Rob DeSalle, Ian Tattersall

STORIA NATURALE DELLA BIRRA

Illustrazioni di Patricia J. Wynne Traduzione di Gianni Pannofino Rob DeSalle, Ian Tattersall A Natural History of

© 2019 by Rob DeSalle and Ian Tattersall Originally published by Yale University Press Illustrations copyright © 2019 by Yale University All rights reserved

Progetto grafico e copertina: Silvia Virgillo • puntuale Immagine di copertina: iStock / Getty Images

© 2020 Codice edizioni, Torino ISBN 978-88-7578-906-0 Tutti i diritti sono riservati

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Prefazione

Parte I. Granaglie e lieviti

Capitolo 1 La birra, la natura e l’umanità Capitolo 2 La birra nel mondo antico Capitolo 3 Innovazione e nascita di un’industria Capitolo 4 Culture della birra

Parte II. Elementi di (quasi) tutte le birre

Capitolo 5 Molecole essenziali Capitolo 6 Acqua Capitolo 7 Orzo Capitolo 8 Lievito Capitolo 9 Luppolo

Parte III. La scienza della Gemütlichkeit

Capitolo 10 Fermentazione Capitolo 11 La birra e i sensi Capitolo 12 Pance da bevitori di birra Capitolo 13 La birra e il cervello

Parte IV. Frontiere, vecchie e nuove

Capitolo 14 Filogenesi della birra Capitolo 15 Uomini della rinascita Capitolo 16 Il futuro della birra

Bibliografia annotata A Erin e Jeanne, anche se preferiscono il vino Prefazione

La birra è probabilmente la bevanda alcolica più antica al mondo ed è certamente la più importante sul piano storico. Inoltre, sebbene abbia goduto, in genere, di una considerazione inferiore a quella del vino, la birra nelle sue manifestazioni migliori offre ai nostri sensi e alle nostre capacità di fruizione estetica una ricchezza per lo meno pari a quella del vino. Anzi, più d’uno ha sostenuto che la birra non solo sarebbe teoricamente e praticamente più complessa della bevanda rivale, bensì anche suscettibile di offrire una più fedele traduzione delle intenzioni dei suoi produttori. Ciò non significa, ovviamente, che il vino non ci entusiasmi… come sarà risultato evidente – speriamo – ai lettori del nostro libro Il tempo in una bottiglia. Storia naturale del vino: il vino occupa un posto unico e importantissimo nell’esperienza umana e nella nostra vita quotidiana. Questo, però, vale senz’altro anche per la birra, sebbene sia chiaro che queste due bevande, per quanto complementari, siano allo stesso tempo radicalmente diverse e meritino entrambe di essere esaminate dal punto di vista della storia naturale. Da questa considerazione nasce il presente libro, e viene alla luce nel momento giusto, visto che quasi dappertutto i bevitori di birra stanno conoscendo una vera e propria età dell’oro. Certo, il recente fermento nel campo della birrificazione artigianale si è dispiegato sullo sfondo monolitico di un mercato di massa alquanto uniforme, che vende quantità esorbitanti di birra prodotta dai giganti mondiali del settore. Tuttavia, nei circuiti più innovativi del mercato si trovano tantissime varietà di birre prodotte con straordinaria inventiva. L’abbondanza di nuove e creative proposte ha avuto l’effetto di rendere più interessante il mondo della birra, ma anche più caotico, in un’orgia di offerte pressoché incomprensibile, presentate al consumatore attraverso un sistema di distribuzione arcaico che ostacola un più ampio accesso a molti prodotti di eccellente qualità. A volte, però, un po’ di anarchia può essere stimolante. Esistono numerose pubblicazioni che possono aiutare l’appassionato a orientarsi nel caos, anche se l’arte della birrificazione evolve così in fretta che solo per tenersi aggiornati occorre un impegno a tempo pieno. Qui, però, il nostro fine è tutt’altro. Noi ci proponiamo di mostrare quant’è complessa l’identità della birra, collocandola prima nel suo contesto storico e culturale e poi sullo sfondo del mondo naturale, in cui tanto i suoi ingredienti quanto gli esseri umani – che la producono e la bevono – si sono manifestati. In corso d’opera ci occuperemo di teoria dell’evoluzione, ecologia, primatologia, fisiologia, neurobiologia, chimica e un po’ anche di fisica, addirittura, nella speranza di permettere un più intenso apprezzamento del meraviglioso liquido – paglierino chiaro, bruno-nerastro o di una qualche sfumatura intermedia – che riposa nel bicchiere che avete davanti. Speriamo che questo viaggio sia per voi illuminante quanto lo è stato per noi. La stesura di questo libro è stata un’avventura molto divertente, ma ancora più divertenti sono state le ricerche preliminari, cui hanno contribuito tanti ottimi amici e colleghi che dobbiamo ringraziare. Tra questi, in particolare, Heinz Arndt, Mike Bates, Günter Bräuer, Annis Cordy, Mike Daflos, Patrick Gannon, Marty Gomberg, Sheridan Hewson- Smith e lo University Club of New York City, Chris Kroes, Mike Lemke (che vent’anni fa insegnò a Rob DeSalle l’arte della birrificazione domestica), George McGlynn, Patrick McGovern, Michi Michael, Christian Roos, Bernardo Schierwater e John Trosky. Vogliamo poi esprimere riconoscenza anche alle nostre birrerie newyorchesi preferite. Sono tantissime, e le prime che vengono in mente sono ABC Beer Company, The Beer Shop, Carmine Street e Zum Schneider, anche se persiste il ricordo affettuoso e indelebile della vecchia Blarney Castle sulla West 72nd Street, con il suo incomparabile proprietario Tom Crowe. A questo punto della nostra carriera facciamo fatica a immaginare di realizzare un libro senza l’arte e il supporto morale di Patricia Wynne, che è sempre preziosa anche come collaboratrice oltre che come illustratrice. Grazie, Patricia, è stato un gran piacere lavorare con te a questo progetto e nel corso degli anni. Alla Yale University Press siamo particolarmente in debito con la nostra cara editor Jean Thomson Black, che tanto ha patito per colpa nostra e che, con la sua energia, il suo incoraggiamento e il suo entusiastico sostegno ha reso possibile questo libro. Vogliamo esprimere la nostra gratitudine anche a Michael Deneen, Margaret Otzel e Kristy Leonard per il contributo fornito nella realizzazione e nella discussione dei contratti, nonché a Julie Carlson per le sue eccellenti abilità redazionali e a Mary Valencia per l’elegante design del libro. Per concludere, ringraziamo come sempre anche Erin DeSalle e Jeanne Kelly per la pazienza, la tolleranza e il buon umore che hanno sempre dimostrato in tutte le fasi di gestazione del libro. Parte I Granaglie e lieviti

Un connubio destinato a durare Capitolo 1 La birra, la natura e l’umanità

Se una scimmia urlatrice può sbronzarsi allegramente, potremo ben farlo anche noi. “White Monkey” recita l’etichetta sulla bottiglia slanciata, come se l’eponimo primate avesse davvero presieduto, con le mani sugli occhi, ai tre mesi d’invecchiamento di questa Tripel alla belga in botti usate in precedenza per il vino bianco. A occhi aperti, abbiamo allentato la gabbietta metallica, fatto saltare il tappo di sughero da champagne e ammirato le bollicine che risalivano lentamente nella Ale color ambra dorata. Il profumo delle botti era delicatamente percepibile all’olfatto, ma la birra ha investito il palato con il classico gusto armonioso della Tripel, con le tonalità dolci del malto e una finitura decadente. Ci auguriamo che l’originaria scimmia urlatrice ubriaca abbia tratto dai suoi frutti di Astrocaryum fermentati anche solo la metà del godimento da noi provato! Gli esseri umani saranno anche le uniche creature capaci di fare la birra, ma – se diamo una definizione di “birra” sufficientemente ampia – non sono i soli a consumarla. Come potrebbe spiegare qualsiasi paleontologo assetato che abbia percorso i torridi paesaggi arabi avendo come unica prospettiva per la serata quella di una blanda “pseudobirra”, l’ingrediente chiave di questa meravigliosa bevanda è l’alcol etilico. Questa molecola, però, non ha nulla di intrinsecamente straordinario; anzi, la cosa più sbalorditiva è la sua ampia diffusione in natura. La si trova in abbondanza, per esempio, all’interno di gigantesche nubi intorno al centro della nostra Via Lattea, a proposito delle quali il collega Neil deGrasse Tyson ha parlato di «bar della Via Lattea». Nel famoso bar di Guerre stellari non c’è nulla di neanche lontanamente paragonabile, dato che – secondo i calcoli di Tyson – le molecole alcoliche presenti in questa nube galattica equivarrebbero a «cento ottilioni di litri di alcol purissimo». Purtroppo, però, le molecole di alcol offerte dal Milky Way Bar sono a tal punto meno numerose di quelle d’acqua che, nell’insieme, darebbero luogo a una bevanda a 0,001 gradi. Sarà meglio, allora, cercare un po’ più vicino a casa. E se è vero che i numeri, qui sulla Terra, sono meno strabilianti, i risultati sono molto più interessanti. Come spiegheremo nel capitolo 8, i lieviti che trasformano gli zuccheri in alcol sono onnipresenti nell’ambiente e non aspettano altro che di entrare in contatto con le materie prime. Inoltre, nell’ecosistema globale c’è una grande abbondanza di zuccheri su cui questi lieviti possono agire, soprattutto in virtù del fatto che, verso la fine dell’era dei dinosauri, alcune piante hanno cominciato a produrre fiori e frutti per attrarre impollinatori e disseminatori. La palma bertam della Malesia (Eugeissona tristis), per esempio, produce grandi fiori che essudano un nettare ricco di zucchero. Questo nettare fermenta spontaneamente e viene usato per produrre una bevanda aspra con una gradazione alcolica pari a 3,8 per cento in volume, che è più o meno pari a quella della birra tradizionalmente servita nei britannici. Questa abbondante risorsa ha attirato l’attenzione di una notevole varietà di abitanti della foresta, ma è particolarmente amata da un nostro lontanissimo parente: la tupaia dalla coda a piuma (Ptilocercus lowii). Durante la stagione della fioritura queste piccole creature (grandi come scoiattoli) si abbuffano per ore di nettare di bertam fermentato. In una singola “seduta”, una tupaia può assumere una quantità di alcol pari a quella di due pacchi di birre da sei, e senza dare il minimo segno di ebbrezza. Meglio per loro, perché l’habitat delle tupaie è pieno di predatori, e anche solo un momentaneo rallentamento dei riflessi può rivelarsi fatale. Nessuno sa come faccia la tupaia a compiere questa magia; di certo, sappiamo che l’attrazione esercitata sul piccolo mammifero dal nettare di questa palma va ben al di là dell’aspetto nutritivo. Un’attrazione analoga per i prodotti della fermentazione naturale si manifesta in una categoria di parenti a noi più prossimi: quella delle scimmie urlatrici dell’America meridionale e centrale… che, a differenza delle tupaie, sembrano risentire degli effetti dell’alcol. Negli anni Novanta, alcuni primatologi che studiavano le urlatrici a Panama hanno notato un esemplare che si nutriva con insolito entusiasmo dei frutti di un particolare tipo di palma chiamata Astrocaryum. La scimmia era così agitata da far sorgere negli osservatori il dubbio che fosse ubriaca e, considerando le analisi sul contenuto alcolico del frutto che aveva lasciato cadere al suolo, quasi certamente lo era. Secondo stime approssimative dei ricercatori, quella scimmia urlatrice, con i suoi nove chili circa di peso, aveva consumato, in un’unica “seduta”, l’equivalente alcolico di dieci drink da bar. Questa osservazione, insieme ad altre, ha indotto il biologo Robert Dudley a interrogarsi sulle origini della diffusa (ma tutt’altro che universale) passione che le creature viventi dimostrano per l’alcol fermentato in natura. Dudley ha concluso che il fattore cruciale nell’attrazione esercitata dall’alcol sui primati risiederebbe nel segnale che la pianta trasmette, con la presenza di zuccheri fermentati, affinché i suoi semi possano essere ingeriti (e, in ultima istanza, disseminati per la foresta). La fermentazione produce esalazioni intense, attirando mangiatori di frutta dall’olfatto acuto verso tutta quella nutriente frutta matura, offrendo loro un evidente vantaggio dietetico. Lo stesso ragionamento si applica all’evoluzione degli esseri umani perché, sebbene la nostra specie Homo sapiens sia oggi notoriamente onnivora, ci sono buone ragioni per ritenere che discendiamo da un antenato prevalentemente frugivoro. Se l’ipotesi della “scimmia ubriaca” di Dudley è corretta (e non tutti ne sono convinti), possiamo considerare la predilezione umana per l’alcol come un “postumo” evolutivo. In questo senso, tale nostra tendenza è probabilmente rimasta irrilevante finché il solo alcol disponibile era quello prodotto spontaneamente in natura. Soltanto in tempi recentissimi e, sul piano evolutivo, per cause totalmente accidentali, le cose sono un po’ sfuggite di mano, con lo sviluppo di tecnologie capaci di produrre alcol a piacimento, in quantità illimitate. Eppure, a un esame più attento, la questione comincia a sembrare un po’ più complicata di quanto risulta dall’ipotesi della scimmia ubriaca. In primo luogo, l’alcol e tanti suoi derivati hanno effetti tossici su numerosi organismi, inclusi quelli di gran parte dei primati. Anzi, si ritiene che gli antenati degli odierni lieviti abbiano sviluppato la capacità di produrre alcol proprio come arma di difesa contro altri microorganismi con cui si contendevano lo spazio ecologico. D’altro canto, se questa particolarità ha certamente conferito ai lieviti un gran vantaggio, è vero che in concentrazioni sufficientemente alte (di solito, intorno al 15 per cento in volume nel vino; nella birra, anche meno) l’alcol risulta tossico per gli stessi lieviti. Questo fatto, che nel mondo naturale è per lo più insignificante, diventa importantissimo per chi produce birra o vino. In luoghi meno esotici, pare che uno sfortunato porcospino sia morto dopo aver lappato una quantità di liquore all’uovo che non sarebbe bastata a dichiararlo ubriaco secondo le leggi dello Stato di New York. Ancora più suggestivo è il fatto che, per quanto i mammiferi frugivori (primati inclusi) siano attratti dalle esalazioni alcoliche, ce ne sono almeno altrettanti che le trovano repellenti. Evidentemente, c’è qualcosa di un po’ insolito nell’attrazione per l’alcol, e qualcosa di ancora più insolito nella capacità di tollerarne quantità relativamente grandi… come un po’ capita anche a noi umani, senza arrivare ai livelli delle tupaie. Da dove proviene, allora, la (non elevatissima) tolleranza all’alcol degli esseri umani? Come vedremo più dettagliatamente nel capitolo 13, la nostra capacità fisiologica di tollerare la birra e altre bevande alcoliche dipende dalla produzione, nel nostro organismo, di una classe di enzimi, chiamati alcol deidrogenasi. Prodotti da una varietà di organi interni, questi enzimi scompongono le molecole di alcol trasformandole in una varietà di elementi più piccoli e innocui. Una particolare tipologia di alcol deidrogenasi, chiamata ADH4, è presente nei tessuti della lingua oltre che nell’esofago e nello stomaco, ed è perciò la prima molecola di questo genere che la birra incontra quando ne beviamo. Come altre alcol deidrogenasi, l’ADH4 è tutt’altro che monolitica; anzi, si presenta in un gran numero di versioni. Alcune di queste puntano direttamente alle molecole di alcol etilico; altre attaccano alcoli diversi, come per esempio i terpenoidi, diffusamente presenti nelle foglie delle piante e importanti come fonte di nutrimento per molti dei primati nostri parenti. I biologi molecolari hanno comparato la distribuzione di ADH4 alcol attiva in un’ampia varietà di primati, dai galagoni alle scimmie, dagli scimpanzé agli esseri umani. Così facendo, hanno scoperto che una decina di milioni di anni fa si è verificato uno spettacolare passaggio, nei nostri antenati preumani, da una ADH4 “etanolo inattiva” a una forma “etanolo attiva”. Favorito dalla mutazione di un solo gene, questo passaggio alla nuova versione dell’enzima ha moltiplicato per quaranta la capacità dell’organismo di metabolizzare l’etanolo. Quale sia la ragione precisa di questa transizione è difficile a dirsi. Potrebbe persino essersi trattato di un evento adattivo aleatorio, non associato, cioè, a uno specifico cambiamento nella dieta. Gli studiosi impegnati nella ricerca di un nesso causale ipotizzano che il primate di corporatura relativamente massiccia che per primo ha sviluppato questa innovazione enzimatica abbia avuto, per questo solo fatto, la possibilità di trascorrere sempre più tempo al suolo, dove si trovano i frutti più maturi e in fase di fermentazione più avanzata. Poiché però la frutta in fermentazione può costituire solo una piccola parte della dieta di un frugivoro (anche del più rigoroso), è improbabile che un uso più efficiente di tale risorsa possa aver determinato da solo questa innovazione fisiologica. A ciò si aggiunga che, se il fatidico cambiamento è certamente avvenuto in un antico precursore dell’uomo, l’antenato in questione sembra aver vissuto prima della divaricazione evolutiva tra gli esseri umani e i loro parenti più prossimi: scimpanzé e gorilla. E abitava il pianeta prima che i nostri più immediati antenati diventassero gli onnivori che noi umani siamo oggi. Questo, a sua volta, significa che il cambiamento non è associabile a qualcosa che solo gli esseri umani o i loro parenti più prossimi ormai estinti sanno o sapevano fare. In ogni caso, quale che sia stato il contesto originario di questa significativa innovazione fisiologica, il fenomeno è sicuramente servito a preadattare all’assimilazione dell’alcol etilico gli esseri umani più recenti, che intanto (molto tempo dopo il primo cambiamento) hanno trovato il modo di produrne in grandi quantità. Ciò non significa, ovviamente, che i primi ominidi (primi esponenti della nostra progenie) non possano aver avuto – e persino gioiosamente manifestato – una predilezione per l’alcol a cui madre natura, per qualche ragione, li ha generosamente predisposti, concedendo loro la capacità di tollerarlo. È tutt’altro che raro, in natura, il caso di zuccheri (nel miele, nel nettare o nei frutti) che fermentano spontaneamente producendo alcol; e malgrado l’avversione all’alcol e alle sue esalazioni che, peraltro, si registra nei frugivori e in altri organismi, la letteratura specializzata è piena di aneddoti su animali di molte specie – elefanti, alci, beccofrusoni dei cedri, scimmie urlatrici – che si sbronzano allegramente per mezzo di frutta ultra- matura in fermentazione. È difficile immaginare che i nostri primi antenati non si siano almeno occasionalmente concessi questo sfizio… e, anzi, esiste ora un documento scientifico sugli scimpanzé – nostri parenti e con una tolleranza per l’alcol comparabile alla nostra – che fanno esattamente questo. A Bossou, in Guinea (Africa occidentale), i ricercatori hanno notato che alcuni scimpanzé selvatici si ripresentavano di continuo in una piantagione di raffia, una varietà di palma da cui i lavoratori ricavavano una sostanza ricca di zuccheri. Sgocciolando all’interno di contenitori di plastica, la linfa fermentava spontaneamente e rapidamente, producendo un apprezzato liquore di palma che di solito veniva recuperato dai lavoratori alla fine della giornata. Questi ultimi, però, avevano altre mansioni da svolgere e, mentre la loro attenzione era rivolta altrove, gli scimpanzé attingevano alla bevanda accartocciando delle foglie, immergendole a mo’ di spugna nei contenitori e ripescandole imbevute di liquido, che poi succhiavano avidamente dalle foglie stesse. I ricercatori hanno stimato che nel momento della sua assunzione da parte degli scimpanzé, la bevanda aveva un contenuto medio di etanolo assolutamente rispettabile di 3,1 per cento in volume. In alcuni casi, la percentuale saliva fino al 6,9. Questo liquore di palma, all’inizio della fermentazione, è una bevanda dolce e dal gusto delicato, ma quando il contenuto di alcol sale ai livelli più alti raggiunti a Bossou, l’odore si fa acre e – per noi – abbastanza repellente. Gli scimpanzé, invece, sembravano apprezzarlo, dato che intingevano le loro “spugne”, e le prosciugavano, anche dieci volte al minuto, e per molti minuti consecutivi. Questa linfa ricca di zucchero è senza dubbio nutriente, ma sussistono pochi dubbi sul fatto che gli scimpanzé apprezzavano anche il collaterale effetto di stordimento. I ricercatori hanno chiaramente rilevato, in alcuni dei soggetti da loro studiati, gli «indicatori comportamentali dell’ebbrezza», anche se non riferiscono episodi di particolare litigiosità. A quanto pare, gli scimpanzé di Bossou esageravano, ma solo fino a un certo punto… anche se alcuni di loro, appena terminato di bere, crollavano addormentati. Tuttavia, se è vero che le scimmie antropomorfe apprezzano l’effetto prodotto dall’alcol – come, quasi certamente, lo apprezzavano i primi precursori degli umani – va detto che la nostra moderna esperienza della molecola dell’etanolo presenta una dimensione ulteriore. Ciò dipende dal fatto che solo l’Homo sapiens, per quel che ci consta, possiede quel tipo di cognizione che, oltre a permettergli di prevedere le conseguenze delle sue azioni, gli fornisce una determinata coscienza della sua mortalità. Questo sapere pone sulle spalle dell’umanità un fardello esistenziale che nessun’altra specie deve sopportare: un peso che l’alcol riesce ad alleviare in maniera più benigna rispetto a tante altre sostanze disponibili. I membri della nostra specie hanno la peculiare capacità di preoccuparsi non solo di quel che sta succedendo loro nel momento presente, bensì anche di quel che potrebbe accadere loro in futuro. E poiché sappiamo che la nostra vita è piena di pericoli, accogliamo con piacere qualunque cosa possa aiutarci a prendere le distanze da questa spiacevole realtà. Con il suo effetto inebriante, l’alcol ci aiuta a prendere queste distanze; e la birra infonde quel tanto di alcol in maniera piacevole e tendenzialmente conviviale. Il gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin lo aveva capito già quasi duecento anni fa, quando scriveva che due sono le caratteristiche che ci distinguono dalle bestie: la paura del futuro e il desiderio di liquori fermentati. A mo’ di attrazione aggiuntiva, il nostro stile cognitivo peculiarmente umano ci consente di elaborare in modo totalmente inedito l’input proveniente dai nostri sensi, dandoci modo di analizzare in termini estetici la nostra esperienza del bere (vedi capitolo 11). Ciò conferisce un’ulteriore dimensione all’esperienza della birra, una bevanda che offre alla nostra considerazione una grande varietà di percezioni sensoriali… e spunti di dibattito.

Approfondiremo il tema dell’ebbrezza moderata e dei suoi pregi nel capitolo 13. Va tenuto presente, però, un fatto importante: le bevande fermentate possono essere anche piuttosto nutrienti, oltre che inebrianti, ragion per cui la birra ha occupato un posto molto particolare come risorsa dietetica nel corso della storia dell’Homo sapiens sedentario. Legata a doppio filo (storicamente e chimicamente) al pane, “la base della vita”, la birra è stata spesso definita “pane liquido”. Anzi, le due sostanze sono così intimamente imparentate – del resto, la fermentazione alla loro origine avviene spesso a partire dagli stessi cereali, a opera della stessa specie di lievito, il Saccharomyces cerevisiae – che ancora oggi si discute accanitamente se il primato appartenga all’uno o all’altra. È probabilmente più saggio, in questa sede, tralasciare la controversia, ma vogliamo chiarire una questione che spesso emerge nelle discussioni da bar sul tema della birra e del pane. Come si vedrà più in dettaglio nel capitolo 10, i prodotti collaterali della fermentazione a base di lieviti sono l’etanolo (alcol etilico) e il biossido di carbonio (anidride carbonica). Quando un fornaio fa il pane, prepara l’impasto e lo mette nel forno. Mentre la pasta si riscalda, il lievito si mette all’opera, producendo anidride carbonica che forma delle bolle di gas nella pasta inducendone la crescita. Ma che cosa accade all’etanolo che inevitabilmente si produce nel corso dello stesso processo? Perché il pane non ci ubriaca come la birra? La risposta è da ricercare nelle alte temperature richieste dalla cottura in forno, che causano l’evaporazione di quasi tutto l’alcol. Quasi. Quando viene sfornato, il pane contiene ancora un residuo di etanolo; e sebbene la quantità rimanente sia per lo più minuscola, talvolta pari o inferiore a 0,04 per cento in volume, per qualche istante può arrivare fino a 1,9. Ecco perché il pane fresco ha quel buon profumo! È interessante notare che quell’1,9 per cento è un valore vicinissimo al 2 per cento in volume, che è il quantitativo massimo di alcol metabolizzabile in tempo reale, nel momento stesso dell’ingestione. Perciò, se è vero che in certi casi il pane appena sfornato può momentaneamente contenere più o meno la metà dell’alcol presente in una tipica Ale inglese, non lo si potrà mai mangiare abbastanza rapidamente da sentirsi anche solo un po’ alticci. Perché gli esseri umani hanno così golosamente approfittato del processo naturale della fermentazione? Fino al termine dell’era glaciale, all’incirca diecimila anni fa, tutti i membri della specie Homo sapiens erano cacciatori e raccoglitori, che vivevano da nomadi, nutrendosi di quel che la natura poteva offrire… e il nutrimento disponibile poteva variare in misura anche notevole da un luogo all’altro. Esistono alcune prove del consumo saltuario di cereali, tra i nostri antenati cacciatori-raccoglitori, ma le granaglie hanno assunto un ruolo fondamentale nella dieta umana solo dopo il miglioramento del clima seguito alla fine dell’era glaciale. L’innalzamento delle temperature diede luogo a cambiamenti enormi nel numero e nella varietà di risorse vegetali e animali reperibili per le popolazioni umane che, a quel punto, erano sparpagliate in tutte le regioni abitabili del mondo. In risposta a questa eccezionale sfida ambientale, i gruppi umani – in modo indipendente, in varie località del globo – adottarono stili di vita sedentari che dipendevano dalla domesticazione delle piante e degli animali. Questa fatidica transizione alla vita sedentaria non è stata un processo semplice e si è dispiegata in modi e a velocità differenti secondo i luoghi. E per quanto la transazione si sia rivelata decisamente faustiana (dato che i cacciatori-raccoglitori sono, in genere, più sani e più ugualitari delle popolazioni sedentarie e hanno molto più tempo libero), le condizioni erano evidentemente mature per l’adozione di un nuovo modello economico. E dovunque si verificasse questo cambiamento i cereali domesticati avevano un ruolo di primo piano: grano e orzo nel Vicino Oriente, riso in Asia orientale, mais nel Nuovo Mondo. I cacciatori-raccoglitori hanno una strategia economica relativamente semplice: fanno uso di quel che la natura mette loro a disposizione. Di conseguenza, sono spesso obbligati a percorrere centinaia di chilometri ogni anno. Per gli agricoltori stanziali, invece, che coltivano varietà stagionali in un luogo particolare, la vita è più complicata. In certe stagioni, ci si ritrova con un’abbondanza persino imbarazzante; in altre, non si ha nulla da raccogliere. Perciò, servono sistemi per la conservazione del cibo, in modo da poter nutrire se stessi e la propria famiglia durante tutto l’anno. Tuttavia, soprattutto nei luoghi dal clima più mite, dove l’agricoltura ha avuto origine, la conservazione del cibo può essere un rompicapo. Le granaglie ammucchiate o stivate all’interno di buche nel terreno marciscono rapidamente a causa dell’ossidazione e presentano addirittura un rischio di autocombustione. Inoltre, il cibo conservato va protetto dagli assalti di animali affamati, dalle orde di minuscoli insetti ai roditori più voraci. A questo punto entra in scena la fermentazione. Il ricercatore Douglas Levey ha affermato che, da un punto di vista antropologico, a proposito della fermentazione deliberata delle granaglie sarebbe più opportuno parlare di un processo di deterioramento controllato. I microbi responsabili della decomposizione del cibo immagazzinato sono per lo più incapaci di sopravvivere in presenza di alcol – che è, notoriamente, un disinfettante –, ragion per cui i primi agricoltori, lasciando che i lieviti presenti in natura facessero fermentare entro certi limiti le granaglie, erano in grado di conservare buona parte del loro valore nutrizionale, se non la loro freschezza. Questo accorgimento è stato così importante, per loro, da indurre Levey a sostenere che la fermentazione sia stata usata prima come strategia per la conservazione del cibo e solo in seguito come metodo per produrre bevande inebrianti. Dato che l’alcol è un prodotto collaterale della fermentazione, e che non si può avere l’uno senza l’altro, forse la questione è persino oziosa. Non possono sussistere dubbi, però, sul fatto che la birra, a prescindere dalle sue virtù psicotrope, sia stata una parte importante del cibo immagazzinato nel mondo antico… e lo stesso può dirsi del nostro mondo, fino a non molto tempo addietro. Vale la pena notare che, mentre il vino si produce più o meno da sé con la fermentazione degli zuccheri naturalmente presenti nell’uva sottoposti all’azione del lievito, la birra richiede un processo più complicato. I chicchi di cereali utilizzati per fare la birra contengono molecole di amido che devono essere scomposte in molecole di zucchero più semplici prima che la fermentazione possa avere inizio. Il metodo preferito dai brassatori moderni per ottenere questa trasformazione consiste nel maltaggio dei chicchi, che vengono inumiditi e aerati per stimolare la germinazione e poi essiccati per bloccare la germinazione prima che gli zuccheri da questa prodotta siano consumati. E al momento opportuno gli zuccheri dormienti potranno poi essere esposti alle tenere cure del lievito.

Questa affermazione è stata verificata sui moscerini della frutta, soggetti molto apprezzati dai ricercatori di laboratorio, perché sono facili da tenere e si riproducono molto rapidamente. Ebbene, si è scoperto che i moscerini della frutta esposti a esalazioni alcoliche in concentrazioni moderate vivono più a lungo e si riproducono con più successo sia dei “forti bevitori” sia dei moscerini “astemi”. Inoltre, si è osservato che le larve dei moscerini della frutta infestate da parassiti si curano assumendo, preferibilmente, alimenti che contengono etanolo. Meno divertente, forse, è il fatto che i moscerini adulti cui era precluso l’accoppiamento dimostravano una maggiore attrazione per l’etanolo, forse per affogare i loro dispiaceri. Tra gli umani, gli studi clinici hanno ripetutamente associato una lieve o moderata assunzione di alcol a una minore incidenza di una vasta gamma di malattie e persino a una riduzione del rischio di morte. Il sistema cardiovascolare sembra beneficiarne in maniera particolare: un moderato consumo di alcol è dimostrabilmente associato a una riduzione dell’ipertensione e del colesterolo “cattivo” (LDL) e a un aumento del colesterolo “buono” (HDL), nonché a una diminuzione del rischio di ictus ischemico. Uno studio del 2017, che ha monitorato più di 300.000 persone per un periodo medio di circa otto anni, ha scoperto che, in confronto a chi non aveva mai bevuto alcolici, i bevitori leggeri o moderati avevano un 20 per cento di probabilità in meno di morire per una qualsiasi causa nel periodo di osservazione… mentre le probabilità di morire per una malattia cardiovascolare si riducevano di un 25-30 per cento. Per quel che riguarda le altre malattie, è stata rilevata, tra i bevitori moderati, una minore incidenza del diabete e dei calcoli alla cistifellea; di contro, va detto che recenti studi hanno anche ipotizzato l’esistenza di un legame tra consumo moderato di alcol e cancro alla mammella tra le giovani donne. In generale, tutto sembra indicare che, per la stragrande maggioranza degli esseri umani, i benefici di un consumo moderato di alcol sopravanzano sensibilmente i rischi. La moderazione, però, è essenziale, perché sono assodati i danni causati alla salute e alla società da un’assunzione eccessiva di alcol: danni che oscurano qualsiasi beneficio l’alcol possa apportare a un livello di consumo inferiore. Lo stesso studio del 2017 già ricordato ha scoperto che nel periodo di osservazione il rischio di morire per una qualunque causa era, per i forti bevitori di sesso maschile, del 25 per cento più alto in rapporto a chi non aveva mai bevuto in vita sua, mentre il rischio di morire di cancro saliva di uno strabiliante 67 per cento. Come sottolineeremo nei capitoli 12 e 13, tralasciando gli effetti sociali dell’alcolismo, questi dati da soli costituiscono un’argomentazione convincente contro il consumo smodato di qualsiasi bevanda alcolica. D’altra parte, in un senso vagamente perverso, il risvolto (relativamente) positivo per i bevitori di birra sta nel fatto che la loro bevanda preferita ha una concentrazione alcolica più bassa. Capitolo 2 La birra nel mondo antico

Questa, la progenitrice di tutte le Ale moderne, abbiamo dovuto produrcela da soli. Nel pentolone abbiamo messo acqua di New York, una quantità spaventosa di orzo a due file appena macinato e una manciata di fiocchi d’orzo per abbondare. Dopo aver fatto bollire la mistura, abbiamo aggiunto un Gruit di ibisco misto ad altri aromi di erbe e agrumi, e l’abbiamo lasciata fermentare con il lievito disponibile. Un mese più tardi abbiamo travasato il liquido marrone scuro nelle bottiglie e l’abbiamo lasciato riposare per due settimane. La prima bottiglia si è aperta con un sibilo soddisfacente. Divenuta densa e di un colore giallo-bruno, la nostra Ale aromatizzata alla buona ci è sembrata gradevolmente aspra sul palato, con un retrogusto “erboso”. Siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla sua bevibilità. Non c’è da stupirsi, dunque, se le tribù germaniche dell’età del ferro custodivano così gelosamente le loro tradizioni birrarie. La prima menzione della birra nel campo della letteratura attribuisce esplicitamente a questa bevanda un’influenza civilizzatrice. Nel poema epico Gilgameš – storia mitologizzata di un re sumero che regnava all’incirca 4700 anni fa – Enkidu, l’uomo-bestia, viene condotto in un villaggio e invitato a «bere birra, com’è costume di questa terra». Solo dopo aver bevuto la birra e consumato il pane che gli venivano offerti il ferino Enkidu viene infine giudicato pronto per entrare nella società civilizzata e proseguire il cammino verso la città di Uruk, capitale del regno di Gilgameš. Che cosa si poteva scegliere di più emblematico della birra e del pane per simboleggiare la civiltà? L’esistenza stessa della favolosa metropoli di Uruk era stata, infatti, resa possibile solo dalla produttività della vasta e fertilissima pianura cerealicola che si stendeva fra il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, «la terra tra i due fiumi». L’impero sumerico, come quello babilonese che gli subentrò, si fondava sui cereali, ossia sulla birra e sul pane che se ne ricavavano. Ai tempi di Gilgameš, la vita sedentaria e la coltivazione dei cereali con cui si produce la birra avevano già una storia discretamente lunga. Come già detto, il modello ancestrale dei cacciatori-raccoglitori cominciò a essere abbandonato quando le estesissime calotte polari cominciarono a restringersi per effetto del riscaldamento del clima alla fine dell’ultima era glaciale. Nel loro peregrinare sul territorio, gli antichi cacciatori-raccoglitori si saranno senz’altro imbattuti, di tanto in tanto, in frutti o miele in fermentazione e nell’alcol che da questi deriva. Benché non vi siano prove certe del fatto che popolazioni umane itineranti disponessero della tecnologia necessaria al maltaggio e alla fermentazione di quantità significative di cereali, è improbabile che, con l’affermarsi della vita sedentaria, sia passato tanto tempo prima dell’inizio della birrificazione su scala significativa. Nel Vicino Oriente, luogo d’origine della coltivazione del grano e dell’orzo, la transizione dalla vita nomade a quella sedentaria è ampiamente documentata nell’insediamento di Abu Hureyra, in Siria. Tra il 9500 e il 9000 a.C. circa le popolazioni accampate in questa zona seguivano ancora la pratica tradizionale della caccia e della raccolta. Intorno all’8400 a.C. i loro discendenti avevano cominciato a integrare la propria dieta con cereali coltivati; e intorno al 7000 a.C. le provviste di cibo degli abitanti derivavano principalmente da animali e piante domesticati di vario genere… anche se non si era certo smesso di macellare le gazzelle, in occasione delle loro annuali migrazioni nella regione. Nel periodo di tempo considerato (circa 4500 anni), Abu Hureyra, che in origine non era altro che una manciata di “buche” scavate nel terreno e riparate da un semplice tetto, si trasformò in un villaggio di una certa entità con nuclei di case fatte con mattoni di fango e dotate di corti scoperte. Gli abitanti di Abu Hureyra, abbastanza insolitamente, si dedicarono innanzi tutto alla coltivazione della segale. Nel Vicino Oriente, in genere, i cereali scelti per la coltivazione erano l’orzo e il farro (monococco e dicocco), tant’è che proprio a quest’area geografica viene ricondotta l’invenzione delle birre a base di orzo. È interessante notare che la domesticazione dei cereali precede l’invenzione della ceramica, che compare nel Vicino Oriente intorno al 6200 a.C. Benché i recipienti di terracotta non siano davvero essenziali alla produzione di birra in determinate forme, erano certamente un requisito fondamentale per poterne produrre in quantità. Quando la ceramica si è diffusa, gli esseri umani macinavano cereali da molto tempo, con gli esempi più precoci che risalgono a 23.000 anni fa, inducendoci a supporre che il pane abbia preceduto la birra nella dieta degli esseri umani. A ciò si aggiunga, però, che alcuni grandi contenitori in pietra scavata, risalenti a 11.600 anni fa e rinvenuti presso il sito preneolitico di Göbekli Tepe, nell’odierna Turchia orientale, potrebbero essere stati usati come recipienti per una bevanda fermentata a base di cereali selvatici. Quando i recipienti di terracotta sono entrati nell’uso, gli insediamenti erano piccoli, e i gruppi umani vivevano in comunità relativamente egualitarie di poche centinaia di individui. I membri di queste comunità erano per lo più imparentati tra loro, lavoravano insieme nei campi e avevano tutti più o meno le stesse capacità. Il cambiamento, però, fu rapido. Circa cinquemila anni fa, cioè più o meno nell’epoca in cui Enkidu, appena civilizzato, raggiungeva Uruk, in Mesopotamia si era già sviluppata una società fortemente stratificata. La maggior parte delle persone lavorava nei campi, ma i gruppi più importanti vivevano in grandi villaggi e nelle nuove città che cominciavano a sorgere. In questi grandi villaggi e nei centri urbani c’era chi produceva birra. E pare che si trattasse, in particolar modo, di donne. Nessuno sa esattamente quando sia cominciata la produzione di birra nei recipienti di terracotta da poco introdotti. Le tracce più antiche di birra d’orzo, scoperte sotto forma di depositi di ossalato di calcio in una giara di terracotta rinvenuta a Godin Tepe, nell’Iran settentrionale, nel sito di un insediamento sumerico, risalgono a poco più di cinquemila anni fa, il che colloca cronologicamente il liquido da cui quell’ossalato di calcio è derivato più o meno nell’epoca del nostro caro Enkidu. Nessuno, però, dubita che la tradizione della birra nel Vicino Oriente sia ben più antica, tant’è che non ci stupiremmo se nei più antichi recipienti di terracotta venuti alla luce in questa regione si scoprissero residui di ossalato di calcio. Dato che non sappiamo esattamente a quando risale la tradizione della birra in Mesopotamia, abbiamo almeno una cognizione di com’era il prodotto? Per nostra fortuna, la risposta è un sì senza riserve. Su alcune tavolette d’argilla, infatti, sono state ritrovate iscrizioni poi divenute celebri con il titolo di Inno a Ninkasi, e Ninkasi era la dea sumera della birra. Uno dei pregi dell’Inno sta nel fatto che non è soltanto un peana alla dea, bensì illustra anche una (specie di) ricetta per la preparazione di una bevanda che – si presume – veniva prodotta dalle sue sacerdotesse e che doveva assomigliare, in buona sostanza, alla birra che le donne producevano a casa per le rispettive famiglie. Questa ricetta era, chiaramente, solo una delle tante, perché i sumeri conoscevano almeno venti diverse tipologie di birra: bianca, rossa, nera, dolce, “di qualità superiore” e così via, spesso aromatizzate con ingredienti esotici. La birra di Ninkasi era probabilmente molto diversa da quella che potreste aver gustato oggi, tornando dal lavoro. Nell’Inno, Ninkasi viene descritta non solo mentre prepara il cereale maltato (germogliato) – immergendolo in acqua, per poi essiccarlo al fine di bloccare la germinazione e «mescolarlo con miele [più probabilmente da tradurre con “succo di dattero”] e vino» – bensì anche mentre cuoce nel forno il bappir, un pane d’orzo, forse come sistema per introdurre il lievito nella birra. Che il pane abbia svolto o meno questa funzione, però, alla fine Ninkasi avrà di certo versato il prodotto finale – che con tutta probabilità sarà stato in piena e violenta fermentazione – in un tino per la raccolta, prima di servirlo come «la corrente impetuosa del Tigri e dell’Eufrate». Secondo l’opinione prevalente, il liquore di Ninkasi, comunque venisse prodotto, era torbido e denso, e la presenza di abbondanti residui solidi è probabilmente la ragione per cui veniva sorbito, di norma, da un grande recipiente comune (lo stesso tino in cui, il più delle volte, avveniva la fermentazione), per mezzo di lunghe cannucce. E pare che l’accoglienza, quando veniva servito, fosse addirittura entusiastica, visto che – come recita l’Inno – «rallegra il cuore». Tutti i moderni bevitori di birra concorderanno senza esitazioni – anche se i loro medici potrebbero storcere un po’ il naso – con un’ulteriore affermazione del poeta, secondo cui la birra «fa felice il fegato». Nel capitolo 15 esamineremo le esperienze di un certo numero di spiriti audaci che hanno tentato di ricreare birre antiche come quella di Ninkasi. Per il momento, ci limitiamo a osservare che, indipendentemente dalle sue altre eventuali proprietà, dopo l’aggiunta di succo di dattero (o miele) e vino, la birra di Ninkasi (una replica della quale, prodotta in epoca moderna, ha fatto registrare un rispettabile 3,5% vol.) rientra sicuramente nella categoria delle birre “estreme” che oggi sono in pieno revival tra gli amanti della birra più avventurosi. Chiaramente, la birra non è nata come una bevanda semplice poi diventata sempre più complessa nel corso del tempo. Anzi, sarebbe più preciso dire che l’odierna mania delle birre estreme rappresenta un ritorno alle origini di questa bevanda. Una differenza tra la birra dei tempi antichi e quella odierna è che oggi abbiamo la possibilità di placare la sete con l’acqua. Oggi i cittadini delle economie sviluppate danno l’acqua pura e fresca per scontata, ma non è sempre stato così. La rivoluzione agricola ha comportato anche inquinamento su vasta scala, che è uno dei più importanti effetti indesiderati del progresso con cui le società umana continua, ancora oggi, a dover fare i conti. Ai tempi dei sumeri, sulla paludosa piana mesopotamica, affollata di gente e ancor più di animali domestici, dovevano esserci ben poche fonti sicure di acqua potabile. Ciò significa che per chi non poteva permettersi il vino, riservato a pochi privilegiati, la soluzione più sicura consisteva nel bere l’intruglio di Ninkasi. E così è stato in gran parte dei luoghi per gran parte della storia documentata. Una bevanda associata a una sua specifica divinità doveva avere un significato particolare per la società che la produceva, e forse la potabilità stessa della birra, di per sé, era ragione sufficiente per conferirle il suo status. Il significato di questo intruglio per i sumeri, tuttavia, va ben oltre, perché la birra era anche un modo importante di distribuire la ricchezza all’interno della società mesopotamica. Le tasse venivano spesso pagate sotto forma di grano consegnato al tempio. Le sacerdotesse di Ninkasi e di altre divinità trasformavano questo grano in birra (e pane), e il prodotto del loro lavoro veniva distribuito tra la popolazione a mo’ di compenso per i servigi resi. Da alcune tavolette cuneiformi si deduce che i lavoratori ricevevano un sila (circa un litro) di birra al giorno. I funzionari di basso livello ne ricevevano due e così via, a salire, fino ai più alti funzionari, che ottenevano cinque sila. La birra, a quei tempi, non si conservava a lungo e doveva essere bevuta alla svelta. Questo, però, non vuol dire che quei notabili da cinque sila al giorno fossero costantemente sbronzi: la birra, rapidamente deperibile, era utilizzabile anche per piccoli pagamenti di vario tipo. Ciò non significa che la birra, per i sumeri, avesse importanza solo sul piano economico e su quello epidemiologico. Allora come oggi, la birra, la più “sociale” delle bevande, aveva anche una grande importanza simbolica nella società. Sorbita in comune nelle giare in fermentazione tanto dagli umili lavoratori quanto dai nobili (i plebei usavano semplici cannucce di paglia, i nobili elaborati tubicini d’oro, di bronzo, di lapislazzuli o d’argento), la birra era la bevanda che accomunava i vari strati della società sumera. La birra scorreva anche in occasione dei più grandi festeggiamenti pubblici. Nell’870 a.C., Assurnasirpal II, re dell’impero assiro, tenne quella che potrebbe essere considerata la più fastosa celebrazione mai organizzata, per marcare il completamento della sua nuova capitale, Nimrud (una città a sud dell’odierna Mosul e, di recente, principale bersaglio delle profanazioni dell’ISIS). In quel festeggiamento, Assurnasirpal intrattenne settantamila ospiti per dieci giorni di banchetti, durante i quali furono consumate diecimila giare da più litri ciascuna, insieme alle carni arrostite di molte migliaia tra pecore, bovini e altri sfortunati animali, con altre diecimila otri di vino a mo’ di rinforzo. Era la birra, a quei tempi, non l’amore (Assurnasirpal era un signore della guerra particolarmente crudele, e ne andava fiero), quel che faceva girare l’antico mondo mesopotamico. E a mo’ di triste presagio di quel che nel corso dei secoli sarebbe diventato uno schema tipico, furono emanate leggi e normative a profusione per regolarne il consumo. All’inizio del II millennio a.C. il re babilonese Hammurabi aveva promulgato un codice di leggi volto a regolare la condotta dei cittadini, inclusa l’assunzione di liquori. Una delle ingiunzioni di Hammurabi potrebbe rientrare nell’ambito della difesa del consumatore: le taverniere (erano donne, a quanto sembra) che imbrogliavano i clienti venivano punite con la morte per annegamento. Un’altra, invece, ha un carattere decisamente più politico: le suddette taverniere rischiavano l’esecuzione sommaria nel caso si fossero astenute dal denunciare eventuali cospirazioni di cui avessero avuto notizia. Già a quei tempi, dunque, le taverne erano viste come sedi di accesi dibattiti politici e luoghi di possibili sedizioni… nonché, per giunta, crogiuoli di ogni vizio. È probabile, dunque, che le birre a base di orzo siano state inventate in Mesopotamia, ma gli antichi egizi ne erano altrettanto entusiasti e, in generale, ne producevano una versione più sofisticata. Anche loro avevano una propria dea della birra, Tenenit, ma la bevanda era solitamente associata a una dea di rango più elevato, Hathor, presso il cui tempio, a Dendera, si trova un’iscrizione del 2200 a.C. circa che recita: «La bocca di un uomo perfettamente soddisfatto è piena di birra». Secondo la leggenda, fu l’importantissimo dio Osiride a donare la birra agli egizi, ma è più probabile che questi ultimi, nei primordi della loro storia, abbiano mutuato dai sumeri la consuetudine di produrre birra (insieme alla tradizione delle donne birraie, anche se in seguito subentrarono gli uomini). Le birre di queste due grandi civiltà antiche erano sicuramente simili per natura. Solitamente prodotta a partire da pane d’orzo sbriciolato, cui potevano essere aggiunte granaglie maltate (germogliate), la birra egizia era densa, nutriente e spesso piuttosto dolce, soprattutto quando veniva aromatizzata con i datteri e il miele, assai apprezzati dai primi bevitori. In seguito, si cominciò a produrla direttamente dall’orzo e dal farro dicocco che veniva mischiato con malto non tostato prima dell’inizio della fermentazione. Sin da principio, comunque, chi preparava la birra manifestò chiaramente una tendenza alla sperimentazione, sebbene anche allora, come oggi, le variazioni nella qualità fossero una questione economica oltre che di gusti. Come già tra i sumeri, anche nell’antico Egitto la birra svolgeva un importante ruolo nella vita sociale. Veniva bevuta da persone di tutte le età e classi sociali, i salari venivano pagati sotto forma di birra, e in occasione delle festività religiose non poteva certo mancare. Gli artefici delle piramidi di Giza venivano in parte compensati con la birra: tre boccali al giorno, per un totale di quattro litri circa. La più piccola delle piramidi, che è anche la più recente (2500 a.C. circa), fu costruita per Micerino, faraone della IV dinastia, da una numerosissima squadra di manovali. Tra questi, c’era un gruppo che – stando a un’incisione seminascosta e non autorizzata – si definivano «Ubriaconi di Micerino». Non sappiamo quanto questi manovali diventassero turbolenti, quando alzavano il gomito, ma la birra fu senza dubbio il lubrificante che rese possibile la sbalorditiva impresa della costruzione delle piramidi. E se tutto quel lavoro sfiancante poteva incidere negativamente sullo stato di salute, niente paura: i benefici terapeutici della birra erano ampiamente riconosciuti e propagandati. Preparata con una grande varietà di additivi, la bevanda compare come ingrediente delle prescrizioni dei medici dell’antico Egitto per le malattie più disparate. Una volta ristabilitisi grazie alla birra, la ritrovavano come onnipresente complemento della vita civilizzata. Tra le tante scene di vita quotidiana dell’antico Egitto raffigurate sulle pareti delle tombe dei ricchi, alcune – tra le più affascinanti e intime – hanno a che fare con la birra: produzione, consumo e persino rigurgito. E se, alla fine, si aveva la sfortuna di essere colpiti da una malattia che neppure la birra era in grado di curare, la bevanda era essenziale anche come accompagnamento per l’aldilà. Gli egizi prendevano molto sul serio la loro libertà di bere birra. La regina Cleopatra VII (sì, quella Cleopatra) suscitò notevoli reazioni tra i sudditi quando decise di mettere una tassa sulla birra (il primo caso del genere nella storia, pare) allo scopo di finanziare le sue guerre contro Roma. Quei cittadini amanti della birra saranno probabilmente rimasti ancora più sconcertati dopo la vittoria finale di Roma, perché i vincitori si mostrarono decisamente sprezzanti nei confronti della bevanda preferita d’Egitto. Tacito, per esempio, noto storico ed enofilo, parlava della birra come di un «intruglio orrendo» che aveva «solo una vaghissima somiglianza» con la sua bevanda preferita. Sulla stessa falsariga, l’imperatore Giuliano paragonò l’aroma del vino a quello del nettare, e l’odore della birra alla puzza di capra. Il vino, in altre parole, veniva dagli dèi, mentre la birra era un rozzo prodotto umano. Data la dubbia reputazione che aveva la birra nell’antica Roma è curioso che la prima testimonianza relativa a un birraio riguardi un certo Atrectus, colono romano. Lui e i suoi amici emigrati nei settentrionali avamposti senza legge dell’impero avevano presumibilmente mutuato la consuetudine della birra dalle arretrate tribù germaniche e anglosassoni che abitavano nella zona. Questi nuovi e riluttanti sudditi di Roma discendevano dai coltivatori che, molto tempo prima, erano apparsi come pionieri in quelle plaghe fredde e inospitali dell’Europa settentrionale, più o meno all’epoca in cui Enkidu si crogiolava tra le amenità della civilizzata Uruk. Al loro arrivo, costoro erano evidentemente già a conoscenza della birra, perché le prime documentazioni in loco delle pratiche legate alla sua produzione sono straordinariamente precoci, in particolare quelle del sito neolitico di Skara Brae (3200-2500 a.C.) nelle remote e ventose isole Orcadi, a nord della Scozia. Grazie a scavi effettuati in Germania, in un sito risalente a circa 2500 anni fa, abbiamo anche qualche notizia sul metodo seguito dalle tribù nordeuropee dell’età del ferro per preparare i loro malti. L’orzo, a quanto risulta, veniva messo a bagno in fossi appositamente scavati finché non germogliava. Dei fuochi accesi alle due estremità di questi fossi interrompevano la germinazione. Il fumo conferiva un colore scuro e un gusto affumicato al malto così prodotto, che doveva risultare di qualità particolarmente elevata. Se ipotizziamo che i semi di giusquiamo nero (pianta moderatamente tossica) ritrovati in loco venissero aggiunti alla miscela, il prodotto finale sarà stato piuttosto potente… e avrà probabilmente avuto un gusto molto diverso da quello delle birre attualmente più diffuse. Riuscire a coltivare cereali nelle fredde e piovose condizioni dell’Europa settentrionale era impresa tutt’altro che semplice, perciò non sorprende il fatto che questi primi brassatori europei aggiungessero miele e bacche – insieme a ogni altra sostanza fermentabile su cui riuscivano a mettere le mani – al poco orzo o al poco grano che potevano riservare al maltaggio. Alcuni studiosi hanno affermato che le prime bevande alcoliche prodotte in Europa venivano consumate in contesti rituali, ma la prova a sostegno di tale tesi sembra essere il fatto che gran parte degli accessori legati al bere sono stati rinvenuti all’interno di tombe. Tali luoghi hanno senza dubbio un aspetto rituale, ma sono anche i luoghi in cui oggetti del genere avevano più probabilità di conservarsi e di essere perciò ritrovati dagli archeologi. Attualmente, le autorità in materia sono per lo più concordi: le birre estreme erano sicuramente una bevanda molto diffusa nell’Europa neolitica. La birra, dunque, era parte integrante della trama della vita nell’Europa settentrionale già agli albori dell’agricoltura nella parte meridionale del continente. Ci sono elementi da cui si può inferire che in questa parte del mondo il consumo non avveniva sempre nei limiti del decoro, come invece accadeva – stando alle fonti a nostra disposizione – tra i sumeri e gli egizi. Venanzio Fortunato, per esempio, un romano cristianizzato del VI secolo d.C., nelle sue osservazioni sui germani racconta che i partecipanti a una festa alcolica «si comportano come selvaggi […] c’è da considerarsi fortunati a uscirne vivi». Le sbronze esagerate, evidentemente, non sono un’invenzione moderna. La birra, dunque, ha una storia antica – anche se non sempre specchiatissima – in una vasta area geografica che va dalla Mesopotamia all’Europa occidentale, ma non possiamo ignorare che le primissime tracce della preparazione di una bevanda alcolica almeno in parte a base di cereali sono state rinvenute addirittura in Cina. A partire dagli anni Ottanta, gli archeologi impegnati a Jiahu, sito di un villaggio neolitico della Cina centrale risalente a un periodo compreso tra il 7000 e il 5800 a.C., hanno raccolto testimonianze di una società molto evoluta. Sin dall’inizio, gli abitanti di Jiahu avevano fatto uso di recipienti in terracotta, e in uno dei più antichi tra questi recipienti una squadra guidata dall’archeologo biomolecolare Patrick McGovern ha scoperto residui chimici di quella che può essere ragionevolmente descritta come una birra a base di riso. Tecnicamente, però, secondo gli scienziati, il prodotto di Jiahu è una bevanda ibrida, perché i marcatori chimici da loro identificati avevano quasi certamente origine da una gran varietà di ingredienti. Per cominciare, c’era il riso, forse di una varietà domesticata a grano corto, di cui sono stati trovati campioni ancora integri in loco. Si ritiene che gli amidi in esso contenuti venissero scomposti in zuccheri fermentabili in due modi: masticando e sputando i grani (che è probabilmente il metodo di saccarificazione più antico concepito dagli esseri umani) oppure attraverso la procedura di maltaggio successivamente usata in Occidente, ma non per l’azione delle muffe (come avviene oggi in Cina nella produzione di vini di riso), che rientra in procedure scoperte solo in seguito (le sue testimonianze più antiche risalgono alla dinastia Shang nel tardo II millennio a.C.). C’erano poi ingredienti variamente identificati come uva, miele e bacche di biancospino. Sulla base di tutti questi elementi, McGovern e colleghi hanno concluso che la bevanda di Jiahu era un incrocio fra un vino d’uva e biancospino, idromele e birra di riso. Per la cronaca, secondo la definizione di McGovern, un “vino” è a base di frutta, con una percentuale di alcol relativamente alta (9-10% o più), mentre una “birra” è a base di cereali e ha una concentrazione di alcol più bassa, nell’ordine del 4-5 per cento in volume. È significativo, però, che McGovern abbia scelto di collaborare con un mastro birraio, e non con un vinificatore, per ricreare la bevanda ibrida di Jiahu; e nonostante il prodotto ottenuto avesse una percentuale di alcol del 10 per cento, la birreria l’ha classificato come “Ale antica”. Nei capitoli 14 e 15 esamineremo nel dettaglio i tentativi di ricreare questa e altre antiche bevande a base di bacche. Per il momento è sufficiente rilevare che la difficoltà di ricondurre il preparato di Jiahu e altre pozioni alcoliche antiche entro le classificazioni moderne mette in evidenza il fatto che i primi produttori di bevande alcoliche, nel neolitico, sperimentavano praticamente con qualunque cosa fosse suscettibile di fermentare. A quei tempi, come avviene oggi negli ambienti della birrificazione “estrema”, valeva tutto… anche se, ovviamente, la clientela antica cominciò presto a richiedere quei particolari tipi di bevanda fermentata che incontravano il loro gusto o che erano economicamente alla loro portata. Tuttavia, la nostra esplorazione della storia antica mostra che la classificazione delle birre da noi usata attualmente è un fenomeno piuttosto recente… se non addirittura un epifenomeno. Capitolo 3 Innovazione e nascita di un’industria

Sul tavolo, la bottiglia ghiacciata luccicava, coperta di goccioline di condensa. “Since 1040” recitava l’etichetta sul collo. Dal 1040. Non senza una certa reverenza abbiamo rimosso il tappo da questo prodotto moderno del più antico birrificio del mondo. L’abbiamo trovata fluida alla mescita, con spuma moderata, colore ambrato brillante e chiaro, sapori ben bilanciati tra malto e luppolo… Insomma, una Lager classica e ben curata che era sicuramente ben lungi dalla Ale scura e torbida che i monaci di Weihenstephan producevano nell’XI secolo. Poi, però, abbiamo pensato: nei quasi mille anni trascorsi, forse, qualcosa si è appreso nel campo della produzione della birra. La storia recente delle birre di orzo e di grano è essenzialmente una storia europea, ma il richiamo della birra si estende chiaramente ben al di là dei confini di questo continente. La Cina – dove si presume sia da collocare l’origine delle bevande alcoliche a base di cereali – ha superato gli Stati Uniti, diventando il più vasto mercato al mondo per la birra, con consumi che nel 2016 hanno raggiunto la strabiliante cifra di 25 miliardi di litri. La produzione birraria nella Cina moderna, però, non è databile a prima del 1903, quando alcuni tedeschi aprirono un birrificio a Qingdao (Tsingtao), dove si continua tutt’oggi a produrre per lo più – anche se non esclusivamente – un tipo di Lager alla tedesca. In Giappone, la birra, ormai parte integrante della cultura locale, nonché bevanda alcolica più consumata nel paese, ha una storia di poco più lunga. La prima birra bevuta in Giappone in epoca moderna arrivò nella baia di Tokyo nel 1853, nel bar a bordo della USS Mississippi, nave ammiraglia del commodoro Perry (anche se i mercanti olandesi presenti nell’arcipelago, nel XVII secolo, ne avevano realizzata una per uso personale); e la birra prodotta oggi in Giappone resta fortemente influenzata dalla tradizione industriale americana, che si ispirava a sua volta, in sostanza, a quella tedesca. Nel XXI secolo, la popolosissima India – da cui prende il nome un particolare tipo di che viene lì consumata più che altrove – è stata giustamente descritta come un “peso piuma” nel mercato della birra, anche se pare che di recente si stia registrando un qualche incremento. E nel Vicino Oriente, se i sumeri avevano liberamente sperimentato le possibilità legate alla fermentazione dei cereali, la produzione e il consumo di birra sono rigorosamente inibiti da più di mille anni per via della condanna coranica contro il “vino”, inteso – ahinoi – come sinonimo di tutte le bevande alcoliche. Torniamo dunque in Europa. Non si sa molto delle tradizioni legate alla birra per quel che riguarda la cosiddetta (probabilmente a sproposito) “età buia”, ossia il periodo che segue la caduta dell’impero romano nel V secolo d.C. Di certo sappiamo che, se nelle parti più calde dell’ex impero si continuò a produrre e a bere il vino, nelle sue regioni più settentrionali ci fu un revival dei cereali, e la birra tornò in voga. Il grano era chiaramente il cereale più pregiato, ma il più coltivato era l’orzo; e tutti, dal più umile dei contadini in su, bevevano grandi quantità di una birra leggera solitamente a base di orzo – spesso estratta da malto già usato – come più salubre sostituto dell’acqua. L’alcol presente nella birra sicuramente influiva, ma era la bollitura richiesta dalla preparazione della bevanda a garantire un livello di sterilità che a quei tempi la stragrande maggioranza delle fonti d’acqua non era in grado di garantire. Solo i ricchi e gli aristocratici avevano occasione di bere le più costose varietà di idromele e le birre più forti; e se si eccettuano i contesti sacramentali, in gran parte dell’Europa settentrionale solo di rado si vedeva del vino importato dal Sud. In quel periodo, la birra leggera dominava incontrastata, e a partire dall’800 d.C. cominciò a viaggiare con i vichinghi sulle loro lunghe navi, per tonificarli nel corso dei loro lunghi e faticosi viaggi. Così come per gli antichi romani il vino era un dono degli dèi, e la birra una bevanda infinitamente inferiore, anche l’emergente chiesa cristiana teneva il vino in gran conto per la sua importanza sacramentale (dono di un unico dio, questa volta), mentre della birra aveva una scarsissima considerazione. Nel V secolo, un teologo minore, Teodoreto di Cirro, parlando della birra d’orzo la definiva «acetosa, maleolente e nociva». Gli aggettivi da lui scelti costituiscono, probabilmente, una descrizione poco accurata della birra consumata dalle sue parti, ma parlano di una percezione diffusa tra i cristiani, secondo i quali la birra era la bevanda dei pagani. In fin dei conti, però, le autorità della chiesa decisero di accogliere le preferenze gustative delle popolazioni da convertire. Evidentemente, dopo aver adottato il principio per cui conviene unirsi al nemico che non si riesce a sconfiggere, i monaci trovarono che anche la produzione della birra era un ottimo modo per utilizzare e conservare i cereali che, grazie alle decime riscosse nella stagione del raccolto, stipavano i loro granai. E nacque così la tradizione della birra nei monasteri. In breve, i monasteri non solo si fecero apprezzare dalle loro greggi alzando la posta nel gioco della birra (finendo, incidentalmente, per mascolinizzarlo), bensì scoprirono anche che questa bevanda era un’utile fonte di reddito. Inoltre, con il passare del tempo, nei monasteri la birra divenne oggetto di sempre più vivaci sperimentazioni, perché i monaci producevano per tutte le tasche e – come i loro colleghi secolari – aromatizzavano i loro prodotti migliori con l’aggiunta di un Gruit composto da ingredienti vegetali sempre più esotici quali bardana, achillea millefoglie, assenzio maggiore, salvia, artemisia, marrubio e bacche di ginepro. E, per finire, anche il luppolo. Questa innovazione del IX secolo (ma forse persino precedente) – l’introduzione delle infiorescenze a forma di cono della pianta rampicante Humulus lupulus (previa essiccazione) nel processo di produzione della birra – cambiò completamente la situazione. Il luppolo non solo è un potente aromatizzante, capace di conferire un gusto amarognolo e rinfrescante, bensì è anche un conservante naturale che prolunga la vita della birra (vedi capitolo 9). Senza luppolo, la birra doveva essere bevuta appena fatta, cioè localmente. Solo le birre più forti, a elevato contenuto di alcol (che a sua volta ha proprietà conservanti), potevano essere trasportate e solo per brevi tragitti. Con il luppolo, invece, qualsiasi birra – incluse quelle meno alcoliche, prodotte con una minore quantità di malto – poteva essere trasportata più lontano di prima, consentendo lo sviluppo di un commercio a (relativamente) lunga distanza.

