Eugenio Prati Il Pittore Che Narrò La Vita Trentina Dell’Ottocento Elisabetta Staudacher

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Eugenio Prati Il Pittore Che Narrò La Vita Trentina Dell’Ottocento Elisabetta Staudacher Eugenio Prati Il pittore che narrò la vita trentina dell’Ottocento Elisabetta Staudacher croxarix e progetto memoria c r o x a r i e progetto memoria Elisabetta Staudacher Eugenio Prati Il pittore che narrò la vita trentina dell’Ottocento Prima edizione: giugno 2007 Edizioni CROXARIE Collana Progetto memoria Progetto e coordinamento editoriale Attilio Pedenzini Progetto grafico CROXARIE Proprietà letteraria e artistica riservata Stampato in Italia - Printed in Italy Tutti i diritti riservati © 2007 C R O X A R I E Piazza Santi, 6 38059 - Strigno (TN) www.croxarie.it - [email protected] Elisabetta Staudacher Eugenio Prati Il pittore che narrò la vita trentina dell’Ottocento Eugenio Prati: costruttore di una pittura antropologica Nel 2002 Elisabetta Staudacher, storica dell’arte, apriva il catalogo dedicato a Eugenio Prati - la cui mostra si teneva a Trento presso il Palazzo Geremia - con il titolo “L’intima Arcadia di Eugenio Prati”, mettendo in risalto il legame unico e costante nel tempo dell’artista: un amore per la natura, le valli, i monti e la gente che vi abita. Oggi, Elisabetta Staudacher, con questo libro-monografia sul pittore valsuganotto protagonista, assieme a Giovanni Segantini e Bartolomeo Bezzi, della cultura artistica dell’Ottocento, nel centenario della scomparsa (1842-1907), ci conduce nuovamente all’interno del suo mondo, accompagnandoci lungo gli anni che scandiscono la vita, i rapporti, gli scambi, i successi e, soprattutto, aprendoci i carteggi intercorsi tra l’artista stesso, i suoi genitori, la contessa Virginia Alberti Poja, la figlia baronessa Giulia Turco Turcati, il barone a Prato, ecc. Lettere in parte inedite, altre qui finalmente raccolte e provenienti da svariati archivi pubblici e privati, ormai di difficile reperimento, ci aprono ulteriormente il cuore di un artista che non solo è riuscito ad approdare a un linguaggio pittorico personalizzato traendolo da salde radici accademiche in quel di Firenze ma, forse involontariamente, ha gettato le basi per una pittura antropologica, intendendo con questo la capacità di saper narrare visivamente quell’amore che Elisabetta Staudacher ci ricorda, per la natura, le valli, i monti e la gente che vi abita. Con un gesto pittorico veloce che incorpora le suggestioni di un mondo che inizia a correre in preda alla frenesia del moderno, con l’accumulo cromatico vibrante che riflette quasi scientificamente il passaggio dell’astro solare con i suoi sottili giochi di chiaroscuro, con il segno deciso che non ha paura di suggerire piuttosto che descrivere, Eugenio Prati riesce a cantare e dare dignità alla gestualità quotidiana delle genti alpine. Raffigurate all’interno del loro habitat pastorale - in un tempo in cui la pastorizia era un elemento portante dell’economia montana -, catturate mentre, coperte da un fazzoletto nero, si avviano lungo le strade innevate dei paesi della Valsugana, dipingendo le case mezze vuote per via della forte emigrazione oppure riuscendo a dare dignità alla - 5 - povertà nelle serate invernali quando si faceva filò attorno al fuoco o si leggevano testi edificanti mentre le mani femminili scorrevano sui fusi, manipolati con maestria, questi uomini e queste donne hanno inciso sulla pelle il senso stesso della vita. Anche quando l’artista entra con delicatezza nel mondo del sacro, riesce a coniugare perfettamente il senso di trascendentalità con l’umanizzazione del Divino: la Madonna ha il viso della popolana incontrata alla fontana il giorno precedente, ma la falce di luna che la sovrasta la proietta nel mondo del simbolismo e allora la rosa mistica delle litanie della Vergine è un qualche cosa di più di un approccio religioso in via di secolarizzazione. È un sacro che nasce dal di dentro, accompagna il cammino, il lavoro, è insito nella natura stessa, nell’acqua che gorgoglia alla fontana, nel torrente Brenta, nei laghi di Caldonazzo e di Levico, nella neve che copre con il suo candore la violenza dell’uomo su tutto. E poi emerge la grande capacità di Eugenio Prati di saper distillare all’interno dell’opera il vuoto con il pieno, la presenza con l’assenza, sfiorando in certi lavori, soprattutto quelli antecedenti al 1900, l’affanno e il bisogno tutto occidentale di riempire la tela ovunque, retaggio di quell’horror vacui longobardo di cui la terra italiana e nordica non è mai riuscita del tutto a liberarsi. Sia nel paesaggio che nella figura sembra quasi accennare, sussurrare piuttosto che dar luogo a una pittura logorroica e falsamente onnipotente. In questo si allontana dai suoi artisti coetanei, sia accademici che innovatori, lasciando poi un’impronta fondamentale in un suo “figlio” d’arte, quel conterraneo dal nome di Giuseppe Angelico Dallabrida. Eugenio Prati, fin dagli inizi, è sostenuto dalla passione del padre Domenico, cosa non di poco conto in un’epoca in cui fare l’artista voleva dire, secondo il pregiudizio comune, essere un perdigiorno. Il padre, purtroppo scomparso precocemente, gli era maestro e soleva