Gestalt Mental Training nel Tiro a Volo

L’ applicazione dei principi della Psicoterapia Gestalt nell’allenamento mentale con un atleta del tiro a volo

A cura di Emiliano Bernardi Istituto Gestalt Firenze sede di Roma Anni Accademici 2009 – 2012

Capitolo 1 Storia e discipline del tiro a volo

Le origini

Nella seconda metà dell’ottocento, gli statunitensi attribuirono un impiego diverso alle palle di vetro ornamento degli abeti natalizi ideando un gioco di abilità che consisteva nel colpire queste palle che venivano lanciate in aria da apposite macchine chiamate balltraps. Questo "passatempo" divenne in breve un esercizio popolarissimo in America, mentre in Europa non trovò molto entusiasmo in quanto considerato divertente, ma poco impegnativo. Diversamente fu accolta nel 1880 la proposta, sempre di marca statunitense, di un bersaglio mobile in argilla a forma di disco. Il bersaglio si diffuse molto nei paesi anglosassoni con il nome di clay-bird (uccello d'argilla), quindi come pigeon d'argile (piccione d'argilla) in Francia ed infine in Italia e Spagna dove il dischetto fu ribattezzato piattello. L'effetto Olimpiadi (il tiro a piattello specialità Trap o Fossa Universale fu ammesso come sport facoltativo ai Giochi di Parigi del 1900) giovò senz'altro alla promozione internazionale della disciplina. Nel 1926 un appassionato industriale del settore, Ettore Stacchini, fondò la Federazione Italiana Tiro al Piccione d'Argilla (FITPA) che riuscì a riunire 30 società di tutte le regioni italiane. L'anno successivo la FITPA si trasformò in FITAV (Federazione Italiana Tiro a Volo) ed entrò a far parte del CONI con 151 società e 916 tiratori, sotto la guida del suo fondatore che ne divenne il primo Presidente. La diffusione non fu immediata, ed il problema dell'impiantistica rallentò l'espandersi della disciplina fino agli anni '30 quando Stacchini decise di far organizzare a Roma sia i Campionati Mondiali che gli Europei dell'unica specialità di tiro al piattello conosciuta, la Fossa Olimpica. Nella successiva edizione italiana degli Europei, nel 1940 sempre a Roma, l'Italia ottenne la prima affermazione internazionale con Giuseppe Melini, ma si dovettero attendere altri 10 anni per il primo titolo mondiale, la vittoria di Carlo Sala a Madrid nel 1950 con il punteggio record di 296/300. La prima spedizione

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italiana alle Olimpiadi, nel 1952, ad Helsinki, non fu molto fortunata, infatti, Galliano Rossini giunse settimo e Italo Bellini finì ottavo. Ma l'appuntamento con la vittoria Olimpica fu solo rimandato; nel 1956 a Melbourne, ancora Rossini centrò l'oro Olimpico, mentre Sandro Ciceri si aggiudicò il bronzo e quattro anni più tardi, a Roma, sempre Rossini sfiorò un clamoroso bis ottenendo l'argento e nel 1964, alle Olimpiadi di Tokio Ennio Mattarelli vinse l'oro. L'altra specialità, lo skeet, fece il suo esordio alle Olimpiadi nel 1968, e l'argento di Romano Garagnani lasciò ben sperare per il futuro, ma l'esplosione in campo internazionale avvenne nel 1978 con il titolo mondiale di Luciano Brunetti e di Bianca Rose Hansberg, ed il titolo europeo nuovamente di Romano Garagnani. Nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco di Baviera fu ancora protagonista la Fossa Olimpica con un altra medaglia d'oro che conquistò Angelo Scalzone, seguito al terzo posto da Silvano Basagni e nel 1976 a Montreal Ubaldesco Baldi portò a casa una medaglia di bronzo. Il 1980, alle Olimpiadi di Mosca, fu l'anno che incoronò per la prima volta campione olimpico, sempre nella Fossa Olimpica, Luciano Giovannetti che si riconfermò nel 1984 a Los Angeles e fu il primo a vincere due Olimpiadi consecutive. Sempre a Los Angeles Luca Scribani Rossi si aggiudicò il bronzo nello Skeet. Nel 1989 fece la sua prima comparsa in ambito internazionale l'attuale terza disciplina Olimpica, il Double Trap. Al termine dei Campionati Mondiali di Fossa Olimpica e Skeet di Montecatini Terme, la FITAV decise di organizzare, con il benestare dell'Unione Internazionale di Tiro, una competizione open di Double Trap. Alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992 l'Italia del Trio a Volo vinse due medaglie di bronzo, una nella Fossa Olimpica con Marco Venturini ed una nello Skeet con Bruno Rossetti. Grazie all’ufficializzazione Olimpica della nuova specialità (dicembre 1991), ai giochi di 1996 le gare di Tiro a Volo passarono da due a quattro (Trap e Skeet maschile, Double Trap maschile e femminile). E l’edizione del Centenario rilevò, peraltro, in assoluto l’Olimpiade più trionfale per il tiravolismo italiano: gli azzurri incamerarono infatti tre medaglie. Ennio Falco vinse l’oro nello Skeet e sul podio con il capuano salì anche Andrea Benelli, terzo classificato. Il quarantaseienne Albano Pera catturò invece la medaglia d’argento proprio nel Double Trap.

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Nell' Olimpiade di 2000 Deborah Gelisio ha vinto l'argento nel Double Trap e Giovanni Pellielo il bronzo nella Fossa Olimpica. La storia del tiro a volo è quindi ricca di successi: in dodici edizioni dei giochi Olimpici il Tiro a Volo Italiano ha conquistato 6 medaglie d'oro, quattro d'argento e otto di bronzo, e numerosissimi tra Campionati del Mondo, Coppe del Mondo e Campionati Europei. L'ultima grande affermazione è avvenuta nel 2003 con la vittoria della Coppa del Mondo da Parte di Giovanni Pellielo nella Fossa Olimpica e di Ennio Falco nello Skeet. Nella stessa competizione Massimiliano Mola si è piazzato al terzo posto nella Fossa Olimpica. Nel 2004 ad Atene gli azzurri bissarono il successo del 2000 conquistando altre due medaglie. Il vercellese Giovanni Pellielo migliorò il risultato di Sydney conquistando un argento nella Fossa Olimpica ed il fiorentino Andrea Benelli arrivò all'oro e al titolo di Campione Olimpico nello Skeet Maschile. A Pechino 2008, hanno segnato un nuovo record per il Tiro a Volo azzurro. Il risultato quantitativo ha eguagliato quello dell''edizione del 1996 ma lo ha migliorato qualitativamente. L'oro della friulana Chiara Cainero nello Skeet Femminile, prima italiana a conquistare il titolo olimpico, e gli argenti conquistati da Giovanni Pellielo nella Fossa Olimpica Maschile e dal nettunense Francesco D'Aniello nel Double Trap hanno pareggiato il conto aperto con l'oriente nei Giochi di Seul 1988, unica edizione in cui gli azzurri tornarono senza medaglie. La storia del tiro a volo è quindi ricca di successi, in quattordici edizioni dei giochi Olimpici il Tiro a Volo Italiano ha conquistato 8 medaglie d'oro, sette d'argento e otto di bronzo, e numerosissimi tra Campionati del Mondo, Coppe del Mondo e Campionati Europei. A Londra 2012 abbiamo assistito al trionfo di (20 anni) e l’argento di Fabbrizi che tengono alto l’onore di questo sport, che si conferma tra i più vincenti del mondo. Intervista a J. Rossi (fonte: gazzetta.it) "Avevo preparato questa gara nei minimi particolari, sia dal punto di vista tecnico che psicologico, non ho lasciato nulla al caso - è stato il commento di Jessica subito dopo la gara - Non ho avuto emozioni, questo giorno lo avevo già vissuto tante volte

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proprio così, dopo l'unico errore mi è venuto da sorridere. Dedico la vittoria a tutti i terremotati dell'Emilia".

Specializzazioni del tiro a volo

Fossa olimpica

Nella specialità della "Fossa Olimpica", i tiratori sparano su una linea di tiro rettilinea posta parallelamente a quindici metri dietro la fossa in cui si trovano le macchine lanciapiattelli, alternandosi su cinque pedane diverse. Il piattello viene lanciato automaticamente appena arriva l'ordine del tiratore, che attende con il fucile imbracciato e caricato con due colpi. Ad ognuna delle cinque pedane corrispondono tre macchine lancia-piattelli (per un totale di quindici) ed una roulette automatica stabilisce la successione dei lanci. Questo elemento rappresenta la difficoltà per il tiratore che, pur conoscendo il tempo di uscita del piattello, deve intercettarne la direzione che può variare, sul piano orizzontale, di 90° e la sua altezza, a dieci metri di distanza dalla fossa, da un metro e mezzo fino ai tre metri e mezzo.

Skeet

Questa specialità, la più recente fra quelle olimpiche, ha origine da quella chiamata "Around the clock", di provenienza americana, in cui il tiratore sparava al bersaglio dalle dodici posizioni corrispondenti alle ore sul quadrante di un orologio. Oggi il percorso si è modificato; si spara, infatti, da otto pedane, situate lungo un semicerchio dal raggio di 19,20 metri, alle cui estremità sono collocate, in due cabine, le macchine lanciapiattelli, una situatata a sinistra, detta pull, ed una in basso a destra, detta mark. Il tiratore aspetta l'uscita del piattello con l'arma non ancora imbracciata, in posizione di attesa, ed ha a disposizione un solo colpo per ogni piattello (due in totale). In questo caso il tiratore conosce altezza e direzione dei piattelli, che vengono lanciati dalle macchine sempre nello stesso modo; l'elemento di difficoltà è rappresentato dalla 5

diversa posizione del tiratore rispetto alle macchine lanciapiattelli e dal tempo del lancio, che può variare da zero a tre secondi dalla chiamata del tiratore.