Tutte le prime birre monastiche (o d’abbazia, come si dice in Belgio, dove tale tradizione – benché non ininterrotta – è più viva che mai) rientravano nella più generale categoria delle Ale. Queste ultime sono birre fermentate a temperatura ambiente, utilizzando per lo più il lievito Saccharomyces cerevisiae, la stessa specie usata per fare il pane e far fermentare il vino, ma talvolta anche lieviti selvaggi (vedi capitolo 8). Durante la fermentazione, il lievito sale verso la superficie del liquido, formando una schiuma densa. Allora, come oggi, la procedura di brassaggio della Ale si prestava a infinite variazioni: calibrando tutta una serie di fattori, tra cui la temperatura dei tini di fermentazione (in origine, per esempio, si poteva scegliere in quale stagione produrre la birra), il tempo di fermentazione, il tipo e la quantità del malto impiegato, il metodo della tostatura del malto, la composizione del Gruit (che a poco a poco, con l’avvento del luppolo, ha perduto importanza), la quantità di luppolo e la varietà di quest’ultimo (vedi capitolo 9), i birrai dei monasteri erano capaci di produrre una vasta gamma di gusti, consistenze e gradazioni alcoliche… anche se, con l’estendersi dei loro commerci e delle rispettive reputazioni, ogni abbazia tendeva poi a specializzarsi, almeno su base stagionale. Il birrificio che è attivo da più tempo senza interruzioni nasce come impresa monastica. Oggi di proprietà dello Stato, il birrificio tedesco Weihenstephan, situato nella cittadina bavarese di Freising, cominciò a produrre birra sotto gli auspici dell’abbazia benedettina di Santo Stefano (figura 3.1). Nel 1040 la città concesse ai monaci di Weihenstephan una licenza ufficiale per la produzione della birra, usando luppolo che cresceva sui terreni di loro proprietà già da svariate centinaia di anni. Appare improbabile che la produzione di birra all’abbazia di Weihenstephan sia iniziata solo nel 1040, ma questa data, posta in calce alla licenza sopra ricordata, consente all’azienda ceca Žatec di rivendicare il titolo di birreria più antica ancora in attività, avendo pagato già nel 1004 una tassa sulla birra che produceva. L’attuale stabilimento Žatec, però, è stato costruito nel 1801, ragion per cui la birreria (intesa come edificio) più antica è da considerarsi quella dei monaci dell’abbazia bavarese di Weltenburg, che cominciò a funzionare nel 1050. Nonostante una breve interruzione in una fase di tumulti politici, a inizio Ottocento, Weltenburg è ancora un istituto monastico e produce una premiata birra scura nonché una deliziosa Pilsner. Figura 3.1. A sinistra: incisione raffigurante l’abbazia di Weihenstephan, da Michael Wening, Topographia Bavariae, 1700 circa. A destra: l’editto di purezza (Reinheitgebot) emanato in Baviera nel 1516.

In Germania, il monopolio dei monasteri nella produzione di birra a fini commerciali non durò a lungo. Con la costante espansione dei centri abitati nel tardo medioevo, la prospera e sempre più influente classe media mercantile rivendicò la propria parte, e forse fu proprio questa la ragione per cui le autorità municipali di Freising concessero quella licenza ai monaci di Santo Stefano. I birrai della città di Colonia ebbero finalmente il diritto di costituirsi in gilda nel 1254 (un secolo dopo la maggior parte delle altre professioni emergenti), e in altre città si seguì questo esempio. Ciò portò, nelle varie città e regioni, allo sviluppo di particolari tipi di birra che vennero a trovarsi in concorrenza sul mercato. Inevitabilmente, scoppiarono le guerre della birra. I primi prodotti di Weihenstephan, Žatec e Weltenburg rientravano nella categoria delle Ale. Eppure, con la sola eccezione delle Hefeweizen (birre di frumento), le bevande prodotte oggi da questi storici birrifici sono tutte Lager, per effetto del più significativo scisma consumatosi nella storia della birra. All’inizio del XV secolo (se non prima), i mastri birrai di Einbeck e dintorni, in Bassa Sassonia, cominciarono a produrre birra in un modo radicalmente nuovo. I produttori di birra in Baviera avevano già da tempo l’abitudine di conservare e far invecchiare la loro Ale in grotte di pietra calcarea, dove le condizioni della temperatura inibivano lo sviluppo di batteri indesiderati durante la maturazione. Il nuovo prodotto di Einbeck, però, aveva qualcosa di diverso. Dopo aver passato l’inverno a maturare tranquillamente al fresco di quelle grotte, la birra diventava trasparente e di un colore brillante e acquistava una finitura vibrante, a differenza delle più complesse e solitamente torbide Ale di quei tempi. In tedesco, questo antico sistema di conservazione a freddo era ed è chiamato Lagerung, e nessuno aveva la più vaga idea del motivo per cui solo a Einbeck, e proprio lì, si verificasse quel benefico fenomeno. Questa ignoranza non può certo sorprendere, perché a quei tempi nessuno conosceva con esattezza come avveniva la fermentazione. Si sapeva da tempi antichissimi che era favorita da certi particolari elementi, e nel caso della birra l’agente della fermentazione era ricavato dalla schiuma che si formava sulla superficie della miscela fermentata e che veniva raccolta in un altro recipiente. Che la fermentazione fosse causata da minuscoli organismi che noi oggi chiamiamo “lieviti”, invece, lo si sarebbe scoperto solo in seguito alle ricerche del chimico francese Louis Pasteur, nel XIX secolo. E la grande scoperta di Pasteur portò, in breve, a comprendere che i produttori della birra poi diventata nota come Lager utilizzavano per la loro bevanda un particolare tipo di lievito (vedi capitolo 8). A differenza del tradizionale Saccharomyces cerevisiae, la cui fermentazione è ottimale intorno ai 21 °C, il nuovo tipo di lievito individuato, detto Saccharomyces pastorianus (in onore di Pasteur), prospera a temperature assai inferiori, intorno ai 4,5 °C, e invece di dar luogo alla fermentazione alta tipica del Saccharomyces cerevisiae, si deposita sul fondo del tino di fermentazione, portando con sé altri residui e rendendo il liquido trasparente e di un colore brillante, anche se in origine era piuttosto scuro, dato che veniva prodotto con malto tostato in una fumosa fornace alimentata a legna. Non meno importante è il fatto che il lievito di più recente scoperta sprigiona il suo scarto di anidride carbonica verso l’alto, rendendo la birra frizzante. Da dove sia arrivato questo nuovo lievito è questione tutt’oggi dibattuta. Da quarant’anni, ormai, si sa che il Saccharomyces pastorianus è il frutto dell’ibridazione tra Saccharomyces cerevisiae e un’altra specie. Quest’ultimo lievito – evidentemente responsabile della tolleranza del Saccharomyces pastorianus alle temperature più basse e della sua tendenza alla fermentazione bassa – è per molto tempo sfuggito a ogni ricerca. Di recente, però, è stato individuato e chiamato Saccharomyces eubayanus. Questo lievito è stato inizialmente rinvenuto in Sud America, ma se ne sono poi trovate tracce anche in Tibet. Quest’ampia distribuzione da poco dimostrata fa ragionevolmente supporre che tale lievito possa annidarsi, non ancora scoperto, nelle foreste di querce dell’Europa centrale. In caso contrario, la presenza del Saccharomyces eubayanus a Einbeck sarebbe ancora tutta da spiegare. Intanto, nella Baviera del XV secolo, epicentro dell’innovazione nel campo della birra, erano in corso altri importanti sviluppi. È significativo, in particolare, che proprio in Baviera abbia avuto origine il Reinheitsgebot (l’editto di purezza della birra). Promulgato inizialmente nel 1487 per il Ducato di Monaco, poi esteso a tutta la Baviera nel 1516 e infine all’intera Germania (nel 1919, quando la Baviera condizionò la propria adesione alla Repubblica di Weimar all’adozione della suddetta normativa a livello nazionale), il Reinheitsgebot stabiliva in origine che i soli ingredienti legalmente ammessi per la birra erano acqua, orzo e luppolo (figura 3.1). Il lievito fu aggiunto alla lista di lì a qualche secolo, dopo le scoperte di Pasteur. Si noti che la legge regolava anche le modalità di vendita e il prezzo della birra. Da un certo punto di vista, potrebbe sembrare un illuminato provvedimento in difesa dei consumatori, ma è probabile che l’orzo fosse indicato come unico cereale ammissibile per via delle carenze di grano che spesso facevano scarseggiare il pane. Inoltre, le tasse sulla birra erano un’importante fonte di introiti per le autorità secolari, ben coscienti di come un declino nella qualità della birra avrebbe potuto causare un corrispondente declino delle loro finanze. Furono probabilmente queste preoccupazioni a indurre le autorità bavaresi a bandire, nel 1553, la produzione di birra con il caldo estivo (quando era più probabile la proliferazione di microbi indesiderati), il che limitò più o meno la produzione di birra in Baviera alla sola Lager… con ripercussioni a lungo termine sul mercato della birra mondiale. Non si può certo dire, però, che la produzione di birra in Germania sia così monolitica. Se è vero che la Lager è di gran lunga la più venduta a livello nazionale, anche le birre di grano a fermentazione alta sono ampiamente prodotte e consumate. Tra le altre varietà di birra apprezzate in Germania figurano quelle di segale; le birre ibride a fermentazione alta come la Kölsch, che vengono sottoposte a Lagerung; le famose birre affumicate di Bamberga, che uniscono il lievito della Lager a un malto tostato su un fuoco di legna antica; e c’è persino una bevanda, tipica della città di Cottbus, che contiene miele, melassa e avena, oltre a malti di grano e di orzo.

Al confine orientale della Baviera sorge la Boemia, parte occidentale dell’odierna Repubblica Ceca. All’inizio del XIX secolo, in questa regione dalla raffinata tradizione birraria, ma dove non era in vigore il Reinheitsgebot, la città di Plzeň (Pilsen) dovette fare i conti, a quanto risulta, con un declino nella qualità della birra, al punto che, nel 1838, la popolazione in tumulto rovesciò diverse decine di barili di un prodotto locale, evidentemente disgustoso, sui gradini del municipio. Costernate, le autorità cittadine andarono in cerca di aiuto e lo trovarono nel burbero e irascibile Josef Groll, un mastro birraio bavarese che, dopo un soggiorno in Inghilterra, dove aveva appreso i segreti per preparare una Light Ale usando un malto chiaro tostato a carbone (approfondiremo il tema più avanti), investì in una fornace britannica e sottopose il malto ivi prodotto a una fermentazione riservata alle Lager bavaresi. La leggera acqua locale, il luppolo Saaz e l’orzo si rivelarono perfetti per questo trattamento: quando, alcuni mesi dopo, furono saggiati i primi barili, tutti rimasero estasiati. La “Pilsener” di Groll era trasparente, chiara, dorata e brillante, con «una spessa schiuma bianca come la neve» e sottili aromi di luppolo. Con ciò fu stabilito uno standard per la Lager che altri hanno faticosamente tentato di eguagliare. Oggi, si producono “Pilsner” in tutta Europa e, anzi, in tutto il mondo, in una gran varietà di stili, ma secondo alcuni appassionati solo a Plzeň gli ingredienti della ricetta si fonderebbero alla perfezione.

Se in Germania i bevitori di birra stavano a poco a poco abbandonando le Ale in favore delle Lager, in Belgio la tradizione delle Ale continuò a prosperare. Come in Germania, anche in Belgio la produzione della birra era in origine prerogativa dei birrifici monastici. A causa di successivi sommovimenti politici, però, gli antichi istituti religiosi sono quasi tutti scomparsi, e le odierne birre d’abbazia belghe provengono, in generale, da monasteri ricostruiti dopo i travagli dei secoli dal XV al XVIII o, più semplicemente, sono prodotte “alla maniera” delle birre monastiche, che è un’espressione molto vaga. Una categoria speciale delle birre d’abbazia belghe comprende le cosiddette birre “trappiste”, cioè prodotte in uno dei sei monasteri appartenenti all’ordine trappista, fondato in Francia nel XVII secolo e affiliato a quello cistercense da cui deriva. Oggigiorno sono undici le birre che possono vantare l’ambita etichetta di “autentico prodotto trappista”, anche se tutti questi monasteri – a eccezione di uno – sono stati fondati dopo il 1835. Per essere un piccolo paese, il Belgio vanta una sbalorditiva gamma di birre e stili. “Dubbel” e “Tripel” erano in origine denominazioni trappiste riferite a certe Ale molto corpose, fruttate e brune, che avevano un contenuto etilico, rispettivamente, tra 6 e 8 e tra 8 e 10 per cento in volume, anche se le Tripel odierne hanno di solito un colore più dorato. Le Ale ambrate del Belgio sono, in genere, paragonabili alle Pale Ale inglesi, anche se spesso sono più dense, più maltate e più alcoliche; le bionde si presentano in una gamma analoga, benché con un corpo e un colore più light (ma non necessariamente sul piano del contenuto alcolico). Le “birre champagne” passano attraverso una seconda fermentazione in bottiglia; nelle rosse fiamminghe viene inoculata una coltura di Lactobacillus. Le Ale stagionali o in “stile fattoria” avevano un contenuto alcolico tradizionalmente inferiore e venivano prodotte durante la stagione del raccolto per dissetare i braccianti agricoli della Vallonia meridionale. Una versione più invecchiata, brassata in origine per gli operai della Vallonia settentrionale, è decisamente più corposa ed è nota come Bière de Garde. Si badi, però, che molte moderne birre stagionali, emancipandosi dalla tradizione, si presentano con un contenuto alcolico compreso tra 5 e 8 per cento in volume. Un’apprezzatissima specialità belga è costituita dalle birre Lambic brassate con grano e lieviti selvaggi e lasciate invecchiare a lungo. C’è chi aggiunge frutta: ciliegie per la Kriek, lamponi per la Framboise, pesche per la Pêche. Se per innescare la fermentazione si usa lo zucchero, si ottiene la Faro, mentre la Gueuze leggermente frizzante – la birra acida originale – veniva tradizionalmente ottenuta miscelando lotti di birra più giovane e non completamente fermentata con un prodotto più stagionato, lasciando che i lieviti selvaggi completassero la fermentazione in bottiglia. Il Belgio, insomma, è il paese delle meraviglie per gli appassionati della birra. Già solo la grande varietà delle Ale evoca le profonde radici storiche della birra in queste regioni, anche se – dati i grandi e cruenti rivolgimenti che hanno afflitto il paese negli ultimi secoli – le versioni oggi disponibili delle birre storiche non sono repliche esatte dei loro antichi modelli. Non tutte si adattano al gusto di tutti; ma sono tutte interessanti, ed è piuttosto difficile trovare una Ale belga di cattiva fattura. Eppure, in Belgio si producono anche enormi quantità di Lager in stile Pilsner di qualità non particolarmente eccelsa. Stranamente, per noi stranieri, gli odierni bevitori di birra belgi optano in genere per questa birra più light: oggi, nel loro paese, la Lager viene prodotta e consumata in misura di gran lunga superiore rispetto alla Ale.

Una delle ragioni per cui il Belgio offre una tale incredibile varietà di Ale risiede quasi certamente nella sua posizione geografica, troppo settentrionale per coltivare l’uva da vino. Lo stesso può dirsi (almeno fino a poco tempo fa) per la Gran Bretagna, l’altra grande nazione produttrice di Ale. Nell’ambito della produzione di birre a fermentazione alta, le isole britanniche hanno una lunga tradizione che risale addirittura a Skara Brae, e l’abitudine di produrre e bere Lager ha avuto una diffusione significativa nel Regno Unito solo nel tardo XX secolo. Per tutto il medioevo, in Gran Bretagna, la cosiddetta Small Beer (nel senso di “blanda”) scorreva a fiumi, preziosa fonte di nutrimento (e di idratazione sicura) prodotta riutilizzando il malto già brassato. All’inizio, a quanto risulta, le Ale House venivano gestite da donne, le alewives, che vendevano la birra prodotta sul posto, ma in breve furono estromesse dagli uomini. Nel XIV secolo, i mastri birrai cominciavano a formare gilde e, anche se in genere producevano solo per le rispettive mescite, iniziarono anche a rifornire altre rivendite, gettando le basi del più tardo sistema delle “affiliazioni” (Tied House). Questo sviluppo sembra aver imposto l’adozione di un embrionale sistema di difesa del consumatore, con l’introduzione degli ale conners, gli assaggiatori, impiegati dalle varie municipalità per valutare la qualità del prodotto venduto e stabilire il giusto prezzo a fini impositivi. A volte, i conners dovevano essere costretti a ricoprire questo incarico, forse perché le birre che si trovavano obbligati ad assaggiare non sempre erano di buona qualità. Purtroppo, la storia secondo cui gli assaggiatori dovevano sedersi in una pozza di birra, per verificare che contenesse una quantità di estratto sufficiente ad appiccicare i loro pantaloni di cuoio alla panca, è probabilmente apocrifa. Gli sprechi, però, dovevano essere un problema rilevante nel corso del medioevo nelle isole britanniche, perché l’impiego del luppolo, con le sue proprietà conservanti, prese piede con molta fatica: solo nel XVI secolo diventò un ingrediente fisso delle birre britanniche. All’inizio del XVIII secolo i più grandi mastri birrai britannici stavano sviluppando un nuovo tipo di Ale, nota come Porter (perché pare che fosse molto popolare tra i facchini dei mercati), con elevato contenuto di luppolo e prodotta con malti tostati scuri. Con un contenuto alcolico che, di norma, toccava o superava il 6 per cento in volume, prodotta con l’aiuto dei primi strumenti scientifici disponibili (termometri e densimetri), fu la prima birra che poteva essere prodotta e distribuita su scala industriale. Le economie di scala di cui potevano approfittare i grandi produttori resero ben presto poco redditizia la produzione in proprio da parte dei singoli esercenti. Le fornaci per la tostatura dell’orzo erano per tradizione alimentate a legna o a carbone e producevano, perciò, un malto piuttosto denso e affumicato. Le Porter erano, di conseguenza, bevande molto corpose e scure. La rapidità dei progressi tecnologici all’inizio del XVIII secolo, però, rese assai più conveniente e più ampiamente disponibile il carbon coke, che oltretutto, bruciando, produceva meno emissioni inquinanti. Questo sviluppo aprì la strada alla produzione su vasta scala dei malti più chiari che erano alla base della nascente categoria delle Pale Ale… nonché, come si è visto, della Lager in stile Pilsner di Josef Groll. Una variazione estremamente significativa sul tema della Pale Ale fu la cosiddetta (IPA), che veniva prodotta specificamente per il nascente impero britannico. Il torrido clima indiano rendeva complicata la produzione di birra sul posto, ma gli accaldatissimi mercanti britannici e gli avventurieri bruciati dal sole non si accontentavano dell’acre e spesso pericoloso arak (distillato di linfa di palma), unica bevanda alcolica offerta dalla tradizione indiana. Il mercato rappresentato da queste categorie di persone era potenzialmente molto remunerativo, ma il trasporto delle Ale inglesi in India comportava un viaggio per mare lungo e difficile, a cui le birre, anche in condizioni ideali, difficilmente sopravvivevano. La soluzione a questo problema fu un leggero innalzamento del contenuto alcolico e un notevole aumento della luppolatura, sul modello di una varietà già nota con il nome di October Beer. Le October erano Pale Ale forti, di una varietà molto apprezzata dalla nobiltà terriera (come diceva A.E. Housman, «tra i pari d’Inghilterra molto si usa / far un liquore più vivace della Musa»). Di norma, queste birre venivano fatte invecchiare per due anni nelle cantine delle grandi case, ma si scoprì che il viaggio fino in India, di poco più breve, finiva per sortire lo stesso effetto sulla birra… insieme ad altri. La Ale arrivava ai tropici non solo limpida, fruttata e rinfrescante, bensì spesso anche leggermente frizzante, quasi certamente a causa di una fermentazione secondaria che avveniva nei barili grazie all’azione dei lieviti del genere Brettanomyces (vedi capitolo 8). Enormi quantità di IPA vennero esportate in India, ma anche in Australia, e all’inizio del XIX secolo una versione meno alcolica di questa birra era proposta anche ai consumatori in patria. Le IPA di quest’ultimo tipo, più leggere, venivano esportate anche nell’Europa continentale, dove trovarono un’accoglienza favorevole: la Ale Bass compare accanto ad alcune bottiglie di champagne nel grande dipinto Il bar alle Folies-Bergère (1882) di Édouard Manet. In Irlanda, la Porter si sviluppò in una direzione particolare. Quando Arthur fondò il suo birrificio a Dublino, nel 1759, la qualità media della birra irlandese era, a quanto risulta, piuttosto scarsa. Per ovviare a questa situazione, Guinness alzò la posta, e verso la fine del secolo cominciò a concentrarsi sulla produzione di una Porter molto apprezzata che in breve monopolizzò il mercato. Vent’anni più tardi, i suoi successori brassavano una scurissima Superior Porter che finì per diventare la versione Extra Stout famosa in tutto il mondo, con il suo colore quasi nero e il gusto lievemente bruciato. Al predominio di Guinness sul mercato della Ale scura contribuì il provvedimento delle autorità britanniche, durante la prima guerra mondiale, che vietava di tostare troppo i malti allo scopo di risparmiare energia. La produzione di Porter e Stout in Inghilterra crollò, lasciando campo libero agli irlandesi. E continuarono a farsi sentire gli effetti di un sistema impositivo basato sul contenuto alcolico, tant’è che le Ale più fiacche e sensibilmente più economiche, denominate Mild e Bitter, dominarono il mercato britannico sino alla fine del XIX secolo e per un tratto del XX. Appena prima della seconda guerra mondiale, in Inghilterra, entrò in commercio la Watney’s Red Barrel. Fu la prima Ale stabilizzata e carbonatata artificialmente e veniva spillata a pressione da fusti d’alluminio. Altri brassatori seguirono l’esempio, e le onnipresenti macchine usate per prelevare la birra dai barili riposti nelle cantine dei pub cominciarono a sparire da tutto il paese, sostituite dagli affusolati dispositivi per la birra alla spina. Questa nuova tipologia di Ale era più facile da trasportare e da servire, ma molti bevitori di birra tradizionali rimasero spiazzati dalla sua mancanza di carattere. Torneremo sulle conseguenze di questo cambiamento, ma intanto, negli Stati Uniti, il proibizionismo stava causando all’industria della birra americana guai ben più gravi di quelli prodotti in Inghilterra dalle tasse o dalla guerra mondiale.

Gli Stati Uniti saranno anche una nazione puritana, ma fondata sulla birra. Nel 1620, i Padri Pellegrini che navigavano lungo la costa del Massachusetts decisero di tornare a terra prima di aver raggiunto la meta prefissata, in Virginia, perché la Mayflower aveva esaurito le scorte di Ale. Di lì a poco, John Winthrop, appena nominato governatore del Massachusetts, salpò dalla madrepatria alla volta della nascente colonia a bordo di una nave stipata con diecimila galloni di birra, tanto da non lasciare quasi lo spazio per muoversi. In seguito, la firma della Dichiarazione d’indipendenza sarebbe stata festeggiata con copiose quantità di birra, nella stessa taverna di Filadelfia in cui Thomas Jefferson aveva redatto il documento. Tutta questa birra, ovviamente, era Ale, ma intorno alla metà del XIX secolo arrivarono in America numerosi tedeschi che producevano la Lager, e i gusti degli americani cominciarono a cambiare. I tedeschi trovarono le condizioni ideali per il loro tipo di birra nella parte settentrionale del Midwest; in particolare, approfittarono del ghiaccio abbondante dei Grandi Laghi, che facilitava il processo della Lagerung. Ben prima della fine del secolo, la sola Milwaukee produceva metà della birra americana, per lo più in stile Pilsner, anche se alcuni birrifici, altrove, rimasero coraggiosamente fedeli alle Ale. Poiché l’orzo locale era per certi versi differente dalle varietà europee, alcuni brassatori cominciarono a sperimentare aggiungendo riso o granoturco alla preparazione, per ottenere gusti più familiari. Poi, però, calò la mannaia. Con l’avvento del proibizionismo, all’inizio del 1920, la produzione legale di birra negli Stati Uniti si interruppe bruscamente, e i bevitori americani si rivolsero a liquori più facilmente contrabbandabili. Quando la proibizione fu abrogata, nel 1933, i produttori di birra erano pronti, ma le loro catene di distribuzione erano tutte da ripristinare e, poiché la domanda eccedeva di molto l’offerta, sul mercato si diffusero prodotti di qualità inferiore. Il consumo, di conseguenza, ebbe una contrazione, e molti produttori fallirono o furono costretti a fondersi tra loro, favorendo lo sviluppo di un’industria sempre più dominata da grandi aziende, secondo una tendenza tutt’oggi in atto. In cerca di economie e profitti, i grandi produttori di birra si orientarono verso le alternative all’orzo e cominciarono a ricorrere alla pubblicità per vendere il loro prodotto. Anche la crescente diffusione dei frigoriferi fu d’aiuto, in questo senso: se la birra è ghiacciata, le sfumature del gusto diventano meno importanti. Verso la metà del XX secolo, la birra americana per il mercato di massa era un prodotto piuttosto scialbo, e persino le più popolari birre importate, come Heineken, rientravano in questa categoria. Dopo un po’, alcune Bitter Ale britanniche da fusto riuscirono a conquistarsi un seguito quasi da culto in alcuni bar specializzati nelle grandi città americane, ma la clientela manifestava una certa resistenza nei confronti delle Bitter (birre amare). Alla fine, qualcuno ebbe la brillante idea di rispolverare il nome IPA (India Pale Ale) attribuendolo a varietà di Ale che, a dirla tutta, erano solo sbiaditissime imitazioni delle versioni originali riccamente luppolate. Il lascito del proibizionismo, dunque, fu il prevalere delle birre industriali che venivano bevute ghiacciate. Questo fenomeno non poteva non suscitare una reazione, che assunse la forma del movimento della birra artigianale emerso negli anni Settanta. In mancanza di pesanti e inibitorie tradizioni, una giovane generazione di brassatori americani, operando su piccola scala, è diventata nel giro di vent’anni la categoria di produttori di birra più fantasiosa al mondo. All’ombra incombente dei giganti internazionali, hanno creato quello che l’inglese Pete Brown, scrittore ed esperto di birra, ha memorabilmente descritto come un American Beervana. Capitolo 4 Culture della birra

Nel 1967 l’Australia del Sud fu l’ultimo Stato della nazione oceanica ad abbandonare, nei pub, l’usanza dell’“ultima chiamata” alle sei di sera, che aveva dato origine alla famigerata “sbevazzata delle sei”. Curiosi di sapere qualcosa di più sulla birra che i lavoratori di Adelaide, tornando a casa, trangugiavano nei settantacinque minuti a loro disposizione tra la fine della giornata di lavoro e la barcollante uscita dai pub alle 18.15 (orario ufficiale di chiusura dei locali), abbiamo comprato una bottiglia dell’”original” Pale Ale proveniente dal più grande e più antico birrificio d’Australia, che ha prodotto la sua prima Lager solo nel 1968. Dopo aver agitato un po’ la bottiglia per risvegliare i lieviti vivi al suo interno, abbiamo ritrovato una Ale leggermente torbida, con un colore inizialmente ambrato chiaro e poi un po’ più scuro, a mano a mano che il sedimento si deposita. La spuma modesta si è dissipata alla svelta, e al palato la birra si è rivelata poco significativa e solo leggermente luppolata. Comunque, niente male per una rapida bevuta in un torrido pomeriggio australiano. Non può certo sorprendere il fatto che consuetudini e rituali relativi al consumo di birra siano vari come le culture stesse, e anche singolarmente caratteristici dei luoghi a cui sono legati. Anzi, non si arriverà mai a comprendere appieno una cultura di bevitori di birra senza aver presente il rapporto – per quanto conflittuale – di questa cultura con la bevanda d’elezione. Negli anni Sessanta uno di noi viveva con amici a Saint Paul, Minnesota. Ogni sabato tutti gli uomini della famiglia estesa – e tutti quelli del vicinato, se è per questo – andavano a pescare su uno dei numerosi laghi nei paraggi. Volenti o nolenti, ci si alzava prima dell’alba, ci si ammassava su un furgoncino con tutta l’attrezzatura e si andava alla Hamm’s . Lì c’era gente pronta a vendere tutte le casse di birra che uno riusciva a portarsi via. E poi si andava tutti a pescare. Al sorgere del sole si saliva su una chiatta e si salpava verso il centro di un’ex cava di ghiaia allagata, si gettava la lenza e si immergevano in acqua le casse di Hamm in lattina per mantenerle quasi fresche. Dopo aver provato persino un po’ freddo, verso mezzogiorno si cominciava a cuocere su quel natante senza tettoie e si cercava invano di combattere la disidratazione bevendo una birra dopo l’altra – ognuna più tiepida della precedente – finché il sole, per misericordia, cominciava a tramontare, e allora si poteva tornare onorevolmente con il proprio magro bottino a riva, dalle donne. Per un forestiero quello non era certo il modo ideale di trascorrere una deliziosa giornata all’aperto, e quei pochi pesciolini non parevano granché come gratificazione, neanche per un appassionato di pesca. Ovviamente, però, nulla di tutto questo aveva importanza. L’aspetto essenziale di quelle gite era il rituale sociale con cui gli uomini stringevano legami e approfondivano la loro amicizia. Tutto questo era reso possibile dalla birra. Per quanto poco entusiasmante potesse essere la Hamm – soprattutto a temperatura non ottimale – era molto più utile, per socializzare, di quell’unico, noiosissimo tipo di pesca. Nella Saint Paul del 1963 la birra – per quanto blanda – era un cemento sociale essenziale. Di contro, i bar erano fondamentalmente un ritrovo per gente triste e solitaria. A quei tempi, il bar americano medio doveva ancora riprendersi dagli eccessi del periodo preproibizionistico, durante il quale il numero di rivendite di alcolici era triplicato in soli venticinque anni… anche se, significativamente, la birra aveva continuato a perdere terreno rispetto ai superalcolici. E alla riapertura delle mescite la proliferazione dei supermercati e la disponibilità di frigoriferi domestici contribuirono a tenere lontani dai bar gli ex bevitori di birra. Incoraggiati da costose campagne pubblicitarie, questi bravi cittadini cominciarono a consumare smisurati quantitativi di birra in lattina e in bottiglia a casa – o al lago – con la famiglia e gli amici. Di conseguenza, il bar come istituzione divenne sempre più marginale, e tutta una cultura del bere finì per estinguersi. Wolfgang Schivelbusch, storico della cultura tedesco, lo ha ben spiegato, osservando che lo spirito conviviale dei bar – i brindisi, gli scherzi, la conversazione, i “giri” di bevute – si è dissolto dal momento in cui le taverne hanno smesso di essere l’intermediario prediletto tra il produttore e il consumatore di birra. I bar, per la maggior parte, erano posti bui, rancidi e dal pavimento appiccicoso, i cui sgabelli erano per lo più occupati da gente in fuga dai travagli domestici o che non aveva altro posto dove andare. Ci vollero diversi decenni perché queste bettole diventassero relativamente rare, e si ripresentassero le condizioni per una rinascita dei bar in America.

Questa emarginazione del bar è un fenomeno ignoto in Australia, paese dal clima mediamente molto caldo, in cui l’avvento della refrigerazione aveva fatto della temperatura ghiacciata della birra (per lo più Lager) un attributo ancora più apprezzato che negli Stati Uniti. Proprio per questo, di regola, quanto più la regione è calda, tanto più piccoli sono i bicchieri in cui i bar australiani servono la loro birra… ovviamente, per mezzo di spine ghiacciate. Sarebbe un peccato, infatti, lasciar intiepidire la birra. E non è un caso se proprio l’Australia è il paese in cui è nato il cosiddetto stubby cooler, ossia quell’ingegnoso oggetto in polistirolo pensato per preservare la temperatura della vostra bottiglia di birra… anche se contiene una Ale artigianale di una complessità meravigliosa. La birra è una vera e propria istituzione in tutta l’Australia ed è sicuramente la bevanda più amata, anche se nel paese ha di recente cominciato a farsi strada una pregiata industria del vino. Qui, il bere è un fenomeno sociale serissimo e, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, incentrato su luoghi di ritrovo come i bar. Osservava l’inglese Harold Finch-Hatton verso la fine del XIX secolo: «In tutte le classi sociali, il bere da soli è ritenuto una pratica disdicevole […] quando un uomo ha voglia di bere cerca immediatamente qualcuno con cui farlo». Oltre a ciò, quando un australiano incontra qualcuno «che non vede, magari, da appena dodici ore, l’etichetta gli impone di invitarlo senz’altro a bere». Le cose non sembrano essere cambiate granché nei cent’anni e più trascorsi da quando scriveva Finch-Hatton. Tuttavia, se è vero che per questo in Australia si beve tanto, è vero anche che i tassi di ubriachezza sono relativamente ridotti proprio perché la bevanda prescelta, di solito, è la birra, e lo scopo del bere è stimolare la convivialità e la conversazione. Il carattere nettamente sociale della consuetudine australiana di bere al bar risulta manifesto nella tradizione dello shouting (lett. “gridare”), per la quale ognuno è tenuto a offrire un “giro”, ossia una bevuta, a tutti. Se anche si accetta con riluttanza il bicchiere offerto dal vicino, dopo aver bevuto si è irrimediabilmente coinvolti, ed è impensabile congedarsi prima che tutti i membri del gruppo abbiano “gridato”. A quanto pare, quest’uso del gridare risale ai tempi della febbre dell’oro, ma non perché per ordinare da bere al bar, e farsi sentire nel frastuono, si fosse costretti ad alzare la voce, bensì perché il cercatore d’oro fortunato doveva uscire in strada e gridare per chiamare i colleghi a festeggiare la sua buona sorte. L’Australia offre anche un ottimo esempio di come i tentativi di regolare il consumo di alcol siano destinati spesso a dimostrarsi controproducenti. Più o meno nel periodo in cui il movimento per la Temperanza stava prendendo piede negli Stati Uniti, prima dell’avvento del proibizionismo, i vari Stati australiani introdussero la regola per cui i bar, che in precedenza restavano aperti fino alle 23, dovevano chiudere alle 18. Il motivo di questi provvedimenti era sempre e soltanto di natura “morale” – limitare l’ubriachezza e il disturbo della pubblica quiete – ma quasi dappertutto la riduzione degli orari di apertura dei bar fu giustificata come misura di austerità legata alla prima guerra mondiale. La chiusura anticipata ebbe inizio, in gran parte degli Stati australiani, tra il 1916 e il 1917, con l’eccezione del Queensland, che tenne duro fino al 1923, quando introdusse la chiusura alle ore 20. La Tasmania tornò alla ragione nel 1937, ma la maggior parte degli altri Stati riebbe orari di apertura più consoni solo negli anni Sessanta. La conseguenza di un tale limite posto agli orari di apertura dei bar era del tutto prevedibile: la sbevazzata delle sei di sera. Alle 17 i lavoratori uscivano dalle fabbriche e dagli uffici e si infilavano direttamente nel bar più vicino. Lì, i vari gruppi ordinavano e tracannavano tutti i giri di bevute possibili fino all’ultima chiamata delle sei, dopo di che si mettevano in fila al bancone per trincare svariate altre birre prima dello scoccare delle sei e un quarto. I bar vennero ampliati, eliminando attrattive sofisticate, ma bisognose di spazio, come i tavoli da biliardo e le piattaforme per le freccette, per far posto alla tumultuosa folla degli avventori che si sbronzavano paurosamente, dato che bevevano così alla svelta e in quantità tali che l’organismo non era in grado di metabolizzare, nonostante la gradazione relativamente bassa della birra. I baristi di quei tempi raccontano storie da far rizzare i capelli, di serate in cui dovevano mescere birra con una mano e tenere la cassa con l’altra, per poi trasformarsi in buttafuori all’ora di chiusura. All’improvviso, allora, i bar si svuotavano, e le strade si riempivano di padri di famiglia sbronzi marci che barcollavano verso la stazione, probabilmente destinati a una serata di prostrazione sul divano di casa. Non era certo questo il tipo di società ordinata che i sostenitori della Women’s Christian Temperance Union si prefiguravano. Oggi, in Australia, si trova da bere praticamente a qualsiasi ora, e il consumo di alcol è tornato a dimensioni e modalità più civili. Persino il pub crawl, il “giro dei bar” tanto amato dai bevitori “forti”, e la variante urbanizzata delle bevute drink and bust, un tempo consuetudine degli assetati coloni che arrivavano dal bush, sembrano tradizioni in declino… anche se l’Australia, come ogni altro paese del mondo, ha i suoi problemi legati all’alcol. In generale, però, una volta ripristinati orari ragionevoli per i bar, l’antica tradizione sedimentata è tornata in breve a prevalere sulle conseguenze indesiderate di leggi mal concepite. A esclusione di un unico ambito. Le crociate moralistiche non sono mai riuscite a mettere completamente al bando le bevande alcoliche, ma spesso sono riuscite a far valere un simile bando solo per gli aborigeni. Ciò ha costretto questi cittadini diseredati, e sostanzialmente senza diritti, a comprare alcol illegalmente – per lo più liquori a buon mercato e di pessima qualità –, in forme che permettevano di nasconderlo e portarselo dietro. Soprattutto, però, ciò li costringeva a consumare gli alcolici lontano dagli ambiti pubblici – i pub e i bar – in cui la tradizione sociale li avrebbe obbligati a un minimo di misura nel consumo. Ne sono derivate miserie sociali e tragedie personali. Dopo un vergognoso primo periodo coloniale, durante il quale i colonizzatori europei scoprirono che un modo conveniente per trattare con gli indigeni australiani, non abituati all’alcol, stava nel far sì che questi fossero il più spesso possibile ubriachi, la politica opposta – e ugualmente devastante – resta tristemente viva e vegeta. Ancora nel 2013 l’Alta Corte australiana stabiliva che la legge del Queensland volta a limitare il possesso di alcolici da parte dei membri dei gruppi indigeni non violava le leggi contro la discriminazione razziale, con la motivazione incredibilmente paternalistica secondo cui il provvedimento era stato adottato «al solo scopo di garantire un adeguato sviluppo di un gruppo razziale bisognoso di questa protezione [e per il suo] uguale godimento […] dei diritti umani». Evidentemente, il tribunale non si è curato del fatto che la sua sentenza attaccava un sintomo dell’ingiustizia, non la causa. E i giudici di certo non hanno mostrato consapevolezza di come la società, se davvero avesse voluto migliorare le condizioni di deprivazione di tante comunità indigene, avrebbe avuto un gran numero di vie migliori da percorrere. Una di queste, naturalmente, sarebbe stata la liberalizzazione del consumo, che avrebbe avuto per gli indigeni australiani la stessa funzione di promuovere le relazioni sociali come è avvenuto per il resto dell’umanità in ogni parte del mondo.

Nonostante il sakè abbia una sua particolarissima tradizione, la bevanda alcolica più consumata oggi in Giappone è la birra Lager. Molte varietà di questa Lager sono dry, cioè prodotte con una tecnologia, sviluppata dai birrifici Asahi negli anni Ottanta, che scompone gli zuccheri complessi presenti nel mosto di malto. Questo trattamento rende gli zuccheri disponibili per la conversione in alcol (vedi capitolo 10), e quel che ne risulta è una birra più forte e, a nostro parere, meno gustosa dei suoi equivalenti occidentali. In un paese culturalmente molto sensibile com’è il Giappone, il consumo della birra, come si può immaginare, è spesso estremamente ritualizzato e, a suo modo, ha un carattere sociale non meno marcato che in Australia: c’era persino un’usanza che potrebbe essere assimilata alla “sbevazzata delle sei”. All’uscita dagli uffici, prima di rientrare a casa per tornare alle rispettive vite private, i colletti bianchi avevano la consuetudine di trasferirsi in massa nei locali pubblici e di cominciare con una birra (o due oppure tre) per lubrificare la conversazione. Successivamente, nel corso di queste serate, si poteva anche passare ad alcolici di altro tipo ma, quale che fosse il liquore usato, ogni inibizione veniva abbandonata, consentendo il rilascio di una parte della tensione inevitabilmente accumulata lavorando all’interno delle imprese giapponesi, con le loro gerarchie e convenzioni soffocanti. Spesso ci si ubriacava selvaggiamente prima che il capo (a volte, solo quando i mezzi pubblici avevano smesso di circolare) decidesse che era ora di tornare a casa, lasciando tutti liberi di andarsene. Abbiamo scritto queste ultime righe al passato perché anche in Giappone le cose stanno cambiando: le vecchie norme aziendali sono entrate in crisi, e i social media incoraggiano il coinvolgimento in reti sociali che non riguardano più soltanto il lavoro e la famiglia. Questo cambiamento non ha interessato solo le modalità del consumo, visto che dal 1994, anno in cui sono state introdotte nuove leggi sulla produzione della birra, si è sviluppato un vivacissimo mercato della birra artigianale. Ciò nonostante, le vecchie abitudini persistono, e nelle grandi città, di sera, non è raro vedere impiegati dalla faccia congestionata che barcollano diretti alla stazione più vicina. Intorno a certe stazioni, talvolta sotto gli archi della ferrovia sopraelevata, si trovano numerosi izakaya, locali che variano dal minuscolo al molto elaborato e servono birra a singoli clienti e gruppi che indugiano ancora un po’ prima di prendere il treno. Questi luoghi trovano una corrispondenza un po’ in tutta l’Asia orientale, toccando l’acme – quanto ad atmosfera – nei popolarissimi bia hoi, esercizi spesso all’aperto che punteggiano paesi e città in tutto il Vietnam, con le loro sedie malconce intorno ad ammaccati fusti d’alluminio piazzati dentro un mastello di ghiaccio. È in posti del genere che la birra Lager assimilata svolge al meglio la sua funzione di lubrificante sociale, tra persone che si godono allegramente questa bevanda.

Spostandoci verso Ovest, i paesi dell’Europa meridionale sono solitamente ritenuti più inclini al consumo del vino. Invece, a quelle latitudini calde e meridionali si consumano anche ingenti quantità di birra, e non può certo sorprendere se si considerano le leggendarie proprietà dissetanti di questa bevanda. In Spagna, per esempio, una spina per la birra non manca quasi mai nei bar, e ogni anno gli spagnoli si scolano, in media, quasi cinquanta litri pro capite di questa roba fredda (in genere, Lager con un contenuto alcolico tra il 4 e il 5% vol.). Gli italiani li seguono da vicino. In paesi in cui i bambini vengono d’abitudine introdotti al consumo di alcol (diluito) già in tenera età, e l’etanolo non è visto come un frutto maledetto e proibito nell’età della formazione, il consumo di birra è semplicemente un fatto della vita, dato per scontato. Di conseguenza, le bevute forsennate sono più rare, e il consumo di birra moderato produce anche qui i soliti effetti, ossia facilita le relazioni sociali e crea una generale atmosfera di convivialità. Naturalmente, la birra può funzionare in modo simile anche in luoghi dove ha un’importanza sicuramente speciale. E dato che la Germania, oltre a essere il paese in cui la birra è in assoluto più amata, è stata anche fondamentale nell’evoluzione della bevanda, non meraviglierà il fatto che la massima espressione mondiale di convivialità legata alla birra trovi espressione nella città di Monaco di Baviera. Ci riferiamo, ovviamente, all’Oktoberfest. Strano a dirsi, le origini dell’Oktoberfest non hanno nulla a che fare con la birra. Nell’ottobre 1810, Ludovico, principe ereditario di Baviera, festeggiò il suo matrimonio con la principessa Teresa di Sassonia- Hildburghausen facendosi costruire un nuovo ippodromo, in un luogo poi doverosamente ribattezzato Theresienwiese (ossia il Prato di Teresa) e oggi più comunemente noto come Wiesn. A quei tempi il Wiesn era fuori dai confini della città, ma oggi è molto vicino al centro. Il matrimonio e la prima corsa dei cavalli furono celebrati con una grande festa, preceduta da una sontuosa parata in onore dei novelli sposi. Tutta la stravagante occasione fu un tale successo che da allora si è ripetuta ogni anno quasi senza eccezioni, guerre ed epidemie permettendo. Passato sotto l’egida del municipio di Monaco nel 1819 (nel 1818 vi era stata servita birra per la prima volta), l’evento dell’Oktoberfest crebbe rapidamente, sopravvivendo persino all’abdicazione di Ludovico nel 1848. Non è un caso che Ludovico abbia dovuto abbandonare il trono quattro anni dopo le famigerate “rivolte della birra” che avevano fatalmente indebolito il suo potere, nate dall’imposizione di una tassa sulla bevanda (anche se la causa più prossima della fine del suo regno fu forse la sua scandalosa relazione con l’avventuriera angloirlandese Lola Montez). In seguito, anche la durata dell’Oktoberfest cominciò a estendersi – oggi si protrae per sedici giorni (letteralmente) sconvolgenti – e venne a comprendere ogni sorta di attrazione carnevalesca, inclusi gli stand della birra e un’esposizione agricola. Ormai slegato dall’episodio del matrimonio regale, inoltre, venne anticipato al più balsamico mese di settembre. Trattandosi di Monaco di Baviera, è forse inevitabile che il cibo e la birra abbiano finito per diventare il fulcro dell’Oktoberfest, e le tradizioni legate alla birra cominciarono ad accumularsi: la cerimonia della spillatura e del consumo del primo barile, la processione dei birrai, la parata in costume, l’atmosfera da fiera, i tendoni della birra, i pesanti e quasi infrangibili boccali da un litro… e così via. Alla fine del XIX secolo l’evento era già molto simile a come lo conosciamo oggi, con una vasta area riservata ad attrazioni da fiera meravigliosamente nostalgiche, sul lato est del Wiesn, mentre gli enormi tendoni della birra (che oggi non sono più tendoni, bensì enormi chalet in finto legno dalle sgargianti decorazioni, dotati nel migliore dei casi di simbolici tetti di tela) sono allineati lungo un ampio viale sul lato ovest del parco e fronteggiati da una sbalorditiva gamma di chioschi e bancarelle che vendono souvenir, caramelle e fast food. Ciascuno dei dodici tendoni più grandi, o Festzelt, può accogliere svariate migliaia di avventori per ognuna delle due sessioni quotidiane; il più grande di tutti – allestito nel 1913 – aveva una capienza di dodicimila posti. Ogni tendone è gestito da un birrificio diverso, con un suo tema ispiratore, tradizioni e cultori. E sebbene l’Oktoberfest sia ormai un’istituzione internazionale, che attira ogni anno circa sette milioni di visitatori da tutto il mondo, i cittadini di Monaco vi spiegheranno con orgoglio che, comunque, il 60 per cento della clientela è bavarese, un’impresa possibile solo grazie all’assiduità di un gran numero di appassionati locali che partecipano – come minimo, a serate alterne – per tutta la durata dell’evento. Sotto l’aspetto demografico, nella tenda in cui ci siamo intrattenuti c’erano quasi solo tedeschi di Monaco; e la fascia d’età prevalente era quella dei giovani, per giunta in costume tradizionale bavarese. I cancelli erano stati aperti alle 16, e alle 16,15 la banda composta per lo più da ottoni, appena udibile nel frastuono diffuso, si era già lanciata nell’esecuzione di un’eclettica scaletta in cui i pezzi del folclore bavarese erano, stranamente, una minoranza. Alle 16,30 i tavoli erano completamente occupati, e un’ulteriore massa di persone ancora in piedi affollava già la periferia del tendone. Cameriere in Dirndl e camerieri in Lederhosen si aggiravano tra i tavoli, brandendo un numero impossibile di enormi boccali di birra spumosa: in un caso ne abbiamo contati nove in una sola portata! La birra nei boccali (quale che sia il tendone, il rispetto del Reinheitsgebot è assicurato) è in genere una Lager ramata riconducibile alla cosiddetta Märzenbier, varietà luppolata e ad alto contenuto di malto, che veniva tradizionalmente brassata nel mese di marzo, in previsione di un suo consumo verso la fine dell’estate; e in occasione dell’Oktoberfest il contenuto alcolico viene potenziato fino a collocarlo nell’ordine del 6 per cento in volume. Tale, almeno, era la birra che abbiamo bevuto. Alle 17,30 erano già state servite e spazzolate abnormi quantità di cibo – per lo più, il tradizionale mezzo pollo arrosto – e a quel punto è iniziato il clou della serata. Alle 18 solo una minoranza degli avventori si trovava ancora seduta; i più erano già in piedi sulle panche dove fino a poco prima erano seduti o – anche se ci è stato detto che non è buona educazione – addirittura sui tavoli, ormai sgombri di piatti, se non di bicchieri. Il clamore e le energie sprigionate si intensificavano quando la folla attaccava a cantare in coro con la banda, e tutti si tenevano sottobraccio ondeggiando pericolosamente al ritmo della musica. Si cantava e si conversava a voce sempre più alta, ordinando e tracannando boccali di birra. E se è vero che in tutta quella bisboccia qualcuno, a un certo punto, ha cominciato a non reggersi più in piedi, tutti i potenziali disastri sono stati scongiurati con discrezione da addetti che portavano via chi non era più capace di intendere. Ben prima delle 22, l’ora di chiusura, ci siamo accorti di essere non solo un po’ rauchi e leggermente brilli, ma anche grandi amici di tutta la moltitudine di sconosciuti da cui eravamo circondati, anche se i più scrupolosi tra i festaioli particolarmente accaniti stavano già preparandosi in vista delle fatiche dell’indomani. Qual è, dunque, il significato dell’Oktoberfest, suprema espressione culturale dell’identità bavarese? Come capita spesso con le tradizioni, nessuno sembra più badare al fatto che le origini dell’evento affondano in una festa di matrimonio del XIX secolo, probabilmente un po’ ingessata (e senza birra). I partecipanti alle prime edizioni dell’Oktoberfest arricchite dalla mescita di birra vedevano sicuramente l’inverno che si annunciava appena oltre l’orizzonte ed erano ben contenti di cogliere l’occasione per una bella baldoria prima dell’austerità della stagione fredda. Oggi che la vita non è più regolata dal ritmo delle stagioni, l’Oktoberfest offre comunque la possibilità di combinare due ossessioni dei bavaresi: la birra e la Gemütlichkeit, un concetto tipicamente tedesco che definisce una condizione dell’essere più o meno a metà strada tra benessere e benevolenza, tra stato d’animo positivo e buona compagnia. È una sensazione che si può provare solo se è condivisa da altri e, a giudicare dall’Oktoberfest, più si è, più la sensazione è intensa. Questo, naturalmente, ci riporta all’insostituibile funzione sociale della birra per la promozione dei legami di amicizia e l’abbattimento delle barriere sociali tra sconosciuti. Agli affollati tavoli comuni, sotto i tendoni della birra dell’Oktoberfest, è impensabile non mettersi a parlare con chi ci sta seduto vicino (o anche non tanto vicino).

