Comunità economica europea

Introduzione

Il voto dell’Assemblea parlamentare francese del 30 agosto 1954, che aveva deciso il rifiuto della Francia di ratificare il Trattato sulla Comunità europea di difesa (CED), aveva altresì segnato la fine del progetto di Comunità politica europea, che avrebbe dovuto essere il risultato finale del grande dibattito nato e avviato con rapidità e successo dalla Dichiarazione Schuman del 1950 (v. Piano Schuman). Il voto era in effetti un prodotto dei mutamenti intervenuti nel frattempo non solo nella classe politica e nel governo della Francia, ma anche e soprattutto nella realtà europea e mondiale, che avevano fortemente influito sulla volontà politica dei governi europei e sull’opinione pubblica in generale.

In particolare in Francia la spinta europeista, che aveva motivato la politica estera francese dopo la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, sembrava in via di esaurimento. La Francia stava vivendo la prima fase della decolonizzazione, dopo la fine travagliata della guerra d’Indocina: le perplessità nei confronti dell’ineluttabile riarmo tedesco crescevano in tutte le parti politiche, e anche la proposta di creazione di una Comunità politica rinvigoriva un nazionalismo mai represso. I governi francesi succedutisi negli ultimi anni, sensibili ai dubbi crescenti dell’opinione pubblica e soprattutto della classe politica e militare, avevano moltiplicato le reticenze alla ratifica, cercando di ottenere dai partner (ma anche dal Regno Unito, della quale si deprecava l’assenza e dalla quale si chiedeva una “partecipazione”) ulteriori garanzie nei confronti del riarmo tedesco. Dal gennaio 1953, dopo la caduta del governo di Antoine Pinay e la costituzione del gabinetto di Daniel Mayer, Robert Schuman non era più ministro degli Esteri, e già nel marzo 1953 il suo successore, Georges Bidault, otteneva l’abbandono di fatto del progetto di Comunità politica da parte dei ministri degli Esteri dei Sei, rinviando l’approvazione del testo redatto dall’Assemblea ad hoc (v. anche Comunità politica europea) a una data posteriore alla ratifica del Trattato CED da parte di tutti gli Stati firmatari (v. Preda, 1993, pp. 387-428).

Il voto dell’Assemblea francese poneva dunque fine al periodo della grande iniziativa comunitaria postbellica, segnando il fallimento del primo vero tentativo di dar vita a una struttura federale europea (v. Federalismo; Integrazione, teorie della). Del resto, come accennato più sopra, la situazione in Europa e nel mondo era alquanto mutata. La Francia era ormai nel pieno della lunga e dolorosa liquidazione del suo impero coloniale, la Germania stava rivelando la sua prorompente ripresa: salvo Konrad Adenauer, gli uomini della prima battaglia per l’unità europea erano usciti di scena, la scomparsa di Iosif Stalin e l’armistizio coreano riducevano, almeno nell’immaginazione di tutti, la minaccia dell’Est.

In conclusione, il solo risultato concreto di questo periodo rimaneva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che era il frutto superstite dell’invenzione monnetiana, e cioè del disegno di “integrazione funzionale” di , espresso nella già citata Dichiarazione Schuman (v. Funzionalismo). Ma era giocoforza constatare che quando si era voluto passare dal funzionalismo episodico all’integrazione politica in senso federale, abbandonando la tesi gradualista delle origini, ci si era scontrati con la resistenza pesante della storia (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Paradossalmente (ma non troppo) la CED, concepita nel timore del riarmo tedesco, era fallita perché l’integrazione era stata considerata un male peggiore di quello che si voleva evitare, e perché non si voleva – soprattutto da parte francese – sottoscrivere un irrevocabile impegno politico (v. Gerbet, 1999, pp. 151 e ss.). Il rilancio dell’integrazione da Messina a Venezia

La crisi seguita al fallimento della CED fu risolta secondo le tradizionali procedure diplomatiche. Il riarmo della Germania e la sua conseguente adesione all’Alleanza atlantica e alla sua organizzazione militare furono acquisiti mediante la creazione dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO) con gli accordi di Parigi del 23 ottobre 1954. Quegli accordi ristabilivano la piena sovranità della Repubblica Federale Tedesca (RFT), davano vita all’UEO e alle sue istituzioni (una specie di simulacro di Alleanza europea cui, oltre ai Sei, partecipava anche la Gran Bretagna), e sancivano il riarmo della Germania nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) con talune importanti restrizioni. In breve, il riarmo della Germania era cosa fatta, e la stessa Assemblea nazionale francese che aveva rifiutato la CED lo ratificò a malincuore il 30 dicembre 1954, a debole maggioranza (287 voti contro 260). Pierre Mendes France, primo ministro francese dell’epoca, era riuscito – bene o male – a risolvere la crisi, restituendo la Sarre (che avrebbe dovuto diventare un “distretto europeo”) alla Germania e seppellendo per sempre l’integrazione militare e politica europea.

Tuttavia, la grande delusione non aveva del tutto scoraggiato i precursori, e Jean Monnet in particolare. Presidente dell’Alta autorità della CECA, si era dimesso il 3 maggio 1955 per consacrarsi al “rilancio” dell’integrazione europea. L’11 ottobre 1955 Monnet fondava a Parigi il Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa, nel quale dovevano essere rappresentati i partiti democratici e i sindacati dei paesi della CECA favorevoli all’integrazione europea dai loro massimi dirigenti, per riflettere e proporre le future iniziative d’integrazione europea.

Dal canto loro, i paesi del Benelux (Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi), che erano stati sempre favorevoli a iniziative comunitarie (anche perché la struttura istituzionale comunitaria – e la CECA ne era la prova – favoriva la considerazione degli interessi dei piccoli paesi) erano particolarmente attivi nel proporre e discutere iniziative di rilancio. Tre uomini di sicuro valore (Paul-Henri Charles Spaak, allora ministro degli Esteri del Belgio, Joseph Bech, primo ministro del Lussemburgo, Joan Willem Beyen, ministro degli Affari esteri dei Paesi Bassi) avevano preparato un memorandum (di cui l’olandese Beyen era il principale promotore), che inviarono il 5 maggio a Jean Monnet. Il memorandum proponeva la costituzione di un Mercato comune generale, escludendo quindi qualsiasi integrazione economica settoriale. A esso l’Assemblea parlamentare della CECA dette il 14 maggio un unanime consenso, approvando una risoluzione che auspicava una riunione dei ministri degli Affari esteri dei Sei per discuterla (v. anche Consiglio dei ministri).

Il memorandum del Benelux fu quindi inviato ai governi degli altri tre paesi: Italia e Germania reagirono a loro volta, ciascuna con un memorandum sostanzialmente positivo, mentre il governo francese (primo ministro era Edgar Faure) si asteneva dal prendere posizione, ma accettava la proposta italiana di discutere i vari progetti contenuti nei documenti degli altri paesi a una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri della CECA, che il ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino proponeva di tenere a Messina, sua città natale, dal 1° al 3 giugno 1955 (v. Conferenza di Messina). Il rilancio era in vista: nonostante le divergenze ancora evidenti (i francesi erano favorevoli all’integrazione settoriale, in particolare per quel che concerneva lo sfruttamento pacifico dell’energia atomica, le altre fonti di energia, i trasporti) mentre i consorti della Francia ritenevano che ormai l’integrazione economica settoriale aveva fatto il suo tempo e che era giunta l’ora di tentare la fondazione del Mercato unico generale (ancorché l’accordo non fosse completo fra di essi sull’estensione della liberalizzazione degli scambi e le tappe dell’integrazione economica). Alla fine di due giorni di discussione, si raggiunse un accordo che lasciava impregiudicate le diverse proposte. La Conferenza, su proposta dei rappresentanti dei tre paesi del Benelux, decise di affidare a un gruppo di esperti nominati dai governi partecipanti, presieduto da una personalità politica di alto livello, il belga Paul-Henri Spaak, lo studio di tutte le proposte presentate alla riunione. I lavori del Comitato (passato alla storia come Comitato Spaak) furono efficacemente diretti dal suo presidente. La maggior parte delle riunioni si tenne a Bruxelles, e il testo finale (redatto da esperti di prim’ordine, quali il francese Pierre Uri e il tedesco Hans Von Der Groeben fu approvato nell’aprile 1956. Il suo contenuto (oggi considerato uno dei documenti decisivi dell’integrazione europea) rispondeva ai quesiti irrisolti a Messina. Innanzitutto constatava che l’integrazione settoriale sarebbe stata difficilmente realizzabile, salvo nel campo dello sfruttamento pacifico dell’energia atomica. A differenza delle altre fonti di energia, essa infatti poteva essere oggetto di un’organizzazione particolare, che contribuisse al suo sviluppo integrato, e a tale scopo il rapporto definiva la struttura e la missione di una comunità nucleare.

D’altra parte il rapporto Spaak studiava la natura e i mezzi per la realizzazione di un Mercato comune generale. Un’Unione doganale, con eliminazione degli ostacoli interni agli scambi e l’erezione di una Tariffa esterna comune (TEC), era preconizzata come premessa necessaria per addivenire a una vera integrazione economica, e venivano definite le condizioni da rispettare per evitare squilibri e distorsioni.

Il rapporto del Comitato Spaak aveva così assolto alla sua missione, con due proposte complessive e concrete degne di discussione e negoziato: la creazione del Mercato comune unico e generale e l’organizzazione comunitaria per l’energia atomica a scopi pacifici, battezzata sinteticamente Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica). Le due proposte non raccoglievano a priori l’unanimità, ma avevano il pregio di non poter esser discusse separatamente, poiché, proposte assieme, almeno una di esse interessava dappresso uno Stato partecipante. Se i francesi erano assai interessati a Euratom, e scettici e reticenti nei confronti del Mercato comune, gli altri erano maggiormente disposti a discutere l’integrazione economica generale. In questo consisteva quindi il grande passo in avanti che il rilancio di Messina aveva provocato: l’inscindibilità delle due proposte, e quindi la pratica necessità di discuterle assieme. Alla Conferenza di Venezia, tenutasi il 29 e 30 maggio 1956, i sei paesi membri della CECA approvarono in linea di massima il contenuto del rapporto Spaak e incaricarono un secondo comitato, sempre presieduto dal ministro belga, di elaborare i testi dei Trattati ivi suggeriti (v. Serra, 1987, passim).

I negoziati di Val Duchesse e i Trattati di Roma

In realtà, il secondo Comitato Spaak si trasformò ben presto in una delle Conferenze intergovernative con sede a Bruxelles, nel Castello di Val-Duchesse, che per vari mesi riunì delegazioni sempre più nutrite, sotto la direzione e l’autorevole arbitrato del suo presidente. Mentre i negoziati per la redazione del Trattato Euratom procedevano alquanto speditamente, quelli per il Trattato sulla Comunità economica europea (CEE) – come finalmente fu deciso di chiamare il Trattato per il mercato comune generale – furono lunghi e complessi, in quanto richiedevano la soluzione di numerosi problemi tecnici e, soprattutto, la necessità di accordi e compromessi politici su delicate questioni attinenti a interessi ritenuti vitali da talune delegazioni nazionali. In termini generali, venivano in luce le complesse eredità della storia di economie diverse per orientamento e struttura. In primo luogo, era evidente la formazione di due gruppi distinti: Francia e Italia (benché assai differenti per livello e struttura) erano per storia e per necessità paesi protezionisti e quindi timorosi del libero scambio e tendevano a ottenere eccezioni e garanzie. Germania e Benelux erano invece da tempo protagonisti del commercio mondiale e quindi orientati all’eliminazione, nel più breve tempo possibile, delle frontiere protettive. C’è da aggiungere che, a differenza dal periodo precedente alla crisi della CED, l’impulso e la partecipazione da parte dei Movimenti europei (v. Movimenti europeistici; Movimento europeo) e, in particolare, di quelli che propugnavano il Federalismo, furono molto meno incisivi, e la tendenza dei federalisti (v. Movimento federalista europeo) (all’epoca anche di Altiero Spinelli) al rifiuto del metodo funzionalista (v. Funzionalismo) propugnato da Jean Monnet fu in pratica generalizzata. Il negoziato di Val Duchesse era infatti condotto secondo le classiche procedure diplomatiche, e la sua complessità comportava necessariamente la partecipazione di tecnici e di esperti a tutti i livelli, certamente poco sensibili alle sollecitazioni politiche dei federalisti.

Fu peraltro merito insigne di taluni personaggi, da Paul-Henri Spaak al tedesco , dal francese Robert Marjolin all’olandese Johannes Linthorst Homan (che diressero di fatto i negoziati) se i Trattati crearono istituzioni politicamente indipendenti dagli Stati membri e se, nel complesso, gli obiettivi dell’integrazione economica furono previsti con lungimiranza tale da configurare virtualità di grande portata politica. Già il preambolo del Trattato sulla Comunità economica europea indicava nell’unione sempre più stretta e completa la finalità principale del Trattato, mentre l’art. 3 ne indicava con grande precisione e ambizione gli obiettivi. Se ai negoziatori era mancato l’appoggio e l’entusiasmo di molti, tuttavia l’ispirazione, ancorché espressa con grande prudenza, fu quella che già aveva qualificato il Trattato CECA e gli altri tentativi d’integrazione europea abortiti nei primi anni Cinquanta, e cioè quella che proveniva dal pensiero e dall’azione di Jean Monnet. Ad accelerare i negoziati e a sopire talune avversità e scetticismi furono peraltro due avvenimenti di grande rilievo intervenuti nell’anno 1956. Il primo fu la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del governo egiziano il 20 luglio, e la crisi che ne seguì, con un intervento militare franco- inglese-israeliano poi abortito sotto la pressione internazionale (in particolare, degli USA e dell’URSS). Il secondo fu la rivolta ungherese dell’ottobre e novembre successivi, repressa nel sangue dall’intervento sovietico. Se il primo rendeva chiara agli occhi di tutti la riduzione ineluttabile della potenza esterna dell’Europa, e al tempo stesso la fragilità delle rotte di rifornimento dell’energia, la seconda frustrava irrimediabilmente le illusioni di di- stensione e riaccendeva l’inquietudine dell’Occidente.

Svanivano nel contempo i timori che la Francia non ratificasse i Trattati, com’era avvenuto per la CED. Il governo di Guy Alcide Mollet, a differenza di quello diretto da Mendès France, aveva fortemente contribuito a placare i timori diffusi tra le categorie produttive (soprattutto nel corso delle prime fasi del negoziato) e, nel complesso, la delegazione francese aveva ottenuto risultati brillanti nel negoziato, ad esempio in materia agricola e in tema di aiuti alla decolonizzazione.

I governi dei Sei procedettero alla firma del Trattato Euratom e di quello che creava la CEE il 25 marzo 1957 a Roma, con cerimonia solenne in Campidoglio (v. Trattati di Roma). Le ratifiche seguirono senza particolari difficoltà. Nel corso del mese di luglio del 1957 i parlamenti di Francia, Germania e Italia approvarono i Trattati (in Italia i socialisti, a sorpresa, votarono a favore di Euratom e si astennero sulla CEE). Seguirono in autunno le ratifiche dei paesi del Benelux, che permisero la loro entrata in vigore il 1° gennaio successivo.

Le istituzioni della CEE e i primi anni dell’integrazione economica La struttura istituzionale della CEE riproduceva quasi completamente quella della CECA, a prova della persistente influenza di Jean Monnet e del suo pensiero, e della presenza tra i negoziatori di numerosi suoi pupilli. Al posto di un’Alta autorità (segno dei tempi mutati, il nome prescelto era più neutro e “innocente”), era prevista una Commissione europea di nove membri (2 ciascuno per i grandi Stati membri, 1 ciascuno per i più piccoli), nominati di comune accordo dai governi. La Commissione deteneva il potere esclusivo di proposta legislativa – di Decisione, Direttiva e regolamenti in particolare. Le direttive erano atti legislativi diretti agli Stati, i cui organi legislativi erano obbligati a tradurne il contenuto in atti legislativi nazionali; i regolamenti erano atti legislativi direttamente applicabili ai cittadini degli Stati membri. Direttive e regolamenti, proposti dalla Commissione, sentito (se richiesto dal Trattato) il parere dell’Assemblea parlamentare (v. anche Parlamento europeo) e quello del Comitato economico e sociale, dovevano essere approvati dal Consiglio della CEE (organo legislativo decisionale) (v. Consiglio dei ministri).

L’Assemblea parlamentare, come quella della CECA, era composta da 162 membri, ripartiti per paese membro (36 per ciascuno dei grandi, 14 per Paesi Bassi e Belgio, 6 per il Lussemburgo), eletti dai rispettivi parlamenti. Le competenze dell’Assemblea erano essenzialmente consultive, ma ne era previsto l’aumento in seguito, come del resto era prevista la sua elezione a suffragio diretto e universale (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). L’Assemblea aveva però il potere di esprimere un voto di sfiducia nei confronti della Commissione, che avrebbe quindi dovuto dimettersi.

Il Consiglio, composto dai rappresentati degli Stati membri, a livello ministeriale aveva una competenza generale di approvazione degli atti legislativi proposti dalla Commissione, in via generale a Maggioranza qualificata in base a una ponderazione dei voti prevista dal Trattato (v. Ponderazione dei voti nel Consiglio), salvo nei casi in cui il Trattato stesso non avesse prescritto il Voto alla unanimità. Comunque, l’unanimità era prescritta per tutte le votazioni sino al passaggio alla terza tappa dell’unione doganale. Il Consiglio aveva potestà, altresì, di formulare raccomandazioni (v. Raccomandazione), come del resto la Commissione.

Il complesso istituzionale era completato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, cui era demandato il potere giurisdizionale di dirimere conflitti tra Stati membri e tra questi e la Commissione, nonché di pronunziare sentenze su ricorsi di privati nei confronti delle istituzioni nelle materie oggetto di legislazione o di decisioni comunitarie.

Alle istituzioni accennate si accompagnava un Comitato economico e sociale, organismo consultivo, ma rappresentativo delle categorie sociali e, in particolare, di quelle produttive dei vari paesi membri, organismo chiamato dal Trattato a esprimere il suo parere sulle proposte della Commissione. Più tardi, con il Trattato di Maastricht, ad esso si affiancherà il Comitato delle regioni, chiamato più specificamente a esprimersi sui problemi regionali, divenuti oggetto di una nuova politica comune dopo l’Atto unico europeo del 1986. Così sommariamente descritte, le istituzioni della CEE apparivano simili a quelle della CECA, ma in realtà erano ben differenti (v. Istituzioni comunitarie). Erano però soprattutto le due Comunità ad essere diverse, soprattutto per quel che riguarda la produzione di norme. A differenza del Trattato della CECA, infatti, quella della CEE si configurava da un lato come una costruzione di norme complete, da mettere in opera senza bisogno di ulteriori procedure decisorie. Tale era il complesso di norme che dovevano essere applicate per costruire l’unione doganale, seguendone la costruzione progressiva secondo un calendario. I dazi della TEC per ogni prodotto erano il risultato di una media aritmetica di quelli nazionali, salvo per taluni prodotti indicati nei protocolli annessi al Trattato. Dall’altro lato, il Trattato della CEE era definibile come un Trattato “quadro”, che stabiliva gli obbiettivi e le procedure per la produzione legislativa delle norme per conseguirli. Gli obbiettivi erano in genere le politiche comuni, talune previste dal Trattato – come la Politica agricola comune (PAC), la Politica comune dei trasporti della CE, la Politica commerciale comune, la Politica sociale, ecc. – e altre che si sarebbero aggiunte in seguito, con i Trattati di riforma degli anni Ottanta e Novanta.

Questa struttura del Trattato della CEE era senz’altro una novità eccellente nella storia del diritto internazionale, e con il senno di poi può ben definirsi come un’invenzione straordinariamente efficiente e adatta agli scopi prefissati (almeno per il primo periodo). Fu la procedura legislativa che permise la costruzione della PAC, condizione sine qua non della libera circolazione dei prodotti agricoli in seno alla Comunità. Essa infatti richiedeva un’imponente produzione legislativa per l’unificazione dei differenti sistemi di protezione dei prodotti agricoli, ed era al tempo stesso la condizione irrinunciabile della permanenza della Francia nella CEE dopo l’avvento al potere di Charles de Gaulle, del quale era nota l’opposizione all’integrazione europea. Fu appunto l’impossibilità di conseguire in altro modo il libero scambio dei prodotti agricoli (e quindi di ottenere gli attesi vantaggi per le esportazioni agricole francesi) che indusse de Gaulle ad accettare le procedure comunitarie, almeno provvisoriamente, rifiutando al tempo stesso – e definitivamente – le proposte per la trasformazione della CEE in zona di libero scambio allargata, che con tenace insistenza erano sostenute dal governo britannico e negoziate in seno all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE).

I negoziati per l’approvazione e l’applicazione delle proposte della Commissione dei primi regolamenti della PAC dominarono la vita della CEE nel corso dei primi anni Sessanta. Occorre ricordare che le prime “liberalizzazioni”, e cioè le prime riduzioni degli ostacoli agli scambi all’interno della CEE, non avevano creato gravi problemi, anche perché facilitate da una favorevole congiuntura economica. Il calendario dell’unione doganale era stato generalmente rispettato. Una conferma formale venne dalla decisione del Consiglio della Comunità il 14 gennaio 1962, che, constatando il raggiungimento dei principali obiettivi fissati dal Trattato per la realizzazione della prima tappa del Mercato comune, fissava l’inizio della seconda tappa del periodo transitorio al 1° gennaio 1962.

L’avvio dei negoziati agricoli, voluto con insistenza dai francesi, aveva avuto come contropartita l’accelerazione del disarmo doganale interno per i prodotti industriali e del riavvicinamento delle tariffe nei confronti dei paesi terzi alla TEC. Le decisioni di accelerazione (nonché l’inizio dei negoziati agricoli) furono prese dal Consiglio il 12 maggio 1960, ed erano il risultato di un do ut des tra i paesi a tendenza protezionistica (Francia e Italia) e i paesi a tradizione liberoscambista (Germania e Benelux). Questi ultimi, peraltro, risultarono i veri vincitori del confronto, avendo ottenuto – grazie anche a una persistente congiuntura economica favorevole – che alla fine del periodo transitorio (in seguito all’accelerazione, fissata anticipatamente al 1° luglio 1968) la media aritmetica dei dazi della TEC fosse inferiore a quella di tutti i più importanti paesi industrializzati (6,9%, mentre quella del Regno Unito era dell’11,6% e quella degli Stati Uniti dell’11,1%). Tale risultato fu dovuto anche ai risultati dei negoziati in seno al cosiddetto “Kennedy round”, e cioè i negoziati multilaterali promossi dagli Stati Uniti per una diminuzione concordata delle tariffe doganali tra i membri dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), l’antenata dell’attuale Organizzazione mondiale del commercio (OMC).

L’avvio della Politica agricola comune (PAC) e i negoziati per l’adesione della Gran Bretagna

La libera circolazione dei prodotti agricoli non poteva essere conseguita nello stesso modo con cui era stata decisa l’unione doganale per i prodotti industriali. L’economia agricola dei sei paesi membri della CEE era alquanto differente, non soltanto per le ovvie disparità di clima, di fertilità delle terre, di abbondanza delle stesse, di livello tecnologico, di tradizioni culturali, ma anche e soprattutto per l’esistenza, in ogni paese, di politiche originali di protezione dell’agricoltura difficilmente armonizzabili. In ogni paese il settore agricolo era in qualche modo protetto dalla concorrenza internazionale, e quindi in qualche modo amministrato, sin dai primi tempi della rivoluzione industriale. Occorreva quindi costruire un “mercato comune agricolo” mediante una legislazione comune, che avrebbe dovuto sostituire la maggior parte delle regole nazionali di protezione e di gestione dei mercati.

L’elaborazione delle proposte dei regolamenti di mercato per i principali prodotti agricoli fu assai difficile e complessa. Fu il vicepresidente della Commissione, l’olandese , a reggere le fila dei lavori preparatori. Il Trattato assegnava alla PAC obiettivi generali di grande importanza, tra i quali la crescita della produttività in agricoltura, l’ottenimento di un giusto (équitable) livello di vita per gli agricoltori, la stabilità dei mercati e la sicurezza degli approvvigionamenti per i Sei. Seguendo questi principi, e dopo lunga riflessione, il 30 giugno 1960 la Commissione inviava al Consiglio un memorandum nel quale esponeva il suo programma per la PAC (organizzazione di mercato unica con regolamenti per ciascuno dei prodotti di base e derivati, finanziamento della PAC mediante l’istituzione di un Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia – FEOGA – politica strutturale, aiuto alle esportazioni, solidarietà finanziaria).

Cominciò quindi il grande negoziato, durato (anche se con lunghe pause) circa otto anni. Furono discussi dapprima i principi di base proposti dalla Commissione, quindi le proposte di regolamenti per le organizzazioni di mercato. Regolamenti di base furono, dopo lunghe maratone, approvati il 14 gennaio 1962 sotto la forte pressione dei francesi, che avevano condizionato all’approvazione della PAC sia l’accelerazione dell’unione doganale, sia l’inizio dei negoziati con la Gran Bretagna che erano stati richiesti nel frattempo (9 agosto 1961) da quest’ultima, dall’Irlanda (11 luglio) e dalla Danimarca (l0 agosto).

Nello stesso periodo, quasi contemporaneamente si svolgeva la vicenda del negoziato proposto dalla Francia di de Gaulle per la creazione di una “Unione politica” tra i Sei. Le proposte di de Gaulle erano chiaramente intese a contrastare qualsiasi evoluzione sopranazionale dell’integrazione europea. A tal fine la coordinazione delle politiche estere dei Sei avrebbe dovuto consacrare la prevalenza del metodo intergovernativo nella cooperazione europea, con il chiaro intento di affidare ad esso una funzione di guida e di controllo dell’integrazione economica. I negoziati presero il via con una riunione al vertice convocata dal presidente francese a Parigi il 10 e l’11 febbraio 1961, e fu subito chiaro l’appoggio della Germania di Adenauer e la riluttanza dei paesi del Benelux e dell’Italia. A un successivo vertice a Bad Godesberg, il 18 luglio successivo, i lavori furono proseguiti sulla base di documenti preparatori redatti da un comitato ad hoc, che prese il nome di Commissione Fouchet dal suo presidente, il diplomatico francese Christian Fouchet (v. Piano Fouchet). Due piani successivi vennero messi a punto, entrambi aspramente contestati dagli interlocutori della Francia – soprattutto il secondo, che chiaramente ampliava le competenze dell’Unione di Stati al campo dell’economia, mettendo a repentaglio l’autonomia delle Comunità. Le divergenze in seno ai Sei si moltiplicarono, anche in vista dei negoziati britannici. De Gaulle riteneva ormai impossibile pervenire a un accordo costruttivo, e anche i successivi progetti redatti dal successore di Christian Fouchet, l’italiano Attilio Cattani, fallirono nell’aprile 1962; una polemica conferenza stampa del generale suggellò il 15 maggio la fine del negoziato politico.

Ormai la Francia puntava su un’alleanza a due con la Germania, come fu chiaro dopo un trionfale viaggio di de Gaulle, nell’autunno del 1962. Un trattato di cooperazione franco- tedesco fu firmato a Parigi l’11 gennaio 1963, qualche giorno prima della storica conferenza stampa tenuta dal presidente francese il 14 successivo, in cui egli avrebbe annunciato il veto della Francia all’entrata del Regno Unito nella Comunità, adducendo non soltanto le evidenti reticenze e resistenze del candidato all’accettazione dell’Acquis comunitario, ma anche e soprattutto il suo rifiuto ad abbandonare i legami speciali con gli Stati Uniti (ribaditi il 18 dicembre a Nassau, con l’accordo tra il presidente americano John F. Kennedy e il primo ministro britannico Harold Macmillan sui vettori nucleari Polaris) e la conseguente impossibilità di un accordo politico con la Francia che suggellasse l’entrata dei britannici nella Comunità.

Il veto francese concludeva così, in chiaroscuro, un’intensa attività diplomatica francese intesa a modificare la realtà politica dell’integrazione europea secondo una visione ben diversa da quella dei fondatori delle Comunità. Se nell’insieme l’azione di de Gaulle non aveva avuto successo, tuttavia il metodo comunitario era stato messo alla prova, e l’integrazione non avrebbe più ritrovato l’impulso e il successo degli inizi.

