mi hanno iperstrizzata. Non sto dicendo sia colpa loro, nessuno ha colpe vere e proprie, e poi, in verità, non si può nemmeno parlare di colpe. Il problema è un altro. p p p p E il problema era che... vincevo. Dunque dovevo pedalare. Toc toc, gli impegni bussavano alla porta, e quando gli impegni bussano non puoi non aprire, non puoi barricarti dietro le gioie sterili dell’inaività, perché poi la giostra si ferma e prosegue senza di te. Quando ho araversato momenti di demotivazione o di stanchezza, gli allenatori hanno sempre trovato il modo di motivarmi, di procrastinare l’agognata pausa. Ma, al di là di desiderarla, in quelle condizioni è abbastanza difficile potersela permeere. Diciamo che è tuo un concorso di cose che fanno sì che tu non tiri mai il fiato. Ho, nea, la sensazione di aver sovralavorato in certi periodi dell’anno e che, se anche avessi lamentato fiacchezza o mi fossi faa sentire, non mi avrebbero nemmeno permesso di arrivare in fondo alla frase. Così a volte mi chiedo se con una gestione meno incalzante avrei potuto fare più risultati. Mi è capitato di pensare che avrei potuto essere gestita meglio, però non so, mancano le controprove, perciò smeo di pensarlo, è un po’ come parlare del sesso degli angeli e magari è vero tuo il contrario: magari, in uno stato di minor tensione, non avrei raggiunto quegli stessi obieivi. È innegabile però che le ragazzine che cominciano in questi anni debbano sopportare un quarto del lavoro rispeo a quel che toccava a me. Se io non fossi riuscita a fare qualcosa, anche un semplice salto o una rondata, gli allenatori mi avrebbero traenuto in palestra. Ricordo che in un paio di occasioni ho saltato il pranzo, altre volte sono arrivata in ritardo, tuo perché cadevo durante un avvitamento alla trave. Per gli allenatori era sempre colpa del peso. Il peso era sempre il grande alibi – il peso era la grande scusa. Se qualcosa non mi riusciva, venivo strigliata a dovere. Dunque per me andava così: avevo quindici anni, e se non avevo ansia, avevo sonno. La disciplina era inflessibile. Quando, fae le gare, arrivava l’ultima sera, cioè la sera in cui teoricamente avremmo potuto rilassarci e «mollare» un po’, ci p p spedivano lo stesso a leo alle dieci. Monica Bergamelli, poi, che era la più grande del gruppo, non voleva mai uscire, e se anche noi l’avessimo desiderato, essendo minorenni non avremmo potuto sperare in un permesso, anzi, ci avrebbero fao proprio passare la voglia di chiedere, dato che sindacavano perfino su come ci vestivamo, e quando deviavamo (accompagnate) dal solito segmento di strada palazzeo-albergo, rientravamo in hotel col primo bus disponibile. Io adesso recupero quel che non ho avuto a suo tempo e, finita una gara, faccio sempre serata. È la compensazione dovuta ad anni di morigeratezza coaa. I miei genitori, nel fraempo, sembravano contentissimi dei miei risultati, o per lo meno, negli anni, rispondendo a qualche intervista, hanno sempre dichiarato di tenerci. Io non ho mai capito se per davvero fosse così. Andavo in palestra alle nove del maino e tornavo a casa alle nove di sera, poi mangiavo e andavo a leo. Mio padre c’era poco, e la domenica dormiva tuo il giorno. Mia mamma mi accompagnava sempre agli allenamenti e per permeermi di fare ginnastica macinava – ha sempre macinato – chilometri avanti e indietro. Alle gare nessuno mi ha mai abbandonato e tui, compresi i miei fratelli, venivano puntualmente. Se qualche volta non era andata come speravo, mi consolavano. Mio papà diceva: «Non può sempre andare bene». Quante volte, con rabbia, gli ho risposto: «Russa. Se solo fossi russa». VII

Nel 2006 passo Senior. Lo divento nell’anno dei miei sedici, anche se l’anagrafe dice che ne ho quindici e mezzo. Punto della situazione: infortunio alla mano, operazione chirurgica, curiosità e timori per quel che sarebbe stato. Quando manifestavo questi miei dubbi a Daria Sarkhosh, lei mi incoraggiava e mi diceva che non dovevo temere perché sarei diventata anche meglio, e di sicuro Enrico avrebbe trovato il modo per farmi rinascere. Un passo alla volta, pensai. E per cominciare, mi liberai dalla fasciatura. Come stavano le mie dita? Ero quasi emozionata di ritrovarle. Indice e medio erano un po’ rarappiti, sembravano deboli, e se stendevo la mano non riuscivo ad aprirli per bene. Però c’erano ancora: come convincerli a tornare agli antichi fasti? Ricordo un professore, a scuola. Si chiamava Juri Senici. Mi aveva raccontato di aver leo sui giornali della mia vioria ad Almería, e che si era emozionato a tal punto che si era augurato di conoscermi. Fummo contenti in due: lui perché accadde quel che aveva sperato, io perché guadagnai un motivatore volentero-sissimo. A ricreazione mi incoraggiava a tirare una pallina con uno scao delle dita, invitandomi a centrare il solito cerchio che aveva disegnato sulla lavagna. Mi allenava ogni giorno e mi fomentava: «Forza! Devi ritornare grande!». Mi sono molto affezionata, sia a lui, sia al nostro quarto d’ora di riabilitazione domestica. Anche dopo anni che non frequento più la scuola, a più riprese si è presentato in palestra per salutarmi. p p p Fu una felice eccezione, perché la mia esperienza scolastica all’ultimo anno, come ho deo, è stata soprauo sgradevole.

Terza posizione. Alla ventiseiesima edizione dei Campionati europei femminili ambivamo alla terza posizione. Il giornalista che curò la telecronaca della Rai, quando venne proclamato il verdeo finale, disse: «Avremmo messo la firma per un secondo posto, ma Vanessa Ferrari ha portato per mano una grande squadra fin sul teo d’Europa». Andò a finire in un altro modo: vincemmo un oro a squadre, il primo e finora l’unico nella storia della ginnastica italiana, con un punteggio di 175,225. Seconda si piazzò la temibilissima , che totalizzò un 175,125. Terza la Russia, indietro di quasi due punti, con il suo 173,375. Ma a proposito di numeri... Il mio stato, prima della gara, fu di vera e propria trance, di delirio lucido. Il computo scaramantico- matematico, il mio consueto e tortuoso ghirigoro mentale, si era impadronito della mia testa obbligandola a una serie di farneticazioni a loro modo fondatissime. Mi spiego – sarà difficile, ma ci provo. Avevo costruito un castello in aria di calcoli a mezza via tra statistica e numerologia, che partiva da una constatazione ovvia nelle premesse e meno nelle conclusioni. Sapevo benissimo che la Russia e la Romania erano delle vere potenze imbaibili sulla carta, ma ero anche consapevole che i tornei non si vincono sulla carta, e che sulla carta c’è solo il passato. Saremmo state capaci di andare lì e scrivere una nuova pagina? Pensavo con molta convinzione di potermela giocare, seppur baerle come squadra sarebbe stato davvero difficile, e se qualcuno se ne fosse deo sicuro, tui – allenatori compresi – l’avrebbero preso per mao. Io, maa sul serio quando si traa di queste elucubrazioni, mi ero impelagata in assurdi computi in base ai piazzamenti degli anni precedenti. Avevo considerato i risultati di Patrasso 2002, quindi p q avevo ripercorso tuo il loro medagliere, le date e i punteggi. Insomma, tra calcolo e gioco del loo, tra aritmetica e vaneggiamento, tirate le folli somme, ero andata da Monica e le avevo deo: «Secondo me vinciamo. Anzi, te lo garantisco». È come se ce l’avessi davanti in questo istante, certi sguardi non si dimenticano: Monica ha scosso la testa e non è riuscita a dire nulla, nei suoi occhi c’era il timore che mi fosse saltata qualche rotella. Restando in tema numerico, a rafforzare la tesi di cui ero convinta ci si mise anche il caso: in quella edizione mi assegnarono il 291. Dunque sulla schiena avevo almeno un 2. Sarebbe mai potuta andar male? Andò benissimo. Ma non senza patemi: a un certo punto, infai, eravamo testa a testa con la Romania. Noi terze, loro seconde. Prima, la Russia. Le cose cambiarono quando mancava solo il mio ultimo esercizio. Enrico mi chiese: «Te la senti di fare lo tsukahara avvitato?». Dall’infortunio alla mano sarebbe stata quella la prima volta in assoluto in cui l’avrei riproposto. Prima che rispondessi, continuò con l’analisi ad alta voce: «Mancano l’ultima parallela della Romania e il tuo corpo libero. Se non fai lo tsukahara siamo dietro la Russia e la Romania, o al massimo dietro la Russia e davanti alla Romania. Ma se lo fai, possiamo vincere». Non tentennai nemmeno un momento e risposi: «Ci sto». «Però lo devi fare perfeo.» Missione compiuta: lo eseguii senza nemmeno una sbavatura. Al momento della proclamazione del punteggio piangemmo di cuore, e anche a Enrico, incredibilmente, scesero le lacrime. A un certo punto tui abbracciavano tui, in un groviglio piagnucolante. A conti fai devo dire che, se ci fosse stata la classifica individuale, avrei vinto anche nell’all-around. In tue e due le gare, infai, sia in qualificazione sia in finale di squadra, ero in testa. In ogni caso ho portato a casa un argento al corpo libero, intaccato però dall’irritazione che ho provato perché, forse, meritavo l’oro. Invece lo vinse Sandra Izbaşa, un’atleta del 1990 come me, che poi avrebbe anche vinto un oro nel corpo libero alle Olimpiadi di p p Pechino e un altro al volteggio a Londra 2012, dunque indubbiamente una fuoriclasse. In quell’occasione portò a casa anche un bronzo alla trave. La soddisfazione fu in tui i modi enorme proprio perché quella Nazionale era piena di campionesse, basti pensare a Cătălina Ponor, un’altra ginnasta che ho sempre stimato molto, allora rientrante da una pausa, poi non nelle condizioni di partire per Pechino come avrebbe voluto; si sarebbe ritirata di lì a poco per infortunio e problemi di salute. Le rumene di questo periodo le conoscevamo bene quasi tue, perché nel 2004, ossia prima degli Europei Juniores, avevamo fao un collegiale a casa loro, in Romania, a Oneşti. Comunque la volevamo meere, rendersene conto fu magico: quelle atlete fortissime, quelle infallibili macchine da prestazione aurea, noi le avevamo superate di slancio. Io, Monica Bergamelli, Carloa Giovannini, Federica Macrì e Lia Parolari eravamo entrate nella storia di questo sport dalla porta di servizio, trionfando infine in sala da pranzo. Il 2006 era un anno cominciato bene e che, me lo sentivo nel profondo, sarebbe continuato anche meglio. Agli Oscar della ginnastica di quell’anno fui nominata miglior ginnasta. Volente o nolente, stavo mantenendo la parola che avevo dato a Ilaria Cortinovis. VIII

Giuseppina Mantovani, mia nonna, è morta lo stesso giorno dell’anniversario di matrimonio dei miei. Fu un dolore improvviso e senza un preciso contorno – diverso, appunto, dal rompersi una mano alle parallele. Non ho bisogno di concentrarmi a lungo perché lei sia ancora qui: mi appare com’era, minuta come un passero, sempre un po’ immusonita e con il debole per noi nipoti, cui voleva un gran bene. Cercava di esaudirci in ogni modo. Ricordo che una domenica maina ci eravamo intestarditi nel voler andare in piscina, ma, data l’ora, non avrebbe aperto che di lì a un bel po’. Assecondando le nostre insistenze, lei si vestì e ci accompagnò comunque, anche se era evidente che sarebbe stato un giro a vuoto. Mi aiutava anche a studiare. Quando frequentavo l’artistico, se per compito mi avevano assegnato un disegno e lei mi vedeva stanca, a bassa voce, in un sussurro gracchiante da cospiratrice, mi diceva: «Ricalcalo. Io non apro bocca». Quell’anno era entrata in ospedale per una serie di problemi di salute, ma dopo un po’ sembrava migliorata, aveva ricominciato a camminare con mio padre, così l’avevano rimandata a casa. Diceva sempre che non riusciva a respirare. Purtroppo fu colpita da un’inesorabile infezione al cervello, le medicine con cui si stava curando l’avevano molto indebolita. Un giorno chiese a mio nonno di sollevarle il cuscino. Lui in buona fede le obbedì, ma chissà se fu a causa di quello che poi si sentì male. Il suo cuore, già provatissimo, smise di baere. Io, nel fraempo, ero ospite della mia amica Paola Galante, sul lago di Garda, quand’ecco che quella maina – eravamo in giardino g q q g – appaiono a sorpresa mio padre, Ivan e Michele. Con marmorea serietà mi dicono che era importante, non c’era da perder tempo. Dovevo fare la borsa e venir via. Nessun’altra spiegazione. Il loro sinistro mutismo proseguì per tuo il viaggio. Io continuavo a domandare, sentivo che l’atmosfera era diversa dal solito, gravida di preoccupazione, avevo un presentimento negativo via l’altro ma non sapevo cosa avrei dovuto immaginare. Da principio pensai che fosse successo qualcosa alla mamma: di solito c’era sempre. Ma a un certo punto, lapidariamente, mio padre disse: «È morta la nonna». «Come hai deo? È morta la nonna?» Me lo ripetevo, lo dicevo, ma non riuscivo a capire cosa significasse. O meglio, lo capivo con la testa, eppure la verità non raggiungeva il mio cuore, non mi sembrava possibile. Traenni un groppo in gola, difficilissimo da domare, finché arrivammo a casa. Nel momento in cui vidi il suo corpo, il groppo si sciolse e io liberai un pianto fluviale. Quando la ricordo, immagino che, in un modo che non saprei spiegare, lei sappia quel che ho fao e conosca tui i risultati che ho oenuto. Mi sarebbe piaciuto ancora ritornare a casa e trovare i suoi palloncini che addobbavano il cancello, ma, ogni volta che vinco, per me è un suo palloncino. Mio padre è convinto che quell’anno oenni quei grandi risultati a causa della sua morte, ma io non credo che la sua scomparsa abbia influenzato la mia grinta, la mia rabbia agonistica. Lo dico consapevolmente: a quell’epoca, tuo quello che accadeva fuori dalla palestra, in palestra non entrava. Oggi non è più così. Oggi sono – e sarei – più vulnerabile. Ma sono certa che mia nonna mi veda. Magari sta sentendo o leggendo queste stesse parole, in questo momento. In gara, peraltro, la penso spesso. Poi un giorno nostro padre ci rivelò che nostro nonno non era davvero suo padre. Ci raccontò che il suo vero padre era un altro e fuggì quando lui era piccolo, abbandonando di punto in bianco nonna Giuseppina. Così nonna Giuseppina, qualche tempo dopo, sposò Angelo. La cosa non ha mai influito minimamente sull’affeo che proviamo. Mai avuto il minimo dubbio: sia per me sia per i miei fratelli, nostro nonno è lui.

Primo girone, cioè il peggiore. Cominciò così, con la notizia del sorteggio sfavorevole, la trasferta in Danimarca. Non ricordo con quali sentimenti partii. Forse i soliti, un misto di gioia e stanchezza. Forse quel che è accaduto dopo ha cancellato quel che è accaduto prima. In ogni caso, eccomi: alle 7.30 del maino, in una palestra della sconosciuta cià di Århus – la più piccola grande cià del mondo, dicono – mi sto riscaldando. Alle 8 sto saltando al corpo libero. Non fu semplice farlo a quell’ora, anzi, fu un trauma. Il problema è essere slegati come si dovrebbe, e la maina si è sempre rigidi. A me, in realtà, non cambia poi tanto, mi alleno anche di maina e ci sono abituata, ma diciamo che se potessi scegliere eviterei, perché è di pomeriggio che si rende meglio. Comunque il segreto è stare sempre in movimento e non fermarsi, continuare. Poi, una volta in gara, ci pensa l’adrenalina a fare il resto. Alle 5 del maino, invece, dell’adrenalina nemmeno l’ombra: ci svegliavamo sempre a quell’ora, così da tentare di ovviare all’handicap. Cercavamo di arrivare molto presto al campo gara per avere tuo il tempo di fare le cose per bene.

Warm up hall, all’interno del palazzeo. Non so quanti immaginino questo luogo, in fondo non lo si racconta granché, ma secondo me è un peccato, perché in un certo g p p senso la gara inizia già lì. È un luogo che il pubblico non vede e a cui non ha accesso. Ci sono i medesimi arezzi con cui ci misuriamo in gara, anzi no, qualcuno in più, questo per permeere a tui gli atleti di scaldarsi. Siamo tui lì. Di solito le americane sono le più rumorose, non tanto le atlete, quanto la direrice tecnica, Marta Karlyle, moglie dell’allenatore di Nadia Comăneci. La si sente da mille chilometri quando esplode nei suoi «Niiice! Good jooob!». Prepariamo le bende e gli integratori, e facciamo un po’ di stretching. E soprauo stiamo all’erta, perché poi, quando inizia ufficialmente il warm up, non c’è tempo da perdere, si hanno a disposizione 15-20 minuti e tuo è rigidamente scandito. Vietato restare indietro, non si può caracollare col naso per aria e nemmeno sbagliare granché. Alle parallele e in trave, per esempio, si hanno le salite contate, ed è giusto, dato che tui devono provare e scaldarsi. Di solito ce ne sono tre o quaro, ma io non ne faccio mai più di tre, voglio evitare di stancarmi troppo. Fao il primo, ti prepari per l’arezzo successivo. È quasi più faticoso della gara. La tensione comincia a salire. Sono tui lì, alacri, silenziosi (meno la Karlyle), ognuno nel tentativo di infilare la cruna della concentrazione. Gli allenatori si aggirano, osservano, dispensano gli ultimi suggerimenti. Gli atleti, uno dopo l’altro, si producono negli arezzi. È una vera e propria catena di montaggio. Quando finisce il warm up ci sono venti minuti: entrano i giudici, aspei in fila, gli speaker annunciano l’inizio della competizione. Ti muovi sul posto per tenerti calda, quindi dopo trenta secondi comincia la gara vera e propria. Si parte con l’ultimo arezzo fao in riscaldamento. L’ordine è sempre: volteggio, parallele, trave, corpo libero. A questo proposito, ognuno ha le sue preferenze. Per quel che mi riguarda, se devo cominciare con la trave non sono troppo esaltata, è l’arezzo più preoccupante. Per me è come un lunedì, quando devi p p p q entrare in palestra e vorresti che ti portassero da un’altra parte. Va anche deo che almeno un aspeo positivo c’è: se l’esercizio va bene, ti tranquillizzi del tuo, ma se va male si preannuncia una ripida salita. Però bisogna saper fare anche la salita, e io, in fin dei conti, ho più ansia alle parallele. Quella volta, di noe, ansia non ne provai nemmeno un po’. Per quanto oggi mi sembri assurdo, la manciata di ore prima delle qualifiche danesi riposai perfeamente. Non avevo panico. Non beccheggiai tre le onde esasperanti dell’insonnia.

La squadra oiene il nono posto e a me personalmente va tuo benissimo. Certo, si vociferava che la giuria potesse fare qualche giocheo un po’ dubbio, ma io feci quel che dovevo, senza curarmene. Mi preparai a mente sgombra per la finale a 24 nell’all-around e per le finali a 8 di specialità. Passai alle parallele. Passai alla trave. Passai al corpo libero. Per quanto riguarda il volteggio, feci solo un salto. Bisognava farne almeno due per avere possibilità di piazzamento, ma come è noto io non ci punto mai granché. Andò a finire che mi classificai seconda, a un solo decimo dalla prima, l’americana Chellsie Memmel. Era una fortissima, peraltro di due anni più grande di me, che ero molto sorpresa di essermi qualificata in così tante finali. Poi, poco prima della finale dell’all-around, girò una voce. Voce che prese sempre più consistenza. Voce che nel giro di poco divenne ufficiale. Diceva che la Memmel, per problemi alla spalla, si sarebbe ritirata. Colpo di scena. Mi dissi: «Calma, devi fare la tua competizione. Non pensare a nient’altro». Andai serena e sbagliai l’avvitamento in trave, lo stesso per cui Enrico un paio di volte mi aveva mandato a pranzare alle due. p p Caddi, feci un piccolo balzo giù e risalii. In quel momento i nervi mi presero fuoco, ma non mi potevo permeere di assecondare l’incendio. Mi tranquillizzai e mi dissi che lo sapevo, quel raccolto avvitato era rischioso, l’avevo sbagliato spesso anche in allenamento e dunque sangue freddo, perché proprio per quella ragione, superato lo scoglio, il resto sarebbe stato faibile. Finita la trave uscì il punteggio: abbastanza alto, nonostante l’errore. Enrico mi guardò. Stava pensando quel che ha sempre raccontato, da quel momento in poi. «Vanessa, il Mondiale l’ha vinto cadendo dalla trave.» Non so se quella caduta mi diede più rabbia o più voglia di far bene, né l’una né l’altra mi sono mai mancate. Di certo, cadere davanti a tui, in finale, non è un ostacolo che si supera se non si sa essere, all’occasione, un freezer. «Io ho capito che Vanessa avrebbe vinto l’oro guardando la faccia che aveva prima di fare il corpo libero.» Anche questo avrebbe dichiarato, Enrico, in interviste successive. Dopo il fatidico corpo libero, in telecronaca, Jury Chechi si pronunciò così: «Signori, questa è la nuova campionessa del mondo». Il primo commentatore chiosò: «Vanessa Ferrari non ha sbagliato niente». Vista dal tappeto, non è andata proprio così. Certo, mi sono accorta che l’avevo fao bene, ma non potevo rendermi conto che fosse un’impresa andata così bene. Degli aimi prima di fare quel corpo libero ricordo – questa sì, neamente – la mia grande concentrazione. Poi l’occhiata a mio papà. Poi è tuo lo stesso momento: mi sono sistemata la coda di cavallo, sono partita insieme alla musica del Nessun dorma, ho correo l’esercizio in fieri e l’ho portato a termine. Ovazione del pubblico. Enrico che mi solleva da terra, festeggiandomi. Salvatore, il fisioterapista, che mi scuote, anche lui felicissimo. Pensare di avere delle possibilità. Pensare: «Se sono tui così eccitati, un motivo ci sarà». Aspeare l’aggiornamento punti e vedere che sono ancora tra le prime. Poi tuo impazzisce, una scossa da diecimila wa. Volo in braccio a mio papà, che mi stringe e urla: «Ce l’abbiamo faa!». Capisco, non capisco. Poi di nuovo capisco. Torno al mio posto e mi dicono di fare il giro con la bandiera tricolore. Pensare che ho vergogna. Che non vorrei. Chiedere a Monica Bergamelli, come un automa, che venisse con me. Sentire Enrico che mi intima: «E dai, fai ’sto giro e basta!». Farlo. Correre e pensare che non finiva più. Essere felice? Essere indifferente? Volersene andare o restare lì, dentro quel frammento vivissimo di realtà? Immaginarsi da fuori, con questa bandierona. Il pubblico che rumoreggia e mi incita. Oro. Cioè campionessa del mondo. A sedici anni non ancora compiuti. Io. Proprio io. Significava qualcosa? Significava tuo? Ma cosa significava davvero?

Al momento non significò nulla. I festeggiamenti, ad Århus, non sono andati oltre le dieci di sera. Vincessi un Mondiale adesso, farei serata tue le sere. Anche di giorno. Per una seimana. La Danimarca mi regalò anche due medaglie di bronzo: una alle parallele, una al corpo libero. Quando rientrammo a Brescia, in palestra mi fu organizzata una festa a sorpresa. C’erano tue le ragazzine, le mamme delle altre ragazzine, Enrico, gli allenatori, i miei. Sulla torta, davvero gigantesca, la scria di panna montata «ÅRHUS 2006». L’episodio fu significativo, perché di fao conteneva la risposta alla mia domanda. A un certo punto, scaate un bel po’ di fotografie, volli assaggiare la scria. Era mia, giusto? L’avevano faa per me! Be’, mi fu vietata. Mi sooposi ad altre fotografie, altri autografi; tui mi tiravano di qua e di là, nemmeno fossi un pupazzo. Enrico, quando manifestai interesse per la torta, strabuzzò gli occhi e mi disse: «Vuoi mangiarla? Scherzi? Guarda che mei su peso, hai altre gare da fare. Il bello comincia adesso, non puoi mica mollare». C’era il Gander, una competizione che ha luogo in Svizzera. Una manifestazione di certo importante, ma non paragonabile a un Mondiale appena vinto con quella sicurezza che avevo dimostrato. Eppure non potevo riposarmi. Eppure non mi era concesso di tirare il fiato nemmeno un aimo. Io dovevo dare sempre il massimo. Così nella torta ci ho ficcato solo un dito. Poi, tristemente, me lo sono leccato. Eccola, la mia festa. Ecco – mi dissi – cosa tuo questo significa davvero.

Quindi tornai a scuola. Arrivarono mazzi di fiori da ovunque, anche da Genivolta e da Castelleone. E Mario Balotelli, che frequentava in quel periodo il mio stesso istituto scolastico, mi chiese il numero di cellulare. Per la cronaca: non gliel’ho dato, sia perché del calcio non me n’è mai interessato granché, sia perché non mi piaceva il suo modo di fare. Ricordo qualche sua speacolare bravata, e il fao che un nostro professore aveva oenuto di farlo espellere per una seimana p p p perché, passando in corridoio, aveva tempestato di calci la nostra porta. A parte questo fao ininfluente, tuo, o quasi, proseguì come se nulla fosse accaduto. La medaglia di Århus non era penetrata nell’Istituto Brera. Fuori, però, la situazione si stava modificando. Sempre più spesso mi avvicinava qualche sconosciuto e mi chiedeva una foto. Un postulante oggi, due domani, dieci dopodomani, ed ecco che il fenomeno esplodeva: non avevo nemmeno sedici anni e il mondo cominciava a guardarmi con occhi diversi. Dopo i Campionati del Mondo ho avuto un vero e proprio choc perché sono stata assediata da tifosi, fan, peegoli, mitomani, giornalisti, e da richieste di ogni genere, pressanti e fiissime. Finché poi questa mutazione radicale delle cose intorno a me ha segnato per sempre e irreversibilmente il mio rapporto con la folla. Nell’occasione del Gander a Chiasso, Enrico aveva dovuto respingere a ceffoni la marea di gente che mi si stava schiantando addosso. Io ero terrorizzata e tui volevano venire a contao con me e chiedermi qualcosa, chi brandendo taccuini, chi fogliei e diari, dando in strilli e strepiti di ogni genere. Cosa mi stava succedendo? Stavo assistendo a un cambiamento enorme, anzi, peggio che enorme... un cambiamento violento, intorno a me. Da un momento all’altro mi trovai in balia di una popolarità inimmaginabile anche solo la seimana precedente. Io non ero cambiata da un momento all’altro. Il mondo, sì. A peggiorare tanto la situazione quanto la mia difficoltà a viverla serenamente c’è anche il fao che odio essere guardata quando vado in giro. Ma qui non c’entra Århus, credo. Diciamo che io ho passato la vita, fin da molto piccola, a esibirmi davanti a persone che mi giudicano, lo faccio da quando ho memoria, perciò è inevitabile che non mi piaccia sentirmi osservata. Anche quando vado a fare le esibizioni, mi disturba che ci sia gente che mi guarda mentre provo. Ridendo di me stessa e della mia immaginazione, a volte ho pensato che mi sarebbe piaciuto chiedere di svuotare il palazzeo. Agognerei la solitudine. Lo troverei stupendo: io, i miei arezzi, gli spalti deserti. Lo so che dire quel che mi appresto a dire mi alienerà qualche simpatia (del resto è già successo), ma non posso tacerlo, è più forte di me: chi, in giro, mi ferma per complimentarsi, non mi rende felice. Anni fa, quand’ero più giovane, ero disponibile, anche con gli autografi. Poi, dopo Århus, sono arrivata al limite. E da un momento all’altro non reggevo più niente, non sopportavo i giornalisti, mi sembrava stupida ogni singola dedica, ogni pagina di diario altrui soo cui ingarbugliavo di frea una scria col mio nome. D’istinto mi veniva di rispondere male a chiunque si avvicinasse. Non voglio essere fraintesa: lo so che è una fissazione, e non ne vado affao fiera. C’è un fao, piuosto buffo, che mi è capitato l’anno scorso. Ero coi miei fratelli e Andrea, il mio fidanzato dell’epoca, a ballare. Indossavo un paio di scarpe rosse quand’ecco che a un certo punto una ragazza mi si avvicinò. Allora, dentro di me, cominciai a sbuffare. Mi chiedevo: cosa vorrà? Perché non mi lascia in pace? Sono qui per divertirmi, non se ne rende conto? Avrei voluto cercare una botola, sparirci dentro, percorrere un soerraneo, sbucare al parcheggio fuori dalla discoteca, salire in macchina e tanti saluti. Senonché la ragazza mi venne vicino e, con gli occhi lucidi di ammirazione, cingueò: «Bellissime! Ti prego, dimmelo: dove hai comprato quelle scarpe?». È stato un gran sollievo. E abbiamo chiacchierato per mezz’ora. Domanda: la popolarità è un premio? Non so cosa sia successo in quel periodo. O meglio lo so, e ne conosco i risultati: qualcosa, dentro di me, si è inceppato. Quei Mondiali mi hanno dato moltissima notorietà, ma dopo la sbronza da vioria io volevo continuare a fare le cose che facevo prima. Io, se solo me l’avessero permesso, sarei tornata alla mia vita normale.

