POLYMNIA Studi di Storia romana 5 Polymnia Collana di Scienze dell’antichità fondata e diretta da Lucio Cristante ______

Studi di Storia romana a cura di Gino Bandelli e Giovannella Cresci Marrone - 5 -

COMITATO SCIENTIFICO Élizabeth Deniaux (Paris), Hartmut Galsterer (Köln), Andrea Giardina (Roma), Juan Santos Yanguas (Vitoria), Claudio Zaccaria (Trieste), Giuseppe Zecchini (Milano)

REDAZIONE Tommaso Mazzoli

Matronae in domo et in re publica agentes : spazi e occasioni dell’azione femminile nel mondo romano tra tarda repubblica e primo impero : atti del convegno di Venezia, 16-17 ottobre 2014 / a cura di Francesca Cenerini e Francesca Rohr Vio. – [Trieste : Edizioni Università di Trieste, 2016]. - XVII, 356 p. : ill. ; 24 cm. (Polymnia. Studi di storia romana, 5) ISBN 978-88-8303-753-5 ISBN 978-88-8303-754-2 (online)

1.DONNE – POSIZIONE SOCIALE – ROMA ANTICA – SEC. 2. A. C. -1. 2. DONNE CELEBRI - ROMA ANTICA – SEC. 2. A. C. -1.

I. Cenerini, Francesca II. Rohr Vio, Francesca

305.42093763 (WebDewey 2016) Donne. Funzione e status sociale. Penisola italiana e territori limitrofi fino al 476. Roma antica

Opera sottoposta a double blind peer review

Il volume è stato pubblicato con il finanziamento del Progetto di Ateneo (Università Ca’ Foscari) 2012 "Matrone in politica e politica delle matrone. Spazi e modalità dell'azione femminile nella tarda repubblica romana"

I testi pubblicati sono liberamente disponibili su: http://www.openstarts.units.it/dspace/handle/10077/12892

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Autori e editore hanno operato per identificare tutti i titolari dei diritti delle illustrazioni riprodotte nel presente volume e ottenerne l’autorizzazione alla pubblicazione; restano tuttavia a disposizione per assolvere gli adempimenti nei confronti degli eventuali aventi diritto non rintracciati MATRONAE IN DOMO ET IN RE PUBLICA AGENTES

Spazi e occasioni dell’azione femminile nel mondo romano tra tarda repubblica e primo impero

Atti del Convegno di Venezia 16-17 ottobre 2014

a cura di Francesca Cenerini e Francesca Rohr Vio

EUT Edizioni Università di Trieste 2016

INDICE

Considerazioni introduttive VII

Abstracts X

Francesca Rohr Vio (Venezia) Matronae nella tarda repubblica: un nuovo profilo al femminile 1

Francesca Cenerini (Bologna) Le matronae diventano Augustae: un nuovo profilo al femminile 23

Alfredo Buonopane (Verona) Terenzia, una matrona in domo et in re publica agens 51

Ida Gilda Mastrorosa (Firenze) Matronae e repudium nell’ultimo secolo di Roma repubblicana 65

Novella Lapini (Firenze) Nuove prospettive per l’azione matronale: l’esempio di Cerellia corrispondente di Cicerone 89

Gian Luca Gregori (Roma) Polla Valeria e Valeria Polla: due matronae solo in apparenza omonime, tra Repubblica e Principato 109

Beatrice Manzo (Venezia) La parola alle matrone. Interventi femminili in sedi pubbliche nell’età tardo repubblicana 121

Carlo Franco (Venezia) La donna e il triumviro. Sulla cosiddetta laudatio Turiae 137

Sara Borrello (Venezia) Prudentissima et diligentissima femina. Servilia, M. Bruti mater, tra Cesariani e Cesaricidi 165

- V - Luigi Sperti (Venezia) Monumenti funerari con 'matrone' filellene tra Aquileia, Roma e le province 193

Anthony Alvarez Melero (Sevilla) Les parentes féminines de chevaliers romains à l’époque tardo-républicaine (fin IIe s.-27 av. J.-Chr.) 217

Alessandra Valentini (Venezia) Ottavia la prima ‘First Lady of Imperial Rome’ 239

Maria Letizia Caldelli (Roma) Evergetismo femminile ad Ostia tra tarda repubblica ed età alto-imperiale 257

Stefano Maggi (Pavia) Sub specie dearum. Su alcuni tipi statuari femminili nella Cisalpina romana 277

Gabriele Martina (Pavia - Grenoble) L’interventismo familiare di Antonia Minore: il caso della morte di Germanico e Livilla 287

Agathe Migayrou (Paris) Les spectacles, nouveau lieu d’intervention des femmes dans la vie publique romaine à la fin de la République et au début de l’Empire? 305

Isabelle Cogitore (Grenoble) Flavius Josèphe et le rôle des femmes en politique, de Cléopâtre à Antonia 323

Beatrice Girotti (Bologna) Le madri modello: Cornelia, Aurelia, Azia. Su Tacito, Dialogus de Oratoribus, 2,28-29 e sul ‘recupero’ del passato da parte di San Gerolamo 339

François Chausson (Paris) Conclusioni 353

- VI - CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

Quanta erit infelicitas urbis illius, in qua virorum officia mulieres occupabunt! 1 È Lattanzio a lamentare nella sua Epitome la cattiva sorte di una città in cui le donne avessero assunto i compiti pubblici e politici, tradizionalmente di esclusiva competenza maschile. La lunga storia di Roma dimostrava il carattere irrealistico di questa eventua- lità: il pudor, virtù vincolante per la condotta delle matrone secondo il mos maiorum, le costringeva, infatti, in una dimensione prevalentemente privata, ma soprattutto le norme che presiedevano alla vita istituzionale, militare, civica precludevano l’attività pubblica alla componente femminile della società. Tale estraneità delle donne rispetto alla vita cittadina subì, tuttavia, una significativa, anche se per molti aspetti solo temporanea, trasformazione tra la fine del II e il I se- colo a.C., quando si crearono condizioni tanto particolari da permettere alle matrone di violare i confini fisici ma anche ‘ideologici’ rappresentati dalla domus, solo spazio e ambito pertinente all’azione femminile, e di agere in re publica, interferendo nella vita pubblica e politica dell’Urbe. In questi decenni significativamente coincidenti con la vita di Cicerone, identificato dalla critica come il probabile ispiratore della riflessione di Lattanzio, la successione ininterrotta di scontri intestini determinò infatti l’allon- tanamento di molti uomini dalle sedi della decisione politica e un sovvertimento delle regole della vita civica, che aprirono ad alcune donne - mogli, madri, figlie e sorelle dei detentori del potere -, spazi di azione prima loro preclusi. Se nella maggioranza dei casi questi comportamenti contrari alla tradizione determinarono la delegittimazione delle loro promotrici, in altre evenienze il vincolo della pietas nei confronti di quei familiari che con il loro operato esse tentavano di tutelare, consentì di giustificare le infrazioni della tradizione di cui le matrone si resero responsabili, preservando la loro immagine sia nella valutazione dei contemporanei sia nella memoria dei posteri. E ciò permise che nel percorso di normalizzazione avviato con la ritrovata pax augustea, pur in una tendenza evidente a ricondurre i comportamenti femminili nell’alveo della tradizione, persistes- sero alcune delle trasformazioni che nel ruolo pubblico e politico femminile si erano prodotte nel corso della tarda repubblica. Lo spettro cronologico che connota questa raccolta di saggi, le cui riflessioni si di- spiegano attraverso un arco temporale che dal II secolo a.C. si estende fino al I d.C., risponde proprio alla duplice finalità di questo volume: da un lato, attraverso un approccio sincronico si sono intesi definire, nel momento del loro prodursi, i molti aspetti del complesso fenomeno che nella tarda repubblica consentì l’attività delle matrone sulla scena pubblica; dall’altro, in prospettiva diacronica, ci si è proposti di verificare le forme della condizione femminile che si determinò allorché, dopo decen-

1 Lact. Epit. 33 (38) 5.

- VII - ni di trasformazione, si raggiunsero nel I secolo d.C. nuovi equilibri politici e sociali in bilico tra innovazione e conservazione. Con un’attenzione specifica alla tarda repubblica, si è perseguito quindi in prima istanza l’obiettivo di ricostruire il profilo delle protagoniste della trasformazione, le sedi e le occasioni della loro azione, le motivazioni e le modalità del loro operare in domo e in re publica. In una prospettiva di ampia durata, si è individuata la seconda finalità nel delineare l’entità e le forme della persistenza, oltre il periodo della crisi, delle caratteristiche dell’iniziativa pubblica e politica matronale, con attenzione alla costruzione in rebus del modello femminile ma anche alla sua incidenza condizionan- te nella memoria post res degli eventi. I contributi raccolti in questo volume sono in larga parte la rielaborazione per iscritto, anche alla luce della discussione, delle relazioni tenute in occasione del Convegno Internazionale “Matronae in domo et in re publica agentes. Spazi e occasioni dell’azio- ne femminile nel mondo romano fra tarda repubblica e primo impero”, che ha avuto luogo a Venezia il 16 e il 17 ottobre 2014. L’occasione congressuale ha rappresentato il momento conclusivo del Progetto finanziato dall’Università Ca’ Foscari nel 2012 dal titolo “Matrone in politica e politica delle matrone. Spazi e modalità dell’azione fem- minile nella tarda repubblica romana”, scaturito dalla collaborazione tra studiosi ita- liani e francesi, specialisti di diversi ambiti disciplinari: Francesca Cenerini (Univer- sità Alma Mater Studiorum di Bologna), Alfredo Buonopane (Università degli Studi di Verona), Maria Letizia Caldelli (Sapienza Università di Roma), François Chausson (Université Paris I Panthéon Sorbonne), Isabelle Cogitore (Université Grenoble III Stendhal), Gian Luca Gregori (Sapienza Università di Roma), Anna Lina Morelli (Università Alma Mater Studiorum di Bologna), Luigi Sperti e Francesca Rohr (Uni- versità Ca’ Foscari di Venezia), coordinatore della ricerca. I contributi presentati in sede congressuale sono affiancati in questo volume da saggi incentrati su episodi e personaggi, che si rivelano decisivi per la comprensione dell’azione matronale in domo et in re publica tra II secolo a.C. e I secolo d.C. Convegno, progetto e pubblicazione di questo volume rientrano tra le attività del grup- po di ricerca internazionale GIEFFRA (Groupe International d’Etudes sur les Femmes et la Famille dans la Rome Antique), coordinato da Francesca Cenerini, François Chaus- son, Isabelle Cogitore e Francesca Rohr: esso si propone di costituire una sede di con- fronto scientifico sui temi della donna e della famiglia nel mondo romano tra studiosi di formazione, competenze e nazionalità diverse attraverso l’ineludibile esegesi della documentazione antica. L’organizzazione del Convegno e la pubblicazione di questo volume di Atti molto de- vono al patrocinio di importanti enti e gruppi di ricerca: l’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ha assicurato anche l’imprescindibile sostegno finanziario, l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, l’Associazione per lo sviluppo e la diffusione degli

- VIII - Studi sull’Italia romana Terra Italia, l’Associazione italiana di Cultura Classica – de- legazione di Venezia, il Gruppo internazionale di ricerca sulla donna e la famiglia in Roma antica GIEFFRA. Il volume si pone in prosecuzione ideale del lavoro pionieristico svolto nei due Seminari sulla condizione femminile organizzati da Alfredo Buonopane e Francesca Cenerini nel 2002 e nel 2004; benché essi abbiano posto l’accento in termini privilegiati sul record epigrafico, questi Atti, i cui contributi si connotano per un approccio multidisciplinare, si presentano come Terzo Seminario sulla condizione femminile perché da tali esperien- ze hanno ereditato l’attenzione specifica per il soggetto femminile nel mondo romano, l’apertura internazionale e la volontà di un confronto ancorato alle fonti.

Francesca Cenerini Francesca Rohr Vio

- IX - ABSTRACTS

Francesca Rohr Vio (Venezia), Matronae nella tarda repubblica: un nuovo profilo al femminile

This paper has the objective to give a general vision of the new conditions of the women’s public and political action in the I century b.C. At those times the frequent civil wars took far apart many men from institutional life and allowed matronae to act in politics. When do women act in politics and which is the typology of their actions? Do women act in private background, that now has become even politics’context, or do they act in public background? Through which instruments, and overall through which languages, do matronae act their strategies? Which role do they act, between the need of conforming and the boost for development, the male models of political action and pre- vious female experiences in public life? This paper evidences specific cases of matronal interferences in political life, which offers advices about who this phenomenon in this chronological context has became so common and popular.

Francesca Cenerini (Bologna), Le matronae diventano Augustae: un nuovo profilo al femminile

This paper analizes the new role of women in the newdomus Augusta and at the beginning of the Roman imperial society, expecially Livia, Augustus’ wife, called Iulia Augusta after the dead of her husband.

Alfredo Buonopane (Verona), Terenzia, una matrona in domo et in re publica agens

Terentia, the wife of Cicero, is one of several women dramatically involved in their husbands’ political affairs during the years of civil wars. Many of Cicero letters, ad- dressed both to her both to Atticus, give us a vivid picture of a matrona who, left alone in Rome with two sons, among many difficulties of all kinds, must with courage and fortitude, agere in domo to handle all the problems of everyday life, exacerbated by a lot of financial difficulties and also by the not easy relations with the son in law Quintus or the engagement of their daughter Tullia with Dolabella, but must also agere in re publica to urge political and economic support for her husband and to solve intricate property questions, as the fictional liberation of slaves or the restitution of the land on which stood her house.

- X - Ida Gilda Mastrorosa (Firenze), Matronae e repudium nell’ultimo secolo di Roma repubblicana

The meaning that matrimonial dynamics have acquired in the development of the late republican political conflicts and in parallel the role played by the matronae in those contexts have been repeatedly explained, both in a prosopographic key and from the gender studies perspective. However, more or less recent historiography does not seem to have given particular importance to the peculiarity of the circumstances and mo- dalities that in the last century of the accompanied the planning of marriages and their dissolution. A careful analysis of the cases of repudium involving key figures such as Silla, Pompey, Caesar, Cato of Utica, Cicero, Antony and Octavian reveals that the reasons underlying their decisions to break their marriage bonds were not always consistent with earlier practice. This was witnessed in paradigmatic terms by memorialist and antiquarian sources (Valerius Maximus and Gellius), according to whom the dissolution of a marriage would be allowed in the case of female sterilitas or would not be considered inappropriate in the case of licentious behaviour of the women. Nonetheless, certain episodes involving the above mentioned major figures of the late Roman Republic denote a use dictated by a concern for protecting their public image and their need to regain the faculty of contracting new marriages that would be politically or financially more advantageous. Overall, the male tendency to make an instrumental use of repudium, in the context of marriages contracted from time to time according to contingent convenience, in addition to revealing a marked change from the older tradition, can be considered a direct reflection of the unilateral nature of the dissolution of marriage in Roman practice. It is also an indication of the reduced scope for action of the matronae, occasionally forced away from their domestic domicile by their spouse, despite their important role in the context of marriages arranged in view of the utility of marriage in the public sphere.

Novella Lapini (Firenze), Nuove prospettive per l’azione matronale: l’esempio di Cerel- lia corrispondente di Cicerone

This paper aims to analyze the cultural level and the possibility of economic and so- cial action reached by the matrons belonging to the élite at the end of the Republic. So, I focused on the study of a specific case, the life of Cerellia, whose name is known thanks to seven Cicero’s letters, written between 46 and 44 BC (from ad Fam. XIII 72 to ad Att. XV 26), and thanks to the limited information available in the literary sources. Unfortunately, had gone almost completely lost the famous Epistulae ad Caerelliam, the only letters written by Cicero to a matron – except those sent to his first wife erT -

- XI - entia and his daughter Tullia – which had been published. Anyway, according to the analysis of available data it will be possible to delineate the socio-economic context of Cerellia and to infer some general characteristics of the life of contemporary women. First of all, she owned a remarkable fortune – as many matrons of Late Republic – and administered it without a tutor, thus entering in contact with prominent figures, such as Cicero himself and his friend T. Pomponius Atticus. Secondly, she had a fine and wider culture, with interest even in philosophical debates, a prerogative not commonly attested for Roman women. Although we haven’t direct information about her family, Cicero’s letters allows us to suppose a kinship between Cerellia and Publilia, the second wife of the great orator. Further epigraphic investigations had allowed to reconstruct a possible family tree for the correspondent of Cicero, as a member of the first family of the gens Caerellia who was able to enter into Senat (CIL, VI 1364). Finally, this analysis will allow us to consider Cerellia as a typical member of the senatorial-equestrian élite and to elect her personal story as the normal condition of contemporary matrons.

Gian Luca Gregori (Roma), Polla Valeria e Valeria Polla: due matronae solo in apparenza omonime, tra Repubblica e Principato

In the inscriptions of Rome we find twomatronae with the same name: however in one of them Polla is praenomen, in the other it is cognomen. We study an unpublished funerary inscription of a Polla Valeria’s psaltria, who lived at the end of the Republican age and we try to assign the already known inscriptions to one woman or to the other.

Beatrice Manzo (Venezia), La parola alle matrone. Interventi femminili in sedi pub- bliche nell’età tardo repubblicana

During the age of Late Republic the women scope of action cover also the public contest, like the forum, where usually the men spent the politically life and that tradi- tionally were the sole male enjoyment. The paper allowed to analyse if the presence of matronae in metters of res publica brings them to appropriate over time even in commu- nicative mode indispensable to such kind of activities. Thanks to the historical sources we considered three of the most representative events, dated between 43rd and 42nd b.C.; we analyse the figures of Fulvia, Giulia and Ortensia, representatives of the Roman aristocracy in a period of innovation. Our propose it is also to study similarities and differences between these kind of facts, the evolution of female rule and the question of dependence in the late republican events and in proto and meso republican age focusing the reability of sources.

- XII - Carlo Franco (Venezia), La donna e il triumviro. Sulla cosiddetta laudatio Turiae

The funeral speech known aslaudatio Turiae is a well exploited source for the po- litical and social history of Rome. Especially focused here is the section which nar- rates the meeting between the anonymous wife and Lepidus the triumvir, in 42 BCE, and the mistreatment the woman suffered as she tried to obtain the restitutio of her proscribed husband. The scene is described in the text with a language which still be- trays, several decades after the fact, and at the peak of the Augustan era, persistent bias against Lepidus.

Sara Borrello (Venezia), Prudentissima et diligentissima femina. Servilia, M. Bruti mater, tra Cesariani e Cesaricidi

This paper concerns the figure of Servilia, matronaa who lived in the late Roman Republic and who was the mother of M. Junius Brutus, the half-sister of Cato of Utica, the mistress and close friend of Julius Caesar. During her existence, she was the focus of a web of relationships with politicians belonging to different parties. In particular, the study aims to reconstruct her political behaviour ‘behind the curtain’ during the histori- cal events which occurred after Caesar’s assassination, when she played a very important role for the Caesaricide faction, until the death of Brutus and Cassius. The analysis of literary sources, in particular Cicero’s corre-spondence, allows to underline, on the one hand, the actions that qualify her as a woman extra mores, though legitimized by the pietas that she displayed in her son’s interest; on the other hand, the use of traditionally masculine media, especially the verbal one, which alienates Servilia from the feminine canon of the mos ma-iorum but which justifies her enterprise because of the particular historical context of the late Roman Republic.

Luigi Sperti (Venezia), Monumenti funerari con ‘matrone’ filellene tra Aquileia, Roma e le province

Some funerary altars of Aquileia dating in the 1° century AD show images of women inspired, in attitude, attributes and gestures, by Greek stelai of classical and Hellenistic periods. These figures do not belong to the traditional repertoire of north-Italic ateliers, and are widespread in different forms also in the funerary art of several Roman provinces. This paper follows the traces of these philhellenesmatronae , investigating the geographical spread of their tombs, the chronological framework, the relationship

- XIII - with the type and the iconography of the monument, and finally the meaning of this particular phenomenon.

Anthony Alvarez Melero (Sevilla), Les parentes féminines de chevaliers romains à l’époque tardo-républicaine (fin IIe s.-27 av. J.-Chr.)

The aim of this work is to study, if possible, the influence exercised by those female relatives of the Roman knights known in the last decennia of the first century BC. At that time, the equestrian order still did not have the legal definition created by Augus- tus. Even though women in Imperial times did never belong to the equester ordo, they played a crucial part in social promotion of their male relatives, through their weddings or wealth. This is the role we intend to highlight in and in the provinces, even if we are aware of the complexity of this work, due to our sources (mainly literary, instead of epigraphic) and the available evidence.

Alessandra Valentini (Venezia), Ottavia la prima ‘First Lady of Imperial Rome’

A.A. Barret, in his book of 2002, describes Livia as the ‘First Lady of Imperial Rome’, in order to illustrate the exceptional nature of the role played by the wife of Augustus within the new political and social context of the empire, suggesting that she was the first woman to assume this role. Augustus’ choices concerning the wife reveal his will to gradually ensure for Livia a prominent position within the new political real- ity and to strengthen the public role of women of his gens in the new political con-text. For her role as mother of Augustus’ heir and for her longevity, she benefited from this experimentation, however ancient evidences show that the main subject of this process was Octavia Minor, sister of Augustus. Through the analysis of some specific aspects of her action (the role as mediator and as patron, the matrimonial strategies concerning her children, the active role in the urban development of Rome) this paper tries to show how the role of first ‘First Lady’ can be given to her.

Maria Letizia Caldelli (Roma), Evergetismo femminile ad Ostia tra tarda repubbli- ca ed età alto-imperiale

The contribution focuses on some female figures, known through some Ostian inscriptions, who were able to connect their own name, as well as that of their male counterparts, to many areas of civic life through the construction, enlargement or restuaration of public buildings, the offering spectacles and the creation of foundations

- XIV - for the public good. These women show us the level of wealth they had attained and, on the other side, by the choice of the type of munificence, they reflect the choices of the matronae of the Roman aristocracy and of the imperial domus.

Stefano Maggi (Pavia), Sub specie dearum. Su alcuni tipi statuari femminili nella Cisalpina romana

The Kore-type - with its versions, derivations, and contaminations - occupied an im- portant position in the sequence of female statues in Roman Cisalpine Gaul. This type was clearly included among the types in common circulation all over the Roman World, with a particular concentration in the eastern part of that territory, during the Julio-Claudian dynasty. From an artistic point of view, the quality of the statues is not particularly high and, in generally, a thin veil of classicism is evident. It is notable, however, that this type was not reserved for exclusive use by the imperial family but was also adopted by local élites

Gabriele Martina (Pavia - Grenoble), L’interventismo familiare di Antonia Minore: il caso della morte di Germanico e Livilla

This paper aimed to examine the positions adopted by Antonia Minor and dictated by political reasons on the occasion of the death of her oldest son, Germanicus and her only daughter, Livilla. The presence of Antonia during her son’s public funeral and post- humous honours is attested by the epigraphic evidences of the Tabula Siarensis and the SC de Cn. Pisone Patre, although Tacitus records her absence (Ann., III 1-3). Allegedly, the daughter Livilla helped her lover Sejanus in poisoning her husband Drusus the Younger and, according to Cassius Dio (LVIII 11, 7), Tiberius handed Livilla over to her mother, who starved her to death: in this act, Antonia Minor seems to exercise a right of the paterfamilias, the power of life and death over his children. Her authority perhaps derives from her status of univira, a woman who had only one husband throughout her life, and from her blood ties with Augustus and her kinship with Tiberius. Hence Anto- nia Minor is portrayed as consistently loyal to the dynasty.

Agathe Migayrou (Paris), Les spectacles, nouveau lieu d’intervention des femmes dans la vie publique romaine à la fin de la République et au début de l’Empire?

Asking about spaces and opportunities for feminine action in the Roman world be- tween the end of the Republic and the beginning of the Empire leads us to wonder

- XV - about the evolution of the woman’s place in the Roman society at this period. Spectacles constitute both a major political place and an opportunity whose structures get set up precisely at this time. However, it is also at that time that the women appear, in a quite remarkable way, in the documentation relating to the spectacles. It seems reasonable to relate this phenomenon with the transformations that the « system of spectacles » knows then and that must fit under the global context of deep evolutions that affect the Roman society between the first century BC and the first century AC. Rather than try- ing to highlight, in one field of the public life, a larger phenomenon of women’s eman- cipation, it is interesting to turn the reasoning over and insist on the mutations and evo- lutions that transform the Roman society and allow new places of public expression and public interventions to open. Those make a way for some less visible social categories. Then we can wonder if women take advantage of those new intervention’s opportunities in the public life and in which way. The women’s means of intervention in the spectacles and their consequences are different according to the categories of women. So, we will first take an interest in the opening of this professional world to women and its effects. Then, we will go back on the exceptional interventions of aristocratic women in the spectacles and the highly political dimension of this phenomenon.

Isabelle Cogitore (Grenoble), Flavius Josèphe et le rôle des femmes en politique, de Cléopâtre à Antonia

This paper aims at showing how Flavius Josephus represents three major networks of political influence between women: the first between Alexandra, mother of Mariamme and Cleopatra; the second between Salome, Herod’s sister and Livia; and the last one between Berenice and Antonia. Josephus shows these networks operate, namely through messengers and letters, and establishes a kind of feminine political network, parallel to men’s relationship, but sometimes involving men as well. The most important constata- tion is that Hellenistic women and Roman women of the Principate used the same kind of network, all over the Roman world: political action for women went through the same channels, in both the Hellenistic and imperial courts.

Beatrice Girotti (Bologna), Le madri modello: Cornelia, Aurelia, Azia. Su Tacito, Dialogus de Oratoribus, 2,28-29 e sul ‘recupero’ del passato da parte di San Gerolamo

Each of the ancient Roman matronae was given, from the sources available to us, a special type of praise: Lucrezia the modesty, to Marzia gravity, the ardor of married Por- cia, a sober “festevolezza” to Claudia, to Giulia the grace. One of “Cornelia” is praised

- XVI - for the strength and generosity of spirit, the other for the sweetness of manners and words. Cornelia, the mother of the Gracchi, is described by Tacitus as an example of the ideal mother, who raises “good children”. As this pattern of mother has influenced the later sources? And until this female model is exploited? How real was the influence of the matronae on the education of their children? Considerations slip of the concept of motherhood by the testimony of Tacitus “revised” by Saint Jerome.

- XVII -

FRANCESCA ROHR VIO

Matronae nella tarda repubblica: un nuovo profilo al femminile

Le condizioni particolari della tarda repubblica, quando le guerre civili allontanaro- no dalle sedi della politica molti dei protagonisti e contestualmente consentirono la di- rompente affermazione di nuovi soggetti, determinarono l’accesso anche delle matrone a spazi di azione pubblica e talvolta politica in precedenza loro preclusi. Così le donne, il cui ambito di attività, pressoché esclusivamente privato, per secoli si era identificato nella domus, ora fruivano di occasioni molteplici per intervenire nella politica cittadina, sia agendo in luoghi pubblici destinati anche a funzioni istituzionali, quali il foro e i tri- bunali, sia perpetuando la loro azione nei contesti domestici, divenuti tuttavia in questi decenni anche sedi parallele dell’attività politica. In tale nuovo ruolo, le matrone ora talvolta operarono come mere esecutrici di disposizioni maschili, talvolta concertarono con gli uomini della loro famiglia le strategie di azione, talvolta, infine, agirono in piena autonomia. La valutazione dei contemporanei e dei posteri nei confronti di tale trasfor- mazione extra mores in alcuni casi risultò giustificativa, perché ricondusse l’iniziativa femminile alla pietas nei confronti dei familiari; in altri si tradusse invece in polemica, poiché individuò in questi comportamenti un tradimento perpetrato dalle donne nei confronti della loro identità di genere e valorizzò tali circostanze ai fini della delegitti- mazione degli uomini che a queste donne erano legati da rapporti di parentela e che esse rappresentavano attraverso le loro iniziative. La documentazione antica, che non palesa se non in rare occasioni un’attenzione specifica nei confronti dei soggetti femminili, in riferimento al I secolo a.C. ospita, in- vece, numerose attestazioni di iniziative matronali in ambito pubblico e politico; ciò suggerisce come l’interferenza delle donne nella vita pubblica fosse divenuta pervasiva. Le coordinate di tale fenomeno, di complessa ricostruzione, per Roma si possono alme- no in parte delineare attraverso l’indagine degli episodi documentati nella tradizione antica e riconducibili a tipologie di intervento ricorrenti, che attestano la trasformazio- ne progressiva nella tarda repubblica di iniziative estemporanee in vera e propria pratica di azione, pur sottoposta a severa revisione nel successivo riassetto imperiale. In questa prospettiva tre aspetti sembrano rivestire primaria importanza: la tipologia delle occa- sioni, assai eterogenee, in cui le matrone assunsero un ruolo attivo; i contesti nei quali le iniziative femminili presero corpo; le modalità attraverso le quali le matrone promosse- ro la loro azione, e in particolare i linguaggi che esse adottarono, già sperimentati dalle donne, seppure in contesti diversi, oppure mutuati dalla pratica maschile, in precedenza esclusiva, in quegli specifici ambiti. Come è noto, l’incidenza delle matrone nella politica romana rappresenta un feno-

- 1 -

MatronaeOK.indb 1 21/06/16 08:55 FRANCESCA ROHR VIO

meno già documentato per l’età monarchica, proto e meso-repubblicana; tuttavia, con l’esclusione di rari episodi, in quell’arco temporale le donne erano state lo strumento di decisioni e azioni altrui, rivestendo un ruolo passivo, e allora una vera e propria interferenza femminile si era prodotta come un fatto eccezionale: così, ad esempio, le matrone svolgevano un ruolo nella costituzione di alleanze politiche perché og- getto degli accordi matrimoniali pianificati dalpater familias e in quanto generatrici di cives, nei quali si traducevano in forma stabile accordi tra gruppi di potere; esse, inoltre, all’interno delle loro domus risultavano depositarie di una memoria familia- re, patrimonio che tuttavia era stato costruito nei secoli dalla componente maschile della famiglia. Tra la fine del II e il I secolo a.C., invece, alcune donne con una certa continuità intrapresero in prima persona iniziative che le resero protagoniste attive dell’azione politica: interferirono nelle strategie matrimoniali – in termini di scelta del marito o di rifiuto di un legame oppure di scioglimento del vincolo coniugale proprio o altrui –; furono promotrici di mediazioni di contenuto politico; agirono in tribunale; gestirono le spoglie dei loro parenti defunti, strumento potenzialmente decisivo nella lotta politica; funsero da collegamento tra i loro familiari lontani e le basi di consenso romane di questi ultimi; furono coinvolte in modi diversi nell’azione politica dei loro congiunti1. Esemplificativo dell’interferenza di mogli e figlie nella scelta del marito2 è il caso di Terenzia e Tullia che nel 50 a.C., assente Cicerone, organizzarono le nozze della giovane con Publio Cornelio Dolabella:

Mentre nella mia provincia colmo Appio di attestazioni di onore sotto ogni for- ma, tutto d’un tratto mi trovo ad essere suocero del suo accusatore. Tu dirai: “Che gli dei concedano il proprio assenso precisamente a questo vincolo!” Io vorrei che fosse così e so con certezza che tu desideri la stessa cosa. Ma, devi credermi, niente

1 Si anticipano in questa sede in forma selettiva temi di un’analisi ad ampio spettro di caratte- re monografico sull’azione pubblica e politica matronale nella tarda repubblica romana di pros- sima pubblicazione. 2 Per i nuovi margini di intervento nelle strategie familiari riconosciuti ora alle matrone dive- nute sui iuris dopo la morte del padre vd. Corbier 1991, 61. Tali prerogative sembrerebbero attestate, ma in forma episodica e sulla base di una tradizione molto incerta, già nel II secolo a.C.: secondo Livio (XXXVIII 57) intorno al 170 a.C. Emilia Terza, moglie di Scipione l’Africano, avrebbe protestato perché esclusa dalla scelta del marito per la figlia Cornelia, sposa di Tiberio Sempronio Gracco padre; Plutarco (TG 4) attesta invece che fu Antistia, moglie di Appio Clau- dio Pulcro, a contestare, una generazione dopo, la cessione decisa dal marito della figlia a Tiberio Sempronio Gracco, figlio di Cornelia e Tiberio. Sulla questione vd. Valentini 2012, 206-216. Già nel V secolo a.C. Veturia, madre di Coriolano, avrebbe scelto la moglie per il figlio, supplen- do tuttavia in questa funzione a un padre già deceduto. Su tale notizia, di difficile interpretazio- ne, vd. Plu. Cor. 4, 3. Cf. Le Corsu 1981, 114-115 e 121-124.

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mi sarei aspettato meno di questa novità, come è vero che avevo mandato da mia moglie e da mia figlia alcune persone di sicuro affidamento, per informarle riguardo a Tiberio Nerone, il quale aveva avuto uno scambio di idee con me. I miei inviati arrivarono a Roma a fidanzamento ormai avvenuto. Ma spero che questa scelta risulti migliore. Mi rendo ben conto che le mie donne si sentono lusingate dalla deferenza e dall’affabilità del giovane fidanzato3.

Il ruolo delle donne nel fallimento di progetti matrimoniali è attestato dal rifiuto di Cornificia, sorella del poeta e politico Quinto Cornificio, che nel 46 a.C. respinse la proposta di Iuvenzio Talna perché, d’accordo con sua madre, riteneva non adeguato il patrimonio dello sposo:

Egli aveva chiesto in moglie Cornificia, figlia di Quinto, alquanto vecchia e con molte esperienze matrimoniali alle sue spalle; ma egli non era ben accetto alle donne in quanto avevano saputo che il suo patrimonio non superava gli 800.000 sesterzi4.

Nella prospettiva inversa del divorzio agì da protagonista nel 50 a.C. Polla Valeria, la quale lasciò il marito per stringere un nuovo vincolo matrimoniale, con Decimo Giunio Bruto Albino:

Polla Valeria, sorella di Triario, ha divorziato senza alcun motivo nel giorno stesso del ritorno del marito dalla provincia. Si sposerà con Decimo Bruto: non

3 Cic. Att. VI 6, 1: Ego dum in provincia omnibus rebus Appium orno, subito sum factus accusa- toris eius socer. ‘id quidem’ inquis ‘di approbent!’ ita velim teque ita cupere certo scio. sed crede mihi, nihil minus putaram ego qui de Ti. Nerone qui mecum egerat certos homines ad mulieres miseram, qui Romam venerunt factis sponsalibus. sed hoc spero melius; mulieres quidem valde intellego delec- tari obsequio et comitate adulescentis. In merito a tali nozze vd. anche Cic. fam. II 15, 2; III 12, 2; VII 32, 3; Cic. Att. VII 3, 12. Cf. Cic. Phil. XI 4, 10 e cf. Treggiari 2007, 83-86 e il contributo di Buonopane in questo volume. Tra i numerosi altri esempi: intorno all’84 a.C. con ogni pro- babilità fu Aurelia a organizzare le nozze di Cesare con Cornelia (per le quali Svet. Iul. 1 e Plu. Caes. 1, 1); nell’82 a.C. Cecilia Metella, moglie di Silla, pianificò il matrimonio della figlia Emilia con Pompeo (Plu. Pomp. 9. Vd. Cenerini 2012, 104); nell’80 a.C. Valeria, vedova, nipote di Marco Ortensio Ortalo, decise di sposare Silla (Plu. Sull. 35. Vd. Hinard 2003 (1985), 22). 4 Cic. Att. XIII 28, 4 del maggio del 45 a.C.: Se scire aiebat ab eo nuper petitam Cornificiam, Q. filiam, vetulam sane et multarum nuptiarum; non esse probatum mulieribus, quod ita reperirent rem non maiorem DCCC. Analogamente coinvolte nel fallimento di un progetto matrimoniale, ma in questo caso invece sostenitrici dell’opportunità delle nozze, furono la moglie e la sorella di Catone le quali nel 61 a.C. perorarono attivamente, ma invano, la causa di Pompeo che propone- va a Catone un doppio matrimonio per sé e il proprio figlio con le nipoti (o figlie) di Catone (Plu. Pomp. 44, 3-6; Plu. Cat. Mi. 45): vd. Hillard 1983, 11 e Corbier 1991, 62.

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te l’aveva ancora detto. Molte cose di questo genere, e veramente incredibili, sono successe durante la tua assenza5.

Oltre che come soggetti attivi nell’ambito dei matrimoni, le matrone tardo repubbli- cane interferirono nella politica del loro tempo attraverso l’impostazione in prima per- sona di mediazioni di contenuto politico, per le quali operarono presso parenti oppure per questi ultimi presso individui esterni alla cerchia familiare o mettendo in relazione soggetti con cui non condividevano alcun legame di parentela6. Oltre alle decisive me- diazioni di Giulia, madre di Antonio, Mucia, madre di Sesto Pompeo, e Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Antonio7, si annoverano numerosi altri casi. Così, ad esempio, nel 62 a.C., probabilmente su sollecitazione del marito Publio Sestio, Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Scipione Asiatico, si rivolse a Terenzia perché presso Cicerone perorasse la riconferma di Sestio nel ruolo di proquestore di Macedonia, mentre in senato si discu- teva la nomina di un successore8. Come attesta l’Arpinate nell’Epistolario, in relazione a una questione pubblica come la nomina di un magistrato provinciale la ‘voce’ della matrona, che rappresentava il marito, aveva ottenuto maggior credito rispetto a quella del segretario Decio e alle stesse lettere autografe di Sestio:

È venuto da me il tuo segretario Decio e ha chiesto un mio interessamento per evitare ora la nomina di un tuo successore. Sebbene io non avessi dubbi sulla sua onestà e sulla sua amicizia nei tuoi confronti, tuttavia, ricordando bene il con- tenuto della nostra precedente corrispondenza, non ho prestato troppa fiducia

5 Cic. fam. VIII 7, 2 di Celio a Cicerone dell’aprile del 50 a.C.: Paulla Valeria, soror Triarii, divortium sine causa, quo die vir e provincia venturus erat, fecit: nuptura est D. Bruto; nondum rettuleras. Multa in hoc genere incredibilia te absente acciderunt. L’identità del precedente ma- rito, che all’epoca rientrava dalla sua destinazione provinciale, non è nota; sull’episodio vd. il contributo di Gregori in questo volume. Nello stesso anno Fabia sciolse il legame con Publio Cornelio Dolabella: Cic. fam. VIII 6, 1; Quint. inst. VI 3, 73. Vd. Rohr Vio 2006, 112 n. 53. 6 In merito alle molteplici mediazioni politiche di cui furono artefici le matrone nella tarda repubblica vd. Rohr Vio in corso di stampa che analizza gli episodi che ebbero per protagoniste Cecilia Metella nell’86 a.C.; Mucia e Clodia nel 63 a.C.; Fulvia e Terenzia nel 63 a.C.; Giulia e Terenzia nel 63 a.C.; Cornelia e Terenzia nel 62 a.C.; Terenzia e Citeride nel 48 a.C.; Giunia Seconda nel 44 a.C.; Tanusia e Ottavia nel 43 a.C.; Giunia Seconda e Servilia nel 43 a.C.; Fulvia e Giulia nel 43 a.C.; nonché Cleopatra che progettò di coinvolgere Ottavia e Livia in una media- zione in suo favore nel 30 a.C. 7 Guerra Lopez 2005, 607-616; Lejeune 2012, 99-107. 8 La cronologia dell’intervento di Cornelia si evince dalla menzione di Quinto Fufio Caleno nella lettera come tribuno della plebe. Sestio aveva esercitato la questura nel 63 a.C. e l’anno suc- cessivo era stato proquestore in Macedonia con il proconsole Antonio Ibryda. Vd. Cavarzere 2007, 445.

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a quest’uomo, per quanto affidabile, e non riuscivo a credere che i tuoi desideri fossero mutati tanto radicalmente. Ma dopo un incontro tra la tua Cornelia e Terenzia e dopo che io ebbi parlato con Quinto Cornelio, mi premurai di partecipare a tutte le sedute del senato, e in queste occasioni ho incontrato un sacco di difficoltà a convincere il tribuno della plebe Quinto Fufio, e tutti gli altri a cui tu avevi scritto, a credere alle mie parole piuttosto che al contenuto delle tue lettere9.

Occasioni non episodiche per le matrone per interferire nella vita cittadina furono anche gli interventi in tribunale, nelle vesti di testimone o anche di avvocato di se stesse, promossi attraverso modalità espressive tradizionalmente femminili come la gestualità o specificamente maschili come la parola tradotta in discorso10. Così, ad esempio, nel 61 a.C. la madre di Cesare Aurelia e sua sorella Giulia testimoniarono in tribunale contro Publio Clodio che aveva violato i riti della Bona Dea, in un processo certo di competenza femminile per il carattere del culto violato da Clodio, ma i cui esiti, come risultava evidente, avrebbero condizionato i futuri equilibri politici:

Chiamato a deporre come teste contro Publio Clodio, colpevole di adulterio con sua moglie Pompea e accusato per lo stesso motivo di aver profanato le sacre cerimonie, [Cesare] disse che non si era accorto di nulla quantunque sua madre

9 Cic. fam. V 6, 1: Cum ad me Decius librarius venisset egissetque mecum, ut operam darem, ne tibi hoc tempore succederetur, quamquam illum hominem frugi et tibi amicum existimabam, tamen, quod memoria tenebam, cuiusmodi ad me litteras antea misisses, non satis credidi homini prudenti, tam valde esse mutatam voluntatem tuam; sed, posteaquam et Cornelia tua Terentiam convenit et ego cum Q. Cornelio locutus sum, adhibui diligentiam, quotiescumque senatus fuit, ut adessem, plu- rimumque in eo negotii habui, ut Q. Fufium tribunum pl. et ceteros, ad quos tu scripseras, cogerem mihi potius credere quam tuis litteris. Vd. Brennan 2012, 355 e 359 che identifica Cornelia nella sorella del console mariano Lucio Cornelio Scipione Asiageno. 10 Tra gli interventi di matrone in tribunale per questo periodo si possono ricordare quelli di Mesia Sentinate, nella prima metà del I secolo a.C., e di Afrania, nella seconda metà del I secolo a.C., nelle vesti di avvocati di se stesse (Val. Max. VIII 3, 1-2); di Sempronia nel 102 a.C. (Val. Max. III 8, 6) e delle servette di Clodio (Plu. Cic. 29), di Aurelia e della zia di Cesare Giulia come testimoni in occasione del processo contro Clodio nel 61 a.C. (Svet. Iul. 74); di Fulvia e della madre Sempronia nel 52 a.C. come testimoni contro Milone per l’assassinio di Clodio (Ascon. Mil. 40); di Giulia madre di Antonio tra il 43 e il 42 a.C. (Plu. Ant. 20, 5-6; App. BC IV 37, 156- 158; D.C. XLVII 8, 5) e di Ortensia nel 42 a.C. che parlarono davanti ai triumviri nel tribunale allestito nel foro in relazione ai provvedimenti proscrittori (Val. Max. VIII 3, 3; App. BC IV 32, 135-146; Quint. inst. I 1, 6). In merito a Mesia e Afrania e a Sempronia vd. Cantarella 1996, 91-95 e Lamberti 2012, 244-246; per le testimonianze connesse ai fatti della Bona Dea Fezzi 2008, 40; per Fulvia Rohr Vio 2013, 38-39; per Giulia Rohr Vio 2014, 106-109; per Ortensia Cenerini 2009 (2002), 73-78 e Lucchelli - Rohr Vio in corso di stampa.

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Aurelia e sua sorella Giulia avessero, secondo verità, narrato tutto, per filo e per segno, a quegli stessi giudici11.

Le matrone nella tarda repubblica furono anche investite della gestione dei corpi dei parenti prossimi defunti12, che in alcuni casi comportò anche l’organizzazione di fune- rali. Tale incombenza per tradizione poteva spettare alle donne, ma in questi tormentati anni essa assicurò alle matrone, nel caso in cui i defunti fossero uomini politici di rilievo, notevoli potenzialità di incidere sulla scena politica, soprattutto se le circostanze della morte erano connesse alle guerre civili in corso e se si poteva prefigurare qualche forma di culto del defunto e di valorizzazione a fini politici della sua memoria. Così Fulvia, moglie di Clodio, nel 52 a.C. ricevette il corpo del marito e in questo caso fu proprio la matrona a strumentalizzarne il cadavere inserendosi nella violenta contrapposizione politica del tempo. Fulvia, infatti, espose, irritualmente, il corpo di Clodio martoriato e non ricomposto, secondo quanto stabiliva invece il cerimoniale, per fomentare la brama di vendetta dei suoi seguaci:

Il corpo di Clodio è stato portato prima della prima ora della notte; una gran- de folla di popolani tra i più spregevoli e di schiavi con grandi manifestazioni di dolore circondò il corpo deposto nell’atrio della domus. Accresceva l’odio per quanto era accaduto la moglie di Clodio, Fulvia, che esibiva le sue ferite emetten- do lamenti13.

11 Svet. Iul. 74: in Publium Clodium Pompeiae uxoris suae adulterum atque eadem de causa pollutarum caerimoniarum reum testis citatus negavit se quicquam comperisse, quamvis et mater Aurelia et soror Iulia apud eosdem iudices omnia ex fide re[t]tulissent. Vd. Hallett 1984, 173; Fezzi 2008, 40; Blasi 2012, 62. È significativo che in questa occasione, diversamente da quanto avvenuto nel caso di Sempronia nel 102 a.C. ma probabilmente in seguito anche in quello di Ful- via e Sempronia nel 52 a.C., le due donne fornissero una deposizione articolata, usando la parola, prerogativa maschile, in sede pubblica; così avevano operato Mesia, Afrania, Giulia e Ortensia, costrette, tuttavia, all’uso della parola dalle contingenze specifiche della loro azione. Sulle inizia- tive delle donne in tribunale vd. Cantarella 2009, 58-59. 12 Così fecero Giulia per Publio Cornelio Lentulo Sura nel 63 a.C. (Plu. Ant. 2, 1); Cornelia per Pompeo nel 48 a.C. (Plu. Pomp. 80); Calpurnia per Cesare nel 44 a.C. (Svet. Aug. 82 precisa che il corpo esanime di Cesare fu riportato a casa dove è presumibile venisse accolto da Calpurnia); Servilia per Marco Giunio Bruto nel 42 a.C. (Plu. Brut. 53, 4 e App. BC IV 135, 1-3. Antonio ne inviò la testa a Roma ma durante una tempesta essa cadde in mare). 13 Ascon. Mil. 28: Perlatum est corpus Clodi ante primam noctis horam, infimaeque plebis et servorum maxima multitudo magno luctu corpus in atrio domus positum circumstetit. Augebat au- tem facti invidiam uxor Clodi Fulvia quae cum effusa lamentatione vulnera eius ostendebat. Sull’e- pisodio vd. Fraschetti 2005 (1990), 53-56.

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Fulvia con ogni probabilità assunse anche la regìa del funerale, dalla ricaduta politica evidente14. Entrambe queste sue iniziative registrarono la trasformazione del ruolo fem- minile rispetto alla tradizione. L’attivismo di alcune matrone nella tarda repubblica si manifestò anche nel ruolo di collegamento che esse assunsero in Roma per i loro parenti lontani. Tale pratica aveva trovato una sua prima applicazione nei secoli precedenti, quando le donne nell’Urbe mantenevano i contatti con i mariti insediati in provincia15; ora le matrone garantirono aggiornamenti sui fatti romani spesso decisivi per l’impostazione di programmi e stra- tegie di azione da parte dei loro congiunti lontani dall’Urbe perché a capo di eserciti e province o in fuga perché condannati come nemici politici16. Così nel 44-43 a.C. Giunia Seconda, figlia di Servilia, a Roma manteneva i rapporti con e per il marito Marco Emi- lio Lepido, in Gallia Narbonense:

Se è vero, come mi dici, che Giunia ha portato una lettera scritta con senso di moderazione e spirito di amicizia, invece a me Paolo ha dato una lettera inviata a lui da suo fratello, nella parte finale della quale si leggeva che gli venivano tese insidie e che era venuto a sapere questo da fonti sicure. Ciò a me non riusciva gradito e a Paolo molto meno17.

Talvolta l’intraprendenza matronale si tradusse in concrete interferenze nell’azione politica di mariti, figli, fratelli. Così avvenne ad esempio nel contesto delle proscrizioni: nell’82 a.C. Cecilia Metella fu accusata di indurre il marito Silla a comprendere alcuni individui tra i proscritti perché spinta da una deprecabile ambizione di impossessarsi dei loro beni:

14 Vd. Rohr Vio 2013, 30-38. Delle esequie di Giulio Cesare nel 44 a.C. si occupò Azia: Nic. Dam. 17, 48. 15 Marshall 1975, 109-127 e in particolare per l’età tardo repubblicana Brennan 2012, 359-360 e Moore 2010, 49-78. 16 Tra gli interventi delle matrone di questa tipologia le azioni di Clodia per Lucio Cecilio Metello nel 49 a.C. (Cic. Att. IX 6, 3); di Servilia per Marco Bruto e Cassio negli anni 44 e 43 a.C. (Cic. Att. XV 13, 4; ad Brut. I 15, 13; 18, 6; Servilia con Giunia Seconda in Cic. ad Brut. I 12; 13; 15); di Giunia Seconda per Marco Emilio Lepido nel periodo 44-43 a.C.; di Valeria Polla per Decimo Giunio Bruto nel 43 a.C. (Cic. fam. XI 8, 1). 17 Cic. Att. XIV 8, 1: Nam quod Iuniam scribis moderate et amice scriptas litteras attulisse, mihi Paulus dedit ad se a fratre missas; quibus in extremis erat sibi insidias fieri; se id certis auctoribus comperisse. hoc nec mihi placebat et multo illi minus. Sull’episodio, che vide Giunia latrice di una lettera del marito presso il senato o più probabilmente presso il fratello Marco Bruto, vd. Rohr Vio 2012, 111-113.

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Gaio Curione, che morì nella guerra civile tra le file dei Cesariani, non era in grado di superare – in occasione dei funerali del padre – né le ricchezze né il fasto di Scauro – e dove poteva lui trovare un patrigno come Silla ed una madre come Metella, la cacciatrice dei beni dei proscritti?18

Le donne interferirono nell’azione dei mariti anche in merito all’azione di questi ultimi in tribunale. Così nel 61 a.C. Terenzia, forse spinta dalla gelosia per Clodia, in- dusse Cicerone a testimoniare contro il fratello della donna sui fatti della Bona Dea; l’oratore riferì che il giorno del sacrilegio egli aveva discusso a Roma con Clodio nella casa di quest’ultimo smentendo così l’alibi dell’imputato che dichiarava di essersi tro- vato lontano dall’Urbe; nessuno dubitò dei contenuti della deposizione, ma molti della vera motivazione della stessa:

Pensarono che avesse voluto giustificarsi davanti a sua moglie Terenzia, la quale nutriva dell’astio verso Clodio perché correvano certe voci, secondo cui sua sorel- la Clodia aspirava a farsi sposare da Cicerone, e, si diceva, lavorava in questo senso usando come intermediario un certo Tullo, compagno e amico dei più intimi di Cicerone. Terenzia ne ebbe il sospetto perché costui frequentava e faceva le moi- ne a Clodia, che era sua vicina di casa: aspra di carattere e abituata a dominare il marito, lo stimolò ad assalire anch’egli Clodio e a testimoniare contro di lui19.

L’interferenza femminile presso i familiari si esercitò anche in merito alla carriera militare e magistratuale di mariti e figli. Così nel giugno del 44 a.C. Servilia, insieme alla nuora Porcia e alla figlia Giunia Terza, fu protagonista di una riunione strategica che coinvolse anche Cicerone, Bruto e Cassio, nel corso della quale si decise se suo figlio

18 Plin. nat. XXXVI 116: C. Curio, qui bello civili in Caesarianis parti bus obiit, funebri patris munere cum opibus apparatuque non posset superare Scaurum – unde enim illi vitricus Sulla et Metella mater proscriptionum sectrix? In merito vd. Hinard 1985, 114. Anche Fulvia fu accusata di aver interferito nella politica proscrittoria del marito Antonio tra il 43 e il 42 a.C. (Val. Max. IX 5, 4; App. BC IV 29, 124; D.C. XLVII 8, 1-5; vd. Virlouvet 1994, 84-86) e nello stesso periodo Giulia, madre di Antonio, che tuttavia non accrebbe il numero dei condannati, ma lo diminuì, ottenendo la cancellazione del nome del fratello (Plu. Ant. 20, 5-6; App. BC IV 37, 156-158; D.C. XLVII 8, 5. Vd. Rohr Vio 2013, 106-109). 19 Plu. Cic. 29: ’Aλλὰ πρὸς τὴν αὑτοῦ γυναῖκα Τερεντίαν ἀπολογούμενος. ἦν γὰρ αὐτῇ πρὸς τὸν Κλώδιον ἀπέχθεια διὰ τὴν ἀδελφὴν τὴν ἐκείνου Κλωδίαν, ὡς τῷ Κικέρωνι βουλομένην γαμηθῆναι καὶ τοῦτο διὰ Τύλλου τινὸς Ταραντίνου πράττουσαν, ὃς ἑταῖρος μὲν ἦν καὶ συνήθης ἐν τοῖς μάλιστα Κικέρωνος, ἀεὶ δὲ πρὸς τὴν Κλωδίαν φοιτῶν καὶ θεραπεύων ἐγγὺς οἰκοῦσαν, ὑποψίαν τῇ Τερεντίᾳ παρέσχε. χαλεπὴ δὲ τὸν τρόπον οὖσα καὶ τοῦ Κικέρωνος ἄρχουσα, παρώξυνε τῷ Κλωδίῳ συνεπιθέσθαι καὶ καταμαρτυρῆσαι. Sull’episodio vd. Treggiari 2007, 49-50; Brennan 2012, 355-356 che individua una conferma dell’ostilità di Terenzia nei confronti di Clodia nei toni polemici verso la matrona della Pro Caelio ciceroniana.

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e suo genero avrebbero dovuto accettare gli incarichi amministrativi in provincia loro proposti dal senato oppure lasciare l’Italia:

Ho ribadito l’opportunità di convocare il senato, di incitare con maggior vigore il popolo che già arde di passione, di assumere il governo dell’intero stato; ecco che allora quella donna tua parente ha esclamato: «Questo, davvero, non l’ho mai sentito dire da nessuno!» Io mi sono trattenuto. […] in realtà Servilia prometteva di attivarsi affinché quell’incarico dell’acquisto del frumento fosse espunto dal decreto del Senato20.

L’influenza delle matrone sui parenti di sesso maschile si produsse in alcune occa- sioni nei consigli che queste, spesso ascoltate, assicurarono in particolare ai loro figli in merito alle scelte politiche di questi ultimi. Così, ad esempio, nel 44 a.C. Azia, insieme al marito Filippo, suggerì a Ottaviano quale comportamento tenere in riferimento alle accuse che gli venivano mosse di avere svolto un ruolo nell’attentato contro Antonio:

Giunsero anche Filippo e Azia, sua madre, imbarazzati per il fatto incredibile, si informarono su quanto si diceva in giro e sulle intenzioni di Antonio; infine consigliarono a Ottaviano di allontanarsi per quei giorni, finché il caso fosse esa- minato e si fosse fatta piena chiarezza21.

20 Vd. Cic. Att. XV 11, 2: Sed senatum vocari, populum ardentem studio vehementius incitari, totam suscipi rem publicam, exclamat tua familiaris, ‘hoc vero neminem umquam audivi!’ Ego repressi. […] etenim Servilia pollicebatur se curaturam ut illa frumenti curatio de senatus consulto tolleretur. Sull’episodio Brennan 2012, 361 che ricorda anche il successivo incontro del 25 luglio del 43 a.C. tra Servilia e i suoi familiari, a cui parteciparono Cicerone e Casca, sulla dichiarazione di Lepido hostis publicus. Sull’incontro di giugno vd. anche Rohr Vio 2013, 105- 106. La stessa Servilia già nel 48 a.C. era intervenuta presso Cesare per garantire la salvezza del figlio dopo Farsalo (Plu.Brut . 5. Vd. Hillard 1983, 11). Fulvia e Giulia tentarono di interferire nella carriera di Antonio nel 43 a.C., quando il senato lo dichiarò hostis publicus (App. BC III 51, 211 e 58, 242. Vd. Rohr Vio 2013, 89-96). 21 Nic. Dam. 30, 126: Ἧκε δὲ ὁ Φίλιππος καὶ Ἀτία ἡ μήτηρ διαπορούμενοι τῷ παραδόξῳ, καὶ πυνθανόμενοι τίς ὁ λόγος εἴη, καὶ τίς ἡ διάνοια τἀνθρώπου· παρῄνουν τε αὐτῷ ὑποχωρῆσαι ἐκποδὼν ἐκείνας τὰς ἡμέρας, ἄχρι ταῦτα ἐξετασθέντα ἐκκαλυφθείη. Vd. Grattarola 1990, 93 n. 439. De- cisiva era stata anche in precedenza l’interferenza di Azia sulle scelte del figlio Ottavio: nel 46 a.C. gli sconsigliò di seguire Cesare in Africa (Nic. Dam. 6, 14-15); nel 45 a.C. accondiscese al suo viaggio in Spagna per raggiungere lo zio, proponendogli di accompagnarlo (Nic. Dam. 10, 22); nel 44 a.C. informò Ottavio ad Apollonia dell’uccisione dello zio, consigliandolo in un primo tempo di non accettare l’eredità per accordare poi il suo consenso alla decisione opposta del figlio (Nic. Dam. 16, 38; 18, 51-54; App.BC III 10, 34-35; Svet. Aug. 8. Per l’azione di Azia vd. Hillard 1983, 12). Giulia e Fulvia condizionarono Antonio nella sua politica proscrittoria (per Giulia: Plu. Ant. 20, 5-6; App. BC IV 37, 156-158; D.C. XLVII 8, 5; per Fulvia: Val. Max.

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I consigli delle matrone talvolta si tradussero nella condivisione di azioni politiche, fino alla compartecipazione delle donne ai progetti eversivi degli uomini della loro fa- miglia. Se si deve ricondurre all’insicuro terreno della leggenda l’intervento nel 509 a.C. della moglie del console Publicola nella repressione della congiura di Tarquinio il Super- bo, è attestata da fonti più attendibili la complicità di Giunia Seconda nella congiura del figlio, Lepido il giovane, tra il 31 e il 30 a.C. per quanto opportunamente ridimensio- nata dalle fonti, che derubricano le responsabilità della donna alla sola connivenza, ma comprovata dalle ramificate e importanti relazioni familiari intrattenute dalla donna:

A Balbino, che era andato in esilio, poi era tornato con Pompeo e, dopo non mol- to, era diventato console, Lepido, che da potente era stato da Cesare ridotto alla condizione di semplice cittadino, rivolse una supplica per questo motivo. Mece- nate accusava di cospirazione contro Cesare il figlio di Lepido, e di complicità nello stesso delitto la madre, mentre non faceva menzione di Lepido stesso, che considerava inefficiente. Fece dunque condurre sotto scorta ad Azio, presso Ce- sare, il ragazzo; quanto alla madre perché non la si conducesse a forza, dato che era una donna, chiese che si desse al console la garanzia che sarebbe andata. Poi- ché nessuno dava questa garanzia, Lepido venne spesso alla casa di Balbino, gli si presentò con insistenza in tribunale, e alla fine, dato che gli addetti lo cacciavano sempre, poté soltanto dire: «Anche gli accusatori riconoscono la mia correttezza quando dicono che non sono complice né di mio figlio né di mia moglie; per quel che riguarda te, poi, non fui io a proscriverti, ma ora valgo meno dei proscritti. Considera la condizione umana, a me che ti sto davanti, e concedimi di garantire che mia moglie andrà da Cesare, oppure permetti che vada io con lei». Mentre ancora parlava, Balbino, colpito da quel mutamento di fortuna, esonerò la donna dal dare garanzie22.

IX 5, 4; App. BC IV 29, 124; D.C. XLVII 8, 1-5); la moglie affiancò Antonio nella gestione degli acta Caesaris (Cic. Phil. 2, 95; 5, 11; Att. XIV 12, 1) e in sua vece combatté a Perugia, assumendo decisioni potenzialmente condizionanti per la parte antoniana e per lo stesso triumviro d’O- riente (Liv. perioch. CXXV e CXXVII; Vell. II 76; App. BC V 14, 54-50, 211; Plu. Ant. 30, 4 e 32, 1; Flor. II 16, 2; D.C. LXVIII 4-13; Oros. hist. VI 18, 17). Tentativi di orientare la politica di Ottaviano, Antonio e Sesto Pompeo furono anche le mediazioni di cui si fecero promotrici Giulia, Mucia e Ottavia (per le quali vd. supra). 22 App. BC IV 50, 215-219: Βαλβίνῳ δέ, ἐκφυγόντι καὶ κατελθόντι σὺν Πομπηίῳ καὶ ὑπατεύοντι οὐ πολὺ ὕστερον, Λέπιδος ἰδιώτης ὑπὸ Καίσαρος ἐκ δυνάστου γενόμενος ὑπὸ τοιᾶσδε ἀνάγκης παρέστη. Μαικήνας ἐδίωκε τὸν Λεπίδου παῖδα βουλεύσεως ἐπὶ Καίσαρι, ἐδίωκε δὲ καὶ τὴν μητέρα τῷ παιδὶ συνεγνωκέναι· Λεπίδου γὰρ αὐτοῦ ἄρα ὡς ἀσθενοῦς ὑπερεώρα. τὸν μὲν δὴ παῖδα ὁ Μαικήνας ἐς Ἄκτιον ἔπεμπε τῷ Καίσαρι, τὴν δὲ μητέρα, ἵνα μὴ ἄγοιτο οὖσα γυνή, ἐγγύην ᾔτει παρὰ τῷ ὑπάτῳ πρὸς Καίσαρα ἀφίξεσθαι. οὐδενὸς δὲ τὴν ἐγγύην ὑφισταμένου, ὁ Λέπιδος ἀμφὶ τὰς Βαλβίνου θύρας ἐτρίβετο πολλάκις καὶ δικάζοντι παρίστατο καὶ διωθουμένων αὐτὸν ἐς πολὺ τῶν ὑπηρετῶν μόλις εἶπεν· “ἐμοὶ μὲν καὶ οἱ κατήγοροι μαρτυροῦσιν ἐπιείκειαν, οὐδὲ γυναικί με ἢ παιδὶ συγγνῶναι λέγοντες· σὲ δὲ οὐκ

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Un’ultima categoria di azione politica delle matrone tardo repubblicane, misura del- la loro influenza su questioni di interesse pubblico, è rappresentata dalle occasioni di re- lazione con il popolo23. Tra il 40 e il 39 a.C. il popolo, in allarme per il blocco annonario con cui Sesto Pompeo affamava Roma, sollecitò la mediazione della madre di Sesto, Mu- cia; l’azione di quest’ultima e della madre di Antonio, Giulia, portò ai risultati sperati:

Come seppe ciò di nuovo il popolo si riuniva e pregava con lamenti Cesare di mandare un salvacondotto a Libone, che voleva negoziare con lui circa la pace. Cesare di controvoglia glielo mandò e il popolo minacciando di bruciare Mucia, la madre di Pompeo, la mandò anch’essa a trattare per la pace. Libone, come seppe che gli avversari cedevano, invitava gli stessi capi a riunirsi per fare vicendevol- mente quelle concessioni che sembrasse opportuno. E avendoli costretti anche a questo il popolo, Cesare e Antonio si recarono a Baia24.

In relazione ai luoghi in cui si esplicarono le iniziative matronali nella tarda repubbli- ca da un lato si registrò la valorizzazione in termini nuovi delle sedi tradizionali dell’a- zione femminile, che affiancarono alla loro funzione abituale, privata, il ruolo di luogo deputato alla definizione di questioni di interesse pubblico e di ambito politico. Dall’al- tro si produsse l’occupazione da parte dell’elemento femminile anche di spazi pubblici, in precedenza destinati solo all’iniziativa maschile25.

ἐγὼ μὲν προέγραψα, κάτω δέ εἰμι τῶν προγραφέντων. ἀλλ’ ἐς τὴν ἀνθρώπειον τύχην ἀφορῶν καὶ ἐς ἐμὲ σοὶ παρεστῶτα, χάρισαί μοι τὴν γυναῖκα ἀπαντήσειν ἐς Καίσαρα ἐγγυωμένῳ ἢ μετ’ ἐκείνης ἀπελθεῖν δεομένῳ.” ταῦτα ἔτι τοῦ Λεπίδου λέγοντος, οὐκ ἐνεγκὼν τὴν μεταβολὴν ὁ Βαλβῖνος ἀπέλυσε τῆς ἐγγύης τὴν γυναῖκα. Vd. Hayne 1974, 76-79; Rohr Vio 2012, 116-117. Risultò quantomeno messa a parte della congiura di Catilina Fulvia, amante di Quinto Curio, autrice della delazione, nel 63 a.C., presso Terenzia, (Plu. Cic. 16; Flor. II 12, 6 e App. BC II 3, 8; vd. Brennan 2012, 355). Anche il coinvolgimento di Porcia nella congiura anticesariana nel 44 a.C., pur non im- mune da strumentale drammatizzazione nella testimonianza degli antichi, pare rispondere a un fondamento di storicità (Plu. Cat. Mi. 73; Brut. 13; 15. Su Porcia vd. Cenerini 2012, 101-120). 23 Per l’incidenza anche politica delle iniziative evergetiche matronali in questo periodo, che rappresentano forme di relazione delle matrone con il popolo, si rimanda al contributo di Valentini in questo volume, che considera il caso, significativo, di Ottavia. 24 App. BC V 69, 291-292: Kαὶ ὁ μὲν ἄκων ἔπεμπεν, ὁ δὲ δῆμος καὶ Μουκίαν, τὴν μητέρα τοῦ Πομπηίου, καταπρήσειν ἀπειλοῦντες, ἐξέπεμπον ἐργασομένην διαλύσεις. Λίβων μὲν δὴ συνεὶς τῶν ἐχθρῶν ἐνδιδόντων ἠξίου τοὺς ἡγεμόνας αὐτοὺς συνελθεῖν ὡς ἀλλήλοις ἐνδώσοντας, ὅ τι ἂν δοκῇ· βιασαμένου δὲ καὶ ἐς τοῦτο τοῦ δήμου, ἐξῄεσαν ἐς Βαΐας ὁ Καῖσαρ καὶ ὁ Ἀντώνιος. Vd. Lejeune 2012, 107. In un momento non precisato dalla fonte ma probabilmente identificabile nelle fasi successive al rientro di Silla a Roma dall’Oriente il popolo chiese a Cecilia Metella di mediare presso Silla perché permettesse il ritorno degli esuli mariani che erano stati allontanati nell’88 a.C. (Plu. Sull. 6). Hinard 2003 (1985), 25. 25 In merito al concetto di privato e pubblico in relazione agli spazi, spesso polifunzionali,

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Così nella tarda repubblica le domus furono anche sedi per l’elaborazione di strategie matrimoniali; le cene politiche e gli incontri che vi si organizzavano divenivano occasioni per discutere questioni di interesse pubblico, per definire e siglare accordi26. Le matrone erano testimoni, ma anche compartecipi e talvolta registe di tali avvenimenti. Così, ad esempio, nel 63 a.C. Sempronia ospitò i Catilinari nella casa che condivideva con Decimo Bruto:

Lentulo condusse costoro presso la casa di Bruto, che si presentava luogo favorevole per la riunione, data la sua vicinanza al foro e la presenza di Sempronia; difatti Bruto era lontano da Roma27.

Accanto ai più tradizionali luoghi privati, le matrone nella tarda repubblica contestua- lizzarono le loro iniziative anche negli spazi, pubblici, della vita cittadina, esportando la nuova consuetudine con i fatti della politica nei luoghi che ad essa erano tradizionalmente propri: il foro, le strade della città, i tribunali, le zone limitrofe alla Curia28. Tali sedi erano reputate di esclusiva frequentazione maschile proprio per la loro connotazione pubblica e il rapporto con la politica dell’Urbe. Già in precedenza le donne, attive nell’ambito di manifestazioni collettive, per far sen- tire la loro voce avevano infranto questo monopolio maschile, ‘invadendo’ i luoghi pubbli-

utilizzati nell’Urbe anche dalle donne vd. Trümper 2012, 288-303 che valorizza nello studio della destinazione d’uso degli spazi l’analisi delle attività sociali che in esse si compiono. 26 Sull’utilizzo molteplice degli spazi domestici in Roma vd. Allison 2007, 343-350. 27 Sall. Catil. 40: Ille eos in domum D. Bruti perducit, quod foro propinqua erat neque aliena consili propter Semproniam; nam tum Brutus ab Roma aberat. Vd. Cenerini 2012, 109 che sostie- ne l’identificazione della Sempronia sallustiana nella madre del congiurato Decimo Giunio Bruto Albino. Nel 61 a.C. nella residenza di Catone Atilia e Servilia interferirono nelle decisioni da assu- mere in merito alla proposta di matrimonio formulata da Pompeo, con evidenti finalità politiche (Plu. Pomp. 44, 3-6; Plu. Cat. Mi. 45; vd. Hillard 1983, 11); Subito dopo l’assassinio delle idi di marzo, nel 44 a.C., nella casa che condivideva con la moglie Giunia Seconda Lepido ospitò a cena Bruto, che di Giunia era fratello, e si deve ritenere che la donna, anche se non menzionata dalle fonti, avesse svolto il ruolo di mediatrice fra marito e fratello in quel contesto privato in cui però si discuteva di questioni pubbliche (D.C. XLIV 34, 6. Vd. Rohr Vio 2012, 112). Ancora nel 44 a.C. in una domus non meglio identificata ad Anzio la donna con la nuora Porcia e la figlia Giunia Terza insieme a Cicerone, Bruto e Cassio elaborò la strategia da seguire per assicurare il prevalere della parte filo repubblicana (Cic.Att . XV 11, 2. Vd. Hillard 1983, 12). 28 Per la presenza delle matrone nel foro connessa in età repubblicana solo a circostanze eccezionali, se non alla sfera del sacro, vd. Boatwright 2011, 110-122. In merito alle sporadiche apparizioni delle donne nella Curia, in occasione dei dibattimenti giudiziari, Raepsaet-Charlier 2005, 184.

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ci e aperti di Roma29: si era trattato di fatti episodici contestualizzati in momenti di emer- genzialità, connessi a emozioni tipicamente femminili e in quanto tali non extra mores. Così, ad esempio, le matrone lugenti, spinte dalla paura, si erano riversate nelle piazze e nelle strade e si erano spinte, senza alcuna autorizzazione, nel foro nell’imminenza del pa- ventato attacco di Coriolano a Roma nel 489-488 a.C.30; un corteggio di donne in silenzio aveva accompagnato Virginia, concupita da Appio Claudio, nel foro nel 449 a.C., in un contesto che poteva parzialmente rientrare, per il crimine in via di perpetrazione, nella sfe- ra d’azione delle donne31; in più occasioni le donne avevano invaso strade e piazze durante la seconda guerra punica (dopo le sconfitte presso il Lago Trasimeno e Canne, all’arrivo dei messi Cartaginesi a Roma per trattare dei prigionieri, in occasione del trasferimento del simulacro della Grande Madre di Pessinunte, ambito anch’esso legittimo per l’azione matronale)32; le matrone erano uscite dalle loro domus anche per sostenere l’abrogazione della lex Oppia nel 195 a.C., ancora una questione di interesse anche femminile33. Nella tarda repubblica di frequente le donne operarono in spazi pubblici, agendo in gruppo, come in precedenza, ma anche in forma individuale o in coppia, e esercitando, in termini di novitas, un’interferenza su questioni di carattere politico. Così mentre si compi- va il cesaricidio la moglie di Marco Giunio Bruto, Porcia, si era spinta per la strada in attesa di notizie sulla sorte del marito:

Infatti Porcia, fuori di sé per l’attesa di ciò che stava per accadere e non sopportando il peso della sua ansia, in casa a stento riusciva a controllarsi e a ogni rumore e grido, come invasata da furori bacchici, correva fuori e chiedeva a tutti quelli che venivano dal Foro che cosa facesse Bruto e gli mandava continuamente altri messaggeri. Alla fine la sua forza fisica cedette al protrarsi dell’attesa, ed esausta svenne, essendo il suo animo turbato per l’incertezza; non fece nemmeno in tempo a entrare in camera, ma seduta sotto gli occhi di tutti, come si trovava, fu sopraffatta da uno svenimento e da un’angoscia insostenibile; e cambiò colore e perse completamente la voce. Le ancelle, vedendola, proruppero in grida e i vicini accorsero alla porta; rapidamente si sparse la voce e si diffuse la diceria che era morta. Ciononostante in breve si ripre- se e le ancelle che erano con lei la confortarono34.