La crisi della “sedia vuota” e gli ultimi anni Sessanta

La Francia gollista non aveva rinunciato alla battaglia contro le ambizioni sopranazionali delle istituzioni comunitarie e dei suoi sostenitori, nonostante il fallimento del tentativo di “unione politica”, che avrebbe dovuto segnare un’evoluzione istituzionale favorevole all’ideologia gollista. L’occasione di una nuova offensiva si presentò allorché la Commissione, il 31 marzo 1965, decise di proporre il nuovo regolamento finanziario della PAC, che avrebbe dovuto valere come legislazione definiva. Conformemente a quanto previsto dal Trattato CEE, la proposta della Commissione prevedeva l’imputazione al Bilancio dell’Unione europea dei diritti doganali e dei proventi dei dazi mobili per i prodotti agricoli provenienti dalle importazioni comunitarie. Come corollario a tali disposizioni, la Commissione proponeva altresì l’intervento del Parlamento europeo nella procedura di approvazione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), quindi un aumento dei poteri di quest’ultimo, anch’esso previsto dal Trattato (v. Olivi, 2000, pp. 96-104).

Contro questa iniziativa della Commissione (che intendeva rafforzare le istituzioni comunitarie), la Francia manifestò presto la sua opposizione, che si rivelò insuperabile nel corso del lungo negoziato in seno al Consiglio. Al termine di una lunga maratona, nella notte tra il 30 giugno e il 31 luglio 1965, il ministro degli Esteri francese annunciò che la Francia (di fronte all’atteggiamento degli altri paesi membri sfavorevole a un cambiamento radicale della proposta della Commissione) aveva deciso di ritirare i propri rappresentanti al Consiglio, provocando una grave crisi e una vera e propria paralisi del Processo decisionale della Comunità. Tale crisi durò a lungo, essendo chiara la volontà della Francia gollista di esigere una modifica importante del Trattato per quel che riguardava i poteri delle istituzioni, e in particolare quelli della Commissione.

I negoziati formali tra i Sei ripresero soltanto nel gennaio 1966, dopo che, nelle elezioni presidenziali svoltesi nel dicembre precedente, il generale de Gaulle non era stato eletto – come avvenuto in precedenza – al primo turno, anche grazie a un’opposizione crescente alla sua politica europea. Il 29 gennaio, a Lussemburgo i Sei raggiunsero un compromesso, che se anche non accettava le richieste radicali del governo francese, avrebbe pesato a lungo sul funzionamento della procedura decisionale comunitaria. Mentre le prerogative essenziali della Commissione venivano salvaguardate, il voto a maggioranza – che avrebbe dovuto diventare la regola, salvo le eccezioni espresse nel Trattato – fu dichiarato inapplicabile nel caso di deliberazione su “questioni vitali” per uno Stato membro. Anche se in apparenza si trattava di una dichiarazione unilaterale della Francia, non espressamente assecondata dagli altri Stati membri, essa fu spesso, nel corso degli anni seguenti, invocata con successo anche da questi ultimi. Si può quindi concludere che il metodo comunitario, nel suo complesso, usciva indebolito dalla crisi della “sedia vuota”. Gli ultimi anni del potere gollista in Francia videro comunque il completamento dell’unione doganale tra i Sei, previsto per la fine del periodo transitorio ma stato anticipato al 1° luglio 1968.

La volontà di de Gaulle si era peraltro ancora imposta con la consueta intransigenza in occasione della nuova domanda di apertura di negoziati per l’adesione da parte di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Presentata l’11 maggio del 1967, essa fu oggetto di un nuovo veto da parte del governo francese il 27 novembre dello stesso anno. Sempre nel 1967, il 1° luglio, entrava in vigore il Trattato detto di “fusione degli esecutivi”, già firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965. Esso istituiva un Consiglio unico e una Commissione unica con sede a Bruxelles, incaricati di applicare i tre Trattati comunitari in vigore (CECA, CEE ed Euratom), questi ultimi rimanendo in vigore per tutte le altre norme. La Commissione unica per i primi tre anni sarebbe stata composta da 14 membri, e quindi da 9 membri. La “fusione degli esecutivi” comportava altresì una nuova dislocazione di taluni servizi della nuova Commissione (soprattutto in compensazione a favore del Lussemburgo) e una maggior importanza organica e sostanziale del Comitato dei rappresentanti permanenti, tenuto ormai a trattare tutte le questioni comunitarie (v. Jouve, 1967, vol. I, pp. 348-391). Dopo il fallimento del referendum sulla riorganizzazione dello Stato indetto il 27 aprile 1969, de Gaulle presentava le dimissioni, essendo peraltro il suo prestigio fortemente indebolito dopo gli avvenimenti del 1968. Gli succedeva alla presidenza della Repubblica, il 15 giugno successivo, Georges Pompidou, di cui si conosceva la disparità di opinione sulla politica europea della Francia.

Proponendo agli altri paesi membri una Conferenza al vertice da tenersi all’Aia nell’autunno del 1969, Pompidou faceva chiaramente conoscere la sua volontà di cambiamento di rotta della politica europea della Francia. E infatti, nel corso di quella riunione tale cambiamento fu evidente e il sostegno dei consorti agevolmente conseguito. La presenza di Willy Brandt, nuovo cancelliere della Germania federale, già impegnato nella Ostpolitik e favorevole a un riavvicinamento alla Francia, non fu estranea al successo della Conferenza. Oltre a un accordo sull’apertura di negoziati con i paesi candidati, i Sei pervennero all’approvazione della realizzazione a tappe di un’Unione economica e monetaria e all’accettazione della proposta francese del completamento del mercato comune agricolo. In breve, la Comunità usciva dall’impasse e dall’atmosfera di passività obbligata che vi dominava ormai da anni (v. Weidenfeld, Wessels, 1969-1970, passim).

Gli anni Settanta. L’adesione dei candidati, le crisi monetarie e lo stallo della Comunità

I negoziati con i tre paesi candidati (per la precisione quattro, poiché vi prese parte la Norvegia, alla fine rinunciando all’adesione in seguito al risultato negativo di un referendum) iniziarono nel secondo semestre del 1970. Da parte britannica, essi furono condotti, alquanto inaspettatamente, da un governo conservatore succeduto a quello del laburista Harold Wilson dopo le lezioni legislative del 18 giugno 1970. Primo ministro era stato nominato Edward Heath, colui che aveva condotto la delegazione del Regno Unito ai negoziati degli anni Sessanta. I problemi sul tappeto erano ancor più numerosi e difficili, essendo ormai imponente l’acquis communautaire, specie in tema di agricoltura. La Commissione, chiamata a negoziare su direttive del Consiglio, era dal 10 luglio ricondotta a 9 membri e il nuovo presidente fu l’italiano , secondo commissario italiano essendo stato nominato anche Altiero Spinelli.

Come tutti si attendevano, le trattative furono particolarmente aspre, con momenti di vivissima tensione. Gli ultimi problemi all’ordine del giorno della conferenza (che costarono ai negoziatori lunghe notti insonni al Lussemburgo) furono quelli relativi alle importazioni agricole dalla Nuova Zelanda e al contributo finanziario della Gran Bretagna al bilancio della Comunità. Queste due questioni furono poi ridiscusse nel corso del cosiddetto “rinegoziato”, voluto da Harold Wilson, vincitore delle elezioni legislative del 28 luglio 1974. Wilson chiedeva addirittura anche la revisione delle clausole agricole, ma ottenne soltanto, al Consiglio europeo di Duplico del 10 e 11 marzo 1975, una temporanea revisione delle clausole “neozelandesi” e un meccanismo correttore del contributo britannico Quest’ultimo, risolto in via temporanea e provvisoria, avrebbe dominato la vita della Comunità ancora per molti anni, prima di essere risolto in via (quasi) definitiva al Consiglio europeo di Fontainebleau nel 1984 (v. anche Accordi di Fontainebleau). Comunque, i modesti risultati del “rinegoziato” permisero a Wilson di ottenere una maggioranza favorevole al referendum da lui indetto il 5 giugno successivo. L’atto formale di adesione del Regno Unito, dell’Irlanda, della Danimarca e della Norvegia fu firmato a Bruxelles il 22 gennaio 1972. Il 25 settembre dello stesso anno i cittadini norvegesi rifiutarono la ratifica del Trattato, e pertanto il 10 gennaio 1973 entrarono a far parte della Comunità la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca. Il numero dei membri della Commissione salì a tredici, mentre analoghi adeguamenti furono apportati ad altre istituzioni e organismi della Comunità. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo facenti parte del Commonwealth negoziarono quindi, insieme ai paesi già associati alla Comunità, una nuova Convenzione di associazione, firmata a Lomé il 28 febbraio 1975 da 46 paesi dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico, poi saliti a oltre 60 nei rinnovi successivi (v. Convenzioni di Lomé).

Nel frattempo la Comunità subiva l’impatto e le conseguenze della crisi monetaria che si prospettava su scala mondiale, dopo la decisione del presidente americano Richard Nixon del 15 agosto 1971 di far fluttuare il dollaro, denunciando gli accordi di Bretton Woods sulla convertibilità del dollaro in oro. Le conseguenze per la Comunità di questa decisione americana furono immediatamente sensibili, e già il 21 marzo 1972 i paesi membri si erano accordati sulla fluttuazione concertata, premessa di un sistema monetario comune. Ma l’argomento fu ripreso alla conferenza al vertice convocata a Parigi dal presidente Pompidou il 19 ottobre 1972, con l’obbiettivo di un rilancio politico della Comunità allargata. Si parlò anche del rilancio di un progetto di Unione economica e monetaria sulla base del Piano Barre, dal nome dell’ex vicepresidente della Commissione Raymond Barre, di cui si decise la realizzazione, arrestatasi peraltro alla prima tappa.

Le conseguenze della crisi del dollaro furono aggravate dalla crisi energetica provocata dalla guerra del Kippur tra Israele e i Paesi Arabi e dalle conseguenti decisioni dei paesi produttori di petrolio di aumentare il prezzo del greggio di circa quattro volte, aggravando quindi in modo brutale e improvviso una crisi economica già in atto nel mondo industriale. Tale crisi provocò un’obiettiva paralisi della Comunità, ancorché la solidarietà comunitaria e il libero scambio all’interno della CEE fossero sostanzialmente rispettati. Si aggravò peraltro la crisi monetaria, provocando l’uscita dalla fluttuazione concertata (chiamata anche Serpente monetario) di molti paesi.

Inutili furono gli sforzi per provocare un’uscita dalla crisi mediante un rilancio della Comunità. Si può anzi affermare, in brevissima sintesi, che i soli progressi della Comunità dopo lo scoppio della crisi petrolifera furono di natura istituzionale: su proposta del nuovo Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, il Consiglio della Comunità decise la formalizzazione del vertice dei capi di Stato e di governo, che da allora in poi si sarebbe chiamato Consiglio europeo, e come tale sottoposto alle regole di funzionamento del Consiglio della Comunità. Più importante ancora fu la decisione, anch’essa su proposta francese, di indire le elezioni dirette a suffragio universale del Parlamento europeo, che si sarebbero tenute per la prima volta il 7-10 giugno 1979 (v. Burban, 1979, pp. 101-150).

Degli anni Settanta va ricordata altresì l’istituzione del Sistema monetario europeo (SME), a lungo pensato e negoziato, che propose nuove regole per la fluttuazione concertata delle monete comunitarie, accompagnate da nuovissimi meccanismi d’intervento e di credito monetario. Il sistema, che sarebbe sopravvissuto con alterne vicende fino al Trattato di Maastricht, fu approvato ai Consigli europei di Brema (6-7 luglio 1978) e di Bruxelles (5-6 dicembre) ed entrò in vigore il 13 marzo 1979.

Gli anni Ottanta. Inizio delle grandi riforme: l’Atto unico, il perfezionamento del Mercato unico e La Comunità a dodici membri

I primi anni Ottanta videro importanti cambiamenti politici in Europa. Dopo l’ascesa al potere in Gran Bretagna del partito conservatore e la nomina a primo ministro di Margaret Thatcher il 3 maggio 1979, il 10 maggio 1981 il socialista François Mitterrand fu eletto Presidente della Repubblica francese. In Germania, il 1° ottobre 1982, il democristiano Helmut Josef Michael Kohl divenne cancelliere federale. I tre capi di Stato e di governo furono i protagonisti della scena comunitaria per oltre un decennio, un periodo assai importante in quanto vide il rilancio comunitario dopo lunghi anni di crisi. In effetti, già da qualche tempo la congiuntura economica era in via di miglioramento e si manifestava chiaramente l’esigenza di una ripresa della vita comunitaria. In particolare, era diventato urgente il perfezionamento del Mercato unico europeo, che dopo la messa in opera dell’unione doganale continuava a essere incompleto, data la sussistenza di numerosi ostacoli agli scambi la cui eliminazione si rivelava particolarmente difficile, anche in virtù delle procedure legislative in vigore (come ad esempio la necessità del voto unanime del Consiglio per l’Armonizzazione legislativa prevista dal Trattato). La Commissione (alla cui guida era stato chiamato il 1° gennaio 1985 il francese , destinato a una lunga e felice presidenza) era sensibile a questa esigenza e alle pressioni degli ambienti economici della CEE, e dopo una lunga preparazione presentò al Consiglio europeo un Libro bianco sul completamento del Mercato unico, un vero e proprio programma legislativo che proponeva, oltre che una riforma del Trattato, l’approvazione di quasi 300 atti legislativi e decisioni da parte del Consiglio.

Al Consiglio europeo di Milano (28 e 29 giugno 1985), presieduto dal Presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi (con Giulio Andreotti, ministro degli Esteri e grande protagonista della sessione) si decise, oltre che il via libera alla presentazione delle proposte della Commissione, anche l’apertura di una serie di negoziati per la riforma del Trattato (nonostante l’opposizione di Margaret Thatcher). La Conferenza ad hoc inaugurò i suoi lavori il 9 settembre successivo. I lavori procedettero speditamente e il 17 febbraio 1986 il primo Trattato di riforma della struttura comunitaria veniva firmato da 9 Stati membri, quindi il 28 febbraio dai 3 rimanenti (la Comunità era già a 12 membri, dopo l’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo). L’entrata in vigore seguiva il 1° luglio 1987.

L’Atto unico (così chiamato perché, oltre a riguardare il Trattato CEE, conteneva le prime norme – non comunitarie – sulla cooperazione politica) proponeva quindi la prima riforma del Trattato di Roma. Si trattava di un atto importante, perché non conteneva soltanto norme riguardanti il completamento del Mercato unico, ma conferiva anche nuove competenze alla Comunità, aggiungendo nuove politiche comuni a quelle previste nel Trattato fondatore – politica regionale, Politica ambientale, politica della ricerca (v. anche Politica della ricerca scientifica e tecnologia), ecc. – nonché nuove disposizioni in tema di Politica industriale, Politica dell’energia e politica sociale. In particolare, come si è già accennato, l’Atto unico conteneva una parte dedicata alla cooperazione in politica estera, estendendola agli aspetti politici ed economici della sicurezza.

L’Atto unico fu il primo “trattato riformatore” concluso tra gli Stati membri della CEE e seguiva, essendone una pratica conseguenza, l’iniziativa del Parlamento europeo che, con un progetto di “Trattato sull’Unione europea” (approvato dall’assemblea il 14 febbraio 1984) di cui era stato promotore e guida Altiero Spinelli, aveva costituito la prima spinta e il primo episodio di quella grande riforma della Comunità da molti auspicata a distanza di quasi trent’anni dai Trattati di Roma. Con il senno di poi, si può ben condividere il rammarico di quanti ritenevano il progetto Spinelli ben costruito e sicuramente adatto a dar vita alla “grande riforma” (v. Angelino, 2003, pp. 153-181). Il rifiuto degli Stati membri non impedì, tuttavia, l’inizio di un lungo periodo “riformatore” che condusse, oltre che all’Atto unico, ai successivi Trattati di Maastricht, di Amsterdam (v. Trattato di Amsterdam) e di Nizza (v. Trattato di Nizza), e infine al progetto costituzionale della Convenzione (v. Olivi, 2000, pp. 286-324) (v. Convenzione europea; Costituzione europea).

Come si è accennato, gli Stati membri della CEE erano ormai 12. La Grecia, dopo la fine della dittatura dei colonnelli, era diventata il decimo Stato membro il 1° gennaio 1981, mentre la Spagna e il Portogallo, anch’essi usciti da lunghe dittature negli anni Settanta, avevano dovuto negoziare per oltre otto anni per poter diventare, il 1° gennaio 1986, membri della CEE. Con l’adesione della Spagna, del Portogallo e della Grecia la CEE spostava il suo baricentro verso il Mediterraneo e compiva un notevole passo verso il completamento dell’integrazione europea nella parte occidentale del continente.

L’Atto unico, come si è visto, stabiliva le norme necessarie per il completamento del mercato comune, stabilendo anche la data entro la quale l’imponente processo legislativo necessario doveva essere compiuto e tutte le barriere agli scambi (tranne talune disposizioni fiscali) eliminate, e cioè il 31 dicembre 1992. Fu proprio in seguito all’approvazione di queste norme che si pose il problema della ripresa del processo di unione economica e monetaria, spesso auspicato e mai seriamente intrapreso. Fu soprattutto il presidente della Commissione Jacques Delors a insistere sull’indispensabile ripresa dell’iniziativa, in particolare in materia monetaria, là dove il Trattato non forniva basi normative sufficienti. Egli ottenne così l’istituzione di un comitato che prese il nome di Delors, essendo questi chiamato a presiederlo, incaricato di studiare e possibilmente progettare l’unione monetaria. Delors riuscì a riunire i governatori delle banche centrali della CEE e, dopo un lavoro tenace e fruttuoso, a produrre un rapporto (che anch’esso prese il suo nome) che prevedeva il conseguimento dell’unione monetaria in tre tappe, con disposizioni e meccanismi destinati poi a diventare il contenuto dell’accordo nel Trattato di Maastricht del 1992.

Gli anni Novanta. Il Trattato di Maastricht e l’Unione monetaria, l’Europa a Quindici e i Trattati di Amsterdam e Nizza

Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino, simbolo della divisione dell’Europa e cerniera della “cortina di ferro”, cedeva sotto la pressione dei dimostranti dell’Est e dell’Ovest. La sua caduta – assolutamente imprevista dai politici e dagli osservatori occidentali – suggellava la fine dei regimi comunisti dell’Est, l’inizio dell’implosione del potere sovietico a Mosca e l’ineluttabile unificazione della Germania. L’evento annunciava altresì la fine della Guerra fredda e quindi la modifica sostanziale dei rapporti tra i paesi europei.

Per la Comunità, creata e cresciuta nel corso dei decenni del confronto tra Est ed Ovest, e perfino motivata al suo nascere dalla necessità di modificare in via permanente i rapporti politici tra i paesi dell’Occidente europeo e di spegnerne per sempre le ragioni d’inimicizia, la riunificazione della Germania e il ritorno sulla scena europea dei paesi dell’impero sovietico morente ponevano immensi problemi di motivazione e di programma. La riunificazione della Germania, prima di tutto, rischiava di turbare irrimediabilmente l’equilibrio politico e quindi i rapporti consolidati tra i membri, in primis quelli tra Francia e Germania, supporto essenziale dell’intera costruzione comunitaria (ma anche il governo di Margaret Thatcher non tardò a manifestare il suo malumore). Peraltro, la fretta con cui il cancelliere Kohl si accinse a proclamare la riunificazione tedesca e a prevederne le tappe provocò il temporaneo smarrimento del presidente Mitterrand, cui rispose l’offerta di Kohl di procedere all’unione economica e monetaria e addirittura alla moneta unica, con la rinuncia da parte della Germania al favoloso marco tedesco, simbolo della rinascita della potenza germanica.

Fu così che già nel giugno 1990, al Consiglio europeo di Dublino, i capi di Stato e di governo della CEE potevano accordarsi per l’apertura a dicembre di una serie di Conferenze intergovernative (CIG) che avrebbero dovuto negoziare l’unione economica e monetaria e l’unione politica. A riunificazione tedesca formalmente avvenuta (il 3 ottobre), la convocazione delle due conferenze veniva confermata a Roma in due riunioni del Consiglio europeo, del 27 e 28 ottobre e del 14 e 15 dicembre, e inaugurate il 15 dicembre.

Le due conferenze intergovernative finirono per lavorare in parallelo, soprattutto dopo che il governo lussemburghese, che le presiedeva pro tempore, sottopose un progetto completo di Trattato che fu poi sostituito con altro progetto, molto simile al primo ma meglio articolato e più accettabile dalle parti, preparato dalla presidenza olandese di turno dal 1° luglio successivo. Si scorgeva ormai la struttura a “tre pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea), e cioè in tre parti diverse, discusse e poi approvate anche in tempi diversi, la prima delle quali concerneva le riforme da apportare alla struttura comunitaria e all’Unione Europea, e cioè alla nuova entità che avrebbe conglobato tutte le riforme e le aggiunte ai Trattati esistenti. Di conseguenza, ad essa si riferivano anche gli altri due “pilastri”, quello che conteneva i nuovi obbiettivi e le nuove procedure della Politica estera e di sicurezza comune, nonché i primi passi in tema di difesa europea (v. Politica europea di sicurezza e difesa), e il terzo (v. Giustizia e affari interni), che riguardava la cooperazione intergovernativa in materia di polizia e di giustizia (argomenti nuovissimi nella normativa europea) (v. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).

Ciò non conferiva al Trattato il primato della chiarezza giuridica (ma anche politica), poiché all’Unione europea non veniva conferita personalità giuridica, rimanendo quindi essa una semplice espressione indicativa di un insieme, e cioè delle Comunità esistenti (CECA, CEE, Euratom) e di quant’altro veniva pattuito tra gli Stati membri delle Comunità all’infuori delle strutture delle Comunità medesime (v. Personalità giuridica dell’Unione europea). In questo contesto un’importante novità (conseguenza delle nuove competenze conferite alle istituzioni comunitarie) fu il cambiamento di denominazione della CEE, che diventava Comunità europea. A essa si sarebbe riferita da allora in poi tutta la struttura istituzionale (le altre Comunità sussistevano, ma le norme che le riguardavano restavano in vigore soltanto in riferimento alle modifiche del Trattato CEE e quindi alla Comunità europea). La Commissione (che sarebbe rimasta Commissione delle Comunità europee) e il Consiglio (che analogamente avrebbe conservato la denominazione di Consiglio delle Comunità europee), decisero più tardi e autonomamente di razionalizzare la propria denominazione (la Commissione divenne Commissione europea il 1° gennaio 1994; il Consiglio fu denominato Consiglio dell’Unione europea il 1° novembre 1993).

Il Trattato di Maastricht era quindi ben diverso da quello che auspicavano i suoi stessi protagonisti, e non costituiva il salto politico propugnato dal cancelliere Kohl in sintonia con la riunificazione tedesca. Benché i progressi istituzionali non mancassero (si pensi alle competenze legislative del Parlamento europeo), le reticenze rispetto alle aspettative della vigilia si erano rivelate invalicabili. Comunque, la parte relativa all’Unione economica e monetaria era stata approvata in conformità al rapporto Delors, e prometteva un approfondimento essenziale dell’integrazione. Tuttavia, il sentimento di “incompiuto” era condiviso da tutti, e per questa ragione il Trattato prevedeva che, a breve scadenza (e cioè nel 1996), gli Stati membri avrebbero convocato una nuova CIG per riesaminare talune parti del Trattato e procedere, se necessario, alla revisione di esso. Ciò avvenne, come peraltro era prevedibile, dopo laboriose trattative sul mandato da conferire alla nuova conferenza, che fu inaugurata a Torino il 28 marzo 1996.

Nel frattempo (e cioè dalla firma del Trattato di Maastricht, avvenuta il 7 febbraio 1992) molti avvenimenti avevano agitato la vita dell’Unione europea (UE), dalle vicende delle ratifiche da parte degli Stati firmatari – in particolare quelle relative ai referendum danesi e francese – alle crisi monetarie britannica e italiana, all’adesione all’UE di Austria, Finlandia e Svezia (formalizzata il 1° gennaio 1995) che portò a 15 il numero degli Stati membri della Comunità. È da ricordare l’avvio dell’Unione monetaria, che nel 1999 sarebbe entrata nella terza tappa prevista dal Trattato di Maastricht (v. Padoa-Schioppa, 1992).

I negoziati per il Trattato di Amsterdam procedettero speditamente sino alla firma, avvenuta il 2 ottobre 1997. Poche furono le riforme apportate dal Trattato di Amsterdam, soprattutto rispetto alle aspettative. Per quel che riguarda la Comunità europea, furono finalmente definite le procedure legislative e quindi il processo di Codecisione tra Parlamento e Consiglio che diventerà la prassi definitiva adottata dalle istituzioni legislative (v. Procedura di codecisione,). Alcune competenze aggiuntive in materia sociale venivano attribuite alla Comunità, soprattutto in tema di lotta alla disoccupazione, si stabilivano le procedure per la messa in opera del Principio di sussidiarietà, era ribadita la creazione della Cittadinanza europea, già istituita a dal Trattato di Maastricht, e per la prima volta i Diritti dell’uomo venivano solennemente citati come fondamenti dell’Unione (v. anche Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

Il 12 luglio 1997 la Commissione presentava al Consiglio l’“Agenda 2000”, il programma e le previsioni finanziarie 2000-2007, insieme con i suoi “pareri” sull’adesione dell’Ungheria, la Polonia, l’Estonia, la Repubblica Ceca e la Slovenia. Il 31 marzo 1998 si aprivano a Bruxelles le conferenze ministeriali sull’adesione di questi paesi (v. anche Criteri di adesione), oltre che di Lituania, Lettonia, Slovacchia, Cipro e Malta. Fu quindi la prospettiva dell’adesione di questi dieci paesi a provocare una grande riflessione tra gli Stati membri sulla possibilità di adattare le istituzioni (nate per una Comunità a 6 membri, modificate in seguito ai successivi allargamenti a 9, a 10, a 15 membri) a un’Unione a 25 membri (v. anche Allargamento). Per risolvere tali problemi si rendeva quindi necessaria un’ulteriore Conferenza intergovernativa, che iniziò i suoi lavori nel febbraio 2000. Quattro furono i temi principali di discussione: la dimensione e la composizione della Commissione; la ponderazione dei voti del Consiglio; la sostituzione dell’unanimità con la maggioranza qualificata nelle procedure di decisione, e infine le “cooperazioni rafforzate”. L’11 dicembre 2000 il Consiglio europeo di Nizza, dopo aspre ed estenuanti discussioni, approvava un progetto di Trattato e una “Dichiarazione sull’avvenire dell’UE”, in cui implicitamente si riconosceva il fallimento del metodo diplomatico classico, preconizzando l’avvio di un ampio dibattito anche di natura costituzionale.

La Convenzione e il Trattato costituzionale. L’incertezza delle ratifiche e la crisi conseguente

Al Consiglio europeo di Laeken (13-14 giugno 2001) i suggerimenti di Nizza furono lungamente e seriamente discussi e diedero luogo a una “Dichiarazione” in cui il Consiglio esponeva la sua decisione di convocare una Convenzione sull’avvenire dell’Unione europea composta da rappresentanti dei governi, istituzioni europee, istituzioni nazionali, in particolare i parlamenti, per discutere le numerose questioni (la dichiarazione ne enumerava più di sessanta), per semplificare, consolidare e razionalizzare l’immenso acquis communautaire e per delineare l’architettura definitiva dell’integrazione europea (v. Lamassoure, 2004, passim).

Il 28 febbraio 2002 prendevano avvio i lavori della Convenzione, che, secondo il parere del suo presidente Valéry Giscard d’Estaing, avrebbe dovuto redigere un “Trattato costituzionale”. Nel testo definitivo, firmato dai rappresentanti dei 25 governi membri a Roma il 29 ottobre 2004, veniva istituita una nuova Unione europea che sostituiva quella nata a Maastricht e alla quale veniva conferita personalità giuridica. La Comunità europea, erede della Comunità economica europea, scompariva definitivamente. Il Trattato costituzionale conta 448 articoli, divisi in quattro parti. La prima, che non porta alcun titolo, definisce i valori e le istituzioni dell’UE. La seconda riproduce integralmente il testo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000. La terza parte del testo, dedicata alle politiche dell’Unione, è di gran lunga la più complessa, in quanto riassume in testo di non facile lettura le norme e le disposizioni di ben cinque Trattati. Infine, la quarta parte contiene disposizioni sulla ratifica, sull’entrata in vigore e sulla procedura di revisione del testo costituzionale.

