PATH

VOL. 9 - PONTIFICIA ACADEMIA THEOLOGICA - 2010/1

Lumen Christi Tra mysterium, esperienza e prospettive nella via lucis Ecclesiæ

3-8 Editorialis Manlio Sodi - Piero Coda Studia 9-29 Il paradigma della luce in alcuni aspetti del magistero di Benedetto XVI François-Marie Léthel 31-46 La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento, come prepara- zione al concetto teologico di «luce» nel Nuovo Testamento Horacio Simian-Yofre 47-58 Gesù Cristo la luce del mondo, secondo il Nuovo Testamento Klemens Stock 59-78 Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede, nel contesto della teologia sapienziale dei Padri della Chiesa Enrico dal Covolo 79-92 Metafisica della persona e mistero di Cristo Fernando Ocáriz 93-107 Cristo Luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino X Angelo Amato 109-128 Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiæ Manlio Sodi 129-155 Il Lumen Christi tra il «già» e il «non ancora». Valore dell’esperienza cristiana in teologia X 157-170 La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano X Yannis Spiteris 171-183 Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo Paul O’Callaghan 185-197 In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli Piero Coda Vita Academiæ 1. Nomine – The to the Order of of the Most Reverend Augus- tine Di Noia, named Secretary of the Congregation for Divine Worship and the Discipline of the Sacraments (Charles Brown), pp. 199-200. – Nuovi Accademici Ordinari, p. 200. – Il Prof. D. Enrico dal Covolo, Rettore della Pontificia Università Lateranen- se. Saluto in occasione dell’annuncio della nomina (Enrico dal Covolo), pp. 201-203. 2. Sessione accademica del 29 ottobre 2009. La Pontificia Academia Theologica al servizio di un proficuo dialogo (Card. Zenon Grocholewski), pp. 203-206. 3. Emeritato del Prof. P. Tarcisio Stramare, O.S.I. – Laudatio: «Ein Beamter des alten Preussen» (Davide Sardini), pp. 207-214. – Lectio magistralis: «Il ruolo della Sacra Scrittura nell’economia della rivelazione» (Tarcisio Stramare), pp. 215-224. 4. Emeritato del Prof. Mons. Marcello Bordoni – Laudatio: «Il contributo di Marcello Bordoni “teologo romano” alla teologia sistematica» (Nicola Ciola), pp. 225-240. – Saluto: «Ricerca teologica fedele al Magistero» (Marcello Bordoni), pp. 240-243. 5. Lumen Christi. Cronaca del V Forum internazionale (Riccardo Ferri), pp. 243-246. 6. Gli Esercizi spirituali della Curia Romana predicati dal Prof. D. Enrico dal Covolo (Réal Tremblay), pp. 246-247. 7. Relazione annuale del Presidente (ottobre 2009-giugno 2010) (Manlio Sodi), pp. 247-250.

In memoriam Prof. P. Dr. Ambrosius M. Eszer, O.P. (1932-2010) (X Angelo Amato), pp. 251-254 EDITORIALIS

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Lumen Christi! È l’espressione classica che segna l’inizio della Veglia pasquale. Ogni anno il fedele celebra la Pasqua, e si pone al seguito di una luce che permea non solo tutto l’anno liturgico, ma l’insieme dell’esistenza di chiunque intenda porsi al seguito del Risorto. Il paradigma della luce racchiude e valorizza una metafora comune nelle tante espressioni della vita. Dalla contrapposizione luce-tenebra a tutte le scelte caratterizzate da chiarezza e luminosità, si intreccia un insieme di pro- spettive che contribuiscono a rendere maggiormente comprensibile il senso della vita e, di riflesso, le scelte che richiedono di essere attuate. Il primo paradigma è quello che troviamo a livello culturale. In ogni cul- tura la metafora della luce evoca contenuti e prospettive che poi danno adito a espressioni che rinviano ad atteggiamenti. Così il sorgere della luce ogni giorno evoca la ripresa della vita, in contrapposizione con il sopraggiungere della tenebra che rinvia al compimento di un percorso e alla morte. Il paradigma successivo è quello che promana dalla grande storia della salvezza racchiusa nella Scrittura santa. Dalla Genesi all’Apocalisse, da quel «“Sia la luce”. E la luce fu» (Gen 1,3) fino alle prospettive dei nuovi cieli e terra nuova (cf. Ap 21) permeati dal fulgore della «stella radiosa del mat- tino» (Ap 22,16), notiamo come una grande metafora che lo stesso Cristo Signore assume identificandosi nella realtà della luce quando afferma: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). È naturale che a partire dal dato biblico il linguaggio della tradizione abbia assunto questa metafora e l’abbia sviluppata sotto diverse prospettive. Tra tutte emerge quella del linguaggio liturgico perché è nel contesto del culto che il Cristo-Luce trasforma il fedele credente in persona “illuminata” in modo che possa camminare sempre come figlio della luce. 4 Editorialis

Ecco pertanto il senso di una riflessione che il V Forum internazionale (celebrato in Vaticano dal 28 al 30 gennaio 2010) ha concentrato attorno a un programmatico sottotitolo: «Tra mysterium, esperienza e prospettive nella via lucis Ecclesiae». Al centro si pone la sorgente luminosa, il mysterium nascosto da secoli in Dio e rivelato nella pienezza dei tempi, e reso vivo e attuale in ogni actio liturgica. Ma tutto questo impegna nel rileggere espe- rienze e nel delineare prospettive per una via lucis che si attua in Ecclesia attraverso la celebrazione del mysterium lucis nei santi misteri.

1. La «luce» come traiettoria teologica La «luce». Senz’altro uno straordinario filo d’oro che attraversa dalla prima all’ultima pagina il grande racconto biblico che narra l’avvento di Dio nella storia del mondo, dalla creazione alla parusia. Un filo d’oro non sol- tanto verbale ma sostanziale. Tant’è che di esso è intessuta da cima a fondo l’esperienza cristiana: dalla sua permanente sorgente sacramentale – in cui il Verbo, che è vita e luce, illumina e trasforma l’esistenza –, alla sua espressio- ne intellettuale, artistica, culturale, operativa. La «luce» – nella vasta gamma linguistica del suo pluriforme modus si- gnificandi, che certo meriterebbe un attento discorso di approfondimento – è sempre conosciuta, nella sacra Scrittura e nella Traditio vivens Ecclesiae, non come soggetto ma come predicato. Dio – afferma icasticamente la prima lettera di Giovanni – è luce (cf. 1,5); e Gesù Cristo definisce se stesso luce del mondo (cf. Gv 8,12); così che anche i discepoli – in lui e per lui – son fatti e hanno da essere luce del mondo (cf. Mt 5,14). È su questa linea che vanno colti l’obiettivo e il metodo del V Forum della Pontificia Accademia di Teologia. La predicazione della luce – potrem- mo dire – scende dall’alto, da Dio, per squadernarsi nel mistero della sal- vezza, che ha il suo centro focale in Gesù Cristo, e per dispiegare di qui le sue molteplici risonanze: a livello ecclesiologico e antropologico, personale e sociale, intellettuale e pratico. Il nesso che ritma questa traiettoria è quello della corrispondenza tra lo splendere della luce di Dio sul volto di Cristo e l’aprirsi del cuore e della mente dell’uomo a tale fulgore – al tempo stesso at- teso e inaudito – così che esso, dall’intimo, s’irradi nelle molteplici relazioni che tessono il destino dell’umano. Il Lumen Christi – come recita il titolo del Forum – si coniuga dunque, con pertinenza teologica, nella via lucis Ecclesiae tra mysterium, esperienza Editorialis 5 e prospettive. Il punto di partenza e l’orizzonte qualificante, infatti, è la pa- rola di Dio scritta e trasmessa quale attestazione normativa del mysterium che risuona ed è celebrato nella vita della Chiesa. Di qui si alimentano, in indissolubile connessione e vitale osmosi, l’esperienza spirituale della fede e la sua intelligenza teologica; e si profilano le vie della testimonianza, dell’an- nuncio e del dialogo. Ovviamente, si tratta di semplici colpi di sonda che rischiarano qualche percorso tra i possibili: l’essenziale è l’aver tracciato una traiettoria suggesti- va, che potrà essere ripresa, precisata, approfondita. Con la sua sapida e pre- gnante capacità di sintesi, lo notava san Tommaso d’Aquino nel commento al Vangelo di Giovanni:

«Numquam enim ipsum Verbum et ipsam lucem conspicere possemus nisi per partecipationem eius, quae in ipso nomine est, quae est superior pars ani- mae nostrae, scilicet lux intellectiva, de qua dicitura in Ps. IV, 7: Signatum est super nos lumen vultus tui, idest Filii tui, qui est facies tua, qua manifestaris» (Super Ioannem 16, lect. 3, n. 101).

2. Percorsi aperti La prospettiva del Forum si è mossa da un dato di fatto: la persona di Gesù Cristo e la sua azione mediatrice e salvifica. È la linea che da tempo l’Accademia persegue e che nel Forum ha cercato di approfondire ulterior- mente. Nello specifico, la prospettiva è accostata dall’identità del mysterium lucis, cioè del Cristo-Luce, colto nella sua prefigurazione e nel suo com- pimento; e sperimentato nella perenne attuazione nei singoli attraverso la celebrazione memoriale dell’actio sacramentale. È da queste fonti che si dipana il diffondersi del mysterium lucis attra- verso vari livelli che si intrecciano fra di loro in una costante dialettica fatta di riflessione sul rapporto tra metafisica della persona e mistero di Cristo; di approfondimento filosofico e teologico a partire dalla grande pagina della teologia sapienziale dei Padri della Chiesa; di presa di coscienza di esempi luminosi quali sono quelli dei santi; di valorizzazione degli stimoli e sugge- rimenti del Magistero perenne della Chiesa. E questo per approfondire il valore dell’esperienza cristiana in teologia: per cogliere cioè la realtà di quel Lumen Christi costantemente declinato tra il già e il non ancora, secondo la sensibilità e la spiritualità dell’Oriente e dell’Occidente. 6 Editorialis

In un simile orizzonte si è invitati ad approfondire e soprattutto a vivere il Lumen Christi come paradigma del cristiano nel mondo, all’insegna della testimonianza. Qui si pone il senso e il valore di quella perenne via lucis della Chiesa, chiamata in Cristo a essere luce – pur nella logica del mysterium lu- nae, come ricordato nella Novo millennio ineunte da Giovanni Paolo II – nel cammino verso l’unità di ogni popolo.

3. Il presente fascicolo La ricchezza delle pagine che seguono costituisce il segno eloquente di un impegno che l’Accademia di Teologia porta avanti secondo il mandato ricevuto. I contenuti qui racchiusi non dicono tutto il lavoro che sta alle spalle; sono comunque il segno di una vitalità che si concretizza in numerose sfaccettature. – Gli Studia sono i contributi predisposti e condivisi durante i lavori del Forum. La loro successione riflette la cronologia dei lavori, anche se la loro rilettura potrebbe dare adito a percorsi diversificati. In linea generale, comunque, ci si muove dal tema della luce nella teologia biblico-sapienziale per giungere ad approfondire la fonte della luce, Cristo, che illumina il pen- siero teologico. Ma è sempre dal Cristo che scaturisce l’esperienza luminosa del vissuto cristiano. Da qui, strettamente correlato, il ruolo della teologia che è chiamata a dialogare con il pensiero e con la cultura del nostro tempo. – Numerosi sono gli elementi che caratterizzano e testimoniano la Vita Academiae. È un dovere e una gioia condividere nuove nomine di Accade- mici chiamati a svolgere un servizio alla Chiesa. Sulla stessa lunghezza d’on- da è un dovere per l’Accademia sottolineare con il dovuto onore coloro che giungono al compimento degli 80 anni conseguendo il titolo di «emeriti». Altri documenti testimoniano ancora eventi legati a un percorso di vita. – L’In memoriam, infine, è un’occasione per affidare al Signore i fratelli che ci hanno accompagnato anche in questo impegno accademico, e per unire il loro nome alla storia perché vivano in benedizione per coloro che li hanno conosciuti, e in intercessione presso il Trono della grazia per coloro che sono in cammino. Editorialis 7

4. «In viam lucis» Non basta dare vita a un Forum per esaurire tutte le sfide che esso com- porta o che sono all’origine di una condivisione. Relazioni e dibattiti, anche in questa circostanza, hanno evidenziato che il tema meritava di essere considerato; che quanto sottolineato è solo una minima parte di ciò che la tematica racchiude; che molto lavoro sta dinanzi (in viam...) con l’apertura di scenari prima impensati o appena intravisti. Al di là di quanto emerso nelle singole relazioni, si profilano numerose sfide che in sintesi possono essere così riproposte a livello di interrogativo che interpella la coscienza, la ricerca, la fede: • Come il Lumen Christi arriva oggi all’umanità, e come è da essa even- tualmente recepito? • Quale rapporto intercorre tra rivelazione e testimonianza di vita epifa- nica? • Come continuare a far dialogare il Lumen Christi con quel raggio di verità che illumina altre religioni (cf. Nostra aetate, n. 2)? • Perché considerare la dimensione antropologica del rapporto luce-tene- bra? • Come rielaborare il «mito della caverna» (di platoniana memoria) di fron- te all’odierno rifiuto della luce? o di fronte alla nebbia dell’umanità? • Come rileggere sotto l’aspetto fenomenologico e antropologico la luce in quanto metafora e simbolo? • Quale dialettica scaturisce dal Lumen Christi in un contesto di post- illuminismo? • Perché per venire alla luce bisogna fare la verità? è una condizione pre- via o un metodo di vita? • Come educare al rapporto tra celebrazione e contemplazione del myste- rium Christi perché la sua luce sia sempre brillante? • Come far sì che la ricerca filosofico-teologica – all’insegna di Optatam totius, n. 16 – possa contribuire a tracciare percorsi in vista di una sin- tesi unitaria del mistero della salvezza, in dialogo con ciò che comporta l’auditus culturae? Dal Cristo-Luce alla luce del Risorto che brilla davanti a ogni persona ancora in cammino: anche i risultati del V Forum possono costituire un’op- portunità per riflettere in contesto ecclesiale a partire dalla metafora della 8 Editorialis luce. La sua frequenza terminologica talvolta fa dimenticare la sua importan- za e la forza del richiamo che essa comporta. La riflessione su di essa apre l’orizzonte su variegati ambiti in cui la Scrittura, la Tradizione, la teologia e la cultura sono chiamati a interagire per continuare il cammino che, pur attuandosi in una penombra qual è quella costituita dai tanti limiti della vita, è sempre all’insegna di una luce che mai conosce tramonto: quel Lumen Christi gloriose resurgentis che è invocato perché dissipet tenebras cordis et mentis, come si annuncia nella Veglia pa- squale. Quanto elaborato a partire dalle istanze di tutta la Tradizione ha come obiettivo di contribuire a quell’incontro tra fede e cultura in vista di una sapienzialità che connota – è un auspicio – l’umanesimo cristiano e dà so- stanza a una vita spirituale e mistica. Una riflessione che tende a una sintesi il più possibile unitaria, pur nella problematicità dei diversi livelli e ambiti di ricerca e nella complessità dei linguaggi che troppo spesso si muovono all’insegna di una incomunicabilità.

Manlio Sodi - Piero Coda Il paradigma della luce In alcuni aspetti DEL MAGISTERO DI BENEDETTO XVI

François-Marie Léthel, o.c.d.

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Possiamo iniziare questa riflessione nella preghiera, con le parole di san Paolo nella Lettera agli Efesini:

«Piego le ginocchia davanti al Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nell’amore, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lun- ghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. A colui che in tutto ha il potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3,14-21).

La luce di Cristo che risplende sempre nel cuore della Chiesa, nei cuori di tutti i santi, nei nostri cuori, è questa paradossale conoscenza dell’amore di Cri- sto che sorpassa ogni conoscenza, nell’immensità inesauribile del suo mistero. Questa luce va accolta nella preghiera, “in ginocchio”. È la luce eterna del Pa- dre, Lumen de Lumine, che risplende nello Spirito Santo; è il «Verbum spirans Amorem», secondo l’espressione di san Tommaso d’Aquino1.

1 STh, I q. 43 a. 5 ad 2. Avevo scelto questa espressione come titolo della mia relazione nel precedente Forum, considerando la teologia di san Tommaso come Theologia Lucis (cf. «Path» 1 [2008] 99-123). 10 François-Marie Léthel

Il nostro Forum inizia proprio oggi, 28 gennaio, nella festa di questo santo Dottore, che è in modo eminente il teologo della luce di Cristo. Il Verbo è la Luce che ha creato il mondo ed è venuta nel mondo; è la Luce che risplende in tutti i misteri della creazione e della salvezza, la grande Luce di Dio come Ipsum Esse Subsistens, che risplende nell’anima umana ai diversi livelli di par- tecipazione, come lumen gloriae, lumen fidei, lumen naturale intellectus. Questa è la luce della scientia beata sempre presente nell’anima di Cristo, già comunicata da lui a tutta la Chiesa del cielo Ecclesia comprehensorum, men- tre la nostra Ecclesia viatorum cammina nella fede, nella speranza e nella carità. Sono i più grandi doni dello Spirito Santo, che lo stesso san Tommaso chiama virtutes theologicae (I-II q 62), espressione che preferisco tradurre letteralmen- te come virtù teologiche, perché sono l’anima di ogni autentica teologia, sia mi- stica, sia speculativa. Certo, la «più grande» delle tre è la carità «che non passe- rà mai» (cf. 1Cor 13,13 e 8), e che rimane essenzialmente la stessa in cielo come in terra. È il «cuore della Chiesa ardente d’amore», secondo l’espressione di santa Teresa di Lisieux dichiarata Dottore della Chiesa dal venerabile Giovan- ni Paolo II come «esperta della scientia amoris» (Novo Millennio Ineunte, n. 42). Nella Chiesa pellegrinante, questa scientia amoris (teologia mistica) è inse- parabile dalla scientia fidei (teologia speculativa), ed è continuamente animata dalla speranza sicura di raggiungere in cielo la scientia beata. Insieme a Maria, è tutta la Chiesa che «raccoglie nel suo cuore» (sum- ballousa en tè kardia autès, Lc 2,19) la luce di Cristo, nel suo Spirito, nel suo corpo, nella sua parola, nel Simbolo della fede. Tutti chiamati alla santità e in cammino verso la santità, viviamo già in questo luogo santo dove risplende la luce di Cristo, che è il cuore di Maria e della Chiesa, il cuore dei santi, il nostro cuore. In questa luce, vorrei che il mio contributo fosse una preparazione all’in- contro che avremo adesso con il Santo Padre Benedetto XVI: mi sembra che questa sia nel modo più profondo la missione del Prelato Segretario. Mi fer- merò dunque su tre dati del Magistero più recente del nostro Papa, perché mi sembrano portatori di una grande luce per il nostro Forum, riflettendo per noi la stessa luce di Cristo. Metterò al primo posto il fatto che cronologicamente è l’ultimo, perché mi sembra il più importante: Il decreto sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II (19 dicembre). Poi, al secondo posto riprenderemo attenta- mente la sua luminosa omelia ai membri della Commissione Teologica Interna- zionale (1o dicembre). Finalmente, al terzo posto, potremo vedere lo sviluppo e Il paradigma della luce 11 l’illustrazione del suo pensiero teologico nelle sue catechesi sui santi, partendo da quella del 2 dicembre. Il Santo Padre ci offre dei nuovi e importanti svi- luppi riguardo alla teologia dei santi, mettendo sempre in luce il primato della carità, conformemente alla grazia del suo pontificato, dall’Enciclica inaugurale Deus Caritas est alla recente Caritas in veritate.

1. Il decreto sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II (19 dicembre 2009) Poco prima di Natale, il 19 novembre 2009, Benedetto XVI ha firmato il decreto sulle virtù eroiche del suo grande predecessore Giovanni Paolo II2. È sicuramente un atto importantissimo del suo Magistero, che avrà grandi conseguenze per tutta la Chiesa e il mondo. È un segno molto bello della comunione tra la Chiesa della terra e quella del cielo. Per il nostro presente Forum, è una splendida luce, un riflesso della luce di Cristo per la vita della nostra Accademia, rinnovata e in un certo modo “rifondata” da Giovanni Paolo II alla vigilia del grande giubileo del 2000, insieme all’Accademia di san Tommaso, con la sua Lettera Apostolica Inter Munera Academiarum, firmata il 28 gennaio 1999, nella festa di san Tommaso. È bello iniziare il nostro presente Forum proprio oggi in questo anniversario, nella stessa luce di santità irradiata da san Tommaso e dal venerabile Giovanni Paolo II! Questo legame tra le nostre due Accademie Pontificie si è anche manifestato ieri con la consegna del premio a una tesi su san Tommaso. Giovanni Paolo II è stato un grande Papa, da tanti punti di vista, un grande pastore e un grande pensatore. Ma adesso, la Chiesa ci dà la certezza che la sua principale grandezza è quella della santità, cioè della perfezione della carità. Infatti la «più grande» delle virtù eroiche è la carità, che è, se- condo l’espressione di san Tommaso «la madre di tutte le virtù, la radice e la forma di tutte» (I-II q 62 art 4), cioè delle due altre “virtù teologiche” – fede e speranza – e di tutte le virtù morali. L’espressione fondamentale ed emblematica della carità di Giovanni Paolo II è il suo motto Totus Tuus. Il significato di queste due parole è l’atto d’amore a Cristo che ha animato tutta la sua vita, come il battito del suo

2 I numerosi decreti di questo 19 dicembre sono una belle espressione della comunione dei santi. Tra i nuovi venerabili, beati e santi di questo giorno, c’è anche un altro Papa, Pio XII, una giovane laica, Chiara Badano (che sarà la prima beata del movimento dei Focolari), un sacerdote salesiano don Giuseppe Quadrio, teologo di grande valore e autentico mistico. 12 François-Marie Léthel cuore, come il grande e continuo respiro della sua vita spirituale. Infatti, dire a Gesù: Ti amo, equivale a dire: Mi do tutto a te, sono tutto tuo. L’amore autentico è il dono totale di sé e per sempre alla persona amata. Tale è la definizione dell’amore che Teresa di Lisieux aveva imparato alla scuola di Maria: «Amare è dare tutto e dare se stesso» (Perché ti amo, o Maria, str 22). Giovanni Paolo II ha vissuto in modo eroico il suo Totus Tuus con Maria e in Maria, fino all’ultimo momento della sua vita. Sono state le ultime parole pronunciate da lui, e anche scritte, quando non poteva più parlare dopo la tracheotomia. Il Totus Tuus è dunque la chiave di tutta la sua vita e del suo Magistero, è come il filo conduttore del suo lungo cammino di santità, nella splendida luce cristocentrica e mariana che ha caratterizzato tutto il suo pontificato. Il motto Totus Tuus è scritto sullo stemma che rappresenta sim- bolicamente Cristo Redentore e Maria accanto a lui, in riferimento al testo del Vangelo di Giovanni (Gv 19,25-27), riassumendo la dottrina di san Luigi Maria Grignion de Montfort nel Trattato della vera devozione alla Santa Ver- gine3. Gesù Redentore ha veramente dato Maria come Madre al discepolo, alla Chiesa, a tutti gli uomini. Accoglierla nella propria vita significa parteci- pare alla perfezione della sua fede, della sua speranza e della sua carità. Così, nel cammino cristocentrico e mariano di Giovanni Paolo II si vede come: «La carità crede tutto e spera tutto» (1Cor 13,7). Le prime paro- le dell’Enciclica inaugurale Redemptor Hominis erano un formidabile atto di fede: «Il Redentore dell’uomo Gesù Cristo è il centro del cosmo e della

3 Qui, bisogna ricordare che Karol Wojtyla aveva già scelto questo motto e stemma quando era stato nominato vescovo da Pio XII nel 1958. Ma era già dal 1940 che la sua vita era guidata dal Totus Tuus. Spesso Giovanni Paolo II ha raccontato la sua grande scoperta del Trattato della Vera Devozione a Maria di san Luigi Maria Grignion de Montfort, fonte del To- tus Tuus, in questo drammatico frangente della seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista della Polonia. Il giovane Karol (aveva 20 anni) doveva lavorare come operaio per evi- tare la deportazione in Germania. In quel momento fu un santo laico, il sarto Jan Tyranowski (adesso Servo di Dio), a fargli conoscere il Trattato del Montfort e le Opere di san Giovanni della Croce (cf. Dono e mistero). Il più importante testo di Giovanni Paolo II sulla dottrina del Montfort, è la sua Lettera ai religiosi e religiose delle famiglie Monfortane, dell’8 dicembre 2003, dove questa dottrina è interpretata alla luce della Lumen Gentium: c. VIII su Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, c. V sulla vocazione universale alla santità e c. VII sul carat- tere escatologico della Chiesa. Col tempo si scoprirà sempre di più il profondo e continuo influsso del Trattato del Montfort sul venerabile Giovanni Paolo II e si riprenderà il cammino perché possa essere dichiarato Dottore della Chiesa (cf. F.-M. Léthel, Marie Toute Sainte et Immaculée dans le Mystère du Christ et de l’Église: La doctrine de Louis-Marie Grignion de Montfort à la lumière du Concile Vatican II, in «Path» 2 [2004] 507-556). Il paradigma della luce 13 storia». Fede vissuta, pregata, predicata, testimoniata e anche fede profon- damente pensata e riflettuta dal Venerabile Papa. Allo stesso tempo, egli è stato per la Chiesa e per tutta l’umanità uno straordinario testimone della speranza, della vera speranza cristiana della salvezza che ha come unico fon- damento la misericordia infinita del Redentore. Così ha dichiarato Dottore della Chiesa santa Teresa di Lisieux, la santa della fiducia illimitata nella misericordia, fino a sperare per tutti (cf. von Balthasar, da lui nominato car- dinale) e nella stessa luce ha canonizzato . L’eroicità delle virtù di Giovanni Paolo II sarà dunque per la nostra Pontificia Accademia la principale chiave per esplorare l’immenso patrimonio spirituale, intellettua- le e culturale che ci ha lasciato. Il nostro presente Forum, con il tema Lumen Christi, si pone decisa- mente nella grande luce cristocentrica che Giovanni Paolo II aveva dato alla nostra Accademia fin dall’inizio. Egli stesso aveva scelto come guide dell’Ac- cademia due eminenti cristologi: mons. Marcello Bordoni come Presidente, e don Angelo Amato come Prelato Segretario. La loro partecipazione al pre- sente Forum è per noi tutti motivo di gioia e di ringraziamento. Celebreremo l’emeritato di mons. Bordoni dopodomani, ricordando con quale sapienza egli ha guidato l’Accademia per 10 anni. Don Amato è stato poi scelto da Giovanni Paolo II come Arcivescovo Segretario della Congregazione della Dottrina della Fede, il più vicino collaboratore del Prefetto, il Cardinale Ratzinger. Poi, lo stesso Benedetto XVI ha nominato Mons. Amato Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, ed è proprio lui che ha portato avanti la Causa di Giovanni Paolo II in questo momento decisivo. Ascolte- remo la sua relazione domani mattina, ed è lui che presiederà l’Eucaristia a conclusione del nostro Forum. L’ultima nomina fatta da Giovanni Paolo II per la nostra Accademia è stata quella di mons. Piero Coda a Prelato Segre- tario. Eminente professore di dogmatica all’Università Lateranense, mons. Coda, che ascolteremo domani, è adesso Direttore dell’Istituto universitario «Sophia», di Loppiano, nello spirito del Movimento dei Focolari, ultima opera realizzata dalla fondatrice , quasi all’ora della sua mor- te. Adesso, è Benedetto XVI che ha nominato don Manlio Sodi come Presi- dente, e me come Prelato Segretario, e desideriamo continuare il cammino nella stessa direzione in profonda comunione con lui, cercando di rendere sempre più vivo il lavoro dell’Accademia nell’amicizia fraterna con tutti gli Accademici. 14 François-Marie Léthel

Con il tema Lumen Christi, questo quinto Forum si collega particolar- mente con il primo, nel 2002, che aveva come tema «Gesù Cristo, Via Verità e Vità. Per una rilettura della Dominus Iesus». Ma è anche nella continuità dei due seguenti sul «metodo teologico oggi» e dell’ultimo, nel 2008, intito- lato: «Per un nuovo incontro tra fede e logos». Le quattro parti del presente Forum riflettono bene il metodo che abbiamo sempre cercato di seguire: sulla base della Scrittura, sviluppare una teologia che articola il pensiero e la vita, che mette in luce la complementarità tra «l’indagine teologica» e la «teologia vissuta dei santi», secondo il luminoso orientamento dato da Gio- vanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte (n. 27). Essendo profondamen- te radicata nella grande Tradizione della Chiesa, una tale teologia è capace di una vera apertura alla cultura contemporanea. Così la prima parte del nostro Forum ci offrirà questa indispensabile base della teologia biblica, con le relazioni dei professori Horacio Simian- Yofre sull’Antico Testamento e Clemens Stock sul Nuovo Testamento. La seconda parte ci porterà sul versante della “teologia pensata”, partendo dai Padri della Chiesa e sviluppando l’approfondimento speculativo, con le re- lazioni dei professori Enrico dal Covolo e Fernando Ocariz. La terza parte si svolgerà sul versante della “teologia vissuta” nella liturgia, nell’esperienza dei santi e dell’insieme del popolo di Dio, con le relazioni di S.E. Mons. Angelo Amato, del nostro Presidente don Manlio Sodi e di S.E. Mons. Do- menico Sorrentino. Infine, la quarta parte rappresenterà la stessa teologia della Chiesa in dialogo con il pensiero e la cultura del nostro tempo, con le relazioni dei professori Paul O’Callaghan e Piero Coda.

2. L’omelia ai membri della Commissione Teologica Internazionale (1o dicembre 2009) L’omelia pronunciata da Benedetto XVI il 1o dicembre 2009 durante la Messa celebrata per i membri della Commissione Teologica Internazionale, è un vero manifesto che il Sommo Pontefice offre a tutti i teologi cattolici, e in modo speciale a noi della Pontificia Accademia di Teologia. Questo ma- nifesto è un testo breve, molto forte, veramente pieno della luce di Cristo, che avrà per noi anche un immenso valore metodologico. Sarà un testo da meditare, riflettere, e soprattutto da vivere! Questo messaggio del Papa ai teologi ha trovato il suo prolungamento il giorno successivo, mercoledì 2 dicembre nella sua catechesi ai fedeli su Il paradigma della luce 15

Guglielmo di Saint-Thierry, e tutta la sua risonanza nell’insieme delle sue catechesi sui santi: prima i Padri della Chiesa, e adesso i santi del Medioevo. Benedetto XVI mette l’accento sull’umiltà e la carità come virtù essenziali del vero teologo. Nella sua omelia del 1o dicembre, il Santo Padre ha commentato le due letture della Messa del giorno, che era il martedì della prima settimana di- Avvento: Is 11,1-10 e Lc 10,21-24. Partendo da questo brano del Vangelo, il nostro Papa teologo invita fraternamente i teologi a una seria riflessione:

«Cari fratelli e sorelle, le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc’anzi nel brano evangelico, sono un sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti – essi non l’hanno conosciu- to –, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero».

Queste tre domande sono fondamentali e inseparabili: «Che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia?». Sono delle domande che riguardano la natura della teologia e anche il metodo teologico sul quale abbiamo riflettuto nei precedenti Forum. È già evidente, nelle luce di questo testo del Vangelo, che l’omelia del Santo Padre intende sopratutto met- tere in luce l’importanza della vera umiltà come virtù fondamentale del teolo- go. Le ultime parole dell’omelia lo dicono nel contesto orante dell’Eucaristia:

«In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella pro- fondità del proprio cuore, della propria esistenza. Amen».

È evidente per il nostro Papa, che non possiamo essere «veri teologi», «realmente saggi», senza «essere piccoli». Lì, vediamo veramente il San- to Padre in preghiera, come san Paolo nel testo della Lettera agli Efesini che abbiamo citato all’inizio, quando «piegava le ginocchia davanti al Pa- dre», chiedendo per i fedeli la vera conoscenza del mistero di Cristo, cioè «dell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza», una conoscenza che non è conquista dell’uomo, ma umile accoglienza dello Spirito Santo nella fede, la speranza e l’amore. Questo è l’esempio della “teologia in ginocchio”. 16 François-Marie Léthel

È la preghiera del Papa teologo per noi teologi, chiedendo in modo speciale il dono della «vera umiltà». Il corpo dell’omelia mette in luce questo rapporto essenziale tra “vera teologia” e “vera umiltà” considerando da una parte il tempo di Gesù e degli apostoli e d’altra parte la storia della Chiesa, e sopratutto nel periodo più recente. Infatti, nel tempo di Gesù come nel nostro tempo, si verifica sempre la sua parola ascoltata nel Vangelo: Il grande mistero del Signore è sempre rivelato ai piccoli, agli umili, mentre rimane sempre sconosciuto per tutti i dotti orgogliosi. Così, durante tutta la vita di Gesù, nella sua nascita come nella sua vita pubblica, si verifica questa “legge” espressa da lui nel testo del Vangelo:

«Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell’Orien- te chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d’Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono in- vitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l’informazione non diventa formazione della propria vita. Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l’unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Is 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce co- nosce: questi è il Figlio di Dio».

Maria e gli apostoli sono dunque i primi tra questi «piccoli» ai quali il mistero di Cristo è stato rivelato, mentre è rimasto nascosto ai “grandi spe- cialisti” che non sono umili. Secondo le parole del Papa la stessa cosa si veri- fica nella storia della Chiesa, e in modo particolare nel periodo più recente:

«I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno in- segnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella Il paradigma della luce 17

nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo impara- to molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero. Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia “non scientifica”, ma che entra nel cuore del- la Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!».

Questi «piccoli» sono i santi più caratteristici del periodo recente, con- siderati come autentici conoscitori del mistero di Cristo, come autentici in- terpreti della Scrittura, a differenza di alcuni “grandi teologi”. Viene spe- cialmente sottolineata la figura di Teresa di Lisieux. La ritroveremo nella catechesi del giorno successivo, 2 dicembre. Certo, questo fatto non va interpretato nel senso dell’anti-intellettua- lismo, del fideismo che oppone la fede alla ragione. Questi santi «piccoli» sono in realtà i veri dotti, i veri sapienti. E qui il Papa approfondisce il di- scorso su Maria e gli apostoli, considerando i due apostoli più “teologi” che sono Giovanni e Paolo:

«Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religio- ne degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo? Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una “specie” di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna il- luminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa “il teologo”, perché real- mente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino. Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce “ignorante” in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stol- tezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane».

È proprio la luce di Cristo Crocifisso e Risorto Lumen Christi che illu- mina Maria e Giovanni accanto alla croce, e che poi illumina Paolo sulla via 18 François-Marie Léthel di Damasco. È molto bello il modo di interpretare la sua conversione con questa chiave evangelica: «Il grande dotto diviene un piccolo»! E così san Paolo diventa la figura emblematica del vero teologo cristiano, cioè dell’uo- mo colto che usa in modo giusto la ragione, nell’accoglienza umile della luce di Cristo. Secondo le parole del Papa, è una chiave interpretativa per la storia della Chiesa: «Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo». Ed è proprio ciò che sta facendo nelle catechesi sui Padri e i santi del Medioevo! Nella presente omelia, il Santo Padre termina la sua riflessione alla luce della prima lettura della Messa, il testo di Is 11,1-10 (nella traduzione greca dei LXX), interpretato nella sua risonanza col testo del Vangelo. La distin- zione tra i due modi di usare la ragione, quello sbagliato e quello giusto, è illuminante:

«Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella pri- ma lettura, appaiono in un altro modo. Qui sofia e sínesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fat- tosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa “captare” certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stes- so tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità. E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità». Il paradigma della luce 19

Questa riflessione del Papa ha un immenso valore metodologico per noi e per tutti i teologi cristiani oggi. È un vero “discorso” del metodo riguardo al modo giusto di usare la ragione nel campo della teologia, un campo molto diverso di quello delle scienze naturali. Si vede qui come il centro della ri- flessone di Benedetto XVI è sempre la persona di Gesù vero Dio e vero uomo. L’applicazione della simbologia evangelica della rete e della pesca alla co- noscenza di Gesù attraverso la Scrittura è proprio illuminante! Sopratutto quando ricordiamo che il pesce era per i primi cristiani il grande simbolo di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore (il significato delle lettere che com- pongono la parola Ichtus). È lui il “pesce” per eccellenza che la rete sbagliata di una certa teologia accademica senza umiltà non può accogliere! Il Papa mette così in luce un profondo errore metodologico in questo modo sbaglia- to di usare la ragione, e il suo risultato più drammatico che è una spaventosa riduzione della figura di Gesù. Questa superbia è «una grande stoltezza», mentre l’umiltà è la vera sapienza che non spegne la ragione ma la illumina, la stimola, la dilata, aprendola all’azione dello Spirito Santo per ricevere la luce del mistero di Cristo. Questa à la rete giusta che è capace di “pescare” nelle “acque della Scrittura” il vero Gesù come Figlio di Dio e Salvatore! Questo uso giusto della ragione in teologia viene continuamente illustrato dal Papa nelle sue catechesi sui santi.

3. Le catechesi sui santi

3.1. Guglielmo di Saint-Thierry e Teresa di Lisieux (2 dicembre 2009)

Se questa splendida omelia del 1o dicembre mette sopratutto in luce l’importanza fondamentale dell’umiltà nella teologia, la catechesi del 2 di- cembre insiste piuttosto sulla carità. Parlando del grande teologo monastico Guglielmo di Saint-Thierry, amico di san Bernardo, il Papa conclude questa catechesi mostrando il carattere sommamente “teologico” della carità. Infat- ti, se la fede, la speranza e la carità sono le tre virtù teologiche, la più grande è la carità, e dunque anche la più “teologica”. Insieme a questo grande teologo del medioevo, il Papa cita di nuovo la piccola Teresa di Lisieux, adesso con il suo titolo di Dottore della Chiesa, e da questo punto di vista della carità:

«Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in 20 François-Marie Léthel

Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’og- getto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione (...) Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di com- prensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama! Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il “cantore dell’amore, della carità”, ci insegna a operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitu- dine eterna. Mettiamoci quindi alla scuola dei santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, di- ciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore. E concludo proprio con una preghiera di questa santa: “Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d’amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d’amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d’amore»4.

Citando così santa Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa, Benedetto XVI illustra perfettamente l’affermazione del venerabile Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte riguardo al significato di questo dottorato del- la giovane santa: «Come esperta della scientia amoris» (n. 42). È la scienza più alta, è la conoscenza mistica, frutto della carità che opera questa “certa

4 Il Papa cita in traduzione italiana il testo della poesia di Teresa Vivre d’amour: «Ah tu le sais, divin Jésus, je t’aime / L’Esprit d’Amour m’embrase de son feu / C’est en t’aimant que j’attire le Père / Mon faible coeur le garde sans retour./ O Trinité, vous êtes prisonnière / De mon Amour! (...) Vivre d’amour, c’est donner sans mesure/ Sans réclamer de salaire ici-bas/ (...) Lorsque l’on aime, on ne calcule pas! / Au Coeur Divin, débordant de tendresse / J’ai tout donné... légèrement je cours/ Je n’ai plus rien que ma seule richesse / Vivre d’Amour (Po- esia n. 17, str. 2 et 5, nell’edizione critica delle Oeuvres Complètes [Cerf/DDB, Paris 1992). Usiamo le sigle: Ms per i tre Manoscritti Autobiografici (A, B, C), LT per le Lettere, P per le Poesie, Pr per le Preghiere e PR per le Pie Ricreazioni (operette teatrali). Cf. anche F.-M. Léthel, L’amore di Cristo come luogo della verità. Il contributo teologico di santa Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa, in «Path» 1 (2006) 111-141. Il paradigma della luce 21 simpatia” con il mistero5. Questa citazione del testo di Teresa appare come una luminosa spiegazione di ciò che il Papa diceva il giorno precedente ai teologi, quando parlava della «sua nuova lettura della Bibbia “non scienti- fica”, ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura». Mi sembra importante riflettere su questo punto considerando la dottrina di questa santa che già san Pio X vedeva come «la più grande santa dei tempi moderni». Infatti, la preghiera di Teresa qui citata è come la sua grande chiave in- terpretativa di tutta la Bibbia, come la sua eccellente “rete” per “pescare” continuamente il mistero di Cristo “nelle acque della Scrittura”. Tutta la sua “scienza d’amore” è meravigliosamente cristocentrica e trinitaria, è proprio «la conoscenza dell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza», sempre comunicata dal Padre per mezzo dello Spirito Santo nel cuore della Chiesa. Tale chiave o rete non è altro che il semplice atto d’amore a Gesù nella sua formulazione evangelica: «Signore tu sai che ti amo» (Gv 21,15). È la triplice risposta di Pietro alla triplice domanda di Gesù Risorto: «Mi ami tu?». Ed è la “riparazione” del triplice rinnegamento! Con grande sicurezza teologica, la santa esplicita il carattere trinitario di questo atto d’amore: non è principal- mente l’espressione di un sentimento umano, ma della carità che lo Spirito Santo infonde nei nostri cuori. L’atto d’amore a Gesù la immerge nella comu- nione della Trinità. Teresa legge tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, con la chiave di questo continuo «Gesù ti amo», e così lo Spirito Santo la im- merge nel mistero di Gesù, nel suo cuore, in tutti i suoi misteri rivelati nel Van- gelo, specialmente i misteri della sua vita terrena, dalla culla alla croce come misteri della sua piccolezza e povertà. La stessa interpretazione della Scrittura, cristocentrica e trinitaria, era già quella di san Francesco d’Assisi, con la stessa comunione privilegiata alla vita terrena di Gesù. Ma questo Gesù terreno, pic- colo e povero, è sempre l’Altissimo Figlio di Dio; non è mai il «Gesù storico» ridotto a questo «fantasma» inconsistente di cui parlava il Papa. Alla fine della sua Autobiografia, Teresa ci offre una splendida manife- stazione della sua scientia amoris, cioè del suo modo di pescare il mistero di Cristo nelle acque della Scrittura. È un lungo commento di un testo dell’An- tico Testamento interpretato in chiave cristologica, le parole che la sposa rivolge allo sposo nel Cantico dei Cantici: «Attirami, noi correremo all’efflu- vio dei tuoi profumi» (Ct 1,4). Infatti, per la nostra santa, leggere il Vangelo è allo stesso tempo «respirare i profumi della vita di Gesù», nel soffio dello

5 Così ne parla san Tommaso, citando Dionigi Areopagita: STh, II-II q. 45 a. 2. 22 François-Marie Léthel

Spirito Santo che diffonde sempre nella Chiesa il «profumo di Cristo» (cf. 2Cor 2,15). È veramente abitare il Vangelo nell’umiltà, mettendosi all’ultimo posto, con i peccatori che hanno sperimentato la misericordia di Gesù: la Maddalena, il pubblicano, il figlio prodigo. Paradossalmente, questo «ab- bassarsi» è allo stesso tempo «innalzarsi» a Gesù «nella fiducia e l’amore»6. L’umile fiducia è il fondamento indispensabile della carità, «solo la fiducia conduce all’amore» (LT 197). Si tratta sempre dell’amore che Gesù ci co- munica nel fuoco dello Spirito Santo, chiesto e ricevuto nella preghiera. La santa ritrova spontaneamente il grande simbolo patristico del ferro e del fuoco per esprimere la divinizzazione della nostra umanità:

«Ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amo- re, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva e agisca in me. Sento che quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: Attirami! tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo rotta- me di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino) correranno rapida- mente all’effluvio dei profumi del loro Amato, perché un’anima infiammata d’amore non può rimanere inattiva» (Ms C, 36r).

Così Teresa compie la sua missione di «amare Gesù e farlo amare» (LT 220). Questo fuoco d’amore dello Spirito Santo, che arde sempre nel cuore della Chiesa, diffonde allo stesso tempo la luce di Cristo che illumina i santi:

«Tutti i santi l’hanno capito e in modo più particolare forse quelli che riem- pirono l’universo con l’illuminazione della dottrina evangelica. Non è forse dall’orazione che i santi Paolo, Agostino, Giovanni della Croce, Tommaso d’Aquino, Francesco, Domenico e tanti altri illustri amici di Dio hanno at- tinto questa scienza divina che affascina i geni più grandi? Uno scienziato ha detto: “Datemi una leva, un punto d’appoggio, e solleverò il mondo”. Quello che Archimede non ha potuto ottenere perché la sua richiesta non era

6 Sono proprio le ultime righe del Manoscritto C: «Poiché Gesù è risalito al cielo, io posso seguirlo seguendo le tracce che ha lasciato, ma come sono luminose queste tracce, come sono profumate! Appena getto lo sguardo nel santo Vangelo, subito respiro i profumi della vita di Gesù e so da che parte correre... Non è al primo posto, ma all’ultimo che mi slancio, invece di farmi avanti con il fariseo, ripeto, piena di fiducia, l’umile preghiera del pubblicano, ma soprattutto imito il comportamento della Maddalena, la sua stupefacente o meglio amorosa audacia che affascina il cuore di Gesù, seduce il mio. Sì lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, con il cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, perché so quanto ami il figliol prodigo che ritorna a Lui. Non perché il buon Dio, nella sua misericordia preveniente ha preservato la mia anima dal peccato mortale, io mi innalzo a Lui con la fiducia e l’amore» (Ms C 36v-37r). Il paradigma della luce 23

rivolta a Dio ed era espressa solo dal punto di vista materiale, i santi l’hanno ottenuto in tutta la sua pienezza. L’Onnipotente ha dato loro come punto d’appoggio: Se stesso e Sé Solo. Come leva: l’orazione, che infiamma di un fuoco d’amore, ed è così che essi hanno sollevato il mondo, è così che i santi ancora militanti lo sollevano e i santi futuri lo solleveranno fino alla fine del mondo» (Ms C, 36r-v). Questo testo, nella sua semplicità, è molto ricco di contenuti teologi- ci. Nella sua continua prospettiva cristocentrica, Teresa esprime in modo splendido l’unità della teologia dei santi come teologia orante, sempre nu- trita dalla Sacra Scrittura, nel suo sviluppo storico attraverso i Padri della Chiesa, i Dottori del medioevo e i Mistici dal medioevo all’epoca moder- na. I nomi qui citati da Teresa sono veramente esemplari. Paolo, teologo ispirato, rappresenta gli autori biblici, ai quali l’antica tradizione orientale aveva riservato il titolo di «teologi». Agostino rappresenta eminentemente i Padri della Chiesa, che sono i grandi teologi dei primi secoli. Tommaso d’Aquino, «il Dottore Angelico», è la figura emblematica dei Dottori del medioevo, nel contesto nuovo delle università. Francesco d’Assisi e Gio- vanni della Croce sono nel modo più caratteristico i Mistici tanto presenti nella Chiesa a partire dal medioevo fino ai nostri giorni. Tutti questi santi, così diversi secondo il tempo e la cultura, hanno attinto la stessa scienza divina alla stessa fonte della preghiera personale, «l’orazione che infiam- ma di un fuoco d’amore». Affermando l’unità di questa scienza divina che viene sempre dalla Sacra Scrittura e che si sviluppa nella continuità storica dei Padri, dei Dottori e dei Mistici, Teresa ci offre un eccellente strumento scientifico, che è come il prisma della teologia dei santi. È uno strumento che ci rende capaci di raccogliere e contemplare la stessa luce di Cristo, nei suoi colori più belli, usando inseparabilmente la teologia dei Padri, dei Dottori e dei Mistici. Dobbiamo ancora notare che la luce di Cristo Salvatore è la luce che bril- la nelle tenebre (cf. Gv 1,5), che scende in fondo delle tenebre del peccato e della morte. Gesù, accettando di «bere il calice» nell’agonia del Getsemani, ha realmente preso dentro di se, nel suo cuore, la totalità delle nostre te- nebre. A questo momento Colui che era senza peccato è per noi diventato peccato affinché noi diventassimo in Lui giustizia di Dio (cf. 2Cor 5,21). Così anche la Chiesa pellegrinante partecipa profondamente a questo miste- ro doloroso della redenzione, portando nel suo cuore allo stesso tempo la luce di Cristo e le tenebre del peccato del mondo. Ed è proprio l’esperienza 24 François-Marie Léthel di Teresa nell’ultimo periodo della sua vita, quando porta dolorosamente nel suo cuore la drammatica realtà dell’ateismo moderno, in unione con il Redentore, intercedendo per la salvezza degli atei, chiamati da lei «fratelli»:

«Gesù mi ha fatto sentire che ci sono veramente delle anime che non hanno la fede... Egli permise che la mia anima fosse invasa dalle più fitte tenebre» (Ms C, 5v).

3.2. Dionigi Areopagita, Anselmo d’Aosta e Bernardo di Chiaravalle

Così, al simbolo della rete che “pesca” il mistero di Cristo nelle acque della Scrittura si sovrappone il simbolo del prisma che raccoglie e diffonde la luce di Cristo. Il nostro Papa Benedetto XVI usa in modo splendido questo prisma nelle sue catechesi sui santi, facendo riferimento spesso ai Padri, ai Dottori e ai Mistici. Per esempio, nella catechesi su Dionigi (14 maggio 2008), ci offre una profonda riflessione su questo misterioso Padre greco, che ha nascosto i suoi scritti sotto il nome dell’Areopagita convertito da san Paolo ad Atene (cf. At 17,34). Secondo il Papa, questo fatto sarebbe

«un atto d’umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monu- mento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non at- tribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po’ disindividua- lizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero e un linguaggio comune»7.

Lo stesso prisma dei Padri, Dottori e Mistici, presente nel testo di Teresa con i nomi di Agostino, Tommaso e Francesco, appare qui in riferimento a Dionigi con i nomi di Bonaventura e dello stesso Francesco:

«Lo Pseudo-Dionigi dimostra che alla fine la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si fa vicino a noi in Gesù Cristo. E così una teologia grande e miste- riosa diventa anche molto concreta sia nella interpretazione della liturgia sia

7 Questa riflessione è preziosa per interpretare i testi di Benedetto XVI. Per esempio, il suo importante discorso del 12 settembre 2008 a Parigi, al Collège des Bernardins, segue questa linea di una teologia monastica «ecclesiale, non individuale» e anche «un po’ disindi- vidualizzata». Invece le catechesi sui santi mettono piuttosto l’accento su una teologia «per- sonalizzata» nelle grandi figure di Agostino, Anselmo, Bernardo, ecc... Il paradigma della luce 25

nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell’Oriente sia dell’Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da san Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l’eredità così semplice e così profonda di san Francesco: il Poverello con Dionigi ci dice alla fine, che l’amore vede più che la ragione. Dov’è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l’amore vede, l’amore è occhio e l’esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza Bona- ventura lo vide in san Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà, nell’umiltà che si vive anche nell’ecclesialità, c’è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si rag- giunge mediante la riflessione: in essa, tocchiamo realmente il cuore di Dio».

Questo testo del Papa è molto interessante dal punto di vista teologico, esattamente come il testo di Teresa. Il pensiero di fondo è lo stesso: l’uni- tà profonda della teologia dei santi fondata nella carità, e la perfetta com- plementarità, compatibilità e illuminazione reciproca tra teologia patristica (Dionigi), teologia universitaria (Bonaventura) e teologia mistica (France- sco). E infatti, nei suoi scritti, Bonaventura vede in Francesco la più alta «teologia» e «scienza»8. Nella stessa luce, di grande interesse è la catechesi su sant’Anselmo d’Aosta (23 settembre 2009), nel contesto della celebrazione del IX Cente- nario della sua morte (1109). La figura di questo grande santo, Dottore della Chiesa, viene così caratterizzata:

«Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore di giovani, teologo con una straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di governo e intran- sigente difensore della libertas Ecclesiae, Anselmo è una delle personalità eminenti del Medioevo, che seppe armonizzare tutte queste qualità grazie a una profonda esperienza mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione».

Infatti, la teologia di Anselmo ha il grande merito di essere allo stesso tempo altamente speculativa e mistica. È una teologia monastica che privi- legia nelle sue Opere la forma letteraria della preghiera, integrando in una dinamica orante e contemplativa, uno straordinario sforzo della ragione, ciò

8 Per esempio, nella Legenda Major, c. XI, in Fonti Francescane, EMP, Padova 20042, nn. 1187-1189. 26 François-Marie Léthel che si ritroverà nella grande teologia universitaria del XIII secolo. Ma pur- troppo la preghiera non sarà più riconosciuta come espressione scientifica della teologia (non ci sono preghiere nella Somma Teologica). Invece, An- selmo mostra che la preghiera è la migliore espressione teologica, negli atti stessi delle virtù teologiche: «Credo in Te, spero in Te e Ti amo». Benedetto XVI evidenzia questo, citando una delle sue opere più caratteristiche, il Pro- slogion, dove la più alta riflessione speculativa, teologica e filosofica, viene espressa in forma di preghiera:

«Dio, ti prego, voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in que- sta vita non sono capace di ciò in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla pienezza» (Proslogion, c.14).

Questa preghiera lascia comprendere l’anima mistica di questo grande santo dell’epoca medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di «Dottore Magnifico» perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i misteri divini, nella piena consape- volezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di «innalzare la mente alla contemplazione di Dio» (Pro- slogion, Proemium). Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del teologo, secondo sant’Ansel- mo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa. Resta- no, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole:

«Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso nep- pure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino a un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire» (Proslo- gion, c. 1).

Si percepisce bene l’armonia tra queste parole del Papa e la sua omelia ai teologi del 1o dicembre. Anselmo è un esempio luminoso dell’uso giusto della ragione in teologia, nell’umiltà, in una fede viva, orante, proprio la fides Il paradigma della luce 27 quaerens intellectum (primo titolo che Anselmo aveva dato al Proslogion). Così Anselmo raccoglie la luce di Cristo, così pesca il suo mistero nelle acque della Scrittura. Il vertice della sua ricerca teologica sarà la contemplazione di Cristo Redentore nel Cur Deus Homo e nella Meditatio Redemptionis Humanae. Dopo sant’Anselmo, san Bernardo, Dottore della Chiesa, è un rappre- sentante eminente della teologia monastica, ma in un momento di forte con- trasto con una certa teologia scolastica rappresentata da Abelardo9. Questo è l’oggetto di tre catechesi dell’autunno 2009 (21 e 28 ottobre, 4 novembre). Riassumendo la dottrina di san Bernardo su «Gesù Cristo e Maria San- tissima, sua Madre», Benedetto XVI afferma:

«Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contem- plazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che di- ventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”. Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Gio- vanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro» (21 ottobre).

Tuttavia, questa “opzione” di san Bernardo per una teologia più spiri- tuale che speculativa, non diminuisce il valore di quest’ultima. E così, nella catechesi successiva, Benedetto XVI mette bene in luce la legittimità e la complementarità di queste due forme di teologia:

9 Il Papa insiste sul modo molto significativo della finale riconciliazione tra Bernardo e Abelardo: «Vorrei ricordare, infine, che il confronto teologico tra Bernardo e Abelardo si concluse con una piena riconciliazione tra i due, grazie alla mediazione di un amico comune, l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, del quale ho parlato in una delle catechesi precedenti. Abelardo mostrò umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza. In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teolo- gica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità. Che questa sia anche oggi l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità» (4 novembre). 28 François-Marie Léthel

«Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola a essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cf. 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: “La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”. La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricer- ca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricer- cata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Pre- ghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino» (28 ottobre).

Anche qui ritroviamo ciò che il Papa diceva nella sua omelia ai teologi riguardo all’uso giusto della ragione in teologia.

4. Conclusione Così Benedetto XVI apre ai teologi, e specialmente a noi della sua Pon- tificia Accademia, delle prospettive molto belle e illuminanti sul rapporto essenziale tra teologia e santità. È chiaro che la teologia dei santi non è in nessun modo un’opzione spirituale di tipo anti-intellettuale. Non si confon- de neanche con la teologia spirituale. I santi presentati nelle sue catechesi sono inseparabilmente grandi rappresentanti della teologia pensata e della teologia vissuta, della scientia fidei e della scientia amoris, della teologia spe- culativa (nel rapporto fides et ratio) e della teologia mistica (nel rapporto fides et amor). La stessa teologia dei santi è teologia speculativa in Anselmo e Tommaso, ed è teologia mistica in Francesco e Teresa. Queste forme sono perfettamente compatibili e complementari. Pensando specialmente a san Tommaso, finisco con un esempio che ri- guarda la sua dottrina della visione beatifica nell’anima di Gesù durante tutta la sua vita terrena, una dottrina che non è facilmente accettata oggi nell’am- biente della teologia accademica, cioè della teologia pensata. La stessa dot- Il paradigma della luce 29 trina viene invece “verificata” nella teologia vissuta dei Mistici. Ed è proprio su questo punto che il venerabile Giovanni Paolo II citava santa Caterina da Siena e santa Teresa di Lisieux nella Novo Millennio Ineunte (n. 27). Così, il santo Papa del post-Concilio illustra la perfetta continuità del cammino della Chiesa nella santità. La continua affermazione di Teresa che Gesù sempre la conosceva e l’amava personalmente, dalla culla alla croce, trova la sua giusti- ficazione nella teologia speculativa di san Tommaso sulla visione beatifica. Ma nell’altro senso, la dottrina di san Tommaso trova la sua verifica nella teologia vissuta della piccola Teresa. La scientia fidei di Tommaso e la scientia amoris di Teresa si completano perfettamente. È veramente la stessa luce di Cristo che si manifesta attraverso il prisma, la conoscenza dell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (cf. Ef 3,19), la luce dell’amore di Gesù.

Sintesi All’inizio del Forum che ha come tema Lumen Christi, nella memoria liturgica di san Tommaso d’Aquino, teologo della luce di Cristo, il Prelato Segretario ne pre- senta il significato e il percorso alla luce del Magistero di Benedetto XVI. Tre dati del suo Magistero più recente vengono considerati come particolarmente illuminanti per il presente Forum: 1. Il decreto sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II (19 dicembre); 2. L’omelia ai membri della Commissione Teologica Internazionale (1o dicembre); 3. Le catechesi sui santi (partendo da quella del 2 dicembre). L’Accademia di Teologia, insieme a quella di san Tommaso, è stata in qualche modo “rifondata” dal venerabile Giovanni Paolo II il 28 gennaio 1999, con la sua Lettera Apostolica Inter Munera Academiarum. Il suo mirabile cristocentrismo ha illuminato fin dall’inizio tutto il cammino, dal primo all’ultimo Forum, con una seria riflessione sul metodo teologico oggi. Sulla base della Sacra Scrittura, si sviluppa una riflessione che articola la teologia pensata e la teologia vissuta, l’approfondimento razionale e l’esperienza spirituale in dialogo con la cultura contemporanea.

La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento, come preparazione al concetto teologico di «Luce» nel Nuovo Testamento

Horacio Simian-Yofre, s.j.

path 9 (2010) 31-46

In questa relazione cercherò di mostrare in modo riassuntivo e organico quali sono i sensi che assume questa metafora primaria, archetipica, della luce, nell’Antico Testamento (AT). La relazione è divisa in sei sezioni. La prima considera alcuni testi de- scrittivi nei quali la luce diventa metafora della presenza divina e dei suoi attributi. A partire dalla seconda sezione parliamo del rapporto luce-essere umano. La seconda sezione indaga sulla relazione dell’immagine della luce con la verità e il bene. La terza si collega strettamente alla seconda, perché precisa il concetto biblico di “verità” per mezzo di quello di “fedeltà” o “lealtà”. La quarta e quinta sezione esplorano le difficoltà che gli autori bi- blici, in modo particolare quelli dei libri di Giobbe e Qoelet, scoprono nel processo di conoscere la luce e la saggezza, due concetti strettamente legati fra di loro. In fine, la sesta sezione fa un accenno al mistero del rifiuto della luce e alla tentazione delle tenebre. Lo studio poggia in particolare su testi di Giobbe, dei Salmi e di Qoe- let. Infatti, in questi tre libri, insieme a Isaia, si concentrano due terzi delle menzioni della luce nell’AT. L’altro terzo delle menzioni si divide fra tutti i libri biblici restanti, che menzionano la luce non più di tre volte ciascuno, e Geremia cinque volte. Nonostante la frequente menzione della luce, il testo di Isaia ha attirato meno la nostra attenzione, perché vari sensi della metafora coincidono con quelli che noteremo anche negli altri libri, e invece la connotazione sapien- ziale della metafora della luce è meno evidente. 32 Horacio Simian-Yofre

Prendo le citazioni bibliche abitualmente dalla Bibbia della CEI, con piccole aggiunte per fare il testo comprensibile, quando richiesto. Risparmio la menzione precisa dei versetti per non appesantire questo discorso. Questo studio può cominciare ricordando il terzo versetto di tutta la Bibbia. Lo scenario del cielo e della terra che Dio ha creato (Gen 1,1-2) è ricoperto di tenebre. Lo spettatore non può vedere nulla fino a quando Dio, con l’efficacia della sua parola crea la luce: «Sia la luce. E la luce fu». Lo spettacolo della storia umana può cominciare. Il grande regista ha dato il suo accordo, perché «la luce era buona» (Gen 1,4), e a partire da essa si stabili- scono l’oggi, lo ieri e il domani, che solamente esistono per gli esseri umani.

1. I testi descrittivi In alcuni testi la “luce” si riferisce allo splendore divino come un attri- buto quasi fisico della presenza di Dio. Questa concezione è comune ai testi del vicino Oriente antico e appartiene all’immaginario collettivo quando si tratta di una divinità. Non è possibile immaginare una divinità “buona” cir- condata di tenebre, non certamente nella cultura biblica, semitica e cristiana. L’inno del Sal 148,3 esorta il sole, la luna e tutte le fulgide stelle [stelle di luce, come dice l’ebraico], a lodare il Signore. Il Sal 104,2 presenta il Signore avvolto di luce come di un manto. Ma egli non è geloso e non ritiene per sé questo splendore, ma lo comunica a coloro che sono fedeli.

«Mentre Mosè scendeva dal monte, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore» (Es 34,29).

Ogni volta, poi, che Mosè esce dalla tenda dell’incontro (incontro con la divinità) dovrà coprire il suo volto, perché il popolo non è ancora in grado di sopportare questo splendore che conferma la missione di Mosè. In un senso metaforico, che implica anche una modifica teologica, gli oranti dei salmi si sentono sicuri della presenza di Dio nella loro vita. Nel Sal 27,1 l’orante si permette di affermare:

«Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? / Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?».

Luce, salvezza e difesa si oppongono a paura e timore. La mancanza di questa luce invece, significa la morte. Il Sal 49, una meditazione sapienziale vi- cina al pensiero del Qoelet, è centrato sulla vanità dei beni che gli esseri umani La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 33 cercano di ottenere lungo la loro vita: proprietà, ricchezza, potere, onore. Ma la morte pone fine a queste vanità perché nessuno si può pagare il riscatto per fare della vita una proprietà definitiva. Il v. 20 sentenza: «Essi andranno con la generazione dei loro padri, e non vedranno mai più la luce”. Solamente «Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi» (v. 16). In alcuni salmi la luce è associata all’atteggiamento divino in difesa del suo popolo. Nel Sal 44,4, l’orante, che assume la rappresentanza del suo po- polo, fa una vera professione di fede nella grandezza di Dio, e in un contesto militare afferma la riconoscenza verso di lui: «Poiché non con la spada [i membri del nostro popolo], conquistarono la terra, / né fu il loro braccio a salvarli; / ma la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto».

Ricordando la storia dell’uscita dall’Egitto, il Sal 78 afferma:

«Li guidò con una nube di giorno / e tutta la notte con la luce del fuoco» (v. 14).

Anche nel libro di Giobbe la luce appare come un attributo divino, che manifesta la sua grandezza. Elihu, per mostrare a Giobbe l’inutilità e ingiu- stizia delle sue proteste (Gb 32-37), descrive le opere della maestà divina. Egli spande sul mare la sua luce e copre le sue profondità (Gb 36,30), come Zeus scaglia contro i suoi avversari i suoi fulmini (luce, Gb 36,32), lascia va- gare i suoi lampi sotto il cielo (Gb 37,3), carica di umidità le nuvole e queste diffondono le folgori (Gb 37,11) e, quando la luce diventa oscurata in mezzo alle nubi, tira il vento e le spazza via (Gb 37,21). Elihu conclude con un’af- fermazione: «Dio è così grande, che non lo comprendiamo» (Gb 36,26) e con una domanda sprezzante rivolta a Giobbe: «E tu sai almeno come Dio… produca il lampo?» (Gb 37,15). Fulmini, lampi, folgori traducono il concet- to fondamentale di “luce”. Gb 24 descrive la violenza operante nel mondo, e forse in un modo indiretto fa responsabile Dio stesso di questo disordine. Giobbe riferisce sulle violenze legate al mondo della campagna e del lavoro con riferimenti alle leggi del Deuteronomio che vietano tali comportamenti. L’omicidio, l’adulterio e la rapina sono esplicitamente legati all’oscurità (Gb 24,14.15.16), cioè alla mancanza fisica di luce, che favorisce il crimine. Però immediatamente dopo la riflessione va oltre, e pone in stretto rapporto la mancanza di luce con la negazione della conoscenza: tutti «essi si ribellano contro la luce, non ne vogliono riconoscere le sue vie» (Gb 24,13) e, ancora, «non vogliono sapere della luce» (Gb 24,16). 34 Horacio Simian-Yofre

Guidati da alcuni salmi e dal libro di Giobbe, siamo passati dal senso cosmico della luce (lampo, folgore, fulmine), strumenti nella mano di Dio e segni della sua potenza, al senso quasi fisico immaginario di splendore, come attributo della maestà divina, al quale Dio fa partecipare i giusti, per arrivare in fine a questa connessione intima e problematica fra la luce e la conoscenza.

2. Luce e verità Alcuni testi dell’AT parlano della luce come di una realtà invadente che proviene da Dio e ha influsso sulla vita umana. Il punto di partenza di que- sta riflessione può essere il Sal 4. L’orante, un israelita fedele, per mezzo di domande retoriche esorta i suoi compagni al rispetto della Gloria di Dio.

«Fino a dove andrete nel disprezzo della gloria di Dio, / nell’amore del vuoto, nell’inseguire la menzogna?» (v. 3)

Il senso dell’espressione «disprezzare la gloria di Dio» diventa chiaro quando notiamo che il disprezzo della gloria di Dio si trova in parallelo con l’amore del vuoto, cioè della vanitas o del nulla, e con il desiderio della menzogna. Per eludere questa vanitas l’orante esorta i suoi compagni alla riflessione, al silenzio e al culto, però il punto centrale dell’esortazione si rivela nel v. 7:

«Molti dicono: “Chi ci farà vedere il bene? / Stendi su di noi la luce del tuo volto».

Persino chi cerca la gloria di Dio e vuole prendere le distanze dalla men- zogna, deve constatare che solamente la luce che proviene dal Signore per- mette di vedere il bene. Gloria di Dio, luce del suo volto, verità e bene sono realtà che si reclamano mutuamente. Menzogna e il suo contrario, verità, nel senso profondo, non sono quindi opzioni puntuali e in ogni momento libe- ramente disponibili, che ognuno sceglie a proprio piacere, bensì il risultato progressivo di molte scelte precedenti che conducono a vivere in un ambito o nell’altro. La verità e le menzogne non si dicono, si vivono costantemente. Con linguaggio meno ascetico e più bello lo dice un autore contemporaneo:

«… la vita umana è vissuta così: occorre ricostruire continuamente la propria identità di adulti, un fragilissimo assemblaggio sbilenco ed effimero che mas- La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 35

chera la disperazione e racconta a se stesso, davanti allo specchio, la menzo- gna alla quale abbiamo bisogno di credere»1.

La menzogna e la verità sono la menzogna o la verità della propria vita, dei desideri, affetti, aspirazioni e progetti. Perciò i salmi si soffermano così spesso sulla menzogna quasi come la definizione del malvagio:

«Le sue parole sono malvagità e inganno, / rinuncia a fare il bene, non rifiuta il male» (Sal 36,4).

L’orante loda poi la generosità, la fedeltà e la giustizia delle decisioni divine, e conclude:

«È in te [Signore] la sorgente della vita, / alla tua luce vediamo la luce» (v. 10).

La luce divina appare come la sintesi di tutti questi attributi divini e fon- te di vita. Si partecipa alla luce divina nella misura nella quale l’essere umano cerca di vivere nella generosità, fedeltà e giustizia. Così il Sal 112,42 può affermare che «nelle tenebre spunta una luce per i giusti, per coloro che sono pieni di grazia e misericordia». Questi due attri- buti caratterizzano esclusivamente il Signore stesso nella proclamazione del suo nome in Es 34,63. Per coloro che cercano di seguire il Signore nella sua grazia e misericordia, persino in mezzo alla profonda oscurità spunta que- sta luce di verità che li guida. L’immagine contraria è presentata dal Sal 38. L’esperienza della debolezza fisica e spirituale dell’orante si riassume nel v. 11: «La forza mi abbandona, si spegne la luce dei miei occhi». La luce man- cante è immagine di una vita che finisce nel dolore e nell’incomprensione. La luce è anche in rapporto al bene, che è il frutto della verità della vita. Gli ingiusti «cambiano la notte in giorno. La luce – dicono – è più vicina del- le tenebre» (Gb 17,12). Isaia aveva proposto lo stesso rimprovero in modo più esplicito (Is 5,20):

«Guai a coloro che dichiarano bene il male e male il bene, / che fanno delle tenebre luce, e della luce tenebre, / che trasformano l’amaro in dolce e il dolce in amaro».

1 M. Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni E/O, Roma 2007, p. 85 2 Vedi anche il Sal 97,11: «Una luce si leva per il giusto, gioia per i retti di cuore». 3 Poi ripreso nei Salmi 86,5; 103,8. 36 Horacio Simian-Yofre

I concetti impiegati si riferiscono alla totalità della vita: «dichiarare» bene il male e male il bene – e non solamente «chiamare» – è corrompere la sostanza della vita umana, stabilire la menzogna come principio, accettare un invadente relativismo dove tutto può significare qualsiasi cosa. Le categorie «dolce» e «amaro» esprimono la decisione di ingannare se stesso o il prossimo per fargli credere che «tutto va bene», che da un deter- minato atteggiamento non si seguirà nessuna conseguenza sulla vita propria o degli altri e, al contrario, di svalutare quei comportamenti forse dolorosi (per esempio, la rinuncia o lo sforzo) che porterebbero effetti positivi per gli altri.

3. Luce e fedeltà Nella sezione precedente abbiamo parlato della luce come metafora che include il bene e la verità, in contrapposizione al male, la menzogna e l’inganno. Da molto tempo ormai appartiene alle convinzioni della teologia biblica dell’AT, che il concetto di «verità» così come lo abbiamo ereditato dalla cultura greca e medievale, non corrisponde precisamente a nessun con- cetto ebraico. Strettamente legato al motivo della luce appare invece il concetto di fedeltà. Il Sal 43,3, presenta una certa difficoltà e ha condotto a molte tra- duzioni importanti4 a interpretare il parallelo dei due termini ebraici come «luce e verità». Così si raggiunge la traduzione:

«Manda la tua luce e la tua verità: / siano esse a guidarmi, / mi portino al tuo monte santo e alle tue dimore».

Il termine parallelo a «luce», tradotto impropriamente come «verità» implica però una disposizione di tutta la persona, un atteggiamento che sup- pone fedeltà a una persona oppure a un proprio modo di agire. Perciò quel termine si dovrebbe tradurre come «lealtà» o «fedeltà», senso abitualmente presente nella Bibbia. La lingua ebraica conosce infatti una locuzione di uso frequente, dove i due termini («grazia» e «fedeltà») appaiono in parallelo. In un passo biblico

4 CEI (Conferenza Episcopale Italia, La Sacra Bibbia), IEP (Nuovissima versione del- la Bibbia San Paolo, Roma 1995-1996), NRSV (New Revised Standard version), TOB (Traduction Oecuménique de la ), BJ3 (Bible de , 3 ed., in trad. spagnola). La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 37 ben conosciuto ed espressivo al quale abbiamo fatto ormai riferimento, que- sta locuzione appartiene alla proclamazione del nome divino che il Signore stesso fa davanti a Mosè (Es 34,6):

«Il Signore, il Signore, [è un] Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di benevolenza-grazia e di fedeltà-lealtà».

Questa proposizione non vuole, ovviamente, esprimere una capacità di Dio di conoscere «una verità» o «la verità», bensì manifestare l’atteggiamen- to del Signore davanti al suo popolo, fatto esplicito nel v. 7:

«… il Signore, conserva il suo favore per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non le lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione».

In molti altri testi biblici la locuzione «grazia e fedeltà» conserva una stessa connotazione, che appare sia nei testi narrativi che nei salmi. Ecco alcuni esempi. Dio usa benevolenza e fedeltà verso Abramo (Gen 24,27), il servo di Abramo chiede benevolenza e fedeltà verso il suo padrone (Gen 24,49), le spie inviate da Giosuè promettono a Raab di usare con lei bene- volenza e lealtà come retribuzione per l’aiuto che essa li aveva offerto prima (Gs 2,14)5. Nei salmi è presente la stessa connotazione. Nel Sal 25,10: «Tutti i sen- tieri del Signore sono benevolenza e fedeltà / per coloro che custodiscono il suo patto e i suoi statuti». Nel Sal 61,8: la preghiera per il re include la supplica che la grazia-benevolenza e la fedeltà-lealtà di Dio lo custodiscano sempre. Il Sal 86,15 ripete la formula di Esodo citata prima: «Ma tu, Signo- re, sei misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di benevolenza-grazia e di fedeltà/lealtà», e la lode del Sal 89,15 afferma che la «giustizia e il diritto sono la base del trono di Dio, grazia e fedeltà precedono il tuo volto»6. Il doppio concetto di grazia e fedeltà conferma, quindi, che «fedeltà», per unica volta in parallelo a «luce» nel Sal 43,3, non si potrebbe tradurre come «verità». L’unica verità che interessa all’AT è quella dell’atteggiamento generoso e fedele, misericordioso e pieno di pietà. Il Sal 43 riflette la tristezza dell’orante lontano dal tempio e il suo de- siderio di poter ritornavi un giorno. Ma c’è gente malvagia e traditrice che

5 Si veda ancora 2Sam 2,6; 15,20. 6 Si veda ancora Sal 85,11 e Pr 3,3; 20,28. 38 Horacio Simian-Yofre vorrebbe impedirglielo. La sua speranza è che Dio possa ispirare («inviare») all’orante e forse al popolo che egli rappresenta, un desiderio di fedeltà a Dio che lo possa guidare nella sua marcia di ritorno. La grande tentazione del popolo nel esilio, situazione alla quale fa riferimento il salmo, era infatti adattarsi completamente alla nuova terra e ai nuovi dèi, trascurando la fe- deltà al Signore Il senso di «luce» come una forza che guida i fedeli nel suo cammino verso il Signore, è confermato da alcuni testi molto espliciti dove la luce si mette in rapporto al «cammino» o al «camminare», l’immagine abituale per parlare della «sequela» del Signore; per esempio:

«Hai preservato i miei piedi dalla caduta, perché io cammini alla tua pre- senza nella luce dei viventi» (Sal 56,14). «Beato il popolo che … cammina alla luce del tuo volto» (Sal 89,16) «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105).