29 Sull’uso dei luoghi aperti in Roma da parte delle donne vd. Köb 2000, 151-160. 30 D.H. VIII 39-55; Liv. II 39-40; Val. Max. V 2, 1 e 4, 1; Plu. Cor. 33-35. Vd. Valentini 2012, 143-145. 31 Liv. III 47. Sull’episodio vd. Fraschetti 1994, IX-X. 32 Liv. XXII 7 e 55-60; XXVI 9; XXIX 1-14. Vd. Boatwright 2011, 116; Zecchini 2012, 155. 33 Liv. XXXIV 8. Vd. Mastrorosa 2006a, 136-137 e n. 7; Ead. 2006b, 590-611; Cantarella 2009, 52-54. In relazione a tali episodi in cui le donne scesero in piazza in forma collettiva in età repubblicana vd. Hemelrijk 1987, 217-240. 34 Plu. Brut. 15: ‘H γὰρ Πορκία πρὸς τὸ μέλλον ἐκπαθὴς οὖσα καὶ τὸ μέγεθος μὴ φέρουσα τῆς

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Il carattere innovativo e trasgressivo dell’azione della donna risiedeva nella com- partecipazione alla congiura anticesariana, pur senza alcun ruolo operativo, ma anche nelle modalità di azione da lei adottate nel corso dei fatti, tra cui appunto la violazione di quel confine, identificato nel perimetro domestico, che tradizionalmente indivi- duava la sfera d’azione delle matrone. Le rinnovate forme dell’azione matronale nella tarda repubblica, oltre alle tipolo- gie di intervento e ai luoghi, si riconoscono anche nelle modalità dell’agire femminile, poiché decisivi nella dialettica politica risultano i mezzi della comunicazione. Le ma- trone si esprimono attraverso la gestualità, ovvero per imagines; mediante la voce, per verba; con la scrittura, per scripta. Le forme comunicative femminili più diffuse nella tarda repubblica sono la ge- stualità, adottata dalle donne secondo una tradizione consolidata, e la comunicazione verbale articolata che, presupponendo l’uso della parola in contesto pubblico, è da sempre riconosciuta come prerogativa maschile e quindi nella sua fruizione femminile si configura, invece, come innovazione. Le donne infatti anche nella tarda repubblica utilizzano la voce secondo opzioni diverse, che le allineano o, al contrario, le allonta- nano dalla tradizione35. Così il pianto e le urla, in particolare in contesti luttuosi, rap-

φροντίδος, ἑαυτήν τε μόλις οἴκοι κατεῖχε καὶ πρὸς πάντα θόρυβον καὶ βοήν, ὥσπερ αἱ κατάσχετοι τοῖς βακχικοῖς πάθεσιν, ἐξᾴττουσα, τῶν μὲν εἰσιόντων ἀπ’ ἀγορᾶς ἕκαστον ἀνέκρινεν ὅ τι πράττοι Βροῦτος, ἑτέρους δὲ συνεχῶς ἐξέπεμπε. τέλος δὲ τοῦ χρόνου μῆκος λαμβάνοντος, οὐκέτ’ ἀντεῖχεν ἡ τοῦ σώματος δύναμις, ἀλλ’ ἐξελύθη καὶ κατεμαραίνετο, τῆς ψυχῆς ἀλυούσης διὰ τὴν ἀπορίαν· καὶ παρελθεῖν μὲν εἰς τὸ δωμάτιον οὐκ ἔφθη, περιΐστατο δ’ αὐτὴν ὥσπερ ἐτύγχανεν ἐν μέσῳ καθεζομένην λιποθυμία καὶ θάμβος ἀμήχανον, ἥ τε χρόα μεταβολὴν ἐλάμβανε, καὶ τὴν φωνὴν ἐπέσχητο παντάπασιν. αἱ δὲ θεράπαιναι πρὸς τὴν ὄψιν ἀνωλόλυξαν, καὶ τῶν γειτόνων συνδραμόντων ἐπὶ θύρας, ταχὺ προῆλθε φήμη καὶ διεδόθη λόγος ὡς τεθνηκυίας αὐτῆς. οὐ μὴν ἀλλ’ ἐκείνην μὲν ἀναλάμψασαν ἐν βραχεῖ καὶ παρ’ ἑαυτῇ γενομένην αἱ γυναῖκες ἐθεράπευον. Vd. Cenerini 2012, 104-118; Rohr Vio 2014, 103- 105. Nell’82 a.C. sotto la minaccia della marcia su Roma del sannita Telesino le matrone scesero in piazza (Plu. Sull. 29). In una data imprecisata (forse il 45 a.C.) Azia e la sorella, in strada per accogliere Ottavio (forse al rientro dalla Spagna), incontrarono Amazio, che vantava una paren- tela con Cesare, e rifiutarono di confermare tale legame (Nic. Dam. 14, 32;Fraschetti 1998, 12-13). Nel 43 a.C. Fulvia e la suocera nelle strade di Roma con pianti e lamenti perorarono pres- so i senatori la causa di Antonio, che il 26 aprile sarebbe stato dichiarato nemico pubblico (App. BC III 51, 211; 58, 242; vd. infra). Tra il 43 e il 42 a.C. Giulia si recò nel foro per ottenere dal figlio triumviro l’espunzione del nome del fratello Lucio Cesare dalle liste di proscrizione (Plu. Ant. 20, 5-6; App. BC IV 37, 156-158; D.C. XLVII 8, 5; Rohr Vio 2014, 106-109). Nel 42 a.C. Ortensia alla guida di un gruppo di matrone nel foro sostenne presso i triumviri la necessità del ritiro del provvedimento fiscale che essi avevano varato a carico delle donne (Val. Max. VIII 3, 3; App. BC IV 32, 135-146; Quint. inst. I 1, 6; vd. Lucchelli - Rohr Vio in corso di stampa). 35 Sulla polemica maturata contro le donne che si appropriarono in questo periodo di modalità di azione, pubblica e politica, maschili e vennero quindi accusate di tradire la loro identità di

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presentano l’applicazione di pratiche consolidate36 Diversamente la voce articolata in parola e ancor più in discorso si configura come innovativa appropriazione di pratiche maschili37. Fulvia è una delle matrone in cui il recupero della tradizione femminile si affiancò all’adozione, in nome dei tempi nuovi, di abitudini specifiche degli uomini. Nel 43 a.C., all’indomani della guerra di Modena, la donna si adoperò al fine di evitare la condanna del marito Antonio come hostis publicus. Operò in contesti privati – la casa di Pisone presso la quale era ospitata38 ‒ e pubblici – le strade di Roma. La donna affidava il proprio messaggio di disperazione all’abito del lutto, che indossava come presagio del destino di sventura incombente sulla casa di An- tonio, e in questo modo valorizzava la comunicazione per immagines; ma si lasciava anche andare a pianti e lamenti secondo il mos maiorum, ma pure a suppliche, forme comunicative per verba che prevedevano la formulazione di parole e frasi, secondo un uso verbale appropriato in contesto pubblico solo per la componente maschile della società:

Ma la madre, la moglie, il figlio ancora bambino di Antonio e gli altri familiari e amici per tutta la notte corsero alle case dei potenti formulando preghiere al loro indirizzo, e la mattina seguente li avvicinavano mentre si recavano in Senato, get- tandosi ai loro piedi con lamenti e gemiti e gridando dinanzi alle porte con le vesti del lutto. Alcuni senatori furono commossi da quelle voci, da quello spettacolo e da quel mutamento che si era verificato improvvisamente39.

genere vd. Hillard 1989, 165-166 e Id. 1992, 37-64. 36 Piangono Licinia, moglie di Gaio Gracco, nel 121 a.C. (Plu. CG 36); Atilia, moglie di Catone, nel 67 a.C. (Plu. Cat. Mi. 9); Cornelia, moglie di Pompeo, nel 48 a.C. (Plu. Pomp. 74- 75 e 78); Atilia e le due Servilie sorelle di Catone nel 63 a.C. (Plu. Cat. Mi. 27); Marcia, moglie di Catone, nel 59 a.C. (Plu. Cat. Mi. 32); Porcia, moglie di Bruto, nel 44 a.C. (Plu. Brut. 23). Urlano le serve di Porcia nel 44 a.C. (Plu. Brut. 15). 37 Tengono veri e propri discorsi Fulvia la delatrice della congiura di Catilina nel 63 a.C. (Plu. Cic. 16); Cornelia nell’imminenza della morte di Pompeo nel 48 a.C. (Plu. Pomp. 74-75); Porcia a Bruto prima della congiura e ai passanti nel corso dell’azione nel 44 a.C. (Plu. Brut. 13 e 15); Servilia a Bruto, a Cassio e a Cicerone prima della partenza dei cesaricidi nel 44 a.C. (Cic. Att. XV 11, 2); Giulia al figlio Antonio nel foro nel 43/42 a.C. (Plu.Ant . 20, 5-6; App. BC IV 37, 156-158; D.C. XLVII 8, 5); Ortensia davanti ai triumviri nel 42 a.C. (Val. Max. VIII 3, 3; App. BC IV 32, 135-146; Quint. inst. I 1, 6). 38 Cic. Phil. 12, 1-2. 39 App. BC III 51, 211-212: Ἀντωνίου δὲ ἡ μήτηρ καὶ ἡ γυνὴ καὶ παῖς ἔτι μειράκιον οἵ τε ἄλλοι οἰκεῖοι καὶ φίλοι δι’ ὅλης τῆς νυκτὸς ἐς τὰς τῶν δυνατῶν οἰκίας διέθεον ἱκετεύοντες καὶ μεθ’ ἡμέραν ἐς τὸ βουλευτήριον ἰόντας ἠνώχλουν, ῥιπτούμενοί τε πρὸ ποδῶν σὺν οἰμωγῇ καὶ ὀλολυγαῖς καὶ μελαίνῃ στολῇ παρὰ θύραις ἐκβοῶντες. οἱ δὲ ὑπό τε τῆς φωνῆς καὶ τῆς ὄψεως καὶ μεταβολῆς ἐς τοσοῦτον αἰφνιδίου γενομένης ἐκάμπτοντο. Vd. Rohr Vio 2013, 89-96; Ead. 2014, 100-102.

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Le modalità dell’azione di Fulvia, dunque, che interferiva in una questione di carat- tere politico agendo in contesti pubblici, per alcuni aspetti (la gestualità e l’emissione di suoni disarticolati) rispettavano i confini tracciati dal costume per le iniziative femmini- li, per altri (l’uso della parola strutturata) risultavano, invece, innovativi e mutuati dalle esperienze maschili. La tradizione conserva memoria oltre che dell’uso della voce da parte delle matrone anche della sua temporanea perdita. Alla luce di ciò l’afonia in donne attive sulla scena politica e quindi fautrici della trasformazione si può interpretare come il ritorno alla normalità dopo quelle fasi di emergenzialità che avevano legittimato i loro comporta- menti estranei al mos maiorum40. Così ad esempio avvenne a Porcia che, informata del cesaricidio, perse la voce mentre questo si compiva per poi recuperarla quando con la morte del tiranno sembrarono ripristinarsi gli ordinamenti repubblicani:

Porcia, fuori di sé per l’attesa di ciò che stava per accadere e non sopportando il peso della sua ansia, in casa a stento riusciva a controllarsi e a ogni rumore e grido, come invasata dai furori bacchici, correva fuori e chiedeva a tutti quelli che venivano dal Foro che cosa facesse Bruto e gli mandava continuamente altri messaggeri. Alla fine la sua forza fisica cedette al protrarsi dell’attesa, ed esausta svenne, essendo il suo animo turbato per l’incertezza; non fece nemmeno in tem- po a entrare in camera, ma seduta sotto gli occhi di tutti, così come si trovava, fu sopraffatta da uno svenimento e da un’angoscia insostenibile; e cambiò colore e perse completamente la voce. Le ancelle, vedendola, proruppero in grida e i vicini accorsero alla porta; rapidamente si sparse la voce e si diffuse la diceria che era morta. Ciononostante in breve si riprese e le ancelle che erano con lei la confor- tarono41. Nemmeno nella tarda repubblica, come nei secoli precedenti, le matrone sembrano utilizzare forme di comunicazione per scripta pubbliche a scopo politico. Diversamente, rimane notizia di scritti privati, come le lettere, su questioni legate alla vita cittadina

40 Perdono la voce Cornelia, alla vista dell'uccisione del marito Pompeo nel 48 a.C., (Plu. Pomp. 74-75) e Porcia, mentre si compie il cesaricidio nel 44 a.C., (Plu. Brut. 15). 41 Plu. Brut. 15: ‘H γὰρ Πορκία πρὸς τὸ μέλλον ἐκπαθὴς οὖσα καὶ τὸ μέγεθος μὴ φέρουσα τῆς φροντίδος, ἑαυτήν τε μόλις οἴκοι κατεῖχε καὶ πρὸς πάντα θόρυβον καὶ βοήν, ὥσπερ αἱ κατάσχετοι τοῖς βακχικοῖς πάθεσιν, ἐξᾴττουσα, τῶν μὲν εἰσιόντων ἀπ’ ἀγορᾶς ἕκαστον ἀνέκρινεν ὅ τι πράττοι Βροῦτος, ἑτέρους δὲ συνεχῶς ἐξέπεμπε. τέλος δὲ τοῦ χρόνου μῆκος λαμβάνοντος, οὐκέτ’ ἀντεῖχεν ἡ τοῦ σώματος δύναμις, ἀλλ’ ἐξελύθη καὶ κατεμαραίνετο, τῆς ψυχῆς ἀλυούσης διὰ τὴν ἀπορίαν· καὶ παρελθεῖν μὲν εἰς τὸ δωμάτιον οὐκ ἔφθη, περιΐστατο δ’ αὐτὴν ὥσπερ ἐτύγχανεν ἐν μέσῳ καθεζομένην λιποθυμία καὶ θάμβος ἀμήχανον, ἥ τε χρόα μεταβολὴν ἐλάμβανε, καὶ τὴν φωνὴν ἐπέσχητο παντάπασιν. αἱ δὲ θεράπαιναι πρὸς τὴν ὄψιν ἀνωλόλυξαν, καὶ τῶν γειτόνων συνδραμόντων ἐπὶ θύρας, ταχὺ προῆλθε φήμη καὶ διεδόθη λόγος ὡς τεθνηκυίας αὐτῆς. οὐ μὴν ἀλλ’ ἐκείνην μὲν ἀναλάμψασαν ἐν βραχεῖ καὶ παρ’ ἑαυτῇ γενομένην αἱ γυναῖκες ἐθεράπευον·

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e dettati da finalità eminentemente politiche42. Così, ad esempio, Azia si avvalse dello strumento epistolare per indirizzare le scelte di Ottavio su questioni di carattere poli- tico: all’indomani del cesaricidio scrisse per dissuadere il figlio-erede dall’accettare la designazione testamentaria di Giulio Cesare assassinato:

Invece sua madre e Filippo, secondo marito di lei, gli scrivevano da Roma di non essere troppo sicuro di sé e di non fare nulla di affrettato, ma di tenere in mente cosa aveva subito Cesare, dopo aver sconfitto ogni nemico, per mano dei suoi più stretti amici; dicevano che sarebbe stato meglio, date le circostante, scegliere di dedicarsi alla vita privata e affrettarsi a Roma, ma con attenzione. Ottavio si lasciò persuadere da loro perché non sapeva cos’era successo dopo la morte di Cesare43.

Occasioni di interferenza in questioni politiche, occupazioni di spazi pubblici de- stinati all’iniziativa maschile, appropriazioni di modalità di azione (e comunicazione) tradizionalmente estranee alla componente femminile della società connotano, dunque, le rinnovate forme dell’agire matronale nella tarda repubblica. È la consistenza numerica delle occorrenze a suggerire come tali episodi, ricordati in una tradizione d’abitudine poco attenta alle figure femminili, siano indicatore di una nuova prassi di azione, seb- bene applicata in un arco temporale breve e connotato da tratti di emergenzialità. La nuova realtà del principato, esito della propensione di Augusto alla normalizzazione ma anche di tempi sostanzialmente mutati, fornirà la misura di quanto tale trasformazione fu radicata e accettata.

42 Lettere di contenuto politico furono scritte con ogni probabilità da Cornelia al figlio Gaio Gracco nel 123 a.C. (Nep. fgr. 1, 1-2); da Servilia al suo amante Giulio Cesare (Plu. Brut. 5; Cato Mi. 24); da Clodia, suocera del tribuno Lucio Cecilio Metello, sugli spostamenti di Pompeo (Cic. Att. IX 6, 3 e 4); da Azia a Ottavio nel 44 a.C. (Nic. Dam. 30, 126). 43 App. BC III 10, 34-35: Ἡ δὲ μήτηρ καὶ Φίλιππος, ὃς εἶχεν αὐτήν, ἀπὸ Ῥώμης ἔγραφον μήτε ἐπαίρεσθαι μήτε θαρρεῖν πω μεμνημένον, οἷα Καῖσαρ ὁ παντὸς ἐχθροῦ κρατήσας ὑπὸ τῶν φιλτάτων μάλιστα πάθοι, τὰδὲ ἰδιωτικώτερα ὡς ἐν τοῖς παροῦσιν ἀκινδυνότερα αἱρεῖσθαι μᾶλλον καὶ πρὸς σφᾶς ἐς Ῥώμηνἐπείγεσθαι φυλασσόμενον. Οἷς Ὀκτάουιος ἐνδοὺς διὰ τὴν ἔτι ἄγνοιαν τῶν ἐπὶ τῷ θανάτῳ γενομένων. Vd. anche Nic. Dam. 16, 38.

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Le matronae diventano Augustae: un nuovo profilo femminile

Francesca Rohr ha illustrato molto bene in questo volume le nuove modalità di rap- presentazione delle matronae e i nuovi spazi che esse conquistano nel corso dell’ultimo secolo della repubblica. Con l’avvento del principato augusteo, però, il ruolo delle ma- trone si complica ulteriormente e quelle stesse ambiguità che caratterizzano il governo del principe sono presenti, senza ombra di dubbio, anche nella rappresentazione della condizione femminile della prima età imperiale, a incominciare dalle donne della domus del princeps, profondamente coinvolte, in primis, nella necessità di assicurare un erede legittimo all’imperatore stesso. Questa nuova struttura di potere, la domus Augusta1, nel contempo pubblica e privata, viene formata da matrimoni (e divorzi), adozioni, amici- zie, promozioni personali, integrazioni e allontanamenti. Si tratta di una nuova area di mediazione tra princeps e società che vede nel corso del tempo la progressiva estinzione dell’elemento nobiliare tradizionale che l’aveva generata e il ricambio sociale al suo inter- no: si passa cioè dalla gens alla domus2. E’ ben nota la difficoltà, che si riflette anche nella storiografia contemporanea, di ri- uscire a tracciare un profilo esaustivo della vita delle primeAugustae , in quanto il nostro approccio è ovviamente condizionato dalle descrizioni negative che le fonti letterarie ci danno dei loro comportamenti. Tacito è del tutto consapevole dell’ambiguità della nuova posizione femminile alla corte del principe, quando definisce3 la terza moglie di Augusto Livia gravis in rem publicam mater, gravis domui Caesaris noverca. La maternità di Livia (gravis) è positiva nei confronti dello stato (in rem publicam mater), in quanto apportatrice di vita e di prosperità, secondo il modello positivo della maternità tradizionale4; diventa, però, negativa, noverca, matrigna, nel senso dispregiativo del termine, quando la nuova casa imperiale (domus Caesarum) si trasmette direttamente a un erede partorito dalla moglie dell’imperatore5. Parimenti, documenti epigrafici di recente acquisizione come, ad esem- pio, la Tabula Siarensis e il s.c. de Cn. Pisone patre6, confermano, senza ombra di dubbio,

1 Tale termine compare per la prima volta in un documento ufficiale, per quanto ci è dato conoscere, nel 19 d.C., relativo agli onori funebri pubblici da tributare a Germanico, la cosiddetta Tabula Siariensis (su cui cf. infra). 2 Pani 2003. 3 Tac. ann. I 10, 5. 4 Sul modello ideale femminile in età romana cf. Cenerini 20092. 5 Tesoriero 2006. 6 González - Arce 1988; Eck - Caballos - Fernandez 1996; González 2008; Cipollone 2012.

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che Livia ha un ruolo fondamentale nella progressiva creazione di una domus Augusta divina, che diventa la base del culto dinastico e del relativo consenso al potere imperiale. Anche le donne della domus imperiale incominciano ad avere un ruolo fondamentale nelle dinamiche sociali e politiche della società del tempo: gli onori resi ai membri del- la famiglia imperiale, uomini e donne, documentati su base archeologica ed epigrafica, costituiscono l’aspetto più evidente della relazione tra l’imperatore e gli esponenti delle élites municipali. Attraverso monumenti e dediche, che occupano gli spazi pubblici del- le città, i notabili dell’impero trovano il modo di esprimere la loro fedeltà e lealtà nei confronti di un potere nuovo, tuttora in cerca di legittimazione. Questi nuovi ruolo e spazio pubblico delle donne (omaggiate con una dedica, in uno spazio pubblico, ga- rantito dal relativo decreto decurionale – l(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum) – e, nel corso del tempo, sempre più nella veste di dedicanti) rappresenta un modello ideale di comportamento che univa le tradizionali virtù della maternità domestica repubblicana alla nuova ricchezza e imprenditorialità femminili e alla possibilità per queste matrone intraprendenti di diventare attive in opere di sostegno della collettività, nonché modelli di comportamento, sia come icone glamour che benefattrici. Il giurista Ulpiano, dell’inizio del III sec. d.C., che conosceva molto bene la corte dei Severi e il ruolo della moglie di Settimio Severo, Giulia Domna, all’interno della corte stessa, commentando la lex Iulia et Papia7 afferma: princeps legibus solutus est; Augusta autem licet legibus soluta non est, principes tamen eadem illi privilegia tribuunt, quae ipsi habent. Se è piuttosto evidente la disparità tra le due posizioni (il primo non è vincolato dalle leggi, la seconda sì), è necessario capire quali siano realmente questi privilegia che gli imperatori accordano, nel corso del tempo, alle Augustae, vale a dire in un primo momento alle mogli che garantiscono un erede al trono, successivamente a (quasi) tutte le donne che fanno parte della domus Augusta. Questo contributo si propone di analizzare le vicende storiche e le relative implica- zioni politiche di colei che è stata la prima Augusta, se non altro a livello onomastico, dell’impero: Livia, la moglie di Augusto. Lo storico della prima età imperiale Velleio Patercolo8 la descrive così: Livia, nobilissimi et fortissimi viri Drusi Claudiani filia, gene- re, probitate, forma Romanarum eminentissima, quam postea coniugem Augusti vidimus, quam transgressi ad deos sacerdotem ac filiam. Suo padre si chiamava Marco Livio Druso Claudiano ed era un Claudio adottato dai Livi Drusi; si era schierato con i cesaricidi ed era morto suicida dopo Filippi9. Ben diverso è il ritratto che della stessa Livia viene pro- posto da Tacito10. Lo storico racconta che nel 29 d.C. muore Iulia Augusta, ormai molto

7 Dig. I 3, 31. 8 Vell. II 75, 3. 9 Vell. II 71, 3; D.C. XLVIII 44, 1. 10 Tac. ann. V 1, 3.

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anziana (era, infatti, nata il 30 gennaio del 59 a.C.)11, nobile per nascita e per adozione. In prime nozze aveva sposato Tiberio Claudio Nerone; proscritto all’indomani della cosiddetta guerra di Perugia nel 40 a.C., era fuggito da Roma, con moglie e il primo figlio Tiberio al seguito; in seguito agli accordi di Miseno stipulati l’anno seguente tra Sesto Pompeo e i triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, era potuto rientrare a Roma. Poco tempo dopo, stando alla narrazione tacitiana, Ottaviano, infatuatosi della bellez- za di Livia (cupidine formae), la ‘ruba’ al marito. Tacito asserisce di non sapere se Livia fosse consenziente o meno (incertum an invitam), ma dice che Ottaviano aveva tanta urgenza di sposarla che la conduce nella sua casa senza darle neppure il tempo di par- torire il secondo figlio del primo marito, il futuro Druso Maggiore. Si noti la causticità dell’espressione utilizzata da Tacito in un passo precedente12: abducta Neroni uxor. Livia non ha figli da Augusto, ma ha in comune con lui dei pronipoti, nati dal matrimonio di Agrippina Maggiore e di Germanico. Sempre secondo Tacito, conformemente al co- stume antico, Livia è stata del tutto irreprensibile nella vita domestica (sanctitate domus priscum ad morem), ma più compiacente e tollerante di quanto fosse stato consentito e lecito alle donne di età repubblicana; inoltre, è stata madre ambiziosa e autoritaria e mo- glie accondiscendente, perfettamente in linea e con l’ipocrisia del figlio e con l’astuzia e gli intrighi del marito13. I Fasti Verulani, di età tiberiana, registrano che il 17 gennaio del 38 a.C. Augusta nupsit divo Augusto14. Questo matrimonio sancisce l’accordo di Ottaviano con parte dell’aristocrazia filo repubblicana, che sceglie di allearsi con uno degli uomini potenti di quegli anni. «Considerando l’attitudine delle famiglie più illustri a Roma a pensare in senso genealogico dinastico, la sua figura scil.( Livia) poteva avere enorme importanza nello stringere legami politici»15. A questa data risalirebbe uno strano e singolare episo- dio descritto da Svetonio16. Lo scrittore narra di una cena riservatissima (secretior), che in seguito sarebbe stata comunemente chiamata «dei dodici dei», fatto che non può che inserirsi nella lotta combattuta a colpi di propaganda tra Ottaviano e Antonio, in vista dello scontro finale, che si sarebbe svolto ad Azio nel 31 a.C. In questa cena Ottavi- ano aveva assunto le sembianze di Apollo e gli altri undici convitati a loro volta si erano travestiti da divinità e questo contesto è stato identificato proprio con il banchetto di

11 Barrett 2006, 412-413. 12 Tac. ann. I 10, 5. 13 Cf. le osservazioni di Frei-Stolba 2007. 14 Kienast 20042, 67; Bruni 2014, 30. Sui problemi suscitati da questa notazione nei Fasti Ve r ul a ni cf. Barrett 2006, 423. 15 Eck, 2010, 25-26. I legami familiari di Livia pregressi al suo matrimonio con Ottaviano spiegano l’ascesa di alcune famiglie in età augustea (ad esempio i Volusii Saturnini) a parere di Huntsman 2009. 16 Svet. Aug. 70, 1-2.

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nozze tra Ottaviano e Livia17. È evidente che Ottaviano viene censurato dai suoi avversa- ri politici, sia dai repubblicani più radicali che dai cesariani, per avere cenato con sfarzo mentre il popolo della città di Roma soffriva la fame, a causa delle difficoltà di approvvi- gionamento alimentare, dovute alle azioni di blocco delle rotte navali da parte di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno. Nel 33 a.C., quando ormai il conflitto tra Antonio e Ottaviano sarebbe giunto a un punto di non ritorno, Antonio rimprovera a Ottaviano il matrimonio con Livia, incinta del precedente marito. Antonio aveva ben capito che questo matrimonio garantiva l’accordo tra Ottaviano e l’aristocrazia tradizionalista e, pertanto, cercava di mettere in cattiva luce gli aspetti negativi e contrari al mos maiorum del suo avversario. La propaganda antoniana, come è stato giustamente sottolineato18, attribuiva ad Ottaviano i caratteri tipici del tiranno, tra cui la sottrazione ai legittimi mariti delle mogli di bell’aspetto. Alcuni studiosi ritengono che Ottaviano avesse anche pensato, in un primo tempo, a imprimere un’accelerazione al culto della sua persona e della sua dinastia, come potrebbe fare pensare la costruzione a Roma del Pantheon ded- icato da Agrippa nel 27 o nel 25 a.C. Infatti, lo scopo di molti Pantheia e Dodekathea diffusi in ambito greco era anche quello di promuovere «il tentativo di affiancare al culto delle principali divinità olimpiche quello della dinastia regnante, come nel caso del Grande Altare di Pergamo, destinato, secondo una possibile lettura dei documenti superstiti, al culto dei Dodici Dei e dei principali Attalidi. Il progetto, certamente avvi- ato prima del 27 a.C., fu virato, negli anni seguenti, verso una soluzione più morbida, in attesa dell’inevitabile consecratio post mortem»19. Nel 35 a.C. Livia e Ottavia, rispettivamente moglie e sorella di Ottaviano, ricevono, probabilmente in seguito a un provvedimento del senato (senatus consultum), la possi- bilità di essere onorate con statue (ius imaginum)20, l’esenzione dalla tutela e vengono in- signite della sacrosantitas, in seguito a un trionfo concesso a Ottaviano21. È stato notato22 che Livia e Ottavia non sono onorate per un atto che avevano compiuto loro stesse o per il loro rango, ma perché il loro marito e fratello aveva ottenuto il trionfo: avrebbero quin- di goduto di un onore, per così dire, di riflesso. Se questo è vero, è altrettanto vero, a mio parere, che Ottaviano sente la necessità di proteggere con la sacrosantitas, l’inviolabilità già propria dei tribuni della plebe, quei corpi femminili che avrebbero potuto generargli degli eredi o successori o che avrebbero potuto garantire la trasmissione del suo patri- monio. Ottaviano vuole inoltre concedere loro delle garanzie e delle distinzioni che le collocassero su di un piano diverso rispetto alle altre donne nobili del tempo. La famiglia

17 Flory 1988. 18 Cresci Marrone 2002. 19 La Rocca 2011, 185. 20 Valentini 2011, 222-224. 21 D.C. XLIX 38, 1. 22 Scheid 2003, 146-147.

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dei Giuli, inoltre, incomincia a essere identificata, diversamente dalle altre, con l’intero corpo civico e, in buona sostanza, il benessere dei suoi esponenti, anche femminili, viene a coincidere con il bene dello stato. Questo provvedimento, quindi, può essere consid- erato «il primo passo nella formazione del concetto di domus Caesaris»23. Ottaviano, già divi filius, è ben consapevole, e a maggior ragione lo sarà quando diventerà Augusto, che «il consolidamento della sua costruzione politica e il passaggio indolore del potere ai suoi discendenti esigevano a priori la sacralità divina della persona del principe, per offrire al nuovo regime il necessario supporto simbolico e ideologico»24. Il 18-17 a.C. è l’anno in cui vengono approvate le leges Iuliae de adulteriis coercendis et de maritandis ordinibus25. Queste leggi tendevano a riproporre, dopo le guerre civili, il ritorno al modello positivo della «moglie fedele, … della donna honesta, della mater familias»26, ma il rapporto tra le donne e la vita pubblica e cittadina era mutato, se non altro mediante il coinvolgimento femminile, destinato ad aumentare, nell’edilizia civica, attraverso l’ampiamente studiato fenomeno dell’evergetismo27 e l’esenzione della tute- la giuridica a tutte le donne prolifiche28. La cultura greco-ellenistica, infatti, aveva da tempo concesso spazi pubblici alla rappresentazione femminile29, e la neo-aristocrazia augustea30 in parte li fa propri. Queste ‘nuove’ donne sono chiamate a rappresentare, da un lato, il tradizionale modello ideale femminile, imperniato sulla procreazione di eredi legittimi e sulla dedizione alla famiglia, ma, nel contempo, si chiede loro di es- sere parte integrante della comunità civica, attraverso un sostegno finanziario a opere di pubblica utilità. Lo stesso imperatore promuove il rifacimento e la costruzione di due edifici che fa intitolare alla sorella e alla moglie, rispettivamente laporticus Octaviae31 e la porticus Liviae32. Tra le statue conservate nella porticus Octaviae ce ne era una che

23 Cosi 1996, 260. 24 La Rocca 2011, 186. 25 Aug. r.g. 8: legibus novis / multa exempla maiorum. Cf. Spagnuolo Vigorita 20103; Spagnuolo Vigorita 2012. 26 Rizzelli 2012, 295. 27 Si può vedere, da ultimo, Cenerini 2013, e ivi la bibliografia precedente. 28 Zablocka 1988; Dettenhofer 1994. 29 van Bremen 1996; Ferrandini Troisi 2000; Bertholet - Bielman Sanchez - Frei-Stolba 2008. 30 Sulla ‘riconfigurazione’ dell’aristocrazia in età augustea cf. Hurlet 2012. 31 Ottaviano Augusto restaura la porticus Metelli con i proventi della guerra contro i Dalmati nel 33 a.C. e la intitola alla sorella: cf. D’Alessio 2012, 510. Ottavia dedica alla memoria del figlio Marcello la relativa biblioteca, suddivisa in due sezioni, greca e latina, con apposito perso- nale. Sempre in memoria di Marcello, Augusto fa edificare il teatro che a tutt’oggi porta il suo nome: Plu. Marc. 30, 11. 32 Tra il 15 e il 7 a.C. Augusto fa costruire la porticus intitolandola alla moglie Livia nell’area precedentemente occupata dalla domus di Vedius Pollio. La domus era stata ereditata da Augusto

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raffigurava Cornelia, Africani f(ilia), Gracchorum (mater), come si legge nell’iscrizione della base, oggi conservata nei musei capitolini33: secondo una recente interpretazi- one34, tale statua era dedicata in origine a una dea, riqualificata a rappresentare un noto personaggio femminile dell’età repubblicana, in ossequio alla politica di Augusto volta alla valorizzazione degli exempla dei maiores, uomini e donne. Si tratta, per queste ultime, di un’importante novità. «Le statue femminili ascrivibili all’età repubblicana, se non pertinenti a divinità o a figure mitologiche, sono da collocarsi, infatti, quasi esclusivamente in contesto privato e (prevalentemente) funerario»35. Si può quindi ritenere che la concessione della pubblica immagine a donne eminenti (appartenenti alla tradizione repubblicana, ma soprattutto alle donne della domus Augusta, più o meno sotto mentite spoglie) sia una testimonianza del nuovo e del tutto ambiguo ruo- lo delle donne. L’ambito tradizionale era esclusivamente domestico, quello imperiale diventava anche pubblico e civico. Non è un caso che Plinio scriva che, a proposito della statua di Cornelia, exstant Catonis in censura vociferationes mulieribus statuas Romanis in provinciis poni36. Le leggi augustee sulla famiglia (cui si aggiungerà lex Papia Poppaea del 9 d.C. che può essere messa in relazione con lo sconcerto suscitato a Roma dal disastro del saltus Teutoburgiensis37, avvenuto nello stesso 9 d.C., con l’annientamento di ben tre legioni romane, oltre a nove unità ausiliarie38) vanno poste in stretta relazione con l’organiz- zazione dei ludi saeculares, che si svolgono tra la fine del mese di maggio e il mese di giugno del 17 a.C., e che vanno intesi come celebrazione dell’inizio di un nuovo secolo della storia di Roma. Lo scopo di questi ludi è quello di celebrare solennemente il po- tere augusteo, capace soprattutto di ampliare i confini dell’impero, con l’imprescindibile supporto divino alla missione imperialista romana, e capace di ripristinare gli antichi valori familiari (con precisa allusione alla coeva legislazione), come si può leggere nel Carmen saeculare di Orazio, appositamente redatto per commemorare l’occasione; il carme termina con l’encomio di Augusto, di cui viene elaborata la discendenza da Ve- nere. Augusto intende sottolineare, con la celebrazione di questi ludi, che la felicità del

ed era stata abbattuta per mettere in evidenza la politica augustea contro l’eccessivo lusso privato. All’interno della porticus Livia dedica un’aedes Concordiae, che doveva essere simile all’ara Pacis del Campo Marzio: cf. Fraioli 2012, 312. 33 CIL, VI 10043. Cf. Plin. nat. XXXIV 14, 31. 34 Hemelrijk 2005. 35 Valentini 2011, 201. 36 Plin. nat.XXXIV 14, 31. 37 Già identificato con l’odierna Selva di Teutoburgo, ma tale identificazione è stata recente- mente messa in discussione in favore della zona attorno a Kalkriese, località vicino alla città di Osnabrück nella Bassa Sassonia: cf. Eck 2010, 29. 38 Mastrorosa 2007.

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nuovo secolo non sarebbe dipesa soltanto dalla disposizione favorevole delle divinità, ma anche e soprattutto dalla ‘moralità’ dei Romani e del ceto dirigente in particolare39. I ludi saeculares sono organizzati in spettacoli e cerimonie di vario tipo, sacrifici, preghiere e banchetti, dislocati in posti diversi della città. Il pubblico di riferimento sono i cittadini romani e le loro mogli e, allo scopo di promuovere le nuove e poco am- ate leggi sulla famiglia, viene dato uno specifico risalto allematres familias, per le quali sono allestiti appositi banchetti e cerimonie. Alle scarne informazioni sui ludi saeculares fornite da Augusto nelle sue Res Gestae, sono da aggiungere anche altre fonti coeve: in particolare, una grande iscrizione commemorativa40 che fornisce ampie e dettagliate informazioni sullo svolgimento degli spettacoli e delle cerimonie e della loro pianifi- cazione e preparazione, nello specifico sul ruolo di Agrippa, detentore dellatribunicia potestas nel 18 a.C. assieme ad Augusto41. Agrippa è, come è noto, il marito della figlia di Augusto, Giulia, e il padre naturale di Gaio e Lucio Cesari, nati nel 20 e nel 17 a.C., nipoti che Augusto adotta nello stesso 17 a.C., anno che quindi viene a occupare un ruolo ben preciso nella politica della successione ad Augusto, e che viene appositamente celebrato con i ludi saeculares. Il già citato Carmen saeculare di Orazio dà particolare rilievo proprio ai temi cari alla propaganda augustea: il glorioso governo romano del mondo il cui peso ricadeva sulle spalle del princeps, la denuncia della decadenza e della corruzione dei costumi e la necessità di ripristinare il mos maiorum, attraverso soprattut- to l’incremento della natalità: l’inno è cantato durante i ludi da un coro di bambini e di bambine che non dovevano essere orfani42. Nella valutazione complessiva della legislazi- one sulla famiglia, non va nemmeno esclusa43 la volontà da parte di Augusto di garantire e di stabilizzare, dopo la crisi delle guerre civili, il regime della proprietà terriera, con la trasmissione a un erede legittimo (a tale proposito verrebbe perseguito l’adulterio), allo scopo di perpetuare le tradizionali distinzioni di status su base sociale ed economica. La natalità tanto promossa da Augusto non allieta, però, la sua famiglia. In un primo tempo l’imperatore, privo di figli maschi, per la sua successione preferisce la sua linea di sangue e sceglie il suo parente maschio più prossimo, vale a dire M. Claudio Marcello, appartenente alla nobile famiglia dei Claudi Marcelli e figlio della sorella Ottavia. Au- gusto non adotta il nipote (nessuna fonte riporta questa notizia), ma la carriera magis- tratuale di quest’ultimo riceve una forte accelerazione (gli viene concesso di candidarsi

39 Galinski 1996, 100. 40 CIL, VI 32323; AEp 1988, 20-21. Sulla sequenza cronologica delle varie tipologie dei ludi cf. Kienast 20042, 63-64. 41 Ferrary 2001, 123: «c’est par l’octroi de la tribunicia potestas qu’Agrippa est réellement élevé à la “corégence”». 42 Cf. ora Fedeli 2009. 43 Questo è il parere di Wallace-Hadrill1981.

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al consolato con dieci anni di anticipo rispetto al cursus tradizionale)44 e gli viene data in moglie nel 25 a.C. Giulia, l’unica figlia di Augusto. Marcello, però, muore a soli dici- annove anni nell’autunno del 23 d.C., mentre ricopre la carica di edile. Dopo la morte di Marcello, Marco Agrippa sposa Giulia, entrando a fare parte, come genero dell’im- peratore, dell’illustre domus: Cassio Dione scrive che Augusto nel 18 a.C. praticamente gli concede poteri pari ai suoi45. Nel 20 e nel 17 a.C. nascono, come già detto, Caio e Lucio Cesari, che vengono adottati dal nonno materno. L’atto familiare di Augusto ha un’immediata valenza politica che, a mio parere, non poteva sfuggire a nessuno, anche se c’è chi lo interpreta nell’ambito delle usuali strategie familiari e sociali romane piuttosto che l’indicazione di un successore politico46. Alla morte di Agrippa (12 a.C.), Giulia sposa Tiberio che, negli anni successivi, come Augusto non manca di ricordare nelle Res Gestae47, ottiene vittorie importanti sul fronte danubiano e renano. Augusto, però, conferisce ai figli adottivi Caio e Lucio Cesari il titolo diprincipes iuventutis48, chiara- mente da intendersi come futuri successori del princeps senatus Augusto. Tiberio, il cui matrimonio con Giulia è molto problematico49, si ritira a Rodi. Il diritto alla pubblica immagine e il ius trium liberorum, già concessi, come riportato in precedenza, nel 35 a.C. a Livia e Ottavia, vengono riconfermati nel 9 d.C. alla sola Livia50. Ottavia, che aveva dovuto patire la prematura morte del figlio Marcello, muore nell’11 a.C. e Cassio Dione51 adombra contrasti con la cognata e con lo stesso fratello. Augusto non avrebbe gradito tutti gli onori che le erano stati decretati post mortem. Liv- ia sarebbe addirittura sospettata di avere causato la morte di Marcello, anche se lo stesso storico si dimostra scettico sulla verosimiglianza della notizia52. Un ruolo fondamentale nella definizione delladomus Augusta ha il funus di un membro della famiglia imperi- ale (e la sua successiva sepoltura nel mausoleo di Augusto, già ultimato nel 28 a.C.53), che diventa momento e luogo privilegiato di formazione del consenso al progressivo riconoscimento della casa regnante54. Nato, infatti, come sepolcro familiare, il mausoleo diventa prima dinastico e poi imperiale. La serie delle deposizioni funerarie, tutt’altro

44 D.C. LIII 28, 3. 45 Dio LIV 12, 4; cf. Ferrary 2001, 119-125. 46 Cf. Severy 2003. 47 Aug. r.g. 30. 48 Aug. r.g. 14. 49 Eck 2010, 33-34. 50 D.C. LV 2, 5. 51 D.C. LIV 35, 5. 52 D.C. LIII 33, 4. 53 Svet. Cal. 23, 2. 54 Blasi 2012.

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che sicura, è documentata sia dalle fonti letterarie che dai rinvenimenti epigrafici55. Livia viene sicuramente sepolta nel mausoleo di Augusto, anche se non ci è giunta la specifica testimonianza epigrafica. Anche i funera femminili e le deposizioni (accolte o negate) all’interno del mau- soleo contribuiscono alla creazione della dinastia dei giulio-claudi. Il genere letterario delle consolationes, per lo più scritte per le madri in occasione della morte di un figlio, contribuisce a creare modelli di comportamento funzionali alla dinastia: come sap- piamo da Seneca56, Ottavia rappresenta il modello retorico della madre inconsolabile dopo la morte del figlio Marcello; Livia, invece, rappresenta quello parimente retorico e antitetico al precedente, della madre eroica dopo la perdita del figlio Druso in seguito a una caduta da cavallo sul fronte renano-danubiano nel 9 a.C.57. Augusto, inoltre, conformemente alla tradizione repubblicana, cerca di ottenere al- leanze nel corso della sua azione politica, attraverso una diffusa rete di matrimoni dei suoi congiunti, soprattutto con gli esponenti della vecchia aristocrazia superstite: Pub- lio Quintilio Varo, che muore a Teutoburgo, è il marito della figlia che Agrippa aveva avuto dalla figlia di Tito Pomponio Attico (Pomponia Cecilia Attica) o da Marcella Maggiore, figlia di Ottavia58; Marco Valerio Messalla Barbato Appiano sposa Marcella Minore, figlia di Ottavia59; Caio Asinio Gallo è il marito di Vipsania Agrippina, figlia di Agrippa e di Pomponia Cecilia Attica, già moglie di Tiberio e madre di Druso Mi- nore60; Lucio Domizio Enobarbo sposa Antonia Maggiore61; Lucio Emilio Paolo è il marito della nipote di Augusto Giulia Minore, e altri complicati intrecci potrebbero essere citati. In particolare, sono stati molto ben evidenziati i vantaggi economici di cui Ottaviano è in grado di usufruire attraverso i matrimoni di Agrippa con Cecilia Attica e di Tiberio con Vipsania Agrippina, vantaggi che hanno sicuramente avuto un peso nello scontro finale con Antonio62. Il 9 a.C. è un anno cruciale: muore, come ho già più volte detto, Druso Maggiore, il figlio minore di Livia, cui Augusto aveva affidato le campagne contro i Germani. La stes- sa Livia accoglie nella propria casa, come già aveva fatto Ottavia con i figli di Antonio, la vedova di Druso, Antonia Minore, figlia di Antonio e di Ottavia, e i figli della coppia, Germanico, Claudio, il futuro imperatore, e Claudia Livia Giulia, nota come Livilla nel- le fonti posteriori. Cassio Dione precisa che gli onori sopra ricordati erano stati conferiti

55 Von Hesberg - Panciera 1994. 56 Sen. ad Marc. 2, 3-5. 57 Cresci Marrone - Nicolini 2010. 58 Cf. Raepsaet-Charlier 1987, 633, 1. 59 Raepsaet-Charlier 1987, 221, 1. 60 Raepsaet-Charlier 1987, 632-633, 811. 61 Raepsaet-Charlier 1987, 280, 319. 62 Canas 2012.

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a Livia per consolarla della morte del figlio. Nella stessa occasione Livia e Giulia, la figlia di Augusto e in questo momento moglie di Tiberio, offrono un banchetto alle donne, non meglio precisate dalla fonte che è il solo Cassio Dione63. Queste attività civiche dei familiari di Augusto sono da porre in relazione con quelle militari ai confini dell’impe- ro, con la precisa volontà, da parte dello stesso Augusto, di garantire il benessere dei cives Romani in tutti gli ambiti della nuova struttura politica, sociale e militare dell’impero. Nello stesso 9 a.C. Augusto, infatti, concede il trionfo minore (ovatio) a Tiberio e a Druso Maggiore per le loro vittorie sui Germani, Dalmati e Pannoni. Druso, però, muore prima di celebrarla e a lui viene tributato un funus triumpho simillimum64. Va anche notato che lo stesso Augusto si era adoperato per amalgamare, per così dire, le due componenti della sua famiglia, la Giulia e la Claudia. Infatti, con ogni probabilità, aveva commissionato al poeta Orazio un’opera che doveva celebrare le vittorie del figliastro Druso Maggiore sulle popolazioni alpine dei Reti e dei Vindelici. In questa opera65 do- veva essere sottolineata, secondo una recente interpretazione66, l’importanza paritetica della discendenza, naturale e acquisita, di Druso Maggiore, vittorioso per la gloria di Roma, secondo i dettami del codice culturale romano. Lo stesso nome che viene scelto per la figlia di Druso e di Antonia, (Claudia) Livia Giulia, è indice, a mio parere, di que- sta volontà dinastica di accomunare il destino delle due famiglie. Nel 7 a.C., in occasione della già ricordata dedica della porticus di Livia, viene offerto da Tiberio un banchetto ai senatori sul Campidoglio, mentre la sola Livia, personalmente, lo offre sempre alle donne, in un altro luogo della città, che Cassio Dione67 non è in grado di meglio specificare. Si viene configurando, in buona sostan- za, una precisa corrispondenza fra il ruolo pubblico della componente femminile della famiglia imperiale e il riconoscimento delle matrone romane, e delle madri di famiglia in particolare, come una parte potenzialmente attiva nella società romana. Questa corrispondenza si manifesta, come è ovvio, in primis nella pratica devozionale, in par- ticolare nel nascente culto imperiale. Per fare un esempio tra i tanti, si può leggere la documentazione epigrafica relativa all’edificazione dell’Augusteum a Forum Clodi, in Etruria meridionale. In età tiberiana, questo monumento comprenderà dediche ad Augusto, Germanico, Caio e Lucio Cesari, Livia, Tiberio e Druso Minore, il figlio di Tiberio. In particolare per Livia, i più importanti magistrati cittadini di Forum Clodi offrono a loro spese vino mielato e pasticcini mulsum( et crustulum) alle donne del pa- ese che sorgeva presso il santuario di Bona Dea, divinità che presiedeva alla fecondità

63 D.C. LV 2, 4; cf. Cenerini 2006. 64 Maiuro 2008, 25-26. 65 Hor. carm. IV 4. 66 Lentano 2007, 249-258. 67 D.C. LV 8, 2.

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femminile. Tale offerta è destinata a festeggiare il compleanno di Livia68. Ancora una volta, però, la sorte della famiglia non è favorevole ad Augusto: i figli adottivi dell’imperatore, Lucio e Caio muoiono prematuramente: Lucio muore a Mar- siglia nel 2 d.C. e Caio due anni dopo sulla via del ritorno dall’Oriente. Ancora una volta Tacito69 adombra un sospetto su Livia: mors fato propera vel novercae Liviae dolus abstulit. Augusto, all’età di sessantasei anni, rimane senza eredi e decide di adottare Ti- berio. Quest’ultimo nel frattempo aveva divorziato da Giulia, implicata in uno scan- dalo politico ed esiliata dal padre a Pandataria, odierna Ventotene, dove Giulia viene accompagnata dalla madre Scribonia70. Anche la stessa Scribonia, quando Ottaviano aveva optato per il divorzio, era stata accusata di comportamento sessuale scandaloso71, mentre Seneca72, che dipende da altre fonti, ne attesta l’immagine di donna incorrutti- bile. Come si può ben vedere, l’immagine femminile è sempre funzionale al ruolo storico e politico dei familiari maschi di riferimento. Nel 2 a.C. Giulia era stata incriminata pubblicamente73 per condotta scandalosa dal suo stesso padre. Recenti ricerche74 hanno messo molto bene in evidenza che, in realtà, l’accusa di adulterio è del tutto pretestuosa e che il fatto deve essere letto in chiave politica. A Roma, infatti, si era formata, all’interno della stessa domus Augusta, un’opposizione, nel contempo politica e intellettuale, al con- servatorismo augusteo, opposizione che si richiamava ad Antonio75 e che era favorevole a imprimere al regime un’accelerazione autocratica, secondo il modello della regalità ellenistico-orientale, di stampo populistico, che fondava la sua popolarità sul favore dei soldati e del popolo. Nel 4 d.C. Augusto adotta Tiberio e, nel contempo, lo induce ad adottare il nipote diciottenne Germanico, il figlio di Druso Maggiore, fratello di Tiberio, e di Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e di Ottavia. Augusto adotta anche Agrippa Postumo, l’ultimo figlio di Agrippa e di Giulia. Evidentemente le relazioni di sangue costituiv- ano per lui una realtà irrinunciabile76. Dopo l’ingresso legale di Tiberio nella famiglia di Augusto per il tramite dell’adozione, il senato e il popolo gli conferiscono la tribu- nicia potestas e l’imperium, che egli esercita come proconsole77. Così Tiberio si trova a occupare la posizione che in precedenza era stata di Agrippa. Tiberio diventa quindi il

68 Gasperini 2008. 69 Tac. ann. I 3, 3. 70 Vell. II 100, 5. 71 Svet. Aug. 62. 72 Sen. epist. VIII 70, 10. 73 Svet. Aug. 65, 4; D.C. LV 10, 12-16. 74 Cf. da ultimo Rohr Vio 2011, 77-100 e ivi la bibliografia precedente. 75 Zecchini 1988. 76 Eck 2010, 33. 77 Kienast 20042, 77.

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designato alla successione di Augusto, anche se, in termini strettamente legali, egli non ha nessuna autorità per farlo, ma, di fatto, né il senato né il popolo di Roma hanno la possibilità di contrastare efficacemente le sue decisioni78. Secondo Velleio Patercolo79, il senato e il popolo romano premevano perché Tiberio subentrasse alla posizione paterna (ut stationi paternae succederet), quella stessa statio che Augusto avrebbe già voluto tras- mettere al nipote e figlio adottivo Gaio80. Questa statio è un concetto ancora ambiguo, ma che tenderà a identificare la funzione e la dignità imperiale, come si evince dalle pa- role di Antonino Pio riportate da Frontone81. Tacito82 è più caustico: Illuc cuncta verge- re: filius, collega imperii, consors tribuniciae potestatis adsumitur omnisque per exercitus ostentatur, non obscuris, ut antea, matris artibus, sed palam hortatu. È senz’altro innegabile che Augusto abbia gradualmente promosso Livia (e le donne della sua domus) verso una posizione pubblica eminente, ma non in modo autonomo, bensì in funzione e in relazione a un personaggio maschile, secondo un comportamento proprio della tradizione repubblicana. La rilevanza dell’onore concesso va di pari passo con la capacità femminile di assicurare la legittima discendenza. Inoltre, il fatto stesso che abbia inizio la tendenza a tributare onori pubblici alle donne, rende evidente la loro progressiva ‘emancipazione’, non solo nei rapporti di potere in seno alla famiglia, ma anche nei confronti della stessa società. Infatti, secondo una riflessione etica che risale ad Aristotele, la concessione di un onore pubblico può comportare una ridefinizione dei rapporti tra gli individui all’interno della famiglia, che si fonda sul rispetto dei ruoli e dei relativi obblighi83. In età imperiale la domus privata di Augusto diventa la domus pubblica dove si eser- cita il potere dell’imperatore, figura istituzionale totalmente innovativa. Le donne della famiglia privata di Augusto si trovano, così, in una nuova dimensione pubblica, di de- licatissima definizione, che ha contribuito a caratterizzarle come donne ‘di potere’, nel momento in cui travalicavano quella sottile linea di demarcazione fra privato e pubblico, fra lecito e illecito84. Nessun ruolo avrebbe potuto razionalizzare e definire adeguata- mente la loro posizione, di fatto ambigua e contraddittoria, in precario equilibrio fra il ruolo pubblico che le ‘imperatrici’ romane erano destinate ad avere e il ruolo domestico del modello ideale della matrona tradizionale che continuava a condizionare la loro rap- presentazione85. Ulteriore prova di questa ambiguità è che, a mio parere, il ruolo delle

78 Ferrary 2001, 144-150. 79 Vell. II 124, 2. 80 Gell. XV 7, 3. 81 Front. ep. 1, 1687N: hunc diem, quo me suscipere hanc stationem placuit. 82 Tac. ann. I 3, 3. 83 Campese - Manuli - Sissa 1983. 84 Späth 1994. 85 Fischler 1994.

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donne della corte augustea è del tutto legato alla loro contingente possibilità, nel corso del lungo principato di Augusto stesso, di essere madri dell’erede dell’imperatore. Euge- nio La Rocca86 ha già sottolineato a proposito dell’inaugurazione dell’ara Pacis (avvenu- ta il 30 gennaio del 9 a.C., giorno del compleanno di Livia87) «il fatto che il compleanno di Livia cada proprio il 30 gennaio appare una felice coincidenza», proprio in quanto, in questo momento storico, tale ricorrenza non poteva avere nessuna valenza significativa. Infatti, tra il 13 e il 9 a.C., il ruolo di Livia non è ancora funzionale alla successione di- nastica di Augusto, in quanto l’imperatore, in questo momento, ha una figlia legittima, Giulia, moglie di Agrippa fino alla morte di quest’ultimo (12 a.C.), e, soprattutto, due nipoti maschi adottati come figli. Il nuovo ruolo rivestito dalle donne a corte e, soprattutto, il suo riflesso nella so- cietà coeva, è esemplificato dal nome diAugusta che viene assunto per la prima vol- ta da Livia in seguito alla morte di Augusto e alla sua adozione da parte del marito (14 d.C.). Ancora una volta Tacito88 riporta i rumores relativi all’aggravamento del- la malattia di Augusto e ai sospetti di qualcuno sulla volontà di Livia di uccidere il marito a causa del riavvicinamento di quest’ultimo ad Agrippa Postumo, che avrebbe potuto compromettere la successione di Tiberio. Come sempre la delazione di questi episodi oscuri è femminile: nel caso specifico è la moglie di Fabio Massimo, confiden- te e unico accompagnatore di Augusto all’incontro a Planasia (Pianosa) con il nipote, Marcia che avrebbe svelato tutto a Livia. Ben presto (sicuramente con Agrippina Minore, all’indomani delle sue nozze con Claudio e l’adozione del figlio di primo letto L. Domizio Enobarbo da parte dello stesso imperatore rispettivamente nel 49 e nel 50 d.C.) essere Augusta significa appartenere alla domus imperiale, soprattutto nel ruolo di madre o moglie dell’imperatore, come sarà ev- idente dalla documentazione posteriore, prevalentemente numismatica89 ed epigrafica. Va tuttavia rilevato che, per quanto riguarda le Augustae, il confine di demarcazione tra ambito pubblico e ambito privato è, nel corso del tempo, sempre più sfumato, e dipende molto dalle circostanze di riferimento. L’adozione di Livia da parte di Augusto è un atto totalmente nuovo, che sarà desti- nato ad avere profonde ripercussioni nella costituzione della domus Augusta. Augusto, infatti, stabilisce nel suo testamento che la moglie Livia e il figlio adottivo Tiberio fos- sero i suoi eredi; in particolare Livia in familiam Iuliam nomenque Augustum adsume- batur90; Svetonio91 parla della divisione dell’eredità e dell’obbligo a portare il suo nomen.

86 La Rocca 2009, 316. 87 Barret 2006, 412-413. 88 Tac. ann. I 5, 1. 89 Morelli 2009. 90 Tac. ann. I 8, 1. 91 Svet. Aug. 101, 2; cf. anche Vell. II 75, 3; D.C. LVI 46, 1.

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Questa adozione tecnicamente rientra nella categoria delle adozioni testamentarie che, però, non hanno mai avuto un trattamento adeguato da parte dei giuristi e quindi risulta molto «difficile capire quali fossero le sue conseguenze sul piano strettamente legale»92; anche sulle conseguenze politiche non c’è stata unanimità tra gli studiosi nell’intendere un effettivo ruolo istituzionale (o meno) di Livia all’indomani della morte di Augus- to93. Se, da un lato, la condicio nominis ferendi indurrebbe a ritenere che tali adozioni testamentarie fossero delle vere e proprie adozioni, con tutte le conseguenze legali del caso94, tuttavia permangono ancora molti dubbi sugli scopi effettivi di questo tipo di adozione95. Se, indubbiamente, bisogna essere molto cauti nel formulare ipotesi sulla base di documentazione carente96, è evidente, a mio parere, nel caso di Livia la volontà non soltanto politica, ma dinastica insita in tale adozione, così come in quella di cui lo stesso futuro primo imperatore era stato protagonista in qualità di adottato da parte del prozio materno C. Giulio Cesare nel suo ultimo testamento: il giovane Caio Ot- tavio aveva cambiato il suo nome in Caio Giulio Cesare Ottaviano97, e aveva sentito la necessità di fare approvare tramite una lex curiata questa sua adozione: Appiano98 dice espressamente che grazie a questa procedura Ottaviano aveva potuto acquisire lo stesso status giuridico dei figli naturali. L’adozione di Livia è riconosciuta da un senatus consul- tum e viene sottoposta all’approvazione formale dell’assemblea popolare per avere un ef- fettivo valore giuridico: il senato delibera, secondo il costume del tempo, la costruzione di un’ara adoptionis a scopo commemorativo che, però, Tiberio rifiuta di fare edificare, conformemente alla sua volontà di limitare feminarum honores99. Secondo Svetonio100, infatti, Tiberio accusava la madre di voler dividere con lui il potere. Si può ritenere che lo scopo politico di questa adozione (Livia diventa così equipara- bile a una filia naturalis di Augusto) fosse quello di rafforzare la successione di Tiberio che, in tal modo, poteva vantare il fatto di appartenere alle principali gentes del tempo (Iulia e Claudia) e di discendere direttamente dal carismatico predecessore sia per parte di padre (adottivo) che di madre (naturale). L’elemento più importante, però, è la tras- missione del cognomen di Augusto, che diventa totale e assoluta prerogativa della gens giulio-claudia e con il quale Livia sarà ricordata sui documenti ufficiali successivi al 14

92 Barrett 2006, 219. 93 Barrett 2006, 225-234. 94 Salomies 1992. 95 Lindsay 2009, 86. 96 Kunst 1996; cf., in generale, Kunst 2005; Kunst 2008, 188-214. 97 Cf., da ultimo, Chausson 2013. 98 App. BC III 94. 99 Tac. ann. I 14, 1. 100 Svet. Tib. 50, 2.

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d.C.101. Secondo Cassio Dione102, Livia, dopo la morte di Augusto e la successione al potere del figlio Tiberio, avrebbe aspirato non solo a un riconoscimento formale, ma anche sostanziale nel governo dell’impero, puntando a una vera e propria coreggenza. Per lo storico del III sec. d.C. prova ne sarebbero, oltre al suo comportamento in ge- nere, anche le lettere ufficiali che scriveva e riceveva. Tale valutazione di Cassio Dione è anacronistica ed è possibile che lo storico fosse, in realtà, influenzato dal ruolo che Giulia Domna aveva alla corte dei Severi, all’inizio del III sec. d.C., corte con cui Dione aveva dimestichezza103. A mio parere Augusto non voleva configurare un vero e proprio potere istituzionale per Livia, del tutto incompatibile con la mentalità romana del tempo104. In pratica è invece evidente il ruolo fondamentale di Livia, già nella stesse intenzioni del marito-pa- dre adottivo, nella progressiva creazione di una domus Augusta divina, come base del culto dinastico e del consenso al potere imperiale, dove l’apoteosi decretata ad Augusto, all’indomani della sua morte, introduce un elemento del tutto nuovo con cui i successori di Augusto avrebbero necessariamente dovuto fare i conti. Non a caso Iulia Augusta è la prima sacerdotessa del culto del divo Augusto, una importante fonte di legittimazi- one al potere del figlio naturale Tiberio e adottivo di Augusto105. Ovidio106 la definisce come moglie e sacerdotessa (coniunxque sacerdos), mentre Velleio107 parla di sacerdotessa e figlia sacerdotem( ac filiam). Tale sacerdozio femminile, autonomo rispetto al flamen divi Augusti, è organizzato sul modello della flaminica, moglie del flamen Dialis, delle Vestali e della sacerdos publica di Cerere e consente il riconoscimento di una posizione formale alla Augusta Livia108. Ancora Cassio Dione ci dice che il senato avrebbe voluto conferire l’appellativo di madre della patria109 a Livia, motivando questa richiesta con il fatto che la donna, nel corso della sua esistenza, aveva salvato la vita a molti di loro, aveva allevato i loro figli e contribuito al pagamento della dote delle figlie. In effetti, in provincia Livia è ono- rata pubblicamente con il titolo di mater patriae, ad esempio in una moneta coniata a Leptis Magna110 e con il titolo di genetrix orbis a Iulia Romula111. In ogni caso, Livia è

101 Barrett 2006, 223. 102 D.C. LVII 46, 1. 103 Barrett 2006, 336-337. 104 Cf. Yakobson 2003. 105 Zecchini 2003. 106 Ov. Pont. IV 9, 107. 107 Vell. II 75, 3. 108 Frei-Stolba 2008. 109 D.C. LVIII 2, 3: μήτηρ τη̃ς πατρίδος. 110 RIC I 849. 111 RIC I 73; cf. Morelli 2004.

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ormai parte integrante di quel principato, retto dal figlio, che deve garantire sicurezza e prosperità ai suoi sudditi: una emissione monetale di Tiberio del 22 d.C. ritrae Livia come Salus Augusta112; il futuro imperatore Galba durante il suo breve principato co- nierà monete che utilizzano ideologicamente la figura di Livia per rappresentare l’idea del buon governo, stabile e sicuro, derivante dalla continuità dinastica con il principato augusteo113. Come abbiamo già notato, Tiberio, in parte, si oppone a Livia e ai suoi so- stenitori, ma concede nel 23 d.C. che Livia si sieda in teatro tra le Vestali e che utilizzi il carpentum, carro a due ruote usato in occasioni solenni. La stessa Livia sarà divinizzata il 17 gennaio del 42 d.C., ricorrenza del suo matrimonio, dal nipote Claudio114. In età giulio-claudia, a Livia, diventata il primo simbolo di continuità del potere, viene posto in Italia e nelle province il maggior numero in assoluto di dediche di caratte- re onorario a una donna. Ad esempio, il demo di Ramnunte, in Attica, dedica a Livia il tempio già consacrato a Nemesi, molto probabilmente negli anni 45/46 d.C., cioè pochi anni dopo la sua divinizzazione115. Va senza dubbio sottolineata la precocità nelle pro- vince, non soltanto in quelle orientali, nell’attribuire alla prima figura femminile di rilie- vo dell’impero un’associazione con la regalità cosmica116. L’appellativo di genetrix orbis conferito a Livia è attestato anche nell’iscrizione di Anticaria in Betica117 a lei dedicata dal pontufex (sic) Caesarum M. Cornelius Proculus. In questa base monumentale Livia è indicata come Iulia Augusta ed è ricordata come figlia di Druso, moglie del divo Au- gusto, madre di Tiberio Cesare Augusto princeps et conservator e di Druso Germanico. È evidente che ci sono stati tramandati dalle fonti antiche ritratti diversi di Livia, ciascuno funzionale all’ideologia e al modo di scrivere dello storico antico. Sempli- ficando, si può dire che c’è una Livia positiva e ammirevole in Velleio Patercolo, una abbastanza scialba in Svetonio, una ambigua, manipolatrice e intrigante in Tacito e una complessa e anticipatrice di realtà successive in Cassio Dione. Tutto sommato, della Livia in carne ed ossa sappiamo poco: l’ambiguità con cui Livia è caratterizzata nelle fonti letterarie parrebbe avere un riscontro anche nella documentazione epigra- fica, a seconda che i committenti delle singole dediche la ricordino o come figlia di M. Livio Druso Claudiano o come moglie di Augusto o come madre di Tiberio e di Dru- so Maggiore. La menzione della filiazione Drusi( filia) ed, eventualmente, del nome primo marito, Ti. Claudio Nerone, infatti, collegava direttamente Livia all’oligarchia senatoria. In certi ambienti municipali e provinciali questa ideologia nostalgica pote- va avere ancora un seguito, soprattutto nella prima età tiberiana, in quanto lo stesso

112 Bartman 1999, 115-116. 113 Morelli 2001. 114 D.C. LX 5, 2. 115 Kajava 2000. 116 Mastino 1986. 117 CIL, II 5, 748.

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imperatore si dichiarava tradizionalista e filo repubblicano118. Come tutte le donne aristocratiche di età repubblicana, Livia ha difeso gli interessi della sua famiglia, ma si è trovata al centro di uno scontro fra i Giuli e i Claudi e i loro sostenitori119. Non è un caso che il pronipote Caligola, successore di Tiberio al potere imperiale, la definiràUlixem stolatam, Ulisse in gonnella120. Ma non va dimenticato che nessuna donna dell’entourage di Augusto è menzionata nelle Res Gestae, nel bene o nel male (e questo è un dato significativo)121, anche se ormai è acquisito dalla storiografia il loro ruolo nella costruzione della nuova domus Augusta che, sulla base del carisma del suo capostipite, divi filius e divus egli stesso post mortem, acquisisce una condizione di superiorità rispetto a tutte le altre122. A mio parere, comunque, qualunque sia il ruolo svolto o attribuito a Livia, esso va riferito, sempre e comunque, a un personaggio maschile di riferimento; senza Augusto o Tiberio di Livia non sapremmo nulla, o quasi. Una cosa va, però, sottolineata: i media di allora, vale a dire i mezzi di informazione (monumenti figurati, iscrizioni, pubbliche letture di opere letterarie e monete) confermano che la famiglia di Augusto aveva assun- to un ruolo pubblico; conseguentemente anche le donne della famiglia diventano un modello di comportamento civico, cui si ispirarono le donne della buona borghesia ital- ica. Augusto impone modelli di comportamento femminili all’interno della sua famiglia che devono essere riproposti dall’ordo matronarum e dalle donne in genere; tra questi la partecipazione a banchetti pubblici, anche soltanto femminili, assume, come abbia- mo visto, un ruolo di primo piano nell’ambito della promozione delle riforme morali e religiose volute dall’imperatore, «accordando loro visibilità ovvero oscurandone la me- moria in relazione funzionale con le strategie dinastiche e politiche in perenne evoluzi- one»123. In buona sostanza, si può affermare che la ‘visibilità’ di alcune matrone eviden- zia la preminenza degli uomini delle loro famiglie nel ‘paesaggio politico’ dell’epoca124. Questa ambiguità nella caratterizzazione delle figure femminili della storia romana antica, soprattutto imperiale, è, per altro, abbastanza frequente presso gli storici antichi e moderni. Questi giudizi sono dovuti al fatto che la famiglia giulio-claudia ha assunto un ruolo dominante, che non tarderà a diventare istituzionale, e questo ha comportato che anche le donne assumessero un ruolo ‘pubblico’, mal giudicato dagli antichi e spes- so frainteso dai moderni. Augusto, però, non riteneva che questo ruolo fosse ancora esplicitabile in un documento pur destinato allo stesso pubblico come le Res Gestae.

118 Antolini 2008. 119 Kunst 2008, 278-283. 120 Svet. Cal. 23, 2. 121 Tale mancanza fu già notata dal Mommsen: cf. Ridley 2003, 70. 122 Moreau 2005. 123 Cresci Marrone - Nicolini 2010, 167. 124 Lejeune 2012.

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E’ questo il motivo per cui penso che Livia non sia menzionata nelle Res Gestae e non ritengo che «the total absence of Livia is more complicated» e che «all literary sources stress her political importance to her husband»125. Il suo ruolo ‘pubblico’ sarà manifesto soltanto in età tiberiana, nella sua nuova veste di figlia adottiva di Augusto e con il nuovo nome di Iulia Augusta. In questo ruolo comparirà in documenti ufficiali e sulla monetazione. La creazione di una dinastia familiare dimostra, più di ogni altra cosa, il cambia- mento politico: da repubblica a ordinamento di tipo monarchico126. Gli onori concessi ai nipoti Marcello e Gaio e Lucio Cesari (soprattutto il consolato in giovanissima età) non potevano definire costituzionalmente il loro ruolo di successori, ma non c’è nessun dubbio che in questa veste erano percepiti dall’opinione pubblica. Tali successori sono scelti da Augusto all’interno della sua famiglia e all’interno di questo contesto l’immag- ine femminile (moglie/madre dell’erede designato) viene potenziata dai media di allora. Livia ha dunque avuto, come ho già più volte sottolineato, una funzione fondamen- tale nella progressiva creazione di una domus Augusta divina, base del culto dinastico e del relativo consenso al potere imperiale, e fondata sul riconoscimento della trasmis- sione ai suoi membri del sangue carismatico del fondatore Augusto127. Questo appare evidente, come già accennato all’inizio, nella cosiddetta Tabula Siarensis, cioè il testo di due senatus consulta emanati nel 19 d.C. e relativi agli onori funebri pubblici da tributare a Germanico, figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore e perciò nipote dell’imper- atore Tiberio. Germanico aveva un fondamentale ruolo dinastico e, in quanto tale, Au- gusto lo aveva fatto adottare da Tiberio, quando quest’ultimo era stato designato come suo successore. Germanico era marito di Agrippina Maggiore, figlia di Agrippa e di Gi- ulia Maggiore ed è il padre del futuro imperatore Caligola. Germanico muore, però, in circostanze misteriose durante una missione ufficiale in Oriente128. Secondo Tacito i veri responsabili di questa morte erano Tiberio e Livia, attraverso il legato di Siria Gneo Calpurnio Pisone e della di lui moglie, Munazia Plancina, amica intima di Livia. Tiberio aveva voluto affiancare con un incarico ufficialeadiutor ( , termine che ricorre anche nei documenti legali) Pisone a Germanico, durante la missione di quest’ultimo in Oriente. Pisone era un tradizionalista, amico di vecchia data di Tiberio, contrario a ogni deriva autocratica e del tutto ostile ai costumi filoorientali dimostrati da Germanico e dal suo entourage129. Tacito130 riporta la notizia che Germanico era convinto di morire a causa di

125 Ridley 2003, 70. 126 Richardson 2012, 228. 127 Corbier 1995. 128 González - Arce 1988; Eck - Caballos - Fernandez 1996; González 2008; Cipollone 2012. 129 Zecchini 1999. 130 Tac. ann. II 71, 2.