Il referendum francese del 2005, con il quale la Francia rifiutava la ratifica della Costituzione europea con una maggioranza del 54,5% di voti contrari, nonché il parere contrario espresso nello stesso anno dai cittadini dei Paesi Bassi rappresentavano un colpo gravissimo per l’integrazione europea, rendendo incerto il futuro del Trattato costituzionale se non della stessa Unione europea.

Bino Olivi (2007)

Comunità europea del carbone e dell’acciaio

Nascita della Comunità

La fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) ha rappresentato per l’Europa una svolta storica, segnando l’avvio del processo d’integrazione comunitaria e il superamento del dissidio franco-tedesco. Ideata da Jean Monnet, proposta da Robert Schuman e istituita col Trattato di Parigi firmato il 18 aprile 1951, è la prima organizzazione europea di carattere sovranazionale (art. 9).

Alla fine degli anni Quaranta, il problema che più di ogni altro spinse gli europei a operare a favore dell’unità fu il futuro della Germania, attraverso il quale passava il mantenimento della pace sul continente. Questo paese era il caposaldo più avanzato ed esposto sul fronte del nuovo conflitto di potenza determinato dalla divisione del mondo in due zone d’influenza, il punto di maggior debolezza dello schieramento occidentale, ma la sua ricostruzione era controversa. Entrati rapidamente nell’ottica del bipolarismo, gli americani avevano cominciato da tempo a chiedere la normalizzazione della situazione tedesca e l’inserimento della Germania federale negli organismi di collaborazione europea. Questa politica suscitava profondi contrasti in Francia, dove la paura di un’eventuale nuova aggressione da parte tedesca si traduceva nella resistenza ad acconsentire a qualsiasi accordo che permettesse alla Germania di riappropriarsi delle due grandi basi della propria potenza: l’economia – in particolare l’industria pesante renana, la chiave della potenza economica e dell’arsenale bellico – e l’esercito. Non è certo casuale che i primi due progetti di Comunità europea sovranazionale – la CECA e la Comunità europea di difesa (CED) – riguardassero proprio questi due settori.

Avendo dovuto rinunciare ai suoi piani di smembramento della Germania e dovendo confrontarsi con una superiorità tedesca indiscussa nella produzione di acciaio, la Francia aveva concentrato i suoi sforzi sulla Saar – che non era compresa nella sua zona di occupazione, ma le era stata affidata in amministrazione fiduciaria e con la quale aveva stretto un’unione doganale e monetaria – e sulla Ruhr, ottenendo la creazione di un’Autorità internazionale della Ruhr, nell’aprile del 1949, le cui funzioni erano quelle di ripartire la produzione del bacino tra consumi interni ed esportazioni.

A più di quattro anni dalla fine della guerra, l’enorme fabbisogno francese di carbone tedesco non bastava più a giustificare un sistema di dominazione. Il governo francese, tuttavia, che mirava a porsi come centro nevralgico della ricostruzione europea, si ostinava a voler mantenere controlli sull’economia tedesca per evitare il ritorno all’insicurezza degli approvvigionamenti vitali di carbone e coke e quindi la subordinazione della siderurgia francese a quella tedesca. Nel 1950 si giunse a un momento di grave tensione, quando la Francia intensificò gli sforzi per staccare politicamente ed economicamente la Saar dalla Germania. In marzo, mentre Konrad Adenauer aveva proposto che le decisioni sul destino della Saar fossero rinviate al momento della stipulazione del trattato di pace con la Germania, governo della Saar e governo francese avevano firmato un protocollo che sanzionava il controllo cinquantennale della Francia sulle miniere della Saar e in cui si auspicava l’ingresso della regione nel Consiglio d’Europa. Quanto alla Ruhr, l’Autorità internazionale appariva ai francesi insufficiente, dal momento che non controllava le concentrazioni industriali e i piani di equipaggiamento e produzione e non prevedeva il diritto di veto, quindi la possibilità di opporsi a nuove richieste tedesche di aumentare la produzione di acciaio. I tedeschi, a loro volta, essendo gli unici ad essere sottoposti a controlli, consideravano l’autorità internazionale della Ruhr discriminatoria.

La situazione era critica. Di fronte alla richiesta tedesca di aumentare la produzione di acciaio da 11 a 14 milioni di tonnellate, la Francia avrebbe rifiutato, ma gli americani avrebbero appoggiato la richiesta. Così, pur con riserve, la Francia avrebbe dovuto cedere. Le conseguenze erano facilmente immaginabili e Jean Monnet le descrive nelle sue memorie con grande incisività, dimostrando come problema economico e problema politico fossero strettamente intrecciati. L’economia tedesca si sarebbe sviluppata, creando le premesse per il dumping tedesco all’esportazione; gli industriali francesi, a loro volta, avrebbero fatto domanda di protezione, riportando la Francia sulla via di una produzione limitata e fortemente protetta; ciò avrebbe arrestato il processo di liberalizzazione degli scambi in corso nell’Europa occidentale a partire dall’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE); si sarebbero ricreati i cartelli d’anteguerra, ricadendo nelle logiche perverse del primo dopoguerra.

Questi erano i termini congiunturali di una sfida a più ampio raggio: quella di creare un legame tra Francia e Germania capace di neutralizzare le due maggiori fonti della potenza tedesca, l’industria pesante renana e l’esercito, e metterle a disposizione di una ricostruzione europea in cui la Francia avrebbe svolto un ruolo di primo piano. Ciò, a maggior ragione, in conseguenza dei mutati rapporti politici e militari verificatisi nel mondo alla fine del 1949, con il riconoscimento statunitense della special relationship con la Gran Bretagna (v. Regno Unito).

Il Piano Schuman

Occorreva una rivoluzione copernicana nei rapporti tra gli Stati europei. Fu Jean Monnet a proporla con un’iniziativa originale, non riconducibile a quei cartelli internazionali che pure ebbero un ruolo importante nella regione nel periodo tra le due guerre e di cui è stata sottolineata l’influenza positiva nell’avvio della prima Comunità, per la persistenza almeno a livello personale, al di là della guerra, dei legami che si erano creati tra gli ambienti siderurgici francesi e tedeschi.

Il Piano Schuman, come sottolinea Klaus Schwabe, fu un geniale compromesso fra il desiderio della Francia – che mirava a riottenere una posizione centrale in Europa – di continuare a controllare la Germania e lo sforzo tedesco di ottenere pari diritti e autonomia.

Per superare l’ostacolo occorrevano idee nuove, che rovesciassero gli schemi obsoleti d’anteguerra; il vicino, il nemico del passato, nel nuovo contesto geopolitico del bipolarismo doveva diventare il naturale partner del futuro. Una soluzione che mettesse l’industria francese sulle stesse basi di partenza dell’industria tedesca, eliminando la paura della dominazione industriale tedesca e liberando la Germania, a sua volta, dalle discriminazioni nate con la sconfitta, avrebbe ristabilito le condizioni economiche e politiche di un’intesa indispensabile all’Europa. Ma Monnet si spinse ancor più avanti, creando le premesse per l’avvio di una nuova fase della storia europea: il processo di unificazione.

In vista dell’incontro, fissato per il 10 maggio 1950 a Londra, tra il ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, il ministro degli Esteri britannico, Ernest Bevin, e il segretario di Stato americano, Dean Acheson, per sciogliere il nodo tedesco, il 28 aprile Jean Monnet indirizzava al Presidente del Consiglio francese, Georges Bidault, e allo stesso Schuman un memorandum in cui proponeva di creare un’autorità specializzata sovranazionale con poteri limitati al settore della produzione del carbone e dell’acciaio. Egli non nascondeva il proprio obiettivo: «questa proposta – affermava – realizzerà le prime assise concrete di una federazione europea indispensabile a preservare la pace» (v. Monnet, 1988, p. 353). In un secondo memorandum, datato 3 maggio, egli spiegava la propria teoria, gradualistica, ma nel contempo “radicale”, evidenziando che il problema dell’organizzazione europea avrebbe potuto essere affrontato e risolto soltanto con «un’azione risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi». Così si sarebbe potuto dare ai popoli dei paesi “liberi” un motivo di speranza per il futuro, suscitando in essi l’attiva determinazione di perseguirli (v. Federalismo; Funzionalismo).

Nel giro di pochi giorni, il progetto di Monnet trovava il consenso di Schuman, del Consiglio dei ministri francese e del cancelliere tedesco, Konrad Adenauer. Formalmente presentato da Schuman al Salone dell’Orologio, il 9 maggio, provocava una vivace irritazione in Bevin e sostegno in Acheson.

La prima Comunità europea era ormai abbozzata. L’avvenimento era epocale, poiché inseriva nel contesto della politica mondiale un soggetto nuovo: l’Europa integrata, sia pure solo parzialmente, tanto sotto il profilo territoriale quanto sotto quello politico (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

Per studiare il progetto e attuarlo venne convocata a Parigi, il 20 giugno 1950, una Conferenza diplomatica (v. Conferenze intergovernative) cui aderirono Francia, Repubblica federale di Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, mentre il Regno Unito, dove il governo era impegnato a nazionalizzare carbone e siderurgia e diffidava delle visioni liberiste, non intendendo mettere in comune le proprie risorse e subordinarle a un’Alta autorità con poteri sovrani come il progetto di Monnet prevedeva, declinava l’invito. L’impegno richiesto dissipava ogni equivoco sul concetto di unità europea e indicava con chiarezza quali Stati intendevano agire concretamente a favore dell’unificazione. Si determinava così una nuova limitazione dell’Europa del “possibile”, attraverso una scissione tra quei paesi – i Sei – che erano disposti ad andare avanti sul piano inclinato dell’unificazione sovranazionale e quelli – Regno Unito, paesi Scandinavi – che non erano ancora pronti a rinunce di sovranità.

I lavori della Conferenza diplomatica: contrasti e problemi

Presieduta da Monnet, la Conferenza era composta da 60 delegati in rappresentanza dei sei paesi aderenti. Le delegazioni erano guidate da Max Suetens (Belgio), Dirk Spierenburg (Paesi Bassi), Albert Wehrer (Lussemburgo), Walter Hallstein (Repubblica federale di Germania), Paolo Emilio Taviani (Italia). Monnet avrebbe voluto un negoziato breve, di poche settimane, con l’obiettivo d’installare un’Alta autorità che avrebbe provveduto poi a risolvere le questioni tecniche. Le resistenze dei rappresentanti del Benelux lo impedirono, facendo prolungare i lavori, che si articolarono in gruppi e sottogruppi.

I lavori della Conferenza, cui è indubbio che la guerra di Corea impresse una notevole accelerazione a causa del riarmo e della conseguente impennata della domanda di prodotti siderurgici, possono essere sintetizzati in tre fasi: la discussione del Document de travail di 40 articoli predisposto da Monnet (giugno), l’elaborazione dei contenuti del Trattato all’interno dei gruppi di lavoro (luglio-ottobre), la preparazione del testo da sottoporre ai governi (novembre- dicembre).

Il punto di maggior contrasto – cui era collegato, sul coté economico, lo scontro tra concezione dirigistica e liberistica della nuova Comunità – furono i poteri da affidare all’Alta autorità. Furono soprattutto Suetens e Spierenburg a volerne arginare i poteri decisionali, sostenendo la costituzione e il primato di un organo di rappresentanza intergovernativa: il Consiglio dei ministri. Ma anche la Germania federale era favorevole a circoscrivere la libertà d’azione dell’Alta autorità in materia di investimenti. Nasceva così il metodo comunitario, non caratterizzato, come avrebbe voluto Monnet, da accentramento decisionale, bensì da un articolato dialogo istituzionale.

Il problema più spinoso e che più a lungo rimase sul tappeto riguardava la legislazione antitrust, che rappresenterà per certi versi, con i suoi articoli 65 e 66, il fiore all’occhiello della Comunità.

Vale la pena di ripercorrerne la genesi. Il primo straniero ad essere informato del Piano Schuman, due giorni prima della sua presentazione ufficiale, era stato Dean Acheson, di passaggio a Parigi il 7 maggio. La sua reazione è importante per comprendere l’impegno di Monnet nel dare un’impostazione anticartellistica al Piano. Acheson, infatti, faticò a intuire la portata del progetto e non ne fu particolarmente entusiasta, sospettando che nascondesse la creazione di una sorta di grande cartello del carbone e dell’acciaio, un desiderio nostalgico degli industriali europei. Egli inoltre temeva che l’Antitrust division del Department of justice potesse incoraggiare commenti critici al progetto. Il malinteso fu presto chiarito, ma Monnet si ripropose da quel momento di vigilare per allontanare anche solo il sospetto che la Comunità avesse l’obiettivo di creare un cartello. Da gennaio a marzo del 1951, l’attenzione della Conferenza fu quindi focalizzata sul piano di decartellizzazione e smembramento delle industrie di carbone e acciaio tedesche.

Il grande fautore della decartellizzazione, da parte americana, fu l’Alto commissario americano John McCloy. Mc Cloy era amico di Monnet e ne condivideva le posizioni: era convinto che nessuna organizzazione europea sarebbe stata possibile se la Germania avesse mantenuto posizioni industriali di predominio. Al suo fianco era Robert Richardson Bowie, un giovane professore della Harvard University, che a quei tempi assisteva McCloy nell’amministrazione dell’Autorità internazionale della Ruhr e che era considerato il miglior specialista di legislazione antitrust negli USA. Bowie era stato incaricato da McCloy di por mano alla legge 27, una ordinanza adottata dall’Alta commissione alleata per metter fine alla concentrazione dell’industria tedesca di carbone e acciaio. Monnet chiese a lui di redigere gli articoli antitrust per il Trattato della CECA.

Le prime proposte vennero presentate il 27 ottobre e suscitarono una reazione immediata. Gli ambienti dirigenti tedeschi, in particolare, faticavano ad accettare i poteri che l’Alta autorità (indipendente dai governi) avrebbe avuto in materia di antitrust. Il problema, in effetti, era quello di spezzare le eccessive concentrazioni delle industrie siderurgiche e carbonifere della Ruhr, dove i vecchi cartelli che erano stati alla base della potenza militare del Reich tedesco si stavano naturalmente ricostituendo. Gli americani, sensibili alle tematiche del libero scambio, chiedevano che l’organizzazione unica di vendita del carbone tedesco – il famoso DKV Deutsche Kohle-verkaufs Gesellschaft (DKV) perdesse la sua struttura di monopolio e che le industrie dell’acciaio non possedessero più miniere di carbone. Si trattava di una misura che avrebbe toccato il cuore della potenza della Germania. Non si poteva realizzare sul continente un equilibrio tra gli Stati se i magnati della Ruhr avessero continuato a gestire l’intera produzione di carbone, necessaria sia alla loro industria che a quella dei francesi. Se i proprietari di coke della Ruhr avessero ripreso il controllo della produzione degli altiforni francesi, l’insicurezza sarebbe di nuovo regnata in Francia. Si giunse infine a un compromesso, che distingueva tra “good” and “bad” cartel, prevedendo la possibilità per prodotti determinati e in casi eccezionali di «accordi di specializzazione o accordi d’acquisto o di vendita in comune» (art. 65).

Dopo la liberazione, nel febbraio 1951, di Alfred Krupp, condannato al processo di Norimberga a 12 anni di carcere, il governo tedesco avanzò proposte ragionevoli in tema di antitrust: i 12 ex trust dell’acciaio sarebbero stati smembrati in 28; il DKV sarebbe stato soppresso entro il mese di ottobre 1952 così come gli organismi dello stesso tipo; le compagnie siderurgiche non avrebbero potuto possedere miniere di carbone se non per il massimo del 75% delle loro necessità. Queste proposte furono approvate all’unanimità dagli Alleati a condizione che il Piano Schuman entrasse in vigore. Il piano di decartellizzazione venne infine accettato da Adenauer, il 14 marzo. Gli articoli 71, 72, 73, 74 e 75 relativi alla politica commerciale, poi, prevedevano con chiarezza libertà di scambio anche con i paesi esterni. In realtà le politiche antitrust avrebbero dimostrato scarsa aggressività. Presto i gruppi tedeschi si sarebbero riconcentrati, seppur sotto forme diverse, permettendo in breve alla siderurgia tedesca di recuperare la propria leadership.

Disposizioni del Trattato e compiti della CECA

Nonostante i numerosi problemi affrontati, la Conferenza di Parigi si concluse rapidamente. Il progetto di trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio fu parafato il 19 marzo e firmato il 18 aprile 1951. Il Trattato constava di 100 articoli, tre allegati (riguardanti, rispettivamente, l’individuazione dei prodotti assoggettati al regime CECA, la regolamentazione del mercato del rottame, quella degli acciai speciali) e tre protocolli concernenti privilegi e immunità della Comunità, Statuto della Corte di giustizia, relazioni con il Consiglio d’Europa. Erano inoltre annesse al Trattato le lettere tra Adenauer e Schuman circa il territorio della Saar. C’era infine una Convenzione relativa alle disposizioni transitorie, inserite per venire incontro alle richieste di tutela e sovvenzioni speciali da parte dei settori più deboli della Comunità (miniere belghe, siderurgia italiana).

Il Trattato prevedeva la creazione di un mercato comune del carbone e dell’acciaio, la libera circolazione delle merci con divieto di aiuti di Stato, discriminazioni e pratiche restrittive. Tra i compiti della CECA vi erano: assicurare un’offerta stabile di carbone e acciaio sul mercato, garantire equo accesso alle fonti di produzione per tutti i consumatori e una razionale distribuzione, favorire l’espansione, la modernizzazione e l’aumento della produzione, monitorare i prezzi, promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera del settore carbosiderurgico.

Nel preambolo, le Alte parti contraenti si dicevano risolute a creare «la prima assise d’una comunità più vasta e più profonda tra popoli per lungo tempo opposti da divisioni sanguinose» e a «porre le basi di istituzioni capaci di indirizzare un destino oramai comune». I Sei conferivano a istituzioni comuni, di carattere sovranazionale, tutti i poteri in materia di carbone e acciaio (v. anche Istituzioni comunitarie). Le istituzioni chiamate a gestire le nuove competenze comunitarie erano: un’Alta autorità, composta di nove membri nominati dagli Stati per un periodo di sei anni, ma indipendenti nell’esercizio delle loro funzioni, con sede nominalmente provvisoria a Lussemburgo, che avrebbe svolto una funzione esecutiva; un Consiglio dei ministri, composto dai rappresentanti dei governi degli Stati membri e incaricato di armonizzare l’azione dell’Alta autorità con quella degli Stati; un’Assemblea comune (v. anche Parlamento europeo), formata da rappresentanti nominati dai parlamenti nazionali con poteri “di controllo” (unico potere: censurare il resoconto annuale dell’Alta autorità); una Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), formata da sette giudici nominati dai governi e incaricata di assicurare il rispetto del diritto nell’applicazione e interpretazione delle norme del Trattato. L’Alta autorità era assistita da un Comitato consultivo, aperto alle categorie produttrici e agli utilizzatori (v. Comitati e gruppi di lavoro).

Il Trattato istitutivo della CECA entrò in vigore il 25 luglio 1952, con lo scambio dei documenti di ratifica. L’Alta autorità entrò in funzione il 10 agosto 1952 e rimase in vita fino al 1967 quando, con la fusione degli esecutivi, le sue prerogative furono assunte dalla Commissione delle Comunità europee (v. anche Commissione europea). In questi anni ebbe cinque presidenti: Jean Monnet, René Mayer, , , Rinaldo Del Bo (detto Dino).

Il 10 febbraio 1953 si apriva il mercato comune per il carbone, il minerale di ferro e il rottame, in maggio quello dell’acciaio. L’eccezione più importante era rappresentata dall’Italia, a cui fu concesso di proteggere la propria siderurgia con barriere doganali decrescenti per un periodo transitorio, sino al 1958. L’applicazione del Trattato dovette scontrarsi nel tempo con molti ostacoli. Le finalità federaliste previste da Monnet e la speranza di un rapido percorso federalista dovettero fare i conti, da un lato, con la difficoltà pratica di far funzionare un organismo sovranazionale che si doveva sovrapporre a pratiche nazionali molto diverse, dall’altro, con l’ingerenza degli Stati nazionali, sia attraverso l’azione frenante del Consiglio dei ministri, sia attraverso quella di alcuni membri dell’Alta autorità. Fu la forza dei nazionalismi a produrre l’incapacità di gestire a livello comunitario la crisi dell’industria carbonifera belga iniziata nel 1958, che finì con l’affrettare il declino dell’industria carbonifera europea. Altri limiti derivavano dall’integrazione parziale e dall’impossibilità di agire in campi contigui a quelli dei carbone e acciaio, quali trasporti, politiche energetiche, politiche commerciali.

La CECA introdusse tuttavia nuove regole e standard nei mercati carbosiderurgici europei: liberalizzazione dei mercati, definizione di pratiche concorrenziali più trasparenti, politiche sociali, incentivi alla ricerca e agli investimenti.

Successo e conclusione dell’esperienza della prima Comunità

Tra il 1953 e il 1957, la Comunità, godendo di una congiuntura economica favorevole, conobbe un incremento produttivo nell’industria siderurgica pari al 50%. Se non è facile stabilire in quale misura esso sia imputabile direttamente alla CECA, è un fatto che essa ne favorì l’ampiezza, agendo anche efficacemente sul meccanismo delle aspettative e sul vertiginoso aumento delle relazioni commerciali. Negli anni Sessanta, sia nel campo del carbone sia in quello della siderurgia, emersero problemi di sovrapproduzione e difficoltà. Il momento di massima efficacia del Trattato CECA può essere individuato nella gestione della lunga crisi siderurgica europea apertasi a metà anni Settanta e culminata fra il 1980-1985, fino al 1988. La Commissione si assunse il compito di guidare il processo di ristrutturazione (fissare prezzi, allocare quote alle imprese), tagli, riconversioni produttive, ma anche aiuti pubblici alle imprese, regolamentati da Bruxelles attraverso un codice specifico. Ciò evitò la guerra di tutti contro tutti. La Commissione fu in grado di pilotare in modo graduale il drastico ridimensionamento del settore, con misure di aiuto ai lavoratori per attutire i costi sociali. Superata la fase critica, il dirigismo viene abbandonato anche se il risanamento non poteva dirsi del tutto completato (ad esempio per quanto riguarda l’Italia).

A partire dagli anni Novanta, l’industria siderurgica conobbe cambiamenti di tale portata da farle perdere quel ruolo strategico che aveva avuto alla nascita: nel giro di pochi anni, le principali aziende siderurgiche pubbliche furono privatizzate, venne avviato un processo di concentrazione attraverso una serie di fusioni e acquisizioni transnazionali. Nel frattempo, i grandi gruppi si mondializzavano, intensificando la specializzazione transnazionale.

Nel 1992, il Consiglio dei ministri dell’Unione europea decise di lasciar morire la CECA di morte naturale, alla sua scadenza nel luglio 2002, anche se, verso la fine degli anni Novanta, è stato ritenuto opportuno mantenere in vita almeno alcuni aspetti dell’esperienza della CECA (la ricerca, l’istituzionalizzazione del dialogo settoriale), mentre il Comitato consultivo è stato inserito all’interno del Comitato economico e sociale dell’Unione europea.

Daniela Preda (2008) Comunità europea dell’energia atomica

I sei paesi fondatori riuniti a Roma nel marzo 1957 firmarono due Trattati (Trattati di Roma), istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom). Fu soprattutto sotto la spinta del pensiero di Jean Monnet, fervente sostenitore dell’approccio funzionalista (v. Funzionalismo) e di un’integrazione per settori (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della), che i ministri degli Esteri riuniti a Messina (v. Conferenza di Messina) nel 1955 decisero di affidare a uno speciale comitato, guidato dal ministro belga Paul-Henri Charles Spaak, il compito di studiare non solo un progetto di mercato comune (v. Comunità economica europea), ma anche una politica comune nel settore dell’energia nucleare. Il Trattato Euratom, entrato in vigore il 1° gennaio 1958 e mai sottoposto a grandi modifiche, costituisce ancora oggi la base giuridica per la politica dell’Unione nel campo dell’energia nucleare. Lo schema istituzionale rispecchia quello della CEE, anche se inizialmente Assemblea parlamentare (v. anche Parlamento europeo) e Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) erano i soli organi in comune, mentre Commissione europea e Consiglio (v. Consiglio dei ministri; Consiglio europeo) sono stati unificati solo con l’entrata in vigore, nel 1967, del Trattato di fusione degli esecutivi.

La CEEA è dotata di una propria personalità giuridica. Essa è, dunque, un’entità separata rispetto all’Unione europea, con cui condivide le stesse istituzioni (v. anche Istituzioni comunitarie); tale resta anche oggi, nonostante l’adozione del progetto di Trattato costituzionale, attualmente sottoposto alla ratifica degli Stati membri (v. Costituzione europea). Tale Trattato include, infatti, tra gli allegati uno specifico protocollo che modifica il Trattato Euratom, contenente alcune modifiche cosmetiche di adeguamento, specialmente in materia istituzionale e finanziaria. Tuttavia, proprio in considerazione dell’evoluzione tecnologica, politica ed economica degli ultimi 50 anni, cinque Stati membri (Germania, Irlanda, Ungheria, Austria e Svezia) hanno sottoscritto una dichiarazione ove esprimono la necessità di avviare quanto prima una conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per emendare il Trattato Euratom.

I sei paesi fondatori avevano creato la CEEA come uno strumento per superare gli alti costi di investimento iniziali del settore e conseguire una maggiore indipendenza energetica; in particolare la Francia, unico paese che a quel tempo possedeva un programma nucleare, sperava di ottenerne i maggiori benefici. Anche se nella fase iniziale gli interessi nazionali prevalsero e mancò forse un certo coordinamento nei programmi di ricerca che ciascun paese stava sviluppando, il Trattato Euratom pose le basi per la condivisione delle conoscenze, delle infrastrutture e del finanziamento in campo nucleare e promosse lo sviluppo di una industria nucleare europea capace di offrire una maggiore sicurezza di approvvigionamento energetico. Secondo il Trattato, i compiti dell’Euratom sono: favorire la ricerca e la diffusione delle conoscenze tecniche; stabilire e garantire l’applicazione di norme di sicurezza uniformi per la protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori; promuovere gli investimenti anche infrastrutturali necessari allo sviluppo di un’industria nucleare europea; assicurare il regolare ed equo approvvigionamento di minerali e combustibili nucleari; garantire che le materie nucleari non siano utilizzate per fini illeciti, in particolare militari; promuovere l’uso pacifico dell’energia nucleare attraverso la collaborazione con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali (in particolare l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, AIEA); costituire imprese comuni per lo sviluppo dell’industria nucleare europea. Il Trattato crea, inoltre, due organismi in seno all’Euratom: l’Agenzia per l’approvvigionamento (Euratom supply agency, ESA) e l’Ufficio di controllo di sicurezza (UCSE). La prima, operativa sin dal 1960, dotata di personalità giuridica e autonomia finanziaria, ha l’obiettivo di garantire la sicurezza nei rifornimenti energetici, attraverso una politica comune basata sull’equo accesso alle risorse. In particolare, l’Agenzia gode di un diritto di opzione sui minerali, materie grezze e materia fissili speciali, prodotte negli Stati membri, nonché del diritto esclusivo di concludere contratti di fornitura con paesi terzi. Il secondo effettua controlli contabili e fisici in tutti gli impianti nucleari della Comunità.

A complemento delle attività sopra elencate si sono aggiunti nel corso degli anni altri temi di notevole importanza e solo limitatamente considerati nel Trattato Euratom, in particolare la sicurezza operativa degli impianti nucleari, la gestione dei rifiuti radioattivi, la non proliferazione nucleare (garanzie nucleari).