4. Conoscere la luce e la saggezza Però, la conoscenza della luce che manda il Signore non è senza dif- ficoltà. Il libro di Giobbe ha dedicato un’attenzione particolare a questa difficoltà. È solamente il Signore colui che strappa dalle tenebre i segreti e riporta alla luce le cose oscure (Gb 12,22). Coloro che si allontanano dal Si- gnore, invece, «vanno a tastoni per le tenebre, senza luce, e barcollano come ubriachi» (Gb 12,25). Il Signore stesso accenna alla difficoltà di «conoscere la luce» quando sfida Giobbe a dire «per quale via si va dove abita la luce e dove hanno dimora le tenebre» (Gb 38,19), o per quali vie si espande la luce (Gb 38,24). L’associazione fra la luce in senso astronomico, teologico ed etico e la saggezza si trova chiaramente espressa in Qoelet (2,13):

« Mi sono accorto che il vantaggio della saggezza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre».

È quindi logico che si stabilisca anche uno stretto rapporto fra la dif- ficoltà di conoscere l’una e l’altra (la luce e la saggezza), come si manifesta in numerosi testi del libro di Giobbe. In uno dei primi discorsi degli amici di Giobbe, Sofar gli augura che «volesse Dio» parlargli per manifestargli «i La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 39 segreti della saggezza, che sono così difficili all’intelletto»7. Allora Dio gli farebbe capire la sua colpa e potrebbe condonarla (Gb 11,5-6). Giobbe è pienamente consapevole di questa difficoltà. Perciò nel suo primo interven- to canzonerà amichevolmente i suoi amici, che dichiarano la difficoltà della saggezza, ma nello stesso tempo pretendono di avere ogni chiara risposta per le difficoltà di Giobbe: «Certo, voi rappresentate la voce di un popolo; con voi morirà la saggezza!» (Gb 12,2), ed e vero che «nei canuti sta la saggezza e in chi ha vita lunga la prudenza» (Gb 12,12). Ma poi scoppierà con il suo vero pensiero: «Magari taceste del tutto: sarebbe per voi un atto di saggez- za!», quell’atto che permetterebbe a Giobbe cominciare la propria difesa (Gb 13,5)8. Alcuni autori hanno considerato il c. 28 del libro di Giobbe come estra- neo al problema centrale del libro, ma è invece quasi il suo nucleo. Fa parte dell’apologia finale di Giobbe (cc. 26-31) nei quali egli descrive minuziosa- mente e difende la giustizia del suo comportamento durante tutta la sua vita. Verso il centro di quest’apologia, il c. 28 mette a fuoco la difficoltà di capire la saggezza, e sottinteso che questa è proprietà divina, anche la difficoltà di capire Dio e le sue decisioni. L’uomo (vv. 1-11), a differenza degli animali, è capace di cercare e trova- re le ricchezze nel seno della terra. Questa capacità diventa invece perples- sità inutile quando si tratta di trovare la saggezza e Giobbe chiude questa parte del discorso con la domanda:

«Ma la saggezza da dove si estrae? E il luogo dell’intelligenza dov’è?» (Gb 28,12)

La seconda sezione del capitolo esclude la possibilità di acquistarla né con oro o argento, perle, coralli o zaffiri e conclude con la stessa domanda:

«Ma da dove viene la saggezza? E il luogo dell’intelligenza dov’è?» (Gb 28,20).

7 Il termine si ritrova solamente in Giobbe e nel Sal 44,22, dove si riferisce ai segreti del cuore nel suo rapporto con Dio. 8 Ho spiegato questo testo più in particolare nel mio studio «Giobbe 13, ovvero il dirit- to alla difesa», in corso di pubblicazione. 40 Horacio Simian-Yofre

I versetti seguenti (21-22) dichiarano che né gli esseri viventi, né l’abis- so, né la morte sanno dove si trovi e aprono il cammino alla risposta finale del v. 23:

«Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi».

Il testo ci sorprende ancora quando indica che Dio stabilì le leggi dell’universo che custodiscono i limiti delle acque e il peso del vento e la potenza dei fulmini; «allora Dio vide la saggezza, la calcolò, la scrutò e la stabilì». Come se Dio stesso avesse dovuto scrutare la conoscenza per capirla e farla il punto di partenza dell’ordine dell’universo9. In fine Giobbe tira la conseguenza per l’essere umano (v. 28):

«Ecco, il timore del Signore, questo è saggezza, evitare il male, questo è in- telligenza».

5. La difficoltà di conoscere la saggezza nel libro del Qoelet La difficoltà di conoscere la saggezza era stata messa in rilievo già nell’inizio del libro di Qoelet (1,13).

«Ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza / tutto ciò che si fa [accade] sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data alla razza umana perché vi si affatichino».

Anche qui, forse con più rigore e pessimismo di Giobbe, la conoscenza è strettamente legata all’«investigare». Quasi la ricerca della saggezza fosse una trappola messa da Dio nel cammino dell’essere umano, un miraggio che non si raggiunge mai. La desolata conclusione arriva in Qo 1,17: cercare di distinguere la saggezza dalla pazzia e dalla stupidaggine è anche questo «cor- rere dietro al vento». Dopo aver sviluppato il pensiero dell’inutilità dell’operare umano, con- clude con la sconvolgente proposizione di Qo 8,15:

«Perciò approvo l’allegria, perché l’uomo non ha altra felicità, sotto il sole, che mangiare e bere e stare allegro».

9 Su questo argomento si veda anche il mio studio «Che cosa è l’uomo? Il Salmo 8, una meditazione su Genesi 1-2», in «Studia Biblica Slovaca» (2010) in corso di pubblicazione. La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 41

Qo 8,15 con Qo 8,16-9,1, costituisce così, quasi nel centro fisico del li- bro, un riassunto della posizione del Qoelet. Perché se prima era stato detto che l’operare umano non porta alcuna consolazione, i versetti seguenti, ci tolgono ogni speranza sulla possibilità di trovare la felicità nella saggezza. Come ulteriore fondamento della sua sentenza di Qo 8,15, Qo 8,16-17 di- chiara:

«Quando ho applicato il mio cuore a conoscere la saggezza e a esaminare10 la fatica che accade sulla terra – perché [in questo sforzo] né giorno né notte go- dono gli occhi [dell’essere umano] del sonno – allora ho visto [ha ritenuto la mia attenzione] tutta l’opera di Dio: che l’essere umano è impotente a trovare [= spiegare] l’opera fatta sotto il sole. Egli ha un bell’affaticarsi a cercare [la spiegazione] ma non riesce a trovar[la]; e anche se il saggio pensa di sapere, non però può trovar[la]»11.

Nella lettura e interpretazione di questo testo si deve ritenere, come abbiamo fatto nella traduzione, la struttura di protasi (v. 16) e apodosi (v. 17), e le molteplici sfumature del verbo «vedere», nei due versetti12. Mentre nel v. 16 si tratta dell’esperienza di avere cercato la saggezza con molte os- servazioni particolari, il v. 17 si riferisce, invece, a un’esperienza totalizzante: il riconoscere la «totalità dell’opera di Dio» (oggi diremmo «il senso dell’in- sieme»). La prima esperienza può avere avuto un certo successo, infatti i molteplici detti del Qoelet dimostrano la giustezza delle sue osservazioni. La seconda esperienza, invece, sembra condannata alla sconfitta: il senso dell’insieme è irraggiungibile. La contrapposizione fra le due esperienze è messa in rilievo dai due verbi differenti che le esprimono: da una parte, «conoscere» che si realizza per mezzo dell’osservazione, dall’altra, «trova- re» come esperienza del rintracciare un senso d’insieme, una differenza che percorre ancora altri testi del Qoelet. Il processo di conoscere la saggezza è faticoso, e per cercarla giorno e notte bisogna rinunciare persino al sonno. «Conoscere la saggezza» è equivalente a «vedere / sperimentare la fatica [= sforzo, occupazione, sofferenza]13 che si fa sulla terra».

10 In ebraico «guardare». 11 Su «cercare» e «trovare» si veda anche H. Spieckermann, Suchen und Finden. Kohe- lets kritische Reflexionen, in «Biblica» 79 (1998) 305-332. 12 Vedi anche A. Schoors, Words Typical of Qoelet, in Id. (ed.), Qohelet in the Con- text of Wisdom, University Press, Leuven 1998, p. 31. 13 Il termine è prediletto da Qoelet (1,13; 2,23; 2,26; 3,10; 4,8; 5,2.13; 8,16). 42 Horacio Simian-Yofre

Qo 8,16-17 conclude in Qo 9,1 pieno di delusione, ripetendo l’espres- sione «ho applicato il mio cuore».

«Sì, io ho applicato a tutto questo il mio cuore, e ho cercato di chiarire tutto questo: che cioè, i giusti e i saggi e le loro opere sono nelle mani di Dio; l’essere umano non sa neppure se amerà o se odierà; tutto è davanti a loro».

«Tutto questo» (ripetuto due volte) include sia le opere, delle quali par- lava Qoelet fino a 8,15, che la saggezza stessa, con la sua fatica, e ancora l’impossibilità di rintracciare «il senso». Questo testo, l’ultimo del libro che riflette in modo esplicito sull’inac- cessibilità della saggezza, esprime l’amara constatazione e quasi lo sdegno perché tutta la vita umana si trova nelle mani di Dio. Neppure i sentimenti più personali, come l’amore e l’odio, appartengono completamente all’esse- re umano14. Con Qo 9,1 si raggiunge così il momento più scettico e pessimi- sta di tutto il libro: l’operare umano non porta con se alcuna consolazione, la ricerca della saggezza è una fatica, il «senso» totale non si raggiunge. Qoelet aveva parlato della ricerca della saggezza prima, in Qo 7,23-2515, ma senza richiamo all’operare umano16.

«Io ho esaminato tutto questo con saggezza. Ho detto: «Voglio acquistare saggezza»; ma essa è rimasta lontana da me. Una cosa che è tanto lontana e tanto profonda chi potrà trovarla? Io mi sono applicato in cuor mio a ri- flettere, a investigare, a cercare la saggezza e l’insieme, e a riconoscere che l’empietà è una follia e la stoltezza una pazzia».

Il martellante riferimento al conoscere, riflettere, investigare, cercare la saggezza e farsi un «rendiconto» dell’insieme delle cose, apre il cammino alla fondata ipotesi che questo testo sia tutto centrato sul conoscere la saggez-

14 C’è forse qui un accenno alla ribellione dell’uomo, privato del accesso all’albero della vita? 15 Qo 7,23-29 è probabilmente un’unità, riconosciuta come uno dei testi di più difficile interpretazione. T. Zimmer, Zwischen Tod und Lebensglück. Eine Untersuchung zur Anthro- pologie Kohelets, de Gruyter, Berlin - New York 1999, pp. 123-130, dopo avere esaminato diverse posizione, confessa la difficoltà di dedurre da questo testo una conseguenza sulla visione del Qoelet in rapporto alla donna. 16 Piuttosto in collegamento con la presenza – si direbbe, il «mistero» – della donna. «Donna» (hawah), s’impiega abbondantemente nella Genesi e poi nel libro del Levitico. Nel Qoelet appare solamente quattro volte (Qo 7,26.28; 9,9). Non parliamo qui di altri testi che alludono forse al rapporto con la donna (2,8; 3,5; 4,11) ma senza menzionare però il termine hawah. La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 43 za17. Come nel testo precedente (Qo 8,16-17; 9,1), c’è anche qui la contrap- posizione fra ciò che l’uomo cerca e ciò che riesce a trovare con il suo sforzo, e la contrapposizione fra l’esaminare (nsh) e l’osservare (rah), da una parte, che si muovono nel ambito del particolare, e il trovare (mxa), dall’altro, che appartiene al ordine dell’insieme. Questo «insieme» era definito in Qo 8,17 come l’opera fatta sotto il sole, cioè, l’opera di Dio; in Qo 7,27 invece come «risultato»18, considerato dal punto di vista delle cose, «rendiconto» consi- derato come la percezione umana di tali «cose». La contrapposizione della conoscenza delle «cose una a una» come condizione per trovare «l’insieme» sembra confermare questa interpretazione. Non sembra, invece, che i due «esempi» menzionati in Qo 7,26.28, intravedere il rischio di una donna che adesca le sue vittime (v. 26) e la consapevolezza che appena c’è un uomo o una donna del quale o della quale ci si può fidare (v. 28), intendano mettere in rilievo la distanza fra il grande sforzo messo per raggiungere la saggezza e i modesti risultati ottenuti, con i quali Qoelet si dovrebbe accontentare19. Qoelet esprimerebbe la soddisfazione di non avere «trovato la donna» (follia) il che sentenzierebbe il suo statuto d’uomo giusto. La donna (follia) sarebbe una trappola nel cammino dell’uomo non fedele verso la saggezza (come appare nella sottile, ambigua e realistica descrizione di Pr 7,6-23) e solamente colui che è gradito a Dio può sfuggire da questa trappola (Qo 7,26)20. Qoelet non è riuscito a trovare la saggezza, ma è almeno riuscito a sfug- gire la stoltezza. La relativa sconfitta della sua ricerca di saggezza è coerente con l’impostazione del libro. Tutta la sua vita Qoelet ha cercato di sapere cosa sia il senso della vita umana, e ha tentato diversi cammini. Eccolo forse al termine della sua ricerca.

17 Si veda anche l’interessante studio di D. Rudman, Woman as Divine Agent in Eccle- siastes, in «Journal of Biblical Literature» 116 (1997) 411-427. 18 In questo senso (e non come nome proprio) il termine appare solamente in Qo 7,25.27; 9,10; vedi anche 9,29: in Sir 9,15 significa considerazione; in 27,5-6; 42,3, ricerca. 19 Piuttosto, si dovrebbe considerare la possibilità che la menzione della donna in que- sto testo voglia riferirsi alla contrapposizione fra la donna saggezza e la donna follia una distinzione sviluppata da Pr 8,22-9,18. Su Pr 8,22-31 cf. P. Beauchamp, La personificazione della Saggezza in Proverbi 8,22-31: genesi e orientamento, in G. Bellia - A. Passaro, Libro dei Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, Piemme, Casale Monferrato 1999, pp. 191-209. 20 «In a sense, Qoelet’s worldview is one in which Eve has ganged up with against » (Rudman, Woman as Divine Agent, p. 421). 44 Horacio Simian-Yofre

Qo 7,29 conclude con una affermazione sintetica: l’essere umano deve accettare questa incapacità di raggiungere il senso della totalità (il «risulta- to») e non impegnarsi nel cercare molteplici percorsi che non lo condurran- no da nessuna parte.

6. Il rifiuto della luce Di fronte a tutti questi testi dove si esalta la bellezza e la forza della luce, il suo carattere di immagine della grazia, la benevolenza, la generosità e la fedeltà divina, e il suo stretto rapporto con la saggezza, risulta quasi incom- prensibile che un orante del salterio auguri per se stesso le tenebre. Il Sal 13921 comincia con due verbi che abbiamo ormai trovato nel no- stro discorso precedente (tu mi hai «scrutato» e «conosciuto» / «sapere») (v. 1) che si riprenderanno al v. 23 come una supplica. La prima sezione del salmo conclude con una confessione (v. 6):

«Arcana conoscenza [quella che tu hai di me], / che mi supera, / troppo elevata, non potrei [attingerla]»!

Siccome l’orante non riesce a capire il senso di questa conoscenza che Dio ha di lui, cercherà di fuggire da questa asfissiante vicinanza di Dio, che sembra conoscere e controllare tutti i suoi movimenti (vv. 7-13). Questa se- zione raggiunge il suo apice nel v. 11:

«Almeno l’oscurità mi schiacci / e notte sia, in mio favore, la luce».

L’orante non desidera che le tenebre diventino luce per lui, neppure sfida le tenebre, come se dicesse che persino la notte e l’oscurità sono luce per il Signore e per chi confida in lui. Il contesto di fuga dei versetti prece- denti suggerisce piuttosto il senso contrario. In questo momento del salmo l’atteggiamento dell’orante è solamente negativo, anzi l’orante desidera che le tenebre siano in suo favore. Il desiderio dell’orante, però, non è ascoltato, ed egli deve riconoscere che la fuga è impossibile (v. 12):

«neppure le tenebre mi oscurerebbero da te / e la notte lucerebbe come il giorno: / davanti a te le tenebre sono come la luce».

21 Su questo salmo cf. il mio studio più particolareggiato: Il Salmo 139: Ringraziamento o ribellione?, in «Rivista Biblica Italiana» 57 (2009) 299-310. La metafora della luce in testi dell’Antico Testamento 45

Il suo processo spirituale comincia a modificarsi quando egli riconosce che il Signore è all’inizio della sua vita, e quindi niente permette di scappare a questa presenza divina. L’orante lottava contro la tentazione di ribellarsi contro Dio, del quale non sopportava la sua permanente vigilanza. Solamen- te dopo avere riflettuto sulla storia del popolo con il suo Dio egli riconoscerà la saggezza e pregio delle decisioni divine. La riflessione implicita sui cammi- ni del popolo, e sull’inimicizia del popolo verso Dio in certi momenti della sua storia lo conduce, in fine, alla lode dei vv. 17-18: «Come sono preziosi i tuoi progetti, o Dio». Nella supplica finale (vv. 23-24) l’orante riprende le espressioni del v. 1, adesso però non più come una constatazione, bensì appunto come un supplica. L’orante e il popolo che egli rappresenta sanno ormai che è buono essere conosciuto da Dio, come è buono essere ben co- nosciuti da coloro che ci amano.

«Scrutami Dio, e conosci il mio cuore, mettimi alla prova e conosci le mie angosce;24 vedi se rischio una via di sofferenza22 e guidami sull’antico cam- mino».

7. Concludendo Questo lungo percorso ci ha portato dalle immagini della luce come me- tafora della grandezza, potere, e maestà divine fino a riflettere sul rapporto stretto fra luce, verità, fedeltà e saggezza, e anche a intravedere le difficoltà e le angosce di cui è carico questo processo dell’aprirsi alla luce, che è scoprire la saggezza. Giobbe si domandava: «Dov’è la saggezza»? E non trovava risposta. Così esprimeva in Gb 7,17-21 il più radicale dubbio sulla posizione dell’uo- mo davanti a Dio e quindi sulla sua dignità di fronte alla natura della giusti- zia divina. Giobbe non aveva paura di essere scrutato da Dio («messo alla prova» e «scrutato», sono due verbi che ritornano insieme in diversi testi23); anzi, lo supplicava, appunto, perché si sentiva sicuro della sua innocenza.

22 Cf. 1Cr 4,9; Is 14,3. 23 Su un totale di 39 presenze di «scrutare» nella Biblical Hebrew appartengono 13 a Giobbe (5,9.27; 8,8; 9,10; 11,7; 13,9; 28,3.27; 29,16; 32,11; 34,24; 36,26; 38,16), 6 ai Proverbi, 4 ai Salmi. Le altre 16 si distribuiscono fra 12 libri biblici. Cf. il mio «Giobbe 13, ovvero il diritto alla difesa», in corso di pubblicazione. 46 Horacio Simian-Yofre

Forse in questa apertura davanti a Dio, egli, benché non lo dica, coglieva l’inizio della saggezza. Qoelet disperava di poter arrivare alla saggezza a si accontentava di una conoscenza e di un godimento della «cose», una dopo l’altra. Più che di una conoscenza, era una semplice osservazione e verifica, ma doveva rinunciare a trovare il «senso dell’insieme». L’orante del Sal 139, più esplicitamente di Giobbe o di Qoelet, esprime l’insofferenza dell’uomo di fronte a un Dio che lo conosce pienamente e dal quale non poteva fuggire, ma dal quale non riceveva, invece, la luce che avrebbe fatto più leggera la sua vita. Neppure egli ha paura dell’indagine divina, e perciò può concludere il suo salmo in un tono meno drammatico e ribelle di quello di Giobbe, con la supplica di essere conosciuto. La sua sup- plica finale non è una sfida circa la sua colpevolezza o innocenza, argomento del quale non si parla nel salmo, ma piuttosto l’affermazione che solamente questa conoscenza divina permette all’essere umano di conoscersi veramen- te. Forse il salmista pensa che vale la pena confrontarsi con la conoscenza che Dio può avere di noi. Conoscersi è immaginare cosa pensa Dio di noi e in questa conoscenza si può rivelare la saggezza.

Sintesi Questa relazione è divisa in sei sezioni. La prima considera alcuni testi descrittivi nei quali la luce è metafora della presenza divina e dei suoi attributi. La seconda indaga sulla relazione dell’immagine della luce con la verità e il bene. La terza esamina il con- cetto biblico di «verità» in rapporto a quello di «fedeltà» / «lealtà». La quarta e quinta sezione esplorano le difficoltà che gli autori dei libri di Giobbe e Qoelet scoprono nel processo di conoscere la luce e la saggezza, due concetti strettamente legati fra di loro. Infine, la sesta sezione fa un accenno al mistero del rifiuto della luce e alla tentazione delle tenebre. Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento

Klemens Stock, s.i.

path 9 (2010) 47-58

Fondamentale per il nostro tema è la parola dello stesso Gesù che dice nel Vangelo di Giovanni:

«Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).

Questa parola non è un fenomeno isolato ma il Vangelo di Giovanni in- fatti ci comunica il più ricco messaggio su Gesù come luce nel Nuovo Testa- mento. Perciò esponiamo dapprima ciò che ci mostra questo Vangelo e lo completiamo mediante ciò che dice la prima lettera di Giovanni, l’altro scritto del Nuovo Testamento che è specialmente rilevante per la nostra tematica. Essa non manca però negli altri Vangeli, perché Matteo e Luca presentano Gesù come luce in testi molto significativi. Anche alcuni altri autori utilizzano questo linguaggio.

1. Il Vangelo di Giovanni Il prologo del Vangelo parla di Cristo luce nel modo più variegato. Ne- gli altri testi Gesù stesso si riferisce alla luce: nel suo dialogo con Nicodemo (3,19-21), in una discussione con i farisei (8,11) e verso la fine della sua atti- vità pubblica (12,35-36.46). 48 Klemens Stock

1.1. Il prologo: vita e luce del Verbo creatore - il testimone della luce - la luce del Verbo incarnato

Dopo aver presentato il Verbo che era in principio, che era presso Dio ed era Dio e per mezzo del quale tutto è stato fatto, il prologo aggiunge subito:

«In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini e la luce splende nelle te- nebre e le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,4-5).

Qui si parla del Verbo divino creatore e del suo rapporto con tutte le sue creature, specialmente con tutti gli esseri umani. Si mette in rilievo la vita che è nello stesso verbo e che è la sua vita divina, vita in pienezza e perfezione divina. Sulla base di questa sua vita divina il Verbo comunica la vita alle sue creature, specialmente alle sue creature umane. La loro vita pro- viene dal Verbo, è una vita creata, è un riferimento essenziale e permanente al Verbo creatore. E questa loro vita è la loro luce, costituisce l’orientamento fondamentale e decisivo per l’esistenza di tutti gli esseri umani. Avere la vita dal Verbo creatore, essere creature del Verbo: questo è il dato di base che determina e illumina tutta l’esistenza di tutti gli uomini e del quale tutti de- vono tener conto per la comprensione e gestione giuste della loro esistenza; questo dato è «la» luce degli uomini. La vita c’è, e perciò, la luce c’è, ma non c’è un effetto automatico presso gli uomini. Essi devono essere aperti per la luce, devono accoglierla, altrimenti non vengono illuminati dalla luce e rimangono nelle tenebre. La non accoglienza che viene constatata qui nei confronti della luce che proviene dalla vita donata dal Verbo creatore, si constata pure, qualche versetto più tardi, nei confronti della luce che provie- ne dal Verbo che entra nel mondo mediante la sua incarnazione (Gv 1,9-11). Il prologo presenta poi il compito preparatorio di Giovanni (Battista) con insistenza (dicendolo due volte) come «dare testimonianza alla luce» (Gv 1,7.8). Colui che viene dopo Giovanni, è la luce. L’effettiva testimonian- za di Giovanni comprende specialmente tre punti: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29, cf. 1,35); «È lui che battezza nello Spirito Santo» (Gv 1,33); «E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Quindi Gesù è luce in quanto toglie il peccato del mondo, in quanto battezza nello Spirito Santo e in quanto è Figlio di Dio. Le sue due fondamentali attività riguardano il rapporto degli uomini con Dio e mettono in rilievo l’aspetto negativo e l’aspetto positivo, il superamento cioè della separazione da Dio (peccato) e il dono della comunione vitale con Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento 49

Dio (Spirito Santo). Queste due attività hanno il loro fondamento nel fatto che Gesù è il Figlio di Dio. Dando testimonianza a questi tre punti Giovanni dà testimonianza a Gesù che è la luce; essi infatti mettono il rapporto degli uomini con Dio in una luce totalmente nuova. Dopo aver presentato la luce che proviene dal Verbo divino creatore, e la luce attestata da Giovanni Battista il prologo parla della luce che il Verbo divino incarnato porta al mondo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9; cf. 3,19; 12,46). Un’altra traduzione dice: «Egli (il Verbo) era la luce vera che illumina ogni uomo, venendo nel mon- do». Essa che parla espressamente del Verbo e lo qualifica come la luce vera, corrisponde di più ai versetti seguenti che si riferiscono certamente al Verbo:

«Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,10-11).

Due volte si constata il rifiuto del Verbo incarnato e della sua luce. Ma si riferisce anche l’accoglienza e il suo effetto:

«A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali… da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).

L’accoglienza consiste nella fede in Gesù che è il Cristo e il Figlio di Dio (cf. Gv 20,31; 1Gv 5,13). A coloro che credono Gesù dona questo nuovo rapporto con Dio che essi sono figli di Dio, hanno Dio come loro Padre (cf. 11,52; 1Gv 3,1.2.10; 5,12). Sia la testimonianza di Giovanni sia ciò che il prologo dice sul Verbo incarnato, afferma che la luce proveniente da Gesù rivela e fa vedere il nuovo rapporto degli uomini credenti con Dio. Essi ricevono un rischiaramento totale e completamente positivo della loro situa- zione. Continuando, il prologo poi dice:

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14).

Qui non si parla più di luce ma di gloria, questa gloria però viene vista e contemplata; essa è quasi più di luce o è luce di uno splendore abbagliante. Questo splendore fa vedere in una luce di estrema intensità che il Verbo incarnato è il Figlio unigenito di Dio attraverso il quale si rivela lo stesso 50 Klemens Stock

Dio Padre nella sua grazia e verità. Il che viene ribadito dalla conclusione del prologo che dice: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Prima dell’in- carnazione del Verbo divino mancava la luce per vedere e conoscere Dio in un modo appropriato. Solo il Figlio unigenito che è Dio (uguale a Dio) ed è nel seno del Padre (vive nella più intima familiarità con lui) ha tutte le quali- tà per essere la luce e per rivelare Dio Padre nella sua vera realtà. Il compito primario di Gesù luce è quello di far vedere Dio nella sua vera realtà.

1.2. Il dialogo con Nicodemo: la luce e l’agire

Gli altri passi del Vangelo di Giovanni ribadiscono e concretizzano ciò che il prologo ha detto con tanta insistenza su Gesù come luce per gli uomi- ni. Nel suo colloquio con Nicodemo (Gv 3,1-21) Gesù dice:

«E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,14-16).

Gesù rivela qui l’amore smisurato di Dio per gli uomini peccatori, amo- re che non esclude la consegna del Figlio unigenito (cf. Rm 8,32). Innalzato sulla croce Gesù è il segno e la causa della salvezza per coloro che credono in lui. Gli altri, invece, che non credono sono esclusi dalla salvezza (Gv 3,18). In questo contesto Gesù continua:

«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengono riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,19-21).

Abbiamo in questo brano la più numerosa ricorrenza della parola «luce»; Gesù ne parla ben cinque volte. La luce che è venuta nel mondo è qui, in modo più specifico, Gesù crocifisso, rivelazione dell’infinito amore di Dio verso gli uomini peccatori. Chi vuol venire a questa luce deve adattare le proprie opere ad essa, deve agire con lo stesso amore. Invece, chi vuol continuare nelle sue opere malvagie non può esporsi a questa luce e prefe- risce rimanere nelle tenebre. Questo rapporto fra l’accoglienza della luce e Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento 51 il proprio agire viene esposto in 1Gv 1,5-7 e in altri passi di questa lettera. Si manifesta qui come questa luce è luce per l’agire dei fedeli e come vuol determinarlo in modo incisivo.

1.3. Una discussione con i farisei: la luce del mondo

In una discussione con i farisei (Gv 8,12-20) Gesù dice:

«Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).

Egli pretende di essere la luce del mondo, la luce di tutti gli uomini senza nessuna eccezione, la luce degli uomini che sono peccatori e si trovano nelle tenebre, non conoscendo il senso della loro vita neanche il cammino giusto che è da percorrere. Gesù invita tutto il mondo a seguirlo, ad accettar- lo come la sua luce e Gesù promette che colui che lo segue, camminerà nella luce. Questa luce è la luce della vita, non solo illumina la vita di coloro che lo seguono, ma è per loro la vita e li conduce nella vita e alla vita. La sua af- fermazione Gesù la giustifica mediante il suo rapporto con Dio Padre e dice: «So da dove sono venuto e dove vado» (Gv 8,14) e «Non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato» (Gv 8,16). Vogliamo solamente accennare al fatto che questo detto di Gesù fa parte di sette tali detti; il gruppo comincia con la rivelazione «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35) e termina con «Io sono la vite vera» (Gv 15,1). In queste parole Gesù si riferisce a delle realtà fondamentali per la vita umana ed esprime così qual è il significato della sua persona per il rapporto dell’umanità intera con Dio, per la sua vera vita. Prima di guarire un uomo che è cieco dalla nascita, Gesù riprende la sua parola e dice: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,5). Tutta la controversia fra il cieco guarito e i farisei se Gesù, il guaritore, sia un peccatore o venga da Dio, mostra come Gesù diventa luce o tenebra per gli uomini (Gv 9,8-38). Concludendo dice lo stesso Gesù:

«È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9,39).

1.4. L’ultimo appello di Gesù alla folla: credere nella luce

Verso la fine della sua attività pubblica Gesù si presenta ancora due volte come la luce. Il prologo (Gv 1,1-18) e questa conclusione (Gv 12,35- 52 Klemens Stock

50) mostrano una simile insistenza su questo aspetto della persona e della missione di Gesù. Alla folla Gesù ha detto: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me», indicando il modo della sua morte (Gv 12,32-33). La folla, riferendosi alla legge, dalla quale ha appreso «che il Cristo rimane in eterno» (Gv 12,34) mette in dubbio l’affermazione di Gesù. Rispondendo loro Gesù insiste sulla vicinanza della sua morte e sul significato della sua presenza fra di loro:

«Ancora per poco tempo la luce è tra voi. Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce» (Gv 12,35-36).

Queste sono le ultime parole che Gesù rivolge alla folla; poi se ne va e si nasconde. Esse contengono due esortazioni: «Camminate mentre avete la luce» e «Mentre avete la luce, credete nella luce». Si mette in rilievo che Gesù come Verbo divino incarnato, nella sua esistenza umana, mentre si tro- va fra gli uomini è la luce. Devono camminare nella luce che proviene da lui per orientarsi giustamente. Devono, e questa è la vera base, credere in Gesù in quanto è la luce per diventare così figli della luce. Come tali appartengo- no a Gesù secondo la loro intima natura, sono pienamente da lui illuminati, determinati, guidati. Quest’ultimo ammonimento di Gesù alla folla contiene due tratti singolari. Normalmente Gesù parla del credere nella sua persona, qui parla del credere nella luce, quasi identifica se stesso con la luce e mette in rilievo, in modo speciale, il suo essere luce; questo non accade con nessu- na delle altre realtà (pane, vita, ecc.). Poi parla della necessità di diventare «figli della luce» (hyioi photos); l’espressione è singolare e paragonabile solo a «figli di Dio» (Gv 1,13; 11,52: tekna theou). Questo può sottolineare la particolare necessità di vivere nella più intima comunione con Gesù in quan- to egli è la luce. Ambedue i tratti singolari di quest’ultimo ammonimento di Gesù evidenziano la particolare presentazione di Gesù come luce nel Van- gelo di Giovanni.

1.5. La sintesi conclusiva: la luce e l’unione con il Padre

Giovanni termina il suo rapporto sull’attività pubblica di Gesù con una riflessione sull’incredulità degli ascoltatori (Gv 12,37-43) e con una sintesi conclusiva nella quale parla ancora lo stesso Gesù (Gv 12,44-50). L’evan- Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento 53 gelista non menziona il pubblico delle parole di Gesù e sembra concepirlo come illimitato; dice, poi, introducendo il brano, «Gesù allora gridò» (Gv 12,44; solo ancora Gv 7,28.37) e sottolinea l’urgenza e l’intensità del parlare di Gesù. Egli dice all’inizio:

«Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,44-46).

Dapprima Gesù ribadisce la sua perfetta unione con Dio Padre. Questa è la ragione perché la sua venuta nel mondo è la venuta della luce e perché la fede nella sua persona significa l’entrata nella luce splendida e il supera- mento delle tenebre.

1.6. Conclusione

Nella ricerca dei passi giovannei che parlano di Gesù che è la luce, ab- biamo trovato diversi aspetti di questo fatto. Qui, alla fine, incontriamo an- cora il dato fondamentale, la perfetta unione cioè di Gesù con Dio Padre. A causa di questo fatto Gesù è la luce del mondo. Si tratta del mondo che non conosce Dio e si trova nelle tenebre a causa del suo peccato, a causa della sua opposizione a Dio. Come la luce del mondo Gesù fa conoscere Dio nella sua vera realtà di Padre e fa conoscere anche l’amore smisurato come atteg- giamento fondamentale di Dio verso il mondo. La stessa persona di Gesù in quanto Figlio di Dio e Agnello di Dio rivela attraverso se stessa queste caratteristiche di Dio. Perciò l’essere proprio di Gesù e il suo essere la luce su Dio per il mondo sono identici. Inoltre, rivelando Dio e il suo rapporto con il mondo Gesù rivela allo stesso tempo qual è il giusto comportamento degli uomini. Decisivo è per essi la loro accoglienza di Gesù, la loro fede nel- la luce; solo credendo diventano beneficiari della luce che è Gesù; altrimenti rimangono nelle tenebre.

2. La prima lettera di Giovanni Nell’introduzione (1,1-4) l’autore si presenta come membro di una comunità («noi») e parla della molteplice esperienza immediata che essi hanno avuto con il «Verbo della vita», con «il Figlio di Dio, Gesù Cri- sto». Poi dice: 54 Klemens Stock

«Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (1,5).

Il Vangelo di Giovanni presenta sempre Gesù come la luce, sia nelle pa- role di Gesù sia nelle affermazioni su Gesù. Nella prima lettera, invece, suo- na il primo e principale messaggio: «Dio è luce». Si precisa però sin dall’ini- zio che si tratta del «messaggio che abbiamo udito da lui», e Gesù ne viene indicato come la fonte. Questa conoscenza di Dio proviene da lui. Così egli viene implicitamente qualificato come la luce che fa vedere e conoscere che Dio è luce. Perciò non c’è una differenza fra il Vangelo di Giovanni e la pri- ma lettera di Giovanni riguardo al ruolo di Gesù per la conoscenza di Dio. Dal fatto che Dio è luce si trae subito una conseguenza per l’agire umano:

«Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il san- gue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (1,6-7).

Solo colui che cammina nella luce ha comunione con Dio che è luce, ed è beneficiario dell’opera salvatrice del Figlio di Dio, Gesù. L’essere luce di Dio è direttamente la norma per l’agire degli uomini ed esige il loro cam- minare nella luce. Un passo seguente che parla di nuovo della luce, rende perfettamente chiaro cosa significa «camminare nella luce». Si espone:

«Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo» (2,9-10).

«Camminare nella luce» significa dunque «amare il fratello». Senza que- sto comportamento la comunione con Dio e con il suo Figlio non è possibile. Al messaggio «Dio è luce» corrisponde nella stessa lettera l’affermazio- ne «Dio è amore» (4,8.16). Anche con questa affermazione è immediata- mente connessa la conseguenza pratica in quanto si dice: «Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore» (4,8) e «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (4,16). Sono due i punti che la lettera mette in rilievo: il rapporto fra luce e amore e il rapporto fra l’essere di Dio e il camminare giusto degli uomini. Ambedue gli aspetti erano già chiaramente presenti nel colloquio di Gesù con Nicodemo (Gv 3,14-21). Gesù come luce rivela specialmente l’amore Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento 55 infinito di Dio al mondo (Gv 3,16). E solo colui che ama può essere nella luce e avere comunione con Dio mentre colui che odia rimane nelle tenebre o si esclude dalla comunione con Dio (Gv 3,19-21).

3. I Vangeli di Matteo e Luca Matteo dice in 4,13-16:

«Lasciò Nazaret e andò ad abitare a Cafarnao, sulla riva del mare, nel terri- torio di Zabulon e di Neftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Terra di Zabulon e terra di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

Riferendo il trasferimento di Gesù da Nazaret a Cafarnao Matteo segna- la il centro e l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Collega e spiega questo avvenimento con una sua citazione di compimento presa dal profeta Isaia. Seguono ancora due altre citazioni di Isaia (Mt 8,17 = Is 53,4; Mt 12,17-21 = Is 42,1-4) per commentare l’attività pubblica di Gesù. Citando Is 8,23-9,1 Matteo qualifica il trasferimento di Gesù a Cafarnao e la sua seguente attività pubblica come adempimento del piano salvifico di Dio e caratterizza tutta questa attività come la comparsa di una grande luce che fa sparire le tenebre e fa uscire dall’ombra di morte. Mediante questo brano Matteo comunica in modo programmatico come egli intende tutta l’attività pubblica di Gesù: Dio, fedele alle sue promesse, dona al suo popolo una grande luce che è destinata anche per le genti (cf. «Galilea delle genti»; Mt 28,16-20) e le cui particolarità si manifestano attraverso tutta l’attività di Gesù. Gesù parla solo indirettamente di se stesso quando dice agli ascoltatori del discorso sulla montagna:

«Voi siete la luce del mondo… Così risplenda la vostra luce davanti agli uo- mini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14.16).

Come il suo parallelo: «Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13) questo detto si trova solo nel Vangelo di Matteo. Ovvia è la somiglianza con l’au- todefinizione di Gesù: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12) della quale ci siamo già occupati. È il compito della luce: far vedere. Così gli ascoltatori di 56 Klemens Stock

Gesù hanno una missione universale di far vedere. E Gesù precisa chiara- mente i mezzi mediante i quali devono far vedere: le loro opere buone (in- segnate in tutto il discorso della montagna), e anche “l’oggetto” che devono far vedere: il loro Padre che è nei cieli. Gesù quindi attribuisce loro questa missione universale: mediante il loro agire devono condurre gli uomini a una tale (profonda e gioiosa) conoscenza di Dio come il loro Padre cosicché tutti lo glorifichino. Si intende da sé che questa missione degli ascoltatori di Gesù presuppone la missione e l’agire dello stesso Gesù: tutta la conoscenza del Padre dipende dalla rivelazione che ha portato il Figlio. Infatti, Gesù dice: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vuol rivelarlo» (Mt 11,27). Di nuovo, la rivelazione di Dio come Padre è al centro dell’opera di Gesù e la caratterizza in modo esclusivo. Due punti appaiono come propri di Matteo. Egli presenta Gesù in tutta la sua attività come grande luce data da Dio come adempimento delle sue promesse. Ed egli sottolinea il compito missionario degli ascoltatori di Gesù di essere la luce del mondo, di far conoscere cioè a tutti gli uomini il Padre rivelato loro da Gesù mediante le opere insegnate loro da Gesù. Nella mis- sione degli ascoltatori si mostra come Gesù è la grande luce, come ogni luce proviene da lui. Il Vangelo di Luca già in occasione della nascita di Gesù ne indica il compito e il significato. L’angelo del Signore annuncia ai pastori: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). Simeone al quale lo Spirito Santo aveva promesso di vedere «il Cristo del Signore» (Lc 2,26) sembra farsi eco di tale annuncio quando, tenendo nelle sue braccia il bambino Gesù dice:

«I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,30- 32).

L’angelo annuncia «un Salvatore»; Simeone parla della «salvezza» che Dio ha preparato e la qualifica come «luce per illuminare le genti». I parti- colari sono ancora poco determinati. Ma Gesù, proprio da Salvatore, viene presentato come luce per le genti e come gloria per Israele. Questa presen- tazione ha un carattere complessivo, programmatico. La qualificazione di Gesù e della sua opera salvatrice come luce non manca nel Vangelo di Luca, benché sia meno sviluppata che non nel Vangelo di Matteo. Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento 57

4. Alcuni altri autori del Nuovo Testamento Non è nostra intenzione essere completi, ma vogliamo indicare solo qualche esempio e mostrare che anche altri autori, con sfumature diverse, parlano della luce. Paolo scrive ai Tessalonicesi: «Siete tutti figli della luce e figli del gior- no» (1Ts 5,5). Qui sembra trattarsi di una caratterizzazione genericamente positiva dei cristiani che non è basata su concezioni più precise. Più esplicita è la parola di Pietro che dice:

«Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquis- tato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).

Pietro attribuisce ai cristiani le caratteristiche classiche del popolo elet- to e descrive poi la loro conversione dal paganesimo (cf. 1Pt 4,3) alla fede cristiana come passaggio dalle tenebre alla luce. Si tratta però della «sua luce meravigliosa». L’affermazione non viene ulteriormente sviluppata ma parla della luce che proviene da Dio stesso e lo circondò ed è meravigliosa. Chi accetta la chiamata di Dio entra nel suo ambiente luminoso. In 1Tm 6,16 si dice di Dio: «Abita una luce inaccessibile». Come ultimo esempio menzio- niamo Ef 5,8-9:

«Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi come fi- gli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità».

Il loro stato prima della conversione viene qualificato come tenebra, dopo come luce. Questa luce però non è la loro prestazione ma proviene dal Signore ed è dovuta alla loro comunione con il Signore. Si aggiunge subito che il loro comportamento deve corrispondere allo stato in cui sono entrati, alla loro comunione con il Signore. Questi esempi che del resto possono essere solamente poco moltiplicati, mostrano che anche altri scritti del Nuovo Testamento parlano della luce, ma mostrano anche una rilevanza ridotta di questo linguaggio.

5. Conclusione Abbiamo dato dopo ogni paragrafo un breve riassunto. Non vogliamo ripeterli ma finire con due osservazioni conclusive. 58 Klemens Stock

1) Proprio lo studio del resto del Nuovo Testamento mostra la singolare posizione del Vangelo e della prima lettera di Giovanni. Parlano della luce in un modo unicamente ricco, profondo, affascinante per comunicare il loro messaggio. Mostrano un particolare interesse nella chiarezza, trasparenza, luminosità, nel comprendere e intendere, quando espongono la persona e l’opera di Gesù e la situazione degli uomini che ne deriva. Una parte essen- ziale mancherebbe al loro messaggio senza i brani che parlano della luce. 2) Una viva, intensa, acuta sensibilità per la luce naturale, per la sua utilità e bellezza, sembra essere un grande aiuto per capire meglio ciò che dicono i testi giovannei su Gesù e su Dio. A noi che viviamo quasi continua- mente con luce artificiale manca spesso una vera esperienza della tenebra e della luce. Illuminante può essere Il cantico delle creature di san Francesco d’Assisi che dice nella prima strofa:

«Laudato sii, o mio Signore, per tutte le creature, specialmente per messer Frate Sole, il quale porta il giorno che ci illumina ed esso è bello e raggiante con grande splendore: di te, Altissimo, porta significazione».

Sintesi Fra gli scritti del Nuovo Testamento una posizione singolare compete al Vangelo e alla prima lettera di Giovanni riguardo alla presentazione di Gesù Cristo come luce del mondo. Gesù attraverso il suo stesso essere come Figlio di Dio e Agnello di Dio è luce, fa vedere cioè Dio come Padre nel suo amore smisurato verso il mondo peccatore, e manifesta nell’amore il cammino luminoso e giusto per l’agire umano. Introducendo l’attività di Gesù Matteo lo qualifica come «grande luce» (4,16), mentre Gesù assegna ai suoi ascoltatori la missione universale di essere «la luce del mondo» (5,14). IL DISCORSO DELL’AREOPAGO E L’UNIVERSALITà DELLA VERITà ALLA LUCE DELLA FEDE nel contesto della teologia sapienziale dei Padri della Chiesa

Enrico dal Covolo, s.d.b.

path 9 (2010) 59-78

Io sono la luce del mondo… Io sono la via e la verità e la vita (Giovanni 9,5. 14,6).

Queste parole di solenne rivelazione rappresentano l’ampia cornice cri- stologica della nostra riflessione. Il punto di partenza sarà – ancora una volta –1 il celebre discorso di Paolo all’Areopago. Seguirà una prima parte dell’esposizione, in cui affron- teremo varie questioni sui rapporti tra la fede e la ragione nella teologia sapienziale dei primi tre secoli cristiani: tali considerazioni intendono illu- strare soprattutto il metodo impiegato dai nostri Padri nella ricerca della verità2. Nella seconda parte, infine, addurremo un paio di esempi sul piano dei contenuti: vedremo che – prima e dopo Nicea, in Oriente come in Occi- dente – l’itinerario teologico dei Padri rimane sempre orientato a dimostrare che Gesù Cristo è la Luce del mondo, la Verità ultima, definitiva e universale su Dio e sull’uomo.

1 Cf. E. DAL COVOLO, Logos e Fides tra Atene e gli Areopaghi del terzo millennio, in M. SODI – P. O’CALLAGHAN (edd.), Paolo di Tarso tra kerygma, cultus e vita (= Pontificia Aca- demia Theologica. Itineraria, 3), Città del Vaticano 2009, pp. 23-33. 2 Per quanto riguarda il metodo teologico dei Padri, si può vedere A. DI BERARDINO – B. STUDER (edd.), Storia della teologia, 1. Età patristica, Casale Monferrato 1993, specialmente il contributo di E. OSBORN, La teologia antignostica di Ireneo e Ippolito, pp. 145-177, con bibliografia. 60 Enrico dal Covolo

La nostra riflessione resta illuminata, in buona sostanza, dall’Encliclica Fides et Ratio3 di Giovanni Paolo II, in particolare dai numeri 36-42 del ca- pitolo IV, là dove vengono illustrate le tappe più significative dell’incontro tra la fede e la ragione, in vista del conseguimento della verità4. Il discorso di Paolo all’Areopago – da cui Giovanni Paolo II iniziava la sua rivisitazione storica – rappresenta per molti aspetti la prima «occasione ufficiale» dell’incontro tra fides e logos, cioè tra il cristianesimo e le correnti filosofiche del tempo5. Si tratta, come è noto, di un discorso dotto, assai curato, infarcito di ri- ferimenti alla cultura e alla filosofia contemporanea, in modo particolare alla tradizione eclettica platonica e stoica. Vi si rintraccia una citazione diretta di Arato di Soli, e – fra le altre reminiscenze classiche – è evidente il riferimento all’Inno a Zeus di Cleante. Ma l’esito di questo discorso fu deludente, per cui si parla di solito del «fallimento di Paolo all’Areopago»: «Ti sentiremo un’altra volta», commen- tarono ironici e scettici gli Ate­niesi, voltando le spalle all’oratore. Da Atene – stando sempre al racconto degli Atti – Paolo raggiunse Co- rinto. Ma qui, rispetto ad Atene, il suo argomentare manifesta caratteristiche differenti. Nella comunità cristiana di Corinto, infatti, Paolo avvertiva un grave pericolo: quello che il Vangelo venisse scambiato con la sapienza del mondo, con una «filosofia» dell’ambiente. Ebbene, secondo Paolo concepire il Vangelo come una delle tante filo- sofie significa anzitutto introdurre il germe della divisione nella comunità, perché il «lieto annuncio», una volta ridotto a sapienza umana, rimane aggan- ciato alle argomentazioni più o meno controverse dei filosofi. Ma soprattutto il Vangelo non è più l’annuncio della salvezza che viene da Cristo, ma di una

3 GIOVANNI PAOLO II, Fides et Ratio, «Acta Apostolicae Sedis» 91 (1999), pp. 5-88 (d’ora in poi FR). Vedi al riguardo un mio studio precedente: Fides et Ratio: l’itinerario dei primi secoli cristiani, in M. MANTOVANI – S. THURUTHIYILL – M. TOSO (edd.), Fede e ragione. Opposizione, composizione? (= Biblioteca di Scienze Religiose, 148), Roma 1999, pp. 37-44 (anche in «Ricerche Teologiche» 10 [1999], pp. 297-304). Vedi infine E. DAL COVOLO, Me- tafisica e rivelazione. L’itinerario dei primi tre secoli cristiani, «PATH» 5 (2006), pp. 313-325; ID,, L’incontro tra fede e logos durante l’età patristica (secc. I-III), «PATH» 7 (2008), pp. 87-97. 4 FR, pp. 33-38. 5 Cf. Atti degli Apostoli 17,22-31. «Per il luogo dove si svolge», osserva R. Cantalamessa, e per il prestigio dell’uomo che lo pronuncia, il discorso «ha qualcosa di emblematico e di uf- ficiale»: R. CANTALAMESSA, Cristianesimo primitivo e filosofia greca, in Id. (ed.), Il cristianesimo e le filosofie (= Scienze Religiose, 1), Milano 1971, pp. 27-28. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 61 salvezza che viene dagli uomini. Così la croce di Cristo è svuotata. Per questo Paolo proclama con forza: «Poiché il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, stoltezza per i pagani, potenza di Dio e sapienza di Dio»6. È urgente, a questo punto, chiarire un possibile equivoco. Le affermazioni di Paolo (Fides et Ratio cita in particolare la Lettera ai Colossesi 2,8: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana...») non si oppongono alla possibilità di una vera sapienza cristiana, di una fede e di una teologia matura. Ma questo lavoro teologico, secondo il pensiero dell’Apostolo, non consiste nel tentativo più o meno larvato di sostituire il mistero di Dio con la sapienza del mondo, bensì nell’impegno di accogliere il mistero di Dio. Questi sono i «perfetti»: quelli che capiscono la stoltezza della croce, e ne fanno il criterio fondamentale della loro vita. In ogni caso, già qui appare evidente che l’incontro del logos con la fides «non fu immediato né facile»7. Così il discorso di Paolo all’Areopago rimane a prima vista un episodio isolato, almeno in quella fase di maturazione e di avvio della nuova religione che, nella storia letteraria, prende il nome di Scritti o Padri apostolici: Cle- mente Romano, il Pastore di Erma, le Lettere di Ignazio, di Policarpo e dello Pseudobarnaba...8 A questo riguardo, tuttavia, conviene affacciare una domanda apparen- temente banale, ma che in realtà costringe ad approfondire la questione dei rapporti tra la fede e la ragione alle origini della Chiesa, mentre accompagna la lettura dei nn. 36-37 dell’Encicli­ca: quando inizia la teologia cristiana?9 Non è facile rispondere a questa domanda.

6 Cfr. 1 Corinzi 1,21-24. 7 FR, n. 38, p. 35. 8 Per un’introduzione a questi Scritti e una bibliografia aggiorna­ta, vedi per esempio G. BOSIO - E. DAL COVOLO - M. MARITANO, In­troduzione ai Padri della Chiesa. Secoli I-II (= Strumenti della Corona Patrum, 1), Torino 51998, pp. 54-154. 9 Sulla questione vedi più ampiamente E. DAL COVOLO, Storia della Teologia, 1. Dalle ori- gini a Bernardo di Chiaravalle, Bologna-Roma 1995, pp. 517-523 (bibliografia disseminata, cui aggiungo E. OSBORN, The Emergence of Christian Theology, Cambridge 1993 [bi­bliografia, e e pp. 314-328]; H.D. SAFFREY, Les débuts de la théolo­gie comme science (III -VI siècle), «Revue des Sciences philo­sophiques et théologiques» 80 [1996], pp. 201-220). 62 Enrico dal Covolo

Si pensi anzitutto alla diffidenza dei primi cristiani verso il termine the- ologhía, ai loro occhi talmente compromesso con il culto degli dèi, che an- cora alla fine del II secolo Melitone pre­feriva riferirsi al cristianesimo come philosophía piuttosto che theologhía: «La nostra philosophía sbocciò tra i barbari»10, esor­disce il vescovo di Sardi in un celebre frammento della per- duta Apologia. E anche senza seguire le posizioni estreme di chi co­mincia la storia della teologia saltando a piè pari l’età patri­stica, bisogna riconoscere che gli inizi speculativamente più ri­levanti vanno cercati ai margini dell’isti- tuzione, se è vero che «gli gnostici furono i maîtres-à-penser del cristianesimo di quell’epoca, sia sotto l’aspetto teologico sia sotto l’aspetto esegetico»11. Per impostare la questione in modo soddisfacente, occorre precisare l’acce- zione di «teologia» a cui facciamo riferimento. Se non ci si riconduce pregiudi- zialmente a un concetto di teologia dotta, «scientifica», e comunque posteriore al periodo del Nuovo Testamento, allora si può affermare che la teologia cri- stiana nasce con il cristianesimo stesso, non dopo il Nuovo Testamento e l’età apostolica. Di fatto kérygma originario ed elaborazione teologica ap­paiono in- separabilmente intrecciati negli scritti canonici del Nuovo Testamento, fin dal corpus paulinum, come del resto negli apocrifi più antichi e nei Padri apostolici. Così il «teologico» non è aggiunto o giustapposto al «kerygmatico», ma è inter- no ad esso, di modo che non vi è frattura tra rivelazione e teologia12.

1. fede e ragione nella teologia sapienziale dei primi tre secoli cristiani: questioni di metodo nella ricerca della verità 1.1. Cristianesimo antico e filosofia13

Fin dalle origini gli scrittori cristiani – se­guendo l’illustre precedente di Paolo all’Areopago – non esitarono a utilizzare le categorie e i metodi della

10 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica 4,26,7, ed. G. BARDY, SC 31, Paris 1952, p. 210. Se dob- biamo credere a Taziano, i pagani del II se­colo riconoscevano che Taziano stesso propo- neva le dottrine dei barbari (tà barbáron dógmata) meglio dei Greci e di tanti altri filosofi: cf. TAZIANO, Discorso ai Greci 35,15-17, ed. M. MARCO­VICH, Patristische Texte und Studien 43, Berlin - New York 1995, p. 66. 11 M. SIMONETTI, Un’intervista, «Ricerche Teologiche» 1 (1991), p. 142. 12 Cfr. G. VISONA’, La prima teologia cristiana: dal Nuovo Testamen­to ai Padri apostolici, in E. dAL COVOLO, Storia della Teolo­gia..., pp. 23-44 (nota bibliografica, pp. 42-44). 13 Rinvio, anche per ulteriore documentazione, a un altro mio saggio: Tra cristianesimo e filosofia. Argomentazioni patristiche sulla verità, «Filosofia e Teologia» 16 (2002), pp. 481-494. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 63 filosofia greca14. Ma quale filosofia? Se infatti l’autodefinizione del cristiane- simo come philosophía richiedeva necessariamente di entrare nella circola- zione di idee del dibattito filosofico già da secoli in atto – quale, in ispecie, la dottrina del logos –, occorreva però esercitare un attento discernimento (chrésis) tra ciò che si poteva o meno accettare. Esclusi gli indirizzi epicureo e peripatetico a causa della negazione della provvidenza, e a maggior ragione quelli scettico e cinico, non restavano che gli orientamenti «metafisici» del platonismo15: come afferma Clemente Ales- sandrino, l’unica filosofia da accettare «è quella di cui parla Socrate presso Platone»16. Scrive Raniero Cantalamessa in un lucido saggio su Cristia­nesimo pri- mitivo e cultura greca: «I primi tre secoli vedono im­pegnati nel dialogo due mondi ancora entrambi vivi e autonomi, mentre più tardi, dopo la pace co- stantiniana, il paganesimo con la sua filosofia tenderà sempre più a diventare un fatto di so­pravvivenza culturale»17. Questo giudizio complessivo – no- nostante susciti, e lo stes­so autore ne è consapevole, molti interrogativi e istanze di pun­tualizzazione ulteriore – individua un arco cronologico ben defi­nito per riflettere sui nn. 38-39 dell’Enciclica18, cioè sul pri­mo «incontro del cristianesimo con la filosofia». Di fatto i pri­mi tre secoli segnano il tempo di costruzione faticosa di un’i­dentità culturale complessa del cristianesimo, in cui la primaria istanza religiosa ed esistenziale viene progressivamente struttu­rata nelle categorie filosofiche e linguistiche della cultura ellenistica­ imperiale. Inoltre la periodizzazione evocata da Cantalamessa ci esime da una va- lutazione globale del rapporto tra platonismo e cristia­nesimo, poiché solo nel quarto secolo si manifesta appieno la fa­cies platonica del cristianesimo:

Vedi anche Argomentazioni patristiche sulla verità. «Ego sum via et veritas» (cf. Gv 14,6) in Origene e in Agostino, in A. PASSONI DELL’ACQUA (ed.), «Il vostro frutto rimanga». Miscellanea per il LXX compleanno di Giuseppe Ghiberti (Associazione Biblica Italiana. Supplementi alla Rivista Biblica, 46), Bologna 2005, pp. 309-321. 14 Vedi più ampiamente M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca (= Cultura cristiana antica), Roma 1983. 15 È importante al riguardo S. Lilla, Introduzione al Medio platonismo (= Sussidi Pa- tristici, 6), Roma 1992. 16 CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata 1,19,92,3, edd. C. MONDÉSERT – M. CASTER, SC 30, Paris 1951, p. 118. Sono però apprezzati anche gli stoici per le loro dottrine morali. 17 R. CANTALAMESSA, Cristianesimo primitivo e filosofia..., p. 27. 18 FR, pp. 34-36. 64 Enrico dal Covolo com’è noto, tale rapporto se­gnerebbe – o segna, a seconda delle diverse posizioni critiche assunte dagli storici – un’inculturazione permanente del cristia­nesimo nella forma platonica. Da parte sua, l’Enciclica affronta questo problema alcune pagine più avanti, nel n. 72 del capitolo VI. «Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca», ammette Giovanni Paolo II, «non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contat­to con aree culturali rimaste finora al di fuori dell’ambito di irra- diazione del cristianesimo, nuovi compiti si aprono all’in­culturazione». Così «problemi analoghi a quelli che la Chiesa do­vette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra genera­zione». D’altra parte, però, «quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiun- te, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità», conclu­de decisamente il Papa, «sarebbe andare contro il disegno provvi­denziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia»19. In qualche modo, perciò, la metodologia dell’incontro tra il cristianesimo e la filosofia – inau- gurata da Paolo all’Areopago, e proseguita nei primi secoli cristiani – viene considerata «paradigmatica» per le forme successive di in­culturazione del messaggio evangelico, lungo tutta la storia del­la Chiesa. Ma – per tornare ai primi tre secoli – la questione fonda­mentale da risol- vere, per consentire un «dialogo a tutto campo» tra cristianesimo e cultura classica, era quella di fondare e giustificare il ricorso alla filosofia pagana: e non era certo un problema facile. A prima vista, infatti, il dialogo tra la novi- tas cristiana e una filosofia, che comportava pur sempre l’ossequio alla reli­ gione olimpica, poteva sembrare improponibile. Così, fin dai primi tempi, si riscontrarono, in seno al cristianesimo, due atteggiamenti diversi: quello dell’accettazione, ma anche quello del rifiuto. Quello di un totale rifiuto, almeno apparente, ha la sua espressione più evidente in alcuni rappresentanti del cristianesimo africano e siriaco (come Tertulliano, almeno per alcuni suoi scritti, e Taziano), cioè di due aree estre- me del mondo ellenizzato. Tertulliano, in particolare, prorompe in inter- rogativi sdegnati, di cui si fa cenno nell’Enciclica stessa20: «Che cosa c’è di simile tra un fi­losofo e un cristiano, tra un discepolo della Grecia e un disce­

19 FR, n. 72, p. 61. 20 FR, n. 41 e nota 40, p. 37. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 65 polo del cielo?». E ancora: «Che cosa c’è in comune tra Atene e Gerusalem- me? Che cosa tra l’Accademia e la Chiesa? [...] La no­stra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva in­segnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore. Ci pen­sino coloro che hanno inventato un cristianesimo stoico e platonico­ e dialettico»21. L’altro atteggiamento invece fu di grande apertura, di dialogo critico e costruttivo con la filosofia dei Greci. È l’atteggiamento iniziato da Giustino e sviluppato dagli Alessandrini, soprattutto da Clemente. Qui il logos dei Greci non solo non è rifiutato, ma è visto come propedeutico alla fede. Di fatto, i cristiani dei primi secoli giunsero per lo più a legit­timare il ricorso alla filosofia pagana sulla base di una duplice argomentazione. La prima pare a noi (dico a noi, nel nostro orizzonte cultu­rale di oggi, che però non corrisponde a quello degli antichi) insufficiente e di como- do. Stando a questa interpretazione, i Greci avrebbero attinto alcune ve- rità fondamentali dalla Bibbia, che è più antica di Platone (così, sulla scia dell’apologetica giudaico-ellenistica, scrissero Giustino, Clemente e molti altri Apologisti)22. La seconda argomentazione, ben più profonda e originale, è la teoria del Lógos spermatikós di Giustino23. Il suo significato è ben noto: quel Logos, che si è manifestato profeticamente (in figura) agli Ebrei nella Legge, si è manifestato anche parzial­mente sotto forma di semi di verità ai Greci. Ora, conclude Giu­stino, poiché il cristianesimo è la manifestazione storica e per­

21 TERTULLIANO, La prescrizione degli eretici 7,9-11, ed. R.F. RE­FOULÉ, CCL 1, Turnholti 1954, p. 193. 22 È questa la celebre tesi dei furta Graecorum. Cf. al riguardo (dopo gli studi sempre validi di C. Andresen, R. Holte e J.H. Waszink) l’ormai classico A.J. DROGE, Homer or Mo­ses? Early Christian Interpretations of the History of Culture (= Hermeneutische Untersuchungen zur Theologie, 26), Tübingen 1989 (qui soprattutto per le pp. 59-72; bibliografia, pp. 201- 206), nonché I. SANNA, L’argomento apologetico Furta Graecorum, in Problemi attuali di filo- sofia, teologia, diritto. Studi della Pontificia Università Lateranense per il 50° della nuova sede (= Studia Lateranensia, 1), Città del Vaticano 1989, pp. 119-143. 23 Vedi le due monografie, tra loro indipendenti, di G. GIRGENTI, Giustino martire. Il primo cristiano platonico (= Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi, 7), Milano 1995 (bibliogra­fia, pp. 157-162), e di P. MERLO, Liberi per vivere secondo il Logos. Principi e criteri dell’agire morale in san Giustino filo­sofo e martire (= Biblioteca di Scienze Religiose, 111), Roma 1995 (bibliografia, pp. 333-352). 66 Enrico dal Covolo sonale del Lógos nella sua totalità, ne consegue che «tutto ciò che di bello (kalôs) è stato detto da chiunque, appartiene a noi cristiani»24. In questo modo Giustino (come già Paolo), pur contestando alla filo- sofia greca le sue contraddizioni, orienta decisamente al Logos qualunque veritas philosophica, fondando così dal punto di vista razionale la pretesa di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura (týpos) tende alla propria realiz­zazione (alétheia), la verità gre- ca tende anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte (méros) tende a unirsi al tutto. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con confidenza, come a un bene proprio25.

1.2. Una nuova occasione di incontro: la «scuola alessandrina»

Su questi presupposti si realizza tra la fine del II secolo e la prima metà del III una nuova occasione di incontro tra la ragione e la fede, dopo il «fal- limento» dell’Areopago. Ne furono protagonisti Clemente e Origene. Essi sono stati definiti in modo suggestivo «il Giano bifronte della “scuola alessandrina”»26. Clemen- te, infatti, guarda in una direzione cul­minativa del passato, mentre Origene è volto a un futuro diffe­rente (ma nonostante la direzione degli sguardi pro- spettici, la metafora suggerisce anche la continuità e l’omogeneità sostanzia­le tra le due facce scolpite sulla medesima pietra). In partico­lare si può cogliere nei due Alessandrini un modo diverso (e per molti aspetti complementare) di intendere il rapporto tra fides e logos27. Per Clemente la tradizione filoso- fica greca è, al pari della legge per gli Ebrei, ambito di rivelazione, sia pu­re imperfetta, del Logos, che permette all’uomo di raggiungere i «semi» della verità (egli giunge ad affermare che Dio ha dato la filosofia ai Greci «come

24 GIUSTINO, 2 Apologia 13,4, ed. E.J. GOODSPEED, Die ältesten Apo­logeten, Göttingen 1984 (= 1914), p. 88. Cf. C. CORSATO, Alcune «sfide della storia» nel cristianesimo delle origini: Giustino, Cipriano, Gregorio Magno, «Studia Patavina» 42 (1995), pp. 231-251 (soprattutto 231-235: «Giustino e la cultura nel secondo se­colo»). 25 Cf. E. DAL COVOLO, I Padri preniceni davanti alla cultura del loro tempo, «Ricerche Teologiche» 9 (1998), pp. 133-138. 26 M. RIZZI, La scuola alessandrina..., in E. DAL COVOLO, Storia della Teologia..., p. 83. Per il seguito, cfr. ibidem, pp. 84-91. 27 Cf. J. DANIÉLOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica (= Collana di studi religio- si) (ed. francese, Tournai 1961), Bologna 1975, pp. 359-380 («Filosofia e teologia»). Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 67 un testamento loro proprio»)28. Per Ori­gene, invece, la filosofia ha funzio- ne prevalentemente strumenta­le, di attrezzatura concettuale per lo sviluppo dell’indagine teologica ed esegetica, che deve essere sempre verificata alla luce della rivelazione. Inoltre per Origene – a differenza di Clemente – la distin­zione dei gradi della conoscenza teologica non poggia tanto su ragioni intellettuali, quanto invece su ragioni morali e spiri­tuali, su una sorta di tiepidezza nella fede, che impedisce il progresso gnoseologico proprio di una fede intensa. E’ insom- ma la dimensione della «dedizione di fede», della disponibilità alla rivelazio- ne, che caratterizza il cristia­no secondo Origene, e la teologia è dipendente (non causa) ri­spetto ad essa. In ogni caso, tutti e due gli Alessandrini attingono generosamente­ alle categorie filosofiche del loro tempo «per elaborare una prima forma di teo- logia cristiana»29. Si prenda per esempio lo sviluppo dell’idea (di derivazione platonico- stoica) della homóiosis theô (l’«assimilazione a Dio e al divino»). Nella teo- logia alessandrina essa fonda i vari livel­li di conoscenza e di progresso nel- la perfezione della vita cri­stiana, fino alla compiuta assimilazione al divino stesso, frutto del superamento dell’ostacolo della lettera nella Scrittura, del­la carne nella morale, dell’ombra – proiettata dalla realtà crea­ta – nella con- templazione dei «misteri» trascendenti30. Così l’Enciclica Fides et Ratio riconosce il merito singolare di Origene nella storia della teologia: «Tra i primi esempi che si possono incontrare», scrive Giovanni Paolo II a proposito dell’incontro tra filosofia antica e cri- stianesimo, «quello di Origene è certamente­ significativo»31.

28 CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromati 6,8,67,1, ed. P. DESCORTIEUX, SC 446, Paris 1999, p. 196. Cf. al ri­guardo G.M. VIAN, Cristianismo y culturas en la época patrística, in Cristiani- smo y culturas. Problemática de inculturación del mensaje cristiano. Actas del VIII Simposio de Teología Histórica (= Facultas de Teología San Vicente Ferre. Series valentina, 37), Valencia 1995, p. 69. 29 FR, n. 39, p. 36. 30 Cf. E. DAL COVOLO, Conoscenza «razionale» di Dio, contemplazione ed esperienza «mi- stica». Ignazio di Antiochia, Clemente e Orige­ne, in L. PADOVESE, Atti del V Simposio di Tarso su S. Paolo Apo­stolo (= Turchia: la Chiesa e la sua storia, 12), Roma 1998, pp. 237-251; IDEM, Ignazio di Antiochia, Clemente e Origene. Conoscenza “razionale” di Dio, contemplazione ed esperienza “mistica”, «PATH» 7 (2008), pp. 371-388. 31 FR, n. 39, p. 35. Di fatto Origene propone un itinerario spiri­tuale in cui conoscenza «razionale», contemplazione ed esperienza «mistica» di Dio, lungi dal divaricarsi, si compe- 68 Enrico dal Covolo

Bisogna riconoscere infatti che l’intero universo mentale dell’Alessan- drino appare strutturato platonicamente secondo i due livelli della realtà (l’idea e la copia), e che in maniera con­forme a tale strutturazione egli af- fronta i singoli problemi po­sti dall’elaborazione del dato di fede. Non è un caso che la ri­sposta al Discorso vero di Celso, dopo quasi settant’anni, la scriva lo stesso Origene, dimostrando che la fede cristiana pote­va soddisfare le istanze della ragione: il suo Dio è incorporeo al pari di quello di Celso, la lettera del racconto della Genesi risponde alle stesse esigenze dei miti pla- tonici, il Cristo in­carnato (scandalo per il pagano Celso) esorta i cristiani a cono­scerlo in quanto Logos...32

2. Argomentazioni patristiche sulla verità: questioni di contenuto La riflessione svolta fin qui, di necessità alquanto sintetica, lascia intuire l’ampiezza pressoché sconfinata dell’indagine che ci siamo proposti. Finora, infatti, ci siamo occupati soltanto delle varie forme di approccio alla verità, e del discernimento (chrésis) operato dai no­stri Padri nei confronti della filosofia greca33. Ora, per entrare non soltanto nelle questioni di metodo, ma anche nell’oggetto preciso del­la ricerca – cioè per occuparci in modo più com- plessivo della verità come la intendevano i nostri Padri, e per trattarne in maniera plausibile, nei limiti a nostra disposizione –, si impongono alcune scelte precise.

netrano fra loro e vengono proposte continuamente a ogni cristiano, perché cammini sulla via della perfezione. In particolare F. BERTRAND, Mystique de Jésus chez Origène (= Théologie, 23), Paris 1951, ha sottoli­neato lo stretto rapporto che Origene individua tra il progresso spirituale e la graduale scoperta di Cristo e delle sue «denomi­nazioni» (epínoiai): per il cri- stiano esse formano come una mede­sima «scala» nella conoscenza e nell’imitazione del Figlio di Dio. 32 Cf. E. PRINZIVALLI, Incontro e scontro fra «classico» e «cristiano» nei primi tre secoli: aspetti e problemi, «Salesianum» 56 (1994), pp. 543-556. 33 Conviene precisare che fin qui il riferimento è andato solo ai primi tre secoli. Per un’estensione maggiore dell’arco cronologico si può vedere B. STUDER, La teologia nella Chiesa imperiale (300-450), in A. DI BERARDINO - B. STUDER (edd.), Storia della teolo­gia..., pp. 305-507 (bibliografia, pp. 501-507. Vi è citato fra l’altro il fondamentale contributo di C. GNILKA, Chresis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur, 1. Der Begriff des «rechten Gebrauches», Basel - Stuttgart 1984). Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 69

Mi limiterò a riportare un paio di esempi – in qualche modo paradig- matici – del­le argomentazioni patristiche sulla verità. Il riferimento va a due «storici» commenti al Vangelo di Giovanni, là dove Gesù stesso si rivela solennemente he hodòs kaì he alétheia (14,6): preci­samente il Commento di Origene, maestro della tradizione alessandrina, e il Commento di Agosti­no, «caposcuola», in certo senso, della tradizione teologica occidentale.