Ma non me lo permeono, il telefono di casa squilla di continuo e io sento crescere il disagio. g I rapporti di forza mutano di colpo. Per esempio, prima di Århus nessuno mi considerava granché. Quando il mio allenatore cercava sponsor diceva in giro che ero brava, bravissima, una spanna sopra la media, che avrei fao grandi cose. Lui ci credeva, aveva le sue ragioni per dirlo, ma era un discorso ancora del tuo ipotetico, anche perché essere bravi non basta. Bisogna vedere quanto si regge, se la testa sta sulle spalle, se il clima gara ti ammoscia o ti esalta. Molte ragazze sono campionesse del mondo in allenamento, poi già durante il warm up sbiancano o diventano nervose come bisce; altre non trovano le giuste motivazioni; altre ancora non sono in grado di reggere dolore e fatica. Dopo Århus, invece, lo sponsor si presentò da sé. Mio padre ed Enrico doveero solo aprirgli la porta: da quel momento, in famiglia, vestimmo tui per quella nota marca di abbigliamento sportivo. La sensazione che mi dominava per la maggior parte del tempo era quella dello spaesamento. Come mi ritrovassi in una terra straniera che assomigliava grosso modo a quella in cui avevo sempre vissuto, ma troppe cose non mi quadravano. Tuo si stava sovvertendo. Rapidamente incrementarono gli impegni, sia quelli che mi sembravano sensati, sia quelli che non comprendevo. All’improvviso dovevo correre di qua e di là, sorridere, rispondere a domande sempre uguali, sciorinare banalità, prestarmi a tuo. Nel fraempo il telefono era sempre più rovente e mio padre mi raccontava che Roberto Formigoni e Pier Gianni Prosperini, allora presidente e vicepresidente della Regione, chiamavano anche due o tre volte al giorno per fissare un appuntamento e incontrarmi. Una volta dissero a mio papà che mi avrebbero invitato al Pirellone per il giovedì seguente, ma io a Milano ci andavo di venerdì. Dunque lo pregai di declinare l’invito. Volevo continuare con i miei allenamenti, non era forse per la ginnastica che ero arrivata dov’ero arrivata? Cosa c’entrava la politica? Così lo dissi anche a loro: no, grazie. Erano già troppi gli appuntamenti cui non potevo sorarmi. Venivo scarrozzata in giro per occasioni pubbliche e io eseguivo come un buraino, mi lasciavo portare tra le braccia di una sofferenza passiva che non vorrei provare mai più. I giornalisti mi pressavano, mi travolgevano con le domande, avevano sempre centomila cose da chiedermi e io ne avevo meno, molte meno da dire, e quasi mai quelle che volevano sentire. Però loro continuavano a chiedere. E io dovevo dire, dire, dire. Palestra, scuola... adesso anche le pubbliche relazioni? Avevo sempre qualcosa da fare, e sempre più spesso, cose che non mi interessavano. Enrico parlava a raffica e mi diceva che dovevo andare a fare questo e quell’altro, ma io pensavo: qualcuno, prima o poi, si sognerà di chiedermelo, se lo voglio fare? Non me lo chiedevano. Mi obbligavano. Il risultato era ovviamente il peggiore e io mi presentavo a ogni appuntamento con la faccia storta. Poi andava a finire che mi sorbivo sempre le stesse prediche (mio padre era molto aivo, in questo senso) sul fao che avevo quel muso indisponente, da schiaffi. Nessuno che mi chiedesse, o si chiedesse, come mai tenevo parcheggiata sulla faccia la smorfia più sgradevole che avevo; o chissà, magari se lo chiedevano, ma anche loro, a propria volta, non potevano fare diversamente. Intanto, dentro di me, la solita, ossessiva domanda: la popolarità è un premio? Mi diedero anche le chiavi della cià di Cremona, ne diventai ciadina onoraria. Mi dicevano che era una cosa molto bella, in effei adesso me ne rendo conto anch’io, ma allora non ne pensavo nulla. A volte, poi, si creavano situazioni groesche. In un’occasione, a Brescia, mi dovei trascinare fino al castello per fare un servizio fotografico. Era tarda mainata, mi allenai di corsa e piantai tuo a metà. Poi tornai nuovamente in palestra per la seconda parte. Per di più, a rendere ancora meno piacevole la parentesi, mi dovei meere in body sul ponte levatoio in mezzo a tui. y p I giornali scrivevano che non ero simpatica, ma a me non è mai interessato, né mi interessa ora. Però, a posteriori, mi chiedo: era così difficile immaginare cosa mi passasse per la testa? Ho memoria di interviste del genere: domanda, e io rispondo «Sì». Altra domanda, e io rispondo «Sì». Terza domanda, e io rispondo «No». Ultima domanda, e io rispondo «Forse». Non era divertente per nessuno. Più noioso di un rosario. L’unica aività cui mi sono prestata volentieri in questo periodo è stato reclamare la palestra. Enrico mi consigliò: «Dato che nelle interviste non sai mai cosa dire, mei su il disco. Chiedi la palestra». Aveva ragione. La nostra vita non era molto pratica, andavamo a Milano per preparare corpo libero e volteggio secondo tui i crismi, e a Brescia riuscivamo a portare a termine solo la prima parte della preparazione. Così fui metodica. E alla prima occasione la chiesi anche a Giovanna Melandri, l’allora ministro dello Sport.

La mia faccia: ho sedici anni e una smorfia corrucciata. Tui mi vogliono? A me sembra terribile. La musica è questa: non ho più un minuto per me e perfino il giorno del mio compleanno, che quell’anno cadde di domenica – le mie amiche erano ospiti da me per sobri festeggiamenti –, causa impegni mi alzai alle sei e non riuscii a fare colazione con loro. Inoltre, come giusto, guai a saltare un allenamento. Ero la campionessa del mondo, no? Allora non dovevo dar segni di cedimento, e anzi, cementare i miei primati doveva essere il mio primo comandamento. Pertanto continuavo a farne due al giorno, duri come prima, e spesso, se durante la seimana non era stato possibile fare le cose per bene, recuperavo nel weekend. Poi un giorno mi chiamano da Roma, Senato della Repubblica, e mi comunicano che mi conferiranno il Collare d’Oro. Questo riconoscimento, lo devo ammeere, mi rese davvero felice. La cerimonia fu una cosa seria: stare colleivamente seduti, udire il proprio nome scandito al microfono, alzarsi, raggiungere il presidente, incassare gli ufficialissimi complimenti e acceare una medaglia. Ci andai con Enrico. Prima di entrare in Senato, si scatenò il solito parapiglia giornalistico. «Sei felice per questo riconoscimento, campionessa?» «Molto, grazie.» «I prossimi obieivi?» «Fare sempre meglio.» «Vanessa, qual è la domanda più stupida che ti hanno mai fao?» «Questa.» Quello era stato anche l’anno della vioria della Nazionale di calcio ai Mondiali di Berlino. Alcuni giornalisti vollero a tui i costi convincermi a fare la foto coi calciatori, ma a me non interessava, tra l’altro mi sembrava stupido farsi scaare una foto accanto a un trofeo vinto da qualcun altro. Così dissi di no. Ma non si diedero per vinti e brigarono al punto da prendermi di sbieco, furbescamente. E riuscirono a farmi uno scao di straforo, in cui, di sfondo al mio primo piano, balugina la coppa di Berlino. La popolarità è un premio? O è la foto col premio di qualcun altro? Ripensando alla mia vita, non posso che dire una cosa: quel che ho fao, io l’ho fao per me. Non ho mai desiderato apparire. Mi sono sempre sooposta malvolentieri, quando non con riluanza un poco ruvida, alle celebrazioni pubbliche. Questo perché ho sempre voluto che a parlare fossero i miei risultati, non altro. Non era e non è un fao di egoismo o di presunzione, semmai il contrario: io so fare una cosa bene, fatemi fare quella e non pretendete altro che io non voglio e non so fare. E invece tui pretendevano qualcosa. Lo so che suona male, ma quella vioria di Århus, la più importante della mia carriera dal punto di vista del prestigio p p p g internazionale, in certe circostanze io l’ho anche maledea. Sì, sono contenta. Ho vinto. Ma si vince in un’occasione sola, in un giorno solo. Il resto è corollario. A volte, di vincere, non me n’è importato proprio niente, se – mi dicevo in quel disperato momento – le conseguenze erano quelle che stavo verificando di giorno in giorno. E di giorno in giorno mi sentivo obbligata a fare le cose che gli altri mi imponevano. Non ho comunque mai pensato seriamente di smeere con questo sport, né credo che qualcuno si sia comportato in malafede, anzi, Enrico voleva che mi costruissi una solida carriera e mio padre ha sempre agito per il mio bene. Però, in quel periodo, contraddioriamente, il mio bene non era del tuo il mio bene. Ho sempre amato la ginnastica, eppure, come un pensiero peccaminoso che mi sarei vergognata anche solo di confessare, ricordo che in quei mesi prendeva forma nella mia testa la losca ipotesi: «E se la piantassi qui?». Se non avessi avuto paura di deludere chi credeva in me, come sarebbe andata a finire? Tuo era molto fastidioso, certo, ma a guardare entrambe le facce della medaglia ogni interessamento certificava anche stima nei miei confronti, seppur non nelle modalità che avrei preferito. Però c’era, e su questo non ci si poteva passare sopra. Così non ho mai formalizzato ad alta voce nemmeno la remota eventualità. Andavo in palestra, continuavo, e mi dicevo che dovevo starci con la testa, non starci sarebbe stato troppo pericoloso. Permanenti sensazioni di vuoto, di disagio. Mi osservavo da fuori e vedevo una che mi somigliava fare delle cose che in realtà, fosse dipeso da me, lei non avrebbe mai fao.

Poi tocca di nuovo a me, per fortuna in gara. Nel 2007 continuo a vincere. Non mi sono mai sentita Wonder Woman, ma a quel punto sapevo come sarebbe andata: se ci avessi messo tuo il mio impegno, il cuore, la testa e le gambe, nessuna mi sarebbe stata dietro. In Europa erano forti le rumene, le russe un po’ meno. Ma poco importava: russe, rumene, marziane, io stavo sempre davanti a loro. Vincevo e vincevo, ma purtroppo queste viorie non hanno avuto un sapore particolare, e le ricordo appena. Adesso è cambiato molto. Mi sento nel cuore del mio lavoro, gli esercizi che porto li scelgo con cura, dedizione ed entusiasmo, e provo emozioni diverse che mi godo molto di più. A Parigi e a Amsterdam ricordo di aver avuto solo paura, e di aver rigato drio a causa di questo. Molto spesso ho avuto paura di qualcosa che mi ha impedito di godere appieno di quel che avevo. Comunque, pian piano le cose si stavano riassestando e le pressioni andavano diminuendo, seppure a un ritmo più lento di quel che avrei voluto. La follia post-Århus stava sbollendo? Forse, ma non era ancora del tuo alle spalle: rivoli e colpi di coda si potevano manifestare in ogni momento, soo le ormai prevedibili forme. Alla Coppa del Mondo di Parigi vinco tre ori. Agli Europei di Amsterdam, due. Avevo fao bene le qualificazioni, poi ho vinto la finale nell’all-around. Mi ero qualificata in tue le finali meno il volteggio. Sbagliai parallele e trave, ma mi comportai egregiamente nel corpo libero. Ricordo di avere sbagliato per una sola ragione: ero stanca morta. Quando ho finito l’ultimo esercizio, mi sono messa a piangere. Tui mi chiedevano: «Perché piangi? Hai vinto». Avevo vinto, sì. Ma mi sentivo sfiancata, senza benzina. IX

Festa dello sportivo al Quirinale. Soopongo il problema-palestra anche a Romano Prodi. Un giornalista, in conferenza stampa, di certo non al corrente della mia totale indifferenza per il calcio, partì alla carica con questa domanda: «A che squadra tieni?». Tanto per dire qualcosa – stavo imparando? – risposi: «Milan». «Dunque la stai chiedendo anche a Berlusconi?» «In che senso?» «La palestra. La stai chiedendo anche a Berlusconi?» Non ricordo esaamente cosa risposi, ma dissi di no, non la stavo chiedendo a Berlusconi, cosa c’entrava Berlusconi? La sera dopo mi ritrovai al Tg4 di Emilio Fede. Mi rimbroò pubblicamente, affermando che ero stata arrogante e che non mi dovevo permeere. La gente protestò con la redazione. A sostenermi, molte leere e e-mail.

Un pomeriggio di maggio, con tue le atlete della Brixia, vado a fare un saggeo in una palestra di Treviolo. Intervista di una tv locale. «Vanessa, com’è cambiata la tua vita?» «In palestra non è cambiato nulla, fuori ci sono tanti giornalisti. Faccio quel che devo fare, so che serve per la ginnastica. Ma voglio dire una cosa: spero non serva una campionessa del mondo per riuscire a oenere una palestra.» E la palestra, nel fraempo, dopo continue mie richieste e un articolone a tua pagina sul «Corriere della Sera», finalmente arriva. Da quel momento, costruito su un terreno dell’Iveco e con la partecipazione di sponsor come Broad, Adidas e Gymnova (che ci mise gli arezzi), il PalAlgeco diventa casa nostra. Fu eccitante vedere l’immenso spazio che avevamo a disposizione: 60 metri di lunghezza, 15 di larghezza, 6 di altezza. Passare dalle piscine Delfino a tui quei metri quadrati di spazio, tappeti e buche vere non ricavate da vecchie vasche, ci elerizzò. Si sentiva solo il sussurro dei condizionatori d’aria. I tappeti erano lucidi soo i neon e sembravano comporre enormi moduli giocaolo rossi, bianchi e blu. Odore di cose nuove, fiammanti, nell’aria. Due giganteschi specchi acuivano la percezione di profondità. Ma quella che incombeva su Enrico era più che altro la percezione del tempo: i Campionati del Mondo di Stoccarda erano dietro l’angolo. Allora ci diamo dentro, poi facciamo una gara a Roma. È lì a Roma che, per la prima volta nella vita, sento male al tendine destro. Non mi faccio impressionare. Ne tengo conto, certo, ma sangue freddo. Quando rientriamo proseguo la preparazione, quindi, dato che il dolore non se ne va, stringo i denti. Mi massaggiano regolarmente il polpaccio e cerco di non pensarci.

Senonché, un giorno, al volteggio, sento una fia squarciante. Il conto alla rovescia per i Campionati del Mondo diceva: meno due giorni. Finito l’allenamento, esco e nel parcheggio trovo come sempre mia madre che mi sta aspeando in macchina. Appena salgo – in palestra non me lo sarei potuto permeere – scoppio a piangere. Penso: ho streo i denti, li avrò strei troppo? Insisto, così andiamo a fare una lastra, ma la lastra non mi dà ragione: nessuna evidenza grave, forse una piccola calcificazione, cioè nulla di che. Eppure io ero sicura, qualcosa doveva esserci. Il dolore era troppo forte e continuo. Qualsiasi cosa facessi, mi sferzava una frustata di fuoco. Avevo perfino modificato la mia andatura per non sentire il male, e alla fine non riuscivo nemmeno più a camminare. Non era possibile fosse una cosa da niente. In palestra avevano tui soovalutato il problema, mi davano della piaola e io mi stavo convincendo di essere una piaola, di non essere in grado di sopportare il dolore fisico. Va a finire che me ne sto zia, faccio l’ultimo allenamento e poi partiamo. Però non reggo. Allora mi lamento ad alta voce: nessuna conseguenza. Continuo a lamentarmi: vengo rampognata perché ho il solito muso. Il fao è che stavo davvero male, le ultime rifiniture a Stoccarda erano state un pianto. Per saltare al volteggio dovevo applicarmi il ghiaccio, anestetizzarmi per bene, quindi fare il salto e tornare a rimeermi il ghiaccio. Praticamente saltavo a freddo. Idem col corpo libero. Non riuscivo nemmeno a finire l’esercizio. Deo questo, vorrei essere presa alla leera: io non so come ho fao a portare a termine quelle gare. La mera cronaca? Le qualifiche con la squadra andarono bene, ci piazzammo nelle prime oo e dunque, purtroppo per me, ci guadagnammo la finale di squadra. Feci solo il volteggio e le parallele: alle parallele caddi, ma non c’ero con la testa; il volteggio lo feci discretamente. Poi, in finale all-around, dove nonostante il piede roo mi classificai terza, sbagliai ancora le parallele. Per carità, entrai in finale al corpo libero, dunque non un risultato da poco, ma non l’ho fao come avrei voluto. Il dolore mi ha sporcato l’esercizio in ogni suo minimo passaggio, e non vedevo l’ora che finisse. L’ho portato a termine in precarie condizioni di equilibrio, sempre sbilanciata, col pensiero solo a come contenere le fie e a evitare di farmi male altrove. Il problema è che quel corpo libero io dovevo e volevo farlo bene. Non avrei potuto farlo con cautela, perché in gara non esiste cautela, non può esistere, devi spingere al massimo o niente. Ero imboita di Toradol, sul fianco avevo un ematoma blu- melanzana. Poi, dopo essersi consultato col fisioterapista, Enrico mi disse: «Adesso, quando torniamo a casa, per prima cosa sistemiamo quel piede». Trovai la forza anche di riderci su: il mio vero capolavoro di quei Mondiali di Stoccarda, infai, è stato cadere alle parallele. Che senso ha aver male a un piede e cadere alle parallele? È assurdo. Così assurdo che, quasi quasi, dovrei andarne orgogliosa. A ogni buon conto, quel bronzo nell’all-around per me vale tantissimo. Enrico, nei momenti di difficoltà, me lo ricorda sempre: «Terza al mondo con un piede roo». Secondo lui, date le condizioni fisiche improponibili e quelle psicologiche non oimali, è uno dei miei massimi risultati di sempre.

Tornata a Brescia, risonanza: edema nello scafoide. Microfraura da stress, interna – per questo la lastra non l’aveva colta. Dunque non ero pazza, qualcosa avevo. Fai gli esami, non ho comunque interroo i miei allenamenti. Pochi giorni dopo, ero allo staggio basso delle parallele, ecco che arriva una telefonata. Enrico parloa, nel mentre si guarda in giro, poi viene da me e mi fa: «Fraura. Devi star ferma tre mesi». Fraura. Ferma. Tre mesi. La prima cosa che ho pensato? Che ero felice.

Fraura. Ferma. Tre mesi. Me lo dicessero adesso, ne farei una tragedia. Questo perché ora so cosa vuol dire. Allora non immaginavo la verità fino in fondo, e cioè che per riprendersi da un infortunio è necessaria tantissima energia. Un serbatoio. Una cisterna. Recuperare il corpo è durissima, poi molto dipende anche da quale arto e dove esaamente ti fai male. Quando riprendi dopo uno stop si hanno terribili dolori ovunque, ed è normale: al volteggio e nel corpo libero, i colpi che prendi e devi assorbire quando fai un semplice stacco, be’, quelli, quei colpi continui e secchi, ti buano giù. Quando si ricomincia si tende a far tuo come si è abituati, cioè si danno ordini al corpo e ci si dice «adesso spingo al massimo», viene naturale, è logico, ma per il fisico non è né naturale né logico farlo con poco allenamento, né con la stessa facilità; e poi, durante le pause, il muscolo perde tono, e a ristabilirlo ci si mee tanto tempo. Per questo io ho la mia teoria del neverending. Anche d’estate, da piccola, se i miei se ne andavano in Bulgaria, capivo che, mi piacesse o meno, era più opportuno restare a Brescia e andare a dormire dai nonni. Comunque, alla fin fine, non mi hanno operato al piede. La cura furono il riposo e le terapie. La cura fu non prendere colpi. Facevo la ionoforesi e mi ripetevo che tre mesi ferma sarebbero stati davvero un paradiso. Dimenticavo. Postilla a vostro uso e consumo. «Ferma» non significava ferma. «Ferma» significa ferma col piede. La mia parte superiore la dovevo comunque curare per non lasciarla troppo indietro. Buffo? Ai ginnasti succede spesso. Star fermi vuol dire continuare. Ma continuare così, diciamo la verità, era una vacanza. Ero impegnata a metà e decisamente più tranquilla. Una parte del mio corpo aveva issato bandiera bianca, e io gliela lasciavo sventolare al vento tiepido di una parziale, ma salvifica, nullafacenza. Mi rivedo seduta in disparte, mentre sento i tonfi e gli allenamenti delle altre, e guardo le loro cadute e i loro salti. Mi chiudevo il piede tra due spugne, una impregnata d’acqua e una di medicinale, e via con l’elerostimolazione. Tiravo il fiato e non mi sentivo obbligata a nulla. Ero ferma ai box. Stavo solo saltando un giro. La fatica degli altri era un’eco, una risacca. Non mi chiedevo nulla. Non mi chiedevo – errore fatale? – cosa mi avrebbe riservato il futuro. Parte seconda Il fondo del pozzo

Fuochi azzurri! Verdi splendori! Pallidi giacinti! Le vampe rosse dei rubini! Sono gocciole d’astri! Prendi! È tuo tuo!

Vuoi la gloria?

PUCCINI, Turandot, ao III, quadro I X

L’essenziale? Arrivare preparati all’appuntamento. Lo ripetono tui: i giornalisti, gli allenatori, i presidenti. Se lo augurano i tifosi. Gli atleti, nelle interviste, si dimostrano sempre assertivi. Dicono: «Eccomi pronto per questa Olimpiade, mi sono allenato duramente e sono qui per vincere». Peccato che lo show abbia questa regola: parleranno di te solo se vincerai. Perché, puoi starne certo, se non vincerai, tua la fatica quotidiana, le ore in palestra, i giorni di dubbi e di fatica, tuo quel cumulo di aspeative, di difficoltà, di tensioni, tuo quel groviglio di sentimenti e contraddizioni che in realtà costituisce il 90 per cento della tua esistenza, non conterà poi molto. Per te, però, quella fatica esiste. Continuerà a esistere. L’hai faa. Ed esiste il fao che l’hai sprecata e sei di nuovo da solo a fare i conti con te stesso. L’essenziale, per me, sul finire di quel controverso 2007, era riprendere ritmi più normali. Accadrà quel che accadrà – mi ripetevo mentre mi sooponevo alla ionoforesi –, ma tu intanto stai tranquilla. Invece tranquilla non lo ero affao. Vivevo una dissociazione perenne: gli altri mi vedevano in un modo, io mi sentivo in un altro. E non mi sentivo bene. Deaglio inessenziale se pur medagliato, ero in balia del vuoto. Fragile l’equilibrio tra quel che avrei dovuto essere e quel che ciascuno, con le proprie ragioni, si aspeava da me. Lo capivo, lo intuivo, lo vedevo negli occhi di quelli che mi intervistavano, mi chiedevano un autografo e, a vario titolo, mi g circondavano. Sapevo cosa si immaginano in questi casi. L’oro che luccica. Il trionfo. Il divertimento. Alice nel Paese delle Meraviglie. Le viorie, la notorietà, la gloria precoce: sedici anni non ancora compiuti e sei in cima al mondo, che sensazione si prova? Gioia? Entusiasmo? Onnipotenza? Raccontaci, quant’è eccitante? Bello se fosse stato davvero così. Sarebbe piaciuto a me per prima. Ma c’è un problema: qui non si racconterà questa storia. Qui la storia è un’altra. Qui la storia comincia così: c’era una volta Vanessa che cadde nel pozzo. Non è una favola, è come sono andate le cose. Dovendo ribadire l’immagine, direi che mi sono sempre sentita, e a volte ancora mi sento, sul fondo di qualcosa da cui non posso facilmente risalire. A volte mi basta alzare gli occhi: intorno a me, il buio. Lassù, in alto, uno spiraglio luminoso, una piccola luce che mi spia. Oltre quella luce, il mondo di fuori. Ho allungato la mano per raggiungerlo, a volte ci sono anche riuscita, ma poi sono ricaduta di nuovo nel pozzo e per la maggior parte del tempo me ne sto qui. Anche mentre rido, mi alleno o parlo al telefono. Mi arrivano solo echi di quel che succede là fuori. Tuavia, per essere precisi, non è esao nemmeno affermare che io mi senta in prigione. Perché è più complicato di come sembra: io ho voluto stare qui, anche quando ho odiato starci. Anche quando sarei scappata via. Anche quando mi sono sentita smarrita e sola. O forse queste sono solo parole. Forse non è complicato affao, anzi è semplicissimo: forse non c’è alternativa. Per la prima volta, su questa pagina bianca, a proposito della grande domanda che a me hanno fao spesso, vorrei essere sincera. E voglio dire che se rinascessi, pur sapendo di vincere tuo quello che ho vinto, non farei più ginnastica. Avevo sedici anni ed ero infelice. Ero al centro dell’aenzione morbosa di tui e non volevo quell’aenzione. Non avevo nemmeno un ragazzo e non riuscivo a godermi nulla di quanto accadeva in me e intorno a me. Dovessi rinascere, non la rifarei perché ho già provato tuo e non mi interessa. Nell’ambiente si dice che, per quel che riguarda le ginnaste, non esiste il verbo «perdere», ma solo «rimandare». Per me, invece, esiste. Perché è troppo quel che la ginnastica mi ha tolto, e quel che mi ha tolto, a conti fai, me l’ha tolto e basta. Ora sto meglio, certo. Mi sento nuova e ho più energie. Ho un buon numero di consapevolezze e un autentico senso di gioia. Ma in quei due o tre anni in cui mi sarei dovuta sentire benissimo, vincere tuo – che, mi rendo conto, è il massimo – spesso è stato il minimo. E in ogni caso è stato sempre, sempre, sempre, a costo di qualcosa. Tuo era stressante: gli allenamenti, i collegiali, il pregara, la gara. Anche la pausa infortunio lo fu, dato che non potevo in nessun modo smeere di andare in palestra. La ginnastica è stata un’ossessione e ancora adesso mi condiziona. È normale, mi segue anche se fingo di pensare ad altro, anche se guardo una vetrina o sono in vacanza. Ho ancora il mio Ba? Mi sembra di vederlo: se ne sta lì acquaato e aspea solo di acciuffarmi e portarmi via. Non gli è bastato? Ricordo ogni cosa. Ricordo come tuo è cominciato, e ogni sensazione è cristallina come un vetro araverso cui guardo. Sono io o è un’altra, quella ragazzina che detestava danzare? Che era contenta di fare quel che faceva, ma poi è stata travolta? Forse al buio si ricorda meglio. Forse la luce che vedo lassù è meno luminosa di quel che credo. Spesso mi sono dea che è stata anche colpa mia, che avrei dovuto prendere tuo diversamente, che tui intorno a me avrebbero dovuto assumere un altro aeggiamento. Ma è andata com’è andata, ed è già andata. Questo, non un altro, è stato il prezzo per raggiungere i miei traguardi. Nel grande sforzo di equilibrio che faccio quando tiro le somme – questo sforzo di star dria sulla trave del passato senza sbilanciarmi nei più facili sentimentalismi – mi rendo conto che esiste anche un altro aspeo della medesima questione. Perché, se adesso riesco a continuare, a essere così longeva e competitiva e a portare ancora g p p risultati (non è cosa da tui), è anche per la qualità del lavoro che ho fao negli anni passati. Avrei potuto smeere mille volte e non l’ho fao, per cui faccenda chiusa. Adesso è tempo di non pensarci più, di esprimere tua questa nuova carica che sento, di chiudere i cerchi e di non rivangare. Voglio prepararmi per le Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016, ma poi, credo, smeerò. Non vedo l’ora di mangiare una pizza quando mi gira. Non so come andrà, non so esaamente cosa farò. Mi sarebbe piaciuto finire il liceo artistico e poi fare Belle Arti. Mi sarebbe piaciuto anche fare la truccatrice per il cinema. L’allenatrice, per esempio, è una carriera che non mi dispiacerebbe. Oppure potrei produrmi in esibizioni per la Federazione o per l’Esercito, insomma, qualunque aività che non mi sovraccarichi di stress e in cui io possa far valere la mia preparazione fisica. Per un periodo ho sognato il Cirque du Soleil, l’ho rivelato anche in qualche recente intervista, ma poi ci ho pensato e credo che, dopo tui questi anni, desidererò una vita meno nomade. La verità, al momento, è una sola: io vado avanti, ma non aspeo altro che smeere di fare ginnastica. Smeere per essere completamente felice. XI