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un intrigo femminile (muliebri fraude): il riferimento è senza dubbio Plancina, ritenu- ta l’avvelenatrice materiale, ma la frase tacitiana è volutamente ambigua, per includere anche Livia nell’accusa. I documenti ufficiali come laTabula Siarensis, invece, annotano che Tiberio, Livia, Antonia Minore, Druso Minore e Agrippina Maggiore sono i pro- tagonisti della scelta degli onori postumi da tributare a Germanico. Nel testo si legge131: [… et Iulia] Augusta mater eius et Drusus Caesar materque Germanici Ca[esaris Antonia …] scelgono gli onori più appropriati da tributare a Germanico tra quelli proposti dal senato. Tra questi onori sarebbe stato elevato un monumento in circo Flaminio pe[cunia publica] … ad eum locum in quo statuae divo Augusto domuique Augus[tae publice positae es]sent …. Tale gruppo avrebbe ricompreso una statua Ger[manici Caesaris] … in curru triumphali et circa latera eius statuae D[rusi Germanici patris ei]us, naturalis (di sangue) fratris Ti(berii) Caesaris Aug(usti) et Antoniae matris ei[us et Agrippinae uxoris et Li]viae sororis et Ti(berii) Germanici fratris eius et filiorum et fi[liarum eius]. La presenza femmi- nile nella domus Augusta acquisisce in tal modo un evidente ruolo pubblico, del tutto funzionale alla successione dinastica. Tuttavia, come giustamente è stato sottolineato132, la chiave dinastica «non è di per sé sufficiente per comprendere la lotta politica e le dif- ferenti prospettive ideologiche relative alla concezione del principato – nate soprattutto all’interno della domus Augusta – alle quali sono riconducibili gli stessi conflitti politici intradinastici». Nel 20 d.C. Pisone è accusato di omicidio, estorsione e tradimento assieme alla moglie Plancina. Anche in questo caso, recenti scoperte epigrafiche ci aiutano a com- prendere meglio queste vicende, finora note dal solo resoconto tacitiano. È stato, infatti, rinvenuto il testo di alcuni decreti senatoriali, il cosiddetto senatus consultum de Cn. Pisone patre133, emanati in occasione di questo processo, che, tra le altre cose, attestano che il termine domus Augusta, inteso come entità familiare collettiva, è diventato d’uso comune per designare la famiglia imperiale. In particolare, Pisone è colpevole di non avere rispettato la maiestas della domus Augusta134. Nonostante il suicidio, Tiberio ordina che il senato pronunci una sentenza contro lo stesso Pisone, il figlio Marco, la moglie Plancina e i suoi luogotenenti in Siria. Pisone e questi ultimi vengono condannati, Marco ottiene la piena assoluzione135, mentre Planci- na può godere di un trattamento privilegiato grazie all’intercessione di Livia. Nel testo del decreto si loda la famiglia di Germanico, unita nel dolore, nel rispetto e nel ricordo del defunto. Infatti, il testo del senatus consultum, efficace esempio del filtro utilizzato dall’informazione ufficiale, ringrazia Livia, Druso Cesare, Agrippina, Antonia, Livia

131 EDCS 45500034. 132 Galimberti 2014, 185. 133 EDCS 46400006. 134 Pani 2000, 691-692. 135 Zecchini 1999.

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Giulia per la moderatio di cui hanno dato prova nel corso di questa azione drammatica che ha messo a repentaglio la sicurezza di Roma. Questo senatus consultum illustra i rapporti istituzionali fra l’imperium di Tiberio, i poteri concessi a Germanico e quelli di Pisone all’interno di «una logica familiare che sostiene la formazione del concetto di domus Augusta»136. In questa domus, che si pone al vertice della nobiltà romana, hanno uno specifico rilievo le donne ricordate nel decreto: Agrippina Maggiore, Antonia Mi- nore e Livia Giulia, rispettivamente moglie, madre e sorella di Germanico. Un rilievo particolare riveste Livia, nonna di Germanico, qui ricordata con il suo nuovo nome, Iulia Augusta. In particolare, nel testo del senatus consultum de Cn. Pisone patre (ll. 115- 118) si evidenzia ufficialmente il ruolo di patronato di Livia in favore di Plancina, ruolo che le è riconosciuto per i suoi molti merita: avere generato Tiberio ed essere autrice di molti beneficia nei confronti degli uomini di tutti gli ordines. Viene sottolineato, per al- tro, che Livia non approfitta di questa sua posizione di ‘potere’. Il patronato, anche fem- minile, è un retaggio aristocratico di età repubblicana, ma questa posizione è senz’altro nuova in quanto Livia è molto vicina al nuovo potere del princeps137.

136 Pani 2000, 685. 137 Kunst 2010.

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Terenzia, una matrona in domo et in re publica agens

A te quidem omnia fieri fortissime et amantissime video, nec miror1: così Cicerone, in una lettera inviata da Tessalonica il 5 ottobre del 58 ai propri cari, ma in realtà indiriz- zata a Terenzia2, sottolinea e riconosce l’impegno strenuo e appassionato profuso dalla moglie, che in una situazione oltremodo difficile si era adoperata, e si stava adoperando, con coraggio e forza d’animo degni di un uomo (fortissime)3, in domo per gestire tutti i problemi della quotidianità, acuiti soprattutto dalle difficoltà finanziarie,in e re publica per sollecitare appoggi politici ed economici in favore del marito, oltre che per risolvere intricate questioni patrimoniali. Le ventitré lettere inviate da Cicerone alla moglie nei due periodi più critici del- la sua vita, ovvero l’esilio volontario dopo i plebisciti di Clodio (59-58) e il coinvolgi- mento nella guerra civile fra Cesare e Pompeo (49-47), cui si può aggiungere l’unica lettera (fam., XIV 5) scritta durante il ritorno dalla Cilicia (50)4, che occupano tutto il XIV libro delle Epistulae ad familiares, così come alcune lettere inviate, per lo più nei medesimi giorni, ad Attico5, con una coincidenza che non può essere casuale6, non sono solo «l’histoire de un ménage», come ritiene Gaston Boissier7, o i «documents

1 Cic. fam. XIV 2, 2. 2 Cavarzere 2007, 1507 n. 1. 3 La fortitudo di Terentia, insieme alla virtus, che Emily A. Hemelrijk (Hemelrijk 2004, 188) definisce efficacemente «the quintessentiales male qualities», sono ricordate in una lettera inviata sempre da Tessalonica il 25 novembre del 58 (fam. XIV 1, 1), mentre oltre dieci anni più tardi, il 7 giugno del 49, scrivendo alla moglie e alla figlia Tullia fam.( XIV 7, 2), Cicerone afferma:vos fortiores cognossem quam nequaquam virum. A questo riguardo sono fondamentali le osservazioni di Hemelrijk 2004, 188-193 da integrare con quanto scrive, riferendosi proprio a Cicerone, Santoro L’Hoir 1992, 9-46, 197-204. 4 Su questi periodi della vita di Cicerone la bibliografia è amplissima, per cui mi limito a rinviare all’ormai classico Mitchell 1991, 127-157, 204-266 e al più recente Pina Polo 2005, 171-193, 267-320, cui si può aggiungere anche Garcea 2005. 5 Come Cic. Att. III 5, 8, 9, 19, 23, relative al periodo dell’esilio, e, soprattutto, VI 1, 4-6; VII 1, 2, 3, 12-14, 16, 17, 18, 20, 22, 23, 26; IX 6; X 4, 11, 16; XI 1, 9, 16, 17a, 21, 24, 25; a queste si possono aggiungere altre lettere, inviate dopo il divorzio, in cui Cicerone espone alcuni problemi finanziari e testamentari riguardanti lui e la ex moglie: XII 18a, 19, 20-23, 28, 37, 46; XVI 6, 15. 6 Cavarzere 2007, 1504, con un’interessante tabella delle corrispondenze; cf. anche Jäger 1987, 232-290 con tabella alla p. 236. 7 Boissier 1905, 97.

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of a crumbling marriage», come vivacemente li ha definiti Jo-Marie Claassen8, ma sono, soprattutto, una fonte di notevole importanza per individuare proprio quegli spazi e quelle occasioni di intervento, che particolarmente nei momenti di crisi o di emergenza si aprivano alle donne9. E in effetti le vicende di Terenzia sono emblematiche delle vi- cende vissute da altre matrone10, costrette ad assumersi tutto il peso, gestionale oltre che psicologico, che gravava sulla moglie di un uomo politico ambizioso e importante, sia a causa delle lunghe assenza da casa legate ai vari incarichi ufficiali, sia delle traversie che le vicissitudini politiche dei mariti spesso comportavano11. Comincerò dal primo periodo di crisi, l’esilio volontario (58-57). Quando Cicerone abbandona Roma, lascia Terenzia in una situazione particolarmente difficile sotto l’a- spetto sociale, come la perdita dei privilegi del proprio rango, segnata anche dall’assun- zione dei segni del lutto12, e legale, come la confisca dei beni e l'abbattimento della casa sul Palatino13.Temendo per la propria incolumità e rifugiatasi presso le Vergini Vestali dalla sorellastra Fabia14, Terenzia deve allora agire in primo luogo in domo per assicurare, nonostante tutte le avversità, tra le quali non ultime l'incendio della casa15 e la devasta- zione e il saccheggio delle proprietà16, una corretta gestione della famiglia («keeping the home fires burning» è l’efficace espressione usata da Susan Treggiari17), difendendo quanto restava del patrimonio famigliare e tutelando i figli:ut esset quae reliquias com- munis calamitatis, communes liberos tueretur, scrive Cicerone al fratello Quinto il 13 giu- gno del 58, informandolo del motivo per cui non abbia permesso alla moglie di seguirlo in esilio18. Terenzia provvede alle spese con il patrimonio personale: tu quid egeris nescio, utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliatam le scrive il marito il 29 aprile del 58, da Brindisi, in procinto d’imbarcarsi per la Grecia19, e illud doleo, quae impensa

8 Claassen 1996, 208-232, con amplissima bibliografia. 9 Si veda al riguardo Soraci 2013, 81-108 e, in particolare per Terenzia, 86-89. 10 Si vedano i casi presi in esame da Gafforini 1992, 153-172; Hemelrijk 2004, 185-197 e da Soraci 2013, 86-108. 11 Com’è ben delineato, proprio per Terenzia, da Treggiari 2007, 35-80, 112-117. 12 Cic. p. red. ad Quir., 8: nam coniugis miserae squalor et luctus atque optimae filiae maeror adsiduus filiique parvi desiderium mei lacrimaeque pueriles aut itineribus necessariis aut magnam partem tectis ac tenebris continebantur; si veda in particolare Treggiari 2007, 56, 60. 13 Treggiari 2007, 58-60, Hales 2000, 44-55. 14 Treggiari 2007, 61; su Fabia e lo scandalo che la coinvolse insieme a Catilina: Ead. 2007, 30-31. 15 Sul forte valore simbolico e sul devastante impatto psicologico della distruzione della casa di Cicerone: Hales 2000, 44-55. 16 Treggiari 2007, 61. 17 Treggiari 2007, 60. 18 Cic. ad Q. fr. I 3, 3. 19 Cic. fam. XIV 4, 4.

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facienda est, in eius partem te miseram et despoliatam venire, ripete qualche mese dopo, in una lettera inviata da Tessalonica20. Si trattava di un patrimonio ingente, dato che le fonti ricordano almeno un saltus con bosco e pascoli, un possedimento terriero perti- nente all’ager publicus che, tuttavia, era stato oggetto di una controversia con un certo Mulvio, un lotto d’immobili (vicus) e diversi appartamenti nell’Argileto e sull’Aventino, la cui rendita era di 80.000 sesterzi l’anno21. Tuttavia le spese da sostenere dovevano essere notevoli, tanto da spingerla, nel novembre del 58, a progettare la vendita del vicus, suscitando l’immediato disappunto di Cicerone, che temeva che ciò compromettesse in futuro la condizione economica del figlio22:

Quod ad me, mea Terentia, scribis te vicum vendituram, quid, obsecro te (me miserum!), quid futurum est? et si nos premet eadem fortuna, quid puero misero fiet? ...Tantum scribo: si erunt in officio amici, pecunia non deerit; si non erunt, tu efficere tua pecunia non poteris. Per fortunas miseras noster, vide ne puer per- ditum perdamus.

Al di là del tono volutamente esagerato a fini retorici23, colpisce sia il fatto che Ci- cerone, tutto preso dal futuro del figlio ancora piccolo, sembra sottovalutare (o finga di farlo) i problemi finanziari di Terenzia, confidando, con eccessivo ottimismo, credo, sulla generosità degli amici, generosità sulla quale – e ne è ben conscio ‒ non si può contare con sicurezza (si erunt in offici e, poco oltre, si non erunt)24, sia l’affermazione che il denaro di Terenzia in ogni caso, anche con la vendita delle case, non sarebbe stato sufficiente. E allora, come avrebbe fatto Terenzia a gestire in modo onorevole la casa e a conservare quella dignità che il marito stesso le richiedeva25? E in ogni caso rimane il fondato sospetto che alla base della contrarietà di Cicerone vi sia la constatazione

20 Cic. fam. XIV 2, 3. 21 Treggiari 2007, 33-35, con puntuali riferimenti alle fonti. 22 Cic. fam. XIV 1, 4: «Mia cara Terenzia, mi scrivi della tua intenzione di vendere un lotto di case. È davvero terribile! In nome del cielo, che sta succedendo? Se la sventura continuerà ad accanirsi su di noi, che ne sarà del nostro povero figliolo?... Aggiungo soltanto questo: se gli amici faranno il loro dovere, il denaro non mancherà; in caso contrario, col denaro tuo non potrai far nulla. Per deplorevoli che siano le nostre condizioni, non permettiamo, ti prego, che il nostro sventurato ragazzo venga rovinato del tutto» (trad. di A. Cavarzere). Tutta la questione, con le varie implicazioni giuridiche e finanziarie, è stata approfondita da Dixon 1986, 98-99. 23 Su tali espressioni si vedano le osservazioni di Cavarzere 2007, 1526 n. 52. Dixon 1986, 98, afferma che egli usa «he nagging tone of the powerless». 24 Si vedano, a esempio, le perplessità che manifesta sull’atteggiamento del marito di Tullia, Gaio Calpurnio Pisone Frugi (fam. XIV 4, 4): Pisonem, ut scribis, spero fore semper nostrum. 25 Cic. fam. XIV 4, 5: quod reliquum est, sustenta te, mea Terentia, ut potest honestissime.

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dell’indipendenza di Terenzia, che, come ha sottolineato Suzanne Dixon26, era sì dispo- sta a sacrificarsi per la sua famiglia e a usare il suo patrimonio, ma non a rinunciare alla sua autonomia di comportamento, quella stessa autonomia che aveva mostrato qualche mese prima, quando aveva dovuto risolvere l’intricato problema degli schiavi, sia suoi sia del marito, che erano stati liberati con una manomissione fittizia per sottrarli alla confisca27. Così scrive infatti Cicerone il 29 aprile del 58, da Brindisi28:

De familia liberata, nihil est quod te moveat. Primum tuis ita promissum est te facturam esse ut quisque esset meritus; est autem in officio adhuc Orpheus, prae- terea magno opere nemo. Ceterorum servorum ea causa est ut, si res a nobis abis- set, liberti nostri essent, si obtinere potuissent; sin ad nos pertinerent, servirent, praeterquam oppido pauci. Sed haec minora sunt.

Sebbene Cicerone tenda a minimizzare la vicenda (sed haec minora sunt), doveva trattarsi di una questione non semplice, che implicava la gestione dei beni dotali di Te- renzia, per i quali esisteva il fondato dubbio se potessero essere confiscati o meno29; Te - renzia riuscì, nel giro di qualche mese, a risolvere personalmente la vicenda, seguendo il consiglio di alcuni amici, come rimarca un po’ risentito il marito: de familia quo modo placuisse scribis amicis30. Ai problemi economici si aggiungeva poi la gestione dei rapporti con Quinto Tullio, il fratello di Cicerone, e con la sua consorte, coi quali non dovevano mancare gli screzi. Su questi Cicerone appare piuttosto elusivo, e, anzi, cerca di smorzare i toni, minimiz- zando i fatti e riducendoli a discordiae mulierum nostrarum31. Tuttavia prende posizione in favore della moglie, invitando i parenti a essere solidali32: de Quinto fratre, nihil ego te accusavi, sed vos, cum praesertim tam pauci sitis, volui esse quam coniunctissimos. Le ragioni ci sfuggono: si può ipotizzare qualche renitenza da parte di Quinto (e della moglie) nel fornire al fratello un sostegno economico che doveva farsi sempre più

26 Dixon 1986, 98-102; cf. Treggiari 2007, 68. 27 Dixon 1986, 95-97; cf. anche Treggiari 2007, 64. 28 Cic. fam. XIV 4, 4: «Della liberazione degli schiavi non hai motivo di preoccuparti. Anzi- tutto ai tuoi è stato promesso che avresti agito secondo il merito di ciascuno; eppure soltanto Or- feo fa ancora il proprio dovere, ma, oltre a lui, proprio nessuno. Per gli altri schiavi la situazione è questa: in caso d’una confisca dei miei beni, essi sarebbero miei liberti, ammesso che riescano ad ottenerlo; se viceversa, dovessero spettare a me, sarebbero ancora miei schiavi, tranne davvero pochi. Ma son cose di scarsa importanza» (trad. di A. Cavarzere). 29 Dixon 1986, 95-96. 30 Cic. fam. XIV 1, 3: «Per quanto riguarda gli schiavi faremo a modo tuo, cioè come suggeriscono gli amici» (trad. A. Cavarzere). 31 Cic. ad Q. fr. II 5, 2. 32 Cic. fam. XIV 1, 4.

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MatronaeOK.indb 54 21/06/16 08:55 TERENZIA, UNA MATRONA IN DOMO ET IN RE PUBLICA AGENS

oneroso33, o una diversità di vedute su come procedere per promuovere il ritorno di Ci- cerone34 oppure, e più probabilmente, a mio parere, un tentativo da parte sua di ingerirsi nella vita o nella gestione dei beni di Terenzia, come voleva suo fratello35: Terentiam velim tueare. Terenzia, tuttavia, oltre che in domo, doveva operare anche in re publica, in primo luogo, se vogliamo usare un'espressione moderna, nel campo delle relazioni pubbliche, contattando amici e sostenitori di Cicerone, per esortarli a promuovere il ritorno a Roma del marito36: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves le scrive Cicerone il 29 aprile del 58 da Brindisi, in procinto di lasciare l’Italia37. Doveva poi adoperarsi per ot- tenere la restituzione di alcuni dei beni confiscati, in particolare del terreno sul Palatino, su cui sorgeva la casa incendiata e distrutta e sul quale era stato eretto un piccolo tempio dedicato alla Libertas38, restituzione a cui Cicerone teneva moltissimo, soprattutto per il valore simbolico che questa rappresentava: quod de domo scribis, hoc est de area, ego vero tum denique mihi videbor restitutus si illa nobis erit restituta39. Un’attività di questo genere naturalmente poneva Terenzia in prima linea40 e la espo- neva al rischio di ritorsioni e di persecuzioni da parte dei nemici del marito, come dimo- stra la vicenda cui Cicerone fa riferimento nella lettera inviata da Tessalonica il 5 ottobre del 5841:

Nam ad me P. Valerius42, homo officiosus, scripsit, id quod ego maximo cum fletu legi, quem ad modum a Vestae ad Tabulam Valeriam ducta esses. Hem, mea lux, meum desiderium, unde omnes opem petere solebant, te nunc, mea Terentia, sic vexari, sic iacere in lacrimis et sordibus.

33 Cf. Cic. ad Q. fr. I 3, 7; si veda anche Dixon 1986, 101. 34 Così Treggiari 2007, 67. 35 Cic. ad Q. fr. I 3, 10. 36 Cf. Treggiari 2007, 66. 37 Cic. fam. XIV 4, 2. 38 Hales 2000, 44-55; cf. anche sopra alla n. 19. 39 Cic. fam. 2, 3: «Mi scrivi della casa, anzi del suo terreno: ebbene mi sembrerà d’essere restituito al mio rango solo quando anch’essa mi sarà restituita» (trad. di A. Cavarzere). Si veda anche quanto scrive quasi contemporaneamente ad Attico (Att. III 20, 2) e, dopo il suo rientro a Roma, in Dom. 144; cf. anche Hales 2000, 44-55 e Treggiari 2007, 51. 40 Così Treggiari 2007, 65. 41 Cic. fam. XIV 2, 2: «Publio Valerio, che mi è devoto, mi ha scritto ‒ e nel leggerlo non ce l’ho proprio fatta a trattenere le lacrime ‒ in che modo dal tempio di Vesta t’hanno condotto alla Tavola Valeria. Ah vita mia, mio tesoro, proprio te, cui tutti ricorrevano per aiuto! Ed ora , mia cara Terenzia, saperti così angosciata, così prostrata nel pianto e nel lutto» (trad. A. Cavarzere). 42 Su questo personaggio: Deniaux 1993, 568.

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MatronaeOK.indb 55 21/06/16 08:55 ALFREDO BUONOPANE

Dunque Terenzia venne prelevata dal tempio di Vesta, o meglio, dalla casa delle Vestali, dove come si è detto, aveva trovato rifugio, e venne condotta con la forza presso la sede ufficiale dei tribuni della plebe, con tutta probabilità al cospetto di Clo- dio. Questa è infatti l’unica interpretazione possibile, come ben sottolinea Filippo Coarelli43, dell’espressione Tabula Valeria, che non indica certo né una banca, né una lastra in bronzo con le leggi Valerie-Orazie44, ma che, come si ricava anche dalla lettura di altre fonti letterarie45, è la pittura che raffigurava le vittoriose battaglie riportate da M. Valerio Messalla Corvino nel corso della Prima Guerra Punica e presso la quale si trovavano i subsellia dei tribuni della plebe. I motivi di questa convocazione, evidentemente coatta, come sottolinea l’uso del verbo ducere al passivo, ed eseguita con la forza - nell’orazione De domo sua e nella Pro P. Sestio usa, infatti, il verbo rapto46 -, non sono chiari47: forse Clodio voleva intimorire Terenzia, umiliandola pubblicamente ed esercitando su di lei violenza psicologica e, molto probabilmente, anche fisica48, per distoglierla dal continuare la sua capillare azione in favore del marito in esilio49. Terenzia, tuttavia, non si lasciò intimorire e proseguì pazientemente la sua opera, continuando a mandare corrieri al marito per informarlo su tutto ciò che accadeva in famiglia e a Roma50 e per aggiornarlo sugli sviluppi della situazione politica51, come traspare chiaramente da alcuni passi di una lettera inviata il 29 novembre del 58 da Durazzo52:

43 Coarelli 1985, 53-59; Id. 1999, 16; questa interpretazione è accolta da Shackleton Bailey 1977, I, 288 e da Treggiari 2007, 65, mentre non prende posizione Dixon 1986, 97-98. 44 Su queste «curiose interpretazioni» e su alcune altre: Coarelli 1985, 55. 45 Tutte riportate da Coarelli 1985, 53-55. 46 Cic. dom., 59: raptavistis; Sest., 145: raptata coniux. 47 Cavarzere 2007, 1515; Treggiari 2007, 66. 48 Credo che questo sia il significato da attribuire al verbovexare , ripetutamente impiegato da Cicerone nel ricordare questa vicenda (fam. XIV 2, 2: te... vexari; dom., 59: quam vexavistis; Sest. 54: vexabatur uxor mea). 49 Così Dixon 1986, 97; meno probabile mi pare l’ipotesi avanzata da Treggiari 2007, 66: «it was about property». 50 Cic. fam. XIV 1, 6: fac valeas et ad me tabellarios mittas ut sciam quid agatur et vos quid agatis. 51 Treggiari 2007, 69. 52 Cic. fam. XIV 3, 4-5: «Ecco perché t’ho mandato subito Aristocrito: così potrai scrivermi immediatamente di come butta la cosa e della piega che prende l’intera faccenda... Dalla prima, o al massimo dalla tua seconda lettera potrò stabilire il da farsi. La sola cosa che ti chiedo è di scrivermi ogni cosa per filo e per segno» (trad. A. Cavarzere).

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MatronaeOK.indb 56 21/06/16 08:55 TERENZIA, UNA MATRONA IN DOMO ET IN RE PUBLICA AGENS

Ea re ad te statim Aristocritum misi ut ad me continuo initia rerum et rationem totius negoti posse scribere ... Ex primis aut summum secundis litteris tuis consti- tuere poterimus quid nobis faciendum sit. Tu modo ad me velim omnia diligen- tissime perscribas.

E si tratta di un impegno che Cicerone stesso, nella medesima lettera53, non manca di riconoscere: amicis quibus voluisti egi gratias et eas litteras Dexippo54 dedi meque de eorum officio scripsi a te certiorem esse factum. In una situazione in parte simile a quella vissuta durante gli anni dell’esilio di Cice- rone si ritrova Terenzia non molti anni dopo, quando Cicerone, coinvolto nelle vicende della guerra civile, rimane lontano da Roma55. Simile solo in parte, dicevo, perché in questo lungo periodo Terenzia più che in re publica, dove, per quel che sappiamo, si li- mita a inoltrargli attraverso i corrieri o persone di fiducia, le lettere di alcuni personaggi politici, come Cesare56, si deve adoperare in domo, per risolvere e superare complesse dif- ficoltà finanziarie, legate soprattutto al reperimento di denaro per provvedere da un lato alla sempre più pressanti necessità di Cicerone e del loro figlio e, dall’altra al versamento a Gneo Cornelio Dolabella delle tre rate in cui era stata suddivisa la dote di Tullia57. E tutto questo non solo in momenti d’incertezza e d’insicurezza per l’incolumità propria, della figlia e di tutto il personale alle sue dipendenze, con la non remota possibilità di do- ver affrontare anche la penuria di cibo58, ma anche, e soprattutto, in un clima di sfiducia, se non di ostilità, vieppiù crescente da parte del marito. Questi, infatti, come si desume anche dalle lettere che egli invia, spesso contemporaneamente, all’amico Attico59, nutre perplessità sempre più manifeste sulla corretta gestione finanziaria di Terenzia e avanza dubbi sempre più forti sull’onestà di Filotimo, un liberto della moglie, che ne ammini- strava il patrimonio, probabilmente con la mansione di procurator60. Su questo, infatti, colpevole forse di curare gli interessi di Terenzia a scapito di quelli di Cicerone, o, se si vuole assumere una prospettiva più negativa, abile nello sfruttare per i propri scopi diso-

53 Cic. fam. XIV 3, 3: «Ho ringraziato gli amici da te indicati, ho consegnato le lettere a De- xippo e ho scritto che mi hai messo al corrente del loro interessamento» (trad. di A. Cavarzere). 54 È un corriere di cui Cicerone si serve: Treggiari 1969, 253. 55 Si veda più sopra alla n. 4. 56 Cic. fam. XIV 23-24; cf. treggiari 2007, 128. 57 Dixon 1986, 102-106; Treggiari 2007, 114-117. 58 Cic. fam. XIV 14, 1: etiam illud verendum est, ne brevi tempore fames in urbe sit; XIV 7, 3: si tibi videtur, villis iis utere quae longissime aberunt a militibus. Fundo Arpinati bene poteris uti cum familia urbana si annona carior fuerit. 59 Cic. Att. VII 13, 13a, 26; X 4, 11; XI 16, 24, 25; si veda sopra alla nota 8. 60 Carlsen 1997, 149-150, che con validi motivi respinge l’ipotesi, avanzata da Treggiari 1969, 33, 63-64, che si trattasse invece di un dispensator. Su Philotimus è di particolare interesse quanto scrivono Claassen 1996, 218-220 e Ioannatou 2007, 478-481.

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nesti i dissidi fra i due coniugi61, Cicerone, fin dall’anno precedente, in una lunga lettera inviata ad Attico da Atene si era espresso con toni particolarmente duri, non esitando a definirlo unmerus φυρατής e un germanus Lartidius62. In questo non facile contesto Terenzia mostra tutta la sua capacità di agire autono- mamente, senza chiedere consiglio a nessuno, né al marito né ad Attico, come sottolinea un po’ piccato, ma con una vena ironica, Cicerone63 (non credo te commovit; neque enim rogavit, ne me quidem), cercando di far fronte in ogni modo alle richieste di un marito ossessionato dal bisogno di denaro64, e a ragione, dato che questi si trovava in tali ri- strettezze economiche da chiedere all’amico Attico di riscuotere qualche credito o di ricavare qualcosa vendendo l’argenteria, i suoi vestiti e il mobilio65:

Te oro, ut in perditis rebus si quid cogi, confici potest quod sit in tuto, ex argento, te (quae satis multa est), supellectile, des operam.

Prova, infatti, ma inutilmente, a vendere una proprietà, come c’informa Cicerone in maniera un po’criptica nel malcelato tentativo di non nominare Dolabella, in una lettera speditale da Durazzo il 15 luglio del 4866:

ex tuis litteris quas proxime accepi cognovi praedium nullum venire potuisse, qua re videatis velim quo modo satis fiat ei cui scitis me satis fieri velle.

ma, soprattutto, rimane invischiata in una vicenda dai contorni poco chiari, che ruota intorno a 20.000 sesterzi che si è fatta prestare67, o, più probabilmente, secondo l’inter-

61 Come propone Claassen 1996, 220. 62 Cic. Att. VII 1, 9 (16 ottobre del 50): «Io non voglio avere nulla da spartire con quel tipo: è un vero e proprio manipolatore di conti, un Lartidio [figura proverbiale di furfante] bello e buono» (trad. di C. Di Spigno); cf. Treggiari 2007, 112-114. Un quadro abbastanza positivo della figura di Filotimo emerge invece dalle pagine di Ioannatou 2007, 478-481. 63 Cic. Att. XI 24, 2. 64 Claassen 1996, 209. 65 Cic. Att. XI 25, 3: «Come nelle situazioni di dissesto economico, se si può riscuotere qualche credito, se si può ricavare qualche briciola, da mettere al sicuro, svendendo l’argenteria, i vestiti (che ho in abbondanza), il mobilio, ti prego di darti da fare in tal senso» (trad. di C. Di Spigno). 66 Cic. fam. XIV 6: «Dalla tua ultima ho saputo che non è stato possibile mettere in vendita alcuna proprietà. Vorrei perciò che voi studiaste il modo di soddisfare le pretese di chi, come sapete, è mio desiderio che venga soddisfatto» (trad. di A. Cavarzere). 67 Dell’ampia bibliografia, che negliOppii individua dei banchieri o, meglio, degli usurai che avrebbero prestato a Terenzia del denaro, segnalo in particolare Claasen 1996, 216 e Treg- giari 2007, 112-113; la vicenda, stranamente, non è presa in considerazione da Dixon 1986.

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pretazione di Koen Verboven68, di cui esige la restituzione, dagli Oppii. Si tratta di una transazione che preoccupa vivamente Cicerone ‒ la menziona, infatti, in ben sette lettere indirizzate ad Attico ‒ , che su tale somma confidava comeviaticum per poter lasciare l’Italia69. In questa stressante attività di ricerca di denaro, molto probabilmente Terenzia avrà contratto debiti o si sarà spinta in operazioni al limite del lecito, come confida Cicerone ad Attico il 3 giugno del 4770:

Tempora monent ut [scil. Terentia] videat ut satis faciat quibus debeat. Auditum ex Philotimo est eam scelerate quaedam facere. Credibile vix est, sed certe, si quid est quod fieri possit providendum est.

E se in questa lettera Cicerone, che sembra aver ormai aver completamente cambiato at- teggiamento nei confronti della moglie71, concede a Terenzia almeno il beneficio del dubbio, in un’altra, indirizzata sempre ad Attico poco tempo dopo, il 6 agosto del 47, si spinge ad accusarla apertamente di aver trattenuto una parte del denaro che doveva inviargli72:

De Terentia autem (mitto cetera quae sunt innumerabilia), quid ad hoc addi po- test? Scripserat ut HS XII permutaret; tantum esse reliquum de argento. Misit illa (( I )) mihi et adscripsit tantum esse reliquum. Cum hoc de parvo detraxerit, perspicis quid in maxima re fecerit.

E proprio alcune di queste operazioni, dettate, almeno credo, da impellenti neces- sità, segnarono, sempre più, come dicevo poc’anzi, il progressivo distacco fra Terenzia e Cicerone e furono poi pretestuosamente invocate da Cicerone, come le ragioni più decorose per chiedere il divorzio73.

68 Verboven 2001, 314-320. 69 Cic. Att. VII 13, 5, 13a,1, 22, 2, 26, 3; VIII 7, 3; X 4, 12, 7, 3. 70 Cic. Att. XI 16, 5: «La congiuntura attuale sollecita che essa provveda a pagare i propri debiti a chi deve. Si è appreso da Filotimo che certe operazioni di lei sconfinano nell’illecito. È cosa a malapena credibile, ma almeno, se esiste una qualche possibilità, bisogna prendere le misure adeguate» (trad. di C. Di Spigno). 71 Treggiari 2007, 127-128. 72 Cic. Att. XI 24, 3: «Poi, relativamente a Terenzia, tralascio tutti gli altri punti dolenti, che sarebbero innumerevoli, ma ce n’è uno più scabroso di questo che passo a dirti? Tu le avevi chiesto di pagarmi con una lettera di cambio dodicimila sesterzi: a questo ammontava il residuo in contanti. Essa me ne ha inviati diecimila ed ha aggiunto la precisazione che la rimanenza era di tale entità. Se si è abbassata ad operare una detrazione relativamente modesta da una somma non ingente, puoi vedere chiaramente che cosa ha combinato nel caso di operazioni rilevanti» (trad. di C. Di Spigno). 73 Plu. Cic. XLI 3: αἱ λεγόμεναι τῆς διαστάσεως εὐπρεπέσται προφάσεις; importanti sono le

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Illuminante al riguardo è l’ultima lettera inviata alla moglie in questi due anni di assenza74:

In Tusculanum nos venturos putamus aut Nonis aut postridie. Ibi ut sint omnia parata. Plures fortasse nobiscum erunt et, ut arbitror, diutius ibi commorabimur. Labrum si in balineo non est, ut sit; item cetera quae sunt ad victum et ad valetu- dinem necessaria. Vale.

Certo si tratta di un breve biglietto scritto durante il viaggio di ritorno, quasi una «comunicazione di servizio»75, ma il tono freddo, brusco e nel complesso intimativo ne fa indubbiamente «the bleakest of notifications to the wife he had not seen for over two years», come ha scritto Shackleton Bailey76, e fa percepire, fra le righe (a esempio la frase ibi ut sint omnia parata), quei sospetti che da tempo Cicerone nutriva sulla corretta amministrazione delle sue proprietà da parte della moglie77. Terenzia dunque, nel corso del suo oltre trentennale matrimonio con Cicerone, per due volte ha dovuto sfruttare ogni spazio e ogni occasione d’intervento che le si presen- tava per fornire supporto psicologico e materiale al marito e per poter gestire e ammini- strare al meglio la famiglia e le proprietà in momenti di grave crisi. Rischiando talora la propria incolumità, ha agito in re publica sfruttando una fitta rete di conoscenze, ami- cizie e parentele, facendo da tramite fra il marito e i suoi sostenitori, inoltrando lettere e messaggi a lui indirizzati, tenendolo costantemente aggiornato sulla situazione poli- tica, ma ha operato soprattutto in domo, dove si è trovata ad affrontare gravi problemi economici, ricorrendo al proprio patrimonio, e risolvendo, talora non positivamente, complessi problemi finanziari per assicurare una decorosa sopravvivenza alla famiglia. E Terenzia. che probabilmente «never was the idealized, virtually invisible, “good” Roman wife, a self-affacingprolifera and lanigera»78, così cara all’immaginario roma- no79, profuse in queste attività un impegno che l’ha portata, com’è capitato ad altre ma- trone romane, a sconfinare in un ambito ritenuto prettamente maschile80, contribuen-

riflessioni di Claassen 1996, 210-212; cf. anche Verboven 2000, 319-320. 74 Cic. fam. XIV 20 (1 ottobre del 47): «Penso di arrivare alla villa di Tuscolo il 7 o il giorno dopo. Vedi che lì ogni cosa sia pronta. Infatti forse ci sarà con me un certo numero di persone, e probabilmente ci fermeremo lì un po’ a lungo. Se nel bagno non c’è la tinozza, provvedi a mettercene una; e così quant’altro è necessario per il vitto e per un buon soggiorno. Addio» (trad. di A. Cavarzere). 75 Treggiari 2007, 128-129. 76 Shackleton Bailey 1971, 177, citato da Treggiari 2007, 196 n. 38. 77 Treggiari 2007, 129. 78 Claasen 1996, 212. 79 Cenerini 2002, 11-28. 80 Hemelrijk 2004, 185-197 e Soraci 2013, 86-108.

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do a creare attorno alla sua figura di donna «independent of mind and purpose»81, quell’aura negativa di donna caparbia e arcigna, che enfatizzata da Plutarco82, si è cristal- lizzata in un topos, che ha goduto di grande diffusione83, e non solo fra gli storici, come Gaston Boissier84, ma anche fra i letterati, come documenta il vivace quadro, quasi da commedia, di vita famigliare tratteggiato da Carlo Emilio Gadda85.

81 Crook 1990, 165 n. 33. 82 Plu. Cic. XX 3: oὐδ΄ ἄλλως πρᾳεῖά τις oὐδ΄ ἄτολμος τὴν φύσιν, ἀλλά φιλότιμος γυνή. Sulla posizione critica assunta da Plutarco verso «la notevole emancipazione raggiunta dalla donna nel periodo della tarda repubblica»: Marasco 2008, 673-674 e, più in generale, sul suo atteg- giamento nei confronti della donna e del matrimonio: Aguilar 1990, 307-325; Nikolaidis 1997, 27-87 e soprattutto Marasco 2008, 663-667. Sull’atteggiamento di Plutarco nei con- fronti di Terenzia si veda Claassen 1997, 210-212. 83 Treggiari 2007, 129-130, 155-157, con una vasta panoramica delle voci favorevoli a Terenzia e di quelle contrarie; Narducci 2009, 86-86; giustamente Treggiari 2007, 155, sostiene che «Terentia has, on the whole, had a bad press from modern scholars», segno inequi- vocabile che alcuni pregiudizi sono duri a morire; cf. anche Claassen 1996, 208. 84 Boissier 1905, 96: «une femme de ménage économe et rangée, mais aigre et désagréable... une femme volontaire et obstinée». 85 Gadda 1989 [1931-1952], 674: «Per il passato, gli interminabili battibecchi con Teren- zia, rotti soltanto dalle unghiate matronali di lei. Poi i battibecchi s’eran tramutati in scene cla- morose, che di tanto in tanto, per di lei mano, gli volavano dalla finestra Panezio e tutti gli stoici, seguiti subito dai peripatetici in plotoni affiancati. Poi le carni della vecchia eran diventate così tigliose e i suoi rimbrotti così perfidamente acidi...».

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MatronaeOK.indb 64 21/06/16 08:55 IDA GILDA MASTROROSA

Matronae e repudium nell’ultimo secolo di Roma repubblicana

Il ruolo via via crescente giocato dalle matronae nell’ultimo secolo di Roma repub- blicana è dato noto e a vario titolo sottolineato dalla storiografia1. D’altra parte, fra gli aspetti che sembrano riflettere l’ampliamento degli spazi d’azione accessibili alla com- ponente femminile del corpo civico romano ve n’è uno che di per sé denota comunque la propensione a consentire tale processo in chiave funzionale, soprattutto da parte degli esponenti delle élites, vale a dire la tendenza di questi ultimi a servirsi delle donne e in particolare del vincolo coniugale quale opportunità per allacciare legami tesi a produrre vantaggio ai contraenti, sui quali studi caratterizzati da finalità e approcci diversi hanno posto da tempo l’accento2. Tenuto conto dell’orientamento prosopografico spesso sotteso a lavori animati fra l’altro dall’esigenza di individuare la trama dei rapporti che nel I sec. a. C. scandirono le strategie adoperate dal sistema gentilizio per preservare e consolidare le posizioni dei propri membri, o ancora della prospettiva di gender non trascurata in altri saggi, l’acqui- sizione del ricorso strumentale alle nozze per il periodo in esame non stupisce. Cionono- stante non sembra sia stata avvertita l’esigenza di verificare fino in fondo le modalità che caratterizzarono tale prassi, intendendo con ciò non soltanto la ricognizione di quanti e quali matrimoni furono contratti, quanto piuttosto delle motivazioni per cui in taluni episodi attestati dalla tradizione storiografica per l’ultimo secolo dell’età repubblicana si ricorse allo scioglimento tramite repudium o divortium decretandone un termine che in qualche caso aiuta a comprendere meglio oltre alla natura preventivamente pattizia di tali vincoli nuziali e le finalità con essi perseguita già a partire dalla promessa degli sponsali, anche la propensione di alcuni soggetti a scioglierli per stringerne altri più utili sul versante politico o più vantaggiosi su quello patrimoniale, oppure per difendere la propria immagine e con essa il consenso goduto.

1 Fra i lavori che hanno rimarcato tale aspetto negli ultimi tre decenni, ai quali si rimanda anche per riscontri bibliografici anteriori, si segnalano Scuderi 1982, 56-78; Dixon 1983; Di- xon 1991, 76; Hillard 1989; Hillard 1992; Baumann 1992, 60-90; Gafforini 1992; Christ 1993; Cluett 1998; Cenerini 20092, 59-86; Culham 2004; R awson 2010, 332. 2 Eloquente al riguardo il giudizio di Syme 1939 (2010), 12 che tuttavia attribuisce alle don- ne un ruolo comunque attivo. Sull’uso strumentale dei legami nuziali alla fine dell’età repubbli- cana vd. fra gli altri Balsdon 1962, 47; Humbert 1972, 92; Pomeroy 1975 (2010), 155-158; Le Corsu 1981, 35; Dixon 1985; Haley 1985; Syme 1986 (1991); Corbier 1990, 18-20; Tatum 1991; Treggiari 1991a, 125; Aguilar 2005; Treggiari 2007, 118; fra gli interven- ti più recenti cf. anche Canas 2012 e 2014.

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Sull’argomento, conviene precisare preliminarmente che importanti ricerche di ta- glio giusromanistico dedicate a ripudio e divorzio ancora negli ultimi decenni3 hanno in genere privilegiato il piano tecnico-dogmatico, incentrando il discorso sulla possi- bilità di acquisire l’esatta natura del repudium, di evidenziarne cioè il carattere di atto unilaterale virile, o ancora di fattispecie sussistente solo entro specifiche tipologie di coniugio, vale a dire quella cum manu, e non quella sine manu, in presenza della quale, stante l’assoggettamento della donna alla potestas paterna e non a quella maritalis si sarebbe data una condizione di maggior equilibrio tra i coniugi, tale da produrre un divortium e non già un repudium. Malgrado le importanti acquisizioni di cui siamo debitori a tali studi, concentratisi a vario titolo sul significato da attribuire alle testimonianze relative ai primi esempi dire - pudium documentato in ambito romano4 e sull’evoluzione dell’istituto registrata dalla giurisprudenza classica, nonché ad altri approfondimenti di taglio storico-sociale5, sem- bra tuttavia rimasta parzialmente nell’ombra una valutazione comparata degli episodi di scioglimento delle nozze attestati dalle fonti per il I secolo a. C., occasionalmente considerati solo in rapporto a singole figure e dunque a scopo biografico. Su tali basi, con l’esame parallelo di alcuni casi particolari verificatisi nell’ultimo se- colo dell’età repubblicana in questa sede ci si propone di appurare se la gestione dei repudia oltre alla pianificazione oculata delle nozze fu una delle vie battute da eminenti protagonisti dell’arena civica tardorepubblicana per consolidare le proprie posizioni, di verificare cioè se vi fu un ricorso funzionale alle separazioni6 oltre che un uso strumen- tale dei legami nuziali. In tal senso, gioverà tener presente che nell’immaginario collettivo dei Romani an- cora al principio del I sec. d. C. la memoria del primo caso significativo direpudium registratosi a Roma era legata alla valorizzazione della indissolubilità dell’istituto delle nozze, come dimostra l’interesse di Valerio Massimo7 a rimarcare che la prima separa- zione ebbe luogo molto più tardi rispetto alla data di fondazione della città, ovvero cen- tocinquanta anni dopo, e che d’altro lato, il console Spurio Carvilio Ruga vi avrebbe

3 Oltre a Corbett 1930, 218-248, fra i lavori più recenti cf. Robleda 1982; Fernández Baquero 1987; Ruiz Fernández 1988; Giunti 2004, 316-338; Astolfi 2006, 301-356. 4 Oltre a quello di Carvilio Ruga, il caso più risalente registrato dalla tradizione si colloca negli anni 307-306: cf. Val. Max. II 9, 2 la cui datazione si ricava da Liv. IX 43, 25. 5 In tale direzione si vedano soprattutto Kajanto 1970; Pomeroy 1975 (2010), 158-159; Le Corsu 1981, 77-81; Gardner 1986, 81-95; Corbier 1991, 57-63; Treggiari 1991a, 435-482; Treggiari 1991b; Fayer 2005, 55-111. 6 Su tale aspetto richiamava l’attenzione in termini generali già Gardner 1986, 82. 7 Cf. Val. Max. II 1, 4 secondo cui l’episodio ebbe dunque luogo nel 604 a.C.; sulle questioni connesse alla diversa cronologia con cui è attestato cf. Kasten 1969-70; per ulteriori precisa- zioni sulla vicenda, oltre a Watson 1965, fra gli interventi più recenti vd. Fayer 2005, 78-81.

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fatto ricorso solo per ovviare alla sterilità della moglie (sterilitatis causa dimisit8). In tale contesto, il memorialista non mancava peraltro di sottolineare che con il suo operato Carvilio si era attirato critiche e censure da parte di quanti ritenevano che l’obbligo di non infrangere la fides coniugale avrebbe dovuto essere anteposto anche al desiderio di avere figli, cui tuttavia – secondo altre fonti – egli avrebbe ovviato giurando di aver co- munque scelto di contrarre le nozze allo scopo di procreare. Indicativa per desumerne che l’iniziativa sarebbe stata assunta dal marito facendo leva su un elemento evidentemente ritenuto condicio sine qua non per la sussistenza del coniugio, la testimonianza valeriana lascia emergere in definitiva che ancora in età tibe- riana il ripudio apparisse una via eticamente ammissibile per lo scioglimento del matri- monio solo qualora quest’ultimo fosse risultato inadatto ad assolvere alla sua finalità più intrinseca, vale a dire in rapporto alla costituzione della famiglia, evidentemente intesa in senso civico quale seminarium rei publicae 9. Si tratta, invero, di una interpretazione già adombrata in un passo delle anteriori Antiquitates romanae di Dionigi d’Alicarnasso secondo cui l’episodio, verificatosi nel 231 a. C., aveva visto Carvilio costretto dai giu- dici a giurare d’essersi sposato per avere dei figli mentre la moglie era sterile, purtuttavia censurato in seguito da parte del popolo per il suo atto10. Acquisita anche nell’opera di Plutarco11, tale lettura trovò poi conferma in due passaggi di Gellio secondo cui il conso- le Carvilio divortium cum uxore fecit12, nonché più tardi in ambito cristiano13. Scandito da divergenze attinenti alla datazione, il resoconto dell’episodio non con- sente d’altra parte di stabilire la reale differenza sussistente sul piano tecnico-lessicale fra i termini repudium e divortium entrambi usati dalle fonti14, in presenza della quale non andrà forse escluso che la testimonianza restituitaci dalle Noctes Atticae riflettesse un inquadramento del caso alla luce dell’esperienza giuridica ormai maturata nel II se-

8 Si noti l’accezione tecnica del verbo per cui vd. e.g. Dig. IV 4, 37, 1; XXIII 2, 44, 6; 7; XL- VIII 5, 25, 1. 9 Ciò secondo i dettami culturali riflessie.g. in Cic. off. I 54; del resto, convinzioni analoghe ispirarono anche gli interventi legislativi di Augusto a favore del matrimonio, come si evince dal discorso che secondo D.C. LVI 2-9 egli tenne a favore della Lex Papia Poppaea nel 9 d.C., sulle orme dell’orazione de prole augenda pronunciata da Q. Cecilio Metello Macedonico nel 131 a.C. (cf. infra n. 16). 10 Cf. D.H. II 25, 7. 11 Cf. Plu. Quaest. Rom. 14, 267c; Comp. Thes. et Rom. 6, 4; Comp. Lyc. et Num. 3, 13 dove tuttavia l’episodio è assegnato al 524 a.C. 12 Cf. Gell. XVII 21, 44 dove l’episodio è collocato nel cinquecentodiciannovesimo anno dalla fondazione di Roma, nonché Gell. IV 3, 1 dove è invece assegnato al cinquecentoventitre- esimo anno a partire da tale evento. 13 Cf. Tert. apol. 6; monog. 9. 14 Come sottolineato ancora di recente da Giunti 2004; Fayer 2005, 59; Cenerini 20092, 42.

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colo d. C. ed acquisita dall’autore, come è noto ben esperto in materia, vale a dire che ne suggerisse un’interpretazione quale separazione a carattere non unilaterale, dunque scaturita da un coniugio sine manu nel quadro del quale la donna non avrebbe subito lo scioglimento del vincolo ma ne sarebbe stata compartecipe. Al di là di tale aspetto, rimane significativo che ‒ stando alle precisazioni offerte da Dionigi, Valerio Massimo e Gellio15 ‒ il primo scioglimento di un legame nuziale attestato a Roma sarebbe stato concesso tenendo conto delle dichiarazioni rese mediante ius iurandum dal marito a proposito del fine procreativo comunque sotteso alle nozze e presupposto al momento della loro celebrazione. Tralasciando in questa sede ogni disamina tecnico-giuridica dei passi, la concordan- za che le fonti denotano nel ricondurre l’ammissione della richiesta di separazione pre- sentata da Carvilio alla incapacità della moglie di mettere al mondo dei figli non dovrà certo stupire ove si ricordi, ad esempio, la chiarezza con cui ancora nel 131 a. C. il censo- re Quinto Cecilio Metello Macedonico aveva argomentato a difesa del matrimonio so- stenendo che si trattasse di un male inevitabile stante la necessità di procreare (liberorum creandorum causa)16, non a caso poi lucidamente posta in primo piano dalla tradizione giuridica17. Del resto, ancora sul finire del I sec. a. C. l’importanza di tale fattore quale elemento indispensabile per legittimare la sussistenza del vincolo coniugale emerge bene dalla nota Laudatio Thuriae ove figura l’offerta deldivortium al marito da parte di una donna sterile18. Nonostante tali dati, circostanze e particolari attestati dalla tradizione letteraria a proposito di casi di scioglimento delle nozze verificatisi nell’ultimo secolo dell’età repubblicana inducono a rilevare che raramente fu addotta la sterilità mentre più facilmente dovettero pesare fattori di natura diversa, di per sé sufficienti a denotare la tendenza a strumentalizzare occasionalmente il ruolo delle matronae. In tal senso, procedendo in ordine cronologico, va segnalato un episodio verificatosi nel 100 a. C. quando grazie all’equità di Gaio Mario coinvolto nella vicenda in veste di giudice, fu possibile impedire che un tale Caio Titinio di Minturno potesse appropriarsi della dote della moglie che aveva ripudiato adducendone a motivo l’impudicitia19. Sot- tolineando che con la sua scelta di convolare a nozze con la donna, pur conoscendone la licenziosità, il marito aveva mirato dolosamente ad impadronirsi della sua dote, Mario risolse la questione imponendo alla moglie una multa formale ma di entità modesta per l’offesa da lei recata alla pubblica morale e condannando il coniuge a risarcire l’intera

15 Cf. Gell. XVII 21, 44. 16 Cf. Liv. perioch. LIX; Gell. I 6; Svet. Aug. 89, 5. 17 Cf. Dig. XXIV 3, 1. 18 Cf. CIL, VI 1527; VI 31670; VI 32670; VI 37053 (= ILS 8393), ll. 31-35; sul suo valore storico-documentario cf. Cenerini 20092, 78-81 nonché, da ultimo, Osgood 2014 con bi- bliografia anteriore. 19 Cf. Val. Max. VIII 2, 3; vd. inoltre Plu. Mar. 38.

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cifra da lei portata nel nucleo familiare con le nozze. Pur non coinvolgendo una coppia particolarmente nota, l’episodio dovette comunque suscitare qualche attenzione come dimostra il fatto che Valerio Massimo poté trovarne memoria e ritrasmetterla in una rubrica de privatis iudiciis insignis. Ai nostri fini offre un indizio utile per rilevare come ragioni tecnicamente ritenute sufficienti per legittimare la scelta di un marito d’imporre il repudium, vale a dire il comportamento lascivo della moglie addotto per vantare pre- tese sulla dote coniugale e negarne la restituzione, potessero essere respinte in sede giu- diziaria da un giudice pronto a sentenziare contro la parte attrice imputandola di fatto d’esser ricorsa ad un uso strumentale in primo luogo delle nozze e in secondo luogo della facoltà di scioglierle per infedeltà, risolvendo il contenzioso tutto sommato a favore di una donna non encomiabile per i dettami della moralità romana. Pochi anni più tardi, le vicende personali di Silla offrono ulteriori elementi di valuta- zione, se teniamo conto del fatto che dietro la sterilità da lui addotta per ripudiare Clelia, la terza delle sue mogli, nell’89 o poco prima, vi fu probabilmente l’esigenza di riacqui- stare lo stato libero per convolare a quarte nozze nell’88 con Cecilia Metella, membro di una gens interessata a riacquistare anche per tale via spazio e visibilità politica in funzione antimariana, nonché figlia delpontifex Lucio Cecilio Metello Dalmatico20. La sorte non diversa toccata anche a lei permette d’altro lato di rilevare quale uso accorto egli seppe fare del ripudio per tutelare la propria immagine in un frangente particolarmente signifi- cativo, vale a dire durante la celebrazione dei Ludi Victoriae Sullanae dell’81. In tale circostanza, essendogli stato vietato dai sacerdoti di recarsi dalla moglie Me- tella gravemente malata e ordinato di non lasciar contaminare la loro residenza da un evento luttuoso, Silla le fece inoltrare una comunicazione di scioglimento del matrimo- nio e la fece trasportare ancora viva in un’altra abitazione21. Influenzata dalla necessità di non violare la religio, tale decisione lascia inoltre supporre che, da accorto regista della comunicazione in campo civico, il dittatore decise di formalizzare pubblicamente la fine della coabitazione implicita nel legame nuziale sussistente fra lui e la moglie, ormai pros- sima alla morte, in modo da sottrarsi al rischio che la connotazione infausta dell’evento imminente potesse intaccare la reputazione di chi come lui riponeva tanta fiducia nel sostegno della fortuna da volerlo sottolineare anche con la propria titolatura e con il nome dato ai due gemelli avuti da Metella22. In tal senso, tenuto altresì conto del fatto che non rinunciò comunque a rendere a quest’ultima onoranze funebri così sontuose

20 Cf. Plu. Sull. 6, 21 stando a cui la fondatezza del motivo addotto per sciogliere le terze nozze apparve sospetta proprio in considerazione del tempo breve entro cui ebbero luogo quelle successive con Metella, peraltro non accolte di buon grado né da parte popolare né da parte otti- mate; sulla valenza politica di queste ultime insisteva già Syme 1939 (2010), 20. 21 Cf. Plu. Sull. 35, 2. 22 Sull’appellativo Felix assunto dal dittatore dalla fine dell’82 vd. Plu.Sull. 34, 3; App. BC I 97, 451-452; D.S. XXXVIII 15.

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da violare i limiti di spesa previsti per legge23, sembra in definitiva probabile che nell’81 l’opzione di Silla per il ripudio fu ispirata dall’esigenza di mostrarsi osservante di vincoli legati al piano religioso-istituzionale sì da poter preservare meglio la propria immagine ed il proprio ruolo. D’altra parte, va tenuto presente che egli non si limitò ad usare strumentalmente tale soluzione in prima persona, bensì cercò occasionalmente di incoraggiare altri a seguire la stessa via, entro una logica di macchinazioni matrimoniali tuttavia concepita a pro- prio vantaggio, se è vero che per stabilire legami di parentela con Pompeo gli ordinò di ripudiare (ἀϕεῖναι) la moglie Antistia, figlia di Publio Antistio Labeone assassinato in senato nell’82 perché sospettato di promuovere la linea sillana, cosicché potesse sposare Emilia, la figlia di Marco Emilio Scauro e delle nozze di primo letto di sua moglie Cecilia Metella, che per converso a tal scopo indusse a lasciare Manio Acilio Glabrione malgra- do attendesse da lui un figlio24. Nonostante il fallimento del piano perseguito da Silla, a causa della morte successiva della figliastra Emilia, durante il parto in casa di Pompeo, l’episodio si rivela esemplare per cogliere la determinazione con cui nei primi decenni del I sec. a. C. un soggetto politicamente scaltro potesse identificare nello scioglimento di due diversi vincoli nuziali preesistenti il mezzo, oltre che la premessa tecnicamente indispensabile, tramite cui pilotare un matrimonio di fatto orchestrato a proprio uso e consumo, sia pur evidentemente con il consenso dei nubendi e in particolare di Pompeo. Che in quel torno d’anni il repudium potesse apparire al dittatore una via agevole per gestire in modo spregiudicato il quadro delle alleanze politiche si può ricavare anche dalle pressioni con cui riuscì a convincere il consolare Marco Pisone a ripudiare la moglie Annia, in precedenza sposata con Cinna25, nonché dalle pesanti manovre con cui tentò, peraltro invano, di indurre Cesare a separarsi dalla figlia di quest’ultimo, Cornelia, con cui egli era convolato a seconde nozze nell’84, dopo il primo matrimonio con una tale Cossuzia26. Data la resistenza frapposta nel secondo caso dall’interessato, Silla non esitò a spo- gliarlo del sacerdozio, della dote della moglie e dei suoi beni ereditari, tuttavia senza al- cun profitto27: Cesare rimase infatti legato a Cornelia fino alla sua morte nel 68, quando le dedicò pubblicamente una laudatio che a giudizio di Plutarco rappresentò una novità rispetto all’uso invalso di concedere elogi funebri solo a figure femminili di età avanzata e gli fece meritare notevole consenso presso il popolo28.

23 Cf. Plu. Sull. 35, 3. 24 Cf. Plu. Sull. 33, 4; Plu. Pomp. 9, 2-4; sull’episodio vd. anche Hallett 1984, 140-141. Sulla sorte toccata ad Antistio cf. App. BC I 88, 403. 25 Cf. Vell. II 41, 2. 26 Cf. Svet. Iul. 1, 1; sulle prime nozze con Cossuzia, di rango equestre, benché ricca, vd. Deutsch 1917; Ead. 1918, 505. 27 Cf. Vell. II 41, 2; Plu. Caes. 1, 1; Svet. Iul. 1, 1-2. 28 Cf. Plu. Caes. 5, 4; la notizia trova conferma in Svet. Iul. 6, 1; sull’evoluzione dell’uso di

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Dati altrettanto emblematici si possono evincere considerando l’uso che in quel tor- no d’anni fece del repudium anche Pompeo: convolato a nozze nell’86, dunque a soli vent’anni, con la già ricordata figlia di Antistio, pronto a offrirgli la mano della ragazza dopo averne apprezzato la destrezza nel corso di un procedimento giudiziario29, non esitò a ripudiarla quattro anni più tardi, nell’82, per sposare la figliastra di Silla che ‒ come sopra sottolineato ‒ a quel tempo era coniugata e in attesa di un figlio, assecon- dando le manovre del patrigno, ingegnatosi a stringere parentela con lui anche grazie all’aiuto della moglie Metella30. Dopo tale manovra che sembra presupporre un duplice uso strumentale del repudium, adottato nei confronti della prima moglie, Antistia, per riacquistare la libertà necessaria a contrarre le nozze con la seconda, Emilia, ma imposto evidentemente anche al marito di quest’ultima quale soluzione necessaria per restituirle la libertà e porla in condizione di contrarre un nuovo vincolo coniugale, Pompeo fu costretto a ricorrervi di nuovo, probabilmente nel 62, per mettersi al riparo dalla cattiva fama procuratagli durante gli anni della sua assenza da Roma dalla condotta immorale della terza moglie, Mucia, cui si era unito dopo esser rimasto vedovo della precedente, presumibilmente intorno al 79. Figlia di Quinto Mucio Scevola e sorellastra per parte di madre dei Cecilii Metelli31 costei giunse alle nozze con Pompeo dopo due precedenti matrimoni (il primo dei quali con Gaio Mario il Giovane, figlio di Mario e di Giulia, la zia di Cesare), probabilmente ancora per effetto delle manovre di Silla. A causa dei comportamenti licenziosi assunti durante l’assenza del marito, fra il 76 e il 62, al suo ritorno fu ripudiata da lui in modo sbrigativo, vale a dire con una notifica non corredata da motivazioni, di cui comunque – secondo Plutarco ‒ sarebbe stato a conoscenza Cicerone32. In effetti, ciò che si può dedur- re da una lettera di quest’ultimo33 ed emerge più chiaramente da un carme in quegli anni

concedere onoranze funebri a figure femminili in età repubblicana vd. Valentini 2013. 29 Cf. Plu. Pomp. 4, 4-5; per l’inquadramento storico dell’episodio e il ruolo ricopertovi da Antistio vd. tuttavia Amela Valverde 2014 con bibliografia anteriore. 30 Cf. Plu. Pomp. 9, 2; sui vantaggi politici cercati con tali nozze da Pompeo insisteva Syme 1939 (2010), 31-32 secondo cui si trattò di un «dynastic marriage». 31 Come si ricava da Cic. fam. V 2, 6 (del gennaio del 62) dove l’Arpinate sostiene inoltre di poter confidare sull’attaccamento della donna nei suoi riguardi, in considerazione del legame esistente fra lui e Pompeo, nonché da D.C. XXXVII 49, 3 da cui emerge, peraltro, che il ripudio produsse in seguito forti attriti tra Pompeo e il fratello della ex-moglie, Quinto Cecilio Metello Celere. 32 Cf. Plu. Pomp. 42, 12-13. 33 Cf. Cic. Att. I 12, 3 (del gennaio del 61) dove è significativo che, dopo la precisazione sui suoi rapporti ancora buoni con Pompeo e sull’approvazione riscossa dalla decisione di quest’ul- timo di separarsi da Mucia, trovi posto un riferimento al noto scandalo della Bona Dea scoppiato in casa di Cesare ad opera di Clodio.

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indirizzato da Catullo a Cinna per colpire la donna amica e congiunta di Clodio34 au- torizza a sospettare che il terzo ripudio di Pompeo fu dettato dal bisogno di arginare gli effetti di dicerie circolanti sulla condotta non irreprensibile della moglie, delle quali pare avesse avuto notizia mentre era distante da Roma35 che tuttavia rischiavano di tradursi in un impedimento ben più grave per chi come lui, rientrato nell’urbe, nutriva grandi ambizioni per il proprio futuro. Del resto, in tal senso è indicativo che più tardi, legatosi a Cesare tramite il matrimonio nel 59 con la figlia Giulia e censurato per tale decisione, Pompeo fu accusato di aver sposato per cupidigia di potere la figlia di colui che l’aveva costretto a ripudiare una sposa già madre di tre figli e che perciò egli stesso pare non esitasse a definire Egisto36. In ogni caso, la tacita risoluzione della precedente relazione matrimoniale consentì a Mucia di accasarsi da lì a poco con Emilio Scauro, dal canto suo perfino gratificato di poter stringere un qualche legame di parentela, sia pur indiretto, con Pompeo, grazie alle nozze con la donna che egli aveva ripudiato, peraltro destinato all’occorrenza a rivelarsi insufficiente per averne l’appoggio in sede processuale37. Al di là di tale episodio, elementi interessanti ai nostri fini si traggono anche dalle vi- cende biografiche cesariane da cui affiora oltre alla ben nota propensione per le relazioni extraconiugali38, la capacità d’interpretare il repudium come mezzo utile a salvaguardare la propria immagine pubblica e in parallelo la tendenza a pianificare alleanze matrimo- niali mirate. Quanto al primo aspetto è significativa la scelta di ricorrervi per trarsi d’im- paccio nella imbarazzante questione del noto scandalo della Bona Dea, a seguito della quale Cesare decise di ripudiare la terza moglie, Pompea, nipote di Silla, adducendo a motivazione la necessità di evitare che sulla propria moglie vi fosse anche il minimo so- spetto39. Per il secondo, è indicativo che per conquistarsi l’appoggio di Pompeo gli offrì in sposa la figlia Giulia, dopo aver tuttavia brigato per indurre Servilio Cepione con cui era già fidanzata a sciogliere la promessa degli sponsali, di per sé giuridicamente vinco- lante, promettendo a quest’ultimo in cambio di ottenere per lui la mano della figlia di Pompeo, per converso ugualmente legata da una promessa di fidanzamento a Fausto, il

34 Cf. Catull. 113, nonché Svet. Iul. 50, 1 dove Mucia figura come una delle tante donne sedotte da Cesare; vd. anche Svet. gram. et rhet. 14, 1; Hier. adv. Iovin. I 48 (= Sen. de matr. 64 Haase). 35 Cf. Plu. Pomp. 42, 13. 36 Cf. Svet. Iul. 50, 2. 37 Cf. Ascon. in Scaur. 18-19, 23 Stangl. 38 Cf. Svet. Iul. 50 dove fra vari nomi spicca quello di Servilia, sorellastra di Catone Uticense e madre di Giunio Bruto, da taluni peraltro ritenuto figlio dello stesso Cesare (cf. Porte 1994); né vanno dimenticate le liaisons con le regine straniere, fra cui in particolare Cleopatra, di cui le fonti attestano la presenza in una dimora oltre Tevere fra il 46 e il 44 (oltre Svet. Iul. 52, 1, vd. Cic. Att. XIV 8, 1; XV 15, 2; D.C. XLIII 27, 3). 39 Cf. Plu. Caes. 10, 8-9; Plu. Cic. 28, 4; 29, 9; Svet. Iul. 6, 2; 74, 4; App. BC II 14, 52; D.C. XXXVII 45, 1-2; il ripudio dovette aver luogo nel gennaio del 61, come si ricava da Cic. Att. I 13, 3.

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figlio di Silla40. Del resto, fu ugualmente ispirato da accorte strategie il quarto matrimo- nio che nel 59 unì Cesare a Calpurnia, posto che fu anche grazie al padre di lei, Lucio Calpurnio Pisone, che gli successe nel consolato nel 58, oltre che al genero Pompeo, che egli riuscì ad ottenere l’assegnazione del comando in Gallia41. Né andrebbe trascurato che negli anni successivi, per mantenere i legami con quest’ultimo, Cesare non si limi- tò ad offrirgli in sposa Ottavia Minore, nipote della sorella minore Giulia e sorella di Ottaviano, peraltro a quel tempo sposata con Gaio Claudio Marcello, bensì si spinse a chiedergli per sé, seppur fosse coniugato, la mano della figlia destinata in matrimonio – come ricordato sopra – a Fausto Silla42. Che la gestione di patti matrimoniali e dei preventivi ripudi ove necessari a condurli a compimento fosse divenuta ormai una prassi, peraltro non a tutti ben accetta, lo si ricava del resto da un aneddoto riportato da Plutarco stando a cui, in occasione delle manovre da Cesare orchestrate per offrire in sposa la figlia a Pompeo, Catone Uticense avrebbe denunciato la triste condizione dello stato ridotto al mercimonio di vincoli nu- ziali, dichiarando pubblicamente che in quegli anni si usavano le donne per assicurarsi un posto nella spartizione di province, cariche militari e pubbliche43. Nonostante tali toni censori, analogamente esibiti quando Pompeo gli chiese la mano delle nipoti per sé e per il figlio44, anche Catone Uticense, peraltro non estraneo a contese collegate al campo sentimentale45, seppe comunque servirsi del ripudio in chiave non proprio orto- dossa. Tralasciando la sua decisione di allontanare per cattiva condotta la prima moglie Atilia malgrado la nascita di due figli46, che implica il ricorso all’istituto a causa dell’im- moralità della donna, un noto episodio verificatosi al tempo del suo matrimonio con la seconda moglie Marcia, sposata intorno al 6247, consente di rilevare che dovette farne un uso ‘spregiudicato’. In particolare, stando alla vicenda narrata da Plutarco e destinata a divenire oggetto di dibattito in ambito scolastico-declamatorio nonché in luoghi diversi della tradizione

40 Cf. Plu. Caes. 14, 7. 41 Cf. Plu. Caes. 14, 8; Svet. Iul. 22, 1. 42 Cf. Svet. Iul. 27, 1. 43 Cf. Plu. Caes. 14, 8. 44 Cf. Plu. Cat. Mi. 30, 3-5; Pomp. 44, 2-4. 45 Significativa, in tal senso, la testimonianza di Plu.Cat. Mi. 7, 1-2 che ne ricorda il tentativo fallito di sposare Emilia Lepida, già promessa in sposa a Quinto Cecilio Metello Pio Scipione (console nel 52 con Pompeo). 46 Sul primo matrimonio con la figlia di Sesto Atilio Serrano Gaviano (questore nel 63 e tri- buno della plebe nel 57) e la successiva separazione dovuta all’impudicizia di Atilia vd. Plu. Cat. Mi. 7, 3; 24, 6. 47 Cf. Plu. Cat. Mi. 25, 1.

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antica48, sembra probabile che Catone, per accogliere la richiesta di Ortensio, inizial- mente rivoltosi a lui per domandargli la mano della figlia Porcia per il tempo sufficiente a poter avere da lei un erede49 e poi determinatosi a seguito del suo diniego a rivolgere il proprio interesse sulla moglie, oltre a consultare e ottenere l’approvazione del padre di quest’ultima, Lucio Marcio Filippo50, l’abbia tecnicamente ripudiata in modo da consentirle di contrarre formalmente nuove nozze, molto probabilmente mentre era co- munque in attesa di un figlio da lui51. Legatasi ad Ortensio, per parte sua tornato libero dopo aver ripudiato la precedente moglie adducendo a motivo la sua sterilità52, nel 55 a. C. rimasta vedova, Marcia fu riac- colta in casa dell’ex marito Catone che, stando a Plutarco, ne ricavò il ricco patrimonio da lei intanto ereditato dalle ultime nozze e conseguentemente le critiche di Cesare, pronto ad accusarlo d’aver in definitiva ceduto la moglie all’amico per adescarlo e allo scopo di riaverla più ricca53. Malgrado l’impossibilità di stabilire le reali ragioni sotte- se alla richiesta di Ortensio, peraltro giudicata da talune fonti non estranea ai costumi

48 Cf. Plu. Cat. Mi. 25, 3-12; nonché Quint. III 5, 11; X 5, 15; Lucan. Phars. II 326-337; App. Be. II, 99, 413; sulla menzione dell’episodio presso le fonti cristiane: Tert. apol. 39, 11; Hier. adv. Iovin. I 46 (= Sen. de matr. 74 Haase); Aug. fid. et op. 7, 10; bon. coniug. 15, 17. Per ulteriori approfondimenti e precisazioni sul caso oltre a Gordon 1933, cf. Humbert 1972, 97-99; Fla- celière 1976; Peppe 1984, 72-73; Salvadore 1990, 16; Cantarella 1995. 49 Cf. Plu. Cat. Mi. 25, 4 da cui si ricava che Porcia, nata dalle precedenti nozze di Catone, era a quel tempo sposata con Marco Calpurnio Bibulo, cui aveva dato due figli. In seguito, rimasta vedova del primo marito, collega di consolato di Cesare nel 59, la donna si unì in matrimonio con il futuro cesaricida Marco Giunio Bruto (vd. Plu. Brut. 13, 3), dopo che questi ebbe lasciato la precedente moglie, figlia di Appio Claudio Pulcro, presumibilmente nell’estate del 45 a. C., cui rimanda anche una testimonianza di Cic. Att. XIII 22, 4; per ulteriori dati prosopografici cf. Miltner 1953. 50 Cf. Plu. Cat. Mi. 25, 11-12; sul personaggio, console nel 56 (vd. Plu. Cat. Mi. 39, 5), patri- gno di Ottaviano e poi figura di spicco nel 43 in veste di ambasciatore del senato presso Antonio durante la guerra di Modena, vd. Münzer 1930. 51 Un indizio in tal senso può cogliersi nell’interrogativo di Plu. Cat. Mi. 25, 11. 52 Cf. App. BC II, 99, 413; è probabile che la sterilità addotta da Ortensio si riferisse specifi- camente alla mancata nascita di figli maschi, posto che ‒ come nota Salvadore 1990, 21 ‒ egli aveva comunque una figlia, la celebre Ortensia ricordata dalle fonti (Val. Max. VIII 3, 3; App.BC IV 32-34) per un suo intervento nel 42 contro la proposta dei triumviri di imporre alle donne più ricche il pagamento di un contributo ad hoc per far fronte ai dissesti provocati dalla guerra. 53 Per tali accuse vd. Plu. Cat. Mi. 52, 5-7. Quanto alle ragioni che indussero Catone ad accettare di contrarre un secondo matrimonio con Marcia cf. Fantham 1992, 140 secondo la quale egli avrebbe cercato un legame con Cesare, la cui nipote Azia era moglie del padre di Marcia, vale a dire Marcio Filippo, confidando di garantirsi la salvezza qualora egli avesse avuto la meglio su Pompeo.