Double Trap

Ultima nata nella famiglia del piattello, questa specialità prevede che i tiratori, alternandosi su cinque pedane, intercettino due piattelli lanciati simultaneamente con traiettoria fissa. Il tiratore attende in posizione non predeterminata con due colpi in canna che devono essere usati per colpire i due piattelli. Anche in questo tipo di specialità il piattello si allontana dal tiratore che conosce, per ogni pedana di tiro, quale sarà la coppia di piattelli e la loro traiettoria. Le macchine lanciapiattelli sono tre per ogni campo, ed i loro abbinamenti di lancio sono predeterminati (1-2 oppure 1-3 oppure 2-3) a seconda del programma scelto. I lanci vengono prestabiliti in un raggio di trenta gradi sul piano orizzontale e la loro altezza varia, ad una distanza di dieci metri dalla fossa, da tre metri a tre metri e mezzo. ( fonte: fitav.it)

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Capitolo 2 Le competenze psicologiche dell’atleta di tiro a volo

Il tiro a volo è uno sport dove l’errore è fatale e si entra in finale o si sale sul podio per un piattello in più o in meno. Anche un semplice battito di ciglia imprevisto, un pensiero che sfugge al controllo della mente, l’emozione di un momento, possono rovinare una prestazione che sembrava perfetta. I tiratori sono consapevoli di tutto questo che è parte della loro abituale vita sportiva. Pensiamo allo stato d’animo del campione del mondo di tiro a volo che alle olimpiadi di Sydney ha sbagliato il primo piattello, sapendo così di vedersi preclusa la medaglia d’oro e questo una manciata di secondi dopo l’inizio della gara e dovendo ancora tirare 124 piattelli. (Cei, 2007). In questo capitolo si susseguono le principali abilità e competenze che possiede un atleta professionista di questo sport. L’attività di ricerca in psicologia dello sport approfondisce questi concetti e li sperimenta da anni, integrando teorie diverse, alla ricerca del modo migliore di comprenderli e di “allenarli”. Per comprendere quali siano le competenze di un atleta di livello assoluto possiamo prendere spunto dagli studi di Gould (Gould et al., 2002). Egli identifica alcune abilità fondamentali:

1. Elevata motivazione e impegno

La motivazione può essere definita come un aspetto dell’individuo che inizia, dirige, sostiene l’azione umana verso un obiettivo ed è “ una variabile determinante del comportamento insieme all’abilità delle conoscenze e dei vincoli situazionali” (Borgognoni L., 2002). Nelle fasi iniziali della psicologia dello sport, le ricerche sulle motivazioni, sia con giovani che con atleti adulti, venivano spesso effettuate chiedendo semplicemente ai

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soggetti quali fossero i motivi che li spingevano a praticare una specifica attività sportiva e che sostenevano nel tempo questo loro impegno. La risposta più frequente riguardava il divertimento, assieme al desiderio di formare nuove amicizie, conseguire successo, ottenere stima ed approvazione da parte degli altri, sentirsi valorizzati, stabilire soddisfacenti relazioni sociali, apprendere abilità e migliorare lo stato di forma. Si è però compreso successivamente che le ragioni che le persone dichiarano in modo esplicito sono spiegazioni di superficie, alla base delle quali vi sono costrutti più profondi, e a volte meno consapevoli, come il bisogno di realizzazione personale (dimostrare le proprie capacità e la propria competenza) e di approvazione da parte di persone significative (genitori, allenatori ed amici). Inoltre, entrano in gioco anche le capacità individuali di affrontare le situazioni competitive e gestire lo stress, che è in funzione sia dell’importanza oggettiva di una gara, sia della valutazione personale: ad esempio, anche una gara di scarso rilievo può rivelarsi ansiogena se l’allenatore o i genitori manifestano aspettative eccessivamente elevate nei confronti del ragazzo.(L. Bortoli C. Robazza, 2010). Il livello di motivazione di un atleta è determinato dall’interazione fra fattori individuali, quali la personalità, i bisogni, gli interessi, le sue caratteristiche fisiche e le sue capacità tecniche e fattori situazionali, quali le caratteristiche dell’allenatore, del proprio ambiente familiare e sportivo (Cei A. 1987). Vi sono numerosissimi studi sulla motivazione degli atleti, come ad esempio la teoria dell’autodeterminazione di Decy e Ryan (Decy e Ryanl, 1885), in cui si parla di motivazione Intrinseca ed Estrinseca,secondo cui le conseguenze che derivano ad una persona dalla messa in atto di un comportamento dipendono (almeno in parte) dal tipo di motivazioni che hanno portato quella persona verso il comportamento. Quindi se la motivazione è intrinseca dovrebbero aumentare le probabilità che gli associati positivi del comportamento si verifichino (p.e. divertimento, etica, piacere nello svolgere l’attività, esperienza di flusso); invece se la motivazione è estrinseca aumentano le emozioni e i comportamenti negativi associati alla pratica sportiva (utilizzo di sostanze, senso di costrizione, disturbi alimentari, esercizio compulsivo, ansia, paura, ecc. ). Un’altra teoria molto interessante è l’Achievement goal theory sviluppata per studiare la motivazione nel contesto scolastico da Nicholls (1984;1989; Nicholls et al.,1990), Dweck (1986), Ames (1984; 1992) e Mahr (1984;1991; 1993). Successivamente è stata

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ampiamente utilizzata per analizzare la motivazione in ambito sportivo (Duda, 1999) e in contesti di educazione fisica. Secondo l’achievement Goal Theory le prospettive che le persone adottano nei confronti di uno scopo in un dato momento sono influenzate da tre fattori:

• Le tendenze disposizionali verso il compito o al sè. • Le percezioni degli obiettivi salienti nella situazione (I.e. Motivational climate) • Il livello di sviluppo cognitivo

Nel caso di G. la motivazione principale è la voglia di divertirsi e migliorare, unita alla passione per le armi da fuoco di cui è grande esperto.

2.Livello elevato di fiducia

La Psicologia dello sport di stampo statunitense si è occupata moltissimo della “self confidence”, che può essere definita il grado di certezza di possedere le abilità necessarie per avere successo nello sport che si pratica. Si possono identificare 8 variabili che la sostengono:

• padroneggiare il tiro • dimostrare di saperlo fare • essere preparati fisicamente e mentalmente • percepirsi in forma • essere sostenuti dal proprio ambiente sociale • sentirsi guidato dall’allenatore • Sentirsi a posto in ogni ambiente • accettare positivamente quanto accade in gara

Nel caso di G. La sua autovalutazione di queste 8 variabili è stata molto alta nel sentirsi guidato dall’allenatore e padroneggiare il tiro, invece è stata più bassa nell’accettare positivamente quanto accade in gara e sentirsi apposto in ogni ambiente.

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3.Identificazione degli obiettivi

Darsi degli obiettivi è fondamentale in un percorso di miglioramento e lo psicologo ha il compito di aiutare l’atleta, in accordo con l’allenatore, a scegliere gli obiettivi più adatti. La prima distinzione da fare in questo caso è tra obiettivi di risultato ed obiettivi di prestazione, inoltre è importante scandire nel tempo questi obiettivi suddividendoli a breve, medio e lungo termine. Le mete da raggiungere sono molte, e si possono suddividere in tecniche, atletiche e psicologiche; è importante che l’atleta sia consapevole di cosa sta allenando e di come lo sta facendo. Un’ altro tipo di distinzione è quella che riguarda gli obiettivi in allenamento e gli obiettivi in gara, di seguito riporto un esempio su 4 punti fondamentali :

Focus sull’obiettivo in allenamento: la focalizzazione è centrata sul miglioramento delle abilità in gara: la focalizzazione è centrata nel fornire una prestazione ottimale o nel superare gli avversari.

Abilità Psicologiche

-in allenamento: gli obiettivi riguardano il miglioramento di abilità relative alla dimensione mentale. Riguardano abilità come la concentrazione e il suo recupero dopo un errore, il sapersi mantenere motivati in qualsiasi momento dell’allenamento, o la costruzione di routine di esercizi di ripetizione mentale. -in gara: le abilità psicologiche riguardando la gestione ottimale dello stress agonistico e il sentirsi fiduciosi di saper fronteggiare la situazione agonistica.

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Tipi di obiettivi scelti

-in allenamento, gli obiettivi scelti devono essere orientati nello sviluppo di abilità complesse: nel tiro a volo riguarderanno, ad esempio, l’imbracciare il fucile, il tempo di fuoco e la qualità del tiro che deve essere fluido e coordinato. -in gara: gli obiettivi si riferiscono principalmente alla gestione dello stress e alla abilità di recuperare energia psicologica e fisica tra le serie.

Difficoltà dell’obiettivo

-in allenamento: bisogna che l’atleta si alleni a mettersi in situazioni il più possibile analoghe a quelle della gara, allo scopo di potenziare la sua abilità a fornire prestazioni positive in condizione di stress. -in gara: gli obiettivi basati sul risultato che si vorrebbe ottenere devono essere adeguati al livello di competenza e di forma dell’ atleta. Per tutti vale il sapere mantenere costante la qualità e l’efficacia della propria fucilata (Cei, 2007).