L’inizio del 2008 si preannunciò complicato e sfavorevole. Sarebbe finito anche peggio? Cerco di riprendermi per le gare di serie A, poi a marzo tocca agli Europei di Clermont-Ferrand. Non vanno molto bene, del resto sono tuo meno che in forma. E, incredibile a dirsi, ricomincio a sentir male al tendine d’Achille destro. Cosa mi stava succedendo? Era un incubo? Archiviati i problemi al sinistro, proprio nel momento della ripresa, andava anche peggio? Nel ricominciare a saltare, ricominciano i dolori. Il riposo non era servito a niente? E la stramaledea terapia? Avevo fao tuo quello che mi era stato deo eppure ero da capo, ferma allo stesso punto di due mesi prima. Dopo Clermont avrei avuto solo centocinquanta giorni per prepararmi alle Olimpiadi, l’appuntamento più importante che esista. Ero sul ciglio della disperazione: stavo ricominciando a saltare e mi dovevo ancora fermare? Diario di bordo. Conto alla rovescia dei mesi. Meno cinque: fatica, ma ci provo – voglio provarci. Meno quaro: dubbio che si stava inevitabilmente preannunciando una preparazione che, a voler essere generosi e cercando comunque di spremersi, sarebbe stata come minimo precaria. Meno tre: non progredisco e non so più cosa pensare. Meno due: ecografia tragica. E mi annunciano un ulteriore mese di stop. p «Ognuno prenda la sua roba. Avanti.» Giugno, collegiali di Trieste. Fine allenamento: siamo tue in fila sull’aenti davanti a un tavolo. Sul tavolo ci sono quaro caramelle, un paccheo di cracker aperto e uno no, un cioccolatino. E una misteriosa scatola. Sembra il boino di una rapina ridicola. E noi, imputate alla sbarra. Non vola una mosca. Se volasse, il silenzio è tale che non si sentirebbe un semplice ronzio, ma la mitragliata delle pale di un elicoero. Lorena Coza fa un passo avanti e, furtivamente, si riappropria del suo cioccolatino. Monica sorride, impacciata, e arraffa i suoi due pacchei di cracker. Io e Paola Galante restiamo al nostro posto: niente di quel che è sul tavolo ci appartiene. Christian Zanoi, il fisioterapista, dice: «Spogliatoi controllati, nulla». E mi strizza l’occhio. Enrico indica il reperto non intestato. E chiede: «Questa scatola? Di chi è?». Nessuna fiata. Lui: «Ripeto, di chi è?». Tomba. Lo chiede un’altra volta. Nessuna reazione. Quindi sbuffa e allarga le braccia a significare tragica ineluabilità. Dice: «Se nessuna parla, sarò costreo a punirvi». Al che non ci abbiamo pensato un momento, ci siamo guardate e mosse come se qualcuno ci telecomandasse: nello stesso momento, come appartenenti a un unico corpo, abbiamo fao un passo indietro. Silvia è rimasta sola, un passo avanti, un passo dalla sua scatola. Enrico l’ha aperta: Mars, Bounty, Snickers. Il paradiso, un ben di Dio inimmaginabile. Gli snack erano pressati in modo da essere ospitati in numero clamorosamente superiore rispeo a quello che avrebbe consentito lo spazio. Erano così pressati che quando la afferrò e la rovesciò non ne uscì neanche uno. Alla fine le punizioni non vennero, ma Enrico perse la calma, si innervosì e al culmine del climax, con una manata, sparecchiò violentemente il tavolo. Solo adesso lo capisco. Il gioco, del resto, era serio: ci stavamo preparando per le Olimpiadi, non per un torneo di quartiere. Tuo era cominciato il weekend precedente.

E non era cominciato nel migliore dei modi. Tuavia, per nostra fortuna, il clima di Nantes non si ripeté. Non che a Trieste si giocasse – tre seimane, poi, erano tre seimane, ossia i viaggi premio sono un’altra cosa – però l’atmosfera, pur poco piacevole, era comunque sopportabile rispeo a quel che avevamo vissuto in Francia. Io venivo da un periodo in cui non ero mai stata bene e mi trovavo sul ciglio della pessima forma come mai m’era capitato prima. Mi ero sooposta a mille controlli, il tendine destro aveva ricominciato a farmi male e mi allenavo a singhiozzo per via dei frequenti disturbi. Comunque loavo, cercavo di tenermi a galla e di mantenere una condizione che, almeno, si potesse definire decente. Gli allenamenti andavano male, senza mezzi termini. E non solo: non potevo ancora saltare, dunque per quanto facessi la mia condizione stava inesorabilmente calando. Eseguivo in maniera insoddisfacente gli esercizi alle parallele ed ero torturata dalla sensazione che anche Enrico, di solito aento e scrupoloso, avesse soovalutato il mio stato fisico. Quando non mi riusciva qualcosa che lui reputava alla mia portata, mi spediva dal fisioterapista. Io piangevo senza farmi vedere, poi, di ritorno dal traamento, mi tartassava dicendo che dovevo calare. Avevo il problema al tendine, giusto? E se fossi calata ancora di peso avrei sentito meno dolore al piede – logico, no? Il mandato era chiaro: ogni giorno ognuna di noi doveva calare un eo. Ancora non mi si cancella dalla mente una frase che ci dissero a quell’epoca: «Voi dovete sentire la fame come i bambini del Biafra». Ne parlai allibita con Christian, il fisioterapista, cui tue noi volevamo molto bene; era comprensivo, cortese e conosceva a menadito la situazione di ognuna di noi. Silvia Zanolo, per esempio. Era sempre strappata, aveva un caraere un po’ particolare e i rapporti con lei non erano semplicissimi. Soffriva sempre di problemi di peso, era un po’ più alta di noi e la tenevano soo controllo streo, benché non si potesse dire che la perseguitassero – tue eravamo a dieta perenne. Un giorno, al ritiro, si presentarono i suoi genitori. Forse l’avevano trovata deperita, o forse lei si era lamentata. Sta di fao che gli allenatori avevano subodorato qualcosa, se il giorno successivo alla visita parentale fecero scaare il controllo nelle camere. Io, che dormivo in stanza con Monica, ero pulita, come dicono gli spacciatori. Alcune tra di noi avevano qualche cioccolatino, ma niente di più. Enrico ingaggiò lo squadrone poliziesco: Christian, un’allenatrice del luogo e Vanja, una tecnica che conosco praticamente solo di vista e allena le bambine, furono incaricati di dare un’occhiata alle nostre camere. Christian fece finta di controllare e si diede a un rastrellamento volutamente superficiale. In seguito ci raccontò che Vanja, al contrario suo, intrufolava il naso dappertuo come un segugio: apriva le valigie, rivoltava calzini, perquisiva soo i tappeti. A un certo punto credee di aver trovato delle caramelle e gioì maliziosamente come un caporale zelante, non fosse che si traava di pastiglie per il mal di gola. Poi però scovò la valigia in camera di Silvia, contenente la scatola proibita. Insomma, questa era la situazione. Il mio stato d’animo era oscillante. Ogni tanto, ma solo ogni tanto, facevamo qualche passeggiata. Parlavo poco, me ne stavo in disparte e fissavo i gabbiani che si impennavano nell’aria, poi galleggiavano sospesi e lanciavano aspre grida. Quindi cadevano giù, a picco sul mare, come stracci zuppi.

Dunque non potevo saltare. Me ne dovevo fare una ragione. Parcheggiata ancora a bordo campo. Mi ossessionava un pensiero: e se poi non parto? Se non dovessi riuscire nemmeno a fare la valigia? Non potevo ipotizzare una simile catastrofe, era fuori discussione. La voglia di piangere era più forte di me, avevo un groppo in gola grosso come un cappio che non andava né su né giù – assalto di fantasmi e paure senza precedenti. Però poi mi feci forza. Ci provai. Passato il mese di riposo, per la preparazione vera e propria ne avevo ancora un altro. Trenta giorni, non uno di più. In un mese mi cimentai in una preparazione che si dovrebbe fare nel triplo del tempo. Due seimane di test a Brescia: cercai di non andare in sovraffaticamento, ma mi resi conto che i carichi di lavoro erano onerosissimi. Intorno a me, il clima era peggiore di quello interiore. Strinsi i denti, feci quel che dovevo e mi sobbarcai l’impresa di un recupero che aveva dell’impossibile. Quando mancavano due seimane, si fece strada una certezza. Una voce mi sussurrò: «Queste Olimpiadi non possono andare per il verso giusto». Ma io ci dovevo provare lo stesso. Non pensai mai, nemmeno un secondo, a non partire. Si traava comunque di un’Olimpiade, il richiamo era irresistibile anche se ero praticamente in panne e rifiutavo di ammeerlo a me stessa. Pensavo: «Ce n’è una ogni quaro anni. Per quanto ne so, potrebbe essere l’ultima». Mi ripetevo il mantra di ogni sportivo non in forma: intanto ci vado, dopotuo non si sa mai.

Invece si sapeva – invece lo sapevo. Gli allenamenti procedevano male e mi rendevo conto di essere calata anche nella forza delle braccia, improvvisamente avevo un mucchio di difficoltà perfino alle parallele ed ero ossessivamente votata a calare di peso. In palestra non parlavo del mio stato emotivo e a casa nemmeno. Con chi mi sarei potuta sfogare? Chi avrebbe capito? Così non mi sfogo. Tiro avanti e sto zia. Sto zia e traengo tuo. Del resto non me la sentivo di aggravare e influenzare negativamente una squadra già non al massimo. In quel momento, a parte Lia Parolari, nessuna di noi era pienamente in forma, né fisica né psicologica. Andò a finire che partimmo in condizioni sbilenche, solo un paio di noi si salvavano, eravamo tazze sbeccate di un servizio da tè pericolosamente prossimo al ciglio del tavolo. La maggior parte non ci stava né con la testa né con il fisico. L’aria era elerica, di un’elericità terribile e negativa. Sono arrivata alle Olimpiadi angosciata più dal peso che dalla gara in sé. Seduta in aereo, mentre stavo per prendere sonno e guardavo fuori dal finestrino la spuma nuvolosa, ho vissuto un brevissimo istante in cui mi sono sentita quasi meglio. Mi ripetevo: ci siamo. Pensavo: almeno sei riuscita a partire.

Nazioni partecipanti 204, 10.942 atleti, di cui 6305 uomini e 4637 donne, 37 impianti di gara, di cui 6 fuori Pechino. La fiamma venne accesa a Olimpia il 24 marzo e arrivò nella capitale cinese dopo 137.000 chilometri (il percorso più esteso di sempre) in centotrenta giorni. Lungo la sua strada, aivisti e dimostranti, soprauo a Londra e a Parigi, cercarono di airare l’aenzione sui temi dei dirii umani. La cerimonia di apertura, presieduta da Hu Jintao, introdoa da 2008 suonatori che percuotevano potenti tamburi in grado di illuminarsi e direa da Zang Yimou, cominciò alle 8.08 serali del giorno 8 agosto 2008. Uno stadio clamoroso, a nido di rondine, ospitò una coreografia senza precedenti. Successo planetario e ghioissima occasione per la Cina di avvalorarsi agli occhi del mondo come una forza politica e sportiva di primo piano. Luci, sfavillio ipertecnologico, media impazziti. A dispeo di tanto iridescente gigantismo, io mi sentivo un oggeo sbiadito e minuscolo nell’oscurità di un sooscala. Quel poco che ricordo di queste Olimpiadi emerge a malapena dal buio. Non distinguo avvenimenti e sensazioni, fatico a meere a fuoco le cose. Forse perché quella, per me, è stata la fase intermedia tra momenti difficili prima e difficilissimi dopo. A volte mi sembra di poter dire che la gran parte di quell’esperienza si sia cancellata. L’ho già deo: un buraino manovrato dal successo sportivo, ecco come mi descrivevo a me stessa. Ma non era tuo, perché è stato in quel momento che ho cominciato a temere che anche il successo sportivo sarebbe svanito presto. Sarei caduta nell’oblio? Tuo il mio lavoro sarebbe andato in fumo per un tendine? Ero in disaccordo con me stessa eppure piena di senso del dovere. Non mi piaceva fare quel dovevo fare, ma lo facevo, e anzi, guai a non farlo. Dopo la prova podio, ci rimpinzammo di cibo. Eludemmo i controlli, non so come ci riuscimmo, forse gli allenatori non erano in zona, e mangiammo con foga drammatica. Enrico si accorse che qualcosa non funzionava nelle nostre teste, nei nostri corpi, nei nostri stomaci. Ricordo che confabulò a lungo col fisioterapista e una maina ci annunciò: «Basta, da oggi non vi pesiamo più». Avevamo già fao una gara, ma lo stesso registrammo con sollievo la notizia. Tuavia ci risultò difficile estirpare le vecchie abitudini: alcune di noi, me compresa, continuarono ugualmente a pesarsi. L’allenatrice di Teresa Macrì non era a conoscenza delle disposizioni oppure le ignorò, ma un giorno venne a sindacare durante le nostre operazioni ed Enrico si abbandonò a una clamorosa sfuriata, imponendole di lasciarci tranquille. L’aveva capito perfeamente: stavano esagerando, e nulla di quel che facevano stava portando effei benefici. p Deo ciò, il controllo restava comunque streo: appena uscivamo dalla stanza ci ritrovavamo qualcuno alle calcagna e muoversi liberamente era complicato, se non impossibile. Fotografia della situazione: chi non aveva gare, si strafogava. Io avevo gare. Mangiavo sempre di più e vomitavo. Non mi era mai successo. Adesso mi succedeva. Mandavo giù, poi andavo in bagno e mi provocavo i conati. Il problema era che non volevo andare fuori peso ed ero devastata da un bruciante stato di angoscia: non ero in forma e lo sapevo; in più, non potevo mangiare troppo perché, non appena meevo qualcosa nello stomaco, ecco che assimilavo tuo, anche l’aria, innescando la letale conseguenza di andar di nuovo fuori peso. Insomma, né io né le altre riuscivamo più a gestirci. Eravamo isteriche, impaurite, preoccupate. Lia era l’unica che mangiava con regolarità perché seguiva la dieta a zona, dunque se la vedeva solo con le sue tabelle e non era controllata a vista. Carloa Giovannini aveva studiato uno stratagemma e andava sempre da Salva per farsi bendare strea, diceva che così sarebbe dimagrita. Di noe si vestiva col pile e il K-way per sudare, non so come diavolo facesse a dormire. E comunque entrò in finale nel volteggio. Io avevo fao la qualifica con la squadra, la finale nell’all-around, e non mi ero qualificata agli arezzi. Avevo sofferto sempre, e dico sempre, dolori fissi al tendine. Il corpo libero mi aveva fao davvero penare, fu un’impresa terribile seppure l’avessi tecnicamente semplificato. Ero imboita di farmaci. Carloa era quella che aveva vissuto l’impegno più prolungato dato che era entrata in finale, e fu buffo vederla perché dal body teso allo spasimo si notava che, rispeo ai primi giorni, era ingrassata. Facendo di necessità virtù, e man mano che ci avvicinavamo alla fine dell’impegno olimpico, rispeo ai travagli dei primi giorni avevamo trovato la maniera di non drammatizzare troppo, riuscendo a vederne il lato comico: era visibilmente goffa. E così, un occhio che ride e un occhio che piange, finirono anche le Olimpiadi. Finirono, ma non si tornò a casa. Destinazione: Broad Town, Changsha. Obblighi, diciamo, di caraere diplomatico-economici. La dia che forniva e fornisce i climatizzatori al PalAlgeco ha una sede in Cina, e in quell’occasione avevamo garantito loro la disponibilità a prendere l’aereo e offrire qualche giorno di fotografie, pubbliche relazioni e piccole dimostrazioni atletiche. Ricordo che ci scaarono moltissime fotografie coi climatizzatori. Un giorno, nel teatro dell’azienda, facemmo anche il karaoke con il capo della Broad, all’epoca il secondo contribuente cinese. Ci mostrarono tuo e restammo a bocca aperta: all’interno della sterminata area occupata dalla dia c’erano un’immensa sala bowling, una piscina e una riproduzione della reggia di Versailles in cui tenevano i corsi per i dipendenti. C’erano un hotel, numerosi campi da pallavolo, svariati appartamenti dei più disparati stili architeonici. Noi ragazze fummo ospitate in quelli di stile giapponese. Enrico e gli allenatori in quelli di stile moresco. Tuo bellissimo e stupefacente, ma io speravo di tornare in Italia il prima possibile. La tensione peggiore stava svanendo, però non mi sentivo come avrei voluto. Ricordo una sera. Dovevamo effeuare una piccola esibizione ed eravamo tue in sovrappeso, terrorizzate all’idea di non entrare nei body. Per sdrammatizzare, sparai: «Facciamo le esibizioni in tuta?». Ovviamente Enrico non ce lo permise.

Alla fin fine in Cina restammo poco più di un mese. Mi sentivo lontana da casa e da me stessa nella medesima misura. Fluuavo in una dimensione indefinibile, e il tendine mi faceva vedere le stelle. Certo, durante la seimana-climatizzatori ero stata meglio, ma solo perché non avevo mai saltato sul serio e sforzato al massimo. Però il male c’era. Il male non passava. p Il male era la mia ombra. Me lo portavo dietro e mi ci stavo perniciosamente abituando. C’ero io. C’era lui.

Tornai a Brescia, non so nemmeno io quanto caos avessi in testa, e immediatamente partii per Cuba. Enrico non era d’accordo e voleva che mi occupassi prima del piede, ma io non avevo la disposizione di spirito di infilarmi nella novena visite-referto-terapie. Al contrario, avevo un solo bisogno: staccare da tuo. Dunque è a seembre 2008 che faccio la prima vacanza propriamente dea (cioè di due seimane) della mia vita. Ci andai con mio padre, mia madre non venne. Io volevo partire con entrambi, ma al momento di decidere mi dissero che dovevo scegliere, perché con tui e due era impossibile. Le cose, tra di loro, non funzionavano più? Anche la vacanza fu piuosto strana. All’andata il nostro volo era stato posticipato dalla sera alla maina successiva a causa di un uragano. Avrei dovuto interpretarlo come un campanello d’allarme? Prima seimana: Guardalavaca, luogo edenico, aria profumata, mare da favola. Ma come spesso capita in posti del genere, se mi fosse venuta voglia di uscire mi sarei ritrovata nel deserto, desiderosa solo di far ritorno nella caedrale turistica. Io, lì, con mio padre, cosa diavolo ci facevo? Seconda seimana: secondo uragano. Passammo due giorni interi chiusi in una stanza mentre di fuori si scatenava il finimondo. Lo dico non tanto perché l’avessi sentito – non fu un finimondo particolarmente rumoroso – quanto per lo speacolo che mi si è presentato quando siamo tornati all’aria aperta: tuo era soosopra. E con tuo, intendo tuo. Non si poteva nemmeno fare il bagno in mare perché ancora in subbuglio, ed era come se avesse avuto un macro aacco epileico e avesse scosso ogni cosa: la mucillaggine, la sporcizia, tronchi di albero e altro genere di sedimenti galleggiavano ovunque. g g gg q Poi siamo andati a L’Avana. Mi sembrò bella e anche deprimente. Non trovammo una spiaggia, e io ci tenevo, dato che avevamo perso tempo a causa delle bizze del meteo. E devo confessare una cosa: odio fare la turista. Non amo meermi in coda per un museo o per visitare un monumento. Mio padre non se ne curò affao, e così mi trascinò avanti e indietro, in lungo e in largo in stato di iperesaltazione per questi Caraibi disastrati, rivoluzionari, urbani e privi di spiaggia, senza preoccuparsi di concedermi un momento di riposo.

Io non mi ero accorta. Ero sempre in palestra, avevo continui impegni e per giunta non stavo araversando il momento più felice della mia vita. Qualcuno, pensavo, mi spiega cosa sta accadendo? O non c’era nulla da spiegare? Era già accaduto tuo ed era tardi per rimeere le cose a posto? Si sa come degenerano queste situazioni: un po’ alla volta, in silenzio. La crisi lavora giorno dopo giorno, continuamente, ma a me pare che a casa mia sia successo tuo in un mese. Così, fu solo al momento di partire per Cuba che capii che anche il meteo domestico preannunciava uragani. Poi, un giorno, mio papà prese su quaro cose e se ne andò di casa. La situazione non fu priva di contraccolpi e creò anche qualche problema sul lavoro, perché a quell’epoca, a Pievedizio, i miei avevano un bar. Era stato il loro desiderio da sempre, fin da quando io avevo cominciato con la ginnastica. L’avevano aperto nel 2007, quando da Genivolta ci eravamo trasferiti a Capriano del Colle. Ci lavoravano entrambi, lei di giorno e lui di sera. Insomma: a seembre vado a Cuba, a oobre si dividono, a novembre (mese del mio compleanno) la separazione è un irrevocabile dato di fao. A quel tempo non volevo si separassero, ma adesso mi va bene così. Spesso penso: bello se stessero ancora insieme, però in pace come adesso. Discorsi che non stanno in piedi, lo so. Ma a dirla tua in quel momento non stava in piedi niente, nemmeno la nostra convivenza. Nell’ultimo periodo mio padre era sempre nervosissimo e riversava la sua inquietudine su di noi. A volte sembrava di stare in caserma, e che lui dovesse tenere tui a bacchea. Ma adesso lo capisco, e mi rendo conto che va così: le situazioni difficili tirano fuori il peggio da chiunque – ora, infai, sembra tu’altra persona. Coi miei fratelli non se n’è parlato tanto, ma chi l’ha vissuto peggio è stato Ivan, credo. Peraltro mio padre, per lo meno all’inizio, non ci diede una grande mano. Anzi, faceva discorsi senza capo né coda e dichiarava in continuazione che voleva andarsene dall’Italia. E noi lì, ad ascoltare vaneggiamenti senza punti fermi geografici, che non capivamo nemmeno dove volesse trasferirsi e perché. Poi si trasferì a Brescia. Io sono rimasta a Capriano del Colle con mia mamma e per un lungo periodo non ho più visto né Ivan né Michele, che avevano seguito papà; da principio facevano un po’ avanti e indietro, venivano a trovarci abbastanza regolarmente, ma non sono più stati a lungo con me almeno finché non bocciarono mio fratello Michele per la seconda volta all’Istituto tecnico, mio padre si arrabbiò e lo rispedì a Capriano da noi. E fu non prima del 2011. Quanto a me, la solita routine: prendevo il pullman tui i giorni, maina scuola e pomeriggio ginnastica. Certe volte uscivo da scuola un poco prima, solo per fare un mini allenamento. La Federazione mi aveva vietato di andare in palestra, volevano seguirmi coi loro doori. E io eseguivo: all’una, tui i giorni, prendevo il treno e andavo a Milano per le terapie. Mi facevano la Tecar, mi portavano in piscina. Cose così. A casa non tornavo prima delle see di sera. Poi, un giorno, visita di controllo a Milano e pessima sorpresa: il mio tendine stava peggio di prima. La terapia? Il nuoto? Nulla era servito a nulla. Enrico, che quel giorno era venuto insieme a me, aveva già parlato col door Zaoni, che propose due soluzioni: o le onde d’urto, o p p l’intervento. E aveva aggiunto che, a esser ragionevoli, l’intervento era da considerare un’extrema ratio, e in quel momento non sembrava l’opzione migliore. Tra la riabilitazione e tuo ciò che avrebbe comportato (e che non si poteva prevedere) cosa sarebbe potuto accadere? In quali tempi? Con quali esiti? I medici della Federazione storsero la bocca e si dimostrarono sceici all’idea di soopormi alle onde d’urto. Nel viaggio di ritorno, Enrico disse e non disse. Non parlammo granché, ma era pensieroso. Guardava fuori dal finestrino e io vedevo che se ne andava con la testa. Capii: per loro non c’era molto da fare. Per la Federazione, in base ai dati tecnici di cui disponevano, fae tue le visite e valutati con scrupolo i referti, la sentenza era una: Vanessa Ferrari era finita. XII

Dunque cominciai le onde d’urto col door Zaoni. Due volte alla seimana, dolorosissime. Serravo le mandibole e contavo le scosse, a una a una. Poi, pian piano, rientrai in palestra. Situazione in miglioramento, barlume di speranza. Allora tornai a saltare. Ma non appena saltai, tornarono anche i problemi. Situazione in peggioramento. Barlume dissolto.

Strinsi i denti e strisciai fino a marzo, Europei di Milano 2009. Vinsi un argento al corpo libero, e fu l’unica medaglia italiana, tra l’altro considerando sia la rappresentativa maschile sia quella femminile. Avevo tre gare: qualifiche, finale all-around, finale corpo libero. La maina della finale al corpo libero faticavo a camminare. Per fortuna ero in camera con Lia Parolari e devo dire che lei è stato uno dei pochi spiragli di luce di questo periodo. In sua compagnia stavo bene, sono sempre stata bene, era in gamba e sapeva divertirsi. Ricordo che una noe non riuscivamo a dormire, era almeno l’una, e ci siamo messe a fare il karaoke in stanza, stonatissime. Ci riprendevamo mentre cantavamo orrendamente e poi ci riguardavamo, schiantandoci per le risate. Lei mi tranquillizzava, però io non mi sentivo come avrei voluto sentirmi. Tirando le somme, direi che, date le mie condizioni di partenza, questo risultato mi ridiede un bel po’ di coraggio. Avevo lavorato pochissimo ed ero indietro con la preparazione, ma dimostrai a me stessa che, pur in precarissimo asseo, ero ancora in grado di guadagnarmi un secondo posto. Faticavo a dimagrire, ogni tanto vomitavo, non ero regolare con l’alimentazione, ma forse – forse? – cominciava ad andare un po’ meglio. A volte la maina mi alzavo e non riuscivo a poggiare il piede in terra, pena il castigo di una tempesta di fie lunghissime. Prima del corpo libero ebbi paura di non riuscire a saltare, ricordo la sensazione di autentico panico già in sala warm up.

Bancheo della Federazione: per la prima volta uscimmo a ballare coi maschi. Andrea si era infiltrato, per questo lo conobbi. Il bancheo era destinato ovviamente agli atleti che avevano gareggiato, ma lui era ancora giovane e quello sarebbe stato l’anno in cui avrebbe esordito. In ogni caso, si intrufolò: ed eccolo. Prima degli Europei, io ero in collegiale, mi aveva mandato un messaggio su Facebook e mi aveva scrio. «Ciao, come stai?» «Bene, grazie.» Conversazione finita.