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romani54, i particolari restituitici dalla biografia plutarchea non lasciano dubbi sul fatto che essa dovette risultare comunque singolare e alimentare censure di per sé utili a comprendere quali ripercussioni potessero avere sul piano dell’immagine pubblica le vicende coniugali di protagonisti dell’arena politica del tempo. Per completare il qua- dro inerente al medesimo nucleo famigliare va altresì tenuto presente che il repudium colpì anche un’altra figura femminile legata da vincoli di parentela a Catone Uticense, in particolare la sorellastra Servilia cacciata di casa per impudicizia dal marito Lucio Licinio Lucullo55 cui aveva dato un figlio e cui era andata in sposa dopo che egli aveva peraltro ripudiato per l’analoga ragione la prima moglie, la celebre Clodia sorella di Publio Clodio Pulcro56. Fra gli episodi utili per studiare le modalità con cui sul finire dell’età repubblicana il repudium fu usato non già per sciogliere matrimoni non coronati dalla nascita di figli, bensì per ragioni varie, non sempre riconducibili alla scarsa moralità delle matronae, non vanno inoltre trascurati due casi concernenti Cicerone. Unitosi in nozze con Teren- zia57 fra l’80 e il 77, ricavandone una dote cospicua58, l’Arpinate rimase a lungo legato alla donna, tutt’altro che timida nonché partecipe delle sue vicende pubbliche59 e deter- minante, fra l’altro, nell’indurlo a testimoniare contro Clodio, verso il quale pare che nutrisse un’avversione derivata dalla preoccupazione che la sorella Clodia intendesse insidiarle il marito60. Dopo un matrimonio di durata trentennale, egli decise tuttavia di ripudiarla61, in una data collocabile dopo il mese di ottobre del 4762. Qualche indizio

54 Cf. Str. XI, 9, 1 su cui pongono l’accento Humbert 1972, 98-99 n. 26; Peppe 1984, 73; cf. inoltre Plu. Comp. Lyc. et Num. 3, 2. 55 Cf. Plu. Cat. Mi. 24, 4-5; Luc. 38, 1; sulle nozze fra i due vd. anche Plu. Cat. Mi. 29, 3; 54, 1; sul personaggio di Servilia vd. Münzer 1920, 336; Syme 1939 (2010), 23-24. Per ipotesi di- verse d’identificazione della Servilia ripudiata da Lucullo non con la sorella di Catone Uticense, bensì con la figlia di Quinto Servilio Cepione, fratello della Servilia Cepione madre di Giunio Bruto e fratellastro di Catone Uticense, che dunque ne era zio, vd. soprattutto Geiger 1973; Harders 2007. 56 Avvenuto presumibilmente nel 75, il matrimonio con Clodia (Plu. Luc. 21, 1; 34, 1; D.C. XXXVI 14, 4) ebbe termine a causa dei facili costumi della donna: cf. Plu. Luc. 38, 1; per l’accusa d’incesto con la sorella vd. Cic. Mil. 73; Plu. Cic. 29, 4; Caes. 10, 6. 57 Su queste nozze, oltre a Weinstock 1934, fra gli interventi più recenti vd. Treggiari 2007, 30-39. 58 Cf. Plu. Cic. 8, 3. 59 Cf. Plu. Cic. 20, 3; 29, 3-4. 60 Cf. Plu. Cic. 29, 3. 61 Cf. Plu. Cic. 41, 2 ove va notato l’uso del verbo ἀποπέμπειν la cui accezione tecnica trova peraltro riscontro anche in Plu. Sull. 6, 21 a proposito del ripudio di Clelia ad opera di Silla, nonché in D.C. XXXVII 49, 3 a proposito di quello di Mucia ad opera di Pompeo. 62 Considerando la data del I ottobre del 47 recata dall’ultima lettera indirizzata alla moglie

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sulle cause della separazione, oggetto di ampia discussione63, si può trarre dalla rassegna di motivazioni attribuitegli da Plutarco, stando a cui Cicerone avrebbe sostenuto che Terenzia non si era curata di lui durante la guerra lasciandolo partire senza l’occorrente, aveva mancato di offrirgli il suo sostegno al ritorno in Italia, non preoccupandosi di re- carsi a trovarlo a Brindisi dove egli si era fermato per lungo tempo al rientro, non aveva inoltre provveduto a fornire mezzi e accompagnamento adeguato alla giovane figlia che invece lo aveva raggiunto affrontando un lungo viaggio, infine gli aveva fatto trovare molti debiti e una casa spoglia64. Documentate con ogni probabilità sul piano formale e in qualche misura trasmesse dalle fonti usate dal biografo, le ragioni attestate da quest’ultimo per la διάστασις tro- vano elementi di riscontro nell’epistolario ciceroniano: oltre al riferimento alla scarsa liberalità della moglie lamentata dall’Arpinate in una lettera scritta ad Attico da Brindisi nell’agosto del 4765, sono indicative alcune riflessioni dallo stesso formulate in un’epi- stola risalente alla fine del 46 o all’inizio del 45. In tale contesto, rispondendo alle con- gratulazioni di Plancio per le sue recenti seconde nozze con Publilia66, Cicerone allude- va alla conclusione di quelle precedenti sostenendo di esservi stato costretto dopo aver trovato al suo ritorno le res domesticae in una condizione non migliore di quella della res publica a causa di chi non si era curato della sua salus e delle sue fortunae, lasciando emer- gere l’esigenza di tutelarsi tramite novae necessitudines contro la perfidia delle vecchie67. Non è escluso peraltro che dalla percezione delle difficoltà finanziarie e del bisogno di nuove alleanze richiamate in tale sede possano esser scaturite la decisione di Pompeo di offrirgli in sposa nel novembre del 46 la figlia, da poco vedova di Fausto Silla, e un’ana- loga proposta giuntagli per Irzia, sorella del luogotenente di Cesare68. Al di là di tali dati, l’esistenza di un legame fra il secondo matrimonio dell’Arpinate e il ripudio di Terenzia si può arguire non tanto dal fatto che quest’ultima, impegnata a smentire gli addebiti a lei mossi dal marito, ne ricavò spunto per accusarlo di averla lasciata in quanto attratto da una donna più giovane, bensì da una testimonianza di Ti-

(cf. Cic. fam. XIV 20), si può inferirne che la rottura sia avvenuta alla fine di quell’anno (vd. anche Weinstock 1930, 714). 63 Oltre alla ricognizione delle diverse posizioni offerta da Claassen 1996, fra gli interventi più recenti vd. Treggiari 2007, 118-128. 64 Cf. Plu. Cic. 41, 3, nonché le precisazioni di Claassen 1996, 210-211 sulla cronologia degli eventi richiamati. 65 Cf. Cic. Att. XI 24, 3 del 6 agosto del 47. 66 Le nozze avvennero molto probabilmente sul finire del 46, come si può ricavare, malgrado la datazione incerta, da Cic. fam. IV 14, 1; 3; sul matrimonio con Publilia vd. Treggiari 2007, 133-135; 140-142. 67 Cf. Cic. fam. IV 14, 3. 68 Cf. Cic. Att. XII 11.

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rone stando alla quale le nuove nozze sarebbero state dettate dal vantaggio di disporre in qualità di ἐν πίστει κληρονόμος del denaro della giovane e benestante Publilia così da poter saldare i numerosi creditori69. Qualunque attendibilità si voglia attribuire alla narrazione di Plutarco cui dobbiamo tali notizie, nonché al suo riferimento alle critiche mosse da Antonio contro la condotta nuziale dell’Arpinate70, in seguito riflesse anche nel discorso secondo Cassio Dione pronunciato contro quest’ultimo da Caleno nel 4371, ciò che accadde in seguito, vale a dire lo scioglimento a breve distanza di tempo anche del secondo matrimonio autorizza a sospettare che oltre la censura quei rumores avessero qualche fondamento. Converrà infatti tener presente che pochi mesi dopo esser convolato a nozze con la quindicenne Publilia della quale, per volere del padre intanto defunto, in sede di pat- tuizione prenuziale si era assicurato l’opportunità di gestire i beni in qualità formale di tutore72, Cicerone decise di separarsi da lei imputandole – secondo Plutarco – di aver mostrato scarsa partecipazione di fronte alla scomparsa della figliastra Tullia, avvenuta verso la metà di febbraio del 4573. Sebbene le lettere del diretto interessato non offrano indizi sulle cause reali che portarono alla rottura delle seconde nozze, la determinazione con cui già alla fine di marzo del 45 egli non esitava ad esprimere ad Attico il proprio rifiuto di avere ancora a che fare con la giovane sposa e i suoi familiari74 e l’impegno con cui ad agosto del 45 cercava luoghi in cui rifugiarsi per sfuggirle75, lasciano comunque comprendere come dopo pochi mesi il vincolo fra i due coniugi fosse in crisi irrever- sibile. D’altra parte, ponendo in correlazione l’acquisizione di un importante legato testamentario dall’Arpinate ricevuto già nell’estate del 45, in seguito alla morte dell’a- mico finanziere puteolano Marco Cluvio76, e l’avvenuta restituzione di parte della dote

69 Cf. Plu. Cic. 41, 4-5. Contro l’attendibilità della testimonianza plutarchea ascritta a Tirone vd. tuttavia Cornell 2013, 505-507. 70 Cf. Plu. Cic. 41, 6. 71 Cf. D.C. XLVI 18, 3; vd. inoltre Quint. VI 3, 75. 72 Si veda ancora Plu. Cic. 41, 5, nonché Fuhrmann 1990, 216-217; Treggiari 2007, 142- 143 n. 148. 73 Cf. Plu. Cic. 41, 8; sullo stato d’animo dell’Arpinate dopo la scomparsa della figlia, nel marzo del 45, vd. Cic. Att. XII 13, 1; XII 14, 3; XII 18, 1; per la ricostruzione degli eventi ine- renti a tale fase cf. Treggiari 2007, 100-116; sui rapporti fra Cicerone e la figlia vd. da ultimo Späth 2010, con bibliografia anteriore. 74 Cf. Cic. Att. XII 32, 1. 75 Cf. Cic. Att. XIII 34 del 26 agosto del 45. 76 Sui legami con il ricco banchiere di Puteoli vd. Cic. Att. VI 2, 3; Fam. XIII 56; sulle pro- prietà da lui ereditate nell’area e possedute già alla metà di agosto del 45 cf. Cic. Att. XIII 45, 2; XIII 47; nonché Att. XIII 46, 3 con riferimento esplicito alle procedure d’accettazione del lega- to; ulteriori riferimenti ai possedimenti Cluviani si rinvengono in lettere dell’aprile del 44: vd. Cic. Att. XIV 9, 1; nonché XIV 10, 3; XIV 11, 2 a proposito della ottima redditività degli stessi;

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a Publilia nel luglio del 4477, si può ipotizzare che la fine del secondo matrimonio fu agevolata dalle migliorate condizioni finanziarie di Cicerone, vale a dire dal supera- mento di quelle difficoltà economiche che inizialmente dovettero spingerlo a contrar- lo, inducendolo a porre fine a tal scopo anche alle nozze precedenti malgrado la loro durata trentennale. In tal senso, se ne dovrà dunque dedurre che al tramonto della Repubblica, seppur idealmente affezionato all’idea della stabilità del vincolo coniugale cara aimaiores 78, egli ricorse al repudium per liberarsi di una moglie come Terenzia, forse troppo autonoma e non soltanto in campo patrimoniale79, e garantirsi la libertà necessaria a riconquistare l’accesso diretto ad un altro consistente patrimonio femminile, vale a dire per riottenere spazi di libera negoziazione sul ‘mercato’ matrimoniale cui sembra, del resto, riferibile anche la destrezza con cui nel novembre del 46 l’Arpinate respinse le profferte di nuove nozze con la figlia di Pompeo e la sorella di Irzio, optando per la giovane e ricca Publilia, d’altro canto destinata ad esser da lui liquidata grazie al medesimo istituto non appena le condizioni finanziarie dello sposo lo permisero. Oltre ai due casi sopra considerati, alcuni dati inerenti alle vicende che videro pro- tagonista anche la figlia Tullia possono concorrere a far ulteriore luce sull’andamento tutt’altro che stabile dei legami nuziali nel contesto familiare ciceroniano: rimasta vedo- va di C. Calpurnio Pisone Frugi di cui era stata sposa negli anni 63-57, quindi convolata a nozze con Furio Crassipede nell’aprile del 56 e dallo stesso separatasi nel 51 per motivi ignoti80, la donna sposò nel 50 P. Cornelio Dolabella81 in terze nozze conclusesi nel 4682, poco prima di dare alla luce il figlio e morire nei primi mesi del 4583.

cf. inoltre Deniaux 1993, 480-482. 77 Si veda Cic. Att. XVI 2, 1 inviata da Pozzuoli l’11 luglio del 44; cf. inoltre Att. XVI 6, 3. 78 Cf. Cic. rep. VI 2, 2. 79 Significativo in tal senso quanto emerge dai dissidi esistenti fra i due ex-coniugi ancora nel marzo del 45: cf. e. g. Cic. Att. XII 18a, 2; XII 19,4; sui loro rapporti dopo la separazione vd. inoltre Dixon 1986; Claassen 1993, 223-224. Nondimeno, sul versante politico è indicativa la notizia riportata da Hier. adv. Iovin. I 48 (= Sen. de matr. 61 Haase) secondo cui dopo la fine del matrimonio con Cicerone la donna avrebbe sposato lo storico Sallustio: al di là della sua ori- gine e della sua eventuale inattendibilità (cf. Syme 1978), il dato rivela comunque l’attestazione in ambito antico di un’immagine di Terenzia tanto autonoma da poter sposare anche un inimicus dell’Arpinate. 80 Cf. Cic. Quint. II 4, 2; II 5, 1; fam. I 7, 11; su questa fase vd. inoltre Späth 2010, 158-159. 81 Cf. Cic. fam. VIII 13, 1; III 12, 2; II 15, 2; Att. VI 6, 1; VII 3, 12. 82 Cf. Cic. Att. XII 8 dell’autunno del 46 con l’accenno alla restituzione della dote per ciò dovuta a Cicerone; nonché fam. VI 18, 5. Dello scioglimento delle nozze della figlia l’Arpinate doveva tuttavia aver avuto sentore da tempo, come si evince dall’accenno all’abruptio in Att. XI 3, 1 (del 13 giugno del 48), nonché al discidium in Att. XI 23, 3 (del 9 luglio del 47). 83 Cf. Plu. Cic. 41, 7; per il parto vd. Cic. fam. VI 18, 5 databile a gennaio del 45.

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Ad un uso strumentale del ripudio non si sottrassero in quegli anni neppure due personaggi destinati a divenire da lì a poco i protagonisti dell’ultima fase repubblica- na: Antonio e Ottaviano. Quanto al primo, vi ricorse nei riguardi della prima moglie Antonia84, presumibilmente nel 47, attribuendo alla donna, peraltro sua cugina85, una relazione con il tribuno Dolabella, a quel tempo genero di Cicerone secondo cui An- tonio avrebbe peraltro provveduto a renderla nota in senato alla presenza del padre di lei, Antonio Hybrida, quale pretesto per coprire i suoi piani imminenti, ovvero l’in- tenzione di sposare Fulvia86. Convolato a nozze con quest’ultima87, verosimilmente fra la fine del 47 e l’inizio del 46, e unito a lei da qualche sentimento sincero88, dopo esserne rimasto vedovo Antonio accolse la proposta di Ottaviano di sposare la sorella Ottavia, vedova di Gaio Marcello89 e destinata da lì a poco a svolgere il ruolo di me- diatore fra il fratello e il marito90. Fedele e obbediente agli ordini di quest’ultimo, malgrado le indicazioni di Otta- viano che le ingiunse di lasciare la casa coniugale al ritorno da Atene91, anche costei si vide tuttavia recapitare dal marito nel 32 una comunicazione di ripudio che assecondò abbandonando l’abitazione92, senza tuttavia sottrarsi ai suoi compiti materni, sicché an- cora dopo la morte di Antonio continuò a prendersi cura dei loro figli e di quelli da lui avuti dai precedenti matrimoni93. Venendo all’uso che dell’istituto fece Ottaviano, andrà ricordato che per tale via nel 41 egli pose fine alle nozze contratte presumibilmente nel 43 con la figliastra di Anto- nio, Clodia: al di là dei dissidi con la suocera, vale a dire la madre di lei Fulvia, addotti dalle fonti94, che possa essersi trattato tecnicamente di un repudium induce ad ipotiz-

84 Cf. Plu. Ant. 9, 2. 85 In quanto figlia di Gaio Antonio Ibrida, fratello minore di suo padre M. Antonio Cretico: cf. Cic. Phil. II 99 e Corbier 1990, 19. 86 Cf. Cic. Phil. II 99; l’accusa non trova tuttavia riscontro in Plu. Ant. 9, 1-2 che accoglie come attendibile la notizia sulla condotta immorale della donna quale causa reale dello sciogli- mento delle nozze. 87 Cf. Plu. Ant. 10, 4; per Fulvia si trattava del terzo matrimonio, dopo essere rimasta vedova nel 52 del primo marito Publio Clodio Pulcro e nel 49 del secondo Gaio Scribonio Curione. 88 Cf. Plu. Ant. 10, 9; vd. inoltre Plu. Ant. 28 da cui si evince che Fulvia cercò di curare gli interessi del marito anche al tempo della sua relazione con Cleopatra; per una disamina sul ma- trimonio fra i due cf. Schubert 2002 nonché, fra i lavori più recenti, Rohr Vio 2013, 63-88. 89 Cf. Plu. Ant. 31, 2. 90 Cf. Plu. Ant. 35, 6-7; per ulteriori precisazioni vd. Balsdon 1962, 63-75; Gafforini 1994; Cosi 1996, 256-263. 91 Cf. Plu. Ant. 54, 1. 92 Cf. Plu. Ant. 57, 4. 93 Cf. Plu. Ant. 87, 1. 94 Cf. Svet. Aug. 62; D.C. XLVIII 5, 3.

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zarlo un riferimento criptico di Cassio Dione95, secondo cui Ottaviano non esitò ad affermare che il matrimonio non era stato consumato, senza curarsi di poter apparire poco credibile data la lunga convivenza con la donna e di destare in qualcuno il sospetto d’aver preso tale decisione in vista di eventi futuri. Più tardi, nel 39, un uso accorto del medesimo istituto gli consentì di sciogliere an- che le nozze con Scribonia, risalenti solo all’anno precedente: malgrado la motivazione portata dal diretto interessato nella propria biografia cui pare riferibile la notizia sveto- niana, vale a dire l’immoralità della donna96, il terzo matrimonio contratto già l’anno seguente, nel 38, con Livia Drusilla, rende lecito chiedersi se la fine del precedente fu ispirata da ragioni legittime97 e non piuttosto dalla volontà di riacquistare la libertà per unirsi alla figlia di un sostenitore di Antonio e recuperare tramite lei l’appoggio di una parte avversa98. Del resto, non va trascurato che anche Livia, a quel tempo già coniugata, potè riacquistare la facoltà di contrarre nuove nozze solo grazie allo scioglimento del precedente vincolo evidentemente concessole di buon grado dal marito Claudio Tiberio Nerone da cui peraltro attendeva il secondo figlio, Druso maggiore, e previo consenso dei pontefici per ciò appositamente consultati99. In ogni caso, che la tendenza a concludere le nozze con facili separazioni fosse dive- nuta dilagante è testimoniato da una decisione assunta proprio dall’artefice della svolta istituzionale del Principato: oltre a varare la Lex Iulia de adulteriis coercendis nel 18 a. C. per arginare la degenerazione dei costumi matrimoniali e la crescita incontrollata di convivenze irregolari, nonché la Lex Iulia de maritandis ordinibus per regolarizzare e incentivare matrimoni e nascite, avendo verificato l’inclinazione a sottrarvisi attraverso nozze reiterate, secondo Svetonio Augusto intervenne a limitare la durata dei fidanza- menti e in particolare divortiis modum imposuit100. A fronte di tale indicazione, di per sé utile per acquisire come all’inizio del Principa- to vi fosse un’ormai chiara percezione del carattere abnorme e strumentale del ricorso a ripudi e separazioni, gli esempi sopra richiamati consentono di cogliere comunque che nel I secolo a. C. le donne furono al centro di studiate e complesse strategie matrimonia- li. Attuate da figure di spicco della scena pubblica non soltanto tramite la conclusione

95 Cf. D.C. XLVIII 5, 3. 96 Cf. Svet. Aug. 62; di parere diverso tuttavia Sen. epist. 70, 10 che definisce Scriboniagravis femina. Non va del resto trascurato che il suo matrimonio con Ottaviano era stato possibile solo dopo lo scioglimento delle nozze precedenti della donna: cf. Scheid 1975, 359. 97 Indicativo un accenno di D.C. XLVIII 34, 3 secondo cui Ottaviano, che ripudiò Scribonia il giorno in cui lei aveva dato alla luce la loro bambina, sarebbe stato già innamorato di Livia. 98 Sui legami del padre di Livia con la parte antoniana vd. Christ 1993, 150-151, nonché Cosi 1996, 265-266 n. 41 con ulteriore bibliografia. 99 Cf. Tac. ann. V 1, 2; D.C. XLVIII 44, 2. 100 Cf. Svet. Aug. 34, 2.

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di vincoli nuziali, bensì anche attraverso la loro ponderata dissoluzione, perseguita per ragioni sovente legate all’interesse a tutelare la propria reputazione o a riacquistare la fa- coltà di contrarre nuove nozze, più vantaggiose a scopo politico o finanziario, tali dina- miche nuziali rivelano purtuttavia il ruolo significativo dallematronae ormai acquisito nell’ultimo secolo di Roma repubblicana.

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Nuove prospettive per l’azione matronale: l’esempio di Cerellia corrispondente di Cicerone

La vicenda di Cerellia, matrona il cui nome è noto grazie ai riferimenti presenti nell’epistolario ciceroniano ed alle poche informazioni reperibili nelle fonti letterarie1 – cui saranno qui uniti i dati tratti dalle fonti epigrafiche – sarà l’oggetto di questa analisi mirata ad approfondire le conoscenze sul livello culturale, sulla capacità patrimoniale e sulla possibilità d’azione raggiunti dalle matrone appartenenti all’élite nella fase finale della Repubblica.

Le perdute Epistulae ad Caerelliam

In effetti la rilevanza ed anche il fascino di questa figura appaiono evidenti già nell’u- nico frammento superstite delle Epistulae ad Caerelliam, le sole lettere scritte da Cice- rone ad una matrona – se si eccettuano naturalmente quelle inviate alla prima moglie Terenzia ed alla figlia Tullia – ad esser state ritenute degne della pubblicazione, riscon- trando tra l’altro un notevole interesse fra i lettori secondo quanto documentato dalle fonti antiche. Il frammento in questione, giunto fino a noi perché citato da Quintiliano fra gli esempi di battute che volgono al riso l’uditorio, riporta la risposta data da Cicerone all’osservazione della matrona che si era meravigliata della sua pazienza nel sopportare il dispotismo di Cesare: “Haec aut animo Catonis ferenda sunt aut Ciceronis stomacho”; “stomachus” enim ille habet aliquid ioco simile2. Cicerone aveva dunque risposto a Cerellia creando un gioco linguistico tra l’indole tutta d’un pezzo di Catone, che vista perduta la libertas repubblicana aveva scelto l’atto

1 Per quanto riguarda le ciceroniane Epistulae ad Caerelliam un solo frammento è sopravvis- suto, citato da Quint. inst. V I 3, 112, mentre allusioni a tale carteggio sono presenti in Auson. cento nupt. 10, 11-12 e D.C. XLVI 18, 3-4. Nella restante corrispondenza ciceroniana sono tut- tavia presenti alcuni riferimenti a Cerellia, fondamentali per ricostruirne la figura, in sette lettere databili al 46-44 a.C.: fam. XIII 72, del 46 o 45 a.C., indirizzata al proconsole d’Asia P. Servilio Isaurico; Att. XII 51, del 20 maggio del 45 a.C., su un prestito fatto dalla matrona all’oratore al cui saldo forse si allude in Att. XV 26, del luglio del 44 a.C.; Att. XIII 21a e Att. XIII 22, sull’in- teresse di Cerellia per la filosofia, del giugno-luglio del 45 a.C.; infineAtt . XIV 19 e Att. XV 1, del maggio 44 a.C., sul coinvolgimento della matrona nel divorzio tra Cicerone e la seconda moglie, Publilia. 2 inst. VI 3, 112.

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estremo di un suicidio accusatore verso Cesare, e la reazione di chi come lui riusciva a «digerire» anche l’ennesima delusione politica, accettando – o piuttosto cercando – il perdono del vincitore. Quest’unico scampolo sopravvissuto della conversazione epistolare tra la matrona e l’oratore riesce comunque a gettar luce, da solo, sulla particolarità del rapporto esistente tra i due personaggi, permettendo tra l’altro di comprendere sia i fraintendimenti cui poté dar luogo nell’antichità tale dialogo che le parole di uno storico moderno, Gaston Boissier, che rimpiange la perdita di questa sezione dell’epistolario come la più grave occorsaci3. Infatti il passaggio riportato da Quintiliano – che dato l’argomento si può collocare in un arco temporale che va dal 47 al 44 a.C., compatibile quindi con i riferimenti alla matrona tutt’ora rintracciabili nell’epistolario ciceroniano – mostra l’immagine di una donna interessata alle vicende politiche e con la quale l’oratore poteva lasciarsi andare a confidenze degne di Attico – l’avversione alla dittatura di Cesare non era certamente un tema da affrontare alla leggera, soprattutto da parte di chi aveva infine ottenuto dal dictator l’auspicato perdono4 – condite però con l’ironia e l’amore per lo scherzo che si trova ad esempio nel brillante scambio epistolare con Celio. Inoltre, poiché l’oratore tendeva a variare registro a seconda dell’interlocutore, si può ragionevolmente supporre che il tono adottato da Cicerone avesse un corrispettivo anche nelle lettere di Cerellia, inserite perciò da Emily Hemelrijk – forzando un po’ la licenza deduttiva – tra i più interessanti esempi di corrispondenza femminile d’età repubblicana5. Proprio questo stile informale, tuttavia, offrì con ogni probabilità buon gioco a in- terpretazioni sconvenienti della loro relazione da parte degli avversari dell’oratore, come dimostra chiaramente la tradizione presente in Cassio Dione, che ricorda le accuse di immoralità mosse dal tribuno antoniano Fufio Caleno a Cicerone anche sulla base del suo scambio epistolare con Cerellia6, tradizione confermata dalle più tarde parole di Au- sonio che vedeva in tale corrispondenza la dimostrazione più eclatante dell’occasionale abbandono dell’usuale severitas da parte dell’oratore a favore di uno stile in cui abbon- dava la petulantia, vale a dire «l’impudenza», «la leggerezza»7. Il tono scherzoso, a volte fino al licenzioso, tipico della tarda Repubblica, se sembrò in generale sconveniente nei secoli successivi tanto più dovette apparirlo – come dimo- stra il fraintendimento, chiaramente forzato nell’invettiva di Caleno, del rapporto tra Cicerone e Cerellia – quando era applicato ad una donna dato che, nonostante l’evolu- zione di fatto della condizione matronale, l’ideale femminile rimaneva fissato nell’im- magine domiseda, lanifica e pudica di Lucrezia, che pochi anni dopo, in pieno regime

3 Così Boissier 1926, 95. 4 Così anche Austin 1945-46, 306. 5 Hemelrijk 1999, 190-191 n. 25. 6 D.C. XLVI 18, 3-4. 7 Auson. cento nupt. 10, 11-12.

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augusteo, sarebbe stata riproposta da Livio come modello ideale di matrona romana nel confronto con le emancipate principesse etrusche8.

La formazione culturale di una matrona dell’élite

Un’ulteriore dimostrazione della permanenza di una visione arcaica nella percezione delle prerogative e delle aspettative matronali rispetto al reale stile di vita delle donne appartenenti all’élite nella fase finale della Repubblica è del resto presente anche nelle parole con le quali Cicerone, tra la fine di giugno e gli inizi di luglio del 45 a.C., riferisce all’amico ed editore Tito Pomponio Attico9 della sottrazione di una copia del De fini- bus, la sua ultima fatica filosofica, da parte di Cerellia. La matrona infatti, per quanto è possibile appurare dall’epistola, ne era entrata in possesso prima che l’autore consideras- se l’opera del tutto ultimata e soprattutto prima che ne avesse potuto offrire una copia al dedicatario, in questo caso Marco Giunio Bruto.

Quo modo autem fugit me tibi dicere? Mirifice Caerellia studio videlicet philoso- phiae flagrans describit a tuis; istos ipsos de finibus habet. Ego autem tibi confir- mo (possum falli ut homo) a meis eam non habere; numquam enim ab oculis meis afuerunt. Tantum porro aberat ut binos scriberent, vix singulos confecerunt. Tuorum tamen ego nullum delictum arbitror itemque te volo extistimare; a me enim praetermissum est ut dicerem me eos exire nondum velle. Hui, quam diu de nugis! De re enim nihil habeo quod loquar10.

Il modo col quale l’oratore descrive l’iniziativa di Cerellia, che a suo avviso sarebbe arrivata a corrompere i copisti di Attico per procurarsi l’agognata copia in anteprima, pone di fatto in ridicolo l’azione della matrona: Mirifice Caerellia – «Straordinaria- mente (ha agito) Cerellia» – studio videlicet philosophiae flagrans describit a tuis […] Hui, quam diu de nugis! De re enim nihil habeo quod loquar – «ardendo, è evidente, d’amore per la filosofia ha preso una copia dai tuoi (copisti). […] Ah, anche troppo tem-

8 Vedi a questo proposito Liv. I 57, 6-9, vd. in particolare paragrafo 9: […]Lucretiam haudquamquam ut regias nurus, quas in convivio lusuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem inveniunt. 9 Come sottolinea Cavallo 1975, 41-43 le edizioni di Attico erano eleganti e particolar- mente accurate, tanto da rappresentare un unicum nel panorama dell’epoca. Nep. Att., parla dif- fusamente del fatto che la familia del suo patrono, T. Pomponio Attico, fosse ricca soprattutto di librarii e anagnostae, schiavi abili rispettivamente nella copiatura e nella lettura, la cui voce era l’unica – invece delle chiacchiere mondane – a risuonare durante le cene nella domus Tamphili- ana, la famosa casa di Attico sul Quirinale, cene alle quali naturalmente partecipavano anche la colte matrone dell’epoca – vd. in particolare paragrafi 13 e 14. 10 Att. XIII 21a, 2.

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po (ho dedicato) alle sciocchezze! Ma vedi che non ho nulla di importante sul quale discorrere». Il comportamento di Cerellia non era stato in realtà così sorprendente né anomalo, dato che il vanto di essere i primi a poter toccare con mano l’ultima fatica di Cicerone ave- va spinto anche Lucio Cornelio Balbo, potente luogotenente e uomo di fiducia di Cesare, a tentare con successo la stessa manovra, ottenendo – sempre dai copisti di Attico, che do- vevano provvedere alla realizzazione degli esemplari da diffondere – una copia del quinto libro dell’opera, concessione che in questo caso l’oratore, informato dall’amico editore, non aveva potuto che avallare. Anche nel caso di Cerellia i fatti dovevano essersi svolti in modo simile, tanto più che è difficile ipotizzare che la matrona avesse ottenuto un’opera in cinque volumina – con i conseguenti tempi necessari per riprodurla – senza che Attico ne venisse a conoscenza, come chiarisce a pochi giorni di distanza lo stesso Cicerone che ammette di non aver dato all’amico precise direttive riguardo alla divulgazione, almeno in una cerchia ristretta, di un’opera che lui considerava ancora in fieri11. In base ai dati finora analizzati Cerellia risulta dunque essere una matrona colta e sicu- ramente proveniente da una famiglia dell’élite che si era potuta permettere per lei un’edu- cazione raffinata ed in parte atipica12. Ella appare infatti dedita non soltanto a letture legge- re, quali potevano essere il genere elegiaco o la poesia neoterica13, per cui lo stesso Catullo aveva previsto un pubblico di doctae puellae, ma anche interessata alla politica e sensibile all’evoluzione del dibattito filosofico, al punto da volersi procurare in anteprima l’ultima opera di Cicerone, che si può supporre andasse ad arricchire una già cospicua biblioteca. Tale condizione – sia per quanto riguarda la formazione culturale ampia che il possesso di un considerevole numero di libri – non doveva del resto essere estranea a molte matrone dell’epoca, come potranno dimostrare, soltanto una generazione dopo, i numerosi e più documentati esempi di mecenati colte e raffinate che sarà possibile rintracciare fra le espo- nenti femminili della domus Augusta. Cerellia tuttavia, benché fosse una corrispondente presumibilmente brillante e avesse potuto beneficiare di un’educazione raffinata, subiva un pregiudizio di base, la supposta incapacità femminile di penetrare pienamente le sottigliezze della filosofia, motivo per cui la sua impazienza nel procurarsi gli scritti filosofici dell’oratore aveva provocato più disap-

11 Att. XIII 22, 3, da Arpino, scritta verso il 4 luglio del 45 a.C. 12 Probabilmente una famiglia di rango equestre dato che la gens Caerellia, in base ai dati noti, era all’epoca ancora assente dai Fasti. 13 Generi nei quali in questo periodo si cimentavano anche alcune donne, di cui abbiamo componimenti o notizie, come la famosa Sulpicia, figlia dell’oratore Servio Sulpicio Rufo e nipote per parte materna di Marco Valerio Messalla Corvino, di cui frequentava a pieno titolo il circolo letterario il cui più illustre esponente era Tibullo. Su di lei vd. Cantarella 1998, 126- 131 con bibliografia. Sulle donne amanti della cultura ed a loro volta scrittrici vd. Lopez 1994 e Hemelrijk 1999.

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punto che orgoglio nell’autore, a dimostrazione di come certi ambiti – benché aperti di fatto alle matrone – fossero ancora ritenuti loro estranei.

Condizione economica e capacità patrimoniale

Oltre a documentare i più ampi orizzonti culturali accessibili alle matrone di fine Re- pubblica le sette epistole ciceroniane che trattano di Cerellia – riferibili ad un arco tem- porale che va dal 46 o 45 a.C. di ad Fam. XIII 72 al luglio del 44 a.C. di ad Att. XV 26 – permettono di ricostruire non soltanto alcuni aspetti della situazione finanziaria di questa matrona, ma soprattutto le modalità con le quali Cerellia si occupava dei suoi interessi e delle sue proprietà, consentendo così di delineare un quadro più approfondito anche di tale aspetto della condizione femminile alla metà del I secolo a.C. La prima lettera ciceroniana conservata in cui è nominata la matrona, ad Fam. XIII 72, fornisce in effetti due ordini di dati, entrambi essenziali per definire la figura di Cerellia, vale a dire da un lato alcune informazioni sull’entità e sulla gestione del suo patrimonio – dalla cui analisi qui partiremo – dall’altro il carattere del suo rapporto con Cicerone, il quale la definisce, con un termine polivalente, quale suanecessaria , due aspetti che con- corrono a individuarla come membro dell’élite senatorio-equestre, della quale può essere quindi considerata una tipica esponente. Tale epistola, datata da Tyrrell - Purser al 46 a.C.14 e attribuita da Shackleton Bailey indifferentemente al 46 o 45 a.C.15, fa parte delle sei lettere di ‘raccomandazione’ – l’uni- ca riguardante una donna come ha giustamente messo in evidenza la Deniaux16 – scritte dall’oratore a P. Servilio Isaurico affinché quest’ultimo, nella sua veste di responsabile della provincia d’Asia, tutelasse gli interessi che alcuni possidenti romani avevano nell’area17. Nel breve testo, qui riportato per intero, Cicerone richiamando le assicurazioni fatte in un precedente incontro romano chiedeva ancora una volta all’amico di salvaguardare la posizione di Cerellia, posizione che la matrona, secondo le informazioni fornite dai suoi procuratores, non vedeva sufficientemente tutelata.

Caerelliae, necessariae meae, rem, nomina, possessiones Asiaticas commendavi tibi praesens in hortis tuis quam potui diligentissime, tuque mihi pro tua consue-

14 Tyrrell - Purser 1918, vol. IV, 493. 15 Shackleton Bailey 1977, vol. II, 156. 16 Deniaux 1993, 473-474 nr. 28. 17 Broughton 1952, vol. II, 298. In Fam. XIII 68, datata da Tyrrell - Purser 1918, vol. IV, 428, al settembre del 46 a.C. e da Shackleton Bailey 1977, vol. II, 56, all’ottobre dello stesso anno, Cicerone si congratulava col collega per la buona traversata e sperava in un loro proficuo scambio epistolare, attività a cui l’oratore si sarebbe dedicato con una certa costanza raccomandando al proconsole gli interessi di numerosi amici, come risulta dalle Fam. XIII 66-72.

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tudine proque tuis in me perpetuis maximisque officiis omnia te facturum libe- ralissime recepisti. Meminisse te id spero: scio enim solere. Sed tamen Caerelliae procuratores scripserunt te propter magnitudinem provinciae multitudinemque negotiorum etiam atque etiam esse commonefaciendum. Peto igitur ut memineris te omnia quae tua fides pateretur mihi cumulate rece- pisse. Equidem existimo habere te magnam facultatem (sed hoc tui est consili et iudici) ex eo senatus consulto quod in heredes C. Vennoni factum est Caerelliae commodandi. Id senatus consultum tu interpretabere pro tua sapientia; scio enim eius ordinis auctoritatem semper apud te magni fuisse. Quod reliquum est, sic velim existimes, quibuscumque rebus Caerelliae benigne feceris, mihi te gratissi- mum esse facturum.

Per quanto riguarda l’aspetto patrimoniale, l’epistola documenta i molti e significa- tivi interessi di Cerellia in Asia, nello specifico unares , un «affare», di cui non è possi- bile specificare meglio le caratteristiche in base al breve accenno presente nel testo, delle possessiones, delle «proprietà», e infine deinomina , vale a dire «crediti», che secondo Elisabeth Deniaux la matrona poteva vantare addirittura nei confronti delle città asia- tiche, molte delle quali erano in effetti indebitate proprio con i membri dell’élite finan- ziaria romana18. La rilevanza degli interessi asiatici di Cerellia è del resto confermata da un ulteriore argomento toccato nella missiva, il suo coinvolgimento nella complessa questione dell’eredità di Gaio Vennonio, un negotiator operante nell’area in questione – dove aveva svolto compiti anche per Cicerone e per Pompeo Magno – e per regolare la cui successione era stato necessario emanare un senatoconsulto ad hoc, nell’applicare il quale la matrona chiedeva un occhio di riguardo nei confronti della sua posizione, che non doveva quindi essere di poco conto19. Ulteriore aspetto degno di nota presente in questa breve ma significativa epistola è il fatto che Cicerone, pur chiamando in questione i vari agenti di Cerellia – gli anonimi procuratores e il negotiator Vennonio – non accenna mai ad un tutore che l’assistesse o il cui beneplacito fosse necessario ottenere nel concludere gli affari, un’impressione con- fermata dalle successive lettere nelle quali sono menzionati gli interessi finanziari della matrona, nelle quali non viene mai nominato alcun referente maschile da contattare in vece di Cerellia, vale a dire ad Att. XII 51 e ad Att. XV 26, databili rispettivamente al maggio del 45 ed al luglio del 44 a.C. Nella prima di esse si vede ribadita la solidità della posizione economica della matro- na, che era diventata creditrice dello stesso Cicerone, sempre carente di liquidità date le spese connesse all’attività politica e la sua specificagrandeur . Tale accordo aveva tuttavia

18 Deniaux 1993, 225 nr. 28. 19 Su Gaio Vennonio vd. RE, VIIIA, s. v. Vennonius 3, 790-791 (H. Gundel), integrato da Syme 1961, 23 n. 6.

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suscitato il disappunto di Attico, il quale tramite il segretario dell’oratore, Tirone, aveva fatto presente la sua contrarietà al permanere di questo debito:

De Caerellia quid tibi placeret Tiro mihi narravit: debere non esse dignitatis meae, perscriptionem tibi placere: “Hoc metuere, alterum in metu non ponere!”. Sed et haec et multa alia coram. Sustinenda tamen; si tibi videbitur, solutio est nominis Caerelliani dum et de Metione et de Faberio sciamus20.

In base alle poche informazioni presenti nell’epistola non è possibile stabilire l’entità del prestito fatto da Cerellia a Cicerone, tanto più che qui la questione è soltanto accennata e rimandata a quando i due amici ne potranno parlarne a voce – sed et haec […] coram – ma si può certamente ipotizzare che esso fosse di notevole consistenza dato che l’oratore lo considerava comunque inestinguibile, almeno fino alla conclusione di un ulteriore affare nel quale sono implicati due personaggi, Metione e Faberio, sui quali non vengono però fornite ulteriori notizie. Ai fini della presente indagine è tuttavia più interessante indagare i motivi della contrarietà espressa da Attico, che è possibile inserire ancora una volta nella forbice esistente tra ideale matronale e pratica di vita delle donne dell’epoca. In effetti nell’ultimo secolo della Repubblica non doveva essere così insolito per un uomo, persino nella posizione di Cicerone, essere debitore di una matrona, date le ricchezze di cui spesso erano venute in possesso le donne appartenenti all’élite anche in conseguenza delle guerre civili, con la non rara concentrazione dei patrimoni fami- liari nelle loro mani, matrone ormai più libere nel gestirli perché sposate generalmente sine manu e soggette a tutori compiacenti se non loro subordinati. Ne è riprova il fatto che pochi mesi prima dell’epistola in questione, in una lettera datata al marzo del 45 a.C., l’oratore accennasse ad un prestito di centomila sesterzi avuto da Ovia, vedova di Gaio Lollio, prestito della cui restituzione era stato incaricato lo stesso Attico, ma che sarebbe rimasto ancora a lungo in essere21. Si può tuttavia facilmente supporre che la morale comune, sempre favorevole all’immagine tradizionale di matrona romana, non vedesse di buon occhio queste nuove pratiche e che quindi Attico, rendendosi conto che Cicerone vi si stava abbandonando troppo disinvoltamente, tentasse di dis- suaderlo, dato il ruolo pubblico che l’amico rivestiva, e si adoperasse in prima persona per chiudere tali affari, sia con Ovia che con Cerellia.

20 Att. XII 51, 3, scritta da Cicerone il 20 maggio del 45 a.C., mentre si trovava nella sua villa di Tuscolo. 21 Alla prima lettera che parla del prestito avuto da Ovia – Att. XII 21, 4, del 17 marzo del 45 a.C. – seguono ulteriori accenni al debito non ancora saldato sia in Att. XII 24, 1 e Att. XII 30, 2, rispettivamente del 20 e del 27 marzo 45 a.C., che probabilmente in Att. XIII 22, 4, del 4 luglio dello stesso anno. Più problematica l’interpretazione del riferimento ad Ovia in Att. XVI 2, 1, del resto molto successiva, dell’11 luglio del 44 a.C.

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In ogni caso le transazioni finanziarie tra la matrona e Cicerone non si interruppero, come dimostra l’ultima lettera in cui Cerellia appare nell’epistolario ciceroniano, ad Att. XV 26, che in un passo purtroppo molto corrotto allude ad un ulteriore affare in cui erano coinvolti entrambi i personaggi, affare del quale tuttavia non è possibile chiarire i partico- lari22. L’unico dato certo ricavabile dall’epistola è che sia Cicerone che Cerellia avevano interessi in una compravendita che riguardava aedium ad Streniae, «un edificio presso il tempio di Strenia», probabilmente collocato in una delle zone più esclusive di Roma, dato che un noto sacellum di questa divinità della salute di origine sabina23 si trovava alla fine della Via Sacra in prossimità delle Carinae24, una compravendita che quindi doveva coin- volgere somme considerevoli e che conferma le informazioni finora raccolte sulla condi- zione patrimoniale di Cerellia25. Alla fine di questo breveexcursus appare quindi ribadita l’impressione di notevole so- lidità economica della matrona, con proprietà ed interessi non soltanto a Roma e nel La- zio, ma documentatamente almeno in Asia, una ricostruzione che ulteriori ricerche basate essenzialmente su dati epigrafici permettono di estendere anche ad altri membri dellagens Caerellia vissuti tra la fine della Repubblica e il II secolo d.C.26. Risulta inoltre evidente una forte autonomia nella gestione del proprio patrimonio da parte di Cerellia, che non appare mai affiancata nelle sue operazioni finanziarie da nessuna figura di tutore, una tendenza che trova del resto conferma in altri esempi presenti nell’epistolario ciceroniano, a partire dalla prima moglie dell’oratore, Terenzia, il cui decisionismo in materia finanziaria è considerato da parte della tradizione una delle cause principali che avevano portato Cicerone al divorzio. Nel caso di Cerellia è inoltre particolarmente rimarchevole il fatto che ella non venga mai associata, né nell’epistolario ciceroniano né nelle altre fonti letterarie, ad alcun membro maschile della sua famiglia, sebbene da un lato la corrispondenza dell’oratore permetta di ipotizzarne importanti legami familiari, dall’altro i dati epigrafici consentano di identificare alcuni esponenti della gens Caerellia appartenenti all’élite senatorio-equestre e collocabili nel medesimo arco temporale, i quali con ogni probabilità facevano parte del medesimo ramo della matrona27.

22 Att. XV 26, 4, datata al 2 luglio del 44 a.C. 23 Vedi a questo proposito Creutzburg, s. v. Strenia, in RE 1931, 353-354. Per una completa analisi del termine, con bibliografia, vd. F. Coarelli, s. v. Strenia, in E. M. Steinby (a cura di), LTUR, vol. IV, 378. 24 Vd. Varr. ling. V 47: […]Carinae pote a c‹a›eri‹m›onia, quod hinc oritur caput Sacrae Viae ab Streniae sacello quae pertinet in arcem […]. 25 Difficile andare più a fondo in questo affare, come invece ha tentato di fare Carcopino 1947, vol. I, 76, che arriva a ipotizzare che qui si alludesse ad un acquisto fatto da Cicerone di un’insula posseduta in parte o del tutto da Cerellia in una delle aree più esclusive dell’Urbe. 26 Vd. Lapini 2014, 432-436. 27 Ibid.

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Le relazioni familiari di Cerellia

Un ulteriore motivo di interesse di ad Fam. XIII 72, la prima epistola nella quale Ce- rellia appare nel carteggio ciceroniano, è in effetti l’aggettivo utilizzato dall’oratore per descrivere il suo rapporto con la matrona, la quale viene definita quale suanecessaria , un aggettivo che per la varietà di sfumature dei suoi significati – che vanno dall’indicazione di una stretta amicizia fino all’esplicitazione di una vera e propria parentela – può dare adito a diverse interpretazioni28. In questo caso tuttavia tale aggettivo, unito all’analisi della tempistica della comparsa di Cerellia nella corrispondenza dell’oratore, vale a dire gli anni dal 46 al 44 a.C., e del ruolo che quest’ultima si trovò a rivestire al momento del divorzio di Cicerone dalla seconda moglie, Publilia, permette di essere interpretato nel senso di un avvenuto legame parentale – anche se indiretto – tra la famiglia di Cerellia e l’oratore, con un uso di necessarius equivalente a quello fatto dallo stesso Cicerone in ad Fam. VIII 8, 2 per descrivere il rapporto tra Attico e il fratello di sua moglie, Q. Pilio29. Cerellia appare infatti nell’epistolario verso la fine del 46 o gli inizi del 45 a.C., nello stesso periodo nel quale l’ormai sessantenne Cicerone dopo il divorzio dalla prima mo- glie e madre dei suoi due figli, Terenzia, aveva sposato in seconde nozze, probabilmente a dicembre del 46 a.C., la giovane Publilia30, che il padre morendo aveva affidato alla sua tutela31. Tale matrimonio aveva suscitato notevole scalpore a Roma ma era stato proba- bilmente dovuto – come avrebbe testimoniato anche il segretario di Cicerone, Tirone – alla necessità dell’oratore di rimpinguare con la ricca dote della sposa il suo patrimonio, drammaticamente provato sia dal coinvolgimento nelle guerre civili che forse da alcune scelte attribuibili all’ex moglie Terenzia32. Il matrimonio con Publilia si era tuttavia ri- velato quasi subito infelice, anche per il difficile rapporto che si era creato tra la giovane

28 Secondo Shackleton Bailey 1977, vol. II, 451 n. 1 il termine non implica niente più che «friendship», ma lo stesso Old s.v. lo inserisce in una sfera semantica che va dall’amicitia all’adfinitas; in questo senso anche Rowland 1970. 29 Q. Pilio, considerato anche da Nicolet 1974, vol. II, 978 nr. 269 il fratello della moglie di T. Pomponio Attico, Pilia, è indicato da Cicerone a Celio come necessarius Attici nostri in Fam. VIII 8, 2, databile all’ottobre del 51 a.C. 30 Ciò è deducibile dal fatto che ancora alla fine di novembre del 46 a.C. Cicerone non si era deciso in favore di una candidata – come dimostrato da Att. XII 11, databile probabilmente al 29 novembre del 46 a.C. – e poco dopo la morte di Tullia, avvenuta nel febbraio del 45 a.C., aveva già deciso per la separazione dalla seconda moglie. E’ perciò naturale supporre che sia il fidanzamento che il matrimonio – che furono necessariamente molto vicini – fossero avvenuti nel dicembre del 46 a.C., presumibilmente il primo alla metà ed il secondo alla fine del mese. Su Publilia vd. RE, XXIII, s. v. Publilius 17, 1917-1918 (Hoffman). 31 Vd. a questo proposito RE, XXIII, s. v. Publilius 3, 1909 (Hoffman). 32 Così il liberto e segretario di Cicerone, Tirone, in Plu. Cic. 41, 4-5.

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moglie e l’amatissima figlia Tullia, ed era poi rapidamente naufragato, sembra proprio per l’incapacità di Publilia di stare vicino al consorte al momento della morte di Tullia, poco più che trentenne, nel febbraio del 45 a.C., circostanza nella quale l’atteggiamento della moglie aveva suscitato un tale risentimento in Cicerone da non voler più trovarsi alla sua presenza. Le trattative relative al divorzio per un matrimonio la cui armonia aveva avuto una durata inferiore ai tre mesi si sarebbero trascinate tuttavia piuttosto a lungo, con un diretto coinvolgimento non soltanto di alcuni appartenenti alla gens Publilia, ma anche della stessa Cerellia, come dimostrato chiaramente sia da ad Att. XIV 19 che da ad Att. XV 1, scritte rispettivamente l’8 e il 17 maggio del 44 a. C.. Nella prima delle due epistole l’incontro di Publilio, con ogni probabilità il fratello della giovane sposa33, con Attico viene posta sullo stesso piano dell’azione che Cerellia aveva messo in atto presso l’oratore: Publilius tecum tricatus est. Huc enim Caerellia mis- sa ab istis est legata ad me; cui facile persuasi mihi id quod rogaret ne licere quidem, non modo non libere34. Cerellia era stata dunque scelta dalla famiglia della fanciulla per perorarne la causa direttamente con Cicerone, forse nella speranza che si potesse scongiurare il divorzio – dato il prestigio comunque notevole di cui si trovava a godere la sposa di un personaggio in vista quale l’oratore –, o più probabilmente, dato che ormai era trascorso più di un anno dal momento della rottura fra l’oratore e la seconda moglie, per concordare una modalità di restituzione della dote più favorevole a Publilia. A quest’ultima sollecitazio- ne Cicerone avrebbe ben potuto rispondere che non solo non aveva voglia di cambiare gli accordi già presi, ma nemmeno avrebbe potuto farlo, data la sua precaria situazione economica, risposta che doveva aver ribadito pochi giorni dopo di fronte a nuove pres- sioni messe in atto da Cerellia35, la quale del resto – quale sua creditrice – aveva ben chiare le difficoltà finanziarie dell’oratore. Al di là dell’impossibile accertamento delle singole questioni, il ruolo svolto dalla matrona in questa particolare vicenda, nella quale si era sicuramente mossa in accordo con i membri della gens Publilia che l’avevano inviata come mediatrice in parallelo ad un uomo appartenente alla famiglia, unitamente alla sua comparsa nella vita e nell’epistola- rio di Cicerone all’epoca del suo secondo matrimonio, permette comunque di supporre che Cerellia facesse parte dei legami parentali della giovane sposa36 – di Publilia ella poteva essere una zia materna – un’ipotesi che trova conferma nella definizione datane

33 Su Publilio vd. RE, XXIII, s. v. Publilius 4, 1910 (Hoffman). 34 Att. XIV 19, 4. 35 Att. XV 1, 4, scritta a Pozzuoli il 17 maggio del 44 a.C.: Caerelliae vero facile satis feci; nec valde laborare mihi visa est, et si illa, ego certe non laborarem. 36 Ipotesi verso la quale sono possibiliste sia Hemelrijk 1999, 257 n. 17 che Skinner 2011, 15.

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in ad Fam. XIII 72 poiché, quale congiunta di sua moglie, Cerellia avrebbe ben potuto essere designata quale necessaria, nel senso di «parente acquisita», da parte di Cicerone. Tale ricostruzione permette quindi di inquadrare meglio il legame che si era creato tra la matrona e l’oratore, che viene così collocato nel contesto del fidanzamento e delle successive nozze con Publilia, ambiti nei quali le donne della famiglia – in primo luogo madri e zie – venivano normalmente consultate e spesso avevano all’epoca in questio- ne addirittura un ruolo di primo piano. Un ruolo reso ancora più essenziale in questo caso per la giovane età della sposa, orfana di padre, e per il fatto che l’unico esponente maschio della famiglia di Publilia di cui venga data notizia sembra essere un fratello, probabilmente in età ancora acerba, supposizione avvalorata dalla stessa scelta operata dal padre di Publilia di affidare la figlia alla tutela di Cicerone e non di un parente. Significativo è tuttavia il fatto che, anche dopo la fine del matrimonio tra Cicerone e la supposta nipote, Cerellia fosse rimasta in stretto contatto con l’oratore e con membri importanti dell’élite romana, in modo documentato almeno con un personaggio cen- trale quale T. Pomponio Attico, dal quale avrebbe continuato a frequentare la casa e da cui avrebbe ottenuto nell’estate del 45 a.C. la famosa copia in anteprima del De finibus, a dimostrazione di come lei e presumibilmente la sua famiglia, della quale un’indagine epigrafica ha consentito di individuare alcuni esponenti di spicco, fossero ormai inseriti nell’alta società romana sia per status che per relazioni familiari.

La possibile famiglia della matrona

L’ultimo tassello di questa indagine, che consente di inserire in un credibile contesto familiare Cerellia, la matrona il cui nome è costantemente e sorprendentemente privo di qualsiasi specificazione di parentela nelle fonti letterarie, è infatti fornito da un’iscri- zione urbana su lastra marmorea, CIL, VI 1364. Tale epigrafe, rinvenuta nel 1852 in ri- utilizzo per un sepolcro cristiano, con l’iscrizione rovesciata, nel cimitero dei SS. Nereo e Achilleo sulla via Ardeatina37 ed ora affissa nella Catacomba di Domitilla, mostra, su due colonne, il cursus honorum di due esponenti della gens Caerellia, apparentemente i primi membri di tale gens ad aver avuto accesso all’ordo senatorius38:

a) Q(uintus) Caerellius Q(uinti) f(ilius) / Qui(rina), IIIvir cap(italis), quae(stor) / pro pr(aetore), tr(ibunus) pl(ebis), legatus39 / pro pr(aetore) ter, pr(aetor),

37 Tale iscrizione fu edita per la prima volta da De Rossi 1852, 57-59 e subito dopo da Henzen 1856, vol. III, 59 nr. 5368. 38 Per una più approfondita analisi di questa famiglia senatoria vd. Lapini 2014. 39 Già Mommsen 1865, 128 correggeva la desinenza di legato considerandola «Erratum fabrile pro legatus».

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praef(ectus) / frum(enti dandi) ex s(enatus) c(onsulto) {s}40, / leg(atus) Tib(eri) Caesaris Aug(usti), / proco(n)s(ul), / ex testamento [[------]] b) Q(uinto) Caerellio M(arci) f(ilio) / Qui(rina) patri, tr(ibuno) milit(um), / quae(stori), tr(ibuno) pl(ebis), praetori, / leg(ato) M(arci) Antoni, proco(n) s(uli).

Le notizie contenute in questa dedica funeraria consentono infatti di delineare uno stemma familiare e di inserirlo in una griglia cronologica sufficientemente detta- gliata, compatibile con i dati biografici noti per la Cerellia corrispondente di Cicerone (Vd. Tavola genealogica I). Il primo esponente noto di tale famiglia, di cui sono forniti esplicitamente soltan- to il nome e il grado di parentela col Quinto cui è destinata la colonna B dell’epigrafe, è Marco Cerellio, il cui arco di vita, definito in base alle informazioni note sul figlio e sul nipote, ne fa un contemporaneo di Cicerone. Non c’è traccia di una sua carriera politica e si può quindi supporre che egli fosse stato un eques, probabilmente attivo nel remunerativo campo finanziario dell’ultimo secolo della Repubblica, forse con in- teressi anche nell’ambito del trasporto e della lavorazione dei cereali secondo quanto è stato possibile ricostruire, sempre su base epigrafica, per iCaerelli di II secolo d.C.41, il quale aveva fornito la base economica per la carriera politica dei suoi discendenti. Suo figlio è il Quinto Cerellio omaggiato nella colonna B dell’epigrafe e padre dell’omonimo committente del monumento funerario, il primo esponente della gens Caerellia di cui è attestata l’entrata in senato. Nella dedica funeraria sono esplicitate tutte le tappe del suo cursus honorum, che lo aveva portato a rivestire, all’apice della carriera, la carica di pretore e di legato antoniano, cui era probabilmente seguito il proconsolato. Sono in effetti proprio le ultime tappe di questocursus a consentire di fissare i primi punti fermi della griglia cronologica, pur lasciando aperto un arco tem- porale di circa quindici anni, a seconda dell’interpretazione data alla parte finale della dedica. Leggendo infatti leg(ato) M(arci) Antoni proco(n)s(ulis) la carriera di Quinto Cerellio padre termina con l’incarico di legato, da collocarsi secondo l’ipotesi di Hen- zen intorno agli anni 44-43, prima dell’istituzione del triumvirato, quando Marco Antonio si poteva fregiare del solo titolo di proconsole42. Al contrario con la lettura qui preferita, leg(ato) M(arci) Antoni, proco(n)s(uli), la carriera di Quinto Cerellio termina col proconsolato e, in accordo con l’interpretazione di Th. Mommsen, si po- sticipa notevolmente il suo incarico di legato antoniano, che dovrebbe essere colloca- to proprio negli anni finali del confronto con Ottaviano, nel 32-31 a.C., quando l’ex triumviro era ormai sprovvisto di un riconoscimento formale della propria autorità a

40 Ibid. 41 Vd. Lapini 2014, 432-436. 42 Così Henzen 1856, vol. III, 59.

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causa della scadenza dei poteri triumvirali e poteva quindi essere designato col solo nome43.

Dato che il ruolo di legato antoniano è il primo incarico di rango pretorio di Quin- to Cerellio padre, si può ipotizzare che questi lo abbia esercitato intorno ai 35/40 anni, arrivando così a stabilire quale sua data di nascita la fine degli anni 70 o l’inizio dei 60, una ricostruzione che rende il padre Marco un contemporaneo di Cicerone44 e che trova piena conferma nella carriera del figlio, l’omonimo Quinto Cerellio cui è dedicata la colonna A dell’epigrafe. Il cursus di quest’ultimo, che come quello paterno termina col proconsolato, ha i suoi punti più interessanti nella praefectura frumenti dandi ex senatus consulto, presu- mibilmente ottenuta poco dopo la sua istituzione nell’8 d.C.45, e nella carica di legato tiberiano, i pochi punti fermi che, uniti alle notizie dedotte dalla carriera paterna, permettono di definire meglio anche la vita di questo personaggio. Quinto Cerellio figlio dunque, dopo aver iniziato il suocursus honorum in età augustea, aveva ottenuto

43 Mommsen 1865, 129. 44 I figli di Cicerone erano del resto nati nel medesimo arco temporale ipotizzato per Quinto Cerellio legato antoniano. La primogenita Tullia era venuta alla luce tra il 79 e il 76 a.C., mentre la notizia della nascita dell’unico figlio maschio dell’oratore, Marco, è annunciata inAtt . I 2, 1, databile alla metà di luglio del 65 a.C.. Con tale inquadramento cronologico è concorde anche Suolahti 1955, 349 nr. 43, che data la pretura del medesimo Quinto Cerellio intorno al 40 a.C. 45 Vd. Alföldy, CIL², VI 1364 cf. 4686.

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le cariche più importanti sotto Tiberio, all’inizio del cui Principato, quando aveva tra i 50 e i 60 anni, era divenuto prima legato, presumibilmente di qualche legione, e poi proconsole46. In conclusione, sebbene non si abbia nessuna esplicita attestazione di un legame tra la corrispondente di Cicerone e i Caerelli ricordati in CIL, VI 1364, il fatto stesso che il periodo di visibilità della matrona sia coerente con l’arco di vita supposto per Marco Cerellio e con l’inizio della carriera politica di suo figlio Quinto, il futuro le- gato antoniano, e che essi siano gli unici membri di tale gens giunti alla ribalta della storia in età repubblicana, consente di ipotizzare che essi facessero parte di una mede- sima famiglia (Vd. Tavola genealogica II). Tale famiglia quindi, mentre arrivava a far entrare il suo primo esponente nell’ordo senatorius, mostrava anche nelle personalità femminili le caratteristiche tipiche delle matrone dell’élite, cioè educazione raffina- ta, ricchezza ed indipendenza nella gestione dei propri beni, un’indipendenza così evidente da rendere superfluo persino il riferimento formale ad un tutore nel caso delle questioni finanziarie e in generale l’associazione del nome matronale a quello dei congiunti di sesso maschile, benché essi fossero con ogni probabilità in vita e stessero inserendosi con successo nella politica romana.

46 Ibid.

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Cerellia: da ignota corrispondente di Cicerone a tipica esponente dell’élite

Il tentativo di inquadrare meglio le caratteristiche e le peculiarità di questa affasci- nante matrona vissuta nel I secolo a.C. non può spingersi oltre, ma i risultati fin qui raggiunti hanno comunque permesso sia di definire il probabile contesto nel quale si era sviluppato il suo rapporto con Cicerone che di inferire attraverso la sua vicen- da interessanti informazioni sulle prerogative culturali e patrimoniali delle matrone dell’élite sue contemporanee. Cerellia era in effetti apparsa come una figura anomala all’interno dell’epistolario ciceroniano: ella era infatti per deduzione una corrispondente brillante, secondo i dati disponibili una matrona colta e dotata di ingenti mezzi, condizione che portava a supporre la possibilità per i suoi congiunti di inserirsi nell’agone politico, ma veniva tuttavia designata senza alcun riferimento ai membri maschili della famiglia, com’è invece usuale per le matrone dell’élite. È stata l’indagine epigrafica a fornire i pos- sibili legami parentali della matrona, con CIL, VI 1364, l’epigrafe che ha reso noti i nomi degli appartenenti ad una famiglia all’interno della gens Caerellia vissuti in epo- ca compatibile con la corrispondente di Cicerone, i quali, dopo aver probabilmente beneficiato delle nuove opportunità apertesi dopo la guerra sociale, si erano inseriti con successo nella vita politica. Tale ricostruzione ha permesso quindi di supporre una parentela – non si può stabilire di che tipo, ma sicuramente all’altezza di Marco Cerellio – tra Cerellia e l’unica famiglia della sua gens che era arrivata alla ribalta della storia alla fine dell’età repubblicana (Vd. Tavola genealogica II). A questo schema genealogico è stato possibile unire un ulteriore tassello grazie alla comparsa di Cerellia nell’epistolario ciceroniano in occasione del matrimonio dell’o- ratore con Publilia, la cui famiglia sarebbe ricorsa proprio a questa matrona come mediatrice durante le lunghe trattative sul divorzio. Cerellia in effetti, se legata esclu- sivamente a Cicerone, avrebbe avuto veramente pochi mesi – quei quattro che inter- corrono tra il fidanzamento tra l’oratore e Publilia e la morte di Tullia – per conoscere la giovane sposa di Cicerone e decidere di difenderne le ragioni contro quelle del ma- rito; al contrario, presupponendo una loro precedente parentela, si spiegherebbe con facilità il suo attivismo nella faccenda oltre che la definizione dinecessaria con la quale ella viene qualificata dall’oratore inad Fam. XIII 72 (Vd. Tavola genealogica III). In base alla ricostruzione qui proposta l’instaurarsi di un legame tra i Caerelli ed i Publili è collocabile verso il 70 a.C., quando una matrona della generazione del Marco Cerellio nominato in CIL, VI 1364 si sarebbe unita in matrimonio col padre di Pu- blilia moglie di Cicerone. Questa unione avrebbe permesso ai Caerelli in fase di cre- scita economica e sociale di beneficiare del collegamento con unagens italica di solide tradizioni e di notevoli mezzi finanziari ed in un secondo tempo avrebbe addirittura offerto loro la possibilità di stabilire una parentela, anche se indiretta e fugace, con

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uno dei personaggi più illustri di Roma, Marco Tullio Cicerone, e proprio all’epoca in cui il Quinto Cerellio futuro legato antoniano iniziava da homo novus il suo cursus honorum.

L’ipotesi fin qui seguita e sostenuta da vari indizi consente quindi di considerare Cerellia come una tipica esponente di quella classe dirigente senatorio-equestre che si andava rinnovando con la nuova linfa fornita dalle famiglie italiche, motivo per cui le prerogative culturali e patrimoniali ed anche la tendenza a agire senza interme- diari riscontrate nell’esperienza di questa matrona possono essere interpretate come caratteristiche delle matrone appartenenti all’élite sue contemporanee e non più come peculiarità di alcune esponenti eccezionali della nobilitas, secondo la spiegazione che ne viene spesso data. Ne è riprova un evento che si sarebbe verificato circa un anno dopo l’ultima citazione di Cerellia nell’epistolario ciceroniano47 e che appare quanto mai sconcertante alla luce della tradizionale visione matronale. Si tratta della protesta messa in atto da circa 1400 matrone che avevano subito un tentativo di tassazione dei

47 Att. XV 26, scritta il 2 luglio del 44 a.C.

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loro patrimoni da parte del secondo triumvirato poiché esse, probabilmente orfane o vedove o comunque esenti dalla potestas paterna e dalla manus maritale, sfuggivano al censimento ma erano detentrici di patrimoni personali di rilievo, divenuti troppo appetibili per essere trascurati nel corso dell’ennesima guerra civile. Esse tuttavia non subirono passivamente la misura presa d’autorità, ma capeggiate da Ortensia, la figlia del grande oratore Q. Ortensio Ortalo, osarono scendere nel foro e prendere possesso di uno spazio pubblico per rivendicare i loro diritti di esenzione fiscale, ottenendo, se non la completa abrogazione dell’editto, almeno la forte diminuzione del numero delle tassabili, ridotte secondo le testimonianze antiche da 1400 a 40048. Questa vi- cenda infatti non soltanto fornisce una conferma dell’alto numero di matrone che si trovavano ormai a possedere ingenti patrimoni, ma illumina due ambiti più sfuggenti che l’analisi svolta ha permesso di mettere in rilievo. Da un lato mostra un ulteriore esempio di quella formazione culturale ampia che è stato possibile verificare nella bio- grafia di Cerellia, la stessa che avrebbe permesso ad Ortensia di parlare in pubblico con efficacia, un’attitudine difficile da improvvisare, e dall’altro fornisce una prova quanto mai eclatante della capacità di agire in prima persona che, se appare rivoluzionaria nel panorama sociale dell’epoca, risulta più comprensibile dopo aver sperimentato lo spi- rito d’iniziativa e la risolutezza riscontrati nella vicenda di Cerellia, caratteristiche che dovevano essere comuni – dato l’episodio del 43 a.C. – a molte donne compatibili con la sua formazione culturale e col suo stile di vita, sia di ceto senatorio che equestre49.

48 App. BC IV 32-34 e Val. Max. VIII 3, 3-5. 49 Le conclusioni raggiunte in questa ricerca hanno beneficiato della ricca discussione che si è svolta durante il convegno veneziano, motivo per il quale colgo questa occasione per ringraziare vivamente le due organizzatrici, Francesca Cenerini e Francesca Rohr, e tutti i colleghi che hanno contribuito al dibattito.

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Polla Valeria e Valeria Polla: due matronae solo in apparenza omonime, tra Repubblica e Principato*

Fonti letterarie ed epigrafiche inquadrabili tra la tarda età repubblicana e i primi due secoli del Principato menzionano alcune matronae di nome Polla Valeria e Valeria Polla. L’attribuzione all’una o all’altra donna di alcune iscrizioni deve a mio avviso essere rivista perché credo sia stato commesso qualche errore nella datazione dei testi. Se per il Principato la documentazione sembra riferibile ad una sola Valeria Polla, più articolato è il quadro per i decenni finali della Repubblica e la prima età augustea1. Una Valeria Polla fu in età adrianea proprietaria di figlinae, che sono state localizzate nella media valle del Tevere e in cui lavorava come officinator un T. Travius Felix, noto da numerosi bolli2: erano passate in sua proprietà le figlinae Furianae; alle sue dipendenze potevano essere stati anche i probabili liberti Valeria Nice e Valerius Catullus attivi in figlinae dell’area tudertina-amerina3. Per il suo inquadramento cronologico e per il suo coinvolgimento in attività di natura produttiva sembra ipotizzabile la sua identificazione con un’omonima Valeria Polla, padrona di alcuni schiavi addetti alla contabilità e all’amministrazione finanziaria e precisamente: i dueactores Theagenes e Tyrannus e il dispensator Hilarus4. Ignote restano le sue relazioni familiari: del tutto ipoteticamente questa Valeria Polla è stata da alcuni collegata con la famiglia dei Messallae Corvini, da altri con quel L. Iulius Ursus Valerius Flaccus, che parimenti fu proprietario di figlinae in età adrianea5. Sembra da escludere, sia per il formulario dell’iscrizione sia per l’onomastica stessa, l’identificazione di questa matrona con quellaPolla Valeria, di cui è nota l’ara funeraria che presentava un’iscrizione incisa a grandi e belle lettere6, secondo un’ipotesi formulata

* Ringrazio Carlotta Caruso, Claudia Ciancaglini, Novella Lapini e Heikki Solin, per i consigli e le indicazioni che mi hanno generosamente fornito nella stesura del contributo. 1 Kajava 1994, 129-130. 2 CIL, XV 235, 1-22; LSO 245; cf. Steinby 1974-75, 43; Setala 1977, 199-200, 135-136. 3 Filippi - Stanco 2005, 125-126. 4 CIL, VI 9125 = EDR029425: [D]is M(anibus). / Laetae / Theagenes / Va l (eriae) Pollae act(or) / coniugi / piissimae; 9127 = EDR134544: Dis Manibus. / Vitali fecit / Tyrannus / Pollae nostrae / actor; 9349 = EDR0132563: D(is) M(anibus). / Par[i]di / Va l e r [i]ae / Polla[e] ser(vo); / vix(it) ann(os) XVII; / h(ic) [s(itus)] e(st); / Hila[r]us / Va l e r [i]ae / Polla[e] disp(ensator) / fratri o[pt]imo / et san[ctis]simo / unice de se [me]renti. Cf. PIR2, V 244. 5 Raepsaet-Charlier 1987, 608-609 nr. 776. 6 CIL, VI 28244 cf. p. 3918, vista l’ultima volta presso la sede dei Padri Barnabiti in via Tata Giovanni, a Roma.

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in CIL e ripresa nella RE7. L’uso di Polla come prenome (a meno che non si tratti di cognome anteposto al gentilizio) e lo stringato formulario sepolcrale, consistente nel solo termine ossa seguito dal genitivo del nome della defunta, impediscono di scendere troppo nel corso del I sec. d.C. e sembrano piuttosto suggerire un inquadramento cronologico entro gli inizi del Principato. Non abbiamo neppure elementi per dire se questa Polla Valeria fosse o meno un’antenata della Valeria Polla proprietaria di figlinae: sia il gentilizio Valerius, sia il cognome (Polla o Paulla)8 sono infatti troppo comuni per poter stabilire qualsiasi collegamento, così come non sappiamo se vi fosse una relazione tra la proprietaria di figlinae e la Valeria C.f. Paullina, il nome della quale, in caso nominativo, compare su di una fistula aquaria9. Difficile è però anche stabilire se vi fosse una qualche relazione tra laPolla Valeria dell’ossuario urbano e una almeno delle Pollae Valeriae note per l’età repubblicana da fonti epigrafiche e letterarie10. Sembra da escludere comunque una sua identificazione con Polla Valeria, figlia del proconsoleL. Valerius Flaccus11, che fu onorata a Magnesia sul Meandro, perché quest’ultima visse nella prima metà del I sec. a.C., se è giusta l’identificazione di suo padre con il console del 100 a.C. proposta da F. Coarelli12. A sua volta questa seconda Polla Valeria è certamente diversa dall’omonima matrona che fu sorella di C. Valerius Triarius13, un Pompeiano, amico di Cicerone, che lo scelse come interlocutore nel dialogo dei primi due libri del De finibus e amico anche di L. Manlius Torquatus e di M. Iunius Brutus. Triario partecipò alla battaglia di Farsalo, influenzando a quanto pare le scelte tattiche dello stesso Pompeo14. Morì probabilmente in Africa nel 45 a.C.15, nominando Cicerone tutore dei suoi figli.

7 RE, VIII A, 1955, 259 nr. 406 (Hanslik). 8 Kajanto 1965, 244. 9 CIL, XV 7561; cfr. PIR2, V 242. 10 Cf. Shackleton Bailey, I, 1977, 422. 11 IvMag. 146. 12 Coarelli 1982, 438-440. 13 Broughton 1960, 66-67. 14 Caes. civ. III 92, 2: Sed Pompeius suis praedixerat, ut Caesaris impetum exciperent neve se loco moverent aciemque eius distrahi paterentur; idque admonitu C. Triarii fecisse dicebatur, ut primus incursus visque militum infringeretur aciesque distenderetur, atque in suis ordinibus dispositi dispersos adorirentur. 15 Cic. Brut. 266: Tum Brutus Torquati et Triari mentione commotus--utrumque enim eorum admodum dilexerat --: ne ego, inquit, ut omittam cetera quae sunt innumerabilia, de istis duobus cum cogito, doleo nihil tuam perpetuam auctoritatem de pace valuisse. Nam nec istos excellentis viros nec multos alios praestantis civis res publica perdidisset. Sileamus, inquam, Brute, de istis, ne augeamus dolorem. Nam et praeteritorum recordatio est acerba et acerbior exspectatio reliquorum. Itaque omittamus lugere et tantum quid quisque dicendo potuerit, quoniam id quaerimus, praedicemus.