Nel caso di G. per quanto riguarda gli obiettivi di risultato abbiamo concordato che l’obiettivo a breve termine ( circa 4 mesi ) sarebbe stato di sparare senza la benda qualificandosi per la Finale alla gara internazionale di Malta. Questo obiettivo è stato raggiunto, G si è qualificato per la finale ed ha ottenuto un risultato di 24/25 senza la benda. Per quanto riguarda l’obiettivo a medio termine ( 8 mesi) abbiamo concordato quello di vincere uno dei 3 Fitav ai quali avrebbe partecipato. Questo obiettivo non è stato raggiunto, in quanto questo periodo è coinciso con un periodo di calo di forma e forte stress, in cui inoltre si è accordato di prendersi 15 giorni di riposo dagli allenamenti e dalle gare. Infine, come obiettivo a lungo termine (12 mesi) abbiamo deciso quello di entrare nella categoria eccellenza. L’obiettivo è stato raggiunto: nel settembre 2012 G. ottiene un punteggio molto alto (118) che gli permette di entrare nella categoria Eccellenza.

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Per quanto riguarda gli obiettivi di prestazione il discorso è un po’ più complesso, in quanto entrano in gioco gli aspetti del proprio modo di agire, ad esempio un tiratore si allena per avere un movimento fluido e ben coordinato, oppure desidera mantenere lo stesso livello di concentrazione in tutta la serie. Sono obiettivi che non si riferiscono all’effetto dell’azione che comporta la rottura del piattello o lo zero, bensì riguardano la propria prestazione e il tiratore vi orienta l’attenzione per migliorarsi o per assicurarsi che sta agendo proprio nel modo corretto. In questo caso abbiamo scelto come obiettivi a breve termine di migliorare la gestione dello stress in gara e l’attenzione. Come obiettivi a medio termine il miglioramento dell’automatismo del gesto tecnico e la reazione mentale all’errore. Infine come obiettivi a lungo termine migliorare la self confidence, la tenacia e l’ottimismo.

5. Distrazioni ed eventi inattesi

Nel Tiro a Volo uno degli ostacoli principali sono le piccole distrazioni quali, ad esempio, il restare agganciati per qualche secondo di troppo sul pensiero di un piattello sbagliato, riducendo così la concentrazione su quello successivo, oppure distrazioni dell’ambiente esterno, agire in modo affrettato etc... Qui di seguito riporto un elenco delle distrazioni più frequenti che i tiratori incontrano durante gare e allenamenti:

• Goccia di sudore sugli occhiali, la pulisco ora o dopo? • Lì dietro dovrebbero fare più • Non sopporto di fare la bicicletta. • Sono stanco, silenzio!! • Pensavo uscisse un destro ... invece era centrale basso. • Quelli che sparano prima di me mi mettono fretta. • La seconda serie mi viene sempre peggio. • A quello che mi precede non partiranno mai i piattelli se chiama con quella voce. • C’è stato un cambio di luce durante la serie. • I piattelli escono in ritardo • Sto sparando proprio bene.

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• Ho sbagliato il primo piattello, parto subito in salita. • Non ho capito perché quel piattello non si è rotto. • Le macchine si sono rotte e quando la serie è ripresa non ho più trovato la giusta concentrazione. • C’ho il cuore in gola e non riesco a chiudermi. ( Cei, 2007 )

Nel caso di G. le distrazioni più frequenti hanno riguardato l’ambiente esterno come ad esempio un pubblico rumoroso o clima atmosferico avverso.

6. Elevata concentrazione

Nel tiro a volo mantenere alto il livello di concentrazione è fondamentale per ottenere una prestazione soddisfacente. Calcolare l’indice di concentrazione, e monitorarlo nel tempo è di grande aiuto per l’atleta. Mantenere costante il tempo di preparazione all’interno dei 10 secondi previsti dal regolamento permette all’atleta di automatizzare il gesto tecnico non solo nei movimenti ma anche nella tempistica. L’indice di concentrazione si può anche calcolare tra tempo intercorso fra chiamata e fucilata, quet’ultimo è molto più complesso da osservare e cronometrare in quanto si aggira sui 60 centesimi di secondo circa.

Nel caso di G. riporto un esercizio che è stato utilizzato frequentemente durante il training

 Il tiratore fermo e senza avere l’arma è in pedana e si concentra per 10 secondi sul punto di uscita del piattello. Al termine di questo periodo si muove distogliendo lo sguardo da quel punto per circa 15 secondi.  In seguito si rimette in pedana e ripete l’esercizio.  Può effettuare 10 ripetizioni di questo tipo. In totale trascorrerà circa 5 minuti.

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7. Regolazione dell’attivazione

La maggior parte degli allenatori e degli atleti è d’accordo nel ritenere che il grado di competenza dell’atleta nel saper autoregolare il proprio livello di attivazione è uno dei fattori decisivi della prestazione. Infatti, ci sono situazioni in cui gli atleti sono attivati in modo eccessivo e devono servirsi di strategie per la riduzione di questi livelli. Mentre vi sono situazioni opposte, in cui il grado di attivazione è troppo basso e devono essere utilizzate strategie che la incrementino sino ad un livello ottimale. Molte strategie di attivazione o di disattivazione sono state utilizzate da allenatori, atleti e psicologi dello sport. Alcune di queste sono tecniche somatiche, come il rilassamento neuromuscolare progressivo e il controllo del respiro, altre invece sono tecniche cognitive, come gli esercizi di ripetizione mentale o il dialogo interno. (Cei, A., 1998, )

Nel caso di G. sono state utilizzate maggiormente strategie somatiche nella “fase di incubazione” e strategie cognitive nella “fase di fuoco”.

8. Visualizzazioni

"Se desiderate compiere qualcosa nella realtà, innanzitutto visualizzate voi stessi mentre riuscite a compierla." (Arnold Lazarus, 1989)

La capacità di visualizzare richiede del tempo per essere assimilata e accresciuta nelle sue sfumature: le abilità principali sono l’immaginazione e la fantasia. Le visualizzazioni possono essere modificate e ripetute come gli esercizi motori, e possono essere amplificate utlizzando le percezioni dei 5 sensi. Una visualizzazione potrebbe riguardare una prestazione del passato che abbia dato un senso di benessere derivante da una vittoria, piazzamento, record personale, ecc., oppure l’atleta può visualizzare qualcuno che l’abbia incoraggiato in passato, dicendo parole o una frase che ha trasmesso sicurezza, voglia di stravincere. (Simone M., 2011).

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Nel caso di G. imparare a visualizzare è stato un processo abbastanza fluido: col passare delle settimane le immagini sono diventate sempre più vivide e sempre più ricche a livello sensoriale.

La gestione dello stress agonistico

Il termine stress deriva dal latino strictus (stretto, serrato, compresso); è stato utilizzato a lungo nell’ambito della metallurgia nella quale si era soliti “mettere sotto stress” le travi metalliche al fine di provarne l’effettiva resistenza. ( Rossati, 1999). E’ infatti quest’immagine di tensione e sovraccarico che si può ricondurre una prima definizione dello stress: esso indica “che qualcosa non funziona come dovrebbe nel nostro organismo, corpo e mente, e che ciò dipende da un sovraccarico di stimoli, da pressioni ambientali che comportano un’usura e uno scompenso psico-fisico” ( Oliverio A. 1989). Hans Selye, uno dei massimi esperti di questo argomento, avvicina il concetto di stress a quello di un’ altra materia, la fisica: “In fisica tensione e deformazione si producono ogni qualvolta una forza incontra una resistenza: una forza deforma il materiale che le oppone resistenza, causando così tensione e deformazione”. ( Selye, 1982)

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Identificare le cause dello stress è diventato prioritario nello sport agonistico, e cercare risposte a domande come: “cosa mi stressa?” oppure “cosa mi aiuta a gestire meglio il mio stress?” aiuta l’atleta a gestire le situazioni di pressione che il professionismo inevitabilmente crea. Fronteggiare lo stress significa volere agire volontariamente per modificare in positivo la condizione fisica e psicologica che si sta provando in quel dato momento, al fine di renderla adeguata a svolgere con efficacia la propria prestazione sportiva. (Hanin, 1993 )propone una teoria della relazione fra ansia e prestazione denominata IZOF (Individual Zone of Optimal Functioning): ogni atleta ha la sua zona ottimale di “ansia” e attivazione emotiva in cui riesce a realizzare prestazioni ottimali. In questo modello Hanin distingue: Individual: fa riferimento al fatto che la “Zona di Funzionamento Ottimale” è diversa per ogni atleta. Zone: si tratta di un campo di valori e non di un valore unico, superato il quale la prestazione decade. Optimal Functioning: la prestazione ottimale è garantita da uno stato “ottimale” caratterizzato da: condizioni interne “ottimali”, coinvolgimento “ottimale” dell’atleta, possibilità di accedere a e usare le risorse più adatte al compito.

Nel caso di G. durante una gara Fitav del maggio 2012 il pensiero ricorrente era “ se vinco probabilmente entrerò in categoria eccellenza”. Questa attenzione sul risultato ha elevato il carico di stress portando forte tensione, non permettendogli di poter sparare fluidamente e questo ha pregiudicato il suo risultato (media 22/25).