La prima volta che lo vidi, come da copione, non mi piacque subito. Ricordo che mi chiedeva sempre: «E Ilaria Colombo?». Io non capivo cosa volesse da questa tipa e soprauo perché sentisse il bisogno impellente e continuo di informarsene con me. Ilaria è un’ex ginnasta di Lissone che adesso fa la commentatrice; è fidanzata con Paolo Oavi, anch’egli atleta di quegli Europei, e abitano nelle Marche. Insomma, andò che quella sera, dopo il bancheo, volevamo andare all’Hollywood ma c’era troppa gente, un turbinio di persone mai visto, code bibliche sul marciapiede, perciò alla fine ripiegammo su una discoteca minore. Questo Andrea Cingolani che mi scriveva su Facebook e mi tartassava chiedendomi di Ilaria Colombo, venne da me e mi disse: «Venite anche voi?». Io ho pensato: sei tu che ti sei infilato, dunque sei tu che vieni con noi. Ricordo che parlavamo e non capivo nemmeno quel che diceva, l’accento marchigiano si frapponeva tra me e la comprensione, tra la sua bocca e le mie orecchie. Ogni volta che parlava, gli chiedevo di ripetere tuo due volte. Fu un dialogo tra sordi. Poi abbiamo riso e ci siamo scambiati i numeri, l’antipatia è svanita e ha cominciato a piacermi. Di lì a poche seimane ci fu una gara di serie A, terminata la quale io, Lia e Paola volevamo organizzare una festa alla discoteca De Ville. Una cosa così, in piccolo, tra noi e qualche nostra amica. Al che, Lorenzo Ticchi, un componente della Nazionale maschile, mi scrisse: «Cosa fai questo weekend?». «Abbiamo organizzato una festa.» «Posso venire?» Autoinvito: ma gli dissi che poteva. E lui: «Posso portare Principi?». «Portalo» risposi, ma a me già piaceva Andrea. Allora lo invitai, giustificandomi col fao che dopotuo era marchigiano anche Principi. Sono venuti su insieme e abbiamo fao serata. È stato da quel momento che con Andrea abbiamo cominciato a sentirci con più regolarità. Lui ha deciso subito che noi eravamo insieme, io ci ho messo più tempo. Per come sono andate le cose, non abbiamo vissuto il classico periodo in cui si esce, lui ti viene a prendere, si va a bere qualcosa, ci si bacia, ci vediamo domani, ti chiamo. Anche perché lui era di Macerata. Così veniva a trovarmi e si fermava per lunghi periodi a Capriano del Colle, dove abitavo con mia mamma. Lei non diceva nulla. Io non lo facevo dormire con me, per fortuna avevo diversi posti leo.

Nel fraempo gli impegni scolastici premevano: tra problemi, visite, allenamenti, restai assente da scuola per molto tempo. Tra l’altro era l’ultimo anno e già non ero avanti col programma, ci mancava solo di presentarsi poco in classe. Ma andò proprio così, in classe mi presentai poco. Dal 29 aprile al 31 maggio avevo la serie A: serrai i denti, non feci tui gli arezzi e presi ao del mio dissesto, anche scolastico. A un certo punto, sospeando che sarebbe stato inutile, tua fatica sprecata, non volli nemmeno farmi ammeere agli esami. Poi mia mamma mi consigliò: «Tu provaci. Poi vediamo». Un po’ lo stesso spirito con cui, da infortunata, ero andata alle Olimpiadi – «io intanto vado, poi non si sa mai». Il mantra dell’atleta non in forma e dello studente impreparato. In una parola sola? La maturità fu un incubo. Fosse stato un esame di liceo artistico, probabilmente l’avrei passato, ma non biascicai nemmeno il minimo indispensabile per raccaare una promozione per il roo della cuffia. Non mi sono esibita in vere e proprie scene mute, questo no. Cercavo di dire quel che sapevo e di non affondare ingloriosamente, ma conoscevo la verità: ero un Titanic, e l’iceberg torreggiava lungo la mia traieoria. In più, detestavo i professori e il loro aeggiamento arrogante e indifferente, li guardavo e non perdonavo loro di essere a conoscenza dei miei sacrifici e dei problemi che avevo dovuto superare e di non averne minimamente tenuto conto. Alla fine ero la meno preparata di tui. Peraltro, per frequentare quella scuola, era necessario portare la firma di una palestra che garantisse si praticasse sport a un certo livello, insomma, che si conducesse una seria aività agonistica. In tanti si erano trovati una società che faceva loro una firmea di comodo, il che li risparmiava dagli impegni scolastici più gravosi. Però poi, a casa, non essendo gravosi nemmeno gli impegni sportivi, in tua comodità avevano modo di studiare. Io andavo a scuola, passavo ore in palestra e perdevo tempo tra cure e terapie, per cui ero davvero impreparata. Sarebbe potuta andare diversamente? Alla maggior parte delle domande rispondevo: «Non lo so». Non vedevo l’ora finisse, non ero quasi nemmeno agitata, non me ne fregava nulla. «Sai dirci qualcosa della politica estera di Napoleone?» «No.» «I suoi rapporti, in generale, con la Russia?» «Ci provo.» Quando sapevo, rispondevo. Sennò, niente. Non avevo nemmeno studiato. Avevo studiato solo un po’ il primo anno. E comunque, poco lo stesso. Ci eravamo ritrovati con un professore di matematica che la matematica non la sapeva, quindi l’avevano sostituito. La classe, poi, era già coesa, mentre io, dopo anni da sola, ero stata scaraventata lì dentro allo sbaraglio e non sapevo che pesci pigliare, non mi sentivo affao inserita. Mi trovavo male ed eravamo solo in quaro ragazze: le due in primo banco erano le vip della classe e se la tiravano; l’altra era una specie di suora di clausura che con la mano copriva quel che scriveva nei compiti in classe, se solo sospeava che tu ti stessi tirando il collo per copiare. Non pensavo che alle superiori si potessero fare sceneggiate del genere, e invece sì, eccome – ovviamente questa tizia era detestata da tui. Per il resto, il livello della classe era così deprimente che un giorno, per farle uno scherzo, le avevano rubato gli assorbenti e li avevano appiccicati sulla lavagna; uno schifoso mosaico che, chissà come, avrebbe dovuto farci ridere. Da quel posto orrendo mi sono sentita liberata davvero solo dopo la bocciatura. Tra lo scrio e l’orale – il che testimonia quanto non fossi affao in clima agonistico – me n’ero andata a Pescara per assistere ai Giochi del Mediterraneo.

Ho sempre pensato, e lo ribadisco anche ora che non siamo più insieme, che Andrea abbia delle potenzialità. Potrebbe essere bravo, p ma bisognerà vedere se avrà le motivazioni per allenarsi e sacrificarsi. La ginnastica è più crudele del pianoforte: se non ci mei l’esercizio, il sacrificio, la dedizione esclusiva, non vai da nessuna parte. È uno sport bellissimo ma severissimo. Inoltre devi avere un allenatore che ti convince a farla, ’sta necessaria fatica, sapendoti anche sostenere, e che sappia motivarti quando serve e non stressarti troppo quando non serve. Io, per esempio, ce l’ho avuto. In caso contrario sarei stata in balia del mio caraere. E io sono un’ansiosa, un’agitata. Ho sempre mille pensieri, mille paure. La gente non lo immagina, mi vede come una macchina da gara e non suppone nient’altro di diverso. E inoltre ho vinto tanto, e questo non aiuta affinché le persone sappiano davvero chi sei. Però io sono una che si emoziona, trema, non sempre riesce a domare pensieri che si imbizzarriscono e fanno di lei quello che vogliono. La fortuna è che alla fine, da non so dove (interruori? meccanismi? istinto?) tiro fuori una gran capacità di azzerare tuo, e al momento buono so dare il massimo fino in fondo. In generale – ormai lo posso dire, pur con tua l’asprezza delle situazioni che ho vissuto – preferisco avere un problema fisico che un problema psicologico. Il problema fisico lo so gestire e il corpo, poi, va. Se la testa non è a posto, anche la testa va: ma quello è un guaio. Prima di una gara, per esempio, dormo sempre. Serena no. Ma dormo. Se è un periodo un po’ più arduo e fatico a prendere sonno, anziché stare a fissare il soffio o a scalare le ripidissime ore di una noe in bianco, prendo la melatonina. Quando intensifico gli allenamenti e ho i test, capita di non riuscire a dormire serenamente, e se sono molto stanca dormo male, mi bruciano gli occhi e mi rigiro come una cotolea nel leo. Poi ho le mie fissazioni. Ne ho una collezione, una parata infinita. A volte, per esempio nel corpo libero, nel preparare un passo normalissimo mi convinco irremovibilmente che girare a destra o a sinistra cambi tuo, al punto da pregiudicare l’esito dell’esercizio. La coreografa Veronica Calini, che mi segue da prima di Anversa, quando prepara gli esercizi con me, li chiama «il parto». Negli anni scorsi ho lavorato con Michela Francia, insieme a lei ho costruito l’esercizio che mi ha fao vincere il Mondiale. Mi è stata accanto fino a Pechino, ora sta a Padova, il marito è un preparatore atletico di rugby. Ma una cosa la posso affermare con certezza, e per me vale come regola assoluta: non è mai successo che io oenessi un oimo risultato atletico e non fossi a posto anche con la testa. XIII

Invece, nuda verità, col piede non ero a posto per niente. Così, nel luglio 2009, a Brescia, in Poliambulanza e sempre col door Zaoni, venne fuori che mi dovevo operare. Risultò evidente che le onde non erano servite a nulla, perciò dovei rassegnarmi all’opzione che il professore aveva lasciato come ultima, date le incognite che avrebbe presentato. Acceai la sentenza. Nessuna alternativa. Andai soo i ferri. Anestesia totale: avevo meno paura rispeo alla volta precedente, anche perché in quei giorni, più che altro, rimuginavo circa il mio futuro nella ginnastica. Ne avrei avuto uno? E di che livello? Avrei sofferto se avessi constatato che ero all’ultimo capitolo della mia storia? Mi sarei trascinata sensazioni di incompiutezza, io che non ho mai tollerato di lasciare un lavoro, qualsiasi lavoro, a metà? Cominciai a giocare d’anticipo, dando per scontato che l’operazione avrebbe segnato un abbassamento di livello (irreversibile?) delle mie risorse fisiche. Sentivo che c’era quel forte, inevitabile rischio. Certo, non mi sarei del tuo arresa, avrei potuto lo stesso andare avanti, allenarmi magari con qualche cautela e ridimensionando le aspeative. Non sarei morta, no? Non volevo farmi illusioni, ma non mi davo nemmeno troppo per sconfia. Tuavia dovevo parlar chiaro a me stessa: il rischio era di non essere quella di prima. Mai più.

Intervento fao, me ne restai a leo immobile per qualche giorno. Circolano alcune foto in Rete di quei giorni: ho un sorriso triste, sono pallida e spersa nel groviglio delle coperte, con una gamba alzata come un ponte levatoio. Dopo seantadue ore, giusto il tempo di essere dimessa, ricominciai subito con la palestra. Mi dissi: magari non sarò più quella di prima, ok, però animo, diamo un po’ di filo da torcere a questo probabile declino. Il risveglio non era stato doloroso, poi però gli antidolorifici avevano cessato il loro effeo. Mi chiedevo: sarà così anche dopo? E a proposito del dopo... Io – rifleevo – posso anche avere tua la volontà e la fiducia di riprendermi, ma se alla fine dovessi constatare che è stata un’illusione, una visione delle cose solo mia e priva di sensato riscontro, un miraggio buono solo a mitigare la sofferenza e poi capace di anestetizzarmi e di edulcorare la realtà? Il dubbio era: stavo sognando nel deserto? Il destino, perfido imperatore, si stava prendendo gioco di me, osservandomi dall’alto mentre ero alle prese con le mie favole? E se, al neo di tanto autoinganno, la realtà fosse stata, spietatamente, davvero un’altra? Se la realtà fosse stata: arrivederci e grazie, si smonta, speacolo finito, è stato bello finché è durato? Osservavo la cicatrice lungo il tendine, il suo argine labbruto e rossastro, e non sapevo cosa pensare. Se non altro, però, sapevo cosa fare: punture nella pancia. Mi arrangiavo da sola, mia mamma era sempre al lavoro. Mi bucavo appena sopra l’ombelico – pare che servissero per evitare le trombosi. Su quello stesso ombelico, una seimana dopo, ci ho fao un piercing. Il gesso lo tenni per un mese e mezzo, poi ricominciai con la palestra. Mi allenavo un’orea, non di più, ma non volevo perdere la consuetudine con gli esercizi. A Ferragosto mi presi tre giorni e andai da Andrea a Macerata. Dal punto di vista dell’umore non ero prostrata, dopotuo mi ero fidanzata da poco e per fortuna non tuo mi stava andando male, ma fisicamente ero sospesa, in aesa di capire meglio. Era come se il p p g mio corpo fosse muto dopo uno choc. Aspeavo il momento in cui avrebbe parlato di nuovo per capire cosa mi avrebbe aspeato: avrebbe balbeato? Avrebbe cantato l’Aida? Sarei stata pronta davvero a che la mia carriera potesse essere chiusa? Più il tempo passava, meno mi sembrava sensato nutrire la speranza di tornare ad alti livelli. Mi dicevo: il meglio è già stato. Cercavo di convincermi: su, Vanessa, faene una ragione.

«Io ho finito, a domani.» Vado verso gli spogliatoi e guardo Paola Galante. Sale sulla scalea delle parallele e si sporge, in piedi, su quella specie di impalcatura – sembra questo, a chiunque la veda per la prima volta. Spruzza acqua nebulizzata sugli staggi, irraggiando tu’intorno mille minuscoli lapilli e un arcobaleno farinoso, che svanisce così com’è apparso. Poi si piega all’indietro e li guarda come un piore la sua opera d’arte, le manca solo la tavolozza. E a me? Manca o non manca la tavolozza? Mi mancano le bendine? Mi manca il rituale? Istruzioni per l’uso: spalma un po’ di miele sullo staggio, imbiancalo con la magnesia, distribuiscilo per bene sulle mani. Poi penso: i Mondiali sono a oobre. Penso: magari sono in grado di fare almeno due arezzi. Ne avevo parlato anche con Enrico, ma non avevo capito se lui credesse o meno alla possibilità; se ci credesse sul serio, intendo. Alla fine, purtroppo, non sono partita. Non ero in grado di fare esercizi sul duro, e nemmeno una parallela o una trave decente, come invece avevo sperato per un po’, erano alla mia portata. Nei mesi estivi avevo combinato poco o nulla: stretching, scioltezza, qualche addominale, un po’ di verticali. Il piede doveva stare sempre alzato.

A febbraio un nuovo allarme scombussolò il mio tentativo di poggiare i pensieri e i nervi su una quieta acceazione della realtà. p gg p q Decisi di partecipare ad alcune gare di serie A che avrebbero dovuto portarmi all’Europeo. Erano pur sempre gare, certo, ma non fondamentali. Le feci soprauo per testarmi, per entrare in forma. Per vedere cosa sarebbe successo. E successe che... non ebbi sensazioni incoraggianti. Non stavo proprio male, ma facevo fatica. Fisicamente mi sentivo più o meno a posto, se non altro sulla buona strada, però avevo ancora qualche disordine alimentare duro ad abbandonarmi. In generale non mi sentivo allineata a me stessa. Quando provavo a spingere, mi mancava la forza. Allora cercavo di non lasciarmi sopraffare dallo scoraggiamento, mi imponevo la calma e mi dicevo: sei stata ferma tre mesi, cosa ti aspeavi? Sentivo a ogni passo che mancavo di brillantezza, e non mi piaceva. Anzi, era proprio questo a spaventarmi: eseguivo esercizi facili, molto più facili dei soliti, eppure arrancavo. Non avrei dovuto soffrire così. Era solo un ricordo, quella gioia – una benedizione di cui, in quel momento me ne rendevo conto, non avevo goduto abbastanza – che mi prendeva quando il salto andava da solo? Chiudevo gli occhi e rivivevo quel miraggio distante: spingi, ti stacchi da terra e va tuo bene. Sai dove sei. Sai come aerrerai. Non devi nemmeno fare chissà quale sforzo: voli. Io invece mi sentivo inchiodata, zavorrata, sconfia dalla gravità. Zero slanci. Con questo mesto spirito mi presentai agli Europei di Birmingham. Andò come andò: ci classificammo quarte a squadre, e io quarta nel corpo libero. Non credo mi abbiamo riconosciuto quel che mi speava. Il corpo libero era più semplice, non posso dire il contrario, ma se fossi arrivata terza non avrei rubato nulla. Poi rientrammo a Brescia ed Enrico disse che doveva parlarmi, era urgente. Mi fece un discorso che suonò più o meno così: «Vanessa, so che hai ancora problemi alimentari. Me ne sono accorto, me l’hai fao capire alle Olimpiadi. Ti guardo, ti conosco. Mi pare che la questione non sia migliorata, anzi. Pertanto direi una cosa: o la risolviamo, o l’unica strada è che tu smea di fare ginnastica». Doccia fredda. Sapevo tuo, ero preparata a un calo di forma significativo e magari anche persistente. Ma quelle parole furono una secchiata gelida su ogni mia intima prospeiva. Volli essere lucida. Dunque risposi: «Lo so. Non vedo molte alternative nemmeno io». «Non voglio farti del male, né allenarti se non sei in condizioni di buona salute.» «Cosa possiamo fare?» Mi planò in mano un foglio. «Mi sono informato. A Verona c’è un centro. Si chiama AIDAP». Buai un’occhiata: Associazione italiana disturbi dell’alimentazione e del peso. In un istante feci il punto della situazione. Io, da sola, ero stata capace di risolvere il mio problema? Ero in balia di ogni genere di disordine corporeo, subivo continue oscillazioni ponderali e i problemi erano ormai ingestibili. Un chilo, un chilo e mezzo ballerino, a volte due. Ne pesavo 43, e facevo su e giù, su e giù, incontrollabilmente. Perdevo peso solo se vomitavo, il che non mi piaceva, e per di più non era salutare, al contrario, era il peggio che potesse esserci, infai soffrivo di malesseri, debilitazione, carenza di liquidi. A casa non ne avevo parlato, le cose non stavano andando benissimo e i miei genitori si stavano separando. Mia mamma non me l’ha mai confessato chiaramente, ma un giorno – non so se lei o mia nonna Nikolina, che soggiornava da noi per un periodo di vacanza – mi beccò a vomitare. Da lì, l’idea di collaborare con Enrico per farmi arrivare a questa conclusione. Dopo le Olimpiadi ero ingrassata molto e la questione cominciava ad angosciarmi sul serio. Non mi sentivo stabile, stavo meendo a posto il tendine ma stavo franando su una questione che, se non fossi intervenuta – tendine o meno, ginnastica o meno, tornei o meno – mi avrebbe dato problemi per sempre. p p p Aveva senso trascinarsi quel fantasma, negare la realtà, allestire con le mie mani un altro Ba (il più terribile, dal quale non sarei fuggita pedalando più forte) e viverne succube per chissà quanto tempo? Così guardai Enrico. Dissi: «Voglio andare a Verona».

Venne con me. Mi accompagnò le prime due volte. In sala d’aspeo, per ingannare il tempo, mi misi a leggere i dépliant sparsi in giro:

Sportello informativo, scopi: dare sostegno e consigli ai familiari; dare informazioni sulle cure e sui centri più vicini; materiale informativo per chi è affeo da disturbi dell’alimentazione.

Ero «affea». Avevo «disturbi». Lessico non incoraggiante. Ma cercavo di ficcarmelo bene in testa: poche storie, la realtà è la realtà, sei affea e hai disturbi, inutile star qui a far drio e rovescio spargendo zucchero a velo sulle evidenze. Il door Riccardo Dalle Grave ci accolse con garbo e facemmo una chiacchierata introduiva, utile a inquadrare il problema. Il problema era esteso e anche atletico, perché in quel periodo, in palestra, per me era tuo in salita. Non ero più abituata a un regime normale, e appena mangiavo qualcosa, fosse anche un biscoo – ma non era mai uno e basta –, ecco che me lo sentivo subito sullo stomaco nemmeno avessi ingoiato un sasso. Mi fece piacere, comunque, che il mio disagio fosse stato preso sul serio, la questione non venne soovalutata da nessuno e le conseguenze virtuose si fecero notare presto. Da quella volta, per esempio, a Brescia non si pesano più le ragazzine. Da quando è tecnico della Nazionale, come ho già deo, Enrico non vuole che lo si faccia nemmeno lì – se uno lo fa col suo club, affari suoi, ma davanti a lui, no. Il problema, in ogni caso, esiste, ed è più delicato di quel che si creda. Perché il peso, in uno sport come la ginnastica (e forse in ogni sport in generale) va tenuto soo streo controllo. È meglio per tui: per le atlete stesse, per la qualità della prestazione, per evitare carichi eccessivi alle articolazioni e superlavoro ai muscoli. Insomma, il vantaggio è unanime. Quando gli allenatori insistevano perché non esagerassimo col cibo, non lo facevano certo per mera crudeltà, ma al contrario, per il bene della nostra vita sportiva. Tuavia, affrontare la questione in modo troppo direo o assillante può portare a dei guai, e i miei guai sono derivati da questo. Non tui, non sempre. Anzi, come spesso accade, è stato ogni addendo a sommarsi a un altro e a determinare il risultato. Parte della colpa va imputata certo all’angoscia del peso, ma il mio, a quel punto, era anche un disagio generale, i cui perversi ingredienti erano molteplici: forse non ero pronta per quella popolarità, il successo mi aveva tormentato, le gare erano troppe, io ero giovane e mi ero anche infortunata gravemente. Comunque, quel che conta è che adesso tuo si sia risolto definitivamente e per il meglio. E che il mio caso abbia fao rifleere. Ma torniamo a noi: il doore mi fece delle domande e mi affidò a una dietologa e a uno psicologo. Poi mi consegnarono una scheda. Compito in classe? Dovevo scrivere tuo quel che mangiavo, a che ora, e se lo vomitavo. Con lo psicologo si cercava di fare chiarezza nella parte più intricata e carsica del problema, per cui le nostre conversazioni non riguardavano tanto il fao alimentare in sé, ma erano mirate a indagare i meandri della mia mente. Mi faceva compilare dei questionari, mi poneva domande per le quali non sempre avevo la risposta, e nel fraempo mi annoiavo. Poi tappa dalla dietologa, e io a dirla tua preferivo avere a che fare con lei. La tabella di marcia era questa: all’inizio andavo quasi tui i giorni, poi tre volte alla seimana, poi due per un bel po’; quindi una, e via via sempre meno. Il risultato è che nel giro di un anno e mezzo mi sbarazzai del problema. Non, però, delle sedute: anche se sembrava ormai tuo a posto, mi seguirono lo stesso per vedere se mi fossi davvero stabilizzata e g p non subissi l’imboscata di qualche ricaduta. Fu un lavoro condoo molto seriamente, e portato a termine con successo. In quel periodo mi allenavo solo di maina, poi mia mamma mi veniva a prendere e mi accompagnava a Verona. Compiti a casa: ogni tanto mi spedivano dei fogli da compilare. Dovevo rispondere alle domande, poi li rispedivo.

Tema: il mio corpo. Svolgimento: un anno e mezzo di pensieri tra dietologa, psicologo e me stessa. Ripensandoci ora, una delle cose che mi hanno maggiormente aiutato a liberarmi da ogni paranoia fu il non dovermi più pesare. Nel momento in cui Enrico mi disse: «Ora sei in mano ai doori, fidati di loro. Ti diranno cosa mangiare e come» ebbi la sensazione di stare già meglio. Mi sembrava che la questione del cibo e del peso fossero state così sorae a una dimensione di auto-ossessione, dimensione responsabile di avermi portato fino a quel punto. Deo questo, anche a distanza di anni, io mi peso ancora. Lo faccio due volte durante la giornata, di maina e di sera, ma non è più una malaia. Lo faccio per tenermi d’occhio, non per altro. Mi sono resa conto in prima persona di come calare mangiando cose sane – calare mangiando – sia molto diverso dal ficcarsi un dito in gola. Non ho più angosce. Adesso mi faccio trovare serena e pronta per ogni impegno sportivo, non voglio meere a repentaglio né la mia carriera di atleta né la mia vita e solo armonizzando questi aspei ho avuto modo di maturare e uscire da una spirale che era insopportabile. Non oso immaginare se non fosse accaduto. È un bene che il nodo si sia sciolto, del resto uno sportivo ha a che fare col proprio corpo di continuo. Io sono il mio corpo; il mio corpo è il mio strumento di lavoro. Dicono che funzioni, parlare col proprio corpo. Io non l’ho mai fao, e non comincerò adesso. Non mi ci vedo a persuadere un metatarso o un legamento, anche perché alla fin fine si traa di qualcosa di più soile e «organizzato»: raggiungere un equilibrio. Perché lo so: quando la testa vuole, il corpo va di conseguenza. Quando sono decisa emotivamente, fisicamente ci arrivo sempre. Ma appunto, ho prima bisogno di essere a posto con la testa. Quando sono controllata con l’alimentazione, se mangio correamente e nulla si frappone tra me e la serenità con cui voglio fare le cose, oengo quasi sempre quello che voglio. Sento dentro una forza travolgente, autentica, mia. Bisogna comunque gestirla con cautela, infai prima delle gare ho sempre paura di farmi male. Sarebbe terribile, no? Ti impegni, sgobbi ogni giorno per raggiungere un obieivo, e a un certo punto... stop. So benissimo cosa si prova. È un dolore, una piccola perdita di senso. Però questo non mi esime dall’allenarmi con grinta. Così faccio quel che devo fare e cerco di trovare il giusto equilibrio anche lì, ossia il compromesso tra provare bene – bisogna rischiare in allenamento, non in gara – e comunque controllarmi. Spesso dopo un allenamento ho male dappertuo, ma non sto in perenne ascolto del mio corpo. Se lo facessi, innescherei un perverso loop. Ho dolori, ma non sto in ansia e non mi preservo ossessivamente. Sto più che altro aenta a non sollevare pesi quando manca poco a una gara, ma si traa delle normali precauzioni che prende ogni atleta. Durante l’anno, il ritornello è uno: cerca di non farti male. Poi la musica cambia e diventa: preparati bene, non puoi sbagliare.

Sulla nuca ho tatuati i cerchi olimpici. Quando smeerò, ci farò scrivere anche i nomi di quelle cui ho partecipato. Da quando ho due tatuaggi, alla faccia di chi dice che portano male, ho vinto di più. Non sono superstiziosa nel senso pieno della parola, però, come ogni sportivo, ho le mie – bizzarra definizione in arrivo – convinzioni irrazionali. Ne voglio raccontare una che sembrerà particolarmente assurda, ma è anche divertente. Alle Olimpiadi mi sono classificata quarta, poi, prima di fare l’Europeo di aprile, a Mosca, in una piccola gara a Jesolo, mi sono faa male. Be’, in quel periodo avevo cominciato ad andare in giro con un saccheo di sale. Ne geavo pugni alle mie spalle mentre camminavo. Invocavo le forze positive e chiedevo al Grande Spirito di cacciare quelle nefaste. Se qualcuno mi avesse visto avrebbe pensato a un tracollo psichico, me ne rendo conto. Ma voglio peggiorare la mia posizione e vuotare il sacco: lo spargevo anche fuori dalla porta. Da lì sono guarita col piede, ho fao i Giochi del Mediterraneo (andati bene), gli Europei a Mosca, quindi Mersin, vacanze, e poi Anversa. Secondo me, quel sale, qualche beneficio l’ha apportato. Lo dico un po’ seriamente e un po’ per gioco, ma se anche avesse avuto solo il ruolo di farmi sentire più tranquilla, ben venga. A parte gli scherzi: a una cosa io credo per davvero. Credo all’elericità positiva o negativa che ciascuno di noi emana. XIV

Un giorno mi contaa lo staff della casa discografica di Valerio Scanu per chiedermi se voglio partecipare al video di una sua canzone. Hanno pensato a me, dicono, perché il contenuto poteva essere affine alla mia vita. Credevano, insomma, che io potessi offrire l’immagine giusta alle parole di quel brano. Quindi ho deo di sì, soprauo perché l’idea mi divertiva. Sono venuti a fare le riprese nella mia palestra, ma io e lui non ci siamo mai incontrati. Mi hanno ripreso di maina, mentre facevo gli esercizi. Poi nel pomeriggio ho recitato la parte finale, quella in cui leggo l’SMS che Valerio mi invia, con testo «Ciao Vanessa».