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L’oratore16 ci parla di lui come uomo di lettere e valente oratore, di cui apprezzava severitas in vultu e pondus in verbis17. Primo esponente di rango senatorio di questa famiglia dovrebbe essere stato quel C. Valerius C.f. Triarius, governatore di Sardegna nel 77 a.C., che sul finire degli anni Settanta partecipò alla guerra mitridatica di Lucullo in veste di suo legato; a quegli anni risalgono ben quattro dediche onorarie in suo onore trovate a Delo18. Oltre a Gaio Valerio e a Polla Valeria, egli ebbe dalla moglie Flaminia un terzo figlio,P. Valerius Triarius, che nel 54 a.C. patrocinò la causa dei Sardi in un processo de repetundis contro M. Aemilius Scaurus. Quest’ultimo fu assolto, ma di nuovo, e questa volta con successo, attaccato dallo stesso Triario nel 53 a.C. con un’accusa de ambitu, fu mandato in esilio19. Polla Valeria, dopo un primo matrimonio finito con un divorziosine causa, a detta di Cicerone, che non riporta purtroppo il nome del marito (egli si limita a riferire che il divorzio era avvenuto nel giorno in cui l’uomo si accingeva a rientrare da un suo incarico provinciale), sposò nel 50 a.C., alla vigilia della guerra tra Cesare e Pompeo, il giovane cesariano Decimo Giunio Bruto Albino, che Cesare nel 52 a.C. ancora definiva adulescens20. Questo secondo matrimonio reggeva ancora alla fine di gennaio del 43 a.C., nonostante la posizione di D. Brutus si fosse fatta alquanto precaria21. Non abbiamo elementi sufficienti per identificare il primo marito Polladi , anche perché ignoriamo la provincia dove egli era stato inviato: poteva trattarsi di un promagistrato o di un legato del governatore, poteva essere un Pompeiano o un Cesariano. Mi chiedo, però, se il divorzio non fosse servito in quel delicato frangente storico a sancire l’alleanza politica tra una famiglia senatoria vicina a Pompeo, come quella dei Valerii Triarii, e il fedele legato di Cesare nel lungo decennio delle guerre galliche. D. Bruto rimase del resto dalla parte di Cesare anche durante la guerra civile:

16 Cic. Att. XII 28 (24 marzo 45): … de Triario bene interpretaris voluntatem meam. Tu vero nihil nisi ut illi volent. Amo illum mortuum, tutor sum liberis, totam domum diligo. 17 Cic. Brut. 265: … me quidem admodum delectabat etiam Triari in illa aetate plena litteratae senectutis oratio. Quanta severitas in voltu, quantum pondus in verbis, quam nihil non consideratum exibat ex ore! 18 RE, VIII A, 1955, 232-234 nr. 363 (Vollkman). 19 RE, VIII A, 1955, 234 nr. 367 (Vollkman). 20 Cic. fam. VIII 7, 2: Paulla Valeria, soror Triari, divortium sine causa, quo die vir e provincia venturus erat, fecit. Nuptura est D. Bruto. Mundum rettulerat. Sulla definizione di adulescens: Caes. gall. VII 9, 1; 87, 1. Cf. RE, VIII A, 1955, 244 nr. 395 (Münzer); RE, Suppl. V, 1931, 371 (Münzer); Shackleton Bailey 1995, 104. Sulla competizione tra Cesare e Pompeo alla vigilia della guerra civile: Gagliardi 2011. 21 Cic. fam. XI 8, 1: Eo tempore Polla tua misit ut ad te, si quid vellem, darem litterarum, cum quid scriberem non habebam. Omnia enim erant suspensa propter expectationem legatorum qui quid egissent nihildum nuntiabatur.

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pretore nel 45 a.C., solo alla fine passerà dalla parte dei Cesaricidi: sarebbe stato proprio lui a convincere Cesare, che peraltro lo aveva inserito nel testamento tra gli eredi di secondo grado, a recarsi in Senato nonostante i timori della moglie22. D. Bruto ricoprì poi, in ossequio alle disposizioni dello stesso Cesare, il proconsolato della Cisalpina nel 44/43 a.C. ed era destinato a divenire console nel 42 a.C., se nello stesso 43 a.C., dopo la guerra di Modena, non fosse stato fermato e ucciso (primo dei Cesaricidi), mentre tentava di raggiungere Bruto e Cassio in Macedonia23. A partire dal 43 a.C. anche di Polla Valeria si perdono le tracce. Non sappiamo cosa ne sia stato di lei e se anche lei avesse optato per il suicidio, come farà ad esempio Porcia, moglie di M. Iunius Brutus, l’anno seguente24. Il modello per un simile matrimonio tra esponenti di fazioni opposte era stato fornito un decennio prima dallo stesso Pompeo, che aveva sposato nel 59 a.C. Giulia, figlia di Cesare, prematuramente morta nel 54 a.C.25; anche in seguito non mancheranno del resto altri esempi famosi26. Presento in questa sede un inedito documento epigrafico urbano, che potrebbe riferirsi proprio a questa matrona27. Si tratta di un cippo centinato in travertino accuratamente lavorato a gradina nella parte che sporgeva da terra e semplicemente sbozzato nella parte destinata a essere interrata, secondo una tipologia frequente a Roma nel I sec. a.C., ma ancora documentata nella prima età imperiale. Se ne ignora la provenienza. Si conserva da almeno un quarantennio nel Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano (Giardino dei

22 Cf. Broughton 1952, 328, 347; RE, Suppl. V, 1931, 369-385 nr. 55a (Münzer). Sull’infuocato clima politico venutosi a creare con la morte di Cesare (44-43 a.C.): Ortmann 1988; Cristofoli 2002; Cristofoli 2014, 93-97; Rohr Vio 2014, 101-101-119; Mangiameli 2015. 23 Cf. Mangiameli 2012, in particolare 54-56, 109-117. 24 Rohr Vio 1998, 94-96; Cenerini 2012. 25 Cf. Manzoni 2002; Blasi 2012, 179-181. 26 Oltre ai casi celebri di Antonio con Ottavia e di Ottaviano con Livia (per quest’ultimo: Flory 1988; cf. Huntsman 2009), sappiamo che era stato progettato il matrimonio tra il figlio di Lepido e una figlia di Antonio:Weigel 1992, 47-48, 148 n. 15. Nel clima infuocato della tarda Repubblica altre famiglie senatorie ricorsero allo strumento del matrimonio per rinsaldare invece i legami tra esponenti della stessa fazione; è il caso delle unioni tra L. Domizio Enobarbo e Manlia Torquata, L. Cornelio Cinna e la figlia di Pompeo, M. Giunio Bruto e Porcia, figlia di Catone, vedova di M. Bibulo (mentre Bruto in prime nozze aveva sposato la nipote di Clodio, da cui divorziò nel giugno del 45), e ancora tra Calpurnio Bibulo e Domizia Calvina e tra Calpurnia, sorella dello stesso Bibulo, e Messalla Corvino: su questo tema vd. ora Canas 2014. In generale cf. Corbier 1990 e per il periodo in esame Hinard 1990; Bruhns 1990. 27 Ringrazio Rosanna Friggeri, direttrice del Museo Nazionale Romano - Terme di Diocleziano, per avere autorizzato lo studio e la pubblicazione dell’iscrizione.

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Cinquecento, davanti all’Aula X). Senza inv. Il cippo misura cm 64 x 33 x 16; le lettere sono alte cm 1,5-1. Vi si legge senza difficoltà il seguente testo, inciso rispettando con cura un’ordinatio ad asse centrale (Fig. 1):

Hyleis Pol(lae)

Valeriae (scil. serva) psa=

ltria. Fecit Scandilius

Rufus.

Figura 1

La defunta porta un cognome grecanico che non pare altrimenti attestato. Connettere Hyleis con Hyle / Hyles (peraltro molto raro)28 sembra sul piano morfologico difficile29. Ma esiste forse un’altra spiegazione. In greco è attestato il toponimo Ὕλλα (città dell’Illiria) con i relativi etnici Ὑλλεύς / Ὑλληίς30. Dunque è in teoria possibile che il vero nome della psaltria fosse con la labiale geminata (Hylleis): anche se finora non è documentato come nome proprio, sappiamo che i Romani ricorrevano spesso alla geografia storica (oltre che alla mitologica greca) nella scelta dei nomi per i loro schiavi31. Polla in quest’iscrizione è verosimilmente un prenome (piuttosto che cognome preposto), non solo perché anteposto al gentilizio, ma soprattutto per il fatto che è stato abbreviato alle prime tre lettere. D’altra parte Polla è proprio uno dei prenomi femminili più diffusi in età repubblicana32. Il dedicante, Scandilius Rufus, porta un gentilizio non comune a Roma e un cognome, molto diffuso, ma attestato quasi

28 CIL, VI 11583 = EDR080685; CIL, VI 38252 = EDR0119300. Cf. Solin 2003, 1230. 29 Come mi fa notare H. Solin, nessuno dei nomi con la desinenza -eis ha come punto di partenza un nome in -e (cf. Solin 2003, 1524). A lui sono anche debitore dell’ipotesi che nel nostro testo Hyleis stia per Hylleis e che vada messo in relazione con il toponimo greco. 30 Pape - Benseler 1884, 1578; vd. in particolare Steph. Byz.: ἔστι καὶ πόλις Ὕλλη. τὸ ἐθνικὸν Ὑλλεὺς καὶ θηλυκὸν Ὑλληίς; cf.Vita Apoll. Rhod. 4, 535: Ἀγανὴν Ὑλληίδα. 31 Cf. Solin 2003, 616-702. 32 Kajava 1994, 50-59, 176-181.

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esclusivamente per uomini di nascita libera33. Colpisce in un’epoca così risalente l’omissione del prenome dell’uomo, che qui evidentemente sarà dovuta solo a ragioni di spazio. Meritano in particolare di essere menzionati tra i personaggi di Roma che presentano lo stesso gentilizio una Scandilia M.l. Mneme, [-] Scandilius [-] l. Alexa e M. Scandilius Hedonus, perché sono ricordati su termini sepulcrorum urbani analoghi a quello di Hyleis34. Potrebbe trattarsi di personaggi riconducibili a uno stesso ramo di Scandilii caratterizzato dal prenome Marcus. Esisteva anche un ramo con prenome Publius, cui apparteneva quel P. Scandilius, cavaliere romano, che fu attivo in Sicilia nella riscossione delle tasse nel 72 a.C.35. Dobbiamo perciò ancora più rammaricarci di non conoscere il prenome di Scandilio Rufo. L’ipotesi che la Polla Valeria qui citata come padrona di Hyleis possa identificarsi con la moglie di D. Giunio Bruto si fonda non solo sulla cronologia del documento, compatibile con gli anni della tarda Repubblica in cui visse la matrona, ma anche sulla professione esercitata dalla schiava e che presuppone una famiglia di un certo livello: Hyleis era stata infatti una psaltria. La radice del termine rinvia al verbo greco psallein, con il quale si indicava genericamente il modo di suonare gli strumenti a corda utilizzando le dita senza plettro. Nel mondo romano tra questi tipi di strumento erano particolarmente apprezzati la cetra e la lira, mentre l’arpa non riscosse altrettanto successo. Con il termine di psaltes / psaltria a Roma devono probabilmente intendersi i soli suonatori di cetra senza plettro; con il tempo tuttavia il termine indicò anche chi cantava al suono della cetra. A differenza di quanto noto per il mondo greco, psaltai e psaltriae a Roma non si esibivano in contesti drammatici o agonistici, ma solo nelle case di ricchi privati. Il termine compare spesso nelle commedie di Plauto e Terenzio, dalle quali pare di capire che queste suonatrici di cetra avessero anche la funzione, a Roma, di intrattenere gli invitati durante i banchetti e le feste private vestendo all’occorrenza anche i panni delle cortigiane36. A Roma sono note finora da epigrafi solo altre trepsaltriae , tutte liberte, mentre la nostra morì a quanto pare schiava: Gellia Hymnis, morta a 18 anni, Iconium l(iberta) e Licinia C.l. Erotis, tutte e tre vissute a quanto pare qualche tempo dopo la nostra Hyleis, dal momento che il loro nome compare su tabelline di colombario37. Particolarmente interessante il caso di Licinia Erotis, perché, come Hyleis, fu psaltria nell’ambito di una

33 Kajanto 1965, 121, 134. 34 CIL, VI 38867a = EDR125568; AEp 1991, 108 = EDR001683; AEp 1991, 156 = EDR001742. 35 Cic. Ve r r . III 135. 36 TLL, X, 2, 2407. 37 NS, 1914, 388 = EDR004984; CIL, VI 10137 = EDR107487; CIL, VI 10138 = EDR107488.

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famiglia senatoria (si definisce infattipsaltria Murenae)38. Le psaltriae sono solo una delle varie categorie di suonatrici private: accanto a loro sono infatti testimoniate dalle fonti tibicinae, fidicinae e citharistriae39. Le psaltriae in particolare non godevano di buona fama, a causa dei comportamenti lascivi e immorali attribuiti loro. La loro introduzione, al fine di allietare i commensali nei banchetti, veniva fatta risalire da Livio a Gneo Manlio Vulsone, che al suo ritorno dall’Asia nel 187 a.C. avrebbe portato con sé, oltre al bottino, psaltriae e sambucistriae40. Contro di esse si scatenerà poi la polemica dei Padri della Chiesa che invitavano a sostituirle con esecutori di inni e canti spirituali, esortando a limitare il diffuso fenomeno dei banchetti musicali pagani, ritenuti pericolosi per l’integrità morale dei fedeli. Non meraviglia dunque che nella seconda metà del IV sec. Girolamo ammonisse i fedeli a espellere dalle case cantor ut noxius, fidicinas et psaltrias et istius modi chorum diaboli41. Teodosio II emanò alla fine un provvedimento con il quale si vietava a chiunque di comprare, istruire, vendere e impiegare nei banchetti o spettacoli cantanti e musicisti di sesso femminile con preciso riferimento alle psaltriae42. La bassa condizione giuridica è, come abbiamo visto, elemento comune alle psaltriae urbane, in conformità al ritratto che emerge anche dalle fonti letterarie. Evidente è la differenza tra la situazione romana e quella del mondo greco, dove invece lopsaltes e la psaltria erano divenute figure musicali professioniste43. È da precisare inoltre che iscrizioni latine relative a psaltriae e psaltai provengono finora solo dall’Urbe. Poche a Roma sono anche le attestazioni epigrafiche relative ai colleghi maschi, gli psaltai, che tuttavia attorno agli anni in cui visse Hyleis dovevano essere abbastanza numerosi da costituire una propria associazione (la synodos magna psaltum) e costruire un proprio sepolcro sull’antica via Labicana, al pari della synodos cantorum Graecorum44. Il riferimento letterario più prossimo al nostro testo ci è fornito tuttavia da Cicerone, che nel suo attacco a Clodio arrivava ad affermare che egli si fosse introdottoin coetum mulierum pro psaltria45. Il quadro non muta se prendiamo in esame le poche attestazioni epigrafiche urbane relative a suonatrici di altri strumenti: in particolare si saranno esibite in feste e banchetti privati sul finire della Repubblica e nei primi decenni dell’Impero lachoraule Licinia M. Crassi lib. Selene, che con l’aulo accompagnava i cori nella domus del suo patrono,

38 PIR2, L 219; in generale sui Licinii Murenae: Arkenberg 1993. 39 Péché 2002. 40 Liv. XXXIX 6, 8-9. 41 Hier. ep. LIV 13, 1. 42 Aur. Vict. Caes. XLVIII 10. In generale vd. ora Resta 2014. 43 Peché 2002. 44 CIL, VI 33968 cf. p. 3906 = ILS 5246 = EDR109274. 45 Sest. 116.

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membro dell’illustre casata dei Licinii Crassi46, e le due symphoniacae di Ottavia, sorella del principe, in grado di suonare vari strumenti musicali nelle orchestre private47. Il quadro si completa con una Fulvia Copiola, liberta di una donna, tibicina morta nella prima età imperiale a soli 15 anni48. Il nuovo documento relativo alla psaltria Hyleis, di condizione servile e al servizio di una matrona romana sul finire della Repubblica, conferma il quadro già noto49, ma viene ora a costituire a quanto pare il più antico testo epigrafico pertinente a questa categoria di musiciste. Ci fornisce inoltre, forse, la prima attestazione epigrafica diPolla Valeria, una donna appartenente all’illustre famiglia senatoria dei Valerii Triarii, convolata a non meno illustri per quanto sfortunate nozze.

46 CIL, VI 10122 = EDR111242. 47 CIL, VI 33372; 33373 = IGUR, II /1 269 = EDR111867. 48 CIL, VI 33970 = EDR108659. 49 Cf. Wille 1967, 315-324.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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MatronaeOK.indb 117 21/06/16 08:55 GIAN LUCA GREGORI

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MatronaeOK.indb 118 21/06/16 08:55 POLLA VALERIA E VALERIA POLLA: DUE MATRONAE SOLO IN APPARENZA OMONIME

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MatronaeOK.indb 119 21/06/16 08:55 GIAN LUCA GREGORI

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MatronaeOK.indb 120 21/06/16 08:55 BEATRICE MANZO

La parola alle matrone. Interventi femminili in sedi pubbliche nell’età tardo repubblicana

Nel corso dell’età tardo repubblicana gli ambiti di azione delle donne compresero progressivamente accanto alla domus, sede tradizionale delle attività femminili, anche i contesti pubblici, dalle strade ai luoghi in cui si svolgevano momenti della vita istitu- zionale, come il foro, che per tradizione erano di esclusiva fruizione maschile. In questa fase storica le iniziative promosse dalle matrone in queste sedi ebbero di frequente na- tura politica. Obiettivo di questo lavoro, che prende l’avvio dalle ricerche sempre più numerose e approfondite portate avanti negli ultimi anni dalla critica, è verificare se l’intromissione della componente femminile nelle questioni della res publica, attraverso un’azione nei luoghi della politica, portò le donne ad appropriarsi nel tempo anche delle modalità comunicative indispensabili per tale genere di attività, fino ad allora pressoché esclusivamente maschili. A questo scopo si considereranno tre episodi, datati tra il 43 e il 42 a.C., considerati assai rappresentativi sia dell’occupazione da parte delle donne di spazi pubblici sia delle modalità comunicative attivate in questo tempo di innovazione e trasformazione da parte della componente femminile della società1: l’azione di Fulvia che nel 43 a.C. si recò come supplice presso le domus dei senatori, affidandosi alla ge- stualità e ad una comunicazione verbale ancora limitata al lamento; l’iniziativa di Giulia che per difendere il fratello proscritto a cavallo tra il 43 e il 42 a.C. osò sfidare suo figlio Marco Antonio di fronte ai suoi colleghi; infine il discorso di Ortensia che davanti ai triumviri si appropriò della parola nella sua forma più complessa, il discorso, dimostran- do l’abilità dialettica e la conoscenza delle vicende della res publica che erano proprie di alcune donne. Dopo la sconfitta subìta a Modena il 21 aprile del 43 a.C., Antonio aveva trovato rifugio nella Gallia Narbonense, dove si ricongiunse a Lepido, con il quale raggiunse un’intesa in ottica antiottavianea2. Il Senato intanto a Roma stava discutendo in meri- to alla proposta di Cicerone di dichiarare Antonio hostis publicus3, provvedimento che

1 Per un inquadramento del rapporto donne e politica in età tardo repubblicana cf. tra tutti Balsdon 1962; Scuderi 1982, 41-84; Cantarella 1985; Gardner 1986; Petrocelli 1989; Bauman 1992; Gafforini 1992, 153-172; Pomeroy 1997; Cluett 1998, 67-84; Dixon 2001; Cenerini 2002; Cantarella 2006; Brennan 2012, 354-366; Soraci 2013, 81-108. 2 Sulla guerra di Modena cf. Syme 1939 (2014), 127-152; Traina 2003, 49-59; Cristofoli - Galimberti - Rohr Vio 2014, 101-123. 3 App. BC III 50, 203: «Cicerone e i suoi amici chiesero che ormai lo si dichiarasse nemico,

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avrebbe provocato pesanti ripercussioni sul destinatario della condanna e sulla sua fa- miglia, quali la confisca dei beni e l’impossibilità per i figli di intraprendere in futuro il cursus honorum4. La notte precedente e il giorno in cui il Senato avrebbe dovuto votare il provvedi- mento5, Fulvia, accompagnata dal figlio, dalla suocera Giulia e da altri congiunti, si vestì a lutto, vagò per la città, bussò alle domus dei senatori che avrebbero votato di lì a poco, piangendo, gridando e proferendo lamenti6:

Ma la madre, la moglie, il figlio ancora bambino di Antonio e gli altri parenti e amici per tutta la notte corsero supplici alle case dei potenti, e la mattina seguen- te, vestiti a lutto, li avvicinavano mentre si dirigevano in Senato, gettandosi ai loro piedi tra lamenti e gemiti, e strepitavano davanti alle porte. Alcuni senatori, al sentire quelle voci, al vedere quello spettacolo e quel mutamento così subita- neo, si commossero, e Cicerone, preoccupato, parlò così7.

giacché contro il volere del Senato si prendeva con la forza la Cisalpina facendone un baluardo contro la patria, e aveva trasferito in Italia l’esercito affidatogli per le operazioni contro i Traci» (Κικέρων μὲν δὴ καὶ οἱ Κικέρωνος φίλοι πολέμιον αὐτὸν ἠξίουν ἤδη ψηφίσασθαι, τὴν Κελτικὴν ἀκούσης τῆς βουλῆς ἐς ἐπιτείχισμα τῆς πατρίδος βιαζόμενον ὅπλοις καὶ τὸν ἐπὶ Θρᾷκας αὐτῷ δεδομένον στρατὸν ἐς τὴν Ἰταλίαν διαγαγόντα). Cf. anche Cic. Phil. 7, 21; D.C. XLVI 28, 3. Sulla dichiarazione di Antonio come hostis publicus cf. Syme 1939 (2014), 182-196; Traina 2003, 49-59; Cresci Marrone 2013, 49-57. 4 Intuendo la gravità della situazione, anche Giunia, moglie di Marco Emilio Lepido, decise di intervenire con l’aiuto della madre Servilia. Le due donne scelsero di abbandonare Lepido al suo destino e di agire unicamente per tutelare gli interessi dei figli. Giunia si rivolse dunque diret- tamente a Cicerone, promotore della proposta, per convincerlo a trasferire la patria potestas dei figli da Lepido al fratello Marco Giunio Bruto. Sulla vicenda cf. Cic.ad Br. I 13; 18. Su Giunia Seconda cf. Münzer 1918, 1110-1111; Rohr Vio 2012, 109-117. 5 La collocazione temporale dell’episodio presenta alcune ambiguità: Cicerone aveva avanza- to più volte la richiesta di dichiarare Antonio nemico pubblico, senza successo. Il coinvolgimento di Fulvia con tutta probabilità è da collocare il 26 aprile e il fallimento del suo tentativo si tra- dusse, il 30 giugno, nella dichiarazione di Antonio nemico pubblico da parte del senato. Anche se il provvedimento sarebbe divenuto esecutivo solo dal primo settembre, Fulvia dovette fronteg- giare già nei mesi estivi difficoltà finanziarie, per le quali si giovò dell’aiuto di Attico, probabil- mente connesse a questa situazione, che tuttavia si risolse con l’accordo tra i triumviri. Vd. Cic. fam. X 35; XII 10, 1; Cic. ad Br. I 15, 8; 10-11. 6 L’uso strumentale dell’abbigliamento funebre per ottenere un risultato politico fu sperimen- tato nel 133 a.C. da Tiberio Gracco. Vd. infra. 7 App. BC III 51, 211: Ἀντωνίου δὲ ἡ μήτηρ καὶ ἡ γυνὴ καὶ παῖς ἔτι μειράκιον οἵ τε ἄλλοι οἰκεῖοι καὶ φίλοι δι’ ὅλης τῆς νυκτὸς ἐς τὰς τῶν δυνατῶν οἰκίας διέθεον ἱκετεύοντες καὶ μεθ’ ἡμέραν ἐς τὸ βουλευτήριον ἰόντας ἠνώχλουν, ῥιπτούμενοί τε πρὸ ποδῶν σὺν οἰμωγῇ καὶ ὀλολυγαῖς καὶ μελαίνῃ στολῇ παρὰ θύραις ἐκβοῶντες. οἱ δὲ ὑπό τε τῆς φωνῆς καὶ τῆς ὄψεως καὶ μεταβολῆς ἐς τοσοῦτον

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MatronaeOK.indb 122 21/06/16 08:55 LA PAROLA ALLE MATRONE

Fulvia e Giulia attivarono contemporaneamente due canali comunicativi, quello ge- stuale e quello verbale, per suscitare la pietà e la commozione dei senatori convocati a dirimere la questione, trasmettendo loro l’angoscia e la precarietà della condizione che avrebbero portato i loro congiunti alla perdita dei diritti civili. Esse a questo scopo scelsero di riprodurre le modalità comunicative proprie della ritualità funebre, che tra- dizionalmente concedeva maggiore spazio di azione alle donne8 e che Fulvia aveva già avuto modo di sperimentare nel suo possibile uso politico in occasione del funerale di Clodio9. Così le matrone misero in scena una sorta di funerale senza salma, in cui Marco Antonio Antillo, figlio ed erede di Marco Antonio, costituiva il rappresentante simboli- co del defunto e traduceva per imagines il concetto secondo il quale dichiarare il trium- viro nemico pubblico equivaleva alla morte non solo sua, ma anche della sua famiglia e soprattutto di suo figlio, che diventava la vera vittima del provvedimento. Dalla descrizione della vicenda tramandata da Appiano non è possibile delineare con certezza la collocazione spaziale dell’episodio, che sembrerebbe coinvolgere una plura- lità di ambienti. L’azione ebbe inizio la notte precedente alla votazione, quando Fulvia bussò alle domus dei senatori accompagnata da amici e familiari, e si concluse la mattina seguente quando la donna seguì coloro che avrebbero votato mentre si recavano alla seduta del Senato. L’ambientazione pubblica, lungo le strade di Roma forse fino al foro, e la questione in discussione, nella quale le matrone tentarono di interferire, suggerisco- no di comprendere questo tra gli interventi femminili dalla marcata valenza politica e depositari di una forte carica innovativa. Rispetto alle vicende che analizzeremo successivamente, in questo caso la modalità comunicativa di cui si servirono le matrone si mantiene almeno apparentemente nel sol- co della tradizione: la voce infatti viene utilizzata solo nelle sue forme più primordiali, quali suoni disarticolati, lamenti e gemiti. L’obiettivo politico viene perseguito attraver-

αἰφνιδίου γενομένης ἐκάμπτοντο. δείσας δ’ ὁ Κικέρων ἐβουληγόρησεν ὧδε. 8 Sul ruolo delle donne nella ritualità funeraria cf. Šterbenc Erker 2009, 135-160; Valentini 2012, 119-199. 9 Publio Clodio Pulcro morì il 18 gennaio del 52 a.C. assassinato dalle bande armate di Tito Annio Milone, che concorreva per il consolato. In questa circostanza Fulvia espose il cadavere martoriato e ancora insanguinato del marito nell’atrio della loro domus sul Palatino, mostrando irritualmente le ferite ad amici e clientes che si recavano a rendergli l’ultimo omaggio. La don- na mise in atto una precisa strategia politica trasformando la cerimonia funebre in un funus se- ditiosum, che spingesse il popolo ad una reazione violenta contro gli assassini di Clodio e che trasformasse la figura del tribuno ucciso in un simbolo politico. Fulvia insomma seppe sfruttare l’uccisione del marito per ricompattare la factio popularis che si riconosceva nella figura del tribu- no e che ritrovò l’unità proprio con il suo assassinio. Sul ruolo di Fulvia in occasione del funerale di Clodio cf. Fraschetti 1994, VII-XX; Fezzi 2008, 107-112; Brennan 2012, 356-358; Rohr Vio 2013, 21-44.

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so l’accostamento di due sfere sensoriali, il suono e la vista: il pianto e le suppliche costi- tuiscono il veicolo verbale della comunicazione, la veste luttuosa invece quello visivo10. Fulvia agì a protezione dell’incolumità fisica del marito e dei suoi interessi mentre costui si trovava lontano da Roma ed era dunque impossibilitato a difendersi da solo. Le conseguenze più evidenti del suo intervento tuttavia sarebbero andate a vantaggio dei figli, ai quali desiderava garantire la possibilità di mantenere inalterato il propriostatus sociale e l’opportunità di intraprendere in futuro la carriera politica, conservando il be- nessere economico e il prestigio sociale della gens: in questo senso l’azione della matrona potrebbe rientrare nei doveri ispirati ad ogni matrona dalla pietas nei confronti dei figli e pertanto sottrarsi a qualsivoglia accusa in termini di delegittimazione.

Tra il novembre del 43 e il 42 a.C. ebbe luogo il secondo intervento matronale che prendiamo in considerazione in questa analisi e che, rispetto al precedente, introduce alcuni elementi di novità. La protagonista è Giulia11, madre di Antonio, la quale si recò nel foro per difendere il fratello Lucio, inserito nelle liste di proscrizione per volere dello stesso Marco Antonio e arrestato mentre si nascondeva presso la casa della sorella12. La fase della vicenda presa in esame, raccontata da Appiano con dovizia di particolari, si svolse alla presenza dei triumviri riuniti probabilmente presso i Rostri:

Quanto a Lucio, zio di Antonio, lo tenne con sé senza farne mistero sua sorella, madre di Antonio, e a lungo i centurioni rispettarono anche lei, perché madre del

10 Sul ruolo di Fulvia nel contrastare l’approvazione del provvedimento cf. Traina 2003, 49-59; Rohr Vio 2013, 89-96; Rohr Vio 2014, 100-103. 11 Su Giulia cf. Münzer 1918, 892-893. 12 Nella prima fase della vicenda Giulia aveva dato asilo al fratello proscritto nascondendolo nella propria domus. Quando i triumviri mandarono alcuni centurioni per arrestarlo, la matrona si mise davanti alla porta d’ingresso della camera in cui era nascosto Lucio, spalancò le braccia e con il suo corpo impedì loro di passare. L’opposizione di Giulia non è solo fisica, dettata dall’o- struzione del suo corpo, ma anche ideologica poiché, frapponendosi tra i sicari e il fratello, sot- trasse alla cattura un proscritto e si oppose ad un provvedimento triumvirale. La fonte principale sulla prima parte della vicenda è Plu. Ant. 20, 5-6: «Suo zio Cesare, ricercato e inseguito, si rifu- giò presso la sorella; costei, quando i sicari si presentarono e tentarono di forzare l’ingresso della sua camera, si rizzò sulla porta e, aprendo le braccia, gridò “Non ucciderete Lucio Cesare, se prima non avrete ucciso me, la genitrice del vostro comandante” con questo suo comportamento sottrasse e salvò dalle loro mani il fratello» (ἐπιδεικνύμενος. ὁ δὲ θεῖος αὐτοῦ Καῖσαρ ζητούμενος καὶ διωκόμενος κατέφυγε πρὸς τὴν ἀδελφήν. ἡ δέ, τῶν σφαγέων ἐπιστάντων καὶ βιαζομένων εἰς τὸ δωμάτιον αὐτῆς, ἐν ταῖς θύραις στᾶσα καὶ διασχοῦσα τὰς χεῖρας ἐβόα πολλάκις“ οὐκ ἀποκτενεῖτε Καίσαρα Λεύκιον, ἐὰν μὴ πρότερον ἐμὲ ἀποκτείνητε τὴν τὸν αὐτοκράτορα τεκοῦσαν”. ἐκείνη μὲν οὖν τοιαύτη γενομένη διέκλεψε καὶ διέσωσε τὸν ἀδελφόν). Sulla vicenda cf. Lejeune 2012, 99-107; Rohr Vio 2014, 106-109.

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triumviro. Ma quando si disposero a usare le maniere forti, ella venne furente nel foro e disse ad Antonio, seduto con i colleghi sulla tribuna: “Mi autoaccuso, ὦ αὐτοκράτωρ, di avere accolto Lucio e di tenerlo ancora in casa, e lo terrò fin quan- do ci avrai ucciso tutti e due, visto che nel bando sono affisse uguali pene per chi accoglie i proscritti”. Egli allora, rimproverandola per essere sì una buona sorella, ma non una saggia madre (“non ora dovevi salvare Lucio, ma tenerlo a freno pri- ma, quando con il voto dichiarava tuo figlio nemico dello Stato”), dispose che il console Planco ordinasse per legge il reintegro di Lucio.13

L’azione della matrona è caratterizzata dalla ripetuta violazione delle norme di com- portamento tradizionali. Innanzitutto Giulia si recò in un luogo prettamente maschile, il cuore politico e decisionale di Roma, e le fonti non menzionano alcun accompagnato- re. La matrona intervenne in un contesto istituzionale non solo con la propria persona, ma soprattutto con la propria voce: prese la parola di fronte ai triumviri e pronunciò un discorso con il quale lanciò una doppia accusa, contro se stessa, per aver nascosto un pro- scritto, e contro Antonio, per aver promosso un provvedimento che condannava coloro che tentavano di proteggere i propri familiari. La vicenda risulta innovativa innanzitutto per lo spazio fisico in cui si svolse, ma soprattutto perché una donna osò parlare di fronte a un magistrato per contestare aper- tamente un provvedimento ufficiale. Il comportamento della matrona viene classificato dalle fonti come eccessivo, estremo, il tradimento della moderazione, tratto imprescin- dibile della condotta femminile, ma si giustifica perché estremo era stato il comporta- mento di Antonio, che non aveva esitato a far arrestare lo zio, violando i vincoli familiari. Il rapporto tra i due interlocutori è duplice e ambivalente. Da una parte essi sono legati dal vincolo di parentela più stretto, quello tra madre e figlio, e dunque, nonostante la dimensione pubblica in cui si svolge la vicenda, tendono apparentemente a riprodurre in pubblico le dinamiche proprie della dimensione familiare. Giulia era consapevole, infatti, che la sua incolumità fisica non era in pericolo, poiché Antonio avrebbe dovuto

13 App. BC IV 37, 156-158: Λεύκιον δέ, τὸν Ἀντωνίου θεῖον, ἡ Ἀντωνίου μήτηρ ἀδελφὸν ὄντα εἶχεν οὐδ’ ἐπικρύπτουσα, αἰδουμένων ἐς πολὺ καὶ τήνδε τῶν λοχαγῶν ὡς μητέρα αὐτοκράτορος. βιαζομένων δ’ ὕστερον ἐξέθορεν ἐς τὴν ἀγορὰν καὶ προκαθημένῳ τῷ Ἀντωνίῳ μετὰ τῶν συνάρχων ἔφη· “ἐμαυτήν, ὦ αὐτοκράτωρ, μηνύω σοι Λεύκιον ὑποδεδέχθαι τε καὶ ἔχειν ἔτι καὶ ἕξειν, ἕως ἂν ἡμᾶς ὁμοῦ κατακάνῃς·τὰ γὰρ ὅμοια καὶ τοῖς ὑποδεδεγμένοις ἐπικεκήρυκται.” ὁ δὲ αὐτὴν ἐπιμεμψάμενος ὡς ἀδελφὴν μὲν ἀγαθήν, μητέρα δὲ μεμψάμενος ὡς ἀδελφὴν μὲν ἀγαθήν, μητέρα δὲ οὐκ εὐγνώμονα (οὐ γὰρ νῦν χρῆναι περισῴζειν Λεύκιον, ἀλλὰ κωλύειν, ὅτε σου τὸν υἱὸν εἶναι πολέμιον ἐψηφίζετο), παρεσκεύασεν ὅμως Πλάγκον ὑπατεύοντα κάθοδον τῷ Λευκίῳ ψηφίσασθαι. Della vicenda dà tes- timonianza anche Cassio Dione, il quale tuttavia non aggiunge ulteriori particolari rispetto a quanto tramandato da Appiano. Cf. D.C. XLVII 8, 5.

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rispettare il vincolo di pietas filiale che lo obbligava nei confronti della madre e che mai avrebbe osato tradire tale legame alla presenza dei suoi colleghi riuniti14. Dall’altra tut- tavia Giulia scelse di rivolgersi al figlio non nell’ambiente privato e protetto delle mura domestiche, ma nel luogo pubblico e maschile per eccellenza, alla presenza dei più alti magistrati, e di relazionarsi con lui non come congiunto, ma come magistrato. I vincoli affettivi e le dinamiche private vengono dunque completamente ribaltati sia dal punto di vista spaziale che ideologico per lasciare spazio alla dimensione pubblica e istituzionale. Ancora una volta la progressiva appropriazione di spazi pubblici da parte di una ma- trona corrisponde all’evoluzione della condizione femminile conseguente all’emergen- zialità del momento. L’azione di Giulia permette di capire che nel corso del I secolo a.C. le donne in caso di necessità tendevano a ricorrere ad azioni anche individuali ed extra mores, riproducendo in sede pubblica quei comportamenti di cui prima si erano appropriate solo nel privato. Nello stesso periodo anche Ortensia15 parlò pubblicamente in rappresentanza delle millequattrocento matrone colpite dal provvedimento fiscale posto in essere dai trium- viri nel 42 a.C. a sostegno delle loro iniziative militari16:

Lo annunciarono ufficialmente e proscrissero millequattrocento donne, note in particolare per le loro ricchezze; esse dovevano valutare i loro patrimoni e versare all’erario per le necessità della guerra ciascuna quello che i triumviri avrebbero stabilito; chi avesse celato parte del patrimonio, o avesse fatto una valutazione insufficiente, sarebbe incorso in una multa, mentre chi avesse denunciato tale comportamento, schiavo o libero, avrebbe avuto dei premi17.

Il discorso, riportato da Appiano, si propone di far abrogare un provvedimento fisca- le straordinario promosso nel 42 a.C. dai triumviri, che consisteva nella tassazione del patrimonio di millequattrocento tra le matrone più ricche, le quali avrebbero dovuto compiere una stima dei propri beni e versarne una parte adeguata allo stato18. Il provve-

14 Sul vincolo di pietas filiale cf. Rohr Vio 2014, 109. 15 Su Ortensia cf. Münzer 1913, 2481-2482. 16 Sul provvedimento del 42 a.C. cf. Hemelrijk 1964; Canfora 1980, 425-437; Gafforini 1992, 153-172; Peppe 1984, 17-50; Marshall 1989, 35-54; Berrino 2006, 25- 40; Valentini 2012, 1-14; Lucchelli - Rohr Vio 2014. 17 App. BC IV 32, 135: Καὶ τοῦτο ἐς τὸν δῆμον εἰπόντες προύγραφον χιλίας καὶ τετρακοσίας γυναῖκας, αἳ μάλιστα πλούτῳ διέφερον καὶ αὐτὰς ἔδει, τὰ ὄντα τιμωμένας, ἐσφέρειν ἐς τὰς τοῦ πολέμου χρείας, ὅσον ἑκάστην οἱ τρεῖς δοκιμάσειαν. ἐπέκειτό τε ταῖς ἀποκρυψαμέναις τι τῶν ὄντων, ἢ τιμησαμέναις κακῶς ἐπιτίμια καὶ τοῖς ταῦτα μηνύουσιν ἐλευθέροις τε καὶ δούλοις μήνυτρα. 18 Era prevista una multa per chi avesse effettuato una valutazione insufficiente e una ricom-

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dimento fu escogitato dai triumviri allo scopo di recuperare fondi per portare a termine la guerra contro i cesaricidi e faceva parte di una serie di interventi, tra i quali rientravano anche le liste di proscrizione e la confisca delle proprietà ai nemici più facoltosi, ai quali queste donne erano legate da vincoli di parentela19. Le matrone coinvolte, per ottenere il ritiro o almeno la modifica del provvedimento, inizialmente ricercarono il sostegno dell’entourage femminile dei triumviri: furono accolte da Giulia, madre di Antonio, e da Ottavia, sorella di Ottaviano, mentre vennero duramente respinte da Fulvia20. Dopo aver subìto tale affronto, che portò al fallimento del primo tentativo, le matrone si ri- versarono nel foro, presso il tribunale dei triumviri, portando in piazza le loro istanze di protesta. Decisivo per il successo fu il discorso di Ortensia, scelta come rappresentante per le sue doti di eloquenza, che si diceva avesse ereditato dal padre, il famoso oratore Quinto Ortensio Ortalo21. I triumviri ordinarono ai littori di far allontanare le donne, ma la forza della loro azione fu tale che la folla si schierò dalla loro parte e la decisione dei triumviri fu rimandata al giorno successivo22. La vicenda si concluse con il successo delle matrone, che riuscirono a limitare la tassazione solo alle quattrocento più ricche tra loro, mentre il resto della somma sarebbe stata coperta tassando gli uomini con un patrimonio superiore ai cento mila denari23.

pensa per i delatori che avessero rivelato chi tra le interessate ne avesse compiuta una inadeguata. Cf. Peppe 1984, 18-26. 19 Per indicare il provvedimento Appiano usa il termine προύγραφον che indica una pro- scrizione vera e propria. Sulle proscrizioni di età triumvirale cf. Huzar 1978, 118-121; 249-251; Canfora 1980, 425-437; Hinard 1985, 227-318. 20 App. BC IV 32, 136-137: «Non sopportando l’affronto si portarono nelforo , presso la tribuna dei magistrati, mentre popolo e littori si aprivano al loro passaggio, e Ortensia, prescelta per questa incombenza, disse: “Come si addiceva a donne del nostro rango che avevano bisog- no di voi, ci siamo rivolte alle vostre donne; ma avendo ricevuto da Fulvia un affronto che non avremmo pensato, da lei costrette ci presentiamo nel foro”» ([…] τῆς μὲν δὴ Καίσαρος ἀδελφῆς οὐκ ἀπετύγχανον, οὐδὲ τῆς μητρὸς Ἀντωνίου· Φουλβίας δέ, τῆς γυναικὸς Ἀντωνίου, τῶν θυρῶν ἀπωθούμεναι χαλεπῶς τὴν ὕβριν ἤνεγκαν, καὶ ἐς τὴν ἀγορὰν ἐπὶ τὸ βῆμα τῶν ἀρχόντων ὠσάμεναι, διισταμένων τοῦ τε δήμου καὶ τῶν δορυφόρων, ἔλεγον, Ὁρτησίας ἐς τοῦτο προκεχειρισμένης “ὃ μὲν ἥρμοζε δεομέναις ὑμῶν γυναιξὶ τοιαῖσδε, ἐπὶ τὰς γυναῖκας ὑμῶν κατεφύγομεν·ὃ δὲ οὐχ ἥρμοζεν, ὑπὸ Φουλβίας παθοῦσαι, ἐς τὴν ἀγορὰν συνεώσμεθα ὑπ’ αὐτῆς). 21 Su Quinto Ortensio Ortalo console nel 69 a.C. vd. Broughton 1952 (1984), 131. 22 App. BC IV 34, 145: «[...] allora ordinarono ai servi pubblici di allontanarle dalla tribuna, ma si levò un boato dalla gente che stava lì attorno; i messi sospesero la loro azione e i magistra- ti dissero che rimandavano la discussione al giorno seguente» ([…] ἐκέλευόν τε τοῖς ὑπηρέταις ἐξωθεῖν αὐτὰς ἀπὸ τοῦ βήματος, μέχρι βοῆς ἔξωθεν ἐκ τοῦ πλήθους γενομένης οἵ τε ὑπηρέται τὸ ἔργον ἐπέσχον καὶ οἱ ἄρχοντες ἔφασαν ἐς τὴν ὑστεραίαν ἀνατίθεσθαι). 23 App. BC IV 34, 146: «Il giorno dopo stabilirono che soltanto quattrocento donne, e non millequattrocento, presentassero una stima del loro patrimonio, e che tutti gli uomini che pos-

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Le interessate dunque utilizzarono inizialmente il canale della mediazione familia- re, ritenuto socialmente idoneo per le donne e che consentiva un’ubicazione domestica dell’azione; ma in un secondo momento agirono extra mores e in forma collettiva, dimo- strando che nel tempo la componente femminile aveva raggiunto una certa autonomia decisionale ed era diventata capace di usare i legami interpersonali per creare una rete di comunicazione che operasse anche al di fuori delle mura domestiche. Le tre vicende prese in esame presentano molteplici punti di contatto, che permet- tono di individuare in esse uno schema costante, articolato in due momenti principali che rappresentano l’uno il completamento dell’altro. La prima fase si esplica in luoghi e secondo modalità che rientrano nel solco della tradizione. Così per quanto riguarda Fulvia, la ritualità funeraria a scopo politico rappresentava un modo legittimo di azione femminile già sperimentato in occasione del funerale di Clodio. Nel caso di Giulia era il luogo a determinare la legittimità dell’azione, nella sua prima fase: la donna invece si era opposta alla decisione triumvirale nella sua casa quando si era parata davanti alla porta della camera dove aveva nascosto il fratello, impedendo ai centurioni di passare. Per Ortensia, infine, erano ancora le modalità di azione a registrare una prima aderenza alla tradizione: la matrona aveva fatto ricorso alla mediazione familiare presso le donne dei triumviri. Se la prima parte dell’intervento, pur connotata da tratti di novità perché espres- sione dell’interferenza femminile in questioni politiche, rientrava almeno dal punto di vista spaziale e procedurale nei limiti imposti dal mos maiorum, il perimetro domestico, la seconda parte invece violava i confini fisici e ideologici imposti dalla tradizione po- nendosi completamente extra mores. Le vicende analizzate presentano un ulteriore elemento in comune riguardante il motivo che spinse le matrone protagoniste ad intervenire pubblicamente: esse agirono in difesa di un familiare in difficoltà, il marito nel caso di Fulvia, il fratello in quello di Giulia. In questo ambito si assiste ad un’evoluzione poiché, a differenza delle altre, Ortensia parlò in difesa di se stessa e in rappresentanza delle altre matrone coinvolte nella tassazione straordinaria allo scopo di contestare apertamente e pubblicamente una decisione triumvirale, portando avanti una vera e propria azione di dissenso.

sedevano più di centomila dramme, cittadini o stranieri, liberti o sacerdoti, di qualunque na- zionalità, nessuno escluso, con ugual rischio di multa e uguali ricompense per i delatori, ver- sassero subito, a titolo di prestito, il due per cento del patrimonio, e contribuissero alle spese di guerra con la rendita di un anno» (τῇ δ’ ὑστεραίᾳ τετρακοσίας μὲν ἀντὶ χιλίων καὶ τετρακοσίων προύγραφον ἀποτιμᾶσθαι τὰ ὄντα, τῶν δὲ ἀνδρῶν πάντα τὸν ἔχοντα πλείους δέκα μυριάδων, ἀστὸν ὁμοῦ καὶ ξένον καὶ ἀπελεύθερον καὶ ἱερέα καὶ πανταεθνῆ, μηδενὸς ἀφιεμένου, καὶ τούσδε μεθ’ ὁμοίου φόβου τῶν ἐπιτιμίων καὶ ὑπὸ μηνύμασιν ὁμοίοις, ἵνα πεντηκοστὴν μὲν τῶν ὄντων αὐτίκα δανείσαιεν αὑτοῖς, ἐνιαυτοῦ δὲ φόρον ἐς τὸν πόλεμον ἐσενέγκαιεν). Per un inquadramento sul contesto della vicenda cf. Peppe 1984, 18-26; Lucchelli - Rohr vio 2014.

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Come risulta dai primi due casi analizzati, le matrone intervennero in prima perso- na nelle vicende pubbliche poiché furono costrette dalle circostanze, che coinvolgeva- no direttamente un membro della loro famiglia. È interessante notare tuttavia che gli argomenti utilizzati dalle protagoniste per giustificare le motivazioni dei propri inter- venti non pertengano alla sfera politica, ma a quella personale e che esse mettano in evi- denza i legami di parentela che le uniscono di volta in volta ai destinatari dei provvedi- menti. In particolare, Giulia pone l’attenzione sul venir meno dei legami familiari e di amicizia che erano stati annullati dalle proscrizioni e sulla rottura del vincolo di pietas che tradizionalmente legava madri e figli. E proprio nella rottura di questo vincolo tro- va la giustificazione per il proprio intervento, poiché anche lei comemater familias era custode dei valori familiari e di conseguenza aveva il diritto e il dovere di proteggerli, anche se questo implicava l’intromissione in un ambito spaziale ed ideologico che non le competeva. In questo senso acquista maggiore significato il tentativo della donna di ripristinare un vincolo privato in quella che invece rappresentava una circostanza pub- blica, tenutasi di fronte ai magistrati più importanti della res publica. Giulia si rivolge ad un magistrato, ma allo stesso tempo tenta di ripristinare le dinamiche private tra madre e figlio affidandosi a quel rispetto che Antonio le doveva in quanto figlio e che lui stesso aveva contribuito a distruggere. A partire da questa considerazione si può forse avanzare un’interpretazione diversa delle azioni di queste donne dal momento che se i loro interventi nella seconda fase che connota ciascuno di essi sono sicuramente collocabili extra mores per la contestualizzazione spaziale e le modalità comunicative, rimangono invece strettamente limitate al contesto privato per quanto riguarda le ra- gioni che le spinsero ad agire. Un’ultima questione merita di essere affrontata: le analogie riscontrabili nella tradi- zione storiografica tra alcuni fatti di età arcaica e repubblicana e questi avvenimenti della tarda repubblica di cui si resero protagoniste le matrone sono ascrivibili ad una imitatio in rebus da parte delle donne della tarda repubblica o sono invece riconducibili ad una omologazione ad opera delle fonti antiche? In relazione agli episodi presi in esame, è possibile individuare alcuni precedenti illustri, più o meno diretti. Per quanto riguarda l’uso strumentale dell’abbigliamento funebre da parte di Fulvia, l’antecedente risalireb- be al 133 a.C. quando Tiberio Gracco, vestito a lutto, fece sfilare al proprio fianco nel foro i figli e la madre Cornelia per convincere il popolo a sostenere la propria azione politica24. Tra i due episodi tuttavia intercorre una differenza fondamentale: nel primo

24 D.C. XXIV 83, 3: «[…] cercò di assicurare il tribunato per sé e per il fratello per l’anno seguente e di nominare il suocero console; e per ottenere ciò non esitò a sostenere ogni di- chiarazione e promessa al popolo. Spesso, inoltre, si vestiva a lutto e portava la madre e i figli presso il popolo affinché si unissero alle sue suppliche» (ταύτην μὲν τὴν ὁδὸν τῆς δόξης ὡς οὐκ ἀσφαλῆ ἀφῆκε, τρόπον δέ τινα πρωτεῦσαι πάντως ἐπιθυμήσας, καὶ τοῦτο διὰ τοῦ ὁμίλου μᾶλλον ἢ τῆς βουλῆς ἐξεργάσεσθαι προσδοκήσας, ἐκείνῳ προσέθετο). Cf. anche Plu. TG 13, 6. Sull’episodio cf.

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caso la ‘regia’ dell’azione era affidata a un uomo che muoveva sulla scena i suoi cari per mettere in atto una strategia politica di cui lui era l’artefice; nel caso di Fulvia invece il motore dell’azione era costituito dalla matrona stessa che cercava di proteggere gli inte- ressi del marito assente e del figlio senza apparentemente trasgredire almos maiorum. In questa vicenda il ruolo degli uomini rimane passivo, mentre è Fulvia che si fa proponen- te di un’iniziativa politica e artefice del suo destino. Della vicenda di cui è protagonista Giulia non esistono antecedenti diretti per quan- to riguarda l’ambientazione spaziale e la causa dell’intervento, tuttavia un elemento chiave sembra collegarla alla vicenda di V secolo a.C. relativa all’azione di Veturia presso l’accampamento dei Volsci, guidati da suo figlio Coriolano, il quale, costretto all’esilio, aveva trovato rifugio presso i nemici di Roma. In questa circostanza la matrona fece leva sul vincolo di pietas che la legava al figlio per convincerlo a ritirare le truppe e a non attaccare l’Urbe. Rispetto all’episodio di età tardo repubblicana, l’azione di Veturia si contraddistingue per due differenze principali: innanzitutto non fu il risultato di un’i- niziativa spontanea, ma della pressione esercitata su di lei, e sulla nuora, dalle altre donne romane preoccupate; in secondo luogo Veturia si rivolse a Coriolano non in qualità di comandante dell’esercito nemico, ma come figlio, cosicché i due interlocutori manten- nero le dinamiche proprie della dimensione privata25. Ortensia infine sente la necessità di giustificare il proprio intervento ricordando un precedente illustre, il dibattito scatenatosi in occasione dell’abrogazione della lex Oppia nel 195 a.C. che aveva visto contrapporsi il tribuno della plebe Lucio Valerio, promotore insieme al collega Marco Fundanio della proposta di abrogazione, e Marco Porcio Catone, convinto oppositore26. A centocinquant’anni di distanza, il discorso di Ortensia sembra presentare alcuni punti di contatto con le posizioni dei tre politici. L’azione di Ortensia in un primo momento si mantiene nel solco della tradizione poi- ché, come Catone, riconosce che alle donne dovesse essere interdetta la partecipazione alle vicende pubbliche e la presenza nei luoghi decisionali, ma a differenza dell’oratore ritiene che le circostanze talvolta possano legittimare una trasgressione a questa norma. La donna sente infatti la necessità di giustificare il proprio intervento ricordando che le matrone erano state costrette ad agire pubblicamente a causa del rifiuto di Fulvia e che lei stessa aveva preso la parola perché nessun uomo avrebbe potuto parlare in sua

Valentini 2012, 230-232; sulla relazione tra l’episodio e Fulvia cf. Rohr vio 2014, 101-102. 25 Sulla vicenda relativa a Veturia e Coriolano cf. Dionys. VIII 39-55; Liv. II 40; Val. Max. V 2, 1 e 4, 1; Plu. Cor. 33-35; Bonjour 1975, 157-181; Beltrami 1998, 123-176; Valentini 2012, 143-148. 26 Sul dibattito relativo all’abrogazione della lex Oppia cf. in particolare Culham 1982, 786- 793; Scuderi 1982, 41-84; Desideri 1984, 63-76; Peppe 1984, 17-51; Berrino, 2006, 25- 40; Valentini 2012, 8-21.

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vece27. Tra i due episodi, che presentano notevoli affinità, si inserisce in questo fran- gente una differenza fondamentale, che costituisce anche l’elemento dinovitas rispetto al passato: nel 195 a.C le donne affidarono le loro istanze di protesta ad un magistrato che ne avrebbe fatto le veci in tribunale; nel 43 a.C. invece le matrone agirono in prima persona, scegliendo tra loro una portavoce che le rappresentasse direttamente. La donna usa la voce come unico canale comunicativo, articolando un discorso lucido e complesso che dimostra una certa consapevolezza della condizione e del ruolo delle donne nella società e la conoscenza dei precedenti nella storia romana. Elenca infatti quelli che sono i tratti distintivi del rango di una matrona: la gens cui appartiene per nascita, quella del marito, da lei acquisita attraverso il matrimonio, e il patrimonio, inteso come l’insieme di dote, gioielli, e, per quanto riguarda il I secolo, anche di proprietà fondiarie. Questo elemento risulta particolarmente significativo poiché sembra suggerire che le matrone che presero parte a questa azione di protesta, come anche Fulvia e Giulia, non appar- tenevano alle famiglie di nuova immissione nella nobilitas senatoria, teoricamente più propense e favorevoli al cambiamento, ma alle gentes più illustri e di antica tradizione, segno che la trasformazione del ruolo della donna coinvolgeva l’élite romana nella sua totalità. Dal discorso emerge inoltre una marcata consapevolezza del significato e del valore dell’essere cittadini: Ortensia infatti non esita a riconoscere che fosse necessario punire le donne, qualora avessero commesso qualche colpa, ma sostiene fermamente che sia ingiusto chiedere loro di rinunciare ai propri patrimoni, sacrificandoli allo stato, e allo stesso tempo privarle dei benefici di cui godevano i cittadini, primo tra tutti la pos- sibilità di partecipare attivamente alla vita politica. Gli esempi presentati in questa analisi mettono in evidenza la complessa questione della dipendenza tra le vicende di età tardo repubblicana e i loro antecedenti, ponen- do in primo piano la problematica dell’attendibilità delle testimonianze storiografiche relative a tali vicende. Gli episodi di età tardo repubblicana sono calchi storiografici, imitationes in rebus o episodi indipendenti? In questo senso l’intervento di Ortensia risulta particolarmente significativo, poiché dimostra che le matrone nell’ultimo secolo

27 L’episodio di Ortensia è ricordato anche da Valerio Massimo, che la inserisce tra le donne che difesero se stesse o altri in tribunale. L’exemplum sembra essere l’unico positivo, ma ad una let- tura più attenta si evince che Valerio Massimo trovi sconveniente che una simile abilità oratoria sia posseduta da una donna e adotta una sorta di escamotage: l’autore attribuisce le capacità ora- torie di Ortensia al padre, il famoso retore Quinto Ortensio Ortalo, che, ormai morto, avrebbe parlato utilizzando la voce della figlia. Il discorso di Ortensia appare dunque quasi pronunciato da un’altra persona: la matrona viene presentata come lo strumento attraverso il quale il defunto oratore può ancora esplicare le proprie capacità di eloquenza, poiché le ha trasmesse in lei, e, spin- gendosi ancora oltre nell’analisi, si può ipotizzare legittimamente che secondo l’autore Ortensia prestasse solo la voce al padre. Cf. Val. Max. VIII 3, 3; Quint. inst. I 1, 6.

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della repubblica non solo conoscevano gli episodi di età proto e meso repubblicana che avevano visto come protagoniste le donne, ma anche che esse erano capaci di servirsene consapevolmente come modello per le proprie azioni di dissenso: tali iniziative, infatti, pur presentando tratti innovativi rispetto alla tradizione, traevano la loro legittimazione proprio da quei modelli. Sembra dunque plausibile ritenere che in età tardo repubblica- na gli antecedenti illustri venissero sfruttati dalla componente femminile per giustificare le proprie azioni extra mores, ma che la mancanza di una perfetta sovrapponibilità tra l’episodio e il suo potenziale modello deponga a favore della storicità delle vicende di età tardo repubblicana. Sulla base delle considerazioni avanzate, la redazione delle fonti storiografiche sarebbe da ritenere fededegna se non nel suo resoconto puntuale, almeno nel nucleo fondamentale.

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La donna e il triumviro. Sulla cosiddetta laudatio Turiae*

L’elogio funebre di una ignota matrona romana di età augustea, noto come laudatio Turiae, è un testo giustamente famoso: gli epigrafisti vi hanno esercitato i loro sforzi per ricostruire le parti lacunose; i giuristi ne hanno considerato i numerosi punti che coin- volgono il diritto; gli storici hanno studiato le traversie di una coppia d’alto affare dall’e- tà delle guerre civili alla pacificazione augustea1. Senza voler prendere in considerazione qui l’intero testo, qualche osservazione ulteriore pare ricavabile, incrociando differenti prospettive, soprattutto circa la proscrizione e il giudizio severo sul comportamento di Lepido2: ne derivano alcune considerazioni di interesse più generale, e forse qualche novità.

1. Al cospetto di Lepido

Nella sua sezione più drammatica, la laudatio evoca il sopruso subito dalla defunta nel 42 a.C., al cospetto di Lepido: dopo che il marito, proscritto, ha ottenuto grazie all’appoggio convinto di Ottaviano la restitutio, la donna si reca dal triumviro, rimasto in Italia per amministrare gli affari, a presentargli l’editto ed ottenere la definitiva ra- diazione del marito dalla lista dei proscritti3. Benché la donna si getti a terra ai piedi del magistrato (e console), in gesto pubblico di umiliazione, la supplica non viene accolta. La donna anzi è fatta allontanare, percossa e insultata (II 12-18):

[quom abs te]4 de restitutione mea M. L[epi]dus conlega praesens interp[ellaretur et ad eius] pedes prostrata humi [n]on modo non adlevata, sed tra[cta et servilem in] modum rapsata, livori[bus c]orporis repleta; firmissimo [animo eum admo-

* Questo lavoro è nato da un percorso scolastico e dalla riflessione sulla recente ricerca in tema di azione politica femminile nella tarda repubblica romana. Ringrazio le curatrici del volume per averlo accolto accanto ai contributi presentati al convegno veneziano. Sono grato a Domitilla Campanile per l’attenta lettura. Molto importanti sono state le osservazioni e le indicazioni for- nitemi con generosa disponibilità da Nicholas Horsfall: solo mie restano le imprecisioni. 1 Sul testo, e l’ampia bibliografia che lo concerne, vd. ora Osgood 2014 (ulteriori dati in Pavese 2012, 281-82). I commenti di Durry - Lancel 1992, Wistrand 1976 e Flach 1991 (di cui si adotta, salvo indicazione diversa, il testo), sono presupposti. 2 «L’atteggiamento negativo della Laudatio nei riguardi di Lepido» costituisce uno dei «punti essenziali» del «più vivo documento dell’epoca del “terrore”»: Mazzarino 1973, 98-99. 3 Sulla cronologia vd. Osgood 2014, 151-53 («7 or 6 b.C.: death of wife»). 4 Si accoglie l’integrazione di Flach, al posto di [per te] di Mommsen: Flach 1976, 8, 58.

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ne]res edicti Caesaris cum g[r]atulatione restitutionis me[ae atque vocibus eti]am contumeliosis et cr[ud]elibus exceptis volneribus pa[lam ea praeferres], ut auctor meorum peric[ul]orum notesceret. Quoi noc[uit mox ea res].

a. La realtà storica di questa scena è stata recentemente discussa, rinvenendovi tracce di improbabili esagerazioni, finalizzate all’elogio delprinceps 5. Quando la laudatio ven- ne detta, negli ultimi anni del secolo, più di trent’anni erano trascorsi dagli avvenimenti: è certo possibile che, rievocando l’accaduto, il marito abbia alterato i fatti, o meglio che ne abbia riferito in modo reticente, funzionale alla lode della moglie morta più che alla documentazione storica di un evento6. Ogni riferimento alle proscrizioni è in effetti omesso, e si ricava solo indirettamente: si tace così che esse erano concordate anche con Ottaviano. Il racconto presenta il giovane Cesare nella veste di unico salvatore, lasciando Lepido in quella di unico persecutore. Ciò ha un evidente carattere politico: il testo sot- tolinea come la durezza mostrata in quell’occasione dal triumviro ebbe a che fare poco dopo (mox) con la sua rovina politica. Il caso merita analisi specifica nel quadro della vicenda delle proscrizioni. Molti par- ticolari importanti però mancano. L’identificazione del marito della donna elogiata è incerta7: ciò impedisce di adibire altra evidenza, e obbliga a far riferimento solo ai dati desumibili dall’analisi interna. Che il proscritto fosse ricco è più che probabile8, ma il testo, di fatto, tace sui motivi che portarono l’uomo, già vicino alla factio pompeiana, nella lista dei banditi. Tale reticenza si spiega in vari modi. La laudatio fu detta parecchi decenni dopo i fatti, e dopo la morte di Lepido, da una persona interessata a valorizzare la salvezza ricevuta grazie alla clementia di Cesare Augusto9: essa viene contrapposta chiaramente alla crudelitas di Lepido, e oblitera il ruolo di Ottaviano nelle proscrizio- ni10, in coerenza con l’oblio indotto dalla versione ‘augustea’ circa gli eventi della fase

5 Così Gowing 1992a, 293, riguardo all’episodio con Lepido: «this event in the life of Turia could not be ignored, but given the public nature of a funeral oration it needed to be handled delicately and diplomatically. Turia’s husband did so with such skill and sensitivity ‒ astutely jux- taposing Octavian’s clementia to Lepidus’ crudelitas ‒ that a potentially embarrassing recollection is transformed instead into piece of flattering publicity for the emperor». 6 Hinard 1985, 309 n. 83: «il convient de faire observer que les exempla reproduits dans nos sources anciennes sont à utiliser avec précaution». 7 Sulla discussa identificazione con T. Lucretius Vespillo vd. da ultimo Osgood 2014, 117-24 («If, as seems very likely but not absolutely certain, the couple of the laudatio is not Turia and Lucretius...»), con bibliografia.In part. sul personaggio vd. Hinard 1985, 491-92 e Birley 2000. 8 Sul ruolo delle ricchezze nelle proscrizioni vd. Hinard 1985, 304-05. Per una lettura socio- politica del fenomeno vd. Canfora 1980. Sulla ricchezza come ragione della persecuzione del marito vd. ora Osgood 2014, 53. 9 Così indicato nel testo: un anacronismo da valorizzare. 10 Per una sommaria analogia, si pensi a Titiro che, nella Bucolica, evoca chi gli ha concesso di

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triumvirale11. L’editto di proscrizione era stato emanato collegialmente dai tre magistra- ti: ricordare il ruolo avuto dal giovane Cesare implicava il ricordo di ‘un’altra vita’, che Augusto non gradiva certo venisse richiamata, e sulla quale aveva già tirato una linea con il rogo degli incartamenti nel 36 a.C. (App. BC V 548). La voce del marito appare largamente consonante con i temi della ‘propaganda’ au- gustea: esemplare il modo in cui egli esprime il sollievo per la fine delle guerre e l’in- staurazione del nuovo ordine. Assicurando che pacato orbe terrarum, re publica restitu- ta, quieta et felicia tempora nobis contigerunt (II 25), l’uomo attinge consapevolmente a temi centrali del lessico politico augusteo: anzitutto a quello imperiale della pax12, come mostrano anche riscontri letterari. Notevole soprattutto la consonanza con le parole di Velleio (II 89, 6: pacatusque victoriis terrarum orbis); da considerare anche le parole, di probabile ascendenza liviana, con le quali Orosio caratterizza l’età augustea: quasi toto terrarum orbe vel domito vel pacato (VI 21, 29). Dietro risuonano certo le parole di Vir- gilio (buc. IV 17): pacatumque reget patriis virtutibus orbem13, e ancor più probabilmente le celebrazioni pubbliche per le chiusure del tempio di Giano14: slogan che furono dif- fusi anche da monete e iscrizioni, e che il marito pare ricordare a notevole distanza di tempo15. Non meno augusteo è il riferimento alla res publica restituta, concetto discusso, ma che dall’analisi storica, ed anche dall’esame della laudatio, riceve una conferma non

pascere ut ante boves, con una restitutio, ma non spiega chi prima gli avesse tolto le terre per concederle al miles iniquus. Sull’evoluzione della clementia nel periodo triumvirale vd. Dowling 2005, part. 40-45 e 149-51 (sulla laudatio); Flamerie de La Chapelle 2011, part. 167-68. 11 Sull’influsso della tradizione augustea nella tradizione storiografica di Appiano e Cassio Dione, vd. Gowing 1992b, 123-62 (Lepido), 247-69 (proscrizioni). Nettamente diverso il giu- dizio riportato in Suet. Aug. 27, 1: Namque illis in multorum saepe personam per gratiam et preces exorabilibus, solus magno opere contendit ne cui parceretur. L’affermazione dipende da una tradi- zione differente: sulle tendenze della memoria e della storiografia circa la fase triumvirale vd. ora l’ampia indagine di Canfora 2015. 12 Cresci 1993, 235-50 (49-50 sulla laudatio). 13 Vd. anche Flor. II 13: paene toto orbe pacato (in riferimento alla guerra di Cesare e Pompeo); e ancora Prop. III 11, 19: ut, qui pacato statuisset in orbe columnas (Eracle); Sen. suas. I 1, 4: Me- mento, Alexander: matrem in orbe victo adhuc magis quam pacato relinquis. Da ricordare anche per curiosità il falso miliario di Merida (CIL, II 443*): imp. Caes. divi f. / Aug. Pont. Max. cos. / xii trib. pot. x / imp. viii orbe mari et / terra pacato templo / Iani clauso et / rep. pop. Rom optimis / legibus et santissimis insti/tutis reformata viam superio/rem cossulibus tempo/re inchoatam et multis lo/cis intermissam pro dignitate / imperii latiorem longioremque / Gades usque promovit. 14 Porph. ad Hor. ep. II 1, 255: Iani gemini templum ac portas belli pacato orbe terrarum solus clauserat Caesar Augustus. Vd. anche Liv. I 19, 3, a proposito di Numa e del tempio di Giano, apertus ut in armis esse civitatem, clausus pacatos circa omnes populos significaret: pagina, come è noto, ‘augustea’ come poche. 15 Vd. la documentazione citata in Flach 1991, 32-33.

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precaria16. Caratterizzata è persino la formula affettuosa con cui il marito rievoca gli anni, finalmente sereni, del lungo matrimonio:quieta tempora. Non solo infatti vi si trova l’eco di un’espressione ciceroniana (fam. IX 8, 2), ma più direttamente la ripresa di uno slogan augusteo, la temporum quies17. Due aspetti appaiono invece meno vicini alla prospettiva augustea. L’insistenza del marito, in altra sezione del testo, sul problema del- la sterilità della coppia è apparsa come un’esplicita presa di distanza rispetto alle scelte demografiche del regime augusteo18: una scelta privata bilancerebbe dunque le conver- genze con il linguaggio pubblico del princeps19. Il secondo punto critico è il persistente rancore verso Lepido20.

b. Riguardo all’intervento salvifico di Ottaviano il testo appare reticente: come su altri punti, ma in modo apparentemente non casuale. Non si chiarisce attraverso quali mezzi, argomenti e persone il proscritto avesse ottenuto di essere radiato dalla lista, alla quale pure è stata riconosciuta una forte ‘instabilità’21. Se vi fosse una procedura speci- fica prevista dellarestitutio non è possibile dire22. Già le fonti antiche parlano di can- cellazioni ottenute per azione di uno dei triumviri, oppure di tutti e tre23. Le modalità delle cancellazioni furono ragionevolmente simmetriche a quelle dell’inserimento dei nomi nella/e lista/e dei proscritti: una proposta individuale seguita da una accettazione collegiale (del resto il carattere edittale della proscrizione implicava una responsabilità in solido degli emananti). La documentazione disponibile attesta che vi furono vari in- terventi individuali di Antonio, tre (con quello per l’anonimo) di Ottaviano, nessuno

16 Vd. Todisco 2007, part. 349, 352. Per il dibattito sulla formula e la sua attestazione nella laudatio vd. Ferrary 2003, e ora Hurlet - Mineo 2009, part. 11-16 con bibliografia. 17 Vd. rispettivamente Cic. fam. IX 8, 2: utinam...quietis temporibus...studia exercere possemus; ma soprattutto Suet. Aug. 25, 1: temporum quies; Tac. dial. 38, 2 longa temporum quies, appunto in riferimento all’età in cui il princeps omnia pacaverat). L’espressione anche in Liv. XX 21; Val. Max. I 7, ext. 5; per felicia tempora vd. Juv. 2, 38. 18 Horsfall 1983, 93-94; Osgood 2014, 145 («challenge to Augustan legislation»). Se l’espressione filia mihi supstituta (II 51-53) indica l’adozione della moglie nel testamento del marito (Wistrand 1976, 63-64), ci si troverebbe vicini a ciò che Augusto avrebbe poi fatto con Livia Drusilla, adottata come figlia nel testamento (Vell. II 75, 3). Sul matrimonio in età augustea fondamentale Treggiari 1991. 19 Vd. recentemente Lindsay 2009, part. 195-97. 20 «The Laudatio Turiae parades prototype Augustan incrimination of Lepidus»: Henderson 1997, 101 n. 39. 21 D.C. XLVII 13, 1: vd. Hinard 1985, 247-55. Per Osgood 2014, 55, l’editto di restitutio fu ottenuto dalla moglie. 22 Sintesi in Hinard 1985, 275-92. 23 Così nel caso di Messalla: App. BC IV 159.

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di Lepido24. Il testo della laudatio specifica che Ottaviano agì con un editto25: il provve- dimento è detto emanare beneficio et i[ud]icio...Caesaris Augusti (II 12). L’espressione è tecnica, come è stato osservato26, e ideologicamente significativa. Lo mostra soprattutto un passo di Velleio: un capo germanico, al quale è stato concesso di vedere (e toccare) il vittorioso Tiberio, ringrazia per la concessione avvenuta appunto beneficio et permissu tuo, Caesar (Vell. II 107, 2)27. L’editto fu accompagnato, a quel che sembra, da una let- tera di Ottaviano, che esprimeva solidarietà all’ex-proscritto28. Non bastò, tuttavia. Poiché Ottaviano si trovava lontano dalla città (absentis), il provvedimento necessitava di essere pubblicato a Roma29. Di qui la richiesta di porlo in atto, che la donna presentò a Lepido, triumviro e console, e il rifiuto di questi, per mezzo di formale intercessio all’interno della collegialità triumvirale. Posto che ciascuno dei triumviri avesse il diritto di emanare editti senza chiedere il parere dei colleghi (pur se ciò poteva essere auspicabile), l’intercessio opposta da qualunque di loro risultava pre- valente in termini di diritto, anche nel caso di una restitutio, e quindi in grado di annul- lare l’esecutività dell’atto. Non fu l’unico conflitto di competenze fra i triumviri: anche

24 Hinard 1985, 252 n. 112. Dubbio il caso di Antonio che avrebbe chiesto l’intervento del console: App. BC IV 157 e 193. D.C. XLVII 9, 2 non implica alcun accordo preventivo fra i tre magistrati nell’inserimento come nella radiazione dalle liste. 25 Hinard 1985, 258-49; Laffi 2001, part. 432-33 (riferimento alla laudatio, 432 n. 35); sull’attività edittale dei triumviri vd. la lista fornita da Bleicken 1990, 41 n. 115. Tra gli esempi, Lepido per il trionfo: App. BC IV 132; D.C. XLVII 13, 2; Antonio per le terre a Efeso, dopo Filippi: App. BC V 15; Ottaviano per Seleuco di Roso: FIRA I 55; Ottaviano per i privilegi dei veterani: FIRA I 56 (su entrambi, fondamentale Raggi 2006, part. 76-77, con bibliografia). 26 «A buon diritto l’A. si dice restituito da Ottaviano beneficio et iudicio, in quanto che l’in- tercessio consiste proprio in uno iudicium che si risolve in beneficium»: Costa 1916, 35-36 n. 1, con riferimento a Mommsen. A una semplice testimonianza in favore del proscritto crede invece Wistrand 1976, 45-48: «not in form of an actual reinstatement but rather [...] an expression of sympathy for a wrongly proscribed man and a promise to support his case», seguito da Gow- ing 1992a, 288 n. 17. L’idea che si trattasse di un formale editto appare più conforme alla prassi triumvirale, e spiega meglio la vicenda con Lepido, che appare aver opposto formale veto, non già essersi rifiutato soggettivamente di accogliere un favore o a una promessa. 27 Altri passi notevoli sono Cic. Balb. 51: hic tu Cn. Pompei beneficium vel potius iudicium et factum infirmare conaris?; Phil. IV 7, 9: quasi deorum immortalium beneficio et munere; da con- siderare anche Sen. benef. I 15, 5-6: Crispus Passienus solebat dicere quorundam se iudicium malle quam beneficium, quorundam beneficium malle quam iudicium. 28 Flach 1976, 101: «Octavian ihn durch Erlass begnadigt und in einem Begleitschreiben zu seiner Wiedereinbürgerung beglückwünscht hatte», con riferimento a Mommsen 1887, 205-06. Diversa interpretazione in ThLL, VI 2, 2249, 2-5 s.v. gratulatio («dicens ‚te gratam fore, si restitutus essem‘, sic in notionem supplicationis abit vox»). 29 Sul punto Hinard 1985, 251.