Per quanto riguarda il primo aspetto, la Comunità ha svolto inizialmente un ruolo di coordinatore, per favorire la consultazione e la diffusione delle migliori pratiche tra i paesi. Nel 2000 la Commissione ha poi aderito alla Convenzione sulla sicurezza nucleare, adottata sotto gli auspici dell’AIEA. Le competenze della Comunità e degli Stati membri nei settori coperti dalla Convenzione sono condivise; tuttavia, non avendo l’Euratom propri impianti nucleari, ricade sugli Stati la responsabilità di rispettare gli impegni contenuti nella Convenzione con riferimento alla sicurezza delle installazioni presenti nel proprio territorio. In particolare, essi si impegnano a stabilire un quadro legislativo e regolamentare che fissi sufficienti standard nazionali di sicurezza, istituisca un’autorità indipendente di regolamentazione e realizzi un sistema di licenze, nonché un sistema di ispezione e controllo. Nel 2003 la Commissione ha presentato una proposta di direttiva, ancora oggi in discussione, volta a conferire forza di diritto comunitario agli obblighi e principi ispirati dalla Convenzione: in questo modo si creerebbe un meccanismo integrato a complemento dei vari sistemi nazionali, nell’ambito di un quadro giuridico comune di riferimento.

Il tema della sicurezza include anche la delicata questione della protezione dalle radiazioni e della gestione dei rifiuti radioattivi. Nel 1980 è stato creato un sistema di autorizzazione per tutti gli spostamenti di rifiuti radioattivi, sistema poi aggiornato nel 1992 e perfezionato nel 1993 all’indomani della rimozione dei controlli alle frontiere comunitarie. In seguito alla direttiva 96/29/Euratom del 1996, che ha fissato standard comunitari uniformi per proteggere la salute dei lavoratori e del pubblico in generale contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti, vari sistemi di controllo delle risorse radioattive sono stati massi in atto in diversi paesi membri. Tali sistemi sono stati rafforzati e armonizzati nel 2003 con una direttiva (2003/122/Euratom) sul controllo delle sorgenti radioattive sigillate ad alta attività, le quali sono ampiamente utilizzate nell’industria, nella medicina e nella ricerca, e sulle cosiddette risorse orfane, ovvero abbandonate, spostate o rimosse senza autorizzazione. Nel periodo 1998-2002, nell’ambito del programma quadro sull’energia, 9 milioni di euro sono stati stanziati per finanziare il sottoprogramma SURE, volto a migliorare la sicurezza dei trasporti di materiale radioattivo all’interno dell’Unione europea e a promuovere, attraverso una maggiore cooperazione, il potenziamento dei sistemi di sicurezza degli impianti nucleari negli ex paesi dell’Unione Sovietica. Proprio a questo scopo nel 2000 la Commissione, nella comunicazione intitolata “Sostegno alla sicurezza nucleare nei Nuovi Stati indipendenti e nell’Europa centrale e orientale”, ha inaugurato un nuovo approccio per migliorare la sicurezza operativa delle installazioni attive in quei paesi e la riconversione o smantellamento di quelle insicure. Relativamente alle garanzie nucleari, infine, il trattato Euratom vuole assicurare, attraverso un sistema di controlli attuato da un corpo di 300 ispettori, che le materie nucleari non vengano distolte dalle finalità civili cui sono destinate. L’applicazione di tali disposizioni è stata perfezionata con il regolamento n. 3227 del 1997 e successivi emendamenti, tenendo conto anche degli impegni che gli Stati membri hanno assunto a livello internazionale, in particolare nell’ambito del Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari firmato nel 1968.

Elisabetta Holsztejn (2008)

Comunità europea di difesa

Dalla nascita del sistema bipolare al problema del riarmo tedesco

Alla fine della Seconda guerra mondiale, si riproponevano in Europa due problemi dalla cui soluzione dipendeva il ristabilimento di un equilibrio europeo e mondiale: la questione tedesca e quella della sicurezza della Francia. Mentre in Francia si affrontava il problema tedesco con l’obiettivo di metter fine, una volta per sempre, a ogni possibile ripresa di una politica aggressiva da parte germanica, negli Stati Uniti lo si affrontava principalmente nel quadro della politica di contenimento della spinta espansionistica sovietica. Nel nuovo contesto bipolare, la ricostruzione della Germania appariva condizione necessaria e urgente per promuovere insieme quella dell’Europa.

L’aggravarsi della Guerra fredda rendeva la situazione drammatica. Il blocco sovietico di Berlino, nel giugno del 1948, costituiva il primo inquietante segnale. Se si voleva porre un argine sicuro all’avanzata sovietica in Europa, occorreva una “normalizzazione” della zona. Ogni decisione tesa a ricostruire l’apparato statale tedesco d’anteguerra non poteva d’altra parte non suscitare reazioni contrastanti in Francia, dove paura del passato e disponibilità alla riconciliazione contribuivano alla formulazione di una politica estera esitante, talora a rimorchio, ma spesso anche in contrasto con gli alleati. Come opporsi alla ricostruzione dello Stato tedesco, che pareva imposta dal “pericolo rosso”, senza creare i presupposti per un assoggettamento dell’Europa centrale ai voleri sovietici e come, d’altra parte, acconsentire alla ricostruzione dello Stato tedesco, della sua economia, del suo esercito, senza gettare le premesse per una nuova revanche? Questi erano i termini di una difficoltà obiettiva: quella di creare un legame tra Francia e Germania capace di neutralizzare le due maggiori fonti della potenza tedesca, cioè l’industria pesante renana e l’esercito.

Il problema del riarmo tedesco comparve sibillinamente già nel Trattato istitutivo della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) firmato il 4 aprile 1949, là dove, all’art. 6, questo prevedeva che la garanzia nordatlantica si sarebbe estesa, oltre che ai territori degli Stati contraenti, anche alle forze di occupazione in Europa. D’altronde la Francia, nel corso delle conversazioni che condussero al Patto atlantico, si dichiarò fautrice della forward strategy cioè della “difesa avanzata” sull’Elba e non sul Reno. Nell’agosto del 1949 scoppiò la prima bomba atomica sovietica, prospettando all’Occidente la paurosa eventualità di una guerra europea da affrontarsi con le sole armi convenzionali. L’equilibrio delle forze vedeva sul potenziale fronte dell’Elba da parte sovietica 27 divisioni più 60.000 effettivi della Volkspolizei, da parte atlantica, 12 divisioni mal equipaggiate e senza coordinamento (v. Clesse, 1989, p. 12). Gli elementi di base della questione erano dunque già sul tappeto nel corso del 1949, ma solo gli avvenimenti dell’anno successivo ne avrebbero rivelato l’urgenza. Il 25 giugno scoppiò la guerra di Corea. E questo fu il detonatore di una situazione che avrebbe potuto altrimenti trascinarsi ancora a lungo. La Corea, come la Germania, era divisa in due zone, separate dal 38° parallelo, in cui si erano consolidate realtà politico-statuali antagonistiche. Si prospettava il pericolo concreto che il tentativo di riunificare il paese con la forza effettuato dai nord-coreani potesse essere ripetuto nel cuore dell’Europa. Il massiccio coinvolgimento militare americano nel Pacifico, poi, aumentava le preoccupazioni del Pentagono circa la possibilità di contenere un eventuale attacco sovietico in Germania. Il nuovo conflitto ebbe due conseguenze importanti: dimostrò concretamente che la Guerra fredda poteva generare la guerra “calda” e parve costituire una sorta di “test” con cui i sovietici saggiavano le reazioni americane all’espansione comunista, in attesa di colpire il settore cruciale, l’Europa.

La Germania diventava agli occhi di tutti la nuova Corea, l’anello debole della difesa occidentale. I primi a preoccuparsene furono, come ovvio, i tedeschi. Konrad Adenauer, in un memorandum consegnato agli alti commissari alla fine di giugno, chiese per la Repubblica Federale Tedesca (RFT) la creazione di un corpo di polizia federale, auspicando nel contempo il rafforzamento della difesa ai confini e della polizia ferroviaria. Gli fu risposto con promesse vaghe. A fine luglio, il segretario di Stato americano Dean Acheson sottopose al presidente Harry Spencer Truman l’ipotesi di una partecipazione tedesca in una posizione chiave del sistema europeo di difesa e l’incontro si concluse con un accordo sull’opportunità d’inserire contingenti militari tedeschi o in un esercito europeo o in un esercito atlantico con comando integrato.

All’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, nell’agosto del 1950, Winston Churchill sostenne la necessità di creare subito un valido schieramento difensivo europeo e chiese all’Assemblea d’indirizzare un messaggio audace ai governi, indicando l’obiettivo per salvare la democrazia in Europa: la costituzione di un esercito europeo sotto un comando unificato.

Pochi giorni dopo, in occasione di una riunione degli alti commissari il 17 agosto al Petersberg, Adenauer pregò Cormac McCloy, Mickey Kirkpatrick e François Poncet «di mettere in grado la Repubblica federale di costituire un corpo di truppe capaci di respingere efficacemente un eventuale attacco della Volkspolizei» e diede la sua adesione al progetto di Churchill.

Nel frattempo, il Dipartimento di Stato americano dava mano attivamente a un progetto di difesa europea, inquadrata nel Patto atlantico, con la partecipazione di contingenti tedeschi sotto un comando unico. L’8 settembre Truman approvò il cosiddetto one package, ossia la formazione di un esercito integrato cui l’Europa avrebbe dovuto partecipare con 60 divisioni, sotto il comando americano, con uno Stato maggiore internazionale, in cui sarebbe stato inserito un numero ancora imprecisato di divisioni tedesche, in seguito quantificato in 10 divisioni. Il presidente americano si era dunque schierato a favore dell’impegno americano in Europa, ma a patto che gli europei accettassero di collaborare sulla base delle proposte statunitensi.

Il 12 settembre, i ministri degli Esteri francese, inglese e americano si riunirono a New York per preparare il lavoro del Consiglio atlantico. Acheson, affiancato dal contrammiraglio Thomas H. Robbins, propose a Ernest Bevin e a Robert Schuman l’one package. Nelle conversazioni a tre del 13-14 settembre non si raggiunse però nessun accordo, perché Schuman tenne testa al segretario di Stato americano, accettando la creazione di un comando unico integrato e l’aumento degli effettivi e della produzione d’armi in Europa, ma non il riarmo della Germania. Lo stesso copione si ripropose alla riunione del Consiglio atlantico del 15 settembre dove, seppur isolato, Schuman mantenne la sua posizione, dichiarando di non voler respingere a priori l’idea di una partecipazione tedesca alla difesa occidentale, ma di esser pronto a discuterne soltanto nel momento in cui il Patto atlantico fosse diventato un’organizzazione solida e funzionante. Durante le numerose riunioni che si susseguirono in quei giorni, gli americani persistettero nella richiesta del riarmo tedesco, sottolineando come da questo dipendesse il voto positivo del Congresso americano sui nuovi crediti necessari al riarmo europeo.

I francesi restarono sulle loro posizioni, ma si trovavano ormai a un bivio. Non era più tempo per dilazioni. La riunione del Comitato di difesa atlantico, che avrebbe dovuto tenersi il 16 ottobre a Washington, fu spostata al 28 per permettere ai francesi di discutere la questione in Parlamento. Si trattava di trovare il modo con cui procedere al riarmo tedesco.

Dal memorandum di Jean Monnet al Piano Pleven

Fu Jean Monnet a suggerire la via per uscire dall’impasse. Mentre era in corso la Conferenza di New York, aveva riunito il gruppo che già aveva ideato le basi del progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA): Étienne Hirsch, Pierre Uri, Bernard Clappier, Paul Reuter, ai quali s’aggiunse Hervé Alphand. Sul modello politico-istituzionale della CECA, egli propose di collegare il riarmo tedesco al processo d’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della), inserendo i nuovi contingenti militari tedeschi in un esercito europeo integrato al livello di unità le più basse possibili, unificato sotto il profilo del comando, dell’organizzazione, dell’equipaggiamento e del finanziamento e gestito da comuni istituzioni sovrannazionali. Il comando supremo sarebbe stato atlantico. Monnet inviò un memorandum in tal senso al premier René Pleven, il 14 ottobre, presentando due giorni dopo a Pleven e Schuman un progetto di dichiarazione governativa sulla difesa comune. I due accettarono immediatamente nelle sue linee generali il progetto che, rivisto e modificato più volte, passò in breve tempo alla fase operativa.

Il 24 ottobre, Pleven annunciava all’Assemblea nazionale e al mondo intero l’intenzione della Francia d’impegnarsi per la costituzione di un esercito europeo, collegato a istituzioni politiche dell’Europa unita. Nel progetto esposto erano presenti tutti gli elementi che avrebbero costituito la base delle discussioni della Conferenza per la costituzione di una Comunità europea di difesa: un’Assemblea, un ministro della Difesa nominato dai governi e responsabile congiuntamente di fronte a questi e a quella; un Consiglio dei ministri degli Stati partecipanti, intermediario tra la Comunità e gli Stati membri. Si parlava di bilancio comune per finanziare l’esercito europeo e di mantenere invariati gli accordi presi con la NATO. Erano già delineati alcuni degli obblighi del “ministro europeo” e si prospettava la necessità di una fase transitoria. Al primitivo progetto di Monnet erano state tuttavia apportate alcune modifiche, che si sarebbero rivelate altrettanti elementi di debolezza. Il 25, con 343 voti contro 220, l’Assemblea approvava il progetto.

Essendo solo abbozzato, prima di presentarlo al Consiglio atlantico a Washington, il Piano fu rivisto dai membri del Gabinetto militare riuniti da Jules Moch, oltre ad alcuni collaboratori civili. Ne uscì il progetto di esercito europeo che i francesi presentarono al Comitato di difesa atlantico, a Washington, il 28 ottobre. Qui Moch espose il piano francese di un esercito europeo a carattere sovrannazionale, integrato nell’esercito NATO, sotto il comando del Supreme headquarters allied powers Europe (SHAPE), passo importante per la costruzione dell’Europa unita. Tre erano le condizioni per la riuscita del Piano: la firma del Trattato della CECA, la creazione di un supporto politico all’esercito europeo sotto forma di un abbozzo di Assemblea europea, la nomina di un ministro europeo della Difesa responsabile davanti a questa e ai governi degli Stati membri. Moch terminò proponendo la convocazione, subito dopo la firma del Trattato della CECA, di una conferenza di tutti gli Stati interessati, incaricata di studiare dettagliatamente il progetto.

A un esame superficiale, la proposta americana e quella francese non erano poi così distanti: entrambe accettavano il principio dell’integrazione degli eserciti, del comando unico nord-atlantico, della difesa sulla linea dell’Elba. Esistevano, però, forti motivi di contrasto: gli americani prevedevano un’integrazione a livello di corpo d’armata con costituzione di divisioni tedesche, mentre i francesi propendevano per un’integrazione a livello di battaglioni, reggimenti, o al massimo dei combat teams internazionali; gli americani sostenevano l’inclusione di ufficiali tedeschi nello Stato maggiore internazionale del Comando supremo e nei corpi d’armata con divisioni tedesche, mentre i francesi escludevano la costituzione di qualsiasi Stato maggiore tedesco; gli americani affidavano l’amministrazione delle divisioni tedesche a un civile tedesco, con il controllo di una missione alleata, mentre i francesi l’affidavano a un ministro della Difesa europeo, con il controllo di un’Assemblea europea; gli Stati Uniti, infine, a differenza dei francesi, erano propensi ad autorizzare nuove produzioni di materie prime e di materiale militare leggero da parte germanica. Un consistente motivo di dissenso derivava anche dai tempi di attuazione del Piano francese: quando – si chiedevano gli americani – un esercito europeo avrebbe potuto collaborare concretamente alla difesa dell’Europa? Non rappresentava forse il progetto francese una manovra dilatoria tesa a procrastinare la soluzione del problema del riarmo tedesco?

In realtà, la peculiarità del progetto francese, ciò che lo distingueva dall’one package e che non poteva essere gettato sul tavolo del compromesso, era il suo carattere sovrannazionale, che andava ben al di là delle alleanze militari di tipo tradizionale (quale, in definitiva, quella prevista dal progetto americano), per mettere in gioco la stessa sovranità degli Stati in un settore cruciale della loro esistenza e dare così una chance all’Europa.

Dopo lunghe dispute, venne accettata a Washington una risoluzione belga di compromesso: il Comitato di difesa affidò al Comitato dei supplenti (che suppliva il Consiglio atlantico ed era formato da dodici diplomatici in rappresentanza dei dodici ministri degli Esteri atlantici) assistito dal Comitato militare (che suppliva il Comitato di difesa ed era formato dai dodici capi di Stato maggiore in rappresentanza dei dodici ministri della Difesa) lo studio delle diverse proposte sul riarmo tedesco. Era l’ultima carta per scongiurare una crisi in seno all’Alleanza atlantica. Il 31 ottobre, gli americani proposero e ottennero il rinvio della discussione dei punti 7 e 8 all’ordine del giorno, che prevedevano la creazione di una forza integrata per la difesa dell’Europa, la costituzione di un quartier generale supremo e la designazione di un comandante (che avrebbe dovuto essere Dwight Eisenhower). La partecipazione statunitense alla difesa europea veniva esplicitamente legata alla presenza di unità tedesche. Inutile aggiungere che si era ormai ai ferri corti.

Il Comitato dei supplenti si riunì a Washington il 4 novembre. L’americano Charles Spofford, rinunciando alla creazione di divisioni tedesche, fece il primo passo. Egli propose la costituzione di combat teams, gruppi di 5-6000 uomini, simili alle brigate di un tempo, ma più ricchi di armi speciali e di servizi. Spofford chiese però, come contropartita, la rinuncia da parte francese a ogni infrastruttura politica collegata all’esercito europeo e in particolar modo alla richiesta di un ministro della Difesa europeo. Il 14, Pleven, Schuman e Moch decisero di accettare il principio dei combat teams, ma di non cedere sugli altri punti. I negoziati continuarono, trascinandosi più a lungo del previsto sinché, a inizio dicembre, la situazione si sbloccava. Dopo un incontro a Londra, il 2, tra Schuman, Pleven, Clement Attlee e Bevin, i francesi decisero di accettare il piano Spofford solo come soluzione transitoria, non rinunciando alla formazione di un esercito europeo. A Bruxelles, il 18 dicembre, si riunirono il Consiglio atlantico e il Comitato di difesa. Il piano Spofford con le garanzie richieste dalla Francia venne approvato, a condizione che le forze europee consolidassero la Comunità atlantica e la difesa comune, fossero inquadrate nella NATO e promuovessero un’associazione più stretta dei paesi dell’Europa occidentale. Venne nominato un comandante supremo delle Forze alleate che, per acclamazione, fu Eisenhower. Si ammise il principio di due negoziati simultanei. Il primo avrebbe riunito al castello del Petersberg, presso Bonn, gli alti commissari delle potenze occupanti e i rappresentanti del governo tedesco occidentale al fine di definire la partecipazione militare tedesca all’Alleanza atlantica. Il secondo avrebbe avuto luogo a Parigi, per definire i principi della costituzione di un esercito europeo in cui la Germania sarebbe stata sottoposta alle medesime restrizioni degli altri paesi.

I lavori della Conferenza di Parigi e le trattative per la costituzione di un esercito europeo

La convocazione della Conferenza di Parigi per discutere la costituzione di un esercito europeo fu annunciata formalmente dal governo francese il 24 gennaio 1951 e il 26 vennero diramati gli inviti a tutti gli Stati europei firmatari del Patto atlantico, alla Repubblica federale di Germania e anche, in qualità di osservatori, a Stati Uniti e Canada. Il 15 febbraio, alla Conferenza erano rappresentati cinque Stati con pieni poteri – Francia, Repubblica federale di Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo – e, in qualità di osservatori, Paesi Bassi (che si sarebbero uniti ai cinque in autunno), Regno Unito, Portogallo, Danimarca, Canada, Stati Uniti.

Nel discorso inaugurale, Schuman chiarì l’opportunità di prevedere una tappa di transizione nel corso della quale un alto commissario europeo della difesa avrebbe utilizzato gli elementi nazionali messi a sua disposizione. Le divisioni europee sarebbero state create, per giustapposizione di gruppi tattici di diverse nazionalità, soltanto in un secondo stadio. A loro volta, le divisioni avrebbero costituito un esercito europeo, reclutato e preparato dall’alto commissario europeo, ma messo a disposizione del comandante in capo dello SHAPE. Solo a questo punto il Commissario avrebbe assunto il ruolo di ministro europeo della Difesa. Il Piano prevedeva la costituzione d’istituzioni politiche europee.

Il 1° marzo si tenne la prima riunione del Comitato di direzione, composto dai capi-delegazione (il francese Hervé Alphand, il tedesco Theodor Blank, il belga barone J. Guillaume, il lussemburghese Pierre Majerus, l’italiano Paolo Emilio Taviani), sotto la presidenza dell’ambasciatore Alphand. Alle dipendenze del Comitato di direzione avrebbero lavorato tre comitati tecnici, competenti rispettivamente in problemi giuridici, militari e finanziari. Durante i primi mesi di lavoro, la delegazione italiana, guidata da Taviani, contava su Antonio Venturini, i colonnelli Guido De Fonzo e M. Turrini, Paolo Pansa Cedronio, Michele Gaetano De Rossi, Pietro Stoppani.

Dopo l’apertura dei lavori, si dovette attendere il mese di aprile perché avessero luogo nuove riunioni dei comitati. A due mesi dall’inizio della Conferenza, risultava evidente la mancanza di un accordo politico tra gli Stati europei. Le opposizioni interne si rafforzavano un po’ dovunque e il perdurante atteggiamento americano negativo nei confronti della CED impediva ogni evoluzione positiva dei negoziati. Un ulteriore impedimento ai negoziati della Conferenza era costituito dalla preoccupazione di ostacolare i lavori atlantici. La Conferenza continuò pertanto a trascinarsi stancamente, badando soprattutto a questioni di dettaglio, ai problemi minori su cui era possibile trovare un accordo senza l’intervento di precise direttive dei governi.

Una forte accelerazione dei lavori venne dall’improvviso cambiamento nell’atteggiamento di Francia e Stati Uniti. Alla fine di maggio, i francesi, intimoriti dallo sviluppo dei negoziati sul riarmo tedesco in corso al Petersberg, cominciarono a sondare la disponibilità delle delegazioni a redigere un rapporto provvisorio sui lavori della Conferenza. Il 29 giugno, con una dichiarazione alla stampa diplomatica, Alphand – portavoce di Schuman – ribadì l’opposizione della Francia a ogni riarmo tedesco non inquadrato in un esercito europeo, ma alluse anche alla possibilità di alzare il grado d’integrazione delle unità nazionali omogenee. Ciò avrebbe consentito un accordo tra la concezione francese dei combat teams e quella tedesca delle divisioni, disincagliando la Conferenza dall’impasse in cui si trovava.

Contemporaneamente a questo cedimento del governo francese, si assistette a un mutamento dell’atteggiamento del governo americano nei confronti della CED, soprattutto dopo un colloquio a Parigi, a fine giugno, tra Monnet ed Eisenhower, durante il quale l’uomo politico francese tentò con successo di convincere il generale americano dell’importanza che la CED avrebbe avuto per la pace in Europa. L’unità europea era d’altronde da tempo un tema dominante della politica americana; presso l’Amministrazione, nel Congresso; erano in molti a subire il fascino delle idee di Monnet, Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, Lord Lothian, Clarence Streit. Il 3 luglio, a Londra, Eisenhower pronunciò un discorso in cui s’impegnava senza riserve a favore dell’unione europea, considerandola come condizione essenziale della sicurezza e della prosperità dell’Europa. A sua volta, Acheson redasse un memorandum favorevole alla CED che, dopo varie discussioni al Dipartimento di Stato e al Pentagono, fu approvato da Truman il 30 luglio.

Il mutato atteggiamento americano nei confronti della CED diede nuovo impulso ai lavori della Conferenza di Parigi già nel corso del mese di luglio. Il 24 venne approvato un Rapport intérimaire da sottoporre ai governi interessati, che, oltre a fare il punto della situazione sui lavori per la creazione dell’esercito europeo, aveva come obiettivo quello di chiedere ai governi precise istruzioni per i successivi lavori della Conferenza e per la stesura del trattato definitivo. Non mancava nel Rapport un’aperta ammissione dei motivi di disaccordo che, su parecchi argomenti, avevano condotto la Conferenza a un punto morto.

Tutti sembravano concordi sugli obiettivi e sui principi generali del costituendo esercito europeo: la fusione delle forze armate sotto il controllo d’istituzioni sovrannazionali comuni, la non discriminazione tra gli Stati membri, la cooperazione con la NATO, il carattere puramente difensivo e pacifico della nuova organizzazione. Sulla falsariga della Comunità del carbone e dell’acciaio, le istituzioni previste erano quattro: un Commissario europeo (v. anche Commissione europea), un Consiglio dei ministri, un’Assemblea (v. anche Parlamento europeo), una Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea). Ma a questo punto cominciavano le difficoltà. L’Autorità europea sarebbe stata costituita da una sola persona, il Commissario, o da un collegio, il Commissariato? Anche le modalità riguardanti la nomina del Commissario e la sua eventuale sostituzione in caso di morte o di sopravvenuto impedimento nel corso del mandato, oltre che la durata di quest’ultimo, rimanevano imprecisate. Nell’esercizio dei suoi poteri, il Commissario avrebbe potuto prendere decisioni (obbligatorie per tutti gli Stati partecipanti), formulare raccomandazioni (obbligatorie soltanto riguardo ai fini, non ai mezzi per realizzarli) o emettere pareri, non vincolanti. I suoi poteri si sarebbero avvicinati a quelli di un ministro della Difesa e avrebbero interessato in particolar modo l’istruzione e l’approntamento delle Forze europee, il cui reclutamento sarebbe rimasto nazionale sino al momento in cui fosse stato preso in carica dalla Comunità; la direzione di scuole europee per la formazione degli ufficiali; i controlli e le ispezioni indispensabili; la dislocazione territoriale delle Forze, conformemente alle direttive NATO; la preparazione e l’esecuzione (a seguito del parere favorevole del Consiglio dei ministri) di programmi di produzione bellica europea; le nomine in ordine ai gradi e ai ruoli; l’amministrazione del personale e la gestione dei beni; i progetti di bilancio; i rapporti tra la Comunità, gli Stati membri, i paesi terzi e le organizzazioni internazionali. Al Consiglio dei ministri, formato da rappresentanti degli Stati membri, i delegati affidavano il compito di armonizzare l’azione del Commissario e la politica dei governi degli Stati membri, nonché di formulare le direttive generali entro cui il Commissario avrebbe svolto la sua azione. Non erano ancora stati stabiliti i casi in cui il Consiglio avrebbe deciso con il Voto alla unanimità, a maggioranza qualificata o a maggioranza semplice e rimaneva irrisolta la questione della ponderazione dei voti all’interno del Consiglio (v. Ponderazione dei voti nel Consiglio). Il problema riguardava anche l’Assemblea, alla quale peraltro erano stati attribuiti poteri limitati: essa avrebbe ricevuto ogni anno dal Commissario un rapporto, discutendolo poi in seduta pubblica e formulando osservazioni e auspici. Il Rapport Intérimaire riconosceva all’Assemblea anche il potere di censura nei confronti del Commissario, e quindi di una sua eventuale destituzione.

Se il principio dell’integrazione delle Forze era stato unanimemente accettato, controverso rimaneva il livello al quale l’integrazione si sarebbe dovuta effettuare: la delegazione francese aveva proposto che l’integrazione avvenisse all’interno di divisioni europee, risultando così il groupement de combat (di circa 5000 uomini) la maggiore unità di nazionalità omogenea. La delegazione tedesca, invece, aveva proposto che l’integrazione si realizzasse a livello di corpo d’armata, interessando due o tre unità operative, o blindate (comprendenti 10-11.000 uomini) o di fanteria meccanizzata (composte da 12-13.000 uomini), di nazionalità omogenea, ciascuna sotto il comando di un capo di nazionalità uguale a quella delle truppe. Le questioni finanziarie risultavano quelle di gran lunga più controverse. Per far fronte alle spese dell’esercito europeo, la Comunità avrebbe beneficiato dei contributi degli Stati membri e di eventuali contributi esterni. Le delegazioni tedesca, italiana e francese auspicavano che le ripartizioni degli oneri fossero collegate alla capacità economica degli Stati partecipanti e non alla loro partecipazione – in termini di effettivi – all’esercito europeo. Questo criterio trovava discordi i paesi “piccoli”, che non intendevano accollarsi de facto l’onere di finanziare personale non nazionale. Il Rapporto fissava in 50 anni la durata di applicazione del Trattato, mentre rimanevano in sospeso la questione linguistica e quella della sede della Comunità. Un capitolo a parte era dedicato alle disposizioni transitorie, che sarebbero state oggetto di una convenzione particolare. Tali disposizioni prevedevano che, pur essendo create immediatamente, le diverse istituzioni della Comunità sarebbero entrate in possesso delle loro competenze solo progressivamente, permettendo un passaggio di poteri graduale dagli Stati membri alla Comunità.