Ritrovarsi. Questo potrebbe essere il titolo per il mio oobre 2010. Mondiali di Roerdam: avevo subito un’operazione e parecchi stop, qualche su e giù umorale e l’assalto di molti dubbi, ma le cose stavano andando verso un’acceabile stabilizzazione. Non ero ancora in forma per davvero e non bisognava avere frea, però mi sentivo sulla strada giusta. Mi dicevo: fino a pochi mesi fa ci avresti messo la firma, continua a lavorare e arriva dove puoi arrivare, con serenità. Arrivai dove potevo arrivare: finale di corpo libero. Feci un esercizio senza alcuna sbavatura, la gara andò bene e sentii che la direzione era quella giusta. Pian piano, anche in allenamento, stavo reintroducendo le componenti atletiche più difficili. Era come riprendere lentamente confidenza con me stessa, rincontrare quella che ero e sentirmi sempre più coincidere con quell’immagine. Fare la trave o un esercizio di volteggio divenne quasi una pratica zen. Fu come ritrovare la mia identità, ma con maggior consapevolezza di prima – stavo riprendendo coraggio? Non vedevo l’ora di riabbracciare la me stessa che avevo lasciato indietro da troppo tempo. A quei Mondiali mi piazzai sesta. Non ne fui granché soddisfaa, dopotuo non avevo fao alcun errore – davvero, leeralmente, nessuno – mentre molte altre atlete sì. Certo, avevano portato esercizi più complessi del mio, e infai eccolo qui il punto dolente, il margine supremamente indefinibile, la palude dove mee radici l’ambiguo dilemma dell’arbitrarietà: cosa vale di più, al neo di tuo? Un esercizio semplice eseguito alla perfezione o un esercizio difficile eseguito non perfeamente? Non dico meritassi la medaglia, men che meno vorrei che mi si aribuissero meriti che non mi speano, ma continuo a pensare che non si possa finire sesta con un esercizio senza la benché minima sbavatura. È vero, di partenza avevo anche due o tre decimi in meno rispeo alle altre, ma le altre avevano sbagliato e in diverse diagonali erano addiriura uscite. Un quarto posto sarebbe stato equo, nessuno avrebbe potuto recriminare. Ma alla fine lasciai correre. Mi sentivo abbastanza bene e per la prima volta intravedevo nuove possibilità. Ero sempre in stanza con Lia, ma il karaoke con lo smartphone era, adesso, solo un ricordo.

E arrivò anche la televisione. Le prime riprese per il reality «Ginnaste-vite parallele» le fecero proprio a Berlino. Contaarono anche me, l’accordo sarebbe durato fino alle Olimpiadi del 2012. Tentarono di convincermi in ogni modo, ma non mi andava di firmare. Innanzituo non capivo esaamente come avrebbe funzionato, e poi, mentre mi spiegavano il cosa e il come, sentii rafforzarsi le mie convinzioni. Non avevo mai voluto partecipare ad aività che mi avrebbero sovraesposta, soprauo nel caso in cui l’aspeo saliente non fosse stato il puro dato sportivo, inoltre, p p p muovendo un’obiezione generale e di metodo, direi che non mi sembrava una cosa normale: mi figuravo tui gli atleti lì, gli allenatori, le delegazioni, e che succede? Ecco che arriviamo noi italiani con le telecamere! Capirei, in caso, gli americani: arrivano seguiti dal codazzo televisivo e fanno le gare. Loro se la tirano eccome, però poi vincono, sono una squadra di prim’ordine. Ma noi? Il giornalista della Federazione, David Ciaralli, mi chiese se volevo partecipare e si vide rimbalzare addosso un no deciso. Poi ci pensai un po’. Firmai l’anno successivo, dopo le Olimpiadi, per la seconda stagione del programma. Lo feci senza troppo entusiasmo, dato che per me restavano in piedi tue le obiezioni che mi avevano portato al no dell’anno prima. Tuavia imposi alcune clausole specifiche e ritenni che, se le avessero acceate, allora in quel caso – solo in quel caso – avrei potuto partecipare anch’io. Quindi partecipai. Non acconsentii a che mi entrassero in camera, non mi stava bene, ma mi dissero ok, nessun problema: dunque partecipai. Permisi loro di riprendermi durante gli allenamenti, ma anche in quel caso esigevo che mi lasciassero libera di lavorare come avevo sempre fao: non volevo svolgere esercizi funzionali alle riprese e condizionare la mia preparazione. Non mi sembra una richiesta folle, dopotuo il mio lavoro è allenarmi e fare ginnastica, non posare in favore di telecamera. L’ho sempre pensato e continuerò a pensarlo, non tui l’hanno capito e, per carità, magari la colpa è stata anche mia che non l’ho mai spiegato come si deve. Pertanto lo spiego: io sono introversa, non amo esibirmi. Non è un fao di presunzione, semmai l’esao contrario. Io non indosso, e non voglio indossare, nessuna maschera. In molti l’avrebbero gradito, per me sarebbe stato più facile anche difendermi, ma io sono io e non ho mai voluto essere altro. Io sono Vanessa Ferrari, nel bene e nel male, e a dire la verità non significa molto nemmeno questo, perché non spendo nemmeno un minuto a pensare a quello che ho fao, perché ormai l’ho fao. Un esempio? Ho visto pochissime volte il video del corpo libero con cui sono diventata campionessa del mondo, non più di cinque o sei. Ho vinto, certo. Ma con questo? Non vivo nell’ombra del passato, ma nella luce – abbagliante o incolore che sia – del presente. È il presente l’unica dimensione con cui sento di avere a che fare. E poi il futuro. Perché mi fa piacere quello che ho fao, ma penso che devo andare avanti. Penso ai prossimi impegni e a come migliorare i miei esercizi. Penso sempre a quello che farò domani e quel che ho fao non esiste. Penso a quel che sarà, e ricomincio ogni volta.

Ricomincio da Berlino 2011. Campionati europei individuali: non volli fare il passo più lungo della gamba, avevo paura a produrmi in alcune e più ardite evoluzioni, così mi accontentai di replicare quel che avevo fao a Roerdam. Non accelerai, non esagerai. Concentrazione massima e testa sulle spalle. Enrico cercava di spronarmi, ma io non volevo pigiare troppo. In realtà, me ne rendevo conto, stava accadendo un’altra cosa. Stava accadendo che mi trovavo a viaggiare a quella mezza velocità e non mi dispiaceva affao avere quella dimensione. Le pressioni dal di fuori non mi hanno mai assillato per davvero, però è indubbio che portare esercizi più semplici fosse molto comodo psicologicamente. Mi alzavo la maina e andavo serenamente in palestra, senza martellarmi con alcuna smania prestazionale. Non che non lavorassi, io non sopporto di fare le cose male, ma non avevo frea di andare da nessuna parte. A quel punto, fare il mestiere di sesta classificata mi andava anche bene. Tanto più che l’aria intorno a me era cambiata un bel po’. Lo sentivo, il vento era girato. g Era come se i fai mi dessero ragione: la situazione si era evoluta e probabilmente tui avevano preso ao della mia flessione. Si stava aprendo un nuovo capitolo? Non sarei stata più protagonista della storia, da lì in poi sarei stata solo un personaggio di sfondo. Eravamo tui implicitamente d’accordo, no? Era ormai chiaro: i risultati li avevo già portati. Se ci fosse stata qualcuna su cui puntare, non sarei più stata io.

«Non ti riconosco più.» Lo dissi a me stessa, una maina, guardandomi allo specchio. Me lo dissi perché un giorno mi alzai e mi resi conto di tuo, all’improvviso. Mi scrollai di dosso i pensieri – la pigrizia dei pensieri – e mi domandai: il mestiere della sesta? Il personaggio di sfondo? Cosa stai dicendo? Mi guardai negli occhi: credi davvero a quel che vai blaterando? Basta, tu devi riprenderti il tuo posto. Tu devi tornare a vincere. Io volevo rifarmi. Io sì, volevo tornare a essere quella di prima. Mi stavo rassegnando alla mediocrità? Mi stavo assuefacendo a quella mancanza di ambizione? Mi andava davvero bene quel caracollare di campionato in campionato senza nemmeno un po’ di adrenalina, di ambizione, di caiveria agonistica? Il tendine migliorava e stavo arricchendo gli esercizi con parti sempre più difficili. Mi trovavo davvero nelle condizioni, ma solo a pao di un serio sforzo per oenere risultati, di tornare quella che ero. Non osavo nemmeno pensarlo del tuo consapevolmente, me lo impedivano scaramanzia e buonsenso. Ma intanto mi ripetevo, come se fosse una formula magica: lavora, suda, dacci dentro. Una cosa per volta. Poi sarà quel che sarà. O meglio: sarà quel che dovrà essere. Accadrà qualcosa. Accadrà quel che mi sarò meritata. XV

I Campionati assoluti del 2011 si tennero a Meda. Mi presentai con un certo vigoroso piglio perché in me stava spuntando l’alba di una nuova consapevolezza; d’accordo, non avevo ancora la forza per trasmeere tui i pensieri al mio corpo, ma se non altro erano riprese le comunicazioni. Vinsi un oro nell’all-around con pienissima soddisfazione. Vinsi l’oro anche alle parallele e un altro al corpo libero. Caddi alla trave ma non me ne preoccupai, avevo portato un salto davvero ambizioso. Non meno ambizioso fu anche arrivare in fondo senza la vicinanza di Enrico. Durante quegli Assoluti, infai, si era fao operare all’anca, mi aveva sempre raccontato di aver avuto problemi già da quando giocava a rugby. Non l’avrei mai immaginato, eppure, ecco, sentii la sua mancanza. Il punto, ovviamente, non era il romanticismo, ma una questione psicologica e sportiva. Non credo riuscirei a sentirmo a mio agio in gara senza la sua presenza. Sono abituata a lui e al suo modo di prepararmi, e le parti difficili, se non ci fosse, non mi sentirei sicura nel proporle. Ho davvero bisogno della sua presenza. In quel momento, comunque, presenza o meno, l’incontrovertibile dato di quegli Assoluti era questo: mi stavano mancando gli stimoli e degli allenamenti vedevo solo la fatica? Avevo il ragionevole sospeo che da lì in poi tuo si sarebbe aggiustato. Stavo risalendo la china? Potevo davvero dichiarare di nuovo aperta la caccia a qualche successo degno di nota? Ho capito che avrei dovuto fare una vacanza, magari breve, era vitale. Tornata, avrei dovuto ricominciare da capo. Ma almeno avrei respirato l’aria fuori dalla palestra. p p Urgeva ricapitolare, rileggere il libro da capo, ritrovare il senso dell’inizio e capire che piega avrebbero potuto prendere le cose. Avrei di nuovo fao il punto delle mie ragioni e delle mie energie, anche psicologiche. Per quanto riguardava il bisogno di staccare, non mi sono sentita in colpa. Anzi, mi sono dea per la prima volta in vita mia: lo fanno tui, perché non dovrei farlo io?

Così lo faccio: a Tenerife, però, il periodo non era il massimo. Giugno, non ancora nel pieno del caldo. Dunque oceano freddissimo. I bagni, io e Andrea, li facemmo soprauo in piscina. Il posto mi piacque. Solo un piccolo neo un po’ buffo: sono riuscita ad ammalarmi. Andavo su e giù per la stanza come un leone in gabbia, poi crollavo sul leo senza forze e mi dicevo: ma come, non mi ammalo mai, e va a finire che succede proprio negli unici giorni che mi prendo in un anno? Eppure è andata così. Per fortuna si è traato di una convalescenza-lampo, dovuta probabilmente a una scoatura. Nel tempo restante abbiamo cercato di spassarcela il più possibile, in quell’albergo enorme tanto da sembrare un villaggio, sempre brulicante di speacoli e di intraenimento. Un paio di volte siamo anche andati al casinò. Io bevevo un cocktail e mi godevo lo speacolo di Andrea che infilava geoni, rideva e imprecava contro le slot. Guardando il liquido dentro il mio bicchiere e provando la benefica sensazione che il futuro non fosse un burrone, mi dissi convinta del fao che stavo vedendo un po’ di luce.

Tornata a Brescia, ero davvero molto carica. E così, pian piano, passo dopo passo, giorno dopo giorno, successe quel che doveva succedere: recuperai la forma di sempre. Un giorno Enrico mi disse: «Te la senti se andiamo a Trieste?». Tentennai: Trieste, brui ricordi. Trieste, zaffata di angoscia. g Trieste, un nome da depennare. Vedendomi indecisa, per invogliarmi aggiunse: «Dopotuo c’è la palestra bella. E c’è il mare. Sarà tuo rilassato, come mai prima. Promesso». «Promesso?» Ma una cosa la promisi a me stessa. Mi imposi: devi sempre affrontare le difficoltà a muso duro, come in campo gara. Se le eviti, l’hai visto con l’alimentazione, non vai da nessuna parte. Quindi risposi: «Ok, va bene Trieste». Poteva essere un buon modo di ricominciare? Certo il meno soft, ma da qualche parte dovevo. Si traava di rimeere maone su maone, perché risparmiarsi? Aaccare col piede giusto, con tua la grinta, e risalire le mie chine personali. Avevo deciso che sarei stata quella di prima, che ci avrei provato sul serio. E quello era il primo gradino. Così partiamo. Appena arrivai, mi investì l’odore dell’ansia, l’odore che ha quella palestra e che è radicato nel mio naso, di lieve traspirazione, e in più un’essenza gommosa, morbida e stomachevole. Feci leva sulla razionalità. Mi ripetevo: siamo a Trieste come Brixia, non come Nazionale. Dunque è tuo più tranquillo. Te l’ha garantito. Inspiravo, espiravo. Mi feci forza: si traava di una seimana, giusto per togliere la ruggine estiva. In effei andò proprio in questo modo. E il clima fu neamente più disteso. Facevo i miei allenamenti mautini, e la palestra, di pomeriggio, veniva invasa da una candida folata lillipuziana di bambine. Quando tornammo a Brescia, incrementammo sempre di più il lavoro e meemmo a punto gli esercizi. Eravamo io e lui. Sola con Enrico – a quell’epoca non era ancora tecnico della Nazionale, lo sarebbe diventato di lì a poco, dopo le Olimpiadi di Londra – sentivo che stavamo di nuovo costruendo qualcosa. Ci chiamavano spesso a Milano per fare i test e i collegiali. p p g Paolo Pedroi la vide a modo suo, e quando esagerava con i metodi e le pretese, Enrico mi proteggeva. Un giorno arrivò a dirgli: «Con tuo il rispeo, ma Vanessa la preparo come voglio io». Fu, quello, un intervento fondamentale. Perché mi tutelò. Mi aveva capita. È stato importante che si sia comportato così. Il mio equilibrio era ancora delicato, certo in neo ristabilimento, ma esagerare in quel momento avrebbe anche potuto voler dire spezzarmi. È stato in quei giorni che il nostro rapporto è migliorato e ha decisamente cambiato marcia. Ci siamo capiti senza dover usare troppe parole, senza dover spiegare. Ci siamo capiti perché non potevamo che capirci. A quel punto c’erano i Campionati mondiali di Tokyo nel mirino, e per me la possibilità di riemergere. Tuo stava filando liscio: l’atleta ritrova se stessa e il suo allenatore ritrova l’atleta. La preparazione era quanto mai serena e io mi sentivo in buona forma. Avevo di nuovo degli obieivi e, dopo tanta sofferenza, una conquistata maturità che mi avrebbe aiutato a raggiungerli.

La gara di squadra andò molto bene. Io mi qualificai nell’all- around e nel corpo libero. Nell’all-around – magno cum gaudio! – habemus perfino il doppio avvitamento. Però sbagliai il volteggio. In ogni caso, la notizia meravigliosa era questa: stavo andando benissimo al corpo libero; tra l’altro, non solo portavo un esercizio più difficile, ma il più difficile da un bel po’. Senonché ci si mise il destino, bestia sadica che a quanto pare non sa cosa farsene delle notizie meravigliose. Sembra non si accontenti di vederti sudare, faticare, sgobbare per risalire – sembra che, fino all’ultimo momento utile, si diverta a tenerti sulla corda. A me prepara questo regalo: una distorsione alla caviglia sinistra durante il riscaldamento prima della finale al corpo libero. Mi franarono le forze tue insieme. Ero prontissima, sapevo che avrei potuto prendere una medaglia e ne avevo bisogno tanto per il morale quanto per il fisico. Ero andata lì per giocarmela e quella doveva essere la volta buona, la volta della mia definitiva ripresa, in cui il mio nome sarebbe tornato nella lista di quelle da baere. Se l’aspeavano tui e me l’aspeavo anch’io. Ma zero, niente da fare. La caviglia mi faceva molto male. Provai a saltare, ma non ero in grado. Ancora ferma? Ancora seduta a guardare. Dovevo passare la mano. Mi sostituirono con la russa Ksenia Afanasyeva, che fino a quel momento era stata riserva. Lei entrò e vinse l’oro. Io mi ritirai.

Esistono mali che, pur essendo mali, nuocciono solo al momento? Non lo so, ma quella sera, se non altro, avevo ripreso a camminare, e per di più con i tacchi alti. Il morale, dunque, non sprofondò troppo: dovevo ancora portare pazienza, ma almeno lo spauracchio di un infortunio serio si dissolse all’istante. Restò l’enorme dispiacere di non aver potuto fare quel corpo libero, però mi dissi che lo potevo sopportare, del resto nemmeno per un istante mi era passata per la testa l’idea di tentarlo lo stesso. Non volevo farlo male, non mi sarei mai perdonata di farlo male. Se anche ci avessi provato, non sarei stata mai e poi mai nelle condizioni di eseguire l’esercizio completo. E se, perfido soprammercato, avessi peggiorato la condizione della caviglia? Avevo valutato tui i pro e i contro, e anche adesso, a distanza di qualche anno, ritengo di aver deciso per il meglio. Io ero già passata araverso l’inferno e un secondo viaggeo no, grazie. Quindi tirai drio e non mi persi d’animo, e anche questo fu un segno importante che diedi a me stessa. Superai la delusione del momento e mi impossessai della certezza necessaria per costruire il futuro: superato quel piccolo problema p p q p p avrei potuto riprendere da dove avevo lasciato, con ancora maggiore rabbia. Non si sarebbe traato di ripartire da zero, il film era ricominciato ed eravamo ai titoli di testa. Ci sarebbe stato da divertirsi. Avrei potuto di nuovo contare su di me, cioè su quella che sono sempre stata. Nel fraempo il Giappone mi stava piacendo molto. Tokyo era stupenda e divertente, un formicaio elerico. Ricordo che alla fine delle gare andammo in un locale che si chiamava Black Horse. Ho bevuto, se non ricordo male, una cosa che si chiama Kamikaze. La discoteca era piena di ginnasti, perché alla fin fine, questo è il bello: c’è agonismo, certo. Ma quando si esce, si esce. Quando si esce, tuo è alle spalle.

Davanti a noi, ad aenderci, la partecipazione alle Olimpiadi di Londra 2012. Nessuno ce l’avrebbe regalata, dovevamo guadagnarcela. Il dirio a provarci ce lo dava la posizione in classifica che avevamo meritato a Tokyo: la nona. Le prime oo sarebbero state sicure di andare a Londra, ma per quelle piazzate tra la nona e la sedicesima ci sarebbe stato il test event, ossia la preolimpica, e proprio nella capitale inglese. Da quella competizione sarebbero usciti i nomi delle altre quaro Nazionali. Dunque il gioco si faceva duro. Io giocai: recuperai dalla distorsione che avevo subito a oobre, e siccome saremmo partite a gennaio, saltai di neo il Capodanno. Il test event andò benissimo: lo vincemmo come squadra e io portai a casa un oro nell’all-around e uno nel corpo libero. L’unico rammarico fu che a Londra non riuscimmo a festeggiare come si doveva e come meritava il nostro risultato perché l’hotel dove soggiornavamo era alla periferia del sistema solare, del tuo fuori dal mondo. Ma poco male, la festa era dentro di me: durante la preparazione al test le gare non erano andate benissimo, ma al momento di partire g p per Londra mi ero sentita più che a posto. Poi al test avevamo vinto con la squadra a dispeo dell’enorme agitazione che ci aveva preso nelle ore precedenti alla prestazione. Ricordo davvero un delirio senza precedenti. Era toccata prima alla maschile, e tui pensavano che non ce l’avrebbero faa. Dicevamo: figuriamoci, sono meno forti di noi. Poi era successo un parapiglia, un atleta aveva sbagliato un arezzo o forse non avevano riconosciuto qualcosa a qualcuno e le giurie avevano correo il tiro, sta di fao che per una fortunosa concatenazione di misteriosi eventi erano riusciti a passare. Noi eravamo contentissime per loro, ovvio, ma subito dopo enormemente preoccupate. «E se a noi non riesce il colpo?» Rispondemmo in campo gara: andò tuo come doveva andare. Ci eravamo fae trovare in forma e capaci di dire la nostra. Io rinunciai alla finale delle parallele, dato che non avrei avuto un giorno di pausa tra quella e il corpo libero – il mio corpo libero – e non ci volevo arrivare stanca. La gioia è stata autentica, esplosiva. Una fiammata di grande orgoglio sportivo e personale. Ci siamo guardate e ci siamo dee: «Alle Olimpiadi ci saremo!».

E poi vennero anche le gare di serie A cui Enrico tiene tantissimo che io partecipi. Lo devo ammeere: molto più di quanto ci tenga io. Dunque ci tiene solo uno di noi. Però essere in sintonia vuol dire anche questo. Vuol dire che io gli do rea anche malvolentieri, perché mi fido di lui. Il punto è che io non ne ho mai affrontata una a cuor leggero. Non sono obbligatorie, ma non ne ho mai mancata mezza, a parte forse una, grazie alla Coppa del Mondo di Tokyo del 2013. Per come la vedo io, è come fare dei compiti in classe che nessuno ti impone, il cui voto, però, conta moltissimo. In altri termini, è come andarsela a cercare. Inoltre a queste gare porto sempre esercizi difficili, sperimento e non mi risparmio, talvolta meendo a repentaglio la mia condizione fisica. L’insidia è che la concentrazione non è paragonabile a quella che hai in altro genere di competizioni, p g q g p dunque rischi due volte. E poi, come se non bastasse, c’è sempre confusione. Mi sembra di avere il pubblico perennemente addosso, ad alitarmi sul collo, molto più di quanto vorrei. Diciamo che il clima non è mai l’ideale. Comunque le feci. Enrico non me le impone mai, ma fa sempre in modo che io dica sì. Quell’anno arrivai in buona forma agli Europei di Bruxelles e nella conchigliona futuristica dell’Atomium, all’ombra dei nove atomi in acciaio, eccomi portare a termine tui gli arezzi ecceo la trave, perché prima di partire, provando un salto, avevo sentito un nuovo, maledeo dolore nello stesso punto in cui mi ero microfraurata prima di Stoccarda 2007. Così decidemmo che, nonostante le decisioni di partenza, ossia che io mi misurassi con ogni arezzo, fosse il caso di risparmiarmi il piede per il corpo libero. La questione non suscitò particolare rammarico, perché tra l’altro avevamo una trave «di copertura», Erika Fasana. Ci piazzammo terze: eravamo in finale di squadra, e io in quella di corpo libero. Il giorno dopo, durante la finale, dopo il mio esercizio, venni superata per pochi millesimi dall’inglese Hannah Whelan. A dea di tui il suo non era un corpo libero da medaglia, ma, come dire, il faore «paese ospitante» le Olimpiadi – o come in questo caso, ospitante le Olimpiadi che si sarebbero svolte di lì a poco – ha forse avuto il suo peso. Era una storia che cominciava a ripetersi troppo spesso: nelle qualifiche io agguantavo sempre il podio, poi però sopraggiungeva la politica coi suoi trai di penna. Una cosa difficile da mandar giù, almeno quanto i waffles, che volevo assaggiare tanto ma, causa gare, non ci sono mai riuscita. Con cioccolata calda, panna o gelato devono essere davvero buonissimi: la prossima volta non mi sfuggiranno. Quella volta, invece, mi sfuggirono, perché essendo stata l’ultima a gareggiare fui costrea a tenere un certo regime. E le altre? Le atlete che non avevano più competizioni? Imprigionate: gli allenatori si informarono, cercarono delle palestre e p g g p le fecero allenare lo stesso; ricordo che dicevano loro di non fare semplice mantenimento, di non vivacchiare. Alla fine, quell’anno fu la Romania a fare incea di medaglie: oro nel concorso a squadre, nel corpo libero con , nel volteggio e nella trave. Tornando a casa mi rimisi subito al lavoro e mi ripromisi una cosa: riprendermi al più presto quella medaglia. Ovviamente alle Olimpiadi. XVI

Nostro padre ha sempre tenuto molto alla formazione sportiva. Premeva perché trovassimo una nostra strada anche araverso un’aività atletica che ci desse soddisfazione. Nuoto, rugby, pallone, Ivan e Michele si sono dati molto da fare in questo senso, e nostra madre era pronta a gestire tui i problemi che i nostri tran tran avrebbero potuto generare. Per avere un’idea: nel 1999-2000 i miei fratelli frequentavano una scuola di calcio a Travagliato, lei di maina ci caricava in auto e portava loro a scuola e me in palestra, poi andava a riprendere Ivan e Michele alla fine delle lezioni, li accompagnava a calcio, assisteva al loro allenamento, quindi li ricaricava in auto e tui insieme venivano a prendere me in palestra a Brescia. Ricordo che sulla strada del ritorno ci fermavamo spesso a prendere il gelato.

Scoprire una cià, scoprire una granita. La vioria agli Assoluti di Catania 2012 la ricordo con particolare piacere. Era una delle ultime gare pre-Londra e faceva un caldo da fondere. Il primo giorno feci l’all-around, andato bene. Poi i miei esercizi completi, provando le nuove evoluzioni messe a punto in vista delle Olimpiadi. Incassai un oro nell’individuale e uno nel corpo libero. Dopo la gara, memore del mancato assaggio belga, mi aribuii un premio personale che valeva quanto una medaglia: tuffarmi a capofio nella granita. La ricordo strepitosa, entusiasmante, un vero concerto per ghiaccio e pezzi di frua, nulla a che vedere con quella che avevo mangiato a Brescia o in giro, un precipitoso ammasso di g g p p cubei franati giù da un tumbler, frantumati e irrorati di sciroppo sempre troppo dolce e appiccicaticcio. Esaurita l’esultanza gustativa, il ritorno alla realtà: con la squadra partimmo per San Benedeo del Tronto. Ci siamo state per dieci giorni e, dovendola definire in qualche maniera, si traò di una specie di vacanza impegnativa. Funzionava così: un allenamento al giorno dalle oo a mezzogiorno, costituito soprauo dai soliti esercizi, poi andavamo al mare. A una certa ora del pomeriggio avevamo addiriura il permesso di andare a farci un tuffo. A tavola ci controllavamo da sole, con responsabilità. Una sera gli allenatori ci hanno portato anche a prendere la pizza. Forse è stato quello il momento in cui ho preso ao del cambiamento e della mia ritrovata, autentica serenità. La pagina dei problemi alimentari era ormai chiusa e apparteneva al passato. Guardavo le mie compagne e mi sentivo bene. Ridevo, e ridevo per davvero. Avevo risolto tui i guai ed ero tranquilla, fuori dal tunnel. Ricordo che durante questo collegiale (durato una seimana, con la domenica in mezzo) ci avevano anche concesso il riposo. Così, il sabato, dopo l’allenamento, andai a Macerata da Andrea. Enrico mi disse che se avessi voluto potevo anche tornare lunedì maina, purché mi presentassi puntuale. Ho apprezzato, ma io sono faa così: preferisco tornare la domenica sera e prendermi il tempo che mi serve per pensare al lunedì maina. Quindi, quello stesso mercoledì, siamo rientrate alla base.