Benché sia ormai un evento festeggiato in molte parti del mondo, l’Oktoberfest resta un’istituzione totalmente bavarese. Difficile immaginare che una tradizione del genere possa prendere piede in Inghilterra, dove – salvo la categoria fortunatamente sempre più ristretta degli ubriaconi accaniti – la gente è in genere più riservata e meno diretta di quel che servirebbe per godersi appieno un Oktoberfest. Per comprendere la cultura della birra inglese, invece, bisogna entrare in un pub o, meglio ancora, in molti. Pub è l’abbreviazione di public house, ed è esattamente questo il carattere originario dell’istituzione. Le alewives medievali producevano e vendevano birra al pubblico nelle loro case, e molti pub sono nati come locali all’interno di case private. Le alewives di successo attiravano la clientela producendo una birra migliore, e i loro locali diventavano per la gente un ritrovo dove, oltre a bere, si scambiavano pettegolezzi e si affrontavano questioni di interesse per la comunità. In questi posti, bere birra e socializzare (magari a scopo cospiratorio) diventarono praticamente sinonimi (reminiscenze dell’antica Babilonia). Generalmente più raffinati delle case delle alewives erano gli Inn, le locande dove viaggiatori e gente di passaggio trovavano da mangiare, da bere e alloggio per la notte. In origine modeste imprese su piccola scala, le locande si sono espanse di pari passo con l’economia e hanno vissuto una loro età dell’oro tra il XVIII secolo e l’inizio del XIX, quando il miglioramento delle vie di comunicazione corrispose a un aumento del traffico di carrozze e del commercio su lunga distanza. Quest’epoca ebbe termine verso la fine del XIX secolo, con l’avvento della ferrovia e il parallelo sviluppo degli alberghi intorno alle stazioni. Sin dalle origini, le locande erano un fulcro delle attività sociali: fu al Tabard Inn, nell’odierna zona sud di Londra, che i pellegrini dei Racconti di Canterbury di Chaucer – uno spaccato, vario come nessun altro, della società raffinata del tempo – si ritrovavano nel tardo XIV secolo prima del loro pellegrinaggio. In ogni caso, Ale House e locande erano luoghi di ristoro che costituivano un punto di riferimento per la comunità, richiamando amici e sconosciuti che avevano così un’occasione di incontro. Entrambi i tipi di esercizio erano fondati sul consumo della birra, che in Inghilterra scorreva a fiumi, benché le locande vendessero anche vino e altri liquori. Una terza categoria di locale pubblico, la taverna, esisteva sin dai tempi dei romani, ma – in linea con le preferenze dei loro fondatori da tempo ritiratisi – era specializzata nella mescita di vino. A poco a poco le distinzioni tra i vari luoghi di ristoro cominciò a perdersi, dando origine alla forma ibrida che oggi prende il nome di pub. I locali con tradizioni locandiere offrivano di solito anche stanze per i viaggiatori, diversamente da quelli che discendevano dalle Ale House. Tutti i pub, però, hanno continuato a fungere da centro d’attrazione per la socializzazione… anche se nelle aree rurali tendevano a servire la comunità in senso ampio, mentre nelle città in pieno sviluppo finivano per servire, ciascuno, una clientela particolare. Con la crescita delle città, ovviamente, crebbe anche la domanda, soddisfatta dai grandi birrifici che, oltre ad approfittare delle economie di scala, potevano trasportare il loro prodotto sempre più lontano, grazie ai miglioramenti tecnologici. Questo ampliamento della copertura territoriale, a sua volta, richiese mezzi di distribuzione affidabili, non solo lungo la sempre più ramificata rete di canali (e poi di linee ferroviarie), ma anche all’interno delle singole rivendite. Di conseguenza, i grandi birrifici cominciarono a un certo punto ad acquisire un pub dopo l’altro, dando luogo al sistema delle Tied House, che per chi ha una certa età sono un fenomeno ben noto. Si trattava di pub di proprietà delle grandi case produttrici di birra oppure tenuti, per contratto, a vendere solo una marca. In breve, rimasero ben pochi pub indipendenti, liberi di vendere la birra che volevano e con un’offerta rivolta al consumatore avveduto. Gli assetati operai delle fabbriche che alimentavano la crescente domanda di birra erano per lo più maschi, e i pub, dato che le donne preferivano starsene a casa, cominciarono a perdere il loro ruolo di fulcro della vita comunitaria. Peggio ancora, forse, nei secoli XIX e XX i pub hanno dovuto fare i conti con tasse e leggi totalmente arbitrarie sulle licenze, con ripetute conflagrazioni belliche, con il generale disprezzo delle classi superiori, con una tendenza demografica sfavorevole, con gli attacchi degli zeloti della temperanza, con i divieti di fumo e con diverse altre influenze nefaste. A seguito della prima guerra mondiale, la domanda di birra calò drasticamente e allo scoppio della seconda guerra mondiale i pub erano per lo più in uno stato abbastanza pietoso: servivano Ale blande e spesso prive di carattere a una clientela in genere poco abbiente. La seconda guerra mondiale ha ribaltato la situazione. Con le bombe che piovevano sull’Inghilterra, i pub tornarono a simboleggiare lo spirito della comunità, offrendo alle persone luoghi dove cercare aiuto e alleviare lo stress della vita in tempo di guerra. La birra, come tale, ne risentì, perché la carenza di materie prime finì per incidere sulla sua qualità. A peggiorare le cose, la nuova preferenza dei birrai per la produzione e la distribuzione di Ale in fusto – invece della varietà affinata in botte, più difficile da trasportare e da conservare – fece sì che, anche quando il ricordo della guerra cominciava ormai a sbiadire, gli avventori inglesi continuassero a consumare birre relativamente blande e poco interessanti. A coronamento di tutto ciò, in linea con la generale apatia del periodo post-bellico, molti pub continuarono a essere luoghi poco allegri e piuttosto fatiscenti. Non meraviglierà, dunque, che durante l’ultima parte del XX secolo l’importanza del pub abbia cominciato a scemare con la proliferazione di altre occasioni pubbliche di svago. Quasi altrettanto grave, poi, è stato il progressivo avvento di pubblicizzatissime Lager alla spina e in bottiglia, che con il passaggio da una generazione di bevitori all’altra, hanno scalzato le scialbe Ale da fusto. Per tutta risposta, molti pub hanno cominciato scientemente a ritagliarsi particolari nicchie di mercato. Qualcuno ha abbracciato la gestione familiare. Altri sono diventati gastropub, praticamente indistinguibili, in alcuni casi, da ristoranti con una buona lista delle birre. Altri ancora hanno installato schermi giganti per gli appassionati di sport. E c’è anche chi – dio ce ne scampi – ha pensato di allestire pub a tema. E qualcuno, come a chiudere spettacolarmente il cerchio, ha pensato bene di tornare al pub/birrificio. Eppure, nonostante questa crisi d’identità, il pub resiste come istituzione sociale fondamentale, necessariamente varia quanto la società in cui trova spazio. Il pub, al suo meglio, offre un ambiente accogliente (preferibilmente arredato in legno, in stile vittoriano), in cui chiunque, frequentatori abituali e avventori occasionali, possono sentirsi a casa. E dato che la birra inglese ha un contenuto etilico solitamente compreso fra il 3 e il 4 per cento in volume, ci sono locali in cui tutti, uomini e donne, possono bere e chiacchierare senza problemi tutta la sera. Nei casi peggiori, invece, i pub possono essere posti lerci e deprimenti in cui le persone più sensibili non vedono l’ora di finire la loro pinta per andarsene al più presto… Ma un effetto positivo della lunga ondata di chiusure è che locali di quest’ultimo tipo stanno diventando sempre più rari. In prospettiva, è probabile che i pub tenteranno con lungimiranza di attrarre clienti offrendo una gamma di birre più interessante (un esito assai facilitato, oggi, dall’affermarsi in Gran Bretagna del movimento della birra artigianale), servendo cibo di qualità o – con gli accorgimenti più svariati – creando ambienti più accattivanti. Quali che siano i miglioramenti che i pub sceglieranno di perseguire, però, i loro clienti finiranno per aderire a modelli di comportamento radicati nella storia. In Inghilterra, la consuetudine dei “giri”, per cui ogni membro della compagnia paga a tutti una bevuta, sarà anche meno formalizzata che in Australia, ma è comunque consigliabile pagare il proprio giro prima possibile. Con tutti i suoi travagli e le sue tribolazioni, comunque, il pub resiste. Ma resiste adattandosi. Per la stessa ragione per cui ogni nuova generazione richiede una sua traduzione di Omero, ogni società consumatrice di birra ha bisogno del suo particolare ambiente in cui riunirsi per bere in compagnia. I pub britannici di domani non saranno necessariamente uguali a quelli che conosciamo oggi, ma l’istituzione – e i suoi numerosi equivalenti nei vari paesi – esisterà finché ci sarà birra sul pianeta. Ossia finché ci sarà in giro gente dedita alla sua produzione e al suo consumo. Parte II Elementi di (quasi) tutte le birre Capitolo 5 Molecole essenziali

Dato che sul mercato americano non si trovano birre a tema sulle molecole, questa è un’altra delle bevande che abbiamo dovuto preparare con le nostre mani. Volevamo una Ale con un brodo di molecole sufficientemente denso, perciò ci siamo orientati verso una Porter forte. Il preparato consisteva in una complessa miscela di cioccolato, liquore alla liquirizia e malti di grano, con l’aggiunta di scaglie di vecchie botti di bourbon, lieviti di Ale scozzese e luppoli Golding e Chinook. Ne è risultata una Ale densa, scura e cremosa, con una spuma persistente, una piacevole dolcezza e un vago retrogusto di whisky. Aveva la complessità molecolare che stavamo cercando. Nei capitoli dal 6 al 9 presenteremo i quattro ingredienti fondamentali della birra: acqua, orzo, lievito e luppolo. Dal punto di vista della storia naturale, questi componenti della birra sono un insieme alquanto variegato, ma c’è un aspetto elementare che li accomuna tutti: le molecole, quelle minuscole strutture formate da atomi. Quindi, come preludio all’esame dettagliato dei quattro magici ingredienti, rivolgiamo brevemente l’attenzione alle minuscole molecole. Ciò non solo servirà a capire come mai la birra è così buona e ha tutti i suoi notevoli effetti fisiologici, bensì ci permetterà di sbrogliare la storia evolutiva di ogni elemento essenziale alla preparazione della birra. Quello che segue potrà apparire, almeno in parte, fin troppo tecnico, e lo si può anche saltare, se si preferisce; la sua lettura, però, potrebbe tornare utile. Anzitutto la birra e i suoi ingredienti sono costituiti da atomi, che si combinano tra loro formando molecole. Come quasi tutti i composti di questo pianeta, la birra è a base di carbonio, nel senso che contiene un gran numero di atomi di carbonio. Esistono diversi tipi di atomi, ma gli organismi animali sono molto selettivi per quel che riguarda gli atomi da utilizzare, e quasi tutti si limitano a incorporarne sei. Il carbonio è il secondo, dopo l’ossigeno, sul piano quantitativo. Per ricordarsi quali sono questi sei importantissimi atomi è sufficiente memorizzare la sigla OCHNPS: O per ossigeno, C per carbonio, H per idrogeno, N per azoto, P per fosforo e S per zolfo, ordinati in base alla loro incidenza negli organismi animali. I lieviti usano gli stessi sei elementi, oltre a un bel po’ di cloro. Le piante usano i “sei grandi”, ma nella loro struttura ci sono altri quattro elementi essenziali: magnesio (Mg), silicio (Si), calcio (Ca) e potassio (K). In quanto entità non vivente e meno complessa, l’acqua, tra gli ingredienti della nostra birra, è quello con meno elementi (solo H e O), ma può trasportare, in soluzione o sospensione, una gran quantità di altri composti, una proprietà che si rivela estremamente importante per i produttori di birra. Tutti questi atomi sono incredibilmente piccoli e, anche quando si combinano tra loro a formare composti e molecole, danno vita a strutture minuscole. Si consideri l’acqua che costituisce gran parte di un bicchiere di birra. Una singola molecola d’acqua è lunga 300 picometri, ossia 0,0000000003 metri. Un bicchiere standard da birra piccola ha un diametro di circa 6 centimetri, ossia 0,06 metri. Ciò significa che ci vogliono 200 milioni di molecole d’acqua, messe in fila, per coprire il diametro del bicchiere. Tra le altre molecole importanti figura lo xantoumolo, una sostanza presente nel luppolo che conferisce alla birra il suo gusto amaro. La molecola di xantoumolo, un flavonoide, è più grande di quella dell’acqua – la sua formula chimica è C21H22O5 – sicché ne basterebbero 8 milioni per coprire il diametro del bicchiere di cui sopra. Le birre domestiche, dopo la luppolatura, possono avere un contenuto di xantoumolo molto vario, ma 0,2 milligrammi per litro è una concentrazione abbastanza tipica. Di conseguenza, un bicchiere da 300 millilitri di questa birra conterrebbe all’incirca 0,06 milligrammi di xantoumolo; e se in termini di peso pare un’inezia, significa che nel bicchiere ci sono 1022 (uno seguito da ventidue zeri) molecole di xantoumolo. Numeri come questi sono insignificanti in rapporto alla nostra esperienza quotidiana, ma ci forniscono un modo per comprendere le proporzioni dell’universo chimico contenuto in ogni bicchiere di birra. Procedendo nell’esame delle reazioni chimiche che si verificano quando si produce la birra, questa idea delle proporzioni può aiutarci a comprendere quanto è complessa e reattiva la birra come composto. Vedremo anche in che modo gli archeologi molecolari sono riusciti a indovinare gli ingredienti delle birre antiche a partire dai residui molecolari raccolti nei recipienti di terracotta che le contenevano.

Di estrema rilevanza, nella nostra discussione sulla storia naturale degli ingredienti della birra, è la grande e meravigliosa molecola nota come DNA (acido deossiribonucleico). È la molecola della vita e della trasmissione ereditaria. È una molecola complessa costituita da molecole più piccole (chiamate basi o nucleotidi), che a loro volta sono composte da atomi di carbonio, ossigeno, idrogeno, fosforo e azoto. Ogni nucleotide presenta quattro importanti elementi attivi (figura 5.1). Il centro di un nucleotide è un anello di zucchero (da non confondere con gli anelli azotati di cui si parlerà tra poco). A un’estremità dell’anello di zucchero (l’estremità 5', che si legge “cinque primo”) si trovano tre fosfati. L’altra estremità (3') è associata a un gruppo ossidrilico (OH). Infine, sui lati, ci sono quegli anelli azotati (la “base” del nucleotide) che conferiscono a ogni nucleotide la sua particolare identità. Ci sono quattro tipi di strutture azotate ad anello nel DNA e, quindi, quattro tipi di basi. Due di queste basi hanno due anelli, mentre le altre due ne hanno uno solo. I nucleotidi a due anelli sono chiamati adenina e guanina, mentre quelli a un solo anello sono la timina e la citosina (indicate talvolta con le sole loro iniziali: A, G, T, C). Uno dei tre fosfati dell’estremità 5' tende a legarsi con un OH dell’estremità 3', e per questa ragione il filamento di DNA ha una sua direzione o senso: da 5' a 3'. Il DNA è dotato di un doppio filamento, un po’ come una scala dai lunghi montanti paralleli collegati da pioli, e si è scoperto che le basi laterali, quelle strutture a uno o a due anelli associate a ciascun filamento, vanno a congiungersi tra loro in modi ben precisi. Una A sarà sempre associata a una T; una G sempre alla C. Questo fenomeno si chiama accoppiamento delle basi, e si dice che le basi sono l’una complemento dell’altra. Questa complementarità è essenziale alla comprensione sia della bellezza sia della logica del DNA.

Figura 5.1. Diagramma di un breve tratto della doppia elica del DNA. Ci sono quattro basi o nucleotidi su ciascun filamento della doppia elica. Si può osservare anche l’accoppiamento delle basi dei nucleotidi (A con T, e G con C). Il filamento sinistro procede dall’alto al basso, da 5' a 3', mentre il filamento destro procede dall’alto in basso, ma da 3' a 5'.

Immaginiamo due filamenti di DNA complementari, con una lunghezza di venti basi. I due filamenti aderiranno saldamente l’uno all’altro e si avviteranno l’uno intorno all’altro a doppia elica; ed è l’ordine delle basi lungo i filamenti a determinare la funzione di ogni singola molecola. Il DNA lavora in maniera molto simile al nostro alfabeto, salvo che le “parole” sono lunghe solo tre lettere, e le lettere con cui costruirle sono solo quattro. Considerando tutte le possibili combinazioni, si possono comporre sessantaquattro “parole”. Le parole di tre lettere rappresentano il codice degli aminoacidi, ossia delle molecole costitutive delle proteine, che a loro volta sono gli elementi costitutivi degli organismi viventi. Nella produzione di proteine sono coinvolti venti aminoacidi, ragion per cui ci sono quarantaquattro trigrammi in eccesso, nell’alfabeto del DNA. Queste parole in sovrappiù sono usate come codici di riserva per alcuni degli aminoacidi, e tre di loro servono come “punteggiatura” al termine di una sequenza di parole che codificano una proteina. Per esempio, l’aminoacido prolina (P) può essere designato da quattro trigrammi diversi: CCC, CCA, CCG e CCT. Le sessantaquattro parole da tre lettere ciascuna formano il cosiddetto codice genetico, che racchiude una grande quantità di informazioni. Per esempio, ognuno degli aminoacidi è diverso per dimensioni, carica e attrazione nei confronti dell’acqua. La disposizione delle diverse cariche, dimensioni e idrofobicità fa sì che la sequenza lineare di ciascuna proteina specificata dal DNA assuma una peculiare struttura tridimensionale e ripiegata. Le sequenze di DNA che codificano le proteine sono chiamate geni. Il genoma dell’orzo, per fare un esempio, è lungo cinque miliardi di coppie di basi, quasi il doppio del genoma umano. I 26.159 geni presenti nel genoma dell’orzo (noi umani ne abbiamo appena 20.000 o giù di lì) sono organizzati in lunghe sequenze lineari su sette coppie di cromosomi (noi umani ne abbiamo ventitré coppie). I cromosomi si presentano a coppie negli organismi a riproduzione sessuata perché ogni individuo riceve un elemento di ogni coppia dalla madre e l’altro dal padre. L’effetto di questo meccanismo è di produrre una variabilità nelle popolazioni attraverso la ricombinazione, lo scambio fisico del DNA tra un elemento e l’altro della coppia cromosomica.

Figura 5.2. La scoperta del polimorfismo a singolo nucleotide (SNP). Sono illustrate le sequenze di sei cromosomi di due popolazioni (i caratteri grigio chiaro sono la popolazione 1; quelli in grigio più scuro formano la popolazione 2). La sequenza di riferimento è presentata sotto, in nero. La freccia “SNP” indica un SNP, mentre gli errori di sequenziamento sono indicati dalle altre due frecce. La figura 5.2 illustra una particolare regione di un cromosoma, per sei singoli cromosomi di due diverse popolazioni. Per gran parte della sequenza di DNA, i sei cromosomi sono identici. In tre dei cromosomi della popolazione in alto, però, c’è una posizione che è diversa da quella dei tre cromosomi della popolazione in basso. Questa posizione variabile è detta polimorfismo a singolo nucleotide (SNP), ed è la moneta corrente della genomica moderna.

Sequenziare un intero genoma non è impresa facile, anche perché i genomi interi per la maggior parte sono lunghi miliardi di basi e vanno suddivisi in piccoli pezzi per poterli analizzare. Anzi, molti genomi ormai divulgati e generalmente considerati integrali presentano in realtà alcuni buchi, per via della loro suddivisione aleatoria in un numero di brevi sequenze che varia tra i 100 e i 1000 miliardi. La ragione per cui i pezzi di DNA sono scomposti in modo aleatorio sta nel far sì che alcuni frammenti si sovrappongano ad altri, ricomponendo l’intero a partire dai vari elementi, al fine di creare una sorta di ghirlanda di sequenze (figura 5.3). Tutto questo lavoro è incredibilmente intenso a livello computazionale, e talvolta le corrispondenze si rivelano sbagliate. Tuttavia, se si dispone già di un genoma sequenziato (per esempio, quello di una varietà di orzo), verificare una nuova sequenza diventa molto più facile, perché il genoma già sequenziato può servire da impalcatura su cui ricostruire i genomi dei suoi parenti più prossimi. L’operazione con cui un genoma viene sequenziato in assenza di una tale impalcatura (detta “sequenza di riferimento”) è chiamata sequenziamento de novo. Fortunatamente, per l’orzo, il luppolo e i lieviti ci sono sequenze di riferimento per l’intero genoma che rendono possibile il tipo di sequenziamento più facile.

Figura 5.3. Dodici brevi frammenti di DNA che contengono fino a venti basi ciascuno, allineati in modo da formare una sequenza contigua di DNA costituita da sessantasette basi.

Lo scopo di tutto questo lavoro sta nell’individuazione e nella classificazione di tutti gli SNP possibili. Alcune delle macchine da sequenziamento attualmente sul mercato sono in grado di generare miliardi di frammenti corti di DNA, e la tecnologia si è sviluppata a tal punto che i ricercatori possono addirittura sintetizzare brevi frammenti di DNA, o di proteine, e usarli come strumenti per approfondire la comprensione dei genomi degli organismi oggetto di studio. Poiché le basi che costituiscono il genoma dell’orzo (nell’ordine dei cinque miliardi) sono quasi tutte identiche nelle diverse piante, i ricercatori hanno sviluppato metodi di sequenziamento mirato che si concentrano solo sulle parti di genoma caratterizzate da SNP che variano (ossia sono polimorfici) in un’ampia gamma di individui. Una volta che un computer ha identificato le sequenze in cui si trovano gli SNP rilevanti, vengono sintetizzati i brevi frammenti di DNA che corrispondono alle sequenze identificate dal computer… ma con una variazione. Ogni SNP ha cinque pezzi di DNA sintetizzato, in cui una posizione dell’SNP contiene una guanina, un’adenina, una timina e una citosina – oppure nulla – corrispondenti alle varie possibili configurazioni del vero e proprio DNA dell’orzo. I cinque brevi frammenti di DNA (ciascuno individua una base diversa o la sua assenza) è collegato a un chip (vetrino), grande più o meno come un quarto di dollaro. La superficie occupata da ciascun frammento sul chip è così minuscola che su uno solo di questi chip possono essere collegate centinaia di migliaia di frammenti di DNA, collocati in posizioni particolari che vengono monitorate per mezzo di un computer. A questo punto, il DNA del singolo orzo che si vuole sequenziare viene spezzettato, marcato con una minuscola molecola fluorescente e lasciato reagire con il chip. Poiché il DNA ha la tendenza alla complementarietà, tutti i vari pezzi del DNA dell’orzo cercheranno sul chip i punti con loro coincidenti al 100 per cento. Il chip viene poi lavato e osservato per mezzo di una speciale videocamera capace di visualizzare i microscopici punti fluorescenti sulla sua superficie. La videocamera individuerà i punti in cui il DNA dell’orzo si è ibridato e identificherà la base che occupa quella posizione. Un diverso approccio utilizza lo stesso protocollo fino alla fase del chip, sennonché ai brevi frammenti di DNA sintetizzato, dove hanno sede gli SNP, viene collegata una molecola chiamata biotina. Questi pezzettini di DNA vengono poi usati per “catturare” gli SNP presenti nel genoma bersaglio. Una volta che sul chip sono state collocate migliaia di sonde complementari a tutte le regioni di qualche rilevanza, al DNA vengono mescolate minuscole perle magnetiche portatrici di molecole che legheranno la biotina. Tutti i pezzi di DNA a doppio filamento si legheranno a una perla magnetica. Dopo di che si usa un magnete per separare dal resto le molecole magnetizzate e contenenti biotina. Tutti questi pezzi di DNA che vengono catturati e sono privi di SNP interessanti vengono poi scartati, e il DNA rimanente può essere successivamente sequenziato con i metodi standard (figura 5.4). Figura 5.4. La cattura di sequenze mirate per mezzo di perle. Le piccole righe a puntini sono sequenze catturate legandovi una molecola di biotina (righe piegate). Tutte le altre righe rappresentano sequenze bersaglio. Gli oggetti rotondi con piccole protrusioni sono perle magnetiche che legano la biotina. Il magnete, in fondo, estrae le sequenze catturate attaccate alle perle. L’approccio del sequenziamento mirato è forse più preciso, perché consente un’elevata risoluzione, con una copertura centuplicata (dove per “copertura” s’intende il numero di punti dati di un singolo SNP). Di norma, con questi metodi, possono essere esaminate svariate centinaia di migliaia di SNP. I pannelli che si utilizzano a questo scopo sono disponibili in commercio, e alcuni sono soggetti a brevetto. L’orzo ha svariate matrici per il sequenziamento rapido, come il GeneChip® Genome Array, l’Affymetrix 22K Barley 1 GeneChip e la micromatrice Morex 60K Agilent. Per il luppolo non sono ancora stati sviluppati chip o matrici, ma le prospettive sono molto promettenti, soprattutto se si tiene conto dell’esistenza di HopBase1.0, un database dedicato al genoma del luppolo (Humulus lupulus). Anche per i lieviti esiste una matrice, il GeneChip Yeast Genome 2.0 Array, ma dato che il genoma del lievito è molto piccolo, parecchi ricercatori hanno più volte adottato il sequenziamento de novo per ricostruire i diversi ceppi di questo tipo di organismo. Quale che sia il metodo seguito per il sequenziamento, le sequenze così ottenute possono essere sfruttate con rapidità, efficienza e a costi contenuti per scoprire le basi genetiche delle differenze che i birrai osservano tra differenti ceppi e specie della stessa pianta. La sfida forse più difficile posta dal sequenziamento del genoma è l’elaborazione di tutti i dati, ma è una sfida che merita di essere raccolta, perché quei dati, se adeguatamente interpretati, possono fornire numerose informazioni sulla biologia e sulla storia naturale di qualsiasi organismo. Se uno studio, per esempio, è incentrato sulle relazioni tra le specie, si possono applicare molte tecniche diverse ai dati delle sequenze. Se vogliamo scoprire qual è il parente più prossimo dell’orzo domesticato, o il parente più simile della pianta ancestrale del luppolo, possiamo usare metodi che utilizzano i dati genomici per produrre quelli che vengono chiamati alberi filogenetici. Ci addentreremo in maggiori dettagli, a questo riguardo, nei capitoli 6-9, ma vale la pena illustrare già qui, a grandi linee, i metodi in questione. Per determinare in che modo un organismo vegetale sia stato domesticato a partire da una varietà selvatica ancestrale, possiamo usare i metodi della filogenetica, grazie ai quali vengono generati alberi evolutivi ramificati che descrivono i gruppi di organismi sulla base della loro discendenza comune più prossima. Disponendo di un albero filogenetico si possono fare inferenze sulle relazioni tra una specie e le altre presenti nello stesso albero. Se due specie derivano dallo stesso punto di diramazione di un albero, senza altre specie a separarle, si potrà dedurre che queste sono le parenti più prossime l’una dell’altra e verranno detti gruppi fratelli. Un altro modo di analizzare i dati di livello genomico consiste nell’osservare le dinamiche delle popolazioni all’interno delle specie. Questo approccio incentrato sulle popolazioni rivelerà la sua particolare importanza quando prendiamo in considerazione le relazioni tra i ceppi di lievito, o tra le varietà di orzo e luppolo. Usando questi approcci, si tenta di determinare, dapprima, se gli individui esaminati formano delle popolazioni. Successivamente, possiamo stabilire con esattezza quante sono le popolazioni che abbiamo. Possiamo usare le informazioni di livello genomico anche per ricostruire i modi in cui la selezione naturale e quella artificiale hanno influenzato il genoma. Questi ultimi metodi effettuano scansioni dell’intero genoma di individui appartenenti a una data specie per identificare regioni che mostrano l’impronta della selezione. Per gli organismi domestici come l’orzo coltivato, ciò equivale a capire come i selezionatori abbiano ricercato particolari qualità presenti nei tipi di orzo da loro seminati e raccolti. I metodi usati dai genomicisti sono molto visivi. Uno di questi è l’analisi delle componenti principali (PCA). Questo approccio statistico produce un valore numerico per indicare la differenza tra due ceppi, sulla base di tutte le variabili implicate nel confronto. Le due variabili più importanti per spiegare il modello della variazione tra gli organismi analizzati sono dette componenti principali 1 e 2, e vengono rappresentate sugli assi x e y di un grafico bidimensionale. Questi valori raggruppano le unità analizzate in uno spazio bidimensionale, così che se abbiamo, per esempio, quattro individui, e le seguenti distanze per i primi due componenti principali (da A a B = 0,1; da A a C = 0,5; da A a D = 0,5; da B a C = 0,5; da B a D = 0,5; e da C a D = 0,1), il grafico della PCA ci mostrerà che A è vicino a B, mentre C sarà vicino a D, con i due gruppi ben distanziati. Come avremo modo di vedere, questo approccio può offrirci una visione d’insieme delle relazioni che intercorrono tra gli individui in oggetto e del numero di cluster (raggruppamenti) coinvolti in un particolare studio. Figura 5.5. Analisi delle componenti principali dei genomi della vite. I cerchietti pieni corrispondono ai ceppi di sativa (la sottospecie usata per la vinificazione); i quadratini pieni indicano i portainnesti (usati, come dice il nome, per gli innesti); la sottospecie sylvestris (che cresce selvatica) è rappresentata dai cerchietti vuoti, mentre i quadratini vuoti indicano gli ibridi.

Uno studio sulla struttura delle popolazioni di un’altra pianta importante nella produzione di bevande alcoliche, come la vite, ci offre un ottimo esempio di questo approccio e di ciò che possiamo attenderci. In quello studio sono stati analizzati quattro gruppi di viti, per un totale di 2273 ceppi. I quattro gruppi erano: portainnesti, ibridi e due sottospecie di Vitis vinifera: la sativa, che è la sottospecie usata per produrre la maggior parte dei vini, e la sylvestris, che cresce spontanea. Si notino le sovrapposizioni fra i quattro diversi cluster, evidenziate dalle diverse colorazioni usate nella figura 5.5. Se il diagramma fosse stato realizzato con tutti i punti in nero, è molto probabile che non sarebbe stato tanto facile individuare la presenza di quattro diverse popolazioni.

Tabella 5.1. Figura 5.6. A sinistra, un semplice diagramma a barre di una analisi STRUCTURE per quattro ipotetici individui assegnati a due diverse popolazioni (popolazione A = grigio chiaro; popolazione B = grigio scuro). A destra, lo stesso diagramma compresso orizzontalmente, che è la forma in cui i diagrammi STRUCTURE vengono di solito presentati. Figura 5.7. Analisi STRUCTURE di 2273 ceppi di vite presenti nella raccolta dei germoplasmi della Vitis vinifera. Le diverse sfumature di colore rappresentano diversi tipi di ceppi analizzati. Le parti più scure rappresentano la sativa, le parti con linee lunghe sono quelle relative alla sylvestris; le parti a trattini corrispondono ai portainnesti, mentre le parti punteggiate indicano gli ibridi. Questa analisi considera sei popolazioni ancestrali (K=6). Adattamento da Emanuelli et al. (2013).

Su questa linea, un modo più obiettivo di determinare il numero dei cluster di popolazioni presenti è stato sviluppato da Jonathan Pritchard e dai suoi colleghi. Questo approccio, chiamato STRUCTURE, è di tipo iterativo, e in esso viene simulato un modello di struttura delle popolazioni. Il numero di popolazioni nelle simulazioni viene indicato con la lettera K. Usando i dati genetici, STRUCTURE gestisce la simulazione per tutte le popolazioni che si ritiene di poter avere. Comparando i dati statistici di ogni simulazione per i differenti valori di K, l’approccio può determinare il numero delle popolazioni che vi sono molto probabilmente rappresentate. Con una valida stima di K, l’approccio può successivamente assegnare ogni individuo esaminato in uno studio alle K popolazioni. Alcuni individui verranno assegnati con una probabilità del 100 per cento a una delle K popolazioni. Tuttavia, sulla base della semplice probabilità, altri individui verranno assegnati a due popolazioni, per via degli effetti dell’ibridazione tra popolazioni. Si consideri un esempio con quattro individui e K=2, con le assegnazioni indicate nella tabella 5.1. Visivamente, si otterrà il grafico a barre della figura 5.6, che mostra le percentuali di assegnazione dei vari individui alle due popolazioni. Espandendo la verifica a un vasto campione di varietà di vite, originarie di regioni diverse, l’approccio mediante STRUCTURE ci fornisce la struttura delle popolazioni illustrata nella figura 5.7. Si noti che l’assegnazione alla popolazione d’origine per una delle sottospecie di Vitis vinifera è difficile, o sfumata, sia nella sottospecie sativa (quella che produce l’uva da vino) sia in quella degli ibridi. Le assegnazioni dei portainnesti (radici di particolari piante utilizzate per gli innesti) e della sottospecie sylvestris (quella che produce l’uva selvatica) sono meglio definite. Osservazioni di questo tipo sono tanto curiose quanto ricche di informazioni ai fini della nostra comprensione della struttura delle popolazioni degli organismi, e come avremo presto modo di vedere hanno un’importanza fondamentale per la comprensione degli antenati da cui discendono orzo, lieviti e luppolo domesticati. Capitolo 6 Acqua

A sinistra, una bottiglia della nostra Pilsner preferita, prodotta nell’eponima città di Plzeň, rinomata per la delicata morbidezza della sua acqua. A destra, una Lager di ispirazione Pilsner prodotta a Dortmund, in Germania, con un’acqua dura come quella con cui si produce la birra nei dintorni di Burton-upon-Trent. Assodato che non potranno mai esistere due birre identiche, saremmo stati in grado di riconoscere l’influenza dell’acqua nei due prodotti? Be’, le due birre in questione erano diverse come il giorno e la notte. Quella di Plzeň era dorata, maltata e leggermente dolce, mentre quella di Dortmund era dura come l’acciaio, luppolata e amara. In fin dei conti, però, non ci è parso corretto attribuire quelle nettissime differenze all’acqua. Dortmund è nel nord della Germania, mentre Plzeň sorge quasi al confine con la Baviera, e le due Pilsner differivano proprio in quelle caratteristiche che distinguono solitamente le birre tedesche del Nord da quelle del Sud. L’etichetta sul retro della bottiglia di Dortmund proclamava: “Ein Pils bleibt ein Pils”. Ci siamo interrogati. Ora che l’importanza del lievito nella produzione della birra è unanimemente riconosciuta, il vero fattore trascurato è l’acqua, che in certi casi costituisce addirittura il 95 per cento della miscela. Se trascuriamo l’acqua, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Come ogni orgoglioso abitante di Plzeň o di Burton-upon-Trent potrà garantirvi, la qualità dell’acqua con cui una birra viene prodotta ha un effetto potente sulla qualità della bevanda, anche se spesso è difficile separarlo dagli altri fattori. L’acqua è un elemento essenziale nella nostra vita di tutti i giorni. Anzi, il nostro stesso organismo è composto di acqua per circa il 75 per cento. Si tenga anche presente che la molecola dell’acqua è estremamente semplice:

H2O. Tre soli atomi, alcuni dei quali probabilmente vecchi quasi quanto il Big Bang che ha dato origine all’universo conosciuto. Il Big Bang si è verificato circa 13,5 miliardi di anni fa, con un lampo di calore di un’intensità inimmaginabile. Nel giro di qualche frazione di secondo ha poi avuto inizio un significativo raffreddamento, che ha permesso – nell’arco di tre minuti circa – la formazione dell’idrogeno (H) e dell’elio (He). Tutti gli altri elementi sono arrivati solo in seguito, anche se di recente si è riusciti a dimostrare la presenza di ossigeno (O) – l’altro elemento che insieme all’idrogeno entra nella composizione dell’acqua – in un sistema solare situato a 13,1 miliardi di anni luce dalla nostra Terra ricca d’ossigeno, e ciò fa presumere che i primi atomi di ossigeno si siano formati, comunque, tantissimo tempo fa. L’acqua in quanto tale, però, sarebbe comparsa solo molto più tardi. Secondo la teoria della Terra asciutta (Dry Earth Theory), ampiamente accettata fino a poco tempo fa, l’acqua sarebbe giunta sul nostro pianeta a seguito di un bombardamento di asteroidi, avvenuto centinaia di milioni di anni dopo la formazione del sistema solare (che risale a 4,5 miliardi di anni fa), nel corso del processo con cui la Terra appena formatasi finì per “raccattare” tutti i detriti planetari presenti nella sua orbita. Tuttavia, gli studi compiuti sull’asteroide Vesta, che orbita intorno al Sole, stanno cambiando la nostra prospettiva sui fatti. Non solo c’è acqua su Vesta, ma l’asteroide ha una composizione simile a quella della Terra e si è formato più o meno nello stesso periodo, e ciò fa presumere che anche l’acqua si sia formata su entrambi i corpi celesti in contemporanea. In altre parole, l’acqua si è aggregata sulla Terra e su Vesta nello stesso periodo, il che lascia supporre che il nostro pianeta fosse umido sin dall’inizio e che sia sempre rimasto tale. Questo, però, non significa che l’acqua da noi usata per preparare la nostra birra sia vecchia di 4,5 miliardi di anni. L’acqua è una molecola molto reattiva ed è particolarmente incline a dissolversi e a combinarsi con sostanze e composti chimici. A causa di questa reattività, l’arco di vita di una molecola d’acqua è stato stimato intorno al migliaio di anni: è questo il tempo massimo che una molecola può trascorrere senza reagire con altri composti e dissolversi. L’acqua sarà anche una molecola semplice, ma ha comportamenti fisici che la rendono unica. L’acqua ha due atomi di idrogeno e un singolo atomo di ossigeno. Gli atomi stessi sono costituiti da particelle ancora più piccole: i neutroni, privi di carica elettrica; i protoni, con carica elettrica positiva; e gli elettroni, che hanno carica elettrica negativa. Madre natura è estremamente rigorosa nella sua contabilità, quando si tratta di cariche elettriche, e le molecole sono più stabili quando le cariche sono bilanciate. L’acqua presenta un equilibrio ottimale ed è perciò chimicamente stabile, perché i due atomi di idrogeno nell’acqua condividono entrambi alcuni elettroni con il singolo atomo d’ossigeno, con un tipo di legame detto covalente. Nel quadro di questo loro bilanciamento, poi, le molecole d’acqua finiscono per avere un polo positivo e uno negativo, il che le predispone a interessantissime interazioni con le altre molecole.

Figura 6.1. La differenza tra dissoluzione e dispersione. A sinistra, il cloruro di sodio (NaCl), un sale, viene dissolto mediante scomposizione della molecola NaCl (il grosso aggregato di pallini scuri più grandi e pallini bianchi più piccoli, al centro dell’illustrazione) e accerchiamento dello ione di sodio (Na) e dello ione di cloro (Cl) da parte di molecole di acqua. A destra, lo zucchero si disperde. Le molecole di zucchero non vengono scomposte, bensì circondate da molecole d’acqua (nel diagramma si possono distinguere quattro aggregati).

La natura reattiva dell’acqua è il fondamento di tutte le misteriose qualità che possiede agli occhi dei birrai. Alcuni metalli producono reazioni violente a contatto con l’acqua. Molti lettori ricorderanno di aver fatto, alle scuole superiori, l’esperimento chimico della reazione esotermica tra il potassio metallico e l’acqua. Questo esperimento esplosivo viene sempre eseguito all’aperto, per ragioni di sicurezza. Anche il sodio metallico reagisce con una certa violenza a contatto con l’acqua, producendo quello strano fenomeno del fuoco che arde sulla superficie dell’acqua. A un livello più modesto, molte molecole (tra cui il cloruro di sodio [NaCl] e altri sali), quando vengono immerse in acqua, finiscono per scomporsi nei loro elementi costitutivi (Na+ e Cl–), portatori di carica elettrica. Quelle singole molecole con carica elettrica sono dette ioni, e le molecole d’acqua circostanti li scompongono attraverso quel processo chiamato dissoluzione. Anche piccole molecole come gli zuccheri, e altre a catena più lunga come i carboidrati, si dissolvono in acqua, ma non vengono scomposte e, invece, si distribuiscono per tutta la matrice dell’acqua. Questa differenza è importante per il produttore di birra, perché le molecole di acqua, in tal modo, formano legami molto deboli con lo zucchero senza alterarne la struttura, e gli zuccheri restano così disponibili per le reazioni con gli enzimi dei lieviti che si verificano durante la fermentazione. La figura 6.1 illustra la differenza tra dissoluzione e dispersione. Con tutte le dissoluzioni e dispersioni che si verificano, l’acqua del sottosuolo trasporta inevitabilmente in giro una gran varietà di ioni che possono contribuire o ostacolare il raggiungimento di un pH ottimale (alcalinità o acidità) nel mosto di birra in fermentazione. Il pH è importante perché i vari enzimi che scompongono le sostanze costitutive di cereali come l’orzo operano al meglio in particolari condizioni di acidità. Infine, l’acqua è fondamentale perché la sua temperatura può essere regolata con facilità e perché si distribuisce uniformemente. Non stupisce, quindi, che in molti testi di biologia si parli dell’acqua come del “solvente della vita”. L’acqua, la sostanza di gran lunga prevalente sia nel processo di produzione della birra sia nel prodotto finale, ha una grande influenza anche sul gusto stesso della birra. Ciò dipende dal fatto che l’acqua contiene, inevitabilmente, numerosi altri composti oltre alle sue molecole elementari. Pertanto, anche se solo lievemente acidula, qualsiasi fonte d’acqua presente in natura – un fiume, un lago, una falda acquifera – raccoglie e incorpora calcio, magnesio, sodio, potassio e altri ioni. Inoltre, poiché altre sostanze chimiche – tra cui, nel mondo moderno, persino gli ormoni e gli antibiotici – filtrano nelle riserve, il gran numero di acque diverse tra loro che si possono trovare saranno soluzioni alquanto eterogenee. Persino l’acqua depurata con dispositivi ai carboni attivi conterrà numerose sostanze chimiche. I filtri di carbone sono indicati per estrarre cloro, fenolo e acido solfidrico, nonché alcuni altri composti volatili e odoriferi, e sono in grado di rimuovere piccoli quantitativi di metalli come ferro, mercurio e rame chelato. L’acqua trattata con filtro di carbone conterrà comunque significative quantità di sodio, ammoniaca e una varietà di altre sostanze.

Tabella 6.1. L’acqua viene spesso classificata in base alla sua durezza: dolce, media o elevata. La durezza dell’acqua è determinata dalla quantità di ioni metallici positivi con carica +2 in essa presenti. Tra questi, i più comuni nelle acque dure sono il magnesio e il calcio. Un’acqua molto dura conterrà numerosi ioni metallici positivi, il che la renderà basica, ossia la collocherà al di sopra del 7 sulla scala del pH. La durezza di un volume di acqua dato è solitamente misurata in parti per milione (ppm), mentre la concentrazione degli ioni metallici è data in milligrammi per litro (mg/l). Durezza e dolcezza sono categorie per certi versi relative, ma le scale ppm e mg/l consentono la classificazione esposta nella tabella 6.1. L’acqua del rubinetto, com’è noto, varia molto da un luogo all’altro, ragion per cui il luogo in cui si produce la birra rappresenta un fattore critico. Ogni tipo di preparato risulterà migliore a determinati livelli di acidità, e anche in un medesimo luogo la qualità dell’acqua pubblica o di quella per uso industriale non sarà mai uniforme per l’intero corso dell’anno. L’origine e la qualità dell’acqua con cui si produce la birra sono di vitale importanza in vista di ciò che si vuole produrre, e molte città in cui si producono birre famose hanno conseguito la loro preminenza grazie alla qualità e alla consistenza dell’acqua lì disponibile. La figura 6.2 presenta alcuni esempi, relativi a due diverse nazioni, di come la dolcezza/durezza dell’acqua può variare da un luogo all’altro. Il grado di durezza dell’acqua è determinato da ciò che l’acqua ha attraversato dopo essere caduta sotto forma di pioggia. L’acqua di superficie di un lago piccolo o grande sarà quasi sempre piuttosto dolce, ma l’acqua del sottosuolo, che ha viaggiato tra le rocce prima di essere pompata verso il birrificio, avrà raccolto lungo il tragitto molti minerali, soprattutto se ha percorso parecchi chilometri sottoterra. L’acqua che fluisce tra le pietre calcaree, per esempio, conterrà probabilmente significative quantità di calcio e magnesio. Quindi, anche la geologia del luogo avrà grande rilevanza per la determinazione del sito di un birrificio.

Figura 6.2. Le carte illustrano la maggiore o minore durezza delle acque, in Francia e negli Stati Uniti.

Si può esemplificare questa variazione prendendo in considerazione le città più famose per la produzione della birra. La tabella 6.2 indica la durezza dell’acqua di diverse città europee. Alcune delle città con acqua particolarmente dura sono centri in cui si producono Ale o Stout piuttosto pesanti. Non è un caso, per esempio, che Burton-upon-Trent, con la sua acqua ricca di gesso, sia diventata l’epicentro per la produzione di quelle durature IPA. Al giorno d’oggi, i birrai di altre città dall’acqua particolarmente dura quasi sempre la trattano per addolcirla, con un’operazione più facile da compiere se l’acqua è solo “temporaneamente dura” con ioni indesiderati che possono essere rimossi portandola a ebollizione in presenza di carbonato o bicarbonato, capaci di favorire la precipitazione di magnesio e calcio. All’altra estremità della scala, una città che risalta per l’eccezionale dolcezza della sua acqua è Plzeň, luogo di origine della frizzante Pilsner Lager.

Tabella 6.2. In genere, è preferibile avere a disposizione una riserva di acqua più dolce quando si produce birra, perché addolcire l’acqua dura non è facile, mentre è semplice aggiungere minerali all’acqua per renderla più dura. Di norma, se una fonte di acqua dura è troppo al di sopra delle 100 ppm e non viene trattata, andrà bene solo per una ristretta gamma di birre. Quattro sono i composti che vengono solitamente aggiunti per aumentare la durezza e ottenere l’acqua più adatta al tipo di birra che si vuole produrre. Il solfato di calcio (gesso) o il cloruro di calcio induriscono l’acqua per le Ale dalla corposità medio-bassa; il carbonato di calcio è indicato per le birre scure; e il magnesio viene spesso aggiunto per imitare l’acqua ritenuta ideale per una gamma di Ale all’inglese. Nella maggior parte dei casi, dunque, era meglio avere un’acqua meno dura per produrre la birra, e solo in tempi relativamente recenti la scienza del trattamento dell’acqua ha dato ai birrai l’opportunità di sottrarsi in modo significativo ai vincoli imposti dalla geologia del luogo.

I composti, sul nostro pianeta, possono esistere in tre differenti forme – gassosa, liquida o solida – a seconda della loro temperatura e pressione. Su un intervallo di temperature ristretto, l’acqua è il più versatile di tutti ed è uno dei pochi composti che si ritrova in natura in tutt’e tre le forme. Lo stato solido si verifica quando le molecole di acqua liquida – che sono fittamente e irregolarmente ammassate e che sono tenute unite dai legami dell’idrogeno – si riorganizzano a formare un reticolo. L’acqua, stranamente, è meno densa allo stato solido che a quello liquido: il ghiaccio, come sappiamo, galleggia nell’acqua. Ciò dipende dal fatto che il reticolo tiene le molecole d’acqua a distanze ben determinate. Allo stato gassoso, invece, l’acqua non presenta stranezze, nel senso che è meno densa che nella forma liquida. Quando l’acqua liquida viene riscaldata i legami relativamente deboli dell’idrogeno, che tengono unite le molecole di acqua, vengono spezzati. E con il venir meno di questi legami, le molecole cominciano a separarsi e ad allontanarsi tra loro, formando il vapore acqueo. A proposito di densità, va osservato che a 22 °C l’acqua liquida pesa circa 0,998 grammi per centimetro cubico. Questa è la densità specifica dell’acqua. Quando nell’acqua vengono disciolti degli zuccheri, la sua densità aumenta. Ma qual è il significato preciso del termine “densità”, in questo caso? Nella sua definizione più semplice, indica la quantità di materia presente in una data quantità di volume di una sostanza o, in altre parole, quanto sono fitte o rarefatte le molecole di un composto. Le molecole di un composto, se sono più fitte, daranno luogo a un oggetto più denso rispetto a molecole più rarefatte, ed è per questo che l’acqua allo stato gassoso è più leggera (meno densa) sia dell’acqua solida sia di quella liquida. Un derivativo della densità, la gravità specifica, risulta particolarmente importante nella produzione di birra. Tecnicamente, la gravità specifica è la massa della soluzione da misurare divisa per la massa di un uguale volume d’acqua. Ciò significa che la gravità specifica di qualsiasi volume di acqua è, per definizione, uguale a 1. Poiché la gravità specifica non può essere espressa in grammi né in libbre e neppure in millimetri, si usano i “punti” per descrivere questo aspetto dei liquidi. In relazione alla gravità specifica, il punteggio di un volume di liquido è uguale alla sua gravità specifica meno 1 per 1000. Pertanto, se la gravità specifica di un volume di liquido è 1,0666, il punteggio di quel volume sarà 1,066 meno 1, per 1000, ossia 66,6. La gravità specifica di un volume di liquido aumenterà di circa 4 punti per ogni 1 per cento volumetrico di carboidrati dispersi. Quindi, se si aggiungono carboidrati finché questi arrivano a costituire il 20 per cento del volume della miscela, l’aumento sarà di circa 80 punti. I carboidrati/zuccheri presenti in una birra, quindi, ne accresceranno la gravità specifica, e l’aumento sarà equivalente alla quantità totale di zucchero disponibile per il processo di fermentazione. Di conseguenza, la gravità specifica può essere usata per calcolare il contenuto alcolico. Prima della fermentazione (che verrà esaminata approfonditamente nel capitolo 10), la gravità specifica del preparato (che in questa fase viene chiamato mosto di malto) è detta gravità iniziale (original gravity, OG). La gravità specifica del preparato al termine della fermentazione è invece detta gravità finale (final gravity, FG). L’acqua è un solvente talmente straordinario che assorbirà non solo additivi come carboidrati e zuccheri più piccoli, bensì anche altri composti che a loro volta influenzano l’OG. Mentre la birra fermenta e gli zuccheri vengono trasformati in alcol, la gravità specifica della miscela aumenta, perché l’alcol è meno denso dello zucchero. Tutta la soluzione sarà perciò meno densa una volta compiuta la fermentazione. FG sarà minore di OG, e la diminuzione della gravità specifica ci dirà qualcosa sulla quantità di alcol prodotta. Poiché nella gravità specifica rientra anche l’effetto dei carboidrati/zuccheri e degli altri composti disciolti nella miscela, le gravità specifiche prima e dopo la fermentazione non offriranno una misurazione perfetta della conversione in alcol, ma possono fornire, in generale, un’idea abbastanza precisa. Quasi tutte le birre possono essere caratterizzate in base al differenziale tra OG e FG, come illustrato nella figura 6.3. Alcuni preparati (birre pesanti) hanno in partenza una OG piuttosto elevata: tra questi, le Doppelbock, le Eisbock, le Ale scozzesi forti, le Stout imperiali russe, le scure e forti Ale belghe e i vini d’orzo, la cui OG si colloca tra 1,080 e 1,120 (tra 80 e 120 punti). Sono poche le birre con OG inferiore a 1,040 (40 punti): tra queste, le birre standard più comuni, la Lite American Lager, la scozzese leggera, media e pesante, le brune scozzesi e inglesi e la Berliner Weisse. La maggior parte delle birre ha una OG tra 1,040 e 1,060 (tra 40 e 60 punti). L’acqua dà luogo a strani fenomeni in relazione alla massa degli oggetti in essa immersi. Si presume che il primo a rendersene conto sia stato il filosofo e matematico greco Archimede, che fu ingaggiato dal tiranno Gerone per verificare se un orafo lo avesse truffato sostituendo l’argento all’oro nella realizzazione di una delle sue corone. Si dice che Archimede abbia trovato il modo di accertarsene mentre era seduto nella sua vasca, rendendosi conto di come il suo corpo facesse salire o scendere il livello dell’acqua a seconda di quanta parte ne immergeva. Il giornalista David Biello ha esaminato a fondo questa grande storia e, stando alle sue conclusioni, pare che Archimede sia riuscito effettivamente a provare l’imbroglio dell’orafo ai danni Gerone, anche se molti dei particolari tramandati – per esempio, la storia secondo cui, nel momento della scoperta, il grande sapiente uscito dal bagno ancora nudo si sarebbe messo a correre gridando “Eureka!” – sembrano privi di fondamento. Ciò nonostante, il principio archimedeo del galleggiamento dei corpi è perfettamente valido ed è stato una conquista preziosissima per i produttori di birra. Impiegato per misurare la gravità specifica prima e dopo la fermentazione nella produzione sia della birra sia del vino, il principio afferma semplicemente che un oggetto immerso in acqua riceverà una spinta dal basso verso l’alto (galleggiamento) che è uguale al peso dell’acqua spostata dall’immersione dell’oggetto. Qualunque cosa galleggi, in altre parole, ha un galleggiamento corrispondente al suo peso. Immaginiamo di avere un liquido in un alto recipiente di vetro. Poniamo che il liquido sia acqua (con una densità di un grammo per centimetro cubico). Ora si prenda un cilindro con sezione trasversale di un centimetro quadrato e un peso di dieci grammi. Se lo immergiamo nel recipiente pieno d’acqua, questo cilindro sposterà dieci grammi di acqua e affonderà in misura corrispondente. Poiché il cilindro ha sezione trasversale di un centimetro quadrato, si immergerà esattamente di dieci centimetri nell’acqua (1 centimetro quadrato per 10 centimetri è uguale a 10 centimetri cubici), posto che abbia lo stesso peso dell’acqua. Se il cilindro immerso è equilibrato in modo da rimanere in posizione verticale nella soluzione, possiamo facilmente misurare di quanto si immerge segnando i centimetri su un fianco del cilindro.

Figura 6.3. Sono qui rappresentati, per i vari stili di birra (contemplati dal Beer Judge Certification Program, BJCP), gli intervalli in cui si collocano la gravità iniziale e la gravità finale. Ogni intervallo è segnalato da un certo numero di bicchieri. L’intervallo a sinistra indica la gravità iniziale; quello a destra, la gravità finale. Le varie sfumature cromatiche indicano il colore della birra in questione.

Archimede confermò i dubbi di Gerone sul conto del suo orafo truffaldino confrontando lo spostamento della prodotta dall’orafo con quello di un pezzo d’oro del peso prescritto in origine dal tiranno. Scoprì, in questo modo, che lo spostamento dell’oro era superiore a quello della corona, deducendone che la corona non era di oro puro. Cambiando un po’ il contesto, possiamo usare il principio di Archimede per determinare la differenza tra i diversi spostamenti di un medesimo oggetto in due soluzioni di differente densità. Si immagini, allora, il cilindro di cui sopra in una soluzione che abbia una densità di 0,95 grammi per centimetro cubico. Il cilindro pesa sempre 10 grammi e si immergerà finché non avrà spostato 10 grammi della soluzione. La profondità raggiunta in questo caso, però, non sarà di 10 centimetri, perché la densità della soluzione è, ora, di soli 0,95 grammi/centimetro cubico. Più precisamente, il cilindro sprofonderà di 10 centimetri diviso 0,95 grammi per centimetro cubico, ossia 10,53. Il cilindro, nel secondo caso, sprofonda un po’ di più perché la soluzione è meno densa. Figura 6.4. Un tipico idrometro.

Ora immaginiamo che la prima soluzione da misurare sia del mosto di birra prima della fermentazione e che la seconda sia lo stesso mosto dopo la fermentazione. La soluzione iniziale ha un maggiore contenuto di zucchero e ciò la rende più densa rispetto alla soluzione finale, in cui gli zuccheri sono stati trasformati in alcol. Resta solo da capire come fabbricare il cilindro in un modo adeguato al lavoro, e a quel punto si avrà uno strumento per stimare il contenuto alcolico di una soluzione dopo la fermentazione. Questo strumento si chiama idrometro e non è stato inventato da Archimede, bensì da Sinesio di Cirene, un suo seguace del IV secolo d.C. Un tipico esempio di idrometro è illustrato nella figura 6.4. Il bulbo all’estremità inferiore contiene un peso predeterminato in grammi ed è parte integrante del dispositivo che si immerge nella soluzione. La profondità della discesa è ricavabile dalla scala di misurazione nella parte alta dell’idrometro e viene rilevata nel punto in cui la superficie (il menisco) della soluzione incrocia la scala di misurazione. Esamineremo nel dettaglio, nel capitolo 10, il modo in cui le misurazioni effettuate prima e dopo la fermentazione vengono usate per stimare il contenuto alcolico. Capitolo 7 Orzo

Le tre birre dell’abbazia di Notre-Dame de Saint-Rémy – nelle versioni 6, 8 e 10 – sono state imbottigliate in vetri identici. Il loro contenuto alcolico è, rispettivamente, di 7,5, 9,2 e 11,3 per cento in volume, e l’alcol proviene dall’aggiunta, via via più generosa, di malto d’orzo tostato e di zucchero di canna indurito. I colori variavano da un beige dorato a un nocciola scurissimo, quasi nero, passando per l’ambrato scuro. I vari gusti si sono succeduti come la notte segue il giorno: luminoso e serico nella 6; pastoso e moderatamente dolce nella 8; intensamente caramellato nella 10. Stranamente, abbiamo stentato a percepire la grande differenza di contenuto alcolico tra un bicchiere e l’altro. Almeno finché non ci siamo alzati in piedi. Gli esseri umani hanno cominciato a produrre birra, molto probabilmente, non appena si sono dati alla coltivazione dei cereali… cioè da tantissimo tempo. L’esame microscopico di alcuni utensili di selce trovati nel sito di Ohalo II, in Israele, e risalenti a ventitremila anni fa, hanno rivelato quella curiosa levigatezza che si forma, di solito, quando delle lame di pietra affilate e munite di manico vengono impiegate per tagliare i silicei gambi dei cereali. Significativamente, ciò avveniva una dozzina di millenni prima dell’ultima glaciazione, che segnò l’inizio della vita sedentaria e della domesticazione di piante e animali nel Vicino Oriente. Ciò potrebbe implicare che la birra o bevande simili abbiano avuto origine poco dopo la scoperta, da parte degli esseri umani, di come, macinando o pestando certe materie vegetali, si ottenesse un cibo più gustoso e gradevole, pratica che alcuni reperti archeologici fanno risalire a ben prima del periodo di Ohalo II. Si è addirittura ipotizzato che queste bevande abbiano avuto origine in epoca ancora più antica, dato che la masticazione di granaglie (come tutt’oggi avviene nella produzione della Chicha andina) aggiunge enzimi della saliva che convertono gli amidi in zucchero pronto per la fermentazione. Su questa base, si è sostenuto che la birra potrebbe plausibilmente essere stata prodotta in una qualche forma sin dal momento in cui la nostra specie ha cominciato a comportarsi alla maniera moderna, cioè più o meno centomila anni fa. Molte sono le granaglie usate nel mondo per produrre birra – riso, miglio, mais, sorgo ecc. – e tutte possono essere sottoposte a maltaggio. Tuttavia, il cereale più usato per produrre le birre all’occidentale che solitamente consumiamo è l’orzo. Non è solo un fatto di coincidenze storiche: l’orzo possiede una “cassetta degli attrezzi enzimatici”, per così dire, che lo rende l’ingrediente perfetto per la produzione di birra. Come gran parte delle piante erbacee, l’orzo ha una struttura piuttosto semplice. La si può osservare nella figura 7.1, dove è rappresentata una pianta intera dalla radice alla spiga. Per chi prepara la birra, la spiga è la parte importante della pianta d’orzo, perché è lì che si trovano i chicchi. La struttura della spiga può differire in modo significativo tra le diverse varietà di orzo, e tali differenze strutturali hanno una grande influenza nella produzione della birra. Le spighe si differenziano per il numero delle file di chicchi che presentano: due, quattro o sei. E se intuitivamente si potrebbe pensare che in questo caso il “più” sia preferibile al “meno”, non è detto che le spighe a sei file siano necessariamente da preferire. Anzi, la stragrande maggioranza dei birrai europei predilige la spiga a due file. Il dato più significativo è che gli orzi a sei e a quattro file presentano una composizione enzimatica diversa da quella dell’orzo a due file, e di questo ci occuperemo tra poco. Il chicco d’orzo è stratificato, proprietà importante che spiega come mai proprio l’orzo sia il cereale preferito per produrre la birra. E il fattore critico a questo fine è quel sottilissimo velo di tessuto del seme che nella figura è chiamato aleurone. Durante il normale ciclo di vita di una pianta d’orzo, l’endosperma del seme sviluppa una consistente riserva di amido, destinata ad alimentare una successiva fase dello sviluppo, quando il chicco comincia a germinare. Nella sua forma originale questo amido non è direttamente a disposizione dalla crescita del seme, ma lo strato dell’aleurone contiene una riserva di enzimi che vengono rilasciati all’inizio della germinazione. Quegli enzimi cominciano prontamente a erodere l’involucro dell’endosperma, esponendo i granuli di amido lì presenti ad altri enzimi dell’aleurone che li trasformano in zuccheri, in particolare maltosio (vedi capitolo 10). Sebbene vi siano altre granaglie il cui chicco è dotato di aleurone, nessuna specie ha la capacità dell’orzo di rompere l’endosperma e trasformare l’amido in zucchero. Ciò considerato, anche chi produce birra di riso o di grano aggiungerà di solito un po’ di orzo alla miscela. Il processo di estrazione degli zuccheri dai chicchi di orzo avviandone la germinazione è noto come maltaggio, e i maltatori che compiono questa operazione si inseriscono nel sistema della natura inibendo la germinazione dei chicchi di orzo finché non vogliono produrre il malto. A quel punto la germinazione viene artificialmente indotta (capitolo 10).

Figura 7.1. Da sinistra a destra: pianta d’orzo intera; primo piano della spiga; particolare di un cariosside di orzo; sezione trasversale di un seme d’orzo; spighe a sei, quattro e due file. La differenza tra le spighe di orzo deriva dal grado di torsione della spiga, che determina il numero di chicchi per fila. L’orzo a sei file ha una torsione di due terzi; quello a quattro file presenta una mezza torsione; mentre quello a due file non ha alcuna torsione, e i suoi chicchi sono tutti simmetrici e diritti, con due file diametralmente opposte. La disposizione dei chicchi nelle diverse tipologie di orzo (a sei, quattro o due file) varia secondo il grado di torsione della spiga. Questa torsione determina il numero di chicchi per fila. L’orzo a due file non presenta alcuna torsione, sicché i chicchi sono tutti simmetrici e diritti, in due file diametralmente opposte. L’orzo a sei file ha una torsione di due terzi, mentre quello a quattro file presenta una mezza torsione (figura 7.1). Gran parte della birra fuori dai confini degli Stati Uniti viene prodotta con orzo a due file, mentre i birrai del Nuovo Mondo tendono a utilizzare quello a sei file. La differenza ha probabilmente a che fare con una questione di gusti, perché le due varietà producono birre diverse come sapore. L’orzo può inoltre essere primaverile o invernale, e la differenza tra i due raccolti è che l’orzo invernale richiede un processo di vernalizzazione (essenzialmente, un’esposizione al freddo) per stimolare la fioritura nel tardo autunno. Se la vernalizzazione non ha luogo, le piante invernali non riusciranno a produrre la testa del seme. La maggior parte delle varietà di orzo coltivate (o cultivar) dà il meglio di sé come raccolto primaverile, e in Europa, fino agli anni Sessanta, il maltaggio veniva quasi sempre effettuato con orzo a due file.

Esistono, letteralmente, migliaia di cultivar di orzo. Un documento intitolato Global Strategy for the Ex-Situ Conservation and Use of Barley Germ Plasm classifica tutte queste varietà accanto a quelle di orzo selvatico conosciute nelle varie regioni del mondo. Sono tutte conservate nelle apposite “banche” delle accessioni di orzo coltivato e selvatico previste dal Trattato internazionale sulle Risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (ITPGRFA), un accordo che regola la loro registrazione e distribuzione in più di cinquanta istituzioni sparse per il mondo. Il numero totale delle accessioni supera le 400.000 unità. La più grande e inclusiva di queste banche si trova a Saskatoon, presso il Plant Gene Resources of Canada (PGRC). I coltivatori di orzo hanno documentato con discreto rigore il lavoro di selezione compiuto negli ultimi cento o duecento anni, ragion per cui il pedigree di molti di questi cultivar è ben noto. Roland von Bothmer, Theo van Hintum, Helmut Knüpffer e Kazuhiro Sato li hanno classificati nel loro libro Diversity in Barley. Esistono 36.000 accessioni registrate di cultivar di orzo, e sul pedigree di 25.291 tra queste abbiamo informazioni certe. Le cartine della figura 7.2 mostrano le regioni in cui si seminano questi cultivar e i luoghi di provenienza dei ceppi selvatici (più di 12.000) presenti nelle banche genetiche. Poiché tutti i cultivar dell’emisfero occidentale sono stati importati dall’Europa o dall’Asia, questa parte del mondo non è mostrata. Figura 7.2. Le carte mostrano le origini geografiche dei cultivar di orzo (a sinistra) e delle accessioni di orzo selvatico presenti nelle banche genetiche. Ogni puntino nero rappresenta un’accessione (adattamento dal rapporto Global Strategy for the Ex-Situ Conservation and Use of Barley Germplasm, 2008).