2.1. Origene, con particolare riferimento al “Commento a Giovanni”

Origene scrisse il Commento a Giovanni in due momenti distinti della sua vita. La prima parte, di cui rimangono un paio di libri, fu stesa ad Alessan- dria verso il 225; della seconda parte, composta a Cesarea dopo il 232, ab- biamo altri sei libri. Benché gravemente mutila, l’opera è giunta nella lingua originale, e rappresenta per noi il più antico commento al Vangelo di Gio- vanni. E’ dunque l’«archetipo» dei commenti giovannei, rispetto a quelli di Cirillo di Alessandria, di Teodoro di Mopsuestia, di Agostino, e rispetto alle Omelie di Giovanni Crisostomo34. Il testo che possediamo si arresta al tredicesimo capitolo del Vangelo (Giovanni 13,33): manca perciò l’esegesi sistematica di Giovanni 14,6 («Io sono la via, la verità e la vita»). Tuttavia l’Alessandrino vi allude una quaran- tina di volte negli otto libri sopravvissuti del suo Commento35. «L’Unigenito è verità», leggiamo nel primo libro, «in quanto contiene, secondo il volere del Padre, con chiarezza assoluta tutta la ragione dell’uni- verso; e ne fa partecipe, in quanto ap­punto è verità, ogni singolo essere,

34 Cf. D. PAZZINI, Giovanni Evangelista (scritti esegetici su), in A. MONACI CASTAGNO (ed.), Origene. Dizionario. La cultura,­ il pensiero, le opere, Roma 2000, pp. 197-200. La biblio- grafia sul Commento origeniano a Giovanni è ancora scarsa. Vedi comunque la nota biblio- grafica curata dallo stesso D. PAZZINI, ibidem, p. 200, a cui però bisogna aggiungere – perché costituisce un avanzamento fondamentale negli studi sul Commento – E. PRINZIVALLI (ed.), Il Commento a Giovanni di Origene: il testo e i suoi contesti. Atti dell’VIII Convegno di Studi del Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina (Roma, 28-30 settembre 2004) (= Collana Biblioteca di Adamantius, 3), Villa Verucchio 2005; si veda inoltre M. MA- RITANO – E. DAL COVOLO (edd.), Commento a Giovanni. Lettura origeniana (= Biblioteca di Scienze Religiose, 198), Roma 2006. 35 La Biblia Patristica registra non meno di 230 occorrenze del versetto nelle opere su- perstiti di Origene: cf. J. ALLENBACH et Al. (edd.), Biblia Patristica. Index des citations et allu- sions bibliques dans la Littérature patristique, 3. Origène, Paris 1980, pp. 340-341. 70 Enrico dal Covolo secondo il suo merito. Qualcuno potrebbe chiedersi se il nostro Salvatore conosca tutto ciò che è conosciuto dal Padre secondo la profondità della sua ricchezza, della sua scienza e della sua conoscenza, e quindi, nell’intento di glorificare il Padre, potrebbe af­fermare che alcune cose, note al Padre, sono ignorate dal Figlio. [...] Occorre correggere costui partendo dal fatto che il Salvatore è verità, e argomentare che, se la verità è totale, egli non igno­ra nulla di ciò che è vero. [... Alla vita del Salvatore] attingono i partecipi di Cristo, i quali perciò vivono la vita vera, mentre quelli che vivono apparente- mente fuori di lui mancano della luce vera e quindi della vera vita»36. Questa partecipazione dei fedeli a Cristo, e la loro coerente partecipa- zione alla verità, sono temi ricorrenti nel Commento. Leggiamo per esempio nel ventesimo libro: «Vale la pena di chie­derci che valore abbiano le parole: “La verità non è in lui” (Giovanni 8,44), se esse cioè vogliano dire che questi non partecipa a Cristo, a differenza di chi, partecipando a Cristo, partecipa a colui che dichiara: “Io sono la verità”. Infatti quelli che partecipano a lui, ne sono partecipi anche in quanto è verità, e quindi in loro c’è la verità».37 La dottrina della verità è ripresa e sviluppata nel sesto libro. Leggiamo: «Poiché i generosi soldati di Cristo devono munirsi di tutto punto per com- battere in favore della verità, senza la sciare la minima possibilità alla sedu- zione dell’errore, esaminiamo bene. [...] Se è Gesù a dire: “Io sono la verità”, come può ancora essere che la verità sia stata fatta per mezzo di lui [“per mezzo del quale tutto fu fatto” (Giovanni 1,3)]? Nessuno infatti può essere fatto per mezzo di sé stesso. Occorre dunque intendere in questo modo: la Verità-in-sé, la Verità sostanziale, quella che è per così dire “il prototipo della verità” che si trova nelle anime dotate di Logos, quella Verità le cui im- magini si imprimono in coloro che meditano sulla verità, non è stata fatta né per mezzo di Ge­sù Cristo né di altri, ma è stata fatta direttamente da Dio». Precisamente in questo senso il Logos – che afferma: «Io sono la verità» – si identifica con la verità che viene da Dio. «Invece la verità che è presso gli uomini è stata fatta per mezzo di Gesù Cristo: per esempio, la verità che era in Paolo e negli apostoli è stata fatta per mezzo di Gesù Cristo. Nessuna

36 ORIGENE, Commento a Giovanni 1,186-188, ed. C. BLANC, SC 120, Paris 1966, pp. 152-154. Salvo lievi ritocchi, utilizzo qui e altrove la traduzione di E. CORSINI, Commento al Vangelo di Giovanni di Origene (= Classici della Filosofia), Torino 1995 (= 1968). 37 ORIGENE, Commento a Giovanni 20,245, ed. C. BLANC, SC 290, Paris 1982, p. 278. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 71 meraviglia quindi se, pur essendo la verità una sola, noi ci esprimiamo come se ne derivassero molte»38. Nei confronti di questa verità si consuma la lotta senza quartiere dell’Anticristo, della «let­tera» e della «carne». «La menzogna, infatti, è la ca- ratteristica di chi si oppone a colui che dice: “Io sono la verità”, cioè dell’An- ticristo, il cui padre, cioè il diavolo, è menzognero»39. Del resto «i Sommi Sacerdoti, tutto il culto giudaico corporeo, i Farisei e tutto l’insegnamento letterale della Legge tendono insidie a Gesù, che è la verità: al fine di conti- nuare a sussistere, cercano di ostaco­lare la manifestazione della verità, così come, per lo stesso motivo, la carne ha desideri contrari allo spirito. Ma lo spirito che ha desideri contro la carne è più forte; quello del nostro Salvatore è un vero Sommo Sacerdozio. Il suo insegnamento è spirituale: tutto ciò ha il potere di sciogliere il sinedrio dei Sommi Sacerdoti e dei Farisei che cospi- rano contro Gesù. Dobbiamo pensare che ciò avvenga tuttora, perché lo si può constatare in coloro che tentano di dissolvere l’insegnamento spirituale di Cristo mediante la conservazione del giudaismo corporeo»40. Pur nella loro brevità, le testimonianze addotte sono sufficienti per ri- chiamare alcuni ca­pisaldi della dottrina origeniana su Cristo-verità, tema as- solutamente centrale negli scritti dell’A­lessandrino. Già nella Prefazione dei Princìpi egli affermava che «tutti i credenti sanno che Cristo è la verità»41, e appellandosi a Giovanni 1,17 (gratia et veritas per Iesum Christum facta est) la­sciava intendere l’assoluta rilevanza di tale dottrina, successivamente riba- dita e precisata nel Commento a Giovanni. Qui in particolare, e soprattutto nel lungo commento al Prologo gio- vanneo, Origene illu­stra la funzione mediatrice del Logos nella rivelazione42. Grazie ad essa, non c’è spazio di tensio­ni irrisolte tra fede e ragione. Come si può rilevare anche da un primo controllo del lessico orige­niano43, il medesi-

38 Ibidem 6,32-39, ed. C. BLANC, SC 157, Paris 1970, pp. 152-158. 39 Ibidem 20,173, SC 290, p. 242. 40 Ibidem 28,95-97, ed. C. BLANC, SC 385, Paris 1992, pp. 110-112. 41 IDEM, I Princìpi 1,1, edd. H. CROUZEL - M. SIMONETTI, SC 252, Paris 1978, p. 76. Vedi anche le relative note di com­mento nel tomo successivo di SC 253, pp. 10 s. 42 Resta valido l’ormai classico contributo di M. HARL, Origène et la fonction révélatrice du Verbe incarné (= Patristica Sorbonensia,­ 2), Paris 1958. 43 A questo riguardo, vedi da ultimo D. PAZZINI, Lingua e teologia in Origene. Il Com- mento a Giovanni (= Studi biblici, 160), Brescia 2009; A. CASTELLANO, Cristologia e mistero di Dio. La polemica antimonarchiana di Origene nel commento a Gv 1,1a: Nel principio era il 72 Enrico dal Covolo mo termine logos viene usato per indicare sia la «ragione» e il procedimento razionale, sia la persona del Verbo. Gli esseri razionali (loghikói) sono tali proprio in forza del­la loro partecipazione al Logos di Dio, a immagine e somiglianza del quale sono stati creati. Allo stesso modo, l’adesione a Cristo- verità garantisce – essa sola – la partecipazione degli uomini alla vita vera e alla verità, pur nella molteplicità delle sue manifestazioni parziali44. «Bisogna aggiungere», osserva Henri Crouzel, «che, secondo la misura del progresso spirituale [del cristiano], il velo di immagine che ricopre an- cora il mistero nel Vangelo temporale diviene sempre più trasparente alla verità che contiene. Quando ci si volge al Signore, il velo è tolto progressi- vamente, e la divinità di Cristo appare sempre più attraverso la sua umanità, non costituendo più la carne un ostacolo per quelli che possiedono gli “oc- chi spirituali” capaci di percepire la divinità»45. Di fatto la sigla propria del metodo teologico di Origene risiede nel- la sua incessante racco­mandazione a trascorrere dalla carne e dalla lettera allo spirito, per progredire nella conoscenza della verità46: una conoscenza che «porta all’unione, e anzi, è l’unione»47. Secondo Origene, il più alto livello della conoscenza della verità è l’amore. Per dimostrarlo, egli si fonda su un signifi­cato ebraico del verbo conoscere, utilizzato per esprimere l’atto dell’amore umano: «Adamo co­nobbe Eva, sua sposa, la quale concepì...»48. Tale è la definizione ultima del conoscere, confuso con l’amore nell’unio- ne. Come l’uomo e la donna sono «due in una sola carne», così Dio e il credente divengono due «in uno stesso spi­rito». Allo stesso modo, il model- lo del discepolo che attinge alla verità rimane, secondo Origene, l’apostolo Giovanni, che posò il suo capo sul petto di Gesù49.

Logos, in A. ESCUDERO (ed.), Cristologia e Teologia. Miscellanea di studi in onore di S.E. Mons. Angelo Amato (= Nuova Biblioteca di Scienze Religiose, 22), Roma 2010, pp. 11-38. 44 Cf. B. STUDER, Rivelazione, in A. MONACI CASTAGNO (ed.), Origene. Dizionario..., pp. 409-415; L. PERRONE, Fede/Ragione, ibidem, pp. 157-161. 45 H. CROUZEL, Origene (= Cultura cristiana antica) (ed. francese, Paris 1985), Roma 1986, p. 161. 46 Cf. H.U. von BALTHASAR, Il senso spirituale della Scrittura, «Ricerche Teologiche» 5 (1994), pp. 5-9; I. de la POTTERIE, Presentazione dell’introduzione di H.U. von Balthasar, ibidem, pp. 11-17. 47 H. CROUZEL, Origene..., p. 169. 48 Genesi 4,1. Cfr. ORIGENE, Commento a Giovanni 19,22-23, SC 290, p. 58. 49 Giovanni infatti «era appoggiato al petto del Logos nel senso che aderiva al Logos e si riposava in lui anche negli aspetti più mistici»: ibidem 32,264, SC 385, p. 298. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 73

2.2. Agostino, con particolare riferimento al “Commento al Vangelo di San Giovanni”

Il Commento agostiniano si compone di 124 omelie, in parte pronun- ciate, in parte dettate. Si tratta di un’opera prevalentemente pastorale (a dif- ferenza del commentario origeniano, conce­pito invece per l’insegnamento). La data di composizione è discussa: probabilmente le 124 omelie furono disseminate in un arco di tempo considerevole del ministero episcopale di sant’Agostino, dal 406 fin dopo il 41850. Iniziamo con la lettura dell’Omelia 69, nella quale Agostino si propo- ne di commentare espressamente la domanda di Tommaso («Signore, come possiamo conoscere la via?») e la risposta di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita»51. «Abbiamo sentito la domanda del discepolo», osserva Agostino; «ab- biamo sentito la rispo­sta del Maestro, ma ancora non abbiamo compreso il contenuto della risposta, neppure dopo che abbiamo sentito il suono della sua voce. Ma che cosa non possiamo capire? Forse che gli apostoli, con i quali si intratteneva, potevano dirgli: “Noi non ti conosciamo?”. Di fatto, se lo conoscevano, dato che lui è la via, conoscevano anche la via; se lo conosce- vano, dato che lui è la verità, cono­scevano anche la verità; se lo conoscevano, dato che lui è la vita, conoscevano anche la vita»52. Detto questo, però, l’omelia si sposta su un’unica questione, che sembra preoccupare Ago­stino più di ogni altra. Gesù infatti dice di andare alla verità – che è lui stesso – attraverso se stes­so, perché egli è contemporaneamente la verità e la via: ma che cosa vuol dire precisamente que­sto, cioè che Gesù va a se stesso attraverso se stesso? Cercando di rispondere a questa domanda,

50 Per un’introduzione ad Agostino si vedano per esempio G. LETTIERI, Agostino, in E. DAL COVOLO (ed.), Storia della teo­logia..., pp. 353-424; V. GROSSI, Sant’Agostino d’Ippona, in G. BOSIO - E. DAL COVOLO - M. MARITANO, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli IV e V, 2 Torino 1998 , pp. 60-168. Sul Commento al Vangelo di San Giovanni vedi A. DI BE­RARDINO (ed.), Patrologia, 3. Dal Concilio di Nicea (325) al Concilio di Calcedonia (451). I Padri latini, Torino 1978, pp. 374-375 (con bibliografia); O. PASQUATO, Agostino d’Ippona, in M. SODI - A.M. TRIACCA (edd.), Dizionario di Omileti­ca, Leumann - Bergamo 2002, pp. 7-15, soprat- tutto p. 8. 51 Giovanni 14,4-6. Seguo l’edizione e, con minimi ritocchi, la traduzione di A. VITA - E. GANDOLFO - V. TARULLI, Sant’Agostino. Commento al Vangelo di San Giovanni (= Nuova Biblioteca Agostiniana, 24), Roma 1968. 52 AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni 69,1, pp. 1164-1166. 74 Enrico dal Covolo il vescovo di Ippona si perde un poco tra le proteste di umiltà e i lamenti sull’incapacità di capire. Ma in altre omelie egli affaccia con chiarezza la sua risposta: è passando attraverso la via della propria carne che Gesù Cristo ritorna al Padre e alla verità, pur non avendoli mai lasciati. Induens se carnem, factus est via53. Pren- diamo per esempio l’Omelia 13: «“Io sono la via, la verità e la vita”. Se cerchi la verità, segui la via. Perché la via è lo stesso che la verità. La mèta cui tendi e la via che devi percorrere sono la stessa cosa. Non puoi giungere alla mèta seguendo un’altra via; per altra via non puoi giungere a Cristo: a Cristo puoi giungere solo per mezzo di Cristo. In che senso arrivi a Cristo per mezzo di Cristo? Arrivi a Cristo Dio per mezzo di Cristo uomo; per mezzo del Verbo fatto carne arrivi al Verbo che era in principio Dio presso Dio»54. Questa via e questa verità sono per il cristiano un dono di grazia: infatti, argomenta Agostino, «se il Signore avesse detto: “Chiunque ascolta la mia voce è dalla verità”, si sarebbe potuto pensare che uno è dalla verità per il fatto che ob- bedisce alla verità. Ma egli non dice così, bensì: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Non è, costui, dalla verità perché ascolta la sua voce, ma ascolta la sua voce perché è dalla verità, avendogli la verità stessa concessa questa grazia. E che altro vuol dire questo, se non che è per grazia di Cristo che si crede in Cristo?»55. Altri riferimenti a Giovanni 14,6 arricchiscono la dottrina agostiniana di Cristo-verità: «Cristo è talmente la verità», afferma vigorosamente il vescovo di Ippona nell’Omelia 8, «che tut­to in lui è vero: egli è il vero Verbo di Dio, Dio uguale al Padre, vera anima, vera carne, vero uomo, vero Dio; vera è la sua nascita, vera la sua passione, la sua morte, la sua risurrezione»56. «Il Fi- glio è la verità», prosegue Agostino in altro contesto, «il Padre è verace: chi è più grande?». E risponde: «Trovo che sono uguali; perché il Padre che è verace, non è verace nel senso che ha preso una parte della verità, ma perché egli stesso ha generato tutta intera la verità [...]. Ed ecco in che modo Dio è verace: non per essere partecipe della verità, ma per averla generata»57. Da parte loro i credenti, cioè «gli eredi del Nuovo Testamento, vengono santifi-

53 Ibidem 34,9, p. 724. 54 Ibidem 13,4, pp. 302-304. 55 Ibidem 115,4, p. 1524. 56 Ibidem 8,5, p. 195. 57 Ibidem 38,7-8, pp. 800-802. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 75 cati nella verità di cui le santificazioni operate nel Vecchio Testamento non erano altro che ombre. Essi vengono santificati nella verità, cioè in Cristo, il quale con tutta verità dice: “Io sono la via, la verità e la vita”. E così, quando dice: “La verità vi renderà liberi”, poco dopo, spiegando la sua affermazio- ne, aggiunge: “Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi”, per mostrare la piena identità tra ciò che prima chiama “verità” e ciò che poi chiama “Figlio”. E così qui, dicendo: “Santificali nella verità”, che altro vuol dire, se non: “Santificali in me”?»58. Anche in questo secondo esempio, legato ad Agostino, le testimonianze citate richiamano efficacemente alcuni «nodi» della dottrina relativa a Gesù Cristo-verità. Mi accontento di sottoli­nearne due. Anzitutto la piena identificazione tra verità, via e Cristo. Agostino è ap- prodato a questa piena identificazione – che, come è noto, giunse a placare la sua angosciosa ricerca della verità – 59 non solo attraverso la filosofia, ri- visitando in maniera originale argomentazioni caratteristiche dell’eclettismo neoplatonico60, ma anche e soprattutto per mezzo di una riflessione fondata sulla rivelazione scritturistica. È questo il motivo per cui, come già scriveva più di ottant’anni fa Char­les Boyer, Agostino dava al Verbo il nome di verità in due sensi: il primo, che «considera il Ver­bo in se stesso. La verità è allora la sintesi delle Idee, la Bellezza, la Sapienza, il Numero»; e l’al­tro, che «con- sidera il Verbo in rapporto al Padre»61. L’irriducibile tensione tra queste due rap­presentazioni del Verbo-verità connota robustamente il pensiero agosti-

58 Ibidem 18,2, p. 1456. 59 Cf. G. BIFFI, Conversione di Agostino e vita di una Chiesa, in A. CAPRIOLI - L. VACCARO (edd.), Agostino e la conver­sione cristiana (= Augustiniana. Testi e Studi, 1), - Gaz- zada 1987, pp. 23-34; E. DAL COVOLO, La conversione di Sant’Agostino. Il ruolo del vescovo Ambrogio e della Chiesa di Milano, «Palestra del Clero» 66 (1987), pp. 953-963. 60 Si leggano al riguardo i Dialoghi di Cassiciaco, specialmente i libri Contra Academi- cos, partendo da quel passo famoso, dove Agostino scrive: «Guardatevi dal ritenere che voi col filosofare non potete conoscere la verità o che in nessun modo qualcuno la possa cono- scere filosofando. Piuttosto, fidatevi di me, o meglio di colui che disse: “Cercate e troverete”» (2,3,9). E ancora: «Riguardo a ciò che si deve raggiungere col pensiero filosofico, ho fiducia di trovare nei platonici temi che non ripugnano alla parola sacra. Tale è infatti la mia attuale disposizione, che desidero di apprendere senza indugio le ragioni del vero non solo con la fede, ma anche con l’intelligenza» (3,20,43). Cf. E. DAL COVOLO, Il Colloquio Internazionale su «Agostino nelle ter­re di Ambrogio», «Salesianum» 49 (1987), pp. 266-269. 61 C. BOYER, L’idée de vérité dans la philosophie de Saint Augustin, Paris 1920, p. 89. 76 Enrico dal Covolo niano come «inesausta conversione da una metafisica della veritas, compi- mento della libertà umana, a una teologia dell’assoluta libertà divina»62. In secondo luogo, Cristo è via e verità per gli uomini precisamente gra- zie alla sua incar­nazione: induens se carnem, factus est via63. La sottolineatura assume un certo rilievo nei con­fronti di chi, ancora di recente, ha inteso muovere pesanti critiche alla soteriologia agostiniana, accusata in buona so- stanza di essere «intellettuale» e «disincarnata». Dalle testimonianze addot- te, invece, il pensiero di Agostino appare ben diverso: è proprio mediante la carne, di cui si è rivesti­to, che il Verbo-verità si fa vedere e sentire dagli uomini, prima per suscitare in loro la fede, e poi per concedere ai credenti la visione diretta64.

3. Conclusione I due esempi fin qui svolti, a mio parere rappresentativi in massimo grado delle argomen­tazioni patristiche sulla verità, attestano senza ombra di dubbio che Gesù Cristo, Logos/Verbo di Dio, è la verità tutta intera, perché egli dimora nel seno del Padre. A sua volta il discepolo, «vero gnostico», attinge alla verità dimorando, come l’apostolo Giovanni, nel seno di Gesù e rimanendo nel suo amore65. A questa rivelazione resta legata per sempre la regula fidei, o veritatis, che già Ireneo alla fine del secondo secolo si era impegnato ad esplicitare66. Secondo il vescovo di Lione, la cura di conservare e spiegare rettamente la regola della fede spetta solo alla Chiesa, che proprio per que­sto ha ricevuto lo Spirito Santo. Perciò il vero insegnamento è quello impartito dai vescovi, che possono provare di averlo ricevuto per mezzo di una tradizione ininter-

62 G. LETTIERI, Agostino..., p. 419. 63 Vedi supra, nota 53. 64 Cf. N. CIPRIANI, Rivelazione cristiana e verità in S. Agostino. A proposito di un re- cente saggio, «Augustinianum» 41 (2001), pp. 477-508. Il riferimento polemico va a A. MILANO, Quale verità. Per una critica della ragione teologica (= Nuovi saggi teologici. Series Maior), Bologna 1999. Vedine l’equilibrata recensione di A. AMATO in «Salesianum» 63 (2001), pp. 397 s. 65 Vedi supra, nota 49, la citazione del Commento origeniano. Tuttavia – a differenza di Clemente Alessandrino e a scanso di pericolosi equivoci – Origene non usa mai il termine «gnostico» per indicare chi è cresciuto nella verità e nella conoscenza di Dio. 66 Sull’argomento vedi, da ultimo, Th. C.K. FERGUSON, The Rule of Truth and Irenaean Rhetorik in Book 1 of Against Heresies, «Vigiliae Christianae» 55 (2001), pp. 356-375. Il discorso dell’areopago e l’universalità della verità alla luce della fede 77 rotta dagli apostoli, in quanto Cristo lo ha affidato loro. Stando sempre ad Ireneo, occorre considerare in modo speciale l’insegnamento della Chiesa di Roma, massima e antichissima, che ha «maggiore apostolicità», perché trae origine dalle colonne del collegio apostolico, Pietro e Paolo: con lei devono accordarsi tutte le Chiese. Con questi argomenti vengono confutate dalle loro fondamenta le pretese degli eretici: anzitutto essi non posseggono la verità, perché non sono di origine apostolica; in secondo luogo la verità, e quindi la salvezza, non sono privilegio o monopolio di pochi, ma tutti le possono raggiungere attraverso la predicazione dei successori degli apostoli e soprattutto del vescovo di Roma67. Tutto ciò – come si è visto – non esclude affatto il dialogo dei cristiani con le filosofie e le culture del loro tempo, ma ne fornisce anche i limiti, grazie al noto principio del discernimento (chrésis)68. Di fatto, secondo Ago- stino la verissima philosophia è una sola, che non è la «sapienza di questo mondo» (1 Corinzi 2,6), alla quale si oppongono i misteri cristiani e che alla fine mani­festa tutte le sue aporie. E’ la philosophia ispirata alla rivelazione di Cristo, che si trova solo nella Chiesa e si identifica, in ultima analisi, con la religione cristiana69. È sintomatica al riguardo quella «irriducibile tensione», di cui si parlava a proposito dello stesso Agostino, una tensione che ricalca di fatto la sofferta esperienza di Paolo dopo l’Areopago. Ma forse l’aggettivo «irriducibile» non è del tutto preciso, perché il ve- scovo di Ippona giunge infine a risolvere il suo dilemma. «Nessuno», scrive Agostino, sempre nel Commento a Giovanni, «può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo»70. Se­condo Giovanni Reale, appassionato studioso della filosofia antica, il vescovo di Ippona nel suo itinerario verso la verità ha compiuto, come Platone, una «seconda navi- gazione», e ve ne ha ag­giunto addirittura una «terza». Infatti, non attraverso

67 Cf. IRENEO, Contro le eresie 3,3,1-4, edd. A. ROUSSEAU - L. DOUTRELEAU, SC 211, Paris 1974, pp. 30-44. Una buona traduzione del passo è riportata da E. CATTANEO, Trasmettere la fede. Tradizione, Scrittura e Magistero nella Chiesa. Per­corso di teologia fondamentale, Cinisel- lo Balsamo 1999, pp. 97-98. Su tutto questo cfr. E. DAL COVOLO, «Trasmettere la fede» secondo i nostri Padri, «Notiziario del Servizio Nazionale Progetto Culturale» 5 (2001), pp. 50-62. 68 Vedi supra, nota 33 e contesto. 69 Cf., anche per la relativa documentazione, B. STUDER, La teologia nella Chiesa impe- riale..., p. 393. 70 AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni 2,2, p. 26. 78 Enrico dal Covolo una «semplice zattera», e neanche attraver­so una «nave più sicura», è pos- sibile approdare alla verità tutta intera: occorre fidarsi di un terzo lignum, «quello della croce», che solo rivela in massimo grado la gloria del Logos.71 Bisogna riconoscere, in definitiva, che la teologia sapienziale dei Padri della Chiesa rappresenta tutta intera un’inesausta argomentazione di verità, sia per quanto riguarda l’itinerario, o il metodo della ricerca, sia per quanto riguarda i contenuti propri di essa. È altresì evidente che per i nostri Padri Gesù Cristo, la «luce del mon- do» (Giovanni 9,5), è contemporaneamente la mèta e la via universale della verità72.

Sommario Il punto di partenza è il discorso di Paolo all’Areopago. Segue una prima parte dell’esposizione, in cui vengono affrontate varie questioni sui rapporti tra la fede e la ragione nella teologia sapienziale dei primi tre secoli cristiani. Tali considerazioni intendono illustrare soprattutto il metodo impiegato dai Padri della Chiesa nella ricerca della verità. Nella seconda parte, infine, sono addotti un paio di esempi sul piano dei contenuti. Si tratta di due storici commenti al Vangelo di Giovanni, quello di Origene e quello di Agostino. Si può vedere in questo modo che – prima e dopo Nicea, in Oriente come in Occidente – l’itine- rario teologico dei Padri rimane sempre orientato a dimostrare che Gesù Cristo è la luce del mondo, la verità ultima, definitiva e universale su Dio e sull’uomo.

71 G. REALE, Agostino e il Contra Academicos, in L’opera letteraria di Agostino tra Cassi- ciacum e Milano. Agostino nelle terre di Ambrogio (1-4 ottobre 1986) (= Augustiniana. Testi e Studi,2), Palermo - Gazzada 1987, pp. 13-30. 72 «Che cos’è la verità? Chiese scettico Pilato a Cristo. La verità è Cristo stesso: “Io sono la verità” secondo la ben nota formulazione giovannea», annota sinteticamente P.F. BEATRICE, Verità, agape, testimonianza, «Studia Patavina» 41 (1994), p. 39, in margine alla riflessione sapienziale dei Padri della Chiesa sulla verità. Metafisica della persona e mistero di Cristo

Fernando Ocáriz

path 9 (2010) 79-92

«Alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36[35],10). Queste parole del Sal 36 esprimono la fede di Israele che, confidando nella misericordia di Dio, nella luce che sorge da Dio, permette ai singoli di guardare con gioia e speranza la propria vita e lo scorrere della storia. La tradizione spirituale ha riflettuto con frequenza su questo versetto del salmo per descrivere l’itinerario dell’anima che si apre alla luce della fede; luce che avrà la sua pienezza soltanto nella gloria. Altre volte, le stesse parole sono state lette in contesto cristologico, per esprimere che il cristia- no, proprio perché la sua vita è una vita «in Cristo», può aspirare a vedere tutto il reale come lo vede Cristo, il cui sguardo umano è lo sguardo umano di Dio. Sarà sempre possibile, pur nei limiti della nostra intelligenza, l’appro- fondimento teologico sul significato e sulle conseguenze di questo parteci- pare alla luce di Dio e guardare tutta la realtà “con gli occhi di Cristo”. Ciò comporta approfondire il mistero dell’uomo alla luce del mistero di Cristo, e questo richiede di trascendere il livello dell’esperienza e della semplice descrizione per procedere più in là, vale a dire passare al livello della meta- fisica, senza la quale – come ricordava Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio – la teologia non si costituisce come vero sapere1. Certamente, nella storia del pensiero si trovano diversi modi – a volte contraddittori – di concepire i contenuti della metafisica e anche la stessa sua natura. Ma la teologia ha bisogno di una metafisica realista, come lo sono

1 Cf. Giovanni Paolo II, Enc. Fides et Ratio, n. 83. 80 Fernando Ocáriz molte filosofie cristiane. Quella di san Tommaso d’Aquino, avendo nella no- zione di atto di essere la sua pietra angolare2, offre una particolare apertura a tutti i possibili contributi di conoscenza della realtà. Si tratta di una metafisica che è aperta in particolare ad accogliere le istanze valide del personalismo, con la sua affermazione del primato della persona come realtà spirituale e corporea in relazione con gli altri e con il mondo3.

«In realtà, è stata la luce della rivelazione cristiana, in dialogo con la cultura, ad aprire la via ad una svolta decisiva del pensiero antropologico attraverso una nuova comprensione metafisica dell’essere nel modo originale e irriduci- bile della persona e della libertà»4.

Ed è stato di notevole importanza «il ruolo di mediazione esercitato in questa svolta, alle soglie del secondo millennio, dalla riflessione medioevale, e particolarmente dalla “forma di pensiero tommasiana”, erede del pensiero cristiano, nella sua elaborazione metafisica dell’essere come actus essendi e della relazione veritativa ad esso della soggettività del pensiero»5. Come afferma il Concilio Vaticano II, «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. (...) Cristo, che è il nuovo Adamo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche piena- mente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»6. Cristo è la luce che illumina la verità più intima della persona umana e il suo destino. Cercherò quindi di esporre alcune riflessioni sulla metafisica dell’essere personale, per poi considerare come la luce di Cristo illumina e porta a pie- nezza quella «rivelazione dell’uomo all’uomo».

2 Cf. L. Romera, Introduzione alle domande metafisiche, Armando Editore, Roma 2003, 238-239; 3 Per una visione complessiva della multiforme filosofia personalista, cf. J.M. Burgos, El Personalismo. Autores y temas de una filosofía nueva, Palabra, Madrid 2000. 4 M. Bordoni, Cristologia e Antropologia, in C. Greco (ed.), Cristologia e Antropologia. In dialogo con Marcello Bordoni, AVE, Roma 1994, 17. 5 Ibid., 19. 6 Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, n. 22. Metafisica della persona e mistero di Cristo 81

1. L’atto personale di essere e la relazionalità della persona Com’è noto, la parola «persona», anche nella sua origine etimologica, include l’idea di dignità7. La radice della dignità personale è la spiritualità, che consiste metafisicamente nel fatto di essere per sé; vale a dire, di avere per sé l’atto di essere8. Troviamo qui la difficoltà più propria della metafisica: l’«atto di essere» non si può cogliere in se stesso perché non ha un’essenza – è l’essenza ad avere l’atto di essere –. Infatti, per san Tommaso – come in un’altra direzione per Heidegger – l’essere

«non è né fenomeno, né noumeno, né sostanza, né accidente, è atto sempli- cemente: ma mentre l’essere heideggeriano è dato nel fluire del tempo per la coscienza dell’uomo, l’essere tomistico esprime la pienezza dell’atto che si possiede per essenza (Dio) o che riposa (quiescit) nel fondo di ogni ente come l’energia primordiale partecipata che lo sostiene sul nulla»9.

Ogni natura è teleologica: ha in sé – radicata nell’atto di essere – una relazione a Dio come Causa prima efficiente, come Causa esemplare e come Causa finale o Fine ultimo10. In ogni creatura infatti c’è questa relazione fondamentale a Dio, che san Tommaso chiama creatio passive sumpta, che è una relazione di origine, di dipendenza nell’essere e di «finalizzazione in- trinseca», perché la Causa prima e soltanto la Causa prima ed esemplare è necessariamente Fine ultimo11. Questa relazione a Dio non è fondata sul livello formale – il modo di essere – della creatura ma sull’atto di essere: rela- tio creaturae ad Deum fundatur super esse creaturae12. Nel caso della persona, questa dimensione relazionale e teleologica si esprime mediante la conoscen- za e la libertà.

7 Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 3; Bonaventura, In I Sent., 1, 1 resp. 8 Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 2, a. 2 ad 2. Cf. L. Clavell, Me- tafisica e Libertà, Armando, Roma 1996, 178. 9 C. Fabro, Partecipazione e causalità, SEI, Torino 1960, 40. 10 Cf. Tommaso d’Aquino, De Veritate, q.21, a.6, s.c. 3. 11 Cf., per es., In II Sent., d. 1, q. 1, a. 3 ad 4. 12 Tommaso d’Aquino, De quattuor oppositis, c. 4. Sebbene l’autenticità di questo opu- scolo sia dubbia, l’affermazione corrisponde chiaramente al pensiero di san Tommaso. Cf. anche Summa contra gentiles, II, c. 11. Questa peculiarità conferisce alla relazione fonda- mentale a Dio un certo carattere trascendentale: cf. U. Borghello, Liberare l’amore, Ares, Milano 20094, 50-51. 82 Fernando Ocáriz

Ogni singolo uomo è individuo e, come tale, irripetibile, inalienabile; ma allo stesso tempo per la sua natura spirituale, è aperto intenzionalmente all’intera realtà, e innanzitutto alla relazione interpersonale, cioè capace di possedere se stesso e di donarsi e di ricevere: di conoscere e amare Dio e le altre persone umane13. Intesa in questo senso, va sottoscritta la nota afferma- zione di Kierkegaard, nella sua reazione all’idealismo hegeliano, secondo la quale l’uomo si definisce nel modo più profondo mediante la sua relazione a Dio14. Nelle persone divine si identificano l’assoluto e il relativo; sono infat- ti relazioni sussistenti identiche all’essere assoluto divino15. Nella persona umana non c’è una tale identità, ma sì una sua immagine, in quanto la per- sona è un «assoluto partecipato», necessariamente in relazione a Dio ed es- senzialmente orientato alla relazione con gli altri e con tutta la realtà. Come dimostra lo sviluppo storico, soltanto a partire dalla dottrina sulle persone divine, si è arrivati a una nozione compiuta della persona umana16. La rela- zionalità della persona si riflette necessariamente nella sociologia17, ma un approfondimento della categoria della relazione

«non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo»18.

2. L’essere personale e la capacità di amare All’individualità metafisica della persona, sul piano della struttura della soggettività, corrisponde l’intimità o interiorità, presupposto necessario del-

13 Affinché l’incomunicabilità ontologica della persona non sembri contraria alla sua essenziale relazionalità, può meglio denominarsi inalienabilità: cf. J.A. Lombo - F. Russo, Antropologia filosofica, Edusc, Roma 20072, 178-182. 14 Cf. J.L. Lorda, Antropología teológica, Eunsa, Pamplona 2009, 117. 15 Sembra che sia stato Riccardo di San Vittore, nel suo De Trinitate, chi meglio abbia espresso – nei limiti del nostro parlare di Dio – l’amore come fondamento della Trinità di persone nell’unità dell’essere divino: cf. L.F. Mateo-Seco, Dios Uno y Trino, Eunsa, Pam- plona 20052, 504. 16 Cf. P. O’Callaghan, La persona umana tra filosofia e teologia, in «Annales Theolo- gici» 13 (1999) 71-105. 17 Cf. P. Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano 1991. 18 Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, n. 53. Metafisica della persona e mistero di Cristo 83 la donazione quale tratto caratteristico dell’essere personale. La capacità di amare con amore di amicizia è proprio ed essenziale della persona. Soltanto l’amore è l’atteggiamento adeguato alla persona, e quindi pienamente mani- festativo della sua realtà. L’amore di solito porta con sé sentimenti, ma non è un sentimento, ama- re è desiderare e cercare il bene per gli altri. Certamente – come ha spiegato Benedetto XVI – l’amore di concupiscenza è legittimo, anzi è connaturale a un essere limitato e bisognoso quale è la persona umana, ma un tale amore va purificato affinché, senza essere eliminato, venga informato dall’agape, dall’amore di benevolenza19. Tuttavia, l’amore di benevolenza non è suffi- ciente per costituire l’amicizia: questa richiede benevolenza mutua20. La “prospettiva metafisica” converge così con la “prospettiva fenomeno- logica”, che vede il carattere personale dell’uomo nella sua capacità di dire io e porsi davanti a un tu; un io che raggiunge la sua massima pienezza di senso nel rapporto di conoscenza e amore con il Tu di Dio. Il fondamento ultimo di tutto ciò si trova, ancora una volta, nel fatto che l’uomo è fatto a immagine di Dio, quindi creato per il dialogo poiché il dialogo appartiene alla realtà intima di Dio: «Nel principio era il Verbo e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Sebbene l’effettivo dialogo con Dio non sia un costitutivo ontologico della persona, esistenzialmente, come diceva Kierkegaard, quanta maggior coscienza di Dio ha l’uomo, maggior coscienza ha del proprio io21; e questo perché l’uomo conosce la profondità e la grandezza del proprio io solo se, e nella misura in cui, riconosce se stesso davanti a Dio, e si riconosce come oggetto dell’amore di Dio. Come ha scritto Benedetto XVI, «l’amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi»22. E questo è così, spiega il Papa, perché Dio, «questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore»23. Il Logos è in se stesso Verbum spirans amorem24.

19 Cf. Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 7. 20 Cf. Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia, n. 14. 21 Cf. S. Kierkegaard, La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1966, 299 e 342. 22 Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 2. 23 Ibid., n. 10. 24 Tommaso d’Aquino: Filius autem est verbum, non qualecumque, sed spirans amorem (Summa Theologiae, I, q. 43, a. 5 ad 2). 84 Fernando Ocáriz

Si arriva così alla radice più profonda della dignità personale dell’uomo, affermata dal Vaticano II con queste notissime parole: «L’uomo è nella ter- ra l’unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa»25, vale a dire non in ordine ad altre creature ma soltanto in ordine alla gloria di Dio nell’unione di conoscenza e amore con lui. Dignità che è di tutta la persona: corpo e ani- ma. Nell’uomo infatti c’è distinzione reale e vera composizione tra spirito e materia, ma non un «dualismo»: anima e corpo, spirito e materia, nell’uomo sono due principi costitutivi di un’unica realtà, di un unico soggetto sostan- ziale, di un’unica persona. Si capisce allora come, da quando gran parte della filosofia moderna – specialmente a partire da Cartesio – ha perso di vista la composizione e unità umana di anima e corpo, si sia giunti prima a un dualismo tra materia e spirito, per poi risolvere le contraddizioni di questo dualismo nei diversi monismi (idealisti e materialisti), nei quali non è possibile riconoscere la vera dignità della persona umana (e l’esito teorico e pratico del materialismo mar- xista come negatore di quella dignità è stato in questo senso particolarmente eloquente)26. Una conseguenza rilevante dell’essere che è proprio dell’uomo, e dell’amore che Dio gli manifesta, è quella che possiamo chiamare “non su- bordinabilità della persona”, nel senso che essa non può essere strumenta- lizzata. Già Kant, nella cosiddetta seconda forma dell’imperativo categorico, si esprimeva dicendo che la persona non deve essere mai considerata solo come un «mezzo» per qualcosa d’altro, ma sempre come un «fine»27. Tut- tavia, nel pensiero kantiano, questa affermazione non trova un reale fonda- mento né un contenuto sufficientemente preciso. Bisogna dire di più: non basta escludere ogni comportamento che riduca una persona a essere un «mezzo»: la persona esige di essere affermata in se stessa28. L’una e l’altra cosa possono essere con fondamento affermate della persona soltanto alla luce della sua origine e del suo destino trascendente in Dio. Il fatto che nes- suna persona umana possa essere considerata o “usata” come un mezzo per

25 Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, n. 24. 26 Per un’acuta analisi del dualismo antropologico, cf. R. Spaemann, Natura e ragione. Saggi di antropologia, Edusc, Roma 2006, 19-39. 27 Cf. I. Kant, Fundamentación de la metafísica de las costumbres, Santillana, Madrid 1996, 51. 28 Cf. Giovanni Paolo II, Cruzando el umbral de la esperanza, Plaza & Janés, Barcelona 1994, 198-199. Metafisica della persona e mistero di Cristo 85 qualcosa d’altro, e il fatto che la persona ha un valore in sé, presuppongono un fondamento assoluto, che è precisamente che Dio ama ogni persona per se stessa.

3. Il mistero di Cristo, luce sull’essere personale come dono Mediante l’antropologia metafisica e fenomenologica si acquista una certa conoscenza della persona umana. Tuttavia, con parole di Giovanni Paolo II, ricordiamo che

«non si può conoscere pienamente l’uomo senza Cristo. O meglio, l’uomo non può comprendere se stesso pienamente senza Cristo. Non si può capire chi è, né qual è la sua vera dignità, né qual è la sua vocazione, né il suo finale destino. Non si può comprendere tutto questo senza Cristo»29.

L’incarnazione del Verbo è la donazione all’umanità di Gesù dell’essere divino sussistente nel Verbo. In questo senso si può intendere l’affermazione di san Tommaso: gratia enim unionis est ipsum esse personale, quod gratis divinitus datur humanae naturae in persona Verbi30. «Il Figlio di Dio nella sua incarnazione si è unito, in certo modo, ad ogni uomo»31, e così Cristo è il dono che Dio ha voluto fare di sé a ogni persona umana: «Egli stesso è il dono»32. E in lui, in Gesù Cristo, si donano a noi il Padre e lo Spirito Santo. Innanzitutto, Cristo è modello supremo dell’uomo in quanto uomo; per- ché soltanto lui è l’uomo perfetto, a somiglianza del quale – come scrive san Paolo – fu creato Adamo (cf. Rm 1,14). Perciò – leggiamo nella Gaudium et spes –, «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo»33. La persona umana, fatta a immagine di Dio e redenta da Cristo, perfetta Immagine di Dio (cf. 2Cor 4,4; Col 1,15), porta in sé l’immagine di Cristo34.

29 Giovanni Paolo II, Omelia, 2-VI-1979. Cf. anche Enc. Redemptor hominis, nn. 7-13, dove il Pontefice commenta in profondità Gaudium et spes, n. 22. 30 Summa Theologiae, III, q. 6, a. 6 c. Sull’unità dell’atto di essere in Cristo, cf. ibid., q. 17; De Unione Verbi Incarnati, a. 4; Compend. Theologiae, I, c. 212. Cf. anche F. Ocáriz - L.F. Mateo-Seco - J.A. Riestra, Il mistero di Cristo, Edusc, Roma 2000, 114-128. 31 Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, n. 22. 32 J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Roma 2007, 404. 33 Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, n. 41. 34 Cf. P. O’Callaghan, Cristo revela el hombre al propio hombre, in «Scripta Theologi- ca» 41 (2009) 85-111. 86 Fernando Ocáriz

Ma soprattutto Cristo, nel suo essere Dio fatto uomo, è il modello su- premo dell’«uomo nuovo», divinizzato dalla grazia e diventato per adozione figlio di Dio. L’adozione filiale comporta novità nella relazione fondamentale a Dio: da esse ad Deum diventa esse ad Patrem in Filio per Spiritum Sanctum. Una nuova relazione di finalizzazione intrinseca verso il fine ultimo sopran- naturale: la vita intima della Trinità. Possiamo considerare che a questa no- vità corrisponde come suo immediato fondamento una novità nell’atto di essere. L’elevazione soprannaturale della persona umana attinge certamente tutta la sua consistenza formale (la natura è divinizzata dalla grazia, le poten- ze operative dalle virtù infuse, ecc.), ma la divinizzazione raggiunge anche e più radicalmente lo stesso atto di essere, come energia primordiale capace di dare esistenza reale alla persona divinizzata. Si tratta infatti di una «nuo- va creazione» per la quale l’uomo diventa una «nuova creatura», secondo l’espressione paolina (cf. 2Cor 5,17)35. La Genesi comincia il racconto della creazione con le parole «in prin- cipio», indicando così che l’azione divina è stata all’inizio di tutte le cose. Anche san Giovanni comincia il suo Vangelo con le stesse parole, ma per indicare che, dall’eternità, presso il Padre era il Verbo per mezzo del quale tutto è stato creato (cf. Gv 1,1-3). Diversi Padri (Giustino, Atanasio, Am- brogio, Girolamo e Agostino) identificano l’«in principio» di Gen 1,1 con la stessa espressione di Gv 1,1. Anche Origene scrive:

«Quando la Genesi parla di un principio, non fa riferimento a un momento semplicemente temporale, ma piuttosto al fatto che nel Salvatore sono stati prodotti il cielo, la terra e tutte le cose create»36.

Inoltre, l’intera creazione è stata fatta da Dio in vista di Cristo (cf. Col 1,16). Cristo si trova quindi nel principio e nel fine della creazione; egli è l’erede di tutte le cose (cf. Eb 1,2), che sono state create in lui e sono ordina- te a lui. E Cristo, elevato da terra sulla croce, attira tutti a sé (cf. Gv 12,32). Tutto il Nuovo Testamento ci mostra che il nostro rapporto con Dio, il cammino verso il Padre, passa attraverso Cristo; anzi che lo stesso Cristo è la via, così come egli è la verità e la vita. In Cristo è rivelato l’uomo all’uomo

35 Cf. Tommaso d’Aquino, Ad II Cor, c.V, lec. 4 (Marietti, n. 192). Cf. anche Ad Gal, c. VI, lec. IV (Marietti, n. 374); Summa Theologiae, I-II, q. 110, a. 2 ad 3. Su questo argomento, qui soltanto accennato, cf. F. Ocáriz, Natura, grazia e gloria, Edusc, Roma 2002, 78-91 36 Origene, In Gen., I, 1 (PG 12, col. 145). Metafisica della persona e mistero di Cristo 87 perché in lui ci viene fatta conoscere l’immensità dell’amore di Dio per noi, in lui siamo fatti figli di Dio Padre, e in lui questa filiazione sarà portata a pienezza nella gloria. L’adozione filiale si realizza nella partecipazione della filiazione di Cristo, che è la stessa sua persona divina, inseparabilmente uni- ta senza confusione alla sua natura umana. Tutta questa nuova dimensione della persona umana, fatta partecipe in Cristo della vita divina della Trinità, ci è donata da Cristo stesso mediante la sua totale donazione. Perciò, consi- derare la donazione di Cristo ci consente di approfondire ulteriormente la metafisica della persona.

«Nella persona di Cristo, infatti, la dottrina della fede cristologica indica la via per una concezione dell’identità dell’uomo, non come sostanzialità chiusa in se stessa senza relazione all’Altro e agli altri, ma come identità che si realiz- za proprio in questa relazione»37.

Nel sacrificio redentore vediamo – secondo la terminologia adoperata da Giovanni Paolo II – una dimensione divina e una dimensione umana:

«La realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la grandezza inaudita dell’uomo, che meritò di avere un così grande Redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e “storico”, di svelare la profondità di quell’amore che non indie- treggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal “principio” scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria»38.

La croce di Cristo, che manifesta in modo eminente l’amore di Cri- sto al Padre e l’amore del Padre e di Cristo all’umanità, si rende presente sacramentalmente nell’Eucaristia, nella quale Gesù compie l’estremo della donazione, frutto del suo amore «fino alla fine» (Gv 13,1).

«Ciò che era lo stare di fronte a Dio (proprio della creazione) diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione»39.

37 Bordoni, Cristologia e Antropologia, cit., 51. 38 Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia, n. 7; cf. Enc. Redemptor hominis, nn. 9-10. Su questo argomento, cf. J.L. Illanes, Iglesia en la historia. Estudios sobre el pensamien- to de Juan Pablo II, Comercial Editora de Publicaciones, Valencia 1997, 97-120. 39 Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 13. 88 Fernando Ocáriz

Questa donazione di Cristo illumina il paradosso dell’essere personale che raggiunge la sua pienezza soltanto nella donazione della propria vita: «[L’uomo] non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé»40. Contemplare il mistero dell’essere e della vita di Cristo, e della sua do- nazione fino alla morte, ci porta infatti a una comprensione della persona umana come dono, con una profondità che la sola antropologia filosofica non potrebbe raggiungere. Innanzitutto, nel senso che la persona umana è frutto del dono dell’amore creatore dell’essere personale, e inoltre per- ché essa è chiamata alla partecipazione della vita divina in Cristo e, come Cristo e in Cristo, a essere dono per gli altri: la pienezza alla quale l’essere personale è chiamato può essere raggiunta soltanto attraverso il dono di sé nell’amore. Considerare la persona come dono permette di capire in modo più completo la dinamica propriamente umana dell’amore: le persone sono i soggetti capaci di amare e di essere amati. Ma «essere amati non è mai una cosa “meritata”, ma sempre un dono»41. Innanzitutto è Dio ad averci amato per primo (cf. 1Gv 4,10), e perciò il primo e principale atto di donazione personale dev’essere l’accettazione di questo amore e la corrispondenza ad esso mediante la personale donazione a Dio. Gli scritti di san Giovanni sono specialmente espliciti e chiari nell’affer- mare che non sarebbe cristiano, anzi sarebbe contraddittorio, pretendere di amare Dio senza amare gli altri (cf. Gv 15,9ss; 1Gv 3,14ss; 4,21). L’amore cristiano – la carità soprannaturale – assume, eleva e conferisce universalità al naturale amore umano, purificandolo dai resti di egoismo che si nascon- dono nella limitatezza della natura ferita dal peccato. Questa carità è amore per Dio che porta con sé necessariamente l’amore per gli altri, ed è possibile come corrispondenza all’amore di Dio per noi. Soltanto la partecipazione dell’amore infinito, che è lo Spirito Santo (cf. Gal 5,22-23)42, rende possibile superare sempre e in ogni caso la limitazione umana,

«vincendo sempre più gli ostacoli immensi che l’amor proprio crea nei rap- porti umani. È una impresa stupenda, che nessuno può toglierci, che non viene mai meno, fino all’ultimo respiro, che non conosce insuccessi, perché il

40 Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, n. 24. 41 Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, n. 35. 42 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 24, a. 7: (caritas) est enim participa- tio quaedam infinitae caritatis, quae est Spiritus Sanctus. Metafisica della persona e mistero di Cristo 89

vero amore non cerca il riconoscimento altrui, pur promuovendo una reci- procità che garantisce la crescita dell’altro nella carità»43.

4. L’essere personale e la libertà La donazione di sé, come l’amore del quale è espressione, è un atto es- senzialmente libero. Perciò, scrisse san Josemaría Escrivá:

«Niente di più falso che opporre la libertà al dono di sé, perché tale dono è conseguenza della libertà (...) Nel dono di sé volontario, in ogni istante della dedicazione, la libertà rinnova l’amore»44.

E, a sua volta, l’amore accresce la libertà: «Soltanto quando si ama si giunge alla libertà più piena»45. Amare è l’atto proprio della libertà. Lo spi- rito della persona umana ha l’atto di essere per sé (e non per la sua unione alla materia corporale), e ciò le conferisce l’autopossesso e quindi la libertà. In altre parole: l’essere per sé (spirito) è radice dell’agire per sé (libertà)46. La libertà è il fondamento della struttura esistenziale della persona e, a sua volta, ha il proprio fondamento nel modo in cui l’atto di essere appartiene allo spirito creato. Una libertà che non soltanto si esprime nelle scelte parti- colari ma anche e soprattutto al livello più radicale della struttura dell’essere personale, come capacità di decidere il suo destino.

«Non raramente si è insistito unilateralmente sulla libertà come capacità di scelta dei mezzi, lasciando nell’ombra il fatto che in primo luogo essa è invece il potere di proporsi un fine, e in definitiva il fine in senso proprio, che è il fine ultimo»47.

Certamente la libertà presuppone la conoscenza intellettuale; ma la libertà dirige tutta la persona, anche l’intelletto; san Tommaso lo esprime con particolare chiarezza: Intelligo enim quia volo; et similiter utor omnibus potentiis et habitibus quia volo48. In questo senso si può affermare che «la

43 Borghello, Liberare l’amore, cit., 407. 44 Josemaría Escrivá, Amici di Dio, Ares, Milano 20027, nn. 30-31. 45 Ibid., n. 38. 46 Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 75, a. 3; C. Cardona, Metafísica del bien y del mal, Eunsa, Pamplona 1987, 92 47 Clavell, Metafisica e libertà, cit., 184. 48 Tommaso d’Aquino, Quaest. disp. De malo, q. VI, art. unico. 90 Fernando Ocáriz libertà non è una semplice proprietà della volontà umana, una caratteristica del volere; bensì la libertà è caratteristica trascendentale dell’essere umano, è il nucleo stesso di ogni azione realmente umana»49. Nella libertà della persona umana troviamo l’immagine di Dio, che è li- bertà assoluta50. All’interno della vita trinitaria tutto è pienezza di amore che si identifica con l’essere, e l’intera creazione emerge dal nulla come frutto di una decisione divina radicalmente libera: liberrimo consilio51. Certamente la libertà divina è avvolta nell’ineffabile mistero di Dio, ma allo stesso tempo costituisce un punto di riferimento decisivo per capire più profondamente la libertà umana. Soltanto una metafisica della persona come immagine di Dio è fondamento di una metafisica della libertà intesa come la forma più alta di partecipazione all’essere di Dio. La libertà umana non è soltanto limitata ma anche ferita dal peccato. Tuttavia, come leggiamo nella lettera ai Galati, Dio ci chiama a una nuova libertà: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,13). Chia- mati alla libertà in Cristo; a una libertà, che lo stesso Cristo ha reso possibile mediante la sua morte e risurrezione, mediante la sua vittoria sul male e sul peccato. «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). La verità che rende liberi è la verità dell’amore di Dio per noi e la verità del cammino che conduce alla partecipazione della vita divina: Cristo e la sua donazione, dalla quale ci viene la grazia dell’adozione filiale per il dono dello Spirito Santo. È così che la persona umana riceve una nuova libertà, che è dono di Cristo (cf. Gal 5,1) ed è posseduta in Cristo (cf. Gal 2,4)52. È la libertà dei figli di Dio: libertà dal peccato e dall’egoismo, che spinge all’amore sotto l’azione dello Spirito Santo. La legge di Cristo rende liberi – è «legge perfetta di libertà» (Gc 1,25) – proprio perché si riassume nell’amore (cf. Rm 13,8-9). San Paolo mette in particolare rapporto la condizione di figli di Dio con la libertà, intesa anzitutto come liberazione dal timore servile: «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà!, Pa-

49 Cardona, Metafísica del bien y del mal, cit., 99. 50 Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, Prol., dove cita Giovanni Dama- sceno, De fide orthodoxa, l. 2, c. 12 (PG 94, 920). 51 Concilio Vaticano I, Cost. Dei Filius, c. 1: Dz 1783. 52 Cf. K. Niederwimmer, Libertà, in H. Balz - G. Schneider, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004, 1152-1156. Metafisica della persona e mistero di Cristo 91 dre!”» (Rm 8,15). E «lo Spirito stesso – scrive l’Apostolo –, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,16). In quale modo lo Spirito Santo rende a noi questa testimonianza? Certamente non mediante una voce esteriore, bensì mediante l’amore filiale che diffonde in noi53. Testimonian- za della filiazione e testimonianza della libertà trovano una comune radice nell’esperienza interiore dell’amore filiale, della carità. Questo rapporto tra carità e libertà è messo in luce da san Tommaso d’Aquino, ad esempio, quando afferma: quanto aliquis plus habet de carita- te, plus habet de libertate54. Questa «appartenenza» della libertà alla carità, come aveva già scritto sant’Agostino – libertas est caritatis55 – mostra che è lo Spirito Santo – Carità infinita – a renderci liberi con la libertà dei figli. Questa nuova libertà ci fa pensare anche alla già considerata novità nell’atto di essere come radice ultima dell’adozione filiale, tenuto conto del rapporto tra atto di essere e libertà. La nuova libertà non è perfetta in questo mondo, come non lo è la no- stra filiazione divina in Cristo. Come in tutto il mistero cristiano, troviamo qui necessariamente la dimensione escatologica; scrive san Paolo:

«Ritengo infatti, che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della crea- zione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio (...). Anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,18-19.21).

5. Conclusione Le precedenti riflessioni si possono riassumere dicendo che la luce che il mistero di Cristo proietta sulla metafisica della persona ci porta al livello del costitutivo metafisico più intimo e radicale, vale a dire al livello dell’atto di essere. Il modo in cui la persona ha l’atto di essere è radice della libertà, quindi della capacità di amare e di donarsi. Lo stesso atto di essere è il fondamento immediato della relazionalità a Dio, destinata per natura a esprimersi nella

53 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Epistolam ad Romanos Lectura, c. VIII, lec. III (Ma- rietti, n. 645). 54 Ibid., In III Sent., d. 29, q. un., a. 8, qla. 3 s.c. 55 Agostino, De Natura et gratia, 65, 78 (PL 44, 286). 92 Fernando Ocáriz conoscenza e nella donazione di amore a Dio stesso e alle altre persone. Dal punto di vista della metafisica, il mistero di Cristo ci porta a vedere l’atto di essere divino sussistente nel Verbo come dono all’umanità di Gesù: la stessa persona divina di Cristo è quindi dono. Essendo Cristo l’uomo perfetto a immagine del quale fu creato Adamo, il mistero di Cristo illumina con nuova intensità anche il carattere di dono della persona umana, che «non può ritro- varsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (Gaudium et spes). Inoltre, Gesù Cristo, nella donazione della sua vita fino alla morte, ha reso possibile sanare ed elevare la persona umana dal peccato alla condi- zione di figlio di Dio Padre nello stesso Cristo per lo Spirito Santo. Questa adozione filiale raggiunge la persona dal suo più intimo costitutivo, dall’atto di essere. Nella sua novità – si tratta di una nuova creazione (cf. 2Cor 5,17) – l’atto di essere diventa l’immediato fondamento della nuova relazionalità a Dio e alle altre persone, nella nuova libertà, nel nuovo amore. Così la per- sona umana può camminare nella luce (cf. 1Gv 1,7) – nella luce che è Cristo (cf. Gv 1,4; 8,12; 12,46) – ed essere con lui e in lui dono di luce per il mondo (cf. Mt 5,14).

Sintesi La luce che il mistero di Cristo proietta sulla metafisica della persona ci porta al livello dell’atto di essere, che è anche il fondamento della relazionalità a Dio e alle altre persone. Gesù, nella sua donazione fino alla morte, ha reso possibile sanare ed elevare la persona umana dal peccato alla condizione di figlio di Dio Padre nello stesso Cristo per lo Spirito Santo. Questa adozione filiale raggiunge la persona dal suo più intimo costitutivo, dall’atto di essere. Nella sua novità – si tratta di una nuova creazione (cf. 2Cor 5,17) – l’atto di essere diventa l’immediato fondamento della nuova relazionalità a Dio e alle altre persone, nella nuova libertà, nel nuovo amore. Così la persona uma- na può camminare nella luce (cf. 1Gv 1,7) – nella luce che è Cristo (cf. Gv 1,4; 8,12; 12,46) – ed essere con lui e in lui dono di luce per il mondo (cf. Mt 5,14). CRISTO LUCE, FORMA DELLA SANTITà DI Tommaso d’Aquino

 Angelo Amato

path 9 (2010) 93-107

1. L’incarnazione, mistero di elevazione dell’umanità Quando sono stato invitato, circa un mese fa, si era in prossimità del santo Natale. Avevo tra le mani un libro appena pubblicato sulla figura so- ciale di Cristo in san Giovanni Crisostomo. In realtà, oltre a una vigorosa e dettagliata analisi del pensiero del Crisostomo, l’opera è la testimonianza di un amore sconfinato a Cristo risorto e alla sua presenza eucaristica tra noi. Nella premessa, l’autore, Luigi Maria Verzé – sacerdote e imprenditore sanitario – scrive di avvertire una grande affinità di spirito con il Boccadoro, che era irruente, possedeva la carica polemica di Demostene ed era colmo della verità:

«Una verità maturata, metabolizzata – maciullata, persino – in se stesso: ave- va il Verbo incarnato»1.

L’incarnazione – difesa con vigore dal Crisostomo contro ogni contraf- fazione ereticale – non ha lasciato l’uomo com’era, dal momento che ha por- tato nel nostro genoma un elemento nuovo, che è il divino. Il Verzé scrive:

«Il fenomeno dell’incarnazione è sempre lì [...], ed è per questo che la figura di Cristo, una volta conosciuta, costituisce il tormento di ogni uomo. Perché è dentro di noi! È dentro il nostro genoma. È il cromosoma di Dio entrato nel cromosoma dell’uomo, facendone un’unità»2.

1 L.M. Verzé, Cristo il vero riformatore sociale, Editrice San Raffaele, Milano 2009, p. 12. 2 Ibid., p. 24-25. 94 Angelo Amato

Per questo, Cristo, vero Dio e vero uomo, è la leva che innalza l’uomo non solo dal punto di vista fisico – egli fu anche medico dei corpi – ma anche dal punto di vista culturale, sociale e spirituale. Questa elevazione, promossa nella più assoluta libertà, costituisce la dote ma anche la meta di ogni essere umano, la cui suprema realizzazione è la santità: «Credo che un uomo intel- ligente non possa evitare di diventare santo»3. Queste parole del Verzé mi erano sembrate come pepite d’oro nel no- stro pletorico linguaggio su nostro Signore. Inoltre, avevano una provviden- ziale consonanza con quanto il Santo Padre, sempre in prossimità del Nata- le, aveva detto:

«Quando la Chiesa venera un santo, annuncia l’efficacia del Vangelo e scopre con gioia che la presenza di Cristo nel mondo, creduta e adorata nella fede, è capace di trasfigurare la vita dell’uomo e produrre frutti di salvezza per tutta l’umanità»4.

I santi – continuava il Santo Padre – sono il «segno di quella radicale novità che il Figlio di Dio, con la sua incarnazione, morte e risurrezione, ha innestato nella natura umana [...]. Essi hanno realizzato in pienezza quella caritas in veritate che è il sommo valore della vita cristiana, e sono come le facce di un prisma, sulle quali, con diverse sfumature, si riflette l’unica luce che è Cristo»5. Perciò, la santità e cioè la trasfigurazione degli esseri umani a immagine del Cristo risorto, rappresenta lo scopo ultimo del piano divino di salvezza, come ricorda l’apostolo Paolo: «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Fu questa elegante coincidenza di considerazioni, che mi spinse ad ac- cettare il vostro invito. E vi sono grato. Mi ha permesso, infatti, di rileggere la figura di san Tommaso d’Aquino proprio alla luce di questo stupore: la contemplazione di Cristo, fatta da un pensatore e da un santo, totalmente affascinato dal mistero dell’incarnazione e dell’Eucaristia.

3 Ibid., p. 28. 4 Benedetto XVI, Discorso alla Congregazione delle Cause dei Santi, 19 dicembre 2009, n. 2. 5 Ibid., n. 3. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 95

2. La contemplazione teologica di Cristo Uno studioso dell’Aquinate afferma non senza enfasi: «Su Tommaso d’Aquino, Gesù Cristo esercitò un fascino grandissimo, fortissimo, vivissi- mo, profondissimo e costante»6. In realtà, sappiamo che la riflessione di Tommaso era ampiamente indi- rizzata alla «teologia», allo studio cioè di Dio Trinità e alla creazione, piut- tosto che alla «cristologia». In sede assiologica, però, l’Aquinate vedeva in Cristo la via per la visione beatificante di Dio Trinità:

«Tutta la conoscenza della fede si concentra su queste due verità: la divinità della Trinità e l’umanità di Cristo, né ciò deve meravigliare, perché l’Umanità di Gesù è la Via per la quale si giunge alla Divinità»7.

Commentando Gv 14,6, dove Gesù dice di essere la via, la verità e la vita, Tommaso nota:

«Se cerchi per dove passare, prendi Cristo, perché lui è la via [...]. Se cerchi dove andare, aderisci a Cristo, perché lui è la verità, alla quale desideriamo pervenire. [...] Se cerchi dove stare, aderisci a Cristo, perché lui è la vita. [...]. Stai unito a Cristo, se vuoi essere sicuro: non potrai deviare, perché egli è la vita»8.

Per Tommaso il mistero di Cristo apparterrebbe non tanto alla logica necessaria della natura divina, ma alla sua sovrabbondante misericordia. Cri- sto è l’uomo per gli altri e l’incarnazione è un miracolo singolarissimo:

«Il mistero che, tra tutte le opere di Dio, è quello che più sorpassa la capa- cità della nostra ragione, dal momento che non si può immaginare un fatto

6 B. Mondin, La cristologia di san Tommaso d’Aquino. Origine, dottrine principali, attua- lità, Urbaniana University Press, Roma 1997, p. 11. 7 Compendium Theologiae, l. 1, c. 2. Tommaso distribuisce la sua riflessione su Cri- sto nelle sue opere più importanti, nel Commento alle Sentenze, nella Summa Contra Gen- tiles, nella Summa Theologiae, nel Compendium Theologiae, nel Commento al Simbolo, nella Quaestio disputata de unione Verbi Incarnati, nelle Quaestiones disputatae de veritate (q. XX, XXIX), nei Commenti alla Sacra Scrittura. 8 «Si ergo quaeras quo transeas, accipe Christum, quia ipse est via. […] Si vero quaeras quo vadis, adhaere Christo, quia ipse est veritas, ad quam desideramus pervenire. […] Si quaeris quo permaneas, adhaere Christo, quia ispe est vita. […] Adhaere ergo Christo, si vis esse securus: non enim poteris deviare, quia ipse est via»: In Johannis Evangelium, c. 13. 96 Angelo Amato

più mirabile di questo e cioè che il Figlio di Dio, vero Dio, si facesse vero uomo»9.

Nel sermone per la prima domenica di Avvento, egli aggiunge:

«Molte sono le meraviglie delle opere divine [...]. Ma nessuna opera di Dio è tanto meravigliosa quanto la venuta di Cristo nella carne. La ragione è che nelle altre opere divine Dio ha impresso la sua immagine nelle creature, nell’opera dell’incarnazione Dio ha invece impresso sé stesso e sé stesso ha unito alla natura umana nell’unità della persona, ossia ha unito la nostra natura a sé; e se non è del tutto possibile comprendere le altre opere divine, quell’opera, cioè l’incarnazione, è assolutamente fuori dalla portata della ragione»10.

In questo sermone l’Aquinata sottolinea il molteplice valore salvifico dell’incarnazione:

«Niente gioverebbe a noi che Cristo sia venuto nella carne se di conseguen- za non venisse anche nella mente, cioè santificandoci [...]. Grazie a questo avvento, che si compie per la grazia giustificante, l’anima è liberata dalla col- pa, anche se non da ogni pena, perché le è conferita la grazia ma non ancora le è conferita la gloria, e per questo è necessario il terzo avvento di Cristo, nel quale egli viene alla morte dei santi, cioè quando egli li riceve in sé stesso [...]. Il quarto avvento di Cristo sarà per giudicare, cioè quando il Signore verrà per il giudizio, e allora la gloria dei santi traboccherà fino al corpo e i morti risorgeranno. [...]. Per questi quattro avventi la Chiesa celebra le quattro domeniche di avvento»11.

La terza parte della Summa, che in cinquantanove questioni contiene la trattazione cristologica sistematica, comprende due ordini di tematiche12. Anzitutto vengono trattate le questioni disputate classiche, come la con- venienza dell’incarnazione, il modo e il significato dell’unione ipostatica, la grazia di Cristo come uomo singolo e come capo della Chiesa. Tra questi temi spicca, per la sua perspicacia teoretica, quello della scienza umana di Cristo. L’Aquinate, rileggendo la Scrittura, attribuisce a Cristo sia la scienza beata, sia la scienza indita o infusa sia la scienza acqui- sita o sperimentale. La modernità di questa dottrina – difficilmente appro- fondita se non apertamente respinta nelle moderne trattazioni cristologiche

9 Summa Contra Gentiles, IV, 27. 10 Sermo «Ecce Rex tuus venit». 11 Ivi. 12 Summa Theologiae, III, q. 1-59. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 97

(ricordo qui la difficoltà e anche il netto rifiuto di Jean Galot a questa ipote- si) – non viene rigettata nemmeno dalle moderne analisi psicologiche, che, a ragione, ammettono vari piani di conoscenza nella nostra psiche umana. Del resto, anche Teresa d’Avila, nel suo Castello interiore, paragona l’anima umana proprio a un luminoso castello, con la molteplicità e la complessità dei suoi strati di coscienza e di inconscio. Un secondo ordine di tematiche riguarda i misteri della vita terrena di Gesù. È un’interrogazione teologica sui grandi momenti di questa esistenza, per discernere il loro significato e valore soteriologico. Si approfondiscono, quindi, questioni come la concezione verginale di Gesù, la nascita, la sua ma- nifestazione al mondo, il battesimo, le tentazioni, la predicazione, i miracoli, la trasfigurazione, la preghiera, la passione, la morte, la sepoltura, la discesa agli inferi, la risurrezione, l’ascensione e la sua glorificazione alla destra del Padre. La trattazione continua con la dottrina sacramentaria circa il Battesi- mo, l’Eucaristia e la Penitenza. Come si vede, la riflessione cristologica non si limita ai soli misteri enunciati nel Credo niceno-costantinopolitano, ma abbraccia l’intera trama dei Vangeli. L’approccio è prettamente teologico: che significa la nascita verginale di Cristo o il suo battesimo o la sua trasfigurazione? Come ha vissuto la sua passione e morte? Qual è il significato della sua risurrezione e delle sue apparizioni? Non si tratta certo di una moderna cristologia dal basso, che cerca di risalire dalle azioni, dagli atteggiamenti e dalle parole di Gesù al suo esse- re. L’ispirazione dell’Aquinate resta quella di una cristologia dall’alto, come quella giovannea, quella dei grandi concili patristici, alla quale, però, egli dona un’originale densità storica. La figura di Cristo, figlio di Dio incarnato, riceve quindi pieno spessore umano, agli antipodi di ogni docetismo. In questa parte, la persona e l’azione del Redentore si inseriscono in una economia di salvezza, che rivela la presenza e la potenza di Dio Trinità nella storia. La teologia trinitaria è, infatti, sottesa in filigrana in tutta la riflessione della vita terrena di Gesù:

«La persona di Cristo non trova la sua spiegazione ultima che in riferimento alla Trinità: al Padre in rapporto al quale si definisce la sua identità filiale, allo Spirito che presiede alla sua concezione e dà al suo agire la sua efficacia salvifica»13.

13 J.-P. Torrell, Le Christ en ses mystères. La vie et l’oeuvre de Jésus selon saint Thomas d’Aquin, Desclée de Brouwer, Paris 1999, p. 714. 98 Angelo Amato

Come per i Padri greci, anche per Tommaso l’umanità di Cristo è lo strumento della sua divinità. Non è però uno strumento inerte e passivo. È una umanità, che, unita al Verbo in una vicinanza che più stretta non si può immaginare, agisce in piena libertà. Cristo è infatti vero Dio e vero uomo. Un semplice uomo non può essere il salvatore dell’umanità. Solo un uomo- Dio può farlo. Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo. È persona divina incarna- ta. Non è un uomo assunto, ma Dio incarnato. L’accettazione libera e consapevole della sua passione e morte in obbe- dienza al Padre è l’apice del mistero della redenzione. E l’universalità salvifi- ca della redenzione di Cristo deriva proprio dalla sua divinità, che trascende i limiti del tempo e dello spazio e raggiunge l’umanità del passato, del pre- sente e del futuro. La struttura teandrica del mistero di Cristo si riflette, poi, nei sacra- menti, che dall’Aquinate sono trattati a conclusione della Tertia Pars della Summa.

3. La contemplazione eucaristica di Cristo Oltre alla riflessione teologica sull’incarnazione, Tommaso era partico- larmente attratto dalla contemplazione del mistero eucaristico, questa «in- carnazione continuata». Nelle antiche biografie, si narra che, durante il suo secondo professora- to a Parigi (1269-1272), tra i docenti dell’università si discuteva sulle dimen- sioni del corpo di Cristo nell’Eucaristia. Da una parte, i sensi percepiscono del pane e del vino il colore, il sapore, la durezza, la quantità e altri accidenti; dall’altra, la fede afferma che in quel pane e in quel vino sono presenti il corpo e il sangue di Cristo. Presentarono il quesito al maestro Tommaso, af- finché desse la sua risposta in modo tale che la verità fosse consona alla fede e persuasiva alla ragione. Tommaso raccolse i loro pareri e iniziò a pregare con grande devozione. In pratica, doveva riproporre quanto aveva già tratta- to nella Summa14, ma alla considerazione teologica voleva aggiungere anche la preghiera. Si recò quindi in chiesa e pose sull’altare il quaderno dove aveva scritto la risposta. Poi cominciò a pregare il Signore Gesù, affinché gli concedesse una grazia: se le cose che aveva scritto erano vere, che potesse insegnarle pubblicamente, se, invece, non erano vere, che fosse impedito di

14 Summa Theologiae, III, q. 76, a. 4; q. 77, a. 2. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 99 proporle. I frati osservavano curiosi Tommaso in preghiera. All’improvviso videro Cristo innalzarsi dinanzi a lui e dirgli:

«Bene hai scritto di questo sacramento del mio corpo e bene e secondo ve- rità hai risolto la questione che ti è stata proposta, per quanto sia possibile a uomo intendere e definire queste cose fin che si trova sulla terra»15.

Tommaso era così felice, che fu visto innalzarsi in alto, ancora proteso nella contemplazione della verità divina. Altri frati, tra cui il priore, accorse- ro a vedere e tutti testimoniarono quel fatto ad altri confratelli. Secondo qualche studioso, appare improbabile, data la rivalità che c’era a Parigi tra maestri mendicanti e maestri secolari, che i professori si siano rivolti a Tommaso per consultarlo. Sarebbe stato più plausibile se si fosse trattato di professori tutti domenicani. In ogni caso, a noi serve mostrare la semplicità del gesto: la preghiera che accompagna la riflessione teologica. Si tratta della testimonianza unanime di tutte le fonti coeve. Verso la fine della sua vita, Tommaso sembrò distaccarsi sempre più da quanto aveva scritto e insegnato. Nella sua contemplazione Tommaso, come era accaduto a Paolo di Tarso, sembrava vicino alla soglia del mistero, al regno della luce e della verità. Bartolomeo da Capua, al processo di canonizzazione, narrò che un giorno (era il 6 dicembre 1273), durante la celebrazione della messa nel- la cappella di San Nicola, nella chiesa domenicana di Napoli, Tommaso si commosse improvvisamente e cambiò in modo sorprendente. Dopo quella messa, l’Aquinate non scrisse né dettò più niente e sospese anche la redazio- ne della Summa. Alle ripetute esortazioni di fra Reginaldo, rispondeva:

«Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto mi sembra nient’al- tro che un po’ di paglia a paragone di quello che ho visto e che mi è stato rivelato»16.

Questo episodio è raccontato anche da Guglielmo di Tocco, che riporta la testimonianza di fra Domenico da Caserta, probabilmente un frate laico. Questo religioso riferisce di aver trovato nella cappella di San Nicola fra Tommaso che pregava tra le lacrime, sollevato da terra di quasi due cubiti. A

15 Guglielmo di Tocco, Ystoria sancti Thome de Aquino, c. 53 (édition critique, intro- duction et notes C. Le Brun-Gouanvic, Toronto 1996). 16 Processus canonizationis S. Thomae, Fossae Novae, éd. M.-H. Laurent, in Fontes, fasc. 4, pp. 318-319. 100 Angelo Amato un certo punto si ode la voce del Crocifisso che dice: «Thoma, bene scripsisti de me, quam recipies a me pro tuo labore mercedem?». E Tommaso rispose: «Domine, non nisi te»17. Da quel giorno di dicembre, Tommaso fu come un felice prigioniero del mistero divino. L’argomentazione teologica, anche la più raffinata, gli sembrava ormai oscurare più che illuminare la verità. Immerso in essa, ogni articolazione linguistica, pur sapiente che fosse, gli appariva povera e inade- guata. E smise di scrivere e di dettare. La sua anima si era arresa alla verità divina, da lui tanto cercata, meditata, illustrata, amata. Il silenzio – ma un silenzio pieno di conoscenza placata – era ormai la sua unica forma di con- templare e di parlare di Dio. Per essere completi, bisogna aggiungere che egli, nell’abbazia di Fos- sanova, dove nei suoi ultimi giorni era stato accolto amorevolmente dai ci- stercensi, accondiscese alla richiesta dei monaci, commentando loro breve- mente il Cantico dei Cantici, quasi come preparazione all’abbraccio finale col Diletto. Ma non è pervenuto nessun testo al riguardo, e forse il santo avrebbe espresso solo qualche buon pensiero. È, invece, importante notare la confessione di fede cristologica ed euca- ristica che egli fece prima di morire:

«Io ti ricevo prezzo della redenzione della mia anima; io ti ricevo viatico del mio pellegrinaggio, per l’amore del quale ho studiato, vegliato, penato; ho predicato te, ho insegnato te; non ho mai detto nulla contro di te e se l’ho fat- to è stato per ignoranza, e non m’intestardisco nel mio errore; se ho insegnato male su questo sacramento o su altri lo sottometto al giudizio della santa Chiesa romana, nella cui obbedienza lascio adesso questa vita»18.

Come dice giustamente il Torrell, questa dichiarazione può servire a valutare in modo più positivo l’espressione: «Tutto ciò mi sembra paglia»:

La paglia serve a distinguere il grano della realtà dall’involucro delle parole: le parole non sono la realtà, ma la designano e vi conducono. Giunto alla realtà stessa, Tommaso aveva qualche diritto di percepire un certo distacco dalle parole, ma ciò non significa per nulla che egli considerava la sua opera senza valore. Egli si pone semplicemente “oltre”»19.

