Il Petrolio a San Giovanni Incarico

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Il Petrolio a San Giovanni Incarico Il Petrolio a San Giovanni Incarico Quasi in prossimità dell’innesto della provinciale 257, proveniente da Pontecorvo, nella ex statale Valle del Liri, al di sopra della scarpata, un vecchio serbatoio ormai totalmente sopraffatto dalla ruggine, costituisce probabilmente, l’unica ed ultima testimonianza del tempo in cui in agro di San Giovanni Incarico veniva estratto il petrolio. Proprio quel serbatoio, infatti, era parte integrante dell’oliodotto che, dalle miniere di estrazione, trasferiva il prezioso liquido alla stazione ferroviaria di Isoletta da dove poi raggiungeva le successive destinazioni. Ma dove erano queste miniere ? Tornando indietro, sempre sulla provinciale 257 per circa un paio di km, da un bivio sulla destra si accede su una strada, larga quando lo sono generalmente le nostre strade di campagna, che, a tratti in lieve salita, a tratti in piano, risale il declivio di una delle tante colline che confluiscono verso il Liri tra cui quella che, appunto, vanta la prerogativa di aver dato a suo tempo luogo alle cosiddette “manifestazioni petrolifere”. Non a caso, ancora oggi la località vien detta Petroliera, dall’originale “petrolara” o “petrogliara”, ed è così ufficializzata nell’elenco telefonico; al “petrolio”, del resto, si richiama sia la piccola strada di cui si è appena detto che il tratto della provinciale che dal bivio va a congiungersi alla Valle del Liri. Insomma, ancora oggi, qui tutto parla di petrolio anche se di esso non vi è più la benché minima traccia. Ovvero, diversamente da quando, nel 1868, il professore di chimica Carlo Cassola scoprì “in questo posto addimandato la Petrolara”, una sorgente “stillante” petrolio. Siamo, insomma, in quella zona in “tenimento di San Giovanni Incarico” dove “fin dai tempi remoti, si osservarono delle fessure nella terra, che davano fumo ed evaporavano gas” tant’è che già Silio Italico (lib. 12) scriveva “et quae fumantem texere giganta Fregellae, per significare la natura vulcanica di quella plaga.” (Rocco Bonanni, Monografie storiche. FREST, Isola del Liri 1926, P. 170) Pasquale Cayro, il noto storico originario proprio di San Giovanni Incarico, parlando delle diverse fonti presenti nel territorio del suo paese, evidenzia in particolare quella da dove “scaturisce olio, che dicesi petrolio, producendo l’ istess’effetto dell’olio del sasso, e di quello che si chiama di Santa Giuseppina di Padova, essendo molto giovevole a ragazzi per i vermi. Si è ora coperta, per non farsene conto degli ignoranti, ma si raccoglie, facendosi un fossetto, e con empierlo d’acqua, sopra la quale poi si raduna l’olio, ed il sito si chiama fosso della Petrogliara.” (Pasquale Cayro, storia sacra e profana di Aquino e sua diocesi. Libro 2. Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1811, p. 165) Lo stesso Cayro, in una relazione sul sito e sul territorio del suo comune indirizzata, il 28 gennaio 1812, al “signor Francesco Perrini Redattore della Statistica in Terra di Lavoro”, in Capua (Angelo Nicosia San Giovanni Incarico. Ricerche di Storia e Topografia. Amm.ne comunale di San Giovanni Incarico. 1991, p.118), precisa inoltre, che di quest’olio ci si serviva “con applicarlo nell’umbilico, nelle giunture, e nelle narici del naso a’ ragazzi quando venivano abbattuti da vermi”. Nonostante tali benefici effetti, però, annota a Cayro, da molti anni a questa parte “niuno vi prende la cura di raccoglierlo”. Anni dopo fu l’ingegner Gaetano Tenore a notare che “spontanei stillicidi indicavano la presenza del petrolio alla superficie del suolo” (Priorità di osservazioni geologiche ed importanza industriale dei giacimenti petroliferi della Valle del Liri nella Terra di Lavoro del Socio Ordinario Gaetano Tenore. Atti del R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli. Adunanza del 13 giugno 1893. vol. II, n.4, p. 5.) anche se si trattava più che altro di fango intriso di petrolio, ma solo più tardi, poco prima del 1870, s’incominciarono a scavare i primi pozzi i cui riscontri dovettero essere niente male, se nel 1871 fu costituita a Milano la società in accomandita “Sacchetti & co.”, trasformata poi, nel 1876, in “Società Italiana delle Miniere Petrolifere di Terra di Lavoro”. E fu proprio questa società ad invitare l’insigne Abate Antonio Stoppani (Lecco, 1824 – Milano, 1891), singolare figura di sacerdote, scienziato, patriota e scrittore, “arrecarsi a Giovanni Incarico, Pico, Colle San Magno ed altrove, perché sopra luogo facesse delle osservazioni scientifiche” (Rocco Bonanni, Op. Cit., p.171), cosa che accade la prima volta “al principio di giugno 1872” e di cui lo stesso Stoppani avrebbe poi ampliamente riferito in una lettera al direttore del giornale il Sole pubblicata il 15 giugno 1877. E’ lo stesso Stoppani, divenuto intanto presidente della società, ad informarci anche sulle vicende della miniera in una relazione inviata nel 1880 agli azionisti. Dopo aver sondato il terreno con la trivellazione di 14 pozzi “spinti fino alla profondità di 15 a 20 metri” da cui scaturirono circa 700 quintali di petrolio, la