Il Timing

Il fattore tempo è molto importante nel tiro a volo, partendo dal regolamento: Il tiratore deve mettersi in posizione, chiudere il fucile e comandare lo sgancio del piattello entro 10 (dieci) secondi dopo che il tiratore precedente abbia sparato un piattello regolare ed il risultato sia acquisito, o dopo che il Direttore di Tiro abbia dato il segnale per iniziare o riprendere il tiro. (Art. T.4.1.6 del regolamento tecnico trap)

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Vi sono quindi 10 secondi per eseguire il gesto tecnico in pedana. In questi dieci secondi si decide se un piattello si romperà o no, in questi dieci secondi l’atleta deve trovare un movimento equilibrato affinché il gesto tecnico risulti fluido, ma anche ritmico, in quanto dovrà ripeterlo 25 volte di seguito, spostandosi di pedana in pedana. In questi 10 secondi l’atleta deve: -trovare una posizione eretta stabile nella pedana -chiamare il piattello nell’apposito microfono -mirare al piattello -sparare

NEL CASO DI G: Nella mia esperienza ho ritenuto di fondamentale importanza definire un “Indice di concentrazione” andando ad osservare e cronometrare:

1)Costanza del tempo di preparazione all’interno dei 10 secondi previsti dal regolamento

2)Costanza del tempo intercorso fra chiamata e fucilata (circa 60 centesimi di secondo)

Attraverso questa analisi ho potuto ottenere dei dati che mi sono serviti per conoscere i tempi di reazione che sono circa 8 secondi (dei 10 disponibili dalla chiamata del piattello allo sparo). Da un punto di vista gestaltico, ho potuto osservare la percezione del tempo da parte di G. ed attraverso numerose esperienze ed esercizi siamo riusciti a stabilizzare gli sbalzi in eccesso verso i 7 o i 9 secondi.

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La routine

La routine è un Insieme integrato e predeterminato di azioni e immagini mentali che l’atleta attiva in modo coerente prima della prestazione. Nelle ore precedenti l’avvio della competizione l’obiettivo degli atleti è di sviluppare una condizione psicologica ottimale giungendo ad avere un tipo di attenzione che, man mano che si avvicina il momento dell’inizio, è sempre più focalizzata solo sugli stimoli rilevanti per la prestazione. Maggiore è la concentrazione su questi aspetti, migliore sarà il controllo sull’ansia, che tende a spostare l’attenzione sulle preoccupazioni e sui pensieri negativi. Accanto al riscaldamento fisico, vi deve essere anche quello mentale, che consiste nell’attivare quell’insieme di pensieri, sensazioni ed emozioni che si sono sperimentate ogni qualvolta sono state fornite prestazioni eccellenti. E’ questo quel cocktail assolutamente personale che trasmette all’atleta la convinzione di sentirsi pronto ad affrontare la competizione. le routine consentono di:

�spostare l’attenzione da stimoli irrilevanti � evitare di pensare al risultato finale �stabilire una condizione di prontezza attraverso un adeguato livello di attivazione fisica e mentale

NEL CASO DI G: Durante la fase di incubazione abbiamo dedicato 2 incontri per delineare quella che poi è diventata la routine abituale di G. Insieme abbiamo delineato alcune azioni per rilassarsi ed isolarsi (ad esempio tornare in macchina dopo aver preso la pettorina) ma anche azioni per caricarsi ( come ascoltare un brano musicale durante il riscaldamento fisico) o sciacquare il viso prima di ogni serie.

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L’ imagery

L’immaginazione mentale non rappresenta un’alternativa all’allenamento fisico, bensì ne costituisce il necessario complemento per qualsiasi atleta che voglia migliorare la propria prestazione sino a raggiungere il proprio limite personale. Le caratteristiche principali che un lavoro con l’immaginazione richiede sono:

• Immagini accurate vivide positive e affermative • Informazioni cinestesiche, visive e uditive • Aspetti interni ed ambientali • Riguardano la ripetizione mentale della propria azione sportiva come se la si stesse eseguendo in quel momento

Visualizzare la serie sviluppa la competenza di mantenere la concentrazione sulla prestazione per un periodo di tempo piuttosto lungo come è richiesto dal tiro a volo (circa 25 minuti). Per comprendere meglio in che modo si utilizza questo modello riporto un esempio di esercizio di visualizzazione:

Visualizzare la serie sviluppa la competenza di mantenere la concentrazione sulla prestazione per un periodo di tempo piuttosto lungo come è richiesto dal tiro a volo (circa 25 minuti).

1. Il tiratore immagina di essere in pedana e ripeterà mentalmente la sequenza di tiro e il periodo di attesa del suo turno successivo come se stesse realmente in quella situazione. 2. Inizia l’esercizio immaginandosi la routine di tiro per non più di 10 secondi. Immagina esattamente ciò che fa, chiama nella sua mente e spara 3. Subito dopo trascorre un periodo di 40 secondi di attesa. Quando immagina che l’atleta che lo precede sta per sparare si prepara ad entrare in pedana.

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La correzione di errori attraverso il confronto con la rappresentazione mentale si basa in gran parte sul monitoraggio delle proprie prestazioni. Le persone migliorano e perfezionano la loro prestazione vedendo, ascoltando e sentendo ciò che fanno. L’aspetto più significativo che emerge dal confronto fra esercizio reale e esercizio simulato non è tanto che -come prevedibile- chi usa il primo ottiene prestazioni migliori rispetto al secondo, ma piuttosto che la visualizzazione può migliorare lo sviluppo e il funzionamento atletico.

Nel caso di G. per migliorare la capacità di visualizzazione si è proceduto per gradi, inizialmente visualizzando un unica pedana, in seguito tutte e 5 le pedane, successivamente si è visualizzato la serie intera. Nella prima fase di intervento le visualizzazioni si sono svolte sul lettino, in ambiente chiuso, mentre, nella seconda fase sul campo da tiro. Durante tutto il mio intervento ho modificato e aggiunto alcune variabili, ad esempio prima di una gara in un campo tipicamente con molto vento la visualizzazione è stata incentrata sulla presenza del vento stesso e del suo effetto sia corporeo che emotivo. La variabile che più ha creato difficoltà è stata la “tensione”: immaginare la tensione di una gara importante è risultato per G. molto faticoso.

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Rilassamento

Le tecniche di rilassamento sono uno dei pilastri dell’allenamento mentale, ne esistono moltissime, sono utilizzate con gli atleti da decenni con buoni risultati nella gestione dello stress pre-gara. Imparare a rilassarsi può aiutare l’atleta a dare il meglio di sé e a migliorare le proprie prestazioni al meglio delle sue oggettive possibilità: - Superamento dell'ANSIA nell'attesa pre-agonistica; - Compensazione dell’eventuale riduzione di sonno; - Riduzione/regolazione del ritmo respiratorio; - Maggiore scioltezza nelle prestazioni; - Diminuzione del rischio di contratture muscolari; - Aumento della fiducia nelle proprie possibilità/capacità.

NEL CASO DI G. ho utilizzato il metodo di Jacobson. Il rilassamento muscolare progressivo è una tecnica basata sull'alternanza contrazione/rilasciamento di alcuni gruppi muscolari. Fu ideata negli anni trenta dal medico e psicofisiologo statunitense Edmund Jacobson e illustrata nel 1959 in "How to relax and Have your baby". Nasce dalla volontà di sciogliere rapidamente stati di 21

tensione, di ansia o di stress ed è indicata anche per le persone che non riescono a praticare il rilassamento autogeno, la meditazione o altre tecniche.

L’autoefficacia personale

Un’ altra teoria molto utilizzata nello sport è quella dell’ Autoefficacia di Bandura, il quale la definisce “ la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Bandura identifica quattro fonti di informazioni principali per la costruzione dell'efficacia:

1. Le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace, che hanno la funzione di indicatori di capacità; 2. Le esperienze vicarie e di modellamento, che alterano le convinzioni di efficacia attraverso la trasmissione di competenze e il confronto con le prestazioni ottenute dalle altre persone; 3. La persuasione verbale ed altri tipi di influenza sociale, che infondono e costituiscono la possibilità di possedere competenze da sperimentare; 4. Gli stati fisiologici ed affettivi, in base ai quali le persone giudicano la loro forza, vulnerabilità, reattività al disfunzionamento. L’autoefficacia per un certo compito è resistente quando una persona resta convinta delle sue capacità anche di fronte a insuccessi e difficoltà di vario tipo; non lo è invece quando difficoltà e insuccessi portano a sentirsi meno capaci. L’autoefficacia si sviluppa attraverso esperienze di successo, inteso come riuscita in un certo compito (ad esempio, in allenamento mantenere punteggi di tiro costanti in una serie). La percezione di efficacia è legata anche all’apprendimento ed al perfezionamento tecnico, che garantiscono al tiratore la possibilità di eseguire gesti tecnici sempre più controllati. L’intervento didattico ha dunque un ruolo fondamentale. (L. Bortoli C. Robazza,2010)

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Il livello di autoefficacia viene definito dalla relazione fra i compiti o unità di abilità che sono necessari per esprimere una determinata azione e ciò che il soggetto ritiene di essere in grado di esprimere(Bandura, 1973)

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Capitolo 3

L’approccio Gestalt nell’allenamento mentale del tiro a volo

Il mental training nel tiro a volo, come spiegato nel precedente capitolo, riguarda una serie di competenze e abilità che se “allenate”, porteranno al miglioramento della prestazione. L’obiettivo di questo capitolo è tradurre queste abilità e competenze in concetti Gestalt ad indirizzo fenomenologico-esistenziale, così da ottenere un diverso punto di vista.