Non tutte queste accessioni vengono impiegate nella produzione della birra, e molte sono usate soltanto nella produzione di mangimi animali. I moderni maltatori e brassatori, però, ne usano diverse, e ogni anno negli Stati Uniti la American Malting Barley Association (AMBA) informa i maltatori sulle varietà che promettono di dare i risultati migliori per l’anno a venire. In Europa, Euromalt funge da punto di raccolta di tutte le informazioni sui ceppi di orzo e sul maltaggio, mentre in Australia lo stesso servizio è svolto da Malt Australia. Le raccomandazioni di queste associazioni variano da una nazione all’altra. Nel 2017, per esempio, Malt Australia ha accreditato ventisette cultivar, con Bass, Baudin, Commander, Flinders, La Trobe e Westminster in posizione di preminenza. Come l’Europa, l’Australia utilizza per lo più ceppi di orzo a due file per il maltaggio e la produzione della birra. Negli Stati Uniti, l’AMBA ha accreditato nel 2017 ventotto cultivar, che comprendono varietà a due e sei file. Tra gli orzi a sei file, sempre nel 2017, Tradition e Lacey risultavano i più ricercati, mentre i cultivar a due file maggiormente richiesti, tra quelli accreditati dall’AMBA, sono stati ABI Voyager, AC Metcalfe, Hockett e Moravian 69. Riso, orzo, mais e grano sono tutti molto simili nelle loro strutture anatomiche elementari. Del resto, sono tutte piante erbacee, abbastanza strettamente imparentate tra loro. Le erbacee sono monocotiledoni, cioè parte di uno dei due grandi rami dell’albero della vita vegetale. Durante lo sviluppo della pianta, una regione del suo embrione chiamata cotiledone dà origine alle primissime foglioline. Le monocotiledoni sono piante a fiori che nel cotiledone hanno una sola di queste regioni (le piante che appartengono all’altro grande ramo delle piante a fiori, dette dicotiledoni, ne hanno due). Le piante monocotiledoni sono di una grande varietà e, oltre alle erbacee, comprendono gigli, palme, tulipani, cipolle, agave, banane e svariati altri grandi gruppi. Accanto a erbacee, citronelle, ciperacee e bromeliacee, i cereali come l’orzo, il riso, il grano e l’avena appartengono alla suddivisione delle monocotiledoni chiamata Poali. Le Poali possono essere ulteriormente ripartite in più di quaranta gruppi che includono maizena, orzo, riso ed erba da prato. Queste erbacee appartengono tutte alla famiglia delle Poacee, e all’interno di questa famiglia l’orzo rientra nel genere Hordeum. A seconda degli esperti cui ci si affida, il genere dell’orzo conta tra le dieci e le oltre trenta specie. Il nome Hordeum deriva dal latino horreo che significa “irsuto”, in riferimento alla spiga puntuta. L’orzo utilizzato per produrre la maggior parte delle birre appartiene alla specie H. vulgare. Anche il grano e il riso, spesso usati nella produzione di birra, appartengono alla famiglia delle Poacee, e i loro nomi di genere e specie sono, rispettivamente, Triticum aestivum e Oryza sativa. Nel 2015 Jonathan Brassac e Fred Blattner hanno utilizzato dati su sequenze di DNA di livello genomico per appurare in che modo le circa trenta specie di orzo sono imparentate tra loro. È apparso chiaro che l’H. vulgare e due altre specie, H. bulbosum e H. murinum, formano un gruppo abbastanza distinto dalle altre tre decine di specie riconducibili al genere Hordeum. Ciò ha confermato il tradizionale raggruppamento morfologico di queste specie in un loro sottogenere. Continuano, però, a sussistere dubbi su un’entità che è classificata come specie a sé dai tassonomisti, mentre altri la considerano una sottospecie. Si tratta (per chiamarla con il suo nome di sottospecie) dell’H. vulgare spontaneum, ritenuto l’omologo selvatico di tutti i cultivar di H. v. vulgare. Non c’è ancora accordo sull’opportunità di classificare questo orzo selvatico – quanto di più prossimo al comune antenato di tutti i cultivar, per quel che si sa – come specie indipendente oppure se tutte le specie domesticate le siano, in ogni caso, conspecifiche. Poiché i cultivar di Hordeum vulgare sono passati per quella che i selezionatori di piante chiamano “sindrome da domesticazione”, è giusto aspettarsi che alcuni tratti dei ceppi domesticati differiscano dagli omologhi tratti dei ceppi selvatici. E si nota, in effetti, che nei cultivar di orzo le spighe sono meno irte che nelle forme selvatiche. La friabilità delle spighe di orzo selvatico favorisce la disseminazione in condizioni naturali, ma i coltivatori di orzo devono fare i loro calcoli. Non è il caso, per esempio, che i chicchi cadano dalle spighe durante il raccolto, e gli antichi selezionatori di orzo sembrano aver fatto uso di una rudimentale forma di ingegneria genetica, selezionando piante che avevano una spiga dalla struttura particolarmente robusta, capace di tenere insieme i chicchi durante il raccolto. La domanda che sorge più ovvia, a questo punto, è: da dove arrivano i cultivar domesticati di orzo? Per rispondere, però, bisogna prima domandarsi se l’orzo sia stato domesticato una sola volta oppure in più occasioni tra loro indipendenti, a partire da molteplici ceppi selvatici. Per risolvere questo dilemma svariati ricercatori hanno studiato la struttura delle popolazioni di orzo selvatico e di quelle domesticate e coltivate. I genetisti che si sono occupati dell’orzo hanno cercato di standardizzare i loro sforzi istituendo la cosiddetta Wild Barley Diversity Collection (WBDC). Questa “banca” è costituita da 318 ceppi di orzo selvatico (accessioni), selezionati in modo da rappresentare la gamma più ampia possibile di ceppi non coltivati e per rendere ragionevolmente conto della diversità ecologica con cui l’orzo si presenta. Gran parte di queste accessioni proviene dalla Mezzaluna fertile – ossia da quella regione del Vicino Oriente in cui, secondo la maggior parte degli scienziati, l’orzo è stato per la prima volta domesticato –, ma alcune arrivano dall’Asia centrale, dall’Africa del Nord e da una regione del Caucaso tra mar Nero e mar Caspio. La corrispondente “banca” dei cultivar di orzo utilizzata per il confronto è quella dell’ICARDA (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas), che raccoglie 304 diverse accessioni provenienti da tutto il mondo. Alcuni studi si riferiscono esclusivamente a quest’ultima raccolta, mentre altri includono una più ampia campionatura di ceppi coltivati per coprire la massima diversità geografica e genetica possibile. Per semplificare l’analisi del genoma di tutti questi ceppi, i ricercatori hanno approfittato di certe caratteristiche riproduttive della pianta dell’orzo. Le singole piante di orzo e di altre granaglie possono riprodursi da sé e, anzi, possiamo affermare che, per loro, questo sia il modo migliore di riprodursi. Procreano anche con altri individui, saltuariamente, ma la loro modalità di riproduzione preferita è l’autofecondazione. Questa modalità di riproduzione autonoma fa sì che essi si comportino un po’ – ma non del tutto – come cloni di se stessi. Il compito di mappare la loro genetica e ricostruire le loro origini è più semplice rispetto alle specie a riproduzione sessuata come la nostra… perché come ben sappiamo il sesso complica ogni cosa. Per facilitare il più possibile lo studio dell’orzo, le accessioni utilizzate sono state forzate ad autofecondarsi per tre generazioni, prima di essere raccolte e trattate.

Diversi gruppi di ricercatori hanno esaminato le disposizioni genetiche di varietà incluse nella specie Hordeum vulgare. Joanne Russell, Martin Mascher e altri loro colleghi hanno osservato i cultivar di orzo utilizzando una tecnica detta sequenziamento integrale dell’esoma. Questa tecnica permette di ricavare sequenze genomiche da regioni del genoma dedite alla codifica delle proteine. Ci sono milioni di punti dati in ciascuno di questi studi del genoma, e l’impresa di cavarne un senso è un grande problema di informatica, le cui soluzioni possibili sono state da noi esplorate nel capitolo 5. Figura 7.3. Analisi delle componenti principali (PCA) di cultivar di H. vulgare (cerchietti neri) e di ceppi selvatici (H. v. spontaneum, cerchietti grigi). Ogni cerchietto rappresenta uno degli oltre 250 individui esaminati nello studio. I cerchietti bianchi indicano ceppi originariamente classificati come H. v. spontaneum (cioè selvatico), ma che sembrano essere più simili ai cultivar. L’asse delle x rappresenta le sequenze che spiegano la più elevata proporzione dei dati, mentre l’asse delle y rappresenta il secondo più elevato quantitativo di variazione spiegato. I valori lungo gli assi sono arbitrari (adattamento da Russell et al., 2006).

La figura 7.3 mostra un’analisi delle componenti principali (PCA) relativa a più di 250 individui di H. v. vulgare e del selvatico H. v. spontaneum. Da questa analisi emerge che tutti i cultivar sono più simili tra loro di quanto siano affini alle varietà selvatiche (H. v. spontaneum). Benché questo tipo di approccio comporti un gran numero di problemi, il diagramma offre ugualmente un quadro di come i singoli cultivar e i ceppi selvatici possano essere imparentati tra loro… o, per lo meno, prospetta nuovi modi per pensare la parentela tra questi ceppi.

Figura 7.4. Analisi delle componenti principali (PCA) dei cultivar di orzo (a sinistra) e dei ceppi selvatici di orzo (a destra). Questa PCA è stata realizzata utilizzando 803 cultivar, sovrapposti a una carta geografica delle regioni dove quei cultivar sono diffusi, e ipotizzando quattro cluster (adattamento da Poets et al., 2015). Le diverse sfumature dei cerchietti rappresentano i quattro cluster ipotizzati: uno dell’Europa centrale, uno della regione costiera mediterranea, uno dell’Africa orientale e uno dell’Asia.

Ana Poets, Zhou Fang, Michael Clegg e Peter Morrell hanno esaminato una raccolta più ampia di cultivar di orzo (803, per la precisione) per vedere se tra questi era possibile individuare dei cluster. Ebbene, ne hanno trovati tanti, sei dei quali particolarmente copiosi (figura 7.4). Ancora più sorprendente è il fatto che in uno spazio bidimensionale questi cluster possono essere collocati su una carta geografica per visualizzare i luoghi di provenienza dei cultivar. Per esempio, i cultivar grigio scuro che si aggregano nel diagramma qui sopra provengono dalla Mezzaluna fertile, mentre le varietà grigio chiaro si trovano in Asia centrale. Questi studi sono interessanti perché mostrano come i diversi cultivar locali tendono a rimanere in particolari regioni geografiche. Così concludono Poets e i suoi colleghi: «Nonostante gli estesi movimenti migratori umani e la mescolanza dei diversi cultivar locali verificatisi a partire dalla domesticazione, i genomi dei singoli cultivar indicano un modello di comune discendenza con le varietà di orzo selvatico geograficamente più prossime».

Figura 7.5. Analisi STRUCTURE di 803 cultivar di orzo (con K=4). Si tratta degli stessi quattro cluster della PCA illustrata nella figura 7.4: uno dell’Europa centrale, uno della regione costiera mediterranea, uno dell’Africa orientale e uno asiatico.

Questa ricerca può aiutarci anche a stimare il numero di cluster, o popolazioni, dei cultivar e dei ceppi selvatici di orzo. Il numero di cluster è di difficile determinazione perché quelli che si possono individuare in un’analisi PCA è per definizione soggettivo. Provate voi stessi, con i dati mappati nella figura 7.4. Ignorate le diverse sfumature e provate a tracciare dei cerchi intorno a quelli che secondo voi sono dei cluster. Alcuni lettori arriveranno magari a tracciare anche dieci cerchi, mentre altri si limiteranno a due. Come abbiamo visto nel capitolo 5, i tracciati STRUCTURE ci forniscono un quadro dettagliato dei cluster delle popolazioni in un insieme di dati. Qui ne discuteremo due nel dettaglio. La prima è tratta dallo studio di Poets e colleghi (figura 7.5). Hanno posto K=4 (cioè quattro popolazioni ancestrali: centroeuropea, mediterranea, estafricana e asiatica). Questo approccio mostra con evidenza quattro popolazioni, ma si noterà che c’è una notevole incertezza, come risulta dalla sovrapposizione di colori tra certi individui. Da ciò deriva che, se pure sembrano esserci quattro popolazioni strutturate, ci sono anche mescolanze significative tra i diversi cultivar. Il secondo studio, di Joanne Russell, Martin Mascher e altri, riguardava 91 ceppi selvatici e 176 cultivar locali della Mezzaluna fertile mediorientale. Gli scienziati hanno ristretto lo spettro geografico della loro analisi perché erano essenzialmente interessati alla genetica di cinque particolari accessioni. Hanno separato le accessioni dei cultivar da quelle selvatiche e hanno fissato a cinque il numero delle popolazioni ancestrali (K=5). Quindi hanno assegnato le loro accessioni selvatiche a queste cinque popolazioni ancestrali. I ceppi selvatici ricadono in due cluster ben riconoscibili, e ciò significa che discendono da due ben definite popolazioni ancestrali (figura 7.6). La separazione geografica tra questi due cluster sembra collocarsi tra un gruppo di varietà prevalentemente originarie di Israele, Cipro, Libano e Siria e un altro gruppo di varietà provenienti da Turchia e Iran. Figura 7.6. Sopra, analisi STRUCTURE di 91 accessioni selvatiche esaminate nello studio di Russell et al. Il numero di popolazioni ancestrali è stato fissato a 5 (K=5), e le diverse sfumature rispecchiano l’assegnazione degli individui analizzati a queste cinque popolazioni. Ci sono due cluster che balzano all’occhio. Sotto, analisi STRUCTURE di 176 cultivar di orzo, sempre riferito a 5 ipotetiche popolazioni ancestrali. Le sfumature delle barre rappresentano le stesse popolazioni della parte superiore della figura. Le stelle indicano i genomi delle cariossidi dei 5 tipi di orzo antico (adattamento da Russell et al., 2006; Mascher et al., 2016).

Una volta ottenuta l’immagine dettagliata relativa ai ceppi selvatici, i ricercatori hanno analizzato i cultivar locali, come mostrato nella figura 7.6. Questo diagramma offre un valido quadro della differenza tra accessioni selvatiche e cultivar locali. Russell, Mascher e colleghi teorizzano l’esistenza di tre cluster. Questi ultimi potranno risultare più o meno evidenti e al loro interno la distinzione è molto meno netta rispetto a quella delle popolazioni selvatiche. L’analisi ci dice, però, che vi sarebbero almeno tre modelli ancestrali per l’orzo domesticato di questa regione. Nell’analisi sono incluse le cinque varietà speciali cui si accennava sopra, e più speciali di queste non si può, dato che consistono di cariossidi d’orzo vecchie di seimila anni, trovate in Israele e ritenute simili ai cultivar generalmente usati a quei tempi. E sembrano molto simili anche ai cultivar moderni. Più precisamente, mostrano una grandissima affinità con gli attuali cultivar di Israele ed Egitto. Questo risultato si concilia alla perfezione con l’idea secondo cui la domesticazione dell’orzo sarebbe iniziata nell’alta valle del Giordano. Un esame approfondito dei componenti ancestrali di questi cinque campioni (indicati in nero nella figura 7.6) fa supporre che i cultivar utilizzati oggi in Israele non siano granché cambiati in seimila anni, malgrado saltuarie ibridazioni con ceppi selvatici. Le informazioni di livello genomico sono istruttive non solo sulla genealogia dell’orzo, bensì anche sui geni che possono aver avuto rilevanza nella sua domesticazione. Abbiamo già discusso la principale differenza esteriore tra ceppi selvatici e cultivar locali: la maggiore o minore friabilità della spiga. Di certo, però, anche altri tratti sono stati apprezzati dai selezionatori di orzo negli ultimi diecimila anni. Anzi, Russell, Mascher e i loro colleghi hanno usato il loro insieme di dati per identificare i tipi di geni che sono stati e continuano a essere oggetto di selezione nei cultivar. Fra i tratti che sembrano essere stati selezionati nel corso degli ultimi millenni figurano i tempi di fioritura e l’altezza, come risposta alla temperatura e alla siccità. Entrambi i tratti sono importanti per l’adattamento degli orzi coltivati alle condizioni locali. Come fanno rilevare gli scienziati, però, ci sono sicuramente tanti fattori che devono ancora essere individuati. Ulteriori ricerche nel campo della genomica ci aiuteranno a procedere su questa via. Che cosa dicono gli scienziati a proposito della friabilità della spiga che, come si è visto, rappresenta forse il più importante cambiamento genetico avvenuto con la domesticazione? Pare che il tratto del rachide friabile sia semplicemente controllato dai geni. Due sono i geni interessati: Btr1 e Btr2, che producono proteine interagenti fra loro. Quando i prodotti di questi due geni interagiscono come si deve, il rachide è friabile, ma se si verifica un’interazione anomala per effetto della mutazione genetica, il rachide resta forte, e non si verifica alcuno sfaldamento. Anche altri cereali domestici, come riso e grano, sono dotati di un rachide forte, il che induce a domandarsi se i selezionatori di riso, grano e orzo abbiano scientemente selezionato questo tratto seguendo gli stessi percorsi genetici. Mohammad Pourkheirandish e Takao Komatsuda hanno risolto la questione dimostrando che il tratto del rachide friabile nell’orzo è, invece, un fenomeno a sé: nei sistemi del riso e del grano non interviene l’interazione Btr1/Btr2. Chiaramente, c’è più di un modo per ottenere le stesse proprietà del rachide. Si tratta di un tema comune nel campo della biologia evolutiva, perciò non può sorprendere che i selezionatori delle piante si siano imbattuti nello stesso principio utilizzando la selezione artificiale.

Nell’incipit della sua rassegna sulla biologia dell’orzo, pubblicata nel 2015, Robin G. Allaby ha sintetizzato le nostre conoscenze sulla storia della domesticazione dell’orzo in poche parole: «L’orzo non si è diffuso a partire da un unico luogo». Questa acuta osservazione è molto importante, perché gran parte dei ricercatori ha per molto tempo ritenuto che la domesticazione fosse necessariamente da considerare un evento singolo. Allaby chiarifica la nostra interpretazione dei dati genomici, facendo notare che ogni particolare cultivar di orzo finora esaminato presenta residui genomici delle quattro o cinque accessioni selvatiche ancestrali, e solleva una questione cruciale: l’orzo, a questo riguardo, rappresenta un’eccezione tra le piante domesticate o, invece, la regola? La risposta è che l’orzo illustra piuttosto la regola. La domesticazione – che nel caso dell’orzo sembra aver avuto luogo diffusamente nella regione della Mezzaluna fertile – fu per certo un processo tutt’altro che semplice. In passato, la selezione dei cultivar di orzo che possedevano i tratti desiderabili per l’agricoltura era un procedimento per tentativi ed errori. Seimila anni fa, i coltivatori di orzo non sapevano nulla della genetica formale, ma erano intelligenti ed evidentemente conoscevano le loro piante abbastanza da riuscire a ottenere i risultati desiderati. I selezionatori continuano a lavorare su due tipi di tratti fondamentali: produttività e qualità. I tratti della produttività sono, per esempio, il numero dei semi, la capacità di fornire raccolti più volte all’anno e il carattere del chicco friabile che, se mutato, permette un raccolto più efficiente. I tratti della qualità sono quelli che influenzano il contenuto proteico, il contenuto oleoso e qualsiasi altro fenotipo legato al contenuto nutritivo della pianta. Nel corso del XX secolo i selezionatori di orzo facevano ancora ricorso alla loro conoscenza della genetica classica per facilitare il processo di selezione, noioso e ad alta intensità di lavoro. Con l’avvento delle tecnologie genomiche, e grazie alla facilità con cui queste possono essere applicate a una grande quantità di linee genealogiche e cultivar, la selezione dell’orzo e di altre granaglie può essere affrontata con un approccio totalmente diverso, più rapido e meno costoso. La fitoselezione con strumenti genomici utilizza il concetto di “predizione genomica” che si fonda sulle capacità predittive dei caratteri. A questo scopo si richiede il sequenziamento di livello genomico relativo a un gran numero di cultivar, oltre che una grande abbondanza di dati sui tratti che potrebbero interessare (per esempio, le dimensioni dei chicchi, il contenuto proteico e il rendimento delle proteine). Prima dell’introduzione di questo approccio, gli esperimenti di selezione dell’orzo richiedevano apparati enormi e costosi. Ora, usando la predizione genomica, i selezionatori di orzo possono avere un’idea più precisa – e più rapidamente e con minor spesa – della relativa facilità di selezionare determinati tratti. Sono già stati condotti alcuni studi orientati alla valutazione dei tratti qualitativi che hanno particolare importanza nella produzione della birra. Malthe Schmidt e colleghi hanno analizzato le capacità predittive di dodici caratteri legati al maltaggio negli orzi primaverili e invernali. Stilando una graduatoria di questi dodici tratti desiderabili in vista del maltaggio, hanno dimostrato che l’orzo invernale è più facile da lavorare. Un altro studio ha dimostrato l’utilità dei residui genomici al fine di migliorare i tratti qualitativi dei chicchi. Nanna Nielsen e colleghi hanno esaminato fattori come il peso dei chicchi, il contenuto proteico, il rendimento proteico e il contenuto di ergosterolo (generalmente ritenuto un indicatore di resistenza ai funghi e ai batteri), dimostrando come la genomica sia in grado di prevedere l’efficacia dei programmi di selezione anche per questi tratti. Dunque, per quanto si stiano ancora muovendo i primi passi, gli approcci genomici hanno già provato la loro capacità di facilitare il miglioramento dell’efficienza, del rendimento e della qualità delle coltivazioni di orzo. Tuttavia, è molto probabile che il futuro dell’orzo risieda in un’ulteriore tecnica ancora più all’avanguardia: la diretta “manipolazione dei geni” per mezzo della tecnologia CRISPR, di cui tanto si è parlato negli ultimi tempi. Comunque vada, però, una cosa è certa: la biologia molecolare ha in serbo novità promettenti per il miglioramento delle materie prime con cui lavorano maltatori e brassatori. Capitolo 8 Lievito

L’affusolata e lucida bottiglia marrone non aveva etichetta, ma un esame ravvicinato delle lettere quasi illeggibili iscritte su un anello di vetro in rilevo, intorno al collo, diede la seguente soluzione: “Trappisten Bier”. Il tappo a corona era più specifico: “Trappist Westvleteren 12, 10,2%”. L’emozione iniziale, per il fatto di avere in mano una bottiglia della birra più leggendaria del mondo, fu in breve sostituita da una sorta di timore reverenziale. Prodotta in piccole quantità dai monaci dell’abbazia di San Sisto, nelle Fiandre, e solitamente disponibile solo presso l’abbazia stessa in un’atmosfera di estremo riserbo, la bevanda contenuta in quella bottiglia era stata regolarmente premiata come “migliore birra al mondo”: una miscela intensa dall’aroma di nocciola con vivaci sapori di lievito spesso attribuiti all’insolita quantità di lieviti vivi in essa presenti. Alla fine abbiamo trovato il coraggio di stapparla. La migliore birra al mondo? Be’, su un pianeta in cui la cosa più deliziosa della birra è la sua straordinaria varietà, è molto difficile giudicare. Limitiamoci a osservare che il contenuto meravigliosamente armonioso di quella bottiglia non ci ha deluso. Nuotiamo letteralmente in un mare di microbi, a ogni ora di ogni giorno. Il numero delle diverse specie che vivono dentro e su di noi è stimato intorno alla decina di migliaia: due o tre volte il numero di specie di piante che si possono trovare in una tipica foresta pluviale, e all’incirca lo stesso numero di specie di uccelli presenti in tutto il pianeta. E questa è solo la vita microbica che si “attacca” a noi. Non stupirà, dunque, l’affermazione del nostro compianto collega Stephen J. Gould, secondo il quale non c’è mai stata un’era dei dinosauri o un’era dell’uomo: si è sempre e solo vissuto nell’era dei microbi. Gli esseri umani non sono tutti portatori degli stessi microbi. Ogni area del nostro corpo, inoltre, accoglie una diversa comunità di microbi. Queste minuscole creature unicellulari appartengono a uno dei tre grandi gruppi o domini: Bacteria, Archaea ed Eukaryota (batteri, archei ed eucarioti). Tutt’e tre i gruppi discendono da un unico antenato comune, da cui provengono tutti gli esseri viventi del nostro pianeta, come si può verificare confrontando i genomi che contengono i loro “programmi” riproduttivi (vedi capitolo 5). I membri dei gruppi Bacteria e Archaea sono organismi rigorosamente unicellulari che non hanno una membrana nucleare intorno al genoma, mentre gli eucarioti possono essere unicellulari o multicellulari e possiedono un nucleo ben delimitato. Come gli esseri umani, l’orzo e il luppolo che finiscono nella birra sono eucarioti multicellulari. Di contro, i lieviti – terzo essenziale ingrediente della birra – sono eucarioti unicellulari. I lieviti appartengono all’importante sottogruppo dei fungi, che comprende anche i comuni funghi commestibili. Che ci crediate o meno, i funghi non sono organismi unitari, bensì colonie strutturate di organismi unicellulari di una stessa specie. I funghi hanno forme molto familiari e morfologie che facilitano alquanto la loro classificazione. I minuscoli lieviti, invece, soprattutto per la loro anatomia indefinibile, sono più difficili da classificare a occhio, anche ricorrendo a potenti microscopi. Eppure, nonostante la semplicità della loro forma, la varietà di stili di vita che queste semplici creature possono adottare è sbalorditiva. Ciò ha dato luogo a una vasta gamma di specie e di modelli evolutivi. È sufficiente pensare alla nostra vita quotidiana per verificare questa osservazione. Difficilmente passa un giorno senza che non si mangi qualcosa che è stato prodotto utilizzando qualche specie di fungo simile a quelli comunemente commestibili. I funghi possono anche essere la causa di alcune tra le malattie più ostinate e spiacevoli, oltre che di molti altri disturbi meno gravi come il piede d’atleta. E per alcuni di noi i funghi possono anche essere stati un mezzo per esperienze di allargamento della coscienza: i composti della psilocibina ritrovati in più di 150 specie di fungi sono famosi per i loro effetti psichedelici. Stranamente, però, tutti i funghi sono più strettamente imparentati con gli animali che con le piante. Quando un vegano mangia un’insalata con i funghi, si può sostenere che stia contravvenendo ai suoi principi. Esistono due grandi tipologie di funghi, accanto ad alcune varietà così diverse dalle altre da costituire ciascuna un gruppo a sé. Uno dei due grandi gruppi – i Basidiomycota (che comprendono, per esempio, vesce, funghi e satirioni) – è probabilmente il più noto in generale, ma il secondo grande gruppo – gli Ascomycota – include le specie importanti per la birra, il pane e il vino. Un numeroso gruppo di ricercatori, guidato da Rytas Vilgalys, alla Duke University, ha studiato duecento specie di funghi tra le più conosciute per determinare come e quanto siano imparentati, utilizzando informazioni ricavate dalle sequenze di DNA per costruire un albero genealogico (di cui tratteremo in dettaglio nel capitolo 14). Questo albero ha fortunatamente confermato gran parte di quel che già si sapeva sulle parentele tra i funghi, ma ha anche indicato per la prima volta la posizione di svariati nuovi tipi di funghi. Soprattutto, ha messo in evidenza quanto poco ancora sappiamo: sebbene vi siano ormai all’incirca centomila specie di funghi ufficialmente descritte e classificate, alcuni ricercatori stimano che sul nostro pianeta il numero delle specie di funghi sia compreso tra 1,5 milioni e 5 milioni. Benché il principale agente nella produzione della birra, del pane e del vino sia l’ascomicete Saccharomyces cerevisiae, altrimenti noto come lievito di birra, svariati altri funghi possono influenzare la produzione della bevanda, in modi piacevoli e non. Come con gli altri componenti organici della produzione di birra (orzo e luppolo), una comprensione della genetica o della costituzione genomica del lievito sta diventando sempre più importante quanto più la scienza della birra progredisce. La lotta è ancora in corso tra i sostenitori di approcci tradizionali e i fautori delle più recenti tecnologie genomiche, ma i produttori di birra sono per lo più inclini a utilizzare le informazioni che la genomica può apportare alla loro arte. Il Saccharomyces cerevisiae è stato uno dei primi organismi eucarioti di cui si sia sequenziato il genoma, nel 1996. Quando il sequenziamento dell’intero genoma ha fatto la sua comparsa negli anni Novanta, questa specie di lievito si è presentata come particolarmente adatta al sequenziamento, sia per la sua importanza economica sia perché ha un genoma molto ridotto (dodici milioni di basi, in confronto ai circa tre miliardi del genoma umano). Secondo i nostri calcoli, il sequenziamento iniziale è probabilmente costato al consorzio che se n’è occupato una somma compresa tra i 10 e i 25 milioni di dollari: una cifra enorme, dovuta non solo alle molte incognite presenti, bensì anche al carattere macchinoso e ai costi delle tecnologie di sequenziamento di prima generazione. Insomma, nel 2005 solo pochissime specie di lievito erano state esaminate e confrontate al livello dell’intero genoma. Ora, invece, si possono sequenziare i genomi di cento diversi lieviti in meno di un giorno, per una frazione di quel che è costato quel primo sequenziamento (probabilmente, non più di cento dollari per genoma). Questo clamoroso cambiamento si è verificato per due ragioni. Anzitutto, avendo già a disposizione il genoma di un gruppo importante, lo si può utilizzare come impalcatura, come termine di paragone, per altri genomi di specie imparentate. In secondo luogo, il sequenziamento del genoma è una tecnica che ha conosciuto, nel frattempo, una seconda e persino una terza generazione. Per dare una misura dell’accelerazione intervenuta, un dottorando negli anni Ottanta poteva dedicare l’intera tesi al sequenziamento di un singolo gene di una singola specie. Negli anni Novanta un progetto di ricerca comparabile al primo poteva estendersi a centinaia di migliaia di basi e a diverse specie. Dopo il 2000, uno studente era in condizione di elaborare decine di milioni di basi relative a un centinaio di specie o giù di lì; e intorno alla metà dell’attuale decennio i progressi tecnologici consentivano di lavorare su centinaia di milioni – se non miliardi – di basi sequenziate, e un solo studente, in meno di un secondo, avrebbe potuto fare tutto il lavoro svolto nel campo della genomica negli anni Ottanta e Novanta, e a una minuscola frazione di quanto questo era costato. Dati i progressi compiuti, non sorprenderà che i ricercatori abbiano ormai analizzato svariate migliaia di ceppi e specie di lievito per determinare quali siano le specie di lievito selvatico geneticamente più prossime a quelle essenziali per la produzione di birra, pane e vino. Gli scienziati che lavorano su questo problema parlano, a proposito di queste ultime varietà domesticate, di “lieviti prigionieri” (captive yeasts), e hanno trovato aiuto nelle loro ricerche nell’esistenza di banche genetiche centralizzate dei ceppi di Saccharomyces cerevisiae e dei suoi parenti più prossimi. Una delle più grandi banche di questo tipo si trova presso l’Institute of Food Resources di Norwich, in Gran Bretagna, e vanta più di quattromila ceppi. I lieviti impiegati nella produzione di birra, pane e vino provengono principalmente dalla sola famiglia delle Saccharomycetaceae. Questa famiglia contiene migliaia di specie ma, come si è detto, il Saccharomyces cerevisiae è quello essenziale alla produzione di questi beni. La storia del S. cerevisiae e dei suoi parenti più prossimi è tanto interessante quanto complessa. La figura 8.1 mostra le relazioni che intercorrono tra queste specie, anche se si ha l’impressione di osservare un bersaglio in movimento, e l’operazione non è certo facilitata dall’ibridazione tra le specie. Una strana specie che non compare nella figura è il S. eubayanus, che prospera a basse temperature e, insieme al S. cerevisiae, è uno dei parenti del S. pastorianus, il lievito della Lager. Si noti, inoltre, che nel gruppo c’è anche una specie chiamata bayanus. Ogni volta che i tassonomisti aggiungono un prefisso a una specie già nota significa che si è trovato qualcosa di particolare, e il prefisso eu, in ambito tassonomico, significa “vero”. Si è scoperto, però, che il S. bayanus, anch’esso utilizzato nella vinificazione, è in realtà un ibrido derivante da tre diverse varietà: S. cerevisiae, S. uvarum e S. eubayanus. Il fatto che quest’ultimo sia stato scoperto dopo il S. bayanus è un ottimo esempio di come la classificazione dei lieviti possa anche confondere. C’è voluta la moderna genomica per sciogliere questi nodi della storia.

Figura 8.1. Filogenesi del Saccharomyces cerevisiae e delle specie più strettamente imparentate. Le lunghezze dei rami sono proporzionali alla quantità di cambiamenti accumulati dalle specie (adattamento da Cliften et al., 2003).

Per gran parte della sua esistenza, il Saccharomyces cerevisiae vive come un monaco dedito all’astinenza dal sesso. In certe occasioni, però, può diventare eccezionalmente promiscuo. Lo stile di vita mutevole di questa specie di lievito varia secondo il grado di felicità della popolazione del lievito quando arriva il momento della riproduzione. Per “felicità” intendiamo qui la quantità di nutrienti di cui la suddetta popolazione può disporre. La figura 8.2 mostra il ciclo vitale di questo lievito nascente. Quando le condizioni sono buone, i lieviti si riprodurranno in modo asessuato; viceversa, quando i nutrienti a disposizione sono scarsi, i lieviti della birra praticano la riproduzione sessuata e produrranno spore. Qui si nota un aspetto per cui i funghi sono più simili a noi che alle piante. Queste possono usare la luce del sole e le sostanze nutritive presenti nel suolo per produrre l’energia necessaria alla loro vita quotidiana. I funghi, invece, hanno come noi bisogno di nutrienti come i carboidrati, e una loro carenza costringe il S. cerevisiae a ricorrere alla strategia sessuale. Invece di dar vita a cellule sorelle geneticamente identiche all’originale, che i biologi specializzati chiamano affettuosamente schmoos (sing. schmoo), il lievito produce spore aploidi, equivalenti alle nostre cellule sessuali, che fungono da tramite per lo scambio di materiale genetico con altri lieviti (figura 8.2) e danno talvolta luogo alla creazione di lieviti ibridi. Di solito, però, c’è abbondanza di sostanze nutritive in giro, e il S. cerevisiae è assai diffuso nell’ambiente, cosa che ne ha fatto un oggetto di studi privilegiato per gli scienziati, perché è facile farne colture in laboratorio ed è un modello molto utile per comprendere le interazioni delle proteine e il modo in cui queste sono controllate dai geni. Figura 8.2. Il ciclo vitale del lievito. Quando il livello dei nutrienti è alto, la cellula di lievito al centro della figura si riproduce felicemente in modo asessuato (ciclo a sinistra). Produce uno schmoo (estrema sinistra) e dà origine a un lievito sorella che poi ripete a sua volta questo ciclo. Se invece i nutrienti scarseggiano, la cellula di lievito “decide” di riprodursi sessualmente. Il suo genoma produrrà gameti o tetradi (estrema destra). A quel punto, potrà orientarsi verso diverse modalità di riproduzione sessuata, in una delle quali una cellula della sua tetrade si congiunge con una singola cellula di una tetrade di un altro individuo. Il ciclo della riproduzione sessuale prevede una struttura di accoppiamento piuttosto complessa.

L’approccio da laboratorio per l’identificazione del progenitore dei lieviti di birra ricalcava quello usato per l’orzo (capitolo 7), con le specie e le sottospecie selvatiche a fungere da ancoraggio alla ricerca. La specie Saccharomyces paradoxus è stata scelta per questo ruolo perché sembra essere sfuggita alla “cattività” e non è usata come lievito domestico. Poteva pertanto fungere da modello di ciò a cui il S. cerevisiae sarebbe stato affine se non fosse stato “catturato”. Una volta fatta questa scelta, i ricercatori hanno esaminato la struttura geografica delle popolazioni dei ceppi di lievito di birra in rapporto a quella dei lieviti non di birra, tra cui quelli del vino e del sakè, campioni clinici e lieviti presi da fonti naturali come frutta o essudato delle piante. La struttura delle popolazioni di S. paradoxus è emersa con chiarezza, con precisi confini genomici tra le varie regioni geografiche in cui la specie è presente. L’analisi STRUCTURE ha evidenziato quattro distinte popolazioni: una di origine europea, una dell’Asia orientale, una dell’America del Nord e una dalle Hawaii. Più in particolare, i ceppi europeo, asiatico e americano possono essere identificati come tali con una certezza del 100 per cento, mentre il ceppo delle Hawaii sembra essere all’80 per cento hawaiano e al 20 per cento nordamericano. La netta diversità delle popolazioni di lievito non domesticate è presumibilmente dovuta al fatto che non sono mai state manipolate dai biologi e dai produttori di birra. Gianni Liti e colleghi sono arrivati a risultati molto diversi quando hanno esaminato la genomica di trentasei ceppi di Saccharomyces cerevisiae, inclusi quelli per la vinificazione, per usi clinici e per la panificazione. Qui hanno incontrato difficoltà nell’assegnazione degli individui esaminati a ceppi ancestrali e – anche se molti dei ceppi da loro utilizzati erano lieviti di vino, non rilevantissimi per chi produce birra – sono riusciti a dimostrare che i lieviti del sakè e del vino e della birra presentano caratteri nettamente distinti, a indicare che potrebbero essere stati tenuti separati sin da quando, ognuno a suo tempo, sono stati usati per la prima volta per far fermentare una bevanda (anche se non possiamo dimenticare Ninkasi e il pane che probabilmente veniva usato per fare la birra). Questo induce a ipotizzare anche che svariati colpi di genio (o di fortuna) tra loro indipendenti abbiano dato luogo alla cattura del ceppo di lievito in questione. In uno studio di ben più ampio respiro, condotto nel 2016 e relativo a 157 ceppi in fermentazione di S. cerevisiae, Kevin J. Verstrepen e i suoi colleghi hanno messo a fuoco con maggiore precisione la genomica dei lieviti di birra. Esaminiamo nel dettaglio la struttura dei loro ceppi di lievito “prigioniero”, seguendo passo passo ciò che i dati ci mostrano, utilizzando gli strumenti genomici illustrati nel capitolo 5. Per cominciare, il gruppo di Verstrepen ha sequenziato i suoi 157 ceppi de novo, ricorrendo cioè ai metodi classici del sequenziamento del genoma, non al sequenziamento mirato. Questo approccio è stato possibile grazie alle dimensioni ridotte del genoma del lievito, che ha permesso anche di ottenere, per tutti i ceppi analizzati, sequenze genomiche di altissima qualità: sono state sequenziate, in media, 675 milioni di basi per ciascun ceppo. Si tenga presente, qui, l’importanza della “copertura”, ossia della quantità di DNA sequenziata divisa per la dimensione di un singolo genoma dell’organismo. In questo caso, abbiamo una media di 675 milioni da dividere per 5 milioni, e ciò significa che ogni ceppo è coperto all’incirca sessantotto volte. Un grado di copertura strabiliante, che riduce al minimo, se non a zero, la possibilità di errore in questo insieme di dati. Figura 8.3. Analisi delle componenti principali (PCA) dei dati genomici del Saccharomyces cerevisiae secondo il gruppo Maere-Verstrepen (adattamento da Gallone et al., 2016).

Il nostro primo passo verso la comprensione di questa enorme quantità di dati sta nel sottoporre le informazioni all’analisi delle componenti principali (figura 8.3). Con i nostri occhi non addestrati riconosciamo quattro cluster: forse sono cinque o tre, ma quattro ci pare una stima ragionevole. Si consideri che il tracciato dà conto del 20 per cento circa di tutte le differenze tra questi ceppi, e ciò significa che ci sono tante informazioni che rimangono escluse dall’analisi. Ciò che con quest’analisi si è ottenuto, però, è di ridurre centinaia di dimensioni a due soltanto, per facilitare la visualizzazione. L’analisi è grezza, ma sembra risultarne che i lieviti di birra spuntano in due regioni dello spazio: una è la “scia” di ceppi, mentre l’altra è il cluster con i ceppi del lievito di vino (in basso a destra nel grafico). La scia verticale rappresenta i lieviti del sakè asiatici, la cui differenza rispetto agli altri ceppi di S. cerevisiae era già nota.

Figura 8.4. Analisi STRUCTURE di 157 ceppi di lievito. La legenda relativa alle popolazioni è indicata alla base del grafico e riguarda le popolazioni di origine come nella figura 8.3 (adattamento da Gallone et al., 2016).

Dopo aver calibrato la struttura su otto popolazioni (K=8) – il numero di popolazioni ritenuto più probabile quando si usano test statistici – una più rigorosa analisi STRUCTURE dei ceppi di lievito ci fornisce la figura 8.4. Svariate regioni geografiche possono essere associate a determinate popolazioni in modo molto preciso, come indicano i blocchi uniformi nel diagramma. Stranamente, risulta una certa affinità fra i lieviti di birra denominati Birra 2 e i lieviti di vino. Il gruppo Birra 2 è uno strano miscuglio di ceppi di lievito provenienti da Belgio, Regno Unito, Stati Uniti, Germania ed Europa orientale. I ceppi di lievito compresenti appaiono distinti, ma hanno elementi di svariate popolazioni di lieviti: vengono giustamente chiamati ceppi a mosaico, perché sembrano dei miscugli di tutte le varie popolazioni coinvolte nell’analisi. Le potenziali relazioni gerarchiche tra questi lieviti per K=8 non sono immediatamente evidenti. Un numero inferiore di popolazioni finirà per accorpare varietà geografiche diverse, ma il modo migliore per esaminare le potenziali relazioni gerarchiche consiste nell’eseguire un’analisi filogenetica (figura 8.5). Si noti che svariati ceppi selvatici di lievito sono alla base dell’albero: per definizione, dato che i lieviti domesticati sono necessariamente derivati dai lieviti selvatici che stanno alla radice dell’albero. La topologia dell’albero e la posizione di molti ceppi industriali al suo interno lasciano intendere anche, come osservato da Verstrepen e colleghi, che «le migliaia di lieviti industriali oggi disponibili sembrano derivare da un numero ridottissimo di ceppi ancestrali che si sono ritrovati coinvolti nelle fermentazioni alimentari e si sono poi evoluti in genealogie distinte, ognuna riservata a specifiche applicazioni industriali». Figura 8.5. Analisi filogenetica di 157 ceppi di lievito. I numeri dei nodi sono spiegati nel testo. La lunghezza dei rami e l’altezza dei triangoli relativi ai gruppi rappresentano la quantità di cambiamento nei ceppi in questione. Le categorie stabilite da Gallone et al. sono indicate lungo il cerchio esterno del diagramma (adattamento da Gallone et al., 2016). L’albero illustra svariati aspetti importanti della storia del lievito di birra. Anzitutto, ci mostra che i gruppi dei lieviti britannici e belgi-tedeschi hanno un solo antenato in comune (vedi nodo 2, figura 8.5). Ciò significa che i lieviti usati in queste due aree d’Europa sono stati tenuti nei limiti del possibile separati dagli altri lieviti. Se questa netta separazione non fosse stata connaturata alla loro ascendenza, osserveremmo la diffusione di ceppi di altre aree geografiche tra i rami britannico e belga-tedesco dell’albero. Risulta chiaro, inoltre, che i ceppi di lievito degli Stati Uniti sono strettamente imparentati con quelli britannici, come dimostrato dal loro collegamento e dall’esclusione dei lieviti belgi-tedeschi (nodo 1). I ceppi di lievito misti – nome quanto mai azzeccato – sono tali perché l’antenato da cui derivano tutti i ceppi misti (nodo 3) dà origine a una miriade di ceppi di diverse aree geografiche che includono anche i lieviti del pane. Il gruppo del lievito di vino non è totalmente puro in rapporto alla posizione occupata nell’albero filogenetico, dato che nel suo stesso gruppo figurano anche svariati lieviti di birra e altre varietà (nodo 4). I lieviti del gruppo Birra 2, benché composto da ceppi del Belgio, del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Europa orientale, discendono tutti da un unico antenato comune (nodo 5). Come si è accennato in precedenza, il gruppo di lieviti Birra 2 ha qualche affinità con i lieviti del vino, e l’albero filogenetico lo conferma in pieno (nodo 6). Infine, anche i lieviti del sakè derivano da un unico antenato, e la loro posizione nell’albero (nodo 7) mostra come da questi provengano tutti gli altri ceppi di lievito industriale. A questo punto, le persone interessate a produrre birra si staranno domandando qual è il rapporto tra i lieviti della Lager e quelli della Ale. Si può presumere che siano nettamente diversi – e quindi situati in parti diverse dell’albero – perché sappiamo che i lieviti della Lager tendono a compiere gran parte del loro lavoro sul fondo del tino di fermentazione, mentre i lieviti della Ale fermentano alla superficie del tino, dove lasciano uno spesso residuo. Inoltre – e forse anche più significativamente – i lieviti della Ale sono più efficienti a temperatura ambiente, mentre quelli della Lager lavorano meglio a temperature notevolmente più basse. Infine, Joanna Berlowska, Dorota Kregiel e Katarzyna Rajkowska hanno chiaramente dimostrato nel 2015 che le proprietà genomiche e fisiologiche dei lieviti della Lager sono molto diverse da quelle dei lieviti della Ale, perciò ci si aspetterebbe di trovarli piuttosto distanti tra loro. Qui, però, la situazione si complica. Fino a poco tempo fa si pensava che tutti i lieviti della Lager appartenessero alla specie Saccharomyces carlsbergensis che, come abbiamo visto, è stato identificato quale incrocio interspecifico tra il comune lievito di birra S. cerevisiae e il S. eubayanus, tra loro strettamente imparentati. Prima che si verificasse l’ibridazione, però, uno degli antenati aveva evidentemente duplicato il suo genoma. Non si sa quando si siano verificati questi eventi (probabilmente, più di cinquecento anni fa: vedi capitolo 2), ma la duplicazione e l’ibridazione del genoma sono fatti sconvolgenti per qualsiasi genealogia. A confondere ulteriormente la situazione, il lievito ibrido della Lager è stato chiamato S. pastorianus; e non c’è consenso sull’avvento, nel campo dei lieviti di birra, di un’ulteriore specie già menzionata: il S. uvarum. D’altro canto, non sarebbe sensato presumere che tutte queste complicazioni finiscano per confermare l’idea che i lieviti della Lager e quelli della Ale debbano trovarsi in zone diverse dell’albero dei lieviti? Non necessariamente. Nello studio di Verstrepen e colleghi sono stati presi in considerazione svariati lieviti della Lager – dai gruppi nordamericano e belga-tedesco e dal gruppo Birra 2 – e si è visto che sono distribuiti un po’ per tutto il gruppo Birra 2 e per quello belga-tedesco. Ciò potrà sembrare bizzarro, perché in genere si riconoscono grandi differenze tra i due tipi di lievito di birra. Va ribadito, però, che si trovano lieviti di birra anche nel gruppo dei lieviti del vino, e ci sono due gruppi di birre nettamente distinti. Evidentemente, nel mondo dei lieviti domesticati vale tutto.

Finora ci siamo concentrati su lieviti appartenenti al genere Saccharomyces, ma nella produzione della birra – con vari gradi di trepidazione e audacia – si usano anche altri generi di lieviti. Storicamente, le specie di lieviti diverse dai saccaromiceti sono state per lo più considerate una iattura, capaci di compromettere la qualità della birra. Quarant’anni fa, una partita di birra prodotta in casa da uno di noi non era stata cotta né lasciata fermentare come si deve, e la bevanda che ne risultò aveva un contenuto alcolico relativamente buono, ma era torbida e aveva uno strano gusto. Il mosto era stato contaminato da una specie di lievito non meglio identificata, presumibilmente selvatica, e si era sostituito al lievito di Ale che avrebbe dovuto favorire la fermentazione. Fu un incidente, ma da qualche tempo, con la diffusione di birre acide, stagionali e di fattoria, altre specie di lieviti non strettamente imparentate con il Saccharomyces cerevisiae sono salite alla ribalta. Due generi di lievito sono particolarmente importanti per la produzione di queste tipologie di birra: Dekkera e Brettanomyces. Benché gran parte dei lieviti diversi dal Saccharomyces usati per fare la birra abbiano una parentela relativamente stretta con i saccaromiceti, questi due generi (Dekkera e Brettanomyces), insieme a un terzo (Pichia), si trovano piuttosto isolati sull’albero. Evidentemente, a causa della loro estrema varietà, i tipi di lievito con cui si può sperimentare sono tantissimi. Meglio sperimentare che contaminare, potremmo dire, ma è anche vero che tanta parte della storia della birra ha richiesto l’intervento del caso. Come se tutte queste scoperte sui lieviti di birra non bastassero, ci sono ancora numerose conclusioni da trarre sulla base del poderoso studio di Verstrepen e colleghi. Per alcune di queste ci si è serviti della biologia del genoma per manipolare geneticamente i lieviti (vedi capitolo 16). Altre inferenze, invece, sono importanti per la comprensione della biologia dei lieviti di birra. Per cominciare, si osservi attentamente l’albero. I suoi rami non hanno una lunghezza uniforme, perché le diverse lunghezze rappresentano la misura dei cambiamenti avvenuti all’interno di un lignaggio. Ora si osservino i ceppi del vino e, come termine di confronto, un gruppo qualsiasi dei ceppi della birra: si noterà che i rami del lievito del vino sono più corti di quelli del lievito di birra. Ciò significa che, in archi di tempo simili, i genomi dei lieviti di birra hanno avuto più cambiamenti rispetto a quelli dei lieviti del vino. Anthony R. Bornemann e colleghi hanno studiato approfonditamente la diversità genomica di 119 ceppi di lieviti del vino e hanno riscontrato una grande omogeneità: la loro variabilità genetica è di molto inferiore a quel che gli studiosi avevano previsto. Anzi, la loro analisi ha segnalato l’esistenza di un collo di bottiglia nella diversità genetica. Per semplificare, poniamo di avere un sacchetto di biglie di tre colori diversi (bianche, rosse e nere), in quantità uguali, e di infilarle in una tipica bottiglia con un restringimento all’altezza del collo. Quindi, agitiamo la bottiglia e poi cerchiamo di farne uscire le biglie. Inevitabilmente, solo alcune riusciranno a uscire, mentre altre resteranno bloccate nel collo di bottiglia. Se dalla bottiglia escono poche biglie, in questo gruppo la proporzionalità 1:1:1 scomparirà, e la popolazione apparirà molto diversa dopo il versamento. Anzi, può darsi persino che escano solo biglie di uno stesso colore. Se immaginiamo che le biglie siano geni, e che i colori siano gli alleli, avremo a disposizione una valida metafora del collo di bottiglia genetico. Quando si verifica un collo di bottiglia, ne risulterà inevitabilmente l’endogamia, che rafforzerà il nuovo, e probabilmente impoverito, modello di variazione. È chiaramente questo il fenomeno che ha determinato l’estrema brevità dei rami dell’albero relativi ai lieviti del vino. I lieviti di birra domesticati, di contro, presentano una variazione genomica molto più pronunciata. Quando si producono le birre, i lieviti presenti nella miscela non attraversano i lunghi periodi di carenza di nutrienti che affliggono i lieviti del vino. Come abbiamo visto, i lieviti si riproducono serenamente in maniera asessuata (figura 8.2), e la carenza di nutrienti è necessaria a indurre la sporulazione e a spingerli alla riproduzione sessuata. In molti ceppi di lievito di birra, di conseguenza, la capacità di sporulare è ridotta e, in alcuni casi, addirittura scompare. Anzi, la maggior parte dei ceppi di lievito del gruppo Birra 1 non è in grado di produrre spore. Questa possibilità di astenersi dalla riproduzione sessuata – se non addirittura la perdita di questa capacità – è caratteristica dei ceppi domesticati. Per un lievito selvatico che si trovi in un ambiente imprevedibile, questa sarebbe una strategia rischiosa, ma a quanto risulta è invece quella che i produttori di birra hanno imposto a molti ceppi di lievito di birra. E si scopre, inoltre, che l’astinenza dalla riproduzione sessuata ha un suo senso particolare nei lieviti di birra. I lieviti di birra vengono in genere utilizzati in un ciclo produttivo e poi trasferiti o riutilizzati per il ciclo successivo, e così via. Poiché i birrai passano da uno stock di birra all’altro piuttosto rapidamente, di solito non si ha un periodo di stoccaggio prolungato, e i lieviti sono generalmente felici e ben pasciuti. La produzione di vino, invece, è stagionale. I lieviti di vino sono felici solo per un breve periodo all’anno, quando fanno bisboccia nel mosto ribollente. Per il resto, tirano avanti in botti asciutte, nelle vigne e persino nelle viscere degli insetti. In questi lunghi periodi di stenti, con ridottissime probabilità di arrivare al ciclo di fermentazione successivo, i lieviti di vino tendono alla riproduzione sessuata e adottano uno stile di vita diverso da quello seguito durante la fermentazione. Il più delle volte, quindi, i lieviti del vino avranno popolazioni molto piccole in rapporto a quelle dei lieviti di birra, e questo produce tre interessantissimi effetti a livello delle popolazioni. In primo luogo, per la sola differenza nelle dimensioni tra le rispettive popolazioni, i lieviti di birra si evolveranno più rapidamente e cambieranno di più rispetto ai lieviti del vino, un fenomeno che è messo in evidenza dai risultati nella figura 8.5 ed è visibile anche nella loro variabilità generica assai maggiore. In secondo luogo, i birrai, che per certi aspetti sono gelosi della loro arte, quando trovano una buona combinazione di ingredienti, tendono a tenerla per sé. Ciò dà luogo al fenomeno dell’isolamento tra i diversi ceppi di lievito di birra, che accresce la loro differenziazione. Infine, poiché i ceppi di lievito di birra mostrano una generale perdita della capacità di riprodursi sessualmente, e dato che sono relativamente felici (non essendo esposti a condizioni naturali troppo selettive), sono in grado di tollerare più mutazioni (e, quindi, più variazioni) nei loro genomi. Tuttavia, se un produttore di birra non crea un ambiente abbastanza buono, i lieviti di birra domesticati renderanno poco, ragion per cui la produzione di birra degli ultimi millenni è stata per loro un grande esperimento evolutivo forzato. Alcuni lieviti sono rimasti selvatici e hanno conservato una notevole variabilità genetica. Altri sono stati catturati (domesticati) e ora si comportano molto diversamente dai loro progenitori selvatici. E poiché le nicchie di cattività in cui vivono sono estremamente circoscritte, altri lieviti hanno sviluppato risposte molto specifiche alle condizioni particolari. Strada facendo, i lieviti di birra sembrano aver acquisito due caratteristiche degli organismi domesticati: un’estrema specializzazione genomica e un’estrema specializzazione di nicchia. Per fortuna, le variazioni sono tali, sia all’interno del genere Saccharomyces sia all’esterno, da garantire che la biologia dei lieviti conserverà il suo interesse finché si produrrà la birra.

Per finire, l’ultima svolta nella saga del lievito e della birra ha a che fare con un radicale distacco dalla tradizione. Sin dalle origini, i birrai sono stati costretti a produrre birra in partite. Una volta completata la fermentazione, e spillata e imbottigliata la birra, le attrezzature per la produzione devono essere ripulite dai lieviti morti, come da quelli vivi, per poter ripetere daccapo la procedura. Ma se fosse possibile produrla a ciclo continuo come avviene oggi per molti liquori? Alshakim Nelson, chimico dell’Università di Washington, ha suggerito un modo per farlo. Utilizzando tecniche di stampa 3d, il suo team ha prodotto minuscoli bioreattori di idrogel in cui una popolazione di lievito può proliferare e rimanere attiva per diversi mesi senza interruzione. Quando vengono immersi in una soluzione di glucosio, questi cubetti contenenti lievito cominciano a fare il classico lavoro del lievito: danno luogo a fermentazione, con un processo che continua finché la soluzione viene rabboccata. La ragione per cui, in tali condizioni, il lievito abbandona il suo ciclo di vita e di morte resta sconosciuta, ma le possibili implicazioni di questo nuovo approccio per il futuro della produzione di birra sono, a dir poco, decisamente interessanti. Capitolo 9 Luppolo

Sul mercato ci saranno anche bombe al luppolo da 2600 unità, sulla scala di misura internazionale dell’amarezza IBU (International Bitterness Unit), ma non sono facili a trovarsi, e probabilmente per ottime ragioni. La nostra battuta di caccia in tutte le rivendite di birra dell’isola di Manhattan ha avuto, come suo trofeo più estremo, una Triple IPA da 131 IBU. Sull’etichetta campeggiavano tre vigorosi coni di luppolo, sotto la prescrizione “Not Meant for Aging” (Non adatta all’invecchiamento), che ha suscitato in noi qualche interrogativo. Tolto il tappo, siamo stati investiti da una fragranza di luppolo amaro Simcoe, ma sul palato gli aromi e gli 11,25 gradi alcolici hanno avuto la meglio, dando corpo a una Ale dolce, fruttata e quasi morbida, sostenuta – ma non sopraffatta – dall’abbondante luppolo. L’equilibrio era meraviglioso, e noi, a essere sinceri, siamo stati contenti di non aver trovato una birra con un valore IBU più elevato. Due piante forniscono gli ingredienti principali della birra moderna: i chicchi di orzo e le coniche infiorescenze essiccate della pianta del luppolo, Humulus lupulus. Se è vero, però, che l’orzo era presente sin dall’inizio, l’aggiunta del luppolo è stata invece un’idea maturata in un secondo tempo: la storia del nesso orzo-birra risale almeno ai tempi delle prime comunità umane stanziali; la regolare addizione del luppolo alla birra ha preso piede, all’incirca, un migliaio di anni fa soltanto (capitoli 2 e 3). In precedenza, per tradizione, i birrai europei avevano aromatizzato il loro prodotto con un Gruit di erbe selvatiche, ma nel IX secolo si cominciò a sostituire queste misture di erbe con il solo luppolo. Tale cambiamento produsse molteplici vantaggi, perché il luppolo, oltre ad apportare un piacevole gusto amarognolo, fungeva anche da conservante. Non tutti, però, passarono subito all’utilizzo del luppolo: i britannici si adeguarono lentamente, con un processo che può dirsi compiuto solo nel XVI secolo. Una delle ragioni di questo ritardo può essere la dubbia reputazione che circondava il luppolo. Nel XII secolo, la badessa Ildegarda di Bingen lamentava che il luppolo «aumenta [nell’uomo] la malinconia e provoca tristezza nella mente e appesantisce le viscere». Su un piano più profano, sin dalla notte dei tempi il luppolo è stato ritenuto responsabile di due spiacevoli afflizioni maschili – l’“impotenza del birraio” e il “seno maschile” – che si presume (anche se non è stato dimostrato) siano legate ai fitoestrogeni presenti, come oggi sappiamo, nel luppolo. Ciò nonostante, le infiorescenze essiccate della pianta di luppolo erano ampiamente usate nella medicina medievale per curare, tra l’altro, il mal di denti e i calcoli renali. Erano apprezzate anche per gli effetti calmanti e fino a poco tempo fa venivano usate come imbottitura dei cuscini per favorire un sonno migliore. Anche la politica potrebbe aver giocato un suo ruolo. Secondo un distico del XVI secolo,

Luppolo e Riforma, panno verde e birra nell’arco di un anno sono giunti in Inghilterra.

Si allude, qui, al fatto che l’introduzione del protestantesimo in Inghilterra coincise con l’avvento delle birre luppolate, durante il regno di Enrico VIII. Con il vento politico in poppa, la pianta del luppolo ebbe un successo strepitoso a partire dalla metà del XVI secolo, e ben pochi da allora hanno avuto motivo di lamentarsene. In quello stesso periodo, nei monasteri in Germania cessò la produzione di birre al Gruit a seguito dell’adozione, da parte delle varie regioni, del cosiddetto Reinheitsgebot (l’editto di purezza). Benché l’obiettivo principale di questa legge fosse il divieto di utilizzare cereali diversi dall’orzo per la produzione di birra e prevenire, così, aumenti eccessivi del prezzo del pane, un suo importante effetto politico fu l’indebolimento del potere della chiesa cattolica romana. Le birre al Gruit, a quanto pare, erano una bevanda che i riformatori volevano eliminare. L’editto di purezza influenzò anche lo sviluppo delle tecniche per la produzione della birra. Per quasi mezzo millennio la spinta all’uniformazione della birra e all’utilizzo dei tre soli ingredienti allora noti – acqua, orzo e luppolo – ha in sostanza limitato la sperimentazione all’orzo e al luppolo soltanto. Per fortuna, negli ultimi decenni lo scenario è cambiato radicalmente: si è verificato, per molti versi, un ritorno alle origini. Tuttavia, se è vero che molti produttori oggi si danno alla sperimentazione selvaggia con ogni genere di parametro, il luppolo rimane un ingrediente di un’importanza cruciale per la birra. Diamo, allora, un’occhiata più approfondita a questa notevole pianta rampicante.