Nell’agosto 1951, la Conferenza di Parigi attraversava dunque una fase d’attesa: la parola era passata ai governi. Il Rapport intérimaire aveva evidenziato i problemi sollevati dalla creazione di un esercito europeo e stava ora ai singoli paesi decidere sul da farsi.

Altiero Spinelli inviava in quei giorni al Presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, un promemoria sul Rapporto provvisorio in cui riconduceva la miriade dei problemi tecnici sollevati dalla Conferenza a una sola domanda: poteva la CED precedere la fondazione costituzionale di uno Stato europeo? La risposta era negativa: solo con la creazione di uno Stato federale europeo – affermava – i problemi posti dalla Conferenza di Parigi, a cominciare dalle spinose questioni della collegialità e del bilancio comune, potevano trovare soluzione (v. anche Federalismo). E concludeva il memorandum con un incitamento alla delegazione italiana alla Conferenza per la CED affinché, abbandonando l’atteggiamento di diffidenza sin allora mantenuto a Parigi, si facesse paladina dell’esercito – e quindi dello Stato – europeo.

Inserimento del progetto di Comunità politica europea nella CED e conclusione della Conferenza di Parigi

I lavori ripresero a pieno ritmo in settembre, in vista dell’imminente riunione del Consiglio atlantico di Ottawa. Si stava ormai avvicinando il tempo delle scelte decisive. A Washington, il 10 settembre, alla Conferenza dei ministri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, i governi britannico e statunitense dichiararono formalmente di accettare la creazione di un esercito europeo. Il 9 ottobre, la delegazione italiana alla Conferenza di Parigi, alla cui guida Ivan Matteo Lombardo aveva sostituito Paolo Emilio Taviani, presentava unAide-mémoire che, seguendo i suggerimenti di Spinelli, contestava le conclusioni raggiunte dal Rapport intérimaire e proponeva una soluzione sovrannazionale del problema europeo. Il collegamento dell’esercito europeo a organismi che avrebbero potuto preludere alla creazione di una comunità politica e quindi alla nascita di una patria europea divenne il motivo essenziale degli interventi che Alcide De Gasperi fece a Strasburgo, sia nel corso dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, il 10 dicembre, sia nel corso di una riunione dei sei ministri degli Esteri, il giorno successivo. L’azione della delegazione italiana e di De Gasperi sarebbe sfociata nell’inserimento all’interno del progetto di trattato della CED dell’art. 38 che affidava all’Assemblea della CED un mandato precostituente, preludio alla stesura (terminata nel marzo 1953) di un progetto di Statuto istituente una Comunità politica europea.

L’Europa unita non era mai stata così vicina. In una nuova riunione a Parigi, il 26-27 gennaio 1952, i ministri si accordarono sul nome – Commissariat – e sulla composizione dell’autorità collegiale esecutiva. Essa avrebbe compreso nove membri, di cui non più di due connazionali, nominati per sei anni. Quanto alla composizione dell’Assemblea, i ministri, per evitare il moltiplicarsi delle istituzioni, optarono a favore del mantenimento di un solo organo rappresentativo per la CED e per la CECA, la cui Assemblea era composta da 18 delegati per Italia, Francia e Germania federale, 10 per Belgio e Paesi Bassi e 4 per il Lussemburgo. Tuttavia, nella convinzione che l’Assemblea della CED dovesse avere un più spiccato carattere rappresentativo, fu deciso che i tre maggiori paesi della Comunità avrebbero designato ciascuno tre delegati supplementari, che si sarebbero uniti agli altri per le discussioni concernenti la CED. Anche la Corte di giustizia si sarebbe identificata con quella della CECA. Le sedi delle diverse istituzioni della Comunità, invece, sarebbero state fissate solo dopo la ratifica del Trattato.

Il 9 maggio il Trattato veniva parafato dai delegati alla Conferenza, che raccomandavano ai rispettivi governi l’adozione dei testi elaborati. Si trattava, oltre al Trattato istituente la CED, del protocollo militare, di quello finanziario, del protocollo addizionale relativo agli impegni degli Stati membri della Comunità verso gli Stati aderenti alla NATO, del protocollo concernente le relazioni tra CED e NATO, del testo di trattato di mutua assistenza tra Regno Unito e Stati membri della CED. Il 19 maggio, i ministri riuniti alla Conferenza di Parigi chiarirono le ultime questioni irrisolte, in particolar modo quelle relative alla ponderazione dei voti e alla durata del Trattato. Un accordo fu raggiunto sulla base dell’equiparazione di Francia, Germania e Italia (ciascuna avente diritto a tre voti). Nel periodo definitivo, ogni Stato membro avrebbe avuto un numero di voti corrispondente al rispettivo contributo in uomini e denaro a favore della Comunità. Quanto alle decisioni prese a maggioranza qualificata, si stabilì che tale maggioranza dovesse rappresentare il 60% dei contributi finanziari e degli effettivi militari della Comunità. La durata del Trattato fu fissata in cinquant’anni e strettamente collegata alla durata del Patto atlantico. Il 23 maggio, i ministri degli Esteri si riunirono a Strasburgo per definire gli ultimi dettagli. Stati Uniti e Gran Bretagna s’impegnarono, ove l’integrità o l’unità della CED fosse minata da chiunque e in qualsiasi luogo, a considerare tale eventualità come una minaccia diretta contro la propria sicurezza. Le due potenze s’impegnarono inoltre a mantenere in Europa effettivi sufficienti ad assicurare la difesa dei territori della NATO e l’integrità della CED. Il 26 maggio, fu firmato a Bonn il “trattato di pace” o “accordo contrattuale”, che concludeva i negoziati intrapresi tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, da una parte, e Germania federale, dall’altra, a partire dalla Conferenza di Bruxelles del 19 dicembre 1950. Con tale accordo le tre potenze occupanti rinunciavano alle loro prerogative e le condizioni poste al riarmo della Germania venivano eliminate, ben inteso solo dopo l’entrata in vigore della CED.

Il 27 maggio, i ministri degli Esteri dei sei paesi partecipanti alla Conferenza di Parigi firmarono il trattato istituente la Comunità europea di difesa. Il progetto passava ora alla fase della ratifica.

Il processo di ratifica da parte di Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Germania

Nei mesi successivi le forze contrarie alla CED in Francia si andarono consolidando: all’ostilità di Charles De Gaulle, il quale aveva espresso il proprio dissenso immediatamente dopo la firma del Trattato, si affiancava ormai quella di alcuni leader radicali – Édouard Herriot, Édouard Daladier – e di molti socialisti, tra i quali, in prima fila, Jules Moch, nutriti d’istanze sempre più manifestamente nazionalistiche. Tuttavia per tutto il 1952 e il 1953 esisteva, a parere di molti (v. Fauvet, 1959, p. 29), una maggioranza parlamentare favorevole alla CED, coincidente con la maggioranza di governo. Ma Schuman si dimostrò esitante, ritardando a presentare il progetto all’Assemblea.

La caduta del governo Antoine Pinay, a fine dicembre, provocava una svolta. Il 31 dello stesso mese, Vincent Auriol affidava al radicale René Mayer, europeista convinto, l’incarico di formare il nuovo governo. Schuman perdeva gli Esteri, sostituito da Georges Bidault. Mayer, non potendo contare sull’appoggio né dei socialisti né dei moderati, era costretto a fare concessioni ai gollisti, i quali chiedevano la revisione di alcune disposizioni del progetto di trattato della CED. Il 7 febbraio, il Consiglio dei ministri francese approvava otto protocolli addizionali destinati a precisare alcune modalità d’applicazione del trattato. Essi riguardavano l’intercambiabilità del personale militare francese, la possibilità di prelevare reparti dall’esercito europeo e trasformarli in reparti nazionali, il prolungamento oltre il periodo transitorio del voto ponderato all’interno del Consiglio dei ministri, l’addestramento in scuole a statuto europeo del personale militare di carriera dei reparti nazionali, le autorizzazioni e i controlli relativi alla produzione, importazione ed esportazione di materiale bellico destinato a contingenti nazionali, la mobilitazione delle Forze europee di difesa, lo Statuto delle Forze non tedesche presenti sul territorio della Repubblica federale, gli aiuti esterni. Nessuno, inoltre, era in grado di escludere nuove richieste da parte francese.

Molti confidavano ancora nell’efficacia di un’eventuale pressione americana a favore della ratifica. L’elezione alla presidenza di Eisenhower e la nomina di John Foster Dulles, un convinto europeista, al Dipartimento di Stato, inducevano a credere che gli Stati Uniti non avrebbero mancato d’influire sulle scelte europee. L’unità europea diventava in effetti una priorità sotto l’amministrazione repubblicana, che non avrebbe risparmiato nessun tentativo per far ratificare la CED e proseguire il processo d’unificazione europea. Il tema della revisione della politica americana nei confronti dell’Europa nel caso in cui gli Alleati si fossero rifiutati di procedere sulla via dell’integrazione avrebbe rappresentato, con la sua larvata minaccia, una delle strategie adottate dagli Stati Uniti a partire dal gennaio del 1953 per raggiungere lo scopo. Già a fine gennaio, Foster Dulles e il direttore della Mutual security agency, Harold Stassen, compivano un viaggio in Europa con l’obiettivo prioritario di premere sui singoli governi per una rapida ratifica della CED.

A metà febbraio, tuttavia, questa appariva sempre più difficile in Francia. Aron ricorda al riguardo come fosse corrente uno slogan – «la CED riarma la Germania e disarma la Francia» (v. Aron, Lerner, 1956, p. 10) – che dava corpo alle preoccupazioni di ordine militare di fronte al conflitto indocinese.

Il progetto di Trattato veniva depositato ufficialmente davanti all’Assemblea nazionale il 28 gennaio e passava poi all’esame delle due Commissioni degli Affari esteri e della Difesa nazionale. Non c’era neanche tempo per farsi illusioni sulla sua sorte: entrambe le Commissioni nominavano relatori fortemente ostili al trattato (Moch, la prima, il generale Jospeh Pierre Koenig, la seconda). Mayer continuava tuttavia ad essere ottimista, a patto che si riuscisse a risolvere problemi non semplici: la questione della Saar, l’accettazione dei protocolli addizionali, una presa di posizione britannica nettamente a favore dell’esercito europeo, la partecipazione di americani ed europei agli sforzi francesi in Indocina, la realizzazione di un accordo limitato, ma efficace sull’autorità politica. Alla riunione dei sei ministri degli Esteri, a Roma, il 24-25 febbraio 1953, la situazione appariva ancora fluida, pur a fronte di un progressivo irrigidimento, soprattutto da parte tedesca, nei confronti delle richieste francesi. L’esame dei protocolli addizionali proseguiva, sino alla parafatura, il 24 marzo, da parte del Comitato interinale: ogni ostacolo alla ratifica della CED sembrava così rimosso. Il 1° marzo, Mayer si era dichiarato favorevole alla ratifica, chiedendo che l’Assemblea nazionale si pronunciasse una volta firmati i protocolli. L’inizio delle discussioni in sede parlamentare e la volontà d’accelerare i tempi espressa da Mayer provocavano tuttavia una vivace ripresa polemica in seno all’opinione pubblica e ai partiti. La morte di Stalin, a sua volta, suscitando ovunque speranze di distensione, indeboliva il consenso all’esercito europeo, rallentando la spinta all’unità europea e restituendo forza ai nazionalismi.

I timidi passi del governo francese a favore della ratifica della CED dovevano ben presto rivelarsi illusori. Il 21 maggio, il governo Mayer era rovesciato. Se il contenzioso aveva carattere interno, di politica economica e finanziaria, era a tutti evidente che il vero problema era rappresentato dalla politica estera: il Rassemblement du peuple français, dopo la ratifica della CED al Bundestag tedesco, si rifiutava di accordare a Mayer il potere di condurre una politica favorevole all’esercito europeo. L’andamento e il protrarsi della successiva crisi di governo erano tali da suscitare grandi incertezze sulla sorte del trattato della CED e della politica europea della Francia.

Nel corso del 1954 venivano ultimate le ratifiche del Trattato in quattro paesi europei.

L’Olanda era il primo paese firmatario della CED a perfezionare la ratifica del Trattato e il primo a depositare a Parigi, il 25 gennaio, i relativi strumenti. Già nel novembre del 1952, tutto aveva lasciato presupporre che i Paesi Bassi si sarebbero adoperati per essere i primi a ratificare il progetto, che era stato depositato in Parlamento e presentato al Consiglio di Stato per il parere di costituzionalità. Non sussistevano dubbi né sul voto dei parlamentari né sulla celerità della procedura. Il 3 febbraio 1953, il governo olandese presentava alla Seconda camera degli Stati generali il progetto di legge di ratifica, accompagnato da un messaggio della Regina, la quale, ascoltato il parere del Consiglio di Stato, ne raccomandava l’approvazione. Il progetto passava quindi all’esame delle commissioni competenti della Camera e di un’apposita “commissione preparatoria”. Approvato dalla Seconda Camera il 23 luglio 1953 e accompagnato dalle modifiche apportate alla Costituzione rese necessarie per la sua approvazione, il progetto veniva discusso al Senato ai primi di gennaio e approvato il 20 di quel mese, con 36 voti favorevoli e 4 contrari.

In Belgio, il Parlamento non era concordemente favorevole alla ratifica. Tuttavia, i cristiano-sociali erano in linea di massima sostenitori della politica europeistica e anche l’opposizione socialdemocratica, guidata da Paul-Henri Charles Spaak, era in larga parte a favore, a eccezione di alcuni oppositori alla ratifica incondizionata. L’8 dicembre, il Consiglio di Stato era investito di una richiesta di parere sul progetto di legge relativo alla CED, che il 12 gennaio 1953 rimetteva al governo, rilevando contraddizioni tra talune disposizioni del progetto e la Costituzione belga. Il parere del Consiglio era però solo consultivo e il governo era ben deciso a chiedere la ratifica al Parlamento. Paul van Zeeland presentava alla Camera il progetto il 3 febbraio. A metà febbraio, in sede di discussione del bilancio degli Esteri, si delineava un ampio schieramento favorevole alla ratifica. L’11 aprile, il governo comunicava la propria accettazione dei protocolli addizionali. Una commissione speciale della Camera, istituita per l’esame dei diversi aspetti del Trattato, continuava i lavori sino all’estate del 1953 e il 16 luglio emetteva parere favorevole alla ratifica. L’incarico di preparare la relazione era affidato a Pierre Wigny. Elaborata entro il 21 settembre, la relazione era sottoposta alla discussione della Camera, che approvava la ratifica della CED il 26 novembre. L’ostacolo costituzionale veniva superato dal fatto che si chiedeva al Parlamento di approvare, assieme alla legge di ratifica della CED, anche il principio della relativa revisione costituzionale, alla quale avrebbe provveduto il nuovo Parlamento. Il 2 marzo, il Senato iniziava la discussione del trattato, che veniva definitivamente approvato il 12 marzo, con 125 voti contro 40 e 2 astensioni. Votavano a favore i cristiano-sociali nonché la maggioranza dei socialisti e dei liberali: i voti contrari erano dei comunisti, di alcuni liberali e di diversi socialisti.

In Lussemburgo, il progetto di legge per l’approvazione del Trattato CED era sottoposto al giudizio del Consiglio di Stato il 18 febbraio 1953. Data l’urgenza della ratifica, il progetto era depositato simultaneamente alla Camera dei deputati dal ministro degli Esteri Joseph Bech. Il Consiglio di Stato pubblicava il 10 settembre 1953 il proprio parere favorevole alla ratifica, subordinandolo tuttavia all’impegno per una revisione costituzionale. Il trattato veniva ratificato il 3 aprile 1954.

In Germania la ratifica del progetto non fu così semplice come la rapidità che la contraddistinse potrebbe lasciar immaginare. L’opposizione, ancor prima della firma del progetto di trattato, aveva chiesto che l’approvazione avvenisse con la maggioranza costituzionale dei due terzi. Il 31 gennaio del 1952, i deputati del Bundestag Arndt e Reisman sottoponevano alla Corte costituzionale di Karlsruhe un Normenkontrollklage, chiedendo di verificare se le norme di diritto federale che regolavano la partecipazione della Germania a una forza militare non fossero incompatibili con la Legge fondamentale e presupponessero pertanto una sua preventiva modifica. Adenauer avviava il procedimento di ratifica senza attendere la decisione della Corte: il progetto veniva presentato al Bundestag, in prima lettura, poco più di un mese dopo la sua firma, il 9 luglio 1952. Il 3 dicembre passava alla seconda lettura del Bundestag e veniva approvato. I quattro disegni di legge sul Trattato CED e gli Accordi tedesco-alleati di Bonn erano approvati in terza lettura al Bundestag il 19 marzo 1953, con 224 voti a favore e 165 contrari. Anche al Bundesrat non si presentavano difficoltà: il 15 maggio, esso approvava il progetto di Trattato con 23 voti contro 15.

La vittoria elettorale di Adenauer fugava ogni incertezza, permettendo al Cancelliere d’ottenere i due terzi dei seggi al Bundestag e di non temere quindi un eventuale giudizio negativo sulla costituzionalità del progetto di trattato CED da parte della Corte di Karlsruhe. Il Bundestag approvava il 26 febbraio con 334 voti contro 144, e cioè con la maggioranza di due terzi necessaria, la revisione dellaGrundgesetz . Trasmesso al Bundesrat, il testo era discusso e approvato il 19 marzo, con 26 voti a favore, 4 contrari e 8 astensioni. In tal modo, il procedimento in corso alla Corte costituzionale di Karlsruhe non aveva più ragion d’essere e il Presidente della Repubblica, Theodor Heuss, poteva apporre la propria firma, il 29 marzo 1954, agli strumenti di ratifica del Trattato di Parigi.

Le incertezze venivano dall’Italia e dalla Francia.

Il difficile processo di ratifica in Italia e in Francia e la conclusiva bocciatura della CED

In Italia l’iter di ratifica avviato da De Gasperi non giungeva a conclusione. Il 19 settembre 1952, il Consiglio dei ministri aveva approvato il disegno di legge da presentare in Parlamento, che veniva depositato alla Camera il 13 dicembre. Nella sua relazione, De Gasperi insisteva nel sottolineare la portata decisiva che la creazione dell’esercito europeo avrebbe avuto nel processo d’integrazione politica dell’Europa. Per abbreviare i tempi della ratifica, poi, il progetto di legge, anziché essere esaminato separatamente dalle tre commissioni interessate – Esteri, Difesa, Tesoro – veniva sottoposto a un’unica commissione speciale, nominata il 5 febbraio 1953. La commissione cominciava i suoi lavori il 12 febbraio e approvava il progetto di ratifica il 5 marzo. Il democristiano Meda, nominato relatore per la discussione in aula, lo depositava alla Camera con una relazione ampiamente favorevole. Quattro giorni più tardi, De Gasperi, già da qualche tempo combattuto all’interno del suo stesso partito, decideva tuttavia di non presentare il progetto. Pesavano su questa decisione le difficoltà interne relative all’approvazione della nuova legge elettorale e le perplessità legate ai protocolli francesi, che si temeva potessero moltiplicarsi vanificando la ratifica; anche la speranza di poter contare, a breve termine, su una maggioranza più solida dovette influire peraltro in maniera non marginale sul rinvio della ratifica.

In realtà l’attore europeo più attento alle esigenze dell’unificazione stava per uscire di scena. La sconfitta elettorale del 7 giugno 1953 e l’instabilità del governo centrista che ne seguì ebbero ripercussioni fortemente negative sulla politica europea dell’Italia, che da quel momento perdeva ogni carattere propulsivo e propositivo. Il governo guidato da Giuseppe Pella, che otteneva la fiducia in agosto, subordinava gli impegni internazionali dell’Italia alla soluzione del problema di Trieste, chiudendo la felice stagione federalista di De Gasperi. Pella non arrivava neanche a presentare in Parlamento il progetto di legge per la ratifica. Nel febbraio del 1954 gli succedeva, dopo un breve tentativo di , Mario Scelba, che presentava alla Camera un nuovo disegno di legge per la ratifica degli accordi CED il 6 aprile. Il dibattito si prolungava per alcuni mesi in seno alle quattro commissioni competenti della Camera: Finanze e Tesoro, Giustizia, Difesa, Esteri. Ottenuti i pareri favorevoli di queste entro la fine di luglio, il processo di ratifica era interrotto prima della discussione in Parlamento dal voto negativo dell’Assemblea nazionale francese.

Dall’atteggiamento francese dipendeva il coronamento o meno dei progetti per l’organizzazione della difesa europea. Il dibattito di politica estera, promosso nel novembre del 1953 dal governo Laniel, si concludeva con l’adozione di un testo assolutamente insignificante: ancora una volta Mouvement républicain populaire (MRP) e gollisti si erano reciprocamente neutralizzati. Il governo francese continuava a interrogarsi sull’opportunità o meno di presentare la CED al Parlamento. Joseph Laniel era deciso a dare battaglia, pur essendo convinto della necessità d’una revisione. I francesi riuscivano a strappare, il 13 aprile, l’assenso britannico a un trattato di associazione tra la Gran Bretagna e la costituenda Comunità di difesa. A fine aprile, il generale Eisenhower confermava e precisava, a sua volta, la garanzia americana. I membri gollisti del governo, tuttavia, ponevano il loro veto. La CED era già morta, secondo Jacques Fauvet, quando, il 13 maggio, la caduta di Dien Bien Phu, la piazzaforte chiave del sistema di difesa in Indocina, scuoteva la Francia. Il governo Laniel cadeva un mese dopo.

Quanti in quel momento si rendevano conto della posta in palio? È certo che la coalizione antieuropea si stava facendo sempre più forte. Essa era composta da tre gruppi distinti e “transnazionali”, particolarmente attivi in Francia. Aspirazioni nazionalistiche operavano in un gruppo di generali francesi – da De Gaulle ad Alphonse Juin – e, più in generale, nelle destre economiche, nei gruppi monopolistici protetti che temevano le conseguenze della politica comunitaria. Scettici verso ogni forma sovrannazionale, infatuati dal destino storico della nazione francese, contrari a mettere in comune l’esercito, cioè il supremo custode dell’indipendenza e della sovranità, i nazionalisti francesi arrivavano a preferire il riarmo nazionale tedesco alla CED. Le spinte che sollecitavano velleità di grandeur in Francia operavano anche in Germania, dove provocavano atteggiamenti d’intransigenza sul problema della Saar, e in Italia, dove riaccendevano le aspirazioni su Trieste.

Il secondo gruppo fortemente e puntigliosamente antieuropeo, forse il più compatto e tenace contro ogni forma di sovrannazionalità, era rappresentato dai comunisti. Essi si nutrivano spesso di argomentazioni pretestuose e contraddittorie – l’appello alla distensione, l’unificazione dell’Europa dall’Atlantico agli Urali, la limitazione degli armamenti, l’unificazione tedesca, la difesa di Trieste, il timore del riarmo della Germania e della sua leadership sull’Europa – che nascondevano i disegni della potenza sovietica. Vi erano, infine, i neutralisti, dai gruppi francesi legati a “Le Monde” e all’“Observateur”, ai socialisti in genere. L’opposizione alla CED era sostenuta a gran voce anche dal Commissariat de l’énergie atomique.

I legami tra questi gruppi erano stretti. Molti pensavano che la tesi della minaccia sovietica fosse, dopo la morte di Stalin, infondata. L’ostilità verso la CED era nutrita anche, in molti ambienti francesi, dal timore di una leadership tedesca in Europa, timore che aveva facile presa soprattutto sugli ambienti politici d’origine ebraica, i quali – da Jules Moch a Daniel Mayer – erano alla testa degli anti CED, qualunque fosse il loro partito d’appartenenza.

Il 18 giugno si costituiva il governo Mendès France; l’MRP non faceva più parte della compagine governativa. Il nuovo primo ministro non nascondeva le preoccupazioni derivanti dal problema della CED, non prometteva alcuna ratifica, ma cercava una soluzione che, attraverso un confronto diretto tra le due tesi, ponesse fine alla controversia sul riarmo tedesco. Per il confronto, che si sarebbe svolto senza successo, erano scelti due membri del governo: Maurice Bourgès-Manoury, radicale, favorevole alla ratifica della CED, e il generale Marie-Pierre Koenig, gollista, contrario. Il 24 giugno, Spaak, a nome anche di Beyen (v. Beyen, Johan-Willem) e di Bech, invitava i Sei, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada a una Conferenza a Bruxelles, per discutere sulle prospettive dell’entrata in vigore del trattato CED. Mendès France in un primo momento rifiutava sia perché in attesa dei risultati dei colloqui tra Bourgès-Manoury e il generale Koenig sia per l’impegno prioritario indocinese. Gli avvenimenti assumevano un ritmo incalzante e infine precipitavano. Il 21 luglio si concludeva a Ginevra la conferenza sulla questione indocinese con un accordo che sanciva l’indipendenza di Laos e Cambogia e la divisione del Vietnam. L’accettazione dell’accordo da parte dei sovietici era fondata, secondo molti, sull’ipotesi di un veto francese alla CED. Il 4 agosto, gli ambasciatori sovietici comunicavano ai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia una nota per proporre la riunione di una conferenza a quattro entro il mese di agosto o settembre. Due giorni dopo, Mendès France fissava l’inizio del dibattito sulla CED all’Assemblea nazionale per il 28 agosto e, per il 19, l’incontro di Bruxelles con i partner europei.

A Bruxelles si consumava l’ultimo tentativo di salvare l’esercito europeo. Mendès France presentava un progetto in cui venivano elencate nuove richieste da parte francese come condizione alla ratifica della CED. I ministri degli Esteri lo contestavano, dal momento che snaturava il carattere sovrannazionale del Trattato, ma cercavano ugualmente possibili compromessi. Tre giorni di discussioni non sortirono alcun effetto positivo. La Conferenza si rivelò un fallimento.

Non essendo stato raggiunto nessun compromesso, Mendès France presentava il progetto di Trattato della CED all’Assemblea nazionale senza alcuna modifica. Il governo decideva di non porre la questione di fiducia, separando così la propria sorte da quella dell’esercito europeo. Il 30 agosto 1954, l’Assemblea, senza impegnarsi in un approfondito dibattito, respingeva il progetto, su una question préalable presentata dal generale Adolphe Aumeran, con 319 voti a favore, 264 contrari, 12 astenuti. Votavano compattamente contro la CED comunisti e gollisti, si dividevano socialisti e radicali. Queste forze, grottescamente coalizzate, riuscivano, in un contesto storico caratterizzato dal processo di distensione, dai ritrovati orgogli nazionali, dalla ripresa economica, a far fallire il primo tentativo di creare un esercito europeo.

Daniela Preda (2008) Comunità politica europea

Progetti di costituzione europea furono elaborati durante la guerra e nell’immediato dopoguerra dai vari Movimenti europeistici e federalisti (v. Federalismo): furono accolti nell’indifferenza, voli pindarici di cui sorridere, mere esercitazioni accademiche di utopisti dell’età contemporanea. Dopo il lancio del Piano Marshall e il prudente avvio del processo di unificazione europea, le iniziative a favore della convocazione di una Costituente europea – promosse in particolare dall’Unione parlamentare europea e dal Movimento federalista europeo – si fecero più audaci e, nel contempo, concrete.

Il Congresso dell’Aia, nel maggio del 1948, e la creazione del Consiglio d’Europa, l’anno successivo, erano a loro volta l’espressione di quanto la volontà di dar voce all’unità politica dell’Europa cominciasse ad emergere anche a livello governativo.

Su queste prime, limitate, tappe dell’Europa politica s’innestavano azioni sempre più efficaci per la convocazione di un’Assemblea costituente europea, promosse dai movimenti per l’unità europea, di cui si faceva fervido animatore soprattutto Altiero Spinelli: dal tentativo di trasformare l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa in Costituente, alla Campagna per un patto di unione federale europea. Si trattava però pur sempre dipourparlers ristretti agli ambienti europeistici, in una sfera lontana dagli effettivi centri del potere.