La concentrazione

In Gestalt la concentrazione è una tecnica terapeutica importante, al fine di ripristinare la sensazione. Tutti sanno che, per fare bene qualsiasi cosa, ci vuole concentrazione; la difficoltà sta nel sapere come concentrarsi, perchè le istruzioni in merito, in genere sono vaghe, generiche o moralistiche. Ciononostante, la concentrazione può essere un procedimento specifico che suppone il focalizzare l’attenzione su un unico senso e su un particolare oggetto di interesse. Quando si centra l’attenzione sulle sensazioni interne, possono aversi fenomeni di notevole importanza, paragonabili a quelli generati dall’ipnosi, dalle droghe, dalla deprivazione sensoriale, da episodi di eroismo e da altre circostanze che allontanano l’individuo dal suo abituale quadro di riferimento. Anche se di effetto meno poderoso ed infallibile rispetto ad alcune di queste circostanze, la concentrazione offre due vantaggi per l’intensificazione dell’esperienza. Primo, la persona può tornare facilmente ai fatti e alla comunicazione ordinaria; secondo, l’esperienza è avvertita come qualcosa che ha contribuito a produrre, non come un salto in uno stato insolito che normalmente non è sotto il suo potere. ( Mazzei S. rivista In-psicoterapia n°12 ).

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Il qui e ora e la consapevolezza

Il qui e ora è il presente, il punto d’incontro tra passato e futuro, il luogo delle decisioni, in sui si può cambiare il corso degli eventi: questi saranno congrui o incongrui alla persona a seconda di come gestirà la relazione fra i tre momenti del tempo. La consapevolezza è al vertice di un processo in cui l’attenzione si sposta lungo un continuum che va dal particolare al generale, da noi stessi agli oggetti. Per raggiungere la consapevolezza è necessaria l’attenzione e la presenza. La Gestalt utilizza l’attenzione/consapevolezza come strumento principale per promuovere lo sviluppo personale e la capacità di stare nel qui e ora. Attraverso l'acquisizione di zone di consapevolezza sempre più ampie, attuata mediante una riconversione dell’attenzione, il modello gestaltico tende al recupero della presenza e della responsabilità del paziente. Naranjo evidenzia come la consapevolezza del qui e ora nella terapia gestaltica va di pari passo con un’altro punto messo in luce dalle psicologie transpersonali, e dal buddhismo in particolare. Possiamo chiamarlo apertura: essere consapevoli di ciò che è dato qui e ora nel campo della nostra esperienza comporta un atto di base, quello di accettare in modo indiscriminato l’esperienza, che si può dire comporti a sua volta l’abbandono di modelli e aspettative. Quando l’organismo raggiunge una certa consuetudine con determinate condizioni di esistenza e di relazione con l’ambiente, alcune o molte delle sue funzioni passano al di sotto della soglia della coscienza, diventano delle funzioni di base, le quali si ripropongono costantemente senza più bisogno di controllo cosciente. Questo diviene lo sfondo che sorregge l'identità intesa come figura emergente. (Rossi, O. 1998). Il terapeuta può dunque proporre al paziente di ri-sperimentare le situazioni insolute del passato nel presente. Solo nel presente il sistema motorio e sensoriale possono funzionare e l’esperienza avvenire.. Nella terapia quindi la dimensione temporale viene trattata nel qui e ora. Se la persona riesce a vivere nel qui e ora chiudendo ogni gestalt che si presenta può muoversi verso altre esperienze evitando che le azioni incomplete persistano nel fondo distraendo la persona stessa da quelle in atto. Una maggiore consapevolezza può permettere meno avarizia e investimenti più oculati, ossia più costosi ma di maggiore respiro nel tempo e nello spazio”. (P. Quattrini, 2011)

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Nel caso di G. l’apprendimento di tecniche di rilassamento e l’abitudine agli esercizi di consapevolezza gli hanno consentito di poter riequilibrare il suo stato psicofisiologico sia in gara che in allenamento.

Il pensiero giudicante

Perls proponeva l’attivazione di una condizione di pura e semplice consapevolezza in cui non si giudica ciò che si manifesta: si constata, si accetta come inevitabile e si mantiene una posizione contemplativa. Il punto di vista fenomenologico sostiene infatti la necessità di osservare il processo della propria coscienza senza entrare nelle valutazioni, poiché se giudichiamo ciò che accade , blocchiamo la nostra auto- osservazione e ci identifichiamo in un singolo aspetto, pensiero o sentimento di noi stessi, perdendo il senso il senso della nostra totalità.

Nel caso di G. il pensiero giudicante più ricorrente è “ sto sparando male”, ma anche “sto sparando bene”, in entrambi i casi questo tipo di pensiero ha influito negativamente sul risultato. Un’altra considerazione che G. mi ha riportato durante un colloquio nell Agosto 2012 è stata di aver ipotizzato di cambiare facoltà universitaria, questo non era mai accaduto in precedenza, ed approfondendo questo argomento ho potuto notare come sia cambiata la consapevolezza delle proprie scelte, soprattutto era meno influenzata dal giudizio esterno

Il dialogo tra Polarità

Attraverso l’utilizzo del dialogo tra le polarità è possibile mettere in comunicazione parti di sè in conflitto tra loro, e questo permette un dialogo interno più efficace che come detto precedentemente, migliorerà la prestazione finale. Una delle tecniche maggiormente utilizzate in PDG è il dialogo tra le polarità attraverso la “sedia calda” : Nel setting, oltre alla sedia del terapeuta e a quella del paziente, ce n’è una terza, vuota, su cui siedono via via gli interlocutori problematici del paziente: dialogando con

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quell’interlocutore, esterno o interno che sia, che il paziente stesso dichiara disturbante, si costituisce tra polarità un’interazione che diventa lo spazio attraverso il quale si può lavorare fino a scendere nel sostrato emozionale, dove il comportamento disfunzionale si è strutturato.(P. Quattrini, 2011).

Nel caso di G. dialogo tra le polarità è stato utilizzato per mettere in contatto parti di sè in conflitto soprattutto prima di gare che lo preoccupavano molto, ad esempio durante la gara di Malta e il fitav del settembre 2012.

La responsabilità personale

Uno dei capisaldi della PdG è il concetto di responsabilità personale: etimologicamente responsabilità significa “abilità a rispondere”, insomma l’essere disponibile a pagare il costo di quel che si è fatto, in sostanza consiste nella capacità di scegliere consapevolmente. Molto spesso la responsabilità è nel linguaggio comune sinonimo di potere, ad esempio se si parla di carriera lavorativa, un “posto di responsabilità” è sinonimo di un “ruolo di potere”. Ciò che lo psicologo può fare è aiutare la persona ad accorgersi di ciò che fa, di ciò che sarebbe in grado di fare e di assumersi la responsabilità delle proprie scelte, dato che, nella vita, ci sono sempre diverse possibilità e occasioni di scelta. ”Il tanto diffuso bisogno di essere approvati, che spesso rende la convivenza umana difficile, equivale a una mancanza di responsabilità: quando si cerca ad ogni costo l’approvazione esterna, si sta disconoscendo la propria responsabilità e rinunciando al proprio potere” ( P. Quattrini, 2011).

Nel caso di G. si possono evidenziare alcuni benefici, come ad esempio, la scelta di un università che permetta di seguire le lezioni a distanza, e così, continuare a disputare gare internazionali. Nel caso della scelta di prendersi un periodo di pausa nel luglio 2012 ho notato come G. abbia preso una decisione più consapevole rispetto al passato.

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Il lavoro sul corpo

Fin dagli albori della psicologia il corpo è stato protagonista, le pulsioni di Freud dove si trovano? Nel corpo. La libido che spingerebbe tutte le nostre azioni? Nel corpo. Le emozioni sono qualcosa che ci muove (ex-moveo), e cosa muovono? Ancora il corpo . Il corpo in movimento rivela sia l’azione sciolta e fluida di una persona che sostiene l’attività in cui è impegnata, sia l’azione maldestra e senza grazia che è il compromesso tra un impulso e la sua inibizione.(Polster 1973) Reich descrive questo comportamento: “... è una funzione sostitutiva di qualcos’altro, essa ha uno scopo difensivo, assorbe energia ed è un tentativo di armonizzare le forze conflittuali... Il risultato è del tutto sproporzionato rispetto all’ energia spesa. (Reich W, 1949) Il lavoro corporeo non è equivalente al tocco. Si può praticare il lavoro corporeo anche solo con le parole, ma è spesso difficile raggiungere la concentrazione necessaria sui muscoli contratti per abitudine, in questo caso il tocco può aumentare l’efficacia del lavoro (Quaderni di Gestalt 6-7 M. Spagnuolo Lobb).

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Box 1 Esercizio di concentrazione corporea Gestalt

Immobilizzando il nostro sistema motorio, immobilizziamo nel tempo stesso anche le nostre sensazioni; possiamo ri-mobilitare entrambi attraverso un’adeguata concentrazione, ristabilendo i movimenti differenziati, l’intorpidimento e la goffaggine della personalità rigida e reintegriamo le funzioni motorie dell’Io. Una tecnica è quella di lasciar vagare l’attenzione attraverso il corpo: se scopriamo parti che non sentiamo, cerchiamo di individuare i confini tra le parti che sentiamo e quelle che non sentiamo e solo dopo torniamo con l’attenzione alla parte del corpo che non percepiamo. Alla fine ci sarà una particolare sensazione come un intorpidimento o opacità, un velo. In questa esperienza ripetuta del “come se” fosse una realtà, le sensazioni e le immagini biologiche emergeranno fino ad assumere il loro posto appropriato nel funzionamento della personalità.