17 Guglielmo di Tocco, Ystoria, c. 35. 18 Guglielmo di Tocco, Ystoria, c. 59. 19 J.-P. Torrell, Amico della Verità. Vita e opere di Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, p. 392. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 101

4. La mistica eucaristica in Tommaso Nella scelta della sua vocazione, il giovane Tommaso aveva preferito ai benedettini di Montecassino, dai quali aveva ricevuto la sua prima educazio- ne, i domenicani di Napoli. Questa opzione – congetturano gli studiosi – è forse spiegabile col fatto che, oltre alla preghiera, nei domenicani era presen- te anche la predicazione, secondo il motto di san Domenico: «Parlate sem- pre con Dio o di Dio»20. Per Tommaso era cosa buona la contemplazione delle cose divine, ma cosa migliore era trasmetterle agli altri: «Contemplata aliis tradere», che dopo di lui verrà assunto come motto dal suo ordine21. Tommaso fu un frate contemplatore e predicatore dei misteri di Dio dalla cattedra e dal pulpito. In quell’abito bianco e nero, che i suoi familiari volevano strappargli di dosso ricorrendo anche alla prigionia, egli, da giovane, aveva visto l’ideale della sua vita: illuminare l’oscurità dell’ignoranza con la sapienza della pa- rola di Dio, letta, disputata, predicata. Era la sua, una predicazione gratiosa, ripiena di quella grazia soprannaturale che avvince e converte. Si adattano bene ai suoi insegnamenti le considerazioni contenute nella Summa:

«Per ottenere i suoi risultati, lo Spirito Santo si serve della lingua umana come di uno strumento, mentre simultaneamente perfeziona l’opera nell’anima de- gli uditori, perché invano, come dice san Gregorio, risuonerebbe all’orecchio la voce dei dottori se i cuori non fossero simultaneamente sotto l’azione dello Spirito Santo»22.

La contemplazione di Cristo in Tommaso fu opera di mente, ma anche di cuore. Ne fa fede l’ufficio per la festa del Corpus Domini preparato per in- carico di Papa Urbano IV nel 1264, oggi concordemente attribuito all’Aqui- nate, che, dalla Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento, attinge l’ispi- razione per uno straordinario capolavoro di teologia e di pietà eucaristica. Fra Tolomeo da Lucca, discepolo e amico del santo, afferma:

20 Atti del processo di canonizzazione: Atti di Bologna, 2,13, 29, 32,37, 41, 47. 21 P. Lippini, Introduzione, in Tommaso d’Aquino, Opuscoli Spirituali, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999, p. 6. 22 Summa Theologiae, II-II, q. 177, a. 1. 102 Angelo Amato

«Se si fa attenzione alle parole ci si accorgerà come nei testi di questo ufficio quasi tutte le figure dell’Antico Testamento sono state riprese e applicate al sacramento dell’Eucaristia con lo stile chiaro, proprio dell’Autore»23.

Tommaso, che era già noto per la sua grande capacità di tradurre in termini semplici e chiari i più alti misteri della fede, qui supera se stesso. L’Eucaristia era la sua passione spirituale. Celebrava quotidianamente la messa e un’altra l’ascoltava. A metà giornata era solito scendere in chiesa per accostare la sua fronte al tabernacolo. Affascinato dalla presenza eucaristica del Cristo, in questo ufficio Tommaso manifesta tutta la sua vena poetica. Diversamente dalle riflessio- ni sistematiche delle sue opere scientifiche, qui dà finalmente sfogo a quei sentimenti interiori che diventano alta poesia. La sua pietà eucaristica si fa lirica pura. L’ufficio di Tommaso diventa celebrazione e canto del mistero eucaristico:

«Pange, lingua, gloriosi corporis mysterium, sanguinisque pretiosi, quem in mundi pretium, fructus ventris generosi Rex effudit gentium» («Canta, o lin- gua, il mistero del corpo glorioso e del prezioso sangue che quale prezzo del mondo, frutto di un nobile grembo, il Re delle genti effuse»).

Le sue immagini icastiche attraversano i secoli, giungendo fino a noi luminose come perle preziose che, col tempo, risplendono più di prima. L’Inno dei vespri è una lezione di teologia eucaristica:

«Verbum caro panem verum, Verbo carnem efficit; fit sanguis Christi me- rum: et si sensus deficit, ad firmandum cor sincerum sola fides sufficit» («La Parola fatta carne con una parola cambia il pane in carne, e il vino diventa il sangue di Cristo, e se il senso viene meno, per confermare un cuore sincero basta la sola fede»).

C’è poi l’invito all’adorazione:

«Tantum ergo sacramentum veneremur cernui» («Un così grande sacramen- to dunque veneriamo prostrati»).

Il notissimo Tantum ergo da secoli è il canto che accompagna la benedi- zione con il Santissimo Sacramento.

23 Tolomeo da Lucca, Historia ecclesiastica nova, XXII, 24. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 103

Nell’Inno del mattutino ancora oggi risuona il canto del «Panis angeli- cus fit panis hominus» («Il pane degli angeli diventa il pane degli uomini»). Un inno che è diventato anche oggetto di musica concertistica. L’Inno alle Lodi è anch’esso una straordinaria catechesi poetica:

«Se nascens dedit socium, convescens in edulium; se moriens in pretium, se regnans dat in praemium» («Nascendo diede se stesso come compagno, se- dendo a mensa come cibo, morendo come prezzo, regnando come premio»).

E continua:

«O salutaris hostia, quae caeli pandis ostium; bella premunt hostilia, da ro- bur, fer auxilium» («O ostia salvifica, che apri la porta del cielo; premono guerre nemiche, donaci forza e aiuto»).

Anche O salutaris hostia è un classico dell’adorazione eucaristica catto- lica. La preghiera delle Lodi – «Deus qui nobis sub sacramento mirabili» – risuona ancora oggi nella preghiera liturgica e devozionale della Chiesa. L’Antifona al Magnificat è di una bellezza divina:

«O sacrum convivium! In quo Christus sumitur, recolitur memoria passionis eius, mens impletur gratia, et futurae gloriae nobis pignus datur».

La semplicità del linguaggio è inversamente proporzionale alla sua pro- fondità teologica. La Sequenza alla Messa è anch’essa un classico della litur- gia eucaristica:

«Lauda, Sion, Salvatorem, lauda ducem et pastorem, in hymnis et canticis».

In questo ufficio c’è il sigillo del maestro, del mistico e del santo:

«I tre stupendi inni che fanno parte dell’ufficio si differenziano da tutti gli inni che siano mai stati scritti prima»24.

Anche l’orazione, usata nell’ufficio e durante la messa, presenta carat- teri di particolare bellezza sia per la struttura poetica sia per la profondità teologica della concezione25:

24 J.A. Weisheipl, Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere, Milano, Jaca Book 1987, p. 187. 25 Ivi. 104 Angelo Amato

«Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai las- ciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo corpo e del tuo sangue, per sentire sempre in noi i benefici della redenzione».

Si tratta di una preghiera che abbraccia tre verità allo stesso tempo. Con- sidera il passato, in quanto memoriale della passione e morte di Cristo; il pre- sente, in quanto venerazione del corpo e sangue di Cristo presenti nell’Euca- ristia; il futuro, in quanto è pegno dei frutti che riceviamo ora e per sempre.

5. Il silenzio del mistico Alla fine del 1273, come si è già visto, Tommaso stava ancora lavoran- do alla Tertia Pars della Summa Theologiae. Da pochi giorni aveva portato a termine il suo splendido trattato di cristologia (questioni 1-59), quando all’improvviso smise di scrivere. La sua insaziabile sete di conoscere giunse alla conclusione che la com- prensione umana dei misteri di Cristo è una conoscenza lunare, oscura, um- bratile. È tota palea, tutta paglia. Il mistero di Cristo è inconoscibile e indici- bile, non per la sua oscurità, ma per la troppa luminosità. È come se l’occhio umano volesse guardare senza filtri la luce del sole. Ne rimarrebbe accecato. La consonanza più adeguata per immergersi nello splendore di Cristo è la contemplazione agapica, la conoscenza del cuore. Tommaso fu un teologo che gradualmente diventò un mistico. O me- glio, egli accompagnò la sua speculazione con un’intensa adesione di cari- tà al mistero di Cristo, da lui pregato, adorato e “gustato” nell’Eucaristia. Dopo aver completato le cinquantanove questioni cristologiche, egli sembra innalzarsi, come l’aquila giovannea, al di sopra degli umani ragionamenti, placandosi nella comunione d’amore con Cristo. Nella cristologia di Tommaso – ma si può dire in tutta la sua teologia – è evidente, anzi predominante, la dimensione “agapica”. L’opera della reden- zione è un atto d’amore di Dio. Afferma nella Summa contra Gentiles:

«Perciò Dio volle farsi uomo, perché nulla dimostra tanto il suo amore per l’uomo come l’unirsi a lui personalmente, essendo una proprietà dell’amore l’unire l’amante all’amato, per quanto possibile»26.

26 Summa Contra Gentiles, IV, 54. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 105

E ancora:

«Non c’è altro segno più evidente della carità divina di questo: Dio, creatore di tutto, diviene creatura, nostro Signore diviene nostro fratello, il Figlio di Dio diviene Figlio dell’uomo; Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio unigenito»27.

Anche le azioni e gli eventi della vita terrena di Cristo sono espressioni del suo amore: «Omnis actus eius informatus erat caritate»28. Soprattutto la sua passione «est ex caritate»29. Dal cuore trafitto di Cristo si espande un’ondata di carità, che irrora la Chiesa e il mondo con la grazia dei sette sacramenti. Dopo una vita dedicata alla riflessione teologica e dopo aver raggiunto l’apice della popolarità e della gloria accademica, verso la fine della sua esi- stenza il grande Tommaso d’Aquino (1224/25 - 1274) ebbe esperienze mi- stiche straordinarie, che gli fecero dichiarare l’assoluta inadeguatezza delle sue opere per la comprensione del mistero divino. Non riusciva ad articolare parola, perché la parola gli sembrava una cortina di nebbia, che oscurava e nascondeva la gloria di Cristo, più che rivelarla e diffonderla.

6. Una straordinaria modernità Cosa dire della cristologia tomista oggi? La riflessione dell’Aquinate risponde positivamente alla quadruplice difficoltà di una certa cristologia contemporanea, che tralascia l’affermazione della persona divina del Verbo; che trascura o nega la dottrina trinitaria, ritenuta un’elaborazione tardiva dei concili; che sottovaluta la cristologia prepasquale, considerata ininfluente per l’identificazione autentica del Cristo; che abbandona la dottrina dell’uni- versalità salvifica del sacrificio redentore della croce. La radice di queste aporie risiede nella ricerca di un novum, che trascura o rifiuta il verum. Il novum, invece, di Tommaso d’Aquino – sono note le otto novità ricordate da Guglielmo di Tocco30 – è saldamente ancorato al ve-

27 Compendium Theologiae, 219. 28 In III Sent., d. 18,1,2. 29 Ibid., d. 20, 5 ad 2. 30 Guglielmo di Tocco, Ystoria, c. 15. L’Aquinate presenta nuovi articoli, un modo nuovo e più chiaro di illustrarli, adducendo delle motivazioni nuove. Tutta questa novità però serviva a fugare i dubbi con nuove argomentazioni. Per cui, ascoltandolo, nessuno dubitava 106 Angelo Amato rum. Egli, infatti, esalta la tradizione biblica ed ecclesiale, approfondendone l’intelligenza critica. Il suo novum non distrugge, ma celebra la tradizione evangelica, rendendola autenticamente moderna, perché aperta alla ragione- volezza di un’intelligenza e di una comprensione libera. È questo il metodo “razionale” dell’Aquinate, che dice:

«Volendo procedere nel modo indicato, ci sforzeremo di evidenziare la verità che la fede professa e la ragione ricerca, invocando motivazioni certe e pro- babili, alcune delle quali raccolte dai libri dei santi e dei filosofi, con il fine di confermare la verità e di convincere l’avversario»31.

Il novum tomista non è arbitrario, ma si trova nel tesoro sempre attua- le della rivelazione divina e della tradizione della Chiesa. La modernità di Tommaso è data dalla sua forte radicazione biblica – anche a lui si potrebbe applicare il titolo dato a san Domenico di «vir evangelicus» –, e soprattutto dalla sua attenzione ai misteri del Gesù prepasquale. Nella trattazione della sua cristologia Tommaso segue un ordine “cro- nologico-biografico”, quello stesso dei Vangeli. È la storia di Gesù che il- lustra al meglio il mistero della redenzione dell’umanità. Anche nella parte “biografica” Tommaso esercita la sua «fides quaerens intellectum». La sua contemplazione del Cristo evangelico e del Cristo eucaristico è sempre accompagnata da una comunione di carità. Egli non si stanca di ripetere che tutta la legge dipende dalla carità e, in concreto, dalle parole, dall’esempio e dalla grazia dell’unico Maestro: Gesù Cristo32. La conoscenza agapica di Cristo promuove un processo di santificazione e di crescita nella carità. L’imitazione di Cristo è possibile solo perché egli accoglie i suoi amici nella sua carità, fonte di tutte le virtù:

«Non è una grande cosa – egli afferma – rinunciare a tutto. La perfezione piuttosto consiste nel seguire il Cristo e questo avviene mediante la carità […]. La perfezione non consiste in sé nelle cose esteriori: povertà, castità che Dio lo avesse dotato con i raggi di una nuova luce per cui le sue novità erano ispirate da Dio stesso. 31 Summa contra Gentiles, I c. 9: «Modo ergo proposito procedere intendentes, primum nitemur ad manifestationem illius veritatis quam fides profitetur et ratio investigat, indu- centes rationes demonstrativas et probabiles, quarum quasdam ex libris philosophorum et sanctorum collegimus per quas veritas confirmetur et adversarius convincatur». 32 Cf. J.-P. Torrell, Saint Thomas d’Aquin, Maître spirituel, Paris, Cerf 1996, pp. 489- 493. Cristo luce, forma della santità di Tommaso d’Aquino 107

e così via; esse non sono che dei mezzi per la carità. Per questo il Vangelo aggiunge: E lo seguirono»33.

La perfezione consiste nel camminare alla presenza del Signore e nell’amarlo in modo perfetto fino alla rinuncia a se stessi. Il «Vieni e se- guimi» detto da Gesù al giovane ricco (Mt 19,21) è il fine della perfezione cristiana. Seguimi significa in concreto «imita la vita di Cristo»34. E continua Tommaso:

«In questo mondo non si perviene alla perfezione se non seguendo le orme del Cristo, e nell’altro mondo la felicità eterna non si otterrà che per l’unione al Cristo»35.

7. Conclusione Questa sommaria lettura della biografia intellettuale dell’Aquinate fa emergere una realtà di fondo: Tommaso viveva la sua vocazione battesimale con lo sguardo della mente e con la passione del cuore rivolti a Cristo. Egli era formato da Cristo, che quotidianamente lo conformava a sé. Da Cristo a Tommaso c’è stata una sorta di travaso di conoscenza e soprattutto di carità, che ha portato la contemplazione dell’Aquinate fin quasi alla soglia della visione. Il donum veritatis ricevuto dal suo Signore diventò per lui il donum caritatis.

Sintesi La santità, e cioè la trasfigurazione degli esseri umani a immagine del Cristo risor- to, rappresenta lo scopo ultimo del piano divino di salvezza, come ci ricorda l’apostolo Paolo: «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). La relazione rilegge la figura di san Tommaso d’Aquino proprio alla luce di questo stupore: la con- templazione di Cristo, fatta da un pensatore e da un santo, totalmente affascinato dal mistero dell’incarnazione e dell’Eucaristia.

33 In Matthaeum 4,22. 34 Ibid., 19,21. 35 Ibid., 24,47.

Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis EcclesiÆ

Manlio Sodi, s.d.b.

path 9 (2010) 109-128

«Praesta, quaesumus, omnipotens Deus, ut clari- tatis tuae super nos splendor effulgeat, et lux tuae lucis corda eorum, qui per tuam gratiam sunt rena- ti, Sancti Spiritus illustratione confirmet»1.

Nell’ottica della riflessione prospettata all’interno del Forum, la metafo- ra della luce offre una multiforme varietà di elementi di approfondimento. Tra questi l’ambito liturgico risulta essere per alcuni aspetti privilegiato in quanto è proprio nel contesto dell’actio liturgica che il fedele sperimenta il senso e la realtà del suo essere luce, e di crescere e svilupparsi come fonte di luce qualora si accosti sempre più alla sorgente della luce che è Cristo. Incontrato nei santi misteri, il Cristo – che si è definito lux mundi (Gv 8,12) –, costituisce la sorgente e il punto di costante riferimento per una vita all’insegna di quella dimensione luminosa che lo caratterizza fin dal battesi- mo, sacramento che rende figli della luce e pertanto photizomenoi, secondo l’espressione di Mt 5,14: Vos estis lux mundi. Il percorso che si prospetta richiede tre precisazioni. Il contesto anzitut- to: dal “Cristo Luce” all’esperienza luminosa del vissuto cristiano, nell’ottica dell’itinerario del Forum (e in vista di ulteriori sviluppi). In secondo luogo, l’obiettivo da conseguire: si tratta di evidenziare il contesto in cui si ha la radice e il locus di questa originaria e permanente esperienza luminosa, e se-

1 Missale Romanum [= MR], Dominica Pentecostes, Ad Missam in vigilia: collecta. 110 Manlio Sodi condo quale percorso tutto questo si attua: dalla parola di Dio alla liturgia2; dalla celebrazione alla vita. Infine è doveroso ricordare il metodo adottato: è quello proprio della teologia liturgica: un metodo che già in precedenza durante altri lavori dell’Accademia è stato possibile evidenziare3. A partire da queste precisazioni, il percorso conduce anzitutto a co- gliere il senso racchiuso nell’espressione Lumen Christi con cui si apre la madre di tutte le veglie, la Vigilia paschalis (I) per sviluppare la riflessione attorno alla realtà del sacramento visto come fons e come culmen lucis (II). L’accostamento dell’anno liturgico come perenne occasione di celebrazione della lux claritatis (III) chiama in causa, in parallelo, anche la pietà popolare che nella via lucis contempla il Risorto presente nella sua Chiesa (IV). Se il cammino del fedele è all’insegna della luce, allora si sviluppa la dialettica tra illuminazione e divinizzazione quale aspetto costante dell’itinerario del fede- le in Cristo (V). Alcune conclusioni riconducono il percorso della riflessione all’obiettivo originario che caratterizza queste pagine.

1. «Lumen Christi» Identificare il mysterium lucis con la Pasqua è naturale e ovvio, sia per- ché la Pasqua è la sorgente luminosa che dà senso a tutto il cammino di fede e di vita del credente, sia perché è dalla Pasqua che scaturiscono tutti i giorni santi nei quali si compie l’itinerarium lucis del credente. «Lumen Christi gloriose resurgentis dissipet tenebras cordis et men- tis». Sono le parole con cui nella Veglia pasquale, dopo aver benedetto il fuoco nuovo si accende il cero pasquale, segno e simbolo di Cristo luce del mondo. Ed è da questo momento che risuona nel canto, con una crescita di tono sempre più elevata, che Cristo è la nuova e definitiva luce. Il cammino processionale, pur breve, dei fedeli verso il presbiterio, le tre soste in cui la luce del cero progressivamente si diffonde nell’intera assemblea sono già un annuncio; ma un annuncio che predispone alla celebrazione dell’evento pasquale ricco di elementi che frequentemente riconducono a questa dimen- sione luminosa.

2 MR, Vigilia paschalis, n. 9: «audientes verbum et celebrantes mysteria eius…». 3 Cf. quanto elaborato al riguardo dalla Pontificia Accademia Teologica e racchiuso nel volume: M. Sodi (ed.), Il metodo teologico. Tradizione, innovazione, comunione in Cristo (= Itineraria 1), LEV, Città del Vaticano 2008. Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 111

Al triplice annuncio «Lumen Christi» segue il Praeconium in cui la me- tafora della luce, unitamente al linguaggio non verbale della lampada accesa, è assunta come “linguaggio” per sintetizzare l’opus salutis compiuto da Dio «incommutabilis virtus et lumen aeternum»4. Da questo linguaggio “pasquale” scaturisce una serie di termini (essen- ziali) che caratterizzano la metafora della luce nell’eucologia del Missale5. Una semplice statistica permette di cogliere in modo immediato quanto sia presente il concetto-metafora, declinato in forme diverse secondo il tipo di testo e la diversa celebrazione in cui il termine è usato: claritas (32x) claresco (9x) fulgor (3x) fulgeo (11x) lumen (74x) luminaria (2x) lux (50x) luceo (8x) splendor (25x) Si tratta di un’abbondanza di connotazioni relative alla “luce” per in- dicare la Lux che è Dio, il suo volto; per professare la fede nel Cristo lumen de lumine e lucem de luce; per invocare lo Spirito Santo6; per fare esperienza della grazia… L’esame dettagliato porterebbe a dover evidenziare tutti i contesti in cui i singoli termini sono usati. Ne emergerebbe un orizzonte quanto mai ampio ed emblematico, speculare alla tematica biblica, e insieme tale da offrire uno sviluppo dei temi biblici7. È questo infatti il senso del linguaggio eucologico: mentre sviluppa un tema biblico, ne approfondisce il contenuto attualizzan- dolo nella celebrazione del mistero. Ed è proprio in questa attualizzazione

4 MR, Vigilia paschalis, n. 30. 5 Cf. M. Sodi - A. Toniolo, Concordantia et indices Missalis Romani. Editio typica tertia (= Monumenta Studia Instrumenta Liturgica [MSIL] 23), LEV, Città del Vaticano 2002. 6 MR, Die 20 decembris, collecta: «Sancti Spiritus luce repletur». 7 Cf. H.Chr. Hahn, Luce - lámpō - lýchnos - pháinō - phōs, in L. Coenen - E. Beyreu- ther - H. Bietenhard (edd.), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1989, pp. 944-954; lo stesso autore completa l’orizzonte con una Nota pastorale «Il culto della luce», pp. 954-958. Cf. anche M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Paoline, Cinisello B. (Mi) 1990, s.v., pp. 114-115. 112 Manlio Sodi che l’eucologia elabora termini e soprattutto espressioni tali da far rinascere la stessa tematica biblica. L’originario Lumen Christi della veglia pasquale, pertanto, non è solo un annuncio o un momento rituale per caratterizzare la celebrazione della Pasqua annuale, ma l’origine di quella perenne celebrazione della Pasqua quale si attua in ogni actio liturgica. Il ritorno sugli stessi concetti, sia pur con terminologie diverse, costituisce un modo attraverso cui il linguaggio liturgico si evolve a partire dalla sua fonte originaria – il linguaggio biblico –, e insieme avvolge spesso in modo poetico l’assemblea orante perché possa essere lei stessa sorgente di luce, quale riflesso di ciò che celebra. Da questa realtà scaturisce l’insieme del dinamismo sacramentale. Insie- me all’anno liturgico, i sacramenti sono le realtà in cui si attua l’incontro tra il Cristo luce e il fedele nei diversi passaggi della vita: alcuni sono unici, altri sono ripetuti ogni volta che lo spessore della tenebra o della penombra dei ritmi della vita lo richieda o lo invochi con insistenza.

2. Il sacramento fons et culmen Lucis Dall’evento pasquale scaturiscono tutti gli altri momenti sacramentali, a cominciare dall’Eucaristia sacramentum sacramentorum8. In sintesi è possi- bile individuare un percorso in questi termini essenziali.

2.1. Un’illuminante esemplificazione9

– Immersi per risorgere «alla vita immortale» (Battesimo). L’inizio dell’esperienza cristiana ha il suo fondamento nella rigenerazione batte- simale. Battezzato nel nome della Trinità Ss.ma, attraverso il «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito» (Tt 3,5) il fedele, inserito come membro vivo nel popolo sacerdotale, inizia il suo luminoso cammino di configurazione a Cristo; una configurazione che raggiungerà, di mistero in mistero, il suo compimento nell’essere «concittadini dei santi nel convito eterno». «Il dono nuziale del Battesimo, prima Pasqua dei credenti, porta della salvezza» segna l’«inizio della vita in Cristo, fonte dell’umanità nuova»:

8 MR, Institutio generalis, n. 368. 9 Le citazioni che caratterizzano questa parte provengono – salvo diversa indicazione – dai libri liturgici dei rispettivi sacramenti. Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 113 un inizio che è apertura e insieme garanzia di quella «pienezza del corpo di Cristo» il cui conseguimento può essere garantito, sorretto e accompagnato solo da un’esperienza costante del mistero celebrato.

– «Consacrati con l’unzione dello Spirito» (Confermazione). Nella Con- fermazione il mistero della Pasqua diventa attualizzazione dell’opera dello Spirito che trasforma il fedele «in tempio della gloria» di Dio. È questo che permette di portare a pienezza la realtà battesimale, di perfezionare nel cri- stiano «la somiglianza a Cristo» e di garantire la «piena conoscenza di tutta la verità». «Il sigillo dell’unzione crismale (!)» è l’espressione di quell’espe- rienza misterica che apre ad una vita di testimonianza luminosa del Signore risorto, a un’offerta di sé come risposta totale al Dio dell’alleanza, a una «santità della vita» che rispecchi «il carisma profetico del popolo» di Dio.

– Invitati al «convito nuziale» (Eucaristia). Il culmine dell’esperienza misterica cristiana si compie nella partecipazione alla Pasqua annuale, setti- manale, quotidiana. Una sintesi eloquente di quanto si realizza attraverso la celebrazione dell’Eucaristia è espressa in un embolismo prefaziale:

«In questo grande mistero tu [Padre] nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria»10.

Si intravede in questa prospettiva eucaristica quanto Paolo cerca di esprimere a proposito della comunione sempre più perfetta con il mistero di Cristo quando accenna alla cristificazione e divinizzazione del fedele in Cristo11.

– Riconciliati «nella morte e risurrezione» (Penitenza). L’esperienza di una vita penitente e riconciliata è garantita dall’incontro con Cristo morto e risorto nel segno sacramentale della conversione. La liberazione «dalle seduzioni del male» e l’esperienza della «gioia della misericordia» sono le condizioni per es-

10 MR, Praefatio II de Ss.ma Eucharistia. 11 Cf. l’elenco di termini paolini con il prefisso syn- che caratterizzano la progressiva conformazione del fedele a Cristo, in M. Sodi, Tra proclamazione e attualizzazione: il momen- to «sacramentale» dell’omelia, in «Rivista Liturgica» 95/6 (2008) 1001-1014, in particolare pp. 1008-1009 (la «recensione» dei termini è in progress). 114 Manlio Sodi sere trasformati in sacrificio gradito al Padre, dopo aver ricomposto «nell’uni- tà ciò che la colpa ha disgregato». Occasioni «di riconciliazione e di pace» offerte dal sacramento permettono di ritrovare «la via del ritorno» al Padre e insieme costituiscono l’occasione per un’ulteriore apertura «all’azione dello Spirito Santo» in modo da vivere «in Cristo la vita nuova».

– Uniti per «una comunione senza fine» (Matrimonio). Il mistero dell’al- leanza nuziale nel sacramento del Matrimonio diventa quotidiano «simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa». «Esprimere nella vita il sacramento che celebrano nella fede» per gli sposi diventa un progetto di azione dalle più ampie articolazioni. In definitiva, però, tutto si concentra e trova senso in quella dimensione cultica e comunionale dell’esistenza in Cristo che fa dei coniugi i sacerdoti-celebranti della loro totale comunione di vita. Ogni attività, pertanto, e ogni espressione di comunione trova nei più diversi lin- guaggi dell’essere e dell’agire cristiano quasi la “forma rituale” della risposta al Dio dell’alleanza. La visione sacramentale della vita matrimoniale assurge così a realtà attualizzante in una particolare scelta e condizione di una ri- sposta di fede che ha inizio nel Battesimo e continuamente si ristabilisce e si sostiene nei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia.

– Scelti come «dispensatori dei santi misteri» (Ordine). Il prolungamento visibile del ministero di Cristo Pastore che genera e unifica la vita del popolo di Dio, è segnato dal sacramento dell’Ordine. La donazione completa alla comunità ecclesiale sulla linea degli apostoli che «hanno fondato la Chiesa come santuario» di Dio «a gloria e lode perenne del [suo] nome» fa della vita del vescovo una conformazione speciale al mistero di Cristo Pastore. Ed è nell’esplicitazione di questo mandato che il vescovo realizza la mistica del servizio alla comunità a lui affidata e all’intera Chiesa di Cristo. La continua- zione dell’«opera santificatrice di Cristo» è affidata al ministero presbiterale. Attraverso questo servizio «il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfet- to, perché congiunto al sacrificio di Cristo»; ma la stessa realizzazione di tale servizio diventa per il presbitero il luogo del proprio sacrificio spirituale. La vita in Cristo che continuamente cresce nella celebrazione dei santi misteri acquisisce ogni giorno più i connotati di un’autentica vita mistica, in quanto espressione e prolungamento del mistero che celebrano. Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 115

– Unti per essere «partecipi della vittoria pasquale» (Unzione). Celebrare il sacramento dell’Unzione come vittoria sui limiti della malattia nella con- figurazione al Cristo sofferente che giunge alla gloria mediante la via della croce costituisce il luminoso traguardo di una vita mistica. La trasforma- zione progressiva e costante della realtà battesimale verso una sempre più piena conformazione a Cristo trova nella celebrazione dei santi misteri non un appuntamento qualunque, ma la garanzia certa e ineludibile di una “tra- sfigurazione” totale – superati i limiti dell’umana natura – della personalità cristiana nella persona divina del Cristo nel suo mistero pasquale. Unire le proprie «sofferenze alla Pasqua del Cristo crocifisso e risorto» è toccare il culmine della vita mistica; qui tutti i termini di Paolo che iniziano con syn- diventano inveramento e condizione di inserimento pieno nel Mystérion.

2.2. Per una vita luminosa in Cristo, formata alla luce dei santi misteri

Il raggiungimento di una vita vissuta come «culto spirituale» costituisce il traguardo di ogni esperienza sacramentale quando questa è assunta come sintesi di un impegno di vita che precede quanto si celebra nel sacramento, e che prolunga nuovamente nel tessuto quotidiano quanto espresso nei sim- boli cultuali. Tutto questo permette di concludere la presente sezione con alcune sottolineature. – Con l’espressione «liturgia della vita» non s’intende una frase ad effetto per fare di tutto un liturgismo; sulla linea di Rm 12,1 l’espressione denota il rendere la vita un’autentica liturgia, cioè un culto, un sacrificio spirituale che il fedele celebra nel proprio quotidiano e presenta al Padre per Cristo nello Spirito attraverso i simboli sacramentali. È sempre «per Cristo, con Cristo e in Cristo» che la vita cristiana si sviluppa come tale.

– Che i sacramenti siano il fondamento della spiritualità e della mistica non è un’affermazione parziale ma un dato di fatto. La realtà non è nuova, in quanto la storia delle comunità ecclesiali di ogni tempo è una testimo- nianza eloquente; nuova o rinnovata può essere la sensibilità che riemerge oggi nella vita della Chiesa a motivo di un’esperienza sacramentale più compresa e meglio partecipata, in quanto più impregnata dall’annuncio e dalla conoscenza diretta della parola di Dio. 116 Manlio Sodi

– Il raggiungimento del traguardo della vita mistica, infine, non appare in questa ottica come un privilegio riservato a un’élite di persone, ma come un impegno che sta davanti a chiunque percorra il cammino di fede sulle orme del Cristo. Per questo è fondamentale il ruolo dell’animazione e della formazione iniziale e permanente in qualunque stato di vita, in modo che l’espressione rituale del mistero costituisca lo specchio della dimensione spirituale e mistica della vita del fedele chiamato per vocazione originaria a essere lux mundi (Mt 5,14). La sacramentalità della storia della salvezza si compie dunque secondo i ritmi della vita della persona, nella perenne dialettica tra luce e tenebra, ma nella certezza che la luce risplende nelle tenebre: lux in tenebris lucet (Gv 1,5).

3. L’anno liturgico: lux claritatis12 L’orizzonte della presente riflessione permette di cogliere il significato dei vari periodi dell’anno liturgico. Nella loro diversità essi lasciano trasparire la unitarietà di un percorso che si muove dalla Genesi all’Apocalisse coinvolgen- do il perenne esodo di ogni persona che accetta di porsi al seguito di Cristo. E quella nube luminosa già adombrata nelle figure dell’Esodo13 si trasforma, con la risurrezione, in colonna di fuoco mirabilmente espressa nelle terminologie delle immagini pasquali e nei contenuti dei vari periodi dell’anno liturgico. L’esemplificazione che qui è possibile realizzare risulta necessariamente essenziale, ed è compiuta tratteggiando alcuni contenuti all’insegna di testi che lascino solo trasparire la grande ricchezza che il linguaggio liturgico pos- siede. L’esemplificazione si concentra solo sul linguaggio eucologico; a que- sto andrebbero uniti i temi propri della liturgia della Parola sia per la loro ricchezza, ma sia soprattutto perché è da questi temi che traggono alimento i testi eucologici.

3.1. Tempi «forti»

Sono così chiamati «forti» – con una terminologia che cerca di eviden- ziare l’importanza dei periodi non in contrapposizione a tempi “deboli” –

12 Il sintagma appartiene all’embolismo del Praefatio I de Nativitate Domini. 13 Cf. la rilettura tipologica realizzata da Paolo in 1Cor 10,1-6: «… i nostri padri furono tutti sotto la nube e tutti attraversarono il mare…». Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 117 quei periodi in cui il mysterium lucis rifulge con particolare evidenza nel celebrare il memoriale degli eventi essenziali della salvezza in Cristo e nella Chiesa. I singoli esempi, uno per ogni periodo, costituiscono solo dei richiami sia all’evento fondante costituito dalla Pasqua di Cristo, sia alle conseguenze che scaturiscono dal confronto con tale mistero per la vita del credente. – Avvento. «Oriatur… in cordibus nostris splendor gloriae tuae, ut, omni noctis obscuritate sublata, filios nos esse lucis Unigeniti tui manifestet ad- ventus». È l’espressione con cui si apre la colletta del sabato della II set- timana di Avvento. La dialettica contrapposta tra lo splendor gloriae che scaturisce dalla prossima venuta del Cristo e l’obscuritas noctis tipica del cor fidelium sfocia nella richiesta di potersi realizzare da parte dei fedeli come filii lucis in forza dell’adventus del Figlio Unigenito.

– Natale. «… dum nova incarnati Verbi tui luce perfundimur, hoc in nostro resplendeat opere, quod per fidem fulget in mente». Tre verbi modulano il contenuto della colletta della missa in aurora del Natale. La constata- zione dell’esperienza della luce che proviene dal Verbo incarnato e che promana dalla celebrazione, si apre a una dialettica in cui opus e mens non appaiono come termini contrapposti, ma come condizione perché ciò che per fidem fulget in mente possa attuarsi o meglio resplendere in nostro opere. E tutto questo sempre a partire da quella nova lux che proviene dal Verbo incarnato.

– Quaresima. «… inter tenebras mortalium ambulantes tua semper luce vivifica, atque a malis omnibus clementer ereptos, ad summa bona per- venire concede». L’oratio super populum della IV domenica di Quaresi- ma racchiude un’invocazione di protezione e di sostegno. Nel contesto l’inciso ricorda la situazione esperienziale di ogni fedele che camminando inter tenebras mortalium ha bisogno di essere costantemente rinnovato e rivitalizzato tua semper luce. È dunque dal cammino verso la Pasqua, e più specificamente dall’esperienza sacramentale che sta per compiersi, che la metafora della luce è usata per identificare l’azione di Dio che solo può concedere di pervenire ad summa bona.

– Triduo. «Oremus et pro iis qui in Christum non credunt, ut, luce Sancti Spiritus illustrati, viam salutis et ipsi valeant introire». Nella VII monizio- 118 Manlio Sodi

ne dell’oratio universalis del venerdì santo si invita l’assemblea a pregare per quelli che non credono in Cristo. Il motivo della preghiera è introdot- to già dall’ut che apre sulla richiesta espressa nell’orazione che segue al silenzio orante: che tutti possano entrare nella via della salvezza. La con- dizione è data dall’inciso: luce Sancti Spiritus illustrati. La figura retorica condensata nel luce illustrati denota l’azione dello Spirito e soprattutto il contenuto di tale azione, aperto al dono della luce.

– Pasqua. «… claritatis tuae super nos splendor effulgeat et lux tuae lucis corda eorum… Sancti Spiritus illustratione confirmet». Il compimento del tempo di Pasqua è costituito dalla Pentecoste. Nella messa vigiliare la seconda colletta proposta dal Messale racchiude l’espressione che meglio di qualunque altra può essere assunta come emblematica e insieme sinte- tica del luminoso cammino della Pasqua. Il gioco dei termini manifesta una varietà di elementi per ribadire che tutto si muove all’interno di una claritas, di uno splendor, di una lux, di una illustratio. L’approfondimento dei termini e soprattutto dei sintagmi porterebbe a un’ulteriore pagina di teologia di quella Luce che è Cristo e di ciò che egli opera attraverso l’azione (illustratio) dello Spirito.

3.2. Tempo ordinario e Santorale

Unire il Tempo ordinario con il Santorale non è un’operazione esem- plare sotto l’aspetto metodologico in quanto si tratta di due realtà inerenti al mistero pasquale ben diverse. Qui si uniscono le due prospettive solo per esemplificare sul dato ricorrente: è sempre la Pasqua di Cristo la sorgente luminosa da cui si dipana tutto lo svolgersi del tempo nell’anno liturgico; ma è sempre la Pasqua a essere la sorgente luminosa che trasforma le persone in sorgenti di luce: una luce pur sempre riflessa, qual è quella che traspare dalla vita dei santi e in prima istanza dalla Vergine Maria fons lucis perché Mater luminis14. – Un esempio tra i tanti desunto dal Tempo ordinario: «Deus qui… lucis nos esse filios voluisti, praesta … ut … in splendore veritatis semper

14 Cf. Congregatio pro Cultu divino, Collectio missarum de B. Maria Virgine, formu- lario n. 16: Sancta Maria, fons lucis et vitae. Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 119 maneamus conspicui». La colletta della XIII domenica del Tempo ordina- rio presenta un contenuto che può essere assunto come emblematico per la nostra riflessione. L’invocazione iniziale riconduce l’attenzione orante dei fedeli al fatto che Dio ha predisposto nel suo progetto di salvezza di volerci filios lucis. Se questo è il progetto salvifico, di conseguenza scaturisce una duplice richiesta: non involvamur tenebris errorum, ma che possiamo rima- nere sempre in splendore veritatis. La dialettica tra la tenebra dell’errore e lo splendore della verità interpella costantemente la vita del fedele; ed è pro- prio per questo che per il fedele permane esaltante e insistente la richiesta di realizzarsi come filius lucis.

– L’esame dei contenuti del Santorale rivela sorprese molto eloquenti. Di fatto i santi sono coloro che traendo luce e forza dal Cristo costituiscono un esempio luminoso per seguire la sorgente e farsene propagatori. Due esempi tra i numerosi che il Missale può offrirci sia all’interno del proprium che del commune:

• «… in vocatione nostra fideliter ambulantes, lucis exempla iugiter osten- damus»: l’espressione fa parte della colletta della memoria di santa Gio- vanna Francesca de Chantal (12 agosto). Seguendo l’esempio della santa che ha vissuto tante situazioni della vita, sempre caratterizzate da splen- didi meriti (praeclaris meritis illustrasti), l’assemblea domanda di poter vivere la propria vocazione con esempi di vita vissuta all’insegna della luce (lucis exempla).

• «… tanquam filii lucis iugiter ambulemus»: è l’espressione che conclude la colletta della memoria di san Bernardo (20 agosto). Nella parte iniziale il testo sviluppa un aspetto della figura del santo riconoscendo che Dio in Ecclesia (sua) lucere simul et ardere fecisti, dove luceo e ardeo denotano sia l’opera di Dio Padre e sia la risposta operativa del santo. È da questa im- magine – filtrata dalla potenzialità racchiusa nei due verbi – che scaturisce la domanda da parte dell’assemblea, di poter camminare eodem spiritu ferventes come filii lucis. Si conclude in tal modo il percorso di una vita vissuta all’insegna della luce; una vita che si muove a partire dalla sorgente che illumina il cammino, per sollecitare esempi di vita che riconducano il popolo cristiano alla propria sorgente luminosa: essere cioè figli della luce. 120 Manlio Sodi

La ricchezza del Missale risulta inesauribile qualora ci si confronti con tutte le referenze in esso racchiuse. Accanto al Missale andrebbero esami- nati anche gli altri libri liturgici15, per cogliere l’abbondanza di esempi e di metafore usati per caratterizzare una simbologia tutta attorno alla categoria biblica della luce. Due libri in particolare meriterebbero attenzione per la varietà di contenuti e per la specularità che essi offrono nei confronti del Messale stesso: si tratta della Liturgia delle Ore e del Martirologio16. Dall’insieme si può concludere che la sacramentalità della storia della salvezza si compie secondo i ritmi del tempo nella celebrazione memoriale della Pasqua, e alla luce dell’esemplarità della Vergine Maria e dei Santi.

4. La via lucis della pietas popularis Non saremmo completi nella disamina cultuale della metafora della luce se ci fermassimo al Messale e al Lezionario. Oltre ai libri liturgici si ha tutto un settore che non può essere disatteso. L’attenzione del teologo, e di riflesso quella dell’operatore pastorale, deve considerare anche l’ambito della pietà popolare. Ed è in tale contesto che emergono due realtà che già nel titolo prendo- no forma a partire dalla categoria della luce: la via lucis e i mysteria lucis del rosario. Un cenno a questa duplice realtà permette di cogliere aspetti com- plementari di quanto sopra evidenziato circa l’anno liturgico e i sacramenti.

4.1. La via lucis

Tra le variegate forme di pietas che il Direttorio su pietà popolare e litur- gia evidenzia, si trova anche la via lucis17. Il modo con cui è presentata que-

15 Per una panoramica sui libri liturgici cf. «Rivista Liturgica» 95/5 (2008) sotto il titolo: La liturgia di rito romano e i suoi libri. 16 Per un commento al Martirologio Romano cf. «Rivista Liturgica» 91/2 (2004) sotto il titolo: Santi e santità nel nuovo «Martyrologium Romanum»; e in forma più sviluppata in M. Sodi (ed.), Testimoni del Risorto. Martiri e Santi di ieri e di oggi nel Martirologio Romano, EMP, Padova 2006. 17 Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, LEV, Città del Vaticano 2002. Per una presentazione cf. «Rivista Liturgica» 89/6 (2002) sotto il titolo: Facciamo il punto sulla pietà popolare? Ulteriori sviluppi in M. Sodi - G. La Torre (edd.), Pietà popolare e liturgia. Teo- logia, spiritualità, catechesi, cultura (= MSIL 35), LEV, Città del Vaticano 2004. A proposito Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 121 sta nuova forma di pietas è quanto mai emblematico sia per la fondazione biblico-teologica, sia per quanto concerne le prospettive di attualizzazione nella vita. Per questo risulta opportuno il confronto diretto con il testo:

«In tempi recenti, in varie regioni, si è venuto diffondendo un pio esercizio denominato via lucis. In esso, a guisa di quanto avviene nella via crucis, i fe- deli, percorrendo un cammino, considerano le varie apparizioni in cui Gesù – dalla risurrezione all’ascensione, in prospettiva della parusia – manifestò la sua gloria ai discepoli in attesa dello Spirito promesso (cf. Gv 14,26; 16,13- 15; Lc 24,49), ne confortò la fede, portò a compimento gli insegnamenti sul regno, definì ulteriormente la struttura sacramentale e gerarchica della Chiesa. Attraverso il pio esercizio della via lucis, i fedeli ricordano l’evento centrale della fede – la risurrezione di Cristo – e la loro condizione di di- scepoli che nel Battesimo, sacramento pasquale, sono passati dalle tenebre del peccato alla luce della grazia (cf. Col 1,13; Ef 5,8). Per secoli la via crucis ha mediato la partecipazione dei fedeli al primo momento dell’evento pa- squale – la passione – e ha contribuito a fissarne i contenuti nella coscienza del popolo. Analogamente, nel nostro tempo, la via lucis, a condizione che si svolga con fedeltà al testo evangelico, può mediare efficacemente la com- prensione vitale dei fedeli del secondo momento della Pasqua del Signore, la risurrezione. La via lucis può divenire altresì un’ottima pedagogia della fede, perché, come si dice, per crucem ad lucem. Infatti con la metafora del cammino, la via lucis conduce dalla constatazione della realtà del dolore, che nel disegno di Dio non costituisce l’approdo della vita, alla speranza del raggiungimento della vera meta dell’uomo: la liberazione, la gioia, la pace, che sono valori essenzialmente pasquali. La via lucis, infine, in una società che spesso reca l’impronta della “cultura della morte”, con le sue espressio- ni di angoscia e di annientamento, è uno stimolo per instaurare una “cultura della vita”, una cultura cioè aperta alle attese della speranza e alle certezze della fede» (n. 153).

Esprimere queste realtà sia attraverso un percorso di meditazione ca- ratterizzato dalle apparizioni del Risorto, sia con il ricorso a immagini che permettano di coniugare meglio e con maggior completezza quanto si me- dita, è mettere in atto sinergie spirituali che riconducono direttamente alla luminosità del mistero della Pasqua, e in modo strettamente correlato con quanto celebrato soprattutto nell’Eucaristia.

della via lucis tra le varie pubblicazioni cf. C. Maggioni, Via pacis, via crucis, via Matris, via lucis, in M. Sodi - A.M. Triacca (edd.), Dizionario di omiletica, LDC - Velar, Leumann (To) - Gorle (Bg) 2002, pp. 1651-1654. 122 Manlio Sodi

4.2. I mysteria lucis

Poco dopo la pubblicazione del Direttorio su pietà popolare e liturgia è apparsa la Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae firmata da Giovanni Paolo II il 16 ottobre 2002 per caratterizzare l’anno del rosario (2002-2003). La prospettiva offerta dal documento costituisce un completamento di quanto già delineato dal Direttorio18, ma ora ulteriormente sviluppata nel percorso del rosario. Ed effettivamente nel contemplare anche i misteri lu- minosi si manifesta ancora di più l’orizzonte biblico ed ecclesiale che carat- terizza questa forma di preghiera. Due testi risultano emblematici e impor- tanti ai fini della presente riflessione:

«Ritengo che, per potenziare lo spessore cristologico del Rosario, sia oppor- tuna un’integrazione che, pur lasciata alla libera valorizzazione dei singoli e delle comunità, gli consenta di abbracciare anche i misteri della vita pubblica di Cristo tra il Battesimo e la passione. È infatti nell’arco di questi misteri che contempliamo aspetti importanti della persona di Cristo quale rivelatore definitivo di Dio. Egli è colui che, dichiarato Figlio diletto del Padre nel Battesimo al Giordano, annuncia la venuta del regno, la testimonia con le opere, ne proclama le esigenze. È negli anni della vita pubblica che il mistero di Cristo si mostra a titolo speciale quale mistero di luce: “Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” (Gv 9,5). Affinché il rosario possa dirsi in modo più pieno “compendio del Vangelo”, è perciò conveniente che, dopo aver ricordato l’incarnazione e la vita nascosta di Cristo (misteri della gioia), e prima di soffermarsi sulle sofferenze della passione (misteri del dolore), e sul trionfo della risurrezione (misteri della gloria), la meditazione si porti anche su alcuni momenti particolarmente significativi della vita pubblica (misteri della luce). Questa integrazione di nuovi misteri, senza pregiudicare nessun aspetto essenziale dell’assetto tradizionale di questa preghiera, è destinata a farla vivere con rinnovato interesse nella spiritualità cristiana, quale vera introduzione alla profondità del cuore di Cristo, abisso di gioia e di luce, di dolore e di gloria» (n. 19).

«Passando dall’infanzia e dalla vita di Nazareth alla vita pubblica di Gesù, la contemplazione ci porta su quei misteri che si possono chiamare, a titolo spe- ciale, “misteri della luce”. In realtà, è tutto il mistero di Cristo che è luce. Egli è “la luce del mondo” (Gv 8,12). Ma questa dimensione emerge particolarmente negli anni della vita pubblica, quando egli annuncia il Vangelo del regno. Vo-

18 Il Direttorio tratta ampiamente del rosario, in particolare nei nn. 32 (Medioevo), n. 89 (riferimento alla Scrittura), n. 165 (adorazione del Ss.mo Sacramento), nn. 197-202 (senso, valore e descrizione), n. 198 (benedizione delle corone), e n. 203 (Litanie lauretane). Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 123

lendo indicare alla comunità cristiana cinque momenti significativi – misteri “luminosi” – di questa fase della vita di Cristo, ritengo che essi possano essere opportunamente individuati: 1. nel suo Battesimo al Giordano, 2. nella sua auto-rivelazione alle nozze di Cana, 3. nell’annuncio del regno di Dio con l’in- vito alla conversione, 4. nella sua trasfigurazione e, infine, 5. nell’istituzione dell’Eucaristia, espressione sacramentale del mistero pasquale. Ognuno di questi misteri è rivelazione del regno ormai giunto nella persona stessa di Gesù. È mistero di luce innanzitutto il Battesimo al Giordano. Qui, mentre il Cristo scende, quale innocente che si fa “peccato” per noi (cf. 2Cor 5,21), nell’acqua del fiume, il cielo si apre e la voce del Padre lo proclama Figlio diletto (cf. Mt 3,17 e par.), mentre lo Spirito scende su di lui per investirlo della missione che lo attende. Mistero di luce è l’inizio dei segni a Cana (cf. Gv 2,1- 12), quando Cristo, cambiando l’acqua in vino, apre alla fede il cuore dei di- scepoli grazie all’intervento di Maria, la prima dei credenti. Mistero di luce è la predicazione con la quale Gesù annuncia l’avvento del regno di Dio e invita alla conversione (cf. Mc 1,15), rimettendo i peccati di chi si accosta a lui con umile fiducia (cf. Mc 2,3-13; Lc 7,47-48), inizio del ministero di misericordia che egli continuerà a esercitare fino alla fine del mondo, specie attraverso il sacramen- to della Riconciliazione affidato alla sua Chiesa (cf. Gv 20,22-23). Mistero di luce per eccellenza è poi la trasfigurazione, avvenuta, secondo la tradizione, sul Monte Tabor. La gloria della divinità sfolgora sul volto di Cristo, mentre il Padre lo accredita agli apostoli estasiati perché lo ascoltino (cf. Lc 9,35 e par.) e si dispongano a vivere con lui il momento doloroso della passione, per giun- gere con lui alla gioia della risurrezione e a una vita trasfigurata dallo Spirito Santo. Mistero di luce è, infine, l’istituzione dell’Eucaristia, nella quale Cristo si fa nutrimento con il suo corpo e il suo sangue sotto i segni del pane e del vino, testimoniando “sino alla fine” il suo amore per l’umanità (Gv 13,1), per la cui salvezza si offrirà in sacrificio. In questi misteri, tranne che a Cana, la presenza di Maria rimane sullo sfondo. I Vangeli accennano appena a qualche sua pre- senza occasionale in un momento o nell’altro della predicazione di Gesù (cf. Mc 3,31-35; Gv 2,12) e nulla dicono di un’eventuale presenza nel Cenacolo al momento dell’istituzione dell’Eucaristia. Ma la funzione che svolge a Cana ac- compagna, in qualche modo, tutto il cammino di Cristo. La rivelazione, che nel Battesimo al Giordano è offerta direttamente dal Padre ed è riecheggiata dal Battista, sta a Cana sulla sua bocca, e diventa la grande ammonizione materna che ella rivolge alla Chiesa di tutti i tempi: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2,5). È ammonizione, questa, che ben introduce parole e segni di Cristo durante la vita pubblica, costituendo lo sfondo mariano di tutti i “misteri della luce”» (n. 21).

Siano sufficienti questi due paragrafi per porre in dovuta evidenza come anche attraverso la preghiera del rosario sia possibile manifestare ulteriori aspetti di quell’unico mysterium lucis che ha la sua sorgente nella Pasqua e 124 Manlio Sodi invita a proiettare lo sguardo verso la parusia, verso quel sole che non tra- monta mai. È possibile far riecheggiare in questa ottica quanto l’assemblea ricono- sce e invoca nella colletta della messa della notte di Natale: «… hanc sacra- tissimam noctem veri luminis fecisti illustratione clarescere, da… ut, cuius in terra mysteria lucis agnovimus, eius quoque gaudiis perfuamur in caelo». Alla prima parte della invocazione nella quale la notte del Natale è ricono- sciuta come sorgente di luce (da notare i termini claresco, lumen e illustratio) fa da eco la professione di fede dell’assemblea che invoca di poter gustare in cielo quei mysteria lucis conosciuti per rivelazione e per esperienza cele- brativa. In conclusione, è doveroso riconoscere il contributo della pietà popo- lare al variegato orizzonte dell’opus salutis in cui il mysterium lucis si attua nell’incontro tra fede e cultura. Come il secondo millennio della fede cristia- na è stato caratterizzato dal mysterium crucis, si delinea per il terzo millennio il completamento dell’orizzonte cristiano attraverso un’immedesimazione nel mysterium lucis sperimentato nella pietà popolare ma soprattutto vissuto nei sacramenti e nell’anno liturgico.

5. Tra illuminazione e divinizzazione Nell’ottica del Forum e nella prospettiva di quanto accennato, emerge il senso del percorso individuato nel titolo: tra incarnazione e divinizzazione. Si tratta di un percorso che si muove dall’«In principio Dio creò il cielo e la terra…» per giungere ai «cieli nuovi e terra nuova» dopo essere passati dall’incontro con colui che si è proclamato lux mundi, e aver verificato le conseguenze del «vivere come figli della luce». Un percorso che nella li- turgia si compie ogni volta che opus nostrae redemptionis exercetur19 e che interpella la nostra riflessione per coinvolgerla in una visione di sintesi che può essere ricondotta attorno a questi termini per un adeguato sviluppo e attualizzazione: – Illuminazione: teologia biblico-sapienziale. Accostare il dato biblico in ottica sapienziale sulla linea delle prime relazioni del Forum, permette di comprendere «il popolo che camminava nelle tenebre» teso ad accogliere

19 MR, Missa in Cena Domini, Super oblata. Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 125

Cristo Luce del mondo. Quel cammino è il paradigma dell’itinerario di sem- pre della Chiesa, ma anche di ogni fedele che si pone sulle tracce dell’esodo al seguito di Cristo. – Incarnazione: cristologia e soteriologia. In prospettiva “economica” si è invitati a contemplare il Logos che si fa sarks per portare a compimento l’opus salutis («ut homo fieret Deus»). È in questa dinamica che si pone la riflessione attorno al mistero dell’incarnazione come momento iniziale di un itinerario pasquale da cui scaturisce nel tempo, dopo la Pentecoste, la salvezza in comunità. – Evangelizzazione: teologia fondamentale. La teologia è interpellata da vari interrogativi posti dall’annuncio di Cristo Luce, ma insieme essa stessa interpel- la la prassi ecclesiale. Le numerose sfide poste dall’auditus culturae alla telogia fondamentale sono un invito a trovare un dialogo aperto e formale anche con la teologia morale fondamentale, con la liturgia fondamentale e con la sacramenta- ria fondamentale perché il “fondamento” non sia assunto secondo una visione parcellizzata, ma costituisca la base per una visione organica di sintesi. – Inculturazione: antropologia culturale. Quando la parola di Dio si in- contra con le culture, le permea, le trasforma progressivamente, le vivifica attraverso un culto (= evangelizzazione e sacramenti) in cui l’incontro tra Parola e cultura si esprime in un testo poetico, nell’arte, nella musica, nella bellezza… sempre come esperienza attualizzante del lumen Evangelii. Non sembri forzata la prospettiva qui accennata. Di fatto essa offre una chiave di lettura e insieme il locus per attivare una riflessione che faccia vedere i diversi ambiti in cui interagire, ma insieme permetta di individuare percorsi per un incontro sempre più intimo tra culto e cultura. – Trasfigurazione: teologia morale, spirituale e mistica. La vita morale del cristiano è attuazione concreta di Cristo Luce; in questa linea l’etica cri- stiana favorisce quella progressiva trasfigurazione che predispone il fedele all’incontro con la pienezza della luce. E la santità di vita costituisce il “luogo ermeneutico” attraverso cui la Chiesa riconosce quella trasfigurazione che si opera nel credente a partire dall’illuminazione battesimale. Qui si pone il senso dell’esemplarità dei santi, a cominciare dalla Tutta Santa, la . – Divinizzazione: antropologia soprannaturale. L’ombra del peccato at- traverso Cristo è “radicalmente” dileguata; la lux claritatis divinae realizza il 126 Manlio Sodi suo percorso tipico del mysterium lucis quando si attua attraverso la sacra- mentale via lucis Ecclesiae. Nella linea “economica” della riflessione emerge evidente ed eloquente il ruolo della celebrazione memoriale quale momento sintesi in cui passa- to, presente e futuro si ricompongono nel mysterium lucis. I diversi ambiti accennati vengono a costituire un vero e proprio percorso che riflette una prospettiva di sintesi quanto mai auspicabile.

6. Conclusione Al termine del lungo percorso emerge in modo immediato anzitutto la complessità e l’armonia di ciò che può essere racchiuso attorno al mysterium lucis. È l’impressione netta che scaturisce quando si accosta il mistero della Pasqua considerata in qualunque delle sue sfaccettature. Con la differenza che la metafora della luce appare quella che, profondamente biblica, meglio rappresenta la dialettica luce-tenebra e soprattutto il segreto per camminare e vivere nel mistero della Pasqua. La vita della persona e la vitalità della Chiesa appaiono sempre più intimamente connesse con la dialettica tra illuminazione e divinizzazione. Quanto sopra accennato non è un giro di termini per denotare un ipotetico cammino, ma l’individuazione di percorsi per conoscere, per riflettere, e so- prattutto per far vivere un’esperienza che solo nel contesto liturgico ha il suo perno essenziale e fondante. Dall’insieme, la via lucis Ecclesiae – nel contesto del mysterium lunae20 – appare quale dato di fatto e insieme quale missione costante dalla prima Pentecoste fino al ritorno ultimo del Signore nella gloria! L’ottica di quanto evidenziato è offerta dalla lezione di Optatam totius 16, alla luce di altri documenti ecclesiali (soprattutto Dei Verbum 8 e Redem- ptoris missio 9-10). Tutto questo evidenzia il bisogno di continuare un ap- profondimento della teologia sacramentaria; una teologia che tenendo conto della lex orandi, integri le dimensioni trinitaria e dossologica, cristologica, pneumatologica ed ecclesiologica, e si apra costantemente a una prospettiva di sintesi tra culto e vita.

20 Cf. quanto si legge a questo proposito nella Lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001) al n. 54. Il Mysterium lucis tra illuminazione e divinizzazione nella via lucis Ecclesiae 127

In questa linea tornano di grande attualità e di forte incoraggiamento le riflessioni che scaturiscono dalla Lettera enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II. Frequentemente il documento riconduce l’attenzione del credente all’orizzonte “sacramentale” della fede; in particolare nel n. 13 quando nel presentare “la ragione dinanzi al mistero” afferma:

«Si è rimandati, in qualche modo, all’orizzonte sacramentale della rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove l’unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la profondità del mistero. Cristo nell’Eu- caristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben detto san Tommaso, “tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti confer- ma, oltre la natura. È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi”. Gli fa eco il filosofo Pascal: “Come Gesù Cristo è rimasto scono- sciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni comuni, senza dif- ferenza esteriore. Così resta l’Eucaristia tra il pane comune”. La conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell’uomo: Cristo Signore “rive- lando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”, che è quella di partecipare al mistero della vita trinitaria di Dio».

Nel trattare infine delle «esigenze irrinunciabili della parola di Dio», al n. 85 dello stesso documento si leggono affermazioni che invitano a un lavoro di sintesi per «una visione unitaria e organica del sapere», per un «pensiero originale, nuovo e progettuale per il futuro»:

«So bene che queste esigenze, poste alla filosofia dalla parola di Dio, possono sembrare ardue a molti che vivono l’odierna situazione della ricerca filoso- fica. Proprio per questo, facendo mio ciò che i Sommi Pontefici da qualche generazione non cessano di insegnare e che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito, voglio esprimere con forza la convinzione che l’uomo è capace di giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo millennio dell’era cristiana. La settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale alla verità con la conseguente frammentazione del sen- so, impedisce l’unità interiore dell’uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi pastori direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo. Ritengo che quanti oggi intendono rispondere come filosofi alle esigenze che la parola di Dio pone al pensiero umano, dovrebbero elabo- rare il loro discorso sulla base di questi postulati e in coerente continuità con quella grande tradizione che, iniziando con gli antichi, passa per i Padri 128 Manlio Sodi

della Chiesa e i maestri della Scolastica, per giungere fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del pensiero moderno e contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione e ispirarsi ad essa, il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all’esigenza di autonomia del pensare filosofico. In questo senso, è quanto mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante della tradizione per una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione, infatti, non è un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un patrimonio culturale che appartiene a tutta l’umanità. Si potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo e progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche maggiormente per la teologia. Non solo perché essa possiede la tradizione viva della Chie- sa come fonte originaria, ma anche perché, in forza di questo, deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione teologica che ha segnato le epoche precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che ha saputo superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo».

Il testo posto come esergo è usato nella messa vespertina della Vigilia di Pentecoste. Esso riassume bene in un insieme di espressioni quanto ac- cennato fin qui. Lo splendor claritatis del Padre denota la sorgente di quella vita divina, mirabilmente espressa nella metafora della luce e riccamente evi- denziata nei paradigmi del linguaggio liturgico. Sulla stessa linea è ribadito il concetto racchiuso nel lux tuae lucis identificato in Cristo, che il Messale ita- liano traduce con «luce da luce, splendore della tua gloria». Artefice di tutto questo è la illustratio Sancti Spiritus che “conferma” il fedele nel progetto di salvezza celebrato e attualizzato nei santi misteri.

Sintesi Il percorso attorno al mysterium lucis chiama in causa anche la teologia liturgica; anzi, è a partire da questa che si comprende nella sua specifica profondità la metafora del Lumen Christi. Dalla sorgente, costituita dalla Veglia pasquale, fino agli sviluppi costantemente attualizzanti della celebrazione liturgica, il fedele è condotto a quella novità di vita che la metafora della luce evidenzia con una terminologia propria. Anno liturgico, sacramenti e pietà popolare costituiscono, unitamente alla Liturgia delle Ore e a ciò che è racchiuso nel Martirologio, non tanto una documentazione da accostare, quanto soprattutto uno specchio di ciò che la Chiesa vive e opera nel suo cammino. Il lumen Christi tra IL «già» e IL «non ancora» valore dell’esperienza cristiana in teologia

 Domenico Sorrentino

path 9 (2010) 129-155

«Per quanto il concetto di esperienza possa essere sovraccarico di condizio- namenti nella storia della teologia e delle eresie, nella teologia cattolica, in quella protestante e in quella controversistica, esso resta tuttavia indispensa- bile se la fede è l’incontro di tutto l’uomo con Dio»1.

Questa affermazione di von Balthasar può ben introdurre un tema, quello dell’esperienza cristiana, al quale la teologia del nostro tempo presta rinnovata attenzione, dopo secoli in cui il ricorso al concetto e al mondo dell’esperienza è stato poco praticato, se non temuto2. La scarsa pratica è di- pesa in gran parte dal modello stesso della teologia scolastica, incline a pro- cedere per tesi alla cui dimostrazione si provvedeva per via argomentativa, sulla base di appoggi biblici per lo più estrapolati dal contesto scritturistico, e quindi dal mondo vitale che esso esprime e veicola, o sulla base di altri luoghi teologici, soprattutto Padri e Magistero, assunti con metodo spesso a-storico, che non ne faceva emergere il contesto e la dimensione esperien- ziale. Allo scarso interesse a tale dimensione contribuiva anche un vero e proprio timore – non del tutto infondato – della tentazione soggettivistica che si annida nell’esperienza spirituale. La controversistica e l’apologetica cattolica ricostruivano la storia di questo pericolo partendo dalla nozione

1 H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica I. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1994 (or. 1961), 203. 2 Cf. A. Bertuletti, Il concetto di «esperienza» nel dibattito fondamentale della teologia contemporanea, in «Teologia» 5 (1980) 283-341; Id., Il concetto di «esperienza» e la teologia. Traccia storico-teoretica, in «Teologia» 6 (1981) 85-116. 130 Domenico Sorrentino di fede fiduciale di Lutero e Calvino3, le cui ascendenze venivano colte nel nominalismo di Occam e persino in affermazioni di san Bernardo indebi- tamente comprese dai riformatori in senso soggettivistico. La concezione luterana suscitò la presa di posizione del Concilio di Trento «contra inanem haereticorum fiduciam»4. Oggi si è d’accordo sul fatto che il Concilio non prende di mira l’esperienza cristiana in quanto tale, e nemmeno esclude una certa esperienza della vita di grazia5, ma solo censura un tipo di fiducia eser- citata sul piano psicologico come incondizionata affermazione della propria salvezza. Il dibattito gettò comunque ombre sull’esperienza religiosa, ombre che si sarebbero poi confermate in occasione di un’altra controversia, quella sul quietismo. Il soggettivismo tipico della modernità, passando per la teoria kantiana della conoscenza fino a Schleiermacher, con la sua interpretazione della religione come sentimento6, giunse a insidiare le fondamenta stesse del dogma nella crisi modernistica. La vigorosa reazione dell’enciclica Pascendi contrastò questo pericolo, ma al tempo stesso favorì un clima di sospetto generalizzato sul ricorso all’esperienza in teologia, al punto che lo stesso Vaticano II, trattando dell’esperienza spirituale, evitò il termine esperienza preferendo una circonlocuzione7. È tuttavia indubbio che proprio il Concilio abbia posto premesse impor- tanti perché l’esperienza cristiana venga riscoperta come un valore essenziale per la teologia. Decisiva è la messa a fuoco del concetto di rivelazione, che la Dei Verbum ha approfondito nell’orizzonte storico-salvifico, insegnando che essa non si riduce alle enunciazioni veritative che pur la innervano e le sono

3 Cf. H. Pinard de la Boullaye, Experience religieuse, in DThC vol. 2, coll. 1786-1808, specie coll. 1787-1794. 4 Cf. DS 1533-34. 5 Cf. M. Flick - Z. Alszeghy, Fondamenti di una antropologia teologica, Libreria Edi- trice Fiorentina, Firenze 1982, 402-406; A. Ganoczy, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ri- cevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia, Queriniana, Brescia 1991, in par- ticolare pp. 288-292 dove l’autore presenta la visione rahneriana dell’esperienza della grazia. 6 Cf. Pinard de la Boullaye, Experience religieuse, cit., coll 1795-1804. 7 Il testo inizialmente era appunto ex intima spiritualium rerum experientia: cf. F. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis. Constitutio dogmatica de divina revelatione Dei Verbum, LEV, Città del Vaticano 1993, 64-65 (appresso citeremo Syn). Come si può vedere dagli Acta Synodalia (AS), alcuni interventi di Padri conciliari misero in guardia dall’uso della parola esperienza: card. Browne (AS III/3, 187: Syn 544); card. Micara (AS III/3,920: Syn 523); card. Ruffini (AS III/3,145: Syn 560); mons. Costantini AS III/3, 194: Syn 549), mons. Calabria (AS III/3, 262: Syn 595). Si temeva che questa parola potesse evocare quel religiosus animi sensus preso di mira dalla Pascendi. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 131 co-essenziali, ma va intesa più largamente e “personalisticamente” (o meglio “tri-personalisticamente) come auto-comunicazione del Dio Uni-Trino nella storia8. Premessa rilevante – conseguente alla prima – è l’approfondimen- to della Tradizione non solo come traditio veritatis, ma anche e soprattutto come traditio vitae: nella traditio la Chiesa consegna se stessa di generazione in generazione, valorizzando in questo dono di sé tutte le ricchezze che pro- gressivamente hanno integrato il suo patrimonio concettuale ed esistenziale, sotto l’azione dello Spirito Santo: cunctisque generationibus transmittit omne quod ipsa est, omne quod credit9. Il riferimento all’omne quod ipsa est chia- ma in causa, come ulteriore stimolo alla riscoperta dell’esperienza cristiana, la prospettiva ecclesiologica integrale, a cui ogni esperienza particolare fa riferimento e da cui prende vigore. L’esperienza cristiana ha un’imprescin- dibile dimensione ecclesiale, anche negli aspetti in cui appare più intima e personale. L’evento della grazia, infatti, nelle sue molteplici espressioni, e il movimento unitivo in cui ciascuna persona si lascia da esso coinvolgere, stanno dentro una dinamica più generale che riguarda l’intero corpo mistico di Cristo: la dinamica Parola/Spirito - Chiesa10. In particolare, ai fini del rapporto esperienza-teologia vengono qui in gioco i concetti di sensus fidei e consensus fidelium11, che hanno speciale relazione con l’esperienza, nella sua dimensione di percezione soprannaturale del mistero. Sulla base di questo sensus comune e universale – tornando alla DV 8 – si distingue una partico- lare intelligentia che si ottiene per via esperienziale (ex intima spiritualium rerum quam experiuntur intelligentia), attraverso la quale crescit tam rerum quam verborum traditorum perceptio. È una via connessa al sensus fidei, ma con una sua specificità. Come ho avuto modo altrove di sostenere12, ritengo che questa espressione debba riferirsi – quanto meno in modo privilegiato

8 Cf. Dei Verbum (DV), n. 2; ormai classico su questo tema il saggio di R. Latourelle, Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi 1976. 9 DV 8. Sulla prospettiva integrale e vitale della tradizione cf. Y. Congar, La tradizione e la vita della Chiesa, San Paolo, Cinisello B. 1983 (or. 1963). 10 Rinvio al quadro delle dinamiche spirituali tracciate in D. Sorrentino, L’esperienza di Dio. Disegno di teologia spirituale, Cittadella, Assisi 2007, 118-122. 11 Cf. Lumen Gentium (LG), n. 12; su questi concetti cf. D. Vitali, Sensus fidelium. Una funzione ecclesiale di intelligenza della fede, Morcelliana, Brescia 1993. 12 Cf. D. Sorrentino, Esperienza spirituale e intelligenza della fede in Dei Verbum 8. Sul senso di «intima spiritualium rerum quam experiuntur intelligentia», in C. Sarnataro (ed.), La terra e il seme. Inculturazione ed ermeneutica della fede, Mario D’Auria Editore, Napoli 1998, 151-172. 132 Domenico Sorrentino

– alla speciale intelligenza spirituale che si ottiene sotto l’influsso dei doni dello Spirito Santo e si registra nei mistici e nei santi. Questi ultimi, con la loro vita uniformata a Cristo e in forza della loro testimonianza, manifestano «la presenza e il volto di Dio», anzi, in essi «Dio stesso ci parla»: in eis ipse nos adloquitur (LG 50). È un’espressione forte per l’argomento che stiamo trattando: i santi sono un vero «luogo teologico», quasi parola di Dio tradot- ta in esistenza, vangelo vissuto13. Rimanendo poi nel quadro ecclesiologico, una prospettiva importante per cogliere il valore teologico dell’esperienza cristiana è l’orizzonte ecumenico in quanto campo aperto ad autentiche esperienze di incontro spirituale nella ricerca della piena comunione. Cono- scere da vicino, e in qualche modo, sperimentare le ricchezze delle altre tra- dizioni non può essere indifferente, anzi è fattore di stimolo e arricchimento per la teologia cattolica14. Altra premessa significativa per il nostro tema è quella posta dalla Sacrosanctum concilium (SC), con la nozione di liturgia quale «fonte e culmine» della vita ecclesiale (SC 10), luogo concreto in cui il mistero della salvezza è celebrato per ritus et preces (SC 48), nell’unione della Chiesa all’azione sacerdotale di Cristo che nella liturgia è in modo spe- ciale presente (SC 7). Infine la Gaudium et spes (GS), leggendo il rappor- to Chiesa-mondo alla luce di Cristo «chiave, centro e fine di tutta la storia umana» (GS 10), apre l’esperienza cristiana al grande scenario del mondo come spazio in cui l’opera della salvezza si realizza attraverso la multiforme presenza di Cristo e del suo Spirito. Un aspetto peculiare di tale presenza viene in luce nella dichiarazione sulle religioni non cristiane (Nostra aetate [NAe]), nelle quali il magistero conciliare riconosce la presenza di elementi che “non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini” (NAe 2). Ne risulta così fondata la possibilità di un qualche “in- contro” dell’esperienza cristiana con quella di altre religioni, a partire dalla prospettiva inclusiva del lumen Christi che irradia anche l’ambito religioso fuori dai confini specificamente cristiani.

13 Ho sviluppato questa idea in D. Sorrentino, La sainteté comme lieu théologique du Concile Vatican II au magistère de Jean-Paul II, in E. Michelin - A. Guggenheim (ed.), Vati- can II de la lettre à l’esprit: une mission, Parole et Silence, Paris 2005, 117-133. 14 Così per il cristianesimo orientale il Concilio afferma: «Conoscere, venerare, con- servare e sostenere il ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali è di somma importanza per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana»: Unitatis redinte- gratio (UR), n. 15. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 133

In questo vasto orizzonte delineato dalla teologia del Concilio Vaticano II – e ovviamente dalla teologia che lo ha preparato e lo ha poi riecheggiato in molteplici direzioni – si sono sviluppati svariati percorsi teologici di at- tenzione all’esperienza, ciascuno dei quali meriterebbe una specifica valuta- zione15. Il presente contributo, senza entrare nelle problematiche poste da singole correnti teologiche, si limita a mostrare come l’esperienza cristiana, a diversi livelli, di fatto interagisca con la teologia, fondandone e arricchen- done il cammino; intende anche sottolineare come la stessa esperienza, in ultima analisi, si riconduca all’experientia Christi, dalla quale deriva luce ine- sauribile per accostare il mistero di Dio nel tempo intermedio tra il «già» e il «non ancora». Per procedere ordinatamente sarebbe importante, a questo punto, una messa a fuoco del lemma «esperienza». Ma ciò condurrebbe oltre i limiti di questo contributo, data la storia tormentata di questo termine che è, di primo acchito, tra i più scontati del nostro linguaggio ordinario, e invece si dimostra, a conti fatti, tra i più impervi dello storico dialogo tra filosofia e teologia16. Si tratta sicuramente di un concetto dalle molteplici sfaccettatu- re: nel prosieguo del discorso, passando da un livello all’altro delle nostre considerazioni, emergerà di volta in volta l’aspetto dell’esperienza cristiana chiamato in causa (dimensione trascendentale, sensus fidei, esperienza mi- stica, esperienza ordinaria di vita cristiana, esperienza del mondo alla luce del Vangelo, ecc). Ai nostri fini riteniamo necessaria e sufficiente una no- zione fondamentale, nella direzione a suo tempo indicata da J. Mouroux17:

15 Ne ho dato un sintetico quadro in D. Sorrentino, Vissuto di fede e santità. Provoca- zioni per la teologia, in «Asprenas» 52 (2005) 505-522. Tra i teologi che hanno maggiormente sviluppato il tema dell’esperienza, oltre il menzionato von Balthasar, c’è K. Rahner, che ha ap- profondito la prospettiva dell’esperienza «trascendentale»: cf. I. Sanna, Teologia come espe- rienza di Dio. La prospettiva cristologica di Karl Rahner, Queriniana, Brescia 1997; in un’otti- ca esistenziale che considera l’esperienza salvifica attuale quale condizione ermeneutica per accostare l’esperienza originaria di Gesù si pone E. Schillebeeckx, Gesù, la storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1976. È noto che l’impostazione di Schillebeekx ha suscitato, su alcune sue deduzioni, rilievi critici da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede. 16 Cf. G. Giannini - M.M. Rossi - A. Pieretti, Esperienza, in Centro Studi Filosofi- ci Gallarate (ed.), Enciclopedia Filosofica, vol. IV, Bompiani, Milano 2006, 3624-3642; N. Galantino, Esperienza, in G. Barbaglio - G. Bof - S. Dianich (ed.), Teologia, San Paolo, Cinisello B. 2003, 595-607. 17 J. Mouroux, L’expérience chrétienne. Introduction à une théologie, Aubier, Paris 1954. Egli prende posizione contro un concetto di esperienza confinato sul versante della «soggettività-coscienza», o addirittura ridotto a puro «sentimento» del divino a carattere in- 134 Domenico Sorrentino assumiamo, dunque, «esperienza cristiana» in senso oggettivo, come la vita cristiana stessa in quanto «vissuta», ossia fatta propria dai credenti, nelle sue dimensioni costitutive, secondo la fede cristologico-trinitaria e nella forma ecclesiale-sacramentale; in senso soggettivo, come risonanza di tale vissuto nella coscienza e nei dinamismi espressivi della persona, secondo le possi- bilità e il cammino di ciascuno, sotto l’azione dello Spirito Santo. Di tale esperienza oggettivo-soggettiva indaghiamo il valore nella prassi teologica dall’angolatura dei suoi diversi ambiti e delle sue diverse funzioni di intelli- genza della fede.