Come il grano e l’orzo, anche il luppolo è un’angiosperma, ma se l’orzo è monocotiledone, l’Humulus lupulus appartiene all’altra grande divisione delle angiosperme (dicotiledoni). Il carattere più significativo che distingue monocotiledoni e dicotiledoni è il numero dei cotiledoni: uno nei primi, due nei secondi. I cotiledoni sono quelle semplici guaine di tessuto che in genere, sviluppandosi, diventano le prime foglie della pianta (vedi capitolo 7). La figura 9.1 sintetizza la classificazione del luppolo tra le piante. Figura 9.1. Classificazione del luppolo (Humulus lupulus), che mostra la sua posizione in rapporto alle varie categorie superiori di piante.

Le duecentomila e più specie di dicotiledoni sono state raggruppate dai botanici in unità tassonomiche più piccole sulla base della loro anatomia e di informazioni molecolari. La prima suddivisione tra le dicotiledoni è quella tra eudicotiledoni e un minuscolo e strano gruppo di piante comunemente note con il nome di antocerote. La diramazione successiva è quella tra svariate altre genealogie e il “nucleo delle eudicotiledoni”, a cui appartiene il luppolo. Questo nucleo si divide poi in Rosidi (di cui fa parte il luppolo) e Asteridi (che comprendono numerose piante alimentari come melanzane, patate, peperoni, girasole comune, pomodori, caffè e molti altri vegetali da tavola). Le Rosidi si dividono in due grandi gruppi: le Fabidi (cui appartiene il luppolo) e le Malvidi (tra cui figurano geranio, ibisco e aceri). Il primo gruppo che si differenzia all’interno delle Fabidi è quello delle Vitales, che include le viti. Gli altri otto sottogruppi (ordini) delle Fabidi comprendono le Rosali, di cui fanno parte le rose, la marijuana e il luppolo, per limitarsi a pochi nomi. Una delle nove famiglie delle Rosali è quella delle Cannabacee, che comprende otto generi. Tra questi, ce ne sono due molto simili e strettamente imparentati: Cannabis (marijuana) e il nostro vecchio amico Humulus. Il genere Humulus consta al momento di tre specie: Humulus scandens (o japonicus), Humulus yunnanensis e luppolo comune (Humulus lupulus).

Figura 9.2. Disposizioni delle foglie nelle piante dicotiledoni. A sinistra, le quattro disposizioni più comuni delle foglie. I due disegni più scuri al centro sono immagini stilizzate di rami di luppolo che illustrano la disposizione opposta e alternata delle foglie. La Cannabis (a destra) ha una foglia composta e palmata.

Dieci sono i generi attualmente noti che appartengono alle Cannabacee. Può essere interessante notare che Cannabis e Humulus sono l’una per l’altra il parente più prossimo. Mei-Qing Yang e colleghi hanno usato questa topologia ad albero per decifrare l’evoluzione di importanti caratteri del luppolo e della marijuana. In particolare, la disposizione delle foglie (altrimenti detta filotassi) di luppolo e marijuana è molto diversa da quella delle altre Cannabacee. La maggior parte delle piante presenta una filotassi alternata, opposta, basale o a spirale (figura 9.2), e pare che nell’antenato delle Cannabacee la disposizione fosse alternata. Come si può vedere in figura, luppolo e Cannabis seguono un modello misto. Nella Cannabis, le foglie più basse hanno filotassi opposta, mentre quelle più in alto presentano un modello alternato. Anche nel luppolo sono presenti queste due diverse disposizioni, ma senza lo schema gerarchico della Cannabis. Ciò significa che le foglie della Cannabis e del luppolo hanno forma palmata, sono costituite da proiezioni o lobi che emanano da un unico punto alla base della foglia. La classica struttura palmata a sette o nove lobi della Cannabis si distingue da quella più corposa delle foglie palmate e innervate a uno, tre o cinque lobi del luppolo (figura 9.2). Il sistema riproduttivo sessuato del luppolo è interessante e, ovviamente, è di cruciale importanza ai fini della selezione di questa pianta. L’antenato di tutte le piante della famiglia delle Cannabacee era probabilmente monoico, nel senso che su ogni singolo esemplare si trovano sia gli organi riproduttivi maschili sia quelli femminili. Molti altri generi delle Cannabacee sono a loro volta rigorosamente monoici, ma la Cannabis e il luppolo figurano tra le eccezioni in questa famiglia. La Cannabis può essere indifferentemente ermafrodita (monoica) o dioica. In altre parole, una pianta di marijuana può essere femmina, maschio o ermafrodita, anche all’interno di una stessa popolazione. Di contro, il luppolo è per lo più dioico, con occasionali eccezioni monoiche. Le abitudini riproduttive di queste piante sono importanti perché solo le piante femmine producono ciò che i coltivatori di marijuana e luppolo ricercano – rispettivamente, le cime e i coni – e solo se la pianta è vergine. I coltivatori di marijuana hanno imparato a sottoporre le loro piante a shock o a stress per produrre polline femminizzato in vista della successiva generazione di piante e per creare, così, popolazioni uniformemente femminili, e i ricercatori hanno trovato il sistema per modificare geneticamente la pianta in modo da produrre solo polline femminizzato per la riproduzione. Anche i coltivatori di luppolo hanno provato a stressare le piante, allo stesso scopo, ma hanno scoperto che il polline delle piante di luppolo trattate in questo modo non presenta un’analoga convenienza. Pertanto, si limitano a fare il possibile per ridurre al minimo il numero dei maschi in una popolazione.

Figura 9.3. Sviluppo del fiore del luppolo femmina, dallo stadio “a spillo” (a sinistra) alla fase del cono (a destra). Si osservino le proiezioni appuntite del fiore negli stadi intermedi di sviluppo, e la trasformazione di quelle punte nei tessuti del cono.

I fiori maschili della pianta del luppolo sono provvisti delle strutture riproduttive maschili, ossia gli stami che producono il polline. I fiori femminili sono dotati delle strutture fruttifere o ovate, e sono proprio quei piccoli riccioli che si formano sul fiore femminile a trasformarsi, quand’è il momento, nei coni di luppolo che sono un ingrediente così importante nella produzione della birra. Il cono di luppolo ideale è quello privo di semi. La maggior parte dei manuali per la coltivazione del luppolo, anzi, sostiene che se si trova una pianta femmina con i semi, occorrerà individuare ed eliminare la pianta maschio responsabile. Quando la pianta femmina fiorisce, i riccioli sul fiore si trasformano nei riconoscibilissimi coni (altrimenti detti strobili) illustrati nella figura 9.3. Il luppolo ha, per certi aspetti, un comportamento da pianta perenne e, per altri, da pianta annuale. È perenne nel senso che un esemplare può arrivare anche a vent’anni, ma è annuale nel senso che si riproduce una sola volta all’anno. I fiori si formano lungo strutture rampicanti che i botanici chiamano cauli. Finora abbiamo designato il luppolo come rampicante, ma c’è in realtà un’importante differenza, nel senso che i cauli crescono in modo elicoidale verso l’alto senza richiedere l’aiuto di polloni o viticci per ancorarsi. Molti cauli, infatti, sono muniti di villi protesi verso il basso che si aggrappano alla struttura intorno a cui stanno crescendo. Nelle regioni del mondo in cui si coltiva il luppolo, i supporti di legno e i legacci su cui cresce il luppolo possono offrire uno spettacolo abbastanza straordinario, con i cauli che si torcono verso l’alto, talvolta fino a un’altezza di dieci metri. Figura 9.4. Uno strobilo (o cono) di luppolo con le brattee più esterne rimosse e separate a mostrare in sezione la struttura interna del cono. Le bratteole sono le guaine verdastre che circondano il cono al di sotto delle brattee. Il peduncolo è una parte del gambo che si prolunga per tutto il cono ed è il punto da cui si dipartono le bratteole. Le ghiandole della luppolina si trovano a ridosso dell’asse centrale del cono.

I coni di luppolo sono fiori femminili che si sono sviluppati oltre la fase della fioritura. È un fenomeno comune a molte piante, che producono un frutto per nutrire e proteggere l’embrione in via di sviluppo (se c’è). Come abbiamo visto, i coltivatori possono ingannare le piante e indurre questa fase di sviluppo senza che siano state fertilizzate, e il luppolo non fa eccezione. Le parti essenziali dell’anatomia dello strobilo sono evidenziate nella figura 9.4: oltre al peduncolo, si possono vedere le ghiandole della luppolina, le brattee e le bratteole. Le brattee sono le guaine verdi a foglia che formano la struttura esterna del cono, e le loro componenti chimiche non hanno rilevanza per la produzione della birra. Le bratteole sono piccole protrusioni a forma di foglia che si dipartono dal peduncolo, che è il tronco o rachide del cono. Le bratteole contengono oli e resine, nonché tannini e polifenoli, che hanno tutti una rilevanza ai fini della produzione di birra. A questo riguardo, però, la parte forse più importante del cono è costituita dalle ghiandole della luppolina. In uno strobilo di luppolo appena colto, le ghiandole della luppolina appariranno gialle e al tatto saranno piuttosto appiccicose, perché sono essenzialmente grumi di oli e resine. Questi grumi hanno un gusto amaro e sono la fonte dell’amarezza che il luppolo conferisce alla birra. Ci sono centinaia di sostanze chimiche diverse in un cono di luppolo. In termini di peso, un cono medio conterrà cellulosa e lignina (40 per cento), proteine (15 per cento), resine totali (15 per cento), acqua (10 per cento), cenere (8 per cento), tannini (4 per cento), lipidi e cera (3 per cento), monosaccaridi (2 per cento), pectine (2 per cento) e aminoacidi (0,1 per cento). Non sorprenderà il fatto che quasi metà del cono sia costituito da cellulosa e lignina, perché questi sono due importanti elementi strutturali delle piante. Sono molecole piuttosto pesanti (facciamo fatica a digerire la cellulosa, nonostante l’aiuto dei batteri del nostro apparato digerente), e il loro impatto sul gusto e il profumo della birra che beviamo è minimo. Degli altri componenti elencati, i più importanti sono gli oli essenziali e le resine nel loro insieme, perché sono quelli che conferiscono alla birra il gusto e l’aroma amaro che la caratterizza. Gli oli essenziali sono all’origine anche dei gusti e degli aromi di frutta, spezie e fiori che possono avere le birre. Le resine totali includono due tipologie principali: resine dure e resine morbide. Le resine morbide sono solubili in esano, che è un composto chimico organico. Questa frazione delle resine totali è spesso quantificata con particolare cura nei ceppi di luppolo, perché contiene gli alfa acidi che sono importanti per il gusto e l’aroma. Le resine dure, insolubili in esano, sono composte da beta acidi, che sono molecole leggermente diverse dagli alfa acidi. Gli alfa acidi implicati sono principalmente umulone, coumulone e adumulone, mentre i beta acidi sono per lo più lupulone, colupulone e adlupulone.

Gli alfa acidi che provengono direttamente dalla pianta del luppolo non sono amari. Per acquisire questa qualità devono passare attraverso un processo chimico chiamato isomerizzazione, che avviene mediante ebollizione. Le strutture delle molecole prima e dopo il processo sono piuttosto diverse, e le configurazioni delle piccole molecole alfa e isoalfa sono molto importanti per determinare il gusto e l’aroma che noi sentiamo (vedi capitolo 11). Per farla breve, è la trasformazione degli umuloni in isoumuloni ciò che conferisce alla birra il suo gusto amaro. I beta acidi, invece, non si isomerizzano mediante ebollizione, bensì soltanto mediante ossidazione, e questo è un fenomeno che i birrai tentano in ogni modo di scongiurare, perché l’amaro dei beta acidi è considerato sgradevole. Uno degli indicatori più importanti nel campo della birra è la scala IBU (International Bitterness Unit), che misura gli isoumuloni in parti per milione (ppm), con un processo che è per certi versi complicato. Gli alfa e gli isoalfa acidi sono solubili in esano e in altri solventi organici e, se lo scopo di misurare le IBU sta nel quantificare gli isoumuloni presenti in un’unità di volume, la solubilità degli alfa acidi nei liquidi organici può servire a estrarre gli isoumuloni da un dato volume di birra. La misurazione viene effettuata dopo la bollitura del mosto e la luppolatura, quando l’umulone avrà assunto la sua isoforma. Ecco come avviene la misurazione. Un dato quantitativo di birra viene mescolato con isoottano. Come molti composti organici, l’isoottano non è solubile in acqua, ragion per cui l’acqua presente nella soluzione si separerà dall’isoottano. Quindi, per assicurarsi che tutto l’isoumulone si sia sciolto nell’isoottano, il pH dell’intera miscela viene abbassato, in modo da renderla più acida. Questo passo dovrebbe far sciogliere tutti gli acidi dell’isoumulone nella miscela di birra e isoottano. Di nuovo, poiché l’isoottano e l’acqua non si mescolano, ci saranno due diverse fasi nella provetta in cui avvengono tutte queste reazioni. Gli isoumuloni sono nella fase organica, e sarà facile separarli dalla fase acquosa. Una quantità determinata della fase organica viene poi versata in un piccolo bicchiere o contenitore di plastica chiamato cuvetta. Questa, a sua volta, viene collocata in uno spettrometro, una macchina che proietta luci di varie lunghezze d’onda attraverso il piccolo quantitativo di soluzione racchiuso dalla cuvetta. Gli isoumuloni presenti nella soluzione assorbono la luce o le impediscono di colpire un apposito sensore. Si usa una luce di una lunghezza d’onda particolare (275 nanometri) per misurare l’assorbanza della luce, che è proporzionale alla concentrazione di isoumulone nella birra. Il dato sull’assorbanza così ottenuto viene elaborato mediante equazioni ad hoc e… voilà! Abbiamo scoperto il valore IBU della birra, ossia una misura della sua amarezza. La maggior parte delle birre ha valori IBU compresi tra 20 e 60, ma questo dato non è l’unico di cui tener conto per valutare l’amarezza: se una birra con IBU pari a 60 unità contiene altri composti che ne mascherano l’amarezza, il gusto sarà meno amaro di una birra con IBU pari a 20. Si tenga anche ben presente che qui parliamo di “amarezza” com’è definita dall’IBU, non dalla “luppolosità” che deriva da altre proprietà del luppolo. La International Bitterness Unit non è una misura della luppolosità e non va scambiata per tale. La maggior parte delle birre comprese tra 100 e 200 unità IBU sono già particolarmente amare, ma ci sono in giro dei mostri che arrivano a 2600 (figura 9.5). Questo ha sollevato qualche controversia sull’utilità dell’IBU come criterio, dato che solo al di sotto delle 150 unità (e forse anche molto meno) il nostro senso del gusto è in grado di discernere in modo affidabile la diversa amarezza delle birre moderne. Figura 9.5. I valori IBU (International Bitterness Unit) di alcune birre, compresi tra 200 e 2600 unità, inclusa la birra più amara al mondo. Ci sono molte migliaia di birre al di sotto delle 200 unità. Alcune delle birre elencate potrebbero non essere più in produzione. In conclusione, ci sono alcune particolarità dell’IBU e del luppolo che vanno menzionate. L’IBU di una birra finisce per calare se la si conserva troppo a lungo, e ciò fa supporre che l’isoumulone tenda a degradarsi con il tempo. Inoltre, è oggi pratica diffusa la pellettizzazione del luppolo. Questa procedura utilizza un mulino a martelli per ridurre i luppoli essiccati in polvere finissima, che poi viene compressa a formare un pellet simile a mangime animale. Qual è la forma migliore (pellet o coni) per la produzione della birra? È questione di opinioni. Sia i luppoli interi sia quelli pellettizzati hanno pregi e difetti e, in fin dei conti, gli uni valgono gli altri.

Finora abbiamo parlato del luppolo come se fosse un’entità unica e sempre identica, ma in realtà ci sono molti tipi di luppolo, adatti a diversi metodi di produzione e a differenti fasi del processo di birrificazione. Alcune varietà hanno un elevato contenuto di alfa acidi e sono particolarmente apprezzate per le loro qualità amaricanti. Vengono solitamente aggiunte in una fase precoce della produzione; tra queste figurano la Galena, selezionata all’Università dell’Idaho proprio quando negli Stati Uniti cominciava a prendere piede la rivoluzione delle birre artigianali, e la Nugget, sviluppata pochi anni dopo nello Stato di Washington. Queste due varietà hanno entrambe un contenuto di alfa acidi prossimo al 13 per cento, che è una percentuale alta se paragonata al 9 per cento di un ceppo amaricante del Vecchio Mondo come il Northern Brewer, selezionato nel Regno Unito negli anni Trenta. Tuttavia, se è vero che il luppolo, in generale, è rinomato per il gusto amaro che conferisce alla birra, la maggior parte delle sue varietà è di fatto classificata nella categoria degli “aromi”. In queste, gli alfa acidi hanno un’incidenza minore, e prevalgono composti dal gusto più delicato. Negli Stati Uniti, i luppoli aromatici includono il Cascade, rinomato per il suo gusto di spezie, fiori e limone, e il Columbia, che da alcuni è considerato l’alternativa americana al Fuggle inglese. Il Fuggle è la spina dorsale di molte eccellenti Ale inglesi, a cui dona aromi di legno, erbe e, talvolta, di frutta. Un altro classico luppolo aromatico inglese è il Golding, che ha una sua particolarissima qualità speziata e floreale. Alcuni ceppi di luppolo sono stati appositamente selezionati per offrire alfa acidi e aroma. Il Northern Brewer viene a volte collocato in questa categoria, insieme all’americano Cluster e al Perle tedesco. È interessante notare che il Saaz, il classico luppolo utilizzato nella produzione delle Pilsner rinomate per il loro gusto amaro pulito, ha un contenuto di alfa acidi pari al 3 per cento. Accanto a ceppi quali i tedeschi Hallertau e Tettnanger, il Saaz è spesso incluso nella categoria dei luppoli “nobili” che influiscono più sull’aroma che sull’amarezza. Che uno stesso ceppo di luppolo possa facilmente ritrovarsi in più di una categoria è forse meno sorprendente se si fa caso a quanto si è intensificata la selezione mediante incrocio di ceppi.

3 Per esempio, il ceppo aromatico americano Centennial è per /4 Brewers 3 1 1 Gold, ma contiene anche /32 di Fuggle, /6 di East Kent Golding, /32 di 1 Bavarian… e /16 di Unknown, anche se questo ceppo è stato selezionato di recente, negli anni Settanta. La grande varietà di ceppi di luppolo a disposizione è, dunque, davvero sbalorditiva, ed è probabilmente una delle ragioni per cui in questo campo i biologi hanno fatto meno progressi, rispetto agli esperti di lieviti e orzo, nella ricerca della “madre di tutti i luppoli”. Ciò nonostante, alcuni studi hanno applicato tecniche molecolari e di altro tipo nella ricerca delle parentele tra i luppoli. Michael Dresel, Christian Vogt, Andreas Dunkel e Thomas Hofmann, adottando un interessantissimo approccio non genetico, hanno osservato 117 caratteristiche chimiche di circa 90 ceppi di luppolo. Usando la cromatografia liquida ad alta prestazione (HPCL), hanno ricavato informazioni chimiche su più di cento composti chimici di cui era nota la presenza nel luppolo. Con la HPCL una soluzione viene fatta passare attraverso una colonna che separa le varie sostanze chimiche in essa presenti. Queste possono poi essere caratterizzate per mezzo della spettrofotometria già descritta. Dresel e colleghi hanno utilizzato un approccio mediante HPLC concepito per separare al meglio i composti di ogni ceppo e ricavare da essi tutti i dati quantitativi possibili, e sulla base dei dati così raccolti hanno ricostruito un pedigree per i circa 90 ceppi di luppolo, dieci dei quali sono illustrati nella figura 9.6.

Figura 9.6. Una piccola porzione del pedigree del luppolo che mostra le parentele di un decimo soltanto dei ceppi esaminati nello studio. Le frecce rivolte in basso indicano collegamenti con il resto del pedigree (adattamento da Dresel et al., 2016). Atsushi Murakami e colleghi hanno usato svariati tipi di analisi delle sequenze di DNA, tra cui il sequenziamento del DNA di geni mirati all’interno del cloroplasto, per esaminare piante di luppolo provenienti da più di quaranta località sparse per il mondo. Le loro scoperte fanno supporre che vi siano due genealogie fondamentali all’interno della specie Humulus lupulus: un gruppo di ceppi euroasiatici e un gruppo asiatico/nordamericano. Anche qui, però, il confine tra i due gruppi è sfumato, perché i campioni cinesi non rientrano alla perfezione nelle categorie analitiche. E questo è tutto, per quanto riguarda i progressi compiuti finora. I ricercatori hanno dimostrato che ci sono abbastanza variazioni nei vari ceppi di luppolo da far presumere che in futuro si potranno usare le impronte digitali del DNA per risalire all’origine di campioni di luppolo altrimenti non identificati. Al momento, però, l’analisi genomica delle piante di luppolo è ancora agli albori, perché il primo abbozzo del genoma di una pianta di luppolo è stato generato solo nel 2015, e i primi abbozzi sono notoriamente incompleti. Anche così, la disponibilità di questo genoma potrebbe aprire le porte a future ricerche genetiche e genomiche, tanto più che esiste già un database sul genoma del luppolo (HopBase). Questo database verrà prima o poi utilizzato per esplorare alcuni aspetti del luppolo come il rendimento e la genetica della sua resistenza a infezioni micotiche e virali, nonché per chiarire la storia biologica di questa pianta notevole e di primaria importanza per la moderna produzione della birra. Parte III

La scienza della Gemütlichkeit Capitolo 10 Fermentazione

Ci sono “birre”, sul mercato, propagandate per il loro contenuto alcolico eccezionalmente alto che rivaleggia con quello dei liquori più forti. Queste bombe alcoliche, però, vengono in genere prodotte mediante distillazione a freddo, che prevede l’eliminazione artificiale delle parti meno alcoliche della bevanda. Per introdurre il nostro esame della fermentazione abbiamo preferito assaggiare qualcosa di un po’ più moderato, anche se non esattamente tradizionale. Abbiamo scelto una Ale aromatizzata alle spezie e alla zucca, invecchiata in botti di rum e con il 16,9 per cento di alcol. Colore ramato scuro alla mescita, senza schiuma, poche bollicine e una viscosità particolare che si è rivelata tale solo sul palato. L’alcol era vellutato e ricco, paragonabile al gusto di una torta di frutta al rum. Per fare un confronto, dopo questa meraviglia ambrata, abbiamo assaggiato una cosiddetta 120-Minute Ale luppolata e con un contenuto alcolico del 18 per cento in volume. Il contrasto è stato nettissimo, ma in combinazione le due birre hanno dimostrato che sono innumerevoli i modi in cui i birrai intelligenti possono sfruttare a proprio vantaggio le notevoli quantità di alcol da orzo grezzo. Ci sono tante ragioni per bere la birra e, poiché una di queste è il gusto di sperimentare tutta la varietà degli effetti desiderabili (o meno) che il suo contenuto alcolico produce, non si dà discussione biologica sulla birra senza affrontare, almeno in breve, l’affascinante aspetto chimico e la storia naturale della molecola dell’alcol. Se non siete molto portati per la chimica, a questo punto potreste accontentarvi della seguente formula: zuccheri + lieviti = alcol + anidride carbonica. Se invece volete qualche particolare in più, eccovelo. Cominciamo dall’origine dell’alcol. Poiché questo termine si riferisce a un’intera famiglia di molecole organiche, sono tante le molecole che tecnicamente possono rivendicare questo nome. L’alcol particolare che ha rilevanza per i bevitori di birra, però, è l’etanolo. Come abbiamo appreso dall’esempio del «bar della Via Lattea», le molecole di alcol esistono allo stato libero in diversi punti dell’universo, ma poiché sul nostro pianeta l’etanolo libero è raro, per ottenerlo noi esseri umani dobbiamo trovare organismi che lo producono oppure sintetizzarlo con fatica in laboratorio. Per i produttori di birra e di vino, l’organismo prescelto per trasformare quegli zuccheri in alcol è il lievito Saccharomyces cerevisiae, che ha tra le sue proprietà quella di produrre etanolo. La funzione di qualsiasi molecola dipende sia dagli atomi da cui è composta sia dal modo in cui questi atomi sono disposti. La disposizione degli atomi a sua volta influenza la forma della molecola (il modo in cui si configura o “ripiega”) e, quindi, anche il suo comportamento. Molecole con un’identica composizione chimica possono distinguersi per il modo in cui sono organizzate nello spazio e, in tal caso, si comporteranno in modi diversi. Le molecole e i loro atomi – e i loro elettroni – sono la materia delle equazioni chimiche. La prima regola di ogni equazione prevede che le due parti siano in equilibrio… altrimenti si verificheranno interessanti effetti collaterali. Quando si scrive un’equazione chimica si usano i simboli di tutti gli atomi che formano le varie molecole, con un pedice che indica quante volte ricorre ciascun elemento. Per esempio, l’anidride carbonica (o biossido di carbonio), che ha un atomo di carbonio (C) e due di ossigeno (O), viene scritta come CO2. Questa abbreviazione, però, non esprime il modo in cui gli atomi sono concatenati. Per meglio descrivere la forma della molecola, e comprenderne la sua funzione, i chimici ricorrono ai modelli ad asta e sfera. Questi modelli impiegano simboli simili a sfere e ad aste che assomigliano un po’ al set di costruzioni Tinkertoy. Da ogni atomo/sfera spunta un determinato numero di aste, a seconda di quanti legami un atomo può stabilire con gli atomi vicini. Gli atomi possono legarsi tra loro in diversi modi, il più comune dei quali è detto legame ionico, che si forma quando due atomi condividono un elettrone. L’idrogeno (H), che forma di solito un solo legame, avrà una sola asta, mentre l’atomo di ossigeno avrà due aste, perché stabilisce due legami, e il carbonio ne ha quattro, perché crea quattro legami. Il numero di aste che spunta da un dato atomo è determinato sia dal suo numero atomico sia dalle orbite dei suoi elettroni; e nella notazione ad asta e sfera la molecola di anidride carbonica apparirà così: O=C=O. Si noti che il totale dei legami, qui, è quattro: gli atomi di ossigeno ne hanno due ciascuno, e quello del carbonio ne ha quattro. Questa notazione è bidimensionale, ma le molecole esistono nello spazio e hanno una struttura tridimensionale. Dovremo perciò distinguere tra il biossido di carbonio nella sua scrittura contabile e la sua forma naturale (ad asta e sfera). In questo caso, la struttura tridimensionale del biossido di carbonio assomiglia alla forma contabile, perché è anch’essa organizzata in modo lineare. Molte altre molecole, però, hanno atomi che sono concatenati tra loro con varie angolazioni, il che gli conferisce una vera e propria struttura tridimensionale. Questo è un aspetto cruciale ai fini della produzione di birra, perché a livello molecolare, che è quello in cui ha luogo la fermentazione, le dimensioni e le forme delle molecole determinano le reazioni che producono l’alcol. Alla natura non interessa necessariamente quali siano gli atomi coinvolti; si regola, piuttosto, sulla forma esteriore di ciascuna molecola.

Figura 10.1 A sinistra, formula generica di una molecola di alcol. Le R indicano i gruppi che si legano all’atomo di carbonio centrale. La parte invariabile della molecola di alcol è il gruppo ossidrilico (OH). Nel metanolo, le R sono atomi di

idrogeno; nell’etanolo, invece, R1 ed R3 sono atomi di idrogeno, mentre R2 è un gruppo metilico (un atomo di carbonio legato a tre atomi di idrogeno).

Come quasi tutte le droghe, anche l’alcol ha una molecola minuscola. Anzi, avendo un peso molecolare (che è la somma dei suoi pesi atomici) pari a 46, l’alcol ha una dimensione ridotta persino in confronto alla più piccola molecola contenuta nei farmaci in circolazione (l’idrossiurea, il cui peso molecolare è 76). Gli alcoli hanno un atomo di carbonio centrale, come si vede nella figura 10.1. Si tenga presente che un singolo atomo di carbonio può dar luogo a quattro legami, ragion per cui in una tipica molecola di alcol ci saranno quattro bracci (o aste) che spuntano dall’atomo di carbonio centrale. Uno di questi bracci presenta in tutti gli alcoli lo stesso sviluppo: è concatenato a un gruppo ossidrilico (OH). Le R nella figura possono essere altre molecole organiche, come gli idrogeni, oppure una più complessa catena molecolare collaterale chiamata gruppo metilico (CH3). Se tutt’e tre le R sono idrogeni, si avrà una molecola di metanolo (estremamente tossico e da evitare perché può causare cecità e morte). Già solo sostituendo uno degli idrogeni del metanolo con un CH3, la molecola si trasformerà nel solitamente delizioso etanolo. Ci sono altri due tipi di alcol importanti nella produzione di birra, che possono presentarsi quando nel processo di fermentazione intervengono batteri e lieviti contaminanti. Questi alcoli – butanolo e propanolo – sono anch’essi prodotti indesiderati in quanto neurotossici, e derivano dalla scomposizione della cellulosa… che in linea di principio non dovrebbe essere presente nella miscela. I lieviti producono l’alcol nella birra scomponendo gli zuccheri del malto. Il più comune di questi zuccheri è il saccarosio che usiamo per dolcificare il nostro caffè. Ci sono anche molecole dall’aspetto simile chiamate maltosio e lattosio. Tutti e tre questi zuccheri sono disaccaridi, che si formano per combinazione di zuccheri meno complessi chiamati monosaccaridi (ci sono poi altri zuccheri ancora più complessi – i polisaccaridi – che rivestono un certo interesse per i produttori di birra, ma sono meno comuni). La struttura base di uno zucchero è costituita da un anello di carbonio. I monosaccaridi possono avere cinque (pentosio) o sei (esosio) atomi di carbonio nei loro anelli. Tra due atomi di carbonio adiacenti in un anello si stabilisce un solo legame, sicché a ogni atomo di carbonio – tolti i due legami che lo uniscono agli atomi che ha ai lati – rimangono due legami da sfruttare. A questi due legami possono agganciarsi, in alto e in basso, singoli atomi di idrogeno (H) o un gruppo ossidrilico (OH), con varie combinazioni, a bilanciare la chimica degli zuccheri. Gli zuccheri avranno ognuno un loro gusto particolare, perché i diversi gruppi che si legano agli atomi di carbonio dell’anello, in alto e in basso, conferiscono a ogni zucchero una forma particolare che interagisce con i recettori del gusto sulla nostra lingua. Nel capitolo 11 vedremo in che modo la stimolazione di diversi recettori sulla lingua dia luogo all’esperienza del gusto; l’idea essenziale, qui, è che la forma della cosa gustata (lo zucchero, in questo caso) è la fonte del gusto. Consideriamo il glucosio, uno zucchero monosaccaride con sei atomi di carbonio nel suo anello (figura 10.2). I chimici contano gli atomi di carbonio in un anello come sul quadrante di un orologio, ma da uno a sei, partendo dall’atomo a ore tre. I gruppi che si legano all’atomo di carbonio possono stare in alto o in basso, e l’ordine con cui si dispongono gli H e gli OH è essenziale per definire la struttura complessiva dello zucchero. Nella molecola di glucosio, i gruppi OH relativi agli atomi di carbonio da 1 a 4 è: basso, basso, alto, basso. Se si cambia la posizione del secondo OH del glucosio, avremo una sequenza: basso, alto, alto, basso, che dà luogo a uno zucchero instabile chiamato mannosio, dolce al gusto, ma inesistente in natura. Cambiando la posizione del gruppo OH anche nel primo atomo di carbonio, si avrà la sequenza: alto, alto, alto, basso, che dà luogo al mannosio amaro. In questo modo, dalla stessa struttura e composizione chimica possono derivare due gusti opposti, per il semplice cambio della disposizione dei gruppi laterali in un anello di zucchero. Ci sono esattamente sedici modi in cui i gruppi OH possono legarsi agli atomi di carbonio da 1 a 4. Ognuna di queste sedici configurazioni darà luogo a una diversa molecola di zucchero che, pur non distinguendosi dalle altre per composizione chimica di base, può produrre effetti molto diversi al contatto con i nostri bottoni gustativi.

Figura 10.2 A sinistra, la struttura chimica del glucosio. Si noti che negli atomi di carbonio da 1 a 4 la posizione del gruppo OH è: basso, basso, alto, basso. Altri zuccheri presentano disposizioni diverse dei gruppi OH. Il disegno centrale descrive la struttura dell’instabile mannosio (basso, alto, alto, basso), mentre sulla destra si osserva la struttura del mannosio amaro (alto, alto, alto, basso).

Le piante hanno sviluppato un sistema strabiliante per accumulare l’energia prodotta con la fotosintesi. Estraggono elettroni da sostanze come l’acqua e li riciclano per produrre anidride carbonica e altre molecole più grandi, contenenti carbonio, in cui l’energia è immagazzinata chimicamente. Gli zuccheri sono il prodotto finale di questo processo, e le piante sono in grado di accumulare enormi quantità di energia da usare in un secondo momento sotto forma di glucosio e di altre molecole a catena lunga costituite a partire dal glucosio. Tra queste molecole a catena più lunga figurano l’amido e la cellulosa, molecole troppo lunghe perché i nostri bottoni gustativi possano “sentirle”. Queste molecole, in altre parole, non hanno alcun gusto, per noi, e non vengono scomposte in maniera efficiente dal nostro organismo. L’amido è formato da due tipi di molecole. Una è l’amilosio, una semplice molecola a catena lineare in cui diversi zuccheri sono uniti da legami glicosidici. La seconda è l’amilopectina che, pur essendo in parte lineare, si ramifica poi a formare molecole di amido più grandi. L’amido è formato per circa tre quarti da amilopectina e per circa un quarto da amilosio e, una volta estratto dalle piante, si presenta sotto forma di polvere. Di contro, la cellulosa è formata da catene di glucosio che si uniscono talvolta a formare reticoli dalla struttura rigida. La carta è fatta di cellulosa, che è anche una parte importante di alimenti come la lattuga (veniamo invitati a includere la lattuga e altre verdure a foglia nella nostra dieta come fibre perché la cellulosa rimane pressoché inalterata al passaggio nel nostro apparato digerente). Si tenga presente che cellulose e amidi, benché composti da lunghe catene di molecole di glucosio, si comportano in modi assai diversi. Queste molecole a catena lunga sono la materia prima dei birrai perché, per nostra grande fortuna, la natura ha trovato un modo per trasformarle in zuccheri più piccoli, che possono essere attaccati dai lieviti per produrre l’alcol. Al momento del raccolto, i chicchi di orzo sono strapieni di lunghe molecole di amido (la cui funzione è di nutrire l’embrione in essi racchiuso). Ai fini della fermentazione, però, sono inutili, perché il lievito non dispone dell’apparato enzimatico necessario a scomporli. Quando l’embrione è pronto per cominciare il suo sviluppo, il chicco spende una parte delle sue risorse per scomporre le lunghe molecole di amido in zuccheri e molecole di amido più piccoli, che possono essere utilizzati dall’embrione dell’orzo. Già il chicco è dotato di un insieme di enzimi che vengono utilizzati per produrre svariati tipi di zucchero: glucosio, maltosio, maltotriosio e altri zuccheri più complessi. Se il processo di sviluppo viene interrotto a tempo debito, gli enzimi smettono di lavorare, e gli zuccheri e gli amidi più piccoli rimangono all’interno del chicco.

Figura 10.3. Amilasi e destrinasi limite tagliano le molecole di amido in zuccheri ad anello singolo di carbonio. Le frecce indicano i punti in cui specifici enzimi tagliano le molecole di amido a catena lunga.

I maltatori ingannano l’embrione dell’orzo facendogli credere che è arrivato il momento di cominciare lo sviluppo e, immergendolo in acqua, innescano il processo enzimatico che scompone gli amidi a catena lunga a beneficio dell’embrione. Quando i chicchi sono stracarichi di zuccheri e di amidi più corti, i maltatori interrompono questo processo riscaldando ed essiccando i chicchi, che vengono poi tostati in un forno. Il tempo di essiccazione può essere variato per conferire al chicco maltato il colore e il gusto desiderati. Calibrando con precisione la tempistica e i modi con cui queste fasi si susseguono, i maltatori possono controllare il rapporto tra amido ed enzima, che è importante per il passo successivo del processo di produzione.

Figura 10.4. Il processo della fermentazione. I tre numeri (1, 2, 3) indicano le due “macchine” (1 e 2) e la reazione chimica (3) coinvolte nella trasformazione dello zucchero in etanolo nel lievito. La macinazione fa fuoriuscire gli zuccheri dal chicco germogliato (di orzo o di quel che il birraio preferisce usare). Questo processo prevede diversi passi, il primo dei quali consiste nell’immersione dell’orzo maltato in acqua fredda. Questa procedura darà luogo a gelatinizzazione, che non è essenziale per il rilascio degli zuccheri, ma accelera il processo nel momento in cui il mosto viene riscaldato e il chicco si gonfia e si gelatinizza per davvero. La macinazione, che viene praticata a svariate temperature, attiva nel malto gli enzimi che convertiranno gli amidi a catena lunga in amidi più piccoli e zuccheri utilizzabili dal lievito. Questi enzimi (alfa amilasi, beta amilasi e destrinasi limite) operano come piccole macchine che scorrono lungo gli amidi a catena lunga, recidendo i legami tra gli anelli di zucchero. La figura 10.3 descrive questi tre enzimi al lavoro su un amido. L’amido può essere strettamente lineare (amilosio) o ramificato (amilopectina). I due enzimi che spezzano queste molecole di amido si chiamano amilasi e operano sia sull’amilosio sia sull’amilopectina. Il terzo enzima, la destrinasi limite, taglia le ramificazioni dell’amilopectina e riduce le dimensioni di queste molecole di amido liberandole dalle catene collaterali. L’intruglio che ne risulta è zeppo di zuccheri ad anello singolo come il glucosio, e viene chiamato mosto.

Figura 10.5. I tre prodotti della fermentazione. La linea tratteggiata sulla sinistra nella rappresentazione ad asta e sfera del piruvato indica che i due atomi di ossigeno legati all’atomo di carbonio al vertice condividono un elettrone. Questa disposizione rende il piruvato estremamente reattivo. Nella produzione di alcol, la macchina enzimatica che scompone il piruvato si chiama decarbossilasi, perché

rimuove il gruppo carbossilico ed emette biossido di carbonio (CO2). L’emissione

di CO2 produce bolle (carbonazione). L’acetaldeide al centro è molto simile all’alcol, a parte l’ossigeno unito da un doppio legame all’atomo di carbonio a destra. Per giungere alla struttura finale dell’etanolo (a destra), bisogna aggiungere una molecola di idrogeno per spezzare il doppio legame. Per diventare etanolo, l’aldeide deve acquisire un solo protone, che proviene dalla classica molecola donatrice di protoni NADPH.

Questa miscela di grano e zuccheri liquefatti viene poi esposta all’azione del lievito (in genere, dopo aver provveduto alla luppolatura). I lieviti che abbiamo esaminato nel capitolo 8 si sono evoluti proprio per incamerare i piccoli zuccheri come nutrimento, scomponendoli per mezzo di un’altra serie di enzimi. La figura 10.4 mostra questi tre sottoprocessi (1, 2 e 3) che i lieviti di birra usano per convertire gli zuccheri in alcol. La conversione viene in realtà portata a termine da due complesse macchine molecolari (1 e 2) e da una semplice reazione chimica (3). La prima macchina produce una piccola molecola chiamata piruvato a partire da zuccheri più grandi come il glucosio (figura 10.5). Il piruvato viene poi trasformato in una molecola ancora più piccola, l’acetaldeide, dalla seconda macchina molecolare. Infine, l’acetaldeide si trasforma in alcol attraverso una semplice reazione chimica. La prima macchina, complessa e costituita da nove proteine collegate, esegue un processo chiamato glicolisi. Le funzioni dei nove enzimi che fanno parte di questa prima macchina consistono, per lo più, nell’aggiunta di una molecola come il fosfato (P) alla molecola reagente o nella rottura di un legame. Una molecola importante in tutto questo processo è la nicotinammide adenina dinucleotide fosfato ossidasi (NADPH), che con l’aiuto dell’adenosina trifosfato (ATP) contribuisce a ridistribuire i protoni tra le molecole.

Finora abbiamo visto in che modo funziona la fermentazione da lievito. I lieviti, però, non sono gli unici organismi capaci di innescare questo processo. Ci sono anche alcuni batteri che hanno imparato il trucco della fermentazione. Come il lievito, i batteri creano molecole di piruvato mediante glicolisi, ma hanno il loro metodo particolare per trattare il piruvato. In assenza di ossigeno, o dell’enzima aldeide decarbossilasi (che è presente nei lieviti, ma non nei batteri), il piruvato reattivo acquisterà un elettrone dal NADPH, per dar luogo al NADP. Questo elettrone aggiunto riduce il piruvato e, come mostrato nel diagramma, lo trasforma nella piccola molecola nota come acido lattico. Si tenga presente che il cambiamento si verifica nell’atomo di carbonio centrale della molecola di piruvato. Quel che accade è che l’ossigeno bivalente si lega all’idrogeno (si riduce, come dicono i chimici) per formare un gruppo OH che spunta dall’atomo di carbonio centrale. Questo processo dà luogo al NADP, che può essere riciclato tramite glicolisi. In questo modo, le cellule batteriche hanno trovato un sistema economico ed evolutivo particolare per gestire i loro elettroni. L’acido lattico e l’etanolo sono, rispettivamente, i prodotti della fermentazione batterica e di quella dei lieviti, ma queste molecole, pur possedendo una composizione chimica abbastanza simile, hanno un gusto molto diverso per via delle loro particolari forme molecolari. La fermentazione batterica è solitamente considerata un difetto nelle birre, ma ci sono alcune eccezioni. Anzi, certe birre tradizionali come la tedesca Berliner Weisse sono prodotte con l’aggiunta del lievito Brettanomyces usato in molte Ale (un lievito che produce un’ampia gamma di gusti) e di organismi batterici appartenenti ai generi Lactobacillus e Pediococcus. Il Brettanomyces può ravvivare il gusto della birra in modi sensoriali diversi. Oltre all’alcol, il Brett produce tre importanti sostanze chimiche durante la fermentazione. Questi tre composti – 4-etilfenolo (odore/gusto da antisettico), 4-etilguaiacolo (odore/gusto affumicato) e acido isovalerico (odore/gusto di formaggio) – sono responsabili delle caratteristiche distintive delle birre preparate con il Brett. Quest’ultimo fermenta molto più lentamente del tipico lievito di birra, perciò i tempi della fermentazione sono molto più lunghi. Com’è abbastanza naturale, la manipolazione di questi vari fermentanti naturali è uno dei trucchetti più comuni tra i birrai. Utilizzando diversi ceppi di lievito, varie tecniche di maltaggio e macinazione, aggiungendo o tollerando la presenza di altri organismi che fanno uso di zucchero, i produttori di birra possono creare una gamma strabiliante di birre con i più disparati caratteri, gusti e aromi. Ma quanto alcol c’è in ogni varietà? Nel capitolo 6 abbiamo parlato della tecnica per misurare la gravità specifica di una miscela prima e dopo la fermentazione, allo scopo di quantificare il contenuto alcolico. Se si considera che gli zuccheri presenti nella miscela che si trova nella fase del mosto vengono convertiti solo in alcol e anidride carbonica, la gravità specifica finale dovrà rispecchiare la conversione dello zucchero in alcol per unità di volume e darci, così, una stima della gradazione alcolica di una particolare miscela. Una semplice equazione permette di convertire queste misurazioni della gravità specifica in alcol per unità di volume (alchohol by volume, ABV o % vol.) e in alcol per unità di peso (alcohol by weight, ABW). Il contenuto alcolico misurato in per cento in volume è quello che si trova più spesso indicato. Quando il contenuto alcolico supera il 9 per cento, la discrepanza nei risultati dei due diversi approcci tende a crescere, ma fino al 9 per cento di alcol le stime generalmente concordano e sono piuttosto affidabili. L’equazione dell’alcol per volume è la seguente: 132,715 (OG – FG), dove OG (original gravity) è la gravità specifica iniziale e FG (final gravity) è la gravità specifica finale, mentre 132,715 è il “numero magico” o una costante che tramuta la gravità specifica in percentuali alcoliche e viceversa. Pertanto, se OG = 1,066 e FG = 1,010, allora la birra in questione avrà un ABV (% vol.) pari a 0,056 x 132,715, cioè 7,43 per cento in volume L’ABW si calcola usando gli stessi dati, ma con un diverso “numero magico” che rispecchia la percentuale alcolica per unità di peso. L’ABV può essere convertito in ABW con la semplice equazione che segue: ABW = ABV x 0,79336. Quindi, per la stessa birra di cui sopra, l’ABW sarebbe uguale a 7,43 x 0,79336 = 5,894 per cento. Se è vero che questi calcoli sono importanti per chiunque produca e/o beva birra, la cosa più importante che ogni comune appassionato della birra deve tener presente è che questa bevanda è il prodotto di miliardi e miliardi di reazioni chimiche, tutte operate da esseri viventi. La vostra birra è una creatura viva che respira. Capitolo 11 La birra e i sensi

La tozza bottiglia marrone e i caratteri neogotici sull’etichetta promettevano un contenuto arcaico e inusuale, e così è stato. Si trattava di una classica “birra affumicata” della Franconia – regione della Germania centrale – prodotta con lieviti Lager ma in combinazione con un malto scuro che, secondo tradizioni che si perdono nella notte dei tempi, era stato abbondantemente affumicato su un fuoco di legna di faggio. Alla mescita aveva un intenso color castano scuro, ma era di una limpidezza sfolgorante, come un rintocco di campane di Franconia. La schiuma si è dissolta rapidamente, ma ha lasciato intorno al bicchiere qualche residuo che evocava delle volute di fumo. Al naso e sul palato, la birra è risultata travolgente, con pungenti aromi e gusti affumicati che non si sono dissolti finché l’ultima goccia non ha lasciato il bicchiere. Ci è parso, chiudendo gli occhi, di poter quasi sentire il crepitio del fuoco di legna in sottofondo. Questa birra sarà anche stata prodotta in conformità con l’editto di purezza, ma era quanto di più lontano da una Lager stile Pilsner. Il bombardamento sensoriale ha inizio quando si prende la bottiglia di birra dal frigorifero e si sente il freddo della bottiglia e si vede il colore dell’etichetta. A quel punto, però, i sensi hanno appena cominciato il loro viaggio con quella birra. La prima impressione visiva e la sensazione – forse meno gradita – della temperatura stanno giù trascorrendo, inviando al cervello messaggi da interpretare: è questa la birra che volevi? È forse troppo fredda? Quando finalmente si stappa la bottiglia, si verificano svariati eventi a livello sensoriale. Se la si stappa come si deve, si sentirà un bello schiocco, seguito dal sibilo prodotto dal rilascio dell’anidride carbonica che teneva sotto pressione la birra nella bottiglia. Quando si versa, la vista e l’udito vengono nuovamente sollecitati l’una dal colore della birra, dalla sua sfumatura e dalla sua trasparenza (o torbidità) e l’altro dal gorgoglio del liquido che riempie il bicchiere. Poi, quando si porta il bicchiere alle labbra, è il naso a essere investito dagli aromi. E quando le labbra si appoggiano all’orlo del bicchiere, un altro flusso di informazioni neuronali avverte il cervello dell’imminente ingresso di qualcosa di freddo dalla “saracinesca”. I recettori del tatto sulle labbra guideranno il bicchiere nella giusta posizione, e quando il bicchiere viene inclinato il gioco si fa serio. Le molecole che fungono da recettori del gusto nei bottoni gustativi sulla lingua cominciano a raccogliere le molecole che le inondano, trasmettendo al cervello una valanga di informazioni su salinità, dolcezza, amarezza e acidità della birra (e se si è fortunati anche sull’umami, una quinta categoria di gusto, il “saporito”, per la quale disponiamo di recettori). Si sentirà anche il gusto della carbonatazione della birra, perché esistono recettori anche per questa sensazione; e si riuscirà, magari, anche a sentire il gusto dell’alcol, se è presente in una concentrazione abbastanza elevata. Quando arriva in gola, la birra inizia una nuova fase del suo viaggio, anche se i recettori del freddo torneranno in azione, e persino certi recettori del gusto in fondo alla bocca verranno stimolati. Quando si manda giù, una nuova ondata di gusti investirà la lingua, inviando ulteriori informazioni al cervello. Se la birra risulta piacevole al gusto, il cervello sarà contento, e voi tornerete ad alzare il bicchiere. Se il gusto è sgradevole – se, per esempio, la birra è andata a male o è svaporata – il bicchiere verrà molto probabilmente abbandonato. In ogni caso, si può tranquillamente dire che, nel momento in cui si manda giù la birra, il cervello viene inondato da informazioni provenienti da tutti i sensi fondamentali. Solo in seguito, quando la birra sarà stata assorbita dall’apparato digerente, il cervello comincerà a sentire l’effetto del contenuto alcolico (vedi capitoli 12 e 13). Nel frattempo, al cervello il daffare non manca. Tutte le informazioni che il cervello riceve dal mondo esterno gli giungono attraverso gli apparati sensoriali, sotto forma di impulsi elettrici che sono la “valuta” del sistema nervoso. Quegli impulsi elettrici fanno parte di un sistema psicologico molto efficiente che trasferisce informazioni dalle parti più remote dell’organismo al cervello e ritorno. L’illustre scienziato Francis Crick ha affermato che il prodotto (output) del cervello (inclusa la sua particolarissima forma di coscienza) è «interamente dovuto al comportamento delle cellule nervose, delle cellule gliali e di atomi, ioni e molecole che le costituiscono e le influenzano». Questa affermazione vale anche quando si beve una birra. La nostra reazione è – né più né meno – una serie di impulsi elettrici che attraversano parti ben precise del nostro cervello, dove ciò che accade viene intrepretato con un dettaglio percettivo strabiliante. La birra può essere considerata una fonte di segnali che il nostro apparato sensoriale capta e interpreta attraverso la percezione. Vista, gusto e olfatto – tre dei cinque sensi principali – sono chiaramente coinvolti nella fruizione della birra, ma anche l’udito e il tatto, insieme alla percezione della temperatura, hanno un ruolo nell’esperienza sensoriale di questa bevanda. Nel capitolo 13 si chiarirà che le bevande alcoliche sono in grado di influenzare significativamente il nostro equilibrio, sicché possiamo affermare che il consumo di birra influenza, in definitiva, tutta la gamma dei nostri sensi.

Lo schiocco del tappo all’apertura di una bottiglia (o il sibilo, se si apre una lattina) di birra non è altro che l’insieme di onde di aria perturbata raccolte dall’orecchio esterno che funge da imbuto naturale per convogliare il suono in movimento verso l’orecchio interno. Ci sono più di dieci modi di misurare il suono; qui considereremo la frequenza (altezza) e il volume (intensità). Come tutte le onde, lo spostamento d’aria causato dall’apertura della bottiglia avrà una certa frequenza e una certa intensità. La frequenza di un’onda è misurata in unità dette hertz (Hz), mentre la sua intensità è misurata in decibel. Lo spettro delle frequenze percepibili dall’orecchio umano va da 20 a 20.000 Hz circa. All’estremo inferiore, le note basse di un organo a canne si aggirano intorno ai 20 Hz, mentre la voce umana a un livello normale si attesta sui 500 Hz. Gli acuti gorgheggi di Mariah Carey alla fine di Emotions hanno una frequenza di circa 3100 Hz, mentre la frequenza di un suono di cimbali arriva ai 10.000 Hz. I suoni prodotti dall’apertura di una bottiglia di birra sono relativamente acuti, nell’ordine delle migliaia di hertz. L’unità dell’intensità sonora (il decibel) è una misura relativa, perché la distanza dalla fonte del suono è determinante. Ciò nonostante, è probabilmente più rilevante degli hertz, quando si tratta dell’apertura di una bottiglia o di una lattina di birra. La tipica gamma di decibel che gli esseri umani sono in grado di tollerare è quella tra 0 e 140 circa: al di sopra di questa soglia, il volume è così forte da mettere fisicamente a rischio la struttura dell’orecchio interno. I sussurri hanno un volume di circa 20 decibel; una normale conversazione arriva intorno ai 60 decibel; un martello pneumatico raggiunge i 100, mentre un aereo al decollo tocca i 130 decibel circa. Secondo le nostre stime, il suono di una bottiglia di birra che si apre arriva a un volume di 50-60 decibel. Il suono che si produce versando la birra ha una frequenza e un volume inferiori rispetto a quello dell’apertura della bottiglia, ma è comunque percepibile, e ci sembrerebbe strano veder aprire una bottiglia accanto a noi e non sentire alcun rumore. Figura 11.1. A sinistra, la coclea e la sua relazione con il sistema vestibolare o dell’equilibrio (canali semicircolari). A destra, la relazione dei tre ossicini dell’orecchio interno – malleus (martello), incus (incudine) e stapes (staffa) – con la coclea e con le finestre rotonda e ovale.

Le onde sonore all’apertura della bottiglia, il gorgogliare della carbonatazione durante la mescita e il delicato frizzare della birra nel bicchiere raggiungono l’orecchio interno e vengono registrate dalla membrana del timpano. Le vibrazioni del timpano interagiscono meccanicamente con tre ossicini dell’orecchio interno, comunemente noti come martello, incudine e staffa. Attraverso una catena di interazioni meccaniche, che vanno dal timpano alla staffa passando per il martello e l’incudine, le caratteristiche dell’onda vengono poi trasmesse a una struttura dell’orecchio interno detta coclea (figura 11.1). La coclea è profilata di villi collegati a cellule neurali ed è piena di un fluido che al movimento della staffa reagisce come un pistone per trasferire meccanicamente le caratteristiche dell’onda sonora alla coclea. Quando il fluido racchiuso nella coclea si muove, i villi reagiscono piegandosi in modi particolari a seconda dei suoni. Le cellule neurali a cui sono connessi i villi reagiscono di conseguenza, e l’informazione viene inviata al cervello attraverso gli impulsi elettrici di cui si è detto. Il modo in cui interpretiamo i suoni dipende dalla memoria e dall’emozione e da alcune complicate caratteristiche del nostro cervello studiate, tra gli altri, dallo scienziato sociale Charles Spence, che con i suoi colleghi ha esaminato, per fare qualche esempio, il modo in cui il nome di una marca di cioccolato è correlata alle percezioni legate al suo gusto, il fenomeno per cui le preferenze dei consumatori sono influenzate dal colore delle lattine delle bibite o gli effetti di una maggiore o minore rumorosità di una confezione di cibo quando viene aperta. Hanno preso in considerazione un’infinità di rumori di bottiglie che venivano stappate e di liquidi versati (lo schiocco del tappo di ceramica della Grolsch è tra i nostri preferiti). Spence e colleghi hanno diviso questi suoni in tre sottoclassi: temperatura, carbonatazione e viscosità. Che ci crediate o no, dal rumore della birra che riempie il bicchiere un bevitore esperto potrebbe capire se la birra è fredda o calda e se la carbonatazione è adeguata; e le differenze di viscosità, se abbastanza significative, possono risultare percepibili anche all’orecchio. Anche solo prestando ascolto mentre viene versata, potreste riuscire a farvi un’idea piuttosto precisa sulla birra che state per bere. L’atto di versare la birra, insieme all’aspetto della bevanda nel bicchiere, ci predispone al primo sorso. Poniamo di avere sotto gli occhi un bicchiere di Lager appena riempito. La birra sarà investita da raggi luminosi di ogni lunghezza d’onda, che in alcuni casi rimbalzeranno e in altri verranno assorbiti. La Lager nel bicchiere è di un giallo dorato, ragion per cui tutta la luce la cui lunghezza d’onda non è compresa fra i 570 e i 590 nanometri (la lunghezza d’onda del giallo dorato) verrà assorbita dalla birra. Tutta la luce compresa fra 570 e 590 nanometri, invece, verrà riflessa, ed è questa la luce che collide con le retine dei nostri occhi e ci permette di identificare il colore. Al cervello la retina invierà anche le informazioni sulla luce riflessa dagli oggetti intorno al bicchiere, sulla luce che attraversa il bicchiere (se si ha davanti una Lager trasparente) e sulle ombre intorno al bicchiere. Queste informazioni attengono alle forme e agli oggetti compresi nel nostro campo visivo. I nostri occhi sono strutture complesse, e la retina ne è la parte essenziale. La retina è un campo di cellule posto in fondo all’occhio che, secondo alcuni scienziati, farebbe addirittura parte del cervello. Contiene due tipi principali di cellule, chiamate bastoncelli e coni: i bastoncelli sono circa 120 milioni, mentre i coni si aggirano tra i 6 e i 7 milioni. Queste cellule trasmettono al cervello, tramite i nervi ottici, informazioni sulla luce proveniente dal mondo esterno. I bastoncelli raccolgono e trasmettono informazioni sulle caratteristiche generali della luce captata. Funzionano meglio delle altre cellule quando la luce è bassa, ed è a questi che si deve la facoltà di vedere anche di notte. I coni sono, fondamentalmente, di tre tipi – rossi, verdi e blu –, così designati in base ai colori che riconoscono. Tutte queste cellule – bastoncelli e coni – raccolgono informazioni dalla luce per mezzo di molecole chiamate opsine. Il gruppo più importante tra le opsine dei bastoncelli è quello delle rodopsine. I coni rossi, verdi e blu hanno i rispettivi tipi di opsine: opsine rosse (o coni L), opsine verdi (coni M) e opsine blu (coni S). Le opsine sono proteine presenti all’interno delle membrane delle cellule. Ogni opsina possiede una piccola molecola chiamata retinale (parente della vitamina A), riposta come in una tasca. Il retinale è ciò che i ricercatori chiamano “cromoforo”, ossia una molecola che reagisce quando viene colpita dalla luce. La reazione del retinale causa una reazione a catena nel bastoncello o nel cono, producendo un potenziale d’azione che viaggia fino al cervello. Ogni opsina reagisce a una lunghezza d’onda luminosa ottimale, e con questo sistema giungono al cervello informazioni da luci di lunghezze d’onda diverse. Esaminiamo questa esperienza sensoriale in relazione al nostro bicchiere di Lager. La luce di lunghezza d’onda compresa tra 570 e 590 nanometri colpisce la retina, stimolando i coni. La luce verde pura ecciterà le opsine verdi, segnalando che l’oggetto è verde. Non esistono, però, opsine con lunghezza d’onda ottimale tra i 570 e i 590 nanometri. Di conseguenza, entreranno in azione sia le opsine verdi sia quelle rosse delle cellule a cono… ma a un livello più basso di quello che si avrebbe se fossero state colpite, rispettivamente, da luce verde pura o luce rossa pura. Il cervello, perciò, identificherà il colore della birra come giallo dorato. E ora potete portare la birra alle labbra. Una delle rappresentazioni più emblematiche che si incontrano nello studio delle neuroscienze è quella dell’homunculus (figura 11.2). Questa immagine ha la sua origine nell’opera del neurochirurgo Wilder Penfield. Mentre il cervello dei suoi pazienti era esposto alla manipolazione sul tavolo operatorio, Penfield “solleticava” certe aree cerebrali, dopo di che o domandava ai soggetti operati che cosa sentivano oppure osservava una contrazione di una certa parte del corpo. Ma i pazienti non erano anestetizzati? Be’, no: dato che la superficie del cervello non presenta recettori del dolore, la chirurgia cerebrale può essere praticata senza anestesia totale. Basta guardare gli ultimi quindici minuti del film Hannibal per capire l’essenziale al riguardo. Questa circostanza ha consentito a Penfield di mappare le parti del cervello responsabili delle funzioni sensoriali e motorie e di renderle evidenti nella figura dell’homunculus in proporzione alla loro importanza. Per i bevitori di birra, l’aspetto cruciale è che le labbra e la lingua dell’homunculus sono sproporzionate rispetto alle loro reali dimensioni nel corpo umano, e questo ampliamento del patrimonio immobiliare neurale è rilevante per il modo in cui noi percepiamo il bicchiere di birra che stiamo per assaggiare. Figura 11.2. L’homunculus corticale, che mostra l’entità del “patrimonio immobiliare” neurale riservato alla percezione nelle diverse parti del corpo. Le parti sovradimensionate segnalano una maggiore superficie cerebrale riservata alla percezione. Per esempio, le labbra sono più pronunciate rispetto al naso, e ciò significa che nel cervello la parte dedicata alla percezione con le labbra è maggiore di quella riservata al naso. Figura 11.3. Un corpuscolo di Meissner e lo strato superficiale della pelle in cui è collocato il recettore.