Nel caso di G. il lavoro sul corpo è risultato efficace fin dall’inizio in quanto ha una buona consapevolezza del suo corpo ed è in grado di riconoscere facilmente il suo stato di forma così come il ritmo del battito cardiaco e le tensioni muscolari.

L’immaginazione

L’immaginazione e quindi l’abilità ad immaginare è considerata dai principali psicologi dello sport, sia dei paesi dell’est che dell’ovest, come fra le più importanti abilità da sviluppare negli atleti ( Cei, 1998). Nel corso degli anni la letteratura scientifica ha definito l’immagine mentale in molti modi ma il termine più utilizzato è senza dubbio “imagery” che Richardson (Richardoson 1969) definisce: come l’insieme delle esperienze quasi-sensoriali e quasi- percettive di cui siamo coscienti e che per noi esistono in assenza di quelle condizioni di stimolo che realmente determinano quelle specifiche reazioni sensoriali e percettive. A differenza dei sogni, la ripetizione mentale è un attività che si svolge sotto il controllo

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cosciente dell’individuo, che produce e dirige precise immagini da lui scelte. Sono, in altre parole, copie mentali ben controllate di specifiche attività motorie. Le immagini mentali attivano specifici circuiti nervosi che consentono il lavoro dell’apparato muscolare nella direzione immaginata dall’atleta. Quindi immaginare fa lavorare il corpo!

Box 2 Di seguito riporto un esercizio di visualizzazione Gestalt Lo scopo dell’esercizio seguente è quello di trarre il massimo beneficio per il nostro organismo dall’uso dei sensi. C’è chi guarda le cose senza vederle; e chi osserva e guarda le cose attentamente, in modo che possa ri-crearsi il mondo con i propri occhi. Se chiudiamo gli occhi possiamo scoprire che siamo capaci di visualizzare diverse immagini, nel frattempo ci accorgiamo che può nascere la voglia di fuggire da alcune di queste, e che questo saltare da un’immagine all’altra ci rende incapaci di fissarne almeno una per qualche secondo in più. Per fronteggiare questa instabilità è necessario rendersi conto che non sono le immagini a saltare ma siamo noi a saltare da un’immagine all’altra, una tale consapevolezza può essere acquisita lasciando continuare l’irrequietezza, senza opporre resistenza. Il passo successivo è capire cosa ci fa saltare (paura, mancanza di interesse, impazienza?); quando una determinata immagine si annebbia o noi saltiamo da una all’altra cerchiamo di scoprire la relazione tra l’immagine in questione e quello che evitiamo. L’esercizio va fatto con perseveranza in modo tale da poter padroneggiare l’evitamento e poter interrompere il saltare qua e là.

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Ridefinizione in positivo

Il dialogo interno è stato molto studiato nella psicologia dello sport, ad esempio si analizza con l’atleta cosa si dice in una determinata situazione di gara o di allenamento. Ridefinire il dialogo interno in positivo influenza la prestazione aiuta l’atleta ad essere più consapevole se si sta incoraggiando o scoraggiando. Ridefinire per una persona è molto complesso, riuscire ad applicarlo ad una situazione agonistica è difficile, in quanto il pensiero dovrà essere realistico e fare riferimento a prestazioni passate o ad abilità realmente possedute.

Nel Caso di G. una frase che ha cominciato ad utilizzare è “ Mi basta un colpo”, soprattutto quando si è accorto di puntare troppo sul secondo colpo a disposizione. Un altro esempio è stato quando ho adottato questa tecnica con una sua difficoltà fisica (problema all’ occhio) L’esempio che ho proposto è stato quello di Fred Astaire, il quale ha utilizzato una sua limitazione fisica per esprimere un modo di ballare che solo lui poteva effettuare proprio grazie a questa limitazione fisica, trasformandola in una possibilità di esprimersi diversamente e unicamente rispetto agli altri ballerini.

La metafora

Aristotele nella Poetica, definisce la metafora "trasferimento a una cosa di un nome proprio di un'altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia". La metafora è stata un elemento essenziale della comunicazione umana sin dai tempi antichi,se si pensa alle parabole attraverso le quali Gesù insegnava, i miti,le fiabe. A proposito di quest'ultime Bettelheim ne sottolinea il valore e l'importanza nel suo libro "il mondo incantato"Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Battleheim, 1976), la fiaba non solo diverte,ma anche illumina il bambino su se stesso,promuove lo sviluppo della sua personalità, arricchisce la sua vira in una grande varietà di modi. I personaggi delle fiabe sono nettamente buoni o cattivi, pieno di virtù o di difetti, stupidi o intelligenti. Una tale polarizzazione permette al bambino di capire facilmente la differenza tra i due estremi. Inoltre i racconti sono

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strutturati in modo che il bambino di identifichi con il buono, che risulta di solito più attraente e generalmente trionfa sul cattivo. Le fiabe di solito sottolineano alcune cose specifiche e mirano a dare insegnamenti specifici. In psicoterapia la metafora può essere definita utilizzando le parole di (Kopp 1975), come “specchi che riflettono le immagini che abbiamo di noi stessi, della vita e degli altri. Le immagini metaforiche possono diventare una chiave che apre nuove possibilità di insight e di cambiamento terapeutico”. La metafora obbliga la parola a diventare viva e si ricollega all’esperienza. Sotto i pensieri, infatti, ci sono le immagini, sotto le immagini ci sono le emozioni, sotto le emozioni ci sono le sensazioni e sotto le sensazioni ci sta il movimento. La metafora ci permette di esprimerci attraverso il linguaggio analogico.La metafora non è una spiegazione bensì un’evocazione, uno strumento che ci permette di passare dal conosciuto allo sconosciuto e dallo sconosciuto al conosciuto.

Nel caso di G. alcune metafore hanno segnato il percorso di G. durante questi 12 mesi, la più significativa è stata quella del “foglio bianco”. Spesso questa metafora è stata richiamata dopo alcuni errori consequenziali. Per recuperare la concentrazione e tornare nel qui e ora immaginava un foglio bianco gigante che appare davanti a lui come immagine di pulizia dagli errori precedenti.

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Le situazioni stressanti e il contatto

Noi maestri d’arco diciamo: un colpo- una vita! Ciò che questo significa lei non lo può ancora capire, ma forse l’aiuterà un altra immagine che traduce la stessa esperienza. Noi maestri d’arco diciamo: con l’estremità superiore dell’arco l’arciere fora il cielo, all’estremità inferiore è appesa la terra, fissata con un filo di seta. Se il colpo parte con una forte scossa c’è il pericolo che il filo si spezzi. Per il volitivo e il violento la frattura diventa allora definitiva e l’uomo resta irrimediabilmente nello spazio tra il cielo e la terra. “ che debbo fare dunque?” “imparare la giusta attesa”. “ e come si impara?” “ Staccandosi da se stesso, lasciandosi dietro tanto decisamente se stesso e tutto ciò che è suo, che di lei non rimanga altro che una tensione senza intenzione”. (Zen e tiro con l’arco, Herringel, 1975)

Gli atleti professionisti nel corso della loro carriera sportiva si confrontano con situazioni sempre più difficili. Man mano che si passa di categoria gli avversari sono sempre più forti e nel caso di competizioni prestigiose c’è molta più pressione esterna ( ad esempio da parte dei media) Il rischio per l’atleta è che si crei un sovraccarico di pressione e si generi stress. In gestalt lo stress può essere definito come una forma di allarme interno che scatta dentro le persone quando le richieste dell’ambiente sono percepite come superiori alle proprie forze. La risposta che l’organismo da allo stress è la funzione di adattare l’organismo alle mutate condizioni esterne, di fronte a tutto ciò che minaccia la sopravvivenza, nel caso di un atleta professionista che minaccia la prestazione sportiva. La difficoltà maggiore è che molte cause di stress non si possono eliminare ( es. i media, gli avversari o il pubblico) quindi ciò che si può fare è intervenire sulla propria capacità di reagire alla situazione stressante. La reazione da stress non è una risposta lineare agli eventi stressanti; entrano in gioco variabili soggettive ed il proprio modo di rispondere alle richieste dell’ambiente.

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Il modo più efficace per riconoscere lo stress è nell’osservazione del corpo: lo stress “non ascoltato” per periodi prolungati può creare problemi di salute come per esempio: cefalee, disordini alimentari, disturbi del sonno, gastriti, irritabilità, coliti, perdita di capelli..etc. Riconoscere le reazioni psicosomatiche legate allo stress è il primo passo, il secondo sta nel riequilibrare l’organismo attraverso il processo di autoregolazione, in cui la persona soddisfa i propri bisogni psicologici e fisiologici, sapendo che non esistono comportamenti sani, giusti, maturi che ci salvano dallo stress, ma si può migliorare la consapevolezza e la comunicazione, ascoltando i propri bisogni e i segnali del corpo, seguendo il ciclo del contatto. In Gestalt per contatto si intende una situazione di scambio: si dice che si è in contatto con qualcuno o con qualcosa quando fra i due poli in questione succede qualcosa. In un ottica fenomenologica si può dire che l’essere in contatto corrisponda al costituirsi del senso. Due persone sono in contatto quando la situazione acquista senso per loro, quando cioè si costituisce una Gestalt di cui fanno parte entrambe con le loro specifiche intenzioni, un insieme di cui si avverte la presenza e che non può esistere senza entrambi. Nella psicoterapia della Gestalt a orientamento fenomenologico esistenziale implica qualità: agli effetti pratici per contatto si intende uno scambio dotato di senso e qualità, uno scambio che riveste valore per la vita delle persone, e non valore in senso semplicemente quantitativo o astratto, ma in senso esperenziale . Uno scambio tra le intenzioni dei partecipanti ( P. Quattrini, 2006). Proprio sul contatto e lo stress che si crea ai suoi confini, ritengo utile soffermarmi sui meccanismi di difesa dal contatto: “Un buon contatto non è unione, non è separazione, ma è, da una parte, la capacità di essere uniti con l’oggetto, e dall’altra, la capacità di mantenere un’identità separata, dunque una capacità di auto-sostegno e di differenziazione dall’ambiente. Quando l’individuo si sviluppa in modo sano, manifesta questa elasticità che permette di essere in armonia e allo stesso tempo di non essere dipendente e di funzionare separatamente.” ( Mazzei S. rivista In-psicoterapia n°12 ) Per Perls, le resistenze sono chiamate anche “disturbi al confine del contatto”, cioè disturbi nella relazione organismo/ambiente secondo la definizione gestaltica o nella relazione sé/oggetto in quella psicoanalitica. In generale quindi, quando si parla di resistenze, dobbiamo immaginare che qualcosa accade nella zona intermedia fra l’Io ed il Tu. L’Io ed il Tu sono la diade della relazione

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del contatto interpersonale e la zona intermedia dove si applicano i meccanismi di difesa o resistenze è il confine del contatto e quando, in questo spazio, la relazione non è armoniosa, si manifestano disturbi di vario genere.