«Abbassare la guardia è pericoloso, ma è un aimo» sostiene mio fratello Ivan, il boxeur di casa. In quell’aimo, dice, può succedere di tuo. Be’, in quell’aimo, durante un’intervista preolimpica, io combino un casino. È solo una delle molte pagine del libro che intitolerei: «Vanessa Ferrari e i giornalisti». Un rapporto difficile, mai del tuo sereno. g pp Domanda: «Vanessa, se dovessi nominare qualcuno che ti piacerebbe veder vincere a queste Olimpiadi, chi diresti?». Risposi: «Tania Cagnoo». Del resto era vero: ci conoscevamo, ci eravamo incontrate in giro più di una volta in occasione di qualche premiazione o manifestazione e l’ho sempre trovata molto carina e simpatica nei miei confronti – simpatia del tuo ricambiata. A ogni gara olimpica mi cerca per chiedermi quando tocca a me, e se può viene a vedermi. Io ricambio: i tuffi (e i tuffatori) li seguo, mi sono sempre piaciuti. Ma la mia risposta, quel giorno, non aveva evidentemente soddisfao le aspeative del giornalista, che mi pressava e cercava di suggerirmi: «E le ragazze della ritmica, che appartengono alla tua stessa Federazione?». Io ho eluso la risposta, non perché non mi augurassi che vincessero, ci mancherebbe, ma perché secondo me avevo già deo quel che pensavo, avevo deo la verità come sempre mi capita in queste occasioni – sono un’ingenua, lo so! – e non aveva senso rappezzare la mia dichiarazione con un suggerimento esterno, dando peraltro la sensazione di essere la stupida che non sono. Allora cercai di svignarmela da quell’impasse, di dire e di non dire, Senonché il giornalista non mollava la presa. Alla fine, esasperata, mi uscì una cosa che non pensavo e che è suonata come denigratoria nei confronti delle ragazze della ritmica. Insomma, persi la pazienza e straparlai. Poi il giornalista ci mise del suo, alimentando gli equivoci. Non sono abituata a disprezzare l’impegno degli altri, tu’altro. E per di più sarei stata davvero contenta se avessero fao bene, quale razza di motivo avrei avuto per dolermi della vioria di qualcun altro? Però io avevo già risposto, a quali obieivi mirava chi mi tallonava in quella maniera? Che dichiarazione voleva estorcermi? Sono caduta nel suo gioco. Spesso il mestiere del giornalista, purtroppo, è oenere una notizia anche a spese del buonsenso. Dunque oenne la sua notizia. Io lo spiegai a Enrico, che al momento la prese male. Le mie riserve sulla ginnastica ritmica, peraltro, se ve ne dovessero essere, sono di tu’altro ordine, che direi classificatorio: non l’ho mai sentito come uno sport olimpico, in quanto prevede solo la femminile. Tuo questo, va da sé, non ha affao a che vedere con le ginnaste, che immagino lavoreranno sodo come tui gli altri. Questa polemica mi è dispiaciuta davvero. È stata inutile, vacua, risultato di una concezione sleale di «intervista». Quel che ne ho cavato è che la gente si convinse che avevo espresso dispregio per alcune colleghe, e che sono stata multata. Mi sono anche dovuta scusare pubblicamente. Rumore, rumore, rumore. E mille telefonate. Ed Enrico che, avendo capito in che circostanze era maturata la mia dichiarazione, si adoperava per spiegare ad altri giornalisti e ai vertici della Federazione cosa intendessi davvero.

«Com’è, com’è? Cosa si prova?» Per fortuna finisce il tempo dell’accademia e arriva il momento di partire per Londra. Ero carica come una rivoltella: volevo rifarmi, mostrare a tui che ero tornata me stessa e siglare al meglio una resurrezione sportiva sulla quale solo un anno prima avrei sperato ma non certo scommesso e, forse, chiudere la carriera così. Dopo San Benedeo del Tronto avevamo partecipato a una gara in Romania, a Bucarest, cui concorrevano Romania, Italia, Germania, Belgio, e alcune ragazze individualiste. Non era rilevante a livello internazionale, ma aveva la sua importanza: le rumene sono fortissime e fare bella figura a casa loro era una cosa da non soovalutare. Inoltre c’era una giuria internazionale, era utile farsi vedere, e soprauo farsi vedere in forma. Deo, fao: al corpo libero ho preso il secondo punteggio baendo a casa sua la Izbaşa, che nel fraempo aveva vinto le Olimpiadi del 2008. Poi tornammo a Brescia. Test su test, a valanga. Partimmo in una generale euforia. Ero felice anche perché alla fine io e la mia compagna di squadra Erika Fasana eravamo riuscite a partecipare insieme all’appuntamento degli appuntamenti. All’arrivo, l’ansia ci mitragliò. Eravamo entusiaste, ma sentimmo oltremodo l’emozione. Ci avevano alloggiato in un mini appartamento con stanze doppie, in cui avevano messo anche atleti di altre specialità, sempre italiani. Con noi c’era Rosalba Forciniti, una judoka che poi avrebbe vinto il bronzo. Era molto cordiale, e nella nostra casea si respirava un bel clima. Poi lei vinse la medaglia il giorno prima che noi cominciassimo, e noi la torchiammo leeralmente. «Cosa si prova? Lo volete sapere?» «Dicci, dicci.» «È bellissimo.» Ricordo che un paio delle nostre si misero a piangere per la tensione. La judoka le consolò. XVII

Tre, sei, due. Me lo ripeto un’ultima volta, lentamente. Devo cercare di convincermi. Tre. Sei. Due. Certo, c’è quel fao che è quasi lo stesso di Århus, però meno uno. Porterà male? Chi lo sa. Ma almeno è pari, questo mi piace. In ogni caso... meglio lavorarci ancora. Per esempio: tre per due fa sei. Il tre è la metà di sei. Può andare? Tre. Sei. Due. Metà di sei. Treseidue. E penso: Vanessa, puoi fare di meglio. Poi mi dico: un momento. E mi scuoto come per un’improvvisa epifania. Tre più sei più due fa... undici. E uno più uno? Be’, uno più uno fa due. E due è il mio numero preferito! Mi porta meglio il sei, però anche il due va bene. Ecco: tre sei due è un due. Mi sento più tranquilla, come ogni volta. Dopo che ho scomposto e sventrato cifre, dopo la mia macelleria aritmetica, acquisto serenità. Mi ripeto: vai, è come se sulla schiena avessi un due. Ora posso meermici con la testa – ora c’è solo la gara. La gara, tra l’altro, è di maina presto. Mi ripeto: è l’ultimo sforzo. Potrebbe. Essere. Il tuo. Ultimo. Sforzo.

Ultimo sforzo, ma esiti di prim’ordine: qualificata nell’all-around e nel corpo libero. Per quanto riguarda la squadra, entrammo nella finale a oo. In finale mi classificai oava nell’all-around e ne fui contentissima, sia perché erano anni che non rientravo nelle prime (a Roerdam ero arrivata dodicesima e a Tokyo ero caduta) sia perché, buando le garzee dopo aver finito l’esercizio, pensai che non le avrei mai più dovute usare nella vita. Che non sarei mai più salita sulle parallele. Dopo le montagne russe degli ultimi tre anni, fu come scaraventarmi via un peso di dosso.

Finale di corpo libero. Sono le ore 17.58 quando aacco il mio esercizio. Lo porto a termine, ne sono soddisfaa ed esce il punteggio: 14,900. Cioè sono terza. A quel punto l’unica che poteva baermi era Sandra Izbaşa, che partiva per ultima. Prima di lei, Alijà Mustafina, la quale però, notoriamente, non è una corpoliberista, pertanto nessuno si preoccupava, e men che meno io, soprauo tenendo conto del fao che partiva da un coefficiente di difficoltà più basso del mio. La prima, ossia l’americana Alexandra Raisman, aveva fao bene. La seconda, Cătălina Ponor, l’avevano buata in finale, ma comunque niente da dire. Ksenia Afanasyeva, quella che a Tokyo mi ha bruciato, aveva dato una prova abbastanza buona, ma era restata dietro; si sarebbe classificata sesta. Quando tocca alla Mustafina sono le 18.05 e io sento finalmente il sapore della medaglia, quella medaglia per cui avevo sudato fino alla morte. La russa srotola davanti agli occhi di tui un esercizio piao, mediocre, un po’ torpido. Lo seguo movimento per movimento, e ancor prima che esca il totale numerico sento farsi strada in me una rassicurante tranquillità: non poteva insidiare la mia posizione. q p p A un certo punto tocca alla Izbaşa, che fa un esercizio semidisastroso e cade (prende 13,333). Pochi minuti e la verità si ribalta. Pochi minuti e il gioco insaziabile del destino divora ogni mia logica certezza. Governa l’improbabile: la Mustafina prende punti e io scivolo quarta; o meglio, terza a pari merito, un modo elegante per dire quarta. Resto impietrita. Anzi, rigida come un legno, dato che è di legno la medaglia che mi spea. Quel giorno non me lo dimenticherò mai. L’incredulità mi tagliò il fiato. Tra l’altro era il compleanno dei mie fratelli e Michele mi mandò questo SMS: «Nonostante tuo, questa finale è il regalo più bello che potessi farmi». A quel punto scoppiai a piangere. Sentivo dentro di me un miscuglio violento di sentimenti, di imprevedibili e brucianti reazioni a catena. Un disastro chimico: qualsiasi cosa faceva reazione con qualcos’altro e non mi sentivo padrona dei miei stati emotivi. «Non farti vedere piangere.» Enrico me lo chiede come se fosse importante. Ma io non ce la faccio. Anzi, faccio di peggio: finite le gare, fendendo il gruppo dei giornalisti (non c’è verso di evitarli), mi lascio andare. Una mi incoraggia: «Dai, Vanessa, non sarà andato tuo male, guarda il lato positivo». Io ho perso le staffe. «Lo vedrai tu, il lato positivo. Qual è? Io non vedo niente di positivo in quello che è accaduto oggi.» «Il tuo futuro?» «Non lo so. Adesso torno a casa. Poi ci penserò.» David Ciaralli tentò di risollevarmi l’umore enunciando strampalati teoremi: «Dai, questi sono comunque i momenti migliori, no? Anche se il fao sportivo è negativo, parlano di te, stanno tui parlando di te. La popolarità è questo. E non conta meno di una medaglia». g Mi sono sembrate parole incomprensibili, io ero soltanto amareggiata. Vedere quella che a me sembrava la più assurda delle arbitrarietà, e proprio alle Olimpiadi, mi ha ferito. Ero finalmente uscita da un periodo scurissimo, una vera e propria via crucis personale. Avevo affrontato tui i sacrifici del caso e in gara mi ero comportata bene: perché ero restata a bocca asciua, spossata da un senso di amarezza così profondo? Mi chiesi se ne valesse ancora la pena, e la risposta sembrava essere solo una. Ma non finì lì. Il danno c’era stato. Ecco la beffa: quella sera, oltre a non aver preso la medaglia, mi fecero comunque l’antidoping. E io non riuscivo a fare la pipì. Una complicazione dopo l’altra: la gara era finita alle cinque del pomeriggio e non ne venni fuori prima delle due di noe. A un certo punto chiusero l’arena, mi portarono al villaggio olimpico, apposi mille firme per il fao che non riempivo la provea nel luogo in cui avrei dovuto. C’erano tui i doori che mi guardavano, e il buon Salva, che aveva deciso di farmi compagnia Poi, finalmente, ci sono riuscita. Volevo consolarmi – avevo bisogno di consolarmi. Andrea mi aspeava con suo fratello e un amico. Siamo usciti in cerca di un locale, ma era tuo chiuso. Dunque, serata così. Serata finita. E la mia carriera sportiva?

«Io voglio smeere.» Me lo ripetevo e lo ripetevo a tui. La delusione era stata rovente. Io mi ero stufata di quella vita e prima delle Olimpiadi ero sicura che avrei smesso. Il lavoro mi aveva stressato, gli infortuni mi avevano prosciugato. Poi, successo quel che era successo (e che prima di partire non potevo immaginare), sentii che ero a livello. Mi dicevo: questa è la p g q goccia che ha fao traboccare il vaso. Ricordo che ascoltavo L’essenziale, la canzone dei Tiromancino, e in alcune frasi mi sembrava di leggere il più spietato ritrao della mia situazione. Ero con Andrea, quel pomeriggio. Stavamo per partire per Formentera. Squillò il telefono. Enrico: «Vanessa, sei nel giro delle Coppe del Mondo». «Che vuol dire?» «Sei arrivata oava all’all-around. E hanno cambiato le regole.» «Quindi?» «Ti prenderebbero. Qualche soldino da guadagnare, volendo, c’è. Se dovessi arrivare ultima, prenderesti almeno mille euro.» «Cosa dovrei fare secondo te?» «Almeno pensarci. Poi ne riparliamo.» Ci ho pensato. Sono stata ferma un mese e mezzo e ci ho pensato. Per la prima volta nella vita, non mi allenavo e ci pensavo. Ma più ci pensavo, più la storia per me era chiusa. Enrico tornava alla carica periodicamente. «Fai questo giro di Coppe del Mondo, no? Che ti costa?» «Mi costa. E dopo?» «Dopo continuerai, ma solo se andranno bene. Solo se ti sentirai in forma.» Ho pensato: sarà. E non ero affao convinta. In quel momento essere fuori forma mi sembrava bellissimo. Parte terza Alla fine dell’arcobaleno

L’alba! Luce e vita! Tuo è puro!

PUCCINI, Turandot, ao III, quadro I XVIII

Ogni tanto vengono in palestra. Entrano in punta di piedi, salutano e si tolgono le scarpe. Lo vedo nei loro occhi, che sono un po’ in imbarazzo. Stringono mani, annuiscono. Io faccio loro un cenno da lontano. Parloano con Enrico e poi si meono lì. Mi guardano mentre mi alleno e spesso mi riprendono. Vengono per intervistarmi, farmi domande. Quando ho finito, c’è sempre qualcuno della troupe che si avvicina e tra il serio e il faceto, quasi a bassa voce, come se non fosse lecito domandarlo, mi fa: «Scusa se te lo chiedo, eh. Ma per cosa fai tui questi sacrifici?». E io...

Be’, io non so mai cosa rispondere. Così dico: «Non lo so». È vero: io mi alleno, amo quello che faccio, ma non vedo l’ora che sia finita. Buo sempre l’occhio all’orologio e cerco di fare tuo più velocemente che posso. Poi mi frego da sola, perché si sa, l’indole della gente non si cambia nemmeno con le cannonate, e la mia è quella di fare tuo al meglio. Quando decido di fare una cosa, è noto, la porto avanti fino alla morte. Se il venerdì o in prossimità delle gare sono stanca e qualcosa non mi viene come dovrebbe, vado fuori di testa. Per molti sportivi le viorie sono l’obieivo, o meglio, tuo quel che una vioria significa, cioè il successo, la colleiva ammirazione, il riconoscimento pubblico. Io non sono interessata a nulla di tuo questo e ho sempre preferito che a parlare fossero i risultati. Ma per me fare risultati significa dimostrare a me stessa che una cosa la so fare bene, dato che ho lavorato tanto per arrivare fino a lì. È per questo che prima di una gara di livello europeo o internazionale provo panico, ansia. L’immagine che le persone hanno di me è diversa, ne sono consapevole. Ma la verità è questa: fuori sono una fortezza inespugnabile, dentro di me c’è sempre grande tumulto. Se durante l’esercizio commeo un errore, mi innervosisco. Quando mi accade nel corpo libero, l’arezzo su cui punto di più (per me la ginnastica è il corpo libero), sprofondo nel caos, mi sembra di restare indietro, di perdere colpi, e che il corpo giri a vuoto, smarrito. La sensazione è che io debba recuperare tre movimenti in uno ammassandoli tui, per cui mi vedo goffa e mi sento perdere tragicamente eleganza ed elasticità. Anche solo scrivendone mi vengono gli incubi, è la situazione peggiore che io possa immaginare. Ma torniamo alla domanda: «Per cosa fai tui questi sacrifici?». Non so cosa rispondere anche per un altro motivo: è difficile parlare di sé. E per il mio modo di essere, ancora di più che per chiunque altro. Però, a questo punto della mia vita, ho pensato che questa poteva essere l’occasione giusta. Perché in un libro è più facile, no? Dopotuo voi leggete. Dopotuo io non vedo le vostre facce.

Sulla trave, se commei un errore, hai dieci secondi per riprenderti. Ti dici: ok, rifacciamo. Azzeri, recuperi la posizione, riparti. Il che vuol dire una cosa sola: non hai tempo per pensarci, non lì. Devi per forza guardare avanti, dimenticarti che hai sbagliato, recuperare l’unità corpo-cervello, fare quel che devi. Facile? Difficile. Ma ci devi riuscire. Alle parallele, se cadi, dal momento in cui ti rialzi da terra hai dieci secondi per ricominciare da capo. Sei in una fossa e devi tornare in alto. Nel corpo libero, durante la parte coreografica, non puoi respirare vistosamente, altrimenti subisci una penalità. Ma la penalità ti può speare anche se ti fermi troppo prima di una diagonale. E troppo vuol dire più di due secondi – uno, due: ecco, è già troppo. Inoltre, quando facciamo gli esercizi, dovremmo guardare i giudici, imprimere espressività a ogni passaggio, farci araversare dalla musica e riuscire a viverla col corpo. Deo questo, l’elemento più importante che deve funzionare è il mistero più semplice che esista: il movimento. Noi dobbiamo cercare di annullare la gravità e di rimuoverla da ogni nostro movimento. Dobbiamo scorrere. E non possiamo far vedere nemmeno la fatica, il che è faticosissimo. Splende sempre, in quello che facciamo, questo binomio di cose opposte. Infai la forza è il contrario dell’eleganza: la forza preme, l’eleganza toglie. La forza non facilita la scioltezza, eppure è proprio in quei momenti che dobbiamo essere perfeamente sciolte. Trave e corpo libero sono i più difficili, in questo senso. Nel volteggio, invece, serve soprauo forza esplosiva. Io riesco a spingere tanto e per fortuna sono anche molto sciolta, però da piccola non lo ero, anzi, mi sentivo molto più rigida di adesso e ci ho dovuto lavorare. I salti artistici li voglio fare al meglio che posso, voglio portarli davvero belli, dunque la scioltezza è una risorsa che devo avere sempre disponibile. Passando in rassegna i miei esercizi, è evidente che la mia trave, soddisfae le esigenze acrobatiche, punta molto sulla parte artistica. Comunque, è di dominio pubblico che il corpo libero sia la cosa che mi viene meglio. Non a caso vi riverso sempre le maggiori aspeative, perché lì so che, se sto bene, sono davvero competitiva. Ciò che mi rende più felice, però, è far bene tuo. L’all-around, del resto, è molto più difficile oggi rispeo a quando ho cominciato, non è ragionevole farsi grandi illusioni e proprio per questo piazzarsi tra le prime oo del mondo mi fa felicissima. Nelle parallele mi colloco nella media. Infai, ogni volta che entro in finale, e quasi sempre lo escludo, rinuncio: non ha senso q p affaticarmi per un arezzo in cui non posso dire la mia con autorevolezza. Normale, no? Dove sono competitiva, do fondo a tua me stessa. Dove non lo sono, mi affido all’economia delle cose. Per far bene un corpo libero devi essere esplosiva, resistente, dinamica. Si traa di fare esplodere la forza e di controllarla, soprauo di saper sopportare il dolore fisico, non tanto perché si può aerrare maldestramente, a volte succede, quanto perché, quando spingi, i piedi e le caviglie fanno male. Io, infai, soffro. Soffro sempre. Soffro in riscaldamento e in allenamento. Ogni giorno, mentre spicco i primi salti, vorrei urlare. Quando faccio la prima diagonale per scaldarmi, non vorrei mai partire per farla. Sento fie. Fie soo il tallone. Fie di fianco alla caviglia. Fie in luoghi strani del mio corpo. Purtroppo tuo questo catalogo doloroso mi ha consegnato a un’inevitabile confidenza con le terapie. Quando mi fa male il tendine, faccio un ciclo di laser al neodimio. Scoa molto, anzi, brucia, e il tatuaggio va coperto. Fa male perché richiama più sangue, però, araverso l’effeo fotochimico, si riaiva il metabolismo cellulare e il tendine si rigenera più in frea. Quando sforzo e lavoro sul duro faccio la Tecar. Mi meo pancia in su o in giù e applico una piastra soo la gamba che trao. Riaiva e stimola il sistema emolinfatico. Ogni tanto faccio anche onde d’urto radiali, abbastanza invasive, infai si fanno in periodi lontani da gare. Talvolta ci rido, perché dovessi presentarmi in sintesi, direi: Vanessa, ventiquaro anni, più tempo in palestra che fuori, sto in piedi a ceroi. Lo penso spesso: non so se da vecchia riuscirò a camminare per bene. Io soffro, anche nella vita quotidiana. Sempre dolorei. Sempre quelli. Soffro ai metatarsi e ai tendini. Quando smeerò credo che i tendini andranno a posto da sé, i metatarsi invece mi fanno paura e suppongo che ne risentirò. Per dirne un’altra: nel periodo di Londra, quando avevo ripreso dopo l’operazione, avevo male alle spalle. Anche dopo Pechino avevo male alle spalle. A volte, per il dolore, faccio fatica a prender sonno. XIX

«Vai avanti finché puoi.» Quando ho comunicato che stavo maturando l’idea di smeere, tui mi hanno deo che non erano d’accordo. Che ero precipitosa. Che dovevo pensarci. Io ci pensavo e restavo della stessa opinione. Tui storcevano il naso, soprauo mio padre. «Vai avanti finché puoi.» Era un ritornello. La scena era sempre la stessa: qualcuno che scuoteva la testa, guardava in terra, allargava le braccia e poi mi diceva: «Vai avanti finché puoi». L’unica con cui avrei potuto parlarne liberamente – ma non l’ho fao – era mia madre. Sapevo che si sarebbe dimostrata più docile in queste cose, lei l’aveva acceato già a quell’epoca, era pronta all’idea che smeessi. Mio padre non entrava nel discorso. Se ci entravo io, sfoderava il refrain: «Vai avanti finché puoi». Io mi guardavo allo specchio e pensavo che il punto era un altro. E il punto era: quanto avrei ancora voluto?

Non sono stata di parola: non ho smesso. E io odio non essere di parola. Poco più affidabile di un marinaio, sono stata di parola solo per un mese: sono stati gli unici trenta giorni consecutivi della mia vita in cui non ho messo piede in palestra. Poi l’ho rimesso, e ricordo perfeamente tua la penosa trafila successiva a quel momento. Riadeguare il mio fisico allo sforzo non fu una passeggiata. La fatica peggiore, quella che mi ha fao quasi piangere, l’ho provata, amarissima, nelle parallele.

Dopo Londra, da oobre e per almeno un anno, ho vissuto a Milano. Risiedevo lì e facevo avanti e indietro per allenarmi. Da principio, forse spaventati dal timore di una mia ricaduta emotiva per quel che riguardava il mio desiderio di smeere, gli allenatori mi traarono coi guanti, mi dissero addiriura che non mi sarei dovuta allenare tui i giorni. Insomma, mi tentarono con l’idea che tuo sarebbe stato più dolce, avrei potuto riprendere pian piano in base a come mi sentivo, alle mie esigenze, niente tabelle di marcia terrificanti. Invece il programma si è appesantito immediatamente. Allora, tanto valeva, sono tornata a Brescia. Peraltro vivere a Milano non era certo la mia passione. Il vero e proprio ritorno a casa fu dopo i Mondiali di Anversa, a novembre 2013.

Ad aprile, gli Europei di Mosca. Ma prima ci fu il Trofeo Cià di Jesolo. Fosse stato per me avrei marcato visita. Non so spiegarlo razionalmente, il fao è che non mi piace niente di quel palazzeo, nemmeno l’atmosfera che si respira. Piccolo preambolo: dopo le Olimpiadi di Londra, Enrico era diventato direore tecnico della Nazionale. È un incarico che secondo me merita pienamente, sebbene io lo rimproveri, tra il serio e il faceto, che a causa di questo impegno a volte sembra dimenticarsi che ne ha uno con me. Infai già allora era sempre meno presente, rapito da altre questioni, tuo preso a districarsi in gineprai burocratici. Durante gli allenamenti, spesso, doveva dividersi tra la nostra preparazione e le mille chiamate che gli arroventavano il telefono. Non era presente nemmeno quando ho fao il mio esercizio a Jesolo. Mi sentii un po’ abbandonata a me stessa e ricordo che mi dovei preoccupare di chiamare un altro allenatore, che in teoria avrebbe p p dovuto già farsi trovare pronto, perché mi predisponesse la pedana. Mentre s’affaccendava, io mi dicevo: me lo sento, questo è un segno negativo. Vuoi vedere che è un segno negativo? Non so, avvertivo che qualcosa non andava. Che qualcosa non sarebbe andato. Infai mi sono infortunata. Mi mancava solo il corpo libero, avevo già liquidato il volteggio e le parallele ed erano andate abbastanza bene. Ed ecco che l’incubo si ripresentò. Avevo paura di essermi nuovamente roa il piede. In un momento solo sono precipitata a capofio nel buio più abissale. Il panico mi stava inchiodando le budella. Se lo appoggiavo, la sensazione era orribile: mi sembrava di avere le ossa a pezzei, ed era come se questi frammenti vagassero. Se provavo a spingere, puro terrore: la sensazione era di averlo neamente diviso in due parti, perché ogni movimento non era continuo, ma frao in due tempi, come se metà piede fosse scollegato dall’altra metà. Timore del dolore, dell’incudine sulla testa. Avrei dovuto nuovamente araversare le angustie e i momenti di crisi che già conoscevo? I decreti della sorte erano chiari e io mi stavo ostinando a non comprenderli, votata al più ouso accanimento? Qualcosa mi stava dicendo che non era il caso di andare avanti e io mi intestardivo. Come avrei fao a ricacciare i fantasmi nell’armadio e a respingere l’assalto della paura? Mi dissi: una cosa alla volta. Esami, intanto. E la diagnosi fu esplicita più di qualunque presentimento: distorsione. Non ci voleva. Cosa c’entrava, in quel momento, una distorsione? Non riuscivo a pensare ad altro e me lo ripetevo di continuo: di- stor-sio-ne. Così pensai: non puoi franare. Appigliati a qualcosa, quello che vuoi, ma resisti. Non puoi crollare adesso. Mi sembrava di prevedere quel che sarebbe potuto accadere: se avessi lasciato rotolare a valle tue le mie forze residue, tue le mie energie, tui i miei sentimenti, rialzarsi non sarebbe più stato possibile. Volevo il cielo o il pavimento? Non mi avvilii tra le rovine dello sconforto, ma cercai di essere ferma e irremovibile: gli Europei di Mosca mi avrebbero vista protagonista. Non volevo lasciare il mio posto, il posto che avevo appena riconquistato con immani fatiche. Mi ripetevo: buare tuo alle ortiche adesso? Non solo non potevo permeermi di lasciarmi andare, ma non potevo nemmeno permeermene la tentazione. Alla fine riuscii a partire. Quante possibilità avevo? Poche, pochissime. Forse anche meno. Ma il punto è che avevo bisogno di partire. Bisogno della gara. Bisogno di sentire nel mio corpo l’elericità della competizione. Ribadii a me stessa: non puoi perdere giri. Devi esserci. Devi provarci e anche riuscirci. Per tuo il viaggio mi martellai: il corpo libero, anche facilitato, lo puoi fare. Magari riesci a vedere la finale, fosse anche per un pelo. Poi presi fiato: una cosa alla volta, ricordi? Da capo. È la tua filosofia. È il tuo metodo. Ha sempre funzionato: una cosa alla volta.