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Antonio si vide opporre un rifiuto da Ottaviano per una questione analoga, che poi fu risolta con gli accordi di Miseno30. I motivi della durezza di Lepido sono ignoti, e varie le ipotesi possibili. Si potrebbe indicare una sua scelta generale (non sono note restitutiones da lui concesse), ma non può essere esclusa una questione personale con il marito della donna, certo non vicino alla causa cesariana, e forse proscritto proprio su iniziativa di Lepido31. Questi aveva avuto, in altri tempi, un atteggiamento ben diverso, al punto che Cicerone l’aveva elogiato per il suo il clemente beneficium e la misericordia (Phil. XIII 8: Nemo ab eo civis violatus, multi eius beneficio et misericordia liberati), e persino nella sgradevole gestione delle proscrizioni una parte della tradizione gli attribuisce una certa moderazione (Suet. Aug. 27, 3; D.C. XLVII 8, 1). Il testo della laudatio, reticente sulle ragioni di Lepido, allude invece, piuttosto vagamente, al fatto che il gesto fu poi pagato dal triumviro. Anche su questo punto è impossibile sapere se vi sia esagerazione, vista la paradossale clementia usata poi da Ottaviano nei riguardi dell’ex-collega, relegato e in più occasioni umiliato32. Ma la forma del racconto è anche qui forte: il vedovo vuol rendere infame (notescere) colui che è bollato come auctor meorum periculorum. Le lacune del testo impediscono di essere certi che la donna, scacciata con cattive maniere, abbia anche esibito pubblica- mente i segni delle violenze subite33. La situazione del proscritto restò molto precaria, e richiese ulteriore sforzo alla determinatissima moglie: la sua firmitas animi consentì all’uomo di sopravvivere in clandestinità, con l’aiuto dei cognati34. Solo con il ritor- no di Ottaviano a Roma, o più tardi, con l’accordo di Miseno, la promessa d’aiuto poté avere effettiva efficacia; per questo il marito dolente poteva asserire (II 3):ita non minus pietati tu[a]e quam Caesari me debeo. L’elogio per i salvatori è simmetrico all’accusa diretta contro il persecutore. Nella laudatio il nome di Lepido è fatto esplicita- mente, a differenza da quanto si legge nelleRes Gestae, dove esso è taciuto o celato dietro perifrasi35, e si allude anche alla sua carica, attraverso il tecnico conlega, che rinvia alla formalizzazione del triumvirato con la lex Titia. Esplicito anche il linguaggio: le vicende

30 Hinard 1985, 252-53. 31 Hinard 1985, 249. 32 Su Lepido vd. Weigel 1992, in part. 67-93, sul periodo triumvirale (74-75 sulla laudatio); Allély 2004, part. 122-31 sulla fase delle proscrizioni. Suggestivo il tacitiano profilo di Lepido tracciato da Syme 1993, 165-67. «Meno si stima un avversario, più a lungo lo si lascia in vita»: Canfora 2015, 494. 33 «But the husband of the inscription may have liked the fancy that Lepidus’ insulting conduct towards his wife had provoked Octavian’s anger and so started Lepidus’ downfall»: Wistrand 1976, 49. 34 La firmitas animi (citata anche a IIa 8) è tra le virtutes ‘maschili’ della donna: vd. Appendice. 35 RGDA 10: Pontif]ex maximus ne fierem in vivi [c]onlegae l]ocum...r[ecusavi. Qu]od sacerdotium aliquod post annos eo mor[t]uo q[ui civilis] m[otus o]ccasione occupaverat ... recep[i].

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del proscritto sono dette pericula mea, con una forma di sicura origine ciceroniana36, e il verbo di denuncia è pure di stile alto37.

c. Qualche riflessione meritano le forme dell’intervento della donna. Lo spazio di manovra politica delle matronae a Roma in età repubblicana, già nei tempi più antichi (Veturia e Volumnia) e soprattutto durante le guerre civili e i convulsi mesi delle proscri- zioni, è stato oggetto di molte analisi recenti, anche in relazione alle reti familiari38. La crisi della politica comportò una sorta di dialettica tra vecchio e nuovo, che la vicenda della matrona elogiata nella laudatio rappresenta efficacemente: da un lato la necessità per le donne di compiere azioni a carattere giuridico e/o politico in sostituzione dei maschi lontani o banditi o deceduti, dall’altra la loro proclamata fedeltà alle tradizionali virtù di riservatezza, in un tempo nel quale esse erano non solo messe in crisi, ma anche platealmente smentite39. La ricerca più recente, consapevole delle esigenze dei gender studies, ha infatti rimarcato nella laudatio il capovolgimento dei ruoli tra maschile e fem- minile, ma pure il fatto che la donna, benché proclamata unica nelle sue esibite virtutes, venga fatta rientrare, nelle parole del marito, anche nell’antico quadro dei mores fem- minili40. Il testo mostra che solo in occasione delle terribili situazioni del passato, che il governo di Augusto aveva reso ormai definitivamente lontane, la matrona era uscita dai ruoli previsti: tale rovesciamento è presentato come l’eccezione che confermava la regola. Le donne che divennero ‘davvero’ dei maschi, come Fulvia, si meritarono poi un condiviso disprezzo, mentre quelle per bene, pacato orbe, tornarono ad essere (o a esser dette) domisedae e lanificae41. Interventi di donne a favore di proscritti sono noti. Precedenti di notevole interesse sono stati segnalati in particolare in occasione della crisi catilinaria, e più volte nella

36 Catil. IV 9: meorum periculorum rationes; fam. XIII 7, 1: T. Agusius et comes meus fuit illo miserrimo tempore et omnium itinerum, navigationum, laborum, periculorum meorum socius. 37 Notevole, anche per il tono aggressivo, Cat. 68, 7: notescatque magis mortuus atque magis; vd. anche Prop. II 13b: nec minus haec nostri notescet fama sepulcri; Phaedr. III 3; V 7; Plin. nat. XXXII 10; Lucan. V 784; X 198; Sen. benef. III 22; nat. VII 25, 3; Suet. Aug. 43; Nero 42; ma soprattutto la fortuna del verbo in Tac. ann. I 73 3; IV 7; VI 8; XII 8; XIV 6; XVI 20. 38 Efficace sintesi in Dixon 1983. 39 In generale, vd. Cenerini 2009, e sul punto Rohr Vio 2014. 40 Hemelrijk 2004; Riess 2012, in part. 495-497. Nella prospettiva della «feminist theo- ry» gli elogi tributati alla donna nella laudatio divengono «paradoxically, a form of exploitation and marginalization of women, as subtile and innocuous as it may seem» (497). Il fatto che la documentazione epigrafica delle virtù ‘tradizionali’ elogiate nell’anonima sia prevalentemente di età imperiale dipende dagli effetti della restaurazione augustea ma anche dalla crescente diffusio- ne dello habitus epigrafico. 41 Gafforini 1992, part. 156-57; Gafforini 1994; Gafforini 1996. Vd. anche Cluett 1989.

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corrispondenza di Cicerone42. Per il periodo 43/42, vanno ricordati il caso di Tanusia, forse figlia di proscritti, che tramite Ottavia ottenne da Ottaviano larestitutio del marito Tito Vinio43, o quello di Giulia, madre di Antonio, che ottenne la restitutio per Lucio. Entrambi mostrano l’importanza della rete femminile. Quando le donne cercavano un aiuto, esse cercavano prioritariamente l’intermediazione di altre donne44: così avvenne ad esempio nella crisi indotta dal progetto dei triumviri di imporre tributo sui patrimo- ni femminili (App. BC IV 32-33): le matrone ottennero l’appoggio di Ottavia, sorella di Ottaviano, e Giulia, madre di Antonio, ma non quello di Fulvia. Nessuna notizia di Giunia, moglie di Lepido. Nella laudatio non vi è traccia di alcuna mediazione che avesse condotto la donna all’incontro con Lepido, né viene spiegato in quali modalità avvenne l’udienza, né, an- cora si parla di Giunia45. Ammesso che il discorso dica la verità, è molto probabile quindi che non la dica tutta. Non nel senso delle falsificazioni di cui si lamentava Cicerone a proposito delle laudationes aristocratiche (Brutus 62), quanto nel senso di una selezione reticente dei fatti. Se il marito veniva da ambienti pompeiani, ricorrere a Giunia pote- va essere una strategia femminile coerente, visto il ruolo che le donne dei ‘signori della guerra’ ebbero nel periodo delle guerre civili46. In quanto figlia di Servilia (sorellastra di Bruto), sorella della moglie di Cassio e moglie di triumviro, Giunia era certo inserita in una rete molto rilevante: ma la tradizione non è stata generosa di notizie sul suo profilo politico47. Comunque siano andate le cose nel 43, è certo che ricordare Giunia negli anni in cui venne pronunciata la laudatio era invece improponibile: la donna, che Cicerone aveva elogiato come probatissima uxor (Phil. XIII 8), fu infatti coinvolta nella congiura ordita contro Ottaviano dal figlio Lepido (uno deglioptatissimi liberi, secondo Cicerone), e finì sotto processo vero il 30 per aver coperto le trame cospirative del giovane, ed averne protetto i destabilizzanti progetti48. In quella circostanza fu Lepido ad essere umiliato, prima di ottenere a fatica che il console Balbino, già proscritto, esonerasse la moglie dal

42 Tra i molti contributi sul tema, vd. Corey Brennan 2012. 43 Suet. Aug. 27, 2; D.C. XLVII 7, 4, e App. BC IV 187: su Vinio vd. Hinard 1985, 548-49 con bibliografia. 44 «When the women of Rome sought help from their leader’s wives, there was an expectation that they would receive it, despite any political differences between the men themselves»: Welch 2011, 313; Osgood 2014, 38-39, 57-58. 45 Vd. Osgood 2014, 56: «convention dictated that the wife now approach a female relation of Lepidus... Evidently this was not feasible or else it obtained no result». 46 Lejeune 2012, part. 102-05. 47 Rohr Vio 2012. 48 Rohr Vio 2003, 26-27; 68-76, con riferimento anche a Servilia, moglie di Lepido jr; 285- 86; 297-300, 321-23, con riferimento alla mancata clementia di Ottaviano.

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dare garanzie (App. BC IV 215-219). Del resto le regole incerte della supplica erano sta- te sperimentate dal triumviro proprio al momento della sua esautorazione: all’indomani della sconfitta di Sesto Pompeo, travolto dall’abbandono dei propri soldati Lepido si presentò ad Ottaviano, che però gli impedì di gettarsi ai suoi piedi, come sarebbe stata sua intenzione (App. BC V 522-523). Gli salvò la vita, relegandolo, ma appunto non compì il rito della clemenza, rifiutandone la supplica.

2. Le parole per dirlo

Richiamati alcuni elementi di contesto, si può considerare più da vicino la forma del duro scontro tra la donna e Lepido49. Notevoli sono i tratti linguistici usati nel descrivere l’angheria subita dalla indifesa matrona, una supplice che non ottiene pietà, né rispetto. La prima inquadratura è quella della donna che si getta a terra in segno di sottomissione: mette conto indagare il lessico della scena.

a. L’espressione del testo (prostrata humi), ben attestata nella letteratura latina, di- mostra che l’estensore intendeva esprimere una situazione altamente drammatica e pa- tetica. Il gesto di gettarsi a terra aveva come è noto in antico valenze molteplici50. A parte il nesso con la sfera religiosa51, il contesto rilevante è nel rapporto tra uomini. Il gesto compare spesso, soprattutto nella prosa storica, in riferimento a situazioni di dispera- zione o sottomissione: così in Livio, nel racconto dell’umiliazione subita dai Romani sconfitti durante la battaglia delle Forche Caudine, e della conseguente prostrazione dei soldati (IX 6, 4: omnium egena corpora humi prostraverunt). Si stendono a terra i dele- gati di Rodi davanti al senato e al console Marco Giunio (Liv. XLV 20, 9: prostraverunt se omnes humi); cade a terra, svenuta e in punto di morte, la madre di Dario davanti ad Alessandro (Curt. IV 10, 21: prostratam humi); si getta a terra davanti a Cicerone il figlio di Curione, chiedendo soccorso Phil( . II 45: filius se ad pedes meos prosternens, lacrimans, te mihi commendabat). Ovviamente la cultura greco-romana riconobbe nel gesto di sottomissione dei sudditi al re persiano (proskynesis) un costume proprio di gen- ti pronte ad asservirsi in modi non degni dei veri uomini (Val. Max. VII 3 ext. 2: ut est mos Persarum, humi prostratis corporibus Darium regem salutaverunt). Si unisce anche il gesto di abbracciare le ginocchia, spesso ricordato insieme, o in alternativa, a quello di ‘gettarsi ai piedi’: e già in celeberrimi passi omerici. Per limitarsi ad esempi di donne, si possono citare Sofonisba davanti a Massinissa (Liv. XXX 12, 12: genibus advoluta eius),

49 Osgood 2014, 55-56. 50 Sempre fondamentale Sittl 1890; un sintetico panorama comparativo in Knippschild 2002, part. 70-72. 51 Come in Lucr. V 1200, sui fedeli che credono di esercitare pietas con il compiere gesti vistosi: Nec pietas ullast […] procumbere humi prostratum et pandere palmas / ante deum delubra.

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e poi le donne prostrate davanti ad Ottaviano (come Cleopatra, in Flor. II 21, 40: regina ad pedes Caesaris provoluta temptavit oculos ducis), davanti al senato (come le donne vici- ne ad Antonio, per scongiurarne la condanna a hostis publicus, in App. BC III 242; e più tardi come la madre di Sesto Papinio in Tac. ann. VI 49, inutilmente : quamquam genua patrum advolveretur), davanti all’imperatore (come Calpurnia e Claudio in Tac. ann. XI 30; Poppea e Nerone in Tac. ann. XIV 16). Il gesto di gettarsi a terra è tanto umiliante quanto forte: in Valerio Massimo si leg- gono episodi illuminanti. Quando su Aulo Gabinio incombe sicura condanna, suo figlio Sisenna si prostra innanzi a Memmio (ad pedes se Memmii supplex prostravit), il quale rigetta la supplica con atteggiamento rigido e ostile (truci vultu a se victor insolens re- pulsum ...humi iacere aliquamdiu passus est): ma tutti gli astanti sono colpiti dal gesto, e il tribuno Lelio ordina di perdonare l’accusato (VIII 1, abs. 3). Similmente, Lucio Piso- ne si china a terra per baciare i piedi dei giudici (cumque prostratus humi pedes iudicum oscularetur), e si sporca la bocca di fango: i giudici si volgono alla clemenza, ritenendolo già punito dal fatto di esser costretto a abicere se tam suppliciter et attollere tam defor- miter (VIII 1, abs. 6). Dunque non vi è solo l’umiliazione; la supplica è anche un gesto rituale, che è obbligante nell’attivare la clementia, e che ha una base naturale e univer- sale: significativamente Plinio il Vecchio ne parla anche per gli animali nat( . VIII 48, 1: leoni tantum ex feris clementia in supplices. Prostratis parcit et, ubi saevit, in viros potius quam in feminas fremit, in infantes non nisi magna fame). Il leone, sapendosi forte, prova clemenza per chi lo supplica, riconoscendo la debolezza e l’umiliazione, e risparmiando donne e bambini. Il passo chiarisce ulteriormente il sottinteso della laudatio: Lepido non riconosce il valore rituale della supplica, quindi agisce in modo empio. Il compor- tamento che gli è attribuito trova analogie con un altro episodio celebre. Nel 65 d.C., interrogata davanti a Nerone per accuse gravissime che coinvolgono il padre, Servilia si getta a terra supplicando pietà (strata humi: Tac. ann. XVI 32). Anch’ella ha cercato di intervenire in difesa di un familiare, offrendo gioielli per aver notizie sulla sua sorte. Ma soprattutto, è ancora una volta una donna di fronte ad un uomo potentissimo, e ancora una volta si compie il gesto di umiliazione. Gesto per altro respinto, visto che la giovane è condannata a morte52. Al gesto di sottomissione, secondo il codice della clementia, segue di norma il gesto di far alzare (adlevare) chi si è prostrato. È l’andamento di celebri cerimonie pubbliche, teatralmente impostate, come l’incontro tra Eunone e Mitridate (Tac. ann. XII 18-19: [Mithridates] genibusque eius provolutus... inquit... At Eunones ... permotus adlevat sup-

52 Altre occorrenze del nesso sono egualmente patetiche, ma in contesti diversi: evocano donne disperate, ma non il confronto con il potere. In Apuleio (met. V 25) Psiche compare sì prostrata terra, ma non perché costretta da altri, bensì per amore verso il marito, che osserva allontanarsi: Psyche vero humi prostrata et, quantum visi poterat, volatus mariti prospiciens extremis affligebat lamentationibus animum (vd. anche VI 27: At illa quamvis humi prostrata).

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plicem laudatque), o tra Nerone e Tiridate (Suet. Nero 13, 2: admisit ad genua adleva- tumque dextra exosculatus est). Prosternazione, gesto di clemenza, qui anche l’abbrac- cio. Una variante prevede che si prevenga il gesto di massima umiliazione, evitando la prosternazione: così agì Emilio Paolo con Perseo (Val. Max. V 1: conatumque ad genua procumbere dextera manu adlevavit et Graeco sermone ad spem exhortatus est), e anche, come si è visto, Ottaviano con Lepido perdente, seppure con più freddezza (App. BC V 522-523). Esemplare invece, e relativa a una donna, la scena di Sisigambi davanti ad Alessandro Magno (Curt. III 12, 17: Sisigambis advoluta est pedibus eius ... Quam manu adlevans rex etc). Il rituale è costante. Ma Lepido scelse un’altra strada: la supplica non venne accolta. Al di là dei motivi, sui quali si può solo speculare, il rigetto della sottomissione è narrato in modo sufficiente a gettare una luce del tutto negativa sul responsabile. Lo mostrano molto bene due passi di Cicerone e un aneddoto riportato da Valerio Massi- mo (IX 5, 3), tra gli exempla di superbia e impotentia. Protagonista negativo del primo episodio è il console Pisone, accusato di aver negletto la supplica di Tullia, figlia di Ci- cerone, recatasi a chiedere soccorso durante l’esilio del padre: tu adfinem tuam, filiam meam, superbissimis et crudelissimis verbis a genibus tuis reppulisti (red. sen. 17): rigetto dell’umiliazione e maltrattamento verbale di una donna da parte di un magistrato ri- cordano da vicino la situazione della laudatio53. Anche il fratello di Cicerone, per altro, sperimentò il medesimo trattamento, quando maximo in squalore volutatus est ad pedes inimicissimorum (Sest. 145). Protagonista del secondo episodio, forse ancor più nega- tivo, è Pompeo, che rigetta la supplica dell’amico Plautio Ipseo: Cn. autem Pompeius quam insolenter! qui balineo egressus ante pedes suos prostratum Hypsaeum ambitus reum, et nobilem virum et sibi amicum, iacentem reliquit contumeliosa voce proculcatum54. Per quanto inopinatamente, il gesto di adlevare i supplici e le parole di conforto potevano essere omessi, e capovolgersi nel rigetto della clementia, e alle parole di consolazione sostituirsi invece gli insulti. Del resto, durante le proscrizioni la moglie di Ligario, che si presentò davanti a triumviri, probabilmente con forme simili a quelle della matrona della laudatio, non ricevette ascolto: e l’esito in quel caso fu per la coppia totalmente tragico (App. BC IV 93-95).

b. Non però l’atto di supplica, bensì il maltrattamento pubblico, degno di una serva, umilia la dignità della donna, e denota negativamente chi lo compie. Si è pensato a una esagerazione del racconto della laudatio, propria della natura dell’orazione, si è detta la situazione completamente differente rispetto a quanto noto circa Lepido, si è ritenuto improbabile che un triumviro si comportasse così, e si è preferito pensare che la donna

53 Treggiari 2007. 54 Vd. anche Plut. Pomp. 55, 5.

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fosse semplicemente stata allontanata dai littori, forse con maniere spicce, come accadde a Ortensia (App. BC IV 145)55. Basta però il confronto con il citato comportamento tenuto dal console Pisone con Terenzia (Cic. red. sen. 17) ad avvalorare la credibilità del gesto di Lepido. Il marito, comunque, aggiunge altri particolari sul maltrattamento subito dalla coraggiosa donna, tra[ducta] o tra[cta], a seconda dell’integrazione prescelta, trascinata via, insultata e colpita56. Non certo il comportamento normale di un console nei confronti di un cittadino romano, né di una matrona. Sul poco frequente verbo rapsare può essere utile riferirsi a una pagina di Aulo Gellio (II 6, 5), che analizza l’uso virgiliano di vexare (buc. VI 76): Vexasse grave verbum est factumque ab eo videtur, quod est ‘vehere’, in quo inest vis iam quaedam alieni arbitrii; non enim sui potens est, qui vehitur. ‘Vexare’ autem, quod ex eo inclinatum est, vi atque motu procul dubio vastior est. Nam qui fertur et rapsatur atque huc atque illuc distrahitur, is vexa- ri proprie dicitur. L’identità tra vexare e rapsare consente di acquisire la definizione data per vexare: ossia una situazione nella quale è esercitata vis quaedam alieni arbitrii, una «forma di violenza che dipenda dall’arbitrio di un altro», giacché chi la subisce non sui potens est, «non ha il controllo di sé». Come la donna davanti a Lepido. Che raptare im- plicasse l’accezione di violenza è confermato in particolare dai passi di Cicerone nei quali si descrivono con accenti patetici i maltrattamenti subiti dalla moglie Terenzia mentre egli era in esilio: quid enim vos uxor mea misera violarat, quam vexavistis, raptavistis, omni crudelitate lacerastis? (dom. 59). La storia di questa raptata coniunx (Sest. 145), è certo ben paragonabile a quella della matrona (tono patetizzante compreso). Quanto alle violenze, l’espressione replere aliquem livoribus non ha paralleli precisi57. Pur non essendo molto distante da forme più usuali, come volneribus vexari (Liv. IX 35, 8), essa sembra allontanarsi (se l’integrazione della lacuna è accettata) dal lessico ‘alto’ della sezione. La parola livor in senso proprio compare in Plauto, ad indicare i lividi delle botte ricevute dal servo (Truc. 793), compare in Ovidio, ed è frequente nella poesia im- periale, compiaciuta di scene orride (Seneca tragico, Lucano, Silio Italico). Quintiliano cita i livores tra gli argumenta artificialia, insieme alla cruenta vestis e al clamor (V 9, 1; vd. V 9, 11; e II 21, 19; V 10, 46: livores et tumores); Giovenale li ricorda tra gli effetti delle bastonature che il soldato (bella vita militar!) non subirà più, non toccandogli di dover mostrare nigram in facie tumidis livoribus offam (Juv. 16, 11); di livores, non metaforici, si parla poi spesso, comprensibilmente, nei testi che trattano di questioni mediche. Notevole anche l’accenno ai crudelia volnera. L’espressione trova riscontro in un ce- lebre passo di Virgilio (Aen. II 559), dove è usata in riferimento a Priamo morente:

55 Gowing 1992a, 289, 293-94. 56 Sui problemi posti dalle due integrazioni vd. Flach 1991, 101-02. Per la situazione vd. per esempio Sen. contr. 2, 5: matronae trahebantur. 57 Vd. ThLL VII 2, 1548, 25-26, s.v. livor.

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regem crudeli volnere vidi vitam exhalantem. L’idea che l’autore citi l’Eneide è da esclu- dere58, tanto più se si pensa ai crudelia volnera subiti da Polidoro, ucciso dal tiranno di Tracia, di cui parla Ovidio (met. XIII 531)59. Quanto a vulnus excipere, è invece, con accipere, espressione solidamente attestata nella prosa alta60. La visibilità dei segni cor- porei della violenza riveste differente valenza: da un lato essa rimarca il carattere virile e militaresco della situazione61, dall’altro è un segno esibito come una ‘prova’62, quasi come nella recordatio meritorum processuale (Quint. II 15, 6)63. Anche il cenno al maltrattamento, accompagnato [vocibus] o [verbis] contumeliosis è significativo. Qualunque integrazione si accolga, si trovano paralleli significativi per l’espressione: da Cesare, ad esempio, dove si evocano le beffe dei soldati di Afranio civ.( I 69, 1: Afraniani milites... castris procurrebant contumeliosisque vocibus prosequebantur nostros), a Cicerone (Cael. 30: voces contumeliosae), ai contumeliosa dicta degli ambascia- tori di Giugurta (Sall. Iug. 20, 5) e a quelli del successore di Ierone II, che si distingue per la sua arroganza (Liv. XXIV 5, 5), agli insulti del sofista Dafida contro il re Attalo (Val.

58 Vd. Horsfall 2008, ad. loc.: «Surprisingly, not elsewhere in V., but use at [Laud.Tur.] 2.17 shows that it is conventional language, though not attested in lit. texts». 59 Donde la tarda ripresa di Prud. Hamart. 617: ipsam porro animam crudelia vulnera carpunt. 60 Cic. Sext. 10: adeunda pro patria pericula, vulnera excipienda; Tusc. II 65 volnera excepe- runt; V 79 (homines) non pro suo partu ita propugnant, ut vulnera excipiant?; Liv. perioch. CCXIX: C. Pansa ex vulnere, quod in adverso proelio exceperat, defunctus; Val. Max. II 7: exceptorum vul- nerum; III 2: vulnera pectore excepisse, tergo cicatricibus vacuo; V 3: magnis vulneribus exceptis; IX 15: vulnus res publica excepisset; Curt. VIII 7: pro gloria tua, pro victoria vulnera excipiunt; VIII 14; novem iam vulnera hinc tergo, illinc pectore exceperat; Petr. 1: haec vulnera pro libertate publica excepi; Lucan. II 311 excipiam ...vulnera; III 582 exceptum … vulnus; Sen. benef. III 9: Pugnavi pro te et vulnera excepi ; Quint. VI 3, 75 vulnus ore exceptum ostendenti; Suet. Aug. 20: Delmatico [bello] vulnera excepit; Tac. ann. XII 30: corpore adverso vulnera excepit; ann. XIV 5: unum tamen vulnus umero excepit (Agrippina!); fino ad Apul.met . VII 5 virum... vulnera corpore excipientem. 61 Vd. per es. Cic. de orat. II 249 claudicanti ex volnere ob rem publicam accepto; Liv. XLV 19, 17: insigne corpus honestis cicatricibus, omnibus adverso corpore exceptis, habeo (il vecchio soldato); Tac. ann. II 15: onusta vulneribus terga (i soldati di Varo). Per il valore del gesto pubblico vd. per es. Liv. II 23, 7 Inde ostentare tergum foedum recentibus vestigiis verberum; XXIX 9, 4: victi Plemini milites ...cruorem ac uolnera ostentantes, etc. Sulla ‘fisicità’ del legionario vd. Horsfall 2003, 104. Per un inquadramento culturale vd. Leigh 1995; ampia rassegna in Baroin 2002. 62 Vd. per es. la scena narrata da Cic. Ve r r . 2 V 3: tunicam... a pectore abscidit, ut cicatrices po- pulus Romanus iudicesque aspicerent adverso corpore exceptas; simul et de illo vulnere quod ille in capite ab hostium duce acceperat; e l’osservazione dello stesso Cicerone, inv. I 47: quoniam cicatrix est, fuit vulnus. 63 Lo stato di conservazione del testo non consente certezze su cosa seguisse a pa[lam]. Si possono ricordare espressioni come vulnera gerere, come in Aen. II 278, vulneraque illa gerens (con il commento di Serv. Dan.: ‘gerens’ velut insignia praeferens et ostentans quae a diversis pu- gnans pro patria susceperat; vd. Horsfall 2008, ad loc.).

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Max. I 8, ext. 8: contumeliosis dictis), fino ai contumeliosa verba di cui parla Seneca64. La contumelia richiama una situazione diseguale, in cui una parte prevarica verbalmente sull’altra: così Seneca può dire che il Caso tratta con i corpi degli uomini inpotenter con- tumeliose crudeliter (Sen. dial. X 6). I teorici dell’oratoria raccomandavano di usare con cautela la contumelia nei tribunali, di non compiacersi del verbum contumeliosissimum (Quint. II 12, 12), anche se ammettevano che talvolta si potesse farvi ricorso (Quint. VI 3, 28; IV 1, 10). Ma la degenerazione dei rapporti nell’età delle guerre civili aveva reso superate simili scelte moderate65. Una lettera di Bruto e Cassio indirizzata ad Antonio, pressoché contemporanea agli eventi narrati nella laudatio, lamenta che i messaggi di quello siano pieni di offese e minacce nei confronti degli avversari, i quali invece non gli hanno mai mancato di rispetto: Litteras tuas legimus simillimas edicti tui, contumeliosas, minacis, minime dignas quae a te nobis mitterentur. Nos, Antoni, te nulla lacessiimus iniu- ria (Cic. fam. XI 3, 1). Lo squilibrio tra il rispetto da una parte, e la superbia dall’altro, è qui pienamente tratteggiato: il tono contumeliosus si adopera con gli inferiori (con gli schiavi, ad esempio: Sen. ep. 47, 11)66. A Lepido è dunque attribuito esplicitamente un atteggiamento di importuna crude- litas. Il vigoroso nesso, già ciceroniano (prov. cons. 1: importunam in me crudelitatem) conferma la presenza nel testo della laudatio di consistenti riprese dalla migliore oratoria romana. La figura di Lepido ne esce caratterizzata in chiave tirannica67. Una simile vee- menza di attacco era certo appropriata ai toni dello scontro civile, come mostra la conso- nanza con alcune definizioni che si leggono in Cicerone a proposito di comportamenti, appunto, tirannici68. La ‘propaganda’ della politica nel 43 ebbe anche altre pesantezze: ma il racconto del marito è di molti anni successivo, e segnato da prospettive ‘augustee’: chi parla è un perdonato, grato per la vita al signore che l’ha salvato, ma memore ancora dei rancori della fase triumvirale. La tradizione storiografica, ancorché depurata, aveva conservato nel tempo il ricordo di quegli eventi ormai lontani: Velleio poteva ricordare (II 67, 2): fuisse in proscriptos uxorum fidem summam, libertorum mediam, servorum aliquam, filiorum nullam, ed Appiano richiamare l’abbondanza di scritture storiografiche relative a quella fase della

64 Const. II 5: qui mortem ac verbera tolerabiliora credat quam contumeliosa verba; ira III 34: verba contumeliosa. 65 Vd. per es. Cic. Phil. III 15: At quam contumeliosus in edictis, quam barbarus, quam rudis; vd. Phil. V 24: impotentem, iracundum, contumeliosum, superbum. 66 Questa caratterizzazione potrebbe portare qualche argomento alla integrazione [servilem in] modum, che pure ha suscitato giustificati dubbi. 67 Vd. in generale Tabacco 1985, part. 89-116, sulla crudelitas. 68 Cic. Ve r r . 2 V 103: consilium importuni atque amentis tyranni; fin. I 10, 35: tam importunus tamque crudelis; Cluent. 63, 177: crudelis atque importuna mulier; Liv. XXIX 17, 20 (crudelissi- mus atque importunissimus tyrannus).

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storia di Roma (App. BC IV 64): né andrà trascurata la conservazione di memorie fa- miliari69. Ma se gli episodi edificanti o terribili erano memorabili, quanti tra gli astanti al funerale, quanti tra i successivi lettori della laudatio epigrafica potevano essere con- sapevoli del ‘discorso’ augusteo a proposito di Lepido e della sua famiglia?70 La perdita delle Memorie di Augusto impedisce di conoscerne precisamente la versione, comunque essa fosse nota all’estensore della laudatio (e ai suoi destinatari). L’omissione del nome di Lepido dalle Res Gestae e le varie notizie sull’atteggiamento gelido e sprezzante del princeps verso l’ex collega fanno pensare che l’orientamento oscillasse tra il silenzio e la delegittimazione: le pagine di Velleio, ad esempio, propongono dell’ex-triumviro una lettura molto severa71. Ma i rapporti tra il princeps e gli Aemilii Lepidi furono complessi: allo scontro con il collega triumviro e alla repressione della congiura ordita da suo fi- glio si affiancarono anche relazioni positive con altri membri dell’autorevole famiglia72. Che cosa significava un rancore così tenace verso il defunto pontefice massimo? Nulla si conosce sulla vita pubblica del proscritto dopo la fine della crisi: nulla trapela dal testo superstite, e forse nulla di notevole vi era più stato da ricordare. I quieta tempora del ma- trimonio evocati nell’elogio funebre fanno pensare proprio alla «sopravvivenza oscura di quanti rientrarono dall’esilio» (ἐπανελθόντων ἀφανὴς καταβίωσις), che secondo Ap- piano non era degna di racconto (BC IV 63)73. L’autore della laudatio conservò memoria viva di quegli eventi, lontani di molti decenni, tenendo insieme due epoche distinte, il tempo dei fatti e la lunga durata del ‘mondo’ augusteo. Le memorie non sopite e i residui del linguaggio delle guerre civili (IIa 5: adversarii) duravano dunque fin dentro gli orizzonti (esteriormente) pacificati dell’età di Cesare Augusto? Quanto pesava la presenza dei sopravvissuti e dei loro familiari74? Certo, all’epoca della laudatio il vecchio vedovo restava tra i sempre meno numerosi testimoni di quell’età travagliata e lontana, verso la quale il princeps guarda- va malvolentieri75. Pochi anni più tardi, poi, quotus quisque reliquus qui rem publicam vidisset (Tac. ann. I 3)?

69 Vd. per analogia le corvées imposte in Grecia al tempo dello scontro di Azio, ricordate un secolo dopo dalla famiglia di Plutarco (Ant. 68, 7-8). 70 Il problema è segnalato in Keegan 2010. 71 Rohr Vio 2004, part. 250-53; Rohr Vio 2009, part. 287-88. Vd. anche Allély 2004, 239-46. 72 Weigel 1985, 188: «Augustus’ relations with the Aemilii Lepidi were, on the whole, positive». 73 La «retiring life» del laudator esclude la sua identificazione con un ex-console:Horsfall 1983, 87, 91-92. 74 Henderson 1997, 105. Su questa lunga eredità delle guerre civili vd. ancora Canfora 2015. 75 Multa fecit ad quae invitus oculos retorquebat (Sen. clem. I 11, 1): vd. Berno 2013, part. 184.

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Appendice. A proposito della lingua della laudatio

a. Questo testo lungo e complesso, che pone tanti problemi di ricostruzione e in- terpretazione, non ha goduto di grande fortuna per le sue qualità stilistiche. La linea, anche su questo punto, fu dettata da Mommsen, il quale al termine di una analisi gene- rale sentenziò: «der Stil ist ziemlich geschraubt, und erinnert mehr an Velleius, als an Cicero»76. La condanna è stata successivamente aggravata77, in genere sostanzialmente condivisa, con correzioni78, e solo una volta ripensata radicalmente, pur entro un giudi- zio riduttivo sulle qualità retoriche79. Tali valutazioni sembrano derivare soprattutto dalla natura disomogenea del testo, penalizzato anche dall’incertezza circa l’integrazione delle molte lacune. Il rifermento alle regole del genere letterario non pare del tutto risolutivo: nella laudatio sono state riconosciute forme derivate dallo schema del ‘panegirico’80. Si aggiunga poi il fatto che il marito stesso, a parte le canoniche preterizioni e la consapevolezza dell’inferiorità del- le parole rispetto ai fatti, teme di parlare parum digne (II 23). L’elogio rivolto ad una donna presentava difficoltà specifiche, legate alla prevalenza di comportamenti ordinari (communia) rispetto alle vicende alterne della vita (varietates), come ben rileva l’autore della laudatio Murdiae81. Nel caso dell’anonima non erano mancate certo, accanto ai communia, anche le va-

76 Mommsen 1863, 464-65. Diversamente Norden 1898, 268-69 n. 2: «Daß die Rede an Velleius erinnere, wird Mommsen … nicht aufrecht gehalten haben. Wie viel mehr damals ein vornehmer Mann konnte als ein gewöhnlicher, sieht man aus dem Vergleich dieser Lobrede mit der des Murdia». Su questo testo vd. Lindsay 2004, con bibliografia. 77 Costa 1916, 28: «quest’oratio che, stilisticamente parlando, non solo è tutt’altro che ciceronia- na, ma è anzi ben misera cosa»; vd. 39: «ristretto valore letterario»; Durry - Lancel 1992, xc-xci, parlano di «monotonie», «maladresse», di un uomo «qui ne sait pas écrire», e di «anti-Kunst- prosa» (xliii: un «unhelpful and unhistorical argument», a giudizio di Horsfall 1988, 53). 78 Ramage 1994, part. 362: la laudatio «as literature»; 365: «the vocabulary is hardly that expected of panegyric»; 367: «This is not Cicero»; 368 «little art»; Cutolo 1983-84, 38; Flach 1991, 37-40: «redet er nicht gerade in dem geschliffenen Stil eines Cicero, doch fehlt es seinem Nachruf nicht an eigenwilligen Wortverbindungen, zugespitzten Wendungen, rheto- rischen Fragen, jähen Ausrufen, unverbrauchten Sprachbildern und gehaltvollen Gedanken». 79 Horsfall 1983, part. 90-91. 80 Ramage 1994. L’influenza dell’epidittica nella prassi romana dellelaudationes sembra ormai pacificamente accettata: Pernot 1993, 107-08. Per le innovazioni delle laudationes nell’età di Cesare, vd. Pepe 2011. 81 Quom omnium bonarum feminarum simplex similisque esse laudatio soleat, quod naturalia bona propria custodia servata varietates verborum non desiderent, satisque sit eadem omnes bona fama digna fecisse, et quia adquirere novas laudes mulieri sit arduom, quom minoribus varietatibus vita iactetur, necessario communia esse colenda.

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rietates, anzi le res gestae. Per questa via il discorso, almeno in alcune sue parti, finisce per ottemperare ai requisiti delineati dalla precettistica ‘alta’. Nel de oratore (II 343) Cice- rone osserva che clementia, iustitia, benignitas, fides, fortitudo in periculis communibus iucunda est auditu in laudationibus; più avanti aggiunge (II 346) che magna etiam illa laus et admirabilis videri solet, tulisse casus sapienter adversos, non fractum esse fortuna, retinuisse in rebus asperis dignitatem. Persino l’eccezionalità dei meriti della defunta tro- va il suo posto in queste regole: sumendae autem res erunt aut magnitudine praestabiles aut novitate primae aut genere ipso singulares; neque enim parvae neque usitatae neque vulgares admiratione aut omnino laude dignae videri solent (II 347). Per parlare di tutto questo il marito attinse, come fu capace, alla varietas verborum. Dalla lettura risulta che il testo presenta almeno tre componenti, legate a registri diffe- renti del latino. La prima, da tempo rilevata, è quella del linguaggio giuridico, rappre- sentato soprattutto nella lunga sezione dedicata alla vicenda del patrimonio familiare preservato nella lite con i parenti82; la seconda, nella sequenza relativa alla fase delle proscrizioni, è costituita dal linguaggio oratorio, con frequenti e significative consonan- ze con la prosa ciceroniana83; la terza è data dall’affettività, il cui lessico ricorre con una certa pregnanza nella sezione finale del testo, più intima e patetica, sostenuta dai luoghi comuni delle consolationes e della filosofia morale più comune84. Le carenze di stile rilevate dagli studiosi conseguono dalla compresenza non risol- ta di tali registri diversi, e da suture inaccurate: esse hanno lasciato insoddisfatti lettori avvezzi alla coerenza di testi retoricamente più avvertiti. L’imperfetto controllo dei mez-

82 Per Ramage 1994, 355 e n. 59, la donna è presentata con le qualità di un «ideal lawyer», ma ciò non significa che l’autore avesse speciali competenze giuridiche. Horsfall 1983, 85 rileva la «studious avoidance of technically exact legal language», pur se nel testo compaiono termini giuridici (o usati in senso giuridico). Una provvisoria lista: rumpere testamentum, inten- dere, suscipere patrocinium (vd. Cic. Ve r r . 2 IV 81, de orat. III 63; Liv. XXXIV 58; CIL VI 3828), vindicare, coemptio, tutela, emancupata, acta, finitum (matrimonium), patrimonium, custodia, di- vortium, multare, fructus, separatio, ministerium, mandata, praescripta. 83 Perciò resta vero il giudizio di Horsfall 2001, 358: «Cicero was not the only style in which a Roman might express himself on a public occasion». Oltre ai paralleli sin qui segnalati vd. anche, in riferimento a varie espressioni del testo: per praesentia atque imminentia pericula (II 5), Cic. fam. XII 15, 4: neque nostro praesentium neque imminenti Italiae urbique nostrae periculo (e Suet. Vit. 14: taedio praesentium et imminentium metu); per repentinis nuntiis (II 5), Acc. trag., 608-09 Dangel (= 60-61 Ribbeck): nuntio repentino; Cic. Ve r r . 2 V 108: repentino calamitatis ... nuntio; Rut. Lup. I 17: repentino nuntio; etc.; per fatear necessest (II 40), Lucr. I 399, etc.; Cic. div. Caec. 19: fatearis necesse est; Sen. dial. V 11: quos fatearis necesse est malos; etc.; per calamitate frangor (II 61-62), Caes. Gall. I 31: Quibus proeliis calamitatibusque fractos; Cic. Sull. 5: hic se ita fractum illa calamitate atque adflictum putavit; per maerore mersor (II 63), Plaut. Capt. 133: maerore maceror. 84 In questa sezione Cutolo 1983-84, part. 38-42, 47-53, ha notato riprese del lessico elegiaco e da Virgilio. Sui temi filosofici vd. Wistrand 1976, 72-75, Osgood 2014, 88-89, 95-98.

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zi espressivi risale credibilmente alla formazione dell’oratore85, ma anche ai caratteri di oralità presenti nel testo, testimoniati dalle tracce di punteggiatura86: lo può mostrare il confronto con un più celebre esempio87. Le metafore, le espressioni studiate, i superlativi, le preterizioni, le interrogazioni retoriche, così frequenti, possono trovare miglior spiega- zione in sede di actio che all’atto della lettura, anche se certo non vi è perfetta identità tra testo detto e testo pronunciato88. b. Gli acta della donna, contro quanti volevano portarle via il patrimonio, contro chi voleva sottrarle la casa, contro colui che non voleva renderle il marito, la portarono, secon- do il racconto del marito, ad esibire qualità speciali, normalmente intese come ‘maschili’, che si aggiunsero a quelle normali (II 30-36) 89. Ciò configura una situazione limite, che a stento si mantiene entro i confini di quanto, per dirla con Sallustio,necesse est probae. Di qualche interesse il quadro che ne risulta. L’audacia, per esempio, non è virtù naturaliter riferita alle donne: quando ad esse è attribuita, anzi, può non essere un complimento. Lo mostra la commedia (Plaut. Men. 731: Mulier, multum et audax et mala es!), dove persino la grande Alcmena sembra ecce- dere in ardimento (Amph. 836-838: Satis audacter), lo confermano l’oratoria (Cic. Cluent. 18: mulier audax, pecuniosa, crudelis), la storiografia (Liv. I 47, 7:muliebris audacia, in contesto negativo), e anche la poesia erotica, dove indica soprattutto la capacità di passare dalle ritrosie della casta matrona all’ardimento dell’amante (Prop. III 8, 5: tu nostros audax invade capillos). La donna della laudatio seppe mostrare un ardimento che non andò oltre il limite, e si salvò dall’accusa di aver compiuto, come la fosca Sempronia ritratta da Sallu- stio, gesti di virilis audacia (Cat. 25). Anzi, la sua saggezza prevenne la sconsideratezza del marito (audacia) che avrebbe portato alla perdita del comune patrimonio. E qualcosa del genere si potrebbe dire per la sua firmitas (animi), qualità generalmen- te riconosciuta agli uomini veri90. A Roma, soprattutto nel pensiero giuridico, si era anzi teorizzata per le donne la qualità negativa della infirmitas (anche della imbecillitas e levitas animi), come chiarisce Cicerone (Mur. 12: mulieres omnis propter infirmitatem consili ma-

85 Horsfall 1988, 53: «We may learn from LT [...] roughly what an eques might in practice remember from his years (or weeks) with a rhetor»; Horsfall 1983, 89: «a man not fluently versed in rhetoric». 86 Wistrand 1976, 14-15. 87 Vale a dire il discorso di Claudio nella tabula Lugdunensis (CIL XIII 1668): vd. De Vivo 1980, 29. 88 Storoni Mazzolani 1983, 14, ricorda che il testo potrebbe essere abbreviato rispetto a quello orale. 89 Hemelrijk 2004, 189. 90 Cic. Sest. 95: tali virtute tantaque firmitate animi; Plin. ep. VII 31, 3: eadem firmitate animi laboribus suffecit, qua nunc otium patitur: vd. Curt. VII 9, 11: ipse rex, quod vigoris aegro adhuc corpori deerat, animi firmitate supplebat.

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iores in tutorum potestate esse voluerunt). L’incostanza delle deliberazioni era vista come conseguenza della debolezza fisica, derivata dallo stato di salute, dall’età, o appunto dal sesso, che impediva di raggiungere il pieno vigore ‘virile’. Che in Apuleio la firmitas sia attribuita a Psiche (met. V 13, 4) è solo la conferma di uno stereotipo radicato. Potenzialmente ambigua appare anche la liberalitas, virtù certo fondamentale della società umana (Cic. fin. V 65), ma da gestire con moderazione, per non sconfinare nella luxuria (Cic. Brut. 9 3: velim […] consideres, ne tua liberalitas dissolutior videatur; vd. Cic. off. II 63; Ve r r . 2 II 28, etc.), o nella largitio. Riferire alla donna un concetto legato all’am- ministrazione del patrimonio ha quindi implicazioni giuridiche e morali di rilievo. Sal- lustio mostra scarsa simpatia per la liberalitas di Orestilla (Cat. 35, 3), così come Apuleio per quella di una pur bona uxor (apol. 99, 31: prolixa liberalitas). Nella laudatio Murdiae questa virtù è citata dal figlio soprattutto in rapporto al modello della generosità del ma- rito defunto (memor liberalitatis patris mei), mentre Seneca ricorda (dial. X 14, 3) come la propria madre avesse sempre moderato la liberalitas dei figli, ma senza porre limiti alla propria (tu liberalitati nostrae semper inposuisti modum, cum tuae non inponeres): e senza produrre danni patrimoniali, evitando di cadere nella tipica impotentia delle donne, anzi contribuendo alla ricchezza materiale della famiglia. Nel caso della donna della laudatio, la liberalitas ebbe un’occasione specialissima per manifestarsi: durante la prima disavventura degli anni cesariani, quando ella sacrificòomne aurum margaritaque. Non si dice nulla invece su un possibile ruolo dei gioielli, o del patri- monio, nella fase della seconda persecuzione, quella triumvirale. Eppure, quando si scate- nò nella caccia ai proscritti, il denaro consentì alle donne di salvarne qualcuno. La loro fides ebbe così modo di dimostrarsi, smentendo i comportamenti interessati di altre donne (e lo stesso valse per schiavi e figli)91. La galleria aneddotica di Appiano offre qualche esempio dell’atteggiamento: la moglie di Acilio offrì i propri gioielli ai soldati venuti ad arrestare il marito (App. BC IV 163), quella di Virginio pagò la fuga verso la Sicilia (App. BC IV 204-208)92. Per altro, anche il celebre discorso di Ortensia contro le imposizioni tributarie dei triumviri, uno tra gli interventi più vistosi delle donne nella sfera pubblica, ricorda con quale energia le le matronae difesero il proprio patrimonio (App. BC IV 135-144; Val. Max. VIII 3, 3; Quint. I 1, 6)93. Alcune donne, pare, raggiunsero l’obiettivo con altri mezzi (App. BC IV 170). c. In una riflessione sulla lingua dellalaudatio non può mancare un’analisi del trat- to più notevole: l’unico hapax. L’ignota defunta è elogiata dal marito come speculatrix e propugnatrix periculorum meorum (II 58). Entrambi i termini sono legati all’ambito mi-

91 Parker 1998 sottolinea come simili dinamiche si svilupparono anche in l’età imperiale. 92 Hinard 1985, 305; Ferriès 2013, 401-2 sulla laudatio. I preziosi svolgono un ruolo anche nella più tarda, e però simile, vicenda di Servilia (Tac. ann. XVI 31-32: an detractum cervici monile venum dedisset […] gemmas et vestis et dignitatis insignia dedi: Wistrand 1976, 42). 93 Rohr Vio - Lucchelli c.d.s.

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litare, largamente rappresentato nel testo94. Il raro speculatrix rinvia allo spionaggio, op- pure al ruolo di una vedetta: si tratta di uno dei termini ‘recenti’ del testo, almeno a stare alle attestazioni reperibili: tutte, a parte una, successive alla prima età imperiale. In Valerio Massimo (IX 8, ext., 1) speculatrix designa una statua commemorativa di una sconfitta cartaginese, posta come di vedetta sul mare; in una declamazione dal tema improbabile, incentrata sulla figlia del capo dei pirati che estorce le nozze al prigioniero in cambio della libertà (Sen. Rhet. contr. I 6), il termine ricorre nella versione del retore Gallione, che l’a- dopera per sviluppare l’idea che la donna poteva essere una spia, fattasi liberare per farsi indicare nuove mete per i pirati: ne haec speculatrix esset et piratis occasiones omnes indicaret. Termine dunque non proprio positivo, ma con una certa fortuna nella poesia ‘alta’ imperia- le: così in Valerio Flacco (Arg. VII 190) descrive Giunone che siede sulle rocce per assistere alle prove di Giasone: Caucaseis speculatrix Iuno resedit / rupibus; in Stazio (silv. II 2, 3) è detto di una villa, che bellicosamente sovrintende a un promontorio presso Sorrento: celsa Dicarchei speculatrix villa profundi95. Rispetto alla laudatio, però, l’occorrenza più signifi- cativa del termine è in Cicerone (nat. III 46), che definisce le Furie (le Erinni)deae... spe- culatrices credo et vindices facinorum et sceleris. L’associazione con vindex e il richiamo alla giustizia ricordano in qualche modo il ruolo dell’eroica moglie dell’elogio: ma il retroterra linguistico e concettuale del testo epigrafico si lascia ulteriormente specificare. I sostantivi in -ix appaiono, fin dal teatro e dalla poesia arcaica, linguisticamente piut- tosto produttivi: ai termini più comuni, come nutrix, se ne affiancano altri, derivati dal corrispondente maschile in -or, come contemptrix (Bacch. 531), fictrix (Lucil. Sat. 304), oratrix (Mil. 1072), ma anche altri apparentemente autonomi, come oblatratrix (Mil. 681). Tali termini non sono esclusivamente legati alla creatività linguistica comica, ma ap- partengono anche alla sfera ‘alta’ del linguaggio, come mostrano per esempio hortatrix (Pa- cuv. trag. 195), e oratrix (Cic. rep. II 14), o le riprese di termini attestati nei comici, come contemptrix (Sen. benef. IV 2, 4) o fictrix (Cic. nat. III 92). Per l’estensione al femminile di termini di ambito militare da ricordare almeno bellatrix (Verg. Aen. I 493, VII 80596; vd. anche Cic. Tusc. IV 54: bellatrix iracundia), e spoliatrix (Cic. Cael. 52, con evidente ironia:

94 Ramage 1994, 357; Hemelrijk 2004, 189: i due termini sono entrambi esito di una «military metaphor only here applied to a woman», come «military spy and defender». 95 Vd. anche silv. V 3, 66, in una perifrasi che designa ancora Minerva, che dal suo tempio sorve- glia il golfo di Sorrento: Tyrrheni speculatrix virgo profundi. Due occorrenze dalla Tarda antichità: Apuleio (Plat. II 7) definisce la giustiziafida speculatrix utilitatis alienae (l’aggettivo riduce l’am- biguità etica del sostantivo); in Prudenzio (Hamart., 308) designa con sdegno lo sguardo corrotto di chi vuol guardare spettacoli peccaminosi a teatro (speculatrix, pupula molli subdita palpebrae est). Meno interessante l’uso nel commento virgiliano di Servio, che adopera il termine, (ad Aen. IV 186), come glossa per custos, riferito alla Fama, che sedet custos aut summi culmine tecti, turribus aut altis, et magnas territat urbes; quindi in senso negativo. 96 «Could easily enough not be a Virgilian coinage»: Horsfall 2000, ad loc.

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tune Venerem illam tuam spoliare ornamentis, spoliatricem ceterorum?). Quanto a propugnatrix, questo hapax97 va rapportato al maschile propugnator, usato in contesto militare ma anche in senso metaforico. È Cicerone a fornire i paralleli più interes- santi: ne risulta il ruolo particolare delle Verrine come riferimento linguistico per le parti retoricamente più caratterizzate della laudatio98. Il riferimento è certo nel greco promachos, probabilmente sul modello di adiutrix, nei suoi usi di linguaggio ‘alto’ (vd. Cic. dom. 144, custos urbis, Minerva, quae semper adiutrix consiliorum meorum, testis laborum exstitisti). L’utilizzo di femminili in -ix in dittologia è attestato almeno dalla commedia, ora con carattere più comico (Plaut. Mil. 692-93: da quod dem quinquatribus / praecantrici, conie- ctrici, hariolae atque haruspicae), ora con un evidente innalzamento del tono e una parodia dello stile di preghiera (Ter. Hec. 47-48: facite ut vostra auctoritas / meae auctoritati fautrix adiutrixque sit). Ma il ricorso esteso a questa struttura, anche con sostantivi creati ad hoc, si verifica con Cicerone, che oltre ad adoperare la dittologia ‘maschile’99, si serva anche di quella femminile, della quale sfrutta l’intera possibilità espressiva (nat. III 92, 2: eius autem universae [materiae] fictricem et moderatricem divinam esse providentiam; leg. I 18: vitiorum emendatricem legem esse oportet, commendatricemque virtutum). Di particolare interesse, ancora, Ve r r . 2 IV 17: tua, inquam, Messana, tuorum adiutrix scelerum, libidi- num testis, praedarum ac furtorum receptrix, ripreso, con più efficace costruzione in Ve r r . 2 V 160: sibi iste urbem delegerat quam haberet adiutricem scelerum, furtorum receptricem, flagitiorum omnium consciam100. Il discorso sembra dunque guardare di frequente alla lin- gua delle Verrine: il che può forse dire qualcosa sulla formazione, o i gusti, del suo autore101.

97 Il termine ricorrerà come epiteto mariano nella versione latina degli Inni di S. Efrem (Propu- gnatrix confidentium in te), come emblema di Colonia (sancta sanctorum propugnatrix Colonia), come titolo encomiastico di Elisabetta I, Regina fidei Christianae propugnatrix acerrima (1592), etc. 98 Per es. Mil. 16: senatus propugnator atque ... paene patronus, vd. 39; red. sen. 38: propugnator mearum fortunarum et defensor adsiduus; de orat. 244: paterni iuris defensor et quasi patrimoni propugnator sui; Brut. 19, 1: propugnatorem communis libertatis; Verr. 2 IV 80: propugnatorem monumentorum P. Scipionis defensoremque profiteri; Ve r r . 2 II 12: provincia quaestores studiosis- simos defensores propugnatoresque habuerit, praetorem vero cohortemque totam sic studiosam. Vd. anche Liv. XXVII 15: alii procul ex navibus vulnerarent moenium propugnatores; Sen. dial. VII 15: ne patriae quidem bonus tutor aut vindex est nec amicorum propugnator, si ad voluptates vergit. 99 Ad es., Cic. Ve r r . 2 IV 80: eorum spoliatorem vexatoremque defendes; part., 97: hortator atque actor; red., 9: adiutores auctores adiutoresque; Phil. III 19: hortatorem atque auctorem. 100 Vd. anche, con diversa struttura, Ve r r . 2 IV 150: fuisse Messanam omnium istius furtorum ac praedarum receptricem negare non poterunt. 101 Horsfall 1988, 54. In ipotesi, il laudator avrebbe potuto far redigere il testo da un’altra persona, cui andrebbero allora riferiti i limiti e i pregi stilistici della commemorazione.

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MatronaeOK.indb 161 21/06/16 08:55 CARLO FRANCO

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MatronaeOK.indb 162 21/06/16 08:55 LA DONNA E IL TRIUMVIRO. SULLA COSIDDETTA LAUDATIO TURIAE

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MatronaeOK.indb 163 21/06/16 08:55 - 164 -

MatronaeOK.indb 164 21/06/16 08:55 SARA BORRELLO

Prudentissima et diligentissima femina Servilia, M. Bruti mater, tra Cesariani e Cesaricidi *

Tra le figure femminili che si distinsero negli ultimi decenni della Repubblica romana spicca quella di Servilia1, madre di M. Giunio Bruto, sorellastra di Catone Uticense2 e più duratura amante e intima amica di Giulio Cesare3. L’intraprendenza e l’attitudine all’a- zione politica ‘dietro le quinte’ furono le caratteristiche che connotarono questa matrona per l’intero arco della sua vita; a ciò si aggiunge la sua particolare posizione, al centro di rapporti di parentela e di conoscenza con i principali esponenti delle opposte factiones, tali da permetterle di tessere una rete di relazioni con diversi uomini al potere. Questi elementi le consentirono di giocare un ruolo chiave nelle vicende che seguirono le Idi di marzo del 44 a.C. e ne resero l’operato particolarmente rilevante per la sorte dei capi della fazione repubblicana, con i quali era imparentata4.

1. Servilia entra in scena: la riunione ad Anzio

La conoscenza del ruolo svolto da Servilia sulla scena politica si deve in larga parte

* Desidero ringraziare la Prof.ssa Francesca Rohr Vio e la Prof.ssa Francesca Cenerini per aver- mi dato la possibilità di inserire questo mio contributo negli Atti di convegno. Sono inoltre ri- conoscente alla Prof.ssa Giovannella Cresci Marrone e alla stessa Prof.ssa Francesca Rohr Vio per gli ottimi consigli e le utili correzioni. Un ringraziamento particolare è rivolto alla Dott.ssa Nicoletta Brocca per le ricerche sottese alla ‘nota filologica’ e la relativa stesura, volta a ricostruire la datazione della riunione ad Anzio tramandata in Cic. Att. XV 11. 1 Una sintetica presentazione di Servilia, per la quale non esiste ad oggi una bibliografia specifica, è in Münzer 1923a, 1817-1821, unitamente alle testimonianze antiche che ne recano menzione. Un’analisi esaustiva e recente è in Borrello 2010-2011. 2 Ascon. Scaur. 17 K-S. Servilia fu una donna influente in alcune decisioni del fratello oltre che del figlio, sui quali esercitò, secondo gli antichi, tra cui Asconio, unamaterna auctoritas. Cf. Hillard 1983, 9-12. 3 Svet. Iul. 50, 2. Sulla relazione tra Cesare e Servilia cf. anche Cic. Att. XIV 21, 3; Plu. Brut. 5, 3-4; Cat. Mi. 24, 1-3; Macr. sat. II 2, 5; sul sospetto che Bruto fosse frutto di questo legame cf. soprattutto Cic. Att. II 24, 3; Plu. Brut. 5, 1-2; App. BC II 112, 468. A tal proposito vd. Porte 1994, 465-476. 4 Oltre ad esser la madre di Bruto, Servilia fu la suocera di Gaio Cassio Longino, sposato alla sua ultima figlia,Iunia Tertia (detta anche Tertulla). Su questo matrimonio e, in generale, su Iunia Tertia vd. Cic. Att. XIV 20, 2; ad Brut. II 3, 3 e 4, 5; Plu. Brut. 7, 1 e 14, 4; Tac. ann. III 76. Cf. Münzer 1918, 1114.

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MatronaeOK.indb 165 21/06/16 08:55 SARA BORRELLO

all’epistolario di Cicerone, fonte contemporanea alle vicende narrate e familiaris dei Cesaricidi. La prima iniziativa di carattere politico imputabile a Servilia nelle vicende post-Ce- saricidio si data tra la fine di maggio e il principio di giugno del 44 a.C. Allora, secondo quanto l’Arpinate riferiva ad Attico, la matrona era ritornata a Lanuvio, nella tenuta del figlio, e confermava l’intenzione di Bruto e Cassio di non lasciare per il momento l’Ita- lia: Obsignata iam Balbus ad me Serviliam redisse, confirmare non discessuros.5. All’indomani delle Idi di marzo, pattuiti con i leader cesariani il riconoscimento de- gli acta Caesaris6, ma anche l’amnistia per i congiurati7, Bruto e Cassio avevano creduto di trovarsi in una condizione di sicurezza, confortati in questo dalla concessione da par- te di Antonio e Lepido dei loro figli quali ottime garanzie e dall’invito a cena formulato nei loro confronti dai due capi cesariani8. Tuttavia, dopo il funus di Cesare9, la situazione politica era profondamente mutata, al punto che alcuni tra i congiurati, certi di non

5 Cic. Att. XV 6, 4: «Quando questa lettera era già stata sigillata, una di Balbo mi informa del ritorno di Servilia, la quale conferma che loro [scil. Bruto e Cassio] non stanno per partire». La lettera in questione è variamente datata tra il 28 maggio e il 2 giugno 44 a.C., per cui vd. Beaujeu 1988, 155-157. 6 Non sono noti con esattezza quali fossero le assegnazioni magistratuali e i progetti politici stabiliti da Cesare per il 43 e il 42 a.C. Il contenuto degli acta Caesaris, ‘testamento politico’ del dittatore probabilmente nella condizione di meri appunti, è ricavato da alcune parole pronuncia- te da Antonio in App. BC II 128, 537. 7 Richiesta da Cicerone in un lungo discorso riportato in D.C. XLIV 23-33, probabilmente una fictio retorica, durante la riunione del Senato datata 17 marzo 44 a.C. e svoltasi nel tempio di Tellus. Knight 1968, 157. Cf. Cristofoli 2002, 100-102, che conclude l’esame dell’orazione asserendo che «[…] in Cassio Dione è Cicerone a divenire l’artefice primo e unico della compromissoria amnistia». Accenno cursorio è in Vell. II 58, 3. 8 Per i figli di Antonio e Lepido dati in garanzia vd. Liv.perioch . 116; App. BC II 142, 594; D.C. XLIV 34, 6-7. Differiscono parzialmente le testimonianze di Cic.Phil . I 1, 2 e 13, 31, II 36, 90, Plu. Ant. 14, 2 e Brut. 19, 2, che tramandano come vi sia stato un solo ostaggio, scelto nel figlio di Antonio: con ogni probabilità questa discrepanza è dovuta al fatto che Cicerone nelle Philippicae si rivolge prevalentemente a Marco Antonio, motivo per cui menziona solamente suo figlio, tacendo quello di Lepido. L’Arpinate inoltre sarebbe la fonte a cui Plutarco ha attinto, riportando dunque la medesima notizia. Per il duplice invito a cena, di fatto due incontri politici favoriti da Giunia Seconda, moglie di Lepido e sorellastra di Bruto, e da Giunia Terza, moglie di Cassio, figlie di secondo letto di Servilia, vd. Plu.Ant . 14, 3; Brut. 19, 3; D.C. XLIV 34, 7. Cf. Rohr Vio 2012, 110 e 112; Rohr Vio 2014a, 103. 9 Di forte impatto furono le parole pronunciate da Antonio nella laudatio funebris, che dipin- se Cesare come un uomo spietatamente ucciso proprio da quei sostenitori verso cui aveva eserci- tato la celebre clementia. Il discorso del console è in App. BC II 144-146; Plu. Brut. 20, 4-7; D.C. XLIV 36-49.

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MatronaeOK.indb 166 21/06/16 08:55 PRUDENTISSIMA ET DILIGENTISSIMA FEMINA

essere più al sicuro nell’Urbe10, con il pretesto di assumere gli incarichi che Cesare aveva loro assegnati, erano fuggiti dalla città11. A Bruto e Cassio, però, rispettivamente praetor urbanus e praetor peregrinus nel 44 a.C.12, il dittatore non aveva affidato nessuna provin- cia propretoria né altro tipo di mandato13. A partire dalla metà di aprile, il figlio di Servilia non si trovava più a Roma, bensì nei pressi di Lanuvio14, in una tenuta di sua proprietà15, dove, secondo la voce di Cicerone, Ille exsilium meditari.16. Tale intenzione, ribadita nuovamente nell’epistolario, era accompagnata al rifiuto di prendere parte alla riunione senatoria del primo di giugno17, in cui l’assemblea avrebbe discusso l’assegnazione delle province per il 43 a.C.18 e, quin- di, anche gli eventuali incarichi provinciali, mediante senatoconsulto, per il figlio e il genero di Servilia19. Tra la metà e la fine di maggio numerose erano state le richieste di Bruto, seguite da quelle di Cassio, di appello a Cicerone, con il quale voleva incontrarsi per decidere il proprio operato in merito alla suddetta adunanza20.

10 Kumaniecki 1972 [1959], 501. 11 App. BC III 2, 4; Plu. Ant. 15, 1; Brut. 21, 1. 12 Broughton 1952, 320-323, con riferimenti delle testimonianze antiche che tramandano queste loro magistrature. 13 La notizia riportata in App. BC III 2, 5 secondo cui i due principali Cesaricidi erano stati designati in qualità di promagistrati per la Macedonia e la Siria è errata. Cf. Cic. Phil. XI 12, 27-28; D.C. XLVII 21, 1. A tal proposito vago è Cassio Dione, dal momento che a XLVII 20, 2 afferma che Bruto e Cassio si affrettarono a lasciare Roma per rivestire i governi provinciali a loro destinati, senza specificare se l’attribuzione sia da ricondurre a Cesare (in tal caso, l’informazione sarebbe sbagliata) o al Senato. Il primo ufficio assegnato loro con certezza, per mezzo di unse - natusconsultum datato al 5 giugno 44 a.C., è la curatio frumenti nelle province d’Asia e di Sicilia, come tràdito in Cic. Att. XV 9, 1; Phil. II 13, 31; App. BC III 6, 20-21. 14 Cic. Att. XIV 7, 1. La missiva, datata al 15 aprile, riporta un rumor secondo cui Bruto era stato avvistato sub Lanuvio, informazione confermata da una seconda lettera, del 19 aprile (Att. XIV 10, 1). Un’epistola precedente, datata al 12 aprile (Att. XIV 6, 1), menziona un colloquio avvenuto tra Antonio, Bruto e Cassio; ad esso seguì l’esenzione, concessa dal console al figlio di Servilia, dall’osservare la norma che limitava a massimo dieci giorni l’assenza del pretore urbano dalla città. Vd. Cic. Phil. II 13, 31. Kumaniecki 1972 [1959], 501; Grattarola 2002, 28. 15 Radin 1939, 176. 16 Cic. Att. XIV 19, 1: «Lui stesso progetta di andare in esilio.». 17 Cic. Att. XIV 18, 4. L’epistola è datata al 9 maggio. 18 Cic. Att. XIV 14, 4. 19 Cic. Att. XIV 5, 2. 20 Cic. Att. XV 1, 5; XV 4; XV 5, 1. La perplessità di Bruto e Cassio nel partecipare alla seduta si palesa in alcune lettere indirizzate ad Antonio, menzionate in Cic. epist. XI 2, 2. La stessa indecisione colpiva Cicerone, per cui vd. Att. XIV 22, 2 e XV 5, 3. Cf. Kumaniecki 1972 [1959], 506-507.

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MatronaeOK.indb 167 21/06/16 08:55 SARA BORRELLO

Nel clima di profonda incertezza che aleggiava all’interno della factio repubblicana, l’arrivo di Servilia, presumibilmente partita da Roma alla volta della villa in cui si era rifugiato Bruto, si configurò come risolutivo. Come ha giustamente rilevato M. Radin, «At Lanuvium they had the immediate advantage of an adviser of a wholly different sort. This was Servilia.»21. Se in precedenza Bruto aveva espresso da una parte molte ti- tubanze circa il proprio operato futuro, dall’altra il meditato proposito di abbandonare l’Italia, ora l’intervento della propria madre indusse lui stesso e Cassio ad accantonare, almeno provvisoriamente, questa intenzione. Secondo quanto riferito dall’Arpinate, il cesariano L. Cornelio Balbo registrò gli spostamenti di Servilia, la quale era ritornata dall’Urbe (redisse) per recarsi dal figlio a Lanuvio. Inoltre, fu la medesima matrona a comunicare a Balbo il cambiamento di programma dei due Cesaricidi22: è questo il pri- mo esempio dell’azione risolutiva di Servilia, oltre che un indice dell’auctoritas che ella esercitava23. In queste circostanze, l’influenza materna nei confronti di Bruto fu rilevata da Cicerone con la consapevolezza che quella della matrona sarebbe stata linea guida decisiva:

Prorsus quidem consilia tali in re ne iis quidem tuta sunt qui dant. Sed possim id neglegere proficiens; frustra vero quid ingrediar? Matris consilio cum utatur vel etiam precibus, quid me interponam? Sed tamen cogitabo quo genere utar litte- rarum; nam silere non possum. Statim igitur mittam vel Antium vei Circeios.24.

Frattanto, a Roma, il 5 giugno si svolse una seconda adunanza del Senato. Con ogni probabilità, Bruto e Cassio non parteciparono nemmeno a questa assemblea, in cui si sarebbe discusso sull’assegnazione della curatio frumenti al figlio e al genero di Servilia, da svolgersi rispettivamente nelle province d’Asia e di Sicilia25: un incarico straordinario

21 Radin 1939, 178. 22 Bauman 1992, 73-74. 23 Bruto fu spesso soggetto all’ascendente delle donne di famiglia, particolarmente della ma- dre e della cugina e moglie, Porcia. Vd. Cic. Att. XIII 22, 4. Tra le due matrone, però, fu Servilia che seppe influenzare maggiormente l’operato di Bruto nel suo ultimo biennio di vita. 24 Cic. Att. XV 10: «È proprio vero che in una situazione come questa i consigli sono pericolosi anche per coloro che li dispensano. Potrei però trascurare questo, se avessi successo; ma perché farmi avanti inutilmente? Dal momento che lui si avvale dei consigli o anche delle preghiere di sua madre, perché mai dovrei intromettermi? Ciononostante penserò a quale tipo di lettera sia meglio impiegare; infatti non posso rimanere in silenzio. Quindi manderò subito una lettera o ad Anzio o a Circei.». Hallett 1984, 248-249 colloca correttamente Bruto tra gli esempi di «reverential sons» nei confronti della propria madre; analogo è il giudizio di Dixon 1988, 41. 25 L’Arpinate fu informato in merito alla seconda seduta senatoria tramite una lettera di Bal- bo. Vd. Cic. Att. XV 9, 1. Rielaborazione successiva di tale riunione e delle sue delibere è in App. BC 6, 20-21.

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MatronaeOK.indb 168 21/06/16 08:55 PRUDENTISSIMA ET DILIGENTISSIMA FEMINA

da adempiere lontano dall’Urbe26, tale da non permettere loro alcun tipo di intervento nella vita pubblica romana27. Queste attribuzioni furono oggetto di discussione nella riunione privata che ebbe luogo ad Anzio28, nella villa di Bruto, qualche giorno dopo29, e di cui Cicerone restituisce un dettagliato e vivace resoconto:

Antium veni ante H. VI. Bruto iucundus noster adventus. Deinde multis audien- tibus, Servilia, Tertulla, Porcia, quaerere quid placeret. Aderat etiam Favonius. Ego, quod eram meditatus in via, suadere ut uteretur Asiatica curatione frumenti; nihil esse iam reliqui quod ageremus nisi ut salvus esset; in eo etiam ipsi rei pu- blicae esse praesidium. Quam orationem cum ingressus essem, Cassius intervenit. Ego eadem illa repetivi. Hoc loco fortibus sane oculis Cassius (Martem spirare diceres) se in Siciliam non iturum. “Egone ut beneficium accepissem contume- liam?”. “Quid ergo agis?” inquam. At ille in Achaiam se iturum. “Quid tu” in- quam, “Brute?”. “Romam” inquit, “si tibi videtur.”. “Mihi vero minime; tuto enim non eris.”. “Quid? Si possem esse, placeretne?”. “Atque ut omnino neque nunc neque ex praetura in provinciam ires; sed auctor non sum ut te urbi committas.”. Dicebam ea quae tibi profecto in mentem veniunt cur non esset tuto futurus.30.