I meccanismi di difesa dal contatto

Cosa sono:

• strategie che l’individuo ha utilizzato per poter stare al mondo • meccanismi di evitamento del contatto • non sono negativi, in alcune situazioni hanno grande utilità • è importante esserne consapevoli e osservarli allo scopo di trovare nuovi modi di stare in relazione con l’ambiente quali sono:

• Confluenza: Conformarsi alle aspettative degli altri, accettare di fare cose che non gli piacciono . Essere confluente con l’ambiente, con l’oggetto, significa che non si sa chi si è o che si sperimenta davvero e si risponde soltanto alle aspettative dell’ambiente. La confluenza è semplicemente un falso contatto: il contatto implica uno stato precedente di separazione, una frontiera che la sancisce e un’operazione di superamento della distanza, mentre la confluenza è semplicemente un’assenza di separazione.(P. Quattrini, 2011). • Desensibilizzazione: Anestetizzarsi, fare, fare senza sentire la fatica, non ascoltando il corpo e i sentimenti. • Introiezione: E’ la tendenza a conformarsi alle direttive dell’autorità senza assumersi la responsabilità della propria esistenza. • Retroflessione: si ha quando invece di manifestare sull’ambiente un proprio impulso lo rivolgiamo a noi stessi, attraverso la retroflessione si cambia la direzione delle emozioni, che non si indirizzano verso l’effettivo dedestinatario, ma si ritorcono su se stessi.

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• Proiezione: Attribuire all’esterno ciò che in realtà appartiene al sè, colpevolizzando, lamentandosi, giustificando il proprio vissuto. La commistione tra percezione e proiezione cambia a seconda della situazione: se si temono gli orsi, li si vedono ovunque; se si hanno problemi con la propria mamma, questa diventa onnipresente.(P. Quattrini, 2011).

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Capitolo 4 L’integrazione tra competenze sportive e competenze affettive

L’obiettivo di questo capitolo è definire alcune possibilità di integrazione tra ciò che accade dal punto di vista della prestazione sportiva e ciò che accade dal punto di vista psicofisiologico. Partendo dalle abilità e le competenze di un atleta del tiro a volo, dopo aver approfondito il loro significato dal punto di vista della PdG, è possibile individuare una sintesi in cui gli aspetti relazionali ed emozionali si integrano agli aspetti della prestazione sportiva, creando un filo conduttore nella persona che compie il gesto tecnico.

La gestione della gara dal punto di vista relazionale

Nella gara si possono analizzare diverse relazioni: tra atleta e l’ambiente, atleta e allenatore, atleta e avversari, l’atleta e il pubblico, l’atleta, il fucile e così via. La prestazione finale sarà di certo influenzata da queste relazioni, quindi ritengo di grande importanza approfondire e far si che queste relazioni siano il più soddisfacenti possibili e il meno stressanti possibili, proprio per permettere all’atleta di esprimere le proprie abilità al meglio. Buber, il teologo ebreo che ha descritto un cammino esperienziale alla trascendenza, dice che: “nella relazione si produce una grandissima energia, che fonde quello che c’è intorno, un’esplosione capace di fondere la barriera che separa le persone dal mondo. Da questo punto di vista il miglioramento della qualità della vita di una persona non consiste allora solo nella recessione dei sintomi, ma nell’incremento della vita spirituale, nell’accorgersi appunto di quello che succede fra sè e gli altri, fra sè e sè, fra sè e i fiori, fra sè e le cose...tutti i fra che possono venire in mente” ( P. Quattrini, 2006).

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NEL CASO DI G. una differenza da evidenziare riguarda l’avvicinarsi alla gara. Precedentemente partiva per la località in cui si sarebbe svolta la competizione con 3 giorni di anticipo e si allenava sul luogo fino alla gara. Dal Giugno 2012 abitualmente arriva alla sede di gara la mattina precedente la competizione. Inoltre ho osservato ed approfondito un aspetto sociale durante i giorni di gara, infatti dal Giugno 2012 ha cominciato a limitare notevolmente le relazioni sociali anche nei momenti di riposo, in cui preferisce isolarsi e rimanere focalizzato sulla gara.

La relazione con il fucile

In una cornice gestaltica mi sono accorto di quanto la relazione con l’arma sia importante e quanto possa influire sulla prestazione. Nel tiro a volo il fucile è il mezzo per rompere i piattelli, quindi il gesto tecnico deve passare obbligatoriamente per esso, chiaramente anche attraverso le cartucce. Il fucile moderno è molto modificabile, per essere adattato alle caratteristiche dell’atleta, di conseguenza ogni atleta ha la possibilità di modificarlo in qualsiasi momento, ed ogni minuscola modifica può cambiare il modo di tirare. Questo influisce a livello sia emotivo che cognitivo sulla relazione con l’arma. Riuscire a creare una relazione di fiducia stabile nel tempo con l’arma è difficile. Una delle maggiori difficoltà nella relazione atleta-fucile è l’attribuzione di causalità nell’errore: spesso gli atleti attribuiscono un errore al fucile, ad esempio un suo malfunzionamento, oppure una modifica a cui si fa fatica ad abituarsi. Questo può

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creare delle difficoltà o conflitti all’interno della relazione, fino a perdere la fiducia e dire “ questo fucile non va bene per me”oppure “è tutta colpa del fucile”. Il tiratore sceglie con grande attenzione il proprio fucile e le cartucce, fidandosi delle proprie sensazioni e di quelle dell’allenatore, dal primo momento si instaura un legame e l’arma diventa una protesi del corpo che si muove all’unisono con esso. Spesso nella relazione con il fucile nasce anche un significato affettivo, ad esempio il primo fucile, o quello con cui si è vinto qualcosa di importante, a volte invece risulta complicato “abituarsi” alle modifiche o ad un nuovo fucile.

NEL CASO DI G. il fucile è stato modificato diverse volte: Nel dicembre 2011 cambia fucile in quanto il precedente si era usurato nel tempo, nell’aprile 2012 modifica il calcio ( dopo 3 anni che utilizzava lo stesso) il nuovo calcio risulta più lungo e con il nasello regolabile. Nel Giugno 2012 accorcia ed alleggerisce il calcio.

Un esempio di quanto possa essere causa di errore il cambiamento del fucile è stato quando durante un colloquio dopo un allenamento del gennaio 2012 G. dice di aver sparato molto male in quanto sentiva di dover dimostrare che sapeva sparare bene col fucile nuovo di fronte al padre ( che ha pagato il fucile) e all’allenatore senza darsi il

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tempo di prendere confidenza con l’arma. Questo stato d’animo lo ha portato a sparare senza controllo e con rabbia.

Competere

Nello sport, la performance è una forma speciale di comportamento. E’ il comportamento che incorpora la dimensione competitiva, che coinvolge il desiderio di maestria e superiorità, e molto spesso è effettuato in presenza di altri...la Peak performance è una performance incredibile. (Pargman, 2006).

Gli esseri umani sono competitivi e quindi anche in caso di pace è facile che spesso il rapporto sia spesso competitivo anche quando apparentemente amichevole. Questo comporta di regola malessere, difficoltà, rabbia e paura: le persone si spaventano, si chiudono e più sono chiuse e meno sono flessibili, e la competizione diventa allora l’unica opzione possibile e la creatività non ha più chances. Un modo tipico di essere competitivi in modo difensivamente mascherato è pretendere di avere ragione. ( P. Quattrini, 2006). La competizione ha per sua natura una specificità concreta, si compete per qualcosa. Quando le persone gareggiano per essere il migliore, sono fuori dalla competizione reale perché ogni atleta può gareggiare al meglio di sé e il risultato finale dipenderà da molti altri aspetti della gara su cui nessuno può esercitare un controllo (ad esempio, l’abilità degli avversari o i cambiamenti meteorologici). Al contrario chi pretendesse di essere il migliore vive in realtà una competizione ritualizzata, dietro la quale si evince l’idea che “ se sono meglio, otterrò senza dover competere o impegnarmi troppo”. Quest’ultima scelta pone l’atleta in una situazione che non è esistenzialmente compromettente, poiché si aspetta di ottenere la vittoria in virtù deI suo vissuto di essere il migliore. Se voglio la torta, i casi sono due: o la ottengo o non la ottengo e, comunque vada, la cosa è compromettente perchè, se la ottengo so che all’altro dispiace, e se non la ottengo, dispiace a me. Una via d’uscita è appunto convincersi di essere meglio: da una parte, non c’è nessuno che se ne può risentire; dall’altra,

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l’eventuale sconfitta viene pacificata. Il problema, però, è che essere meglio di per sè, cioè nell’autoreferenzialità del riconoscimento, non porta a nulla! Un’altra via d’uscita dalla competizione è la rivalsa, eufemismo per “vendetta”: “ ah ecco, non ho avuto la torta, tu sei cattivo!”, e ciò dà forza, visto che allora si combatte non per prepotenza ma per giustizia: questa forza, tuttavia, affonda nel dolore, e alla fine cattura in una spirale masochista che non fa gli interessi del soggetto, e che, anzi, può facilmente far perdere la direzione del valore.(P. Quattrini, 2011)

Tipi di competizione

Competizione per interferenza

Succede direttamente tra individui durante l'atto di aggressione, ecc. quando un individuo interferisce con gli altri per il cibo, la sopravvivenza, la riproduzione o per stabilirsi in una porzione dell'habitat.