1. Valore «genetico» 1.1. La fede è risposta obbedienziale al Dio che si rivela. Essa pertanto si sviluppa “in tono” con la rivelazione stessa, ne assume, per così dire, i linea- menti. Altrettanto succede alla teologia, intesa come fede nell’atto dell’auto- comprendersi: fides quaerens intellectum. La teologia è chiamata a misurarsi seriamente con la presentazione della rivelazione offerta dalla DV 2 quale “economia” di eventi e parole intimamente connessi nel lungo arco della storia della salvezza culminante in Cristo. All’origine della fede e alla base della teologia c’è l’unico vissuto storico-salvifico narrato dalla Scrittura e continuamente ripresentato attra- verso la lectio della pagina biblica e la proclamazione liturgica della Parola. Il movimento che dall’esperienza originaria passa alla comunicazione della fede (fides ex auditu: Rm 10,17), generando ascolto e obbedienza di fede, è espresso in modo programmatico nell’esordio della 1Gv: «Quello che ab- biamo visto e udito lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (v. 3). È appena il caso di ricordare che ciò di cui qui si

dividualista, anti-intellettualista e persino senza un rapporto con Dio, sostituito con «ciò che appare alla coscienza come divino», come, ad es., accade nella concezione di W. James, Le varie forme dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia 1998. L’esperienza religiosa è per Mouroux «l’acte – ou l’ensemble d’actes – par quoi l’homme se saisit en relation avec Dieu». Cf. Mouroux, L’expérience chrétienne, cit., 25). Cf. anche G. Moioli, Teologia spirituale, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, vol. I, Marietti, Casale M. 19772, 36-66; Id, Esperienza cristiana, in S. De Fiores - T. Goffi (ed.), Nuovo dizionario di spiritualità, San Paolo, Cini- sello B. 1985, 536-542; P. Martinelli (ed.), Esperienza, Teologia e Spiritualità. Seminario di studio sulla teologia spirituale, Italia Francescana, Roma 2009; D. Sorrentino, Identità e me- todo della teologia spirituale come «teologia del vissuto di santità», in «Path» 2 (2008) 331-349. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 135 parla come oggetto di esperienza è il Verbum vitae fatto carne, è Cristo. Alla genesi dell’esperienza cristiana c’è il lumen Christi. Questo valore “genetico” dell’esperienza cristiana ha una preparazione nella storia della salvezza prima di Cristo, ma assume il suo volto compiuto con l’incarnazione, nella pienezza dei tempi (Gal 4,4-5). Da questa pienezza occorre sempre ripartire, e a questa occorre sempre far capo: essa è il punto fermo e il punto-luce. Punto, tuttavia, che non può essere isolato: seguendo la cristologia del Nuovo Testamento, da questa pienezza occorre, da un lato, risalire a ritroso tutto il percorso della storia della salvezza: così è ricostruita la genealogia di Gesù secondo Matteo, che risale fino ad Abramo (Mt 1,1), la genealogia secondo Luca, che arriva ad Adamo (Lc 3,38), e la “genealogia” secondo Giovanni, che s’innalza fino al «seno» del Padre (Gv 1,18), da dove il Verbo s’irradia come principio della creazione, vita e luce per gli uomini, fino a farsi carne (Gv 1,4.14); dall’altro lato, dalla pienezza storica dell’in- carnazione, occorre proiettarsi sul presente e sul futuro della storia, verso il traguardo escatologico dell’ultima venuta di Cristo e della Gerusalemme ce- leste, pienezza definitiva (Ap 21), considerando la storia della Chiesa e degli uomini il luogo salvifico in cui la luce di Cristo progressivamente si fa strada, in un approfondimento mai esaurito di lui, «via, verità e vita» (Gv 14,6). In forza di questa visione, si comprende come il ricorso all’esperienza quale locus theologicus e anzi, locus christologicus, pur facendo perno sul Vangelo e sull’intero Nuovo Testamento, continui a trovare raggi di luce sia in ciò che prepara che in ciò che segue la «pienezza evangelica». Di qui il significato permanente dell’Antico Testamento nel suo intimo orientamen- to cristologico; di qui, ancor più radicalmente, il significato dell’esperienza trascendentale, che, attraverso l’intuizione dell’essere, ci porta a Dio: espe- rienza di cui K. Rahner ha messo in evidenza un orientamento cristologico «esistenziale» – non di diritto, ma di fatto – almeno come attesa e auditus della grazia dell’incarnazione, tutta posta nel segno della gratuità sopran- naturale; di qui infine l’attenzione a tutta la storia umana, luogo dei semina Verbi e dell’azione dello Spirito. La fede si nutre costantemente di questo ricorso all’esperienza del Dio della creazione e della rivelazione. Ad entrambi i livelli si trova Cristo, l’uni- co Verbo creatore-rivelatore nella forza dello Spirito: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,2); «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio, ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Questa 136 Domenico Sorrentino esperienza si ritrova documentata in modo normativo e paradigmatico nella Scrittura, ma anche, a diversi livelli, nella Tradizione ad essa correlata18. Do- vendosi la teologia non solo fondarsi su questa esperienza, ma anche nutrirsi di essa, il Concilio ha parlato della Scrittura come anima della teologia19. Il concetto di «anima» rinvia ben oltre una semplice “base” biblica: la parola di Dio innerva e ispira la teologia, non solo quando essa mette direttamente a fuoco il messaggio biblico, ma anche quando si porta oltre l’esposizione del dato scritturistico, per argomentare e dedurre. L’innervatura biblica del- la teologia è il suo primo elemento esperienziale, soffio vivo che la genera e la rigenera. Questo suo carattere non solo fondativo, ma “pervasivo”, non era altrettanto evidente nel modello della teologia intesa come scientia conclusio- num, concentrata sulla parte argomentativo-conclusiva20. È vero che anche la scientia conclusionum non faceva a meno della Scrittura, ma si limitava ad attingervi i dicta probantia. L’intellectus fidei è invece chiamato a portarsi sull’intero movimento dell’auto-comunicazione di Dio, quel movimento che la DV 2 stupendamente descrive additando Dio che parla con gli uomini e si intrattiene con essi per «invitarli e ammetterli alla comunione con sé». Centrata su questo intero movimento di auto-comunicazione trinitaria nella storia, la teologia lo riprende innanzitutto in chiave “positiva”, evidenziando le linee con cui esso si è venuto storicamente configurando, per poi appro- fondirlo nei molteplici aspetti che lo contraddistinguono e nelle esigenze esistenziali che ne conseguono, e ciò, in ultima analisi, per favorire, attraver- so l’intelligenza della fede, la risposta di amore dell’uomo a Dio. Di qui la plausibilità della «teologia narrativa»21, nella misura in cui non indulge a una narratività che escluda, attenui o minimizzi – eccesso opposto alla scientia conclusionum – l’approfondimento speculativo. Bisogna riconoscere che la prassi teologica scolastica ha spesso imitato il san Tommaso della Summa,

18 Cf. DV 9. 19 Cf. DV 24 e Optatam totius, n. 16; cf. J.A. Fitzmyer, La Sacra Scrittura come anima della teologia, Gribaudi, Milano 1998; A. Izquierdo, La Sacra Scrittura, anima di tutta la teologia, in «Alpha Omega» 3 (2004) 355-390. 20 Cf. la critica a questo modo di intendere la teologia di m.-d. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 19953, 120-121. 21 Cf. C. Rocchetta, Teologia narrativa, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Di- zionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, coll. 1272-1276; S. Lanza, Teologia speculativa e teologia narrativa, in I. Sanna (ed.), Il sapere teologico e il suo metodo. Teologia, ermeneutica e verità, EDB, Bologna 1993. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 137 dimenticando il san Tommaso dei commenti scritturistici, o quello dei trat- tati spirituali e dei testi liturgici (Officium de festo corporis Christi): il dottore angelico è teologo anche in questi22. 1.2. L’ancoraggio biblico assicura dunque il «principio esperienza» alla base e all’interno del percorso teologico. Ciò vale in maniera corrisponden- te, seppur subordinata, per il vissuto ecclesiale. Qui l’esperienza non può avere carattere genetico in senso assoluto, giacché tale compito appartiene in esclusiva alla rivelazione, ma possiede un carattere genetico dipendente e normato. Dal Magistero alla vita della comunità ecclesiale, dal vissuto dei santi alla letteratura e all’arte cristiana, tutto è sotto l’azione dello Spirito di Dio e, con il debito discernimento, può gettar luce sulla verità cristiana e far- ne gustare la bellezza. Stimolante in tal senso von Balthasar quando propone di considerare i santi come «fenomeno teologico», auspicando una vera e propria agiografia teologica23. Non c’è poi dubbio che la più alta espressio- ne delle diverse articolazioni della Tradizione sia la liturgia, fondamento e culmine della vita ecclesiale. In quanto celebrazione del mistero, essa non può non segnare la teologia non soltanto nella specifica disciplina che se ne occupa, ma in tutto il percorso di approfondimento. La corrispondenza tra lex orandi e lex credendi24 impegna la fede, e dunque anche la teologia. Il discorso si riferisce alla liturgia nella sua vivente espressione celebrativa, ma anche ai testi e riti codificati, in quanto documenti storici del culto e dunque del cammino di fede della comunità cristiana nel tempo e nello spazio25.

22 Cf. J.-P. Torrell, Tommaso d’Aquino maestro spirituale, Città Nuova, Roma 1998. 23 Cf. H.U. von Balthasar, Sorelle nello spirito. Teresa di Lisieux ed Elisabetta di Digio- ne, Jaca Book, Milano 19913. 24 Su questo classico principio cf. P. De Clerck, «Lex orandi, lex credendi». Sens origi- nel et avatars historiques d’un adage équivoque, in «Questions liturgiques» 59 (1978) 208-211. 25 Cf. C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia. Saggio di liturgia teologica generale, Edizioni Paoline, Roma 19654, specie la parte IV: Liturgia, fede e teologia, 477-607; M. SODI, Lex orandi e metodo teologico. La teologia liturgica fra tradizione e innovazione, in «Path» 3 (2004) 83-109. Un autore che ha proposto il primato della liturgia in teologia, considerando che la stessa Scrittura ci viene consegnata soprattutto nella liturgia, è G. Lafont, Modelli della teologia nella storia, in R. Fisichella - G. Pozzo - G. Lafont, La teologia tra rivela- zione e storia. Introduzione alla teologia sistematica, EDB, Bologna 1999. È una prospettiva sviluppata anche da altri teologi, come L.-M. Chauvet, P. Sequeri, G. Bonaccorso. Cf. A. Grillo, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, EMP, Padova 1999: G. Meiattini, Il concetto di esperienza: caratteristiche e proble- matiche del suo uso teologico in prospettiva interdisciplinare, in Martinelli (ed.), Esperienza, Teologia e Spiritualità, cit., 7-30. 138 Domenico Sorrentino

2. Valore euristico e critico-confermativo 2.1. Se si tiene conto della promessa di Cristo di un’azione dello Spirito nella Chiesa indirizzata alla comprensione progressiva della verità (cf. Gv 16,13), all’esperienza occorre riconoscere, oltre al suo carattere genetico, in quanto alle origini della fede stessa, anche una valenza euristica, quale via di ricerca sempre ulteriore sul mistero. La storia della teologia dimostra ampiamente questo valore. Sulla base dell’esperienza originaria, e normata da essa, l’esperienza cristiana sviluppa- tasi lungo i secoli ha offerto alla comprensione teologica della fede impulsi e contenuti importanti. Lo si può ad esempio dimostrare con tutta evidenza rispetto ad alcuni dogmi mariani, per i quali la testimonianza biblica non offre se non un fondamento ultimo, e solo l’esperienza fatta nella logica del sensus fidei, messa alla prova della discussione teologica, ha condotto alla definizione dommatica: è il caso dell’Immacolata Concezione e dell’Assun- zione di Maria26. 2.2. Il discorso vale in senso più generale, se si riflette sul contributo che è stato dato alla riflessione teologica dalla spiritualità, e in particolare, da speciali carismi di molti santi. Come a suo tempo rilevava Chenu, forse troppo rigidamente, «in fondo i sistemi teologici non sono altro che l’espres- sione della spiritualità»27, nel senso che le grandi scuole teologiche sono in definitiva il frutto delle intense esperienze spirituali di fondatori che, pur non essendo il più delle volte teologi di scuola, avevano però quello che Gio- vanni Paolo II ha chiamato, nella Lettera apostolica Novo Millennio ineunte (NMI), «teologia vissuta»28. Chenu ne faceva l’applicazione al tomismo in rapporto alla spiritualità domenicana. Altrettanto può dirsi del francesca- nesimo. L’esperienza spirituale del Poverello è il tema melodico, su cui poi si è sviluppata, come una sinfonia, la scuola teologica francescana29. L’espe- rienza stessa può dunque essere una implicita pagina dottrinale. Il titolo di dottore della Chiesa attribuito a santi ben lontani dalla figura tradizionale

26 Cf. A.G. Aiello, Sviluppo del dogma e Tradizione a proposito della definizione dell’As- sunzione di Maria, Città Nuova, Roma 1979. 27 M.-D. Chenu, Le Saulchoir. Una scuola di teologia, Marietti, Torino 1982, 59. 28 Cf. NMI 27. 29 Cf. G. Iammarrone, La cristologia francescana. Impulsi per il presente, EMP, Padova 1997; E. Prenga, Il Crocifisso via alla Trinità. L’esperienza di Francesco d’Assisi nella teologia di Bonaventura, Città Nuova, Roma 2009. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 139 del teologo ha messo in evidenza con forza questo principio. In particolare lo ha illustrato il dottorato di Teresa di Lisieux, che nulla ha lasciato di si- stematico, se non una rilettura dell’esperienza di grazia fatta con l’intera sua vita. Quel racconto è diventato una cattedra di teologia per tutta la Chiesa30. 2.3. L’esperienza dei santi può avere valenza euristica persino rispetto a “nodi” speculativi della teologia. Lo ha suggerito Giovanni Paolo II nella NMI, dove egli invita a ricorrere all’esperienza spirituale di Teresa di Lisieux e Caterina da Siena per gettare luce sulla vexata quaestio della compresenza, in Gesù morente, della beatitudine derivante dalla sua unione col Padre e dello strazio dovuto all’esperienza dell’abbandono. Quello che alla specula- zione basata sull’esperienza comune e sulla logica ordinaria sembra assurdo, all’esperienza mistica dei santi può risultare possibile31. Occorre tuttavia, in questo ascolto privilegiato dei santi, non dimenticare che anch’essi han- no i loro limiti. Molte opinioni teologiche hanno visto proprio dei santi in dialettica tra di loro. Ritengo che il contributo teologico dei santi sia tanto più affidabile quanto più portato sul centro dell’esperienza cristiana, ossia la dimensione trinitario-ecclesiale, giacché la santità si sviluppa proprio in relazione con questo centro, mentre su elementi periferici – nella prospettiva della hierarchia veritatum di UR 11 – anche i santi, se non sono favoriti, pro- prio su quei punti, di luci particolari, possono essere vittime, come gli altri cristiani, dei condizionamenti della loro epoca e dei loro limiti personali. Basti pensare alle diverse posizioni assunte da Francesco e Bernardo in tema di «spiritualità delle crociate», o alle opinioni di molti santi in tema di antise- mitismo e rapporti con gli ebrei, dove una E. Stein si distingue positivamen- te anche per la sua speciale storia personale, rispetto a tanti che si mostrano ben lontani dall’attuale sensibilità dialogica nei confronti dell’ebraismo. I santi non cessano di essere uomini e donne del loro tempo32.

30 Rinvio alle riflessioni che ho sviluppato in D. Sorrentino, Teresa di Lisieux Dottore della Chiesa. Verso la riscoperta di una teologia sapienziale, in «Asprenas» 44 (1997) 483-514; Id., L’esperienza nella mistagogia di Teresa di Lisieux, in The experience of God today and car- melite mysticism. Mistagogy and inter-religious and cultural Dialog. Acts of the International Seminar Zidine [Bosnia and Herzegovina] september 17-22, 2007), Karmelska Izdanja, Zagreb 2009, 197-215. 31 Cf. NMI 26-27. 32 Cf. D. Sorrentino, Sulla testimonianza dei santi negli scritti spirituali di Roberto Bel- larmino, in«Asprenas» 47 (2000) 129 -142. 140 Domenico Sorrentino

2.4. Un interessante sviluppo di questo concetto euristico dell’esperien- za cristiana si è delineato sul versante dell’esegesi, con un modello ermeneu- tico che si potrebbe chiamare di «analogia mistica». Lo si può, in sostanza, spiegare così: come è ragionevole, nella lettura dei testi, servirsi dell’analogia storica, colmando i vuoti di informazione con fondate deduzioni a partire dalla logica dell’esperienza ordinaria, è anche possibile una lettura degli ele- menti soprannaturali presenti nei testi biblici a partire dall’esperienza misti- ca. K. Berger sostiene a tal proposito che si possono sottrarre gli eventi stra- ordinari narrati dalla Scrittura, specie dal Vangelo, all’aprioristico sospetto della “mitizzazione”, divulgata dall’esegesi di stampo bultmanniano, con la ragionevole supposizione che essi siano affini a fenomeni che si registrano nella vita di tanti santi e mistici a noi più vicini e che meglio si offrono alla nostra verifica.

«La mistica riconosce la mistica. La percezione di una attualità mistica esiste dunque, con pari valore, a fianco della attualità nel senso delle scienze natu- rali moderne. […] Non c’è, infatti, soltanto una vicinanza cronologica a Gesù, ce n’è anche una esistenziale»33.

2.5. In genere l’esperienza precede il pensiero logico-sistematico. Ma non mancano casi in cui quest’ultimo avanza ipotesi o intuizioni, che co- stituiscono la base di futuri approfondimenti e verifiche. La scienza con- temporanea procede appunto per modelli teorici sottoposti poi al cammino della verifica34. Bunge ha mostrato la funzione che anche nella scienza po- sitiva rivestono l’immaginazione e l’intuizione35. La scienza teologica può avanzare con analogo procedimento, facendo nuove proposte, naturalmente secondo lo statuto proprio della fede, che implica la fedeltà alle verità dog- maticamente acquisite e la docilità al discernimento ecclesiale. È una possi- bilità riconosciuta anche dall’istruzione Donum veritatis36. In questa logica

33 Cf. K. Berger, Gesù, Queriniana, Brescia 20072 (or. ted. 2004), 12. 34 Cf. T. Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999 (or. ingl. 1962). 35 Cf. M. Bunge, Intuition and Science, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1962. 36 Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis sulla vo- cazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, n. 11, in Enchiridion Vaticanum (EV), vol. 12, n. 260: «Le nuove proposte avanzate dall’intelligenza della fede non sono che un’offerta fatta a tutta la chiesa. Occorrono molte correzioni e ampliamenti di prospettiva in un dialogo fraterno, prima di giungere al momento in cui tutta la chiesa possa accettarle». Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 141 di discernimento ecclesiale, l’esperienza cristiana svolge un certo compito critico-confermativo di ciò che l’intelligenza sistematica propone, così come quest’ultima normalmente fa nei confronti dell’esperienza. Si innesca così un dinamismo circolare tra esperienza e speculazione: da un lato, l’esperien- za può fornire alla speculazione dati da verificare col ragionamento teologi- co; dall’altro, quest’ultimo può avanzare delle ipotesi, cercando conferme nell’esperienza. Un esempio di questo dinamismo si registra nel recente cammino teolo- gico in tema di salvezza dei bambini che muoiono senza battesimo, secondo quanto proposto dalla Commissione Teologica Internazionale37. L’abbando- no di posizioni restrittive del passato, che pur erano diventate dottrina co- mune, si è realizzato certo in forza dell’approfondimento dei testi biblici, ma a tale rilettura non è stato estraneo l’impulso esperienziale di un’inclinazione sempre più forte, nella sensibilità cristiana (sensus fidelium), ad accentuare il tema dell’amore salvifico di fronte alla vastità dei problemi posti dalla con- dizione umana contemporanea, con numerosi popoli ancora lontani dalla possibilità del battesimo e tanti bambini che muoiono ancor prima di na- scere. Guardare a questa immensa realtà umana con una visione rigida ed escludente è diventato sempre più ripugnante al sensus cristiano dell’amore salvifico universale. Nonostante l’influenza di santi della portata di Agostino e di un Magistero che per secoli si è richiamato – ma senza mai definirle – alle posizioni restrittive del grande Dottore e dei suoi epigoni, l’odierna teologia può fare un notevole passo avanti. Si direbbe che l’esperienza cri- stiana abbia costretto la teologia argomentativa a riaprire i “giochi”, con una rinnovata ermeneutica dei testi alla luce dell’insieme del messaggio biblico e di una sensibilità cristiana più matura38. 2.6. Campo significativo del rapporto esperienza-teologia è anche la teologia morale. Per il carattere stesso della morale, quale espressione di doveri rispondenti alla struttura profonda dell’humanum, non c’è dubbio che essa debba avere una delle sue fonti nell’esperienza. Il Concilio Vaticano II lo ha esplicitamente ricordato quando, in apertura della seconda parte della GS, afferma programmaticamente di voler gettare luce su alcuni grandi

37 Commissione Teologica Internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo, 19 aprile 2007 (LEV, Città del Vaticano 2007). 38 Ibid., specialmente i nn. 71, 78, 96. 142 Domenico Sorrentino temi dell’etica alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana39. Per quanto il termine «esperienza», anche in prospettiva morale, possa essere ambiguo40 e difficile sia la ponderazione della realtà da esso evocata, si tratta di un rife- rimento irrinunciabile. Ciò è legittimato anche dal principio di antropologia teologica, ben chiaro nella teologia cattolica, secondo cui il peccato non ha compromesso la natura al punto che essa non dia più segnali della sua verità originaria41. Se l’uomo peccatore resta responsabile dei peccati è perché la coscienza e la libertà, pur ferite, non sono venute meno. È quanto emer- ge anche nella riflessione della Commissione Teologica Internazionale sulla «legge naturale», che ha prestato grande attenzione alla «sapienza dell’espe- rienza», cercandola anche nei punti di convergenza delle grandi religioni42. I condizionamenti storico-culturali non sono tali da scalzare una continuità fondamentale dell’humanum, continuità radicata, in ultima analisi, in Cristo stesso43. La teologia morale può mettersi dunque in ascolto dell’esperien- za senza cedere alle sirene del soggettivismo e del relativismo, giudicando la storia alla luce del Vangelo, sotto la garanzia del Magistero. Non è del resto una novità, se si pensa che per lo stesso Tommaso d’Aquino le cose appartenenti alla scienza morale maxime cognoscuntur per experientiam44. Purtroppo la teologia morale degli scorsi decenni ha conosciuto tendenze che, facendo perno sulla complessità dell’esperienza storica, hanno indebo- lito o misconosciuto il senso della legge morale oggettiva e universale, susci- tando la riprovazione del Magistero, com’è avvenuto nell’enciclica Veritatis splendor (cf. nn. 53 e 56). Ma al riparo da ogni radicalismo inaccettabile, è onesto riconoscere che su molti punti, specie dell’etica sociale, la storia della teologia morale ha conosciuto un vero progresso, a partire da una migliore

39 «Sub luce evangelii et humanae experientiae»: GS 46 [in EV 1, 1466]. 40 Cf. S. Privitera, Dall’esperienza alla morale. Il problema esperienza in Teologia mo- rale, EDI Oftes, Palermo 1985. L’autore fa una raffinata critica del termine «esperienza», arrivando alla conclusione esagerata, che sarebbe bene non usar più questo termine. Basta, in realtà, chiarire l’accezione in cui lo si assume: c’è un sostrato comune alle diverse accezioni e comprensioni, ed è quello che rende questo termine così ovvio nel linguaggio ordinario e utile anche in quello scientifico. 41 Cf. Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione: il libero arbitrio, dopo il pecca- to originale, è attenuato e inclinato al male, ma non estinto, cf. DS 1521 e 1555. 42 Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, maggio 2009, n. 54 (LEV, Città del Vaticano 2009). 43 Cf. GS 10 [in EV 1, 1351]. 44 Tommaso d’Aquino, In Eth. Nich. Lib. I, lect. 3, n. 7. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 143 fondazione biblica e da una più attenta lettura dell’esperienza, in dialogo con le scienze dell’uomo45.

2.7. Un capitolo significativo sull’esperienza cristiana si apre in teologia spirituale, i cui orientamenti in campo ascetico e mistico, pur sempre in- cardinati sulla Scrittura e garantiti dal Magistero, si precisano appunto alla luce dell’esperienza spirituale della comunità cristiana, soprattutto quella dei santi. Lo statuto di questa disciplina si è venuto delineando al vaglio di un notevole dibattito. In particolare il confronto è avvenuto tra un’impo- stazione «deduttiva», che descrive la vita spirituale soprattutto applicando i principi colti nella rivelazione, e un’impostazione «induttiva», che pur mi- surandosi con tali principi, valorizza maggiormente i dati esperienziali. Oggi è per lo più acquisito tra i teologi spirituali che proprio l’analisi dell’espe- rienza spirituale debba caratterizzare la loro disciplina. A simile conclusione si è pervenuti soprattutto per il parallelo approfondimento epistemologico della teologia morale, che ha giustamente rivendicato la titolarità dell’intera area normativa della vita cristiana, ritenendo di doversi occupare non solo del livello morale fondamentale espresso dai “comandamenti”, ma anche dei principi che regolano il cammino di perfezione fino ai vertici della santi- tà. Sollevata dunque da questo interesse specifico che potremmo qualifica- re come “normativa” della santità, la teologia spirituale individua lo spazio proprio nell’esperienza spirituale, analizzata per gettar luce non tanto sulle norme fondamentali della vita e della santità cristiana, trattate dalla teologia morale, quanto sulle leggi tendenziali, le costanti, le variabili e le proble- matiche della vita spirituale come essa si svolge nel concreto vissuto delle persone e delle comunità. A mio parere c’è da aggiungere a tutto questo che l’esperienza analizzata dalla teologia spirituale non dovrebbe limitarsi al campo pratico, ma allargarsi a quello dommatico, ossia alle verità di fede sperimentate sotto l’azione dei doni dello Spirito – dunque l’intelligentia

45 Questo cammino si può registrare chiaramente in alcuni approfondimenti etici, che lo stesso Magistero ha accolto, in tema di fini del matrimonio, guerra giusta, pena di morte, valore della democrazia, ecc. Cf. N. Brown, Experience and Development in Catholic Moral Theology in «Pacifica» 14 (2001) 295-312. A parte i temi particolari, il progresso si nota nell’impostazione stessa, come si può vedere dallo sviluppo della manualistica. In tale «rifon- dazione» non mancano, in un autore o nell’altro, elementi discutibili o inaccettabili. Un qua- dro ampio di questo rinnovamento in V. Gómez Mier, La rifondazione della morale cattolica. Il cambiamento della «matrice disciplinare» dopo il Concilio Vaticano II, EDB, Bologna 1998. 144 Domenico Sorrentino quam experiuntur di DV 8 –, almeno in considerazione del fatto che la spe- ciale esperienza delle verità di fede è tutt’altro che indifferente, anzi svolge un ruolo significativo per il cammino di santità46.

2.8. Un certo valore critico-confermativo dell’esperienza cristiana si può avere anche a partire dal dialogo ecumenico47. Normalmente, in questo campo, vengono in risalto i dialoghi teologici, che avvengono soprattutto sul piano teoretico-argomentativo. Ma accanto al confronto ideologico, c’è anche il confronto tra esperienze di persone e comunità che si incontrano nella ricerca della piena comunione. Nel dopo-Concilio si sono sperimen- tate forme significative di «condivisione spirituale»48, fino a vere e proprie comunità ecumeniche, in cui i cattolici hanno potuto convivere con fratelli di altre confessioni, condividendo le forme della comunione già possibile. Esperienze come quella di Taizé, di Bose, delle iniziative ecumeniche del Movimento dei Focolari, della Comunità di Sant’Egidio, ecc., hanno po- sto premesse significative di una conoscenza reciproca, che oltre ad aiutare il cammino verso la piena unità, è anche un impulso all’approfondimento teologico. Non è difficile certo immaginare che un dialogo a questo livello possa far nascere anche qualche problema, quando, in nome della ricerca di ciò che è comune, si dovesse essere tentati di mettere tra parentesi aspetti importanti della verità che siamo tenuti a professare. Ma i rischi, sui quali occorre vigilare, non possono bloccare un cammino che si presenta ricco di potenzialità positive per la vita cristiana e la teologia.

46 Va in questa direzione, per quanto ancora a livello di un progetto appena abbozzato, il mio trattato di spiritualità: Sorrentino, L’esperienza di Dio, cit. Dall’abbondante letteratu- ra su questa problematica, mi limito a segnalare: Ch.A. Bernard, Teologia Spirituale, Paoline, Roma 19832; L. Borriello, Esperienza mistica e teologia mistica, LEV, Città del Vaticano 2009. 47 Cf. M. Ouellet, Méthode théologique et dialogue oecuménique, in M. Sodi (ed.), Il metodo teologico. Tradizione, innovazione, comunione in Cristo, LEV, Città del Vaticano 2008, 277-291; B. Sesboüé, Pour une théologie oecuménique, Cerf, Paris 1990. 48 Cf. Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Diretto- rio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo (1993), n. 114: «In alcuni casi, sotto la direzione di persone che abbiano ricevuto una particolare formazione e abbiano fatto una adeguata esperienza, può essere utile ricorrere alla condivisione spirituale sotto la forma di ritiri, di esercizi spirituali, di gruppi di studio e di reciproca comunicazione di tradizione di spiritualità, nonché di forme di incontro più stabili per l’approfondimento di una vita spirituale comune». Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 145

3. Valore di stimolo: teologia «dal» mondo? 3.1. Il Vaticano II ha invitato a fare attenzione ai «segni dei tempi»49. Il principio che la grazia opera nel mondo anche al di là dei confini visibi- li della Chiesa impone di accogliere gli stimoli che lo Spirito di Dio offre all’umanità in direzione della salvezza, e alla stessa Chiesa, in vista della sua purificazione e della sua percezione sempre ulteriore della verità. La storia della teologia conosce a tal proposito casi eclatanti, in cui il confronto con la cultura, se, da un lato, ha posto alla Chiesa sfide non facili, dall’altro, si è rivelato proficuo all’approfondimento del messaggio cristiano. Il caso Galilei rimane emblematico di un dialogo tormentato tra fede e scienza, ma l’esito di questo confronto è stato quello di una migliore comprensione del senso dell’ispirazione e della verità biblica. Si può dire altrettanto della pro- vocazione darwiniana, che ha impegnato la teologia ad approfondire il senso del dogma della creazione, in modo che ne appaia la compatibilità, a certe condizioni, con l’ipotesi evoluzionista. 3.2. Un problema specifico è il rapporto verità-prassi. Tra le tendenze presenti nel panorama teologico del nostro tempo v’è quella che ha avuto da Metz la caratterizzazione di «teologia politica»50, con l’affermazione del pri- mato teologico della prassi, a partire dalla «memoria» e dalla «narrazione», in funzione di una prassi solidale, come luogo proprio di una vera esperienza di fede e di una teologia autentica. Tale istanza ha una indubbia plausibilità biblica, se si tiene conto di quanto abbiamo su accennato sul carattere sto- rico della rivelazione cristiana e se si ricorda che la «verità» biblicamente intesa va oltre la dimensione intellettuale, fino al culmine dell’affermazione cristologica: «Io sono la verità» (Gv 14,6). Come la verità, anche la «cono- scenza», dal punto di vista biblico, va oltre l’adaequatio intellectus et rei, implicando un coinvolgimento dell’intera persona, una dimensione espe- rienziale51, al punto che, per la conoscenza di Dio, l’amore è conditio sine qua non, secondo la radicale affermazione di 1Gv 1,7:

49 L’espressione si trova in GS 11; UR 4; Presbiterorum ordinis, n. 9; Apostolicam actuo- sitatem, n. 14. 50 Cf. J.-B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969 (or. 1968); Id., Sul concetto della nuova teologia politica: 1967-1997, Queriniana, Brescia 1998. 51 Cf. J. Dupont, Gnosis. La connaissance religieuse dans les épîtres de Saint Paul, Lou- vain-Paris 19602; L. Bouyer, Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, LEV, Città del Vaticano 1991. 146 Domenico Sorrentino

«Chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore».

È noto che, a partire da simili presupposti, nell’orizzonte della teologia politica si è sviluppata la teologia della liberazione. Se alcune deduzioni di questa teologia, per un radicalismo dovuto soprattutto alla contaminazione ideologica marxista, sono inaccettabili, resta l’anima di verità, che la stessa istruzione Libertatis nuntius riconosce, quando afferma che

«per la riflessione dottrinale e pastorale della Chiesa è necessaria l’esperienza di coloro che lavorano direttamente all’evangelizzazione e promozione dei poveri e degli oppressi. In questo senso occorre dire che si prende cos- cienza di alcuni aspetti della verità a partire dalla prassi, se per prassi si in- tendono una prassi pastorale e una prassi sociale che restano di ispirazione evangelica»52.

3.3. Stimolante è pure il confronto con l’esperienza religiosa universa- le, tenendo conto anche degli esiti del dialogo interreligioso in coloro che lo praticano con una conoscenza personale degli interlocutori e un coin- volgimento nel loro mondo spirituale. Se ne parla appunto come «dialogo dell’esperienza religiosa», tipo di dialogo considerato legittimo e fecondo in alcuni documenti della Santa Sede53. A tal proposito il Segretariato per i non cristiani scriveva nel 1984:

«Gli scambi a livello di esperienza religiosa possono render più vive le dis- cussioni teologiche. Queste, a loro volta, possono illuminare le esperienze e incoraggiare contatti più stretti»54.

52 Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Libertatis nuntius su al- cuni aspetti della teologia della liberazione, 6 agosto 1984, n. 12, in EV 9, 981. 53 Cf. Segretariato per i Non Cristiani, L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai se- guaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione, 4 settembre 1984 [in EV 9, 988-1031]; sulla forma di dialogo consistente in una vera e propria esperienza di condi- visione spirituale, cf. il n. 35 [in EV 9, 1022]: «A un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere le loro esperienze di preghiera, di contem- plazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell’assoluto. [… ] Il cristiano ha così l’occasione di offrire all’altro la possibilità di sperimentare in maniera esistenziale i valori del Vangelo». Cf. anche Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso - Congre- gazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Istruzione Dialogo e annuncio. Riflessioni e orientamenti sull’annuncio del Vangelo e il dialogo interreligioso, 19 marzo 1991 [in EV 13, 287-386]. Sul dialogo dell’esperienza religiosa il documento torna al n. 42. 54 Ibid., n. 43 [in EV 13, 333]. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 147

Un’esperienza significativa in questo nuovo orizzonte dialogico si può considerare la Giornata mondiale di Preghiera per la Pace, promossa ad Assisi da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986. Si è parlato a tal proposito dell’«icona di Assisi» e dello «spirito di Assisi». Fu un’iniziativa che conti- nua a dare spunti alla riflessione teologica ma ha destato anche reazioni criti- che in alcuni ambienti ecclesiali. Giovanni Paolo II intervenne ripetutamen- te a spiegarne il senso55, e altrettanto ha fatto Benedetto XVI56. Il dialogo dell’esperienza sta avendo un suo cammino soprattutto nell’ambiente mo- nastico57. Tra casi più noti quello di Henri Le Saux, il monaco benedettino francese, che ha tentato di farsi “laboratorio” personale per l’incontro fra la tradizione mistica cristiana e quella indù58. In una linea simile Griffith ha auspicato un “matrimonio” tra Oriente e Occidente59 e R. Panikkar ha sviluppato in tale spirito riletture del dogma cristiano60. D.W. Mitchell ha approfondito il concetto di «kenosi» alla luce del confronto tra la spiritualità cristiana e quella buddhista dello Zen61, in una linea già aperta da Thomas Merton62. Il Movimento dei Focolari ha al suo attivo esperienze stimolanti di incontro con buddhisti63. È chiaro che queste forme “esperienziali” di dialogo costituiscono un terreno delicato. Da esse possono derivare luci an-

55 Cf. C. Bonizzi, L’icona di Assisi nel magistero di Giovanni Paolo II, Edizioni Porziun- cola, Assisi 2002. 56 Cf. Benedetto XVI, Lettera a S.E. Mons. Domenico Sorrentino in occasione del XX Anniversario dell’incontro interreligioso di preghiera per la pace, 2 settembre 2006 (http://www. vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2006/documents/hf_ben-xvi_let_20060902_xx- incontro-assisi_it.html). Rinvio anche a D. Sorrentino, Benedetto XVI e lo «spirito di Assisi», in «Convivium Assisiense» IX (I/2007) 91-107; il testo della menzionata lettera al sottoscritto è ripubblicato nello stesso numero della rivista alle pp. 111-116. 57 Cf. F. Blée, Il deserto dell’alterità. Un’esperienza del dialogo interreligioso, Cittadella, Assisi 2006. 58 Su tale tentativo lo stesso Dupuis, certo non sospetto di mancanza di attenzione ai valori delle altre religioni, ha dovuto ammettere che «pone più problemi di quanti ne risolva». Cf. J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Cittadella, Assisi 1989, 119. 59 Cf. B. Griffiths, Matrimonio tra Oriente e Occidente, EDB, Bologna 2003. 60 Cf. ad es., R. Panikkar, Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, Cittadella, Assisi 1989. 61 Cf. D.W. Mitchel, Kenosi e nulla assoluto. Dinamica della vita spirituale nel buddhi- smo e nel cristianesimo, Città Nuova, Roma 1993. 62 Th. Merton, Lo Zen e gli uccelli rapaci, Garzanti, Milano 1999. 63 Cf. C. Busquet , Incontrarsi nell’Amore. Una lettura cristiana di Nikkyō Niwano, Cit- tà Nuova, Roma 2009. In appendice è documentato un interessante scambio epistolare tra Nikkyō Niwano e Chiara Lubich. 148 Domenico Sorrentino che per l’approfondimento delle dinamiche della vita religiosa, della mistica, della grazia, come notava già G. De Luca nella sua Introduzione alla storia della pietà64. Ma questo tipo di dialogo si può anche rivelare un campo mina- to, se diventa vivaio di tendenze e teorie nelle quali si mettono in discussione verità dogmaticamente acquisite o rimane in ombra la fede in Gesù Cristo unico e universale Salvatore65.

4. Valore dossologico-fruitivo

4.1. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e co- lui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Centrata com’è sulla «cono- scenza» di Dio, l’affermazione racchiude insieme il compito della fede e quello della teologia. L’equivalenza poi tra «vita eterna» e «conoscenza di Dio» suppone, come si ricordava poc’anzi, un tipo di conoscenza non ri- dotta all’apprensione intellettuale ma, secondo l’ottica biblica, caratterizzata dall’esperienza viva di Dio, attraverso l’ingresso nel dinamismo della vita tri- nitaria. Una teologia che sappia integrare nel suo percorso anche l’esperien- za spirituale diventa, a suo modo, una funzione introduttiva all’esperienza stessa del mistero, una speciale via »mistagogica», un itinerarium mentis in Deum, che valorizza il retto ordine della conoscenza intellettuale, aprendola alla cognitio Dei experimentalis che è propria dell’esperienza mistica66. Que- sto ruolo “fruitivo” della teologia è intimamente connesso a una dimensione del teologare che normalmente resta sullo sfondo: la dimensione «dossolo- gica». Si tende in genere a pensare che la dimensione della preghiera e, in

64 Cf. D. Sorrentino, L’esperienza spirituale come fonte e approdo della teologia. La via proposta da don Giuseppe De Luca, in «Asprenas» 51 (2004) 187-206. 65 Riletture del divino e della Trinità in dialogo con l’induismo, come quelle di Le Saux o di Panikkar, lasciano perplessi e sono in alcuni punti inaccettabili. In tema cristologico e soteriologico, sono stati posti dal Magistero necessari punti fermi contro facili derive relati- vistiche. Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dominus , 6 agosto 2000, LEV, Città del Vaticano 2002; Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni (dicembre 1996), LEV, Città del Vaticano 1997. 66 Cf. M. D’Avenia, La conoscenza per connaturalità in S. Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992; A. Piolanti, La conoscenza sapienziale di Dio in S. Tom- maso. S. Th. II.I, q. 45, Pontificia Accademia Romana di S. Tommaso - LEV, Città del Vati- cano 1980; I. Biffi, Teologia, storia e contemplazione in Tommaso d’Aquino. La costruzione della teologia, Jaca Book, Milano 1995, 85-127; H. Geybels, Cognitio Dei experimentalis. A Theological Genealogy of Christian Religious Experience, Peeters, Leuven 2007. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 149 particolare, della lode, sia un “prima” e un “dopo”, ma non un elemento “intrinseco” della prassi teologica. Si rischia così di risolvere la teologia in arida esercitazione intellettuale. In realtà, la disciplina che si interessa di Dio non può dimenticare che egli è il «tre volte Santo», che va considerato sem- pre un «tu», il tu per eccellenza, il «roveto ardente» davanti al quale si sta a piedi nudi (cf. Es 3,1-5). L’adorazione è l’anima di un pensiero veramente «teo»-logico. Di questo la tradizione teologica orientale si mostra, in genere, più consapevole, fino alle posizioni estreme di Gregorio Palamas, per il qua- le non v’è conoscenza di Dio senza esperienza di lui:

«Se tu pensi migliaia di volte ai tesori divini, senza provarli con l’esperienza e gli occhi spirituali che trascendono la ragione, non vedi nulla e non possiedi alcuna cosa divina»67.

Si può certo replicare che nel rapporto tra conoscenza ed esperienza c’è una vasta gamma di realizzazioni possibili, e una conoscenza che non abbia un minimo di esperienza è un caso limite. Ma la teologia non può contentarsi del minimo. L’ideale non può che essere un teologo che sia anche un “mistico”, e comunque un uomo anelante alla santità ed esperto della preghiera68. È nota a tal proposito la sentenza di Evagrio Pontico: «Se sei teologo pregherai veramente, e se pregherai veramente, tu sei teologo»69. Se la conoscenza per connaturalità è la via maestra della conoscenza di Dio, la conoscenza teologica può essere tanto più profonda, quanto più è alimen- tata dalla conoscenza mistica del teologo stesso, o almeno da un suo attento ascolto dei mistici. Un mistico morto pochi anni or sono, il vescovo prelato di mons. F.S. Toppi, annotava nel suo diario il 21 giugno 2002:

«Il dinamismo beatificante della pericoresi mi sta riempiendo, occupando interamente fino ad un assaggio – per così dire – della stessa visione beati-

67 Triadi, I, 3, 34. Cf. J. Meyendorff (ed.), Saint Grégoire Palamas. Triades pour la Défense des hésychastes, vol. II, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain 19592, 184. 68 Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, cit., n. 8. 69 Trattato sull’Orazione, 60. Cf. I. Hausherr, Les leçons d’un contemplatif: le traité de l’oraison d’Evagre le Pontique, Beauchesne, Paris 1960, 90. Su questa linea della teologia orientale, si veda: Y. Spiteris, Impostazione metodologica della teologia ortodossa, in Sodi (ed.), Il metodo teologico, cit., 95-112. 150 Domenico Sorrentino

fica. Mi sento in e sono costretto a gridare: Basta! Basta! Non ce la faccio…»70.

Può darsi che un teologo, giungendo a simili esperienze, sia costretto, come Tommaso d’Aquino, a non scrivere più, per il senso della distanza tra la verità conosciuta attraverso i doni mistici speciali e quella raggiunta con la fatica del puro intellectus fidei. Ma quanto acquisterebbe il pensiero teologi- co, se si lasciasse veramente fecondare dall’azione dello Spirito! 4.2. È poi un compito per massima parte da attuare – dopo il grande input dato in questo senso da H.U. von Balthasar71 – quello di approfondire sia la Scrittura che la Tradizione in chiave di estetica teologica, rilevandone la “forma” o gustando la bellezza dell’opera di Dio nel creato come nella storia. Il poderoso tentativo fatto dal geniale teologo svizzero di cogliere la “gloria” di Dio mettendo a fuoco gli “stili” di pensiero e di vita suscitati dallo Spirito di Dio, e che vanno dall’esistenza delle persone alle istituzioni comunitarie, dall’arte alla liturgia, quali espressioni della via pulchritudinis per l’accesso a Dio stesso, rimane da portare avanti, anche attraverso una metodica che non sempre può contare sull’originalità interpretativa che è lusso di pochi maestri, ma chiede una ordinata frequentazione, che già di per sé lascerà trasparire per intrinseca irradiazione la luce del mistero.

5. Valore apologetico-testimoniale

La testimonianza è una dimensione fondamentale dell’essere Chiesa. Non può non essere vero anche per la teologia. Da sempre questa ha avuto una dimensione e un ambito specificamente apologetici. Ma la funzione apo- logetica è implicita nella stessa funzione speculativa, giacché l’approfondi- mento corretto della fede è anche la sua migliore difesa di fronte a obiezioni che muovono dalla mancata o non adeguata conoscenza. La GS 19 cita il caso di coloro che rifiutano Dio ma in realtà respingono solo una falsa imma- gine di lui: «Si rappresentano Dio in modo tale che quella rappresentazione

70 Quaderno IX, 1145/55. Il Diario, in nove quaderni, è in attesa di pubblicazione a cura di F.F. Mastroianni. Di quest’ultimo cf. Id., Mons. . Itinerario spiri- tuale alla luce del Diario e degli scritti editi, E.C.N. Editori Cappuccini Napoli, Napoli 2009. 71 Cf. G. Meiattini, Sentire cum Christo. La teologia dell’esperienza cristiana nell’opera di Hans Urs von Balthasar, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1998. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 151 che essi rifiutano, in nessun modo è il Dio del Vangelo». La teologia ha appunto tra i suoi compiti quello di correggere le percezioni distorte di Dio che possono derivare da ignoranza, pregiudizi o condizionamenti storici. L’apologetica resta indispensabile, anche se l’attuale contesto storico la por- ta a un tono più “dialogico” e meno polemico, sviluppandosi a partire dagli interrogativi dell’uomo d’oggi, dalla sua cultura, dalle sue obiezioni, alla ri- cerca di un’ermeneutica adeguata del dogma in questa prospettiva testimo- niale. Sicuramente crescerebbe la capacità testimoniale della teologia, se essa potesse presentare non solo dei “ragionamenti”, ma anche delle esperienze criticamente vagliate e credibili, dunque capaci di essere vie significative e invitanti di approccio al mistero. Già l’apostolo Paolo argomentava contro i Galati «insensati» a partire dal dono esperienziale dello Spirito Santo che in essi operava abbondantemente:

«Questo solo vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete rice- vuto lo Spirito o per aver ascoltato la parola della fede? Siete così privi d’in- telligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne?» (Gal 3,1-5).

Per Paolo l’esperienza dello Spirito ha una tale concretezza, da poter essere una “prova” della verità che egli annuncia. Analogo ragionamento troviamo in 1Gv: «Da questo noi conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). Questa intensità testimoniale della pre- senza dello Spirito Santo è diventata, nella storia della teologia, un discorso sempre più “evanescente”, sicché quasi ci si sorprende quando il Nuovo Testamento sottolinea questa verità, come ad esempio nel discorso sui ca- rismi di Paolo ai Corinzi (cf 1Cor 13-14), mostrando carismi – si pensi alla glossolalia – che sono quasi spariti dal nostro concreto paesaggio ecclesiale. Credo sia una grazia che il «Rinnovamento nello Spirito Santo» cerchi oggi, con le sue caratteristiche forme, di rimettere in luce l’azione dello Spirito nella sua concretezza esperienziale. Ma anche la frequentazione dei mistici – un paesaggio più “classico” – ce ne dà un vasto panorama. F.M. Léthel ha mostrato quanta luce sul mistero e quanto apporto alla sua “credibilità” possa derivare dalla “teologia dei santi72. Si legga in questa logica il toccante

72 Mi limito a segnalare F.M. Léthel, Connaître l’amour du Christ qui surpasse toute connaissance. La théologie des saints, Editions du Carmel, Venasque 1989; Id., L’amour de Jésus. La christologie de sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus, Désclée, Paris 1997. 152 Domenico Sorrentino slancio testimoniale del menzionato mons. F.S. Toppi in una nota di diario redatta dopo una contemplazione “passiva” del mistero trinitario:

«Ma perché non mi dai di mostrare agli uomini con parole semplici e fami- liari l’evidenza di questa luce che m’inonda e mi fa contemplare l’unità nella trinità e la trinità nell’unità […] Se ti conoscessero gli uomini, se ti facessi conoscere… Se sprizzassi nelle loro menti qualche scintilla del dono dell’in- telletto, sentirebbero l’evidenza… L’evidenza.. che vorrei gridarlo al mondo intero.. a tutti gli uomini… vorrei gridarlo agli atei… vorrei mostrarlo loro con la sorpresa ingenua e felice d’un bambino: “Venite.. venite a vedere.. guardate.. guardate com’è vero.. come è l’unico vero... guardate com’è... e come deve essere per forza così… Dio uno e trino! Dio Padre-Figlio-Spi- rito Santo! E come in lui-amore infinito-eterno-gaudio pieno-unico tutto si capisce, tutto si spiega, tutto s’invera, tutto si realizza, tutto diventa bello, giocondo, felice… divino!»73.

6. Conclusione

6.1. La storia della teologia e il suo sviluppo più recente non lasciano dubbi sul fatto che l’esperienza abbia una parte irrinunciabile nel discorso teologico. Oso credere che la teologia del futuro si caratterizzerà per questo maggiore aggancio all’esperienza cristiana, riavvicinandosi così al tono della teologia “gnostico-sapienziale” dei Padri74, pur senza perdere nulla del me- todo scientifico acquisito nel secondo millennio. Il motivo che mi fa pensare questo è, da un lato, il fatto che il cristianesimo è la religione del Dio della storia, che è insieme Dio della creazione, dell’alleanza, dell’incarnazione, sicché solo il radicamento nel “vissuto” – quello biblico e quello ecclesia- le – può fondare validamente qualunque teologia degna di questo nome; dall’altro lato, il fatto che la cultura del nostro tempo è, a più motivi, una cultura a forte densità esperienziale, e pertanto una teologia che voglia stare in dialogo con la cultura deve sviluppare e manifestare sempre di più il suo carattere esperienziale.

6.2. Il recupero dell’esperienza non è senza rischi. La storia della teo- logia, con i suoi ultimi secoli di presa di distanze dall’esperienza, rimane un

73 Dal Diario, nota del 4 agosto 1969, Quaderno IV, 318. 74 L’espressione è di C. Vagaggini, Teologia, in G. Barbaglio - S. Dianich (ed.), Nuo- vo dizionario di Teologia, Paoline, Roma 1979, coll. 1607-1630. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 153 monito. L’impressione che l’esperienza abbia un grado di verità più “alto” del ragionamento, è una tentazione ricorrente, soprattutto in un contesto di deplorevole caduta della tensione metafisica. Altrettanto si deve dire del rischio emozionalistico, particolarmente presente in una cultura alla ricerca di sempre nuove sensazioni. La teologia non può aprirsi all’esperienza senza mettersi al riparo da queste insidie. Non si tratta di opporre la dimensione esperienziale e quella speculativa né di creare “gerarchie” tra le due, ma piuttosto di praticarle nel loro naturale rapporto circolare: da un lato, il pensiero critico pone al vaglio dell’esperienza le sue ipotesi di lavoro e le sue conclusioni, dall’altro, la stessa esperienza stimola, critica e conferma il ragionamento puramente deduttivo. Su questa base, l’apertura della teologia all’esperienza non può che essere feconda. Del resto, se tante sono le insidie dell’esperienza, il pensiero non viaggia certo su strade prive di pericoli: tutte le eresie hanno avuto e continuano ad avere i loro argomenti!

6.3. La teologia dell’esperienza cristiana, come è emerso già in qualche punto della nostra analisi, fa emergere un aspetto specifico del lumen Chri- sti: esso non è luce solo intellettuale, una «teoria», o una «filosofia», ma coin- cide con la rivelazione stessa e la sua espansione nella tradizione. Il lumen Christi è l’auto-comunicazione di Dio nel Verbo incarnato. Alla sorgente di ogni riflessione teologica, c’è – deve esserci! – l’esperienza di Cristo, secon- do la pregnante confessione di Paolo: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21). Certo, questo lumen, nel tempo, non ha ancora il fulgore della Gerusalemme celeste, dove non ci sarà altra luce che l’Agnello (cf. Ap 21,23). In qualche anticipazione mistica se ne può pregustare l’intensità quasi-paradisiaca, ma esso rimane normalmente άνατολή, sole che sorge (cf. Lc 1,78), e che compie gradualmente la sua parabola ascendente fino allo zenit escatologico del sole senza tramonto. In quanto άνατολή, è lumen che ha in se stesso tutto l’essen- ziale, ma non ancora l’irradiazione piena. Per questo, c’è ancora spazio per il compito “euristico” dell’esperienza cristiana nel tempo. La teologia che ne deriva – coniugando ragionamento ed esperienza – è theologia lucis, per l’irradiazione progressiva della verità, ma pur sempre bilanciata dalla theo- logia crucis, memore del crocifisso «abbandonato» del venerdì santo e del silenzio profondo del sabato santo: docta ignorantia, in ginocchio di fronte al mistero. Come sulla linea del pensiero argomentativo, forse ancor più sulla linea dell’esperienza, il lumen Christi appare posto tra il «già e il non ancora». 154 Domenico Sorrentino

La teologia confessa in Cristo la sua luce, sapendo tuttavia che il mistero è semper maior. Integrando l’approfondimento speculativo con l’attenzione all’esperienza, la teologia sottolinea ancor più la sua “storicità” e il suo es- sere in “cammino”. Tra le diverse forme di esperienza, quella qualificata e qualificante dei santi e dei mistici è certamente privilegiata, ma anche l’espe- rienza ordinaria dei credenti, e la stessa esperienza generale dell’umanità, vanno prese in considerazione, in quanto anche esse riflettono, ciascuna a proprio modo, una luce che, in definitiva, sgorga sempre da Cristo. Ne na- sce un’esigenza di umiltà della teologia, da non confondere in alcun modo con le insicurezze del «pensiero debole». Se nel nostro tempo tante «verità» apparentemente solari delle varie ideologie sono state messe in crisi, la se- rena coscienza della luce di Cristo non ne rimane offuscata, ma deve essere testimoniata con l’umiltà dei pellegrini che non si sentono possessori, ma viatori, afferrati da Cristo-verità, e sempre più desiderosi di conoscerlo nella scientia amoris. Un aspetto del lumen Christi che emerge dalla funzione dell’esperienza nella fede e nella teologia è quello che rinvia alla logica dell’alleanza: come lo sposo del Cantico dei Cantici, la luce di Cristo si annuncia, dà bagliori, si na- sconde e si riaffaccia, come luce nel gioco delle nubi, invitando l’occhio del credente-teologo a mettere in opera tutta la sua voglia e capacità di ricerca, integrando con la via dei doni soprannaturali il rigore critico dell’intelligen- za. La luce della rivelazione e la ragione naturale non stanno in alternativa, piuttosto si incontrano e dialogano, in un confronto che non è mai totalmen- te compiuto. 6.4. Per muoversi nella direzione di una teologia sempre più “esperien- ziale”, è importante studiare in modo critico-sistematico l’esperienza stessa. Si apre qui un problema di metodo, a cui appena accenno: come raccogliere, valutare e comparare i molteplici dati esperienziali, per fare dell’esperienza un capitolo significativo di ogni ricerca e trattazione teologica. Si impone l’esigenza di costituire un “archivio del vissuto”, e di elaborare un metodo valido e condiviso per lo studio e la comparazione dei dati. Me ne sono occupato in altra sede75, elaborando, per la teologia spirituale, un modello incentrato sulla distinzione tra «dinamiche», che costituiscono l’ossatura del rapporto tra Dio e l’uomo (dinamica natura-grazia, Parola/Spirito-Chiesa,

75 Sorrentino, L’esperienza di Dio, cit., 118-132. Il lumen Christi tra il «già» e il «non ancora» 155 storia-eschaton, dinamica unitiva), e “registri” in cui tali dinamiche si espri- mono, e che rappresentano il linguaggio complessivo dell’umano (registro eucologico, estetico-affettivo, argomentativo-pratico, narrativo-dialogico). Se si giungesse a un comune metodo nell’esame dell’esperienza cristiana, si favorirebbe non solo la raccolta ordinata dei dati, ma anche una compa- razione che permetterebbe di percepire meglio l’infinita gamma di colori dell’azione di Dio e della risposta a Dio nella storia degli uomini. I con- fronti darebbero conferme o smentite e, sotto l’ultimo giudizio del Magiste- ro, l’esperienza potrebbe offrire al meglio il suo servizio di luce proiettata sull’intelligenza del mistero: una grande “sfida” metodica e programmatica.

Sintesi L’autore mette a fuoco il valore dell’esperienza cristiana in teologia, sulla base del concetto di rivelazione qual è stato rivisitato, in senso storico-salvifico, dalla Dei Verbum. Mostra poi i vari aspetti in cui tale valore si esprime, a partire da quello gene- tico, che è proprio dell’esperienza originaria della rivelazione, nella quale la riflessione teologica affonda le radici; successivamente, attraverso le varie espressioni e nei diversi ambiti della teologia, vengono considerati il valore euristico, quello critico-confermati- vo, il valore di stimolo che emerge nella considerazione dei «segni dei tempi», il valore dossologico-fruitivo proprio di una teologia intrisa di preghiera, il valore apologetico- testimoniale. La valorizzazione teologica dell’esperienza non manca di rischi, è tuttavia indispensabile per una teologia integrale. L’esperienza cristiana fa infatti rifulgere il lumen Christi, per quanto nella condizione progressiva che solo nell’escaton mostrerà la sua pienezza.

La CAtegoria della luce NELLA TEOLOGIA E nella SPIRITUALItà dell’Oriente CRISTIANO

 Yannis Spiteris

path 9 (2010) 157-170

La teologia della luce ha un posto importante nella vita della Chiesa d’Oriente. Nella liturgia, tutto è luce: la Chiesa intera è illuminata, ogni icona ha la sua lampada; sull’altare brillano le sette luci del candelabro. L’ingresso, e la lettura del Vangelo sono sempre preceduti da un cero, e quando ufficia il vescovo, dal trichirion: tre ceri riuniti in un’unica fiamma, simbolo delle tre persone divine nella Santa Trinità unite in una sola natura, e dal dichirion: due ceri uniti in una sola luce, simbolo delle due nature di Cristo in una sola per- sona. L’oro e l’argento dei paramenti riflettono tutte queste luci. Il più antico inno conosciuto della Chiesa d’Oriente è il Phos Hilaron, «Radiosa Luce...» (IV sec.), cantato nella liturgia dei Vespri; la festa più solenne dell’anno è la Pasqua, in cui simbolicamente si accentua la Luce della risurrezione. Si è fatto notare che, mentre la teologia mistica occidentale mette l’ac- cento sulle «notti oscure» (san Giovanni della Croce), quella dell’Oriente insiste sulla «illuminazione». La festa della Trasfigurazione in Oriente è una delle feste più solenni dell’anno liturgico. Si tratta di un tema fondamentale della spiritualità e della mentalità cristiana orientale. I santi orientali non ricevono le stigmate, ma la grazia della trasfigurazione del loro volto; si è persino giunti a usare il termine di «fotofania» per indicare questo fenome- no mistico. Infatti la luce spirituale e interiore qualche volta può diventare, in maniera carismatica, visibile nei volti degli uomini di Dio. Il grande Pavel A. Florenskij – una delle figure più singolari ed eccezio- nali del pensiero religioso russo dei primi decenni del 900 – scrive: 158 Yannis Spiteris

«L’ascetica crea non l’uomo “buono”, ma l’uomo bello, e il tratto distintivo dei santi non è affatto la “bontà”, che può essere presente anche in persone carnali molto peccatrici, bensì la bellezza spirituale, la bellezza accecante della persona luminosa e luce-ferente, assolutamente inaccessibile all’uomo grossolano e carnale. “Nessuno è più bello di Cristo”, scriveva sant’Ignazio d’Antiochia»1.

Questa bellezza spirituale, resa visibile in maniera carismatica in alcuni amici di Dio con il fenomeno della «fotofania», non è altro che uniirradia- zione di Cristo morto e risorto così com’è apparso nella trasfigurazione. Di questo fenomeno mistico se ne parla già nei Padri, ma poi diventerà un vero e proprio capitolo della teologia e spiritualità dell’esicamo nel sec. XIV. Di questa teologia della luce faremo riferimento in seguito. Qui riportiamo alcuni episodi di «fotofania» che si leggono nei Detti e fatti dei Padri del deserto.

«Dell’abba Pambo dicevano: come Mosè ricevette l’immagine della gloria di Adamo quando fu glorificato il suo volto (Es 34,29), cosí anche il volto di Pambo risplendeva come folgore ed egli era come un re assiso sul trono. Cosí anche l’abba Siluan e l’abba Sisoe. Di questo abba Sisoe si racconta che prima della morte, i padri mentre sedevano al suo capezzale, il suo volto risplendette come il sole ed egli disse: “È venuto l’abate Antonio”. Poco dopo disse: “È venuto il coro dei Profeti”, e il suo viso divenne ancora più luminoso. Poi disse: “Vedo il coro degli apostoli”; la luce del suo volto raddoppiò… ed egli si mise a parlare con qualcuno. Allora i vecchi padri cominciarono a inter- rogarlo: “Padre, con chi parli?”. Egli rispose: “Sono venuti gli angeli a pren- dermi e io prego che mi lascino del tempo per far penitenza”. I vecchi padri gli dissero: “Tu padre, non hai bisogno di penitenza”. Egli rispose: “Sono persuaso di non avere nemmeno incominciato la penitenza”. E tutti sapevano che era perfetto. Improvvisamente il suo volto risplendette come sole. Tutti si spaventarono ed egli disse loro: “Ecco il Signore... mi dice: Portatemi il vaso eletto del deserto”, e subito rese lo spirito ed era luminoso come lampo. Tutta la stanza si riempì di profumo».

«Uno dei padri raccontava che un uomo incontrò l’abba Siluan e vedendo che risplendeva nel volto e nel corpo come un angelo, cadde bocconi. Ed egli diceva che anche altri padri spirituali avevano questo dono».

1 P.A. Florenskij, Il cuore Cherubico. Scritti Teologici e Mistici, a cura di N. Valentini e L. Žák, Piemme, Casale M. 1999, 237. La citazione di sant’Ignazio si trova alla Lettera ai fedeli di Magnesia, 7/1. La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano 159

«Un fratello venuto all’eremo nella cella dell’abba Arsenio guardò attraverso la porta e vide che il padre era come fosse tutto infuocato. Questo fratello fu degno di tale visione. Quando bussò alla porta, Arsenio uscí e vedendo il fratello spaventato gli domandò: “Hai bussato a lungo? Hai visto qualcosa?” Il fratello rispose: “No”. Dopo aver parlato con lui, il padre lo congedò»2.

Serafino di Sarov (1757-1833) è il santo più amato e venerato dai cristia- ni russi, il santo chiamato «somigliantissimo» al Cristo e si può considerare una specie di parallelo con san Francesco d’Assisi. Durante un colloquio con un suo figlio spirituale, il nobile Motovilov, il suo volto si trasfigura. Il suo interlocutore confessa:

«“Padre, dei lampi brillano nei tuoi occhi, il tuo volto è diventacminoso del sole”. Poi spiega: “Provate a immaginare un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno”. Poi il Padre domanda al suo figlio spirituale: − “Cosa provi ancora, amico di Dio?”. – “Un calore straor- dinario”. “E l’odore è lo stesso?”. – “Oh no! Niente può essere paragonabile a questo profumo”. Padre Serafino sorrise. − “Hai proprio ragione, disse, nessun profumo sulla terra è paragonabile a quello che stiamo respirando adesso: è il soave profumo dello Spirito Santo... Il calore non è nell’aria bensì in noi. È il calore che lo Spirito Santo ci fa chiedere nella preghiera: ‘Che il tuo Spirito Santo ci riscaldi!’. E continuando il santo dice: “Questo calore permetteva agli eremiti, uomini e donne, di non temere il freddo dell’in- verno, avvolti com’erano in un abito tessuto dallo Spirito Santo, simile ad un manto di pelliccia”»3.

Il grande scrittore greco Nikos Kasantzakis racconta che quando era giovane visitò il Monte Ahtos insieme a un altro scrittore greco, Anghelos Sikelianos. Li accompagnava un monaco malaticcio, dal volto scarno, dai grandi occhi, ma tutto il volto era illuminato.

«Sarà pazzo, ha detto il mio amico. Sarà santo, ho detto io. Non vedi il suo volto come splende? Come se cadesse sopra di lui un sole»4.

Si tratta di una trasfigurazione del corpo, partecipazione di quella luce che avvolse Cristo trasfigurato sul Monte Tabor. Perciò questa luce dai teologi esicasti fu chiamata «Luce taborica». La «luce del Tabor» è un tema

2 Cf. L. Mortari (edd.), Vita e detti dei Padri del deserto, vol. II, Città Nuova, Roma 1986, 165-166. 3 J. Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981, 177-178. 4 N. Kasantzakis, Αναφορά στον Γκρέκο, Εκδόσεις Ε. Καζαντζάκη, Atene 2007 (or. 1961), 201. 160 Yannis Spiteris molto familiare nel linguaggio della mistica orientale, specialmente di quella corrente chiamata esicasmo. La luce della trasfigurazione, apparsa sul volto di Mosè al Sinai, irradiata in tutto il suo splendore nella persona di Gesù sul Tabor, annuncia la parusia, la risurrezione, il mondo nuovo. Questa realtà deificante è già presente per il cristiano nella vita sacramentale e nell’espe- rienza spirituale. Il monaco esicasta, trasfigurato dalla «preghiera di Gesù», ha la sensazione, qualche volta anche fisica, di una luce (la «luce taborica») che lo avvolge. Questa luce è il segno visibile della divinizzazione dell’uomo attraverso Cristo.

1. La luce nella teologia palamita Colui che ha costruito un’intera teologia basata sulla luce, a carattere so- teriologico e cristologico, fu il teologo e mistico bizantino Gregorio Palamas (1296-1359). Egli nacque a Costantinopoli e dopo splendidi studi umanistici si fece monaco, prima nella sua città natale e poi sul Monte Athos dove ebbe come maestro, tra l’altro, il grande esicasta Gregorio Sinaita. Nel 1347 fu consacrato metropolita di Tessalonica. Morì il 14 novembre 1359. Fu cano- nizzato nel 1368 dal suo amico e ammiratore il Patriarca di Costantinopoli Filoteo Kokkinos5. Passò gran parte della sua vita a scrivere opere in difesa della spiritualità esicasta che in quel periodo sulla Santa Montagna si presentava con alcu- ne caratteristiche inconfondibili. Gli esicasti avevano come scopo ultimo di contemplare la «luce divina». Per arrivare a ciò l’esicasta, ritirato nel silenzio e nella penitenza, doveva ripetere la preghiera di Gesù («Signore Gesù, Fi- glio di Dio, abbi pietà di me»). Diceva la prima parte inspirando e la seconda espirando. S’insegnavano anche dei metodi di autoconcentrazione di tipo orientali, come quello di tenere fisso lo sguardo sull’ombelico. A poco a poco l’esicasta aveva la sensazione di una beatitudine e si sentiva circondato dai raggi di un’ineffabile luce divina, di quella stessa luce increata che aveva illuminato gli apostoli sul Monte Tabor. Questo modo di vivere e questo in- segnamento non era accettato da alcuni intellettuali bizantini. Uno di questi era Baarlam il Calabro (ca. 1290-1348), un monaco di origine calabrese, al quale più tardi si aggiunsero Gregorio Akindynos (ca. 1300-1348) e Nicefo-

5 Su Gregorio Palamas cf. Y. Spiteris, Palamas: La grazia e l’esperienza. Gregorio Pala- mas nella discussione teologica, ed. Lipa, Roma 1996. La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano 161 ro Gregoras (ca. 1295-ca. 1360). Questi accusarono gli esicasti d’essere mes- saliani6, poi la polemica si spostò sulla distinzione che facevano gli esicasti tra essenza di Dio incomunicabile ed energie divine increate comunicabili7.

2. La «visione» di Dio La tematica della visione di Dio costituisce in Palamas e nel palami- smo una delle costanti più peculiari. Per il nostro teologo la deificazione s’identifica, in un certo senso, con la visione di Dio, l’uomo può «vedere» Dio solo trasformandosi in lui. L’unione è «visione, sensazione, conoscenza,

6 Sul messalianismo cf. I. Hausherr, L’erreur fondamentale et la logique du Messiali- nisme, in «Orientalia Christiana Periodica» 1 (1935) 328-360. 7 Per quanto riguarda questa importante distinzione di Gregorio Palamas e di una gran parte della teologia ortodossa, è collegato al suo insegnamento da una parte dell’assoluto apofa- tismo nella teologia e dell’affermazione che l’uomo è veramente divinizzato. Per lui l’apofatismo possiede un aspetto negativo e uno positivo. Da una parte, sottolineava la trascendenza e l’in- comprensibilità di Dio che «nessun uomo ha mai visto, né può vedere», d’altra, proclamava la possibilità di un incontro faccia a faccia con questo Dio inconoscibile, di una unione diretta con l’Inaccessibile. Per esprimere questa duplice verità che Dio è contemporaneamente nascosto e rivelato, trascendente e immanente, la teologia ortodossa, a cominciare da Palamas, fa una distinzione tra l’essenza divina e le energie divine. L’essenza (ουσια) è Dio come egli è in se stesso, le energie (ενεργειαι) sono Dio in azione, Dio in quanto rivela se stesso. L’essenza resta per sempre al di là di ogni partecipazione e conoscenza in questo secolo come in quello futuro; essa non può essere compresa né dagli uomini, né dagli angeli, ma unicamente dalle stesse tre divine persone. Ma le energie divine che sono Dio stesso riempiono tutto l’universo e tutti possono parteciparvi per grazia. Così Dio, incomprensibile «essenzialmente», è rivelato «esi- stenzialmente», ovvero attraverso le sue «energie». Queste energie sono «Dio in noi». Quindi le energie non sono un’emanazione impersonale dell’essenza di Dio, esse sono una comunicazione personale della vita divina nel tempo. Oggi i teologi ortodossi definiscono così le energie divine eterne e increate: «Esse sono l’apparizione di Dio alle sue creature “nel tempo”». Palamas usa due immagini per spiegare la natura delle energie e il loro rapporto con l’essenza divina: quella del sole e dei raggi e quella appunto della vita diffusa agli altri. Le energie sono come i raggi del sole: questi sono distinti dal sole e tuttavia sono inseparabili dalla loro sorgente al punto di ren- derlo presente. La stessa cosa avviene con le energie divine increate. Esse sono l’azione di Dio che lo rendono presente e partecipabile, sono la parte accessibile dell’essere divino, l’aspetto di Dio rivolto verso le sue creature. Queste energie, tuttavia, sono eterne e increate come eterno e increato è Dio. Esse sono la vita di Dio in noi, sono lo zampillare della stessa vita divina comu- ne alle tre ipostasi. Questo sgorgare dell’energia è distinto dall’essenza e dalle ipostasi divine, benché sia assolutamente inseparabile da esse. In altri termini, esiste una continuità tra la vita di Dio in sé e la vita di Dio in noi, tuttavia esiste anche una distinzione tra Dio in sé e Dio in noi. Si tratta dell’economia della salvezza dove Dio diventa dono di vita vivificante per quelli che si lasciano trasformare dalla sua azione divinizzante. 162 Yannis Spiteris illuminazione»8. È evidente che quando in questo contesto si parla di «vi- sione», di «conoscenza» s’intende superare il semplice ambito intellettuali- stico e ci si riferisce a un modo di conoscere Dio totalmente differente dalla conoscenza comune, si tratta di una «conoscenza sopra-intellettuale», che trascende ogni conoscenza discorsiva. Infatti il cristiano, divenuto spiritua- le, ormai può vedere le cose di Dio «nello Spirito» o «nella luce di Dio». È proprio a questo punto che Palamas introduce la sua teoria della conoscenza delle cose divine attraverso lo Spirito. Si tratta di quell’«intelligenza spiri- tuale» che non si oppone al materiale, ma alla «carne» in quanto creazione decaduta. I santi sono coloro che, trasformati dalla potenza dello Spirito, ricevono una facoltà che prima non possedevano, essi diventano Spirito e vedono nello Spirito. Non si può vedere Dio se non in Dio, solo l’uomo deificato può «vederlo». Insomma questa visione è il sommo della grazia che l’uomo può ricevere da Dio:

«Infatti, senza la venuta della grazia divina, il nous9 che ha trovato la sensa- zione divina, non potrebbe vedere e mettersi in azione da se stesso, così come succede con l’occhio, il quale non potrebbe vedere senza la luce. Per quelli che hanno raggiunto l’eternità, cioè quelli che sono diventati come Dio, Dio stesso è la luce e niente possono vedere fuori di lui. Come la vista quan- do agisce diventa essa stessa luce ed è congenita con la luce e vede insieme alla luce..., esattamente nella stessa maniera succede per chi, sotto l’azione dell’energia divina, è trasformato in Dio, allora tutto il suo essere diventa come luce e insieme alla luce e attraverso la luce vede e conosce quelle cose che agli altri rimangono ignote senza la grazia assoluta di Dio»10.

Questa visione è concessa ai santi «grazie ad un’altra potenza che non è quella dei sensi»11 e che viene fruita attraverso una trasformazione della facoltà dei loro sensi, prodotta in essi dallo Spirito. Coloro che sono uniti a Dio, afferma Palamas, «vedono attraverso i loro sensi ciò che oltrepassa i sensi, e con la loro intelligenza ciò che oltrepassa l’intelligenza, poiché la potenza dello Spirito penetra le loro facoltà umane e permette loro di ve-

8 Cf. J. Meyendorff (ed.), Saint Grégoire Palamas. Triades pour la défense des saints hésychastes, voll. I-II, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain 19592, II, 3, 452. 9 Si tratta dell’organo spirituale, dove si concentra la «visione di Dio». 10 Omelia 53, 60, in P. Christou, Tutte le opere di Gregorio Palamas [in greco], vol. XI, Tessalonica 1981, 338-340. 11 Triadi, I, 3, 28, in Meyendorff (ed.), Saint Grégoire Palamas, p. 171 La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano 163 dere ciò che ci supera»12. Quindi, secondo il nostro teologo, anche nella visione di Dio il corpo, in questo caso i sensi, giocano un ruolo importante: lo Spirito agisce sui sensi corporali attraverso i sensi spirituali, cioè gli occhi dell’anima. Infatti, solo «la potenza dell’anima razionale... può ricevere la potenza dello Spirito»13. Tuttavia, ciò non minimizza la partecipazione del corpo alla visione della luce divina14 e ciò porta il nostro teologo a parlare della «luce increata» vista con gli occhi del corpo trasformati dallo Spirito.