Il tema della Costituente era destinato a svilupparsi solo all’inizio degli anni Cinquanta, in stretta connessione con la nascita della Comunità. Tra l’autunno del 1951 e l’inverno del 1952, a mano a mano che la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) diventava una realtà e i negoziati per la Comunità europea di difesa (CED) si avviavano alla conclusione, il processo d’integrazione funzionalista (v. Funzionalismo), per settori, forniva argomenti sempre più validi alla lotta per l’unità politica dell’Europa e per la creazione di un’Autorità politica centrale, creando le premesse per il passaggio senza soluzione di continuità all’approccio costituzionalista. Ci si chiedeva, in particolar modo, come costruire un esercito comune che non fosse una semplice giustapposizione di eserciti nazionali, in assenza di uno Stato, e come demandarne la creazione a un’Autorità specializzata, dal momento che l’unificazione dell’esercito coinvolgeva altri importanti settori della vita pubblica quali la politica estera e di bilancio. Ci si domandava inoltre se queste Autorità specializzate avrebbero potuto rimanere isolate e prive di qualsiasi legame.

Fu il Presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi a farsi paladino della Comunità politica europea, sostenendo con grande determinazione, sia in seno all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, il 10 dicembre 1951, sia soprattutto nelle successive riunioni dei ministri degli Esteri dei Sei, l’11 dicembre a Strasburgo e il 27 a Parigi, l’idea di affidare un potere costituente all’Assemblea della CED. Nel corso di queste riunioni, De Gasperi, concentrandosi esclusivamente sugli aspetti politici dell’integrazione militare, chiese con grande determinazione e riuscì a ottenere che nel progetto di trattato della CED fosse inserito un articolo – l’art. 38 – che affidava all’Assemblea provvisoria della CED il compito di studiare la creazione di un’Assemblea rappresentativa della Comunità, eletta “su base democratica”, e i poteri di cui sarebbe stata investita. Soprattutto, esso definiva i principi ai quali l’Assemblea avrebbe dovuto ispirarsi, stabilendo che l’Assemblea dovesse costituire «uno degli elementi di una struttura federale o confederale ulteriore, fondata sul principio della separazione dei poteri e comportante, in particolare, un sistema rappresentativo bicamerale».

Non si trattava, certo, di un articolo perfetto; in particolare, la procedura prevista non valutava nella prospettiva corretta il fattore tempo, indulgendo a un ottimismo, forse comprensibile, ma ingiustificato. La cesura determinata dal suo inserimento nel progetto di trattato della CED era tuttavia profonda e tale da mettere in moto un processo di natura costituente.

Nella primavera del 1952, le forze favorevoli all’Europa valutarono la possibilità di anticipare la convocazione dell’Assemblea. In maggio, Paul-Henri Charles Spaak, che si era precedentemente concordato con Jean Monnet, proponeva che i compiti previsti dall’art. 38 fossero affidati all’Assemblea della CECA (opportunamente allargata, in modo da renderla coincidente con quella della CED), di cui era imminente la convocazione dal momento che le ratifiche del Piano Schuman stavano per essere ultimate.

La proposta incontrava immediatamente importanti adesioni, fino a essere assunta nel giro di pochi giorni come modello di un’iniziativa governativa franco-italiana in base alla quale, il 10 settembre 1952, a Lussemburgo, i sei ministri chiedevano formalmente all’Assemblea comune della CECA, nel giorno stesso del suo insediamento, che assumesse l’incarico di elaborare un progetto di trattato istituente una Comunità politica europea (CPE). L’Assemblea accoglieva favorevolmente la richiesta e si metteva al lavoro – con il nome di Assemblea ad hoc – redigendo, entro il termine prescritto del 10 marzo 1953, un progetto di Statuto. Esso prevedeva la creazione di cinque istituzioni – Parlamento, Consiglio esecutivo europeo, Consiglio dei ministri nazionali, Corte di giustizia, Consiglio economico e sociale – e l’elezione a suffragio universale diretto di una delle due Camere del legislativo comunitario, la Camera dei popoli, demandando alla Comunità europea non solo le competenze della CECA e della CED, ma anche il potere di levare imposte direttamente sui cittadini e quello di realizzare progressivamente un mercato comune, cioè la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali (v. Comunità economica europea).

Il contesto che aveva fatto da sfondo alla vicenda era tuttavia ormai mutato. La morte di Stalin, con le prospettive di distensione che essa apriva, e le crescenti difficoltà della Francia in Indocina rendevano la ratifica ardua. Durante una prima riunione dei Sei, a Parigi, il 12 maggio, in cui ancora una volta De Gasperi dimostrava di essere il vero elemento propulsore della Comunità, i ministri riconoscevano unanimemente la necessità di creare una Comunità politica e proseguire a questo scopo i lavori in corso. Ma il 21 maggio il governo Mayer (v. Mayer, René), in Francia, era rovesciato e ciò aveva immediate ripercussioni: la Conferenza prevista a Roma dal 22 giugno al 1° luglio veniva rinviata, così come la riunione dei Sei in un primo tempo fissata per il 10 luglio all’Aia. Nel frattempo, anche De Gasperi, avendo subito alle elezioni del 7 giugno la sconfitta che lo avrebbe portato in breve tempo ad essere estromesso dal governo, stava per lasciare la scena. La riunione dei Sei, tenutasi a Parigi il 22 giugno per le forti pressioni italiane e tedesche, ma a fronte di non trascurabili e comprensibili perplessità francesi, non sortiva alcun risultato. Durante una nuova riunione a Baden-Baden, il 7 agosto, i ministri raggiungevano l’unanimità sulla necessità di costruire una Comunità politica dalle caratteristiche quantomeno ambigue: una “Comunità di Stati sovrani”. Dopo mesi di tergiversazioni, i ministri rimettevano il progetto di Statuto a una conferenza di supplenti (che si sarebbe tenuta a Roma dal 22 settembre al 9 ottobre). Lo Statuto veniva largamente rimaneggiato e perdeva via via i suoi caratteri federali. A una nuova riunione tenutasi all’Aia in novembre, i ministri, consapevoli dell’impossibilità di ottenere risultati in un contesto storico che ormai non spingeva più con urgenza verso l’unificazione, ma nel contempo desiderosi di non troncare bruscamente i lavori intrapresi e di non assumersi la responsabilità di un fallimento, decidevano di rinviare l’ulteriore approfondimento delle questioni relative alla CPE a una Commissione, nel vano tentativo di riavvicinare le posizioni delle varie delegazioni procedendo in maniera informale. I lavori della Commissione si trascinavano stancamente finché, a fine giugno, venivano aggiornati sine die.

Il destino della Comunità politica veniva così legato a quello della CED e, il 30 agosto 1954, ne seguiva, seppur indirettamente, la sorte.

Daniela Preda (2008)

Con O’Neill

Confederazione europea dei sindacati

Nei primi anni del secondo dopoguerra si assistette in Europa a una rinascita del movimento sindacale, caratterizzato da un apparente desiderio di collaborazione fra le varie organizzazioni aderenti alla Federazione sindacale mondiale (FSM, o World federation of trade unions, WFTU), egemonizzata dal movimento comunista. L’emergere della Guerra fredda favorì nella parte occidentale del continente la rottura della unità d’azione fra i partiti comunisti e le forze politiche democratiche. Nel volgere di breve tempo questo fenomeno si estese ai sindacati. Particolarmente significativi a questo riguardo furono gli eventi in Francia e in Italia: nel primo paese con la nascita nel 1948 del sindacato socialista Confédération générale du travail-Front ouvrière (CGT-FO), nel secondo con le scissioni dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e la formazione tra il 1948 e il 1950 della cattolica Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL) e della Unione italiana del lavoro (UIL) di ispirazione socialdemocratica e repubblicana. Tali sviluppi condussero all’uscita dalla FSM di varie organizzazioni sindacali democratiche e alla creazione della Confederazione internazionale dei sindacati liberi (CISL internazionale o International confederation of free trade unions, ICFTU), alla quale si affiancò la Confederazione internazionale dei sindacati cristiani (CISC); è interessante notare come l’italiana CISL decidesse di aderire alla CISL internazionale piuttosto che alla CISC.

Una delle discriminanti nel determinare le varie scissioni a livello nazionale e internazionale fu l’atteggiamento assunto nei confronti del Piano Marshall e del progetto di ricostruzione dell’economia dell’Europa occidentale, il quale aveva importanti implicazioni per ciò che concerneva l’avvio della costruzione europea. Quando, nel 1950, il governo francese lanciò il Piano Schuman per la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), le forze sindacali dell’Europa occidentale, soprattutto quelle di ispirazione cattolica, mostrarono forte attenzione nei riguardi di questo progetto che avrebbe avuto un significativo impatto sui lavoratori dei settori carbonifero e siderurgico; da parte loro, d’altronde, Jean Monnet e i suoi collaboratori non trascurarono il ruolo che i sindacati anticomunisti avrebbero potuto giocare nel determinare una forma di ampio consenso nei confronti della nascente comunità europea, tanto è vero che due leader sindacali, il belga Paul Finet e il tedesco Heinz Potthoff sarebbero entrati a far parte dell’Alta autorità della CECA, mentre all’interno della Comunità sarebbe stato creato un Comitato consultivo con la presenza dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali non comuniste dell’Europa dei Sei (v. anche Dialogo sociale).

Le aspirazioni dei sindacati socialisti e cattolici a svolgere un ruolo di spicco nella costruzione europea trovarono negli anni successivi solo parziale risposta. Quando, nel 1955, con la Conferenza di Messina ebbe inizio il processo che avrebbe condotto ai Trattati di Roma e alla nascita della Comunità economica europea (CEE) e dell’Euratom (o Comunità europea dell’energia atomica, CEEA), le leadership politiche dei Sei decisero di escludere dal negoziato i rappresentanti delle parti sociali; nei documenti siglati a Roma, soprattutto in quello relativo alla CEE, sembrò prevalere la volontà di creare un libero mercato nel cui ambito gli aspetti considerati più significativi dai sindacati, ad esempio l’ipotesi di una politica sociale, vennero subordinati agli obiettivi di natura economica. Inoltre, solo nella fase conclusiva delle trattative i Sei, su spinta di alcune organizzazioni sindacali e di un paio di delegazioni nazionali, decisero di creare un Comitato economico e sociale (CES) su base tripartita, con la presenza dunque di esponenti dei sindacati nazionali, ma si stabilì che il CES avrebbe avuto semplici funzioni consultive. Ciò nonostante, i leader sindacali dell’Europa dei Sei compresero che la CEE e l’Euratom avrebbero avuto importanti conseguenze sulle condizioni di vita e di lavoro dei propri iscritti.

Nel 1958, all’indomani dell’attuazione dei Trattati di Roma, i sindacati appartenenti alla CISL internazionale (ICFTU) davano origine al Segretariato sindacale europeo (SSE), mentre la CISC creava un’Organizzazione europea (OE-CISC). Entrambi gli organismi miravano a seguire con attenzione il processo di costruzione europea e, se possibile, a influire su di esso. In realtà la capacità del SSE e della OE-CISC di incidere sulle dinamiche comunitarie risultò minima sino alla fine degli anni Sessanta. Varie ragioni erano all’origine del ruolo secondario svolto dalle organizzazioni dei lavoratori in questi anni sulle vicende della CEE. In primo luogo, va sottolineato come per più di un decennio la CEE finì con l’esprimere solo due politiche, per quanto rilevanti: da un lato l’Unione doganale per le merci, dall’altro la Politica agricola comune (PAC); inoltre, sul piano politico la costruzione europea si scontrò con i conflitti che spesso opposero la Francia di Charles de Gaulle ai “Cinque”. Non deve essere inoltre trascurato come in generale in tutta l’Europa occidentale i sindacati vissero durante gli anni Sessanta una fase di debolezza, in parte determinata dall’avvento della società dei consumi e dalle trasformazioni vissute dalla classe operaia. Le organizzazioni sindacali non comuniste esercitarono pressioni per vedersi riconosciuto un ruolo all’interno della CEE, ma senza successo ove si escluda la funzione, d’altronde marginale, esercitata all’interno del CES. Da parte loro i maggiori sindacati comunisti, la CGT francese e la CGIL italiana, continuavano a offrire una interpretazione negativa della costruzione europea e a mostrarsi convinti che questa avrebbe peggiorato le condizioni di vita dei lavoratori, per essere poi smentiti dai fatti.

Con il Vertice dell’Aia del dicembre 1969 il processo di integrazione entrava in una nuova fase. Non solo si poneva in cantiere il primo, importante allargamento della Comunità, ma venivano poste altresì le basi per un ampliamento delle competenze della CEE con il lancio nei primi anni Settanta di una serie di nuove politiche destinate ad avere un forte impatto sui lavoratori europei: dalla politica regionale (v. Politica di coesione; Comitato delle regioni) alla politica sociale, dalla Politica ambientale alla Politica industriale, ecc. Questa evoluzione corrispondeva in parte anche alle trasformazioni vissute dall’Europa occidentale sia sul piano sociale, con il “maggio francese”, sia su quello economico, con il rallentamento dell’espansione e poi con il sopraggiungere di una grave crisi che avrebbe caratterizzato tutti gli anni Settanta, spingendo ampi settori del mondo occidentale a ritenere possibile una irreversibile decadenza del modello di sviluppo capitalistico e la conseguente ricerca di nuove risposte. Questi ultimi fenomeni diedero un nuovo impulso all’azione delle forze sindacali e in generale al movimento dei lavoratori; significativo in questo ambito fu il caso italiano con l’“autunno caldo” del 1969 e con la conseguente spinta verso l’unità sindacale fra CGIL, CISL e UIL. La stessa CEE parve rendersi conto dell’opportunità di avviare un confronto con le forze sociali. Nel 1970, su prevalente spinta dell’Italia, si tenne a Lussemburgo la prima conferenza tripartita con la partecipazione di rappresentanti dei sindacati, delle associazioni degli imprenditori e dei governi. Venne inoltre costituito il Comitato permanente sull’impiego, aperto alla presenza di esponenti delle organizzazioni dei lavoratori e, come ricordato, tra il 1972 e il 1974 venne lanciato dalla CEE il primo programma d’azione sociale europea (v. Comitato per l’occupazione).

Questi importanti cambiamenti nel contesto delle politiche comunitarie, l’allargamento della CEE del 1972 con l’ingresso del Regno Unito, in cui le trade unions giocavano ancora una parte importante, nonché l’aspirazione a superare le divisioni della Guerra fredda manifestatasi ad esempio in Italia e in Francia, furono fra gli elementi che spinsero i sindacati europei a fondare, con la conferenza di Bruxelles del febbraio del 1973, la Confederazione europea dei sindacati (CES o ETUC, European trade unions confederation), il cui primo presidente fu l’inglese Victor Feather e il primo segretario il belga Théo Rasschaert. Significativamente, nel volgere di breve tempo, su spinta della CISL e della UIL, la CGIL entrò a far parte della CES. In realtà, a dispetto di questi sviluppi e di un apparente interesse da parte della Comunità nei confronti di alcuni temi cari ai sindacati, quali il lancio nel 1974 del primo programma di azione sociale europea e l’istituzione delle due prime agenzie comunitarie, la CES non sembrò cogliere queste apparenti opportunità per l’avvio di un Dialogo sociale europeo; parve anzi assumere una posizione distante, se non scettica, nei confronti del suo coinvolgimento nelle dinamiche comunitarie. Questo atteggiamento era determinato da varie ragioni: in primo luogo la disillusione delle forze sindacali nei riguardi degli scarsi risultati derivanti dai primi tentativi della CEE di avviare una concreta politica sociale; in secondo luogo la perdurante convinzione da parte dei rappresentanti dei lavoratori che altri gruppi di interesse, in particolare le associazioni padronali, fossero in grado di incidere in maniera ben più efficace attraverso la “comitologia” sulle scelte di Bruxelles. Non va d’altronde trascurato come non vi fosse una sovrapposizione esatta fra l’Europa dei “Nove” e la più ampia area geografica coperta dalla CES.

A questo proposito sulle posizioni della Confederazione esercitavano una certa influenza i sindacati delle nazioni dell’Europa settentrionale, nonché le trade unions britanniche le quali, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, si mostravano nel complesso sfavorevoli nei confronti del processo di integrazione, alla stregua d’altronde dello stesso partito laburista. All’interno della CES, dunque, solo alcuni sindacati, per quanto di un certo rilievo, dichiaravano il loro aperto sostegno alla CEE e alla costruzione europea. Tale situazione di stallo non subì sostanziali mutamenti nel corso dei primi anni Ottanta, che videro d’altronde la Comunità affrontare una serie di gravi difficoltà, come ad esempio la questione del contributo britannico al bilancio di Bruxelles (v. Bilancio dell’Unione europea). Da parte loro, in questo stesso periodo alcuni importanti sindacati subivano i primi, duri attacchi alla influenza da loro esercitata nei rispettivi ambiti nazionali a seguito delle tendenze neoliberiste manifestatesi con l’arrivo al potere in Gran Bretagna di Margaret Thatcher. Non vi è da stupirsi, inoltre, se in alcune importanti organizzazioni dei lavoratori continuasse a prevalere la convinzione che la CEE agisse soprattutto a difesa degli interessi padronali, in particolare dei grandi gruppi industriali e finanziari.

Anche nel caso dei rapporti tra la CES e la Comunità il 1985 segnò un momento di svolta. Di particolare rilievo fu la nomina di Jacques Delors alla guida della Commissione europea. L’esponente socialista francese, oltre a essere stato ministro delle Finanze nei primi anni della presidenza di François Mitterrand, aveva vissuto un’esperienza diretta nel mondo sindacale francese, dapprima all’interno della organizzazione cattolica CFTC (Confédération français des travailleurs chrétien), trasformatasi in seguito nella CFDT (Confédération française démocratique du travail). Delors riteneva che all’obiettivo del “grande mercato unico” delineato nel Libro Bianco (v. Libri bianchi) della Commissione (v. Mercato unico europeo) dovesse affiancarsi un coinvolgimento delle forze sindacali nella strategia europea che era in corso di elaborazione ad opera dello stesso Delors e della “coppia” Mitterrand-Helmut Kohl. In tale ambito di particolare rilievo fu l’iniziativa presa dal presidente della Commissione per la convocazione di un primo incontro fra rappresentanti della CES, dell’Union of industrial and employers’ confederations of Europe (UNICE) (v. Unione delle industrie della Comunità europea), ecc. presso il Castello di Val Duchesse, nelle vicinanze di Bruxelles, e che nelle intenzioni di Delors avrebbe dovuto rappresentare l’avvio di un duraturo e proficuo “dialogo sociale” europeo. Seppur tra varie difficoltà – e grazie anche a un significativo intervento del sindacalismo italiano in occasione del congresso della CES tenutosi a Milano nel maggio del 1985 – vi fu da parte della Confederazione un parziale cambiamento di rotta, che si tradusse in una progressiva attenzione verso le proposte di Delors e verso la possibilità che il movimento dei lavoratori individuasse un proprio ruolo nell’ambito delle trasformazioni che la CEE sembrava destinata a vivere, a partire dalla convocazione della conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) del Lussemburgo, la quale avrebbe condotto alla redazione dell’Atto unico europeo. La leadership della CES si rendeva conto a questo punto che le trasformazioni economiche e sociali in corso nel mondo occidentale e la strategia varata dalla Commissione europea con il sostegno della Germania occidentale e della Francia avrebbero avuto un forte impatto sulle posizioni delle organizzazioni dei lavoratori, e che sarebbe stato quindi fondamentale per la sorte dei sindacati europei prendere parte in qualche modo a tali cambiamenti al fine di guidarli e di difendere gli interessi dei lavoratori. La strategia del “consenso” auspicata da Delors parve avere parziale successo: il “dialogo sociale” sembrò istituzionalizzarsi con una crescente partecipazione di rappresentanti sindacali alle dinamiche comunitarie e, da parte sua, la CES si mostrò favorevole alle numerose iniziative assunte dalla Commissione – in particolare al progetto avanzato da Delors tra il 1988 e il 1989 per la redazione di una Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, nonché alla volontà della Commissione di far rientrare nel Trattato di Maastricht un “capitolo sociale” (v. Protocollo sulla politica sociale). Fu significativo che nel 1991 il leader sindacale italiano Emilio Gabaglio venisse nominato segretario della CES, in quanto apparteneva alla CISL, una delle organizzazioni europee che aveva sempre sostenuto con maggior forza l’obiettivo dell’unione europea. Non mancarono comunque critiche nei confronti delle scelte della CES, poiché parte delle posizioni espresse dalla Commissione finirono con l’essere in parte vanificate dall’atteggiamento di alcuni Stati membri, in particolare la Gran Bretagna guidata dai conservatori. Londra infatti rifiutò di attribuire una piena validità alla “Carta sociale”, la quale finì con il restare una semplice dichiarazione di principio; inoltre l’Inghilterra riuscì a imporre la clausola dello opting-out sul “capitolo sociale” del trattato di Maastricht. Negli stessi ambienti sindacali si sosteneva spesso che ai riconoscimenti formali conseguiti in ambito europeo non corrispondeva una reale difesa degli interessi dei lavoratori, posti in discussione dalle politiche economiche degli Stati membri e dalla ispirazione “liberista” di gran parte delle scelte compiute dalla Comunità tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta.

Ciò nonostante, all’indomani di Maastricht la CES continuò a esprimere il proprio sostegno nei riguardi delle maggiori scelte prese dall’Unione europea e a cercare di esercitare un’influenza dall’interno sul Processo decisionale comunitario. Una valutazione positiva venne infatti espressa dalla CES in occasione della firma del Trattato di Amsterdam del 1997, che sembrava sottolineare l’interesse della UE verso temi particolarmente sentiti in ambito sociale, ad esempio quello dell’impiego o della “esclusione sociale”. Le crescenti difficoltà economiche vissute da gran parte degli Stati membri all’inizio del XXI secolo, nonché le incertezze manifestatesi in generale nel processo di integrazione, favorivano il diffondersi della sensazione in vari ambiti sindacali che i risultati conseguiti nel contesto della politica sociale europea, tali da giustificare la cooperazione fra la CES e gli organismi di Bruxelles, fossero di rilievo di gran lunga minore rispetto a quanto sperato in un primo tempo. A tale riguardo si è spesso sottolineata la scarsa incidenza dei provvedimenti normativi destinati a favorire relazioni industriali su scala europea. A ciò va aggiunta la più ampia debolezza di alcune organizzazioni sindacali europee occidentali, nonché la presenza nella CES dei nuovi sindacati dei paesi che già facevano parte dell’ex blocco orientale e che scontano ancora le conseguenze della loro inesperienza e di politiche economiche di stampo “neoliberista”, a volte applicate in maniera troppo rigida e in tempi troppo rapidi.

Sebbene la CES sia ormai un attore pienamente riconosciuto di numerose dinamiche comunitarie e continui a mantenere un atteggiamento sostanzialmente favorevole verso il processo di integrazione, non mancano al suo interno dubbi sugli esiti della strategia di dialogo perseguita negli ultimi decenni con le Istituzioni comunitarie; un’incertezza vissuta d’altronde da numerose organizzazioni sindacali nazionali a proposito del proprio ruolo in un contesto economico e sociale particolarmente complesso e difficile.

Antonio Varsori (2006)

Conferenza di Messina

La necessità di rilanciare il processo di integrazione comunitaria

La Conferenza di Messina rappresentò il rilancio dell’integrazione europea da parte dei governi (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). Si trattava, infatti, della prima riunione dei ministri degli Esteri dei Sei dopo il fallimento, nell’agosto 1954, della Comunità europea di difesa (CED) e del relativo progetto di Comunità politica europea (CPE). Motivo contingente era la necessità di scegliere un nuovo presidente dell’Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Il 10 novembre 1954, Jean Monnet informava i governi della Comunità in merito alla decisione di non voler rinnovare il suo mandato. I ministri degli Esteri dei Sei dovevano, quindi, riunirsi per procedere alla nomina di un membro dell’Alta autorità e designare, per il periodo che scadeva il 10 febbraio 1957, il suo nuovo presidente e vicepresidente.

Monnet motivava la scelta, maturata dopo la sconfitta della CED, con la volontà di ritrovare la sua libertà di azione. A tal fine fondò il Comité d’Action pour les Etats Unis d’Europe (v. Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa), riunendo personalità politiche, federaliste (v. anche Federalismo) e non, che lo avrebbero aiutato a fare pressione sui governi per il raggiungimento di nuove tappe nella costruzione europea. Personalità partecipanti e temi trattati

Fu il ministro degli Esteri italiano, Gaetano Martino, a chiedere che la riunione si svolgesse a Messina (e in parte a Taormina) dall’1° al 3 giugno 1955, poiché questi era trattenuto in Sicilia dalle elezioni per il Parlamento regionale.

Sotto la presidenza di Joseph Bech, presidente del governo e ministro degli Esteri del Lussemburgo, la conferenza riuniva: Antoine Pinay, ministro degli Esteri francese, Gaetano Martino, il tedesco Walter Hallstein, segretario di Stato agli Esteri, Paul-Henri Charles Spaak, ministro degli Esteri belga e Johan Willem Beyen, ministro degli Esteri olandese. All’ordine del giorno figurava, oltre al punto sopra citato, «l’esame del programma dell’azione da intraprendere per sviluppare l’integrazione europea».

I negoziati franco-tedeschi sulla Saar, da poco giunti a delle conclusioni che vennero giudicate soddisfacenti, contribuirono a creare un clima disteso. Per il successore di Monnet alla presidenza dell’Alta autorità, i Sei si accordarono facilmente sulla nomina di René Mayer, ex Presidente del Consiglio dei Ministri francese e convinto europeista. Furono riconfermati nei posti di vice presidenti del collegio il belga Albert Coppé e il tedesco Franz Etzel.

Circa i temi politici della Conferenza, due furono le principali direzioni. Jean Monnet cercava un nuovo punto decisivo sul quale integrare gli interessi nazionali, così come avvenuto con la CECA. Concentrando la sua attenzione sulla questione energetica, consapevole di quanto l’Europa avesse fonti limitate, Monnet individuava nell’energia nucleare la materia sulla quale prendere una nuova iniziativa. Dal carbone europeo all’atomo europeo: questa l’intenzione di Monnet. Confidando nella volontà francese di mettere in comune le risorse nucleari, decise di avvicinare Paul-Henri Spaak per raccogliere un suo eventuale sostegno. Nel frattempo, il Belgio e gli altri paesi del Benelux maturarono il proposito di rilanciare la collaborazione tra i Sei, ma su un altro piano. Si fece strada l’idea di un’Unione doganale, di un’area di libero scambio come una rinnovata Zollverein. Alla vigilia della conferenza, pertanto vi erano prospettive diverse tra le diplomazie.

I Sei ministri dedicarono la parte più importante dei lavori in particolare all’esame dei memoranda tedesco e italiano, ma soprattutto al memorandum che i tre paesi del Benelux avevano concordato il 18 maggio e fatto pervenire due giorni dopo agli altri tre governi. Diedero inoltre incarico a un comitato intergovernativo di studiare ciascuna di queste possibilità. Antoine Pinay, molto restio circa un mercato comune e le sue eventuali istituzioni, ottenne che questo comitato fosse formato non per elaborare progetti di trattato, ma solo per studiare ciò che sarebbe tecnicamente possibile fare. Subito i ministri del Benelux suggerirono che il comitato, costituito da delegati governativi e da esperti, fosse presieduto da una personalità politica con l’incarico di coordinare i vari lavori. L’idea fu approvata senza difficoltà, creando così un precedente “rivoluzionario” nel metodo di lavoro tra gli Stati. Venne proposto il nome di Paul van Zeeland, ex primo ministro ed ex ministro degli Esteri del Belgio. Ma il 18 giugno, Paul-Henri Spaak, suggerito per via diplomatica da Johan Willem Beyen, fu designato presidente del comitato intergovernativo istituito dalla Conferenza di Messina.