Competizione per sfruttamento Succede indirettamente a causa di risorsa limitata comune che agisce come un intermediario. Per esempio, l'uso di una risorsa per alcuni causa la scarsità per altri o, anche la competizione per lo spazio.

Competizione apparente Succede indirettamente quando due specie, per esempio, sono prede di un predatore comune. In tal caso c'è competizione per lo spazio libero dei predatori.

Le persone pensano di venire in terapia per imparare a vincere, in realtà vengono per imparare a gestire la perdita attraversi una trasformazione. Non importa che poi la persona sappia difendersi o vinca, l’importante è che viva l’esperienza della trasformazione della perdita.

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Mettendosi in una situazione di accettazione reciproca della propria competizione e della propria benevolenza si può raggiungere una sintesi, cioè un risultato in cui vengono soddisfatte ambedue le polarità. L’unico posto dove la competizione non fa danni è lo sport: nello sport esiste il fair play, la possibilità di imparare dall’avversario più bravo, di migliorarsi gareggiando con i più forti: si perde, ci si stringe la mano e si va avanti. (cit. P. Quattrini).

Le emozioni

Nella psicologia dello sport le emozioni sono state studiate soprattutto nell’approccio cognitivista, Oatley uno dei più grandi cognitivisti contemporanei nella sua opera “psicologia ed emozioni” (Oatley, K, 1992) definisce due componenti di un’emozione: 1. La preparazione all’azione: In cosa consiste il nucleo di un’emozione? La risposta migliore, basata sullo stato attuale delle nostre conoscenze, è che esso è uno stato mentale di preparazione all’azione ( Frijda N. H., 1986) oppure un cambiamento nella preparazione. Un tale cambiamento di preparazione si basa normalmente sulla valutazione di qualcosa che sta avvenendo e che concerne degli elementi per noi importanti. Questa valutazione non viene necessariamente fatta a livello conscio. Un’emozione fa emergere una gamma di opzioni per l’azione. Quando siamo spaventati, valutiamo una situazione in relazione alla preoccupazione per la nostra sicurezza e ci accingiamo a bloccarci, lottare o a fuggire. Smettiamo di fare ciò che stavamo facendo e controlliamo se ci siano segnali di pericolo (Gray,J. A. 1982). In una condizione emotiva siamo spinti in modo compulsivo verso una gamma ristretta di azioni. Se proviamo paura ci sembra impossibile agire se non cercando dei modi per metterci in salvo; se siamo tristi possiamo sentirci del tutto incapaci di fare qualsiasi cosa. 2. Tonalità fenomenologica: Questa descrizione delle emozioni come stati di preparazione all’azione mette in evidenza una funzione sottostante dell’emozione. Le emozioni anche anche una tonalità fenomenologica distintiva della quale potremmo essere consapevoli. Ogni emozione può essere tipicamente sentita come diversa da un’emozione contrastante e diversa dalle non-emozioni. La tristezza è diversa sia dalla

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felicità che dal ragionamento deduttivo o dalla sonnolenza. A volte possiamo non essere consapevoli in modo conscio di un’emozione, sebbene gli altri possano vederne dei segnali nel nostro comportamento. A volte le emozioni sono incipienti e noi stessi non siamo in grado di capire come realmente ci sentiamo. La sensazione conscia di un’emozione, della tristezza della paura o simili, non è identica alla valutazione o allo stato di preparazione. Il nucleo di un’emozione è uno stato mentale sottostante del quale, come accade per la maggior parte degli stati mentali, risultano consci solo aspetti limitati. I meccanismi che generano la preparazione all’azione non sono consapevoli. In Gestalt uno dei capisaldi teorici è il ciclo del contatto che pone l’emozione prima del pensiero e dell’azione. Nell’approccio fenomenologico il punto d’interesse psicologico è l’effetto che fa l’emozione stessa. “Le emozioni non sono ciò che distingue gli esseri umani dagli animali, ma piuttosto ciò che li apparenta a loro, in quanto tutti gli esseri viventi sono dotati di quel che si può cosiderare il software necessario per la gestione del movimento: come il motore muove la macchina, così l’emozione muove il corpo. Un errore comune è pensare che si faccia qualcosa poichè la sia è pensata, mentre pensare equivale, metaforicamente parlando, soltanto a girare lo sterzo: se il motore non è in moto, per quanto si giri lo sterzo non si va da nessuna parte” (P. Quattrini, 2011)

Agli effetti pratici, la gestibilità emozionale si basa fondamentalmente sulla capacità di trasformazione della paura e del dolore in rassicurazione e consolazione o rabbia, a seconda delle necessità del momento. La rabbia, essendo l’adattamento fisico al combattimento, è necessaria quando c’è da lottare, altrimenti diventa un impedimento, e sono invece soluzioni adatte rassicurazione e consolazione. La paura, come tutte le emozioni, è un’esperienza psicofisica, dipende dalla presenza nel sangue dei neuromediatori che”fanno” l’emozione: quelli possono cambiare quantitativamente in tempo breve, e se si stà attenti si nota, e si fa esperienza della diminuzione della paura. Scoprire cosa la fa diminuire fa parte del processo di rassicurazione, ed è una prassi ben conosciuta per il dolore, ma non praticata abbastanza per quanto riguarda la paura.(P. Quattrini, 2011)

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Conclusioni

Il mental training è uno degli aspetti del lavoro con l’atleta che è influenzato maggiormente dal background teorico del proprio modello di riferimento. Nella bibliografia mondiale, la maggioranza degli studi moderni e delle ricerche sono state condotte seguendo un approccio cognitivista. Nel corso del secolo scorso la psicologia dello sport è cresciuta molto grazie a psicologi venuti da modelli come sistemico-relazionali, comportamentisti e così via. Allenare abilità come l’attenzione, la concentrazione, il rilassamento, l’immaginazione, significa per tutti gli approcci la stessa cosa, ovvero la ricerca del miglioramento della performance. Ciò che fa la differenza è il come: infatti ogni modello ha i suoi vantaggi e svantaggi. In questo caso l’approccio gestalt ad indirizzo fenomenologico-esistenziale è stato il punto di riferimento in ogni incontro con G.e la base sulla quale è stato strutturato tutto il mental training. Per uno psicologo dello sport è fondamentale conoscere la disciplina praticata dall’atleta in ogni suo aspetto: regolamento ufficiale, etica, storia della disciplina, ma anche miti e leggende del movimento culturale che uno sport ha nel suo “dna”. Il tiro a volo nello specifico richiede un prontezza mentale degna di uno sprinter, con la differenza che ogni partenza viene ripetuta per 125 volte, quanti sono i tiri da effettuare. La preparazione di un solo tiro dura 7/8 secondi e l’azione susseguente di tiro è della durata di 60 centesimi di secondo. Talvolta gli atleti di questa disciplina, quando sono sotto pressione, riescono a distrarsi proprio durante questa manciata di secondi. Perché ciò non succeda l’allenamento mentale è di fondamentale importanza ed è teso a determinare quella condizione che permette all’atleta di restare focalizzato solo sulla propria azione tecnica e non sull’idea di dovere rompere il piattello. (Fonte: albertocei.it). L’operazione più complessa di questo approfondimento è stata “tradurre” i concetti cardine della letteratura sul mental training in concetti gestaltici, ed ottenere un diverso punto di vista su cui costruire un filo conduttore teorico.

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Seguendo i principi teorici di questo modello, il lavoro con l’atleta è stato incentrato principalmente sulfare esperienza, sulla tematica del contatto e sull’effetto emotivo, tutto questo all’interno della relazione empatica tra atleta e terapeuta L’ empatiainfatti rappresenta per il terapeuta la possibilità di lavorare con la persona mantenendo la consapevolezza di una distanza fluttuante, la quale a sua volta permetta l’incontro tra Io e Tu - ma non il collassamento dell’Io nel Tu e viceversa. L’empatia “è la capacità di accorgersi che cosa sente l’altro senza confondersi con lui, ed è certo una capacità naturale, ma solo praticandola si riesce a gestirla in modo funzionale” (Quattrini, 2007). Si tratta della capacità di “stare sia nella propria esperienza che in quella dell’altro” (Quattrini, 2007), accorgendosi delle differenze; ed è proprio nelle differenze che è stato possibile trovare lo spazio di crescita, sia personale che sportiva.

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