Come l’udito, anche il tatto è un senso meccanico, e abbiamo svariati tipi di cellule altamente specializzate dedite alla valutazione degli oggetti con cui entriamo in contatto (figura 11.3). I principali sono i corpuscoli di Meissner, i complessi cellulo-neuronali di Merkel, le terminazioni di Ruffini e i corpuscoli di Pacini, e si trovano all’interno del derma, lo strato più interno della pelle. Tra questi, i più significativi nel momento in cui il bicchiere di birra tocca le nostre labbra sono i corpuscoli di Meissner, perché queste sono le cellule che registrano i contatti lievi. I corpuscoli di Meissner sono davvero sensibilissimi. Se lo stato di uno di questi corpuscoli viene alterato (per esempio, dal lieve contatto tra un bicchiere di birra e le labbra), ne deriverà un potenziale d’azione che viaggerà fino al cervello, consentendogli di capire con che cosa è avvenuto il contatto e quale punto del corpo è interessato. I corpuscoli di Meissner si trovano in gran numero anche nei polpastrelli, dove facilitano la manipolazione di oggetti come, per esempio, un bicchiere di birra. Quando il bicchiere tocca le labbra, e i corpuscoli di Meissner trasmettono al cervello le informazioni sulla posizione del bicchiere, si potrà versare con precisione ed efficienza il liquido in bocca. Prima che la birra venga trasferita dal bicchiere alla bocca, però, si avrà probabilmente il sentore di un buon profumo che sale dal bicchiere, e questo ci conduce a esaminare il senso dell’olfatto.

Si sente spesso affermare che gli esseri umani avrebbero un olfatto debole rispetto a quello di altri animali, soprattutto di quelli che (come i cani) comunicano con l’ambiente circostante per lo più attraverso gli odori. Se è vero che per tanto tempo si è creduto che gli esseri umani potessero distinguere solo una decina di migliaia di sostanze odoranti diverse, un recente lavoro di Andreas Keller e colleghi ha tuttavia sostenuto che noi potremmo essere in grado di riconoscere fino a mille miliardi di odori distinti. L’olfatto è un senso che gli scienziati definiscono chemiorecettore perché – a differenza dell’udito e della vista, che registrano onde, e del tatto, che capta distorsioni meccaniche delle cellule sensoriali – l’olfatto (come il gusto) risponde alle molecole e alle sostanze chimiche fluttuanti nell’aria o presenti nei liquidi e nei cibi solidi che ingeriamo. Le molecole e le sostanze chimiche che percepiamo come odori hanno forme ben precise: il profumo di fiore nel luppolo, per esempio, è dovuto a una piccola molecola chiamata linalolo, mentre l’aroma legnoso di una birra luppolata è riconducibile a una molecola chiamata betaionone. Due molecole che producono odori diversi avranno anche strutture diverse e, in generale, quanto più le molecole si assomigliano, tanto più saranno simili gli odori da noi percepiti. L’odore, dunque, si basa sulla capacità delle cellule del nostro condotto nasale di riconoscere queste forme e di trasmettere le relative informazioni al cervello. Il tetto della cavità nasale è profilato di cellule olfattive dotate di recettori. Queste cellule sono collegate tramite i nervi al bulbo olfattivo del cervello. Le medesime cellule olfattive possiedono, all’interno delle loro membrane, proteine che entrano ed escono dalla membrana sette volte. Un’estremità della proteina ha una struttura specifica che riconoscerà la molecola odorante e interagirà con essa. Non c’è pieno accordo su ciò che avviene: per alcuni, la molecola odorante reagisce fisicamente con la proteina del recettore; per altri, dell’interazione è responsabile qualche altro fenomeno fisico (per esempio, la vibrazione). In ogni caso, l’interazione dell’odorante con la proteina del recettore provoca una cascata di reazioni chimiche nelle cellule recettoriali, dando origine a un potenziale d’azione che viene inviato al cervello per essere interpretato. Questo insieme di interazioni significa che dobbiamo disporre di un gran repertorio di proteine nelle membrane delle cellule recettoriali olfattive. Gli esseri umani possiedono circa quattrocento proteine recettoriali olfattive, contro le duemila degli elefanti, per esempio, e le ottocento dei cani. Vi siete mai domandati come mai la birra, per cominciare, ha un odore così piacevole? In fondo, alcuni dei cibi di cui ci nutriamo non sono noti per la loro gradevolezza all’olfatto. La birra, invece, sembra combinare le sue meravigliose qualità con un buon aroma innato. Joaquin Christiaens, con alcuni colleghi, ha dimostrato che la chiave del mistero risiede nel lievito. Quel dolce profumo che emana dal nostro bicchiere di birra quando lo avviciniamo alle labbra proviene da due piccole molecole: l’acetato di etile e l’acetato di isoamile. Sono entrambe costituite da lieviti, come Christiaens e colleghi hanno dimostrato creando un ceppo di lievito privo dell’enzima essenziale alla loro biosintesi (figura 11.4). L’emissione di questi due odoranti da parte dei lieviti non è un caso, ed è abbastanza probabile che questi minuscoli organismi li producano per attirare le drosofile con cui coevolvono da centinaia di milioni di anni e che contribuiscono alla loro dispersione. A quanto pare, istintivamente, ci piace l’odore della birra… ma erano le mosche drosofile, non gli esseri umani, che i lieviti intendevano attrarre!

La Master Brewers Association of the Americas, l’associazione dei mastri birrai americani, raccomanda ai suoi membri l’impiego della “ruota dei sapori” quando devono valutare il gusto delle loro bevande. Questo ingegnoso strumento è stato creato negli anni Settanta da Morten Meilgaard, della American Society of Chemists e ne esistono, ormai, numerose versioni. La ruota dei sapori cerca di definire il maggior numero possibile di sensazioni gustative per facilitare il confronto tra diversi prodotti. Partendo dal centro di un cerchio, la ruota classifica le principali categorie di gusto (aromatico, caramellato, grasso, ossidato e così via) e le suddivide in categorie più specifiche (per esempio, pompelmo, caramello, fattoria, afrore, pneumatico bruciato e vomito/diarrea di neonato, e quest’ultima si spera di non doverla mai indicare, dopo aver bevuto una birra). In questo modo, una birra ricondotta al gusto di “cereali” potrà essere più precisamente assegnata al gusto di grano, malto o mosto. Figura 11.4. L’esperimento di Christiaens e colleghi mostra l’attrazione esercitata sulle mosche drosofile dall’acetato di etile e dall’acetato di isoamile. Il ceppo mutante atf1 è privo di un enzima coinvolto nella sintesi dell’acetato di etile e dell’acetato di isoamile. Quando le drosofile sono esposte ai lieviti mutanti, non ne sono particolarmente attratte; mentre risultano attratte dai lieviti normali (WT, o wild type, cioè selvatici) che sono in grado di sintetizzare l’acetato di amile e l’acetato di isoamile. Se è vero, però, che la ruota dei sapori offre un eccellente punto di partenza per la discussione del profilo gustativo di qualsiasi birra, la proliferazione delle versioni di questo dispositivo sottolinea il carattere ampiamente soggettivo della questione che si propone di affrontare. In poche parole, ogni birra, per persone diverse, avrà gusti diversi, perché la percezione dei sapori negli esseri umani è quanto mai varia. A questo punto, allora, sarà forse il caso che ognuno dichiari le sue preferenze. In tutto il libro abbiamo associato aggettivi a svariati tipi di birra. Gli aggettivi implicano inevitabilmente un giudizio, e noi, per la cronaca, confessiamo di apprezzare soprattutto le birre con caratteristiche marcate e persino assertive. Non ci interessa se prevale il malto oppure il luppolo, ma pensiamo che una forma più “pungente”, sulla ruota dei sapori, sia preferibile alla relativa fiacchezza di una birra in cui non si notano sapori particolari. Ripetiamo: si tratta di una preferenza del tutto soggettiva, e l’inclinazione di ognuno potrà essere completamente diversa. Le cellule recettoriali del gusto si trovano riunite in gruppi (da trenta a cento unità) e formano strutture dette bottoni gustativi. Anche il gusto è un senso chemiorecettore che usa il meccanismo chiave-serratura già esaminato a proposito dell’olfatto per riconoscere molecole dal gusto diverso; e come i recettori dell’olfatto, anche quelli del gusto entrano ed escono sette volte dalla membrana delle cellule del gusto e reagiscono alle piccole molecole del gusto presenti nei liquidi che beviamo e nei cibi che mangiamo. Cinque categorie principali di recettori del gusto trasmettono, rispettivamente, il dolce, l’acido, l’amaro, il salato e l’“umami” (il gusto saporito dei glutammati, come quello monosodico con cui viene spesso condito il cibo asiatico). E quello che noi percepiamo come gusto è una combinazione delle reazioni di questi diversi tipi di recettori ai diversi cibi. I bottoni gustativi, a loro volta, sono riuniti in strutture chiamate papille gustative, che risultano visibili a occhio nudo se si osserva da molto vicino la propria lingua allo specchio. Le papille gustative sono per lo più localizzate nella metà anteriore della lingua, mentre in quella posteriore si diradano. Per quel che riguarda l’esperienza gustativa, ci sono tra gli esseri umani tre tipi prevalenti: ipogustatori, gustatori e supergustatori, più o meno in una proporzione di 1:2:1. C’è poi anche la quarta e rarissima categoria dei super supergustatori. Il numero di cellule gustative presenti sulla lingua determina l’appartenenza a una delle categorie. Per stabilire a quale categoria apparteniamo si procede così: prendete un foglio da quaderno ad anelli e ritagliate un piccolo riquadro con uno dei fori al centro. Mettete in bocca una quantità di marmellata all’uva (o bevete un sorso di vino rosso corposo o di succo d’uva) e assicuratevi che la lingua se ne impregni fino a diventare viola. Quindi, posate il quadratino di carta con il foro sulla lingua, vicino alla punta, e guardatevi allo specchio. Dovreste vedere un accrocco di piccole strutture violacee simili a funghi che possono essere contate. Se vedete meno di quindici papille gustative, siete con tutta probabilità degli ipogustatori; se ne avrete tra le quindici e le trenta, significa che siete dei gustatori; se invece ne contate più di trenta siete sicuramente dei supergustatori se non addirittura super supergustatori (figura 11.5). I produttori di birra artigianale producono, a volte, bevande esageratamente cariche di luppolo che troviamo immensamente gradevoli, e questo fa di noi dei gustatori normali. I supergustatori, invece, tenderanno a evitare la birra troppo luppolata, perché risulterà per loro terribilmente amara. Di certo, inoltre, si terranno alla larga dalle birre luppolate come le IPA e, in alcuni casi, persino le Lager risulteranno irritanti per i loro bottoni gustativi. Gli autori di questo libro sono entrambi immuni al bruciore dei bottoni gustativi che può essere causato dall’alcol presente in una birra forte, mentre un supergustatore sentirà un gran bruciore non appena la birra molto alcolica toccherà le sue labbra e difficilmente riuscirà ad apprezzare un superalcolico. Gli ipogustatori, di contro, tollereranno senza problemi l’estrema amarezza, ma non saranno capaci di distinguere una birra al luppolo Columbia da una al luppolo Cascade, cosa che invece ai supergustatori riuscirà facilissima, anche se, di regola, le troveranno entrambe di un’amarezza sgradevole.

Figura 11.5. A sinistra, le aree della lingua su cui si trovano i bottoni gustativi e le papille gustative. Il cerchio indica il punto in cui si trova il foro sul pezzetto di carta usato per stimare la densità dei bottoni gustativi. Nei tre diagrammi sulla destra (da sinistra a destra), le lingue di ipogustatori, gustatori e supergustatori.

A causa di queste differenze ereditarie nella capacità di gustare, saranno i gustatori normali quelli che si godranno al meglio le birre luppolate. Ciò non significa che ipo e supergustatori non possano adattarsi al godimento delle bevande alcoliche. Anzi, i supergustatori possono utilizzare la loro abilità con profitto: si è ipotizzato che la maggior parte degli chef più quotati siano supergustatori che hanno imparato ad applicare le loro capacità alla creazione di nuovi piatti. Anche i gustatori normali, però, preferiscono di solito birre abbastanza equilibrate per i loro recettori del gusto. Quindi, anche se le birre acide sono diventate di recente abbastanza popolari, chiunque abbia assaggiato una Ale di fattoria davvero acida ammetterà che, pur trovandoci un certo piacere, i suoi recettori del gusto riservati all’acido sono entrati in fibrillazione, a differenza dei recettori dell’amaro e del dolce. Comunque, è difficile distogliere i birrai creativi dalle loro sperimentazioni: si consideri il favore incontrato oggi in certi ambienti dalla birra prodotta con acqua salata. E non è detto che non si arrivi, prima o poi, anche alla birra “umami”.

Tra gli organismi che popolano il nostro pianeta, gli esseri umani sono piuttosto limitati sul piano sensoriale. Cogliamo solo una gamma ristretta di lunghezze d’onda luminose; abbiamo un campo visivo limitato; vediamo in stereo solo per un limitato settore del nostro campo; e abbiamo una quantità di strane anomalie a livello di percezione dei colori. E ci siamo limitati alla vista, che si presume sia il senso più sviluppato nella nostra specie. Per quel che riguarda il gusto e l’olfatto, disponiamo di una ragionevole sensibilità, ma siamo in entrambi i casi meno dotati di molti altri mammiferi. Questi limiti illuminano un’importante lezione dell’evoluzione: la selezione naturale non punta alla perfezione, bensì a soluzioni pratiche. Le soluzioni adottate dalla nostra specie fanno di noi esseri tutt’altro che ottimali, ma sono perfettamente adeguate ai fini della nostra percezione quotidiana del mondo esterno e, per una felice coincidenza, ci hanno reso particolarmente adatti ad apprezzare la birra, che sollecita gran parte dei nostri sensi nella maniera migliore. Capitolo 12 Pance da bevitori di birra

La birra ultralight è defluita dolcemente dalla bottiglia nel bicchiere, mentre la Imperial Stout abbiamo dovuto quasi tirarla fuori a cucchiaiate. Questa differenza non è certo sorprendente, dato che la prima proclamava di avere 96 calorie, mentre la Stout arrivava a 306. Per chi stia seguendo una dieta rigorosa, non si pone neanche il problema, e la scelta non si è posta neanche per i sottoscritti amanti della birra. La ultralight era, riconoscibilmente, una birra, ma non molto di più. La Stout, invece, ci ha travolti con la sua densità, la sua complessità e la finitura persistente a lungo termine. Tante calorie, insomma. Ma ne vale la pena? Noi abbiamo una nostra precisa opinione. La birra è deliziosa e, in quantità moderate, ha effetti pienamente soddisfacenti sul cervello. Le sostanze chimiche e le molecole che entrano nel nostro organismo con la birra, però, vanno – ahinoi – metabolizzate. E la brutta notizia è che molte delle sostanze chimiche coinvolte non si trovano nel nostro organismo nella concentrazione con cui sono presenti nella birra e, nel migliore dei casi, mettono a durissima prova il sistema metabolico umano. Nel capitolo 13 parleremo degli effetti della birra sul cervello; in questo capitolo tratteremo dell’impatto che la birra ha sul resto del nostro corpo. Se il fine del processo di fermentazione è la produzione di alcol, la bottiglia che avete davanti ne conterrà probabilmente una buona percentuale. Si tenga presente che l’altro prodotto della fermentazione è l’anidride carbonica, ragion per cui la birra conterrà anche molecole di gas che danno alla bevanda il suo gusto frizzante. Se le cellule di lievito nella miscela hanno lavorato a dovere, finiranno per depositarsi come sedimento sul fondo del tino di fermentazione e formeranno una parte importante delle molecole galleggianti nel liquido. Nella maggior parte dei casi, i birrai estraggono i lieviti mediante filtraggio o li uccidono mediante pastorizzazione. Di solito, però, chi produce la birra in casa o con metodi artigianali non filtra né pastorizza, bensì fa decantare le birre, lasciando nel prodotto finale una parte dei preziosi (e nutrientissimi) lieviti. Durante la fermentazione, alcuni lieviti muoiono per cause naturali, e le cellule che compongono le loro molecole si disperdono nella birra. Le molecole presenti nei residui cellulari del lievito sono molteplici e comprendono membrane cellulari (lipidi), DNA e carboidrati a catena lunga che mantengono in vita i lieviti. Tutti questi componenti della birra che noi ingeriamo vengono utilizzati dall’organismo… nel bene o nel male. I mammiferi hanno sviluppato un sistema efficiente ma complicato per digerire il cibo e i liquidi che ingeriscono, e l’apparato digerente umano, essendo frutto dell’evoluzione, è provvisto di una quantità di strane parti mobili. E gli strani movimenti di queste parti si verificano perché la soluzione non mira al design perfetto né all’esito ideale. Piuttosto, come abbiamo già osservato, l’evoluzione è semplicemente un processo che cerca soluzioni. Altri aspetti di questo processo contribuiscono ai complessi fenomeni che osserviamo in natura. Per cominciare, perché la selezione naturale funzioni devono esserci variazioni, e gli organismi non sono capaci di inventarsi semplicemente nuove ed efficienti variazioni per la soluzione dei problemi della sopravvivenza. Le popolazioni di organismi sono condizionate dalle variazioni che hanno acquisito in modo naturale attraverso processi aleatori di mutazione genetica. Inoltre, l’evoluzione non è unidirezionale. Benché negli anni Quaranta e Cinquanta si attribuisse comunemente alla selezione naturale la tendenza verso stati sempre più favorevoli, a partire dagli anni Settanta si è riconosciuto che gli eventi casuali hanno avuto un impatto uguale, se non superiore, sulle storie evolutive. Per effetto di queste stravaganze evolutive, i nostri apparati sono ben lungi dall’essere ottimizzati, in senso ingegneristico. Il nostro apparato digerente estrae molecole nutrienti dal cibo che consumiamo, permettendoci di accumulare l’energia di cui abbiamo bisogno per mantenere in attività i nostri elementari processi metabolici e corporei, per muoverci e, cosa non trascurabile, per alimentare il nostro cervello che di energia è vorace. Il nostro apparato digerente distribuisce anche, ad altri organi del corpo, molecole che non contribuiscono alla produzione di energia. Eppure, quando parliamo di digestione pensiamo di solito alla produzione di energia, ed è qui che entrano in discussione le calorie. Il concetto di caloria è piuttosto problematico. Le calorie non sono qualcosa che si possa toccare o sentire come, poniamo, il grasso o l’etanolo. Anzi, per quanto le calorie possano essere un buon criterio per valutare come e quanto metabolizziamo il cibo e gli alimenti, e bruciamo energia mantenendoci attivi, si tratta di una nozione del tutto astratta: una caloria è definita come un’unità di calore o di energia; più in particolare, come la quantità di calore necessaria ad aumentare di un grado centigrado un singolo grammo di acqua. Va osservato che i valori calorici che vediamo elencati sulle confezioni di alimenti andrebbero moltiplicati per mille: in altre parole, si tratta di chilocalorie (ma noi continueremo a parlare di calorie). Le calorie non si ritrovano solo negli alimenti. Per esempio, la benzina che alimenta la vostra auto ha un suo particolare valore calorico, a seconda di quanta ce n’è nel serbatoio. L’energia o calore cui si fa riferimento nel conto delle calorie proviene dalla “combustione”, o metabolizzazione, della fonte. Calorie provenienti da fonti diverse sono bruciate in modi diversi. Fra i materiali che vengono bruciati dal nostro organismo per estrarre energia dalla birra figurano etanolo, proteine e carboidrati. Nel cibo in senso ampio, ci sono molte altre fonti di energia, e tra queste il grasso è forse la più importante. Ogni fonte di energia ha una specifica quantità di calorie da aggiungere alle nostre riserve di energia. Per ogni grammo di grasso consumato, il nostro apparato digerente fornisce al corpo nove calorie; per ogni grammo di proteine o di carboidrati, ne fornisce quattro. L’etanolo viene convertito in energia al tasso di sette calorie per grammo. Le calorie fornite dall’etanolo puro vengono talvolta considerate nulle dal punto di vista nutrizionale perché non vengono ingerite insieme a sostanze nutritive. Quando camminiamo, corriamo o usiamo il cervello, il nostro corpo elabora le molecole ingerite per generare energia (misurata in calorie). Se queste molecole non sono prontamente disponibili sul momento, il corpo dovrà recuperarle da qualche deposito di riserve, altrimenti smetterà di funzionare. Questo deposito si presenta sotto forma di grasso, la sostanza in cui vengono convertite tutte le molecole di energia che non sono immediatamente necessarie. Si potrebbe supporre che, avendo il grasso il più alto contenuto calorico (nove calorie per ogni grammo ingerito), gran parte dei nostri problemi di peso eccessivo o di obesità siano causati da alimenti ricchi di grassi. Se così fosse, potremmo bere con somma gioia una birra relativamente povera di grassi senza doverci troppo preoccupare di mettere su chili. Tuttavia, ahinoi, ci sbaglieremmo di grosso, perché la scomposizione degli alimenti grassi avviene in modi assai diversi da quella dell’etanolo e dei carboidrati, che sono la fonte di calorie della birra. I carboidrati che arrivano nello stomaco con la birra ingerita hanno una concentrazione più bassa a confronto con la miscela originaria e per questa ragione vengono detti residuali. Un bicchiere di una tipica birra domestica conterrà all’incirca 14 grammi di alcol e, probabilmente, poco più di 10 grammi di carboidrati. Di conseguenza, si ricaveranno 40 calorie circa dai carboidrati e 98 dall’etanolo, per un totale di poco inferiore alle 140 calorie, conferite per la maggior parte dall’etanolo. Il consumo di un solo bicchiere di una birra normale apporta lo stesso numero di calorie fornito da una lattina di una bibita gassata, o da una bottiglia da 35 centilitri di uno sport drink, circa il 50 per cento in più di un bicchiere di latte e cinque volte di più di una tazza di caffè (con latte e zucchero). Alcune birre hanno meno calorie della tipica birra domestica, mentre altre ne hanno di più: la meno calorica di tutte arriva appena a 55 calorie ( 55), mentre la più calorica tocca il mostruoso valore di 2025 calorie (Brewmeister Snake Venom). Una tipica bottiglia di birra, quella probabilmente più consona ai vostri gusti, avrà abbastanza calorie (intorno alle 150) da sostenervi per una camminata di quaranta minuti. Quindi, se dopo aver bevuto una birra di quest’ultimo tipo andate a fare una passeggiata a buona andatura, rischiate di trovarvi presto con un bilancio calorico a zero, mentre se restate a casa a guardare la TV consumerete solo 15 calorie. Com’è ovvio, però, i livelli di attività e il metabolismo delle persone sono molto vari, ragion per cui non esiste a questo riguardo una formula universale. Per quel che può valere, una donna adulta dovrebbe assumere in media 2000 calorie al giorno per avere un bilancio calorico in equilibrio, mentre a un maschio adulto ne servirebbero 2500 circa. Il numero di calorie in una birra è, in genere, proporzionale alla quantità di alcol presente. Le birre ad alta gradazione tendono ad avere un elevato contenuto di carboidrati. I produttori di birra light abbassano il livello calorico riducendo il contenuto alcolico, risultato che si ottiene controllando il quantitativo di zucchero usato all’origine del processo di produzione. Insomma, se avete concluso che la Budweiser 55 ha un contenuto alcolico di molto inferiore a quello della Snake Venom non vi siete sbagliati, anche se tecnicamente il contenuto calorico di una birra dipende anche dalle concentrazioni di carboidrati e proteine oltre che dalla quantità di alcol. Le piccole molecole di zucchero dovrebbero essere state tutte trasformate in alcol e, quindi, daranno un contributo minimo o nullo al contenuto calorico di una birra. Ci saranno poi altre molecole e proteine provenienti dal luppolo, in misura variabile a seconda della varietà del luppolo e di quanto se ne usa, ma anche in questo caso l’apporto calorico alla birra nel suo complesso è piccolissimo.

Se vogliamo davvero comprendere quel che succede ai carboidrati nel nostro corpo, dobbiamo fare caso al proverbiale elefante nella stanza: l’obesità e l’eccessivo accumulo di grassi. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), un soggetto è considerato sovrappeso se il suo indice di massa corporea (IMC) è compreso tra 25 e 29,5, mentre è classificato come obeso se l’IMC supera il 30. L’indice di massa corporea non è un’unità di misura, bensì più che altro una media ponderata calcolabile mediante la seguente equazione:

Secondo i CDC, l’IMC è un indicatore abbastanza affidabile del livello di grasso corporeo ed è sostanzialmente usato come criterio per decidere se un soggetto sia sovrappeso oppure obeso. Alcuni nutrizionisti, però, sostengono che l’IMC non sarebbe il criterio migliore per valutare se si è sovrappeso, e a questo scopo utilizzano, invece, il rapporto tra circonferenza addominale e circonferenza dei fianchi. Questo rapporto dovrebbe essere di 0,9 per gli uomini e 0,8 per le donne. Per chi ha la pancia da bevitore di birra il rapporto sale, con medie tra 1,2 e 1,5. In definitiva, tutto questo grasso in eccesso deriva dal contenuto calorico. Il nostro organismo elabora buona parte dell’etanolo che ingeriamo, ma c’è qualcos’altro che accade con le calorie prodotte dai carboidrati. Le calorie dei carboidrati che ingeriamo con la birra vengono usate per fornire l’energia necessaria a svolgere le attività quotidiane. Se rimangono carboidrati non immediatamente necessari, l’organismo produce insulina per compensare l’eccesso di zuccheri nel sangue causato dall’eccedenza di carboidrati. La piccola molecola dell’insulina è un ormone che influisce sulla conversione dei carboidrati in grasso regolando il livello di alcune proteine chiamate lipasi. Queste proteine scompongono le molecole di grasso in acidi grassi, che vengono poi assorbiti dalle cellule di grasso in specifiche zone del corpo. Dove finisce, di preciso, il grasso nel corpo? L’ubicazione delle cellule grasse è diversa nel corpo maschile e in quello femminile, ed è per questo che gli uomini sovrappeso tendono a essere più tondeggianti, mentre le donne tendono piuttosto verso la forma a pera (figura 12.1). Queste cellule, se stimolate, convertiranno i carboidrati in grassi. Di fatto, però, preferiscono assorbire il grasso attraverso il cibo, perché la conversione dei carboidrati a partire dai grassi comporta un consumo energetico di dieci volte superiore. Secondo alcuni ricercatori, questo sistema dell’insulina si sarebbe evoluto per effetto della selezione naturale in epoche di periodica carestia. È questa la base del cosiddetto fenotipo “parsimonioso”. I soggetti parsimoniosi hanno la capacità fisiologica di immagazzinare il grasso in modo molto efficiente e, in tempi di abbondanza, possono facilmente metter su peso… ma saranno avvantaggiati in tempi di scarsità di cibo. I fenotipi non parsimoniosi, invece, consumano più rapidamente i loro depositi di grasso e saranno, di norma, più magri… anche se deperiranno prima. Figura 12.1. Le forme, a mela e a pera, che possono assumere i depositi di grasso nell’uomo e nella donna.

Quando la birra fa il suo ingresso nel cavo orale, i vari componenti iniziano un tortuoso viaggio attraverso il corpo (figura 12.2). Oltrepassata la bocca, il liquido accede alla faringe, tratto iniziale della gola, e poi scivola nell’esofago. Questi canali sono entrambi rivestiti di muco e, poiché la birra è piena di proteine ed enzimi, il processo della digestione ha inizio già lì, quando gli enzimi presenti nel muco cominciano a scindere alcuni dei componenti della birra. Come molte altre molecole, l’etanolo non viene intaccato dall’apparato digerente e ne esce intatto. Può, però, filtrare nelle ghiandole salivari della bocca e della gola, talvolta in concentrazioni tali da danneggiarle e inibire la capacità di salivare. L’etanolo è anche tossico per alcuni degli enzimi presenti nello strato mucoso dell’esofago. Figura 12.2. Il tratto gastrointestinale umano.

La birra ingerita percorre tutto l’esofago fino allo sfintere esofageo, oltre il quale c’è lo stomaco. Se funziona come si deve, questo sfintere lascerà passare la birra, senza per questo smettere di trattenere il contenuto dello stomaco. Se si ingeriscono grandi quantità di etanolo, però, lo sfintere può indebolirsi un po’ lasciando risalire un rigurgito dallo stomaco nell’esofago. Questa fuoriuscita è la causa dell’“acidità” o bruciore di stomaco. Nello stomaco, la birra viene in contatto con alcuni enzimi digestivi molto potenti. La pepsina svolge un ruolo importantissimo, ma sono anche presenti piccole molecole digestive come l’acido cloridrico. Buona parte dell’etanolo può eludere queste molecole rimanendo indenne, ma altri componenti della birra come i carboidrati e le proteine vengono invece scomposti. Se ingerito in concentrazioni sufficientemente elevate, l’etanolo può alterare la normale funzionalità dello stomaco e danneggiare l’organo iperstimolando la produzione di enzimi digestivi. I cibi eventualmente presenti nello stomaco assorbiranno una parte delle molecole di etanolo, impedendo loro di fare danni e di entrare in circolazione nel sangue. A quel punto, il liquido modificato passa nell’intestino tenue, dove le sue componenti cominciano a influenzare l’immagazzinamento dei grassi. Molecole piccole come l’etanolo e i carboidrati attraversano le membrane dell’intestino tenue e filtrano nel sangue. La presenza di carboidrati nel sangue innesca la produzione di insulina nel pancreas e inizia il processo che può portare all’immagazzinamento di grassi. Se non si bruciano subito i carboidrati, il grasso si accumulerà nelle cellule grasse del corpo.

Molti di noi hanno una certa familiarità con il rigonfiamento addominale comunemente noto come “pancia da bevitore di birra”, ed è facile cadere nell’errore di credere che la birra e altre libagioni dall’elevato contenuto calorico siano la causa dell’aumento della circonferenza addominale. Certo, Madlen Schütze e i suoi colleghi hanno mostrato che, se si beve birra, le probabilità di veder aumentare la propria circonferenza crescono del 17 per cento, ma quel che accade è più complicato di una banale e diretta correlazione. Anche il peso corporeo e la circonferenza dei fianchi giocano un loro ruolo. Schütze e colleghi, insomma, hanno concluso che la pancia da bevitori non è causata soltanto dal consumo di bevande caloriche. Entrano in gioco anche l’esercizio fisico e la capacità di bruciare calorie. Come quasi tutti gli aspetti degli esseri umani, anche la pancia da bevitori di birra ha una lunga storia. Un effetto collaterale dell’etanolo sull’intestino tenue e crasso è l’indebolimento dei loro muscoli che consente al cibo di passare attraverso questi organi in modo relativamente rapido. Il risultato è la diarrea, e una perturbazione del microbiota dell’intestino. Gli scienziati sanno da molto tempo che il nostro intestino crasso è pieno di batteri e, più di recente, sono stati in grado di determinare le quantità dei differenti tipi di microbi che vivono nell’intestino e che sono, evidentemente, influenzati dalla birra ingerita. Nel 2016 Gwen Falony e i suoi colleghi hanno studiato il microbioma intestinale di più di mille persone utilizzando il DNA ricavato da campioni fecali, un po’ come il DNA lasciato dalle impronte digitali permette di identificare i delinquenti nei telefilm. Hanno dimostrato che la frequenza con cui si beve la birra ha un notevole impatto sulle specie di microbi che vivono nell’intestino. Se questo cambiamento renda i bevitori di birra più o meno sani in generale è una questione ancora aperta. Le molecole che raggiungono il sangue vengono poi trasportate agli altri organi dell’apparato digerente, dove vengono ulteriormente scomposte per trarne nutrimento ed energia. I due organi più attivi – lungo questo viaggio dell’etanolo, dei carboidrati e delle proteine presenti nella birra – sono il fegato e i reni. Il nefrologo Murray Epstein spiega che i nostri reni hanno bisogno di un ambiente chimico stabile, che viene perturbato dall’etanolo. I reni controllano i livelli dell’acqua nel corpo, oltre a quelli di diversi elettroliti come sodio, potassio, calcio e fosfato. Se il livello degli elettroliti viene alterato, il sistema di questi organi può dare segni di scompenso evidenti. Troppo etanolo nei reni, inoltre, è nocivo per l’ormone antidiuretico chiamato vasopressina, la cui inibizione stimola i dotti renali a rilasciare acqua, diluendo l’urina prodotta dai reni. L’urina diluita fa aumentare la concentrazione degli elettroliti nel sangue, comunicando all’organismo uno stato di disidratazione. Proprio in virtù di questa catena di eventi conviene bere acqua quando si beve birra, anche se la birra è essa stessa per lo più acqua. Figura 12.3. Diagramma delle cellule del fegato. Le cellule di Kupffer sono cellule immunitarie che eliminano batteri e altri oggetti di grosse dimensioni. Gli epatociti sono responsabili di gran parte delle funzioni svolte dal fegato. Della struttura del fegato fanno parte anche le cellule stellate e le cellule endoteliali.

Il fegato filtra il sangue, per liberarlo dalle tossine e da altre molecole che non sono utili all’organismo (figura 12.3). Il filtraggio avviene nelle subunità del fegato dette lobuli, che nel corpo umano adulto sono all’incirca cinquantamila. La presenza capillare di sottilissimi tubicini nel fegato dà luogo a un aumento della superficie dei lobuli e, quindi, della loro esposizione al sangue. I tubicini sono profilati da cellule di due tipi: le cellule di Kupffer eliminano i batteri e i residui nocivi più grossi, mentre gli epatociti – le bestie da soma del fegato – svolgono un’ampia gamma di altre funzioni, tra cui la sintesi del colesterolo, l’immagazzinamento di vitamine e carboidrati e il trattamento dei grassi.

Figura 12.4. Diagramma della scomposizione dell’etanolo nel fegato per l’azione dell’ADH e dell’ALDH.

Per quel che concerne la birra, la funzione più importante del fegato consiste nel metabolizzare ed estrarre l’etanolo dal sangue. Quanto più etanolo c’è in circolazione nel sangue, tanto più il fegato dovrà lavorare… e tanto più cresceranno le probabilità che una parte dell’etanolo non venga filtrato e finisca nel cervello e in altri organi del corpo. La capacità del fegato di metabolizzare l’etanolo dipende dall’enzima chiamato alcol deidrogenasi o ADH (vedi capitolo 1). L’etanolo viene scomposto dall’ADH in una molecola chiamata acetaldeide più uno ione idrogeno. Durante il processo, un secondo atomo di idrogeno viene sequestrato da una molecola dal nome complicato – nicotinammide adenina nucleotide (NAD) – a produrre NADH. L’acetaldeide è tossica per l’organismo perciò deve essere degradata alla svelta. In questa reazione interviene un enzima chiamato aldeide deidrogenasi (ALDH) a produrre acido acetico e una molecola aggiuntiva di NADH (figura 12.4). L’acido acetico è tollerato dal nostro organismo e viene usano da molti apparati come fonte di carbonio.

Come abbiamo osservato nel capitolo 1, per gran parte della storia evolutiva i nostri antenati probabilmente non hanno ingerito molto etanolo, e ciò fa presumere che gli enzimi ADH e ALDH non si siano evoluti in risposta all’ingestione di alcol. Questi due enzimi erano importanti, in origine, per il metabolismo della vitamina A (altrimenti detta retinolo) e sono poi stati dirottati per metabolizzare l’etanolo. Retinolo ed etanolo hanno forme simili, perciò gli enzimi possono agire su entrambi, facilitando questa nuova duplice funzione. Usando un enzima chiamato citocromo P4502E1 (CYP2E1), le cellule del fegato metabolizzano l’etanolo anche in un altro modo, ossia ossidando l’etanolo per trasformarlo in acetaldeide. Questo enzima, di norma, non viene prodotto in grandi quantità, ma il fegato, se cronicamente irrorato di etanolo, va su di giri e ne produce in quantità. Purtroppo, elevati quantitativi di CYP2E1 sono associati alla cirrosi, una malattia per cui i tessuti normalmente funzionanti del fegato cominciano a essere sostituiti da tessuto cicatriziale. In caso di cirrosi, il fegato è soggetto a una progressiva atrofia, e gli epatociti (le cellule del fegato) cominciano a morire. Il fegato si riempie dei cosiddetti corpi di Mallory e subisce danni enormi e incurabili. Tutte cose che dovrebbero indurre a non eccedere con l’alcol. I due enzimi del fegato sono stati studiati approfonditamente in relazione alla loro potenziale implicazione nella dipendenza da alcol, e si è scoperto che all’interno delle popolazioni umane c’è una variazione significativa nei geni che li controllano. La variante dell’ALDH chiamata ALDH2.2 si trova con un’elevata frequenza nelle popolazioni asiatiche (è presente nel 40 per cento dei soggetti di origine asiatica). Il gene ALDH produce una proteina che non riesce a trasformare in modo efficiente l’acetaldeide in acido acetico. Come si è notato in precedenza, l’aldeide è tossica per il nostro organismo e, se un soggetto con la variante ALDH2.2 beve una birra, l’acetaldeide si accumula nei suoi tessuti. Ciò provoca una serie di reazioni fisiologiche, la più evidente delle quali è un visibile arrossamento della faccia. Le persone con questa caratteristica tenderanno a evitare l’alcol, perché è causa di disagio se non addirittura di sofferenza. Anche il gene CYP2E1 ha delle varianti che sono implicate nell’astinenza dagli alcolici. La proteina prodotta da questo gene è attiva nel cervello, e i soggetti con questo fenotipo variante si ubriacano anche assumendo quantità di alcol molto ridotte. Se sono saggi, evitano di bere più di un paio di birre. I soggetti con i geni varianti CYP2E1 e ALDH2.2 tendono a non diventare alcolisti, per ovvie ragioni. Nel resto della popolazione, la tendenza all’alcolismo sembra essere determinata da fattori estremamente complessi. Nel tentativo di trovare una spiegazione genetica dell’alcolismo, gli scienziati hanno adottato un approccio chiamato genome-wide association study (GWAS), che permette il confronto tra le sequenze dell’intero genoma di centinaia di individui, alcolisti e non. L’idea alla base del GWAS è che se gli alcolisti conclamati presentano alterazioni del genoma tra loro simili e differiscono, sotto questo riguardo, dai non alcolisti, allora queste differenze genomiche possono essere correlate alla malattia. Il GWAS ha un carattere per certi aspetti controverso, e i risultati ottenuti con questo approccio vanno interpretati con cura. Si può dire, però, che la tendenza all’alcolismo non solo appare controllata da molti geni, ma ha anche una forte componente ambientale. Ciò significa che una base genetica precisa per questo disturbo potrebbe anche non essere mai dimostrata. Di certo, per ora, le cause genetiche dell’alcolismo restano avvolte nel mistero. In pratica, ciò impone a tutti una grande attenzione al problema. Capitolo 13 La birra e il cervello

Ci siamo seduti davanti a due pacchi da sei della birra spagnola Er Boquerón, nell’audace tentativo di verificare l’ipotesi secondo cui è possibile produrre una birra a prova di postumi. Le etichette della bottiglia riportavano la dicitura “Cerveza con agua de mar”, perché questa birra viene prodotta con acqua marina, in base all’idea che il sale nell’acqua aiuti a prevenire la disidratazione, che è la causa principale dei postumi alcolici. Questa birra, di per sé, ha un contenuto alcolico ridotto (solo 4,8% vol.), risulta leggermente luppolata al naso e al palato e si lascia bere con effetti rinfrescanti. I pacchi da sei sono scomparsi alla svelta, e siamo felici di poter annunciare che l’indomani mattina non abbiamo percepito effetti indesiderati… ma chi può dire come sarebbe andata dopo un altro pacco da sei? Un’altra birra presentata come priva di effetti indesiderati (hangover-free) viene venduta alla spina alla birreria/birrificio De Prael di Amsterdam. Questa bevanda contiene svariati ingredienti (tra cui il sale) che non vengono comunemente usati nella produzione di birra: zenzero, vitamina B12 e corteccia di salice. Simili ingredienti, in teoria, dovrebbero prevenire i postumi degli eccessi alcolici, ma la loro efficacia va testata scientificamente per poter escludere che si tratti di un effetto placebo. Ci siamo ripromessi di approfondire la questione, prima o poi. La birra antipostumi Er Boquerón ha un contenuto alcolico prossimo al 5 per cento, cioè più o meno quattro cucchiaini di alcol puro per ogni bottiglia: un quantitativo normale per una birra. Quando la si è bevuta, l’apparato digerente ne scompone la gran parte in particelle che possono essere usate dal corpo. Durante il suo percorso, l’alcol nella birra attraverserà diversi apparati, ma una parte di esso rimarrà intatto e penetrerà nel sangue, che trasporterà le molecole di alcol superstiti in ogni parte del corpo servita da vasi sanguigni, cervello incluso. Poiché il cervello è attraversato da un fitto intrico di vene e arterie, l’alcol arriva in un gran numero di sue nicchie e anfratti. La proporzione di quei quattro cucchiaini di alcol che arriva nel sangue, e potenzialmente al cervello, dipende da molti fattori distinti. Tra questi vanno considerati i comportamenti del soggetto e la sua costituzione genetica. Se si è appena mangiato, sarà minore la quantità di alcol che entrerà nel sistema circolatorio, perché le particelle di cibo nello stomaco ne assorbiranno una parte. Se il soggetto ha ereditato versioni relativamente deboli degli enzimi che degradano l’alcol, nel suo sangue arriverà più alcol. In ogni caso, gli effetti saranno abbastanza immediati. Dopo la prima birra, il livello di alcol nel sangue potrebbe aggirarsi intorno a un modesto 0,02 per cento, che basta però a causare un lieve stordimento. Per comprendere le cause di questo stordimento, dobbiamo tener presenti alcune cose a proposito del cervello. Il corpo e il cervello umani non sono fatti per assorbire grandi quantità di alcol, anche se molti esseri umani lo tollerano meglio di tanti mammiferi (vedi capitolo 1). Per molti, quindi, sei birre da 4,8 per cento in volume sono una quantità notevole. Il compito principale della fisiologia umana alle prese con l’alcol consiste nella sua scomposizione ed eliminazione, ragion per cui quando ci ubriachiamo di birra – o di qualunque altro liquore – quel che si verifica, in sostanza, è che l’alcol ha sconfitto il sistema finalizzato alla sua scomposizione. Una volta raggiunto il cervello, la molecola di alcol può intrufolarsi praticamente dovunque vi siano vasi capillari, e poiché il nostro organismo fa più fatica a smaltire l’alcol se noi continuiamo a bere, la proporzione di alcol nel sangue e, quindi, nel cervello aumenta. Il cervello umano è un organo straordinario che si è evoluto da strutture molto più semplici nell’arco di centinaia di migliaia di anni e, se è vero che l’evoluzione non procede certo ricercando le soluzioni ingegneristiche perfette, un paio di analogie con l’ingegneria possono rivelarsi utili a comprenderne il funzionamento. In sostanza, due sono i grandi problemi da risolvere perché il cervello possa esercitare un efficace controllo sul corpo. Il primo problema consiste nel far sì che i diversi organi e apparati del corpo comunichino tra loro; il secondo riguarda invece la comunicazione tra le cellule che compongono i tessuti. La natura ha risolto il primo problema dotandoci di un sistema nervoso che funziona un po’ come i circuiti elettrici delle nostre case, con lunghi filamenti nervosi che collegano gli organi periferici al cervello. I nervi servono alla coordinazione tra il cervello e gli altri organi, diffondendo segnali sia chimici sia elettrici per contatto tra cellule adiacenti. Un cervello umano medio pesa all’incirca 1,35 chilogrammi. A tenerlo in una mano, farebbe un po’ l’effetto di una manciata di gelatina di frutta che cola leggermente tra le dita. Si noterebbero, però, le numerose pieghe e rughe sulla sua superficie esterna. Quelle pieghe esistono perché gli strati esterni del cervello sono un po’ simili a un grosso foglio di carta che dev’essere appallottolato per poter stare all’interno del cranio. Le grinze sono formate dalle circonvoluzioni, che sono le parti esposte della materia accartocciata, e dai solchi, che sono la parte delle pieghe nascoste all’interno. Le cellule di questo foglio accartocciato sono interconnesse, il che fa del cervello un terreno ideale per le molecole di alcol. Dopo aver ingerito la terza birra di un pacco da sei, il tasso alcolico nel sangue si aggira intorno allo 0,05 per cento, e ci si sentirà piacevolmente alterati, mentre le molecole di alcol penetrano nei recessi più remoti del cervello. E sarete più che a metà strada sulla via del limite dello 0,08 per cento che in gran parte degli Stati è la soglia oltre la quale si è, per la legge, ubriachi. Figura 13.1. I quattro lobi di un emisfero cerebrale: frontale, parietale, temporale e occipitale.

La rappresentazione più semplice del cervello umano è quella che si limita a dividere centralmente la sua corteccia – la parte che riveste l’estremità superiore e i lati – nei suoi due emisferi, destro e sinistro. Benché molte delle propagandate differenze tra i due emisferi siano per lo più aneddotiche, ce ne sono alcune piuttosto significative. Per esempio, il linguaggio e la sua comprensione sono quasi sempre incentrati nella metà sinistra del cervello. Questo, però, non ha una particolare rilevanza al fine di illustrare l’effetto prodotto dalla birra sul cervello umano, perché l’alcol non fa differenze e penetra nei due emisferi cerebrali con la stessa facilità. Ancora più importante, per noi, è il fatto che ogni emisfero del cervello è ulteriormente suddiviso in quadranti (figura 13.1). In totale, quindi, la superficie esterna del cervello è divisa in otto lobi, tutti sensibili agli effetti dell’alcol. Nella parte anteriore, sotto la fronte, c’è il lobo frontale. Subito dietro, c’è il lobo parietale; sotto c’è il lobo temporale; e nella parte posteriore, quello occipitale. Le funzioni svolte da queste quattro suddivisioni possono variare, anche all’interno di ciascun lobo. Ogni lobo, però, ha una sua funzione prevalente che dovremo mettere a fuoco se vogliamo comprendere l’effetto della birra sul cervello. I lobi frontali sono quelli in cui vengono prese le decisioni consce. I lobi parietali ospitano le aree sensorie e motorie del cervello, essenziali per la nostra capacità di percepire il mondo esterno e reagire di conseguenza. Due importanti subregioni del lobo temporale (solitamente) sinistro prendono il nome dagli scienziati che le hanno scoperte: Paul Broca e Carl Wernicke. Queste aree intervengono nelle facoltà linguistiche attive e passive, rispettivamente. Infine, i lobi occipitali nella parte posteriore della scatola cranica sono responsabili dell’elaborazione delle immagini e della risposta a esse. E le cellule di tutti questi lobi sono esposte alle molecole di alcol presenti nella birra che beviamo. Ognuno dei quattro principali lobi del cervello è costituito da miliardi di cellule chiamate neuroni. Questi sono collegati tra loro e formano percorsi lungo i quali viaggiano le informazioni. Neuroni tra loro adiacenti comunicano attraverso connessioni dette sinapsi. Ciò che alimenta la comunicazione tra le sinapsi è il cosiddetto potenziale d’azione, una sorta di carica elettrica che passa di neurone in neurone (figura 13.2). Questi segnali elettrici non viaggiano solo all’interno del cervello, bensì anche verso l’esterno, per portare istruzioni dal cervello alle varie parti del corpo e viceversa (vedi capitolo 11). All’interno del cervello, sintetizzano le nostre percezioni del mondo esterno e danno luogo al senso generale della coscienza… anche se nessuno sa di preciso come riescano in questa impresa. Un altro modo per figurarsi la struttura del cervello consiste nella distinzione cromatica tra i tessuti cerebrali: le famose cellule bianche o grigie (o materia bianca e materia grigia). La materia bianca è formata da miliardi di cellule neurali chiamate assoni, che sono isolati, un po’ alla maniera dei fili elettrici, e percorrono lo strato più interno del cervello. Anche la regione più esterna, o materia grigia, è costituita da miliardi di cellule, ma la sua organizzazione è più complessa di quella della materia bianca, per via della presenza di un secondo tipo di cellule neurali, dette dendriti. Le dendriti sono collegate alle fibre nervose (assoni) della materia bianca per mezzo di quelle sinapsi e stabiliscono tra loro un numero incalcolabile di connessioni. Le connessioni stabilite nella materia grigia sono essenziali per l’elaborazione da parte del cervello dei dati sul mondo esterno che i sensi gli forniscono. Sono essenziali anche per le risposte motorie, per la memoria, per la risposta emotiva e per altre funzioni neurali di più alto livello. Tutte queste attività dipendono dalla velocità dei segnali trasportati dai nervi, una funzione che può essere notevolmente influenzata dalle molecole dell’alcol. Figura 13.2. Quadro generale del funzionamento di una sinapsi. Una cellula dell’assone presinaptico si trova accanto a una cellula postsinaptica (dendrite), e le due cellule sono separate da una giunzione sinaptica. La membrana della cellula assonale è attraversata da una gran quantità di canali ionici (1). Gli ioni, come per esempio il calcio, vengono trasportati attraverso la membrana, e questo modifica la concentrazione ionica nella cellula presinaptica. Ciò, a sua volta, dà luogo al rilascio di piccoli peptidi (neuropeptidi) da parte della cellula (2). I neuropeptidi raggiungono quindi la giunzione sinaptica (3), dove interagiscono con i recettori neurali (4) incorporati nella membrana della dendrite. Quando il neuropeptide si lega al recettore, un canale ionico si apre, lasciando passare altri ioni come il calcio all’interno della dendrite. Questo, poi, innesca un segnale elettrico (5) che attraversa la dendrite e prosegue verso la successiva cellula neurale.

Un terzo punto di vista da cui osservare il cervello è quello evolutivo: in questo caso, le parti del cervello sono tre, ma procedono dall’interno verso l’esterno. Sono colloquialmente note come cervello rettiliano, sistema limbico e neocorteccia e si sono sviluppate una dopo l’altra nell’arco dell’evoluzione. Annidato nel profondo, il cervello rettiliano comprende il cervelletto, che è coinvolto nei processi sensori e motori e controlla i nostri movimenti elementari, e il tronco encefalico, che controlla le nostre funzioni corporee elementari. Il sistema limbico, sovrapposto al cervello rettiliano, è fatto di tanti cluster neurali più piccoli, quali ippocampo, talamo e amigdala, tutti importantissimi sia per la funzione emotiva sia per quella cognitiva superiore. Si trova, qui, anche il sistema di ricompensa del cervello, che è notevolmente influenzato dall’alcol. Infine, c’è la corteccia più esterna, in cui hanno sede le funzioni razionali più sofisticate.

Le cellule cerebrali hanno bisogno di tanto nutrimento (un cervello da 1,5 kg può consumare fino al 25 per cento dell’energia totale necessaria a un individuo di 100 kg), e i neuroni presenti in tutt’e tre le parti del cervello sono alimentati da un’intricata rete di vasi sanguigni che con estrema efficienza apportano loro ossigeno… e alcol. Alla quarta birra, il tasso alcolico nel sangue sarà dello 0,065 per cento circa, e si sarà sempre più vicini al limite fissato dalla legge. Passiamo dunque a esaminare il modo in cui queste minuscole molecole di alcol causano quella che Seneca, famoso oratore romano, chiamava voluntaria insania. Figuratevi la massa di cellule neurali che comunicano tra loro, dal profondo del cervello alla superficie, da un lobo a un altro, dalla materia grigia esterna a quella bianca più interna, dal lato sinistro a quello destro del cervello, dalle parti più distanti del cervello al sistema limbico e tra i vari aggregati di cellule neurali (nuclei) preposti a specifici compiti. Il numero di queste cellule è nell’ordine dei cento miliardi, e ogni cellula è potenzialmente in grado di stabilire più di 15.000 connessioni con altri neuroni. Ciò significa che in un cervello medio si registrano centomila miliardi di connessioni. Anche tenendo conto delle differenze dovute all’età (il numero delle sinapsi diminuisce quanto più si invecchia) e al genere (le donne hanno meno sinapsi degli uomini), si tratta di un numero di connessioni fenomenale, che supera di gran lunga il numero di stelle presenti nella Via Lattea (che sono solo 400 miliardi). Le sinapsi nel cervello e nel sistema nervoso periferico trasferiscono segnali da una cellula all’altra, consentendo la circolazione all’interno del cervello e dal cervello ai vari organi (e ritorno) delle informazioni codificate nei segnali. Se non esistesse un controllo sulla circolazione dei segnali, saremmo in balia di un enorme caos nervoso. Un adeguato controllo dei segnali dipende da un buon funzionamento delle sinapsi, e l’alcol può avere effetti significativi in questo ambito. Le cellule comunicano tra loro, in primo luogo, attraverso interazioni molecolari, e i potenziali d’azione tra una sinapsi e l’altra usano ioni come moneta corrente per la trasmissione di segnali. Gli ioni più comunemente coinvolti sono gli ioni di sodio e calcio (Na+ e Ca++). Sarebbe facile se i potenziali d’azione potessero semplicemente saltare da una cellula all’altra, attraverso le membrane delle due cellule. Purtroppo, però, le sinapsi non hanno sviluppato un modo semplice e comodo per trasferire i potenziali d’azione elettrici dalle cellule presinaptiche da cui provengono alle cellule postsinaptiche che li ricevono. La realtà è che all’interno di ogni cellula presinaptica ci sono delle vescicole che contengono piccole molecole note come neurotrasmettitori, mentre nella membrana di ogni cellula postsinaptica si trovano centinaia o migliaia di piccole proteine (figura 13.2). Alcune di queste molecole proteiche formano piccoli pori, detti canali ionici, attraverso i quali possono passare gli ioni chimici dotati di cariche elettriche. Altre possiedono strutture estremamente specializzate capaci di legarsi alle molecole dei neurotrasmettitori. I canali ionici sono di solito inattivi finché la cellula presinaptica in cui risiedono non raggiunge una concentrazione critica di ioni. Questa concentrazione è causata da segnali che raggiungono la cellula dall’esterno, per esempio da uno degli organi di senso (lingua, occhi, naso e così via). Quando la concentrazione critica viene raggiunta, le vescicole si muovono verso la sinapsi e scoppiano, rilasciando i neurotrasmettitori nella regione tra le due cellule. I neurotrasmettitori, a quel punto, si legano alle molecole dei recettori, e i recettori così legati aprono i pori dei canali ionici per permettere il passaggio degli ioni. L’accumulo degli ioni passati attraverso i canali ionici crea, a sua volta, un nuovo potenziale d’azione, e i neurotrasmettitori si staccano dalle proteine dei canali ionici per tornare alla cellula presinaptica, con un processo chiamato ricaptazione, e permettere al ciclo di ricominciare. Il tasso alcolico nel sangue è ormai allo 0,081 per cento, e l’alcol presente nelle cinque birre che ci siamo già bevuti, insinuandosi in queste regioni sinaptiche, ha cominciato a produrre effetti bizzarri. All’inizio, le molecole di alcol erano causa di un piacevole stordimento, ma continuando a bere lo stordimento ha ceduto il passo a sensazioni stranamente euforiche e, per finire, a una progressiva perdita di controllo sul fisico. Che cosa è successo? Be’, i vari neurotrasmettitori sono fattori critici nel controllo del potenziale d’azione. Esistono più di cinquanta tipi diversi di neurotrasmettitori, e ognuno ha un suo recettore. A seconda del particolare neurotrasmettitore che viene rilasciato nella sinapsi, si avrà una particolare risposta. Da un lato, ci sono i neurotrasmettitori eccitatori, che stimolano l’attività delle sinapsi del cervello e del sistema nervoso. Intensificano l’innesco dei potenziali d’azione e fungono da stimolante sul cervello. Dall’altro lato, ci sono i neurotrasmettitori inibitori, che ostacolano i potenziali d’azione rallentando l’innesco delle sinapsi e ottundendo le reazioni. Oltre a ciò, anche il tasso di ricaptazione dei trasmettitori può variare, modificando di conseguenza il livello di funzionalità delle sinapsi.

La birra è una bevanda complessa, e le sostanze in essa presenti possono avere discreti effetti sul cervello. In media, è formata al 95 per cento circa da acqua. C’è anche dell’alcol, nelle concentrazioni più varie. La birra non filtrata conterrà poi del lievito e forse qualche batterio. Saranno presenti, infine, alcuni prodotti secondari del brassaggio come fenoli, alfa acidi (umuloni), beta acidi (lupuloni), molecole di pigmento e tutti gli altri prodotti della fermentazione. Come l’alcol, molti di questi composti si fanno strada fino al cervello e sono potenzialmente in grado di influenzarlo. Tuttavia, poiché gli effetti dell’alcol sono i più importanti, vediamo anzitutto che cosa succede a questa minuscola molecola nel cervello in generale. Uno dei neurotrasmettitori influenzati dall’alcol è il glutammato. Questa piccola molecola è un neurotrasmettitore eccitatorio e, di norma, potenzia l’attività sinaptica e i livelli di energia nel cervello. Quando il tasso alcolico nella sinapsi è abbastanza alto, la quantità di glutammato rilasciata dalle cellule presinaptiche si riduce, e ciò causa l’innesco delle sinapsi. Questo, a sua volta, rallenta la comunicazione tra i vari sottosistemi del cervello, ostacolando la coordinazione. Sul versante inibitorio, l’alcol stimola l’attività di un importante neurotrasmettitore: l’acido gamma- amminobutirrico (GABA). Questa molecola inibisce i potenziali d’azione e, quindi, rallenta le sinapsi. In apparenza, potrebbe sembrare lo stesso effetto prodotto sul cervello da sedativi come Xanax e Valium, ma è stato dimostrato che l’alcol agisce in modo diverso da questi sedativi, i quali accrescono la produzione di GABA, mentre l’alcol potenzia l’effetto che il GABA ha sulla sinapsi. Figura 13.3. Il sistema di ricompensa del cervello. Il corpo striato è al centro del sistema e interagisce con svariate altre regioni del cervello, come indicato nel diagramma. Queste regioni comprendono la corteccia frontale (dove hanno origine le decisioni), il nucleus accumbens e l’ippocampo (che modula la memoria).