26 Levi 1933, 83 sottolinea: «[…] la loro presenza in Italia, a poca distanza da Roma, poteva sempre presentare un pericolo.». 27 Levi 1933, 84-85. 28 Per la quale Clarke 1939, 186 adotta l’evocativo termine «conclave» e Raubitschek 1947, 2 «significant meeting». 29 La cronologia esatta in merito allo svolgimento di tale incontro spazia tra il 6 e l’8 giugno. L’imprecisione della datazione è dovuta alle diverse emendazioni della lezione ante K. (kł., kal.) VI, tramandata dai codici ma ritenuta errata in quanto contrastante con la successione degli even- ti: prendendo infatti a riferimento le kalendae, si daterebbe la riunione di Anzio a fine maggio del 44 a.C., mentre il ritrovo dovette di necessità svolgersi dopo la delibera senatoria del 5 giugno. Una prima congettura è stata proposta da Stroth 1784 con la sostituzione di idus a kalen- das, modificando l’indicazione cronologica inante VI Idus: tale emendazione rispetterebbe la sequenza degli avvenimenti datando la riunione all’8 giugno e, per questo, è stata accolta dalle successive edizioni di Schütz 1811 e di Baiter 1845. Tyrrell - Purser 1915, 332, quindi, integrano la congettura specificandoa. d. VI Idus. Tuttavia, Shackleton Bailey 1967, 96 propone una nuova congettura tramite la correzione di K. (kł., kal.) dei codici in H., soluzione che ravviserebbe nel dato ciceroniano non l’indicazione di una data ma di un momento della giornata, ante H. VI., reso in italiano con «prima di mezzogiorno». È questa la lezione ad oggi più accettata e prescelta in questa sede. Beaujeu 1988, 159 e n. 1, argomenta in favore del giorno 6 giugno come datazione della lettera e, quindi, della riunione tenutasi la mattina stessa. 30 Cic. Att. XV 11, 1: «Sono giunto ad Anzio prima di mezzogiorno. Bruto ha accolto con gioia il mio arrivo. Quindi alla presenza di molte persone, quali Servilia, Tertulla, Porcia, mi chie- se che cosa mi sembrasse giusto. C’era anche Favonio. Io, che a questo proposito avevo riflettuto durante il tragitto, cercai di persuaderlo ad accettare l’incarico di approvvigionamento granario

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MatronaeOK.indb 169 21/06/16 08:55 SARA BORRELLO

A questo «family concilium»31 presero parte, oltre a Favonio32, tre uomini protagonisti degli ultimi decenni repubblicani, ossia l’Arpinate, Bruto e Cassio, e altrettante donne «la cui influenza nella vita pubblica era assai grande»33: Servilia, madre di Bruto e suocera di Cassio, Giunia Terza detta Tertulla, sorellastra di Bruto e moglie di Cassio, e Porcia, figlia del defunto Catone Uticense, cugina e moglie di Bruto. In questa sede, le diverse opinioni trova- rono spazio per un aperto confronto. Cassio si mostrò dal primo istante risoluto nel rifiutare un compito che giudicava, considerati il proprio rango e la propria discendenza, un affronto mascherato da privilegio (“Egone ut beneficium accepissem contumeliam?”); dal canto suo, Bruto dapprima si disse intenzionato a ritornare a Roma, proposito a cui Cicerone pose ini- zialmente un veto, ritenendolo non sicuro. La cronaca dell'Arpinate, quindi, prosegue:

[…] Cumque ingressus essem dicere quid oportuisset, […] senatum vocare, popu- lum ardentem studio vehementius incitare, totam suscipere rem publicam, exclamat tua familiaris: “Hoc vero neminem umquam audivi!”. Ego repressi.34.

Decaduta l’ipotesi di accettare il duplice incarico frumentario, l’Arpinate illustrò ai due Cesaricidi una seconda via: impadronirsi repentinamente del potere a Roma, facen- do leva sul consenso della plebe. Fu proprio in risposta al colpo di Stato ciceroniano che Servilia espresse chiaramente la propria opinione, pronunciando a voce alta (exclamat35)

in Asia; ormai non rimaneva nient’altro da fare se non assicurare la sua salvezza; in lui risiede anche un baluardo di difesa per lo stesso Stato repubblicano. Avevo appena iniziato ad esporre ciò che pensavo quando Cassio mi ha interrotto. Io ho ripreso lo stesso discorso. A questo punto Cassio, con uno sguardo veramente orgoglioso (lo avresti detto rassomigliante a Marte) disse che non si sarebbe recato in Sicilia. “Dovrei forse accettare un’offesa come se fosse un favore?”. “Che cosa pensi di fare quindi?” ho replicato. Ma lui ha risposto che sarebbe andato in Acaia. “E che cosa vuoi fare tu, Bruto?” ho chiesto. “Andare a Roma, se a te sembra giusto” ha risposto. “A dire il vero a me non sembra conveniente; infatti non sarai al sicuro. “E quindi? Se potessi esserlo, saresti d’accordo?”. “E inoltre che tu in generale non debba andare né adesso né al termine della pretura in una provincia; ma non ti consiglio di arrischiarti ad andare nell’Urbe.”. Gli dicevo ciò che indubbiamente pensi, per cui non sarebbe stato al sicuro.». 31 Così Cluett 1998, 77. 32 Con ogni probabilità presenziarono anche altri esponenti filo-repubblicani, di cui però non sono noti i nomi, eccezion fatta per M. Favonio. Vd. Radin 1939, 187. 33 Levi 1933, 87 che, in riferimento alla sola Servilia, sottolinea come questa matrona «sape- va valersi abilmente delle sue estese relazioni di famiglia e delle sue amicizie.». 34 Cic. Att. XV 11, 2: «[…] E dopo aver cominciato ad esporre che cosa sarebbe occorso fare, […] ossia convocare il Senato, incitare più animosamente il popolo ardente per attaccamento, assumere la guida dell’intero Stato repubblicano, la tua amica ha esclamato: “Questa cosa veramente non l’ho mai sentita dire da nessuno!”. Io non ho aggiunto altro.». 35 Eccezion fatta per la presente, si riscontrano altre due occorrenze del verbo exclamare

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delle parole tramandate verbatim (Hoc vero neminem umquam audivi!36), strutturate in una frase dal tono risoluto, se non autoritario. La selezione delle parole con cui la matro- na pose il proprio veto dovette essere piuttosto accurata: il verbo audire, in particolare, ascrive il comportamento di Servilia al tradizionale canone femminile, che prevedeva come fosse buona norma per una donna aristocratica non intervenire con la parola in merito a questioni pubbliche e, ancor più, politiche, ma solo ascoltare in silenzio. Pur collocandosi sotto l’ala del mos maiorum, ostentando di aver dato ascolto (audivi) fino ad un certo punto della riunione, in questo momento invece la madre di Bruto trasgredì i confini tracciati dalla tradizione, negando neminem( umquam) la mera azione dell’u- dire e pronunciando ad alta voce un enunciato attentamente strutturato. Servilia, dun- que, si avvalse della comunicazione per verba per influire ai fini della risoluzione di una questione prettamente politica37, in un contesto sì domestico ma solo in parte privato, considerato il carattere decisionale di cui furono investite le domus aristocratiche, parti- colarmente al tramonto del regime repubblicano38. La personalità autorevole e determinata della matrona, definitafamiliaris, ossia in- tima amica, di Attico, venne posta ulteriormente in luce dalla reazione di Cicerone: la scelta non casuale del verbo reprimere39, infatti, ben esaurisce il silenzio improvviso che dovette recidere il suo accorato discorso40. Le velleità decisionali di Servilia, nonché la sua personale proposta, trovano illustra- zione nel prosieguo della lettera:

Sed et Cassius mihi videbatur iturus (etenim Servilia pollicebatur se curaturam ut illa frumenti curatio de senatus consulto tolleretur), et noster Brutus cito deiectus est de illo inani sermone velle esse dixerat. [...] Proficisci autem mihi in Asiam videbatur ab Antio velle.41.

nelle Epistuale ad Atticum, con l’accezione di «lamentarsi» (Cic. Att. I 18, 2) e di «declama- re» (Cic. Att. VIII 8, 2). 36 Con la propria esclamazione, Servilia ha voluto manifestare stupore piuttosto che offendere l’Arpinate, come era stato in precedenza avanzato. Vd. Wistrand 1981, 32 n. 34; Brennan 2012, 361. 37 Rohr Vio 2014a, 105. 38 Millar 1995, 239; Zaccaria Ruggiu 1995, 319-326; Cluett 1998, 71. 39 Sono presenti altre sei attestazioni del verbo reprimere nell’epistolario ciceroniano, reso, a seconda del contesto, con il significato di «frenare» (Cic.Att . I 20, 2), «fare marcia indietro» (Cic. Att. IV 15, 9), «rifiutare» (Cic.Att . VII 26, 1), «rallentare» (Cic. Att. X 9, 1), «reprim- ere» (Cic. epist. III 8, 7), «moderare» (Cic. ad Brut. II 5, 1). 40 Evans 1991, 193; Bauman 1992, 74. 41 Cic. Att. XV 11, 2: «Però sia Cassio mi è sembrato intenzionato a partire (e infatti Servilia si impegnava a fare in modo che quell’incarico di approvvigionamento granario fosse tolto dal decreto senatorio), sia il nostro caro Bruto ha prontamente lasciato cadere quel vano discorso

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La risoluzione avanzata dalla matrona, quindi, prevalse sulle iniziative propugnate da Cicerone e fu accolta dai presenti42, come si arguisce dal suo riproporsi nell’epistola ad Attico immediatamente successiva:

[…] De nostris autem Antiatibus satis videbar plane scripsisse, ut non dubitares quin essent otiosi futuri usurique beneficio Antoni contumelioso. Cassius fru- mentariam rem aspernabatur; eam Servilia sublaturam ex senatus consulto se esse dicebat. Noster vero καὶ μάλα σεμνῶς in Asiam, postea quam mihi est adsensus tuto se Romae esse non posse […].43.

Servilia, dunque, si disse risoluta nel poter influire sul cambiamento di parte del de- creto senatorio44, affinché venisse rimossa lacuratio frumenti precedentemente delibe- rata, con ogni probabilità facendo appello alle personalità più influenti tra i Cesariani. La certezza del successo risiedeva nella convinzione di godere ancora di credito presso i seguaci del defunto dittatore, in virtù del legame e della stima che l’avevano legata a Cesare per lungo tempo45; d’altro canto, gli stretti vincoli famigliari con i due principali Cesaricidi non costituirono per lei motivo di esitazione alcuna. A tal fine, probabil- mente, l’azione della matrona dovette avere un interlocutore ben preciso e ben inserito nell’entourage cesariano, sul quale tuttavia le fonti tacciono ogni riferimento. L’identità di questa controparte, dunque, è solo ipotizzabile, in base a congetture formulate sulle testimonianze letterarie coeve agli eventi: è stata proposta l'identificazione con il cesa- riano Balbo, già interlocutore di Servilia e punto di riferimento per Cicerone46, oppure con Lepido, genero della matrona, che avrebbe potuto patrocinare questa istanza presso

in cui aveva affermato di voler restare a Roma. […] Poi mi è parso orientato a partire da Anzio per l’Asia.». 42 Baldson 1962, 51 asserisce che, di fatto, fu Servilia a presiedere e controllare l’incontro. Giustamente, dunque, Wistrand 1981, 13 rileva: «Clearly, in Brutus’ circle no other political line than Brutus’ own had ever been envisaged.». 43 Cic. Att. XV 12, 1: «Poi, per quanto riguarda i nostri amici di Anzio, mi sembrava di averti scritto in modo sufficientemente chiaro, tale che tu non dubitassi che sarebbero stati tranquilli e avrebbero approfittato della concessione oltraggiosa di Antonio. Cassio rifiutava l’incarico fru- mentario e Servilia diceva che lo avrebbe fatto rimuovere dal decreto del Senato. Inoltre, il nostro Bruto ha dichiarato, con un fare solenne, di voler andare in Asia, dopo aver convenuto con me che a Roma non poteva essere al sicuro […].». 44 L’intenzione di Servilia è commentata come «cosa inaudita» in Giannelli 1945, 18. 45 Levi 1933, 87; Shackleton Bailey 1967, 256; Hillard 1983, 12. 46 Cic. Att. XV 9, 4 e 9, 1. Su Balbo vd. Münzer 1900, 1260-1268. È questa la prima ipotesi avanzata in Hillard 1983, 12.

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Antonio47, sebbene tale ipotesi risulti meno probabile48. Parimenti, rimangono ad oggi oscure le dinamiche dell’azione femminile. È stato ipotizzato che il proposito più volte espresso da Servilia si sia tradotto nella cancellazio- ne manu propria dell’incarico frumentario, esplicato nel decreto senatorio, attraverso una modifica del testo che riportava la delibera della riunione del 5 giugno49. Da una parte, il fervente clima politico di quei giorni potrebbe effettivamente dar credito a que- sta ricostruzione, se si considera, inoltre, che alcune irregolarità sembravano essere già in atto nel corso della seduta stessa50; dall’altra, la motivazione addotta a sostegno di questa ipotesi non sembra convincere a sufficienza, dal momento che non si tiene conto dell’appoggio di cui Servilia poteva disporre tra le fila dei Cesariani, quali Lepido e, ancor più, Balbo. A tali esponenti, dunque, la matrona avrebbe potuto appellarsi se si considera inoltre che, con ogni probabilità, la donna non avrebbe potuto avere diretta- mente accesso alla documentazione del Senato. In aggiunta, Servilia si trovava nei posse- dimenti del figlio ad Anzio, sia nella prima metà di giugno sia, con certezza, il 25 o il 26 dello stesso mese, date a cui si ricondurrebbe l’epistola che la matrona inviò a Cicerone per informarlo della partenza di Bruto51. Nonostante il silenzio delle fonti sull’operato della matrona, la suggestiva rico- struzione di M. Radin e le considerazioni di H. Frisch e di W. Sternkopf permettono di ritenere che l’azione di Servilia abbia avuto buon fine: è assai probabile, infatti,

47 In questa circostanza Servilia non poté avvalersi direttamente di tale parentela acquisita dal momento che Lepido rivestiva il proconsolato nelle province di Gallia Narbonese e Spagna Ci- teriore, per assumere il quale aveva lasciato Roma attorno alla metà di aprile del 44 a.C., dopo aver avuto sentore di un complotto ai suoi danni (Cic. Att. XIV 8, 1). Sull’assegnazione delle due province vd. Vell. II 63, 1; App. BC II 107, 447; D.C. XLIII 51, 8. Cf. Broughton 1952, 326; Hillard 1983, 12; Weigel 1992, 49 e 150-151 n. 69; Allély 2004, 87. 48 Lo stesso Hillard 1983, 12 ammette lo statuto puramente teoretico di tali supposizioni e conclude: «Later events demonstrate that, far from being a determined politician with a set policy of her own, she was the traditional dependent whose place it was to supplicate for whichever of her menfolk was in need.». 49 Fezzi 2003, 94-96, per il quale l’espressione illa frumenti curatio de senatus consulto tollere- tur (Cic. Att. XV 11, 2) riferita a Servilia è riconducibile ad altre formule tollere ex/de senatus con- sulto presenti in Cicerone e indicanti casi indubbi di eliminazione del materiale. La falsificazione in questione sarebbe stata realizzata tramite la sostituzione del documento originale (il cd. falso ‘per formazione’) oppure con una vera e propria cancellazione (falso ‘per alterazione’). Analoga è l’impressione di Hillard 1983, 12: «Whatever was planned was going to be highly irregular and unofficial.». 50 Così Shackleton Bailey 1967, 259, a proposito della frase Sed haec casus gubernabit (Cic. Att. XV 9, 1: «Ma sarà il caso a guidare questi eventi»), posta a commento dell’imminente attribuzione frumentaria ai due capi cesaricidi. 51 Cic. Att. XV 24.

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che la curatio frumenti sia stata tramutata in legatio libera, tramite la rimozione della sola parte inerente l’assegnazione dell’incarico granario52. Di conseguenza, la delibera modificata avrebbe concesso a Bruto e Cassio di recarsi ugualmente in Oriente, senza però dover espletare il compito attribuito loro in precedenza, come i successivi eventi mostrarono53. Servilia avrebbe pertanto operato al fine di attuare la modifica, avvalen- dosi delle proprie conoscenze, particolarmente di Balbo, e della stima di cui godeva presso i Cesariani54. A partire da questo incontro e tramite la risoluzione da lei proposta, quindi, la ma- trona assunse un ruolo politico effettivo, contribuendo di fatto alla causa della pur mo- rente factio repubblicana55.

2. Servilia informatrice e referente: Bruto e Cassio sul fronte orientale

I giorni successivi alla delibera di Anzio trascorsero all’insegna dei preparativi per la partenza di Bruto e Cassio. La voce di Cicerone ci ragguaglia da una parte sull’operato e sullo stato d’animo del figlio di Servilia56, dall’altra sul sostegno

52 Radin 1939, 188. In precedenza Sternkopf 1912, 382 aveva messo in relazione tre pas- saggi dell’epistolario ciceroniano: Att. XV 11, 2 (Sed et Cassius mihi videbatur iturus – etenim Servilia pollicebatur se curaturam, ut illa frumenti curaio de Senatus consulto tolleretur.), Att. XV 12, 1 (Cassius frumentariam rem aspernabatur; eam Servilia sublaturam ex Senatus consulto se esse dicebat.) e Att. XV 9, 1 (Ait (scil. Balbus) autem eodem tempore decretum iri ut et iis et reli- quis praetoriis provinciae decernantur.), in cui Balbo informava l’Arpinate che nella seduta del 5 giugno il Senato avrebbe deciso anche in merito alle province propretorie da assegnare a Bruto e Cassio. Di conseguenza, lo studioso aveva constatato l’impossibilità della compresenza di due uf- fici, l’uno ordinario (promagistratura) e l’altro straordinario curatio( frumenti) da esercitare nello stesso periodo e dalle medesime persone. Tale incompatibilità sarebbe pertanto stata risolta da Servilia con l’auspicata rimozione del secondo incarico, affinché il figlio e il genero potessero tra- sferirsi in Oriente nelle sole vesti di ambasciatori, se non proprio di governatori. Sull’inesattezza delle informazioni di Balbo in merito all’attribuzione delle province destinate ai Cesaricidi vd. Frisch 1946, 103-104 e nt. 51. In ultimo, già Decimo Bruto aveva espresso la propria speranza di ricevere delle legationes liberae per sé, Bruto e Cassio, come si evince da una lettera conservata in Cicerone (epist. XI 1, 2, datata 22 marzo del 44 a.C.). 53 Frisch 1946, 104: «something else in the decree was to remain.». 54 Ibid. 55 La parte politica dei congiurati venne dipinta da Cicerone (Att. XV 11, 3) nei seguenti termini: Prorsus dissolutum offendi navigium vel potius dissipatum. Nihil consilio, nihil ratione, nihil ordine. («Ho trovato una barca del tutto disfatta o, piuttosto, frantumata. Niente stabilito con capacità decisionale, niente con discernimento, niente con organizzazione.»). 56 Cic. Att. XV 12, 1: Navigia colligebat; erat animus in cursu. Interea in isdem locis erant futuri. Brutus quidem se aiebat Asturae. («[Scil. Bruto] Va radunando navi; la sua mente è

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economico ricevuto per finanziare il viaggio57. Sul finire di giugno Bruto si apprestava a lasciare la tenuta di Anzio. Abbandonata ormai l’ipotesi di far ritorno a Roma58, si diresse verso sud, con l’intenzione di imbar- carsi alla volta della Grecia. Servilia stessa informò Cicerone della partenza di Bruto, in risposta a una sua richiesta: Tabellarius quem ad Brutum miseram ex itinere rediit VII Kal. Ei Servilia dixit eo die Brutum H. II S profectum.59. Di fatto, come rileva G. Gian- nelli, «[…] da questo giorno in poi, ella si fa rappresentante degli interessi del figlio e del genero in Roma […].»60. L’Arpinate, tuttavia, era desideroso si rivedere il Cesarici- da prima che abbandonasse l’Italia61, intento che realizzò l’8 luglio sull’isola di Nisida, nella villa del giovane M. Licinio Lucullo, di cui Bruto era ospite62. Se l’incontro con il figlio di Servilia suscitò in Cicerone stupore per la quantità di navi che questi era riuscito a radunare63, d’altro canto lo rese consapevole di come cercasse di ritardare la partenza, sintomo di scarsa convinzione nell’impresa a cui era stato destinato64. La permanenza di Bruto a Nisida si protrasse fino alla seconda metà di luglio, allorquando si ricongiunse a Cassio nella città di Napoli65. Il primo di agosto, quindi, si tenne una seduta del Sena- to, che decise l’attribuzione delle province di Creta e della Cirenaica rispettivamente al figlio e al genero di Servilia66. L’ultimo atto di questo viaggio ebbe luogo a Velia, ove,

proiettata sul viaggio in mare. Nel frattempo hanno intenzione di rimanere negli stessi luoghi. Appunto Bruto diceva di voler stare ad Astura.»). 57 Cic. Att. XV 17, 2: […] Tu vero facies ut omnia quod Serviliae non dees, id est Bruto. («[…] Tu indubbiamente agirai come ogni volta, giacché non neghi aiuto a Servilia, ovverosia a Bru- to.»). Con ogni probabilità, l’Arpinate fa riferimento a un aiuto di tipo economico. Vd. Radin 1939, 192. 58 Plu. Brut. 21, 1-4. 59 Cic. Att. XV 24: «Il corriere che avevo inviato presso Bruto è ritornato il giorno 25. Servilia gli ha comunicato che Bruto era partito in quello stesso giorno, a metà dell’ora seconda.». La lettera è datata al 25 o al 26 giugno. 60 Giannelli 1945, 18. 61 Intenzione espressa più volte nel suo epistolario. Vd. Cic. Att. XV 25; 27, 2; 29, 1. 62 Cic. Att. XVI 1, 1; 4, 1; Phil. X 4, 8. Knight 1968, 159 n. 4 asserisce che, probabilmente, Cassio si trovava nelle vicinanze. 63 Cic. Att. XVI 4, 1. 64 Cic. Att. XVI 5, 3; 4, 1. Kumaniecki 1972 [1959], 511 esamina i tratti salienti di questo incontro, riferiti nella narrazione epistolare ciceroniana. 65 Cic. Att. XVI 3, 6; epist. XI 3, in cui la lettera, scritta a quattro mani, è inviata da Napoli. 66 App. BC III 8, 26; Plu. Brut. 19, 3. Plu. Ant. 19, 5 associa a Cassio la Libia, da identificare con la Cirenaica. Errata risulta la notizia di Cassio Dione (XLVII 21, 1), che parla di Bitinia per Cassio. Vd. Kumaniecki 1972 [1959], 515. Nessuna fonte antica esplicita che l’affidamento di tali incarichi provinciali siano avvenuti nel corso della riunione del primo agosto ma, come rileva Bellincioni 1974, 158, Cicerone, nella II Philippica (pronunciata il 19 settembre) menziona

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il 17 agosto, Cicerone incontrò nuovamente Bruto67: in questa occasione, l’Arpinate si congedò dal Cesaricida, che prese il largo, seguíto, qualche giorno dopo, da Cassio68. La destinazione dei due congiurati fu Atene, città in cui furono accolti con tutti gli onori69. Al termine di questo soggiorno, le strade di Bruto e Cassio si divisero: il primo si diresse verso l’interno della penisola balcanica, alla volta della Macedonia e dell’Illiri- co70; il secondo, invece, intendeva raggiungere la Siria e l’Egitto71. È ancora Cicerone a mettere in luce il compito cruciale portato avanti da Servilia:

[…] De Bruto te nihil scire dicis, sed Servilia venisse M. Scaptium eumque non †qua† pompa, ad se tamen clam venturum sciturumque me omnia; quae ego sta- tim. Interea narrat eadem Bassi servum venisse qui nuntiaret legiones Alexandri- nas in armis esse, Bassum arcessi, Cassium exspectari. Quid quaeris? Videtur res publica ius suum recuperatura. Sed ne quid ante. […]72.

delle provinciae Bruto, Cassio datae (13, 31) e, di seguito, parla di Bruto come proconsole di Creta (38, 97). Assumendo quindi il giorno in cui l’Arpinate declamò la ‘divina’ Philippica come terminus ante quem, ne consegue che la più probabile circostanza in cui avvennero le suddette assegnazioni fu l’assemblea del primo agosto. Vd. Raubitschek 1957, 4. 67 Cic. Att. XVI 7, 5; Phil. I 4, 9; X 4, 8. Cf. Plu. Brut. 23, 1. Analisi puntuale di questo ritrovo è in Bellincioni 1974, 247-250. 68 Cic. Phil. X 4, 8; D.C. XLVII 20, 3-4. Kumaniecki 1972 [1959], 515; Knight 1968, 159-160; Clarke 1981, 45-47. 69 Plu. Brut. 24, 1 e D.C. XLVII 20, 4, che specifica come gli Ateniesi avessero innalzato delle statue di bronzo che li ritraevano, ponendole a fianco di quelle rappresentanti Armodio e Aristogitone. Per questa notizia vd. Radin 1939, 193; Raubitschek 1957, 5. 70 Liv. perioch. CXVIII; Plu. Brut. 25; D.C. XLVII 21, 2. 71 D.C. XLVII 21, 2. Appiano (BC III 2, 5; 6, 18; 7, 23-24; 12, 42; 24, 91) sbaglia nell’affer- mare che queste province erano state in precedenza assegnate a Bruto e Cassio, dal momento che tali attribuzioni ebbero luogo nella prima metà del 43 a.C., dopo che questi territori furono invasi dai due congiunti di Servilia. Corretta è invece la precisazione di Cassio Dione (XLVII 21, 1): […] πρὸς δὲ δὴ τήν τε Συρίαν καὶ τὴν Μακεδονίαν, καίπερ μηδέν σφισι προσηκούσας, ἀλλ’ ὅτι τῷ καιρῷ καὶ τοῖς χρήμασι ταῖς τε δυνάμεσιν ἤκμαζον, ἐτράποντο. («[…] si diressero verso la Siria e la Macedonia, che in realtà non erano di loro competenza, però offrivano grandi vantaggi per la collocazione geografica, le risorse economiche e i contingenti militari.»). Come rileva Bellin- cioni 1974, 162, non è possibile determinare con esattezza quando ebbero inizio le operazioni di Bruto e Cassio, ma solo indicare nella partenza dall’Italia, avvenuta attorno al 17 agosto, e nel- la successiva lettera di Cicerone ad Attico (XV 13), datata 25 ottobre, i due estremi cronologici. 72 Cic. Att. XV 13, 4: «Riguardo a Bruto, dici di non sapere nulla, ma Servilia mi informa che è arrivato M. Scapzio, non in forma solenne, quindi che lui si recherà da lei di nascosto e mi farà sapere ogni cosa; ti metterò a parte delle stesse informazioni subito dopo. Nel frattempo sempre Servilia rende nota la notizia che è giunto un servo di Basso, il quale annuncia che le legioni di Alessandria sono in armi, che esse mandano a chiamare Basso e che attendono Cassio. Che cosa

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In un clima di disinformazione sulle vicende orientali di Bruto e Cassio, la matrona appare quale unica persona a cui fosse possibile fare riferimento73. A lei giungevano le notizie sulle iniziative propugnate dal proprio figlio, comunicate nella persona di M. Scapzio74; analogamente, le novità riguardanti il genero le erano riferite per il tramite di uno schiavo di Q. Cecilio Basso75. In un secondo tempo, Servilia stessa avrebbe in- formato (narrat) coloro che avrebbero voluto essere messi a parte dell’operato di Bruto e Cassio76. In questo panorama, dunque, la matrona si distingueva nella veste di impre- scindibile referente della factio repubblicana: in quanto fonte ben informata, Cicerone e Attico si sarebbero rivolti a lei per conoscere i più recenti sviluppi sui due Cesaricidi; inoltre, si configurava quale necessario punto di connessione tra le due sponde territo- riali ed evenemenziali in cui si erano stabiliti, da una parte, i congiurati in Oriente e, dall’altra, i loro sostenitori in Italia77. Tra la fine del 44 e l’inizio del 43 a.C. Bruto e Cassio proseguirono le operazioni militari. Attorno alla metà di febbraio del 43 a.C. il figlio di Servilia inviò al console G. Vibio Pansa un resoconto dettagliato della conquista di Macedonia e Illirico78. Pansa,

vuoi sapere? Sembra che lo Stato repubblicano stia per riguadagnare i diritti che gli sono propri. Tuttavia non corriamo troppo.». La lettera è datata al 25 ottobre 44 a.C. 73 Né Cicerone né Attico erano al corrente della situazione dei due congiurati dopo la loro partenza dall’Italia; la prima lettera dell’Arpinate a Bruto si colloca a fine marzo del 43 a.C. Vd. Raubitschek 1957, 7; Clarke 1981, 50. 74 Agente d’affari e amico fidato di Bruto. Nel 52 a.C. fu prefetto della cavalleria in Cilicia, carica che gli permise di riscuotere i debiti che gli abitanti di Salamina di Cipro avevano contratto con Bruto. Oltre che messaggero di Bruto nel biennio 44-43 a.C. presso Servilia, svolse il mede- simo incarico presso Cicerone (Cic. ad Brut. II 4, 1). Su di lui vd. Cic. Att. V 21, 10; VI 1, 6 e 2, 8; VI 3, 5; Münzer 1921, 353; Broughton 1952, 239. 75 Cavaliere pompeiano, era dal 46 a.C. in Siria, provincia in cui aveva suscitato una rivolta anti-cesariana. Cassio, giunto in Oriente, chiese a Basso di cedergli il suo esercito, ottenendo in risposta un rifiuto. Ciononostante, la legione ai suoi ordini lo abbandonò e passò dalla parte del Cesaricida (Cic. epist. XII 11, 1; XII 12, 3; App. BC IV 59, 255; D.C. XLVII 28, 1). Tra il 44 e il 43 a. C. Basso non deteneva nessun incarico ufficiale (Cic.Phil . XI 13, 32). Su di lui vd. anche Cic. Deiot. 8, 23; epist. XI 1, 3; App. BC IV 58, 250-254; D.C. XLVII 26, 3 - 28, 1; Münzer 1897, 1198-1199. 76 Un’efficace spiegazione è in Beaujeu 1988, 64. 77 Come ha anche recentemente sottolineato Brennan 2012, 361, «In general, Servilia was the representative of Cassius and Brutus in Rome in this turbolent period, and communicated news from Rome to them.». 78 La cronologia più probabile si fonda sulla data proposta per la Philippica che l’Arpinate declamò in questa occasione. Dal momento che la IX Philippica fu presumibilmente declamata il 4 febbraio e la XI agli inizi di marzo, il periodo più accreditato per la X spazia tra il 10 e il 15 febbraio 43 a.C. Vd. Bellardi 20134, 384 n. 1.

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quindi, convocò il Senato in assemblea, nel corso della quale Cicerone pronunciò la X Philippica79, orazione che permise a Bruto di vedersi riconosciuta de iure una posizione politica e militare esercitata de facto80, ovverosia l’imperium proconsulare in Macedonia, Illiria e Grecia81. Nello stesso periodo, Cassio assoggettò la provincia siriaca. Come è noto, in una data imprecisata della prima settimana di marzo del 43 a.C., il Senato dichiarò guerra a P. Cornelio Dolabella dopo averlo proclamato hostis publicus82. Il giorno seguente, nel corso di un’adunanza volta ad attribuire il comando delle operazioni repressive, Cice- rone pronunciò l’XI Philippica chiedendo che fosse attribuito a Cassio il proconsolato della Siria83. La proposta incontrò però il veto di Pansa, in seguito al quale l’assemblea si risolse ad assegnare il comando militare ai due consoli84. E’ nell’ambito di questi eventi che abbiamo una nuova, seppur di secondo piano, testimonianza su Servilia. A riferirla è, ancora, Cicerone in una lettera indirizzata a Cas- sio, di poco posteriore alla declamazione della Philippica: Id velim mihi ignoscas quod invita socru tua fecerim. Mulier timida verebatur ne Pansae animus offenderetur.85. La matrona qui menzionata nelle vesti di suocera di Cassio, si era dunque opposta all'inizia- tiva ciceroniana, obiezione dettata dal timore che la proposta dell'Arpinate non sarebbe stata gradita al console Pansa. Il passo suggerisce come, ancora nel mese di marzo del 43 a.C., Servilia fosse perfettamente al corrente della situazione politica romana; inoltre, testimonia come la matrona fosse rimasta in contatto con Cicerone e, come il messaggio della prima frase induce a supporre, anche con Cassio, senza celare le proprie opinioni in merito a importanti affari politici. Che Servilia avesse mantenuto rapporti epistolari pure con Bruto lo attestano altri due passaggi, di contenuto pressoché identico, delle

79 Un’analisi efficace dei questa orazione è inKumaniecki 1972 [1959], 538; Bellardi 20134, 35-37. 80 Kumaniecki 1972 [1959], 538. 81 Cic. Phil. X 11, 25-26, che specifica come al figlio di Servilia venisse riconosciuto il coman- do dell’esercito che egli stesso aveva raccolto in quelle regioni, mentre l’ex governatore Q. Orten- sio, sostenitore di Bruto, veniva posto nuovamente a capo dell’amministrazione della provincia macedone. Cf. Cic. epist. XII 5, 1; App. BC III 63, 258-259; D.C. XLVII 22, 2. Vd. Levi 1933, 160. 82 Cic. Phil. XI 7, 16; 9, 22; 12, 29; XIII 10, 23; 18, 36 e 39; epist. XII 15, 2; Liv. perioch. CXIX e CXXI; App. BC III 61, 253; D.C. XLVII 29, 4. In precedenza Dolabella, che era stato nominato proconsole di Siria, aveva trucidato il cesaricida G. Trebonio, proconsole d’Asia, per cui vd. part. Cic. Phil. XI 2, 5. 83 Cic. Phil. XI 12, 29-31. 84 Cic. epist. XII 7, 1; ad Brut. II 4, 2; Liv. perioch. CXXI; D.C. XLVII 28, 5; App. BC III 63, 260; 64, 262; 78, 320; IV 58, 254-259. Vd. Levi 1933, 177. 85 Cic. epist. XII 7, 1: «Mi perdonerai se ho voluto fare ciò andando contro l’opinione di tua suocera. Da donna accorta qual è, si preoccupava che l’orgoglio di Pansa non venisse urtato.».

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Epistulae ad Brutum. In una lettera del figlio di Servilia all’Arpinate, datata al primo giorno di aprile, si legge: Ego scripsi ad Tertiam sororem et matrem ne prius ederent hoc quod optime ac felicissime gessit Cassius quam tuum consilium cognovissent tibique visum esset.86; quindi, la risposta di Cicerone, del 12 aprile, recita similmente: Quod scribis te ad Tertiam sororem scripsisse ut ne prius ederent ea quae gesta a Cassio essent quam mihi visum esset […].87. Due passi, questi, da cui si evince come fossero ancora at- tivi i rapporti tra Servilia, a Roma, e il figlio, in Oriente, e come la matrona fosse inserita in una rete epistolare che permetteva continui aggiornamenti. Tramite le notizie che costantemente giungevano da famigliari e amici, e grazie alla sua intelligenza politica, oltre che ai legami con Cesare, Catone, Cicerone, Bruto e Cassio, Servilia, rappresentava quindi un soggetto ineludibile sulla scena politica. L’imperium proconsulare in Siria, nonché il comando della guerra contro Dolabella, furono infine attribuiti a Cassio il 27 aprile88. Entrambi i Cesaricidi, dunque, domina- vano sui territori orientali soggetti alla Res publica89, portando a buon fine le missioni repressive che il Senato aveva loro assegnate90.

3. Il ‘Senato in casa’: il ruolo decisionale di Servilia

L’epistolario ciceroniano attesta come, in numerose occasioni, l’Arpinate avesse in- vocato l’aiuto di Bruto e di Cassio, affinché facessero ritorno in Italia con i propri eserci- ti per trarre in salvo l’agonizzante governo repubblicano91. La prima richiesta in tal senso risale all’inizio di aprile del 43 a.C. ed era rivolta al solo Bruto92; seguì quindi un silenzio di alcuni mesi, che venne interrotto tra giugno e luglio, periodo in cui le sollecitazioni

86 Cic. ad Brut. II 3, 3: «Io ho scritto a mia sorella Terza e a mia madre affinché non divulghino le imprese che Cassio ha condotto nel modo migliore e con grandissimo successo prima di aver appreso la tua intenzione e prima che ti fosse parso giusto.». 87 Cic. ad Brut. II 4, 5: «Mi informi di aver scritto a tua sorella Terza e a tua madre di non divulgare le imprese compiute da Cassio prima che mi fosse sembrato giusto farlo […].». 88 Data riportata in Cic. ad Brut. I 5, 1, che riferisce come il consolare P. Servilio Vazia Isauri- co avesse proposto al Senato la nomina, prontamente appoggiata dall’Arpinate, di Cassio a capo dell’azione repressiva contro Dolabella. Vd. anche Liv. perioch. CXXI; App. BC III 63, 260; D.C. XLVII 28, 5. 89 Vell. II 62, 2-3. Cf. Rohr Vio 2014b, 114. 90 La narrazione della guerra di Bruto contro G. Antonio è in Vell. II 69, 3; Plu. Brut. 26, 3-8 e 28, 1; App. BC III 79; D.C. XLVII 21, 7-25, 2, e di Cassio contro Dolabella in Vell. II 69, 2; App. BC III 78; D.C. XLVII 28-30. Cf. Radin 1939, 199-201; Clarke 1981, 52. 91 Era ferma convinzione dell’Arpinate che la salvezza dell’istituto repubblicano da coloro che lo minacciavano, come M. Antonio, potesse concretarsi solo grazie all’intervento dei due congiu- rati, particolarmente di Bruto. L’analisi dei passi ciceroniani è in Bellincioni 1974, 268-273. 92 Cic. ad Brut. II 1, 3.

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per un urgente soccorso si fecero sempre più frequenti e accorate93. L’ultima invocazione in tal senso testimoniata nelle Epistulae ad Brutum introduce un’altra importante riunione avvenuta in un contesto domestico ma dalla forte valenza politica, volta a decidere l’avvenire del figlio di Servilia:

Cum saepe te litteris hortatus essem ut quam primum rei publicae subvenires in Italiamque exercitum adduceres, neque id arbitrarer dubitare tuos necessarios, ro- gatus sum a prudentissima et diligentissima femina, matre tua, cuius omnes curae ad te referuntur et in te consumuntur, ut venirem ad se a. d. VIII Kal. Sext.; quod ego, ut debui, sine mora feci. 94.

Il passo riferisce due messaggi differenti ma tra di loro strettamente correlati. Se in- fatti la prima parte (Cum saepe…tuos necessarios) è ascrivibile alle molte richieste di aiuto formulate da Cicerone, la seconda (rogatus sum…sine mora feci.) annuncia l’entrata in scena di Servilia, dipinta in termini ampiamente elogiativi. Nelle vesti di madre di Bru- to, è presentata come una donna di grande saggezza e operosità, caratteristiche peculiari al punto da essere rese con due aggettivi elevati al superlativo assoluto95; un binomio sintesi perfetta ed esaustiva della sua personalità96. Parimenti, Cicerone sottolinea an- cor più l’intraprendenza che contraddistingueva questa matrona, unitamente al forte affetto materno, mediante il messaggio affidato alla proposizione relativacuius – omnes curae ad te referuntur et in te consumuntur – che qualifica positivamente l’interesse di una madre appartenente al ceto aristocratico per il proprio figlio. Ogni iniziativa di cui

93 In ordine cronologico, Cic. ad Brut. I 10, 1 e 4; 9, 3; 12, 2; 14, 2; 15, 12; 18, 1; epist. XII 8, 1; 9, 2; 10, 3-4. 94 Cic. ad Brut. I 18, 1: «Dopo che nelle mie missive ti avevo spesso esortato ad accorrere in soccorso della Repubblica e a condurre l’esercito in Italia, e non credevo che i tuoi congiunti dubitassero di questo, mi è stato richiesto da una donna molto avveduta e molto zelante, ossia tua madre, della quale tutti i pensieri si rivolgono a te e si esauriscono in te, di recarmi presso di lei il giorno 25 luglio; e questo, doverosamente, ho fatto senza alcun indugio.». 95 Nel carteggio ciceroniano, l’attributo prudens al grado superlativo registra altre nove occor- renze, con significati quali «molto avveduto» epist( . I 8, 1 e IV 1, 2), «molto assennato» (ad Brut. I 1, 2) e «di grande saggezza» (epist. VI 2, 2 e 4, 5; XV 9, 1; ad Brut. I 1, 2); è inoltre attestato in due occasioni il superlativo del relativo avverbio (Att. XIII 1, 1; epist. V 17, 4) con le medesime valenze semantiche. Meno frequente è, sempre al superlativo, l’aggettivo diligens, che ricorre altre quattro volte ed è traducibile in due modi: «molto scrupoloso» (ad Q. fr. I 1, 30 e 46) e «molto zelante» (epist. I 8, 1 e XIII 51, 1); in ultimo, la forma avverbiale presenta ben settantuno ricorrenze. 96 Solo in un’altra occasione è attestata la compresenza di questi due aggettivi al superlativo assoluto (Cic. epist. I 8, 1), in cui si descrive un uomo amantissimus, prudentissimus e diligentissimus nell’adempimento dei propri doveri a favore di un altro uomo.

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Servilia fu artefice e fautrice, particolarmente nel biennio in cui si collocano tali vicende, è dunque da interpretarsi alla luce di quest’unica e vera fonte motivazionale che è, allo stesso tempo, precipua finalità97. L’instaurazione sotto la sua regìa di una rete di relazio- ni tra Cesariani e Cesaricidi, rete che individuava in Servilia il suo connettore principale, alla luce della pietas manifestata a beneficio del figlio perdeva quella connotazione di azione extra mores che diversamente l’avrebbe qualificata. Morto Cesare, la madre di Bruto riversò la propria predisposizione ad intervenire in questioni politiche nella salva- guardia del nome e della vita del figlio, cure a cui peraltro si dedicò in modo pressoché totalizzante. L’agire nell’interesse di Bruto la portò a indire, in data 25 luglio 43 a.C., una riunione, a cui Cicerone, informato presumibilmente per via epistolare e, quindi, tramite una comunicazione per scripta, era stato invitato a presenziare. I partecipanti e l’ordine del giorno dell’incontro sono riferiti dallo stesso Arpinate:

Cum autem venissem, Casca aderat et Labeo et Scaptius. At illa rettulit quaesi- vitque quidnam mihi videretur, arcesseremusne te atque id tibi conducere putare- mus an tardare et commorari te melius esset.98.

Fu Servilia, dunque, a diramare la convocazione, a cui risposero i Cesaricidi P. Servi- lio Casca Longo99, Pacuvio Antistio Labeone100, il già menzionato Scapzio e l’Arpinate stesso. Pervenuti tutti gli invitati, la stessa madre di Bruto, unica donna presente, pre- siedette il consesso, illustrando l’ordine del giorno: valutare l'opportunità del rientro del figlio dal fronte orientale. Di fatto, quindi, la questione posta da Servilia, tramite il medium dei verba e qui riportata con discorsi indiretti, si identifica con gli appelli che Cicerone aveva di frequente rivolto a Bruto101; con ogni probabilità, tali richieste erano giunte all’orecchio della matrona, «certo partecipe dei discorsi che si facevano negli ambienti favorevoli al figlio»102, che quindi decise di programmare questo incontro103.

97 Hillard 1983, 12. 98 Cic. ad Brut. I 18, 1: «Poi, quando sono arrivato, era presente Casca, e Labeone e pure Scapzio. Ma lei ha riportato la questione e ha domandato che cosa a me sembrasse meglio per te: se dovessimo richiamarti e dunque pensassimo che ciò ti giovasse, oppure se farti indugiare e trattenerti dove eri.». 99 Fu tribuno della plebe nel 43 a.C. Fuggì da Roma al termine dell’estate, quando Ottaviano marciò sulla città, e fu puntualmente privato della sua carica. Nel 42 fu legato al servizio di Bruto. Su di lui, oltre a questo passo, vd. Cic. Att. XVI 15, 3; Phil. XIII 30-31; ad Brut. I 17, 1; D.C. XLVI 49, 1; Münzer 1923b, 1778-1779; Broughton 1952, 340 e 366. 100 Fu legato di Bruto durante la battaglia di Filippi. Su di lui, oltre a questa fonte, vd. Plu. Brut. 12, 4-6; 51, 2; App. BC IV 135, 572. Cf. Klebs 1894, 2557; Broughton 1952, 364. 101 Bauman 1992, 74. 102 Bellincioni 1974, 272. 103 Non è possibile appurare se Bruto, istigato dalle pressanti invocazioni ciceroniane, avesse

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I termini adottati da Cicerone per narrare la circostanza permettono di scorgere nel testo una serie di elementi impliciti. Innanzitutto, la preposizione avversativa at, in luo- go di un et o un sed, esprime opposizione rispetto a quanto la precede, valore a cui, in questo caso, si aggiunge una sfumatura concessiva: il messaggio che si intende trasmette- re è che, nonostante la presenza di quattro autorevoli politici, fu Servilia a riferire la que- stione e sollecitare la valutazione dell'Arpinate su quale fosse la scelta migliore per Bruto. Furono proprio le particolari contingenze storiche a consentire alla matrona non solo di convocare una riunione di contenuto politico, ma anche di esporre in prima persona la questione oggetto del dibattito. A rafforzare questa interpretazione concorre la presenza del verbo, rettulit, ascritto al lessico politico delle adunanze senatorie e, in questa veste, adottato da Cicerone. Il verbo referre, qui tradotto con «riferire la questione» è infatti attestato in contesti comiziali per esporre la tematica oggetto di dibattito, a proposito della quale si domanda (quaerere) il parere del consesso104. Ad avvalorare l’analisi se- mantica contribuiscono sia la cornice storica, qualificata da tratti di emergenzialità, sia l’ambiente domestico aristocratico in cui si inserisce l’azione femminile, carico di valen- ze politiche: particolarmente nel contesto eccezionale della tarda Repubblica, infatti, le domus del ceto dirigente assunsero forti connotati politici, ospitando di fatto incontri in cui si assunsero decisioni spesso decisive per lo Stato. Così Vitruvio, negli stessi anni, affermava, […]in domibus eorum saepius et publica consilia et privata iudicia arbitriaque conficiuntur.105, con riferimento sottointeso alle abitazioni degli appartenenti al ceto di- rigente106. L’azione di Servilia esaminata fino ad ora si articola in momenti consequenziali. De- cisa a intervenire nel futuro politico del figlio, indisse una riunione alla quale convocò, avvalendosi presumibilmente della modalità comunicativa per scripta o, tutt’al più, di servi messaggeri, Cicerone, Casca, Labeone e Scapzio. Quindi, al cospetto dei conve- nuti, presiedette la seduta ed espose loro, esprimendosi con precise parole (per verba), la tematica oggetto di discussione e, infine, di deliberazione, facendo propria una proposta

chiesto alla madre un’opinione sul proprio ritorno in Italia oppure se l’iniziativa di Servilia fosse stata totalmente autonoma. Considerata la conclusione di Bellincioni 1974, 273, Bruto non diede mai alcuna risposta a riguardo, silenzio che celerebbe il rifiuto di adempiere a tali richieste. Presumibilmente, dunque, fu l’intraprendenza di Servilia a volere la convocazione dell’incontro, il cui sviluppo e la cui risoluzione ebbero una grande valenza politica. 104 Ad esempio, Cic. Phil. II 13, 31. 105 Vitr. VI 5, 2: « […] nelle loro dimore si concludono assai di frequente sia pubbliche deliberazioni sia private sentenze e decisioni.». 106 Wallace-Hadrill 1988, 55-56 definisce la casa di un nobilis una «power-house» in cui hanno luogo pubbliche dinamiche di carattere politico e sociale; Zaccaria Ruggiu 1995, 319-325, analizza la dimensione politica della domus aristocratica, funzionale alle attività dell’éli- te.

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che, come posto in luce dalla preposizione fortemente avversativa, era sorta dagli appelli che l’Arpinate aveva rivolto a Bruto. La matrona, dunque, svolse un ruolo paragonabi- le alle mansioni di un politico a cui è stata riferita una questione urgente, per la quale ritiene necessario riunire i senatori, a cui espone l’argomento, assunto come oggetto di discussione nonché ordine del giorno, e li invita a manifestare i rispettivi pareri107. Cor- retto è dunque il rilievo dato all’operato di Servilia da parte di R. A. Bauman: «It was almost as if she was a consul presiding at a meeting of the senate.»108. Analogamente, T. C. Brennan qualifica con l’espressione «parliamentary form»109 le modalità con cui ebbe luogo tale incontro. L’interrogazione ebbe pertanto inizio e Servilia invitò i presenti a esprimere la loro opinione in merito. Primo tra tutti, parlò Cicerone:

Respondi id quod sentiebam, et dignitati et existimationi tuae maxime condu- cere te primo quoque tempore ferre praesidium labenti et inclinatae paene rei publicae.110.

Le parole dell’Arpinate rispecchiavano il pensiero che egli aveva già manifestato per via epistolare a Bruto111. La cronaca della riunione si interruppe con questo enunciato, quasi a voler suggerire che la delibera del ‘Senato domestico’ fosse stata quella auspicata da Cicerone. Il corso degli eventi, tuttavia, rivela tutt’altro: Bruto rimase in Oriente, ove, sul campo di Filippi poco più di un anno dopo si tolse la vita. Dietro la permanen- za del figlio di Servilia oltremare è possibile intravvedere l’incontrastata volontà della matrona: si arguisce facilmente infatti come, dopo aver dato ascolto alle opinioni dei riuniti, lei stessa avesse compreso che il ritorno di Bruto sul suolo e sulla scena politica romani avrebbero potuto causare conflitti con Ottaviano, ostilità che avrebbero com- portato il rischio di perdere la vita112. Di conseguenza, le premure materne e l’accortezza politica la indussero a optare per la risoluzione più cauta: lasciare che il figlio restasse nelle province orientali. La sezione finale della lettera reca un’ulteriore menzione di Servilia, colta ad agire nei panni di madre di Bruto. Cicerone informa l’amico di una serie di avvenimenti, l’ul-

107 Le modalità operative di Servilia sono estremamente affini a quelle, ad esempio, esposte al principio della X Philippica in riferimento al console Pansa. Vd. Cic. Phil. X 1, 1-2. 108 Bauman 1992, 74. 109 Brennan 2012, 361. 110 Cic. ad Brut. I 18, 2: «Io ho risposto con quella che era la mia opinione, che gioverebbe enormemente sia al tuo prestigio che alla tua fama che tu apportassi aiuto il prima possibile allo Stato repubblicano vacillante e pressoché cadente.». 111 Per l’interpretazione del parere ciceroniano, qui ribadito, vd. Bellincioni 1974, 272-273. 112 Bellincioni 1974, 272.

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timo dei quali, data la sua natura famigliare, presume gli fosse già noto tramite le missive della madre113. Una precisazione, questa, che permette di considerare come i contatti epistolari tra Servilia e il figlio continuassero senza sosta. Sebbene non sia dato sapere come Bruto fosse venuto a conoscenza della risoluzione del 25 luglio, è assai probabile che ne fosse stato messo a parte dalla stessa madre, che, ancora una volta, si era avvalsa della comunicazione per scripta per riferire decisioni di natura politica, cruciali sia per il futuro del figlio, sia per quello dellaRes publica.

4. L’ultima Servilia

Al termine dell’estate del 43 a.C. l’emanazione della lex Pedia de interfectoribus Cae- saris fece in definitiva perdere ogni speranza di trattativa tra Cesariani e Cesaricidi114. Lo scontro finale tra le opposte parti ebbe luogo nella celebre piana di Filippi, in una duplice battaglia115: il 3 ottobre del 42 a.C. a soccombere fu Cassio, suicidatosi nella convinzione che il suo esercito fosse stato sconfitto116; il 23 dello stesso mese, quindi, fu la volta di Bru- to, che si tolse la vita nello stesso modo117. È nell’ambito della morte di Bruto e della sorte del suo cadavere che è ancora una volta menzionata Servilia, secondo quanto univocamente registrano Appiano e Plutarco:

Καὶ Βροῦτον Ἀντώνιος ἀνευρὼν περιέβαλέ τε τῇ ἀρίστῃ φοινικίδι εὐθὺς καὶ καύσας τὰ λείψανα τῇ μητρὶ Σερουιλίᾳ ἔπεμψε118.

113 Cic. ad Brut. I 18, 6: […] ut te arbitror e matris litteris potuisse cognoscere. («[…] come credo tu sia venuto a conoscenza dalle lettere materne.»). Il contesto a cui l’Arpinate fa riferimen- to concerne la dichiarazione, avvenuta il 30 giugno del 43 a. C., di Lepido come hostis publicus (Cic. epist. XII 10, 1; Vell. II 64, 6; D.C. XLVI 51, 4), in seguito alla quale le sue proprietà furono confiscate. Giunia Seconda, moglie di Lepido, e Servilia si rivolsero a Cicerone per evitare che la confisca del patrimonio colpisse i figli del Triumviro, appello a cui più volte partecipò anche Bruto tramite delle lettere spedite dall’Oriente (Cic. ad Brut. I 12, 1-2; 13, 1; 15, 11). L’Arpinate infine perorò in Senato la causa dei figli di Lepido, fatto di cui Bruto, presumibilmente, era già stato informato dalla madre. Cf. Allély 2008, 616-618 e 621-622; Rohr Vio 2012, 113-116. 114 Sulla legge e sulle fonti che la tramandano vd. Rotondi 1966, 435. Plutarco (Brut. 27) riassume efficacemente la sequenza di avvenimenti a partire dalla marcia su Roma di Ottaviano fino alla stesura delle liste di proscrizione del secondo Triumvirato, dipingendo il tutto come un colpo di scena improvviso e inaspettato agli occhi di Bruto. 115 Rohr Vio 2014b, 120. 116 Il resoconto della prima battaglia è in Liv. perioch. CXXIV; Vell. II 70, 1-3; Plu. Brut. 41- 43; App. BC IV 110-113; D.C. XLVII 42-46. 117 Per la narrazione del secondo scontro vd. Liv. perioch. CXXIV; Vell. II 70, 4-5; Plu. Brut. 49-52; App. BC IV 126-131; D.C. XLVII 47-49. 118 App. BC IV 135, 568: «Rinvenuto il corpo di Bruto, Antonio lo avvolse in un panno

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Tra le diverse versioni giunte sul destino di questo corpo119, gli autori greci accredi- tano importanza al ruolo giocato da Antonio, che onorò Bruto di un funerale solenne, ne cremò le spoglie e, infine, inviò le ceneri a Servilia120. L’eloquente gesto del Triumviro è da intendersi quale ossequio tributato allo stesso Bruto, che grazie agli onori funebri resigli fu compreso tra i membri defunti della gens e, quindi, oggetto del culto dei mor- ti121, ma palesa anche un profondo rispetto nei confronti di Servilia, in ragione, molto probabilmente, del suo passato legame con Cesare. A testimoniare l’ossequio che fu sempre riservato a questa matrona concorre anche una voce della letteratura latina, tràdita nell’Atticus di Cornelio Nepote:

Id ex ipsis rebus ac temporibus iudicari potest, quod non florentibus se venditavit, sed afflictis semper succurrit: qui quidem Serviliam, Bruti matrem, non minus post mortem eius quam florentem coluerit.122.

Già Cicerone informava, definendo Serviliatua familiaris123, che la matrona e T.

stupendo e lo fece subito cremare; quindi, mandò i resti alla madre, Servilia.». Le parole usate da Plutarco (Brut. 53, 4) a questo proposito sono: Τὸν δὲ Βροῦτον ὁ Ἀντώνιος ἀνευρὼν τεθνηκότα, τὸ μὲν σῶμα τῇ πολυτελεστάτῃ τῶν ἑαυτοῦ φοινικίδων περιβαλεῖν ἐκέλευσεν· ὕστερον δὲ τὴν φοινικίδα κεκλεμμένην αἰσθόμενος, ἀπέκτεινε τὸν ὑφελόμενον. Τὰ δὲ λείψανα πρὸς τὴν μητέρα τοῦ Βρούτου Σερβιλίαν ἀπέπεμψε. («Antonio, non appena trovò il corpo di Bruto, lo fece avvolgere nel più ricco dei suoi mantelli color porpora e quando, più tardi, seppe che il mantello era stato rubato, fece uccidere il ladro. Provvide poi a mandare a Servilia, madre di Bruto, i resti dei figlio.»). 119 La tradizione confluita in Appiano e Plutarco sottolinea laclementia di Antonio, rilevata anche dalle altre testimonianze che ricordano questo episodio (Val. Max. V 1, 11; Plu. Ant. 22, 6-8; Brut. 53, 4. Vd. Amerio 1998, 398): è assai probabile, dunque, un’originaria matrice filo- antoniana, presumibilmente ravvisabile in Asinio Pollione. Sulla sorte che subì il cadavere di Bru- to la tradizione riferisce alterne vicende: Svetonio (Aug. 13, 1), di orientamento anti-augusteo, tramanda che Ottaviano ne inviò la testa a Roma affinché fosse gettata ai piedi della statua di Cesare; Cassio Dione (XLVII 49, 2), invece, riferisce che Antonio ne seppellì il corpo e mandò la testa a Roma, ove però non giunse poiché cadde in mare durante la traversata. Cf. Clarke 1981, 72. 120 Radin 1939, 225; Clarke 1981, 72. 121 Baldson 1962, 52 riprende in questo contesto la definizione diprudentissima et diligen- tissima femina, ponendo in luce come la morte di Bruto non avesse posto limite all'azione di Servilia in quanto madre, palesata ora con la ricezione delle ceneri e lo svolgimento del culto dei morti. 122 Nep. Att. 11, 4: «Questo si può stabilire dagli stessi eventi e dalle situazioni, poiché non si fece raccomandare presso i potenti, ma venne sempre in aiuto delle persone sofferenti: in questo modo appunto aveva trattato Servilia, madre di Bruto, dopo la morte di lui con rispetto non inferiore che nei tempi felici.». 123 Cic. Att. XV 11, 2.

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Pomponio Attico erano uniti da una sincera amicizia. In virtù di questo legame, dunque, Attico rivolse le proprie attenzioni alla madre di Bruto dopo la scomparsa del figlio, proseguendo nel tributarle il rispetto con cui si era sempre rapportato a lei.

5. Conclusioni

Le voci del mondo antico tramandano come, in età tardo-repubblicana, alcune delle matrone appartenenti alle più antiche e illustri gentes romane si distaccarono dal modello che il mos maiorum aveva codificato per loro al fine di sconfinare in ambiti pubblici e politici convenzionalmente ritenuti di pertinenza maschile124. Se, da una parte, le inter- ferenze femminili si esplicavano alla luce dell’eccezionale contesto storico che connotò l’ultimo secolo della Repubblica, dall’altra richiedevano un adeguamento degli spazi e dell’azione da parte delle matrone ai tempi mutati125. Ad essere oggetto di cambiamento furono, però, anche le modalità dell’operato femminile, inserite in un processo di lenta evoluzione irreversibilmente in atto. Sia per il mutamento del paradigma matronale, sia per l’esempio offerto da Servilia, fu il medium verbale a risentire maggiormente di tale dinamica: da semplici lamenti disarti- colati a parole strutturate in frasi essenziali, i verba femminili esplicitati in sede pubblica furono oggetto di un ulteriore passaggio, che li portò ad un’articolazione in veri e propri discorsi, innovativa e per gli ambiti, pubblici e politici, in cui le matrone se ne avvalsero. In tal senso, l’utilizzo di queste forme comunicative da parte di Servilia e, contestual- mente, il suo operato si collocarono a metà strada tra le azioni di altre due donne aristo- cratiche a lei coeve, Porcia, sua nipote e nuora, e Giulia, madre di M. Antonio. Se infatti la prima, nel contesto del Cesaricidio, aveva palesato la propria apprensione valicando i limiti della domus e relazionandosi con i passanti formulando richieste strutturate in pre- cisi interrogativi126, la seconda si era recata, tra il 43 e il 42 a.C., nel Foro, luogo pubblico per eccellenza, ove aveva manifestamente dichiarato al figlio la propria auto-accusa, rivol- gendosi a lui con l’appellativo di imperator127. L’operato di Servilia, dunque, si inseriva in una parabola evolutiva delimitata da precisi riferimenti: la sua azione, infatti, violava più apertamente i mores rispetto all'iniziativa di Porcia, dal momento che quest’ultima si avvaleva del discorso con il solo intento di esser messa a parte dei piani orditi da Bruto e dagli altri congiurati, ma allo stesso tempo il distacco dal canone matronale era inferiore rispetto all'interferenza di Giulia, che fece uso dei verba in un contesto non domestico, bensì marcatamente pubblico e, in aggiunta, interloquendo con un Triumviro.

124 Per i caratteri del modello matronale vd. Cenerini 20092, 17-38. 125 Così Rohr Vio 2014a, 112. 126 Plu. Brut. 15, 5-9. Cf. Rohr Vio 2014a, 103-104. 127 App. BC IV 37, 156-158. L’azione extra mores di Giulia è consequenziale alla proscrizione di suo fratello, L. Giulio Cesare, ad opera del proprio figlio. Cf. Rohr Vio 2014a, 108-109.

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Il caso di Servilia risulta, quindi, esemplare. Cicerone e il suo epistolario, difatti, forniscono importanti informazioni sulle interferenze promosse da questa matrona in ambito politico e sui mezzi comunicativi di cui ella si avvalse. All’utilizzo del medium degli scripta si affiancò, in due momenti, quello deiverba : le sue parole politiche furono in primo luogo quelle dell’enunciato, ben strutturato e tràdito verbatim, della riunione di giugno 44 a.C. con la risoluta esclamazione rivolta all’Arpinate128; quindi, più velata- mente, quelle dell’incontro del 25 luglio 43 a.C., che conosciamo in forma indiretta129. Come nel caso di Giulia, anche la madre di Bruto confidò nel carattere decisionale e risolutivo della parola sapientemente articolata in un enunciato, dirompente e rile- vante al punto da essere trasmesso nella sua forma diretta. D'altro canto, gli aspetti che la assimilarono a Porcia, sebbene solo in parte, furono gli spazi, quelli della domus, che ospitarono la sua azione. Nelle sedi, domestiche, e secondo le modalità, epistolari e verbali, sopra delineate, dunque, Servilia operò interventi e interferenze in ambito politico, appellandosi ed in- tercedendo presso i Cesariani così come decidendo la sorte del proprio figlio, mossa dalla pietas che ogni matrona doveva possedere ed esercitare. Il ruolo strategico che ella giocò in numerose occasioni e la sua acuta visione politica erano già stati rilevati dai contemporanei130, nonché sottolineati da numerosi studiosi moderni, tra i quali spicca il giudizio di R. Syme, che definì Servilia «la grande signora della politica.»131. Fu in que- sti termini che ella si contraddistinse negli anni conclusivi della ‘Rivoluzione romana’, annoverandosi tra le più rilevanti figure matronali che si distaccarono dai canoni stilati dal mos maiorum, senza però subire una delegittimazione, per affermarsi come protago- niste imprescindibili del tramonto della Repubblica.

128 Cic. Att. XV 11, 2. 129 Cic. ad Brut. I 18, 1. 130 È questa l’opinione di Dixon 1988, 194. 131 Syme 1962 [1939], 23. Così anche Baldson 1962, 51: «Of all the women in the late Republican politics Servilia is the greatest.»; Evans 1991, 193: «[…] Servilia, a formidable lady[…]».

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Monumenti funerari con ‘matrone’ filellene tra Aquileia, Roma e le province

Premetto che il mio contributo non è perfettamente allineato al tema del convegno, in quanto una buona parte dei monumenti funerari che prenderemo in considerazione, e non solo di Aquileia, sono eretti soprattutto da liberti – questo naturalmente quando vi sono informazioni sul rango sociale del defunto. Le figure femminili che vedremo su altari e su monumenti simili in Cisalpina, a Roma e nel mondo provinciale non sono matrone, ma più modestamente personaggi di quella classe che vedevano il sepolcro so- prattutto come mezzo di celebrazione postuma del loro successo sociale. L’immagine della donna nella scultura funeraria della Cisalpina tra tarda età repub- blicana e prima età imperiale è una immagine abbastanza standardizzata; come è standar- dizzato il sepolcro stesso, poiché, con l’ovvia eccezione delle statue a tutto tondo, i tipi monumentali che presentano il ritratto del defunto o del dedicante sono per la maggior parte dei casi stele e altari. Le stele dominano la prima fase della produzione, dalla metà del I a.C. alla metà del successivo. L’immagine femminile, come quella maschile, si pre- senta di norma in epitome come busto o semplice testa, e in visione frontale. Raramente emerge una caratterizzazione fisionomica: sono molto spesso dei tipi, donne senza età che si differenziano più che altro per il genere di acconciatura di moda nei ritratti impe- riali coevi. Incomparabilmente più rara è la presenza di personaggi rappresentati a figura intera, nel solco della tradizione del monumento funerario greco: Hermann Pflug, cui si deve lo studio di riferimento sulle stele con ritratti dell’Italia Settentrionale, calcola che rappresentano meno del 5% del totale1. Anche nel caso della figura intera l’immagine della donna esce raramente dallo stereotipo. Si tratta quasi sempre di palliate avvolte in panneggi pesanti e accompagnate da familiari di sesso maschile, di cui talora imitano perfino posa e gesto: è il caso ad es. della libertaCornelia Prisca raffigurata nella stele dei Cornelii al Museo Civico di Bologna, di età augustea2. Questo rigido codice autorappre- sentativo viene infranto molto di rado. Nella stele di Egnatia Chila, databile negli stessi anni della precedente3, la defunta, una liberta di origine greca, fa una scelta controcor- rente e si presenta con vesti leggere e trasparenti ispirandosi al modello della cosiddetta Grande Ercolanese, un tipo di origine tardoclassica utilizzato in età romana soprattutto

1 Pflug 1989, 79; da ultimo Verzár Bass 2013. 2 La stele è notevole anche per le dimensioni inconsuete (alt. cm 263): cf. Gabelmann 1979, 240-241, fig. 22; Pflug 1989, 170-171 nr. cat. 45, tav. 10.1. 3 Frenz 1985, 71 n. 381, nr. 23, con precedente bibl.; Di Filippo Balestrazzi 1989a, 31; Pflug 1989, 79, 100, 163-164 nr. 30, tav. 7.1; Verzár Bass 2013, 161-162, fig. 5. Sulla veste aderente con effetto di panneggio ‘bagnato’ come allusione a Venere cf. Pflug 1989, 100.

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MatronaeOK.indb 193 21/06/16 08:55 LUIGI SPERTI

per statue funerarie. In confronto con le pudibonde figure coeve,Egnatia sembra quasi nuda: ma è una opzione che nel panorama delle stele, e non solo norditaliche, troverà scarsissimo seguito.

Fig. 1 - Altare di Q. Cerrinius Cordus, Aquileia, Museo Archeologico (Scrinari 1972, n. 365,b)

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MatronaeOK.indb 194 21/06/16 08:55 MONUMENTI FUNERARI CON ‘MATRONE’ FILELLENE

Dall’età tiberiana, e più decisamente dalla metà circa del I secolo d.C., alle stele si affiancano gli altari funerari, che possono raggiungere in qualche caso dimensioni tali da gareggiare con quelle di piccoli mausolei. Il repertorio figurativo degli altari rispetto a quello delle stele è più vario, combinando rappresentazioni iconiche, scene o singoli personaggi mitologici, decorazioni vegetali, rappresentazioni di oggetti tratti di solito dalla sfera religiosa o trionfale. La figura umana è rappresentata di rado: scompare il busto, che era il tema dominante nel repertorio delle stele, sostituito da figure intere, i cui volti presentano tratti fisionomici, abbastanza caratterizzati da permettere una data- zione relativamente puntuale del monumento. La grande maggioranza degli altari monumentali con figure intere dell’Italia Set- tentrionale proviene dalle necropoli aquileiesi4: sono noti circa una decina di esemplari, tutti in calcare, dunque di produzione locale; nella maggior parte dei casi si è conservato solo l’elemento parallelepipedo centrale, che va integrato con una base e una cuspide. Contrariamente all’altare urbano, che era concepito per essere posto in ambienti chiusi, quello aquileiese era utilizzato all’aperto in recinti funerari, e dunque aveva un carattere più apertamente pubblico5. Si tratta di una produzione destinata, come indicano i dati epigrafici, quasi esclusivamente a liberti; la maggior parte dei pezzi risale all’età tiberia- na, qualche esemplare arriva sino all’età flavia. Lo schema compositivo è costante: nel lato principale l’iscrizione, nel lato destro un togato stante, in quello opposto una figura femminile in pallium, anch’essa in piedi, entrambi posti sopra una sorta di base svasata, quasi fossero statue. Le immagini dei togati riproducono un tipo-base con poche varia- zioni: la toga è quella molto panneggiata tipica dell’epoca augustea, ma un po’ più corta rispetto a quella delle statue coeve; il volumen che il defunto o dedicante ostenta più che reggere sottolinea educazione e cultura, e ne enfatizza lo status sociale6. Alla controparte femminile è concessa maggiore libertà, ma sempre nei limiti di un codice visivo elaborato per ribadire tramite veste, contegno e gesti le virtù dell’effigiata. Nell’altare di Cerrinius Cordus la liberta Iulia Donacine (fig. 1) regge unflabellum , un attributo abbastanza usuale nel repertorio funerario romano7; del monumentale altare di Lucius Arrius Macer8, Arria Trophime (fig. 2) tiene con la mano sinistra sollevata sino

4 Scrinari 1972, 127-142; Dexheimer 1998, 24-27, 85-88; Dexheimer 2000. Uniche due eccezioni l’altare di Onesimus a Udine (Dexheimer 1998, 125-126 nr. 128) e un altare a Modena, peraltro databile in un’epoca di circa un secolo posteriore a quella degli esemplari aqui- leiesi: vd. Rebecchi 1986, 897, fig. 7 (solo lato con iscrizione); Rebecchi 1988, 383, fig. 308; Dexheimer 1998, 76-77 nr. 13. 5 Boschung 1987, 37; Dexheimer 2000, 78. 6 In generale sulle figure di togato nelle stele aquileiesi cf. Dexheimer 1998, 25; sulla rappre- sentazione di volumina in statue funerarie vd. Starac 2008. 7 Scrinari 1972, 128 nr. 365; Dexheimer 1998, 86 nr. 34; Dexheimer 2000, 79 fig. 8.1a. 8 Scrinari 1972, 130 nr. 371; Dexheimer 1998, 87-88. nr. 36; Dexheimer 2000, 79, 83

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MatronaeOK.indb 195 21/06/16 08:55 LUIGI SPERTI

all’altezza della spalla un lembo della stola, un gesto al quale non so dare spiegazione, ma che ricorre in qualche altro monumento funerario della regio X, come ad esempio la stele ad arco altinate con busto di defunta colta nello stesso atteggiamento ma con ritmo speculare9; altre due dame aquileiesi (fig. 3) si propongono esattamente nella stessa posa e tipologia di Arria Trophime, ma sorreggono nella mano sinistra una pila10. Pur diversi- ficate nell’attributo o nel gesto, queste figure femminili ripropongono un tipo costante, una figura feminile stante, in visione frontale, avvolta in palla e stola.

Fig. 2 - Altare di L. Arrius Macer, Aquileia, Museo Archeologico (Scrinari 1972, n. 371)

nr. 1. 9 Cresci Marrone - Tirelli 2010, 136, fig. 13: che l’atteggiamento richiami pure alla lontana immagini di Pudicitia mi sembra ipotesi problematica. 10 Scrinari 1972, 129 nr. 367; Dexheimer 1998, 85 nr. 32; Dexheimer 2000, 80, 83 nr. 4 (altare di Tiberius Claudius Germanus); Scrinari 1972, 128 nr. 366; Dexheimer 1998, 87 nr. 35; Dexheimer 2000, 83 nr. 3 (altare di Sextus Caesernius Libanus).

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MatronaeOK.indb 196 21/06/16 08:55 MONUMENTI FUNERARI CON ‘MATRONE’ FILELLENE

Fig. 3 - Altare di T. Claudius Germanus, Aquileia, Museo Archeologico (Scrinari 1972, n. 367,b)

Ma non tutte intendono adeguarsi al modello corrente. Tanto più generalizzata è l’a- desione ad una norma, tanto più significativo sarà lo scarto. L’altare diMaia Severa (fig. 4), nel gruppo dei grandi esemplari aquileiesi di età tiberiana, è forse quello meno con- servato11. L’iscrizione sul lato principale, di difficile lettura, ricorda il libertoQuintus Al- bius Auctus, seviro, e Maia Severa, di anni 22, che …viva fecit. La parte destra è mancante, ma probabilmente vi era raffigurato un togato, come negli altri altari del gruppo. Sul lato sinistro Maia Severa si presenta seduta di profilo su una sedia con alto schienale, con i piedi appoggiati su uno sgabello; la mano destra poggia su un uccello di identificazione

11 Scrinari 1972, 129 nr. 368; Dexheimer 1998, 85-86 nr. 33; Dexheimer 2000, 83 nr. 6, fig. 8.3; da ultimo Sperti 2012, 516-517, fig. 10, con ulteriore bibl.