Diversi punti di vista sul processo d’integrazione europea

In realtà, a Messina si contrapponevano concezioni europee diverse: favorevoli o contrari alle istituzioni sopranazionali, favorevoli o contrari all’estensione dei poteri della CECA, favorevoli o contrari all’integrazione verticale o orizzontale, priorità della politica o dell’economia. Nonostante queste divergenze, si trovò un accordo all’alba del 3 giugno. La lunga risoluzione finale, che rifletteva in larga parte il punto di vista del Benelux, costituiva un insieme sufficientemente coerente per permettere ai successivi lavori di avere una solida base di appoggio. Infatti, nella dichiarazione preliminare i ministri presero importanti posizioni di principio che orientarono decisamente i dibattiti, dando loro un impulso preciso ed un obiettivo determinato. Decisi a restituire all’Europa la sua influenza e prestigio nel mondo, essi si diedero anche come obiettivo quello di accrescere costantemente il livello di vita della popolazione. Nel comunicato finale della conferenza, i Sei affermarono la loro «volontà di raggiungere una nuova tappa sulla strada della costruzione europea […] in un primo tempo in campo economico […], di perseguire nella stabilizzazione di una Europa unita attraverso lo sviluppo di istituzioni comuni, la progressiva fusione delle economie nazionali, la creazione di un mercato comune e la progressiva armonizzazione delle loro politiche sociali». Riconoscevano infine che la costituzione di un mercato comune europeo (v. Comunità economica europea), che escludesse ogni diritto di dogana e ogni restrizione quantitativa, era l’obiettivo della loro azione nell’ambito della politica economica.

Questo mercato, tuttavia, poteva realizzarsi soltanto tramite tappe graduali, poiché la sua applicazione comportava lo studio di una serie di questioni: la procedura e il ritmo della progressiva soppressione degli ostacoli agli scambi nelle relazioni tra i paesi partecipanti, come pure le misure appropriate tendenti alla progressiva unificazione del regime doganale verso i paesi terzi; le misure da prendere al fine di armonizzare la politica generale dei paesi partecipanti nei settori finanziari, economici e sociali; l’adozione di metodi capaci di garantire un coordinamento sufficiente delle politiche monetarie dei paesi membri per permettere la creazione e lo sviluppo di un mercato comune; un sistema di Clausole di salvaguardia; la creazione ed il funzionamento di un fondo di riadattamento; il graduale inserimento della libera circolazione della manodopera; l’elaborazione di regole che garantiscano il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune (v. Politica europea di concorrenza), in modo da impedire in particolare ogni discriminazione nazionale; le modalità istituzionali appropriate per la realizzazione e il funzionamento del mercato comune.

D’altronde, questo mercato non era concepito esclusivamente come un’area economica all’interno della quale i prodotti potessero circolare liberamente. Esso andava oltre l’ottica liberista dell’adattamento automatico, secondo cui un mercato comune si definisce semplicemente con la soppressione degli ostacoli pubblici o privati alla circolazione interna delle merci, degli uomini, dei servizi e dei capitali (v. Libera circolazione delle merci; Libera circolazione delle persone; Libera circolazione dei servizi; Libera circolazione dei capitali). Anche l’armonizzazione delle politiche economiche e sociali appariva come une seconda componente concomitante con la nozione di mercato comune così come venne definita dalla risoluzione di Messina.

Nel dibattito su come procedere nell’integrazione, i ministri degli Esteri a Messina espressero l’auspicio di avviare negoziati su due piani: da una parte si studiavano nuove integrazioni settoriali, in particolare in materia di trasporti, di energia tradizionale ed energia nucleare; dall’altra rimaneva come obiettivo la costruzione di un mercato comune.

Indubbiamente gli inconvenienti di questa doppia azione erano reali, perché questo poteva portare ad una certa confusione nei lavori. Nonostante questo compromesso, il metodo dei Sei permise di avanzare in contemporanea nelle due direzioni, grazie all’accortezza che il Comitato Spaak ebbe in seguito di separare queste attività affidandole a due commissioni distinte.

In materia di energia tradizionale, la risoluzione di Messina prevedeva di mettere a disposizione delle economie europee energia più abbondante e a minor prezzo, permettendo di accrescere la resa degli investimenti e di ridurre il costo delle forniture. Furono adottate poi le grandi linee generali della politica complessiva di produzione e di consumo di energia. Contrariamente alla risoluzione approvata il 12 e 13 ottobre 1953 dal Consiglio dei ministri della CECA, che già prevedeva studi comuni sullo sviluppo economico ed il coordinamento degli investimenti, la risoluzione di Messina prevedeva, almeno implicitamente, la creazione di un organo comune di coordinamento e, al massimo, l’inserimento dell’energia tradizionale (gas e luce elettrica) nelle aree di competenza della CECA.

La risoluzione di Messina affrontava anche il delicato settore dell’energia atomica, considerato strategico da Monnet. I Sei ministri riconoscevano, infatti, che lo sviluppo dell’energia atomica per scopi pacifici avrebbe aperto la prospettiva di una nuova rivoluzione industriale. Inoltre, consideravano urgente studiare la creazione di un’organizzazione comune alla quale sarebbero stati dati la responsabilità e i mezzi per garantire lo sviluppo pacifico dell’energia atomica. Si trattava, in particolare, di favorire lo stanziamento di un fondo comune – alimentato dai contributi di ciascuno dei paesi partecipanti – che permettesse di finanziare le installazioni e le ricerche in corso o da intraprendere; l’accesso libero e sufficiente alle materie prime; il libero scambio di conoscenze e di tecnici, dei sottoprodotti e delle attrezzature specialistiche; la messa a disposizione dei risultati ottenuti e la concessione di aiuti finanziari in vista del loro utilizzo. Considerando che l’energia atomica costituiva un settore ancora poco soggetto agli interessi privati e tenuto conto delle sue possibili implicazioni nel settore militare, gli autori della risoluzione di Messina ritenevano che convenisse orientarsi verso la costituzione di un organismo europeo che avesse l’esclusiva sulle questioni nucleari ed importanti poteri di controllo. era la nuova autorità dell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica) nata con i Trattati di Roma del 1957. In materia di trasporti, i Sei prevedevano lo sviluppo in comune di grandi vie di comunicazione per favorire l’incremento degli scambi di merci ed il movimento delle persone. In particolare si citavano le reti fluviali, autostradali ed aeree. La risoluzione di Messina contemplava clausole di salvaguardia e la creazione di due fondi: uno di compensazione, destinato a fornire un aiuto agli agenti economici assegnati dall’istituzione del mercato comune, ed un fondo di investimenti avente come scopo lo sviluppo in comune delle potenzialità economiche europee e, in particolare, lo sviluppo delle regioni più svantaggiate degli Stati partecipanti.

Un paragrafo della risoluzione di Messina era infine dedicato alle questioni sociali. I Sei si accordarono per studiare l’armonizzazione progressiva dei regolamenti nazionali, in particolare quelli relativi alla durata del lavoro, alla remunerazione delle ore straordinarie e alla durata dei congedi ed al loro compenso.

Per quanto concerne il metodo da seguire per raggiungere i vari obiettivi, i Sei prevedevano che i lavori del comitato tecnico fossero regolarmente presentati ai ministri degli Esteri mentre una relazione finale avrebbe dovuto essere consegnata non oltre il 1° ottobre 1955. I lavori collegiali ricevettero il patrocinio dell’Alta autorità della CECA e quello dei segretari generali dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), del Consiglio d’Europa e della Conferenza europea dei ministri dei Trasporti (CEMT). Desiderosi di vedere la partecipazione degli inglesi nella costruzione dell’unità europea, i Sei ministri prevedevano di inserire il Regno Unito nei lavori del comitato in qualità di Stato membro dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO) e di paese associato, dal dicembre 1954, alla CECA.

Considerazioni finali e risultati della Conferenza

Nonostante le critiche federaliste (Altiero Spinelli denunciò un mercato comune senza un governo comune), la Conferenza di Messina rappresentò un momento di svolta nel processo d’integrazione europea sostanzialmente per due scelte fondamentali. L’una relativa al settore nel quale far avanzare l’integrazione, l’altra al metodo di elaborazione dei trattati.

La scelta fondamentale sul metodo con il quale elaborare il quadro giuridico-istituzionale per il rilancio dell’integrazione creava un precedente. Invece di affidare ad una classica conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) il compito di attuare le decisioni prese, fu incaricato il Comitato Spaak di svolgere tale ruolo preparatorio. Si trattava di un gruppo di esperti, nominati dai governi e dalle Istituzioni comunitarie, guidati da un “coordinatore politico” come Paul-Henri Spaak. Il comitato aveva il mandato di studiare la fattibilità dei due progetti presentati alla Conferenza: quello ispirato da Monnet sulla «creazione di un’organizzazione comune per lo sviluppo pacifico dell’energia atomica» e quello sostenuto da Beyen, Paul-Henri Spaak e Joseph Bech (rispettivamente, ministri degli Esteri dell’Olanda (v. Paesi Bassi), del Belgio e del Lussemburgo a questi si uniscono i ministri italiano e tedesco) sull’«istituzione di un mercato comune da realizzare per tappe, mediante la riduzione progressiva delle limitazioni quantitative e l’unificazione dei regimi doganali». Il rapporto conclusivo del lavoro preparatorio fu presentato al Consiglio dei ministri riunitosi a Venezia il 29 e 30 maggio 1956. Sia per il contenuto molto approfondito, al quale contribuì direttamente il presidente Spaak, sia per il carattere pubblico delle proposte, il rapporto acquistò una notevole influenza sulle trattative diplomatiche alla vigilia dei Trattati di Roma. In occasione dei Trattati di Roma (25 marzo 1957) si comprende l’importanza della seconda scelta operata a Messina, ovvero quella di avanzare verso l’obiettivo del mercato comune (CEE) e non soltanto in un settore (Euratom). La Comunità economica europea, inserita nei trattati di Roma, divenne la base di future integrazioni, in ambito sia economico sia giuridico e politico. La Politica agricola comune, il mercato unico e l’unione monetaria (v. Unione economica e monetaria) furono tutti risultati della scelta operata a Messina e riaffermata a Roma pochi anni dopo. Un simile spazio comune implicava un ampio ordinamento giuridico sopranazionale. Di qui il ruolo decisivo della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) per estendere il Diritto comunitario e affermare la sua prevalenza su quello nazionale, fino ad arrivare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, indispensabile per garantire anche a livello europeo i principi democratici riconosciuti dalle costituzioni nazionali. Negli anni la costruzione del mercato comune (poi denominato “unico”) impose la necessità di rendere efficace il sistema decisionale (v. Processo decisionale) della Comunità allargando la sfera delle decisioni a maggioranza (v. Maggioranza qualificata) nel Consiglio dei ministri (in nuove materie era superata la regola del Voto all’unanimità). Parallelamente si rafforzava la legittimità democratica della Comunità mediante l’elezione diretta del Parlamento europeo e il rafforzamento dei suoi poteri (v. Elezione diretta del Parlamento europeo). Con un mercato unico si poneva l’esigenza di una moneta comune, l’Euro. La realizzazione dell’unione monetaria imponeva, a sua volta, di affrontare insieme altri problemi: la sicurezza interna, quella esterna e la politica estera. Il percorso avviato dalla Conferenza di Messina, su un piano principalmente economico, aveva raggiunto la sua dimensione politica. L’integrazione europea oggi si trova in un punto di stallo: o raggiunge una piena unità politica su basi federali oppure i suoi stessi risultati saranno compromessi.

Samuele Pii (2009) Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa

Principi ispiratori e finalità

La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa può essere considerata uno dei successi più misconosciuti della storia dei rapporti Est-Ovest nell’ultimo quarto del XX secolo o – se si preferisce – un esempio di scuola dell’eterogenesi dei fini nella condotta delle relazioni internazionali.

L’idea di un “patto paneuropeo sulla sicurezza collettiva”, che consentisse di dare una sanzione definitiva agli assetti derivati dalla Seconda guerra mondiale e impedisse il riarmo della Germania, era stata lanciata dalla diplomazia sovietica sin dagli anni Cinquanta. Contestata regolarmente dagli Stati Uniti e dalla Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) – che vedevano in essa il tentativo di arrivare ad una accettazione non più solo di fatto, ma internazionalmente riconosciuta della divisione in blocchi del continente europeo – la proposta era stata rilanciata a varie riprese dal Patto di Varsavia, sia pure con minori entusiasmi, e aveva raccolto l’attenzione di alcuni paesi neutrali – la Finlandia in testa, ma anche la Svizzera – che vi avevano visto, per contro, un’occasione per recuperare spazio politico in una scena che li esponeva al rischio di essere marginalizzati dalla logica del confronto Est-Ovest.

Manovre tattiche a parte, l’atmosfera negli anni Cinquanta non era tale da rendere possibile aperture di questo genere: la crisi di Berlino prima e i fatti di Ungheria poi, per non parlare della Polonia, avevano di volta in volta chiuso le finestre che si erano in qualche momento intraviste. Un discorso di Andrej Gromyko a Roma nel 1966 aveva ottenuto un’attenzione nuova e avrebbe potuto determinare sviluppi positivi, ma questa volta furono i fatti di Praga a bloccare tutto. Con l’inizio degli anni Settanta, tuttavia, la distensione aveva preso più fermamente piede e l’idea di una Conferenza europea venne rilanciata, ottenendo una migliore accoglienza da parte dei principali protagonisti. Gli USA reagirono in maniera meno negativa del passato: pur considerando l’esercizio potenzialmente controproducente e probabilmente inutile, non si opposero all’avvio di contatti, in attesa di giudicare quali ne avrebbero potuto essere gli sviluppi. L’“anno dell’Europa” di Henry Alfred Kissinger, i buoni rapporti fra Richard Nixon e Leonid Brežnev, l’interesse degli alleati europei, tutto contribuì a favorire l’avvio del processo.

Il negoziato in vista della Conferenza

Il negoziato per definire contenuti e modalità operative della futura Conferenza, iniziato a Dipoli in Finlandia nel 1972 e continuato poi a Ginevra nel 1973, si concluse nel 1975 con la firma solenne, a Helsinki, dell’“Atto finale” con cui si dava formalmente avvio alla Conferenza per la sicurezza e cooperazione in Europa. Furono tre anni complicati, durante i quali si trattò non solo di stabilire le forme di un dialogo fra alleanze e gruppi di paesi che avevano nel reciproco contrasto la loro raison d’etre, ma di ricercare un denominatore intorno al quale ancorare una base comunemente intesa di dialogo, senza porre in discussione i cardini delle concezioni politco-strategiche degli uni e degli altri e individuando, al tempo stesso, i margini di manovra costruttiva accanto e attorno a esse. Per molti aspetti si trattava di conciliare l’inconciliabile: la vocazione democratico-liberale dei paesi occidentali e la struttura centralizzatrice leninista del blocco orientale – cui ben poco poteva contribuire a mo’ di cerniera la posizione mediana dei paesi neutri e non allineati (i cosiddetti NNA) – riflettevano modelli di società fortemente divaricati, il cui unico punto d’incontro era dato dalla percezione – vaga – che intorno al progetto di questa Conferenza potesse alla fin fine raggiungersi un risultato a somma positiva. Si aggiunga a ciò la circostanza che, nella misura in cui attribuiva uno status “europeo” agli USA e al Canada, la nuova Conferenza sanciva il diritto americano al coinvolgimento permanente nella condotta delle cose europee e nella sicurezza del continente. Il risultato raggiunto fu dovuto in larga misura al lavoro accorto delle diverse delegazioni che, soprattutto nella fase ginevrina, seppero ridare smalto ad uno strumento, quello delle conferenze diplomatiche, che avrebbe potuto apparire fuori contesto rispetto ai tempi. Helsinki rappresentò un successo significativo per gli strumenti della diplomazia tradizionale.

I “dieci principi” dell’Atto finale incardinano, in maniera reciprocamente determinante, impegni in apparenza contraddittori e non armonizzabili: il riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere con il diritto di una loro modifica pacifica, il rispetto dei Diritti dell’uomo con quello del principio di non ingerenza negli affari interni. Essi disegnano un’Europa “dall’Atlantico agli Urali” in cui le libertà individuali connaturate alle democrazie liberali sono chiamate a convivere con il primato dell’autorità statale. I dieci principi dunque, avrebbero potuto essere applicati nella misura in cui fosse stato possibile individuare un elemento di flessibilità che consentisse di assorbire le aree grigie al margine di ambedue i blocchi. Il marchingegno escogitato dai negoziatori di Helsinki fu quello dell’applicazione contestuale e senza distinzioni di tutti i dieci principi: un ossimoro concettuale solo in apparenza, che nella realtà permise alla CSCE di funzionare, facendo avanzare il terreno comune ogniqualvolta questo avesse a manifestarsi e consentendo nelle fasi di tensione una mediazione interna grazie alla flessibilità – non dichiarata ma in certa misura intrinseca – nell’interpretazione dei dieci principi. Ciò che consentì alla flessibilità suaccennata di esplicare i suoi effetti fu soprattutto l’adozione del principio del consenso nel processo decisionale. Una struttura come la CSCE non avrebbe potuto essere governata dalla regola della maggioranza; votare non avrebbe voluto dire altro che cristallizzare il confronto e rendere impossibile ogni progresso. Il consenso invece, inteso non come unanimità ma come assenza manifesta di posizioni contrarie, lasciava ampio margine a posizioni differenziate – grazie anche alla possibilità di una loro registrazione nel processo verbale – senza che ciò dovesse determinare una paralisi decisionale. Era un esempio classico di come le “aree grigie” fra i due blocchi potessero essere utilizzate per far avanzare pragmaticamente il dialogo e, soprattutto nei primi anni di vita della CSCE, si rivelò uno strumento prezioso, in grado di assorbire posizioni estreme in attesa che la situazione evolvesse in maniera positiva. Un caso limite di tale applicazione fu quello della Romania a cavallo degli anni Novanta. Il regime di Nicolae Ceauşescu non poteva sopportare, negli ultimi anni di vita, il peso dell’applicazione delle regole CSCE, specie in materia di diritti umani, ma non poteva al tempo stesso permettersi il lusso di una fuoriuscita pura e semplice dall’organizzazione. Il ricorso alle dichiarazioni inserite a processo verbale, ma senza alterare il consenso, venne spinto ai suoi estremi da Bucarest; un espediente che – paradossalmente – permise più tardi alla Romania di riprendere il suo posto nella “famiglia” della CSCE senza dover fare ricorso ad abiure particolari.

Caratteristiche organizzative e strutture della Conferenza

La CSCE presentava molti elementi distintivi rispetto agli organismi internazionali in senso classico, collocandosi in una posizione mediana, un po’ Conferenza diplomatica e un po’ istituzione “leggera”, fortemente destrutturata. La mancanza di un Segretariato vero e proprio era compensata dalla previsione delle cosiddette “Riunioni sui seguiti”, anch’esse per certi versi momenti di verifica intrusiva del rispetto degli impegni presi e per altri occasioni di incontro e di ricerca di mediazioni possibili, rivolte al futuro. La natura degli impegni assunti infine, politicamente e non giuridicamente vincolanti, differenziava anche sotto questo profilo la nuova struttura paneuropea dalle istituzioni germinate dal nascente sistema internazionale multilaterale postbellico.

Al fondo, lo scambio politico alla base della nascita della CSCE – e che la distensione aveva per la prima volta reso concreto – era abbastanza chiaro. Il riconoscimento dell’immutabilità del sistema geopolitico emerso dalla Seconda guerra mondiale da un lato; l’accettazione del principio che libertà individuali e diritti umani erano valori condivisi, il cui rispetto avrebbe dovuto travalicare il confine fra i due blocchi, dall’altro. A molti all’epoca era sembrato uno scambio fra una realtà fattuale e un’altra, virtuale e, partendo da tale valutazione, in molti attaccarono le intese di Helsinki in Occidente, nella convinzione che il “dono” fatto a Brežnev con il riconoscimento della sua zona d’influenza in Europa orientale non avrebbe potuto essere facilmente compensato. Alla fine, tuttavia, lo scambio si sarebbe rivelato vincente per l’Occidente. Le disposizioni del cosiddetto “terzo cesto” – quello dedicato ai contatti fra le persone – hanno contribuito in maniera assai maggiore di quanto non si pensi a scardinare l’apparato autoritario del blocco socialista: già la semplice pubblicazione del testo dell’Atto finale aveva provocato aspettative che, per quanto rapidamente represse, si rivelò impossibile cancellare. Le frontiere poste a difesa dell’intangibilità dei sistemi sociali all’interno dei blocchi si mostrarono una difesa assai fragile nei confronti della proliferazione delle idee. Certo, per arrivare a questo risultato dovettero passare quindici anni ed esso non sarebbe stato raggiunto – o non sarebbe stato raggiunto con altrettanta facilità – se l’URSS non fosse implosa. La CSCE tuttavia, giocò un ruolo non secondario nel facilitare tale processo; un ruolo maggiore di quanto non avessero mai immaginato i suoi fondatori, dall’una come dall’altra parte dello spartiacque Est-Ovest.

L’essenza di tale scambio politico si rifletteva a sua volta nella struttura della CSCE. L’articolazione in tre “cesti” – rispettivamente sulla sicurezza, sui rapporti economici, sui contatti fra le persone e la cultura, più una “appendice” sul Mediterraneo, fortemente voluta dall’Italia – corrispondeva alle priorità rispettive: il primo e il terzo per dare spazio alle preoccupazioni sovietiche e per sostanziare le attese USA e occidentali, il secondo per riempire in qualche modo la distanza con un contenitore “pragmatico”. In ciascuno di essi gli impegni previsti dall’Atto finale trovavano una collocazione organica e, ancora una volta, interdipendente. Al buon funzionamento avrebbero dovuto presiedere le Riunioni sui seguiti previste dall’Atto finale, concepite ancora una volta con una costruttiva ambiguità: funzione di controllo ed impulso per gli uni, di contatto non coercitivo per gli altri.

Immaginata allo scopo di accompagnare il processo di distensione, allargandone via via – e in maniera consensuale – il raggio d’azione, la CSCE è stata uno specchio fedele dell’evoluzione del rapporto Est-Ovest. Le prime Riunioni sui seguiti, a Belgrado nel 1977 e a Madrid nel 1980-83, subirono il peso del deteriorato clima dei rapporti e si conclusero con un sostanziale nulla di fatto. Se a Belgrado il dialogo fu in pratica assente, alla Riunione di Madrid, prolungatasi per circa tre anni fra interruzioni e rinvii, lo scontro assunse carattere più duro, mettendo in luce tutte le difficoltà che il processo immaginato a Helsinki aveva incontrato, una volta ridiventata dominante la logica della Guerra fredda sull’onda, fra l’altro, della crisi degli euromissili. Anche sotto questo aspetto, tuttavia, sarebbe improprio condannare in toto l’esperienza di quegli anni e desumerne un fallimento – o peggio l’inutilità – dell’esercizio CSCE. Le Riunioni sui seguiti permisero di misurare in maniera più precisa l’area del contrasto, utilizzando parametri accettati in partenza, anche se oggetto di letture non concordanti. Allo stesso tempo, tale caratteristica rese più facile al processo CSCE cogliere gli spiragli che talvolta si delineavano nel confronto fra le posizioni, consentendo di consolidare i margini di intesa possibili. L’esempio più significativo di tale dimensione fu quello della Conferenza sul disarmo in Europa, la CDE, nata sull’onda dell’esigenza sentita di non lasciare senza contromisure la terra bruciata di Madrid, e che determinò, con il cosiddetto “Documento di Stoccolma”, l’adozione di una serie importante di misure di sicurezza e di fiducia reciproca sul piano militare – le Confidence and security-building measure (CSBM) – cui avrebbe dopo pochi anni fatto seguito il negoziato sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa – il Treaty on conventional forces in Europe (CFE).

Lungo tutta questa fase più conflittuale del processo, si assisté ad una forte crescita della visibilità degli NNA. La loro funzione di cerniera appariva esaltata dalla necessità di disporre – come contraltare al mutismo inter-blocchi – di una mediazione non conflittuale, alla quale affidare il compito di esplorare negli interstizi del confronto i possibili passi avanti e di consolidarli, attraverso iniziative assunte in proprio, ma attentamente negoziate dietro le quinte, in intese spesso non formalizzate, ma comunque importanti, per mantenere aperta la porta del dialogo. Paesi come la Finlandia e la Svizzera – ma anche, in misura minore, l’Austria e la stessa Santa Sede – acquisirono grazie alla CSCE una statura e un’esperienza internazionali che consentirono loro di giocare un ruolo ben al di sopra di quello che la loro forza intrinseca avrebbe normalmente legittimato. Oltre alle Riunioni sui seguiti, uno spazio importante in questo processo fu occupato dalle Riunioni di esperti su temi specifici – quali la soluzione pacifica delle controversie o la cultura – che si tennero negli intervalli fra le Riunioni principali. Esse non portarono ad un ampliamento della portata degli impegni, ma svolsero la funzione di camera di compensazione e di contatto, anche aldilà dell’argomento specifico per cui erano state convocate.

Il ruolo della Conferenza fino agli anni Ottanta

La CSCE come “contenitore” a spettro aperto dunque, ricettore di tendenze più che foro autonomamente propositivo? È una definizione che qualcuno potrebbe giudicare semplicistica, ma che corrisponde abbastanza bene al ruolo svolto sino alla seconda metà degli anni Ottanta. Nel 1986, quando si aprì a Vienna la terza Riunione sui seguiti, il quadro era in rapidissimo mutamento: le aspettative di distensione evocate nel 1975 a Helsinki si ripresentavano with a vengeance, man mano che avanzava la crisi del sistema sovietico e la perestrojka gorbacioviana cercava puntelli in Occidente. La CSCE poteva ora esercitare in positivo la sua funzione di “termometro”: a Vienna la discussione fra Est e Ovest assunse sempre più la connotazione del dialogo e la componente del “terzo cesto” acquistò un peso assai maggiore. Per la prima volta, grazie alla CSCE, si riconosceva che il rispetto dei diritti umani era una responsabilità collettiva e che, quindi, esso avrebbe dovuto essere aperto allo scrutinio, anche coercitivo, da parte di chiunque avesse fondati motivi per lamentarne una violazione, anche dall’esterno dello Stato in cui questa fosse avvenuta. Allo stesso tempo, il negoziato sulle CSBM subiva una netta accelerazione e quello sulle CFE prendeva le prime mosse, raccogliendo l’eredità delle vecchie Mutual balance force reductions (MBFR). Diversamente dalle Riunioni precedenti, a Vienna molte furono le proposte degli uni e degli altri che finirono per trovare spazio nel documento conclusivo, il quale conteneva per la prima volta numerose disposizioni di sostanza, destinate ad arricchire il complesso degli impegni contenuti nell’Atto finale. Allo stesso tempo, il sistema delle riunioni di esperti veniva reso più strutturato, così da dare continuità al processo di revisione/controllo degli impegni: prima fra tutte la decisione – segno evidente di quanto le cose fossero cambiate – di dar vita a tre Conferenze dette sulla dimensione umana – una delle quali da tenersi a Mosca – per mantenere continuità nell’applicazione degli impegni assunti in materia di diritti umani e deliberarne di nuovi.

A Vienna, insomma, la CSCE tornava a svolgere la funzione per la quale era stata concepita a Helsinki, quella di amplificatore dell’area di consenso e di acceleratore della cooperazione. Anche se non ancora del tutto evidente nel 1989, stava tuttavia venendo a mancare uno dei componenti fondamentali dello scambio politico che aveva presieduto alla sua nascita: quello dell’intangibilità dei sistemi politico- sociali all’interno dei rispettivi blocchi. Uno dei due, infatti, cominciava già a non esistere più ed era ormai l’altro corno dello scambio – quello della promozione delle libertà individuali e dei diritti umani – a definire l’insieme delle volontà comuni. Almeno come aspirazione delle società civili, sempre più debolmente contrastata dagli apparati statuali.