3. La luce increata La teoria della luce increata è strettamente collegata con l’insegnamento palamita sulla deificazione reale dell’uomo, a cui prende parte anche il cor- po. Afferma il teologo greco G. Mantzaridis:

«La teoria della luce increata, costituisce il cuore dell’insegnamento palamita e fu al centro della disputa esicasta nel secolo XIV»15.

Infatti non c’è confessione di fede o sinodo di quell’epoca, opera pole- mica di Palamas o dei suoi sostenitori che non parli della «luce taborica», ossia di quella luce che avvolse il corpo di Cristo nell’episodio evangelico della trasfigurazione. Si può dire che intercorre una profonda analogia tra la disputa sulla natura umana e divina di Cristo e la loro mutua relazione al

12 Triadi, II, 3, 10, in ibid., p. 714. 13 Triadi, I, 3, 35, in ibid., p. 186. 14 Cf. J. Lison, L’Ésprit répandu, la pneumatologie de Grégoire Palamas, éditions du Cerf, Paris 1994, 242. Anche se gli occhi del corpo vedono questa luce, ciò succede solo «per poco tempo», ma attraverso i «sensi spirituali» quella luce può essere scorta quando lo Spirito lo concede: «Questa visione non è inferiore alla mente, ma è di molto superiore e più elevata, perché si verifica grazie allo Spirito divino. La luce della trasfigurazione del Signore, quindi, non comincia per poi svanire, né è circoscritta, né cade sotto i sensi, anche se è vista dagli occhi corporei, per poco tempo e sulla stretta sommità del monte. Ma “gli iniziati del Signore – com’è stato detto –, grazie al mutamento dei sensi che lo Spirito operò in loro, passarono allora dalla carne allo spirito” [Massimo, Ambigua, PG 91, 1125-1128] e videro così quella luce indicibile nella misura in cui fu accordato dalla potenza dello Spirito divino»: Omelia 34, in Christou, Tutte le opere, X, 364-366; tr. it., in Gregorio Palamas, Omelie sulla trasfigu- razione, introduzione, traduzione e note a cura di A. Rigo, Qiqajon, Magnano (BI) 1993, 19; per la traduzione italiana di queste omelie faremo uso di questa traduzione. 15 G.I. Mantzaridis, Palamika (Studi palamiti), Pournara, Tessalonica 1983, 234. Per l’esposizione della teoria palamita sulla luce increata teniamo presente specialmente l’esposi- zione di Mantzaridis nello studio sopraccitato. 164 Yannis Spiteris tempo dei grandi concili e la controversia sulla natura di questa luce nelle dispute palamite. La distinzione tra essenza ed energie derivò, in fondo, da quella polemica. Dall’accanimento con cui si affrontò questo problema – ognuno chiamava il suo avversario eretico ed ateo – si può avere un’idea della natura della teologia bizantina di quell’epoca. Un esegeta biblico di oggi, che leggesse le interpretazioni date da Palamas e dai suoi sostenitori alla descrizione evangelica della trasfigurazione e del significato teologico di questa luce, resterebbe sbalordito. Eppure la teologia bizantina del sec. XIV ruota attorno al significato di questa luce. Storicamente la contesa ebbe uno sfondo storico-ideologico ben indivi- duabile. I mistici orientali parlavano spesso della luce come di una specie di percezione di Dio.

«Essa è la realtà stessa dell’esperienza mistica, di cui san Simeone il Nuovo Teologo aveva parlato con tanta insistenza tre secoli prima: è la percezione della grazia con cui Dio si fa conoscere a quelli che entrano in unione con lui, trascendendo i limiti dell’essere creato»16.

Anche i monaci esicasti del Monte Athos, che praticavano la preghiera pura, sostenevano, come abbiamo già accennato, di vedere la luce increata di Dio. Barlaam contestò per l’uomo questa possibilità, che gli esicasti pre- tendevano per se stessi e per gli apostoli, i quali avrebbero visto sul Tabor la luce increata della divinità di Cristo che avvolgeva il suo corpo. Tutt’al più, affermava Barlaam, questa luce poteva essere un simbolo della sua divinità, non la divinità stessa17. Palamas distingue due specie di simboli: quello che è collegato con l’oggetto simboleggiato, come il calore o la luce in rapporto al fuoco, e quello che ha solo un rapporto soggettivo e convenzionale in

16 V. Lossky, La visione di Dio, in Id., La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, EDB, Bologna 1985, 392. 17 Il Tomos sinodale del luglio 1341 riporta un passo del contro i Messaliani di Barla- am che recita: «La luce della divinità che splendette sul Tabor non era inaccessibile né era veramente la luce della divinità, né era più sacra o divina degli angeli, ma era anzi inferiore al nostro stesso pensiero. Infatti tutti i pensieri e concetti sono più venerandi di questa luce che è visibile per mezzo dell’aria, che è compresa dai sensi, che mostra a quanti la vedono soltanto cose sensibili, essendo materiale e provvista di forma, apparendo in un luogo e in un tempo determinati, colorando l’aria, ora producendosi e apparendo, ora svanendo nel nulla, operando queste cose sull’immaginazione, essendo divisibile e limitata». Tomos Sinodale, 8, in A. Rigo (ed.), L’amore della quiete (I Padri esicasti). L’esicasmo bizantino tra il XIII e il XV secolo, Qiqajon, Magnano (BI) 1993, 159-160. La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano 165 rapporto alla cosa simboleggiata. La luce divina è collegata essenzialmente con la natura divina, è una reale irradiazione della sostanza di Dio. Egli di- fende la realtà dell’esperienza mistica dei monaci atoniti che, attraverso la purificazione dei sensi e la preghiera costante, arrivavano attraverso la grazia a vedere questa luce divina e partecipando così realmente alla comunione con la divinità. Questa luce increata non è altro che il dono divinizzante dello Spirito Santo18. Essa non è soltanto visibile, ma anche comunicabile all’uomo e attraverso di essa il fedele viene divinizzato19. Questa luce, intesa come gloria del Padre, come regno di Cristo o come energia della divina sostanza, è infinita e incontenibile.

«Il Signore disse: “Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo”, e ag- giunse: “Vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno”, chiamando “gloria del Padre” e “suo regno” la luce della propria trasfigurazione»20. «E che bisogno si avrebbe della potenza dello Spirito e, grazie ad essa, dell’ampliamento o della trasformazione della vista per vedere questa luce, se si trattava di una luce sensibile e creata? La gloria sensibile sarà forse gloria e regno del Padre e dello Spirito?»21.

Tuttavia come Dio infinito si è limitato prendendo in Cristo un corpo umano, così anche la luce infinita di Dio si è concretizzata nello stesso corpo umano di Gesù, pur mantenendo la sua divina infinità e il suo essere increato.

«Ma forse non ce lo ha indicato con chiarezza lo stesso Gesù, che ora si è divinamente trasfigurato sul Tabor? Egli ha il suo corpo come una lampada, e, al posto della luce, la gloria della divinità rivelata sul monte a quelli che erano saliti con lui»22.

18 Cf. Lettera ad Atanasio di Cyzico, P. Christou, Gregorioy tou Palama Sugrammata (= Sygrammata) (Scritti di Gregorio Palamas), vol. II, Tessalonica 1964, 421, 426, 434, 439. 19 Cf. Dialogo d’un ortodosso e di un barlaamita, in Christou, Sygrammata, II, 193. 20 Omelia 34, in Christou, Tutte le opere, X, 364; Il Synodikon dell’Ortodossia così in- neggia questa Luce: «A coloro che confessano che la luce che ha brillato indicibilmente sulla montagna della trasfigurazione del Signore è inaccessibile, luce infinita, effusione inconcepi- bile dello splendore divino, gloria ineffabile, gloria suprema della divinità, gloria primordiale e atemporale del Figlio, regno di Dio, bellezza vera e amabile della divina e beata natura, glo- ria naturale di Dio e della divinità del Padre e dello Spirito, risplendente nell’unico Figlio..., eterna la loro memoria»: Synodikon dell’Ortodossia, in Rigo, L’amore delle quiete, 173. 21 Omelia 34, in Christou, Tutte le opere, X, 374; tr. it. Palamas, Omelie sulla trasfigu- razione, 24 -25. 22 Ivi, p. 376; tr. it., ivi, 25. 166 Yannis Spiteris

Gli apostoli sul monte Tabor videro proprio questa luce divina increata, si trattava dello splendore naturale della divinità23. In sostanza si tratterebbe della divinità che addonda sull’umanità di Cristo:

«Poiché il Signore trasfigurato risplendette e mostrò la gloria, lo splendore e quella luce, e verrà di nuovo nelle sembianze viste dai discepoli sul monte, ac- quistò forse allora una nuova luce che da allora in poi conserva per l’eternità, ma che non possedeva in precedenza? Lungi da me questa bestemmia! Chi sostiene ciò crede, infatti, che Cristo abbia tre nature: la divinità, l’umanità e quella di questa luce. Cristo pertanto non ha manifestato un altro splendore, ma quello che deteneva invisibilmente: egli possedeva, nascosto nella carne, lo splendore della divinità. Quindi quella luce è la luce della divinità ed è una luce increata»24.

Il problema posto dagli avversari a Palamas verteva sulla possibilità per l’uomo di vedere con i propri occhi carnali questa luce increata. Non aveva forse ragione Barlaam quando affermava che questa luce era il semplice sim- bolo di una teofania? Il teologo Athonita rispondeva dicendo che gli occhi dell’uomo di per sé, in quanto naturali, sono incapaci di cogliere questa luce. È lo Spirito Santo che trasfigura gli occhi, come trasfigura tutto il corpo divi- nizzandolo in Cristo, e concede loro per grazia questa visione. Nell’Omelia XXXIV Sulla trasfigurazione il teologo esicasta cita prima un testo del Da- masceno e poi tira le sue conclusioni:

«Quando “Cristo si trasfigurò – secondo i teologi – non acquistò quello che non era, né si tramutò in quello che non era, ma si mostrò ai suoi discepoli quale era, aprendo loro gli occhi e facendo vedere ai ciechi”25. Vedi come gli occhi, che vedono in modo naturale, sono ciechi di fronte a questa luce? Questa luce allora non è sensibile e coloro che la vedono non la contemplano solo e soltanto con gli occhi sensibili, ma con gli occhi trasformati dalla po- tenza dello Spirito divino»26.

Si tratta, quindi, di un «avvenimento spirituale» vissuto nella potenza del- lo Spirito27. Quest’esperienza mistica viene percepita prima dalla mente, che

23 Cf. Tomo Aghioritico, PG 150, 433 AB. 24 Omelia 34, in Christou, Tutte le opere, X, 327; tr. it. Palamas, Omelie sulla trasfigu- razione, 23. 25 Giovanni Damasceno, Homelia in Transfigurazionem Domini 12, PG 96, 564 C. 26 Omelia 34, in Christou, Tutte le opere, X, 372-374; tr. it. Palamas, Omelie sulla trasfigurazione, 23-24. 27 «Ho parlato di occhi spirituali, perché in essi sopravviene la potenza dello Spirito che permette di vedere: tuttavia tutta questa santa visione della divinissima luce più che luminosa La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano 167 si eleva con la preghiera fino alla mente suprema, e poi dai sensi, che vengono «spiritualizzati» per grazia. Questa è la tematica costante nel pensiero palamita secondo la quale la grazia ha una dimensione storico-corporale collegata con la santificazione del corpo e la sua partecipazione al corpo di Cristo glorioso anticipazione di ciò che diverrà nella risurrezione. Ecco il testo di Palamas in cui si mette in evidenza la parte «corporale» dell’esperienza mistica:

«L’anima non è la sola a godere delle promesse future, anche il corpo compie unito ad essa la corsa evangelica verso quelle promesse. Colui che nega ciò nega anche la vita dei corpi nel secolo a venire. Se il corpo potrà partecipare ai beni segreti, significa che lo può fare sin d’ora, in conformità alla sua na- tura, quando Dio gli dona la sua grazia. Per questo motivo noi diciamo che le grazie ricevute vengono percepite dai sensi, ma aggiungiamo il termine “spirituali”, perché essi trascendono quelli naturali, dal momento che prima li riceve la nostra mente: essa si eleva, infatti, sino alla mente suprema in ma- niera più divina. Essa si trasforma e trasforma il corpo che le è unito per ren- derlo più divino, mostrando ed enunciando in questo modo l’assorbimento della carne per opera dello Spirito, come si verificherà nel secolo futuro. Non sono gli occhi del corpo, ma quelli dell’anima che ricevono la potenza dello Spirito, la quale permette loro di vedere simili cose. Questa potenza noi la chiamiamo “spirituale”, sebbene sia superiore allo spirito umano»28.

La teologia palamita della luce taborica s’identifica con la teologia della sostanza e delle energie, anzi essa non è altro che il modo «monastico» di esprimerla, cioè a partire dall’esperienza dei monaci atoniti. Quindi anche qui troviamo la distinzione tra essenza incomunicabile e luce increata comu- nicabile. La luce taborica, benché increata, non è l’essenza di Dio, perché, oltre che a Cristo, è donata ai santi secondo il loro grado di purificazione: «Questa luce divina è donata in modo proporzionale ed è ricevuta in misura maggiore o minore, a seconda della condizione di chi la riceve, dividendosi senza divisione. Eccone la dimostrazione: il volto del Signore brillò più del sole e le sue vesti divennero splendenti e bianche come la neve. Mosè ed Elia furono visti nella stessa gloria, ma nessuno di loro risplendette allora come il sole, e gli stessi discepoli videro quella luce, ma non poterono fissarla. In questo modo dunque questa luce è misurata; essa è divisa senza divisione, è ricevuta in misura maggiore o minore, ed è conosciuta in parte ora, in parte nel futuro... L’essenza è assolutamente indivisibile e incomprensibile, e nes- trascende gli stessi occhi spirituali»: Triadi, I,3, 34, in Meyendorff (ed.), Saint Grégoire Palamas, 184. 28 Triadi, I, 3, 33, in Meyendorff (ed.), Saint Grégoire Palamas, 183. 168 Yannis Spiteris

suna essenza è ricevuta in misura maggiore o minore. È proprio dei messa- liani sostenere che l’essenza di Dio è vista da quelli che ne sono degni. Noi, rigettando gli eretici passati e presenti, e credendo, come ci è stato insegnato, che i santi vedono e partecipano al regno, alla gloria, allo splendore, alla luce ineffabile e alla grazia divina (ma non all’essenza di Dio) camminiamo verso l’illuminazione della luce della grazia»29.

Il discorso sulla luce taborica con le sue varie distinzioni e specialmente sulla percezione «corporale» della luce divina trasfigurata e trasfigurante, collegata con l’idea della theôsis fisica del cristiano attraverso la «luce tabo- rica», induce ancora oggi alcuni studiosi cattolici a formulare delle accuse precise contro questa teologia palamita30. Sebbene si riconoscano in essa nei tratti positivi come l’unità e la continuità tra la natura di Dio e la storia della salvezza (Dio è luce, Cristo è luce, il cristiano diventa luce), il fatto di mettere in evidenza la dimensione escatologica, di sottolineare la profondità dell’esperienza mistica, di rivalutare l’unità inseparabile tra anima e corpo e la partecipazione di tutto l’uomo alla grazia redentrice e trasfigurante appor- tata da Cristo31, tuttavia riconoscono che questa dottrina tradisce l’influs- so messaliano dello Pseudo-Macario, secondo il quale la spiritualizzazione dell’uomo consiste nella trasformazione in una sostanza luminosa, sottile ma ancora materiale. Inoltre Palamas sarebbe influenzato dall’emanazionismo dello Pseudo-Dionigi. L’insistenza sull’«entitativo», che impregna tutto l’in- segnamento palamita sulla divinizzazione, sarebbe sospetto di una specie di fisicismo e di determinismo. A questa teoria sarebbe da preferire la tradizio- ne secondo la quale la grazia s’identifica con la carità presente nel redento come habitus, insegnamento convalidato, tra l’altro, da Massimo il Confes- sore, a cui tanto spesso fa riferimento Palamas. Questa sarebbe la tesi di J.- M. Garrigues32, il quale nei suoi studi, a cominciare dalla sua tesi di laurea33, ha sostenuto che Massimo non avrebbe mai insegnato la dottrina della divi-

29 Omelia 35, in Christou, Tutte le opere, X, 404; tr. it. Palamas, Omelie sulla trasfigu- razione, 41-42. 30 Cf. M.-J. Le Guillou, Lumière et charité dans la doctrine palamite de la divinisation, in «Istina» 19 (1974) 329-337; Id., Remarques sur la notion macarienne de «subtilité», in ibid., 339-341. 31 Cf. Le Guillou, Lumière et charité, 331-332. 32 Cf. J.-M. Garrigues, L’énergie divine et la grâce chez Maxime le Confesseur, in «Is- tina» 19 (1974) 272-296. 33 J.-M. Garrigues, Maxime le Confesseur. La charité, avenir divin de l’homme, Beau- chesne, Paris 1976. La categoria della luce nella teologia e nella spiritualità dell’Oriente cristiano 169 nizzazione nel suo significato entitativo, ma che si sarebbe riferito sempre a un concetto di divinizzazione intenzionale e morale, che ricorda la dottrina tomista della grazia come abito creato. Palamas, sempre secondo Garrigues, sebbene citi continuamente Massimo il Confessore, lo interpreterebbe male, influenzato dalle tesi neoplatoniche degli alessandrini, specialmente di Ciril- lo d’Alessandria. Di questo stesso parere è anche A. Riou34. Parlando della tesi di questi autori, P.F. Brune, scrive:

«Disgraziatamente tutti questi studi sono stati guidati dal medesimo desi- derio di ridare un po’ di credibilità alla teologia di san Tommaso d’Aquino apportando a lui il sostegno anticipato della teologia bizantina»35.

Sia in campo cattolico che ortodosso ci sono state forti reazioni a queste tesi che non possono essere provate scientificamente36. Ma la risposta più con- vincente è stata data da J.-C. Larchet in un recente e poderoso lavoro sulla di- vinizzazione dell’uomo secondo Massimo il Confessore37. In esso si può segui- re tutto lo sviluppo della divinizzazione come personalmente lo sviluppiamo in questo studio: il fondamento antropologico, cristologico, pneumatologico, ecclesiologico e ascetico mistico della divinizzazione. L’importanza di Palamas è di aver fatto la sintesi di questa grande tradizione patristica greca.

4. Conclusione Siamo del parere che, l’affrontare il problema del palamismo con cate- gorie intellettuali, dato che vedremo anche per la disputa sulla famosa di- stinzione palamita tra essenza ed energie divine, non costituisca la migliore ermeneutica. Palamas si è trovato nella necessità, e lo ha fatto in modo po-

34 Cf. A. Riou, Le Monde et l’église selon Maxime le Confesseur, Beauchesne, Paris 1973. 35 P.F. Brune, Pour que l’homme devienne Dieu, Dangles, Paris 1983, 409 (2a ed. Saint- Jean-de-Braye 1992, p. 419). 36 Cf., tra gli altri, A. de Halleux, Palamisme e Tradition, in «Irénikon» 48 (1975) 479- 493; G. Barrois, Palamism Revisited, in «St. Vladimir's Theological Quarterly» 19 (1975) 215-217; Ch. Yannaras, The distinction between essence and energie and its importance for theology, in «St. Vladimir's Theological Quarterly» 19 (1975) 232-245; F. Brune, La rédemp- tion chez saint Maxime le Confesseur, in «Contacts» 102 (1978) 141-171; M. Doucet, Vues récentes sur le «métamorphoses» de la pensée de saint Maxime le Confesseur, in «Science et Esprit» 31 (1979) 269-302. 37 J.-C. Larchet, La divinisation de l’homme selon saint Maxime le Confesseur, éditions du Cerf, Paris 1996. 170 Yannis Spiteris lemico, di difendere un fenomeno mistico tipico della tradizione orientale: quello della «fotofania», cioè della luce emanata da Cristo risorto, che coin- volge visibilmente il corpo redento del cristiano38. Si tratta di un fenomeno che, nel suo significato cristologico (come partecipazione carismatica ma reale al corpo di Cristo), corrisponde alla stimmatizzazione di certi mistici della tradizione occidentale. Questi fenomeni non sono puri simboli, ma indicano la nostra reale vita in Cristo, morto e risorto, riguardante la totalità dell’essere umano. A nostro parere lo sbaglio di Palamas e dei suoi avversari antichi e moderni è di aver voluto concettualizzare questi fenomeni, inseren- doli dentro categorie astratte di principi generalizzati sulla natura di Dio e della grazia. Si è voluto spiegare come e in che misura si partecipa al mistero ineffabile di Dio (grazia creata e increata). Il vero apofatismo, in questo caso, è quello biblico e, come fa Paolo, si costata l’ineffabile mistero di Dio che ci fa partecipi delle sue ricchezze divine e questa constatazione diventa ringra- ziamento, adorazione e benedizione (Rm 11,33-35; Ef 1,3-14).

Sintesi La teologia della luce ha un posto importante nella vita della Chiesa d’Oriente, nel- la teologia, nella liturgia, nella mistica, nella letteratura, nell’iconografia. Nella teologia la luce non solo rappresenta un simbolo della divinità, ma, in un certo senso la stessa divinità in quanto comunicata, sperimentata misticamente dalle anime purificate. La teologia della luce ha un posto speciale nella tradizione esicasta, massimo esponente della quale è Gregorio Palamas. Per lui e per gli esicasti la luce è il modo con cui Dio partecipa le sue «energie increate» alle anime purificate divinizzandole. Questa luce è «increata», cioè eterna come Dio, ma distinta dalla sua essenza che rimane impartecipabile. Si può dire quindi che la luce, per Palamas è Dio che esce da sé e si comunica alle sue creature, e queste, per grazia divina, hanno l’esperienza di questa divinizzazione, appunto sotto forma di luce. Questa realtà è stata sperimentata dagli apostoli nell’episodio evangelico della trasfigurazione sul Tabor ed è per questo che si chiama anche «luce taborica». Seb- bene da molti questa dottrina quasi fisica della grazia sotto forma di luce divina sia stata criticata, si riconoscono in essa dei tratti positivi come l’unità e la continuità tra la natura di Dio e la storia della salvezza (Dio è luce, Cristo è luce, il cristiano diventa luce), il fatto di mettere in evidenza la dimensione escatologica, di sottolineare la profondità dell’espe- rienza mistica, di rivalutare l’unità inseparabile tra anima e corpo e la partecipazione di tutto l’uomo alla grazia redentrice e trasfigurante apportata da Cristo.

38 Per tali fenomeni nella vita dei Padri del deserto vedi Mortari (edd.), Vita e detti dei Padri del deserto, II, 165-166. E più recentemente l’episodio riguardante Serafino di Sarov (1757-1833) in Gorainoff, Serafino di Sarov, 177-181. Lumen Christi il paradigma del cristiano nel mondo

Paul O’Callaghan

path 9 (2010) 171-183

1. Cristo come luce del mondo e la testimonianza umana Lumen gentium cum sit Christus! Sono le prime parole della costituzio- ne del Concilio Vaticano II sulla Chiesa1. Sulla Chiesa, e non su Cristo, o perlomeno non esplicitamente su Cristo. Ribadisce il Concilio che la «luce delle genti» è Cristo, non è la Chiesa. Peraltro, si tratta di un’affermazione biblica, profondamente giovannea. Secondo il Prologo del quarto Vangelo, lui, il Verbo, «era la vita» (Gv 1,4), quella vita che il Padre «ha in se stesso», e che «ha concesso anche al Figlio» (Gv 5,26). Cristo era la vita, e, aggiunge il testo, «la vita era la luce degli uomini». Questa «luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4s). Durante la festa luminosa dei Tabernacoli2 Gesù insiste sul punto quando insegna: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). In effetti, il Dio dell’Antico Testamento era il Dio della vita, pienamente vivo e fonte di ogni vita. E questo Dio che è la vita ci si rivela nel Verbo come luce, appunto, come «luce della vita»3. Commentando questo testo, H. Conzelmann dice che «la luce è Yahvé in azione»4. Possiamo dire

1 Concilio Vaticano II, Lumen gentium (LG), n. 1. 2 Cf. G.R. Beasley-Murray, John, T. Nelson, Nashville (TN) 19992, pp. 126-129. 3 Cf. L. Coenen - E. Beyreuther - H. Bietenhard - C. Brown (edd.), The New Inter- national Dictionary of New Testament Theology, vol. 1, Paternoster Press, Exeter 1978-1986, pp. 490-496. 4 H. Conzelmann, in Theological Dictionary of the New Testament, vol. 9, W.B. Eerd- mans, Grand Rapids (MI) 1984, p. 320. 172 Paul O’Callaghan che nel Verbo la vita divina si esprime come luce, in contrasto con la morte che si associa alle “tenebre”. E la vita vince la morte allo stesso modo che la luce supera le tenebre. E questa luce è Cristo. «La luce designa la natura di Gesù direttamente», dice lo stesso Conzelmann. «Non è lui come se fosse la luce, lui è “la luce”»5. Però questa luce che è Cristo è indirizzata a illuminare gli uomini, a portare la salvezza. In effetti, il Concilio, dice la stessa Lumen gentium, «adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Van- gelo a ogni creatura» (LG 1). Questa è la missione della Chiesa: trasmettere la luce di Cristo riflessa sul suo volto. Di nuovo, si tratta di un’affermazione profondamente giovannea. In effetti, il quarto Vangelo parla di Giovanni il Battista, mandato da Dio «come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui» (Gv 1,7). «Per mezzo di lui», cioè per mezzo di Giovanni6 si doveva credere al Verbo, il Verbo che «era presso Dio ed era Dio» (Gv 1,1). Ribadisce il Prologo che il Battista «non era… la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,8s). Il Verbo-Luce «era nel mondo» (anzi, «il mondo è stato fatto per mezzo di lui», Gv 1,3), però questa luce non riusciva a penetrare nel cuore degli uomini: «Il mondo non lo ha ricono- sciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,10s). Il Verbo divenne definitivamente visibile per l’uomo con l’incarnazione, quando il Verbo “fece la sua tenda” tra gli uomini: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Perciò gli uomini hanno potuto contemplare «la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Anche se «Dio nessuno lo ha mai visto» (cf. Es 34,18- 20), il Verbo, «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre», lui «lo ha rivelato» (Gv 1,18)7. Il quarto Vangelo spiega ulteriormente la dinamica della testimonianza luminosa svolta da Giovanni il Battista. Egli stesso si identifica semplice-

5 H. Conzelmann, An Outline of the Theology of the New Testament, SCM Press, Lon- don 1969, p. 351. 6 «“Per mezzo di Giovanni”, la fede viene soltanto risvegliata e sorretta, una fede che nel contesto è rivolta alla “luce”» R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni: testo greco e traduzione, vol. 1, Paideia, Brescia 1973, p. 318. 7 Il testo evoca la gloria di Dio secondo Es 33,7-11. Il termine «unigenito» (monogenēs) vuole dire originalmente «unico nella propria specie». Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo 173 mente come colui che «grida nel deserto: “Rendete diritta la via del Signo- re”» (Gv 1,23; cf. Is 40,3). E insiste parecchie volte sulla radicale subordi- nazione della sua missione rispetto a quella di Cristo, che è la vera Luce. «Non sono degno di slegare il laccio del sandalo… Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,27.30). Per questo ha voluto quanto prima mettere i “suoi” discepoli in contatto con Gesù, dicendo loro: «“Ecco l’agnello di Dio!” E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù» (Gv 1,36s), e si potrebbe aggiungere, “lascia- rono Giovanni”, definitivamente. Alla fine, il Battista può fornire la seguente densa sintesi della propria vita: «Ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). E più avanti esulta nel Signore: «Ora questa mia gioia è piena. Lui [il Cristo] deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,29s). Secondo J. Becker, quest’ultima frase va interpretata così: «Gesù, secondo il decreto divino, deve ascendere come una stella [fonte di luce]; Giovanni invece deve decrescere, o diminuire»8. In modo breve e pregnante Agostino descrive così il nobile comportamento di Giovanni nei confronti del Cristo: ministravit et abiit, «ha compiuto il suo servizio, e poi se n’è andato»9. Una bella spiegazione della stessa dinamica testimoniale s’incontra all’inizio della prima lettera di Giovanni, applicata a tutti i credenti cristiani.

«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che ab- biamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbia- mo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udi- to, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).

E il Santo Padre Benedetto XVI in un recente discorso parlò così della testimonianza cristiana:

«Conoscendo Cristo – questo è il punto essenziale – conosciamo il volto di Dio. Cristo è soprattutto la rivelazione di Dio. In tutti i tempi, gli uomini per-

8 J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, vol. 1, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 1979-1981, p. 155. 9 Cf. Agostino, Sermo 293,3, In Natali Joannis Baptistae (PL 38,1329). 174 Paul O’Callaghan

cepiscono l’esistenza di Dio, un Dio unico, ma che è lontano e non si mostra. In Cristo questo Dio si mostra, il Dio lontano diventa vicino»10.

E il Papa si chiede:

«Come possiamo noi essere testimoni di “tutto ciò”? Possiamo essere tes- timoni solo conoscendo Cristo e, conoscendo Cristo, anche conoscendo Dio. Ma conoscere Cristo implica certamente una dimensione intellettuale – imparare quanto conosciamo da Cristo – ma è sempre molto più che un processo intellettuale: è un processo esistenziale, è il processo dell’apertura del mio io, della mia trasformazione dalla presenza e dalla forza di Cristo, e così è anche un processo di apertura a tutti gli altri che devono essere corpo di Cristo. In questo modo, è evidente che conoscere Cristo, come processo intellettuale e soprattutto esistenziale, è un processo che ci fa testimoni. In altre parole, possiamo essere testimoni solo se Cristo lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro per- sonale con Cristo»11.

2. «Testimoni della luce» Che Cristo sia la luce del mondo, luce divina, luce della vita, è chiara- mente affermato dal Vangelo. Però la domanda su cui volevo soffermarmi in questa relazione è un’altra: perché questa luce ha bisogno di essere te- stimoniata, comunicata, mediata, trasmessa? Il testimone vi aggiunge qual- cosa? Come abbiamo appena visto, i Vangeli presentano il Battista come paradigma di questa testimonianza o trasmissione della luce che è Cristo. Giovanni afferma in modo categorico che lui «non era la luce». Però «dava testimonianza alla luce». Allora in che modo lui, e altri dopo di lui, apostoli, martiri, confessori e tutti i cristiani, diventano o possono diventare testimoni della luce? Dal punto di vista antropologico, come è costituito il testimone – come è strutturato l’uomo stesso – per poter comunicare la luce divina, senza essere la luce, cioè senza prendere il posto che occupa solo Cristo? Si tratta, come è ovvio, di un tema ampio, complesso. Perciò farò soltanto alcuni cenni sulla questione. Una premessa importante, di fondo. Il ruolo del testimone, del trasmet- titore della luce divina, non è, nel senso preciso della parola, indispensabi-

10 Benedetto XVI, Discorso in occasione della Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani, 20 gennaio 2010, § 5. 11 Ibid., § 6. Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo 175 le. Dio non ha bisogno in senso assoluto del mediatore che testimonia, che tramanda la luce al destinatario. Potrebbe comunicarsi a ogni anima, a ogni persona, senza mediazione alcuna. Anzi, stabilisce un rapporto immediato con l’uomo (quello della grazia e quello della visione) tramite la mediazio- ne umana. L’epistemologia classica, impostata a partire da Platone (e anche da Aristotele), si esprime sempre come illuminazione divina dell’uomo12. Il fatto è però che Dio non ha voluto comunicarsi direttamente agli uomini. Certo, non esiste nessun divario naturale, incancellabile, tra Dio e il mon- do creato, come pensavano i platonici, divario da colmare con un Logos o demiurgo, divino però subordinato e intermedio. La necessità relativa della mediazione bisogna collocarla solamente dalla parte della creatura, e non dalla parte di Dio. Rientra, per adoperare la terminologia classica, nell’ambi- to della potentia Dei ordinata: Dio vuole comunicare i suoi beni alle creature per mezzo di altre creature, e le crea, strutturandole in questa maniera. La rivelazione divina e l’opera della salvezza vanno comprese sempre in questo contesto13. Il punto di partenza, com’è già stato detto, è Cristo stesso: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Passiamo a considerare il tema della testimonianza, strettamente asso- ciato a livello antropologico nel quarto Vangelo a quello della luce. La dina- mica umana della testimonianza alla verità è un riflesso, riflesso povero però genuino, di quella che si verifica in Cristo stesso per mezzo dello Spirito Santo14. La dinamica testimoniale di chi è la luce vera, la luce della vita, si esprime in tre tappe: prima, il Cristo dà testimonianza al Padre dinnanzi agli uomini, con le sue parole e le sue opere, dimostrando nell’adempimento di questa missione una fedeltà che arriva all’estremo di accettare volontaria- mente la morte in croce (Gv 10,17); poi, nella persona di Cristo, la verità professata s’identifica appieno con il Testimone stesso, la missione con la persona, l’agire con l’essere; infine, il Padre attesta il suo Figlio rivelandolo tale agli uomini, specialmente risuscitandolo dai morti nella forza dello Spi- rito Santo.

12 Si veda P. O’Callaghan, El testimonio de Cristo y de los cristianos. Una reflexión sobre el método teológico, in «Scripta Theologica» 38 (2005) 501-568, specialmente pp. 506- 522. 13 Sulla questione, cf. P. O’Callaghan, Verbum Patris spirans Amorem. Sviluppi e que- stioni dell’incontro tra fede e ragione, in «Path» 7 (2008) 69-86. 14 Cf. O’Callaghan, El testimonio de Cristo, cit., pp. 530-543. 176 Paul O’Callaghan

Nella risurrezione di Gesù, in effetti, si dà un’espressione tangibile e de- finitiva, non estrinseca, alle parole già “pronunciate” dal Padre a seguito del battesimo di Gesù nel Giordano: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,16). Come ugualmente nella trasfigura- zione: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5). Oppure nell’annuncio di Gesù a Pietro riguardante la missione di questi: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,17). Si potrebbe dire che la risurrezione diventa una sorta di “ermeneutica di- vina” della croce e dell’intera vita di Gesù, una viva e tangibile conferma della veracità e autenticità del messaggio del suo Figlio da parte del Padre nello Spirito Santo. Come diceva Bultmann, incisivamente, «l’espressione “risurrezione dei morti” è una parafrasi della parola “Dio”»15. La gloria del Risorto comunica la verità del suo messaggio. Allo stesso modo, pur ana- logamente, si verificano queste tre tappe nella vita dei discepoli, inviati da Cristo stesso ad essere suoi «testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,7). – Primo, il cristiano è invitato a proclamare la verità del Vangelo, in parole e in opere, con fedeltà e completezza, fino al punto di essere disposto all’effusione del proprio sangue. La sua testimonianza è, o dovrebbe essere, appassionante, sincera, radicale, trascinante, coerente, in una parola, uma- namente convincente.

– In secondo luogo, c’è, o ci deve essere, una stretta corrispondenza tra la persona del testimone e la testimonianza che dà. Gesù insisteva coi disce- poli sulla necessità di voler evitare completamente ogni ipocrisia. Si trattava in fin dei conti di un riflesso del suo proprio modo di agire. In effetti, la testimonianza del credente cristiano è, o deve essere, esemplare. Le virtù dei credenti illuminano, o devono illuminare, devono indurre a una vita virtuo- sa. Tertulliano, parlando dei cristiani, diceva ai pagani: «Guardate come si amano»16.

– Terzo, Dio in qualche modo attesta i suoi figli (“figli nel Figlio”, si intende), gli dà testimonianza, facendo presente in loro la sua potenza, la

15 R. Bultmann, Glaube und Verstehen, vol. 1, J.C.B. Mohr, Tübingen 1961, p. 40. 16 Tertulliano, Apologeticum. 39,9. Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo 177 sua luce, la sua gloria. Vediamo questo ultimo aspetto più da vicino. Si tratta della tesi centrale di questa relazione. In effetti, non bastano la “convinzione”, le “virtù” e la coerenza di vita dei cristiani per la validità e l’efficacia della loro testimonianza, perché essi siano “testimoni del Testimone”, perché diano «testimonianza alla luce» (Gv 1,7). Bisogna cercare la sorgente ultima di questa convinzione e di que- ste virtù, perché siano cristiane nel senso forte della parola, cioè capaci di diventare “portatori dello Spirito”. Prima da procedere, si possono fare due osservazioni. – Primo, la “debolezza” della testimonianza umana, a tutti palese, la debolezza della “luce divina” che per così dire “emana” dal credente verso l’altro, non è dovuta solo alla peccaminosità dell’uno e dell’altro, ai loro li- miti, ma ancor più al fatto che Dio ha voluto costituire le mediazioni create (anche quella fondante di Cristo) in modo tale da non imporsi violentemente, appunto perché Dio cerca una risposta generosa a libera da parte di ogni uomo17. Dio è Amore, crea l’uomo per amore, e da lui cerca soltanto l’amo- re. Dio agisce nei confronti degli uomini suaviter et fortiter, «soavemente e con fortezza», dice il libro della Sapienza (Sap 8,1). Nelle parole di Sequeri: «La testimonianza è la mediazione storica adeguata della rivelazione di un incondizionato della giustizia che vuole essere apprezzato, non subito»18. La rivelazione luminosa di Cristo si impone con una soave violenza19. Ecco la prima osservazione.

– La seconda è questa. L’agire convincente e virtuoso dell’uomo, del credente cristiano, non basta da sé per trasmettere la luce di Dio agli uomini, per «dare testimonianza alla luce». Anzi, l’agire proprio dell’uomo potrebbe attirare l’attenzione degli altri verso di sé, e non verso l’Autore della luce. «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Caso

17 Cf. O’Callaghan, El testimonio de Cristo, cit., pp. 520ss. 18 P.A. Sequeri, Coscienza credente e mediazione della testimonianza, Saggio introdutti- vo, in M. Neri, La testimonianza in H.U. von Balthasar. Evento originario di Dio e mediazione storica della fede, EDB, Bologna 2001, p. 7. 19 Sul tema cf. P. O’Callaghan, Il cristianesimo e la dimensione antropologica della religione: violenza, mito, testimonianza, in G. Tanzella-Nitti - G. Maspero (edd.), La verità della religione. La specificità cristiana in contesto, Cantagalli, Siena 2007, pp. 203-234. 178 Paul O’Callaghan mai, l’altro rimarrebbe folgorato da una luce umana, e non dalla quella divi- na. È certo che Dio vuole contare sull’agire impegnato e virtuoso dell’uomo per comunicarsi all’umanità, anche se non ne ha bisogno. Però se è così, come possiamo comprendere correttamente il ruolo mediatore dell’uomo nella trasmissione della luce divina? Non sarebbe più semplice dire che l’uo- mo sia passivo nella sua ricezione, affermando in questo modo l’unicità di Gesù nella sua mediazione, senza soffermarsi sulle mediazioni secondarie, derivate?

3. Cristo illumina il mondo in e per mezzo dei credenti Bisogna tener conto del fatto che, secondo san Paolo, i cristiani portano in sé stessi la medesima vita del Signore risorto, oppure, come dice Giovan- ni, la «vita eterna». La vita dei credenti rende trasparente quindi non solo la loro personalità, le loro convinzioni e virtù, la loro vita etica, ma più ancora, la personalità, lo stile, la vita di Gesù Cristo. Il Padre “rivendica” il Figlio anche nel cristiano, «morto e risorto» con Cristo (cf. Col 1,12; Rm 6,3-5). Per mezzo della rigenerazione battesimale, in effetti, il cristiano può dire con Paolo che «sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Mihi vivere Christus est, si legge sopra l’altare della Cappella Paolina: «Per me infatti il vivere è Cristo» (Fil 1,21). Interessante il commento di san Cipriano quando parlava dei martiri cristiani: «Chi lotta in noi è Cristo, chi combatte insieme a noi è il Signore»20, e di Eusebio di Cesarea che descriveva la vita di un martire in cui Cristo “soffriva”21. In altre parole, la forza della luce divina che emana dalla vita del cristiano non si basa soltanto su una convinzione disposta ad andare fino all’ultimo sacrifi- cio, se necessario, né soltanto sulle virtù consolidate nell’impegno di seguire il Maestro; questa convinzione e queste virtù sono “attraversate” in qualche modo, sono impregnate dalla gloria della risurrezione, perché, come dice Paolo, «con… [Cristo] siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (Col 1,12). Per questo, portiamo «sem-

20 Cipriano, Epist. 10,4. 21 «Sanctus era bagnato e fortificato dalla sorgente celeste d’acqua viva che zampilla dal seno di Gesù. [...] Cristo soffriva in lui» Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, IV, 1 (PG 20,417). Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo 179 pre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,10). In effetti i cristiani, divinizzati dalla grazia, sono, e devono essere, non solo alter Christus, ma anche ipse Christus, lo stesso Cristo22. La vita di Cristo si proietta misticamente per mezzo loro verso l’umanità inte- ra23. Si tratta di una dottrina assai conosciuta fra gli autori spirituali24. Tra di loro, Leone Magno25, Agostino26, Bernardo27, Francesco d’Assi- si28, Tommaso d’Aquino29, Giovanni Eudes30, Antonio Rosmini31, Co-

22 Cf. P. O’Callaghan, The Inseparability of Holiness and Apostolate. The Christian «alter Christus, ipse Christus» in the Writings of Blessed Josemaría Escrivá, in «Annales Theo- logici» 16 (2002) 135-164; J. López Díaz, La identificación con Cristo según Santo Tomás, in Excerpta e dissertationibus in sacra theologia, 44, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 2003, pp. 75-149. 23 Cf. R. Latourelle, La sainteté, signe de la révélation, in «Gregorianum» 46 (1965) 36-65. 24 Ringrazio il prof. L. Touze per molti di questi riferimenti. 25 «Non est dubium, dilectissimi, naturam humanam in tantam conexionem a Fílio Dei esse susceptam, ut non solum in illo homine, qui est primogenitus totius creaturæ, sed etiam in omnibus sanctis suis unus idemque sit Christus; et sicut a membris caput, ita a capite membra dividi non possint»: Leone Magno, Sermo 12, De Passione, 3. 6-7 (PL 54, 355-357). 26 «Rallegriamoci e ringraziamo: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo [...]. Stu- pite e gioite: Cristo siamo diventati!» Sant’Agostino, In Joh. 21, 8 (CCL 36,216). 27 «Christum cuius membra estis semper in vobis honorificabo»: Bernardo, Epistula 382, n. 1. 28 «Christus vivebat in eo», diceva il Celano di san Francesco: Tommaso di Celano, Legenda secunda, n. 211 (Analecta Franciscana, vol. 10, Quaracchi 1926-1941), p. 252; «Vide- batur [quod] Christi et beati Francisci una persona foret» ibid., n. 219, cit., p. 257. 29 «Sic ergo Christus est vita nostra, quoniam totum principium vitae nostrae et opera- tionis est Christus. Et ideo dicit apostolus mihi enim vivere, etc., quia solus Christus movebat eum» Tommaso d’Aquino, Ad Phil., cap. 1, lect. 3, su Fil 1,21. 30 «Unis avec lui [Jésus] spirituellement par la foi et par la grâce qu’il nous a données au saint Baptême ; unis avec lui corporellement par l’union de son très saint corps avec le nôtre en la sainte Eucharistie; il suit de là nécessairement que, comme les membres sont animés de l’esprit de leur chef et vivant de sa vie, nous devons être animés de l’esprit de Jésus, vivre de sa vie, marcher dans ses voies, être revêtus de ses sentiments et inclinations, faire toutes nos actions dans les dispositions et intentions dans lesquelles il faisait les siennes, en un mot continuer et accomplir la vie, la religion et la dévotion qu’il a exercée sur la terre» Giovanni Eudes, La vie et le royaume de Jésus, II, 2 (Opera omnia, vol. 1, pp. 161-166). Cf. anche Id., De admirabile corde Iesu I, 5 (Opera omnia, vol. 6, 107-115). “vv” 31 «Per la partecipazione adunque della vita umana-divina di Cristo noi ci trasformiamo nella stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo, diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo la forza di quella parola imagine […], ponendosi l’imagine per la stessa cosa incipiente, siccome in quel luogo: Umbra enim habens 180 Paul O’Callaghan lumba Marmion32, Josemaría Escrivá. San Josemaría insegnò che Cristo è, nel senso forte della parola, «vivo nei cristiani»33. I cristiani quando sono fedeli alla nuova vita che il Battesimo fa nascere in loro, anche se non ne sono del tutto consapevoli (anzi, talvolta sono convinti della pro- pria indegnità), sono e vivono come il sale della terra, come la luce del mondo (Mt 5,13), come «il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono» (2Cor 2,15). L’apostolato cristiano diventa, in Cristo, una sorta di compelle intrare, «costringili a entrare» (Lc 14,23). Così descrive san Josemaría la dinamica di questa sorprendente espres- sione di san Luca:

«Non è una sorta di spinta materiale, ma piuttosto l’abbondanza di luce, di dottrina, lo stimolo spirituale della vostra preghiera e del vostro lavoro, testimonianza diretta della dottrina; l’accumulazione di sacrifici, che sapete offrire; il sorriso che vi viene alla bocca perché siete figli di Dio: filiazione che vi riempie di una serena felicità, anche se non mancano le contrarietà, che gli altri vedono e invidiano. A tutto ciò si aggiunge la vostra disinvoltura e simpatia umana, e abbiamo il contenuto del “compelle intrare”»34.

lex futurorum bonorum non ipsam imaginem rerum (cf. Eb 10,11), cioè non ipsa bona quasi in embrione, sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a Cristo, di- spiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi» A. Rosmini, Introduzione al Vangelo secondo Giovanni, ed. S.F. Tadini, Città Nuova, Roma 2009, pp. 314-316. 32 «Christianus, alter Christus: “le chrétien est un autre Christ”. C’est bien la définition du chrétien qu’a donnée, sinon en propres termes, du moins en expression équivalente, toute la tradition. “Autre Christ” parce que le chrétien est d’abord, par la grâce, enfant du Père céleste et frère du Christ ici-bas, pour être son cohéritier là-haut; “autre Christ”, parce que toute son activité – pensées, désirs, actions – plonge sa racine dans cette grâce, pour s’exercer suivant les pensées, les désirs, les sentiments de Jésus, et en conformité avec les actions de Jésus: Hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu (Phil 2,5)» B. Columba Marmion, Le Christ, vie de l’âme. Conférences spirituelles, Desclée, Paris 19202, p. 66. 33 Cf. San Josemaría, Om., Cristo presente nei cristiani, in Id., È Gesù che passa, Ares, Milano 1974, nn. 102-116. 34 «No es como un empujón material, sino la abundancia de luz, de doctrina; el estímulo espiritual de vuestro oración y de vuestro trabajo, que es testimonio auténtico de la doctrina; el cúmulo de sacrificios, que sabéis ofrecer; la sonrisa, que os viene a la boca, porque sois hijos de Dios: filiación que os llena de una serena felicidad – aunque en vuestra vida, a veces, no faltan contradicciones –, que los demás ven y envidian. Añadid, a todo esto, vuestro garbo y vuestra simpatía humana, y tendremos el contenido del “compelle intrare”» San Josemaría, Lettera, 24.10.1942, n. 9, cit. in O’Callaghan, The Inseparability of Holiness, cit., p. 163. Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo 181

San Josemaría fa notare due aspetti interessanti di questa dinamica. In primo luogo, spiega che neppure i difetti dei cristiani costituiscono un ostacolo definitivo affinché si comunichi attraverso loro la luce di Cristo. In un’omelia intitolata Gesù presente nei cristiani, egli dice:

«Il potere di Dio si manifesta nella nostra debolezza, e ci spinge a lottare, a combattere contro i nostri difetti, pur sapendo che non otterremo mai del tutto la vittoria durante la vita terrena… In questo modo, malgrado le nostre miserie, anzi, attraverso le nostre miserie, attraverso la nostra vita di uomini fatti di carne e di terra, Cristo si manifesta: nel nostro sforzo di essere mi- gliori, di realizzare un amore che aspira a essere puro, di dominare l’egoismo, di donarci pienamente agli altri, facendo della nostra esistenza un costante servizio»35.

Altrove disse:

«Le nostre parole e le nostre azioni – perfino le nostre miserie – emaneranno il bonus odor Christi (2Cor 2,15), il profumo di Cristo, che gli altri inevitabil- mente percepiranno: “Ecco un cristiano”!»36.

In secondo luogo, la consapevolezza di dover trasmettere la luce di Cristo agli uomini lo portò alla convinzione personale di non voler essere minima- mente ostacolo alla luce divina per gli altri. Il lemma convinto della sua vita era: «A me spetta nascondermi e scomparire, perché solo Gesù risplenda»37. Era lo stesso atteggiamento risoluto di Giovanni il Battista:

«Ho sentito nella mia anima – scrive san Josemaría – da quando mi sono deciso ad ascoltare la voce di Dio – a presagire l’amore di Gesù –, un grande desiderio di nascondermi e scomparire; di vivere quel illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3,30): conviene che cresca la gloria del Signore e che io passi inosservato»38.

35 San Josemaría, Cristo presente nei cristiani, cit., n. 114. Corsiva aggiunta. 36 San Josemaría, Amici di Dio, Ares, Milano 1978, n. 271. 37 Così nella traduzione di A. Vázquez de Prada, Il fondatore dell’Opus Dei: vita de Josemaría Escrivá, vol. 3: I cammini divini della terra, Leonardo International, Milano 20042, p. 702. 38 San Josemaría, Lettera 29.12.1947/14.2.1966, n. 19, cit. da A. Vázquez de Prada, Il fondatore dell’Opus Dei: vita de Josemaría Escrivá, vol. 1, cit, 1999, p. 331. 182 Paul O’Callaghan

Sempre si sforzava di comunicare l’amore di Dio agli altri nel modo più umano e naturale possibile, con la luce chiara e serena, ma non abbagliante e ostentata, della vita ordinaria, del lavoro quotidiano.

4. L’amore, radice, madre e forma di tutte le virtù Abbiamo detto che la luce che il cristiano comunica da Cristo agli uo- mini, che è in realtà luce di Cristo, non deve attirare l’attenzione verso il credente stesso, verso le sue convinzioni e le sue virtù, ma piuttosto verso Cristo, e in lui verso il Padre, perché Dio sia glorificato in tutto39. Però in quale modo si possono vivere le virtù, tutte le virtù, perché esse “ricordi- no” Cristo, rimandino tramite lui al Padre nello Spirito Santo, diano tutta la gloria a Dio? Si tratta di una questione impegnativa, già impostata nella teologia morale40, che trova la soluzione di fondo nell’assioma tommasiano della carità considerata come radice, madre e forma di tutte le virtù41. Nella sua enciclica Deus Caritas est, Benedetto XVI spiega così il ruolo dell’amore di Dio nel cristiano per la comunicazione del Vangelo:

«Nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro attraverso uomini nei quali egli traspare; attra- verso la sua Parola, nei sacramenti, specialmente nell’Eucaristia. Nella litur- gia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l’amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano… L’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare»42.

39 Cf. Gv 11,4; Rm 1,5; 15,7; 1Cor 10,31; 2Cor 4,15; 8,19; Fil 1,11; Ef 1,12. 40 Cf. il progetto di teologia morale portato avanti da E. Colom - A. Rodríguez-Luño ed altri: Scelti in Cristo per essere santi, Edusc, Roma 2003ss; L. Melina - J.J. Pérez-Soba - J. Noriega Bastos, Camminare nella luce dell’amore: i fondamenti della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2008. 41 Sulla carità come radice della vita cristiana, cf. S.Th. I-II, q. 62, a. 4c; q. 65, a. 5 ad 2; q. 71, a. 4c; q. 84, a. 1 ad 1; S.Th. II-II, q. 23, a. 8 ad 2; q. 139, a. 2 ad 2; come sua «madre»: S.Th. I-II, q. 62, a. 4c; S.Th. II-II, q. 23, a. 8 ad 3; q. 186, a. 7 ad 1; e come «forma»: S.Th. I-II, q. 62, a. 4c; S.Th. II-II, q. 4, a. 3c; e specialmente q. 23, a. 8. 42 Benedetto XVI, Enc. Deus Caritas est (2005), nn. 17, 31. Lumen Christi. Il paradigma del cristiano nel mondo 183

5. Riflessione conclusiva Il tema su cui ho voluto riflettere in questa relazione è potenzialmente molto vasto. Non ho presentato la posizione di molti autori a causa dell’am- piezza e della complessità del loro pensiero. Il tema riguarda questioni centrali della rivelazione cristiana come sono la salvezza e la sua mediazione, la missione apostolica della Chiesa, la strut- turazione della vita morale e spirituale del cristiano, questioni articolate che coinvolgono appieno l’antropologia teologica e la teologia della creazione. E abbiamo visto che le categorie bibliche di luce e testimonianza servo- no per strutturare questa dinamica dell’amore di Dio che giunge agli uomini. Si tratta solo di un primo passo per comprendere sempre meglio la via lucis Ecclesiae.

Sintesi La prima parte della relazione spiega in che senso Cristo è da considerarsi luce per l’umanità. Poi si considera che Giovanni il Battista, e con lui tutti i cristiani, comu- nicano in qualche modo questa Luce agli uomini, tramite la testimonianza della loro vita e parola. La testimonianza fondamentale di Cristo e quella derivata dei cristiani si articola in tre momenti: si testimonia la verità fino alla possibilità del martirio; la verità testimoniata e la persona che testimonia si fondano; Dio attesta la testimonianza fatta mediante la risurrezione. Seguendo gli insegnamenti dei santi, in particolare di san Josemaría Escrivá, quest’ultimo aspetto si esprime nel fatto che Cristo vive, agisce e parla in e per mezzo del credente.

In via Lucis La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli

Piero Coda

path 9 (2010) 185-197

Il titolo che mi è stato proposto è bello, evoca la bellezza e provoca all’incontro con essa: in via Lucis. «La luce – scrive Pavel Florenskij nella Lettera quarta, La Luce della verità, del suo capolavoro, La colonna e il fon- damento della verità – è bella in sé (…) e di sé rende bello il visibile tutto»1. Né vi è metafora – nel senso di san Tommaso nella quaestio 1 della Ia pars della Summa Theologiae: «Utrum Sacra Scriptura debeat ubi metaphoris»2 – più adatta di quella della Luce per tentare d’esprimere l’impulso irrefrena- bile e gioioso all’annuncio e alla testimonianza di Gesù, che nella forza dello Spirito sospinge la Chiesa lungo il cammino verso l’unità dei popoli in Dio. Non a caso è in questi termini che è formulato l’incipit della Costituzio- ne Lumen gentium, de Ecclesia, del Concilio Ecumenico Vaticano II:

«Lumen gentium cum sit Christus, haec Sacrosancta Synodus, in Spiritu Sancto congregata, omnes homines claritate Eius, super faciem Ecclesiae resplendente, illuminare vehementer exoptat, omni creaturae Evangelium annuntiando (cf. Mc 16,15). Cum autem Ecclesia sit in Christo veluti sacra- mentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis...» (n.1).

1 P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974, 139. 2 Potremmo dire che la luce è metafora quand’è intenzionata dall’intelligentia fidei, sim- bolo quando lo è dall’experientia fidei. 186 Piero Coda

In questo denso testo, il Lumen Christi è colto nel suo risplendere in Ecclesia per le genti, in quanto essa è in «Christo veluti sacramentum (...) in- timae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis». È qui che pulsa il cuore del Concilio Vaticano II. In continuità con questa prospettiva, mi hanno molto colpito le parole sofferte e insieme serene scritte da papa Benedetto XVI nella Lettera indi- rizzata ai vescovi della Chiesa cattolica il 10 marzo 2009: «Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cf. Gv 13,1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. (...) Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la co- mune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore». In sintonia col percorso del Forum, ho scelto un registro più simbolico che concettuale, quasi in analogia con quella figura musicale che si definisce “improvviso”. Vorrei cioè proporre una semplice traccia di meditatio men- tis et cordis seguendo il filo d’oro della via Lucis di e in Cristo quale chiave di lettura del cammino della Chiesa verso il cuore vivo delle culture, delle tradizioni religiose, della società secolarizzata con cui l’esperienza cristiana si trova oggi gomito a gomito. Mi è parso infatti, meditando questo tema, di sollevare il coperchio di un vaso prezioso da cui si effonde un profumo di cielo. Di questa intuizione offro qualche suggestione soltanto, rinviando ad altra occasione la declinazione delle concrete prospettive ecclesiologiche, pastorali e culturali che se ne possono con pertinenza evincere3.

3 Del resto, qualcosa di ciò ho cercato di sviluppare ne P. Coda, Il Logos e il nulla. Tri- nità religioni mistica, Città Nuova, Roma 20042, e nella sintesi che di esso ho proposto in Id., Cristo e il futuro delle religioni, Eupress, Lugano 2004. In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli 187

1. Il simbolo della luce tra universalità umana e singolarità cristologica San Bonaventura da Bagnoregio nelle Collationes in Hexaemeron, sive Illuminationes Ecclesiae, commenta i primi versetti del Genesi: «Fiat lux, et lux fuit. Vidit Deus lucem, quod esset bona, et divisit lucem a tenebris» – con queste parole:

«In quantum haec lux est causa essendi, est lux magna; in quantum est ratio intelligendi, est lux clara; in quantum est ordo vivendi, est lux bona»4.

La luce: simbolo, in uno, dell’essere nella sua radice, del conoscere il vero, del bene vivere. E, come tale, simbolo universale presso tutti i popoli e tutte le esperienze e tradizioni religiose e di pensiero5. La luce in primis rimanda infatti al Sole, che «de te, Altissimo, porta significatione» – come canta san Francesco d’Assisi:

«Laudato sie, mi Signore, cun tutte le tue creature, spezialmente messer lo frate Sole, lo quale è iorno, e allumini noi per lui. Ed ello è bello e radiante cun grande splendore: de te, Altissimo, porta significazione»6.

Simbolo universale, la luce: si pensi anche solo a Plotino o al Buddha, l’illuminato – mistici, sì, anche se di una Luce che non fa vedere e non è vista. La luce è invece simbolo scelto da Gesù per dire il mistero e la missione di sé, Luce che si offre e che fa vedere: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,13). Che cosa vi è allora di universale, e che cosa di singolarmente cristo- logico nel simbolo della luce? Come la singolarità di Cristo luce irradia e ricapitola la pluralità aurorale del simbolo della luce offerto dal cammino dei popoli e delle culture verso la pienezza della luce che in lui risplende? Più che rispondere in astratto, o a priori, seguo il filo d’oro della rivelazione per trarne orientamento e stimolo per il nostro cammino di oggi: dalla Genesi all’Apocalisse.

4 Bonaventura da Bagnoregio, In Hexaem, V, 1; Obras de San Buenaventura, ed. bilingue, III, La Editorial Católica, Madrid 1972, 256-257. 5 Cf. J. Ries - C.M. Ternes (edd.), Simbolismo ed esperienza della luce nelle grandi re- ligioni, Jaca Book, Milano 1997; R.J. Zwi Werblowsky, Light and Darkness, in M. Eliade (ed.), The Encyclopedia of Religion, vol. 8, Macmillan Publishing Co., New York 1987, 547- 550. 6 Francesco d’Assisi, Il cantico delle creature, in Fonte Francescane, EMP, Padova 19904, 178. 188 Piero Coda

La tradizione cristiana, non senza alimentarsi al pensiero dei Greci, so- prattutto alla tradizione platonica, percorre in verità molteplici sentieri nel seguire la scia tracciata dalla rivelazione, dove il simbolo della luce attraversa da cima a fondo il racconto della storia di Dio con e tra gli uomini, intrec- ciando universalità dell’humanum e singolarità cristologica. Due i sentieri più frequentati. Quello cristologico, in Occidente: il Ver- bo, il Figlio, il Cristo che è Luce; e quello pneumatologico, in Oriente: lo Spirito Santo, il Paraclito, la dóxa / claritas del Padre e del Figlio, che è Luce irradiante che ci riveste di Luce. Senza che l’uno, a ben vedere, già in se stesso, si possa dare senza l’altro. In Occidente, basti pensare ad Agostino, quando ad esempio nel libro VII delle Confessioni racconta il suo «cum primum te cognovi»:

«Et inde7 admonitus redire ad memet ipsum intravi in intima mea duce te et potui, quoniam factus es adiutor meus. Intravi et vidi qualicumque oculo ani- mae meae supra eundem oculum animae meae, supra mentem meam lucem inconmutabilem, non hanc vulgarem et conspicuam omni carni nec quasi ex eodem genere, grandior erat, tamquam si ista multo multoque clarius clare- sceret totumque occuparet magnitudine»8.

In Oriente, ecco come Simeone il Nuovo Teologo descrive il suo incon- tro con Cristo nella luce dello Spirito Santo:

«Un giorno, io ero in cammino e correvo alla sorgente, quando di nuovo tu stesso, che un tempo mi avevi tirato su dal fango, mi sei venuto incontro sulla strada. Allora, per la prima volta, tu hai abbagliato i miei deboli sguardi con lo splendore immacolato del tuo volto (…). Dopo esserti fatto vedere di nuo- vo in questo modo, per molte volte, ed esserti molte volte di nuovo nascosto (…) ma io vedevo gli sprazzi di luce e lo splendore del tuo volto (…). Così ti

7 Si tratta della lettura dei libri dei neoplatonici. 8 Agostino, Confessiones, VII, 10,16. Offro una mia traduzione dal testo latino dell’edizione di M. Skutella riveduto da M. Pellegrino, Città Nuova, Roma 20007, 198: «Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nel mio intimo sotto la tua guida, poiché tu diventasti il mio soccorritore. Entrai e vidi, qualunque fosse l’occhio della mia ani- ma, sopra quel medesimo occhio, sopra la mia mente, una luce immutabile, non questa luce comune e visibile a ogni carne, né del medesimo genere (in quanto) era più grande, come se codesta (luce visibile) molto e molto più chiaramente clarificasse e occupasse l’universo con la (sua) grandezza. Non così era quella, ma qualcosa d’altro, molto altro da tutte queste luci». Cf. P. Coda, Sul luogo della Trinità: rileggendo il «De Trinitate» di Agostino, Città Nuova, Roma 2008. In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli 189

sei fatto vedere dopo aver interamente purificato nella chiarezza, con la luce dello Spirito Santo, la mia intelligenza»9.

L’agostinismo – come sappiamo – alimenta nel Medioevo latino una ro- busta corrente di pensiero che prende addirittura il nome di metafisica della luce, in cui s’inseriscono gli accenti originali del francescanesimo e poi della mistica successiva. L’esperienza e la teologia di Simeone il Nuovo Teologo alimentano invece, in Oriente, la tradizione della luce taborica, la luce del Cristo trasfigurato, sino a san Serafino di Sarov tra ’700 e ’800, e alla sofiolo- gia dei pensatori religiosi russi, a cavallo tra ’800 e ’900: Soloviev, Florenskij, Bulgakov.

2. La testimonianza di sant’Antonio da Padova Per interpretare alcuni momenti del racconto della rivelazione nella loro rilevanza simbolica per l’oggi delle culture incamminate verso l’incontro con Cristo, benché lacerate dalla conflittualità, privilegio la prospettiva cristolo- gica dell’Occidente con cui ho più dimestichezza, in particolare quella fran- cescana, ma cercando di aprirla alle suggestioni di quella pneumatologica dell’Oriente. M’ispiro, in libertà, a due Sermoni di sant’Antonio da Padova, dove questo tema è dominante. In essi si descrivono la creazione, l’incarna- zione, su su sino al destino eterno dell’umanità e del cosmo, inanellati nel filo d’oro della luce. Ecco le righe iniziali del Sermone della domenica di Septuagesima:

«“In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). Intendi bene il conte- nente e il contenuto. Dio, cioè il Padre, nel principio, cioè nel Figlio, creò e ricreò: creò per sei giorni e nel settimo riposò; ricreò con sei articoli di fede, promettendo con il settimo il riposo eterno. Il primo giorno Dio disse: “Sia fatta la luce. E la luce fu” (Gen 1,3); primo articolo di fede: la Natività. Il secondo giorno Dio disse: “Sia fatto il firmamento nel mezzo delle acque, e separi acque da acque” (Gen 1,6); secondo articolo di fede: il Battesimo. Il terzo giorno Dio disse: “La terra germogli erba verdeggiante che produce il seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie” (Gen 1,11); terzo articolo di fede: la passione. Il quarto giorno Dio disse: “Ci siano due grandi luci nel firmamento” (Gen 1,14). Quarto articolo di fede: la Risurre- zione. Il quinto giorno Dio fece “gli uccelli dell’aria” (cf. Gen 1,20). Quinto articolo di fede: l’ascensione. Il sesto giorno Dio disse. “Facciamo l’uomo a

9 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi, XXXVI. 190 Piero Coda

nostra immagine e somiglianza” (Gen 1,26). “E soffiò sul suo viso un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). Sesto articolo di fede: l’invio dello Spirito Santo. Il settimo giorno Dio “si riposò da ogni lavoro che aveva compiuto” (Gen 2,2). Settimo articolo di fede: l’arrivo al giudizio, nel quale ci riposeremo da ogni nostro lavoro e da ogni fatica. Invochiamo lo Spirito Santo, che è l’amore e vincolo di unione del Padre e del Figlio, af- finché ci conceda di unire e concordare tra loro ognuno di questi sette punti, cioè i giorni e gli articoli di fede, in modo che tutto risulti a suo onore e a edificazione della Chiesa»10.

Isolo, in questo policromo affresco, quattro quadri: – creazione e incarnazione, evento di luce, – la Trinità, mistero di luce – la creazione “nuova”, arcobaleno di luce, – l’alba e il tramonto: in cammino verso la luce.

3. Creazione e incarnazione, evento di luce Creazione e incarnazione sono evento di luce: avvengono nella luce e sono l’accesso alla luce. Ciò che innanzi tutto colpisce, nel sermone di An- tonio, è la continuità – tradizionale nella fede cristiana – tra la creazione e l’incarnazione. Scrive Antonio:

«Il primo giorno Dio disse: “Sia la luce”. Questa luce è la Sapienza del Padre, “che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” (Gv 1,9) (…). Di essa il Padre ha detto: “Sia la luce; e la luce fu”; e Giovanni più esplicitamente scrive: “Il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi” (…). Quindi, la luce che era inaccessibile e invisibile, s’è fatta visibile nella carne»11.

La luce, dunque, non è solo il simbolo dello spazio luminoso e illumi- nante dischiuso nell’atto stesso in cui Dio crea, esprimendo la sua Parola “fuori di sé”. La luce è anche la stoffa, il tessuto, di cui “è fatta la creazio- ne”. Ciò diventa pienamente visibile quando il Verbo, la Luce del Padre, nella pienezza dei tempi si fa carne (cf. Gv 1,14). È allora che l’umanità può «contemplare la dóxa di Lui, dóxa di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (ibid.).

10 Antonio di Padova, I Sermoni, tr. it. di G. Tollardo, EMP, Padova 1995, 25. 11 Ibid., 25-26. In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli 191

Luce e carne: non c’è dialettica conflittuale, ma distinzione in vista della comunione. Perché la comunione non si dà senza distinzione, bensì di essa soltanto vive. Antonio ricorda in proposito la lettera agli Ebrei: «Egli (il Fi- glio, il Verbo) è l’irradiazione e l’impronta della sua sostanza» (1,3) e il libro della Sapienza, che è «lo splendore della Luce eterna» (7,26)12. Il Figlio, il Verbo, la Sapienza del Padre, dunque, si fa carne per rive- lare e realizzare il destino d’ogni carne: in Lui e per Lui essere rivestita di luce, essere trasfigurata – come la carne di Cristo sul Tabor e il giorno della risurrezione. Nel Figlio della luce il destino degli uomini è infine svelato: di- ventare anch’essi «figli della luce» (cf. 1Tess 5,5). Così Paolo: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Ef 5,8). Creazione e incarnazione, dunque, come le due tappe d’un unico evento di figliazione nella Luce.

4. La Santissima Trinità, Luce da Luce Ma creazione e incarnazione, in verità, non sono solo questo, evento di Luce: sono anche – dicevo – l’accesso alla Luce. Il Figlio, il Verbo – in cui, per cui e in vista di cui tutto è creato e ricreato (cf. Col 1,16; Ef 1,10) – è il Figlio della Luce, «irradiazione della gloria del Padre», «il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile, che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere» (1Tm 6,16). È dunque il Mistero insondabile del Padre quello che si manifesta, cu- stodendo il suo segreto, nell’evento di luce che sono la creazione e l’incarna- zione. La luce, infatti, è irradiazione dell’amore – agape: che è non essendo, che è, cioè, facendo essere e illuminando l’altro da sé – e proprio così è, è se stessa: è luce perché amore. Per questo, l’evento della luce – creazione nel Verbo e incarnazione del Verbo – è l’accesso al mistero della Luce nella sua scaturigine sovratempora- le e inesauribile: accesso alla santa e indivisibile Trinità. Secondo la definizio- ne dogmatica, densamente simbolica, che pulsa al cuore della fede cristiana, professata dal Concilio di Nicea I:

12 Ibid., 26. 192 Piero Coda

«Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente (…) e in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio consostanziale al Padre (…) Dio da Dio, Luce da Luce (phos ek photós), Dio vero da Dio vero»13.

Luce da Luce: è il Mistero stesso, trascendente e santo, della Luce, quel- lo che si rivela nell’evento della Luce che si fa carne. Non c’è dualismo, nel principio, tra luce e tenebre. C’è Luce da Luce. Né c’è un necessario e inelut- tabile degradarsi e affievolirsi della luce verso il limite estremo della tenebra. C’è Luce da Luce. Né c’è un sottrarsi, un nascondersi, un ritrarsi della Luce nell’ineffabilità della tenebra. C’è Luce da Luce. Il mistero di cui è avvolta la Luce inaccessibile del Padre non è tenebra: è semmai eccesso di Luce, che tutta però si comunica nello splendore di Luce del Figlio, di essa al tempo stesso, e proprio per questo, essendo la sorgente inesauribile. Qui pulsa il cuore della fede cristiana: la Santissima Trinità. Così Gregorio Nazianzeno:

«Dio è indiviso in esseri distinti l’uno dall’altro, ed è un unico globo di luce, che si percepisce in tre soli l’uno all’altro legati»14.

E Simeone il Nuovo Teologo:

«Ricevendo la grazia si riceve la Luce divina e Dio con essa (…). Luce è il Padre, Luce è il Figlio, Luce è lo Spirito Santo. I tre sono una sola Luce atem- porale, indivisibile, senza confusione, eterna, increata, (…) invisibile (…); Luce che nessuno ha mai potuto vedere prima di essere purificato»15.

Occorre qui sostare un attimo almeno. Perché in quest’affermazione – Luce da Luce – la fede e, per essa, la coscienza dell’umanità, per impulso della rivelazione di Dio in Cristo Gesù, pone in essere un’esperienza e un’in- telligenza gratuita e del tutto nuova del mondo e del suo destino. «La luce di cui parlano i mistici di tutti i popoli e paesi – spiega Florenskij –, e che essi interpretano come luce del mondo celeste, come luce divina, fu per loro soltanto un’intuizione»16: non un’esperienza e un’intelligenza. Per- ché? «Perché – risponde – essi non conoscevano il dogma della Trinità»17, che

13 H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, ed. bilingue a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 1995, n. 125. 14 Gregorio di Nazianzio, Discorso, 31. 15 Simeone il Nuovo Teologo, Sermone 57, 2.4. 16 Florenskij, La colonna e il fondamento, cit., 147. 17 Ivi. In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli 193 recita: «Luce da Luce». Occorre infatti «vivere nelle viscere della Trinità, essere Figlio di Dio» «per verificare questa ipotesi»18: «Luce da Luce». È per questo – ne conclude Florenskij – che san Gregorio il Teologo poté dire che sant’Atanasio il Grande, indomito propugnatore del dogma niceno, fu in verità «il santissimo occhio dell’universo»19. Attraverso di lui la Chiesa, fatta occhio dell’universo, contemplò in Cristo la luce della Verità: Dio Trinità Santissima, Luce da Luce.

5. La creazione nuova, arcobaleno di Luce Nel terzo quadro ci tocca tornare dalla Trinità alla creazione e all’incar- nazione. La creazione, infatti, è frutto del «sia la luce». Il Verbo, il Figlio, invece, è «Luce da Luce». Che cosa distingue e insieme unisce, nella luce dell’incarnazione del Verbo, e dunque senza confusione e senza separazione, il «Luce da Luce» di Nicea dal «sia la luce» della Genesi? La tradizione biblica, e mistica, conosce in proposito un simbolo inti- mamente collegato a quello della luce: l’arcobaleno, simbolo insieme della creazione e dell’alleanza di Dio con il creato e tutta l’umanità. Così la Genesi:

«Dio disse: “questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne. Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra”» (9,12ss).

E il libro del Siracide:

«Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto, è bellissimo il suo splendore. Avvolge il cielo con un cerchio di gloria, l’hanno teso le mani dell’Altissimo» (43,12-13).

E, densamente e proletticamente, il libro del profeta Ezechiele:

«Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve come una pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembrava essere dai fianchi in su, mi apparve splendido come l’elettro e da ciò che sembrava dai fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore il cui aspetto era simile a quello dell’arcobaleno sulle nubi in un giorno di pioggia. Tale mi apparve l’aspetto della gloria del Signore» (1,26-28).

18 Ibid., 148. 19 Citato in ibid., 149; cf. Gregorio il Teologo in PG 35, col. 1213A. 194 Piero Coda

Quando si dischiude nella creazione, la luce di Dio non degrada, non si scontra e non s’infrange contro le tenebre: si rifrange piuttosto nei colori dell’iride, i colori del creato – come appunto suggerisce il simbolo dell’ar- cobaleno. L’Uno (che è Trino – Luce da Luce) si moltiplica creando il molteplice “al di là di sé”, ma restando in sé medesimo uno e indiviso. La sostanza della creazione è una, nel suo principio, nel Verbo, ma si rifrange e moltiplica nel divenire temporale e cosmico per essere ricapitolata infine in Cristo, Verbo incarnato (cf. Ef 1,10): essendo vera e buona e bella per lo sventagliarsi nei colori di ciò che, per sé, è prima e al di là del colore, essendone la trascendente scaturigine:

«Egli – leggiamo nella lettera ai Colossesi – è icona del Dio invisibile, gene- rato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,15-16).

Commenta Chiara Lubich:

«Per lui (Gesù) furono fatte tutte le cose. Tutto ciò che è creato non è che Gesù spiegato, come l’iride è il ventaglio dei colori che spiegano il bianco: le stelle, le piante, il sole, la luna, il mare, i monti, gli uccelli, tutte le creature e l’uomo sono riassunti in Gesù»20.

Ma – perché ciò accada – occorre una superficie tersa capace di riflette- re la luce, meglio, occorre una goccia trasparente di rugiada che permetta il rifrangersi della luce nell’arcobaleno dei colori. È la creazione nella sua im- macolatezza: la creazione che accoglie, nel suo fiat, il fiat del Creatore e così accoglie sé e il Creatore, fatti uno nel Verbo fatto carne. È il fiat di Maria, eco perfetta del fiat del Creatore. Così Antonio nel Sermone dell’Annunciazione.