Prima cosa: arrivare. E arrivai, ma mi accorsi subito che non ce l’avrei mai faa a presentare un corpo libero davvero pulito. Avrei preferito ingoiare un sasso, ma dovevo essere spietatamente onesta: potevo sooporre a me stessa una versione diversa dall’unica sensata? Avevo fao 3000 chilometri per inventarmi una storiella qualsiasi? Seconda cosa: risonanza col liquido di contrasto. La nominò Salva, una sera. Mi stava manipolando il piede e borboò: «Vuoi sapere come la vedo? Secondo me dovresti fare altri esami, più specifici, oltre a quelli che hai fao». Mi fece capire che, secondo lui, forse non si traava di una semplice distorsione. «Voglio provare lo stesso a fare la gara, poi vediamo». «Sicura?» Ero sicura. Ma la feci e andò malissimo. L’azzurrissimo Olympiyskiy Sports Complex diventò il teatro del mio psicodramma. Soo le bavagliee triangolari delle bandierine del mondo appese in fila al soffio si spalancò un burrone: quello tra la mia volontà e i dati di fao. Ero partita per fare quaro arezzi? Punto della situazione: nel volteggio non riuscivo a correre; provai le parallele, ma nemmeno a parlarne; la trave, una tragedia. Ciliegina sull’orrenda torta: nel corpo libero sentivo dolori insopportabili. Enrico rilasciò un’intervista e dichiarò: «Decideremo solo a pochi minuti dalla qualifica se Vanessa sarà in grado di gareggiare. A distanza così ravvicinata dall’infortunio di Jesolo, essere qui è già stato un miracolo. Se le cose dovessero andare come pensiamo, ovvero se Giorgia Campana ed Elisa Meneghini, che gareggeranno nel primo pomeriggio, dovessero oenere un punteggio tale da centrare la finale all-around, a Vanessa risparmierei il volteggio. Questo per preservarla in vista di una possibile finale domenica. La finale dell’all-around è in programma già domani, è impensabile che lei riesca a fare due gare complete a distanza di ventiquaro ore l’una dall’altra». Il giorno precedente le qualifiche, in allenamento, prese la sua decisione e me la comunicò così: «Non fai né parallele né volteggio. È fuori discussione». Quindi feci solo due arezzi. La trave non andò bene. Il corpo libero anche peggio: lo portai a termine sperando solo di non farmi male. Il problema fu che arrivai nona, cioè diventai prima riserva. Ma non riuscivo né a poggiare il piede né a camminare, dunque pregai con tua me stessa che non succedesse nulla a nessun’altra atleta, per non dover subentrare. Non osavo immaginare, nel caso malaugurato in cui avessi dovuto scendere in pista, come accidenti avrei fao a tenermi in piedi, figuriamoci a gareggiare. Per fortuna la funesta circostanza non si verificò. La sfortuna mi lasciò in pace – le ero forse venuta a noia? p Quando rientrai a Brescia, non ci fu nemmeno bisogno di fare grandi consultazioni per decidere il mio forfait per gli Assoluti di Ancona di lì a due seimane dopo. Per dieci giorni non feci nulla. Le lastre non denunciavano situazioni anomale e decisi di non approfondire oltre, se l’avessi fao sarei impazzita. Certo, ero dubbiosa e spaesata: cosa fare? Sapere o non sapere? Trasformare quel problema in un’ossessione o lasciare che le cose si risolvessero da sé? Così, pian piano, la faccenda si sistemò da sola. Andavo piano col corpo libero, provavo ogni esercizio col freno a mano tirato, ma non dovevo commeere l’errore di rallentare troppo. Cali di forma clamorosi non me li potevo consentire anche perché in vista c’erano i Giochi del Mediterraneo. Certo, fisicamente non ero al massimo, ero restata un po’ indietro, il piede non stava né bene né male, ma se non altro passavano i giorni e non involveva. Senonché una maina, mentre faccio un salto sul duro, al volteggio, si sfascia la pedana. Si apre un pannello e io prendo una maonata sui talloni che mi fa urlare. Cado in terra, piango e lancio maledizioni. La ginnasta spagnola Roxana Popa, ai Giochi del Mediterraneo cui stavo per partecipare, avrebbe preso un colpo molto simile, arrivando di tallone a un’uscita dalle parallele, e si sarebbe ritirata. Io no. Io gareggio. Io mi alleno e gareggio.

Partimmo per Mersin, e in Turchia facemmo il nostro dovere, eseguendo il compitino. Per me si traò di una gara di ripresa, dovevo scrollarmi di dosso la sensazione che il destino si stesse divertendo con me e per fortuna sembrò l’occasione buona, gli avversari non erano irresistibili. Nonostante questo, feci ancora fatica. Molta fatica. Troppa fatica. Però vincemmo l’oro a squadre, e io, del tuo inaspeatamente, ne portai a casa due: uno nell’all-around e uno nel corpo libero. E arrivai anche terza alla trave. Medaglie corroboranti. Medaglie che mi aiutarono a meere la testa fuori, a riemergere. L’ultima sera, dopo la gara, andammo a mangiare chez Casa Italia. Si vedeva tuo il porto, lo scorcio era abbagliante, un magnifico acquerello. Abbiamo bevuto coi greci, e il morale, grazie alle libagioni e agli effeivi risultati, cominciava a risollevarsi. Mi ripetevo che dovevo essere meno pessimista e volubile, e affrontare più serenamente le difficoltà. Mi sentivo ancora in grado di dire la mia, di vincere nonostante tuo. Non ero andata fuoripista, no? In fin dei conti sapevo ancora tenere drio il timone. Avere obieivi, lavorare per quel minuto e mezzo, perfezionare salti, torsioni e coreografie era la mia vita. Se avevo deciso che lo doveva ancora essere, dovevo comportarmi come sempre: dare il massimo. Il minimo non sarebbe servito a nessuno. Dunque, per ricominciare col piede giusto, si parte. Ero reduce da un periodo pieno zeppo di fasi alterne e mi serviva una boccata di ossigeno. Il 24 luglio, dopo l’ultima gara, io e Giorgia, Giulia, Chiara, mio fratello Ivan e Andrea siamo andati a Sharm el-Sheikh. La prima frase del nuovo capitolo l’ho scria lì. Ricordo che facevamo yoga nel villaggio in cui eravamo ospiti, nominalmente per tenerci in forma, ma in realtà ci giustificavamo così, ridendo, l’un l’altra. Ci davamo anima e corpo a fie sessioni di aquagym, il tuo per arrivare, purgate dal senso di colpa anticipato, al gioco preaperitivo; poi seguiva l’aperitivo. Ho fao snorkeling e mi sono scoata la schiena perché non volevo mai venire a riva. Osservavo i pesci, le loro combriccole multicolori che si raggruppavano o si disperdevano, che si agglomeravano in palloni o si spandevano come scie argentee nel liquido blu e verde, tuo un rimescolarsi di forme e di frammenti. Alcuni pesci erano soili e p saeavano via come frecce, sparendo dentro rocce barbute, e altri se la svignavano a scai, quasi obbedissero a impulsi elerici, andando poi a ficcarsi in anfrai strei e inesplorabili. Ce n’erano alcuni di più lenti, come in meditazione. Avevano occhi fissi ed espressioni da grassi gentiluomini in frac seduti a teatro. Se ti avvicinavi migravano con grazia flemmatica e la loro coda sembrava uno stracceo di organza. Una meraviglia. Era il silenzioso carnevale subacqueo. Era il mondo con le sue regole e la sua bellezza. Erano le cose al loro posto. Ed ero io. Io che mi sentivo sempre meglio. XX

Antwerp’s Sport Palace. La quarantaquaresima edizione dei Mondiali individuali di Anversa mi stava aspeando. Io risposi: «Presente!». E anche il mio piede. Che ormai era in via di definitiva guarigione. Facevo i miei esercizi e non sentivo più dolori significativi, dunque completai la preparazione al meglio che potevo. La sera mi spuntavano i soliti piccoli mali, ma nulla di che, si traava di infiammazioni che conoscevo, affaticamenti che accompagnano la mia vita da quando ho memoria. Il mio corpo è un cahier de doléances permanente, ci si potrebbe fare una tesi di traumatologia e poi fondarvi un’intera biblioteca medica. Gli allenamenti andavano avanti. Il lavoro aumentò. Aumentavo i carichi e rispondevo bene. Quando il corpo risponde, io continuo a chiedere. Chiesi, chiesi, chiesi, e andò sempre meglio: pian piano la mia condizione crebbe. Finché, dopo qualche seimana, mi sentii in forma pressoché perfea. Mi classificai quinta nell’all-around. Poi mi qualificai alla trave. Non avevo ambizioni in questo senso e, come ho già deo, il mio rapporto con questo arezzo è sempre stato delicato. Ma, incredibilmente, ecco che le più forti cominciavano a cadere. Tue. Cadde la ginnasta cinese e cadde quella rumena, sembrava una filastrocca. Salivano e andavano giù come birilli, un effeo domino incontrollabile. È terribile vedere uno che cade dalla trave: un aimo prima è lì, sul ciglio del burrone, resta drio, fa ogni sforzo. Un enjambée g g j cambio, poi un enjambée cambio ad anello avanzante con spinta su un piede. Si lavora in bilico, sbucciando i millimetri, con una linea rea immaginaria che ti tende la schiena. È necessario essere di cemento, ma anche reilinee e leggere. Spesso si barcolla. Comunque, per una serie di circostanze, agguantai la finale. Eseguii il mio esercizio e presi un bellissimo punteggio: il tabellone diceva che ero terza. Poi toccò a Simone Biles. Non aveva terminato che da una manciata di secondi, e corse a sporgere reclamo alla giuria. Chiese che le venissero riconosciuti due collegamenti che le avrebbero aumentato il valore di partenza, cioè quello che commisura la difficoltà. Spiego: il quoziente di difficoltà è uno dei due criteri, insieme all’esecuzione – sulla valutazione della quale lei, nella specifica occasione, non fece ricorso –, che concorrono al punteggio totale. Fare ricorso in merito alla difficoltà, peraltro, esclude ogni possibile equivoco, perché la risposta si basa su un’interpretazione del tuo univoca: si guarda un video e l’opinabilità non esiste, non ci si può inventare un movimento se l’atleta non l’ha fao. In giuria discussero, ci fu un momento in cui non si capì nulla. I giudici confabulavano, sussurravano, alcuni gesticolavano. Fogli che andavano avanti e indietro. Noi eravamo lì in aesa. Enrico stava cercando di capire la situazione. Alla fine la giuria acceò il ricorso della Biles e le riconobbero due collegamenti e due decimi. Risultato? Mi passò avanti per pochissimi millesimi. Lei esultò e a me esplose dentro un vulcano: Enrico riguardò il filmato e mi disse che, dei due decimi reclamati, gliene avrebbero dovuto aribuire solo uno. Il mio corpo fu araversato da uno smoamento generale, sentivo che avrei potuto perdere il controllo. Mi venne da piangere, ma non potevo abbandonarmi all’emotività. La delusione. Ancora il suo funesto riverbero nelle vene. Non avevo alternative: non mi potevo permeere di andare fuori con la testa e coi nervi. Era appena successa una cosa che mi destabilizzava e mi abbaeva, però avevo ancora l’esercizio di corpo libero. Mi ritrovai nella situazione peggiore in cui ci si possa trovare prima di un cimento. Mi dissi: liberati la testa, non puoi rovinare il resto perché la trave è andata com’è andata – non puoi e basta. Respirai e azionai il solito comando che non saprei descrivere, ma che, in casi come questo, riesco a innescare. «Non fregarti da sola. Non bruciarti questa occasione. Questa occasione è una, e stop.» Dovevo staccare la testa dai pensieri ossessivi? Il mio sguardo doveva restare lucido e trasparente come un vetro. E così il mio animo. Dovevo diradare la nebbia? La diradai. Mi dissi che la trave, in quel momento, non esisteva più. E mentre me lo dicevo, ecco che la trave non esisteva più. I pensieri negativi diventarono una barca che si allontanava e portava via tuo con sé. Mi preparai, nella warm up hall corsi fino all’ultimo secondo possibile per tenermi calda al massimo. Quindi mi presentai davanti alla giuria senza soluzione di continuità col riscaldamento e via, partii. Quel minuto e mezzo lo ricordo come se l’avessi fao ieri sera. Me lo sono mangiato. Quel minuto e mezzo è stato freddo e bollente allo stesso tempo. Quando ho finito ero soddisfaa, ma chiesi a Salva di accompagnarmi dalla parte opposta del palazzeo per prendermi un tè e i miei integratori, non volevo vedere il resto della gara. Alla fine mi classificai seconda – dunque argento – dietro la comunque oima Simone Biles, la molla vivente.

Capitolo polemiche. Ce ne sono state: sciocche e decisamente mal condoe, eppure, se possibile, espresse anche peggio. La questione che a un certo punto venne sollevata riguardava il fao che le atlete di colore, in quanto americane, venissero avvantaggiate. Qualcuno, con scarsa ponderazione, affermò che la soluzione sarebbe stata una sola: dipingerci tue la faccia di nero. Io non mi sono faa tirare in mezzo. Io avevo visto gente della mia età che affondava. È successo il giorno prima, in televisione. Ero in albergo, e a un certo punto il telegiornale ha trasmesso quelle immagini. Erano tantissimi, sembravano giovani. Ma chi erano? I corpi dei cadaveri recuperati venivano avvolti in teli verdi dell’Aeronautica. Quei ragazzi avevano portato con sé qualche foto. La maggior parte di loro era vestita bene, come se andasse a una festa. Nei giorni successivi lessi un’agghiacciante intervista a un pescatore. Raccontava di aver tentato di trarli in salvo ma di non essere riuscito a traenerli. Erano tui viscidi di nafta, diceva, e più li prendevano, più quelli svanivano via, in acqua, quella stessa acqua e quegli stessi fondali di cui io avevo conosciuto l’aspeo pacificante e che mi aveva innamorato nei giorni della mia vacanza egiziana. Quei ragazzi venivano da terre non lontane da lì, e quegli stessi fondali che io avevo conosciuto come meravigliosi, multicolori, capaci di custodire pesci iridescenti e bellissimi – quegli stessi fondali che mi avevano sussurrato «va tuo bene...» – potevano anche diventare un drammatico cimitero liquido. Gente come me, ragazzi della mia età che avevano avuto molto meno di me. Avrei dovuto prendermela con la Biles? Mi dissi: siamo due giovani atlete e siamo qui, davanti a tuo il mondo, a fare quel che ci piace. Quel che ci ha fao soffrire, anche. Quel che ci ammala e che il più delle volte ci costa sacrifici anonimi. Tuo vero. Ma siamo dalla parte dei fortunati. Di quelli che non avranno nulla di serio da recriminare alla propria vita. Così non ci ho pensato nemmeno un momento e ho deo a Enrico di riferire che io, il mio secondo posto, lo dedicavo a loro: a quei corpi anonimi, a quelle storie senza nome e titolo, mentre io ho la fortuna di avere entrambe le cose, nome e titoli. A quegli Alì o Khaled che sono spariti in fondo a un mare che non è e non sarà mai una festa. XXI

Un giorno, da bambino, Ivan manifestò l’interesse a provare con la ginnastica. A quell’epoca andava a nuoto e diceva sempre che si impegnava perché voleva fare come me, vincere e dare il massimo. Insomma, gli avevo fao, indireamente e col mio modo di essere, un inconsapevole lavaggio del cervello. Sta di fao che portava anche buoni risultati, ma non appena ventilò l’ipotesi ginnica (erano in auto, c’era anche mia mamma) mio padre lo stroncò, sostenendo che non fosse propriamente virile. Così lo iscrisse a rugby. Michele lo pratica tu’ora, ed è un giocatore di solide qualità. La voglia non va di pari passo col talento, ma capisco che ognuno debba fare quel che gli va, e che è impossibile obbligare chiunque a dedicarsi univocamente a qualunque tipo di aività se non lo si sente nel profondo. Ivan ha trovato la sua realizzazione nel pugilato. Sono andata a vederlo qualche volta, ma lui sostiene che non gli ho portato fortuna. Anzi, la sua posizione è ancora più radicale: sostiene che non gli ho mai portato fortuna ogni volta che sono andata a vederlo. Agli amici la racconta così: «Una volta è venuta a vedere una mia partita di rugby e mi hanno ferito alla testa. L’anno dopo mi sono roo il ginocchio. Recentemente, invece, c’era anche Andrea, sono stato espulso. Da quando faccio la boxe l’ho lasciata venire una volta sola, e giusto perché ha insistito. Inutile dire che ho perso». Il rapporto che ho con i miei fratelli viaggia spesso sulle ali del conflio e dell’umorismo, sono molto diversi e se dovessi sintetizzare in pochi trai le loro personalità, direi che Ivan mi accudisce di più, mi sta vicino emotivamente prima di ogni gara, mi evita per esempio di portare pesi e manifesta sempre aenzioni di questo tipo; addiriura, da piccolo, quando mio padre gli telefonò da Århus (lui era in Bulgaria) e gli disse che ero caduta dalla trave, lui era scoppiato a piangere disperato. Michele è più scapestrato, ma lo dico in senso buono: infai so che se devo uscire e immaginare un ideale compagno di divertimento, è lui il primo che mi viene in mente. Con Ivan condividiamo anche l’ideazione dei miei body. Il primo che abbiamo disegnato, rosso e nero, ispirato alla cultura del tango, è stato quello di Anversa. In quel periodo andavo anche a lezione di ballo, poi dopo un anno ho mollato perché mi stancavo molto, non avevo più energie residue.

Tango o non tango, le Coppe del Mondo di Stoccarda e Glasgow andarono bene: bronzo in entrambe. Da qui è cominciato un periodo tranquillo, di sole esibizioni. Lo ricordo come un momento molto sereno, che ad altri momenti sereni ha dato l’avvio. Il tempo non passa invano, giusto? Io sono cambiata, l’ambiente intorno a me è più disteso. Gli allenamenti sono sempre scrupolosi – Enrico ha approntato tuo un sistema di diagrammi per tenere monitorato ogni mio esercizio e capire dove intervenire e su quali aspei delle mie prestazioni concentrarsi – ma la sensazione che provo rispeo al passato è di respirare meglio. Anzi, di respirare e basta, se penso a quanta claustrofobia ho provato certe volte tra le pur rassicuranti valve dell’ostrica tecnologica del PalAlgeco. Diciamo che mi sento cresciuta. Ho imparato il sano distacco da quel che mi circonda, che non significa l’ouso menefreghismo di chi prende gli impegni soogamba, ma l’equilibrio di un professionista che si conosce sempre meglio. Il fao di avere una carriera alle spalle che parla per me mi rassicura, e mi rassicura anche avere una consapevolezza, ossia che quella carriera ce l’ho perché io non ho parlato al posto suo. In altri termini: non mi sono mai piazzata tra la palestra e la telecamera. A parlare sono stati i miei fai, sempre e solo il lavoro. Sudore e quotidianità: quanto di meno speacolare esista rispeo a certi guizzi che vorrebbero i giornali. Non sarò mai quella delle ardenti dichiarazioni, delle polemiche a roa di collo e innescate ad arte, col profio dell’alta fotogenia mediatica. Sono quella che fa quel che deve, e stop.

Così, dopo ogni gara, riprende la mia vita di gare. L’anno nuovo, il 2014, si aprì con un impegno vecchio: la serie A. Poi andai negli Stati Uniti per la Coppa del Mondo. Arrivai quinta senza sbagliare granché, ma le prestazioni non sono state impeccabili e ho «sporcato» di qua e di là. Siamo rimasti a Greensboro davvero pochi giorni: mercoledì partiti e arrivati, giovedì e venerdì l’allenamento, sabato la gara, domenica eccoci di ritorno. Quindi, appena sbarcati in Italia, un arezzo nella seconda di serie A, dove ho eseguito solo un esercizio alla trave. La quarta di serie A, per fortuna, non godendo del privilegio dell’ubiquità – ai miei allenatori, sono sicura, non dispiacerebbe l’avessi –, la saltai. Partecipai alla Coppa del Mondo di Tokyo e portai a casa un oro nell’all-around, la manifestazione prevedeva solo quello. La prestazione fu buona, feci tuo come andava fao. Il dramma fu l’antidoping, perché dovevo come ovvio espletare tue le mie funzioni, ma ancora una volta non ci riuscii. Saranno stati la tensione agonistica, l’impegno, la fatica. Allora la dooressa mi seguì in camera e aspeò che mi facessi la doccia. Rimasi per un bel po’ in balia di quel dramma di natura idraulica: mi scappava moltissimo ma non riuscivo a farla. Ero una boiglia a testa in giù, piena, da cui non usciva nulla. Quando mi presentai al bancheo finale in clamoroso ritardo, fui bersagliata dalle prese in giro di chiunque. Poi, io e lo spagnolo Fabián – ci chiamiamo vicendevolmente mi corazón – ce la siamo svignata insieme a un brasiliano che per via di quegli appellativi si dimostra sempre un po’ seccato. q g pp p p Entrammo in una bellissima discoteca a cinque piani, che a ogni livello proponeva un tipo di musica diversa. Però era piuosto dispersiva, e andò a finire che ognuno ha fao la propria serata.

Uno spensierato ciclo di laser al neodimio mi stava aspeando dopo che rientrai a Brescia. Quindi il collegiale, in vista degli Europei che si sarebbero tenuti in Bulgaria. Dopo due seimane partimmo per la Armeec Arena di Sofia e io, come ovvio, ero la più entusiasta di tui. Ma fu a questo punto che persi il contao con la mia serie tv preferita all’epoca: Hart of Dixie. Ne vidi alcune puntate prima di partire e alcune dopo il mio arrivo, ma adesso non so più a che punto mi trovo. In genere sono una grande appassionata di serie. Per esempio, ho amato molto The Vampire Diaries e adesso vorrei vedere la sesta stagione. Ne ho prese quaro, la quinta l’ho scaricata in palestra col wi-fi. Ricordo che arrivavo al PalAlgeco, preparavo il computer e negli spogliatoi facevo subito partire il download. Ogni volta che andavo in bagno, controllavo – scaricavo pure Gossip Girl. Mi hanno molto rapita anche Grey’s Anatomy e Dr. House. Tornando alle gare, la prima di squadra in Bulgaria andò bene. La finale no. Potevamo correre per la medaglia, ma l’abbiamo buata via stupidamente. Accade anche questo, non esistono macchine da medaglie. L’all-around non c’era e io avevo due finali: trave e corpo libero. Alla trave mi classificai quarta. Il corpo libero l’ho fao bene, con autorevolezza, ma ho dovuto di nuovo condividere la medaglia con la Larisa Iordache. La solita storia: partivo con punteggio più alto, poi entrambe abbiamo fao un oimo esercizio, io ho fermato tue le diagonali tranne la prima, in cui ho fao un passo in avanti, e lei anche. Eppure abbiamo preso lo stesso punteggio. Ovviamente mi aspeavo un esito diverso, se la matematica non è un’opinione. Ma a quanto pare, spesso, è un’opinione. q p p p L’ho presa con filosofia, non mi sono arrabbiata. Era comunque oro. Nel 2005 mi infuriai per l’argento di cui insignirono un’atleta di casa che non se lo meritava, e manifestai il mio disappunto molto apertamente. Credo sia da lì che qualcuno mi appioppò un soprannome che non amo: la «Cannibale». Cosa c’entra il cannibalismo? Il punto è che se io faccio bene un esercizio e mi merito un riconoscimento, voglio essere premiata. Se sbaglio, sono da sempre abituata a prendermela con me stessa e a non farmi nessuno sconto. Ma in ogni caso, discorso chiuso. Mi fermo qui. Se dovessi affrontare il tema dell’arbitrarietà dei punteggi nelle competizioni di ginnastica credo dovrei interrompere questo e cominciare a scrivere un altro libro. Un libro che preferirei non leggere, oltre che non scrivere. Un libro in cui non ci sono i meriti di nessuno, ma i demeriti di qualcuno.

Dopo Sofia mi sono fermata cinque giorni, d’altra parte non tornavo in terra materna dal 2007, quando avevo tenuto alcune esibizioni. Il mio rapporto con la Bulgaria è molto buono, anche coi miei nonni, seppure sia sempre stata più legata ai nonni italiani. Mia nonna Nikolina è stata a Brescia per un paio di mesi, ne ero felice, però non lo dimostrai granché perché purtroppo era proprio nel periodo in cui non ero in forma, avevo problemi alimentari, non ci stavo per niente con la testa. Tornando alla Bulgaria, spesso ho pensato di trascorrerci il Natale o il Capodanno, poi nei fai ho sempre tradito i miei propositi. Quando me ne viene la voglia penso che dopotuo non ho mai troppe occasioni di vacanza e quelle rare volte che me le posso permeere preferisco sfruarle per andare in posti più esotici. Ma so per certa una cosa: quando avrò più tempo ci tornerò di sicuro. Vorrei anche il passaporto bulgaro, mi farebbe piacere riconoscere burocraticamente la mia seconda metà. Tra l’altro nell’occasione degli Europei mi hanno accolto molto bene. Ho fao una lunga intervista per la tv bulgara, mi hanno piazzato davanti alla NDK, un palazzo importante, e sono usciti moltissimi articoli per i giornali nazionali, articoli che mia madre ha scrupolosamente catalogato. Là dicono che conta sempre la parte materna, non quella paterna, dunque per loro sono bulgara a tui gli effei. Alla fine, comunque, sono stata solo a Sofia, non a Pleven e non a Komarevo. Mia madre ha insistito e ha tentato di adescarmi con l’agnello e il capreo ripieno che le avevano annunciato per il suo arrivo – un piao tipico, molto buono – ma c’erano anche gli Europei maschili, il tempo era poco e non me la sentivo di fare 200 chilometri per poi tornare in giornata alla base. E per fortuna: perché dopo essere tornata in Italia mi sentivo già in vacanza, ma ho dovuto soopormi ancora a tre seimane di allenamenti. Alla fine Enrico ha avuto il cuore di farmi saltare gli Assoluti, glielo avevo chiesto e fu evidente anche a lui che non aveva senso presenziare a una gara piccola ed evitabilissima, però sono andata comunque a vederli. La seimana successiva, calendario fiissimo: esibizione dal papa il sabato, volo per Miami la domenica.