La Conferenza dopo la caduta del “Muro di Berlino” e la “Carta di Parigi”

Appariva ormai evidente la necessità di aggiornare il patto sociale sottostante l’Atto finale, riscrivendolo in modo da renderlo compatibile con la realtà di un’Europa non più divisa e che assisté, proprio durante la preparazione del Vertice di Parigi, nelle riunioni del “Prepcom” di Vienna, alla storica scomparsa di uno degli Stati fondatori: con la fine della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) la CSCE passò – letteralmente dalla sera alla mattina – da 35 a 34 membri. Pochi avrebbero immaginato, allora, che sarebbero bastati meno di due anni perché il numero crescesse di nuovo, sino agli attuali 53. Si incaricò Michail Gorbačëv in un discorso al Campidoglio nel novembre 1989 (per un curioso destino, è a Roma che le proposte più significative sulla CSCE sono state avanzate, da parte dei leader sovietici: v. Decaux, 1992, pag. 24) – di chiedere la convocazione di un vertice che sancisse solennemente la ritrovata unità del continente intorno a valori condivisi. Il 1990 vide così un negoziato intensissimo per ridare smalto al processo CSCE, aggiornandolo nelle ambizioni prima ancora che nei contenuti. Il Comitato preparatorio del Vertice di Parigi fu chiamato a completare in meno di sei mesi quello che a Ginevra negli anni Settanta aveva richiesto tre anni; ma questa volta gli impedimenti erano di natura tattica e non già frutto di contrapposizioni fondamentali.

La “Carta di Parigi per una nuova Europa” vide la luce nel novembre 1990, salutata come il documento fondamentale del nuovo rapporto Est-Ovest. Essa conteneva una serie di significativi rafforzamenti dell’insieme delle disposizioni del “terzo cesto”, dava per la prima volta un contenuto serio a quelle del “secondo cesto” e, quanto al primo, partiva dalla constatazione dell’avvenuta conclusione dei negoziati CSBM e CFE per tracciare nuovi obiettivi condivisi in materia di sicurezza militare. La prima riunione del “Foro sulla sicurezza militare” che si tenne a Vienna qualche mese dopo, riuscì a dare un’immagine plastica di quanto fossero cambiate le cose in Europa. In un turbinio di greche e di stellette, Colin Powell e Andrei Grechko – i due capi di Stato maggiore delle superpotenze, che mai prima di allora si erano incontrati in un contesto multilaterale – si scambiarono informazioni e commenti sui rispettivi sistemi militari, in un esercizio di trasparenza dal modesto rilievo strategico, ma dall’immenso significato simbolico.

La Carta di Parigi conteneva altresì il primo abbozzo di quella “istituzionalizzazione” della CSCE che l’Occidente aveva avversato per molti anni e da cui sarebbe nata, qualche anno più tardi, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). La spiegazione era abbastanza semplice: ora che la funzione di mediazione del confronto era venuta meno e che il rispetto di impegni condivisi, nella sostanza oltreché nella forma, costituiva il parametro unico della funzionalità dell’intero esercizio, la creazione di strumenti permanenti di impulso e controllo diventava una garanzia importante per l’Occidente, in quanto permetteva di radicare meglio l’acquis (v. Acquis comunitario) della democrazia rappresentativa nell’intera Europa allargata. Pur senza arrivare a un vero e proprio Consiglio permanente, veniva creato un Comitato di Alti funzionari con compiti di coordinamento generale e di preparazione delle riunioni ministeriali, ogni anno, e dei Vertici, ogni due. Il Centro per la prevenzione dei conflitti (CPC), doveva dare un’ossatura stabile alle misure di fiducia in campo militare e costruire su di esse una capacità diconflict prevention generale. A ulteriore sottolineatura dell’univocità dell’impegno democratico, era istituito un ufficio per il monitoraggio delle elezioni e si creava una Assemblea parlamentare, con funzioni consultive. In un residuo soprassalto di rispetto per quanti temevano il gigantismo istituzionale, ognuna di queste strutture veniva collocata in luogo diverso: a Vienna, Praga, Varsavia e, nel caso dell’Assemblea, senza dimora fissa.

Anche il principio del consenso, su cui la CSCE si era retta sin dall’inizio, cominciava a subire una prima, significativa erosione: solo la strenua opposizione della Iugoslavia impedì che la Carta di Parigi sancisse l’adozione del cosiddetto “consenso meno uno” – di cui si era cominciato a dibattere nella Riunione sui seguiti di Vienna. Del principio cioè, secondo cui la CSCE avrebbe potuto prendere misure contro uno Stato in violazione degli impegni, anche contro la volontà di quest’ultimo (il “consenso meno uno” sarebbe poi stato adottato dalla CSCE un anno dopo, al Consiglio ministeriale di Berlino, sulla spinta della crisi iugoslava, che costituì il primo banco di prova – non riuscito – della capacità della CSCE post Carta di Parigi, di svolgere un ruolo significativo di conflict management e resolution). L’Atto finale, insomma, veniva non solo aggiornato nella Carta di Parigi, ma considerevolmente rafforzato, dandogli una cogenza assai maggiore, pur senza innovare la sua natura giuridica, in forza della diversa qualità della comune volontà sottostante.

L’inefficienza della Conferenza di fronte alla crisi balcanica

La Carta di Parigi avrebbe dovuto accompagnare la transizione in Europa dal socialismo reale alla democrazia rappresentativa in quello che all’epoca sembrava un arco di tempo ragionevole: un quinquennio e forse più. La sua costruzione logica e l’intero impianto pattizio riflettevano la duplice preoccupazione di dare maggior sostanza cogente agli impegni assunti, ma allo stesso tempo di non provocare fratture troppo rigide in paesi che, dopotutto, erano chiamati ad affrontare una trasformazione che ne stravolgeva le fondamenta. E invece, la transizione avvenne in poco più di un anno, con una serie di accelerazioni indotte dalla dissoluzione dell’URSS e dalle crisi regionali che si susseguirono già nei mesi successivi al Vertice di Parigi. Dapprima la crisi dei paesi baltici e poi la questione iugoslava, iniziata in sordina con la Slovenia e poi dilagata a macchia d’olio, finirono per togliere molta della sua credibilità alla CSCE come foro negoziale e mostrarono i limiti del suo “meccanismo di emergenza” per la gestione delle crisi. Il “meccanismo di emergenza” era l’applicazione pratica del “consenso meno uno” deciso alla Ministeriale di Berlino del 1991. La Carta di Parigi è rimasta così un documento ad un tempo in anticipo e in ritardo sui tempi: i suoi contenuti politici hanno continuato a dispiegare pienamente la loro validità; i suoi strumenti hanno perso rapidamente di efficacia, per il venir meno dei presupposti che li avevano determinati.

La CSCE dimostrò tuttavia, anche in questo frangente, la validità del suo impianto di base e i pregi della sua flessibilità, operando una graduale trasformazione da organismo di impulso politico sostanzialmente destrutturato a istituzione sempre più “solida” con compiti soprattutto di conflict resolution e di monitoraggio dei processi democratici. Alla Riunione sui seguiti di Helsinki del 1992 tale processo ebbe una accelerazione, con l’enfasi posta sul rafforzamento degli strumenti di intervento in materia di diritti umani – anche attraverso la creazione di un Alto rappresentante – e di sicurezza, inserendo l’azione della CSCE più saldamente sotto il cappello del cap. VII della Carta delle Nazioni Unite. Veniva in tal modo spianata la strada per il passaggio all’OSCE, l’organismo permanente che nel 1994 a Budapest, avrebbe preso definitivamente il posto della CSCE.

Conclusioni

Lungo tutto l’arco della sua storia, la CSCE è stata in primo luogo un esercizio europeo: tanto a Est come ad Ovest, è dai paesi europei che è venuto il più forte contributo propositivo e l’impulso politico più costante. Può apparire un paradosso, visto che è stata proprio la CSCE a incardinare il principio che USA e Canada dovessero a tutti gli effetti considerarsi parte integrante della sicurezza europea: gli USA in particolare, non hanno mai abbandonato del tutto la diffidenza per un processo dietro il quale vedevano profilarsi il rischio di offrire ai sovietici uno spazio di manovra per neutralizzare la NATO (sospetti che la Francia di François Mitterrand alimentò nuovamente, anche se non più in un’ottica sovietica, avanzando agli inizi degli anni Novanta, fra i Vertici di Parigi e Helsinki, una sua nuova proposta di Conferenza paneuropea). Anche quando tale rischio apparve ormai superato dagli eventi, gli USA non rinunciarono del tutto a un approccio inquisitivo, e in qualche misura fiscale, nei confronti del processo CSCE. Un approccio che rispondeva a condizionamenti di politica interna americana facilmente percepibili – e comprensibili (le delegazioni USA alle riunioni CSCE erano le uniche a contare al loro interno una rappresentanza ufficiale del Congresso, con il quale mantenevano un filo diretto ed autonomo) – ma che ne hanno limitato l’efficacia, condizionando altresì in qualche misura la capacità propositiva della NATO. È anche per questa ragione, forse, che la CSCE ha rappresentato un terreno particolarmente fertile per la cooperazione politica europea. Già a Helsinki Aldo Moro, firmando l’Atto finale in qualità di presidente di turno della CEE (Comunità economica europea), rivendicò il diritto di questa a essere parte intera del processo “per le materie di propria competenza”. A tale formula si arrivò al termine di un negoziato defatigante che vide i Nove in contrasto con quasi tutti gli altri partecipanti ma che, una volta risolto, costituì una base non controvertibile sulla quale la CEE poté continuare a costruire. Nelle Riunioni sui seguiti successive – e nelle Riunioni specializzate – le proposte occidentali originarono sempre o quasi dalla Comunità europea, in un contesto negoziale le cui punte più aspre si registrarono, in più di un’occasione, nell’ambito inter-occidentale. Ciò si verificò con particolare evidenza nella preparazione del Vertice di Parigi. La “Carta per una nuova Europa” fu in larghissima misura frutto dell’elaborazione dei Dodici – sotto la presidenza e con il forte impulso dell’Italia – cui si contrappose assai spesso una ostinata resistenza americana. Il timore che la nuova CSCE finisse per virare troppo rapidamente verso un appeasement che all’epoca poteva apparire a taluni un rischio reale, ebbe indubbiamente il suo peso. Ma la ragione principale fu probabilmente un’altra: quella dell’emergere durante il negoziato di un nuovo soggetto, la CE (Comunità europea), capace di muoversi unitariamente e di esercitare, nel particolare contesto politico della CSCE, essendo direttamente meno vincolato a questioni di equilibrio strategico-militare, un’influenza comparabile a quella degli Stati Uniti. Il Vertice di Parigi costituì uno degli esempi di maggior successo – spesso sottaciuto – della cooperazione politica europea. L’eclissi dei paesi dell’Est in quanto gruppo – pur se con significative eccezioni, quali la Polonia e l’Ungheria nonché, a tratti, la stessa Unione Sovietica – e l’inevitabile appannarsi del ruolo degli NNA, aveva dato maggiore risalto al peso degli USA con la NATO e dell’Unione europea (UE); il dinamismo di quest’ultima non venne sempre rettamente inteso e diede luogo a più di una incomprensione con Washington. Peraltro presto superate dalla storia: se i Dodici furono lungimiranti nel disegnare una Carta di Parigi aperta al cambiamento, gli USA più di altri poterono governare l’accelerazione che il crollo del vecchio sistema europeo avrebbe portato all’insieme delle relazioni internazionali.

Antonio Armellini (2008)

Conferenze intergovernative

Introduzione

La Conferenza intergovernativa (CIG) rappresenta il momento fondamentale delle due fasi della negoziazione e della firma all’interno della procedura “normale” o, secondo altra terminologia, “solenne” di approvazione e di modificazione di un Trattato (v. Conforti 1997, pp. 61 e ss.) (v. Trattati).

La CIG è uno strumento classico del diritto internazionale, una riunione per negoziare tra governi e addivenire alla firma di una revisione di un trattato o anche di uno nuovo, che trova applicazione anche con riferimento al Diritto comunitario. Ai sensi dell’art. 48 del Trattato istitutivo dell’Unione europea (UE) (v. Trattato di Maastricht), infatti, la CIG è un passaggio obbligato della procedura di Revisione dei Trattati comunitari.

Il ruolo della CIG nel contesto comunitario

Il processo d’integrazione comunitaria, specie nelle sue prime fasi, è stato caratterizzato da un apporto consistente degli strumenti tipici del diritto internazionale (v. Integrazione, metodo della). Questo, in particolare, si è verificato per quanto riguarda la procedura di approvazione dei primi Trattati comunitari (v. Pocar, 2000, pp. 7 e ss.) (v. Trattato di Parigi; Trattati di Roma).

Soltanto per riportare alcuni esempi, si possono ricordare i negoziati aperti a Parigi il 20 giugno del 1950 per la discussione del cosiddetto “Piano Schuman”, negoziati che condussero all’approvazione del Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Sempre un negoziato condusse, il 27 maggio del 1952, alla firma a Parigi del Trattato della Comunità europea di difesa (CED). E, ancora, dopo l’approvazione alla riunione dei ministri degli Esteri, tenutasi a Messina nel giugno del 1955 (v. Conferenza di Messina), che approvò la cosiddetta “risoluzione Spaak”. La risoluzione fu poi sottoposta alla discussione della Conferenza tra i governi che si svolse a Venezia nel maggio del 1956 e, successivamente, al confronto in sede di una apposita CIG, tenutasi a Bruxelles, che, dalla fine del 1956 agli inizi del 1957, elaborò i testi dei Trattati Comunità economica europea (CEE) e Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), firmati a Roma il 25 marzo del 1957.

In questa prima fase del processo di integrazione europea, pertanto, la CIG assumeva un ruolo e una configurazione simili a quelli che rivestiva nel diritto internazionale, quale ambito, appunto, di negoziati, riunioni e trattative tra i governi degli Stati per addivenire alla firma dei primi Trattati comunitari.

Soltanto successivamente il ruolo della CIG è andato modificandosi, in particolare, con il Trattato sulla fusione degli esecutivi. Sebbene anche la firma di questo Trattato sia stata preceduta dalla convocazione della CIG, è importante rilevare che le trattative per giungere alla firma non furono condotte dai governi degli Stati membri, bensì direttamente dai Consigli dei ministri delle tre Comunità, che proposero, nella primavera del 1965, ai rappresentanti degli Stati membri, un testo definitivo degli accordi per l’unificazione delle Commissioni (v. anche Commissione europea) e dei Consigli.

Riunitisi in Conferenza diplomatica a Bruxelles, l’8 aprile del 1965, i rappresentanti degli Stati membri approvarono gli accordi e sottoscrissero il relativo Trattato che, appunto, istituì una Commissione unica e un Consiglio unico delle Comunità europee.

L’elemento che differenzia il procedimento di approvazione del Trattato del 1965 da quelli precedenti (CECA e CED) è quindi rappresentato dal fatto che le trattative e i negoziati furono condotti direttamente dalle istituzioni comunitarie, in specie, dai Consigli dei ministri.

Da un punto di vista formale, in effetti, il ruolo della CIG non subì modifiche di sorta, poiché sempre e solo a questa spettava il potere decisionale ultimo e definitivo, ma, da un punto di vista sostanziale, una volta raggiunto l’accordo a livello comunitario, la Conferenza ebbe un mero ruolo di formalizzazione in un testo scritto il contenuto dell’accordo precedentemente raggiunto.

A una versione “internazionalista” della CIG, pertanto, se ne è presto affacciata una più “comunitarista”. Siffatto sviluppo ha trovato, in tempi recenti, una sorta di “consacrazione” con il procedimento attraverso il quale si è approvata la cosiddetta “Costituzione europea”, procedimento caratterizzato dal ruolo fondamentale della Convenzione europea, tanto che alcuni in dottrina parlano di un vero e proprio “metodo della Convenzione” (v. Convenzioni) che sembra essersi affermato a livello comunitario, anche sull’esperienza precedente del procedimento di approvazione della Carta di Nizza (v. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).

Sempre da un punto di vista sostanziale, quindi, il ruolo della CIG preceduta dalla Convenzione sembrerebbe essersi per lo meno modificato (v. Amato, 2003, pp. 15 e ss.; v. Paciotti, 2004, pp. 23 e ss.).

CIG e modifica dei Trattati

La procedura di modificazione dei Trattati attualmente in vigore è quella dettata dall’art. 48 del Trattato UE (v. Antonini, 2001, pp. 78 e ss.).

Il potere di iniziativa spetta a qualsiasi governo di uno Stato membro e alla Commissione, ma non al Parlamento europeo. Una volta iniziata la procedura, il Consiglio deve esprime il proprio parere favorevole alla convocazione della CIG, consultando il Parlamento e, se necessario, anche la Commissione stessa e la Banca centrale europea (BCE), se trattasi di modifiche istituzionali nel settore monetario.

Se il parere del Consiglio risulta favorevole, il Presidente del Consiglio avrà il compito di convocare ufficialmente la CIG, il cui scopo principale è quello di stabilire di comune accordo le modifiche da apportare ai Trattati.

Questa è la cosiddetta “procedura ordinaria” di modificazione dei Trattati: l’iter procedurale non appare particolarmente complesso, anche considerando che il parere da richiedere al Parlamento, alla Commissione o anche alla BCE è il classico Parere obbligatorio non vincolante.

La procedura si conclude con l’approvazione e la firma degli emendamenti dei Trattati da parte della CIG, emendamenti che entreranno in vigore soltanto dopo la ratifica di tutti gli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali (v. anche Corti costituzionali e giurisprudenza).

Il ruolo della CIG ed il problema dei limiti alla revisione dei Trattati

Una questione di particolare importanza, invece, è quella dei limiti alla revisione dei Trattati, problema che investe direttamente il ruolo e i poteri della CIG.

Da un punto di vista formale, infatti, i Trattati non prevedono limiti espliciti alla loro revisione e, quindi, si dovrebbe argomentare che i poteri della CIG non hanno limitazioni di sorta, non potendosi rinvenire formalmente disposizioni in tale senso. Al massimo il Consiglio potrà decidere di attribuire un “mandato” particolareggiato alla CIG, la quale, ad ogni modo, potrà decidere, nel corso dei suoi lavori e secondo l’esito delle trattative, di rispettarlo o meno.

La questione, tuttavia, è più complicata. È stata la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) a inaugurare una giurisprudenza in base alla quale le revisioni dei Trattati non possono modificare i fondamenti stessi della Comunità (v. anche Corte di giustizia delle Comunità europee, giurisprudenza della). La prima di queste decisioni è il noto parere del 14 dicembre del 1991, con il quale la Corte stabilì che l’art. 220 del Trattato CE, costituendo uno dei fondamenti della Comunità, non poteva essere oggetto di revisione, neppure nel caso di accordi conclusi sulla base dell’art. 310 del Trattato CE.

D’altro canto, è la stessa previsione di cui all’art. 300 del Trattato CE che obbliga all’adozione della procedura di revisione ordinaria, quella, appunto, dell’art. 48, nel caso di conclusione di accordi che implicano emendamenti ai Trattati.

Se a questa prima decisione sono seguite altre analoghe, è comunque da rilevare che la questione non appare ancora definitivamente risolta, anche perché è stata la stessa Corte di giustizia ad accedere, in altre sue decisioni, a diversa interpretazione, in specie evidenziando il ruolo degli Stati nel procedimento di revisione come i veri e propri “signori” o “padroni” dei Trattati. In questo senso, ad esempio, sembra sancire la sentenza Beune del 28 settembre 1994 sul cosiddetto “protocollo Barber” allegato al Trattato di Maastricht, in materia di non discriminazione nella retribuzione dei lavoratori.

In questa ulteriore prospettiva, in definitiva, non appare possano essere previste limitazioni ai governi degli Stati membri riuniti nella CIG al fine dell’approvazione delle modificazioni ai Trattati.

Quello che appare invece generalmente accolto, in dottrina e anche da parte della giurisprudenza comunitaria, è il fatto che per la modifica dei Trattati l’unica procedura da seguire è quella formalmente prescritta dagli stessi Trattati, quindi, dall’art. 48 del Trattato UE. In questo senso, resta esclusa la possibilità di procedere alla revisione dei Trattati secondo i principi generali del diritto internazionale, in base all’art. 41 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 22 maggio 1969.

La CIG 2003-2004 e il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa

I lavori della CIG che hanno preceduto la firma del Trattato che adotta una Costituzione europea sono molto indicativi per meglio comprendere, più in generale, il ruolo della stessa CIG, quali sono le principali problematiche legate all’utilizzo di questo strumento e quali, invece, gli elementi da rafforzare in quanto positivi.

Il 20 giugno 2003 il presidente della Convenzione europea ha presentato il testo della “Costituzione europea” al Consiglio europeo di Salonicco, il quale, a sua volta, ha invitato l’allora presidenza italiana ad avviare formalmente la procedura di cui all’art. 48 del Trattato UE. La presidenza italiana, dal canto suo, il 1° luglio, ha trasmesso la domanda ufficiale di apertura della CIG al Consiglio.

A questo punto, era necessario acquisire i pareri delle istituzioni indicate nella procedura di cui all’art. 48 e, pertanto, sono giunti, in sequenza, i pareri, tutti favorevoli anche se con differenti motivazioni, della Commissione (17 settembre), della Banca centrale europea (19 settembre) e, infine, del Parlamento (24 settembre).

In linea generale i pareri, seppure con diverse sfaccettature, sottolineavano la necessità di considerare il testo della Convenzione come una solida base di partenza, chiedendo ai governi, in sostanza, di non allontanarsi eccessivamente dalle decisioni prese in sede di Convenzione.

Espletata questa prima fase della procedura, il Consiglio affari generali del 29 settembre ha deciso di convocare ufficialmente la CIG, che ha tenuto la prima riunione a Roma il 4 ottobre.

Il metodo di lavoro della CIG è stato particolarmente indicativo, in quanto si è deciso di procedere con sessioni interministeriali, condotte dai ministri degli Affari esteri degli Stati, riservando alle riunioni dei capi di Stato e di governo soltanto le questioni maggiormente problematiche, da discutere in occasione dei Consigli europei.

Siffatta procedura aveva come primo scopo quello di giungere all’approvazione finale della Costituzione prima dell’allargamento del maggio 2004, in ogni caso, prima delle elezioni europee di giugno.

Il risultato, tuttavia, non è stato quello preventivato, in quanto i lavori sono dovuti continuare anche sotto la presidenza irlandese, poiché su di alcuni punti e, in specie, sul sistema di voto entro il Consiglio, si è dovuto constatare che mancava l’accordo unanime degli Stati.

A parte la questione temporale, comunque importante, è da sottolineare che la CIG 2003-2004 ha rappresentato un novità rispetto a quelle precedenti che avevano condotto all’approvazione del Trattato di Maastricht, del Trattato di Amsterdam e del Trattato di Nizza in quanto le trattative, nella CIG 2003-2004, sono state condotte prevalentemente dalle massime rappresentanze politiche degli Stati, capi di Stato e di governo, evidentemente, per il fatto che i lavori della Convenzione erano già stati ampi e approfonditi.

Sotto la presidenza italiana e poi quella irlandese si sono tenute nove sessioni ministeriali, come detto condotte dai ministri degli Affari esteri, accompagnate da quattro Consigli europei.

Il nuovo ruolo della CIG nella “Costituzione europea”

La cosiddetta “Costituzione europea”, firmata il 29 ottobre 2004 a Roma, non ancora entrata in vigore a seguito dell’esito negativo delle procedure di ratifica in particolare in Francia e in Olanda (v. Paesi Bassi), ha apportato sostanziali modificazioni al procedimento di revisione dei Trattati e, di conseguenza, al ruolo della CIG (v. Bin, 2005, p. 198 e ss.). Sono previste tre differenti procedure di revisione.

Una procedura ordinaria (art. 443) che, oltre ad attribuire anche al Parlamento il potere di iniziativa, colmando così quella che buona parte dei commentatori definiva una lacuna (mentre non viene recepita la proposta avanzata da alcuni di prevedere anche un’iniziativa popolare e un referendum approvativo finale), prevede il passaggio obbligato della Convenzione, convocata dal Presidente del Consiglio europeo, qualora il Consiglio stesso abbia adottato a maggioranza semplice una decisione favorevole all’esame delle proposte di modificazione dei Trattati.

La Convenzione, che dovrà essere composta dai rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di Stato e di governo, del Parlamento e della Commissione, avrà il compito di esaminare i progetti di modifica dei Trattati, al fine di adottare, per consenso, una Raccomandazione alla successiva CIG, che dovrà essere convocata sempre dal Presidente del Consiglio europeo.

Il ruolo della CIG, in questa prima procedura di revisione, non appare formalmente mutato rispetto alle esperienze precedenti; tuttavia, i suoi compiti dovranno tenere anche in considerazione la raccomandazione della Convenzione: da un punto di vista sostanziale, pertanto, si tratta di una novità di non poco rilievo, anche considerando il fatto che il potere del Consiglio di non convocare la Convenzione, qualora l’entità delle modifiche non lo giustifichi, cede rispetto al diverso avviso del Parlamento, che esprime, in questo caso, un parere obbligatorio e vincolante. Se, infatti, il Parlamento si esprime nel senso di convocare la CIG, il Consiglio non potrà che procedere in questo senso.

Siffatta novità, in effetti, sembrerebbe trovare giustificazione nel fatto che il “metodo della Convenzione” si è rivelato uno dei più adatti per coinvolgere maggiormente la società civile e l’opinione pubblica nelle questioni istituzionali riguardanti l’Unione europea.

Da un lato, è vero che non sono state definite a priori le percentuali delle singole componenti all’interno della Convenzione, né tanto meno la maggioranza richiesta per l’approvazione del progetto, come invece prevedevano altre proposte. Dall’altro lato, l’elemento che potrebbe ingenerare le maggiori problematiche riguarda il fatto che non è stata prevista alcuna disposizione rispetto al margine di manovra della CIG rispetto alle proposte della Convenzione.

Formalmente, pertanto, la CIG potrà sempre modificare i progetti approvati dalla Convenzione, senza alcuna necessaria maggioranza particolare. Se è vero che su tali progetti i governi degli Stati membri hanno già avuto il modo di esprimersi in sede di Convenzione per mezzo dei propri rappresentanti, è altresì vero che l’eventualità di diversi accordi in sede di CIG, che potrebbero snaturare l’accordo precedente, risulta allo stato attuale ancora molto probabile, come, d’altro canto, è stato possibile rinvenire nel passaggio dal testo approvato dalla Convenzione a quello firmato dalla CIG riguardante proprio la Costituzione europea (v. Ziller, 2004).

Le due ulteriori procedure di revisione (artt. 444 e 445) sono di fondamentale importanza in quanto permettono di giungere a modifiche dei Trattati senza la convocazione della CIG.

Se l’art. 444 dispone, più che una procedura di revisione, una deroga alle modalità di decisione previste nei Trattati – in sostanza, per passare dalla decisione all’unanimità a quella a maggioranza qualificata e dalla procedura legislativa speciale ordinaria a quella ordinaria – l’art. 445, invece, dispone una vera e propria procedura di revisione semplificata delle disposizioni della parte III, titolo III della Costituzione europea, quelle relative alle politiche e alle azioni interne, ad esempio, in materia di mercato interno (v. Mercato unico europeo), di politica monetaria ed economica (v. Unione economica e monetaria) e in materia di libertà, sicurezza e giustizia (v. Spazio di libertà, sicurezza e di giustizia).

In questo caso, il Consiglio europeo, dopo aver ricevuto i progetti di modifica, può adottare una decisione con Voto all’unanimità per le modifiche del Trattato, decisione che entrerà in vigore soltanto dopo la ratifica degli Stati, conformemente alle rispettive norme nazionali.

Si tratta di una novità di notevole rilevanza, in quanto si stabilisce che il Trattato può essere revisionato, anche se solo per una sua specifica parte, senza la convocazione della CIG.

A ben vedere, questa previsione segna il definitivo prevalere del metodo comunitario su quello internazionale per la modifica dei Trattati: anche se è espressamente previsto che tramite siffatta procedura non si possano estendere le competenze attribuite all’Unione, garantendo in questo modo gli Stati, l’innovazione resta di fondamentale importanza, in quanto l’approvazione delle modifiche del Trattato per quanto riguarda le politiche e le azioni comuni sono negoziate e firmate soltanto con l’apporto delle Istituzioni comunitarie, sottraendo in questo modo agli Stati il fondamentale contribuito che apportavano proprio in sede di CIG.

La decisione del Consiglio europeo deve pur sempre essere presa all’unanimità e la sua entrata in vigore dipende pur sempre dall’esito dei procedimenti di ratifica nazionali, ma l’aver escluso formalmente dal procedimento la CIG ha un indubbio significato, vale a dire quello di fare maggiormente partecipe, rispetto alla procedura di revisione dei Trattati, le stesse istituzioni comunitarie, anche se solo per mezzo del Consiglio europeo.

Davide Galliani (2007)