«Maria fu “arcobaleno splendente” nel concepimento del Figlio di Dio. L’ar- cobaleno si forma con il sole che entra in una nuvola, nella quale ci sono quattro colori: il fuligginoso, l’azzurro, l’aureo e l’infuocato. In questo giorno il Figlio di Dio, sole di giustizia, entrò nella nube, cioè nel seno della Vergine gloriosa, e questa diventò quasi un arcobaleno, segno dell’alleanza, della pace

20 Testo inedito, citato in P. Coda, Dio che dice Amore. Lezioni di Teologia, Città Nuova, Roma 2007, 85. In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli 195

e della riconciliazione. (…) Leggiamo infatti nella Genesi: “Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra” (9,13)»21.

La nube e l’arcobaleno. Maria e il Verbo incarnato che prende carne nel suo mistico corpo. Il Sole, penetrando la nube, si rifrange nell’arcobaleno. Cristo, Luce da Luce, si fa, attraverso e in Maria, l’arcobaleno che rifrange la Luce del Sole ricapitolando in sé la creazione. Così che essa, nello Spirito, diventa epifania creata della Gloria divina increata.

6. L’alba e il tramonto, in cammino verso la Luce «Dio è Luce e in Lui non ci sono tenebre» – afferma perentoriamente, in coerenza all’evento della salvezza in Cristo, la prima lettera di Giovanni (1,5). Così, per sé, non c’è tenebra nella creazione, non c’è dualismo origi- nario di bene e male. Eppure, le tenebre fanno presto capolino nel racconto della rivelazione, oltre che nella nostra esperienza quotidiana e in quella uni- versale dell’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Se il cuore delle culture e delle tradizioni religiose di tutti popoli è po- larizzato dalla luce, la modernità conosce addirittura l’abisso del nulla, del buio, del non senso. Occorre per questo tornare a leggere con attenzione il libro della Genesi: «Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre» (1,4); e il Vangelo di Giovanni: «In lui era la vita e la vita era la Luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (1,4-5). Ma più an- cora occorre guardare al Golgota e riascoltare il grido lacerante dell’ora nona:

«Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactáni?, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,45-46).

È il paradosso della luce spinta all’estremo. Nella trasfigurazione al monte Tabor «il volto (di Gesù) brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,22). Sul Golgota, invece, «il sole si eclissò» (Lc 23,44). Ma non si nasconde proprio qui, a noi svelandosi nella luce mattutina del giorno di Pasqua, il segreto che ritma la verità della rivelazione: Luce da

21 Antonio di Padova, I Sermoni, cit., 1084. 196 Piero Coda

Luce? «Abbiamo visto la luce di questo Sole tramontante – scrive Florenskij – e nella luce di questo Sole abbiamo visto la luce della Trinità»22. La Santa e indivisibile Trinità. Una Luce che accende un’altra Luce, sembrando quasi tramontare in essa: ma solo perché questa, di ritorno, tra- monti nella prima. E tutto sfolgori di Luce nella gloria dello Spirito. Nella creazione, questo ritmo si riproduce quando la Luce bianca tra- monta rifrangendosi nell’iride multicolore. Così, nel tramonto di Cristo, sole di salvezza, che prende su di sé la tenebra del mondo, l’abisso del peccato, il grido del non senso: è allora che s’accende ephápax l’alba della risurrezione. Il germe e l’inizio dell’avvento del regno. La Luce tramontante e risorgente di Cristo comunica al mondo la Luce senza tramonto: «phòs anésperon», come canta la liturgia dell’Oriente – spe- ranza dell’uomo, promessa di Dio. In una delle ultime poesie da lui scritte, nel Natale 1993, il teologo e vescovo Klaus Hemmerle descrive il simbolo della Luce tramontante come l’albeggiare nel tempo di cieli nuovi e terra nuova:

«Durante il mio riposo nelle Alpi, in una passeggiata, ho avuto a un tratto l’im- pressione che il sole fosse caduto nella valle. La sua luce avvolgeva il paesaggio non più dal di sopra e dall’esterno, bensì brillava dal di sotto e dal di dentro. Monti, sentieri ed acqua erano infuocati dal sole in loro e al di sotto di loro. Recentemente mi sono imbattuto in una rappresentazione del Presepe, nella quale la fonte di luce era il bambino. Sì, questo è l’Incarnazione: vedere le persone, le cose, la vita nella luce di quel sole che si è immerso in noi, per far sorgere dal di dentro e dal di sotto, nel piccolo e nel quotidiano, Dio fra noi»23.

7. «In via Lucis» La suggestione del tema proposto mi ha incalzato a ripercorrere le prin- cipali tappe del cammino della luce di Cristo che viene a risplendere sul vol- to della Chiesa. Si tratterebbe ora di percorrere qualche tratto del cammino che di qui prende il via: quello della Chiesa, in Cristo che è luce, verso l’in- contro coi popoli nel segno della testimonianza, dell’annuncio, del dialogo. La luce di Cristo, la luce che è Cristo, nell’itinerario concreto disegnato dalla rivelazione, esibisce infatti in sé la chiave – teologica ed esistenziale –

22 Florenskij, La colonna e il fondamento, cit., 139. 23 Riportato nell’introduzione di P. Coda a K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, Città Nuova Editrice, Roma 19962, 19. In via Lucis. La Chiesa, in Cristo, nel cammino verso l’unità dei popoli 197 per aprire dall’interno il cuore di tutte le culture e tradizioni religiose, ma anche quello – oscuro e inquieto – della cultura contemporanea, nata in Occidente, la terra del tramonto. Questa la chiave: essere insieme nella Luce di Cristo, anzi essere insieme la Luce che è Cristo, nel giorno pasquale della risurrezione che vive nella comunione e nella missione della Chiesa, alba e tramonto per un’alba nuova e più grande. È questa la Luce di cui parla Gesù nel Vangelo di Giovanni, principio e frutto, a un tempo, di quell’unità nell’amore che offre al mondo il Dio che è Amore, Trinità Santissima. Luce da Luce e noi fatti luce in Lui:

«E la dóxa (claritas) che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,22-23).

La comunione – e il dialogo che ne è la via – non sono una possibilità tra le altre, per la missione della Chiesa del nostro tempo in cammino verso i popoli. Sono l’ante omnia, il luogo in cui s’accende la luce di Dio nel mondo. Come ci ha invitato a meditare Benedetto XVI, nel testo citato all’inizio di questo percorso: «Andare insieme verso la fonte della Luce», apparecchian- do – come nel tempio di Gerusalemme – «un atrio dei Gentili», radura di luce discreta e ospitale per ciascuno che è assetato di luce24.

Sintesi L’intervento propone una traccia di meditatio mentis et cordis seguendo il filo d’oro della via Lucis di e in Cristo quale chiave di lettura del cammino della Chiesa verso il cuore delle culture, delle tradizioni religiose, della società secolarizzata. Muove dalla domanda intorno a ciò che di universalmente umano e insieme di singolarmente cristo- logico vi è nel simbolo della luce. E risponde ispirandosi a due Sermoni di sant’Antonio da Padova, dove questo tema è dominante, e disegnando in rapida successione quattro quadri: creazione e incarnazione, evento di luce; la Trinità, mistero di luce; la creazione nuova, arcobaleno di luce; l’alba e il tramonto, in cammino verso la luce. Per concludere che la comunione in Cristo – e il dialogo che ne è la via – non è una possibilità tra le altre, per la missione della Chiesa in cammino verso i popoli: ma il luogo vero in cui s’accende la luce di Dio nel mondo in obbedienza al mandato di Cristo.

24 Cf. Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e Direttori del Gover- natorato SCV, per la presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2009.

VITA ACADEMIÆ

path 9 (2010) 199-250

Vari e importanti eventi sono da segnalare per la vita dell’Accademia: a) la nomina di Mons. J. Augustine Di Noia a Segretario della Congregazio- ne per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti; b) la nomina di cinque nuovi Accademici ordinari; c) la nomina dell’Accademico Prof. D. Enrico dal Covolo a Rettore della Pontificia Università Lateranense; d) la nomina di S.E. Mons. Salvatore Fisichella a Presidente dell’annunciato Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; e) la nomina di S.Em. il Card. Marc Ouellet a Prefetto della Congregazione per i Vescovi e Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina.

The Ordination to the Order of Bishop of the Most Reverend Joseph Augustine Di Noia, named Secretary of the Congregation for Divine Worship and the Discipline of the Sacraments (11 July 2009)

His Excellency Archbishop Joseph Augustine Di Noia, O.P., was born in New York City in 1943 and entered the Order of Preachers at a young age. His theological studies began at the Dominican administered Providence College, where he so excelled in his academic work that he began teaching Sacred Theology at the same College immediately after his ordination to the priesthood in 1970. His doctoral studies were undertaken at Yale University in the United States under the direction of the famous Lutheran scholar, George A. Lindbeck, one of the most notable of the non-Catholic observers at the Second Vatican Council. Archbishop Di Noia’s doctoral thesis, completed in 1980, was entitled Catholic Theology of Religions and Interreligious Dialogue. He then embarked on a remarkable theological career, teaching for many years at the Dominican House of Studies in Washington and editing 200 Vita Academiæ the prestigious periodical «The Thomist», in which he also published many articles. In 1997, he was appointed as a Member of the International Theo- logical Commission. In 2000, he became the first Director of the Intercultural Forum for Studies in Faith and Culture at the John Paul II Cultural Center in Washington. During this same period, His Excellency was serving as the Executive Director of the Doctrinal Commission of the United States Con- ference of Catholic . Having had multiple contacts with Joseph Cardinal Ratzinger during his time as a member of the International Theological Commission, Archbishop Di Noia was a natural choice for the position of Under-Secretary of the Congrega- tion for the Doctrine of the Faith, which he assumed in April 2002. Seven years later, in June 2009, Pope Benedict XVI named him Secretary of the Congre- gation for Divine Worship and the Discipline of the Sacraments, the position which he currently holds. He was ordained to the Episcopate on July 11, 2009. He is the author of numerous books and articles, including The Diver- sity of Religions: a Christian perspective (Washington: Catholic University of America Press, 1992) and the article on Karl Rahner in The Modern Theo- logians (Oxford: Blackwell, 1997). In 1998, the Dominican order conferred on him the prestigious title of Master of Sacred Theology. He is one of the most prominent theologians in the English-speaking world today. He is also a member of the Pontifical Academy of Saint .

Charles Brown

Nuovi Accademici Ordinari Secondo gli Statuti della Pontificia Academia Theologica sono quaranta gli Accademici «ordinari» che ne fanno parte. Per questo di tanto in tanto il Consiglio propone alla Segreteria di Stato la nomina di nuovi Accademici. In data 18 maggio 2010 veniva comunicata la nomina dei seguenti Mem- bri Ordinari: Rev.do P. Wojciech Marian Giertych, O.P. (Polonia); Rev.do P. Luigi Borriello, O.C.D. (Italia); Rev.do P. Jeremy Driscoll, O.S.B. (U.S.A.); Rev.do P. Joseph Hak Piu Wong, O.S.B. Cam (Repubblica popolare cinese); Prof.ssa Angela Ales Bello (Italia). Vita Academiæ 201

Il Prof. D. Enrico dal Covolo Rettore della Pontificia Università Lateranense Sua Santità Benedetto XVI ha nominato Rettore Magnifico della Pontifi- cia Università Lateranense don Enrico dal Covolo, salesiano, finora Postulato- re generale per le cause dei Santi della Famiglia Salesiana. La Sala Stampa della Santa Sede ha reso pubblica la nomina mercoledì 30 giugno. Don Enrico dal Covolo è nato il 5 ottobre 1950 a Feltre (Belluno, Italia), ha professato i primi voti il 2 settembre 1973 e nell’anno seguente si è laureato in Lettere classiche, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Completati gli studi teologici è stato ordinato sacerdote il 22 dicembre 1979, nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Conseguito il dottorato in Teologia e Scienze Patristiche presso l’Istituto Patristico «Augustinianum» di Roma, è stato Preside-Decano della Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’Università Pontificia Salesiana di Roma e in seguito Vicerettore della medesima Università. Nel 2003 il Rettor Maggiore, Don Pascual Chávez, lo ha nominato Postulatore generale per le cause dei Santi della Famiglia Salesiana. Autore di numerose pubblicazioni dedicate ai Padri della Chiesa, da ultimo ha pubblicato: In ascolto dell’Altro, volume che raccoglie le meditazioni degli Esercizi Spirituali predicati al Papa e alla Curia Romana nel febbraio scorso. L’Università Lateranense fu fondata nel 1774 da Papa Clemente XIV, che affidò le Facoltà di Teologia e di Filosofia del Collegio Romano al Clero di Roma. Nel 1853, sotto Papa Pio IX, vennero inaugurate le Facoltà di Diritto Canonico e di Diritto Civile, oltre al Pontificio Istituto «Utriusque Iuris». Nel 1958 Papa Pio XII istituì il Pontificio Istituto Pastorale e nel 1981 Giovanni Paolo II ha eretto presso l’Università il Pontificio Istituto per gli Studi su Matrimonio e Famiglia. Presso l’Ateneo insegnano oltre 200 docenti provenienti da 20 paesi di- versi. Oltre alla sede romana, l’Università ha altre 43 sedi nel resto del mondo, presenti in 22 paesi e frequentate da più di 5000 studenti. Questo il saluto che il nuovo Rettore ha rivolto ai presenti riuniti nell’Au- la Magna della Pontificia Università Lateranense in occasione dell’annuncio della nomina. Eminenze, Eccellenze, Autorità accademiche e religiose, Professori, Personale universitario, Studenti, Amici tutti: permettetemi di esprimere in modo telegrafico tre sentimenti che mi sorgono dal cuore. 202 Vita Academiæ

– Il primo sentimento è quella della riconoscenza e della gratitudine. Ri- conoscenza e gratitudine al Signore, anzitutto, che per strade misteriose e impreviste guida con la sua grazia potente la storia della mia vocazione. Mi trovo ormai alla terza svolta di questa mia storia di vocazione. La prima svolta è stata quando ho lasciato la mia famiglia paterna (una famiglia numerosa, di dieci figli…) per entrare nella grande Famiglia Salesiana. In questa nuova Famiglia Salesiana ho sempre insegnato, dai miei vent’anni di età: non ho fatto neppure un semestre sabbatico! Ma sette anni fa – ed ecco la seconda svolta – sono stato incaricato anche della Postulazione dei santi salesiani. E ora la terza svolta. Entro nella prestigiosa Università Lateranense: l’Univer- sità del Papa, come siamo abituati a dire. Ebbene, la sento già come la mia nuova famiglia. Del resto, molti di voi lo sanno: il mio zio paterno, Mons. Antonio dal Covolo, ha speso qui, in questa Università, gli anni più belli del- la sua vita, lasciando un grande ricordo di competenza scientifica e di bontà sacerdotale. Ma – oltre che al Signore – oggi voglio esprimere la mia ricono- scenza anche al Santo Padre, il Papa Benedetto XVI, e al suo Vicario, S.Em. il Card. Agostino Vallini, Gran Cancelliere di questa Università, che mi han- no scelto per questo incarico, e che mi hanno incoraggiato ad assumerlo.

– Il secondo sentimento è un’altra esigenza del cuore. Desidero infatti salutare con molta cordialità le Autorità Accademiche, i Professori, il Per- sonale e gli Studenti di questa Università. Lo faccio rinnovando davanti a voi, come una solenne promessa, il motto della mia ordinazione sacerdotale: «Ecco, io sono davanti a voi come un servo», o – per essere più precisi nella traduzione – «come colui che continua a servire» (Lc 22,27).

– Il terzo sentimento è un fervido auspicio. Lo esprimo recuperando – anche in segno di gratitudine e di affetto – il motto episcopale di S.E. Mons. Rino Fisichella, al quale va il ringraziamento sincero dell’intera comunità accademica lateranense, che egli ha servito con intelligenza e dedizione ge- nerosa nell’arco del suo duplice mandato di Rettore. Il motto di Mons. Fisi- chella recita così: Viam veritatis elegi. A questa citazione salmica vorrei acco- stare immediatamente un’espressione paolina, molto familiare grazie anche alla più recente Enciclica del Papa Benedetto: Veritatem facientes in caritate (Ef 4,15). Proprio in questo modo, cioè coniugando insieme verità e carità, ogni comunità cristiana è chiamata a crescere in Cristo. Vita Academiæ 203

Ed ecco l’auspicio, che vorrei si realizzasse in questo tempo che il Signo- re ci dona di vivere insieme: che nella rigorosa ricerca della verità, noi tutti, generosamente dediti allo studio, alla ricerca, all’insegnamento e comunque al servizio dell’Università, della Chiesa e della società, possiamo camminare insieme, in uno stile evangelico di rapporti personali continuamente illumi- nato dalla carità di Cristo! Grazie per la vostra accoglienza.

Enrico dal Covolo

Sessione accademica del 29 ottobre 2009 La Pontificia Academia Theologica al servizio di un proficuo dialogo È con piacere che mi trovo con voi, oggi, in questa Aula «Paolo VI» della Pontificia Università Lateranense per la solenne celebrazione della Ses- sione della Pontificia Academia Theologica. Porgo un saluto del tutto parti- colare a S. Em. Rev.ma il Cardinale Angelo Sodano che, con la sua presen- za, onora tutti noi. Rivolgo anche il mio più cordiale saluto, insieme a un sentito ringraziamento per l’invito a essere presente, al Prof. Manlio Sodi, Presidente della Pontificia Accademia di Teologia. Un caro saluto anche al Prelato-Segretario, il Prof. François-Marie Léthel, nonché ai Consiglieri, agli Accademici e a voi tutti qui presenti. La Sessione di questo pomeriggio prevede la successione di diversi mo- menti significativi. Anzitutto la presentazione di due nuovi volumi, uno curato dai Prof. Manlio Sodi e Paul O’Callaghan dal titolo Paolo di Tarso. Tra keryg- ma, cultus e vita; l’altro di carattere ecclesiologico, scritto dal Prof. Donato Valentini, Lo Spirito e la Sposa. Scritti teologici sulla Chiesa di Dio e degli uo- mini. Entrambi fanno parte della collana «Itineraria» della Libreria Editrice Vaticana. Inoltre, in questo nostro incontro viene tributato un meritato alto riconoscimento al Prof. Tarcisio Stramare. A queste distinte personalità, che hanno dato apprezzati contributi agli studi ecclesiastici esprimo la mia più sincera stima e l’augurio di continuare a dare ulteriori apporti significativi.

1. Motivo della presenza L’occasione mi offre l’opportunità per manifestare l’attenzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica, di cui sono Prefetto, verso la 204 Vita Academiæ

Pontificia Accademia di Teologia. Quando il Papa Giovanni Paolo II, con il Motu proprio Inter munera Academiarum, del 28 gennaio 1999, ha voluto dare un nuovo impulso alle Accademie fondate dai Romani Pontefici nel corso dei secoli per la ricerca filosofica e teologica, ha stabilito negli Statuti propri della Pontificia Accademia di Teologia, che essa per conseguire le sue finalità fosse unita con un legame particolare alla Congregazione per l’Edu- cazione Cattolica. Al riguardo, la parte finale dell’articolo II degli Statuti recita così: «Ut hunc finem melius adsequatur, eadem Academia peculiari adhaeret vinculo Congregationi pro Educatione Catholica». La mia presen- za vuole essere un segno di questo legame, che potrà senz’altro trovare ulte- riori forme per favorire una sempre più efficace collaborazione.

2. Augurio per il lavoro futuro In questa circostanza desidero rivolgere una particolare espressione di augurio all’Accademia per un proficuo proseguimento dell’importante mis- sione ecclesiale alla quale è stata chiamata e per la quale, in quest’ultimo decennio, ha profuso un apprezzato impegno. Il mio sentito augurio va in due direzioni, entrambe radicate nel fine specifico dell’Accademia, delineato negli Statuti (art. II), che è quello di promuovere gli studi teologici e recuperare le condizioni di dialogo tra le discipline teologiche e filosofiche, per affrontare la sfida più grande della nostra epoca, che è la separazione tra fede e ragione, tra Vangelo e cultura. – La prima direzione del mio augurio è orientata verso l’obiettivo dell’integrazione della conoscenza per raggiungere una sintesi vitale, attra- verso i contributi fondamentali della filosofia e della teologia1. L’attuale sfiducia nei confronti della capacità dell’intelligenza umana di giungere a una verità oggettiva e universale, l’impatto delle scienze umane e i nuovi interrogativi suscitati dal progresso della tecnica, richiedono oggi soprat- tutto una formazione più approfondita nella filosofia, che è “l’anima” della cultura. Essa, infatti, «pone gli interrogativi che riguardano il senso delle cose e dell’esistenza umana in un modo che corrisponde completamen-

1 Cf. Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Sapientia christiana (15 aprile 1979), Proemio; Id., Costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae (15 agosto 1990), n. 16. Vita Academiæ 205 te alle aspirazioni più intime dell’uomo»2. In un’epoca in cui la filosofia dell’essere è, in grande parte, scomparsa dagli studi e dalle ricerche filoso- fiche, l’enciclica del Papa Giovanni Paolo II Fides et ratio ha sottolineato l’importanza di una filosofia che ritrovi la sua dimensione sapienziale e metafisica3. Essa ha anche messo in evidenza le conseguenze drammatiche di una separazione tra ragione e fede e la necessità di recuperare l’armonia tra questi due approcci dell’unica verità. Nello stesso modo, l’enciclica Veritatis splendor ha richiamato l’attenzione su alcune verità fondamentali (ad esempio, la legge naturale; l’unità dell’anima e del corpo, dell’uomo) che, indagate dalla ragione, preparano all’accoglienza della rivelazione. In- fatti, «di sua natura la fede fa appello all’intelligenza perché svela all’uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Anche se la verità rive- lata è superiore ad ogni nostro dire e i nostri concetti sono imperfetti […] essa invita tuttavia la ragione […] a entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura quanto ha creduto»4. Auguro, pertanto, alla Pontificia Accademia di Teologia di proseguire con efficacia i suoi sforzi in questo vasto campo d’azione per mettere in dialogo la fi- losofia con la teologia e promuovere quella «superiore sintesi, nella quale soltanto troverà appagamento quella sete di verità che è iscritta profonda- mente nel cuore dell’uomo»5. Peraltro, non è sola! Anche la Congregazio- ne per l’Educazione Cattolica è impegnata in diversi modi, uno dei quali è la riforma degli studi ecclesiastici di filosofia, a cui essa sta lavorando da alcuni anni. Tra le motivazioni della necessaria riforma c’è proprio quella di favorire l’incontro tra gli studi filosofici e teologici per potenziare il dia- logo tra fede e ragione, «in modo che si possa vedere più profondamente come fede e ragione si incontrino nell’unica verità»6.

– Il mio sentito augurio per l’attività dell’Accademia va anche in una se- conda direzione, che mi pare di trovare ben indicata nella recente lettera enci- clica del Papa Benedetto XVI Caritas in veritate. Partendo dall’amara consta-

2 Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, L’insegnamento della filosofia nei Seminari, 20 gennaio 1972, II, 2. 3 Cf. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998), nn. 81-84. 4 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor (6 agosto 1993), n. 109. 5 Giovanni Paolo II, Allocuzione al Congresso internazionale sulle Università Cattoli- che (25 aprile 1989), n. 4. 6 Giovanni Paolo II, Ex corde Ecclesiae, n. 17. 206 Vita Academiæ tazione di Paolo VI, che «il mondo soffre per mancanza di pensiero», il Papa auspica che ci sia un nuovo slancio del pensiero per «un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione», e aggiunge che tale impegno «non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo»7. Non mancano, oggi, atteggiamenti religiosi e culturali che tendono a iso- lare l’uomo nella ricerca del benessere individuale, che tendono a estraniare le persone le une dalle altre anziché farle incontrare. In questo contesto, nel quale l’amore e la verità trovano difficoltà ad affermarsi, l’enciclica lancia un appello a promuovere i saperi per un approfondimento della categoria della relazione. Infatti, è nella relazione con Dio e con gli altri che l’uomo valorizza se stesso. Ciò vale anche per i popoli. La dimensione relazionale tra le persone e tra i popoli è fondamentale perché ci sia un autentico sviluppo. La questione ha avuto una vibrante risonanza anche nelle discussioni durante la seconda Assemblea Speciale per l’ del Sinodo dei Vescovi, appena conclusa (4- 25 ottobre 2009), e concentrata sul tema «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace». Auguro, pertanto, alla Pontificia Accademia di Teologia di dare un vali- do contributo anche all’approfondimento della categoria della relazione, con l’apporto specifico che possono offrire la filosofia e la teologia. È un modo per partecipare alla missione pastorale del Successore di Pietro che, presentando nella Caritas in veritate il volto autentico e integrale dello sviluppo del mondo, ha dato voce al suo grave bisogno «di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore»8. Rinnovo il mio più sentito augurio per sempre più fruttuosi risultati, mentre ci apprestiamo con piacere a seguire la Sessione Accademica.

Card. Zenon Grocholewski

7 Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate (29 giugno 2009), n. 53. 8 Ibid., n. 21. Vita Academiæ 207

Emeritato del Prof. P. Tarcisio Stramare, O.S.I. Laudatio: «Ein Beamter des alten Preussen»1 Religioso della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe, fondata da San Giuseppe Marello nel 1878, P. Tarcisio Stramare è nato a Valdobbiadene (TV) nel 1928. Ordinato sacerdote ad Asti, nel 1952, viene inviato a Roma, dove frequenta la Pontificia Università Gregoriana e il Pontificio Istituto Biblico. Ha avuto l’onore e il piacere di essere compagno di studi di S. Em. il Card. Carlo Maria Martini. Frequenta anche lo «Studium Biblicum Fran- ciscanum», a Gerusalemme, alla scuola dei Padri Lemaire, Baldi e Bagatti, per approfondire gli studi archeologici e topografici, subito utilizzati per la pubblicazione di alcune carte didattiche per l’Antico e il Nuovo Testamento, edite dalla Casa Editrice Giuseppe Svizzero (VI) e tradotte in diverse lingue. Nel 1958 è tra i professori del nascente Pontificio Istituto di Pastora- le, dove cura la prima «Bibliografia Internazionale di Pastorale». Nel 1970 passa nella facoltà di teologia della Pontificia Università Lateranense, dove insegna Teologia biblica. Lascia l’incarico nel 1990, per dedicarsi, secondo il desiderio di Giovanni Paolo II, alla diffusione della conoscenza dell’Esorta- zione apostolica «Redemptoris custos». P. Stramare è stato professore di Sacra Scrittura anche presso lo Stu- dentato Internazionale degli Oblati di San Giuseppe, il Pontificio Seminario Regionale «La Quercia» (VT), la Pontificia Facoltà Teologica «Marianum» e la Pontificia Università Urbaniana. Tra gli uffici più rilevanti possiamo ricordare: a livello nazionale, quello di Vice Assistente Centrale del Movimento Lavoratori della G.I.A.C. e di Assistente Spirituale della «Società Operaia», fondata dal Prof. Luigi Ged- da; a livello della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe, l’ufficio di Procuratore Generale; a livello ecclesiale, l’ufficio di Esaminatore Aposto- lico del Clero Romano e di Consultore della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi. P. Stramare è stato unico, diretto, fedele collaboratore del notissimo conferenziere il venerabile P. Mariano da Torino2 nella famosissima trasmis-

1 Si veda la nota n. 8. 2 Benedetto XVI ha firmato, il 15 marzo 2008, il decreto che riconosce le virtù eroiche di Padre Mariano da Torino (al secolo: Paolo Roasenda, Torino 1906 - Roma 1972), che diventa così il primo Venerabile della TV. Si veda anche http://www.padremarianodatorino. com (6.7.2010). 208 Vita Academiæ sione televisiva Chi è Gesù? (1959-1972). Da ricordare che la televisione di quegli anni aveva un solo canale e che p. Mariano era considerato una star. Negli anni 1969-1970 prese le difese dello stesso P. Mariano nella diatriba sollevata contro di lui da A. Guerriero, noto anche come Ricciardetto, a proposito delle tesi di A. Loisy. La discussione ebbe ampia eco sia sulla ri- vista «Epoca» come in un libro dello stesso Ricciardetto intitolato: Quaesivi et non inveni (Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973). Rileggendo quei testi, ci si rende conto come in essi fosse già operante con tutta la sua viru- lenza la «critica razionalista». Il contemporaneo Catechismo olandese stava a dimostrare come ormai essa fosse penetrata anche nel campo cattolico. Nel- la disattenzione quasi generale, P. Stramare pubblicò numerosi articoli nella rivista «Tabor» (1969), raccolti nel libro Catechismo Olandese e... Bibbia3, nei quali commentò punto per punto la «Dichiarazione della Commissione Cardinalizia sul Nuovo Catechismo». Leggiamo dall’introduzione del libro:

«Non vogliamo entrare nelle questioni riguardanti sia le grandi qualità che distinguono il Catechismo olandese sia le penose perplessità create dal me- desimo in tante coscienze. Se da una parte riecheggiano gli elogi, che si ri- feriscono al suo carattere pastorale, liturgico e biblico, aspetti che polariz- zano l’attenzione di questo periodo postconciliare, dall’altra parte rimane l’accusa, che si riassume nel non riflettere sempre senza oscurità la dottrina della Chiesa»4.

E poi ancora, ricordando le segnalazioni dello stesso Paolo VI su alcuni punti da modificare, P. Stramare affermava la necessità della «difesa della certezza della fede, che non va ridotta a una continua ricerca»5. Si tratta di un netto richiamo al Magistero, nel momento in cui s’inizia a intravedere

3 T. Stramare, Catechismo Olandese e... Bibbia, Istituto Padano di Arti Grafiche, Ro- vigo 1971. 4 Ibid., p. 7. 5 Ibid., p. 8. Riferendosi al capitolo «La morte di Gesù» e ricordando lo svilupparsi lungo i secoli «all’interno della teoria della redenzione [di] altre teorie [teoria del riscatto, dell’espiazione e della soddisfazione], ognuna con i suoi vantaggi e con i suoi limiti», P. Stra- mare si chiede: «Ora, nell’esercizio di tante legittime preferenze non potrebbero crearsi degli scompensi, che giungano a compromettere il sano equilibrio? Non esiste un organismo che garantisca la permanenza nella verità e che denunci o corregga l’eventuale superamento dei giusti limiti? Sì. Qui si rende indispensabile, infatti, il Magistero, al quale occorre costante- mente rifarsi se non si vuole correre invano» (Ibid., p. 62). Vita Academiæ 209 la nascita di un certo relativismo, le cui radici dobbiamo forse ricercare più all’interno della Chiesa stessa che non altrove. Sono, lo ricordiamo, anche gli anni in cui l’archeologia biblica alla Al- bright, quella che poneva la teologia alla base della storia, entrava in una crisi profonda da cui non si sarebbe più ripresa6. A contatto con P. Mariano, coinvolto anche nella campagna del refe- rendum sul divorzio, si era accesa in P. Stramare la curiosità per la que- stione delle «clausole matteane» sul divorzio, cavallo di battaglia usato dai divorzisti in loro favore. Egli ne individuò la soluzione nella preoccupazione costante dei libri biblici di tutelare il monoteismo, messo in pericolo dalla «fornicazione con gli dèi», ossia l’idolatria, favorita appunto dai matrimoni «misti» degli ebrei con le nazioni pagane circonvicine. La soluzione, presen- tata nel 1971 (cf. «Divinitas» e «Tabor»), venne successivamente sviluppata nel libro Matteo divorzista? Studio su Mt 5,32 e 19,9 (Paideia, Brescia 1986) e in Scrutate le Scritture (Sardini, Bornato 2006). Due, tuttavia, sono stati i lavori più impegnativi della vita di studioso di P. Stramare, ai quali rimane legato il suo nome: la e l’approfon- dimento della teologia di san Giuseppe.

1. La «Nova Vulgata» Alla realizzazione della Nova Vulgata, fortemente voluta da Paolo VI, P. Stramare si è dedicato ufficialmente dal 1973, in qualità di Addetto del- la «Pontificia Commissione per la Neo-Volgata»; il testo fu promulgato da Giovanni Paolo II7. Mi sembra questo il momento opportuno per rendere pubbliche alcune notizie circa la decisiva parte avuta da P. Stramare nella Nova Vulgata, parte emersa nel 1977, quando, forse per motivi burocratici, il nome di P. Stra- mare non venne incluso nel «Comitato per l’edizione Ufficiale della Neo- Volgata». In una lettera indirizzata al Segretario di Stato, S. Em. il Cardinale Jean Villot, in risposta a una lettera di quest’ultimo (25 novembre 1977), il Pre-

6 Cf. D. Sardini, Bibbia, archeologia, storia, in Id. (ed.), Bibbia e Cultura, Sardini, Bor- nato 2009, pp. 147-212 (volume celebrativo del cinquantenario della rivista «Bibbia e Orien- te» [vol. L (2008), n. 237-238, pp. 287-352]). 7 Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Scripturarum thesaurus, 25 Aprile 1979. 210 Vita Academiæ sidente della «Pontificia Commissione per la Neo-Volgata», Mons. Eduard Schick, vescovo di Fulda, scriveva (13 dicembre 1977) (i corsivi sono nostri):

«Durante l’udienza concessami da Vostra Eminenza, alla fine di ottobre, Le potevo raccontare degli inestimabili meriti che si è acquistato il procuratore generale degli Oblati di San Giuseppe d’Asti, Padre Tarcisio Stramare; senza la sua cooperazione infaticabile e pregiata per ordine e diligenza8 mi sarebbe stato impossibile finire l’opera nel tempo in cui è stata eseguita; dalla mia posizione lontana in Fulda è sommamente probabile che senza di lui non sarei riuscito af- fatto. Ora, leggendo la lettera mandatami da Vostra Eminenza, purtroppo tra i membri del nuovo Comitato non trovo questo mio collaboratore più fedele e fi- nora insostituibile. Perciò prego Vostra Eminenza di voler informare il Santo Padre del mio urgentissimo desiderio di annoverare Padre Stramare, oltre i nominati nella suddetta lettera, come membro del Comitato, di cui Ella men- ziona che è “provvisorio”. Solamente così ho la certezza che l’andamento degli affari correrà come deve. La prego di non voler considerare la mia domanda come una cortese raccomandazione da parte mia; è una constatazione obiettiva corrispondente alla verità d’un fatto. [...] Infatti, solo con la nomina di P. Stra- mare il nostro lavoro ha incominciato veramente a marciare. [...] Penso che, già con riguardo ai suoi meriti inestimabili per l’opera poco fa finita, Padre Stramare non dovrebbe ritirarsi o essere escluso prima della conclusione de- finitiva. Sono del resto tanto onesto di ripetere ancora una volta chiaramente l’espressione del mio timore – in base a 6 anni di esperienza – che dalla mia residenza in Fulda difficilmente avrei potuto adempiere senza di lui l’incarico affidatomi».

In una lettera manoscritta del 19 dicembre 1977, indirizzata a P. Strama- re, Mons. Schick scrive: «Senza di lei non mi metterò a disposizione»9. Il 5 gennaio 1978, dalla Segreteria di Stato il Card. Villot conferma la nomina di P. Stramare nel «Comitato per l’edizione Ufficiale della Neo-Vol- gata»:

«[...] Sua Santità ha voluto comprendere la Paternità Vostra a pieno titolo, in considerazione del notevole impegno da Lei posto, quale Addetto della Ponti-

8 Nell’allocuzione del 26 Ottobre 1977, in occasione della consegna dell’ultimo tomo della Nova Vulgata a Papa Paolo VI, Mons. Schick utilizza la seguente espressione: «P. Stra- mare hat gearbeitet, so möchte ich sagen, “wie ein Beamter des alten Preussen”» (= «P. Stra- mare ha lavorato, oserei dire, come “un funzionario della vecchia Prussia”»): Das Wort des Herrn bleibt in Ewigkeit. Predigten und Ansprachen von Professor Dr. Eduard Schick Bischof von Fulda, Echter Verlag, Würzburg 1981. 9 «Ohne Sie werde ich mich nicht zur Verfügung stellen». Vita Academiæ 211

ficia Commissione per la Neo-Volgata. La presente lettera, pertanto, vale come notifica di nomina»10.

Nella lettera di ringraziamento al Card. Villot per la nomina di P. Stra- mare (16 gennaio 1978), Mons. Schick lo informa del «grande interesse che sta avendo in Germania la conclusione del progetto»:

«Forse Ella è interessata nell’eco che anche negli ambiti della chiesa protestante in Germania ha trovato la Neo-Volgata. Il professore Aland, autore dell’edi- zione critica del Nuovo Testamento di Nestle, vorrebbe assumere il testo della Neo-Volgata nella prossima edizione Greco-Latina».

Una volta sciolta la Commissione, Mons. Schick chiede al nuovo Segre- tario di Stato, S. Em. il Card. Agostino Casaroli, la «presenza di P. Stramare quale esperto responsabile delle successive edizioni della Nova Vulgata»11. Il 25 settembre 1986, Mons. Schick, ricevuto con il suo seguito in udien- za privata da Giovanni Paolo II in occasione della presentazione della secon- da edizione tipica della Nova Vulgata, nel suo indirizzo, dopo aver presenta- to, fra gli altri, il suo «primo collaboratore scientifico, P. Tarcisio Stramare, OSJ», ringrazia i suoi collaboratori e «soprattutto P. Stramare che ha soste- nuto la maggior parte del lavoro nella seconda edizione, guadagnandosi così i meriti più grandi»12. Da parte sua, P. Stramare ha promosso la conoscenza della Nova Vul- gata a livello internazionale attraverso numerosi articoli su «L’Osservatore Romano» e sulle riviste bibliche, organizzando, inoltre, un Simposio Inter- nazionale, i cui Atti13 rimangono un punto di riferimento essenziale per la retta conoscenza della «storica» impresa, stimata anche a livello ecumenico, come dimostrato dall’inserimento del testo della Nova Vulgata nel Novum Testamentum Graece et Latine delle edizioni di Nestle-Aland14.

10 Prot. nn. 337.923. 11 «Der oben genannte P. Stramare wäre dafür am besten geegnet». La lettera è datata 13 novembre 1979. 12 «Joseph» 64 (1986) 11. 13 T. Stramare (ed.), La Bibbia «Vulgata» dalle origini ai nostri giorni. Atti del Simposio Internazionale in onore di Sisto V, Grottammare, 29-31 agosto 1985, LEV, Città del Vaticano 1987. 14 Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece et Latine, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 1991, 1994 e successive edizioni. A p. XII il ringraziamento a P. T. Stramare: «Col- latae sunt editiones pristinae cum Novae Vulgatae editione typica altera anno 1986 emissa, 212 Vita Academiæ

Tuttora incaricato dalla Santa Sede per tutte le edizioni della Nova Vul- gata, P. Stramare ha sottolineato, nel 2004, con una vena di dispiacere, la

«poca attenzione verso un avvenimento, l’edizione della Nova Vulgata, al quale Paolo VI attribuiva giustamente “un significato e una portata che va al di là di ogni limite cronologico”. Amara è la conferma del fatto che nessuna Università o Facoltà teologica dedicò uno spazio alla celebrazione dell’even- to; anche i manuali di “Introduzione generale alla Bibbia” si rivelano tuttora poco informati in proposito. [...] La riconosciuta qualifica di opera “scienti- fica e pastorale insieme” richiede [...] e giustifica la presenza della Nova Vul- gata nella scuola e nelle biblioteche: essa ha tutte le carte in regola per stare dignitosamente accanto alle traduzioni più moderne, rispetto alle quali ha non solo il vantaggio di rappresentare un’antica tradizione, ma anche quello, dal punto di vista critico, di non indulgere a congetture che non siano com- provate dalla testimonianza di antiche versioni»15.

2. La teologia di san Giuseppe L’altro grande impegno a cui P. Stramare ha dedicato le sue energie è stato l’approfondimento e la diffusione della teologia di san Giuseppe, sulla base

de qua nonnulla consilia addita a P. Tarcisio Stramare OSJ (pro Pontificia Commissione pro Nova Vulgata Bibliorum editione) grato animo accepimus». Notava R. Vignolo nel suo intervento intitolato: Tradurre la Bibbia tra l’imperativo della tradizione e il rischio del tradimento in occasione della giornata di studi «La Sacra Bibbia nella nuova traduzione ufficiale della CEI» (Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, 26 novembre 2008) come alcuni passaggi significativi della Bibbia nella traduzione ufficiale della CEI risultino filologicamente scorretti sia nella nuova versione del 2008 che nella precedente del 1971, mentre siano resi correttamente dalla Nova Vulgata. 15 La «Nova Vulgata» compie venticinque anni, in «L’Osservatore Romano», 25 Aprile 2004, p. 5. L’articolo di P. T. Stramare, La Neo-Volgata, in «Bibbia e Oriente» XX (4/1978) 271-277, è preceduto dalla seguente dicitura: «Straordinario avvenimento storico». P. G. Ri- naldi, F. Luciani e G. Menestrina, hanno sentito in proposito di dover introdurre l’articolo di P. Stramare con i seguenti pensieri: «L’autore dell’articolo che segue sapeva di fare un gradito dono ai nostri lettori, informandoli sul significato di questa nuova “edizione” della Bibbia latina. Il S. Padre, ricevendo in udienza privata le tre personalità che hanno svolto la parte principale dell’impresa [S.E. Mons. Eduard Schick, Vescovo di Fulda e Presidente della Pontificia Commissione per la Neo-Volgata; Mons. Salvatore Garofalo e P. Tarcisio Stramare, OSJ, rispettivamente Segretario e Addetto della medesima Commissione], tra l’altro ha det- to che sapeva di certo che la Neo-Volgata è un “dono di Dio” alla Chiesa. Questo giudizio risuona nella nostra coscienza di cattolici studiosi della Bibbia come un invito a vedere con occhi particolarmente attenti questa interpretazione latina, indizio di apprezzamento della tradizione e insieme di progresso» (Ibid., p. 271). Vita Academiæ 213 dell’Esortazione apostolica Redemptoris custos di Giovanni Paolo II, il quale aveva inserito san Giuseppe nel leit-motiv del suo pontificato: la redenzione. Considerando l’incarnazione come fondamento della redenzione, appariva chiara l’esigenza di non separare il Redemptor hominis e la Redemptoris Mater dal Redemptoris custos, tanto più che san Giuseppe, proclamato da Pio IX Patrono della Chiesa universale, è coinvolto di diritto anche nella Redemptoris missio. Un’eventuale sorpresa di fronte a questa logica dimostra semplicemen- te quanto bisogno ci sia di approfondire la «storia della salvezza». P. Stramare, che dal 1980 dirige il «Movimento Giuseppino», si è addossato questo compi- to fondando un apposito Centro di studi, denominato «Meeting Point Redem- ptoris custos», che promuove incontri e pubblicazioni a livello internazionale. L’ultimo simposio è stato celebrato un mese fa, a Kalisz, in Polonia, sul tema del patrocinio di san Giuseppe. Gli altri Simposi si sono svolti in Italia, Spa- gna, Canada, Messico, El Salvador, Malta, Germania, Perù e Brasile.

3. Le pubblicazioni Oltre alla pubblicazione di libri, numerosi sono i contributi di P. Stra- mare a Enciclopedie, Dizionari e Atti di Congressi e Convegni. Ininterrotte sono le sue collaborazioni a «L’Osservatore Romano» e alle riviste di stu- dio, sia italiane («Rivista Biblica», «Bibbia e Oriente», «Divinitas», «Maria- num», «Lateranum», «Seminarium», «Rivista di Vita Spirituale», «Regina Martyrum») che straniere («Estudios Josefinos», «Cahiers de Josépholo- gie», «Ephemerides Mariologicae»). Da ricordare, in particolare, la rivista «Tabor», l’unica rivista di spiritualità per laici in Italia, fondata e sostenuta per oltre cinquant’anni dal Prof. Luigi Gedda. Non vanno dimenticate le pubblicazioni “popolari”, essenziali per raggiungere anche i non addetti ai lavori: «Joseph», «La Santa Crociata», «Il Messaggio della Santa Casa», «La Domenica». L’Editrice Shalom si avvale ampiamente della sua competenza per nutrire la «devozione popolare». Per quanto riguarda la rivista «Bibbia e Oriente», fondata nel 1959 da P. Giovanni Rinaldi CRS, a Milano, all’Università Cattolica e pubblicata dal 1976 dalla Casa editrice Sardini, ci piace qui ricordare la lunga presenza sulle pagine della rivista di P. Stramare, che inizia nel 1967 con un saggio intitolato: La pienezza della rivelazione16 ed è continuata ininterrottamente

16 «Bibbia e Oriente» IX (4-5/1967) 145-164. 214 Vita Academiæ fino ad oggi, per un totale di 29 saggi, l’ultimo dei quali, pubblicato alcuni mesi fa in «Bibbia e Cultura», volume celebrativo del cinquantenario della rivista, intitolato La Bibbia nella vita della Chiesa17. La nostra Casa editrice ha avuto l’onore di ospitare due pubblicazioni di P. Stramare nella collana dei «Supplementa» a «Bibbia e Oriente»: un volu- me, intitolato: Scrutate le Scritture (2006), raccoglie saggi di teologia biblica e studi su alcuni passi difficili del Nuovo Testamento; l’altro è intitolato: Vangelo dei misteri della vita nascosta di Gesù (1998), titolo che non solo sostituisce quello tradizionale di Vangeli dell’infanzia, ma ne modifica soprattutto il cor- rente metodo di interpretazione. Tra i recensori, il Prof. Juan Esquerda Bi- fet definisce questo libro «uno studio che può segnare un’epoca esegetica»18; il Prof. Mauro Orsatti trova la posizione di P. Stramare «innovativa, quasi “rivoluzionaria”»19. Mons. Enrico Galbiati, in una lettera all’autore (Milano, 18 marzo 1999), dopo la lettura del libro scriveva: «Ho respirato una boccata di aria sana, e ciò mi ha consolato». Il libro è stato tradotto in polacco nel 2007. Durante il 38o Simposio su san Giuseppe, a Kalisz, in Polonia, nel 2007, Don Lucjan Balter, professore all’Università «Card. Stefan Wyszynski» di Var- savia e autore della traduzione del libro, oltre a complimentarsi con l’autore ne ha ammirato il coraggio dimostrato nell’affrontare il metodo storico-critico. Il Prof. Stanislaw Olejnik, autore di tanti manuali per studenti universitari, dopo la relazione di P. Stramare dichiarava: «Peccato che io e tanti sacerdoti non abbiamo potuto udire questa conferenza vent’anni fa, quando il metodo storico-critico era molto diffuso e ha creato tanto male».

4. Conclusione San Giuseppe: uomo schivo, laborioso, che vive nell’ombra, oscurato dalla luminosa presenza della Madre di Gesù, e da Gesù stesso. Al tempo stesso, san Giuseppe figura nodale nella storia della Salvezza. Mi chiedo se non sia possibile ravvedere nel percorso di P. Tarcisio Stra- mare una vicinanza al Redemptoris custos.

Davide Sardini

17 «Bibbia e Oriente» L, n. 237-238 (2008) 157-179. 18 «La Santa Crociata» 8-9 (Agosto-Settembre 1999) 19. 19 «Rivista Biblica» 4 (2000) 477. Vita Academiæ 215

Lectio magistralis: «Il ruolo della sacra Scrittura nell’economia della rivelazione»

1. L’esperienza di un difficile percorso Associato alla Pontificia Accademia Teologica già nell’anno 1982, rin- grazio il Signore per il privilegio che mi è stato concesso di appartenerle per così lungo tempo, a motivo sia delle persone che ho avuto l’opportunità di incontrare e sia della competenza da queste sempre dimostrata nell’af- frontare gli argomenti emergenti in campo teologico. A qualche estraneo la presenza di un biblista in un’Accademia Teolo- gica potrebbe sembrare quella di un vaso da fiori, soprattutto a motivo del non chiaro rapporto “vissuto” tra teologia e sacra Scrittura, definite sì come corpo e anima, ma praticamente indipendenti nei loro procedimenti. Pro- prio mentre pensavo all’argomento di questa lectio, «La Civiltà Cattolica» pubblicava un articolo: Il centenario dell’Istituto Biblico1. Ebbene, trattan- do del problema attuale della formazione oggi offerta dall’Istituto, M. Gil- bert scrive che «i dogmatici, gli specialisti della teologica sistematica, non riescono più a seguirne le ricerche e i risultati; che spesso essi non conside- rano i professori del Biblico nemmeno teologi nel senso pieno della parola, ma tecnici inaccessibili, mentre all’Istituto si ritiene che la teologia sia prima di tutto l’umile e rispettoso ascolto della sacra Scrittura». La mia esperienza romana, iniziata nel 1952, mi consente di fare almeno un confronto, se non un bilancio, tra situazioni storiche nettamente diverse nel campo dell’insegnamento, allora “ingessato” in schemi ben definiti, e in seguito certamente “sciolto”, ma al di fuori di ogni parametro, dove a tutto si attribuisce la qualifica di teologia. Prima del Concilio, alla Gregoriana, come ovunque, il probatur delle tesi seguiva rigorosamente il triplice sche- ma: «Scriptura, Traditione et ratione». La prova «Scriptura» consisteva nella citazione di qualche versetto della sacra Scrittura; la «Traditione» era nor- malmente identificata con i SS. Padri, dei quali si riportavano i passi «pro- bativi». I manuali, ancora facilmente reperibili, parlano da soli. Si capisce come al Biblico le prove ex Scriptura fossero facile bersaglio dei professori, che ne minavano l’auctoritas, non solo dal punto di vista testuale, con evi-

1 M. Gilbert, Il centenario dell’Istituto Biblico, in «La Civiltà Cattolica» 3816, 160 (2009) 540-549. 216 Vita Academiæ dente reazione dalla parte opposta. Sempre nel citato articolo del P. Gilbert, si può leggere quanto si riferisce al secondo periodo, 1937-1964, certamente il più caldo nella storia dell’ermeneutica. Lasciando da parte l’opposizione al nuovo metodo esegetico della Introduction à la Bible, pubblicata a Parigi nel 1957, si pensi all’esegesi di Rm 5,12, proposta in quegli anni da S. Lyonnet sul peccato originale, e all’interpretazione del passo sul primato di Pietro in Mt 16,16-18, data da M. Zerwick. La stessa revisione della Vulgata Sisto-Clementina – la Nova Vulgata –, realizzata dopo il Concilio, non ebbe la risonanza attesa anche a motivo del cambiamento di testi considerati classici dagli utenti, come, ad esempio, 1Gv 2,16, dov’era sparita l’espressione «superbia vitae», che veniva riferita all’«obbedienza», sostituita ora da «iactantia divitiarum». Che dire poi della conseguente emarginazione delle «Concordantiae»? Non si dimentichi né si sottovaluti la domestichezza di predicatori e teologi con citazioni bibliche memorizzate da secoli, frutto della formazione ricevuta nei seminari, dove andava inculcato ai «novizi della sacra milizia (tirones militiae sacrae) quan- to siano da tenersi in conto le Lettere divine, e con quale diligenza e con quale pietà debbano accedere allo studio di esse come ad un arsenale (veluti armamentarium)»2. Se ora le vecchie “armi” vengono eliminate dall’uso, con quali sostituir- le? Ed ecco farsi avanti una nuova tecnologia, la Formgeschichtlichemethode, già pronta da tempo per la loro sostituzione, ma al prezzo altissimo della «storicità» dei racconti. La «Pontificia Commissione Biblica» riuscì ad ab- bassarne il prezzo con una strategica «Instructio» (Sancta Mater Ecclesia) sulla «verità storica» dei Vangeli, che il Concilio Ecumenico Vaticano II fece sua3. La massiccia ondata, tuttavia, che veniva dai lontani inizi del secolo, aveva ormai superato gli argini, e i mezzi di comunicazione – libri, riviste, professori – si «aggiornarono». Il documento su: L’interpretazione della Bib- bia nella Chiesa documenta con un lungo elenco di “metodi” e di “approcci” la difficoltà di orientamento nella navigazione. Me ne sono occupato nella nostra rivista «Path»4.

2 Leo XIII, Enc. Providentissimus, 18 novembre 1893. 3 Cf. Concilio Vaticano II, Dei Verbum (DV), n. 19. 4 T. Stramare, Metodi biblici tra il sì e il ma. Quale nuova metodologia?, in «Path» 6 (2/2007) 305-333. Vita Academiæ 217

2. Partire da Gesù Evidentemente l’argine andava costruito più a monte, dove si erano for- mate «le due fonti della rivelazione». Il Concilio lo aveva ben compreso af- frontando lo schema del «De fontibus revelationis» e rendendosi conto che l’accento non andava posto tanto sulle «fonti» quanto sulla «rivelazione» in se stessa, come appare dal titolo della Costituzione dogmatica (De divina revelatione) e da quello del cap. I (De ipsa revelatione). La stessa parola «fon- te» è scrupolosamente evitata5! Chi manovrò il timone nella giusta rotta fu Paolo VI, che nel discorso di apertura della seconda sessione, il 29 settembre 1963, rivolgeva ai Padri Conciliari le seguenti parole:

«Donde parte il nostro cammino, o fratelli? Quale via intende percorrere, se piuttosto che alle indicazioni pratiche testé ricordate noi poniamo attenzione alle norme divine a cui deve obbedire? E quale meta, o fratelli, vorrà porsi il nostro itinerario, da segnarsi, sì, sul piano della storia terrena nel tempo e nel modo di questa nostra vita presente, ma da orientarsi al traguardo finale e supremo che sappiamo non dover mancare al termine del nostro pellegri- naggio? Queste tre domande, semplicissime e capitali, hanno, ben lo sap- piamo, una sola risposta, che qui, in questa stessa ora, dobbiamo a noi stessi proclamare ed al mondo che ci circonda annunziare: Cristo! Cristo, nostro principio, Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine».

Nel discorso che lo stesso Paolo VI tenne a Manila, il 6 novembre 1970, egli affermava:

«Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo. Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito di ogni creatura. È il fondamento di ogni cosa. Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama… Io non finirei più di parlare di lui…».

Insomma, Paolo VI ha fatto capire chiaramente che il «vangelo», che la Chiesa deve annunciare al mondo, è la persona di Gesù, l’«unica fonte origi- naria», la «rivelazione». Di questa persona si potrà scrivere e parlare, ma né lo scritto né la parola possono trasformarsi in «fonte». È successo, invece,

5 “Scomparsa” dal documento, ma non dalla mentalità, che continua a essere quella di prima, anche se negato a parole. 218 Vita Academiæ che l’uso, già presente nel II secolo, attestato almeno con san Giustino6, di designare con il termine «evangelo» il documento scritto, il libro, ha distolto l’attenzione dal significato che gli attribuiva la letteratura apostolica, nella quale i termini «evangelo di Dio» e «parola di Dio» si riferiscono espressa- mente a Gesù7. L’equivoco emergeva chiaramente, negli anni Settanta, nel pullulare di libri che trattavano dell’«efficacia della Parola», intesa come «sacra Scrit- tura», e anche come «predicazione». Ci fu anche chi mise in circolazione il termine «sacramentale». Quanti sono ancora oggi coloro che interpretano l’incipit della Costituzione Dei Verbum in relazione alla sacra Scrittura, non rendendosi conto che Dei Verbum designa invece la persona di Gesù Cri- sto, che «il Sacrosanto Concilio ascolta “religiose” e proclama “fidenter”»? Come sarebbe vantaggioso per tutti chiamare la sacra Scrittura con il suo nome, come diciamo «Biblia sacra», togliendo ogni equivoco? Evidentemente «Scrittura» e «Tradizione» hanno un ruolo nella rivela- zione, ma non sono la «rivelazione», espressione che si addice soprattutto a Gesù, pienezza della rivelazione (cf. DV 3.7). Egli è, infatti, la rivelazione del Padre perché ne è il Figlio (Gv 17,4.8; 14,9; 12,44) e perché in sé ci rende figli di Dio. Di qui l’insistenza di Giovanni di «credere nel Figlio» per cono- scere il Padre (10,14; 16,27.30; 11,42…). Gesù è simultaneamente rivelatore del mistero e il mistero stesso in per- sona (Gv 14,6; 2Cor 4,4ss.; Ef 1,3-14; Col 1,26s.; 1Tm 3,16). Siamo qui in presenza di un altro termine, quello di «mistero», che ha bisogno di essere determinato meglio sia nel suo contenuto sia in relazione al termine «sacra- mento», spesso in concorrenza8. Sta di fatto che il «mistero» è fondamenta- le nella definizione della «struttura della rivelazione», che ne dà il Concilio. Ecco il testo:

«Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2).

6 Giustino, I Apologia 66,3: PG 6,429 A; cf. Didachè 8,2; 11,3; 15.3.4. 7 Ho trattato ampiamente questi problemi in T. Stramare, La teologia della divina rivelazione, Portalupi Editore, Casale M. 2000. 8 Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 11 ottobre 1992 (CCC), n. 774 (LEV, Città del Vaticano 19972). Vita Academiæ 219

3. L’economia della rivelazione Mi sono lungamente soffermato nei miei studi su questa definizione della rivelazione, trascurata dai commentatori. Nei trattati teologici pre- conciliari, fortemente influenzati dal Vaticano I e seguendo le esigenze del momento, veniva sottolineato soprattutto l’aspetto della «manifestazione» di Dio, ossia delle verità che riguardano la sua natura e la sua volontà circa la salvezza degli uomini; da parte sua, il Vaticano II completa questa visio- ne soffermandosi maggiormente sull’aspetto della «comunicazione» di Dio stesso agli uomini9. Di qui avrebbe dovuto logicamente scaturire un interes- se maggiore per la «storicità» di questa comunicazione, avvenuta appunto attraverso la «storia della salvezza». I fatti e le parole costituiscono, appunto, «la storia della salvezza». Si tratta di fatti storici riguardanti il popolo di Dio, Israele, interpretati dalle parole dei profeti, i quali ne hanno rivelato il significato soprannaturale nella linea di un preciso progetto di Dio. Tali fatti raggiungono il loro vertice e compimento, nella «pienezza dei tempi», con la presenza storica di Gesù, il quale con la sua parola rivela la propria identità divina, il significato delle sue azioni e lo scopo della sua missione per noi uomini e per la nostra salvezza. Gesù «è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione» (DV 2); «Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4)» (DV 4). Il mistero della presenza di Gesù si inserisce nella stessa struttura della rivelazione dell’Antico Testa- mento, fatti e parole: «Cristo stabilì il regno di Dio sulla terra, manifestò con fatti e parole il Padre suo e se stesso» (DV 17). La differenza essenziale tra l’Antico e il Nuovo Testamento è costituita appunto dal «mistero», solamente preparato e preannunciato dell’Antico Testamento, attuato nel Nuovo. L’Antico Testamento. aveva come scopo di ammaestrare il popolo di Dio «a riconoscere l’unico Dio, vivo e vero, come provvido Padre e giusto Giudice, ad attendere il Salvatore promesso» (DV 3) e così preparare lungo i secoli la via all’evangelo.

9 Considerando bene le cose, si tratta non tanto di superamento quanto piuttosto di accentuazioni. Anche il Vaticano I, citato nella DV 6, precisava che la manifestazione dei de- creti eterni era finalizzata a «rendere gli uomini partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione della mente umana». 220 Vita Academiæ

«L’economia dell’Antico Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunciare profeticamente (cf. Lc 24,44; Gv 5,39; 1Pt 1,10) e a significare con diversi tipi (cf. 1Cor 10,11) l’avvento di Cristo redentore dell’universo e del regno messianico» (DV 15).

Nella storia della salvezza «i fatti e le parole» sono inscindibili, come af- ferma la Dei Verbum: «Eventi e parole intimamente (intrinsece) connessi» (n. 2). Non può essere altrimenti. Poiché i «fatti» sono per loro natura «storici», il loro significato «trascendente» può essere conosciuto solo per rivelazione, ossia attraverso la «parola profetica». È di questa specifica «parola di Dio» che qui si tratta10. L’“intreccio” tra i fatti e le parole è necessario ed è costitutivo della «storia della salvezza». Un esegeta «cristiano», non dico «cattolico», non può prescindere dalla «natura» di questa storia «singolare», alla quale, con- seguentemente, non sono applicabili i metodi della «storia profana». Me ne sono interessato, studiando «la divisione dei libri canonici presso gli ebrei e presso i cristiani», la quale rispecchia due modi completamente diversi di vedere le cose. Seguendo il test della ragionevolezza, concludevo: «Gli autori della suddivisione ebraica non comprenderebbero l’ipotesi di un “Esateuco” e non sarebbero minimamente interessati alla nostra ri- cerca delle “fonti” e alla costruzione delle nostre “storie” delle forme, della tradizione e delle redazione, con tutto il rispetto per la loro scientificità»11.

4. La teologia del mistero Il discorso diventa più stringente nella misura in cui ci avviciniamo al terzo elemento della struttura della rivelazione, ossia il «mistero» contenuto nei fatti. Questi assumono un valore tanto più assoluto quanto più sono in stretto rapporto con il «mistero» dell’incarnazione, fondamento della re- denzione. Metodi e approcci debbono fare bene i conti con la «storicità» dei fatti, perché è in essi che il «mistero» è contenuto. Affermare che il cri- stianesimo è una religione storica equivale a dire che senza la storia non c’è

10 Questa precisazione è importante per interpretare correttamente la DV: «Le sacre Scritture contengono la parola di Dio (verbum Dei continent) e, perché ispirate, sono vera- mente parola di Dio (verbum Dei sunt)» (DV 24). Il «continent» si riferisce al «verbum Dei» da intendere come «parola profetica», teologicamente diversa dalla «parola ispirata». 11 Cf. Stramare, Metodi biblici, cit., pp. 310-320. Vita Academiæ 221 mistero. Eliminare la storia equivale a segare il ramo sul quale si è seduti. Eppure quanto uso del midrash e del teologumeno! Poiché il «mistero» è il rapporto di filiazione che s’instaura tra Dio e gli uomini attraverso l’incarnazione del Verbo-Figlio, tale rapporto si “dissolve” nella misura in cui viene ridotta la «realtà» della carne di Gesù (cf. 1Gv 4,3). Le parole senza i fatti si trasformano facilmente in gnosi; i fatti senza il mi- stero sono un puro storicismo. Ebbene, tutta la vita di Cristo è rivelazione del Padre; tutta la vita di Cri- sto è mistero di redenzione; tutta la vita di Cristo è mistero di ricapitolazione (cf. CCC 516-518). È proprio il Catechismo della Chiesa Cattolica ad affermare con estrema chiarezza che tutta la vita di Cristo, ossia tutta la realtà dell’incar- nazione, è salvifica. Poiché, dunque, la vita di Cristo non comincia al momento del battesimo al Giordano, ma al momento del consenso di Maria all’annuncio dell’angelo, non solo è esegeticamente arbitrario separare «i cosiddetti Vangeli dell’infanzia di Gesù» (Mt e Lc I-II) dal resto del Vangelo, confinandoli in generi letterari non storici, ma è anche gravemente lesivo dell’incarnazione stessa, alla quale amputa il suo stesso inizio (il concepimento!) e tutti i misteri della vita nascosta di Gesù, celebrati nella liturgia12. Ne ho preso progressiva- mente coscienza studiando la teologia di san Giuseppe, legata ai misteri della vita nascosta di Gesù, dei quali è stato «ministro»13. Con la liturgia entriamo in un altro settore vitale della rivelazione, quel- lo della «Tradizione»14. È stata proprio la liturgia a farmi scoprire il «miste- ro» contenuto nei fatti. Poiché i Vangeli sono la testimonianza scritta della predicazione apostolica (DV 18), la quale ha come oggetto «i misteri della vita di Cristo»15, mi è sembrato logico cercarne la chiave di lettura proprio là dove l’annuncio viene attuato (cf. SC 6), ossia nella liturgia. È chiaro, infatti, che di fronte a un documento la sua migliore chiave interpretativa è la real- tà stessa alla quale esso si riferisce, qualora questa sia disponibile. Ebbene,

12 Cf. T. Stramare, Vangelo dei misteri della vita nascosta di Gesù (Matteo e Luca I-II), Casa Editrice Sardini, Bornato (BS) 1998. 13 «San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tale modo egli coopera nella pie- nezza dei tempi al grande mistero della redenzione ed è veramente “ministro della salvezza”»: Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Redemptoris custos, 15 agosto 1989, n. 8. 14 Cf. La trasmissione della rivelazione e la mensa della parola di Dio e del corpo di Cristo, in Stramare, La teologia della divina rivelazione, cit., pp. 97-127 e 179-202. 15 Concilio Vaticano II, Sacrosanctum concilium (SC), n. 6. 222 Vita Academiæ poiché la Chiesa possiede e vive questa realtà, testimoniata dagli Evangeli, è da questa – la liturgia – che occorre logicamente muoversi per accostare proficuamente il documento.

5. Il ruolo della sacra Scrittura Siamo finalmente arrivati alla sacra Scrittura, la quale nonostante sia al centro dell’attenzione di tutti i cristiani, cattolici e no, non si trova neppur nominata tra gli elementi dell’«economia della rivelazione» (SC 2). Come mai questo silenzio, che tuttavia, “di fatto” non significa esclusione? Eviden- temente si pone qui la domanda circa “il ruolo” che la sacra Scrittura occupa “di fatto” nella «rivelazione». È da questa domanda che è partita la mia annosa ricerca, sempre più convinto che la determinazione del suo “ruolo” sia determinante per il suo “appropriato” uso, come richiedeva già Pio XII, nel 1943, nella sua Lettera Divino afflante Spiritu16. Se da una parte la Chiesa afferma di «aver sempre considerato e consi- dera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede» (DV 21), da un’altra parte non ha mai mancato di rivendicare a se stessa i diritti che le competono circa la sua corretta interpretazione17. Di qui sorge inevitabile la domanda: «La Chiesa è sotto o sopra le Scritture?», la cui risposta trova cattolici e protestanti su sponde opposte. I “distinguo” sono d’obbligo. Se partiamo dalla parola «scritta», la sua esigenza – a livello di rivelazione – non sarebbe assoluta, essendo sufficiente a tale scopo il ministero dei profeti “oratori”. La sua appartenenza alla rivelazione diventa, invece, più comprensi- bile attraverso l’analogia con le strutture della società civile, dove l’autenticità di un individuo è in stretta correlazione con il proprio documento d’identità,

16 «I sacerdoti… illustrino (la dottrina cristiana) con acconci esempi tratti dalla storia sacra e specialmente dal Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo; e tutto questo schivando con attenta cura quei sensi accomodatizi, escogitati da privata fantasia e stiracchiati da molto lon- tano, sensi che sono un abuso, anziché l’uso della divina parola»: Pio XII, Lettera Enciclica Divino afflante Spiritu, 30 settembre 1943, n. 22; cf. n. 12. 17 «Quanto è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio» (DV 12). Cf. Concilio Vaticano I, Constitutione dogmatica Dei Filius de fide catholica, 24 aprile 1870, cap. 2 de revelatione, in H. Denziger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. Edizione bilingue a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna1995, 1788 (3007). Vita Academiæ 223 allo stesso modo che la validità e i vincoli di un contratto sono intimamente correlati all’istrumento, ossia all’atto pubblico redatto dal notaio. Ebbene, nella struttura della rivelazione, articolata in «mistero» e «segno», la sacra Scrittura occupa il suo ruolo nel «segno», dove agisce come documento in relazione all’avvenimento, costituito appunto dai fatti storici e dalle parole profetiche. La verità dell’avvenimento viene “giuridicamente” garantita appun- to dal documento, la cui “autorità” gli deriva dalla qualità, che i credenti gli riconoscono, di essere un testo ispirato, ossia di avere Dio come autore. Se riflettiamo, inoltre, sulla circostanza che l’intervento storico di Dio si è realizzato nella forma giuridica di due alleanze (antica e nuova), sarà più facile capire e accettare il ruolo fondamentale del documento scritto nella struttura della rivelazione. Gli studi sul genere letterario del «patto» hanno dimostrato che già nel secondo millennio a.C. esisteva nel vicino Oriente uno schema letterario fisso di alleanza internazionale tra sovrano e vassallo. Il «patto» comprendeva un prologo storico, le clausole, la deposizione di una copia nel tempio, i testimoni, i vantaggi e le sanzioni, il giuramento e il sacrificio. Agli studiosi non è sfuggita l’affinità di forma e di struttura tra queste alleanze e l’alleanza biblica (cf. Es 19-24. 34; Lv 26). Da notare è il particolare della collocazione del libro della legge a fianco dell’Arca dell’alleanza del Signore «come testimonianza» (Dt 31,26; cf. 1Sm 10,25; Es 25,16.21;40,20; Eb 9,4), ossia come «documento» dell’avvenimen- to. L’arca viene denominata «arca delle testimonianze» (Es 25,22; cf. 26,33s.) o anche solo «testimonianza» (Nm 17,19.25). La tavole sono definite «della testimonianza» (Es 31,18) o semplicemente «testimonianza» (25,16). Di qui l’appellativo «arca dell’alleanza» (Nm 10,33; 14,44; Dt 10,8;31,9). Anche al tempo di Neemia, volendosi sancire un impegno stabile, fu stilato un docu- mento scritto (cf. Ne 10,1). La considerazione di questi fatti e la costatazione del valore normativo goduto dalla sacra Scrittura presso il popolo di Dio di tutti i tempi ci indu- cono a considerare la «storia della salvezza» (= sacra Scrittura) come l’istru- mento della «storia della salvezza» (= avvenimento). Ebbene, proprio questo riconoscimento dell’intimo legame esistente tra «documento» e «alleanza» assicura alla sacra Scrittura una funzione insostituibile e perenne nella strut- tura dell’economia della rivelazione. In sostanza, la Sacra Scrittura documenta i diversi volti della «legge del Signore» (cf. Sal 19,8-15), con le sue promesse e sanzioni, proclamata nel 224 Vita Academiæ

Pentateuco, applicata nella storia, interpretata dai profeti, meditata dai saggi, adempiuta da Cristo e resa vivificante dallo Spirito Santo. Questa valutazione dello “scritto” in rapporto all’alleanza non è, inol- tre, estranea alle voci «diathéche» (LXX) e «testamentum» (Vulgata), usate per tradurre l’ebraico Berit («alleanza»), le quali vennero a indicare la colle- zione dei documenti che si riferiscono appunto all’«antica» e alla «nuova» alleanza. Si comprende bene in questa luce il valore della voce «instrumen- tum» usata dai Padri latini. La Chiesa ha sempre dimostrato grande attenzione verso questo «instru- mentum». Si pensi all’impegno del Concilio di Trento per fissare il Canone delle Scritture e per il riconoscimento dell’autenticità della «Vulgata». Il Concilio Va- ticano II non è stato da meno, affrontando la radicale revisione del testo, oggi la «Nova Vulgata», che potrebbe essere denominata «Biblia Paulina», a onore di Paolo VI, il quale ha tutti i titoli per esserne considerato l’artefice. Da parte mia, ho avuto il privilegio di essere stato inserito nella Pontificia Commissione per la Neo-Volgata fin dal 1973, conservando tuttora l’incarico da parte della Santa Sede per tutte le edizioni della Nova-Vulgata18. In questa “impresa” ho potuto esperimentare che cosa sia veramente un «instrumentum», nel quale critica te- stuale ed ermeneutica sono in moto perpetuo. Si pensi all’enigma dello stesso nome di Dio, oggi “risolto” con un nudo tetragramma, ma più ermetico del «de cuius» degli atti notarili. Che dire, ad esempio, delle così importanti clausole matteane sul divorzio, riguardanti la «fornicazione»19? Poiché non c’è versetto della Bibbia che non sia soggetto a differenti interpretazioni, emerge allora chiaramente l’esigenza di una «regola prossi- ma» della fede, ossia della Chiesa, dalla quale, nella quale e per la quale «il documento» è nato e alla quale appartiene (cf. DV 10). A questo punto considero concluse le mie riflessioni sul tema conciliare riguardante «l’economia della rivelazione» secondo la Dei Verbum (n. 2). Sono contento che mi abbiate dato l’occasione per farvene parte. Grazie.

Tarcisio Stramare

18 Cf. T. Stramare (ed.), La Bibbia «Vulgata» dalle origini ai nostri giorni. Atti del Sim- posio Internazionale in onore di Sisto V, Grottammare, 29-31 agosto 1985, LEV, Città del Va- ticano 1987. 19 T. Stramare, L’indissolubilità del matrimonio. Ammette qualche eccezione?, in Id., Scrutate le Scritture, Sardini Editore, Bornato (BS) 2006, pp. 7-50. Vita Academiæ 225

Emeritato del Prof. Mons. Marcello Bordoni Laudatio: «Il contributo di Marcello Bordoni “teologo romano” alla teologia sistematica» L’occasione dell’80o genetliaco, con il conferimento dell’emeritato a Mons. Marcello Bordoni, primo Presidente della Pontificia Accademia Te- ologica, permette di ripercorrere, seppur brevemente, il suo percorso teo- logico-ecclesiale. Se di laudatio si tratta – dal momento che questo genere letterario è piuttosto lontano dalla connaturale ristrosia del nostro festeggia- to – essa è piuttosto rivolta al Signore che non ha fatto mancare i suoi doni a edificazione della comunità ecclesiale, in questo caso soprattutto attraverso la forma dell’intelligenza della fede. L’itinerario teologico di Mons. Bordoni si colloca nella temperie storica del Concilio Vaticano II e della sua ricezione. Egli è stato formato ancora se- condo la tipologia del prete tridentino e intellettualmente attraverso i criteri della teologia neo-scolastica. Ha unito, fin dall’inizio, la duplice esigenza di essere pastore e teologo, perché il lavoro teologico fosse al servizio della co- municazione della fede e trovasse nella comunità ecclesiale il suo habitat più naturale. Tutto questo non è certo avvenuto teoricamente, ma in un’espe- rienza singolare dove lavoro pastorale e ricerca scientifica hanno convissuto insieme, e dove questo binomio ha dato respiro alla sua futura produzione, evidenziando quel carattere di pastoralità che traspare in tutte le sue opere fino ad oggi. Scientificità ed ecclesialità della teologia si sono, in Don Marcel- lo, felicemente armonizzate fino a costituire due poli attorno a cui ha ruotato il suo impegno di ricerca e di docenza. La comunità ecclesiale ha rappresentato per lui il punto di partenza, il grembo e il fine dell’investigazione teologica. Non si è trattato di un legame astratto, ma di un rapporto storicamente collocato in una Chiesa, quella di Roma, che nel dopoguerra era alla ricerca di un nuovo impulso missionario e viveva nello sforzo di un rinnovamento che, solo nel Vaticano II e nella conseguente ricezione, ha trovato il suo naturale compimento. Mons. Bor- doni ha vissuto nella sua esperienza di pastore e di teologo tutto questo, in un intreccio di legami e persone che hanno inciso profondamente su di lui. Si era guadagnato la stima di Paolo VI (sostenitore dell’opera di sua sorel- la, la Serva di Dio, Maria Caterina Bordoni) il quale nella visita pastorale alla Parrocchia di Sant’Eusebio all’Esquilino nel 1967 lo presentò e dichia- rò pubblicamente nuovo parroco, successore dell’anziano Mons. Dottarelli 226 Vita Academiæ figura veneranda del clero romano, prima di ogni procedura formale, così che il Vicariato di Roma, il giorno dopo, lo dispensò da una prassi allora in vigore, quella appunto del “concorso” per diventare parroco! Fu così che Don Marcello fu parroco di Sant’Eusebio fino al 1973 fino a quando, cioè, la nomina a professore di ruolo sulla cattedra di Cristologia della Pontificia Università Lateranense (PUL) rese incompatibile quell’incarico pastorale. Quello del “concorso” a parroco fu forse l’unico scoglio della vita evitato da Don Marcello. Benché alla PUL a quei tempi non vi fossero concorsi a cat- tedra, molti altri “concorsi” avrebbe dovuto sostenere il nostro festeggiato. Ma si è trattato non di “concorsi” dove si compete con altri concorrenti e poi viene proclamato il vincitore; più che altro egli si è trovato ad affrontare vere proprie sfide epocali per la scienza teologica e conseguentemente per la vita di fede. Don Marcello non è mai mancato agli appuntamenti rappresen- tati da quelle esigenze che i tempi nuovi presentavano, mentre ormai ci si trovava nella temperie culturale ed ecclesiale del dopo-Concilio Vaticano II. Vorrei tratteggiare i principali passaggi del percorso del nostro festeg- giato, quegli “appuntamenti” ai quali si è fatto trovare pronto nella sua vo- cazione di teologo e che hanno reso significativa un’opera che ancor oggi noi ammiriamo, la quale potrà ancora illuminare la ricerca futura.