In piazza San Pietro si festeggiavano i cent’anni del CONI. A rappresentare il mondo della ginnastica eravamo io, Alberto Busnari e Igor Cassina. Peccato che quel giorno tuo sia andato storto e, invece di una festa, io abbia il ricordo di un’angoscia continua. La piazza era stracolma e rigurgitava di gente. Le persone si accalcavano lungo tuo il perimetro, se fosse caduto uno spillo non avrebbe toccato il pavimento. C’era confusione ovunque, difficilissimo entrare, gli atleti che sopraggiungevano uno dopo l’altro per esibirsi non trovavano nessuno che fosse venuto a prenderli e li conducesse nel luogo deputato. Insomma, il disordine cosmico totale. p Dovei circumnavigare la piazza nelle due direzioni, col risultato di non riuscire comunque a guadagnarmi un varco in mezzo alle moltitudini. Nessuno dei polizioi mi ha riconosciuto, eppure dall’organizzazione ci dicevano di passare, che ci avrebbero aperto la strada. Non uno era disposto a darci fiducia, consentendoci un ingresso. Io chiedevo e riferivo quanto ci avevano deo, eppure nessuno riusciva a capire che ero un’atleta. In un momento di esasperazione mi sono impuntata, ho perso la pazienza e ho deo che me ne sarei andata. Solo in quel momento qualcuno si è aivato, chi doveva ha fao le opportune verifiche e quindi mi hanno lasciato passare. Dell’esibizione ricordo una cosa: Miami. Io, infai, ero già là. Comunque l’esperienza non è stata priva di affanni, seppure io portassi, come ovvio, una trave piuosto facile. Il tuo si trasformò in un’impresa perché la piazza è leggermente in salita e tenere l’arezzo in equilibrio si rivelò impossibile. Non sembrava affao nelle condizioni di garantirmi stabilità, ballavo la tarantella e mi dicevo: «Stai a vedere che adesso cadi e ti fai male proprio qui». Quella stessa maina, quando la provai per saggiarla, mi resi conto delle condizioni disastrose in cui mi sarei dovuta esibire, e tentammo alla bell’e meglio di meerla in bolla. Niente da fare. Mentre eseguivo il mio esercizieo me la tenevano in due. Anche un piccolo enjambée mi preoccupava. Superato lo scoglio della trave, eseguii un mini corpo libero sulla moquee, con una coreografia basata su Tangled Up, la musica che mi accompagnava in quel periodo. Ma quando partì, non mi sembrò fosse il brano cui ero abituata, l’audio era rauco e disturbatissimo e si sperdeva come fumo sopra le teste di quella moltitudine. Gli organizzatori, tra l’altro, avevano anche espunto le parole del testo per questioni di dirii d’autore. Il risultato fu che non mi potevo regolare su nessuno dei consueti riferimenti per capire quello che stavo facendo. p p q Ero in ritardo? Ero in vantaggio di qualche bauta rispeo alla musica? La gente applaudiva a vanvera. Così, purtroppo, feci a vanvera tuo l’esercizio. Tirai il fiato solo alla fine. XXII

Dieci giorni di spiagge bianchissime e locali strabilianti. Miami è il posto in cui vivere! Il paesaggio era limpido e speacolare, un’entusiasmante parata rilucente di graacieli, nastri candidi di sabbia, greggi di nuvole vaganti. Palme un po’ ricurve e alberghi dai nomi eccentrici – Beacon Hotel, Avalon Hotel – in cui, tra gli altri, avevano soggiornato Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Harry Belafonte. Ovunque preparavano dei cocktail giganteschi e colorati, grandi come portaombrelli. Lincoln Road e lo Starbucks dove facevamo colazione. Lile Havana e la sua anima caraibica. Ocean Drive e la gioielleria a cielo aperto delle onde che brillavano oltre il lungomare. Ville da capogiro e movimento a tue le ore del giorno e della noe, senza che fosse possibile distinguerle. Ma io le distinguevo. Di maina facevo una lunga passeggiata costeggiando il mare, e anche una corsea, per lo meno finché il caldo lo permeeva. Partivo dall’hotel, e dalla Quarantesima raggiungevo la Decima, fino a un punto in cui, sulla spiaggia, si incontrava una specie di piccolo parcheo con arezzi. Il luogo si riconosceva da lontano perché era sempre gremito di fanatici del cross fitness. Giunti lì, io e Andrea facevamo un po’ di potenziamento. Poi, un giorno, vedendoci al lavoro, un gruppo di americani si avvicinò e ci chiese una piccola dimostrazione. Quando seppero che eravamo ginnasti della Nazionale, ci guardarono strabiliati e dissero: «Wow! Amaaazing!». Rimasero a bocca aperta assistendo a un paio di eserciziei che abbiamo snocciolato loro lì per lì. Poi, con calma, come ogni giorno, siamo tornati in albergo. Solo un rammarico: una volta, da un locale, abbiamo visto fare capolino un aperitivo meraviglioso. Lo reggeva un cameriere su un vassoio somigliante a una canoa e sembrava una granita alcolica, tua lustrini, colori e catarifrangenze. Dal bordo del bicchiere spuntavano piccoli iceberg circondati da un mare bianco spumeggiante. Purtroppo non abbiamo potuto goderne, dato che in America senza documenti non si è sicuri di ricevere da bere, e noi ogni maina ci portavamo solo i telefoni e qualche spicciolo. Comunque anche in Florida mi sono trascinata dietro la nuvola del ginnasta che va poco in vacanza: è piovuto tui i giorni; dieci minuti, ma è piovuto. L’ultimo giorno ero molto depressa, non volevo proprio che lo fosse. E invece, dato che il tempo – crudele entità per chi, dal Tropico, si avvia verso la nebbia – era davvero volato, bisognava far pace coi dati di fao e dare l’addio a Miami, con la sua beata routine. La ripresa fu durissima. Psicologicamente avvertivo già il rifiuto totale. Nessun entusiasmo, nessuna motivazione. Nelle ultime ore americane, una nostalgia terribile mi salì dalla bocca dello stomaco o, chissà, da altri misteriosi recessi in cui hanno sede i sentimenti strazianti. Da quei recessi, una vocina mi suggerì che era il caso di curarmi con un ultimo cocktail. Me lo servirono dentro una caraffa grande come il cilindro rovesciato di Willy Wonka.

«Please, picture!» Ne avrò fae mille, la sensazione era che bastasse essere occidentali per risvegliare il loro irrefrenabile desiderio di farsi ritrarre con te. L’esperienza dei Mondiali in Cina è stata singolare da molti punti di vista. Tanto per cominciare, il body me l’ha disegnato mio fratello Ivan ma nel progearlo abbiamo litigato – il body che ho indossato è il risultato di quel litigio. In secondo luogo, fisicamente mi sentivo molto meglio rispeo ad altre volte, e infai le gare le ho fae come dovevo, però in termini di medagliere non ho concluso granché. Stavo molto meglio che ad Anversa. Stavo meglio anche rispeo agli Europei di Sofia. Eppure è andata com’è andata. Mi è capitato spesso di trovarmi in condizioni assai meno ideali e di aver vinto. A volte penso che vincere non sia semplicemente vincere, ma un evento complesso, che dipenda da varie circostanze non tue decifrabili. In ogni caso bisogna acceare anche questo, non ha senso lamentarsi perché non riusciamo a controllare gli esiti di ogni cosa. Sono gli indecifrabili scarabocchi che governano le nostre stagioni sportive. Per quanto riguarda Nanning, alcuni aspei del luogo mi hanno perfino disgustata. Che so, la sporcizia imperante. La cucina. I rai che sfrecciano per strada. Respirare era un lento suicidio. Per tornare al dato puramente sportivo e senza cercare alibi devo ammeere che è girata male e forse ho sbagliato le gare. In quelle dove potevo permeermi imprecisioni, ero perfea; in quelle dove non potevo, ne ho fae un po’. La giuria non mi ha granché aiutata, è stata strea di manica, ma non ho recriminazioni. Ci siamo guadagnate la finale di squadra e io quella nell’all- around. Sono arrivata sesta dietro la cinese Yao e Alijá Mustafina. La finale del corpo libero è andata abbastanza bene ma non ho fao un esercizio pulitissimo. Mi sono sbilanciata in avanti sull’arrivo della prima diagonale e anche nella seconda. Così mi sono classificata quinta, a soli due decimi dalla seconda. La finale alla trave non l’ho centrata, ma di poco. p Di questa esperienza mi è rimasta, nea, una sensazione che non posso tacere: Alijá Mustafina è un’atleta che mi pare sempre un po’ sopravvalutata, a volte anche dai giudici. Per essere franche, in questa occasione non meritava il terzo posto al corpo libero e nemmeno alla trave, dato che, su oo esigenze, gliene mancava una, cioè la serie acrobatica.

«Le piccole difficoltà fanno le grandi difficoltà.» È il mantra di Enrico. E ha ragione, perché una ginnasta la si costruisce così. Una campionessa anche: passo dopo passo, maone su maone. La solidità di una condizione psicologica parte certamente dalle innate qualità di uno sportivo, ma non ci si deve adagiare e si deve lavorare anche su quelle. Mentre eseguo un esercizio, mi accorgo se lo sto facendo male o bene. E se sbaglio, mi irrito. Però ho imparato a restare concentrata, a rimuovere quel che ho appena fao come se non l’avessi fao, a sovrascrivere il presente sul recente passato, sui due secondi che mi sono appena lasciata alle spalle. È l’unica cosa da fare: esistono solo i due secondi che seguono e che reclamano la stessa aenzione, la stessa concentrazione dei precedenti. Poi ci sono sempre le incognite. Per esempio, le altre atlete sbagliano. Pertanto, mentre stai conducendo in porto la nave di un esercizio, devi imparare ad avere un rapporto non paralizzante e non entusiasmante con gli errori, né i tuoi, né quelli altrui. Devi saper pensare solo a te stessa, senza esaltarti e senza abbaerti precipitosamente. Devi sempre tener conto del fao che ci sono anche ovvi problemi di percezione: a volte gli sbagli che commei ti sembrano grossi e ogni svista ti appare come una gigantesca lacuna. Se ti concentri su quel che non hai fao come avresti dovuto, rischi di farti ingoiare dal burrone. Invece bisogna reagire, cioè dimenticare. Anche perché spesso l’errore non è grave come sospei. Il punto è: non perdere fiato e concentrazione. Mi è capitato – ed è stato terribile – di perdere l’uno e l’altra e di avere la sensazione che la musica andasse avanti da sé e che io restassi indietro. Che io dovessi correre per recuperare. Che fossi in ritardo anche coi pensieri. È come assistere a un filo che corre via dal gomitolo mentre dovresti, al contrario, recuperarlo. La stanchezza, spesso, acuisce queste sensazioni di inadeguatezza. In Cina, durante la finale al corpo libero, ero morta, non ce la facevo più. Ricordo distintamente di aver fao la ribaltata in avanti con esigenza, di essere andata verso l’estremità della pedana per un pezzo di coreografia e di aver pensato che avrei voluto solo infilare una porta, andarmene e piantare tui in asso. Inutile nasconderselo: reggere molte gare non è mai facile.

Nadia Comăneci. A volte la osservo. La vedo alle gare, ed è molto diversa da com’era prima. Mi chiedo: le viorie sono una cosa futile? Chi vince non è mai simpatico, me ne rendo conto. Ma non esiste nessuno che vinca e basta. E ho imparato a mie spese che una vioria spesso è meno di quanto tui credano. Enrico, ne abbiamo parlato molte volte, la vede così: «Campioni si nasce, però poi bisogna diventarlo». Aggiungo: e anche restarlo, cioè tu’altro paio di maniche. Non saprei dire cosa mi ha permesso di durare più di altre atlete. Sicuramente le risorse fisiche, ma non solo quelle: se non fossi stata disposta a fare certi sacrifici non ci sarei mai arrivata. Perché è importante che tenga il fisico, ma è anche più importante che tenga la testa. La mia è sempre stata allineata all’obieivo. Il passato non perdura dentro di me, forse perché a esso appartengono anche momenti che non mi sono goduta del tuo. A ogni modo, non mi è mai interessato guardare indietro. Sono contenta di quel che ho fao, lo sport mi ha aperto molte strade, ho meritato una certa sicurezza e nell’Esercito – in cui sono entrata a fine 2009 – sono permanente, col grado di caporal maggiore. Però le mie medaglie sono una costellazione che sfavilla sempre più distante. Il mio rapporto con le viorie è provvisorio, estemporaneo. Vinco e sono felice, ma il giorno dopo è già il giorno dopo. Quello con le sconfie è più complicato da gestire, però ho imparato ad affrancarmi anche da quelle. Non so cosa avrei fao se non mi fossi data alla ginnastica, dopotuo è stata ed è la mia vita. È uno sport bellissimo, tra aria e terra, precisione e guizzo, geometria e potenza, e nulla di negativo mi è mai venuto dalla ginnastica in sé. Da altro, sì: da me stessa, dalla notorietà, dalle persone che mi circondavano e volevano che io dessi quel che non ero pronta a dare. Le rare volte in cui mi abbandono a qualche fantasticheria, penso che mi sarebbe piaciuto vivere in un’altra epoca, con meno progresso e tecnologia, magari in Sudamerica; di recente, tra l’altro, ho leo che la Vanessa Monarca, una farfalla che può vivere fino a oo mesi ed è tra le più longeve in assoluto, sverna e sorvola il Golfo del Messico. Quanto al mio temperamento, lo so, sono come quegli aori che vincono l’Oscar e lo meono in cantina. Ho deluso tui coloro che mi volevano più speacolare, più televisiva, più disponibile. Ma non sono nata per esserlo. Ogni volta che mi soopongo a torture mediatiche, per me è sempre dura arrivare in fondo. Non mi inibisce solo la telecamera. Anche in giro, per strada o in un negozio, quando mi chiedono un autografo ho voglia di scappare. Una volta mi si è avvicinato un ragazzo e mi ha chiesto: «Scusa... sei Vanessa?». E io: «No, mi spiace. Sono Samantha». Lo dico spesso. La reazione della gente alla notorietà degli altri non è meno ricca di misteri delle reazioni che avrebbe rispeo alla propria. Io guardavo tui quelli che mi cercavano e mi correvano incontro come fossero pesci strani in un acquario. Nel 2006, dopo la vioria al Mondiale, fermavano mia mamma dicendo: «Un autografo dalla mamma della Ferrari!». Lei mi guardava, e ridendo diceva: «La gente è pazza». Ricordo quando ero piccola. I miei fratelli erano scalmanati e dispeosissimi, giocavano sempre col pallone in casa e mia madre si arrabbiava di continuo. Un giorno centrarono un vaso di vetro che avevo comprato in Sicilia – era un souvenir – e me lo ruppero in mille pezzi. Ivan, divorato dal senso di colpa, lo incollò con l’Aack, frammento per frammento, ma il vaso che il suo volenteroso intervento aveva prodoo era solo lontanamente parente di quello originale: bitorzoluto, irregolare, con alcune parti fissate al contrario. I segni delle incollature erano evidentissimi. Piccole opacità seguivano la linea roa delle crepe. Niente da fare, il vaso che mi piaceva non c’era più, aveva perso la sua forma e la sua bellezza. Anch’io, per anni, mi sono sentita così: mi si vedevano le incollature. Tui le scambiavano per qualcos’altro, ed ero opaca. Non mi sentivo un’unità compaa, ma araversata da mille incrinature contenute con interventi un po’ disperati. Per anni mi sono chiesta cosa volesse la gente da me, e perché quel capannello continuo di giornalisti mi sooponesse sempre domande goffe, pretenziose, capziose. Volevano meermi in difficoltà? Volevano sapere cose che nemmeno io sapevo, o farmi pensare a questioni cui nemmeno io pensavo. Un episodio sgradevole successe nel 2007. Un giornalista buò lì: «Dedichi questa vioria al grande Pavaroi?». A me sembrò una domanda assurda. Mi dissi: cosa c’entra, adesso, Pavaroi? E risposi: «No, perché?». Perché Pavaroi era morto il giorno prima. Il fao è che io ero a un Mondiale, iperconcentrata, e per di più era un periodo complicato, avevo mille cose per la testa. La scia di polemiche fu inevitabile, ma di cosa si polemizzava? Del fao che, a causa dei miei impegni, non avevo nemmeno il tempo di venire a sapere cosa stava accadendo nel mondo? Perché quel continuo carosello di parole inutili? Tuo mi sembrava – e a trai, ancora, mi sembra – assurdo. Alla fine sono queste le cose che vogliono sapere? Queste le discussioni che vogliono aizzare? Una volta, nel 2009, mia madre, che mi rincorreva affinché mi sooponessi alle interviste di rito, mi convinse a parlare con un giornalista. Mi offrii alle sue domande come a una visita dal dentista. La prima fu: «Vanessa, raccontami un po’. Quando hai cominciato a fare atletica?». Ho sbuffato e ho deo: «Mamma, andiamo». XXIII

L’ho imparato in anni di sport: gli avversari sono importantissimi. Gareggi contro di loro, le regole del gioco sono queste. Li conosci. Li osservi. Li studi. Alcuni li ammiri, altri addiriura li stimi. Ti spronano indireamente a superarti. In un certo senso, sono una parte di te e dei tuoi risultati. Si scrivono pagine insieme, la storia ricorderà te e loro. Cosa sarebbe, un atleta, senza un avversario? Ne ho incontrati di tui i tipi, durante la mia vita sportiva. Le americane, per esempio. Tue fortissime. Quando arrivano, sparecchiano il tavolo e conquistano sempre qualcosa. Hanno solo un problema: durano pochissimo. Scontano uno spietatissimo ricambio, fanno il boom, poi arrivederci, le più giovani premono e scalzano le meno giovani, e sono sempre più forti. In America, quando vinci, sei un fenomeno. Ti lanci in lunghi ed entusiasmanti tour, accumuli un sacco di soldi, ma appena cerchi di riprenderti il tuo posto – il posto che ti sei guadagnato coi risultati – non ce la fai mai. Nastia Liukin, per esempio: dopo aver vinto le Olimpiadi a Pechino nel 2008, non ce l’ha faa a rientrare nel 2012. Era bravissima. Non un mostro in assoluto, forse non aveva il fisico ideale per la ginnastica artistica, ma aveva fulgide qualità complessive. Diciamo che si è presentata al massimo, al momento giusto, nella condizione giusta, con la nazione giusta. Ha fao tuo come doveva farlo e le è venuto tuo perfeamente. Era bellissima da vedere, longilinea, elegante in ogni elemento, molto diversa dalle altre americane, che quasi sempre affidano la loro prestazione alla fionda muscolare della potenza. Volteggio e corpo libero per lei non p gg p p erano facili, dunque puntava sulla perfezione. Mi piaceva vederla all’opera soprauo alle parallele, era dotata di un’iperestensione incredibile e dava delle frustate grazie alle quali, quando ruotava, sembrava volare via senza peso. I suoi esercizi erano lunghissimi e alla fine era distrua, arrivava sempre morta all’uscita delle parallele. Mi spiace che non abbia mai vinto le Olimpiadi in questo arezzo. Faceva anche una bella trave, ma al corpo libero e al volteggio non affrontava particolari complessità. In ogni caso, aveva grande autorevolezza, eseguiva tuo perfeamente, e perfeamente vuol dire perfeamente. Un’altra atleta formidabile è stata Sandra Izbaşa. Mi è sempre piaciuta molto come ginnasta, e tra l’altro ha anche la mia età. E non dimentico Steliana Nistor, rumena, con la quale teniamo viva una comunicazione ancora adesso. Da giovane era fortissima, poi ha avuto molti problemi fisici. Quando io sono arrivata seconda ad Amsterdam da junior, quegli Europei li aveva vinti lei. Alla fine ha avuto guai alla schiena, mi pare, è cresciuta e ha fao fatica. Poi, dopo Pechino, ha smesso. Adesso allena. Per restare in Romania, anche Cătălina Ponor ha dato grandissima prova di sé. Quando partecipò alle Olimpiadi di Atene, io ero piccola. Poi smise per un po’ e saltò anche Pechino. La sua carriera è stata travagliata, ha smesso e ricominciato più volte ma è sempre stata brava. Per finire col mio tasto dolente, voglio ribadirlo chiaro e tondo: Alijà Mustafina è stata un’oima ginnasta, ma secondo me, da Londra a oggi, non è più quella che era prima. Ma aggiungo: salvo sorprese future.

Grazie alla posizione dell’all-around di Nanning sono rientrata nel giro delle Coppe del Mondo. Ho preso parte a quelle di Stoccarda e di Glasgow. Mi alleno tui i giorni, spesso faccio doppio allenamento. Quindi, quando il mio corpo si affatica o protesta, le terapie. Tuo normale, tuo come sempre – lui parla, io ascolto. Sono molto felice, in quest’ultimo periodo, di aver ulteriormente rinsaldato i rapporti con la mia amica Silvia, una persona a cui tengo molto. È di Rapallo e studia Legge, l’ho conosciuta agli Europei di Bruxelles, poco prima di Londra, ma è stato dopo Anversa che i nostri rapporti hanno preso maggior consistenza. Dopo gli Europei di Sofia ci siamo fermate in Bulgaria insieme per qualche giorno. Me la presentò Giulia, una nostra amica comune, durante un bancheo post gara, e da lì abbiamo cominciato a sentirci e a frequentarci, alle gare la vedevo sempre. Lei faceva ginnastica da ragazzina, poi a sedici anni ha smesso, ma non ha mai smesso di seguirla, e anzi, è infinitamente più documentata di me. Conosce ogni aspeo di questo sport, scaa foto, scrive articoli, se ne interessa davvero. Tanta è la sua carica, che ha fao appassionare perfino sua madre. Sono addiriura venute a Nanning. Recentemente abbiamo siglato la nostra amicizia comprandoci un braccialeo al centro del quale c’è una pallina, che per noi rappresenta il mondo. Un modo per dirci: ovunque sei, io ci sarò sempre. Non dimenticherò mai il fao che, dopo che è finita la mia relazione con Andrea, è la persona che mi è stata più vicina. Tengo molto al rapporto con lei, ed è una delle poche persone per cui, in caso di bisogno, schizzerei fuori dal leo in qualunque momento. In generale, comunque, nonostante ormai io viva sola da un bel po’, anche i legami familiari restano molto importanti per me. Una delle storie più divertenti che riguardano la mia famiglia risale al 2005 durante i Giochi del Mediterraneo in Spagna. In Bulgaria c’è un’abitudine: quando ci sono eventi sportivi di qualsiasi genere, si comprano birra e cibo, ci si ritrova e li si guarda in compagnia alla tv. Mia madre ha un cugino che si chiama Slavi. Abita in Spagna, e in vista della manifestazione ad Almería aveva radunato un po’ di amici davanti al teleschermo. Me lo rivedo: è lì che guarda. Commenta, applaude, scherza. g pp A un certo punto, mentre faccio corpo libero, ha l’illuminazione: «Ma questa... questa...». E gli altri: «Questa è brava!». «No, no.» «Come no? Guarda bene. Non capisci niente.» «Questa è... mia nipote!» «Tua nipote? Ma dai. Smeila.» «Giuro. È mia nipote.» «Bravo, bravissimo. Adesso però sdraiati qui. Hai bevuto troppo.» Nessuno gli voleva credere. «Toglietegli la boiglia!» Si sono fidati del fao che fosse sobrio solo quando hanno visto che effeivamente non aveva bevuto nemmeno un sorso. E soprauo quando, al momento della proclamazione, si è sciolto in pianto. A quella manifestazione che mi ha portato così tanta fortuna è legato anche un altro aneddoto di quelli che, se raccontati, sembrano inventati ad arte. Invece è tuo vero, ed è più che altro la misura reale della notorietà che avevo raggiunto già all’epoca. Poco dopo i Giochi del Mediterraneo, i miei genitori e i miei fratelli hanno trascorso un periodo in Bulgaria. Io, come al solito, ero rimasta in Italia ad allenarmi. Un giorno, con alcuni ragazzi che aveva conosciuto, Ivan si era messo a fare qualche verticale, a sciorinare i suoi saltelli, insomma, riproduceva come poteva quel che aveva visto mille volte fare a me. Al che, un bambino appartenente a quell’improvvisata cricca, gli aveva deo: «Chi ti credi di essere? Vanessa Ferrari?». E lui: «È mia sorella». I bambini si guardarono, lo derisero, e fu unanimemente preso per pazzo. È un racconto, questo, che ho sempre apprezzato molto, non solo perché ha una sua indubbia comicità, ma anche perché sono sempre molto orgogliosa del fao che il tifo per me non venga solo dall’Italia. Tuavia – e mi permeo di fare questa osservazione pensando ai successi degli altri, più che ai miei –, soprauo in campo extracalcistico, credo che il nostro Paese dovrebbe amare molto di più i suoi atleti. Potrebbe tutelarli meglio e consentire ai migliori di vivere di sport. Recentemente è accaduto un fao che mi ha fao ridere e rifleere in questo senso. Una sera, soo casa, dove solitamente parcheggio l’auto, ho sentito un’anomala confusione. Mi sono affacciata e ho visto due vigili che, in tono civilissimo, discutevano con due persone. Una di loro mi ha fao cenno di scendere in strada. Mentre mi avvicinavo, i due – sono moldavi, miei vicini – mi indicavano e, rivolgendosi ai vigili, dicevano: «Vedete? Ma non fate niente? Io non capisco». Io capivo anche meno e non avevo la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Mi sono presentata ai vigili. Nel fraempo, il tizio più accalorato si è messo a cingueare lodi in mia difesa. «Lei è un valore per tui voi, per l’Italia. Perché la traate così?» E il vigile: «Guardi, adesso risolviamo tuo. Qui la questione è un’altra. Non si traa di essere o non essere un val...». «È un’altra? Quale? Dica, allora.» «Il divieto di sosta. Lei capisce che se io...» «Io capisco. Voi non capite. Non potete darle la multa! Lei è l’immagine del vostro Paese, perché non ci tenete?» Mi sono sentita disorientata, io non cerco mai scorciatoie e non le avrei cercate nemmeno in quel caso; in altre parole, non volevo sorarmi a una multa, se fossi stata in torto. Ma a un certo punto non si capiva più nulla, i vigili erano imbarazzati e i miei due vicini moldavi, seppure io li invitassi a lasciar perdere, proclamavano ai quaro venti la mia presunta intoccabilità e, in generale, l’assurdità di una contravvenzione a coloro che, come me, «fanno tanto per l’immagine del Paese». Alla fine i vigili mi hanno ugualmente sanzionato. Poi hanno discusso ancora a lungo coi due buffi personaggi, convenendo su alcuni punti del discorso. Quindi si sono allontanati perplessi. p p Io sono rimasta lì, e uno dei due moldavi si diceva ancora strabiliato. Scuoteva la testa. Mi guardava e diceva: «Perché traate male quelli bravi? Io l’Italia non la capirò mai».

Pensando alla propria vita, tui si fanno la stessa fatidica domanda: «Era destino?». Chi non sa. Chi tira in ballo le coincidenze. Chi scova prove del nove a tuo spiano e dice che ogni cosa era prevista. Ma il destino è un ubriaco che fa discorsi seri: difficile capire se ragioni, con quali criteri decida e cosa tenga in serbo per ognuno di noi. Quando mi sono aspeata qualcosa, spesso è arrivato il contrario. A volte mi è anche successo di beneficiare di qualche buon colpo, per carità, e che le cose si sistemassero meglio di quanto pensassi. Ma in generale, la sorte recapita leere, e mentre le apri, in quell’esao momento, non puoi mai sapere cosa ti toccherà leggere. Recentemente ho leo che il primo a introdurre la ginnastica nelle scuole delle famiglie benestanti del Lombardo-Veneto, fu nientemeno che Girolamo Bagaa, nel 1807, nel suo istituto di Desenzano – la storia, a volte, è un po’ anche nella geografia? Non so rispondere a tue queste domande, e a dire il vero non mi sono mai posta seriamente il problema. Certo è che, in questa occasione, dovendo ripercorrere a ritroso la mia vita, noto che a volte tuo sembrava andasse come poi è andato, perché era inevitabile che non andasse in un altro modo. Ho cercato di capire e di essere leale con me stessa, e forse a posteriori è più facile. Giunta alla fine di questa lunga confessione, mi rendo conto che il mio rapporto col passato è pieno di lacune. Non conservo quasi nulla, solo le cose che reputo necessarie. Poi capita che, dopo qualche tempo, perfino quelle smeano di essere tali. Alcuni pass di certe gare importanti li ho conservati a lungo, altri li ho buati appena tornata a casa, senza baere ciglio. Anche sugli oggei che conservo per ricordo, ogni tanto cade la scure del presente. Mi dico: «Dopotuo, cosa me ne faccio?». E così buo via. p p Ma mi sono accorta di una cosa: che i ricordi cambiano con te. I ricordi, strano a dirsi, non stanno mai fermi. Di alcuni perdi i pezzi, mentre altri si imprimono nella memoria come nella cera calda. E poi chissà se le cose sono andate davvero come le ricordiamo dopo che la memoria ha levigato, rielaborato e deo la sua, o sono tua un’altra storia. I ricordi sono una bugia con un fondo di verità? Per far sì che qualcosa resti per quello che è, inequivocabilmente, servono le fotografie, le immagini. Il 28 gennaio è stato il compleanno del mio allenatore Enrico, e io gli ho regalato un portafotografie diviso in tre. Nella prima nicchia c’è la foto di quando lo abbraccio poco dopo aver vinto il Mondiale ad Århus. Nella seconda, di quando ad Anversa ho preso l’argento al corpo libero. La terza è vuota. O meglio, ospita un biglieo. Un biglieo che è la mia ultima dichiarazione di intenti sportivi. Il testo dice: «Qui meeremo l’ultimo traguardo raggiunto insieme». Rio de Janeiro: ho chiesto alle mie forze un ultimo sacrificio, e al mio orgoglio un ultimo scao. Farò del mio meglio, come sempre. In ogni singola fatica e in ogni allenamento meerò tua me stessa. Quindi, alla fine, farò le somme e le sorazioni. Poi risalirò il pozzo, sorriderò in ogni caso, e in ogni caso comincerò a camminare, leggera come non sono mai stata. Inizierà la mia nuova storia. Alla fine dell’arcobaleno, il tesoro più prezioso: me stessa. Questo ebook contiene materiale proteo da copyright e non può essere copiato, riprodoo, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni eleroniche sul regime dei dirii costituisce una violazione dei dirii dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggeo di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scrio dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it

Effeo farfalla di Vanessa Ferrari © 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano Ebook ISBN 9788852064548

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: GAIA STELLA DESANGUINE «L’AUTRICE» || ELABORAZIONE DA FOTO © CLIFFORD WHITE/CORBIS/CONTRASTO