L’alcol, in generale, è un calmante, ragion per cui quando ci si ubriaca si tende ad addormentarsi. L’alcol, però, ha anche un sorprendente effetto stimolante che opera attraverso il sistema di ricompensa del cervello, situato all’interno del sistema limbico (figura 13.3). L’alcol accentua il rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore i cui livelli crescono nel corso di attività piacevoli, inducendoci a insistere. L’alcol, così, inganna il sistema di ricompensa spingendolo a desiderare altro alcol… anche se l’effetto finale sarà sedativo. È un comma 22 neurologico: si beve più birra perché i livelli di dopamina stanno salendo, però mentre si beve il sistema nervoso accentua gli effetti di sedazione. Questa potrebbe essere la situazione nel momento in cui si passa alla sesta e ultima birra, che porterà il tasso alcolico nel sangue allo 0,093 per cento, cioè ben oltre la soglia legale dell’ebbrezza, e la situazione è ideale per osservare gli effetti neurali che la birra ha avuto su di noi. Dopo sei birre, la maggior parte dei bevitori prova sonnolenza e intontimento. Si farfuglia e si corre il rischio di dire cose sconvenienti. Calano nettamente le inibizioni, perché la concentrazione di alcol nel cervello ha cominciato a influire sulla corteccia prefrontale, dove vengono prese le decisioni e si modula il comportamento. L’alcol ha stimolato il GABA e indebolito la ricezione del glutammato da parte delle sinapsi, causando un rallentamento nell’innesco dei neuroni prefrontali. Certo, tutta quella dopamina potrebbe indurci ad attaccare un altro pacco da sei, ma dopo aver quasi rischiato di rovesciare un bicchiere sul tavolo ci rendiamo conto di aver perso un po’ di coordinazione, perché l’alcol ha invaso il cervelletto, e decidiamo, quindi, che non sarebbe una buona idea. Anche gli organi dell’orecchio interno preposti all’equilibrio sono irrorati di alcol e questo potrebbe causarne il malfunzionamento, dandoci l’impressione che la stanza stia girando. Dato che ci sentiamo anche un po’ stanchi, decidiamo, magari, di tornare a casa. Questa decisione sarà principalmente indotta dalla natura sostanzialmente sedativa dell’alcol e dal suo impatto sulla ricezione del glutammato e del GABA in tutte le parti del cervello e, in particolare, nel tronco encefalico, che ha reagito rallentando molte delle funzioni corporee, inclusa la respirazione. È l’effetto sul tronco encefalico che ci segnala il nostro stato di sonnolenza. Se, tuttavia, c’è ancora in circolo dopamina a sufficienza, potremmo anche decidere di inaugurare il secondo pacco da sei. In questo caso, rischieremmo i postumi con cui abbiamo iniziato questo capitolo: una condizione spiacevole che è causata non solo dalla disidratazione che preoccupa i produttori della birra Er Boquerón, ma anche dalla dilatazione dei vasi sanguigni del cervello, effetto dovuto alla tendenza dell’alcol a rallentare il metabolismo del corpo. E può darsi che i temuti postumi si presentino comunque, anche se eviteremo di aprire il nuovo pacco, perché l’alcol influenza anche la ghiandola pituitaria posta alla base del cervello. Questo piccolo agglomerato di tessuto neurale è preposto alla produzione di ormoni che svolgono una notevole varietà di compiti per regolare il funzionamento del nostro corpo. A causa dell’eccesso di alcol, la ghiandola pituitaria smette di produrre l’ormone diuretico chiamato vasopressina. Questo ormone regola il comportamento dei reni che, quando la ghiandola interrompe la produzione di vasopressina, mandano l’acqua che producono direttamente alla vescica, eludendo altre parti dell’organismo. Quindi, anche se la vescica si riempie e si va più spesso in bagno, la carenza di acqua utilizzabile in altre parti del corpo provoca una cascata di altri effetti indesiderati. L’acqua comincia a scarseggiare nell’organismo, e ogni organo cerca egoisticamente di accaparrarsene il più possibile. Il cervello non è tanto abile, in questo, ed è l’organo che soffre di più nella spietata competizione per l’acqua. Si disidrata e, di conseguenza, si restringe causando tensione nei tessuti connettivi e nelle membrane che lo separano dal cranio. È questa tensione la causa del mal di testa che viene con i postumi. Ed è per questo che prosegue la nobile e ininterrotta ricerca di una birra che non provochi alcun genere di postumi. Parte IV

Frontiere, vecchie e nuove Capitolo 14 Filogenesi della birra

Avendo finito di ricostruire la nostra filogenesi della birra, non vedevamo l’ora di assaggiare questa meraviglia italiana, che combina in modo eccezionale le tre principali suddivisioni che abbiamo identificato. Infatti, all’interno della formosa bottiglia marrone riposa un’insolita miscela composta da una Ale torbata alla maniera del vino d’orzo, da una Rauch Märzen invecchiata in botti di whisky scozzese e da una birra con Brettanomyces. “Daydream” (Sogno a occhi aperti) c’era scritto sul tappo extralarge. La schiuma si è dissipata alla svelta, come avevamo previsto, data la presenza del Brettanomyces, e il liquido denso, torbido e giallastro nei nostri bicchieri emanava aromi intensi di formaggio Cantal, di torba e, ovviamente, di Brettanomyces. Al gusto, questa “brettosa” cacofonia di gusti, è risultata affascinante, benché indescrivibile in poche parole. È chiaramente una birra che non a tutti può piacere, ma è stata un’esperienza indimenticabile. La mente umana ha un profondissimo bisogno di stabilire connessioni, e molti lettori avranno visto magliette e manifesti decorati con bellissimi diagrammi raffiguranti le genealogie di diversi tipi di birra. Uno dei nostri preferiti è quello di popchartlab.com. Il poster in questione è un vero albero genealogico, perché mostra antenati e discendenti, oltre ad alcuni incroci che danno l’idea di una rete più che di un albero. Benché le sessantacinque Ale e le trenta e più Lager incluse nel diagramma rappresentino le due grandi “famiglie” della birra, c’è una linea che le collega, a segnalare che esiste una “nonna” di tutte le birre non indicata nel diagramma. Le relazioni di “cuginanza” raffigurate sono particolarmente interessanti e vedono coinvolte la Kölsch, la Cream Ale, la Altbier, la California Common e la Porter baltica, che si caratterizzano per la compresenza dei tratti di entrambe le famiglie (Ale e Lager). Un altro diagramma, creato da bearingsguide.com, elenca quarantacinque tipi di Ale e venticinque di Lager. Come nel poster di popchartlab.com, anche qui sono illustrati i rapporti di cuginanza, ma in numero più ridotto, e solo la Cream Ale e la Porter baltica appaiono difficilmente collocabili tanto tra le Lager quanto tra le Ale. Alcune genealogie della birra, come la versione offerta da cratestyle.com, tralasciano queste relazioni di cuginanza o “ibride”. Ci sono, però, anche genealogie molto più semplici che si limitano a illustrare le differenze tra gli stili di birra più generali come IPA o Stout. Due di queste genealogie (quella di Wikimedia Commons e quella di MicroBrews USA, all’indirizzo https://microbrewsusa.wordpress.com/2013/07/17/beer-family-tree/) non tentano neppure di collegare le Lager e le Ale nei loro diagrammi e forniscono solo i più rudimentali elementi delle relazioni tra le birre. Infine, un nostro collega biologo evolutivo, Dan Graur, preferisce un diagramma più simile a un albero, in cui non figurano collegamenti tra Ale e Lager. Perché ci soffermiamo su questi diagrammi essenzialmente decorativi? Be’, nei loro tentativi di illustrare graficamente i rapporti esistenti tra le varie birre, i creatori di questi poster hanno sollecitato le nostre terminazioni nervose. Come scienziati che hanno trascorso settant’anni (in due) a occuparsi delle parentele tra organismi quali gli umani delle origini, i lemuri, i moscerini della frutta, i batteri, le piante e chi più ne ha più ne metta, abbiamo trovato in queste immagini un esempio della bellezza dell’analisi filogenetica, oltre ad alcune sfide che nell’ambito della nostra trattazione dovranno essere affrontate. Figura 14.1. A sinistra, la figura ad “albero” di Lamarck (1809). Si noti che “M. Amphibies” è collocato in corrispondenza di un nodo dell’albero ed è considerato una forma di transizione tra “M. Cétacés” e “Poissons, Reptiles”. L’albero “Io penso” di Darwin (a destra) implica che i taxa alle estremità dell’albero siano viventi, mentre i nodi rappresentano i loro antenati.

Gli studiosi di sistematica, la scienza che cerca di classificare i diversi tipi di organismi presenti nella biosfera e determinare le loro interrelazioni, hanno sempre usato gli alberi filogenetici (evolutivi) per rappresentare queste relazioni. Il primo di questi alberi fu probabilmente quello pubblicato dallo storico naturale francese Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet, cavaliere di Lamarck, nel 1809 (figura 14.1). Poiché Lamarck fu anche il primo a sostenere che le forme di vita mutano nel corso del tempo, forse non sorprenderà che abbia fatto qualcosa che noi oggi evitiamo di fare, cioè collocare i taxa viventi in coincidenza con i nodi (punti ancestrali) dell’albero, come a suggerire che alcuni gruppi viventi si siano trasformati in altri. È una cosa che si ritrova spesso anche nei diagrammi relativi alle birre, e non c’è nulla da ridire se si tratta di una genealogia, ma il discorso cambia se si tratta di un albero evolutivo, in cui gli antenati sono ipotetici o, nella migliore delle ipotesi, noti sotto forma di fossili. Nel 1836, in un taccuino privato, Charles Darwin propose il suo famoso albero dell’“Io penso” (figura 14.1). Era un tentativo di esprimere in forma grafica il procedere dell’evoluzione, usando in esso taxa (organismi) ipotetici. È chiaro, però, che – a suo parere – i taxa collocati sulla punta dei rami erano quelli viventi, mentre quelli corrispondenti ai nodi rappresentavano gli antenati. Darwin procedette poi a formalizzare il concetto di albero filogenetico come esplicita enunciazione di una relazione antenato-discendente nel suo celeberrimo L’origine delle specie (1859) e fu proprio lui a coniare la poetica metafora del Grande albero della vita. Gli alberi filogenetici vengono usati da molto tempo nello studio dell’evoluzione degli organismi. Sono utilissimi nel campo della biologia evolutiva per molte ragioni, permettendo, tra l’altro, di vedere chiaramente le relazioni esistenti tra le varie entità e in che modo gli antenati si inseriscono nel quadro dell’evoluzione. Sta di fatto che, posti di fronte alla grandiosa varietà delle birre, non meno grandiosa – per gli appassionati di birra – della varietà della vita stessa, ci è parso interessante provare ad applicare le tecniche della sistematica allo studio dell’evoluzione delle birre. Ovviamente, le birre non si sono evolute alla stessa maniera degli organismi, ma si è riscontrato che nei campi della cultura e della biologia i modelli prodotti dall’evoluzione sono piuttosto simili. Anzi, i linguisti ricorrono da tempo agli alberi per illustrare le relazioni tra le lingue, spesso costruendoli con tecniche notevolmente simili a quelle inventate dai biologi. Le genealogie della birra che vediamo su quei poster e su quelle magliette si fondano su un’immensa conoscenza dei prodotti interessati. Sotto questo aspetto assomigliano da vicino agli alberi evolutivi che, in genere, si costruivano più o meno mezzo secolo fa, a opera di specialisti che usavano la loro vasta competenza per giungere a un modello intuitivo. Questa situazione non poteva andare avanti all’infinito, e negli anni Sessanta una nuova generazione di tassonomisti ha cominciato a sostenere che procedure di questo tipo fossero antiscientifiche, fondate su valutazioni personali più che su dati concreti. E hanno cominciato a cercare alternative più obiettive.

Gli anni Sessanta sono stati un decennio tumultuoso in generale, e anche nel campo della sistematica se n’è avuta la prova, con grandi lotte intestine e, talvolta, disaccordi per nulla pacati. Alla fine, ne sono emersi tre approcci fondamentali per la creazione di alberi, in qualche misura ancora oggi tutti in uso. Un approccio si interroga semplicemente sulla maggiore o minore somiglianza tra gli organismi sotto vari aspetti e usa la somma di queste affinità per dar forma all’albero. Si prendono tutte le coppie di opposti (il rovescio dell’affinità) tra le specie che ci interessano e ci domandiamo qual è la coppia con la differenza meno pronunciata. La coppia che mostra la differenza più ridotta viene collocata in coincidenza del primo snodo dell’albero, e si sistema poi la successiva specie più simile alle prime due come parente più prossima… e così via. Questo modo di procedere è detto metodo della distanza e differisce dagli altri due perché compatta tutte le informazioni disponibili sulle specie in un’unica misura della loro affinità (o distanza). Gli altri metodi considerano tutti i diversi bit di informazione (detti caratteri o stati dei caratteri) disponibili sugli organismi oggetto dell’analisi e valutano la capacità dei singoli caratteri di delineare una loro storia evolutiva. Entrambi questi metodi si occupano della forma dell’albero (topologia) e mirano a valutare la capacità dei caratteri di innestarsi su tutte le possibili sistemazioni delle specie analizzate. Se si adotta il metodo della massima parsimonia, l’albero migliore è quello che sistematizza nel modo più semplice tutti i caratteri utilizzati, cioè quello che offre la migliore spiegazione dei dati. Anche il metodo della massima verosimiglianza procede carattere per carattere e considera tutti gli alberi possibili, ma usa la verosimiglianza per decidere quale sia l’albero migliore. Per poter adottare questo metodo bisogna prima avere un modello dell’evoluzione dei caratteri (cioè si valuta la probabilità di avere i dati a portata di mano, una volta dato l’albero e il modello). È relativamente semplice sviluppare questi modelli quando si tratta di mutamenti molecolari, ma è molto più complicato quando lo studio riguarda le strutture anatomiche. E siccome le caratteristiche utilizzate per classificare le birre sono più simili a quelle anatomiche, tralasceremo il metodo della massima verosimiglianza per concentrarci sull’approccio della massima parsimonia. Osserviamo più nel dettaglio il criterio di massima parsimonia. Poniamo di voler “classificare” tre tipi di birra: una Lager americana, una IPA belga e una Pils viennese. Qualsiasi appassionato di birra conoscerà già il risultato di questo esercizio, ma invitiamo il lettore a seguire comunque il ragionamento, perché anche conoscere il metodo d’analisi è importante. E la prima cosa da capire è che un albero con tre sole birre, di per sé, non ha senso se non stabiliamo qual è la radice – l’ascendenza – dell’albero. Un albero che comprende queste tre birre avrà l’aspetto di quello rappresentato a sinistra nella figura 14.2. Non si può certo affermare che l’albero così descritto contenga tante informazioni, ma se si pone una delle tre birre alla radice dell’albero, come mostrato a destra della stessa figura, risulta evidente che gli altri due rami sono legati da una parentela stretta. La determinazione della radice, in altre parole, è essenziale ai fini delle informazioni ricavabili. Per ogni albero, però, la determinazione della radice può variare. Come abbiamo appena fatto noi, si può scegliere arbitrariamente un ramo, ma il procedimento non è certo oggettivo né ripetibile: altri potranno scegliere un’altra radice, precludendo la ripetibilità. La scelta della radice sulla base della mera competenza, in altre parole, non garantisce che la radice sia quella giusta. L’unico modo di procedere, allora, consiste nell’aggiungere una quarta bevanda e porre quest’ultima come radice dell’albero. Questo procedimento è detto radicamento extragruppale (outgroup rooting) e prevede l’esame di una birra esterna (meno affine) alle tre birre “interne al gruppo”. In questo esercizio, un vino di frumento (Wheat Wine) fa perfettamente al caso nostro. Figura 14.2. Albero senza radice relativo a tre birre: Lager viennese (LV), Lager americana (LA) e IPA belga (IB). I tre possibili radicamenti di un albero formato da tre birre sono indicati dalle frecce. Se la radice è LA, allora la IPA belga e la Lager viennese sono tra loro le parenti più strette. Se, invece, la radice è posta in IB, saranno le due Lager (viennese e americana) l’una la parente più stretta dell’altra. La terza possibilità, con LV come radice, vedrà la Lager americana e la IPA belga come parenti tra loro più strette.

Il passo successivo consiste nel generare una matrice dei caratteri per le nostre quattro birre. La matrice dei caratteri è il cuore dell’analisi e contiene tutte le informazioni potenzialmente utili a nostra disposizione. Se dovessimo svolgere un’analisi di questo tipo per un gruppo di organismi, li osserveremmo procedendo dall’alto verso il basso, cercando di caratterizzare il loro comportamento e sequenziando il loro DNA, come illustrato nei capitoli 7, 8 e 9, rispettivamente per l’orzo, il lievito e il luppolo. Per la birra, però, non possiamo ricorrere al DNA, perciò avremo bisogno di altre informazioni, sia per le tre birre del gruppo prescelto sia per quella esterna. Ora viene il bello, e con tre sole birre da analizzare potremmo semplicemente sederci con una bottiglia di birra per ciascun tipo e dedurne i caratteri gustativi bevendole. Poiché però le tipologie di birra principali sono più di cento avremo bisogno di una scorciatoia. Per nostra fortuna, il BJCP (Beer Judge Certification Program, un corso che fornisce a chi lo supera la qualifica di giudice della birra) produce un documento che descrive le caratteristiche specifiche di circa un centinaio di stili di birra. Questo documento contiene gran parte delle informazioni di cui abbiamo bisogno per costruire la matrice della nostra analisi filogenetica. Fondamentali, al riguardo, sono quelle che il BJCP chiama tag (“etichetta”). Questi tag segnalano le caratteristiche relative alla forza, al metodo di fermentazione, al colore, alla regione d’origine, allo stile, alla famiglia e al gusto prevalente. Per esempio, il colore ha tre possibili stati: chiaro, ambrato e scuro. Il BJCP contempla anche la gravità iniziale e la gravità finale, le unità di amarezza misurate sulla scala IBU, l’alcol per unità di volume e una misurazione del colore più quantitativa: il metodo di riferimento standard, o SRM (standard reference method). Passando al setaccio i criteri e i dati del BJCP, si possono raccogliere informazioni su una ventina di caratteri che possono tornare utili nella ricostruzione della filogenesi di quelle cento e più birre. Ulteriori caratteri si possono ricavare dalle ricette di specifici stili di birra. Per nostra fortuna, esiste già un database ad hoc: BeerSmith.com, un sito web che illustra anche caratteri come il rating del gusto, i tipi di lievito e di orzo impiegati e informazioni più specifiche sulla fermentazione.

Tabella 14.1. Caratteri e stati dei caratteri usati per l’albero da tre birre e bevanda esterna al gruppo.

Per il nostro esempio, considereremo tre dei caratteri etichettati per vedere come funziona il criterio di parsimonia e per mostrare come si procede, in definitiva, per costruire la nostra filogenesi della birra. Utilizzeremo i seguenti sei caratteri taggati dal BJCP: forza (altissima, alta, standard o session, cioè bassa); colore (chiaro, ambrato, scuro); fermentazione dei lieviti (alta o bassa); provenienza geografica (America del Nord, Europa centrale, Europa orientale, Europa occidentale, Isole Britanniche, Pacifico); stile (tradizionale, artigianale, storica); e gusto prevalente (equilibrato, luppolato, acido, amaro). Per le tre birre interne al gruppo e per quella esterna otteniamo gli stati del carattere indicati nella tabella 14.1. A questo punto, per semplificare un po’ l’analisi, ricodifichiamo gli stati del carattere. La ricerca dell’albero migliore con tre sole birre interne al gruppo e con questi sei caratteri è piuttosto facile; con l’aumento delle birre prese in considerazione, il numero degli alberi possibili cresce in misura esponenziale, sicché per le circa cento birre di cui si diceva bisognerà considerare più di 10100 alberi diversi (un 1 seguito da 100 zeri). È un compito che solo un computer molto potente può sperare di portare a termine. E se è vero che si può programmare un computer per fargli gestire stati del carattere come “chiaro” o “scuro”, è molto più facile assegnare a ognuno di quegli stati un valore numerico, per semplificare il lavoro del calcolatore. Di conseguenza, in relazione alla forza, lo standard viene ricodificato come “0”, l’alto come “1”; per il colore, l’ambrato viene ricodificato come “0” e il chiaro come “1”; e così via. La nostra matrice avrà, quindi, gli stati del carattere illustrati nella tabella 14.2.

Tabella 14.2. Caratteri e stati dei caratteri ricodificati per l’albero da tre birre e bevanda esterna al gruppo.

Ora, invece, viene la parte davvero complicata dell’analisi filogenetica, in cui si verifica la più o meno adeguata sistemazione dei caratteri sugli alberi possibili. Sappiamo già che l’estensiva analisi delle birre che vogliamo realizzare richiederebbe l’esame di 10100 alberi diversi, ma per fortuna gli alberi che dobbiamo considerare per le tre birre incluse nel gruppo sono soltanto tre, tutti rappresentati nella figura 14.3. Il vino di frumento serve come birra di riferimento esterna al gruppo. Diamo un’occhiata alla posizione dei sei caratteri sui tre alberi della figura 14.3. Per il carattere della forza (figura 14.4), il valore della birra esterna al gruppo è considerato “alto”, e per cartografare la forza sull’albero LA + LV a sinistra basterà un solo cambiamento, da alto a standard, subito prima del nodo che collega LA e LV. Nel caso dell’albero LA + IB (al centro), invece, i cambiamenti richiesti sono due: il primo è quello sul ramo LA, sopra il nodo LA + IB; il secondo è quello sul ramo LV. Analogamente, anche l’albero LV + IB richiede due passi: uno sul ramo LV, sopra il nodo LV + IB; l’altro sul ramo LA. Se la forza fosse l’unico carattere che ci interessa, concluderemmo che l’albero LA + LV è il più parsimonioso, perché richiede un solo passo, diversamente dagli altri che ne richiedono due. I caratteri del lievito e dello stile presentano schemi analoghi, perciò abbiamo, di fatto, tre caratteri a favore dell’albero LA + LV. Il colore, però, segue uno schema diverso: l’albero LV + IB ha un solo cambiamento, mentre gli altri due alberi ne hanno due ciascuno. La provenienza geografica e il gusto sono entrambi caratteri che i biologi considerano filogeneticamente privi di informazione, perché possono essere mappati su tutt’e tre gli alberi con lo stesso numero di cambiamenti e, quindi, non ci aiutano a decidere quale sia l’albero migliore. A questo punto ci sono due modi per proseguire nella risoluzione del problema delle tre birre. Da un lato, ci sono tre caratteri che supportano la scelta dell’albero LV + LA e uno solo a favore dell’albero LV + IB, mentre non ce ne sono a favore dell’albero LA + IB. D’altro canto, ed è questo il secondo modo di affrontare il problema, l’albero LV + LA richiede cinque cambiamenti, l’albero LV + IB ne vuole sette e l’albero LA + IB ne prevede otto (se ignoriamo i caratteri filogeneticamente irrilevanti). In entrambi i casi, l’albero LV + LA vince, e possiamo considerarlo il più parsimonioso.

Figura 14.3. I tre alberi possibili per il problema delle tre birre. L’albero sulla sinistra implica che la Lager americana è la parente più stretta della Lager viennese. Secondo l’albero al centro, la Lager americana è più imparentata alla IPA belga. L’albero sulla destra presenta la IPA belga come parente più prossima della Lager viennese. La migliore soluzione al problema consiste nell’aggiunta di un riferimento esterno al gruppo. Dato che il riferimento esterno è lo stesso per tutt’e tre gli alberi, non è indicato in figura. Figura 14.4. Mappatura del carattere della “forza” sulle tre possibili filogenesi della birra. Le etichette bianche indicano dove è richiesto un cambiamento sull’albero da “alta” a “standard”. La filogenesi sulla sinistra richiede un unico cambiamento, sul ramo che porta al nodo LA + LV. Gli altri due alberi richiedono ciascuno due cambiamenti, come indicato. Si tenga presente che lo stesso schema vale per i caratteri della “fermentazione” e dello “stile”.

Questa relazione, ovviamente, quadra con ciò che già sappiamo di queste birre. Tutt’e due le Lager sono – com’è abbastanza ovvio – lagerizzate, sono entrambe prodotte con lievito a fermentazione alta e rientrano nella categoria delle birre tradizionali. L’albero più parsimonioso ci dice anche che il colore cambia due volte, a indicare che tale carattere potrebbe non essere tanto significativo per aiutarci a rispondere a questa particolare questione filogenetica. La ragione di questo fatto è detta dai biologi convergenza. Il fenomeno della convergenza è molto interessante nel campo della biologia evolutiva, perché fornisce le proverbiali eccezioni che confermano la regola: tratti analoghi (convergenze) possono evolvere in modo indipendente in diverse genealogie semplicemente come risposta a problemi analoghi. Uccelli, pipistrelli, pterodattili e alcuni insetti sono tutti muniti di ali, ma non perché siano strettamente imparentati e abbiano ereditato le ali da un antenato comune, bensì solo perché volano tutti. Quando passiamo ad analizzare la matrice completa relativa a tutti i 103 stili di birra (le famiglie e gli stili principali contemplati dal BJCP e, in sostanza, quelli inclusi nella genealogia di popchartlab.com), la situazione si complica un po’. Per cominciare, che cosa possiamo usare come bevanda esterna al gruppo? Questa è una domanda difficile, perché se come bevanda esterna al gruppo ne scegliamo una troppo lontana (il latte, poniamo), la radice dell’albero risulterà aleatoria e priva di significato, mentre se scegliamo come riferimento esterno una bevanda annoverata tra le birre (il vino d’orzo, per esempio), corriamo il rischio di radicare arbitrariamente l’albero proprio in quei paraggi. A mo’ di compromesso, abbiamo provato a radicare il nostro albero usando due bevande legate da una parentela relativamente stretta: il Gruit e il vino. Poi, come già detto, si presenta l’inevitabile difficoltà, puramente computazionale, di esaminare 10100 alberi differenti. La computazione delle soluzioni per un numero così elevato di alberi pone quello che i matematici e gli informatici chiamano problema NP- completo: pur sapendo che esiste una soluzione finita al problema, non abbiamo la potenza di calcolo necessaria a trovarla, ragion per cui dovremo cercare un’altra via. In altre parole, con così tanti alberi da esaminare, abbiamo bisogno di scorciatoie metodiche per eliminare un gran numero di quegli alberi che sicuramente non possono contribuire alla soluzione. Una di queste scorciatoie metodiche per il radicamento dell’albero consiste nella semplice interposizione di una radice tra i due più grandi gruppi di birre (Lager e Ale) in cui si ritiene che tutte le altre birre debbano ricadere. In tal caso, si rischia di cadere nella trappola della competenza, finendo per presupporre ciò che speriamo di scoprire. Prima di radicare l’albero con questo metodo, quindi, sarà il caso di verificare la reale uniformità di ciascun gruppo. Un’ultima precisazione prima di addentrarci nell’analisi: con il numero limitato di caratteri che abbiamo a disposizione per la nostra filogenesi della birra, se si cambia il modo di analizzare l’albero (escludendo caratteri o birre dall’analisi) si otterranno alberi diversi. Ciò non significa che questo approccio sia fallace: semplicemente, ci invita a tener presente che i presupposti dell’analisi sono determinanti ai fini del suo risultato. Alla fine, tenendo come oggetto i caratteri taggati dal BJCP, abbiamo svolto due analisi: una con il Gruit e l’altra con il vino in funzione di bevanda esterna al gruppo. Nel vino, che viene prodotto in maniera molto diversa dalle birre, la determinazione degli stati dei caratteri è difficile e, in conclusione, più della metà dei caratteri risulta ambigua o assente. È un fenomeno che talvolta si verifica nell’analisi filogenetica, soprattutto quando sono presenti fossili incompleti, ma per fortuna sono stati sviluppati strumenti di calcolo per affrontare questo problema. Comunque, entrambe le analisi hanno mostrato che Lager e Ale formano due gruppi ben distinti. L’albero radicato con il vino è illustrato nella figura 14.5: in esso, tutte le Lager hanno origine da un unico nodo dell’albero, mentre le Ale derivano da un nodo diverso. È la conferma dell’esistenza di una netta separazione tra Lager e Ale, e questo potrebbe giustificare la collocazione della radice dell’albero a metà strada fra le Ale e le Lager, senza dover ricorrere ad alcuna bevanda esterna al gruppo. L’emanazione delle Ale e delle Lager da singoli nodi tra loro indipendenti richiama il fenomeno biologico della monofilia, per cui tutte le specie incluse in un particolare gruppo discendono da un unico antenato comune. La scoperta della natura monofiletica delle Ale e delle Lager conferma le precedenti valutazioni sull’omogeneità di questi gruppi. Per quel che riguarda le Ale, si osservano anche alcune significative somiglianze nei due alberi che abbiamo costruito con radici diverse. Per esempio, le IPA, le Stout, le birre acide, le birre storiche, le Ale belghe, le Ale americane e le Weissbier formano tutte dei gruppi monofiletici ben definiti. Se è vero, però, che le Ale formano grandi gruppi monofiletici in entrambi gli alberi, tra questi ultimi ci sono anche differenze, al di là delle IPA, delle Stout e delle Weissbier di cui sopra. Poiché ci sono tanti modi per classificare gli stili di birra, la differenziazione che va al di là di queste grandi categorie è difficile da determinare sulla base di questa analisi. Nonostante l’incertezza, però, siamo comunque in grado di elencare dodici grandi categorie di Ale, alcune molto diversificate, mentre altre abbracciano al massimo tre stili diversi. Figura 14.5. Albero filogenetico della birra ottenuto ponendo come radice il vino. I tre gruppi monofiletici di birre individuabili nel clade delle Ale sono Stout, IPA e Weissbier. La nostra suddivisione delle Lager in tre gruppi è discussa all’interno del testo.

Le nostre filogenesi prendono il via, per certi versi, dalle genealogie illustrate sulle magliette e sui poster di cui si è parlato. Per esempio, nella genealogia di popchartlab.com le Lager sono suddivise in tre principali diramazioni: americana, tedesca e Pilsner. La nostra filogenesi include quattro gruppi: Lager internazionali/americane, Lager ceche, Lager Bock/Dunkel e Pilsner. Una delle stranezze nel gruppo delle Lager è l’inclusione tra queste della Kölsch. Il fatto è sorprendente perché la Kölsch è una birra a fermentazione alta e non viene lagerizzata. Risulta, inoltre, che la Kölsch converge sulle Lager per quel che riguarda i vari caratteri della birra da noi selezionati, il che spiegherebbe la sua posizione evidentemente mediana nel diagramma di popchartlab.com. Anche le altre due varietà di birra solitamente considerate di transizione – la Porter baltica e la Cream Ale – hanno posizioni interessanti nella nostra filogenesi della birra. Sull’albero filogenetico, la Porter baltica, una birra più scura a fermentazione bassa, si colloca saldamente nel gruppo delle Bock/Dunkel, facendo sorgere qualche dubbio sul suo carattere di transizione. La Cream Ale, a fermentazione alta e di colore chiaro, è invece la prima birra esterna al gruppo delle Lager, e la sua posizione sull’albero è effettivamente di transizione. Ci sono altri modi per raffigurare le relazioni tra le birre a parte la costruzione di genealogie o alberi. Abbiamo, per esempio, la “tavola periodica degli stili di birra”, che raggruppa le birre e stabilisce tra esse relazioni attraverso le prossimità di diversi stili. Abbiamo anche visto, in precedenza, che alcuni studiosi di questioni evolutive preferiscono usare approcci che non ricorrono agli alberi, mettendo invece l’accento sulla parentela tra gli organismi. L’approccio STRUCTURE è ampiamente utilizzato negli studi evolutivi, e se il nostro obiettivo è quello di formare dei cluster, allora anche l’analisi delle componenti principali può tornare utile (vedi capitolo 5). Abbiamo provato ad applicare entrambi questi approcci alla birra, utilizzando lo stesso database usato per le nostre filogenesi. La nostra analisi STRUCTURE dei 103 stili di birra (più il Gruit, che fa 104) ipotizza l’esistenza di cinque popolazioni (K=5), come mostra la figura 14.6. I cinque gruppi sono: IPA, Stout, Lager e due gruppi di Ale eterogenei. Il primo di questi ultimi due gruppi comprende le belghe, le Gose e le Lambic, mentre il secondo raccoglie le scozzesi, le irlandesi e le Bitter. Di particolare interesse sono le bevande che non possono essere ascritte a un unico gruppo. Tra queste, all’estrema sinistra del diagramma, figurano le americane ambrate e quelle brune. Anche le birre eccentriche rispetto al gruppo belghe-Gose-Lambic sono eterogenee e comprendono la Pale Ale americana, la Ale bionda, la Weissbier e la Weizenbock. La California Common e la Dubbel belga figurano come casi limite nel gruppo scozzesi- irlandesi-Bitter. Tra le Lager, le intruse sono la Cream Ale e la Lager diffusa in America del Nord prima del proibizionismo. Le Stout sono facili da caratterizzare, mentre le birre americane hanno qualche tratto deviante che rende difficile una collocazione netta in un gruppo o nell’altro. In altre parole, hanno – per esempio – alcuni tratti delle IPA, ma hanno assunto alcune caratteristiche da altri gruppi. È curioso che le Cream Ale si trovino nel gruppo delle Lager (anche se con qualche distinguo), perché di fatto non sono lagerizzate. Figura 14.6. Analisi STRUCTURE di 104 stili di birra, con 5 popolazioni presupposte (K=5). I cinque gruppi che emergono sono le IPA, le Stout, le Lager e due gruppi eterogenei di Ale, il primo dei quali comprende le belghe, le Gose e le Lambic, mentre il secondo include le scozzesi, le irlandesi e le Bitter.

Le analisi delle componenti principali (figura 14.7) sono di più difficile interpretazione, perché i cluster per molti aspetti si sovrappongono. Per mostrare quanto siano poco distinti i vari cluster, abbiamo generato delle analisi PCA incentrate su lagerizzazione, stile, origine geografica e forza. I due grandi cluster – quello delle Lager e quello delle Ale – sono ben definiti, come previsto, con poche sovrapposizioni, a conferma dei risultati degli altri tipi di analisi. Molte di queste osservazioni sono ragionevolmente in accordo con alcuni altri modi di raggruppare le birre, ma l’aspetto particolarmente interessante è che l’accordo non è generale. Quando si ha a che fare con la birra, evidentemente, le cose sono sempre complicate. Figura 14.7. Alcune analisi delle componenti principali della birra, incentrate sulla lagerizzazione (in alto a sinistra), sullo stile (in basso a sinistra), sull’origine geografica (in alto a destra) e sulla forza (in basso a destra).

Va notato che questa non è l’unica circostanza in cui la PCA sia stata applicata al contesto della birra. Gli addetti al marketing e alla pubblicità l’hanno usata per esaminare le preferenze di diverse categorie di consumatori, e la vedremo impiegata sempre più spesso, dato che anche produttori e distributori cercano di raffinare la loro conoscenza dei mercati su cui operano. L’analisi filogenetica può essere svolta con dati di qualsiasi tipo, ma dà risultati significativi solo a certe condizioni. Per approfondire la questione, abbiamo fatto un tour di degustazioni nella Repubblica Ceca e nel sud della Germania (un viaggio che è coinciso, casualmente, con l’apertura dell’Oktoberfest a Monaco di Baviera). Il nostro obiettivo era quello di assaggiare, in un arco di sette giorni, il maggior numero possibile di birre per poi classificarle secondo i metodi filogenetici. Invece di ricorrere a preesistenti repertori di stili come abbiamo fatto per il nostro precedente albero filogenetico, abbiamo usato un metodo diverso per caratterizzare le birre da noi assaggiate: un metodo che impiega una variante della ruota dei gusti di Morten Meilgaard discussa nel capitolo 11 (figura 14.8). La particolare ruota del gusto da noi utilizzata è tratta da 33books.com, e la raccomandiamo a chiunque voglia tenere traccia delle birre degustate. In questa ruota, le caratteristiche di una data birra vengono valutate in senso orario, a partire dal punto più alto del quadrante, in base ai seguenti caratteri: fruttato/esterizzato, alcolico/solvente, fruttato/citrico, luppolato, floreale, speziato, maltato, toffee, bruciato, solforoso, dolce, acido, amaro, astringente, corposo e persistente. Ai vari caratteri abbiamo assegnato un punteggio da uno a cinque, e per annotare i valori dovevamo prima trovarci d’accordo. Come esempio delle nostre valutazioni, mostriamo nella figura 14.8 una birra che ci è davvero piaciuta e un’altra che a malapena siamo riusciti a finire (anche se ci siamo fatti forza e siamo arrivati in fondo). Figura 14.8. La ruota dei sapori (secondo 33books.com) che mostra le sedici categorie di gusto da noi valutate nella degustazione di oltre cinquanta birre della Germania meridionale. In alto a sinistra, una ruota “pulita”. La ruota in alto a destra è relativa a una birra che ci è piaciuta, mentre in basso al centro è rappresentata una birra che siamo riusciti a finire solo a fatica. Per quanto riguarda le birre degustate, non faremo nomi.

La ruota dei sapori è visivamente un ottimo modo di rendere la reazione di un assaggiatore, e ben presto è apparso chiaro che quanto più i raggi della ruota erano pronunciati, tanto più la birra in questione era di nostro gradimento. Abbiamo anche notato che potevamo facilmente prendere i punteggi della ruota di una birra e trasformarla in una matrice filogenetica per costruire un albero delle birre da noi assaggiate. Qui di seguito, riportiamo le valutazioni per le due birre da noi scelte, con i loro caratteri elencati come se fossero in senso orario: Kozel Dunkel 1 1 1 2 1 1 4 2 3 1 4 1 2 1 2 3 Redgast 1 1 4 2 1 2 1 1 1 1 2 1 2 2 2 3

Dopo di che, abbiamo utilizzato questi punteggi per compiere un’analisi filogenetica che ha fornito i risultati illustrati nella figura 14.9. Ci ha fatto piacere scoprire che il diagramma ramificato così ottenuto rifletteva piuttosto correttamente la nostra preferenza soggettiva, non solo riguardo alle specifiche birre da noi assaggiate, bensì anche riguardo agli stili. Siamo rimasti sorpresi nel vedere la nettezza con cui l’analisi divideva le birre tra quelle che avevamo gradito (gruppo grigio chiaro) e quelle che abbiamo semplicemente tollerato (gruppo grigio scuro). Interessante notare che la maggior parte delle Pils, delle Helle e delle birre dell’Oktoberfest degustate sono finite nel gruppo delle “semplicemente tollerate”. Erano tutte birre buone, ma quelle da noi preferite erano tutte più scure, più luppolate e, in generale, più affumicate. Uno strano gruppo era formato da una IPA, tre Pilsner e una Pale Ale, tutte piuttosto amare. Due birre alla base dell’albero – entrambe Pilsner del birrificio Gambrinus di Plzeň – ci sono sembrate davvero straordinarie. E tre altre birre – due Ale e una Kellerbier – sono risultate non meno eccezionali. La loro posizione ben distinta da quella di tutte le altre birre dell’albero dipende molto probabilmente dai gusti insoliti ma apprezzabili che vi abbiamo ritrovato. Figura 14.9. Albero delle birre che abbiamo degustato nel sud della Germania nel 2017. Dopo aver assegnato dei punteggi sulla ruota del gusto alle circa cinquanta birre, abbiamo analizzato i dati con il criterio di parsimonia. Come radice dell’albero abbiamo scelto una birra alla Cannabis. Usando questo metodo, sono emersi due grandi gruppi. La clade, o gruppo, grigio scuro include molte delle birre da Oktoberfest che abbiamo assaggiato. La clade grigio chiaro comprende le birre che ci sono piaciute di più, dal gusto forte. Una clade più piccola racchiude birre che non ci sono parse particolarmente degne di nota (clade nera), ed esiste anche una clade da due sole birre che mette in relazione le principali Pils gustose (clade bianca).

Figura 14.10. Il disegno della nostra T-shirt, in generale accordo con i risultati filogenetici illustrati in questo capitolo.

Abbiamo cominciato questo capitolo con una descrizione dei poster e delle magliette che raffigurano le genealogie delle birre. Terminiamo, ora, con un progetto per una nostra maglietta (figura 14.10). Invece di suddividere i vari stili di birra in sottogruppi, abbiamo privilegiato una tassonomia della birra che abbracciasse cinque importanti gruppi di Ale (Stout, belghe, Weissbier, scozzesi e IPA) e tre importanti gruppi di Lager (scure, ambrate e chiare). Quindi, sulla base dell’albero filogenetico rappresentato nella figura 14.5, abbiamo assegnato a questi gruppi le categorie di birra riconosciute dal BJCP. Abbiamo anche messo in evidenza due casi “ibridi”: la Kölsch e la Cream Ale. Poiché però, ovviamente, de gustibus non disputandum est, ognuno è libero di pensarla come gli pare. Capitolo 15 Gli uomini della rinascita

Abbiamo aperto la bottiglia e versato il liquido giallo topazio nei bicchieri, dove si è formata una leggera schiuma. All’olfatto sono emerse fragranze tutt’altro che familiari, e avremmo quasi detto che non si trattava di birra. Sul palato, però, questa deliziosa bevanda si è rivelata tutta fiori, pesche e miele, e la finitura è durata in eterno. La ricetta di questa birra è stata ricostruita con un po’ di immaginazione a partire dall’analisi dei residui chimici presenti all’interno di antichi recipienti di metallo ritrovati in una tomba frigia del tardo VIII secolo a.C., che potrebbe essere la sepoltura del leggendario re Mida. Se così fosse, se la passava bene, il vecchio Mida. Le origini del movimento americano che ha riportato in auge la birra artigianale affondano nel rifiuto delle procedure industriali. E poiché un’esigenza intimamente associata era quella di esplorare le antiche radici artigianali della produzione di birra (non necessariamente per tornare una volta per tutte alle vecchie usanze) ben presto qualcuno si è provato a produrre birra alla maniera antica. Un compito più complicato di quel che si potrebbe immaginare: la sola traccia fisica che abbiamo delle prime birre è quella lasciata dai residui chimici rimasti nel vasellame rinvenuto dagli archeologi, e tali residui, purtroppo, danno un’idea molto vaga degli ingredienti originali e della complessità chimica della birra ormai svanita (vedi capitolo 2). Abbiamo, però, anche notizie documentali sulla produzione di birra nell’antichità, e non sorprenderà, quindi, che il primo tentativo compiuto in America per riportare in vita una birra dalla notte dei tempi veda coinvolta Ninkasi, la divinità sumera della birra (IV millennio a.C.) celebrata nell’inno da noi già citato. Nel 1989 Fritz Maytag, un giovane e facoltoso imprenditore che aveva da poco acquistato e rivitalizzato la veneranda Anchor Brewing Company, si imbatté in un articolo pubblicato nel 1987 da Sol Katz, un antropologo di Filadelfia. Nel suo pezzo, Katz sosteneva che l’accantonamento di cereali in grani per la produzione di birra era stato un fattore propulsivo cruciale per la rivoluzione agricola; a supporto di questa sua tesi citava la traduzione dell’Inno a Ninkasi eseguita un paio di decenni prima da Miguel Civil, assirologo dell’Università di Chicago. Lavorando a stretto contatto con Katz e Civil, Maytag ricavò una ricetta della birra di Ninkasi compatibile con gli atti della dea descritti nell’inno. Maytag ne produsse e ne imbottigliò una partita, caratterizzata da un rispettabile contenuto alcolico del 3,5 per cento in volume, e la presentò al convegno annuale della American Association of Microbrewers. Chi ebbe la fortuna di essere presente poté assaggiare l’arcaica bevanda da grandi giare, per mezzo di lunghe cannucce «simili alle cannucce d’oro e lapislazzuli ritrovate nella tomba della regina Pu-Abi a Ur». Le bottiglie rimaste furono aperte sette mesi dopo per un gruppo riunito a Filadelfia, al Museo di Archeologia e Antropologia dell’Università della Pennsylvania. Benché fosse stata tenuta in fresco, la birra di Ninkasi era svaporata, ma quel che era rimasto fu dichiarato «simile a sidro di mele alcolico», con un «gusto secco e privo di amarezza». Patrick McGovern, direttore del museo, le ha attribuito «la delicatezza e l’effervescenza dello champagne e un lieve aroma di datteri». È difficile credere che, per quanto inconsciamente, la moderna competenza birraria non sia in qualche misura intervenuta nella produzione di una birra antica tanto buona, se dobbiamo credere agli encomi. Tuttavia, ignorando le obiezioni dei guastafeste, secondo i quali non è dimostrato che il prodotto babilonese contenesse alcol, è probabile che gli adoratori di Ninkasi sorbissero una bevanda degna del massimo rispetto. Di certo, sarebbe altrimenti difficile comprendere il traboccante entusiasmo dell’antico poeta per questa roba: «Mi aggiro contento / bevendo la birra felice / la birra bevo allegro, / col cuore allegro, / col cuore allegro, ed euforico». In seguito, molti altri appassionati, negli Stati Uniti come in Europa, hanno tentato di riprodurre birre antiche. In Egitto, per esempio, le condizioni particolarmente secche hanno favorito una conservazione eccezionale dei luoghi in cui anticamente si produceva la birra e, persino, di campioni delle delicate materie prime utilizzate. Negli anni Novanta, un’équipe di archeologi diretta da Barry Kemp dell’Università di Cambridge ha portato alla luce diversi birrifici antichi nel sito di Amarna, risalente al Medio Regno (2160-1785 a.C.), dove l’archeobotanico Delwen Samuel ha identificato tracce di orzo (o farro) maltato che era stato riscaldato, poi setacciato per rimuovere i tegumenti. Non c’erano, invece, residui di miele o di succo di datteri, il che ha indotto Samuel a ipotizzare che il geroglifico solitamente tradotto con “datteri” nelle ricette delle antiche birre egizie possa semplicemente significare “dolcezza”, come quella che si ricava già dal solo malto. Ciò induceva a immaginare una bevanda molto diversa da quella diffusa tra i sumeri, e Kemp si è presentato alle Scottish and Newcastle di Edimburgo per vedere se fosse possibile ricrearla. Dopo attente valutazioni, un’équipe dei birrifici Scottish and Newcastle, sotto la direzione di Jim Merrington, ha prodotto una birra, con un 6 per cento in volume di contenuto etilico, a partire dal farro maltato, insaporita con coriandolo e ginepro, ma senza dolcificanti. Sono state prodotte mille bottiglie di questa Tutankhamun Ale, poi vendute a un prezzo stratosferico presso i famosi grandi magazzini Harrod’s di Londra. Si dice che la birra avesse un colore dorato, benché fosco, e un gusto «fruttato, di grano, con carattere astringente al caramello/toffee, dolce/speziato, e finitura secca». Le Scottish and Newcastle Breweries non ne hanno più prodotta… e dal 2009, purtroppo, hanno chiuso i battenti. Altri, però, hanno raccolto il testimone. Nel 2010, a Denver, per celebrare l’inaugurazione della mostra archeologica itinerante su Tutankhamon, la locale Wynkoop Brewery ha prodotto una Tut’s Royal Gold usando ingredienti ampiamente disponibili nell’antico Egitto. La base fermentabile era costituita da malto d’orzo chiaro, frumento, un cereale locale chiamato teff e miele; e per insaporirla sono stati usati tamarindo, coriandolo, grani del paradiso, buccia d’arancio e petali di rosa. Non esistono prove archeologiche per sostenere che questa ricetta sia mai stata usata, tale e quale, nell’antico Egitto, ma la combinazione di ingredienti ci sembra adeguata allo spirito dell’iniziativa. E se non vi basta potete provare, dello stesso birrificio, una Rocky Mountain Oyster, con un contenuto etilico di 7,2 per cento in volume e 3 BPB (balls per barrel, dove le balls in questione sono i testicoli di toro). In Scozia, la Williams Brothers Brewery non solo ha sede negli edifici dello storico birrificio di William Younger, ad Alloa, ma produce anche una gamma di Ale ispirate ad archetipi antichi. La più famosa tra queste è la Fraoch Heather Ale, una Gruit Ale che – si dice – si rifarebbe alla tradizione delle bevande consumate a Skara Brae 2500 anni fa circa e di cui si sono trovati i residui. La Fraoch viene prodotta aggiungendo mirto di palude ed erica in fiore al malto in ebollizione, che viene poi lasciato raffreddare per un’ora in un tino con fiori di erica freschi prima di dare inizio alla fermentazione. Con un vezzo più moderno, la Fraoch viene messa a maturare in botti di quercia precedentemente usate per l’invecchiamento dello sherry e del whisky di malto. Il risultato è una Amber Ale intensa con aromi di whisky e di erbe e una finitura dolce tipo vino d’orzo. Per quanto soddisfacente al gusto, questa è una birra che si ispira a una tradizione, ma non certo una replica accurata di un Gruit antico. Da allora, tanti altri si sono cimentati nell’impresa di produrre birre antiche, e su Internet c’è sovrabbondanza di consigli per chiunque sia tentato di provarci a casa propria. Nessuno, però, si è dedicato alla riproduzione di antiche birre con la tenacia, l’energia, la competenza e la cura per la massima autenticità (temperata dalla conoscenza dei gusti dei moderni bevitori di birra) dimostrate dall’archeologo biomolecolare Patrick McGovern e dal suo collaboratore Sam Calagione, fondatore e mastro birraio della Dogfish Head Brewery, nello Stato americano del Delaware. McGovern è il più importante esperto mondiale sulla composizione delle antiche bevande fermentate, mentre Calagione è unanimemente considerato uno dei più creativi e interessanti produttori di birre artigianali negli Stati Uniti. Verso la fine degli anni Novanta, i due si sono imbarcati nell’ambizioso tentativo di riportare in vita antiche birre di cui si erano trovate tracce nei siti archeologici di tutto il mondo: un’avventura ottimamente raccontata, con tanto di ricette della birra (e, per gli epicurei, anche del cibo), nell’affascinante libro di McGovern, intitolato Ancient Brews. L’impresa ha avuto inizio quando a McGovern è stato chiesto di analizzare i residui chimici rinvenuti all’interno di recipienti di metallo (a Gordio, nell’odierna Turchia) dai componenti di una spedizione del Museo di Archeologia e Antropologia dell’Università della Pennsylvania. In epoca classica, Gordio era la capitale del regno frigio che, nel tardo VIII secolo a.C., era retta da un certo re Mida, da alcuni identificato con il leggendario monarca che al tatto trasformava ogni cosa in oro. Un tumulo rinvenuto in loco nascondeva un vano centrale riservato alla sepoltura che conteneva i resti di un individuo di genere maschile, morto all’età di sessantacinque anni, e una vasta collezione di accessori per bere, da cui si è desunta la datazione del sito all’VIII secolo a.C. Evidentemente, i pentoloni, le giare e le coppe usate al banchetto funebre in onore del regale occupante della tomba (Mida o, forse, il suo progenitore Gordio), e i cibi e le bevande avanzati erano stati sepolti con lui, nei loro recipienti originali, come viatico per il suo viaggio nell’aldilà. In un quarto dei recipienti di bronzo rinvenuti nella tomba sono stati trovati i residui gialli di antiche bevande evaporate. Con una varietà di strumenti scientifici, McGovern e colleghi hanno dimostrato che quei residui contenevano acido tartarico. In Turchia questo composto si ritrova comunemente nell’uva, e ciò fa supporre che i recipienti fossero usati per bere un qualche tipo di vino. Alcuni composti della cera d’api hanno tradito la presenza di miele, e i test hanno infine identificato tracce di ossalato di calcio, a testimonianza di un’antica presenza di orzo. I vari recipienti hanno fornito risultati omogenei, e ciò fa presumere che tutti avessero bevuto una bevanda fermentata mista, con elementi del vino, dell’idromele e della birra. Davvero una bevanda estrema. Questa scoperta si è rivelata molto preziosa sul piano archeologico, ma in vista della riproduzione dell’antica bevanda c’erano molte domande ancora senza risposta, come McGovern spiega nel suo Ancient Brews. In quali proporzioni erano mischiati gli ingredienti principali? Che cosa aveva dato al residuo il suo colore giallo intenso? Gli ingredienti venivano preparati separatamente e poi mescolati o venivano trattati tutti insieme? Da dove proveniva il lievito? Che tipo di cereale veniva usato? E quale tipo di miele? Quali uve? E si trattava di uva fresca o passa? E il prodotto finale era frizzante? In mancanza di risposte a queste e ad altre domande, nessuno poteva essere certo che la riproduzione di tale bevanda assomigliasse tanto o poco all’originale. Tuttavia, il successo di ogni impresa birraria è sempre e solo dovuto – oggi come allora – alla sensibilità e all’abilità del birraio, che non è meno importante degli ingredienti inerti. L’idea di ricreare la birra funeraria del re nacque da una sfida che McGovern aveva proposto ai birrai artigianali riuniti al museo dell’Università della Pennsylvania nella primavera del 2000 per una degustazione pubblica cui partecipava l’esperto di birre e scotch Michael Jackson. Fu Calagione a vincere la gara, con una bevanda che incorporava come amaricante un costosissimo zafferano dall’intenso colore giallo. Impiegò anche miele greco al timo, uve Moscato, un lievito di idromele e una varietà di orzo a due file. Pur utilizzando i tre ben noti ingredienti – per quanto impropriamente, dato che noi moderni tendiamo a collocare l’idromele, la birra e il vino in tre scompartimenti separati della nostra mente – Calagione riuscì a produrre una bevanda di un giallo dorato chiaro dal notevole contenuto alcolico (9% vol.), aromatica e ben equilibrata. Inizialmente dolciastra, con sapori di biscotto e di miele, risultava dotata di una finitura pulita e secca. E diventò immediatamente famosa. A quasi vent’anni di distanza, la Dogfish Head continua a commercializzarne una versione modificata: la Midas Touch. Imbaldanziti da questo successo, McGovern e Calagione si sono proposti di ricreare la birra più antica a noi nota, di cui era stata rinvenuta traccia nel sito archeologico di Jiahu (Cina centrosettentrionale), risalente a circa novemila anni fa. Negli scavi lì compiuti erano stati portati alla luce recipienti di terracotta con residui di sostanze in parte simili a quelle rinvenute nelle giare di Mida. Come già a Gordio, anche qui la presenza di cera d’api indicava l’utilizzo del miele, e l’acido tartarico era segno che si era usato il frutto del biancospino o uva o entrambe le cose (in Cina, i frutti del biancospino hanno un contenuto di acido tartarico triplo rispetto a quello dell’uva locale). Tuttavia, il terzo ingrediente fondamentale era sì un cereale, ma non l’orzo, bensì il riso. Data la complessa composizione di questa bevanda, McGovern decise di non chiamarla birra, bensì Grog neolitico (così come aveva definito Grog frigio la bevanda di Mida). Ipotizzò che la presenza di queste multiple fonti di zucchero indicasse la volontà dei suoi antichi produttori di accrescerne il più possibile il contenuto alcolico, oltre a offrire tutta una serie di altre delizie sensoriali, appellandosi all’uso documentato, nella Cina antica e moderna, di un’ampia gamma di erbe e microorganismi per favorire la saccarificazione e la fermentazione. Grog o meno, McGovern si è di nuovo rivolto all’esperto Sam Calagione e alla sua équipe per ricreare quest’antica bevanda. Dopo svariate sperimentazioni, tra cui il tentativo di convertire gli amidi del riso in zucchero usando degli impasti di muffe (qu) come quelli usati per fare il vino di riso, l’équipe si è infine attestata su un protocollo che prevedeva quattro ingredienti fondamentali: bacche di biancospino (essiccate e in polvere, per ragioni legali), uve Moscato, miele ai fiori d’arancio e malto di riso gelatinizzato (con tegumenti esterni e crusca). I quattro ingredienti sono stati brassati tutti insieme, utilizzando inizialmente il lievito di sakè, per poi passare a un lievito di Ale americana dopo che svariati tentativi di fermentazione non sono andati a buon fine. Non sono state aggiunge erbe, perché il loro uso da parte degli antichi brassatori di Jiahu è solo un’ipotesi. Dodici giorni di fermentazione hanno portato l’alcol al 10-12 per cento, e la miscela così ottenuta è stata affinata in cisterna per quattro giorni a temperatura ambiente e per altri quarantasei a temperatura ridotta. Si è lavorato molto di fantasia, ma McGovern è convinto che le bottiglie di Chateau Jiahu contengano una bevanda ragionevolmente simile a quella degustata dalle antiche genti di Jiahu. Quando si stappa una bottiglia (cosa che di certo gli abitanti di Jiahu non potevano fare) e si versa la bevanda in un bicchiere, si noterà anzitutto il colore giallo intenso e la formazione di una lievissima spuma in superficie, come con lo champagne. Al palato, ha un profilo gustativo agrodolce, che – come McGovern fa giustamente notare – è un accompagnamento ideale per la cucina cinese. La Chateau Jiahu ha vinto svariati premi, e McGovern la considera la più riuscita tra le tante birre da lui ricreate. Anche in questo caso, però, va detto che la competenza moderna è intervenuta a colmare tutte le lacune della nostra conoscenza dei processi produttivi originali, e non potremo mai sapere quanto davvero questa bevanda sia simile a quella evaporata dalle terrecotte di novemila anni fa. McGovern e Calagione hanno poi insistito nei loro tentativi di ricreare birre antiche di varie parti del mondo. Come lo stesso McGovern riconosce, però, non hanno avuto lo stesso successo con la Dogfish Ta Henket (birra di pane), che mirava a catturare lo spirito dell’antichissima tradizione birraria egizia. I brassatori hanno utilizzato residui provenienti da tre diversi siti e periodi e ne hanno ricavato una ricetta che comprendeva malto d’orzo, i frutti della palma doum, pane di farro, za’atar (una mistura di spezie) e camomilla: questa miscela veniva poi messa a fermentare usando il lievito recuperato dai moscerini della frutta catturate in un’oasi di palme da dattero. Come generica ricostruzione di una lunga e variegata tradizione birraria, il prodotto non era tanto sbagliato. Purtroppo, però, i gusti pungenti di frutta e soprattutto di erbe della Ta Henket non hanno incontrato lo stesso favore della fragrante Chateau Jiahu. Ancora più stravagante era una bevanda che non è mai arrivata sul mercato: una birra tipo Chicha di mais, ispirata alla bevanda consumata ai tempi dell’impero inca. Oggigiorno, i peruviani di lingua quechua producono molte versioni di questa bevanda, facendo germogliare il granturco con un processo analogo al maltaggio dell’orzo. Anticamente, però, lo stesso risultato lo si otteneva estraendo zuccheri dal granturco usando gli enzimi della saliva; in altre parole: «masticando e sputando» (vedi capitolo 2). Nel 2009 McGovern e altri hanno compiuto l’eroico tentativo di produrre una Chicha in questa maniera antichissima, masticando e sputando, nell’arco di otto ore, un mucchio di grani di mais peruviano, per poi mescolare i resti masticati con una purea di bacche di pepe e fragole selvatiche. «Per evitare di essere accusati di voler avvelenare la popolazione» scriveva McGovern «ci siamo premurati di bollire la miscela.» La fermentazione è stata ottenuta a partire da lievito di Ale americana, e l’8 ottobre 2009, in coincidenza con presentazione del libro di McGovern Uncorking the Past, questa birra, con il suo intenso color cremisi e un contenuto alcolico del 5,5 per cento in volume, era pronta per essere bevuta. Gli intervenuti al Great American Beer Festival, quell’anno, fecero la fila per poter gustare quel che ne era rimasto. Le successive versioni, ahinoi, sono state prodotte con frutti di annona muricata quale fonte di zucchero. Nel corso degli anni McGovern e Calagione hanno ricreato svariate altre birre antiche (ed estreme), tra cui la popolare Theobroma, sulla base di una birra maya al cioccolato, e un kvasir vichingo in cui figurano, insieme, malti di frumento e di orzo, diverse varietà di mirtillo rosso, miele, linfa di betulla, mirto di palude e centofoglie. Poiché molta parte del processo di produzione della birra non è desumibile dalla mera lista degli ingredienti che le analisi chimiche possono (almeno in parte) individuare, e poiché i documenti scritti sono scarsi o inesistenti, queste birre sono state prodotte secondo lo spirito del modello originale, pur non essendo necessariamente delle repliche fedeli. Questo esercizio ha dato vita a bevande estremamente interessanti, senza le quali il mondo sarebbe un luogo sicuramente più povero, ma per avere un’idea verosimile dell’originale avremmo bisogno di una ricetta scritta: un lusso non disponibile per le birre veramente antiche. Persino nell’elaborato Inno a Ninkasi mancano dettagli essenziali.