ripetere che nei tuoi lavori mi sembra, che dovresti molto impegnarti a contornare, ed ombreggiare a mezza macchia, e ciò sopratutto negli elementi di figura; giacchè presentemente interessa di adestrarti la mano al disegno, e dare il segno del contorno con precisione e delicatezza. Sappi che ho comperato il Vasari, che ora posso anch’io dare qualche precetto ecc. - 6 - Come si vede è un Eugenio Prati innovatore dell’arte, profondamente umano, che esce da questo studio appassionato intrapreso da Elisabetta Staudacher. L’autrice, oscillando tra storia e narrazione, tra citazioni tratte dalla vita quotidiana e interpretazioni delle opere, ha ricostruito il complesso e variegato mondo relazionale e artistico di due secoli, l’Ottocento e il Novecento, che hanno segnato profondamente la storia dell’arte europea e mondiale. Ed Eugenio Prati ha portato un contributo imprescindibile nella cultura artistica trentina in un’età in cui ogni artista si abbeverava indifferentemente alla sorgente mediterranea e a quella nordica, filtrando e innovando il proprio linguaggio. Insegnando innanzitutto che si può raccontare ciò che succede in una piccola valle di confine con un respiro immenso racchiudendo nel segno e nel colore tutto un mondo di significati. Fiorenzo Degasperi - 7 - A Emanuele, il dono più grande. Nota: la numerazione tra parentesi tonde corrisponde ai quadri presenti nella mostra “Eugenio Prati. Antologica nel centenario della scomparsa” (Castel Ivano, Ivano Fracena, 22 luglio - 2 settembre 2007) e pubblicati a colori nel catalogo delle opere. Eugenio Prati e la sua famiglia Il 27 gennaio 1842 Eugenio Prati venne alla luce in un’abita- zione delle Case Nuove, fabbricati regolari sorti dal 1758 lungo una via di Caldonazzo per accogliere gli abitanti di Caorso dopo l’abbandono del loro villaggio alle acque del torrente Centa1. Alla nascita di Prati, Caldonazzo, borgo della Valsugana di circa duemila abitanti, faceva parte del distretto di Levico assieme a Bosentino, Calceranica, Casotto, Centa, Lavarone, Luserna, Pedemonte e Vattaro. Più della metà del suolo di questo distretto era coperta da boschi, la vite occupava poco più di trecento ettari, le malghe millecinquecento ettari. L’allevamento del bestiame era molto esteso sul territorio. Tutto il distretto ricavava consistenti proventi dalla filatura della seta, attività nella quale, nel 1848, erano impiegate circa un migliaio di persone. Politicamente, dopo la caduta di Napoleone, il Trentino, ag- gregato al Regno d’Italia dopo l’armistizio del 2 luglio 1809, fu unito alla provincia del Tirolo (aprile 1815). La Valsugana rimase relativamente tranquilla fino al 1848, anno della Prima Guerra d’Indipendenza d’Italia durante la quale ci fu un tentativo di con- quista da parte dei corpi franchi italiani ben presto bloccati dalle truppe austriache e dai bersaglieri del Tirolo tedesco nei pressi dei confini veneti con la Valsugana inferiore. Questa situazione offrì le basi per lo sviluppo di propaganda irredentista sviluppatasi nei decenni seguenti. Con la nascita di Eugenio Prati, i genitori Domenico e Lucia che si erano sposati da poco più di un anno, provarono per la prima volta la gioia di diventare padre e madre, gioia che ebbero la fortuna di rivivere varie volte nell’arco del successivo ventennio. All’epoca della formazione della sua numerosa famiglia, Do- menico Prati, geometra, possidente terriero, curioso delle novità in campo agricolo, desideroso di occuparsi con entusiasmo a nuove esperienze lavorative, seguiva vari affari, non solo a Caldonazzo e nei paesi nei dintorni del lago, ma anche a Trento e a Venezia. Era nato il 22 settembre 1808, ultimo figlio maschio di Stefano Prati, dal quale prese il nome il fratello più caro di Domenico, di - 9 - cinque anni più grande. Persona colta e ben inserita nell’ambiente borghese trentino, Domenico Prati aveva compiuto gli studi a Trento assieme al barone don Giovanni a Prato e ad altri illustri signori con i quali aveva mantenuto i contatti anche al termine degli studi. Sua moglie Lucia, nata l’11 giugno 1819 da Giusep- pe Garbari, originario di Vezzano, e da Lucia Negri di Calavino, era anch’essa di famiglia benestante e già prima del matrimonio risiedeva a Caldonazzo con i genitori e i suoi dieci fratelli2. Di undici anni più giovane di Domenico, Lucia diede al marito quattordici figli, quattro dei quali, Fausto Ignazio, Stefano Ignazio, Carolina e Melania, morirono alla nascita o in tenera età, mentre gli altri dieci, Eugenio, Maria Luigia, Stefano Leone, Isabella, Stefano Probo, Annamaria, Anacleto, Giuseppe Benedetto, Giu- lio Cesare e Michelangelo, vissero a lungo, uniti nell’affrontare dolori e difficoltà che la vita riservò loro, a partire dalla perdita, a distanza di nemmeno due anni, di entrambi i genitori e prima ancora del tracollo economico subito dal padre con il rischio di Domenico Prati a caccia. - 10 - vedersi sottrarre dai creditori i possedimenti di famiglia tra cui l’abitazione e il mulino. Tra le molteplici attività di Domenico Prati, infatti, c’era anche quella della produzione della farina nel mulino che sorgeva alla periferia di Caldonazzo, lungo il torrente Centa.
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