1. Gli anni e le opere della formazione Talvolta è proprio la prima o le prime opere di un autore a rivelare già tutto lo sviluppo del suo itinerario intellettuale. Così è stato anche per Mons. Bordoni. La sua risposta alle sfide epocali, di cui si dirà tra poco e dalle quali si è lasciato profondamente interpellare, è rimasta sempre coerente con quell’ha- bitus mentale nel quale si andava via via formando. Esso va ricercato nel suo interesse per una riflessione attenta e rigorosa riguardo al significato filosofico e teologico del “tempo”. Il titolo della sua tesi dottorale Il tempo. Valore filo- sofico e spazio teologico discussa nel 1963 e pubblicata nella collana «Corona Lateranensis» nel 1965 (quindi in piena celebrazione del Concilio Vaticano II), è significativo al riguardo e tradisce già tutta la propensione speculativa a pensare nell’orizzonte della storicità con una profondità metafisica che gli permetteva di evitare i pericoli sia dello storicismo che del soggettivismo. Bor- doni si collocava subito entro problematiche vive dell’epoca moderna che la riflessione teologica non poteva più rimandare. Ma ciò che è davvero interes- sante sta nel fatto che egli trova risposte incoraggianti in quello che egli chiama Vita Academiæ 227

«lo spazio teologico» della riflessione sul tempo. È la riscoperta della storia della salvezza come dato imprescindibile a illuminare la sua riflessione. Essa viene assunta non come una sovrastruttura imposta dall’esterno, bensì come una risorsa proveniente nel suo più intimo fondamento dall’evento personale dell’incarnazione che trasforma la realtà storica, in una «via di rivelazione» del mistero eterno trinitario. In altre parole, un’istanza tipica della cultura e della filosofia contemporanea, quale quella della storicità e della temporalità, veniva a trovare risposta in un’idea di rivelazione che è il darsi stesso di Dio nella storia, dove il momento culminante è l’ora pasquale che si rende presente attra- verso il tempo della fede e la ripresentazione che avviene nella sacramentalità della Chiesa, quale pienezza dell’ora del Cristo. Questa intuizione primordiale, non sarà più abbandonata dal nostro Teologo, ma rimarrà come sottofondo, allorquando egli, come cantus firmus, la declinerà con le sfide che lo faranno trovare di fronte alle nuove proble- matiche che avanzavano. Appartiene a questo primo momento del percorso di Bordoni anche l’opera Dimensioni antropologiche della morte, pubblicata da Herder nel 1969 e che, di fatto, lo fece conoscere a un pubblico più vasto, al di là dell’ambiente accademico romano. Il confronto con la cultura esistenzialista gli fece assu- mere elementi validi per trattare il problema fondamentale della morte come problema dell’essere umano nella sua unità psico-fisica che non può cedere a dualismi di sorta. Anche qui già si intravedono sviluppi dei dibattiti teologici successivi fino al problema dell’anima, che oggi sembra tornato in auge. Ma in tutto questo si scorge già una possibile risposta, grazie ormai al nuovo modo di comprendere il «valore originario di una storia» che veniva a fondarsi non nella forma ciclica della ripetizione dell’identico, né in una linearità di svilup- po per lo sviluppo, ma in quell’evento cristologico, nel quale la storia e la verità si incontrano nella persona di Cristo. Una visione escatologica, dunque, sta alla base del percorso teologico del nostro festeggiato. L’evento Cristo, compiutosi una volta per sempre nel tempo, si fa memoria presente e reale e si proietta come anticipazione del futuro escatologico.

2. La svolta epocale del Concilio Vaticano II La prima vera e propria sfida di fronte alla quale venne a trovarsi il giovane studioso Don Marcello Bordoni, fu quella della svolta epocale del Vaticano II. Quando il Concilio si chiuse egli aveva 35 anni, un’età privile- 228 Vita Academiæ giata, sotto certi aspetti, perché si ha la capacità critica di valutare ciò che è già stato compiuto e si hanno risorse fresche e vitali per orientarsi verso il futuro. Non è certo questa la sede per trattare della novità del Vaticano II e di ciò che ha rappresentato nella Chiesa del XX secolo, non è però fuori luo- go mostrare come davvero per quanto riguarda il “metodo della teologia”, il Vaticano II abbia significato indubitabilmente una svolta epocale. Il nostro festeggiato si era formato nel contesto della teologia neo-sco- lastica sotto la guida di valenti maestri (per quanto riguarda la dogmatica) come Pietro Parente e Antonio Piolanti e aveva conosciuto lo spirito di quel- la linea che tendeva ad assicurare l’unità e la perennità delle verità di fede e rigettava le istanze del “pensiero storico” che, se assunto acriticamente, poteva conoscere – secondo quella impostazione - la deriva del relativismo e dello storicismo. Dall’altra parte, il Nostro si domandava se non fosse possi- bile percorrere un’altra strada, quella di una storicità che veniva plasmando- si sulla temporalità dell’incarnazione e dell’evento pasquale. È chiaro che questa nuova via sarebbe stata possibile solo in un quadro diverso, e così è stato dal momento che l’evento del Vaticano II ha significato davvero una svolta epocale per il modo di considerare la rivelazione che av- viene in una storia: era giocoforza che si venissero a delineare criteri diversi per cogliere il significato della medesima. Va da sé, che tutto questo doveva implicare un ripensamento e una ristrutturazione del “metodo della teologia dogmatica”, come di fatto subito avvenne attraverso Optatam totius (OT), n. 16. Non fu un passaggio semplice e forse la distanza che ci separa da quei tempi non riesce del tutto a rendere ragione di quello che è stato, come ha affermato spesso Bordoni, un vero e proprio travaglio. Egli lo ha descritto anche come esperienza personale allorquando nel 2000 tenne la lezione di congedo: Il travaglio di un teologo nel passaggio epocale dal Concilio Vati- cano II al Terzo Millennio in quella Facoltà di Teologia della PUL dove ha insegnato tutta la vita. La lettura di quel testo, che viene ora pubblicato nel volume: Christus omnium Redemptor. Saggi di cristologia20 nella collana «Iti- neraria» della Pontificia Accademia di Teologia, renderà meglio ragione di questo passaggio dove il protagonista confessa i suoi “disagi”, sia rispetto al modello precedente, ma qualche volta anche in certe applicazioni del meto- do “genetico-progressivo” proposto da OT 16 e diventato regola imprescin-

20 M. Bordoni, Christus omnium Redemptor. Saggi di cristologia, LEV, Città del Vati- cano 2010. Vita Academiæ 229 dibile per il rinnovamento degli studi teologici. Accenno qui per brevità non tanto ai disagi verso il passato, facilmente intuibili, ma a qualche «incertez- za» – come egli la chiama – del nuovo metodo, rimandando, per completez- za, al testo in questione. Si trattava della difficoltà a trovare, applicando OT 16, un criterio unitario, una specifica forma mentis che non poteva soltanto illustrare in una successione quasi meccanica, il dato biblico, patristico, l’in- segnamento dei concili e del Magistero ordinario, fino alla speculazione e alla traduzione del linguaggio della fede nella cultura contemporanea. I vari momenti della novella metodologia non trovavano una coesione sistematica. Le sfide, secondo Bordoni, erano soprattutto due e si attestavano già subito sul terreno dell’approccio biblico e su quello del compito ermeneutico che non è soltanto il momento finale del percorso, ma è già presente nei singoli passaggi. Queste due sfide costituiranno altrettante istanze, la cui positiva impostazione e soluzione, permetterà l’applicarsi di una corretta metodolo- gia teologica; esse accompagneranno la ricerca di Bordoni per tutta la vita, come gradualmente cercherò di mostrare. Accennerò soltanto alla prima, e richiamerò più avanti, nel corso di questa esposizione, la seconda. Si trattava anzitutto di intendere bene il principio egemonico della Scrit- tura che non poteva vantare un predominio su tutto il metodo teologico ignorando il compito della Traditio fidei, nella pluriformità dei luoghi della Tradizione vivente. In altre parole, si doveva chiarificare sempre meglio la dottrina della Dei Verbum (DV) con tutto il resto dell’insegnamento del Va- ticano II e nella fattispecie si doveva approfondire di più il rapporto circolare ermeneutico tra Scrittura e Tradizione. Noti biblisti come il Card. A. Vanho- ye, avevano già denunciato come da qualcuno si era inteso in senso restritti- vo l’insegnamento della DV riguardo al cosiddetto principio egemonico della Scrittura. L’oggetto della DV non sono solo le dichiarazioni riguardanti la sacra Scrittura, bensì tutta la divina rivelazione. E allora la fonte prioritaria della fede e della teologia è la parola di Dio incarnata nell’evento Cristo. Quest’unica fonte di verità, di cui parla DV 7 (riprendendo il Concilio di Trento), che è l’evento dell’Incarnato, parla attraverso due vie: il Verbum Dei scriptum vel traditum (DV 10). Il rapporto tra le due va inteso in senso circolare-ermeneutico, non in senso partitivo di redistribuzione quantitativa. E allora il carattere egemonico della Scrittura va visto nel senso che le Scrit- ture sacre sono il luogo privilegiato della Tradizione dalla quale derivano, ma che non la contengono in modo integrale. La loro “egemonicità” deriva 230 Vita Academiæ dal fatto che esse sono legate all’evento fondatore della fede nel quale vie- ne riconosciuta l’ispirazione dello Spirito Santo. Ma esse da sole sarebbero lettera morta, se non fossero animate dalla corrente viva della Tradizione21.

3. La sfida della «storia» di Gesù di Nazaret e un nuovo modo di fare cristologia sistematica Se si è indugiato su ciò che ha comportato l’ingresso della nuova meto- dologia e in particolare l’esatta interpretazione della DV, è per le conseguenze che tutto questo ha avuto per il lavoro dello studioso di cristologia e più vicino a noi, per comprendere la criteriologia adottata da Bordoni nel redigere il suo capolavoro: i tre volumi su Gesù di Nazaret, Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica22 pubblicati tra il 1982 e il 1986. Il nostro autore ha chia- rito nel suo bilancio – più sopra ricordato – l’atteggiamento del “sistematico” nell’approccio alla Scrittura che è non solo quello di comprendere dal punto di vista critico ed esegetico il testo scritto, infatti l’approccio al testo scritto non è solo un momento previo alla lettura di fede, ma è già una lettura di fede. Quest’ultima non maggiora o inventa i significati, ma permette, con la sua luce, di trovare sensi inediti che altrimenti potrebbero smarrirsi23. Alla luce di questo principio, si può meglio comprendere – a distanza di anni – tutto il valore di quel lavoro fondamentale il quale, è bene ribadirlo, è stato la risposta a uno di quegli appuntamenti ai quali Don Marcello non è mancato. Di quale sfida si è trattato? E come ha risposto? Il contesto di allora era quello di puntare tutto sulla «storia» di Gesù di Nazaret, valorizzando i

21 La tradizione è esigita per completare il «circolo ermeneutico» della trasmissione della divina rivelazione. La Tradizione nel suo momento fondante (evento cristologico-apo- stolico) è costititiva del parlare di Dio agli uomini (Verbum Dei) dove anche gli esseri umani hanno il ruolo attivo di rendere possibile il parlare stesso di Dio in Gesù Cristo. Essa tuttavia, più propriamente, ha il compito di trasmettere integralmente il Verbum Dei, più che di essere locutio Dei. Si tratta insomma di interpretare nel modo più corretto DV 9! 22 M. Bordoni, Gesù di Nazaret, Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica. I Pro- blemi di metodo. II. Gesù al fondamento della cristologia. III. Il Cristo annunciato dalla Chiesa, Herder-PUL, Roma 1982-1986. 23 M. Bordoni, Gesù di Nazaret. Memoria, presenza, attesa, Queriniana, Brescia 1988, p. 24: «Le dichiarazioni della Scrittura sono come le finestre attraverso le quali la Chiesa spinge i suoi sguardi verso gli orizzonti sempre più ampi della verità divina rivelata in Gesù Cristo e per questo essa, la Chiesa, è in grado di raggiungere molte più cose della Scrittura, di quanto non ne possa fare una semplice analisi filologica e di logica formale del testo». Vita Academiæ 231 migliori risultati della «Seconda Ricerca» sul Gesù storico che anche il mondo cattolico cercava di acquisire. La sfida però – raccolta da Bordoni – verteva sul ruolo della fede credente nell’attingimento del Gesù della storia. Infatti gli in- successi incorsi ai tentativi di una ricerca verso un Gesù senza la fede credente della Chiesa, si sono risolti, alla fine, in una negazione della stessa dimensione di storicità riguardo a Gesù, per farne un figura alquanto ridotta quando non addirittura mitologica. Neppure era accettabile la strada opposta, quella di un kerigmaticismo che si sbilanciava verso una Chiesa che assorbiva nella pura fede, la realtà di Gesù di Nazaret, perdendo ogni contatto normativo con il Gesù terreno e con l’evento definitivo della sua rivelazione. Insomma, né fideismo né storicismo, ma equilibrio tra storia e fede per- seguito sotto il profilo metodologico e praticato nell’amplissima ricostruzione del Gesù della storia (bagnata dalla luce della Pasqua) fino alla cristologia ec- clesiale. Questo è stato il grande merito di Bordoni. Si spiega così l’ampio spa- zio dato alla cristologia pre-pasquale, motivato dall’intento di fondare, sulla storia dell’evento, la vera conoscenza del significato per noi. Storia e fede non corrispondono all’“oggettivo pre-pasquale” e al “soggettivo post-pasquale”: sono due realtà coestensive che insieme formano un’unica norma di fede. Vi è continuità e differenza tra la fede pasquale nel Cristo e la sua genesi nell’even- to storico Gesù di Nazaret. Questa benefica tensione salvaguarda il cristianesi- mo, da una parte, dal rischio gravissimo di sottrarsi allo spessore di un evento alla nostra portata e perciò fuori della storia e inoltre, dall’altra parte, tutela la fede cristiana dal pericolo di cadere in un sistema di idee vicine alla gnosi. Di questo equilibrio in un’opera così originale, come quella di Bordoni, se ne avvidero subito colleghi e allievi e quella prospettiva “storica” fu guar- data con grande interesse. Il protagonista, il nostro festeggiato, ne rimase un po’ sorpreso, ma senza scomporsi più di tanto. Ricordo distintamente un aneddoto, il cui racconto, penso non tolga nulla alla solennità del gesto che stiamo compiendo quest’oggi. Quando si pensò di fare la presentazione, in due momenti: ai primi due volumi e poi al terzo (duemila pagine in tutto!), Don Marcello non si mostrò favorevole, e con quella cadenza simpatica- mente romana del suo accento che risalta in momenti più distensivi, disse al promotore: «Ma lassa perde, quanno se presentano li libbri, se dicono tante buscie…». E invece non disse bugie il Prof. Mons. Romano Penna quando vedeva, soprattutto nei primi due volumi, una riconciliazione tra esegesi e dogmatica, proprio nella ricostruzione della figura di Gesù. Egli evocava il 232 Vita Academiæ superamento di un’immagine attribuita a K. Rahner: poiché in quegli anni tra studiosi di Bibbia e dogmatici regnava una certa sconnessione, il teologo tedesco intravedeva perdente quest’ultimo, il dogmatico, come colui che si fa reggere la scala dall’esegeta, nell’affrescare la propria opera. E invece Bor- doni – proseguiva Penna – la scala se la regge da solo e bene! Non disse bu- gie l’allora Prof. Don Angelo Amato, quando fece risaltare dell’opera di Bor- doni (soprattutto nel terzo volume) il diverso rapporto che si veniva a creare con la tradizione vivente nella percezione della storia stessa di Gesù. Anzi, il comprendere ermeneuticamente in chiave escatologica la cristologia, avreb- be condotto a riscoprire in modo diverso l’incarnazione. E di fatto è proprio così: quando si parte dalla Pasqua come evento soteriologico-escatologico che anticipa e guarda avanti verso l’evento parusiaco, il discorso sull’essere della persona di Gesù Cristo risulta più dinamico e consente di affrontare il tema dell’incarnazione non in modo deduttivo, potendo così risalire fino alle altezze della preesistenza. Anche il terzo relatore, il compianto Mons. Luigi Sartori di Padova, colse nel segno quando sostenne che la cristologia di Bordoni era importante anche per come veniva affrontata l’ermeneutica della rilevanza dell’evento cristologico24. Infatti uno dei punti di forza della cristologia di Bordoni sta proprio nell’espletare il compito ermeneutico che non è solo alla fine, ma che caratterizza tutto lo spessore della Tradizione di fede, rispetto ai metodi dell’esegesi biblica e patristica, della dogmati- ca, al fine di trasmettere l’assolutezza della verità rivelata nel processo del cammino della storia, nell’avvicendamento delle culture, per renderle più disposte all’annuncio del Vangelo25. Mons. Sartori, rendendosi conto della novità dell’opera in questione, si rammaricava – durante quella presentazio- ne nel 1987 – che Bordoni non avesse alle spalle una famiglia religiosa, un movimento o qualche associazione e neppure una forte rete editoriale per la diffusione di simile opera, però – e fu buon profeta – riteneva che si sarebbe trattato di una ricezione più interiore, metodica e con frutti che si sarebbero

24 Il «circolo ermeneutico», nella prospettiva di Bordoni, muove dal contesto presente (che appella a una domanda di salvezza futura) per trovare la risposta nell’evento della Pa- squa (che spinge a un’ermeneutica delle origini di Gesù), per poi illustrare, del medesimo evento, le dimensioni cristologiche e trinitarie, fino a evolvere le conseguenze di tutto questo in prospettiva ecclesiale e antropologica, sempre secondo una connotazione fortemente sto- rica e soteriologico-escatologica. 25 Cf. M. Bordoni, Dal Concilio Vaticano II al Terzo Millennio: il travaglio di un teologo, in Id, Christus omnium Redemptor, cit., p. 21. Vita Academiæ 233 visti in tempi lunghi. Di fatto così è stato, anche senza sponsor speciali e fino ad oggi, almeno in Italia, la cristologia di Bordoni resta senz’altro insuperata quanto al suo modo articolato di procedere26.

4. L’avanzare dell’istanza pneumatologica A un altro appuntamento Don Marcello non è mancato, ed è quello dell’imporsi dell’istanza pneumatologica in teologia, oltre che nella vita della Chiesa. Per certi versi la ricaduta in cristologia della riscoperta della pneuma- tologia poteva sembrare scontata e la sua impostazione storico-escatologica ne era già foriera. Ma non si è trattato, per lui, semplicemente di estendere la sua riflessione allargandone il campo visivo, quasi un aggiornamento di ciò che già si stava acquisendo in cristologia, bensì dell’intercettazione di una nuova e feconda prospettiva che andava emergendo già da tempo e che l’evento e le conseguenze della dottrina del Vaticano II avrebbero portato alla ribalta. Le parole profetiche del Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et vivificantem (n. 2), nell’interpretare il passaggio epocale dal XX secolo al III millennio, fornivano il giusto orientamento di una nuova istanza che lo stesso Pontefice non esitava a chiamare «una nuova scoperta di Dio nel- la sua trascendente realtà dello Spirito». Questo nuovo avvento dello Spirito non auspicava però la venuta di un’“era religiosa” che sarebbe accaduta oltre l’evento di Gesù Cristo, così da emarginare il valore unico e irrepetibile dell’in- carnazione e della sua mediazione. L’attrezzatura di cui Bordoni disponeva per affrontare le nuove problematiche che venivano a presentarsi, come le nuove forme di religiosità universali, era delle migliori e la più adatta a chiarire alcuni nodi irrisolti, come quando, in passato, si invocava un’età dello Spirito, ma ol- tre il Cristo, dove avrebbe trionfato una religiosità più autentica, attraverso una comprensione pneumatica della Scrittura, in una Chiesa dello Spirito che però non doveva avere niente di istituzionale. Il libro del nostro festeggiato: La cri- stologia nell’orizzonte dello Spirito27 ha rappresentato un notevole contributo, perché ha saputo vedere la cristologia nella riflessione globale sullo Spirito San- to, a tutto tondo, e non solo specificamente nella persona e nell’opera di Gesù. Non solo quindi «l’evento di Cristo come atto dello Spirito Santo», secondo la

26 Cf. il parere di G. Ruggeri, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alte- rità, Carocci, Roma 2007, p. 188. 27 M. Bordoni, La cristologia nell’orizzonte dello Spirito, Queriniana, Brescia 1995. 234 Vita Academiæ formula, per altro indovinata, di H. Muhlen, ma una cristologia dove lo Spirito rappresenta l’orizzonte primordiale dell’esperienza cristiana. I vantaggi per la cristologia si sono riscontrati immediatamente, infatti è stata rimessa in onore una dimensione un po’ dimenticata (per lo meno nella teologia occidentale), vale a dire la fondazione pneumatologica, e perciò esperienziale, della teologia in genere e della cristologia in specie. È dalla e per l’esperienza di Cristo nello Spirito che si può poi riflettere a livello sistematico sul mistero trinitario. In- somma, Bordoni non ha mancato l’appuntamennto neanche questa volta: si trattava di radicare più organicamente la riflessione teologico-cristologica sullo Spirito nell’esperienza di fede, onorando per l’appunto questa categoria che non aveva più diritto di cittadinanza in teologia e che veniva sospinta caso mai nella spiritualità o nella mistica, ma senza nessun legame con la dogmatica. In questo senso soprattutto la prima parte dell’opera, appena richiamata, resterà d’attualità e orienterà la riflessione teologica per molto tempo ancora.

5. L’unicità salvifica di Cristo e la «quaestio de veritate» Proprio una tale impostazione ha permesso subito a Mons. Bordoni, di trovarsi pronto di fronte a un’altra sfida che ha impegnato la teologia e la Chiesa e ha avuto il suo punto più espressivo tra gli anni ’90 e l’inizio del terzo millennio: alludo alla sfida del pluralismo religioso, non solo come dibattitto ad intra della teologia cattolica, ma anche nel confronto effettivo con le religioni istituzionali e le nuove religiosità mondiali. Proprio l’impo- stazione pneumatologica, relazionata in modo più dinamico alla centralità del mistero dell’Incarnato, ha favorito Bordoni nel discernere con prudenza e nel proporre, con apertura di mente, delle possibili soluzioni che, questa volta, egli intravedeva nel quadro di una prospettiva trinitaria più globale. Procedendo con ordine, anzitutto va rilevato che il merito di Bordoni è quello di aver intuito, già in un importante saggio redatto dopo il Convegno «L’unico e i molti» tenuto alla PUL nel 1996 (e perciò prima del Documento della Commissione Teologica Internazionale: Il cristianesimo e le religioni), che la nuova sfida del dibattito cristologico avrebbe ruotato, da lì in avanti, attorno al tema della singolarità e universalità salvifica di Cristo28. La pretesa

28 Gli Atti di quel convegno sono poi confluiti nel volume P. Coda (ed.), L’unico e i mol- ti. La salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, Mursia-PUL, Roma 1997; il contributo di M. Bordoni, Singolarità ed universalità di Gesù Cristo nella riflessione teologica contempo- ranea, si trova alle p. 67-108. Vita Academiæ 235 cristiana dell’unicità del suo messaggio salvifico e quella del suo valore uni- versale, sostiene Bordoni, «impone la riapertura della “questione cristologica” che sta al suo fonda- mento. Mentre nei primi secoli dell’era cristiana la “questione cristologica” si riassumeva nel problema dell’“unità del Cristo”, possiamo dire che, alla fine del secondo millennio, la riapertura del dibattito cristologico si riassume nel problema della “singolarità-universalità mediatrice salvifica” di Gesù Cristo, nel suo valore costitutivo e normativo»29. Questo è oramai il “problema fondamentale cristologico” del nostro tempo e dei prossimi anni che, sempre a detta del Nostro, «dovrà affrontare il problema di verità del cristianesimo nel contesto delle nuove imprescindibili esigenze del dialogo interreligioso e dell’incalzare del pluralismo religioso. La riapertura del problema cristologico si incentra sempre più nel mistero dell’incarnazione che sta alla base della pretesa assolu- ta della singolarità di Gesù Cristo e dell’unicità assoluta del cristianesimo»30. Nei due passaggi appena citati, sono già contenute in nuce le sfide prin- cipali di fronte alle quali la cristologia oggi si sta trovando, vale a dire: il pro- blema della verità del cristianesimo e dell’incarnazione, come tema parados- sale e catalizzatore dell’originalità, unicità e assolutezza della fede cristiana. È impossibile dar conto, nel breve spazio che qui rimane, delle argo- mentazioni di Bordoni, nell’investigare su un tema complesso. Basti solo se- gnalare che la pienezza salvifica che costituisce il contenuto dell’assolutezza e della singolarità dell’evento Cristo, egli la legge non nel senso esclusivo, bensì nella sintesi inclusiva dell’universalità della storia31. Si tratta di un’asso- lutezza aperta alla pluralità delle fedi religiose, quindi di un’unicità assoluta- relazionale, in altre parole di una relazionalità che esprime quella dimensio- ne di assolutezza, la quale non sopprime e non assorbe il particolare, ma al contrario lo valorizza32. E tutto questo trova il suo fondamento analogico nel mistero trinitario dove assolutezza e relazionalità non si oppongono, ma vanno al contrario considerate insieme. «Affermare l’assolutezza dell’evento singolare del Cristo non comporta affatto una posizione esclusivista, così come, nella dottrina trinitaria, l’assoluto tras-

29 Bordoni, Singolarità ed universalità, cit., p. 71 30 Ivi. 31 Ibid., p. 93. 32 Ivi e nota 95. 236 Vita Academiæ

cendente divino non assorbe, ma al contrario, fonda l’alterità interpersonale. E, d’altra parte, il relazionale, che definisce l’unicità-singolarità del Cristo e del cristianesimo, nel contesto della distinzione, dell’alterità e pluralità religiosa, intanto può evitare il pericolo di una caduta nel relativismo pluralistico, nella misura in cui, la relazionalità, non fa economia del linguaggio di una unicità assoluta, così come la “relazionalità” trinitaria delle persone non implica alcun triteismo, in forza dell’assoluto unico della sostanza divina»33. Vi sono – è risaputo – due gravi rischi presenti nell’affermarsi del plura- lismo religioso, essi sono: un presunto “teocentrismo” come comune deno- minatore tra le istanze di religiosità, ma senza rapporto al Logos che si fa car- ne, e un “pneumatocentrismo a-trinitario” che porterebbe al dissolvimento della personalità dello Spirito Santo. Sia nel primo caso che nel secondo, è sempre in causa il corretto legame con il paradosso dell’incarnazione, a esse- re il punto discriminante della verità del cristianesimo34.

6. I pilastri portanti della riflessione teologica Occorre però, ormai, entrare in un orizzonte diverso di pensabilità del mistero dell’incarnazione e soprattutto acquisire un’idea di verità che non si voglia opporre alla storia. Ma per far questo bisogna andare alle fondamenta della metodologia soggiacente questi percorsi e Bordoni, sia su questo punto che su altri, non ha mai fatto mancare la sua voce. I criteri metodologici im- prescindibili in ogni itinerario teologico (e il problema appena accennato è tra i maggiori incrociati nel cammino) li ha esposti strada facendo, non solo nel primo volume del suo Gesù di Nazaret Signore e Cristo, ma per lo più in articoli di grande pregio35 e ultimamente in contributi alla rivista «Path»36 fin dall’ini-

33 Ibid., p. 100 (Le sottolineature sono dell’autore). 34 Ibid., p. 102: «Solo nel nesso tra cristologia e pneumatologia è possibile illustrare te- ologicamente il paradosso cristiano della singolarità-universalità di Gesù Cristo, per cui non c’è vera singolarità senza Spirito Santo (così come non c’è incarnazione senza lo Spirito Santo) e neppure c’è presenza dello Spirito Santo, come persona trinitaria, nell’universalità della storia senza evento singolare cristologico» (Le sottolineature sono dell’autore). 35 Vengono qui citati quelli più importanti: M. Bordoni, La teologia sistematica tra or- todossia e ortoprassi, in «Lateranum» 54 (1988) 266-287; Id. La croce nella struttura episte- mologica del sapere teologico, in «La sapienza della croce» 4 (1/1989) 13-29; Id., Riflessioni introduttive, in I. Sanna (ed.), Il sapere teologico e il suo metodo. Teologia, ermeneutica e verità, EDB, Bologna 1993, pp. 11-40; Id., Dal Concilio Vaticano II, cit., pp. 13-42. 36 Cf. Il metodo teologico oggi. Fra tradizione e innovazione, in «Path» 3 (1/2004) e M. Bordo- ni, La Tradizione vivente della Parola e l’azione molteplice dello Spirito, in «Path» 5 (1/2006) 73-85. Vita Academiæ 237 zio di questa pubblicazione e nell’ambito del dibattito suscitato dalle iniziative della Pontificia Accademia Teologica. Richiamo soltanto due temi: quello dei presupposti metafisici del pensiero teologico e quello dell’ecclesialità della teolo- gia che nasce dall’“esperienza” umana di fede. Illustro brevemente il primo, perché del secondo tema ho già accennato all’inizio di questo esposto37. Il primo tema, quello dei presupposti metafisici del pensiero teologico, Bordoni lo ha sviluppato non a priori, ma misurandosi di volta in volta – come si diceva – con le problematiche emerse nel dibattito teologico dal Vaticano II a oggi. All’inizio per lui è stato il rapporto tra il luogo umano della fede e gli altri due loci (Scrittura e Tradizione) a esigere una fondazione epistemo- logica del problema. L’urgenza dell’inculturazione ha poi fatto il resto. Negli interventi apparsi su «Path» e nel primo capitolo del volume Christus omnium Redemptor si può dire che giunge a compimento un’istanza che il nostro fe- steggiato da sempre aveva a cuore e coltivava fin dagli anni giovanili. Infatti la possibilità di un incontro tra l’aspetto della storicità del pensiero umano, il principio metafisico della fondazione ontologica della verità e la conoscenza di fede regolata dal principio di rivelazione, possono ora trovare un giusto equili- brio. L’evento cristologico – per Bordoni – è il luogo escatologico della “verità rivelata” che si compie nella storia e culmina nell’ora della “croce e della risur- rezione”. È già nell’incontro tra verità e storia proprio dell’evento cristologico che si viene a stabilire per la teologia un modello virtuoso: la luce interiore che viene dalla verità rivelata nella storia non può mai ignorare, come esigenza del- la fede medesima, la “verità della ragione” che accompagna la fede in quanto espressione e attività umana: l’evento della rivelazione accade nel cuore stesso dell’essere. Così dicendo, Bordoni ha posto le basi per una criteriologia dove, per nessun motivo, si può fare a meno di una precomprensione metafisica della teologia e dove quest’ultima non può neppure disattendere il proble- ma del condizionamento storico generale del pensiero umano e il fatto che la verità rivelata è attingibile nel “luogo storico” determinando per il pensiero di fede, una struttura storica. Il contributo di Bordoni sta nell’aver mostrato come l’assunzione del principio gnoseologico della storicità sia perfettamente compatibile con la questione della verità, con la fiducia verso la ragione nella

37 Esso meriterebbe una trattazione più articolata che qui non mi è possibile sviluppare. Bordoni ne ha trattato praticamente in tutti i suoi scritti di carattere metodologico e non solo. Per una visione completa si può consultare l’ultimo suo intervento in proposito: Bordoni, Dal Concilio Vaticano II, cit., pp. 22-28. 238 Vita Academiæ ricerca della verità. La teologia ha il suo punto di partenza nella parola di Dio che è Parola di Verità manifestatasi nella storia, essa incrocia la ricerca umana di verità attraverso il dialogo con la filosofia e quelle scienze umane che non si chiudono al passaggio «dal fenomeno al fondamento», come aveva ammonito Fides et Ratio (n. 83). Questo nuovo dinamismo che si viene a creare è alla base di quell’allargamento degli orizzonti della ragione, tanto auspicato da Benedetto XVI. Bordoni ci ha fatto vedere che questo può avvenire perché il volto misterioso della verità che gli esseri umani ricercano, è quello di un “assoluto personale” e non astratto. Un tempo il problema del rapporto tra teologia e ricerca della verità si poneva per lo più nei termini seguenti: quale filosofia è più idonea per la teologia? Oggi il problema si può enucleare così: come la verità rivelata, in quanto evento storico, può incrociare una ricerca umana che si renda permeabile al suo influsso? Ci si accorgerà allora che la verità nel suo darsi nella storia, crea un rapporto inter-personale e traccia essa stessa un cammino verso di essa, esaltando così la libertà umana come risposta e donazione verso la verità medesima.

7. Conclusione: Marcello Bordoni “teologo romano” Al termine di questo percorso, forzatamente sommario, nel quale si è cer- cato di illustrare il contributo di Mons. Bordoni nel contesto della teologia contemporanea, non resta che evidenziare quanto sia stato importante il suo modo e il suo stile di rapportarsi alle situazioni e alle sfide che si ponevano di volta in volta. Il percorso di Don Marcello, soprattutto all’inizio, non fu facile. Il suo temperamento mite e distaccato lo hanno aiutato soprattutto nel pas- saggio epocale di cui all’inizio si è detto, cosicché egli è stato universalmente riconosciuto come un maestro che ha interpretato saggiamente il Vaticano II, offrendo sul piano teologico un contributo consistente al rinnovamento da esso proposto. Coraggio ed equilibrio lo hanno contraddistinto sempre nel suo lavoro teologico: coraggio, perché non ha avuto paura del nuovo, ma lo ha saputo far interagire, attraverso il “luogo ecclesiale”, con la grande Tradizione della Chiesa; equilibrio, perché, sia per inclinazione che per educazione, egli sa molto ascoltare posizioni diverse dalla sua e capire fino in fondo le petizio- ni di principio dell’altro, prima di esprimere indipendentemente il proprio giudizio. Chi lo ha letto senza fretta, si è sempre accorto di quanto spazio egli conceda all’altro, onde poi proporre il suo pensiero che appare come una sin- fonia dove tutti i toni vengono ad armonizzarsi. Vita Academiæ 239

Queste caratteristiche provengono senza ombra di dubbio da un carisma personale che si sposa felicemente, in lui, con l’essere “teologo romano”. E que- sto a doppio titolo: Don Marcello è “teologo romano” non solo per coincidenza anagrafica. È nato ed è vissuto tutta la vita a Roma e sempre nascostamente, ha viaggiato pochissimo, anzi quasi mai, le sue giornate sono trascorse senza distra- zioni esterne e con una fedeltà impressionante tra il Colle Esquilino e il Latera- no, esercitando il sacro ministero in una popolare chiesetta, quella dell’Immaco- lata, in Via Emanuele Filiberto, di cui da quasi quarant’anni è Rettore… e tutto questo si potrebbe dire, con lo stile della metodicità e “stabilità” benedettina. Eppure questa “romanità” anagrafica ed esistenziale, si è ben incontrata in lui con quella “romanità” che è apertura di idee, accoglienza di diverse esperien- ze, tolleranza, disincanto di chi ne ha viste tante e simpatica bonomia. Carat- teristiche queste che derivano dalla storia peculiare di Roma, dov’è presente quel “ministero petrino” che fa della Chiesa di Roma e della sua missione nel mondo, il segno propulsore di un dinamismo che è capacità di cogliere le di- versità per ricondurle al principio della «cattolicità», nella fedeltà al Magistero. Tradotto nell’esperienza di “fare teologia” a Roma, questo significa molte cose, che Bordoni ha interpretato in modo davvero originale. La gratitudine nei suoi confronti è per aver dato slancio alla “scuola romana”, che anche grazie a lui, si presenta come una teologia che sa valorizzare le differenze, che privilegia la sintesi speculativa senza perdere in originalità, che non patisce complessi di infe- riorità nei confronti di altre teologie e neppure può essere criticata, per chi non ha pregiudizi, come una piatta ripetizione degli insegnamenti magisteriali, dal momento che essa sa onorare – come in Bordoni – il “luogo umano della fede” e perciò non si tira indietro di fronte alle sfide epocali. Le più giovani generazioni di teologi o più in generale di discepoli, han- no nei confronti di Mons. Bordoni un ulteriore motivo di riconoscenza: egli ha davvero tradotto nella sua persona la famosa affermazione di Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni»38. È precisamente per questa testimonianza di vita, oltre che per il suo consi- stente contributo alla teologia sistematica e, in specie, alla cristologia che, con tutto il cuore, gli diciamo: Grazie, Prof. Bordoni e… ad multos annos Don Marcello! Nicola Ciola

38 Paolo VI, Discorso ai membri del «Consilium de laicis» (2 ottobre 1974), in AAS 66 (1974) 658. 240 Vita Academiæ

Saluto: «Ricerca teologica fedele al Magistero» Conformemente ai desideri provenienti sia dal mio sentimento, sia dalle proposte del Consiglio accademico, prendo la parola per esprimere un «sa- luto» che non vuole essere un addio. Gli anni che ho vissuto con tanti validi collaboratori, che hanno notevolmente contributo allo sviluppo dell’Acca- demia rinnovata, sono stati preziosi anche per me. Essi mi hanno confermato che per progredire nel sentiero della verità teologica, sono di grande valore i suggerimenti della Fides et Ratio, che invitava a non dimenticare che la ragione «ha bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fi- ducioso e da un’amicizia sincera»1. In realtà, in questi anni di presidenza ho sperimentato, che, l’esperienza della fede e un’intelligenza animata dalla carità, hanno operato, nel contesto dell’amicizia, rendendo più efficace il cammino verso quella verità che ci illumina dall’alto. Per questo, intendo esprimere in questo breve pensiero di «saluto», un sincero sentimento di gratitudine a tutti coloro che hanno già contribuito – e auguro che continue- ranno a contribuire – in questa esperienza di approfondimento del «Myste- rium Lucis» che risplende come «Lumen Christi», perché con il contributo di questo V Forum possa brillare, sempre più, per il bene della Chiesa e della vita dell’umanità. Dato l’afflato anche liturgico che caratterizza il tema di questo Forum, si può dire che esso costituisce come un auspicio, per il nuovo decennio che apre. Il mio sentimento di gratitudine si eleva anzitutto al Padre della luce, che ci rischiara con la Parola illuminante del Figlio e ci infiamma nel roveto ardente dello Spirito, animatore di esultanza nella verità. Ma il «grazie» si estende anche a tutti coloro che mi hanno aiutato in questo cammino di spe- ranza che ho vissuto nella comunione di amicizia con loro. Ringrazio il Prof. Nicola Ciola per le sue parole che mi ha rivolto e l’aiuto che mi ha sempre offerto in varie circostanze della vita, come pure ringrazio gli altri professori e amici, che con la loro intelligenza hanno confortato la mia e che, partico- larmente, hanno contribuito alla crescita e all’apprezzamento dell’Accade- mia Teologica, con la rivista «Path», intuizione profonda dell’Ecc.mo Mons. Angelo Amato; rivista che ha registrato un interesse sempre maggiore. Rin- grazio – specialmente per questo – l’opera già assicurata dal neo-Presidente

1 Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et Ratio (14 settembre 1998), n. 33. Vita Academiæ 241

Don Manlio Sodi, il Segretario François-Marie Léthel, tutti i componenti del Consiglio e i partecipanti agli incontri sui temi attuali della ricerca teologica, come quelli condotti dal Segretario, dai Prof. Enrico dal Covolo, Réal Trem- blay e Paul O’Callagan, e tutti gli altri che compongono, insieme a tanti, un lungo elenco di intelligenti e fraterni collaboratori. Ma un ossequio particolare, intendo rivolgere al carissimo, Eccellentissi- mo Mons. Angelo Amato con il quale ho condiviso i primi anni del rilancio dell’Accademia Teologica e con il quale mi sono ritrovato in piena sintonia nell’amore a Cristo, nella vicinanza filiale a Maria, testimoniata negli scritti e nel servizio alla Chiesa, comunione dei santi, nel rispetto del pensiero e costituendo una pietra miliare nella crescita nell’esperienza della fede, della carità, della ragione e del culto cristiano. Non posso ignorare in questa serie di ringraziamenti e apprezzamenti, l’accoglienza sempre riservata agli incon- tri del Consiglio Accademico da parte del Magnifico Rettore della Ponti- ficia Università Lateranense, S. Ecc. Mons. Rino Fisichella, e per quanto mi riguarda, i qualificati apporti e notevoli contributi del carissimo Prof. Giovanni Ancona, e quelli non meno preziosi e puntuali consigli del caris- simo Prof. Piero Coda, con le sue sempre qualificate e profonde proposte. Per quanto riguarda, poi, una coerenza dettata dal rapporto tra intelligenza, fede e amicizia, che ha distinto nella mia vita di studioso e pastore, non posso dimenticare il carissimo, Ecc.mo Mons. Ignazio Sanna, con il quale ho condiviso pensieri e sentimenti di fede e ragione, per oltre un trentennio di comunione sacerdotale. Dopo questa serie, certamente incompleta, di care persone con le quali ho condiviso con amore l’unione nello studio e nella vita pastorale dalla quale non mi sono mai congedato, devo riaffermare che mi ha sempre sostenuto la convinzione che lo sviluppo della teologia non va identificata come un’arida ricerca di idee, senza quel nutrimento interiore dello Spirito, che si espande nel mondo dei cuo- ri trasmettendo una profonda esperienza di luce e amore, che solo nella prassi di fede vissuta può costituire il sostegno e il senso della vita. Quanto ho appreso e condiviso per diversi anni nel contesto della vita dell’Accademia Teologica, mi ha consentito di approfondire le esigenze po- ste dalla fede al metodo teologico, nel luogo ecclesiale, in una sempre nuo- va sintesi tra l’auditus e l’intellectus fidei, illuminato dallo Spirito di verità, nel suo vincolo alla Scrittura, letta sia esegeticamente, che nel contesto della Traditio vivens. È così che la Parola scritta prende vita e si apre sempre nuo- 242 Vita Academiæ vamente per illuminare i segni dei tempi rendendo la fede cristiana annun- ciabile e credibile nell’area delle attuali frontiere della pluralità delle culture, non ignorando i nuovi areopaghi aperti dal progresso delle scienze sia antro- pologiche che naturali. L’impegno dell’Accademia Teologica, nel percorso di questi anni è andato anche sempre più rafforzando il valore della prassi della vita morale e spirituale e il legame al luogo della santità, nel pensare ed agire teologico. Così, essa ha sviluppato il suo percorso seguendo l’invito rivolto dal messaggio del Santo Padre Benedetto XVI ai membri della Commissione Teologica Internazionale in occasione della Sessione Plenaria del 2005 (22 novembre - 2 dicembre) toccando tra gli altri temi, quello dello statuto e del metodo della teologia cattolica, richiamando le parole dell’Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo:

«La teologia non può nascere se non dall’obbedienza all’impulso della verità e dell’amore, che desidera conoscere sempre meglio colui che ama, in questo caso, Dio stesso, la cui bontà abbiamo conosciuto nell’atto di fede» (n. 7).

Importante, in questo appello, è non solo il richiamo alla fedeltà e al Magistero, ma pure alla competenza scientifica, allo spirito di fede, alla pre- ghiera e alla contemplazione, con cui si può sviluppare il senso di Dio e la docilità all’azione dello Spirito Santo. Il Papa Benedetto XVI afferma an- cora che la «razionalità della teologia, la sua scientificità e il pensare nella comunione ecclesiale, non si escludono, ma vanno insieme. È lo Spirito Santo che introduce la Chiesa nella pienezza della verità» (Gv 16,13). La Chiesa è a servizio della verità e la sua guida è l’educazione alla verità. Questo com- porta l’impegno della teologia a salvaguardare nella communio, insieme, il principio dell’unitas veritatis. Naturalmente, questo aiuto da parte della teologia dev’essere compiuto nel rispetto di quella norma indicata dal Donum veritatis:

«Là ove la comunione di fede è in causa, vale il principio dell’unitas veritatis; là ove rimangono delle divergenze che non mettono in causa questa comu- nione, si salvaguarderà l’unitas caritatis» (n. 26).

Marcello Bordoni Vita Academiæ 243

Lumen Christi Cronaca del V Forum internazionale Si è tenuto dal 28 al 30 gennaio 2010 presso la Domus Sanctae Marthae in Vaticano il V Forum Internazionale della Pontificia Accademia di Teolo- gia, centrato quest’anno sul tema: «Lumen Christi. Tra mysterium, esperien- za e prospettive nella via lucis Ecclesiae». I lavori, che hanno visto la partecipazione oltre che degli Accademi- ci e dei Soci anche di un folto pubblico di studenti e cultori delle scienze teologiche, hanno preso avvio col saluto di S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coor- dinamento tra le Accademie Pontificie, e con l’introduzione del Presidente della Pontificia Accademia di Teologia, il Prof. Don Manlio Sodi, sdb. Il Prelato Segretario, Prof. P. François-Marie Léthel, ocd, ha poi presen- tato la tematica di Cristo-luce collegandola a quella dei Forum precedenti e centrandola sullo stretto nesso tra indagine teologica e teologia vissuta dei santi, così com’è emerso sia dal magistero di Giovanni Paolo II, sia da quello dell’attuale Pontefice, in particolare nella sua omelia ai membri della Com- missione Teologica Internazionale (1 dicembre 2009) e nelle sue catechesi del mercoledì sui Santi (2008-2009). La seconda parte della mattinata è stata interamente occupata dall’Udienza concessa dal Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti al Forum, unitamente ai membri delle altre Pontificie Accademie, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Il Pontefice ha ricordato il decennale del rinnovamento istituzionale della Pontificia Accademia di Teologia e, a partire dall’esempio sempre attuale di san Tommaso d’Aquino, ha spronato tutte le Pontificie Accademie a saper cogliere le domande che sorgono dalla Chiesa, dalle società e dalle culture per contribuire a promuovere un autentico umanesimo cristiano. Infine il Papa ha ricevuto personalmente il Presidente e il Prelato Segretario dell’Accademia di Teologia, incoraggiandoli nel loro impegno e servizio ecclesiale. I lavori del Forum sono proseguiti nel pomeriggio con una prima sessio- ne di carattere biblico, presieduta da S. Em. il Card. Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica. I Professori Ho- racio Simian-Yofre e Clemens Stock hanno approfondito il tema della luce rispettivamente nell’Antico e nel Nuovo Testamento. In particolare, il Prof. Simian-Yofre si è soffermato sul rapporto tra luce e verità/fedeltà così come emerge nei salmi e nei libri dell’Esodo e di Isaia. Il Prof. Stock ha, invece, sottolineato la relazione tra il Verbo e la luce nel Vangelo e nella prima let- 244 Vita Academiæ tera di Giovanni, rilevando come l’unione di Gesù col Padre costituisca il fondamento del suo essere luce del mondo. La seconda sessione del pomeriggio, presieduta da S. Em. il Card. Georges Cottier, Teologo emerito della Casa Pontificia, ha affrontato il mi- stero di Cristo-luce a livello liturgico-ecclesiologico e antropologico. Il Presi- dente Prof. Don Manlio Sodi, a partire dall’esame di alcuni aspetti della lex orandi, emergenti soprattutto nella liturgia pasquale e in quella dei tempi forti dell’anno liturgico, ha evidenziato le dimensioni di illuminazione e diviniz- zazione che connotano la vita e l’esistenza della Chiesa. L’Accademico Prof. Mons. Fernando Ocáriz ha poi riflettuto sulla luce proiettata dal mistero di Cristo sull’uomo, considerato sia nella sua struttura metafisica, sia nella sua dimensione interiore caratterizzata dal dinamismo di donazione e d’amore. La terza sessione del Forum, il 29 gennaio, sotto la presidenza di S. Em. il Card. Paul Poupard, Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, ha approfondito la tematica in oggetto in una prospettica storico-teologica ed esperienziale. L’Accademico Prof. Don Enrico dal Covolo, sdb, ha sviluppato la dottrina della luce-verità nella teologia sapienziale dei Padri della Chiesa, soffermandosi sulle figure di Origene e di Agostino (e in particolare sui rispet- tivi Commenti al Vangelo di Giovanni). S.E. Mons. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e Accademico, ha incentrato la sua relazione sulla testimonianza di vita e sulla riflessione teologica di Tommaso d’Aquino, documentando il percorso di progressiva conformazione a Cristo che ha caratterizzato il cammino di studio, contemplazione ed esperienza mi- stica del Dottore Angelico. S.E. Mons. Domenico Sorrentino, Arcivescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino e Accademico, ha infine affrontato il tema del valore dell’esperienza e della testimonianza cristiana per l’elabora- zione della riflessione teologica, secondo le sollecitazioni venute dal Concilio Vaticano II e tenendo conto delle sfide contemporanee. Il primo pomeriggio di venerdì 29 è stato dedicato, secondo una con- suetudine ormai consolidata all’interno dei Forum dell’Accademia, alla visi- ta culturale di alcuni tra i tanti tesori custoditi all’interno delle mura vatica- ne. Quest’anno la scelta è caduta su due cappelle del Palazzo Apostolico, la Redemptoris Mater, decorata a mosaico dal Centro Aletti sotto la direzione dei Padri Spidlik e Rupnik, e la Cappella Paolina, recentemente riaperta dopo un lungo periodo di restauro. Sotto la guida esperta di Don Enrico dal Covolo, i partecipanti al Forum hanno avuto così il privilegio di ammirare capolavori normalmente non accessibili al pubblico: in particolare, hanno Vita Academiæ 245 suscitato singolare emozione i drammatici affreschi della Cappella Paoli- na, ultima opera di Michelangelo, riportati oggi ai loro originari colori di straordinario effetto. La quarta e ultima sezione del Forum è stata dedicata alla teologia in dialogo col pensiero e la cultura del nostro tempo; presieduta da S.Em. il Card. Raffaele Farina, Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, ha visto gli interventi degli Accademici Prof. Don Paul O’Callaghan e Prof. Mons. Pie- ro Coda; il primo è stato incentrato sulla testimonianza dei credenti, chia- mati – come uomini e donne illuminati da Cristo – a illuminare il mondo; Mons. Coda ha invece individuato, molto suggestivamente, nella metafora della luce la categoria che dal mistero di Dio e della creazione ci conduce, attraverso l’incarnazione, fino all’alba della creazione nuova. L’ultima giornata del Forum, sabato 30 gennaio, è stata dedicata al con- ferimento dell’emeritato all’Accademico Prof. Mons. Marcello Bordoni, pri- mo Presidente dell’Accademia dopo il rinnovamento voluto da Giovanni Paolo II nel 1999 e rimasto in carica fino allo scorso anno. Il Prof. Mons. Nicola Ciola ha tenuto la laudatio, in cui ha ripercorso le principali tappe dell’impegno accademico e intellettuale del festeggiato: ha così evidenziato il passaggio avvenuto nel modo di fare teologia all’indo- mani del Concilio Vaticano II e i notevoli contributi dati da Mons. Bordoni nell’ambito cristologico-sistematico e pnuematologico, nonché nell’indivi- duazione dei presupposti metafisici ed ecclesiali del fare teologia. Il Prof. Bordoni ha sentitamente ringraziato gli Accademici e in partico- lare tutti coloro che hanno collaborato con lui durante i dieci anni della sua presidenza. Al termine il Presidente Don Manlio Sodi gli ha consegnato il diploma di emeritato tra il plauso dei presenti. I lavori sono così giunti alla conclusione con la sintesi e le prospettive delineate dal Presidente, il rendiconto delle attività promosse dall’Accade- mia, con particolare riferimento all’andamento della rivista «Path» e della collana «Itineraria» della LEV, e coi suggerimenti degli Accademici per le prossime iniziative in programma. Momento finale e culminante del Forum è stata la concelebrazione eu- caristica nella cappella della Domus, presieduta da S.E. Mons. Angelo Ama- to, con la quale il mistero della luce di Cristo, dopo essere stato riflettuto nelle conferenze, è divenuto esperienza di preghiera e di vita.

Riccardo Ferri 246 Vita Academiæ

Gli Esercizi spirituali della Curia Romana predicati dal Prof. D. Enrico dal Covolo, S.D.B. Dal 21 al 27 febbraio scorso don Enrico dal Covolo, Socio Ordinario e Consigliere della nostra Accademia Teologica, ha predicato gli Esercizi spirituali al Santo Padre e ai suoi Collaboratori della Curia Romana, nella splendida cornice della Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico. Don Enrico ha svolto diciassette meditazioni, intorno al tema: Lezioni di Dio e della Chiesa sulla vocazione sacerdotale. Ha organizzato la predicazione in cinque giornate, dando a ciascuna di esse un aggettivo caratterizzante: vocazionale, missionaria, penitenziale, cristologica, mariana. Gli interventi si snodavano lungo due binari fondamentali: quello del metodo e quello dei contenuti. Il metodo era quello – antico e venerando – della , con le sue tappe caratteristiche: la lettura, la meditazione, la preghiera e la contemplazione nella pratica della vita. I contenuti invece si riferivano alle cinque punte dei racconti biblici di vocazione: la chiamata, la risposta, la missione, il dubbio, la conferma rassicurante di Dio. Nella meditazione del pomeriggio, tuttavia, la lectio divina era sostituita da alcuni medaglioni di sa- cerdoti esemplari: sant’Agostino, san Giovanni M. Vianney, il Curato di cam- pagna di Bernanos, il venerabile Don Giuseppe Quadrio, il venerabile Gio- vanni Paolo II. Così le meditazioni bibliche del mattino erano “inverate”, in qualche modo, da alcune storie paradigmatiche di vocazione sacerdotale. Don dal Covolo ha raccolto le diciassette meditazioni in un libro edito dalla LEV con il titolo: In ascolto dell’Altro (Città del Vaticano 2010, secon- da ristampa). Il titolo – che allude al “filo rosso” di questa predicazione – è stato ricavato dall’intervento con cui il Papa ha ringraziato il predicatore, concludendo gli Esercizi spirituali. «Lei ha scelto», ha detto il Papa, rivol- gendosi direttamente a don dal Covolo, «come punto di partenza, come sot- tofondo sempre presente, come punto di arrivo la preghiera di Salomone per “un cuore che ascolta”. In realtà mi sembra che qui sia riassunta tutta la visione cristiana dell’uomo. L’uomo non è perfetto in sé, l’uomo ha bi- sogno della relazione, è un essere in relazione… Ha bisogno dell’ascolto, dell’ascolto dell’altro, soprattutto dell’Altro con la maiuscola, di Dio. Solo così conosce se stesso, solo così diviene se stesso».

Réal Tremblay Vita Academiæ 247

Relazione annuale del Presidente (ottobre 2009 – giugno 2010)

In occasione dell’annuale riunione del Coordinamento dei Presidenti delle Pontificie Accademie (10 giugno 2010) è stata predisposta la relazione che segue (qui riportata con adattamenti); condivisa con gli altri Presidenti, è stata affidata a Sua Ecc. Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Unitamente alla relazione è stato presentato anche il bilancio economi- co consuntivo e preventivo, e la documentazione di eventi già realizzati.

Il periodo che intercorre tra il decimo e l’undicesimo anno di vita della rinnovata Pontificia Accademia di Teologia racchiude un lasso di tempo che scorre dall’ottobre 2009 fino al giugno 2010. Nell’offrire una sintesi di quanto svolto, il testo tiene presenti gli aspetti più evidenti della vita dell’Accademia.

1. Riunioni del Consiglio Nel corso dell’anno 2009-2010 il Consiglio si è riunito 7 volte (2 ottobre e 27 novembre 2009; 5 gennaio, 9 febbraio, 27 aprile, 25 maggio e 24 giugno 2010), presso la sede dell’Accademia. I lavori si sono orientati su vari argomenti, secondo il bisogno e le ur- genze; i Verbali puntualmente redatti certificano il lavoro svolto e i progetti in atto o in fieri. In particolare l’attenzione si è concentrata sulla prepara- zione della seduta pubblica del 29 ottobre 2009 (di cui sotto, n. 2), sulla preparazione del V Forum internazionale (cf. sotto, n. 5 e tutto il presente volume), sulla redazione dei previsti fascicoli della rivista “PATH” (cf. sotto, n. 7), sulla programmazione della collana “Itineraria” (cf sotto, n. 8), e sulla preparazione di un altro simposio attorno alla categoria della “relazione” (si terrà a Roma il 22 ottobre 2010; cf. programma a p. 255).

2. La “seduta pubblica” del 29 ottobre 2009 È tradizione che ogni anno si svolga una seduta pubblica dell’Accade- mia per offrire l’occasione per un incontro ufficiale tra gli Accademici e co- loro che sono interessati, per approfondire qualche aspetto della riflessione del Magistero o della vita della Chiesa, per celebrare eventuali emeritati e per adempiere impegni statutari o elezioni. 248 Vita Academiæ

Il 29 ottobre 2009 gli Accademici ordinari e i Soci corrispondenti erano convocati presso l’Università Lateranense. Nella prima parte dell’incontro, riservata appunto agli Accademici, sono state date le informazioni necessarie sull’andamento dell’Accademia e sui vari impegni che devono essere portati avanti (rivista, collana, temi da trattare); quindi si è provveduto alla votazio- ne di quattro consiglieri. Nella parte successiva, aperta al pubblico, la presenza e il saluto del Card. Zenon Grocholewski ha dato l’avvio ai lavori. Alla presentazione dei due recenti volumi della collana Itineraria (Paolo di Tarso, e Lo Spirito e la Sposa) ha fatto seguito il conferimento dell’emeritato al Prof. Tarcisio Stramare. I testi che documentano tutto questo sono pubblicati nel presen- te volume.

3. Elezioni e Nomine Nella seduta pubblica del 29 ottobre sono state fatte le elezioni; in tal modo è stato possibile completare il Consiglio con la presenza di quattro membri (E. dal Covolo, P. O’Callaghan, R. Ferri, R. Tremblay). Inoltre, in data 18 maggio 2010 è giunta conferma della nomina di cin- que Accademici ordinari (cf. sopra Vita Academiae, p. 200) che si aggiungo- no agli altri e che sono evidenziati nel colophon della rivista PATH a comin- ciare dal presente numero. Rimane inoltre l’urgenza di cooptare nuovi Membri sia Ordinari che Soci Corrispondenti: è uno degli impegni cui dovrà rispondere il Consiglio in una delle sedute del prossimo anno accademico.

4. Il “premio” delle Pontificie Accademie L’Accademia è stata coinvolta nell’organizzazione del “Premio delle Pontificie Accademie”, come sostegno all’Accademia “San Tommaso”. La disponibilità nell’esame dei testi è stata totale da parte di alcuni Membri del Consiglio. Si è notato però che non è stata fatta una sufficiente pubblicità dell’evento. L’auspicio è quello di rivedere bene il Bando, di pubblicizzarlo per tempo, e di fare in modo che l’Accademia – cui spetta il compito delle verifiche – operi con tempestività. In questa linea la situazione sembra migliore qualora le due Accademie operino separatamente nel conferimento dei rispettivi premi. Vita Academiæ 249

5. La preparazione e celebrazione del V Forum internazionale Ogni due anni l’Accademia organizza un Forum internazionale. Già nel mese di novembre 2008 si è cominciato a riflettere attorno al tema Lumen Christi, che ha attirato immediatamente l’attenzione dei Consiglieri. Attraverso un’ampia e serena discussione protrattasi in più occasioni, si è giunti successivamente ad una configurazione condivisa. Il Forum si è svolto nella Città del Vaticano nei giorni 28-30 gennaio 2010.

6. “Sponsorizzazioni” Sponsorizzare un evento è per l’Accademia un’occasione per evidenzia- re il proprio ruolo e per essere di aiuto nel contribuire ad eventi che denota- no aspetti interessanti per la vita della Chiesa. Il 25-26 marzo 2010 è stato celebrato a Roma un Simposio per ricordare il 40° anniversario della pubblicazione del Missale Romanum di Paolo VI. L’evento, i cui atti appaiono in questo periodo nel volume n. 3 di Rivista Liturgica, è stato caratterizzato – da parte dell’Accademia – dal ruolo del suo Presidente che ha organizzato tutto il Simposio e diretto i lavori, dal prof. Felix M. Arocena e dal prof. Pietro Sorci come apprezzati relatori. In previsione si ipotizza la sponsorizzazione di un altro Simposio che si svolgerà presso l’Università Europea di Roma nel febbraio 2011 attorno al tema: Liturgie e culture tra l’età di Gregorio Magno e il pontificato di Leone III. Aspetti rituali, ecclesiologici e istituzionali (il Presidente dell’Accademia è coinvolto nel Comitato scientifico e nel coordinamento dei lavori).

7. Rivista “PATH” Con il 2010 la rivista dell’Accademia giunge al IX anno di pubblica- zione. Ogni volume consta di 256 pagine. Nel corso dell’anno accademico vedono la luce i previsti due volumi: – 2/2009 sul tema: Dall’escatologia alla protologia: un percorso insolito? – 1/2010 sul tema: Tra mysterium, esperienza e prospettive nella via lucis Ecclesiae. È stato già predisposto quasi tutto il contenuto del fascicolo 2/2010 che sarà di tipo miscellaneo; a tutti gli Accademici è stato rivolto l’invito a collaborare con studi, note e recensioni. Nell’ambito del Consiglio si sono già ipotizzati altri temi da trattare, ma si intende anche realizzare un maggior coinvolgimento dei membri accademici 250 Vita Academiæ nelle forme più adeguate. È stato anche auspicato che la rivista segnali in una rubrica ad hoc le principali pubblicazioni degli accademici anno per anno. Un aspetto che riteniamo importante è quello di curare ancora di più la diffusione della rivista; già si cerca di fare molto anche attraverso la diffusio- ne del dépliant. Ci auguriamo che un auspicato coordinamento delle riviste ufficiali delle Istituzioni della Curia possa far conoscere meglio e in forma più unitaria quanto ora risulta notevolmente frazionato.

8. Collana “Itineraria” Come da programmazione a suo tempo approvata, nel periodo in que- stione hanno visto la luce vari volumi della collana “Itineraria” e altri sono in preparazione: – Il IV volume, dal titolo: Lo Spirito e la Sposa. Scritti teologici sulla Chiesa di Dio e degli uomini, è una raccolta di studi dell’accademico Donato Valentini, predisposta in occasione del suo 80° genetliaco. – Il V volume, dal titolo: “Christus omnium redemptor”. Saggi di Cristologia, è costituito da una raccolta di studi del Presidente Mons. Marcello Bordoni. L’opera è stata presentata e consegnata ufficialmente al festeggiato in occa- sione del V Forum internazionale (30 gennaio 2010) quando il Presidente ha ricevuto il titolo di “emerito” per il compimento dell’80° genetliaco. Tra i volumi in preparazione più volte nel Consiglio è sorto il bisogno di predisporne uno sulla storia dell’Accademia. È stato individuato anche chi potrebbe fare un simile lavoro. Resta però il problema che non riusciamo a ritrovare l’archivio dell’Accademia a motivo della situazione di incertezza che la stessa ha attraversato negli ultimi decenni, prima che Giovanni Paolo II le restituisse volto e vitalità nel 1999. Le ricerche continuano! La collana sta riscuotendo molta attenzione da parte di vari ambienti principalmente teologici; al di là delle vendite che risultano promettenti e che permettono all’Accademia di far rientrare parte del capitale investito, risulta evidente l’interesse per i temi affrontati. Nell’insieme, unitamente alla rivista PATH, la collana ITINERARIA si pone come uno strumento per svolgere un servizio alla cultura teologica. Questo l’intento che il Consiglio dell’Accademia tiene ben presente nella selezione dei titoli e dei materiali per la stampa.

Manlio Sodi In memoriam

path 9 (2010) 251-254

Prof. P. Dr. Ambrosius M. Eszer, O.P.1 (1932-2010)

 Angelo Amato

«Io ho fatto conoscere il tuo nome» (Gv 17,26)

1. Queste parole del Vangelo che abbiamo appena sentito proclama- re, ben si adattano a fornire un filo conduttore alla nostra meditazione in grato ricordo del compianto P. Ambrogio Eszer, O.P., nel Trigesimo della sua scomparsa. È Gesù che parla e, senza dubbio, P. Eszer fa parte, come tutti noi qui riuniti, di coloro ai quali nostro Signore ha fatto conoscere il Padre Celeste, che, siamo sicuri, trovò in questo suo figlio devoto e colto un cuore e una mente aperti al messaggio evangelico e ad esso fedeli. E ciò, fin dalla sua infanzia, quando, all’educazione cattolica ricevuta in famiglia, si contrapponeva l’indottrinamento nazista dei bambini e dei giovani. All’età di dieci anni, nel 1942, Klaus (era questo il suo nome di battesimo) fu incor- porato nel Deutsches Jungvolk. Dice egli stesso in un’intervista raccolta da P. Cappabianca, nel 2008:

«Eravamo tutti in qualche misura infettati dal nazismo, ma il Papa era sempre al primo posto. Prima il Papa, poi tutti gli altri».

1 Omelia per il Trigesimo della morte (Pontificia Università «San Tommaso», Roma, 11 maggio 2010). 252 Angelo Amato

Klaus era «un giovinetto sveglio», ein wacher Jüngling. Egli metteva sempre al posto d’onore il Santo Padre. È indubbio che questo implicava il primo posto per la Trinità, per Gesù Cristo e per il suo Vicario in terra, il Papa. Ciò significava che la fede in Cristo non poteva essere disgiunta dal Papa e dalla Chiesa, corpo mistico di Cristo, che continua nella storia dell’umanità l’opera di evangelizzazione e di redenzione universale del Si- gnore Gesù. Questo lo possiamo affermare con sicurezza, poiché è testimoniato da tutta la vita di P. Eszer. Era proverbiale la sua docilità – ma sarebbe meglio dire il suo entusiasmo – nei riguardi del magistero del Santo Padre. Tutti noi possiamo testimoniare la sua ferma indignazione verso coloro che osteggia- vano l’insegnamento del Papa e la dottrina della Chiesa.

2. La fedeltà ad accogliere e meditare la rivelazione divina trasmessaci da Cristo, diventava in P. Eszer sete insaziabile di approfondire la conoscen- za della Scrittura, delle opere dei Padri e della grande tradizione teologica. Era un lettore instancabile. Anche se l’ambito a lui più congeniale era quello della ricerca storica, sappiamo con quanto interesse e, potremmo dire, con quanto zelo per la verità, egli leggeva le pubblicazioni di teologia contem- poranea, non facendo mancare, all’occorrenza, le dovute puntualizzazioni critiche. La sua obbedienza a Cristo e alla sua rivelazione non era solo rispetto intellettuale a un insegnamento, ma coinvolgeva tutta la sua persona in un continuo impegno esistenziale per conformarsi lealmente a tale insegnamen- to e per attuarlo hic et nunc, attraverso l’adesione alla sua vocazione dome- nicana e ai suoi Superiori, nei quali con grande fede egli rinveniva la volontà di Dio. Così nel cuore del bambino che, a dieci anni, esitava fra Luftwaffe e Kriegsmarine, si fece strada a poco a poco la chiamata al sacerdozio, che poi si precisò, quando, nel 1948, conobbe per la prima volta i domenicani, nella cattedrale di Colonia, in occasione della traslazione del corpo di sant’Alber- to Magno. Dopo aver approfondito la conoscenza dell’Ordine, una volta ottenuta la maturità (Abitur), entrò, nel 1952, nel noviziato dei domenicani, divenendo fra Ambrogio. Dopo gli studi a Walberberg conclusisi con l’ordinazione sacerdotale nel febbraio 1959 e con il conseguimento, nel luglio 1960, del grado di let- tore in Sacra Teologia, venne mandato a Roma per studiare al Pontificio In memoriam 253

Istituto Orientale, dove ottenne, nel 1969, il dottorato in Scienze ecclesiasti- che orientali summa cum laude con una dissertazione su La vita avventurosa di Giovanni Laskaris Kalopheros. Ricerche sulla storia delle relazioni fra est e ovest nel XIV secolo2. Dal 1964, P. Eszer era membro dell’Istituto storico dell’Ordine domenicano. Nel 1972 divenne professore di Storia della Chiesa e Patristica in questa Pontificia Università, in cui adesso celebriamo l’Euca- ristia in suo suffragio e in cui insegnò fino a due anni fa. Nel 1983, subito dopo la promulgazione delle nuove leggi della Congregazione delle Cause dei Santi, egli venne nominato Relatore del nostro Dicastero e, nel 1990, diventò Relatore generale.

3. Se è vero che ogni sacerdote è un alter Christus lo è in modo speciale ogni figlio di san Domenico, che, a immagine del suo patriarca, pre[nde] l’officio del Verbo unigenito, come dice santa Caterina3. P. Eszer si è ado- perato in modo instancabile per far conoscere la verità della fede e tutte quelle verità, che con la fede sono in un certo qual modo connesse. Egli, certamente, ha predicato direttamente la parola di Dio nelle omelie, con- vinto che, come insegna san Tommaso, oportet absolute dicere quod omnis veritas sit a Deo4. Tutta la sua attività scientifica – insegnamento, pubblica- zioni, compresa l’ultima sul miracolo5, edita nell’ottobre scorso – come pure quella spesa a servizio delle cause dei santi era animata da tale convinzione. I professori e le autorità accademiche di questa Università saprebbero trat- teggiare meglio di me il suo impegno didattico, protrattosi per tutta la sua vita e a servizio del quale P. Eszer mise la sua sterminata erudizione. La sua bibliografia è di tutto rispetto ed egli vi annetteva grande importanza. Chi lo ha ben conosciuto ricorderà certamente che uno dei giudizi più duri che potesse dare su qualcuno era: «Non ha pubblicazioni». Non è azzardato af- fermare che numerose sue opere, e in particolare quelle consacrate a figure rilevanti dell’Ordine domenicano e della Chiesa orientale, rimarranno punti di riferimento di durevole validità.

2 A. Eszer, Das abenteuerliche Leben des Johannes Laskaris Kalopheros. Forschungen zur Geschichte der ost-westlichen Beziehungen im 14. Jahrhundert, O. Harrassowitz, Wiesbaden 1969. 3 S. Caterina da Siena, Il dialogo della divina provvidenza, c. 158, ed. G. Cavallini, Edizioni cateriniane, Roma 1968, p. 460. 4 QQ. disp. de veritate, q. 1, a. 8, c. 5 A. Eszer, On Miracles, Tipografia Nova Res, Roma 2009. 254 Angelo Amato

4. Ma sia permesso al Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi sottolineare un aspetto nascosto, ma non meno importante, del suo impegno e cioè il suo lavoro, durato ben venticinque anni, di direzione, di correzione, di consiglio nelle tante cause che gli erano state affidate e che seppe dirigere con precisione e grande competenza. P. Eszer aveva coscienza di svolgere un reale servizio alla Chiesa e di lavorare in un campo di grande responsabilità per il bene delle anime. Per questo andava fiero di aver «prodotto» – forse è più corretto dire «contribuito a condurre in porto felicemente le cause di» – una ventina di santi canonizzati e di diverse centinaia di beati. Sapeva, infatti, che questi santi e beati fanno conoscere il nome del Padre, parlano di Cristo al popolo fedele, testimoniano la fedeltà alla grazia dello Spirito Santo e sono un esempio e uno stimolo per la vita cristiana. È stato questo, in fondo, l’apostolato più gravoso e più fecondo, anche se meno appariscente, ch’egli abbia svolto.

5. Riuniti, questa sera, nella celebrazione dell’Eucaristia in suffragio del nostro fratello Ambrogio, ricordiamo anche come, dietro il suo aspetto im- ponente e le sue dichiarazioni, a volte, un po’ rudi, si celava una grandissima bontà e una profonda sincerità, indizi di un cuore puro e mite. Pertanto, rac- comandiamo a Dio l’anima di P. Ambrogio Eszer, che visse da vero cristiano in ascolto della parola di Dio, da convinto figlio di san Domenico, da grande servitore della Chiesa universale e da valido docente universitario. Lo fac- ciamo con fiducia, poiché sappiamo che in vita ha cercato di conformarsi il più possibile all’insegnamento di Cristo e di diffondere e illustrare al meglio questo insegnamento. P. Eszer ha conosciuto il nome del Padre celeste e lo ha fatto conoscere al mondo. La nostra speranza è la ferma fiducia che la sua anima, accom- pagnata dai «suoi» santi e beati, sia introdotta nella Gerusalemme celeste, davanti al trono dell’Agnello, per contemplare la gloria di Cristo nello splen- dore della comunione trinitaria. Il nostro grazie a questo nostro grande col- laboratore e benefattore si fa ora preghiera. Il Signore mandi alla Chiesa e all’Ordine dei Frati Predicatori molti sacerdoti e consacrati sapienti e santi, che possano continuare a diffondere nel mondo il buon odore di Cristo. Amen Pontificia Accademia di Teologia Pontificia Accademia di San Tommaso “Relazione”? Una categoria che interpella Simposio Venerdì, 22 ottobre 2010 – ore 15,30-19,30 Aula “Paolo VI” - Pontificia Università Lateranense

Nella Caritas in Veritate Benedetto XVI invita «ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per co- gliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo» (n. 53). Sollecitate da questo invito, e consapevoli del proprio ruolo, la Pontificia Accademia di Teologia e quella di San Tommaso organizzano un Simposio per continuare in questo appro- fondimento e per sollecitare ulteriori sviluppi in modo da cogliere le valenze e le sfide che una simile riflessione provoca nell’ambito della ricerca. Data la sua natura, il Simposio si sofferma solo su alcuni aspetti, ma sollecita in contempo- ranea altre dimensioni che saranno accennate nel panel introduttivo, e che troveranno posto in particolare nella pubblicazione organica dei lavori nella rivista PATH 10/1 (2011).

Apertura del Simposio II Relazione S.E. Rev.ma Mons. Gianfranco Ravasi Ontologia trinitaria e sociologia relazionale: Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura due mondi a confronto Prof. Don Enrico dal Covolo Prof. Giulio Maspero Rettore della Pontificia Università Lateranense Pontificia Università della Santa Croce

Introduzione Dibattito – Intervallo Prof. Manlio Sodi e Prof. Lluis Clavell Presidenti dell’Accademia di Teologia III Relazione La categoria della “relazione” e dell’Accademia di San Tommaso nel rapporto interpersonale Prof. Angela Ales Bello Panel Pontificia Università Lateranense Una tematica che racchiude implicanze e domanda approfondimenti IV Relazione I Collaboratori di alcuni ambiti (economico, po- Quale relazione intra trinitaria litico ed educativo) sono invitati a presentare in e tra il fedele e la Trinità? sintesi la propria prospettiva Prof. Vincent Holzer Moderatore: Prof. Enrico dal Covolo Facoltà di Teologia dell’Institut Catholique di Parigi

I Relazione Dibattito Persona e relazione, tra teologia e filosofia Prof. Mauro Mantovani Conclusioni e prospettive Università Pontificia Salesiana Prof. Manlio Sodi e Prof. Lluis Clavell 06_29_dell Opera_Omnia.qxd 06/07/2010 14.58 Pagina 1

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