Siamo a corto di informazioni anche per quel che riguarda alcuni stili di birra storicamente importanti che sono caduti nel dimenticatoio o sono cambiati al punto che, anche se ne sopravvive il nome, nessuno sa più, di preciso, come fosse fatta la versione originale o che gusto avesse. Questo discorso vale senz’altro per una delle birre artigianali oggi più vendute: la India Pale Ale (o IPA). Come abbiamo visto nel capitolo 3, le IPA erano delle Ale inglesi forti, maltate e luppolate che risultavano miracolosamente migliorate dopo il travagliato viaggio nelle stive delle navi che dall’Inghilterra, doppiato il capo di Buona speranza, giungevano in India. Benché i colonizzatori e altri bevitori di birra ne fossero entusiasti, lo stile IPA venne progressivamente accantonato nel corso del XIX secolo: mutamenti di gusti e severissime misure fiscali portarono alla sua sostituzione con birre più blande e con meno carattere. Agli albori del XX secolo, solo i bevitori di birra più vecchi potevano dire di averla assaggiata. Proprio per questo Pete Brown, scrittore inglese esperto di birra, ha cercato all’inizio del XXI secolo di scoprire com’era la IPA classica, e come mai il suo profilo gustativo risultasse trasformato dal periglioso viaggio per mare. Per rispondere a queste domande, ha fatto produrre una birra secondo la ricetta dello stile IPA originale e l’ha trasportata via mare in India, compiendo un’impresa da lui stesso narrata nel suo libro Hops and Glory. Brown ha potuto imbarcarsi in questa avventura solo grazie alla generosa collaborazione di alcuni colleghi che resistevano in ciò che rimaneva della famosa Bass Brewery di Burton-on-Trent, nell’Inghilterra centrale. Le IPA erano state inventate a Londra, ma il principale centro di produzione si era successivamente spostato a Burton, e la Bass ne era divenuta presto la principale produttrice. Negli archivi della Bass esisteva ancora la ricetta dettagliata della Bass Continental, una versione tarda dello stile IPA che veniva esportata in Belgio intorno al 1850, e questa è stata la base per una replica della IPA prodotta con le più vecchie strumentazioni disponibili. È stato usato l’aromatico luppolo Northwood, insieme a malti chiari e cristallizzati, due ceppi di lievito tradizionali di Burton e – elemento forse più di tutti essenziale – acqua di pozzo di Burton, ricchissima di gesso. Dopo una rifermentazione in cisterna di alcune settimane, cinque galloni della Ale così prodotta sono stati travasati in una piccola botte per il trasporto in India. Secondo Brown, appena uscita dalla cisterna, la bevanda aveva un colore ambrato cupo, con un «intenso bouquet di aromi di frutta e verdura tropicali». C’era però anche «una punta amara, resinosa» al gusto, e una finitura appena «scorciata». La replica della Bass Continental non era certo una Ale dall’equilibrio ideale, in questa fase, ma non importava: l’importante era il gusto della birra al suo arrivo in India. La storia di quel viaggio è un susseguirsi di problemi e casi sfortunati. In particolare, la botte originale esplose in un caldissimo appartamento alle isole Canarie e dovette essere sostituita con un barilotto di metallo. Riempito (in Inghilterra) con birra della stessa partita, il nuovo contenitore raggiunse la nave di Brown in Brasile. A quel punto restava ancora da fare un lungo viaggio attraverso l’Atlantico e intorno al capo di Buona speranza, senza contare che il barilotto e il suo custode, nel loro lungo viaggio per mare fino a Bombay, e poi via terra fino a Calcutta (sede della Compagnia delle Indie Orientali ai tempi delle prime IPA) dovettero sopportare un bel po’ di sballottamenti. Giunta a destinazione, quattro mesi e molte migliaia di miglia marine dopo l’ingresso nel tino di fermentazione, la birra ebbe a malapena il tempo di posarsi, e subito il barilotto fu inaugurato, schizzando schiuma pressurizzata a grande distanza. Non il migliore degli auspici, forse, ma così racconta il momento l’autore di Hops and Glory:

Alla mescita aveva un intenso colore ramato, leggermente offuscato dal peso stesso del luppolo. All’olfatto era una delizia assoluta: dapprima, un pungente aroma di agrumi, seguito da un più intenso profumo di macedonia tropicale di mango e papaya. [Poi] sulla mia lingua è esploso un ricco gusto di frutta matura, stagionato, con un tocco di pepe. Quella punta di amaro e di luppolo si è attenuata, e il malto ha infine avuto la meglio sull’attacco del luppolo […]. C’era una traccia delicata di caramello […] la finitura era vellutata e secca, pulita e stuzzicante. E, diamine, come andava giù, nonostante il suo notevole 7 per cento di alcol!

Dopo tutti i travagli e le tribolazioni che gli era costata, Brown riconosce di essere stato forse incline a dare un giudizio positivo sulla sua IPA, ma i suoi compagni alla cerimonia della spillatura non sono sembrati meno entusiasti di lui. Inoltre, confrontando le due valutazioni della birra all’inizio e alla fine di quell’epico viaggio, si giunge a due punti fermi irrevocabili: primo, il viaggio aveva davvero trasformato la birra; secondo, il risultato di questa operazione era delizioso. Evidentemente, nella birra come in ogni altra cosa, progresso e miglioramento non sempre sono sinonimi. Capitolo 16 Il futuro della birra

In un’epoca in cui i microbirrifici prosperano nell’ombra sempre più lunga proiettata dai megabirrifici industriali, predire il futuro della birra è quantomeno complicato. Ci siamo perciò affidati alle facoltà noetiche dei Tre Filosofi che campeggiano sull’etichetta dell’eponima birra che avevamo davanti. Aromatizzata con un tocco di Kriek belga, questa Quadrupel prodotta nello Stato di New York aveva alla mescita un color castano intenso, con una schiuma cremosa e un vaghissimo accenno di quelle ciliegie fra i tratti salienti. La cascata di gusti maltati era perfettamente equilibrata, e la finitura non può che descriversi come “oleosa”. Una vera bellezza. La gioiosa lezione impartita da questa birra ibrida ci è sembrata la seguente: nonostante le incertezze sul futuro della birra, il genio e l’inventiva dei mastri birrai saranno sempre irrefrenabili. Prima di provare a predire il futuro, conviene sempre studiare il passato. E nel caso della birra il passato recente è stato ricco di eventi. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, infatti, si sono sviluppate due tendenze distinte e in origine opposte che hanno finito per intrecciarsi. Negli Stati Uniti, alla fine del proibizionismo, la produzione di birra ebbe una breve fioritura. Lo slancio, però, si esaurì presto, e molti piccoli birrifici dovettero chiudere o vennero assorbiti dagli emergenti giganti del settore (vedi capitolo 3). La birra si trasformò in merce pura e semplice, e negli anni Settanta il mercato era ormai dominato da una manciata di grandi produttori. A quel punto ebbe inizio la famigerata guerra della birra: la Anheuser-Busch di Saint Louis partì all’attacco con un cospicuo budget pubblicitario e una determinazione feroce che quasi nessun rivale fu in grado di contrastare. Tra i produttori nazionali di birra, solo la Miller di Milwaukee riuscì a resistere, inizialmente perché era di proprietà della Philip Morris, la megaimpresa del tabacco, e in seguito per aver scaltramente approfittato della mania della birra light inaugurata nel 1975 con il lancio della Miller Lite, ispirata a una Lager tedesca particolarmente scialba. Il genio dei pubblicitari trasformò un prodotto anonimo nella birra più ricercata sul mercato, e si scatenò un duello, costellato di azioni legali, tra la Miller e la sua rivale di Saint Louis, mentre nomi magici ed evocativi come Schlitz, Pabst e Rheingold cadevano nel dimenticatoio. Negli anni Ottanta, un solo altro importante produttore di birra, Coors, era riuscito in qualche modo a rimanere a galla. Di lì a poco, queste tre grandi case controllavano l’80 per cento del mercato americano della birra. Qualcosa di simile stava accadendo anche sull’altra sponda dell’Atlantico. In Inghilterra, appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, furono introdotte le Ale in fusto, filtrate, pastorizzate e pressurizzate con anidride carbonica. Inizialmente destinate all’esportazione, queste birre si diffusero sul mercato interno negli anni postbellici per i vantaggi che offrivano a chi le produceva, a chi le distribuiva e a chi le vendeva al dettaglio. Le più interessanti Ale affinate in botte, da cui le birre da fusto discendono, hanno sempre richiesto tanto lavoro, sia ai birrai sia ai gestori dei pub, che dovevano e devono continuamente curarle e tenere puliti i tubi lungo i quali la birra dalle botti, stivate in cantina, arriva al bancone del bar. Per la nuova generazione postbellica di gestori di pub, e per i birrifici con cui quasi tutti i pub lavoravano, era molto più semplice servire e trasportare le Ale da fusto più blande e, nella maggior parte dei casi, decisamente fiacche. Inoltre, queste Ale potevano trasformarsi in marchio ed essere distribuite a livello nazionale, un fatto che incoraggiò la fusione dei birrifici regionali per formare dei colossi nazionali, noti nel Regno Unito come i Big Six. Intorno alla metà degli anni Settanta, le Ale in fusto contavano per più della metà delle vendite di birra nei pub, nonostante il numero di marchi disponibili si fosse ridotto del 50 per cento tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta. E a preoccupare ulteriormente gli amanti della tradizione fu la progressiva diffusione nei pub – oltre che nei supermercati – delle birre in bottiglia, facili da distribuire e da servire. Ad aggravare il problema, poi, intervenne un altro fattore. I birrifici britannici si erano sempre caratterizzati come produttori di birra, ma nel corso del tempo hanno sviluppato significativamente i loro interessi immobiliari con l’acquisto di un gran numero di pub e di impianti produttivi. I predatori non potevano ignorare a lungo questa ricca prateria e, a partire dagli anni Sessanta, la canadese Carling, una delle più grandi aziende del settore, diede il via a una campagna acquisti che portò, in conclusione, all’emergere dei Big Six, facendo presagire la fine della produzione di birra su vasta scala come impresa vocazionale immune alle abituali lotte sui mercati. Le piccole aziende produttrici diventarono sempre più spesso bersaglio e preda di questa metastasi dei Behemot multinazionali, che vedevano la birra come una merce qualsiasi destinata al consumo di massa. In Gran Bretagna, la globalizzazione della proprietà birraria ha, innanzi tutto, consentito il dilagare delle Lager commerciali, sia in bottiglia sia alla spina, e poi, con massicce campagne pubblicitarie, ha promosso la diffusione di queste birre tra le nuove generazioni. Benché prodotte in loco, le nuove Lager venivano promosse e vendute, per lo più, con marchi internazionali, con uno sviluppo che ha letteralmente sconvolto il mercato della birra britannico. Per tanto tempo bastione del consumo di Ale, la Gran Bretagna è divenuta in breve un paese di bevitori di Lager. Nel 2014 alcuni sondaggi segnalavano che la Lager era diventata la birra preferita dal 54 per cento dei bevitori britannici, anche se questa percentuale è da allora in qualche misura diminuita. Intanto, il trend del consolidamento nel settore industriale della birra prosegue imperterrito. Nel 2008 persino la gigantesca Anheuser-Busch, americana, è stata fagocitata dal colosso belga-brasiliano InBev. E come se non bastasse, nell’ottobre 2016 il gruppo scaturito da questa fusione ha acquisito la SABMiller, che a quel punto era diventata la seconda azienda produttrice al mondo per effetto di molteplici fusioni, tra cui quella con Coors. Per rispettare le condizioni degli enti regolatori, dal nuovo grande gruppo è stata scorporata una ridimensionata MillerCoors, ma questo non è servito molto a incoraggiare la diversità nel settore birrario degli Stati Uniti. Il trend della birra sempre più globalizzata era destinato a provocare una reazione. In Gran Bretagna, i bevitori di Ale, delusi, cominciarono a formare gruppi di pressione che propugnavano un revival delle birre affinate in botte. Tra le varie iniziative, ebbe un particolare successo la (CAMRA), fondata nel 1971 con un nome leggermente diverso. Animata da un gruppo di giornalisti che avevano passato gli anni della loro formazione a protestare contro gli armamenti nucleari e una gran quantità di altre cose, la nuova associazione si scagliò con gusto contro i giganti della birra, promuovendo boicottaggi, inscenando finti funerali per i piccoli birrifici che avevano chiuso i battenti, organizzando feste della birra regionali e nazionali e pubblicando ogni anno l’influente Good Beer Guide. L’invenzione dell’espressione “Real Ale” fu – come ha spiegato Pete Brown, che oltre a scrivere di birra si occupa di pubblicità – un colpo di genio sul piano del marketing. I grandi produttori furono colti in contropiede e dovettero difendersi, mentre le vendite di Ale in fusto declinavano vistosamente, e i birrifici locali riprendevano vigore. Grazie alle iniziative della CAMRA, l’inestimabile tradizione della vera Ale britannica continua tutt’oggi a prosperare; e si stima che vi siano nel Regno Unito circa 1500 birrifici dediti alla produzione di Real Ale. Solo chi ha corposi interessi a Wall Street potrà affermare che il revival della Real Ale non è stato uno sviluppo meraviglioso. Tuttavia, una delle ferree leggi dell’esperienza umana è quella degli “effetti indesiderati”. Appellandosi alla tradizione e al passato, il movimento della Real Ale in Gran Bretagna ha avuto un effetto frenante non del tutto diverso da quello sortito dal Reinheitsgebot in Germania. Non c’è alcun dubbio: deplorando ogni allentamento degli standard qualitativi ed enfatizzando la purezza della tradizione, il Reinheitsgebot ha avuto un ruolo importantissimo per la qualità della birra tedesca nel corso dei secoli. Allo stesso tempo, però, sebbene le birre tedesche più diffuse fossero – e siano – prodotte a regola d’arte, si registra una certa uniformità: in generale, nella produzione di birra in Germania c’è sempre stato spazio per un solo tipo di perfezione. Detto questo, le alternative ci sono sempre state: le birre di grano, in Germania, sono diffuse da tempi immemorabili, e certe bizzarre tradizioni locali, come le birre affumicate di Bamberga, hanno continuato a prosperare accanto ai prodotti ligi al Reinheitsgebot. Forse proprio grazie a questa valvola di sicurezza, il pubblico dei bevitori di birra si è sempre trovato decisamente bene. Non si sono avuti, in Germania, fenomeni paragonabili alla CAMRA, e non si è più registrato quel malcontento popolare che aveva contribuito a sloggiare il povero Ludovico dal suo palazzo di Monaco quasi duecento anni fa. Ciò nonostante, si è vista emergere chiaramente una domanda insoddisfatta per qualcosa di più creativo, perché quando l’Unione Europea, nel 1993, ha imposto a tutti i paesi membri l’adozione di normative sulla liberalizzazione della produzione di birra, anche in Germania la scena della birra artigianale ha dato luogo a sviluppi dinamici e molto interessanti. L’impegno profuso dalla CAMRA per riportare in auge la vera Ale nel Regno Unito ha avuto anche un’altra conseguenza non voluta: molti bevitori di birra hanno cominciato a guardare indietro, verso ciò che avevano perso, ma non in un numero sufficiente a sbarrare il passo alle Lager incessantemente propagandate dai grandi produttori internazionali. Identificate come un interesse minoritario, le Ale affinate in botte hanno finito per essere associate a una sottocultura di entusiasti eccentrici e nostalgici, abbastanza numerosi da tener viva la tradizione, ma non sufficienti a rinvigorire questa nicchia di mercato. Nei pub inglesi, allora, è cominciata una specie di rivalità tra le Lager e le Ale. Può darsi, però, che la svolta sia vicina. Infatti, anche al di là dei patiti della birra britannica che per fortuna non mancano, ci sono segnali che fanno ben sperare in un ampliamento del mercato delle Real Ale e in un loro recupero nei confronti delle Lager industriali. Sull’altra sponda dell’Atlantico, la situazione negli anni Settanta era completamente diversa. In fondo, negli Stati Uniti non c’era una tradizione da riscoprire, dato che il proibizionismo, con tutto quel che ne era seguito, aveva essenzialmente sradicato non solo la produzione di birra locale, bensì anche la consuetudine di bere birra in compagnia, un tempo incentrata sulle Ale House e sulle taverne. La birra industriale, tenuta in frigo e bevuta a casa, ghiacciata, aveva preso il sopravvento. In un paese traboccante di creatività e spirito imprenditoriale, una situazione del genere non poteva durare in eterno: gli Stati Uniti erano pronti per una loro rivoluzione della birra artigianale. La maggior parte degli storici fa risalire l’origine di questa rivoluzione all’acquisto da parte di Fritz Maytag, nel 1965, della Anchor Brewing Company di San Francisco, che stava fallendo, e al suo successivo impegno per riportare in vita gli stili di birra tradizionali. Sì, è lo stesso Fritz Maytag che ha ricreato la birra di Ninkasi… e che, nel 1975, ha anche prodotto la prima IPA americana. Nel 1978 il presidente americano Jimmy Carter promulgò la legge che legalizzava la produzione domestica di birra. In breve, molti dei nuovi produttori domestici si trasformarono in professionisti, e la rivoluzione della birra artigianale cominciò davvero a prendere piede… anche se sulla definizione precisa di “birra artigianale” l’accordo non è unanime. Le definizioni più rigorose fanno riferimento alla scala ridotta della produzione, richiedono un’adesione alle pratiche di birrificazione tradizionali, senza additivi (quali, per esempio, fonti di zucchero non derivanti dal malto d’orzo) o ingredienti artificiali, un monito – quest’ultimo – spesso (fortunatamente) ignorato. Alcune definizioni mettono l’accento sull’indipendenza (dalle grandi case produttrici), anche se, come vedremo, questa distinzione comincia a sfumare. Per quel che riguarda lo stile, vale quasi tutto in questo campo: i birrai artigianali producono Porter, Stout, Pale Ale, birre acide e anche – o soprattutto – le birre estreme che abbiamo descritto. Le più estreme usano quasi tutte le basi fermentanti immaginabili e – se si è disposti a includerle nella categoria – si fanno beffe del principio secondo cui le birre artigianali non contengono additivi. A ciò si aggiunga che alcuni produttori artigianali non producono veramente la loro birra, bensì affidano il compito a stabilimenti più grandi che possono permettersi attrezzature di cui loro non sono in possesso. La produzione di birra artigianale, insomma, è una vocazione o un’industria che sta ancora cercando una sua precisa identità. In generale, comunque, una birra artigianale la si riconosce assaggiandola. Una delle prime importanti figure nel settore della birra artigianale è quella di Jack McAuliffe. Nel 1976 la sua New Albion Brewery di Sonoma, California, fu il primo birrificio nuovo di zecca ad aprire i battenti negli Stati Uniti, un paese molto più abituato alla chiusura di questo tipo di aziende. Rendendosi conto di non poter competere alla pari con i giganti del settore, McAuliffe decise di ritagliarsi una nicchia di mercato, specializzandosi nella produzione di Ale e Porter particolarmente gustose, proponendo la birra come un raffinato accompagnamento per il cibo. La New Albion ebbe un enorme riscontro tra gli intenditori locali, ma – ahinoi – non fu un successo sul piano finanziario. Come molte imprese pionieristiche, finì per indebitarsi senza riuscire a raggiungere le dimensioni necessarie a produrre profitti: la sua capacità produttiva era nell’ordine dei quattrocento barili all’anno, mentre nel 1976 la Anheuser-Busch disponeva di svariati stabilimenti negli Stati Uniti che producevano, ciascuno, quattro milioni di barili all’anno. Eppure, fu proprio nello spirito della New Albion che alcuni imprenditori del settore più orientati al business – come Jim Koch, fondatore della Boston Beer Company nel 1984 – cominciarono a intaccare almeno in parte le vendite dei Behemot della birra. Paradossalmente, Koch si ritagliò una fetta di mercato appaltando la produzione delle sue birre Sam Adams e concentrando le proprie energie e i propri investimenti nel marketing. Quando le basi della sua azienda erano ormai consolidate, e il marchio Sam Adams era diventato il marchio di birra “artigianale” più diffuso nel paese (la Boston Beer produceva 2,3 milioni di barili nel 2013), Koch prese contatti con McAuliffe per mettere in produzione una replica della leggendaria New Albion Ale del 1976. Nel frattempo, altri pionieri come l’oregoniano Fred Eckhardt, autore di A Treatise on Lager Beers, e Ken Grossman, della californiana Sierra Nevada Brewing Company, promuovevano una rapida diffusione delle birre artigianali in tutti gli Stati Uniti. La fondazione, a opera di Charlie Papazian, dell’influente Great American Beer Festival, la cui prima edizione si tenne a Boulder, Colorado, nel 1982, ha contribuito all’intensificarsi di questa tendenza. E se è vero che la altrettanto influente New World Guide to Beer (1988), del già ricordato Michael Jackson, non trattava in modo specifico il movimento della birra artigianale americano, il suo elogio della Anchor Steam Beer di Maytag ha contribuito a stimolare in tutto il mondo la curiosità per la grande varietà di birre che cominciava a essere disponibile negli Stati Uniti. Finalmente, i consumatori americani hanno avuto modo di appurare che la birra non si riduceva al prodotto della grande industria, e che in giro si trovavano interessanti alternative. Questa nuova consapevolezza ha avuto un evidente riflesso sul mercato. Nel 1985 erano già trentasette i birrifici artigianali in attività, e nel decennio successivo questo numero è cresciuto esponenzialmente. Poi il settore ha registrato un temporaneo declino: dai 1625 birrifici artigianali del 1998 si è scesi a 1426 nel 2000, principalmente per problemi di controllo della qualità nel passaggio a una produzione su scala decisamente più grande. Nel successivo decennio c’è stato un recupero, i birrai artigianali negli Stati Uniti sono tornati a crescere: dai 1750 del 2010 ai 2418 della metà del 2013. Nel 2018 hanno superato la soglia dei 5000, con più di 20.000 etichette e 150 stili diversi (o sedicenti tali). All’inizio del secondo decennio di questo secolo, i birrai artigianali, nonostante i loro modesti inizi, cominciarono anche a intaccare le vendite dei leviatani della birra industriale, le cui quote di mercato ristagnavano. L’orientamento dei consumatori ha visto un sensibile spostamento dalle Lager più chiare a stili di birra più scuri, dal gusto più corposo. Da una quota di mercato del 2 per cento nel 1995, la birra artigianale è arrivata al 6,4 per cento nel 2012, e si stima che oggi sia al 10 per cento e in crescita. Questa tendenza non è certamente un fatto che i Behemot della birra possono ignorare, e infatti hanno reagito in due modi. Il primo si è tradotto nel lancio di loro marchi “artigianali”. Per esempio, la MillerCoors (com’è chiamata ora) ha lanciato sul mercato la sua Bianca belga (Belgian White) con l’etichetta Blue Moon, senza prendersi la briga di dare notizia del proprio coinvolgimento. La Blue Moon è un ottimo prodotto e ha avuto un bel riscontro (vendendo più di un milione di barili all’anno). Di contro, sono pochi i bevitori che hanno sentito nominare le etichette Elk Mountain, della Anheuser-Busch, o Plank Road, della SAB Miller. La seconda strategia è stata quella di acquistare birrifici artigianali di successo. La Anheuser-Busch ha acquisito la Redhook Brewery di Seattle già nel 1994, e tre anni più tardi ha assorbito la di Portland. I due birrifici sono rimasti indipendenti, ma sono stati prontamente radiati dalla Brewers’ Association, l’organizzazione ufficiale dei birrai artigianali. La Widmer aveva anche una quota nell’apprezzata di Chicago, di cui Anheuser-Busch InBev ha poi rilevato anche il resto nel 2011. E non sorprenderà il fatto che anche la Goose Island – come altri tre importanti birrifici artigianali recentemente assorbiti da AB InBev – abbia perduto il suo status di birra artigianale. Anche questa tendenza è in pieno sviluppo. Nel 2015 Heineken – terzo produttore mondiale – ha comprato il 50 per cento del rinomato marchio californiano Lagunitas (di cui avrebbe poi acquisito anche la restante metà), mentre la Ballast Point Brewing di San Diego ha venduto alla Constellation , una grande conglomerata del settore dei liquori. Svariati birrifici artigianali, un po’ in tutti gli Stati Uniti, sono di recente finiti nelle mani di fondi di private equity, e alcune imprese si sono persino associate a fondi di investimento per rilevare aziende rivali in difficoltà. In tal modo, i giganti dell’industria birraria, da un lato, e quei tipi di forze economiche esterne che avevano portato alla formazione dei Big Six in Gran Bretagna, dall’altro, stanno conquistando spazio in un settore di nicchia la cui vitalità dipende dall’agilità, dalla creatività e dall’impegno di quegli imprenditori innovativi che hanno reso possibile questa fase memorabile per i bevitori di birra negli Stati Uniti. Con più di 5000 birrifici nei soli Stati Uniti (cifra superiore al record preproibizionistico del 1873, quando ce n’erano 4131), e con una vivace cultura della birra artigianale in pieno sviluppo in quasi tutti i paesi dove si beve la birra, il settore è sicuramente maturo per una ristrutturazione. Che forma assumerà l’industria della birra? La maggior parte dei birrifici artigianali produce al massimo qualche migliaio di barili all’anno, e nel mercato attuale, estremamente competitivo, non sarà in grado di sopravvivere a lungo se non procederà a fusioni e consolidamenti significativi. Resta da vedere che tipo di consolidamenti si produrranno. Se le megaimprese della birra useranno la loro potenza finanziaria e i loro impareggiabili canali di distribuzione per calare sul settore e impadronirsi di quanto offre di meglio, c’è motivo di temere un ritorno all’uniformità, anche se i grandi produttori si sono espressamente impegnati al rispetto di certi standard qualitativi. Del resto, la loro competenza essenziale consiste nella produzione di massa e nella distribuzione di un prodotto uniforme, sicché la tentazione per i giganti della birra sarà sempre quella di trattare uniformità e qualità come sinonimi. L’affidabilità del prodotto della grande industria della birra è, oggettivamente, un piccolo miracolo di ingegneria chimica, ma storicamente gli effetti di questo miracolo non sempre si sono rivelati vantaggiosi per i bevitori di birra, per i quali la diversità è un valore. I nostalgici lamentano la sorte della Pale Ale Bass dopo che l’azienda è finita nelle mani della Global Beer, e i puristi sostengono, a mezza voce, che la Pilsner Urquell non è più la stessa da quando è passata alla gigantesca casa giapponese Asahi (via SABMiller e AB InBev). Ciò nonostante, i grandi produttori sanno sicuramente riconoscere un’opportunità di marketing quando la incontrano e hanno chiaramente capito che il mantenimento di una certa varietà è nel loro stesso interesse. L’inglobamento totale dei birrifici artigianali, ovviamente, è lo scenario peggiore possibile. Se è vero che i grandi produttori avranno sempre una presenza dominante, i birrai artigianali hanno già dimostrato di rappresentare una nicchia consistente. Se l’inevitabile sfrondamento all’interno di questa nicchia prenderà prevalentemente la forma delle fusioni tra birrifici artigianali – fusioni capaci di ridistribuire il talento, creando nel contempo aziende più sostenibili e catene di distribuzione su scala subindustriale – le prospettive per chi ama la birra e ne apprezza la varietà sono promettenti. Come minimo, si può ragionevolmente sperare che le birre artigianali continuino a prosperare accanto alle loro omologhe prodotte su scala industriale. Secondo alcune stime, le birre artigianali arriveranno presto a contare per più del 20 per cento del mercato negli Stati Uniti e nel resto del mondo e, benché sia probabile che una parte significativa di questa percentuale possa finire sotto un qualche tipo di controllo da parte dei giganti della birra, appare improbabile che la grande industria possa fagocitarla completamente. In una recente ricerca si è appurato che il 44 per cento dei millennial americani non ha mai assaggiato la Budweiser… anche se allarma il fatto che le preferiscano da un lato i superalcolici, dall’altro le bevande non alcoliche. Insomma, se quasi dappertutto, oggi, per quel che riguarda gli stili e la composizione dei prodotti, i bevitori di birra possono contare su una possibilità di scelta senza precedenti, è chiaro che i loro gusti trovano soddisfazione in un settore in transizione. Per fortuna, saranno loro ad avere l’ultima parola. Saranno, infatti, soprattutto i consumatori a determinare se le tendenze che prenderanno corpo nella produzione di birra ci riporteranno alla blanda uniformità del passato o proseguiranno sulla strada dell’innovazione e della varietà, per l’espansione degli orizzonti gustativi. I bevitori consapevoli e critici sono i soli che possano far sì che la birra abbia un futuro interessante e variegato. Bibliografia annotata

Esiste tutta una vasta letteratura popolare sulla birra, per lo più incentrata sulla sua produzione domestica. Qui forniamo una lista annotata, capitolo per capitolo, delle principali fonti – scientifiche e popolari – consultate nel corso della stesura del presente volume, nonché le fonti delle citazioni riportate nel testo. Capitolo 1 - La birra, la natura e l’umanità

L’espressione «bar della Via Lattea» (The Milky Way Bar) è stata coniata da Tyson (1995) in riferimento alla nube extraterrestre di molecole di etanolo. Wiens et al. (2008) hanno riferito sulle abitudini alcoliche delle tupaie dalla coda a piuma, mentre è di Schoon, Fehr e Schoon (1992) il racconto sulla sorte del porcospino ubriaco. Per una discussione generale sul consumo di etanolo in natura vedi Levey (2004). Sull’ipotesi della scimmia ubriaca e sull’avversione all’alcol nei mammiferi vedi Dudley (2000, 2004); vedi Milton (2004) per un’ipotesi alternativa. Sull’alcol e i moscerini della frutta (drosofile) vedi Starmer, Heed e Rockwood-Sluss (1977), Shohat-Ophir et al. (2012) e anche Milan, Kacsoh e Schlenke (2012). L’alcol deidrogenasi nei primati sono state analizzate da Carrigan et al. (2014); degli scimpanzé con il vizio di alzare il gomito hanno parlato Hockings et al. (2015).

Carrigan, M.A., O. Uryasev, C.B. Frye, B.L. Eckman et al. (2014), Hominids Adapted to Metabolize Ethanol Long before Human-Directed Fermentation, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the of America, 112, pp. 458-463. Dudley, R. (2000), Evolutionary Origins of Human Alcoholism in Primate Frugivory, “Quarterly Review of Biology”, 75, pp. 3-15. — (2004), Ethanol, Fruit Ripening, and the Historical Origins of Human Alcoholism in Primate Frugivory, “Integrative and Comparative Biology”, 44, pp. 315-323. Hockings, K.J., N. Bryson-Morrison, S. Carvalho, M. Fujisawa et al. (2015), Tools to Tipple. Ethanol Ingestion by Wild Chimpanzees Using Leaf-Sponges, in Royal Society Open Science 2: 150150. http://dx.doi.org/10.1098/rsos.150150 (sito visitato il 7 giugno 2018). Levey, D.J. (2004), The Evolutionary Ecology of Ethanol Production and Alcoholism, “Integrative and Comparative Biology”, 44, pp. 284-289. Milan, N.F., B.R. Kacsoh, T.A. Schlenke (2012), Alcohol Consumption as a Self-Medication against Blood-Borne Parasites in the Fruit Fly, “Current Biology”, 22, pp. 488-493. Milton, K. (2004), Ferment in the Family Tree. Does a Frugivorous Dietary Heritage Influence Contemporary Patterns of Human Ethanol Use?, “Integrative and Comparative Biology”, 44, pp. 304-314. Schoon, H.A., M. Fehr, A. Schoon (1992), Case Report. Acute Alcohol Intoxication in a Hedgehog (Erinaceus europaeus), “Kleintierpraxis”, 37, pp. 329-332. Shohat-Ophir, G., K.R. Kaun, R. Azanchi, H. Mohammed, U. Heberlein (2012), Sexual Deprivation Increases Ethanol Intake in Drosophila, “Science”, 335, pp. 1351-1355. Starmer, W.T., W.B. Heed, E.S. Rockwood-Sluss (1977), Extension of Longevity in Drosophila Mojavensis by Environmental Ethanol. Differences between Subraces, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 74, 1, pp. 387-391. Tyson, N. deG. (1995), The Milky Way Bar, “Natural History”, 103, pp. 16- 18. Wiens, F., A. Zitzmann, M.-A. Lachance, M. Yegles et al. (2008), Chronic Intake of Fermented Floral Nectar by Wild Treeshrews, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 105, 30, pp. 10426–10431. Capitolo 2 - La birra nel mondo antico

Esiste una vasta letteratura sulla storia della birra. Tra le più valide opere generali segnaliamo McGovern (2009, 2017), Standage (2005) e Bostwick (2014). Le opere di McGovern sono particolarmente utili per la comprensione del più ampio ruolo svolto dalla birra nel mondo antico e sulle fonti di questa nostra conoscenza. Le ricerche svolte ad Abu Hureyra sono sintetizzate da Moore (2003). La birra di Ninkasi è ampiamente citata su Internet e l’inno alla dea è stato tradotto in inglese da Civil (1991). Katz e Maytag (1991) hanno raccontato il primo tentativo di ricreare la birra di Ninkasi sulla base delle informazioni che si possono desumere dal testo poetico. Un’opinione discordante sulla birra sumerica è reperibile in Damerow (2012). Si veda Dineley e Dineley (2000) per le pratiche di birrificazione neolitiche a Skara Brae; Stika (2011) illustra le testimonianze legate alla birrificazione nell’età del ferro germanica. Si veda McGovern (2017) per un resoconto esaustivo dei tentativi di riprodurre le birre antiche. Sulle prime esperienze umane dell’ebbrezza alcolica, soprattutto in Europa, vedi Guerra-Doce (2015).

Bostwick, W. (2014), A History of the World According to Beer, Norton, New York. Civil, M. (1991), Modern Breweries Recreate Ancient Beer, “Oriental Institute News and Notes”, 132, pp. 1-2, 4. Damerow, P. (2012), Sumerian Beer. The Origins of Brewing Technology in Ancient Mesopotamia, “Cuneiform Digital Library Journal”, 2012, 002. https://cdli.ucla.edu/files/publications/cdlj2012_002.pdf. Dineley, M., G. Dineley (2000), From Grain to Ale. Skara Brae, a Case Study, in A. Ritchie (a cura di), Neolithic Orkney in Its European Context, McDonald Institute, Cambridge, pp. 196-200. Guerra-Doce, E. (2015), The Origins of Inebriation. Archaeological Evidence of the Consumption of Fermented Beverages in Prehistoric Eurasia, “Journal of Archaeological Methods and Theory”, 22, pp. 751- 782. Katz, S., F. Maytag (1991), Brewing an Ancient Beer, “Expedition”, 44, pp. 24-33. McGovern, P.E. (2009), Uncorking the Past. The Quest for Wine, Beer and Other Alcoholic Beverages, University of California Press, Berkeley. — (2017), Ancient Brews, Rediscovered and Re-Created, Norton, New York. Moore, A.M.T. (2003.), The Abu Hureyra Project. Investigating the Beginning of Farming in Western Asia, in A.J. Ammerman, P. Biagi (a cura di), The Widening Harvest. The Neolithic Transition in Europe. Looking Back, Looking Forward, Archaeological Institute of America, Boston, pp. 59-74. Standage, T. (2005), A History of the World in Six Glasses, Walker & Co, New York. Stika, H.P. (2011), Early Iron Age and Late Mediaeval Malt Finds from Germany – Attempts at Reconstruction of Early Celtic Brewing and the Taste of Celtic Beer, “Archaeological and Anthropological Sciences”, 3, pp. 41-48.

Capitolo 3 - Innovazione e nascita di un’industria William Bostwick (2014) offre un’appassionante discussione della storia della birrificazione in Europa e negli Stati Uniti, e Pete Brown non è da meno in una serie di libri molto coinvolgenti (Brown 2003, 2006, 2010, 2012) che nella loro disamina spaziano un po’ in tutto il mondo. Piccole perle di storia (e di molto altro) si ritrovano anche in indagini come quelle di Alworth (2015) e Bernstein (2013); e, con le dovute cautele, si trova una grande quantità di informazioni anche su Internet.

Alworth, J. (2015), The Beer Bible, Workman, New York. Bernstein, J. M. (2013), The Complete Beer Course, Sterling Epicure, New York. Bostwick, W. (2014), A History of the World According to Beer, Norton, New York. Brown, P. (2003), Man Walks into a Pub. A Sociable , Pan, Londra. — (2006), Three Sheets to the Wind. 300 Bars in 13 Countries. One Man’s Quest for the Meaning of Beer, Pan, Londra. — (2010), Hops and Glory. One Man’s Search for the Beer that Built the British Empire, Pan, Londra. — (2012), Shakespeare’s Pub. A Barstool History of London as Seen through the Windows of Its Oldest Pub – The George Inn, St. Martin’s Griffin, New York.

Capitolo 4 - Culture della birra

Brown (2006) offre la più coinvolgente rassegna generale in circolazione sulle culture della birra nel mondo. Schivelbusch (1992) descrive la convivialità dei bar. Le osservazioni di Finch-Hatton sulle consuetudini australiane relative al bere sono reperibili nella sua autobiografia (1886). L’articolo del “Guardian” sulla sentenza dell’Alta Corte australiana relativa alle leggi sul consumo di alcol tra gli indigeni di Queensland si trova al seguente indirizzo: https://www.theguardian.com/world/2013/jun/19/australia-indigenous- alcohol-law (sito visitato il 7 giugno 2018). Tra le numerose guide all’Oktoberfest di Monaco di Baviera ci limitiamo a menzionare Wolff (2013). Per la storia delle locande in Gran Bretagna vedi Brown (2012).

Brown, P. (2006), Three Sheets to the Wind. 300 Bars in 13 Countries. One Man’s Quest for the Meaning of Beer, Pan, Londra. — (2012), Shakespeare’s Pub. A Barstool History of London as Seen Through the Windows of Its Oldest Pub – The George Inn, St. Martin’s Griffin, New York. Finch-Hatton, H. (1886), Advance Australia! An Account of Eight Years’ Work, Wandering, and Amusement, in Queensland, New South Wales and Victoria, Allen, Londra. Schivelbusch, W. (1992), Tastes of Paradise. A Social History of Spirits, Stimulants, and Intoxicants, Pantheon, New York. Wolff, M. (2013), Meet Me in Munich. A Beer Lover’s Guide to Oktoberfest, Skyhorse, New York.

Capitolo 5 - Molecole essenziali

Abbiamo trattato gli aspetti molecolari e chimici delle bevande alcoliche in maniera molto più approfondita rispetto a quanto avevamo fatto in Tattersall e DeSalle (2014). Il genoma dell’orzo è stato descritto dall’International Barley Genome Sequencing Consortium (2012). Natsume et al. (2014) hanno prodotto la prima versione del genoma dell’Humulus lupulus. Il genoma del lievito è illustrato in Mewes et al. (1997), mentre il sequenziamento di un gran numero di lieviti di birra è descritto in Monerawela e Bond (2017). Per il funzionamento dettagliato del programma STRUCTURE si vedano Pritchard (2003) e Earl (2012). Emanuelli et al. (2013) è la fonte della PCA dei vitigni e dei dati STRUCTURE illustrati in questo capitolo.

Earl, D.A. (2012), STRUCTURE HARVESTER. A Website and Program for Visualizing STRUCTURE Output and Implementing the Evanno Method, “Conservation Genetics Resources”, 4, 2, pp. 359-361. Emanuelli, F., S. Lorenzi, L. Grzeskowiak et al. (2013), Genetic Diversity and Population Structure Assessed by SSR and SNP Markers in a Large Germplasm Collection of Grape, “BMC Plant Biology”,13, 1, p. 39. International Barley Genome Sequencing Consortium (2012), A Physical, Genetic and Functional Sequence Assembly of the Barley Genome, “Nature”, 491, 7426, pp. 711-717. Mewes, H.W., K. Albermann, M. Bähr, D. Frishman, A. Gleissner, J. Hani, K. Heumann et al. (1997), Overview of the Yeast Genome, “Nature”, 387 (6632), pp. 7-8. Monerawela, C., U. Bond (2017), Brewing up a Storm. The Genomes of Lager Yeasts and How They Evolved, “Biotechnology Advances”, 35, pp. 512-519. Natsume, S., H. Takagi, A. Shiraishi, J. Murata, H. Toyonaga, J. Patzak, M. Takagi et al. (2014), The Draft Genome of Hop (Humulus lupulus), an Essence for Brewing, “Plant and Cell Physiology”, 56, 3, pp. 428-441. Pritchard, J.K., W. Wen, D. Falush (2003), Documentation for Structure Software. Version 2. https://web.stanford.edu/group/pritchardlab/software/readme_structure2.p df (sito visitato il 7 giugno 2018). Tattersall, I., R. DeSalle (2014), Il tempo in una bottiglia. Storia naturale del vino, Codice, Torino.

Capitolo 6 - Acqua

L’ipotesi sulla Terra asciutta e la ricerca sull’impatto di Vesta con il nostro pianeta sono illustrate in Fazekas (2014), mentre la verosimiglianza dei racconti sull’“Eureka!” di Archimede è discussa da Biello (2006). I riferimenti alle mappe sulla durezza dell’acqua in Francia e negli Stati Uniti sono reperibili online.

Biello, D. (2006), Fact or Fiction? Archimedes Coined the Term ‘Eureka!’ in the Bath, “Scientific American”, 8 dicembre 2006. Fazekas, A. (2014), Mystery of Earth’s Water Origin Solved, “National Geographic”, 30 ottobre 2014. Francia: dati sulla durezza dell’acqua tratti da Wikimedia Commons. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Duret%C3%A9_de_l%27eau_ en_France.svg (sito visitato il 7 giugno 2018). U.S. Water Hardness Map, Fresh Cup Magazine, 19 luglio 2016. http://www.freshcup.com/us-water-hardness-map (sito visitato il 7 giugno 2018). Water Hardness and Beers: https://www.pinterest.com/pin/443112050818231146 (sito visitato il 7 giugno 2018).

Capitolo 7 - Orzo

I reperti archologici del sito Ohalo II che hanno rilevanza per lo studio dell’orzo sono descritti in Weiss et al. (2005, 2004). La Global Strategy for the Ex-Situ Conservation and Use of Barley Germ Plasm è reperibile sul sito web sotto indicato. L’opera di Bothmer et al. (2003) è la fonte di buona parte di quel che si sa sulla diversità dei ceppi di orzo. La filogenesi dell’Hordeum discussa nel testo è tratta da Brassac e Blattner (2015). Pankin e Korff sono invece le fonti per l’Hordeum e la “sindrome da domesticazione”. Mascher et al. (2016) e Russell et al. (2016) hanno descritto il sequenziamento dell’esoma dell’orzo e la genomica delle popolazioni; lo stesso studio di Mascher et al. comprende l’analisi dei chicchi di orzo antichi. In Pourkheirandish e Komatsuda (2007) si trova la discussione sul tratto del rachide friabile. Poets et al. (2015) è la fonte della PCA dell’orzo sovrapposta alla carta d’Europa e d’Asia, e anche della analisi PCA dei cultivar di Hordeum. Abbiamo incluso nella bibliografia anche la rassegna di Robin Allaby (2015). A Jonas e de Koning (2013) si deve il riepilogo sul funzionamento della selezione genomica e della predizione genomica. Schmidt et al. (2016) e Nielsen et al. (2016) offrono esempi dell’impiego di approcci genomici al miglioramento delle caratteristiche dell’orzo.

Allaby, R.G. (2015), Barley Domestication. The End of a Central Dogma?, “Genome Biology”, 16, 1, p. 176. Brassac, J., F.R. Blattner (2015), Species-Level Phylogeny and Polyploid Relationships in Hordeum (Poaceae) Inferred by Next-Generation Sequencing and in Silico Cloning of Multiple Nuclear Loci, “Systematic Biology”, 64, 5, pp. 792-808. Bothmer, R. von, T. van Hintum, H. Knüpffer, K. Sato (2003), Diversity in Barley (Hordeum vulgare), vol. 7, Elsevier Science, New York. Global Strategy for the Ex-Situ Conservation and Use of Barley Germ Plasm (2014), https://cdn.croptrust.org/wp/wp- content/uploads/2017/02/Barley_Strategy_FINAL_27Oct08.pdf (sito visitato il 7 giugno 2018). Jonas, E., D.-J. de Koning (2013), Does Genomic Selection Have a Future in Plant Breeding?, “Trends in Biotechnology”, 31 pp. 497-504. Mascher, M., V.J. Schuenemann, U. Davidovich, N. Marom, A. Himmelbach, S. Hübner, A. Korol et al. (2016), Genomic Analysis of 6,000-Year-Old Cultivated Grain Illuminates the Domestication History of Barley, “Nature Genetics”, 48, 9, pp. 1089-1093. Nielsen, N.H., A. Jahoor, J.D. Jensen, J. Orabi, F. Cericola, V. Edriss, J. Jensen (2016), Genomic Prediction of Seed Quality Traits Using Advanced Barley Breeding Lines, “PloS One”, 11, 10, e0164494. Pankin, A., M. von Korff (2017), Co-evolution of Methods and Thoughts in Cereal Domestication Studies. A Tale of Barley (Hordeum vulgare), “Current Opinion in Plant Biology”, 36, pp. 15-21. Poets, A.M., Z. Fang, M.T. Clegg, P.L. Morrell (2015), Barley Landraces Are Characterized by Geographically Heterogeneous Genomic Origins, “Genome Biology”, 16, 1, p. 173. Pourkheirandish, M., T. Komatsuda (2007), The Importance of Barley Genetics and Domestication in a Global Perspective, “Annals of Botany”, 100, pp. 999-1008. Russell, J., M. Mascher, I.K. Dawson, S. Kyriakidis, C. Calixto, F. Freund, M. Bayer et al. (2016), Exome Sequencing of Geographically Diverse Barley Landraces and Wild Relatives Gives Insights into Environmental Adaptation, “Nature Genetics”, 48, 9, pp. 1024-1030. Schmidt, M., S. Kollers, A. Maasberg-Prelle, J. Großer, B. Schinkel, A. Tomerius, A. Graner, V. Korzun (2016), Prediction of Malting Quality Traits in Barley Based on Genome-wide Marker Data to Assess the Potential of Genomic Selection, “Theoretical and Applied Genetics”, 129, 2, pp. 203-213. Weiss, E., M.E. Kislev, O. Simchoni, D. Nadel (2005), Small-Grained Wild Grasses as Staple Food at the 23,000-Year-Old Site of Ohalo II, Israel, “Economic Botany”, 588, pp. 125-134. Weiss, E., W. Wetterstrom, D. Nadel, O. Bar-Yosef (2004), The Broad Spectrum Revisited. Evidence from Plant Remains, in Proceedings of the National Academy of Sciences, USA, 101, pp. 9551-9555.

Capitolo 8 - Lievito

Per un esame del mondo microbico dentro e su di noi vedi DeSalle e Perkins (2015) e Dunn (2011). L’opera di Rytas Vilgalys, menzionata in questo capitolo, è sintetizzata in James et al. (2006). La filogenesi del Saccharomyces si fonda sul lavoro di Cliften et al. (2003), mentre il ciclo vitale del Saccharomyces è stato analizzato da Tsai et al. (2008). Nella bibliografia menzioniamo anche lo studio di Liti et al. (2009) sul progenitore del Saccharomyces cerevisiae e quello sulle relazioni tra i ceppi di lievito svolto dal gruppo di Verstrepen (Gallone et al., 2016). La filogenesi PCA e le analisi STRUCTURE sui ceppi di lievito sono tratte da Gallone et al. (2016). Le differenze tra i lieviti delle Lager sono esaminate da Berlowska, Kregiel e Rajkowska (2015). La variabilità dei ceppi di lievitio di vino è analizzata in Borneman et al. (2016). L’approccio del bioreattore propugnato da Alshakim Nelson è illustrato nell’articolo dell’“Economist” citato.

Berlowska, J., D. Kregiel, K. Rajkowska (2015), Biodiversity of Brewery Yeast Strains and Their Fermentative Activities, “Yeast”, 32, 1, pp. 289- 300. A Better Way to Make Drinks and Drugs, “The Economist”, 6 luglio 2017. Borneman, A.R., A.H. Forgan, R. Kolouchova, J.A. Fraser, S.A. Schmidt (2016), Whole Genome Comparison Reveals High Levels of Inbreeding and Strain Redundancy across the Spectrum of Commercial Wine Strains of Saccharomyces cerevisiae, “G3: Genes, Genomes, Genetics”, 6, 4, pp. 957-971. Cliften, P., P. Sudarsanam, A. Desikan, L. Fulton, B. Fulton, J. Majors, R. Waterston, B.A. Cohen, M. Johnston (2003), Finding Functional Features in Saccharomyces Genomes by Phylogenetic Footprinting, “Science”, 301, 5629, pp. 71-76. DeSalle, R., S.L. Perkins (2015), Welcome to the Microbiome. Getting to Know the Trillions of Bacteria and Other Microbes in, on, and around You, Yale University Press, New Haven. Dunn, R. (2011), The Wild Life of Our Bodies, Harper Collins, New York. Gallone, B., J. Steensels, T. Prahl, L. Soriaga, V. Saels, B. Herrera-Malaver, A. Merlevede et al. (2016), Domestication and Divergence of Saccharomyces cerevisiae Beer Yeasts, “Cell”, 166, 6, pp. 1397-1410. James, T.Y., F. Kauff, C.L. Schoch, P.B. Matheny, V. Hofstetter, C.J. Cox, G. Celio et al. (2006), Reconstructing the Early Evolution of Fungi Using a Six-Gene Phylogeny, “Nature”, 443 (7113), p. 818. Liti, G., D.M. Carter, A.M. Moses, J. Warringer, L. Parts, S.A. James, R.P. Davey et al. (2009), Population Genomics of Domestic and Wild Yeasts, “Nature”, 458, (7236), p. 337. Tsai, I.J., D. Bensasson, A. Burt, V. Koufopanou (2008), Population Genomics of the Wild Yeast Saccharomyces paradoxus. Quantifying the Life Cycle, in Proceedings of the National Academy of Sciences, USA, 105, 12, pp. 4957-4962.

Capitolo 9 - Luppolo

La storia flogenetica delle Cannabaceae è esaminata in Yang et al. (2013). La citazione su religione e birra nell’Inghilterra del XVI secolo è tratta da Rycken Wilson (1921). Dresel et al. (2016) hanno descritto le caratteristiche chimiche di novanta ceppi di luppolo. HopBase è consultabile all’indirizzo web indicato qui sotto.

Dresel, M., C. Vogt, A. Dunkel, T. Hofmann (2016), The Bitter Chemodiversity of Hops (Humulus lupulus L.), “Journal of Agricultural and Food Chemistry”, 64, 41, pp. 7789-7799. HopBase, http://hopbase.cgrb.oregonstate.edu (sito visitato il 7 giugno 2018). Rycken Wilson, E. von (1921), Post-Reformation Features of English Drinking, “American Catholic Quarterly”, 46, pp. 134-155. Yang, M.-Q., R. van Velzen, F.T. Bakker, A. Sattarian, D.-Z. Li, T.-S. Yi (2013), Molecular Phylogenetics and Character Evolution of Cannabaceae, “Taxon”, 62, 3, pp. 473-485.

Capitolo 10 - Fermentazione

I seguenti quattro titoli forniscono una valida introduzione alla fermentazione e alle sue applicazioni.

Buchholz, K., J. Collins (2013), The Roots – A Short History of Industrial Microbiology and Biotechnology, “Applied Microbiology and Biotechnology”, 97, 9, pp. 3747-3762. Jelinek, B. (1946), Top and Bottom Fermentation Systems and Their Respective Beer Characteristics, “Journal of the Institute of Brewing”, 52, 4, pp. 174-181. Parakhia, M., R.S. Tomar, B.A. Golakiya (2015), Overview of Basics and Types of Fermentation, GRIN Publishing, Monaco. Thomas, K. (2013), Beer: How It’s Made – The Basics of Brewing, in Liquid Bread. Beer and Brewing in Cross-Cultural Perspective, 7, p. 35.

Capitolo 11 - La birra e i sensi

Per una panoramica sui sensi vedi il nostro libro sul cervello, pubblicato nel 2012. La citazione di Crick è tratta da Crick (1990). Si vedano anche i quattro titoli di Charles Spence, sempre all’avanguardia nello studio dell’impatto dei sensi sul gusto, nonché delle reazioni dei consumatori. Schott (1993) esamina l’Homunculus di Penfield. Christiaens et al. (2014) descrivono l’origine dei geni dell’aroma in certi lieviti. Bushdid et al. (2014) è la fonte della notizia sulle «migliaia di miliardi di odori». Meilgaard, Carr e Civille (2006) compendiano l’opera del primo dei tre autori sulla birra e sul gusto.

Bushdid, C., M.O. Magnasco, L.B. Vosshall, A. Keller (2014), Humans Can Discriminate More Than 1 Trillion Olfactory Stimuli, “Science”, 343 (6177), pp. 1370-1372. Christiaens, J.F., L.M. Franco, T.L. Cools, L. De Meester, J. Michiels, T. Wenseleers, B.A. Hassan, E. Yaksi, K.J. Verstrepen (2014), The Fungal Aroma Gene ATF1 Promotes Dispersal of Yeast Cells through Insect Vectors, “Cell Reports”, 9, 2, pp. 425-432. Crick, F. (1990), Astonishing Hypothesis. The Scientific Search for the Soul, Scribners, New York. DeSalle, R., I. Tattersall (2013), Il cervello. Istruzioni per l’uso, Codice, Torino.Meilgaard, M.C., B.T. Carr, G.V. Civille (2006), Sensory Evaluation Techniques, CRC Press, Boca Raton, Florida. Schott, G.D. (1993), Penfield’s Homunculus. A Note on Cerebral Cartography, “Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry”, 56, 4, pp. 329-333. Spence, C. (2015), On the Psychological Impact of Food Colour, “Flavour”, 4, 1, p. 21. — (2016), Sound. The Forgotten Flavour Sense, in Multisensory Flavor Perception. From Fundamental Neuroscience Through to the Marketplace, Woodhead, Cambridge, p. 81. Spence, C., G. Van Doorn (2017), Does the Shape of the Drinking Receptacle Influence Taste/Flavour Perception? A Review, “Beverages”, 3, 3, p. 33. Spence, C., Q.J. Wang (2015), Sensory Expectations Elicited by the Sounds of Opening the Packaging and Pouring a Beverage, “Flavour”, 4, 1, p. 35.

Capitolo 12 - Pance da bevitori di birra

Per ulteriori informazioni sulla pancia da bevitore di birra si possono consultare Schütze et al. (2009), Shelton e Knott (2014) e Bobak, Skodova e Marmot (2003). Falony et al. (2016) è la fonte della nostra discussione su birra e microbiomi. Per un’ottima rassegna sull’impatto dell’alcol sui reni vedi Epstein (1997). L’interazione del gene CYP2E1 con l’alcol è stata descritta da Lu e Cederbaum (2008), mentre la biologia delle varianti ADH è stata discussa da Mulligan et al. (2003). L’approccio GWAS all’alcolismo è stato affrontato da Bierut et al. (2010).

Bierut, L.J., A. Agrawal, K.K. Bucholz, K.F. Doheny et al. (2010), A Genome-Wide Association Study of Alcohol Dependence, in Proceedings of the National Academy of Sciences, USA, 107, 11, pp. 5082-5087. Bobak, M., Z. Skodova, M. Marmot (2003), Beer and Obesity. A Cross- Sectional Study, “European Journal of Clinical Nutrition”, 57, 10, pp. 1250. Epstein, M. (1997), Alcohol’s Impact on Kidney Function, “Alcohol Health Research World”, 21, pp. 84-92. Falony, G., M. Joossens, S. Vieira-Silva, J. Wang, Y. Darzi, K. Faust, A. Kurilshikov et al. (2016), Population-Level Analysis of Gut Microbiome Variation, “Science”, 352 (6285), pp. 560-564. Lu, Y., A.I. Cederbaum (2008), CYP2E1 and Oxidative Liver Injury by Alcohol, “Free Radical Biology and Medicine”, 44, 5, pp. 723-738. Mulligan, C., R.W. Robin, M.V. Osier, N. Sambughin et al. (2003), Allelic Variation at Alcohol Metabolism Genes (ADH1B, ADH1C, ALDH2) and Alcohol Dependence in an American Indian Population, “Human Genetics”, 113, 4. Schütze, M., M. Schulz, A. Steffen et al. (2009), Beer Consumption and the “Beer Belly”. Scientific Basis or Common Belief ?, “European Journal of Clinical Nutrition”, 63, 9, pp. 1143-1149. Shelton, N.J., C.S. Knott (2014), Association between Alcohol Calorie Intake and Overweight and Obesity in English Adults, “American Journal of Public Health”, 104, 4, pp. 629-631.

Capitolo 13 - La birra e il cervello

Per l’origine dell’espressione “voluntaria insania” e per un esame abbastanza dettagliato di quel che accade quando ci ubriachiamo vedi il nostro libro sul vino (Tattersall e DeSalle, 2014). Per una discussione più generale sull’origine, la struttura e la funzione del cervello umano vedi il nostro libro sul cervello (DeSalle e Tattersall 2013).

DeSalle, R., I. Tattersall (2013), Il cervello. Istruzioni per l’uso, Codice, Torino. Tattersall, I., R. DeSalle (2014), Il mondo in una bottiglia. Storia naturale del vino, Codice, Torino. Capitolo 14 - Filogenesi della birra

Questi otto siti web (visitati nel giugno 2018) presentano alberi evolutivi o altre rappresentazioni della tassonomia della birra. Per un’introduzione ai metodi filogenetici si veda DeSalle e Rosenfeld (2013). I criteri del Beer Judge Certification Program sono reperibili sul relativo sito web. La tavola periodica della birra e i taccuini di 33beers per la valutazione delle birre, con le ruote dei sapori, si trovano sul sito qui sotto indicato. https://www.popchartlab.com. http://www.allposters.com. https://cratestyle.com. http://phylonetworks.blogspot.com/2015/11/are-taxonomies-networks.html. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Beer_types_diagram.svg. http://randomrow.com/phylogeny-of-beer. https://twitter.com/dangraur/status/642028902982901760. http://clydesparks.com/everything-you-need-to-know-about-beer-in-one- chart-infographic. Beer Judge Certification Program (BJCP), https://www.bjcp.org/docs/2015_Guidelines_Beer.pdf. Beer Periodic Table, https://www.posterazzi.com. DeSalle, R., J. Rosenfeld (2013), Phylogenomics. A Primer, Garland Science, New York. Taccuini per la valutazione 33beers: http://33books.com.

Capitolo 15 - Gli uomini della rinascita

La fonte essenziale sulla composizione delle birre antiche e delle loro repliche moderne è McGovern (2017). La storia della prima riproduzione di una birra sumera è stata raccontata da Katz e Maytag (1991), che citavano anche l’Inno a Ninkasi nella traduzione inglese di Civil (1991). Samuel (1996a, 1996b) descrive l’analisi dei dati raccolti nel birrificio di Amarna. Calagione (2011) illustra il ruolo della Dogfish Head Brewery nella riproposizione delle birre antiche, mentre Brown (2012) ha dato conto della sua avventura nella riproduzione di un’autentica IPA.

Brown, P. (2012), Hops and Glory. One Man’s Search for the Beer That Built the British Empire, Pan, Londra. Calagione, S. (2011), Brewing up a Business (edizione riveduta e aggiornata), Wiley, Hoboken. Civil, M. (1991). Modern Breweries Recreate Ancient Beer, “Oriental Institute News and Notes”, 132, pp. 1-2, 4. Katz, S., F. Maytag (1991), Brewing an Ancient Beer, “Expedition”, 44, pp. 24-33. McGovern, P.E. (2017), Ancient Brews, Rediscovered and Re-Created, Norton, New York. Samuel, D. (1996a), Investigation of Ancient Egyptian Baking and by Correlative Microscopy, “Science”, 273, pp. 488-490. — (1996b), Archaeology of Ancient Egyptian Beer, “Journal of the American Society of Brewing Chemists”, 54, pp. 3-12.

Capitolo 16 - Il futuro della birra

Bostwick (2014) offre un’appassionante indagine sulla storia della birra in America, mentre Brown (2012) ha svolto un lavoro analogo per il Regno Unito. Brown (2006, 2012) riesce nell’impresa di divertire illustrando nel dettaglio gli effetti della globalizzazione della birra. Informazioni esaurienti sulla CAMRA sono reperibili al seguente indirizzo web: www.camra.org.uk (visitato il 7 giugno 2018). Ottimi resoconti sulla diffusione del movimento della birra artigianale negli Stati Uniti si trovano in Accitelli (2013) e Hindy (2014); per una valutazione generale vedi Elzinga, Tremblay e Tremblay (2015). Comunque, si tratta di un settore in rapida trasformazione, su cui conviene tenersi aggiornati consultando – con le dovute cautele – Internet.

Accitelli, T. (2013), The Audacity of Hops. The History of America’s Craft Beer Revolution, Chicago Review Press, Chicago. Bostwick, W. (2014), A History of the World According to Beer, Norton, New York. Brown, P. (2006), Three Sheets to the Wind. 300 Bars in 13 Countries. One Man’s Quest for the Meaning of Beer, Pan, Londra. — (2012), Shakespeare’s Pub. A Barstool History of London as Seen through the Windows of Its Oldest Pub – The George Inn. St. Martin’s Griffin, New York. Elzinga, K.G., C.H. Tremblay, V.J. Tremblay (2015), Craft Beer in the United States. History, Numbers, and Geography, “Journal of Wine Economics”, 10, pp. 242-274. Hindy, S. (2014), The Craft Beer Revolution. How a Band of Microbrewers Is Transforming the World’s Favorite Drink, Palgrave Macmillan, New York.