società, incoraggiata da questi risultati, acquistò macchine e attrezzi necessari per scavare pozzi di maggiore profondità “col sistema americano.” Il primo di questi, il pozzo Lombardi, sebbene raggiungesse i 105 metri di profondità, non diede però, i risultati sperati. Ma non ci si perse d’animo e se ne scavò un altro, il pozzo Stoppani, ad alcune centinaia di metri dal precedente. Stavolta i risultati non mandarono deluse le attese: ad appena 34 metri c’era il petrolio, tanto che per almeno 4 anni, dal 1872 alla fine del 1876, si riempirono da cinque a sei botti al giorno. Ancora meglio andò con il pozzo Antonio che il 6 agosto 1873, a metri 41 di profondità, cominciò a dare un prodotto giornaliero di 6/7 botti di petrolio (da litri 960 a 1120). “Così si scavarono, con esito diverso ma complessivamente con deciso profitto diversi pozzi”. E come se i risultati non bastassero di per sé a qualificare l’iniziativa, Stoppani riferisce delle positive conclusioni cui era pervenuto l’ingegnere “specialista” tedesco Strippelmann, incaricato di eseguire studi sia sul territorio su cui “si estendono i diritti sociali”, ovvero quelli di San Giovanni Incarico e di Pico, sia su alcune proprietà della “Società Italiana delle Miniere Petrolifere di Terra di Lavoro” a Pontecorvo, Aquino, Arce, Pastena e Roccasecca: tutto il territorio interessato “gode di un’importanza di sommo grado e promette assai tanto se lo si consideri dal punto di vista geologico, minerario e tecnologico, quanto se lo si pigli dal lato delle esperienze eseguite per mezzo di pozzi i cui risultamenti, considerati finanziariamente, sono già una prova di fatto di questo giudizio”. Dall’inizio delle estrazioni fino a metà settembre 1879 il totale del petrolio ottenuto dai pozzi di san Giovanni Incarico, “fra le materie migliori atte alla fabbricazione del gas illuminante ed olio lubrificante”, ammonta a 7.848 barili pari a 1.330.760 kg per un valore di smercio di circa 284000 lire, qualcosa come 650000 euro. L’abate Stoppani, naturalmente accenna al petrolio di San Giovanni Incarico anche nel suo libro più noto, “Il Bel Paese”, riferendo, tra l’altro, questo specifico episodio: “il 12 luglio 1877 l’egregio Direttore Tecnico, Capitano Achille Sacchetti, aveva spinto il traforo del pozzo alla profondità di quasi 40 metri. Il gas infiammabile ribolliva con forte rumore dal fondo. “D’un tratto il petrolio sgorga, e su su, con forti boati, riempì il pozzo, levandosi in colonna entro i tubi fino all’altezza di 4 metri sopra la superficie del suolo. Lo sgorgo continua così, che si dura fatica a contenerlo, e tutto quanto senza far soffrire o mettere in pericolo nessuno. Ora la Società Italiana delle Miniere Petrolifiche di Terra di Lavoro può mettere in vendita annualmente una quantità non minore di 24000 quintali di petrolio, che si presta principalmente per l’illuminazione a gas.” (Antonio Stoppani, il Bel Paese. Antonio Vallardi Editore. Milano, 1948, p.273) “Le cose andavano benissimo”, scrive mons. Bonanni, tanto che la Società Compagnone fabbricò una distilleria sulla Civita Farnese, verso Isoletta, poco prima del ponte sul Liri. Si lavorava con attività nell’estrazione; il petrolio veniva fuori da un pozzo artesiano in tanta quantità da non avere più recipienti in cui riporlo; si credette opportuno otturare provvisoriamente il pozzo! Quando si riaprì il petrolio era scomparso! Si fecero dei saggi da per tutto,ma con esito sfavorevole! Auguriamoci che la nuova Società Petrolifera, sia fortunata nel rintracciare le correnti sotterranee!” (Rocco Bonanni, op. cit., p.171.) L’augurio, però, non ebbe riscontro. In realtà, se dobbiamo dar credito a ciò che riferisce Gaetano Sacchetti, l’episodio avrebbe avuto ben altra causa: “il 15 agosto 1877, come dal racconto della Signora Maria Renzi in Sabetta, e confermato dalla quasi centenaria Anna Boffi, le maestranze della miniera del petrolio, vollero rispettare scrupolosamente il riposo festivo per la ricorrenza dell’Assunzione di M. V., e non potendo, d’altro canto, riuscire a contenere l’abbondante afflusso del liquido, ebbero l’infelice idea di otturare i pozzi, servendosi di grossi tronchi di alberi. “Ma un’amara sorpresa attendeva il giorno seguente, gli ingenui e maldestri operai: il petrolio, come per incanto, era sparito; ovvero il sacco petrolifero aveva deviato il suo corso naturale per disperdersi nelle viscere della terra. “Vane sono risultate le innumerevoli trivellazioni, ancora oggi tentate, per riportare alla superficie il prezioso combustibile. Il danno derivato ad Isoletta fu rilevante perché diversi operai addetti all’industriale risorsa petrolifera (estrazione, raffineria, spedizione, ecc) rimasero improvvisamente senza lavoro. Il Castello medievale, adibito a deposito e smistamento del carburante rimase inutilizzato e la stazione ferroviaria fino ad allora in pieno fervore di opere, subì nel movimento dei trasporti una sensibile stasi. Anche la moderna distilleria, con la sua gigantesca ciminiera, rimaneva inoperosa accrescendo la mestizia in tutti coloro che transitavano nell’adiacente strada Civita Farnese.
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