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MatronaeOK.indb 197 21/06/16 08:55 LUIGI SPERTI

discussa; la sinistra regge uno specchio. Nonostante la tipologia della sedia e la forma del poggiapiedi siano tipiche del repertorio romano, la scena rimanda immediatamente alle immagini di donne che compaiono nelle stele funerarie attiche di V e IV secolo. Nella stele di Mika e Dion al Museo Nazionale di Atene (fig. 5), proveniente dalDipylon 12, Mika sembra indecisa nel momento del commiato se rimirarsi riflessa per l’ultima volta nel suo specchio o guardare il compagno cui si unisce nella dexiosis. Lo specchio ‒ più ostentato che utilizzato, come si vede anche nella stele ateniese ‒ è un oggetto di uso quotidiano rappresentato di frequente in mano alle defunte greche.

Fig. 4 - Altare di Maia Severa e Q. Albius Auctus, Aquileia, Museo Archeologico (Scrina- ri 1972, n. 368)

12 Johansen 1951, 37-40, fig. 19; Clairmont 1993-95, II, 147-148 nr. 2210; Berge- mann 1997, 45; Sperti 2012, 518, fig. 11.

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MatronaeOK.indb 198 21/06/16 08:55 MONUMENTI FUNERARI CON ‘MATRONE’ FILELLENE

Nel monumento di Maia Severa si accompagna ad un uccello che è stato identificato in una colomba, ma che potrebbe essere anche una gallina, come proposto di recente13 (e le dimensioni sono forse più a favore di questa ipotesi). La gallina non è certo un attributo particolarmente adatto a celebrare le virtù femminili, ma in questo caso an- drebbe interpretato probabilmente come l’animale cui Maia Severa era affezionata: il corrispettivo di cani gatti uccellini e persino oche14 che animano le stele funerarie classi- che. Qualunque sia l’oggetto delle attenzioni della donna, uccello e specchio non sono un binomio casuale: essi rimandano, attraverso il simbolismo dell’acqua e del riflesso, al mondo di Afrodite/Venere, alla sfera della seduzione e dei sensi, come dimostrano una serie di testimonianze figurative in cui i due motivi compaiono sia come simboli isolati, sia inseriti in più complesse scene di toletta15.

Fig. 5 - Stele di Mika e Dion, Atene, Museo Nazionale (da Johansen 1951, fig. 19)

13 Taylor 2008, 48. 14 Vd. ad es. Bergemann 1997, 171 n. 509, tav. 63,2 (stele a naiskos a Malibù, J.P. Getty Museum, 360 a.C). 15 Vari esempi di epoche diverse in Taylor 2008, 47-55.

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MatronaeOK.indb 199 21/06/16 08:55 LUIGI SPERTI

Dal punto di vista iconografico l’altare di Maia Severa è ununicum . Ma qualche altro esemplare all’incirca coevo, riferibile alla stessa area geografica, mostra che il ricorso a schemi figurativi ispirati a monumenti funerari greci non è un episodio isolato. Nella chiesa di S. Giorgio a Comeglians, un centro della Carnia, è conservato un altare funera- rio (fig. 6) noto sin dal Settecento, utilizzato un tempo come pietra d’angolo, e collocato in seguito all’interno della chiesa16.

Fig. 6 - Altare di Virtius Albinus e Regia Ommonta, Comeglians (Ud), chiesa di San Gior- gio (da Sperti 2012, fig. 3)

L’altare riprende lo schema degli esemplari parallelepipedi aquileiesi, con iscrizione nella faccia principale e figure ai lati. L’epigrafe nominaVirtius Albinus e Regia Ommon- ta, che eressero da vivi il monumento per sé, per i loro cari, per i liberti, le liberte e i loro discendenti. Il lato destro non riserva sorprese. Secondo lo schema usuale compare un

16 Sperti 2012, con la poca bibl. precedente.

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togato: Virtius Albinus, stante e con volumen bene in vista nella mano sinistra, sembra il fratello del Tiberius Claudius Germanus dell’omonimo altare aquileiese17. Meno sconta- to il lato opposto, dove Regia Ommonta, seduta sulla stessa sedia ad alto schienale usata da Maia Severa, è rappresentata nel gesto della filatura con fuso sospeso. Nel repertorio funerario romano il tema della filatura ha un’importanza difficilmen- te sopravvalutabile, sia per la quantità di monumenti che mostrano fuso e conocchia, sia per le implicazioni di ordine etico legate a tali rappresentazioni, che costituiscono il corrispettivo visivo dello stereotipo della lanifica, quel modello ideale femminile di cui innumerevoli testi e iscrizioni celebrano in una dimensione del tutto sociale fedeltà e ri- servatezza, e che può assumere significati più profondi in rapporto a dee e ad altre figure mitologiche filanti che, avendo la funzione di presiedere al destino individuale, hanno ovvia e immediata relazione con il mondo funerario18. Ma se si passano in rassegna i numerosissimi monumenti funerari in cui la lana e le attività domestiche ad essa connesse trovano spazio nell’apparato figurativo, ci si sor- prende del fatto che non esiste quasi una sola testimonianza in cui la donna sia rappre- sentata nell’atto di filare. In età imperiale il tema della filatura, a prescindere dalle aree geografiche, ha regole ferree: o sono raffigurati semplicemente i singoli strumenti (fuso, rocca, cesto da lana) oppure è rappresentata la defunta che regge in mano gli attrezzi inutilizzati19: non oggetti di uso quotidiano ma attributi, simboli astratti di uno status morale. Non so dire per quale ragione la lanifica non fila la lana. D’altronde ciò che conta nel mondo delle immagini è come sempre l’immediatezza del messaggio, ed evidentemente una figura femminile che si limita a reggere fuso e rocca comunica in modo efficace e comprensibile quei valori di cui abbiamo detto. Regia Ommonta sceglie per sé una im- magine inconsueta, e lo fa riproponendo un modello tratto dalla tradizione figurativa classica. Infatti anch’essa, come Maia Severa, ha qualche antenata ateniese: nella stele funeraria di una Mynnò, della fine del V secolo a.C., la defunta (fig. 7) si presenta seduta su uno sgabello mentre fila la lana tenendo con la destra il fuso e con la sinistra una co- nocchia che in origine era dipinta20. Su una scelta così particolare influiscono sicuramente fattori specifici, legati alla cul- tura figurativa dell’atelier che ha prodotto l’altare. Della provenienza del monumento non sappiamo nulla. Poiché Comeglians si trova a circa 20 km. da Iulium Carnicum, che è il centro romano più importante dell’odierno Friuli settentrionale, l’altare è stato

17 Dexheimer 1998, 195 in basso a destra. 18 Bibl. in Sperti 2012, 515. 19 Sperti 2012, 515-517. 20 Berlino, Pergamon Museum, da Atene o dal Pireo: Clairmont 1993-95, I, 244-245 nr. 1176; Sperti 2012, 518, fig. 12. Sulle scene di filatura nell’arte attica del V secolo vd. Kosmo- poulou 2001, 300-304.

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attribuito ad una delle sue necropoli21. Tuttavia il Friuli è pieno di pierres errantes di origine aquileiese; e tra queste, manufatti di forma squadrata erano particolarmente ap- prezzati in quanto riutilizzabili in costruzioni post-antiche come pietre angolari, come è il caso in questione. Mi pare dunque più probabile che la nostra coppia abbia scelto come ultima dimora Aquileia, anche perché il monumento che hanno deciso di erigere costituisce, per scelta formale e per spirito, il confronto più vicino all’altare di Maia Severa: entrambe le donne siedono di profilo sulla stessa sedia, entrambe si distinguono dalla massa delle rappresentazioni analoghe per il gesto. Un gesto che è stato definito con bella espressione “tenue”22,che fissa il quotidiano in un momento senza tempo, e che richiama appunto l’atmosfera rarefatta delle stele attiche di età classica.

Fig. 7 - Stele di Mynnò, Berlino, Pergamon Museum (da Clairmont 1993-1995, n. 1176)

21 Vd. bibl. in Sperti 2012, n. 1. 22 Mansuelli 1958, 95.

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I due altari riaprono un tema storiografico su cui si discute almeno dagli inizi degli anni ’60, quello dei rapporti, che le testimonianze archeologiche ci dicono particolar- mente intensi, tra le manifestazioni artistiche dell’area nord-adriatica e il mondo greco23. Abbandonata l’ipotesi di un rapporto privilegiato e quasi esclusivo dei centri della Ve- netia con quelli del Mediterraneo orientale, e l’ipotesi di segno opposto ma altrettanto semplificatoria di una mediazione da parte di Roma, ciò che gli studi hanno messo sem- pre più in evidenza è una rete di influenze assai più articolata e complessa, in cui entrano in gioco rapporti instauratisi in varie epoche, substrati locali, forme di espansione da parte di culture figurative dominanti e di assimilazione da parte di altre meno evolute, fattori legati alla predilezione da parte di specifici gruppi etnici di specifici temi, stili e monumenti, e altro ancora. In questo senso si spiega, nella Venetia e in centri adriatici come Ancona, la presenza di stele funerarie con iscrizione in greco, databili tra la metà del II secolo a.C. e la prima metà del successivo (cioè nelle primissime fasi della romanizzazione) che ripropongono modelli in uso in Attica e nel Mediterraneo orientale con tale fedeltà che si ritenevano un tempo manufatti greci trasportati in Italia in età medievale e moderna, e che invece sono esempi di produzione locale destinati a Greci stanziatisi in epoca tardoellenistica per motivi commerciali nei più importanti centri della costa adriatica24; o vanno intesi i confronti puntuali che alcuni tipi presenti nella scultura aquileiese trovano con la pro- duzione cicladica di età ellenistica25; o si comprende la diffusione nella costa adriatica dell’Italia Settentrionale di grandi stele che elaborando in forme autoctone la tradizione classica presentano il defunto a figura intera: abbiamo già visto la stele diEgnatia Chila, che pur avendo qualche parallelo in area campana e nella costa dalmata26, rimane un unicum per la scelta del tipo e lo stile classicistico. Questi e altri esempi che tralasciamo dimostrano che nei principali centri italici, al Nord come al Sud, erano attivi atelier gestiti da artisti greci che si erano trasferiti in cerca di commesse27. Aquileia era certamente uno di questi centri, perché la presenza in loco di maestranze provenienti dal Mediterraneo orientale è testimoniata da manufatti non finiti28. Alcune officine erano specializzate nella produzione di scultura funeraria29, un ambito in cui i rapporti con la tradizione greca sono particolarmente frequenti ed evi-

23 Si vedano almeno Di Filippo Balestrazzi 1989a, 30-32 e passim; Ghedini 1990; Verzár Bass 2013, 158-159. Per un quadro più generale sui rapporti tra la scultura a tutto ton- do del Norditalia e la tradizione ellenistica tra II sec. a C. e metà del I sec. d.C. vd. Denti 1991. 24 Di Filippo Balestrazzi 1989a; Di Filippo Balestrazzi 1989b; Colivicchi 2000. 25 Ghedini 1990. 26 Verzar 2013, 162-163. 27 Denti 1989, 11-12. 28 Denti 1991, 328. 29 Denti 1991, 111 (Aquileia), 174 (Altino).

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denti sia dal punto di vista tipologico che iconografico. Va chiarito però che il confronto tra i due altari aquileiesi e le stele attiche non implica necessariamente che il modello per queste signore filellene vada ricercato nella scultura funeraria ateniese di V-IV secolo. L’in- flusso dell’arte greca nei centri adriatici è un fenomeno molto precoce, e la diffusione di schemi iconografici di derivazione classica non inizia certo in età imperiale. Per rimanere sul tema della filatura, immagini di defunte somiglianti aRegia Ommonta circolavano in aree contermini già in epoca ellenistica. Un rilievo funerario a Traù, in Dalmazia (fig. 8), di mediocre fattura e di datazione non scontata30, ripropone con alcune incomprensioni lo schema iconografico classico: il dettaglio della matassa di lana e il gesto hanno poco a che fare con la realtà della filatura, ma l’impianto generale, lo sgabello, il poggiapiedi e il kalathos in cui si ripone la lana trovano confronti puntuali nel repertorio attico31.

Fig. 8 - Rilievo funerario, Trau (Trogir), Museo (da Cambi 2002, fig. 29)

Soluzioni analoghe sono testimoniate ovunque nel mondo provinciale vi sia da un lato una committenza sensibile a istanze di autorappresentazione che implicano l’uso di forme colte e retrospettive, e dall’altro maestranze in grado di soddisfarle. Il tema della toletta quotidiana si presta bene ad inscenare scorci domestici in cui la protagonista è

30 Cambi 2002, 36, fig. 29: la datazione nel III o II secolo a.C. non è giustificata. 31 Per il kalathos vari esempi in Clairmont 1993-95, I, ad es. nrr. 1176, 1220, 1691, etc.; per sgabello e poggiapiedi sagomato vd. Clairmont 1993-95, I nrr. 1708, 1819; II nr. 2051, etc.; Strömberg 2003, 33-34, tavv. V, IX.

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immersa in una elegante atmosfera classica. Il rilievo di un mausoleo monumentale di età severiana da Neumagen32 (fig. 9) presenta la defunta seduta nella solita sedia di vimini, con il poggiapiedi posto di scorcio, circondata da ancelle, di cui una regge uno specchio. Le scene di toletta con la padrona di profilo accudita da ancelle rimanda alla pittura vascolare ateniese a figure rosse, dove il tema è testimoniato con un certa frequenza33. L’aspetto classicistico è accentuato dalla veste e dall’atteggiamento della defunta, che si stringe al seno il braccio sinistro avvolto dalla stoffa in un gesto che richiama la cd. Pudicitia, un tipo statuario di origine medioellenistica molto utilizzato in età romana sia per statue iconiche che in rilievi funerari, anche di produzione nord-italica34. Con forme e modi diversi, ma sempre con un esplicito rimando al mondo greco, il monumento di Treviri e il più modesto rilievo atestino celebrano la castità matronale.

Fig. 9 - Rilievo dal cd. Elternpaarpfeiler di Neumagen, Treviri, Rheinisches Landesmuseum (da Taylor 2008, fig. 16)

32 Treviri, Rheinisches Landesmuseum: Baltzer 1983, 104 nr. 71, fig. 100; Bartman 2001, 6; Taylor 2008, 36 fig. 16; Rothe 2009, 129-130, T56, con ulteriore bibl.; Cesa 2011, 41, fig. III.1; da ultimo Mander 2013, 89, 239-240, fig. 71. Scene simili in altri monumenti a pilastro renani: vd. Baltzer 1983, 104 nr. 72, fig. 101; Rothe 2009, 130-131, T60, tav. XI. Per un catalogo di scene con ornatrices cf. Kampen 1981, 149-152 nr. 30-38. 33 Vd. ad es. una hydria a figure rosse a Providence (USA), in Bleecker Luce 1933, 29, tav. 22, e a Bruxelles, in Mayence, Verhoogen 1949, 9, tav. 15. 34 Vd. ad es. una anomala stele architettonica al Museo Civico di Treviso ma proveniente da Este, dove la defunta appare due volte, secondo alcuni a due diverse età: Pflug 1989, 248-249 nr. cat. 232, tav. 34; Compostella 1996, 287, figg. 129 a,b. Su origini e diffusione del tipo della cd. Pudicitia vd. Dillon 2010, 87-92; per l’utilizzo in ambito funerario Kleiner 1977, 162- 164; da ultimo Davies 2013, 171-172.

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Se dalla Renania ci spostiamo nell’Africa proconsolare, il tema della toletta compare con una formulazione molto simile. Una coppia di rilievi in stucco di età adrianea dalla necropoli di La Marsa presso Cartagine (fig. 10) descrive in due atti un giorno nella vita della defunta35: a sinistra, seduta nella consueta sedia con schienale, è oggetto della cura di un’ancella vestita come una peplophoros che le acconcia i capelli in una pettinatura molto elaborata; a destra, finita la toletta, riprende la lettura. Seduzione ed educazione sono ambiti di valori in cui, più che altrove, funziona il ricorso a forme classicistiche.

Fig. 10 - Rilievi in stucco dalla necropoli di La Marsa, Cartagine, Museo (da Fittschen 1993, tav. 25) Analoghe strategie autorappresentative le troviamo anche nel centro del potere. L’al- tare della liberta di origine greca Maena Mellusa (fig. 11), di età claudia, la presenta seduta, in compagnia come ci informa l’iscrizione dei due figli,Dexter di 11 mesi e Sa- cerdus di 3 mesi36. Nel repertorio dei rilievi funerari romani le scene familiari con madre (o padre, o entrambi i genitori) insieme ai figli prevedono di solito pochissimi schemi ricorrenti: quello con i busti frontali rappresentati in modo paratattico, come fossero personaggi affacciati ad una finestra, oppure lo schema con genitori e figli stanti, in vi- sione frontale, e a figura intera37. Maena Mellusa opta per una soluzione più ricercata. Madre e figli sono rappresentati di profilo: la posa della madre, leggermente reclinata all’indietro, la veste aderente al corpo, la sedia su cui è seduta, il gesto con cui sembra accomiatarsi dal figlio più grande ricordano da vicino le tante stele attiche di età classica

35 Fittschen 1993, 203 n. 6, e tav. 25; Bartman 2001, 6, fig. 2; Cesa 2011, 103, fig. V.31; Santucci 2011, 103, fig. V.31. 36 Roma, Musei Vaticani: Altmann 1905, 220 nr. 286; Simon 1963; Boschung 1987, 114 nr. 964; R awson 2003, 42-43, fig. I.8; Mander 2013, 111-112, 164 nr. 25, fig. 97. 37 In generale Mander 2012; vd. anche Backe-Dahmen 2006, 85-96, 146-164.

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con scene di commiato tra madre e figlio o figlia38. Il figlio grande, che è l’oggetto prin- cipale delle attenzioni della madre, e che dimostra sicuramente ben più degli 11 mesi attestati dall’epigrafe, si presenta vestito solamente di una corta clamide, quasi un eroe in miniatura39.

Fig. 11 - Altare di Maena Mellusa, Roma, Musei Vaticani (da R awson 2003, fig. I.8)

La posa rimanda a sua volta a modelli di origine ellenistica: appoggiato alle ginoc- chia della madre, con il gomito puntato sul mento e le gambe incrociate, ripropone uno schema ritmico comunissimo nell’iconografia romana di ambito funerario40. La scena è volutamente staccata dalla quotidianità, come dimostra la grande base modanata su cui insistono madre e figli, che dà l’impressione di avere a che fare con un gruppo sta-

38 Vd. ad es. Clairmont 1993-95, I, 408 nr. 1670 (San Pietroburgo, Hermitage). Molto più rare sono le immagini della defunta che tiene in braccio il figlio infante: tra le eccezioni la stele di Ampharete, ad Atene, Museo del Ceramico, del 420-400 a.C. (Clairmont 1993-95, I, 404-405 nr. 1660; Strömberg 2003, 33, 164, tav. VIII). 39 Nella scultura funeraria romana immagini di fanciulli defunti rappresentati in nudità eroi- ca con un corto mantello non sono frequenti: un bellissimo esempio è la anomala lastra di coper- tura di loculo di età antoniniana al Museo Archeologico di Venezia, dove la coppia di bambini defunti è assimilata a Kleobis e Biton: vd. Sperti 1988, 142-151 nr. 43. 40 Sull’iconografia dell’erote funerario e le sue origini vd. Blanc - Gury 1986, 974-977; Spiliopoulou-Donderer 2002, 39-43; Dexheimer 1998, 20.

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tuario. Negli altari funerari figurati, urbani e non, le immagini dei defunti e degli altri personaggi poggiano spesso su una sorta di listello aggettante, che serve a dare un punto d’appoggio visivo alle figure, siano esse reali o ideali41. Ma in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa di diverso: una base di statua, del genere rappresentato anche nel rilievo ufficiale, di cui uno degli esempi più noti è il rilievo dei cosiddettianaglypha Trajani, o anaglypha Hadriani, con un’adlocutio dell’imperatore ambientata nel Foro romano di fronte al popolo e nei pressi di un gruppo statuario, testimoniato anche nella numismatica traianea, che rappresentava la personificazione dell’Italia grata davanti al princeps42. L’altare dei Musei Vaticani non è certamente inteso come riproduzione di un gruppo statuario, ma la base contribuisce, al pari della forma ispirata a modelli classici, a collocare la scena nella dimensione atemporale della sfera monumentale. A tal propo- sito, non è da escludere un riferimento al pannello dell’Ara Pacis raffiguranteTellus ‘ ’ (o Venus genetrix, o Pax augusta)43, di alcuni decenni antecedente. Da esso l’altare riprende non solo lo schema generale, ma anche qualche dettaglio come il velo che copre la testa della defunta, o la posizione e la posa del figlio minore, con la mano protesa ad attirare l’attenzione della madre. Il messaggio mi pare chiaro: come il rilievo augusteo celebra l’abbondanza che porta la nuova era, così qualche decennio dopo il dedicante Caius Oenucius Delos ricorda, tra le virtù che la consorte ebbe in vita, la fecunditas. Quale significato bisogna dare al classicismo di questi monumenti funerari? La scelta di una iconografia inattuale, che rimanda al contempo ad un livello autorappresentativo ‘alto’, dipende da fattori molto eterogenei, e non facilmente individuabili. Un indizio im- mediato, quando presente, proviene dal dato epigrafico. Committenti di origine greca possono richiedere sepolcri che richiamino tipi e forme dell’arte classica: come abbiamo visto, Egnatia Chila sceglie di apparire nei panni (veramente trasparenti) della Grande Ercolanese; Maena Mellusa di una ateniese di V secolo. Non si tratta certo di casi isolati: per rimanere nell’ambito della Cisalpina, i liberti greci Pettia Ge e suo marito Pylades, di mestiere marmorarius, si presentano in una stele monumentale a Reggio Emilia con figura intera e in posizione di tre quarti, il che ricorda più ladexiosis delle coppie greche che la dextrarum iunctio dei romani44. Certo non sempre dietro un monumento funerario ellenizzante c’è un committente

41 Per gli altari urbani vd. Boschung 1987, nrr. 974, 975, 976, 977 etc. Nella produzione aquileiese della prima età imperiale va di moda una sorta di podio svasato: cf. Scrinari 1972, nrr. 365-367, 370, 372. 42 Rüdiger 1973, 167, tav. 68 b. 43 Della immensa bibl. sull’Ara Pacis, e in particolare sul rilievo della Tellus, mi limito a citare Ghisellini 1994, 885 nr. 70; Castriota 1995, 55, 70-71 e passim; bibl. aggiornata sul monu- mento in Parisi Presicce 2013. 44 Zimmer 1982, 167-168 nr. 91; Pflug 1989, 80, 177 nr. 56, tav. 13.1; Verzár Bass 2013, 172-173, fig. 17.

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greco, come mostrano ad esempio gli altari di Regia Ommonta (che peraltro ha un nome venetico) e di Maia Severa. In questi casi avrà giocato un ruolo importante il milieu artistico aquileiese e i rapporti con il Mediterraneo orientale di cui si è già accennato45. Rapporti che non significano solamente recupero retrospettivo di modelli di V secolo, ma attiva interazione con la cultura artistica greca coeva. Per rimanere nell’ambito della scultura funeraria, non bisogna dimenticare che dopo il lungo iato dell’età ellenistica dovuto alle leggi suntuarie di Demetrio Falereo, ad Atene ed altrove la produzione di età romana si sviluppò fondamentalmente secondo i canoni formali del V e IV secolo46: i modelli adottati da Maia Severa e Regia Ommonta potevano risalire all’età di Pericle, ma probabilmente erano disponibili anche nella scultura funeraria attica contemporanea.

Fig. 12 - Rilievo con scena di bottega, Roma, Museo Torlonia (da Kampen 1981, fig. 84)

Tra le motivazioni che entrano in gioco vi è naturalmente la moda, che è scelta este- tica e al contempo politica, in quanto accettazione di valori condivisi. Le donne della casa imperiale che si presentano sub specie dearum (vedi in questo volume il contributo di Stefano Maggi), e che appaiono in forme classiche47, offrono un modello adattabile a contesti diversi, in qualche caso con risultati che saremmo tentati di definire, abusando

45 Vd. supra, 10-11 e nr. 23. 46 von Moock 1998, 55-83; Bergemann 2003, 560-561. 47 Sulle imperatrici assimilate a divinità fondamentale Mikocki 1995; Wood 1999, 15-16, 46-49 e passim.

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di categorie moderne, kitsch. Un rilievo adrianeo a Roma con scena di macelleria (fig. 12) mostra titolare e cliente che trattano l’acquisto di un’oca vestite in peplo come dee greche48. Qualunque sia la funzione, il senso del messaggio non è molto lontano da quel- lo dei monumenti che abbiamo visto. L’uso di una forma classica può significare ade- sione al linguaggio visivo del potere; opzione dettata da appartenenza etnica; risposta a sollecitazioni locali; dichiarazione di gusto personale (anche se questo rimane per defi- nizione un campo impermeabile a ogni indagine). La sua versatilità è la dimostrazione della straordinaria unitarietà delle manifestazioni artistiche romane, e della loro capacità di rispecchiare istanze e desideri di tutto il corpo sociale.

48 Kampen 1981, 99-100, fig. 84 (autenticità dubbia); Zimmer 1982, 99 nr. 7; Zanker 1989, 106, tav. 34. Per i capitelli figurati con cornucopie vd. von Mercklin 1962, 274 nr. 648, fig. 1263.

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MatronaeOK.indb 214 21/06/16 08:55 MONUMENTI FUNERARI CON ‘MATRONE’ FILELLENE

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MatronaeOK.indb 216 21/06/16 08:55 ANTHONY ALVAREZ MELERO

Les parentes féminines de chevaliers romains à l’époque tardo-républicaine (fin IIe s.-27 av. J.-Chr.)

La thématique que j’ai choisie de présenter dans le cadre des actes de ce colloque concerne la parenté féminine de l’ordre équestre à l’époque tardo-républicaine, autre- ment dit, entre la fin du IIe s. et l’an 27 avant notre ère. Si le titre de cette communica- tion paraît aisé à comprendre, chacune des sections qui le composent mérite à soi seule une définition brève et claire, sous peine d’imprécisions, non seulement conceptuelles, heuristiques, mais aussi herméneutiques, qui peuvent entraver lourdement la portée de l’argumentaire. Quoi qu’il en soit, même si cette recherche n’en est qu’à un stade initial, ‒ il s’agit donc d’un work in progress ‒, et qu’elle offre des potentialités prometteuses, il reste possible de dévoiler quelques aspects non dénués d’intérêt qui serviront d’intro- duction sur le sujet.

Je commencerai donc par l’évocation de l’ordre équestre. En effet, bien que remontant à la noblesse équestre des premiers temps de Rome, cet ordo, groupement à fondement ju- ridique d’individus qui satisfont aux mêmes critères légaux, se constitue progressivement en tant que tel à partir des réformes des Gracques. Toutefois, en dépit d’une personnalité propre qui se manifeste de manière ostentatoire par le port de l’anneau d’or et le cheval public, l’ordo equester n’en restait pas moins intimement lié, si je puis dire, à l’ordre séna- torial. On ne compte plus les exemples, au sein d’une même famille, de frères, sénateurs et chevaliers, à la même génération, d’autant plus que les portes du Sénat étaient ouvertes à tous ceux qui en avaient les capacités et qui rendaient le cheval public une fois élus à la questure, magistrature dont l’exercice marquait le passage à l’Assemblée. La séparation entre les deux ordres n’était pas encore aussi nette qu’elle le sera sous l’Empire1.

1 Sur l’ordre équestre à l’époque républicaine, l’ouvrage de base est celui de Nicolet I-II, 1974, que l’on peut compléter, pour les dernières décennies de la période, par Demougin 1988 et 1992. On peut aussi se référer au livre d’Alföldy 2011, 60-117, pour la description de la situation à la même époque. Ce travail a été mené dans le cadre des Projets de I+D, “Funciones y vínculos de las elites municipales de la Bética. marco jurídico, estudio documental y recuperación contextual del pa- trimonio epigráfico. I” (ORDO V) (Référence : HAR2014-55857-P) et “Marginación políti- ca, jurídica y religiosa de la mujer durante el alto Imperio romano (siglos I-III)” (Référence : HAR2014-52725-P) du “Programa Estatal de Fomento de la Investigación Científica y Técnica de Excelencia del Ministerio de Economía y Competitividad”, cofinancé par le Fonds Européen de Développement Régional (FEDER).

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De fait, au terme des guerres civiles, l’uterque ordo subit de grandes transformations. Le rôle d’Auguste, dont on a célébré en 2014 avec grand faste le bimillénaire de son décès, n’y est pas étranger et doit être ici souligné. En effet, bien que sénateurs et che- valiers aient continué à former la même couche sociologique, pour ainsi dire, le Prince introduit des changements dans la composition du Sénat, en expulsant les éléments ju- gés indésirables et en établissant un cens plus élevé que celui en vigueur jusqu’alors, en passant de 400.000 HS à 1.000.000 HS, entre l’an 18 et 132. Peu à peu, l’instauration du principe d’hérédité et la mise en place de cursus distincts pour chevaliers et sénateurs, processus qui culminera avec le règne de Caligula, entérinent la séparation de iure exis- tant entre les deux ordres3. En ce qui concerne plus particulièrement les chevaliers, à l’obligation de posséder un cens de 400.000 HS, héritage de l’époque antérieure, s’ajoutent peu à peu d’autres cri- tères redéfinis plus strictement, tels que l’obligation d’ingénuité des ascendants directs sur deux générations et l’honorabilité morale. En dépit de ces prérequis, qui permettent à ceux qui y répondent d’accéder à l’ordo equester, l’entrée était strictement réservée aux hommes. A la différence, donc, des femmes clarissimes membresde iure de l’ordo senato- rius, depuis le règne d’Auguste, selon une interprétation discutée4, leurs parentes unies à des titulaires du cheval public se trouvent exclues de l’appartenance à l’ordre équestre, même si depuis l’an 19 de notre ère au moins, nous savons qu’il existait une définition de la parenté féminine des chevaliers, remontant sans doute au règne du premier empereur, qui fit l’objet de ma thèse doctorale en cours de publication. Quoi qu’il en soit, cette situation n’est pas neuve, puisqu’il en était de même sous la République. Par conséquent, il peut paraître paradoxal de s’intéresser à un groupe de femmes qui, juridiquement, restaient exclues de l’appartenance à un ordo supérieur. Toutefois, je pense qu’il n’est pas inutile d’examiner cette période de transition, correspondant aux dernières décennies de la République, afin de mettre en lumière les différences pouvant se faire jour non seulement en regard des prescriptions légales, mais aussi en fonction de leur présence dans les sources. En effet, peut-on déceler des comportements et des attitudes distinctes au cours de cette période pour le moins troublée, surtout lorsqu’on se rappelle la politique d’Auguste relative à la moralité des membres des élites sénatoriale et équestre, à laquelle les femmes furent par la suite bien évidemment soumises ? Dans le cadre de mon exposé, je m’intéresserai donc aux femmes apparentées aux chevaliers romains, clairement identifiés comme tels, ayant vécu entre l’époque des Gracques et l’instauration du Principat, qui restèrent dans l’ordre équestre tout au

2 Nicolet 1976, 20-38 = Nicolet 1984, 143-174 et Chastagnol 1992, 31-34. 3 Sur toutes ces questions, lire plus particulièrement Demougin 1984, 73-104 et Eck 1991, 76-85 = Eck 1995, 106-117. 4 Cf. la présentation de Raepsaet-Charlier 1987, 1-12.

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long de leur vie, afin de mieux faire ressortir leurs caractéristiques propres, sans ‘ inter- férences ’, si je puis m’exprimer ainsi, avec les membres de l’ordre sénatorial. J’ai été très strict dans la sélection de ces dames – ce que l’on pourra légitimement me reprocher, surtout à l’aune de la prosopographie de C. Nicolet, fondamentale pour mon travail qui lui doit beaucoup ‒, mais je crois que la cohérence du groupe est à ce prix5. Au terme de mon travail de dépouillement, j’ai pu recenser 47 matrones apparentées à des chevaliers, entre la fin du IIe s. avant notre ère et l’année d’instauration du Princi- pat. L’immense majorité des témoignages se réfèrent à des sources littéraires, principale- ment tirées des écrits de Cicéron, sur lesquels, pour davantage de clarté, je vais d’abord me centrer. Si on ne peut nier non plus la présence, certes minime, d’épigraphie, j’y reviendrai dans un second temps, pour réfléchir sur les différences entre ces textes et la valeur des renseignements qu’ils peuvent nous dévoiler. Ce qui frappe à première vue, c’est la présence d’un petit nombre de matrones ano- nymes : 10 sur 47, auxquelles il faut joindre 18 autres dont le nom peut être cependant aisément reconstitué. Ce fait est symptomatique de l’importance accordée aux femmes dans la documentation, qui sont, dans ce cas-là, mentionnées de manière indirecte. Au silence des sources littéraires à ce propos, il faut joindre la grande difficulté que l’on éprouve pour dater les témoignages dont nous disposons. En effet, en dépit de l’abon- dance des textes, il n’est pratiquement jamais possible de déterminer, si ce n’est de ma- nière relative, la chronologie des dames que j’ai recensées, comme on s’en apercevra dans le tableau figurant au terme de cet article. Que sait-on au juste de toutes celles-ci ? D’emblée, des noms émergent dans l’en- tourage de grands hommes de la fin de la République. Citons, par exemple, Helvia6 (12), mère de Cicéron7 et de Quintus8, son frère, dont le cas est emblématique. Bien qu’elle soit citée nommément par deux auteurs, Suétone9 et, avant lui, par Plutarque10, qui souligne au passage sa haute naissance, le seul texte qui nous permet de cerner un peu sa personnalité est une lettre de Q. Cicéron à Tiron, à la datation imprécise. Il y raconteune anecdote selon laquelle elle aurait été une maîtresse de maison veillant à la bonne conservation du vin, ce qui, par la même occasion nous confirme qu’elle était dé-

5 C’est la raison pour laquelle je ne prendrai pas en compte le cas de Cerellia, tel qu’évoqué dans ce volume par N. Lapini, en dépit de son hypothèse, fort séduisante, d’une extraction équestre pour cette correspondante de Cicéron. L’incertitude prévalant dans la documentation m’oblige à l’exclure de mes listes. 6 Sur Helvia, voir Münzer, in RE VIII, 1, 1912, s. v. Helvia nr. 19, 229-230. Les numéros figurant entre parenthèses dans le corps du texte renvoient au tableau rangé à la fin de l’article. 7 Cf. Nicolet II, 1974, 1052-1053 nr. 362. 8 Cf. Nicolet II, 1974, 1053 nr. 363. 9 Suet. Orat. 80, 5-6 Reifferscheid. 10 Plu. Cic. I 1.

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cédée au moment de la rédaction de la missive11. Mis à part cette donnée chronologique assurée, il n’est pas permis d’être plus précis. Grâce à d’autres écrits de Cicéron, il est pos- sible, par recoupements, d’affirmer que la sœur de sa mère, (Helvia)12 (13), s’était unie avec un chevalier, C. Visellius Aculeo13. Toutes deux, peut-être originaires de Fregellae et issues de familles productrices de laine14, avaient conclu le même type d’alliances, que l’on pourrait qualifier d’endogames, car elles furent épouses de chevaliers, et leurs des- cendants directs entrèrent au Sénat. J’y reviendrai. Pour poursuivre avec la famille de Cicéron, on peut évoquer une autre branche, liée, celle-là, à (Gratidia)15 (10), grand-mère paternelle de l’Orateur, épouse de M. Tullius Cicero16 et belle-mère d’Helvia (12), dont nous savons qu’elle était la sœur de M. Gra- tidius, praefectus de son état17, marié à son tour avec (Maria)18 (21), sœur de C. Marius19. Si la descendance de cette union parviendra au Sénat, avec l’appui, sans aucun doute, du célèbre général, l’autre sœur de C. Marius, (Maria)20 (20), fut la mère du tribun militaire C. Lusius21, destiné à de hautes fonctions, si sa méconduite ne lui avait pas valu de périr assassiné sous les coups du subordonné qu’il tenta de violenter, en l’an 10422. Toujours dans la parenté, un peu plus éloignée, cette fois, de Cicéron, il convient de mentionner son frère, Q. Cicéron, uni dans un mariage mal assorti avec (Pomponia)23 (30), sœur de T. Pomponius Atticus24, chevalier romain qui préféra l’otium aux aléas de la vie politique romaine et dont la famille possédait, aux dires de Cornélius Népos, le rang équestre depuis plusieurs générations25. Cela explique l’union du père d’Atticus26 avec (Caecilia) (2), sœur d’un autre eques Romanus, Q. Caecilius27, qui l’adoptera sur son lit de mort, en 58, et lui lèguera 10 millions de sesterces28. On ne saurait être plus

11 Cic. Fam. XVI 26, 2. 12 Sur (Helvia), voir Münzer, in RE VIII, 1, 1912, s. v. Helvia nr. 18, 229. 13 Cic. De orat. I 43, 191 et II 1, 2. Sur Aculeo : Nicolet II, 1974, 1078-1079 nr. 395. 14 Cf. Coarelli 1996, 203-204. 15 Sur (Gratidia), voir Münzer, in RE VII, 2, 1912, s. v. Gratidius nr. 5, 1840. 16 Cf. Nicolet II, 1974, 1055-1056 nr. 366. 17 Cic. Leg. agr. III 36. Cf. Nicolet II, 1974, 907 nr. 173. 18 Sur (Maria) : Münzer, in RE XIV, 2, 1930, s. v. Marius nr. 73, 1848. 19 Schol. Bern. Lucan. II, 173 Usener. Pour Marius : Nicolet II, 1974, 943-945 nr. 223. 20 Sur (Maria) : Münzer, in RE XIV, 2, 1930, s. v. Marius nr. 74, 1848. 21 Cf. Nicolet II, 1974, 931 nr. 207. 22 Schol. Bob. Pro Milone 66 Hildebrandt ; Plu. Mar. 14, 3 et Apophth. Mari 3 ; Val. Max. VI 1, 12. 23 Nep. Att. V 3. 24 Cf. Nicolet II, 1974, 990 nr. 283. 25 Nep. Att. I 1. 26 Cf. Nicolet II, 1974, 989 nr. 282. 27 Cf. Nicolet II, 1974, 809-810 nr. 60. 28 Nep. Att. V 1-2. Voir aussi Val. Max. VII 8, 5.

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affirmatif dans le cas de la tante paternelle d’Atticus, (Pomponia) (29), mariée à un cer- tain Anicius29, et dont la fille, Anicia30, avait épousé Ser. Sulpicius Rufus, frère du tri- bun de 8831. La même incertitude prévaut dans le chef de Pilia32 (27), épouse d’Atticus, éventuellement apparentée à Q. Pilius Celer33, au rang juridique indéterminé34. Quant à affirmer que son possible frère ou père, M. Pilius, provenait d’une famille obscure et désargentée, au motif qu’il avait aliéné une parcelle de terrain de 1.000 jugères pour 115.000 sesterces, c’est un pas qu’on ne peut à mon sens franchir. Quoi qu’il en soit, leur fille, Caecilia Attica35 (3), née vers 51, s’unit à M. Vipsanius Agrippa36 vers 37. On ne sait si leur mariage finit en divorce ou suite au décès d’Attica, mais ce qui est certain, c’est qu’en 28, Agrippa épousa Claudia Marcella37. Comme on peut s’en rendre compte à la vue de cette description des liens familiaux de l’entourage de Cicéron, nous connaissons très peu de femmes par leurs noms, en dépit de posséder des témoignages de qualité, si je puis dire. En outre, et le fait est paradoxal, c’est justement cette proximité au célèbre Arpinate qui nous permet de découvrir leur existence. On ne peut en dire autant d’autres matrones, dont on ne peut guère reconsti- tuer les alliances ou la parenté au-delà d’un certain degré. C’est le cas, par exemple, de (Pinaria)38 (28), épouse de P. Clodius Pulcher39, dont le frère, L. Pinarius Natta40, était membre de l’ordre équestre. Leur mère (46), qui demeure pour nous anonyme, s’était pour sa part remariée avec le consulaire L. Licinius Murena41. Au sein de cette famille-là, on sent le poids des luttes ‘ idéologiques ’, dans la mesure où Murena, défendu par Cicéron, a vu comment son beau-fils, sous la ‘ mauvaise ’ influence de Clodius, a participé au vote qui a permis la destruction de la domus de l’Orateur sur le Palatin, objet d’un célèbre discours. Le rôle de la parenté liant les deux hommes dans cette décision n’y est certainement pas étranger.

29 Cf. Nicolet II, 1974, 772 nr. 19. 30 Cf. Klebs, in RE I, 1894, s. v. Anicius nr. 18, 2198. 31 Nep. Att. II 1. 32 Cf. Münzer, in RE XX, 2, 1950, s. v. Pilius nr. 3, 1327-1328. 33 Cf. Nicolet II, 1974, 978 nr. 269. 34 Cic. Fam. VIII 8, 2, daté d’octobre 51. 35 Cf. Hanslik, in RE XXI, 2, 1952, s. v. Pomponius nr. 78, 2350-2351. 36 Cf. Hanslik, in RE IXA, 1, 1961, s. v. Vipsanius nr. 2, 168 et 1226-1275. 37 FOS 242. 38 Cf. Münzer, in RE XX, 2, 1950, s. v. Pinarius nr. 29, 1407. 39 Cf. Fröhlich, in RE IV, 1, 1900, s. v. Clodius nr. 48, 82-88. 40 Cf. Nicolet II, 1974, 979 nr. 270. 41 Cic. Dom. XLV 118 et LII 134. Sur ce dernier, Münzer, in RE XIII, 1, 1926, s. v. Licinius nr. 123, 446-449.

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Jusqu’à présent, les matrones que j’ai présentées vivaient dans l’entourage de Cicé- ron. Fort heureusement, il m’a été possible d’en repérer d’autres : tel est le cas, p. ex., d’(Aelia) (1), fille de L. Aelius Stilo Praeconinus42 et épouse de Ser. Clodius43, tous deux chevaliers et grammairiens44, aux relations que l’on peut supposer conflictuelles, dans la mesure où le beau-fils a plagié sans vergogne les travaux de son beau-père. De mauvaises relations devait peut-être entretenir Catilina45 avec son beau-frère, Q. Caecilius46, époux de sa sœur (Sergia)47 (34), qui eut le tort de ne pas manifester d’opi- nion partisane et que le futur conjuré n’a pas hésité à massacrer pour complaire à Sylla48. Pour sa part, (Nonia) (23), dont on ne sait si elle vivait encore ou non, n’a pu em- pêcher son mari, M. Anneius49, de déshériter leur propre fils, adopté par son frère, le sénateur prétorien M. Nonius Sufenas (en 81)50. Le même cas de figure se présente pour l’épouse anonyme (47), une nouvelle fois, de l’eques Romanus splendidus C. Plotius51 qui, à son décès, voulut la déshériter au profit d’un Sex. Peducaeus, dont on ne sait rien de plus, mais qui eut l’élégance de renoncer à l’héritage et de laisser le legs à la veuve52. C’est de richesse aussi qu’il est question lorsque Suétone évoque la première fiancée de César, Cossutia53 (7), de famille équestre54, selon ses dires – l’appellation est bien impropre en réalité, car l’appartenance à l’ordre équestre ne concernait que les hommes et n’était pas héréditaire de iure ‒, et dont il souligne la grande opulence55. En dépit de sa fortune, le futur Dictateur rompit les fiançailles en 84 pour épouser Cornelia56. Parfois, d’autres motivations, plus politiques, s’ajoutent à l’argent, comme dans le cas de Fannia57 (8), mariée à C. Titinius58, de rang incertain, mais sans doute équestre, et

42 Cf. Nicolet II, 1974, 765-766 nr 11. 43 Cf. Nicolet II, 1974, 838 nr 94. 44 Cic. Brut. 205 et Suet. Gramm. 2. 45 Cf. Gelzer, in RE IIA, 2, 1923, s. v. Sergius nr. 23, 1693-1711. 46 Cf. Nicolet II, 1974, 806-807 nr. 56. 47 Cf. Münzer, in RE IIA, 2, 1923, s. v. Sergius nr. 50, 1721. 48 Q. Cic. Pet. 2, 9. 49 Cf. Nicolet II, 1974, 773-774 nr. 21. 50 Val. Max. VII 7, 4. 51 Cf. Nicolet II, 1974, 985 nr. 276. 52 Cic. Fin. II 18, 58. 53 Cf. Münzer, in RE IV, 2, 1901, s. v. Cossutius nr. 7, 1674. 54 Cf. Nicolet II, 1974, 857 nr. 121. 55 Voir Cébeillac-Gervasoni 1998, 216-217 n. 18, sur l’éventuel rapport avec une famille active en Orient. 56 Suet. Iul. 1, 1. Cf. Münzer, in RE IV, 1, 1900, s. v. Cornelius nr. 413, 1596. 57 Cf. Münzer, in RE VI, 2, 1909, s. v. Fannius nr. 21, 1995. 58 Cf. Nicolet II, 1974, 1038 nr. 343.

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dont le divorce au terme d’un procès retentissant où elle fut pourtant condamnée pour adultère fut concédé par Marius, en l’an 10059. Reconnaissante envers ce dernier, grâce auquel elle avait pu récupérer sa dot, au remboursement de laquelle son ex-mari avait été astreint par jugement, elle l’hébergea quelque temps lorsqu’il vint à Minturnae, en 89, fuyant les troupes de Sylla qui le poursuivaient60. Quoi qu’il en soit, nous savons qu’elle eut un fils qui devint sénateur, Q. Titinius61, tandis que son autre fils, naturel, semble-t-il, Cn. Fannius62, demeura dans l’ordre équestre. Comme on peut le constater, les témoignages présentés jusqu’à maintenant se ré- fèrent à des familles qui comportent à la même génération, voire sur deux, des che- valiers et des sénateurs. D’autres exemples viennent corroborer ce fait : citons ainsi (Rabiria)63 (32), mariée au princeps equestris ordinis C. Curtius64 et dont tant le frère, C. Rabirius65, qui adopta son fils, C. Rabirius Postumus66, que ce dernier, furent des chevaliers devenus membres du Sénat67. Plus tôt, la grand-mère paternelle du grand Pompée68, Lucilia69 (17), fut la fille ou la sœur du sénateur C. Lucilius et la sœur du poète satirique70 qui conserva le rang équestre71. Un exemple similaire nous est offert par (Vettia)72 (36), sœur de P. Vettius Chilo73, homo equestris ordinis, et mariée à C. Verres 74. Pour finir, comment ne pas mentionner Mécène75, ami intime d’Auguste, de- meuré toute sa vie dans l’ordre équestre et marié à Terentia76 (35), avec laquelle il a

59 Val. Max. VIII 2, 3 et Plu. Mar. 38, 3-4. 60 Cic. Verr. 2 I 128 ; Val. Max. I 5, 5 et VIII 2, 3 ; Plu. Mar. 38, 5-6. 61 Cf. Nicolet II, 1974, 1039-1040 nr. 345. 62 Cf. Nicolet II, 1974, 872-874 nr. 140. 63 Cf. Münzer, in RE IA, 1, 1914, s. v. Rabirius nr. 8, 29. 64 Cf. Nicolet II, 1974, 861-862 nr. 127. 65 Cf. Nicolet II, 1974, 999 nr. 296. 66 Cf. Nicolet II, 1974, 1000-1001 nr. 297. 67 Cic. Rab. perd. III 8 ; Rab. post. II 3 et XVII 45. On ne la nomme pas par son nom. 68 Cf. Nicolet II, 1974, 986-987 nr. 277. 69 Cf. Münzer, in RE XIII, 2, 1927, s. v. Lucilius nr. 33, 1647, qui en fait une nièce du poète. 70 Cf. Nicolet II, 1974, 926-929 nr. 204. 71 Vell. II 29, 2 ; [Acro], Hor. Sat. II 1, 75 et Porph., Hor. Sat. II 1, 75. Née, sans doute, à Suessa Aurunca, d’où provenait son frère: Iuv. I 20. 72 Cf. Gundel, in RE VIIIA, 2, 1958, s. v. Vettius nr. 19, 1857. 73 Cf. Nicolet II, 1974, 1072 nr. 386. 74 Cic. Ve r r . 2 III 71-72, 168. Voir aussi Habermehl, in RE VIIIA, 2, 1958, s. v. Verres nr. 1, 1561-1633. 75 Cf. Nicolet II, 1974, 932-933 nr. 209. 76 Sen. Dial. I 3, 11; Suet. Aug. 66, 3, mais cf. [Acro], Hor. Epod. III 21. Sur Terentia, en derni- er lieu: PIR2 T 98 Krieckhaus et Heinrichs.

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entretenu avec le temps des relations conflictuelles77, elle-même sœur de personnages de haut rang78 et éventuelle amante du Prince ?79 Avant de passer aux documents épigraphiques, il convient encore de mentionner les parentes de trois protagonistes du Pro Cluentio de Cicéron, membres de l’ordre équestre : St. Abbius Oppianicus80, qui fut en plus IIIIvir ; A. Cluentius A. f. Habitus81 et N. Cluentius82, son fils putatif83. Je ne rentrerai pas dans les détails, sous peine d’alour- dir considérablement cet article. Je renvoie pour ce faire au travail de P. Moreau84, non sans signaler qu’Oppianicus s’était marié à six reprises, semble-t-il, avec Cluentia85 (4), tante d’Habitus ; Papia86 (26), mère de son premier enfant ; Magia87 (19), dont il eut un deuxième fils ; la veuve de Cn. Magius88 (44) ; Novia89 (24), qui lui donna son dernier fils, puis enfin l’inénarrable Sassia90 (33). Celle-ci, de son côté, s’était unie auparavant à deux autres reprises, à A. Cluentius Habitus91, avec qui elle engendra un fils homonyme, membre de l’ordre équestre, dont il a déjà été question, et Cluentia92 (5), qu’elle fit di- vorcer pour épouser son mari, A. Aurius Melinus93, dont elle eut une fille, Auria.

Si les seuls textes dont j’ai fait état jusqu’à maintenant furent exclusivement litté- raires, je ne peux passer sous silence le fait que nous disposons également de sources épigraphiques, bien moins nombreuses, il est vrai, ce qui est normal à une époque où la

77 Hor. Carm. II 12, 13-28 ; Laud. Maecen. II 9-10 ; Sen. Dial. I 3, 10 ; Sen. Epist. CXIV 4 et 6 ; D.C. LIV 30, 4 ; Iavol. Dig. XXIV 1, 64. 78 D.C. LIV 3, 5. Tout d’abord, il y a Murena, que l’on pourrait identifier avec A. Terentius A. f. Varro Murena, aussi appelé L. Licinius Varro Murena, consul en l’an 23 (cf. PIR2 L 218 Pe- tersen et PIR2 T 96 Heinrichs). Un autre de ses frères fut le chevalier C. Proculeius (PIR2 P 985 Wachtel et Demougin 1992, 161-162 nr. 177), tandis que le dernier se serait dénommé Scipio (PIR2 S 249 Wachtel): cf. [Acro], Hor. Carm. II 2, 5 et Porph., Hor. Carm. II 2, 5. 79 D.C. LIV 19, 3. 80 Cic. Cluent. 39, 109. Cf. Nicolet II, 1974, 755-756 nr. 1. 81 Cic. Cluent. 57, 156. Cf. Nicolet II, 1974, 840-841 nr. 103. 82 Cic. Cluent. 60, 165. Cf. Nicolet II, 1974, 841-842 nr. 104. 83 Moreau 1983, 107-108 et 114. 84 Sur cette famille: Moreau 1983. 85 Cf. Münzer, in RE IV, 1, 1901, s. v. Cluentius nr. 5, 112. 86 Cf. Münzer, in RE XVIII, 2-3, 1949, s. v. Papius nr. 15, 1081. 87 Cf. Münzer, in RE XIV, 1, 1928, s. v. Magius nr. 20, 442. 88 Cf. Münzer, in RE XIV, 1, 1928, s. v. Magius nr. 3, 438. 89 Cf. Münzer, in RE XVII, 1, 1936, s. v. Novius nr. 26, 1222. 90 Cf. Münzer, in RE IIA, 1, 1921, s. v. Sassia, 57. 91 Cf. Münzer, in RE IV, 1, 1901, s. v. Cluentius nr. 3, 112. 92 Cf. Münzer, in RE IV, 1, 1901, s. v. Cluentius nr. 6, 113. 93 Cf. Nicolet II, 1974, 798-800 nr. 49.

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pratique de graver des inscriptions sur support durable n’était pas aussi répandue et en- trée dans les mœurs. Malgré cela, grâce à celles-ci, il nous est permis de prendre connais- sance de Maecia M’. f. (18), fille de l’eques M’. Maecius C. f. Sab. Varus94, à qui elle érige l’épitaphe versifiée àVisentium , sur les bords du lac de Bolsena95. Pour sa part, à Rome, Hirtuleia L. f. (15) fut l’épouse de l’eques L. Septumius L. f. Arn.96, lui-même fils d’unmagister Capitolinus quinquennalis qui reste pour nous ano- nyme, compte tenu d’une brisure de la pierre97. Un peu plus au Sud, à Pompei, la sacerdos publica de Cérès, Lassia M. f. (16), se maria avec A. Clodius M. f. Pal., d’humble origine, semble-t-il, scribe municipal et magister pagi Augusti Felicis suburbani, vers le milieu du Ier s98. De cette union naquit A. Clodius A. f. Men. Flaccus, IIuir iure dicundo ter, quinquennalis, tribunus militum a populo99 qui fut à son tour le père de Clodia A. f., sacerdos publica de Cérès au début du Ier s. de notre ère, et de ce fait hors de notre recensement100. Lassia nous est connue par ailleurs, car elle fut liée à une famille exportatrice de vin, ce qui a dû contribuer à la promotion des siens à l’ordo local, puis à l’ordre équestre101. Un autre exemple issu de l’épigraphie est celui de Mineia M. f. (22), sœur du cheva- lier M. Mineius M. f. M. n. Flaccus102, qui, à Paestum, dans la deuxième moitié du Ier s., a rebâti la basilique du Forum, comme l’attesterait une émission monétaire103. Son mari, C. Cocceius Flaccus (questeur en 44, légat en 42 et décès vers 40)104, et son fils, Iustus105, devaient être décédés avant elle. Elle fit aussi rebâtir un temple àMater Matuta, lors de la reconstruction de la basilique. Elle a également étendu son patronage au collège chargé du culte très prestigieux sur place de Mens Bona106. Enfin, le dernier exemple concerne Octavia M. f. (25), épouse du magistrat et dispen-

94 Cf. Nicolet II, 1974, 934-935 nr. 211. 95 CIL, I2 3339 = ILLRP 692a. 96 Cf. Nicolet II, 1974, 1019-1022 nr. 321. 97 CIL, VI 40911 = CIL, I2 2992 = ILLRP 697. 98 CIL, X 1074b (p. 967, 1006) (= ILS 5053, 2). 99 CIL, X 1074d (p. 967, 1006) (= ILS 5053, 4) = GladPar 1. 100 CIL, X 1074a (p. 967, 1006) (= ILS 5053, 1) et de Caro 1983, 5 OS, inscription 2. 101 Castrén 1975, 41 ; 94-95 et 154-155 ; Cébeillac-Gervasoni 1989, 72 ; Cébeil- lac-Gervasoni 1992, 98 et Cébeillac-Gervasoni 1998, 147. Dans ces deux dernières contributions, elle en fait l’épouse d’A. Clodius Flaccus (cf. cependant 214 n. 4). Sur le sacerdoce, v. Savunen 1997, 137-138. 102 AEp 1975, 248 = ILPaestum 81. Sur Flaccus : Demougin 1992, 313 nr. 375, qui date sa carrière d’avant Claude. Un autre frère est connu : AEp 1975, 249 = ILPaestum 82. 103 Cf. Torelli 1996, 157-158. 104 AEp 1975, 250 = ILPaestum 85. 105 ILPaestum 163. 106 ILPaestum 18.

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dieux évergète de la colonie L. Lucilius P. f. P. n. P. nep. P. pronep. Gamala107, qui remit la somme pour l’organisation des jeux publics, fit paver la voie qui passe au forum, offrit un epulum aux colons et deux fois un prandium, restaura le temple de Vulcain, fit construire le temple de Vénus, de la Fortune et de Cérès, puis de Spes. Avec son collègue à la censure M. Turranius, il fit don des poids du marché, mais finança seul la construction du tribu- nal de marbre sis sur le Forum. Enfin, il offrit 15.200 sesterces pour soutenir la guerre na- vale, ce qui lui valut de recevoir une statue de bronze érigée près du tribunal du questeur, et qui s’ajoute à celle, dorée, qu’on lui avait préalablement offert108. Pour sa part, Octavia M. f. ne fut pas en reste : elle paya l’aménagement du sanctuaire de la Bona Dea d’Ostie, en faisant stuquer le portique, fabriquer des banquettes et bâtir un toit pour la cuisine, entre 80 et 50 avant notre ère109. Tous deux furent les parents ou les aïeux du magistrat et officier homonyme L. Lucilius P. f. P. n. P. nep. P. pronep. P. abnep. Gamala110.

On le constate d’emblée à l’examen de tous les témoignages épigraphiques : nous prenons connaissance de pratiques que les sources littéraires passent sous silence, telles que l’évergétisme, par exemple, avec la construction d’édifices, ou bien l’implication de matrones dans des activités économiques, dans le chef de Lassia (16). Cela étant, les textes aussi nous instruisent sur la fortune de telle ou telle dame. Il suffit de penser aux problèmes d’héritage et de dot auxquels furent confrontées Fannia (8) ou l’épouse ano- nyme de C. Plotius (47). Que dire aussi de Suétone qui nous informe de la richesse de la famille de Cossutia (7), un temps fiancée à César ? Mais les apports de ces derniers ne s’arrêtent pas là. En effet, cette documentation nous fournit, de manière incidente, des informations sur les types de mariages conclus, endogames ou exogames, le cas échéant. Dans le pre- mier cas de figure, nous trouvons (Aelia) (1), par exemple, fille et épouse de chevaliers. On peut citer aussi (Caecilia) (2), sœur et épouse de chevaliers. Il en va de même pour tous les mariages conclus à Larinum, tels que décrits par Cicéron. Toutefois, c’est au niveau de l’exogamie que les témoignages sont plus parlants : tandis que (Nonia) (23), (Rabiria) (32) et (Sergia) (34) furent sœurs de sénateurs, mais épouses de chevaliers, Mi- neia (22) et (Vettia) (36) présentent le cas inverse ; (Gratidia) (11) fut fille de chevalier, manifestement, mais sœur et épouse de sénateurs, un peu comme (Pomponia) (30), si

107 Cébeillac-Gervasoni 2004. 108 CIL, XIV 375 (p. 482, 615) = CIL, I2 3031a (= ILS 6147 (p. 187)) = IPOstie-B, 335. Sur Gamala, en particulier, et ses évergésies : Coarelli 2004 ; Lo Cascio 2004 ; Panciera 2004 ; Zevi 2004. 109 CIL, I2 3025. 110 AEp 1959, 254. Sur ce chevalier : Demougin 1992, 101-102 nr. 97 (qui en fait le pe- tit-fils) ; Coarelli 2004, 95 et Cébeillac-Gervasoni - Caldelli - Zevi 2010, 106 (qui l’identifient au fils du couple).

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son frère Atticus avait accepté d’entrer au Sénat, alors que (Pinaria) (28), belle-fille d’un sénateur, épousait un homme du même rang, Clodius, et fut la sœur d’un chevalier. Enfin, Caecilia Attica (3), fille d’Atticus, chevalier, épousa Agrippa, un sénateur en vue. Octavia M. f., l’épouse généreuse du prodigue Gamala pouvait, elle aussi, avoir été appa- rentée à des sénateurs, selon l’hypothèse de M. Cébeillac-Gervasoni111. Si l’on se place du point de vue des descendants de ces unions, on remarque qu’en règle générale, si le Destin ne s’en mêle pas, ils atteignent un rang plus élevé que celui de leurs parents : M. Nonius Sufenas et C. Rabirius Postumus, par exemple, après leur adoption par leurs oncles maternels, deviennent comme eux sénateurs. Le même sché- ma se produit avec Cicéron et son frère, ainsi que leur cousin C. Visellius Varro112. Seul échappe à ce constat Atticus, qui préféra demeurer dans l’ordre équestre. Parfois la pro- motion mène seulement à l’ordre équestre, à l’instar de P. Lucilius Gamala fils, d’Ovide et de son frère ou d’A. Clodius Flaccus. Dans les textes conservés, il est même question de remariage et de divorce, comme dans le cas de Sassia (33), par exemple, aux trois unions, pour ne rien dire de son dernier époux, St. Abbius Oppianicus, à Larinum, qui se maria à cinq autres reprises avec de femmes de la région. Évoquons aussi cette dame, anonyme (43), qui s’unit d’abord à P. Iunius113, puis à C. Mustius114, assurément chevalier romain115. Il en fut de même pour Fannia (8), mariée d’abord à un C. Titinius, dont elle divorça au terme d’un procès hou- leux, pour se remarier avec un inconnu dont elle eut un fils naturel, Cn. Fannius ; citons aussi la mère anonyme (38) du tribun Q. Fufidius116, qui épousa ensuite M. Caesius117, édile à Arpinum en 46 ; ou encore la mère (46) de L. Pinarius Natta, mariée en secondes noces avec le consulaire L. Murena ou encore la mère (40) du chevalier Gellius (Poplico- la)118, épouse de deux sénateurs119. Ce dernier personnage me permet d’évoquer un cas pour le moins unique dans mon répertoire : aux dires de Cicéron, ce Gellius (Poplicola) se serait marié avec une affranchie120 (41). Le fait est assez atypique que pour être souligné. Sous l’Empire, soit dit en passant, des témoignages sont pour le moins rares et dénotent une pratique mino-

111 Cébeillac-Gervasoni 2004, 80. 112 Cf. Nicolet II, 1974, 1079-1080 nr. 396. 113 Cf. Nicolet II, 1974, 916-917 nr. 185. 114 Cf. Nicolet II, 1974, 958 nr. 241. 115 Cic. Verr. 2 I 51, 135 et cf. aussi 52, 137. 116 Cf. Nicolet II, 1974, 883-884 nr. 153. 117 Cf. Nicolet II, 1974, 821 nr. 74. 118 Cf. Nicolet II, 1974, 898-903 nr. 170. 119 Cic. Sest. LI 110. Son frère et son père furent sénateurs et sa mère se remaria avec L. Mar- cius Philippus, cos. 91 et censeur en 86. Cic. Sest. LII 111. 120 Cic. Sest. LII 110.

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ritaire qui ne semble pas avoir affecté les membres de l’ordre équestre, à la différence des sénateurs, comme le confirment les dispositions prises par Auguste en ce sens121. Pour finir, dans un registre un peu plus dramatique, il convient d’évoquer ici le sort tragique de (Pontia) (31) assassinée par son père, eques Romanus Pontius Aufidianus122, car elle avait été séduite par son paedagogus Fannius Saturninus, tué lui aussi123. Cet exemple nous révèle non seulement des relations coupables, aux yeux du père, mais aussi que les jeunes filles pouvaient recevoir une bonne éducation. Enfin, un dernier mot sur la répartition géographique de ces dames. Alors que dans leur grande majorité elles avaient a priori vu le jour à Rome, il est possible d’affirmer qu’(Aelia) (1) provenait de Lanuuium ; Fannia (8) de Minturnae ; Lucilia (17) de Suessa Aurunca ; (Gratidia) (10-11), (Maria) (20-21) et les sœurs Helvia (12-13), femmes de la famille de Cicéron, d’Arpinum ; Helvia (14), la jeune fille foudroyée en route vers l’Apu- lie en l’an 114 en était peut-être originaire124, tout comme Maecia (18) l’était de Visen- tium ; Mineia (22) de Paestum ; Octavia (25) d’Ostie ; la mère (45) d’Ovide, décédée à un âge respectable, de Sulmo125 et (Vibia) (37) de Larinum126, à l’instar des Cluentiae (4-5), tante et nièce, Magia (19), Novia (24), Sassia (33) et la veuve (44) de Cn. Magius, connues par le célèbre discours de Cicéron. Seule Papia (26), unie à St. Abbius Oppia- nicus à Larinum, venait en fait de Teanum Apulum127. Autrement dit, alors que seule l’Italie nous fournit des attestations, avec une surreprésentation de Larinum, en raison de l’existence d’une source littéraire exceptionnelle qui nous décrit sa société du premier tiers du Ier s., on ne connaît pour l’heure aucune matrone originaire des provinces, à une époque, il est vrai, où le recrutement des chevaliers commençait à peine à s’étendre hors de la péninsule.

En conclusion, l’étude des parentes de chevaliers romains d’époque tardo-républi- caine, bien qu’à ses premiers stades, offre des perspectives intéressantes : mariages, ri- chesse, activités au profit de la communauté, mobilité géographique. Autant d’aspects mis en lumière lors de la confection de ce petit répertoire, surtout si je le compare avec les 750 matrones recensées dans ma thèse. Ce groupe de dames ne dispose pas de défini- tion juridique claire sous la République à la différence de l’Empire. Quoi qu’il en soit, dans un cas comme dans l’autre, la femme n’y trouve jamais sa place. Privée de l’apparte-

121 Cf. Raepsaet-Charlier 1999, 224-226. 122 Cf. Nicolet II, 1974, 992-993 nr. 287. 123 Val. Max. VI 1, 3. 124 Plu. Qu. R. 83 ; Obseq. 37 ; Oros. Hist. V 15, 20-21. Sur cette dernière, voir Münzer, in RE VIII, 1, 1912, s. v. Helvia nr. 17, 229. Sur son père : Nicolet II, 1974, 910 nr. 178. 125 Ov. Trist. IV 10, 3 et 80. Sur son mari, Nicolet II, 1974, 968 nr. 255. 126 Cic. Cluent. 60, 165. 127 Cic. Cluent. 9, 27.

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nance effective à un ordre, elle ne se refuse pourtant pas d’aider les siens pour l’accès aux honneurs et la promotion aux ordres supérieurs. Toutefois, il faut prendre conscience nous restons fortement tributaires de nos sources et de leurs limitations, d’autant plus que l’échantillon est limité. Bien que textes littéraires, plus nombreux, et inscriptions se complètent parfaitement, il demeure des questions sans réponse et ce constat est mal- heureusement valable durant toute l’existence de l’ordre équestre.

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Liste de matrones équestres128 :

Nom Chronolo- Nom du parent Fonction Note gie L. Aelius Stilo Praeco- Eques Romanus Originai- 1)(Aelia) v. 130-100 ? ninus, père re de La- Ser. Clodius, mari Eques Romanus nuuium T. Pomponius, mari Equestrem dignitatem… v. 135/132- T. Pomponius Atticus, A maioribus acceptam eq. 2)(Caecilia) 45/42 fils dignitatem Q. Caecilius, frère Eques Romanus T. Pomponius Atticus, A maioribus acceptam eq. 3)Caecilia père dignitatem v. 51-29 ? Attica M. VIPSANIUS Praetor (40), consul (37 ; AGRIPPA, mari* 28-27) A. Cluentius Habitus, Nobilitate (…) princeps Originai- frère re de La- A. Cluentius A. f. Habi- Eques Romanus 4)Cluentia Début Ier s. rinum tus, neveu St. Abbius Oppianicus, Eques Romanus, IIIIuir mari A. Cluentius Habitus, Nobilitate (…) princeps Originai- père re de La- 5)Cluentia v. 100-80 A. Cluentius A. f. Habi- Eques Romanus rinum tus, frère A. Aurius Melinus, mari Domi nobilis Corfidius, père Equestris ordinis Origi- 6)(Corfidia) v. 100-80 naire de Sabine ? 7)Cossutia v. 84 (Cossutius) Familia equestri C. Titinius, mari Eques Romanus ? Origi- Q. TITINIUS, fils Senator naire de 8)Fannia 100 et 88 Cn. Fannius, fils Eques Romanus Mintur- nae

128 La datation des matrones est approximative et est calquée sur celle de leurs parents déten- teurs de fonctions qui permettent d’établir un ancrage chronologique. En majuscules figurent les sénateurs et en gras italique les chevaliers romains. * Pour davantage de facilité, dans le cas des sénateurs, ne sont mentionnées que les magistratu- res les plus prestigieuses (préture, consulat et censure), à la datation assurée.

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(L. GELLIUS), père Senator (?) L. GELLIUS POPLI- Praetor (94), consul (72), COLA, frère censor (70) 9)(Gellia) v. 100-80 (-) Gellius (Poplicola), Nomen ordinis equestris frère retinet POSTUMIUS, fils Senator (?) M. Gratidius, frère Praefectus Originai- 10)(Grati- M. Tullius Cicero, mari Magistratus v. 120-80 re d’Arpi- dia) M. Tullius Cicero, fils Eques Romanus num L. Tullius Cicero, fils Eques Romanus M. Gratidius, père Praefectus L. SERGIUS CATILI- Praetor (68) 11)(Grati- v. 110-60 NA, mari dia) M. MARIUS GRATI- Praetor (85-84) DIANUS, frère M. Tullius Cicero, mari Eques Romanus Originai- M. TULLIUS CICE- Praetor (66), consul (63) re d’Arpi- 12)Helvia v. 125-?? RO, fils num ou Q. TULLIUS CICE- Praetor (62) Fregellae ? RO, fils C. Visellius Aculeo, mari Eques Romanus Originai- C. VISELLIUS VAR- Senator ? re d’ 13)(Helvia) v. 125-?? Arpi- RO, fils? num ou Fregellae ? L. Heluius, père Eques Romanus Originai- 14)Helvia 114 re d’Apu- lie ? L. Septumius, mari Eques Origi- 15)Hirtuleia Ier s. naire de L. f. Rome A. Clodius M. f. Pal., Scriba, magister pagi Au- Origi- mari gusti Felicis suburbani 16)Lassia naire de v. 80-70?? IIuir iure dicundo ter, M. f. Pompei A. Clodius A. f. Men. quinquennalis, tribunus Flaccus, fils militum a populo C. Lucilius, frère Eques Origi- C. LUCILIUS, frère ou Senator naire de 17)Lucilia v. 150-100 père Suessa CN. POMPEIUS Consul (89) Aurunca STRABO, fils

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MatronaeOK.indb 231 21/06/16 08:55 ANTHONY ALVAREZ MELERO

M’. Maecius C. f. Sab. Eques Originai- 18)Maecia v. 50 Varus, père re de M’. f. Vi- sentium St. Abbius Oppianicus, Eques Romanus, IIIIuir Origi- 19)Magia Début Ier s. mari naire de Larinum C. MARIUS, frère Consul (107 ; 104-100 ; 20)(Maria) v. 150-90 86) C. Lusius, fils Tribunus militum C. MARIUS, frère Consul (107; 104-100;86) M. MARIUS, frère Senator 21)(Maria) v. 150-90 M. Gratidius, mari Praefectus M. MARIUS GRATI- Praetor (85-84) DIANUS, fils M. Mineius M. f. M. n. Tribunus militum Evergète à Flaccus, frère Paestum, L. Mineius M. f. M. n., 22)Mineia sa patrie v. 60-15 frère M. f. C. COCCEIUS FLAC- Senator CUS, mari C. Cocceius Iustus, fils M. Anneius, mari Splendidissimus eques Mari ori- M. NONIUS SUFE- Romanus ginaire de 23)(Nonia) v. 100-80 NAS, frère Praetor (81) Carsioli M. NONIUS SUFE- Senator NAS, fils St. Abbius Oppianicus, Eques Romanus, IIIIuir Originai- 24)Novia Début Ier s. mari re de La- rinum P. Lucilius P. f. P. n. P. Aedilis sacris Volkanis, Originai- nep. P. pronep. Gamala, aedilis, decurio, pontifex, re d’Ostie 25)Octavia mari IIuir, curator v. 80-50 M. f. P. Lucilius P. f. P. n. P. Aedilis, tribunus militum, nep. P. pronep. P. ab- decurio adlectus, IIuir nep. Gamala, fils IIII St. Abbius Oppianicus, Eques Romanus, IIIIuir Origi- mari naire de 26)Papia Début Ier s. Teanum Apulum

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T. Pomponius Atticus, Eques Romanus Terres en 27)Pilia v. 70-45 mari Apulie? Q. Pilius Celer, frère P. CLODIUS PUL- Senator CHER, mari In equestribus centuriis 28)(Pinaria) v. 85-55 L. Pinarius Natta, frère gratiosus L. LICINIUS MURE- Praetor (65), consul (62) NA, beau-père 29)(Pompo- T. Pomponius, frère Equestrem dignitatem… v. 120-80 nia) Anicius, mari T. Pomponius, père Equestrem dignitatem… Q. TULLIUS CICE- Praetor (62) 30)(Pompo- v. 100-35 RO, mari nia) T. Pomponius Atticus, A maioribus acceptam eq. frère dignitatem Pontius Aufidianus, Eques Romanus 31)(Pontia) ?? père C. Curtius, mari Princeps equestris ordinis Origi- C. RABIRIUS, frère Eques Romanus, senator naire de C. RABIRIUS PO- Eques Romanus, senator Campa- 32)(Rabiria) v. 100-90 STUMUS, fils nie (Abel- la et Abel- linum) A. Cluentius Habitus, Nobilitate (…) princeps Origi- mari naire de A. Cluentius A. f. Habi- Eques Romanus Larinum 33)Sassia v. 100-66 tus, fils A. Aurius Melinus, mari Domi nobilis St. Abbius Oppianicus, Eques Romanus, IIIIuir mari Q. Caecilius, mari Eques Romanus 34)(Sergia) v. 90-80 L. SERGIUS CATILI- Praetor (68) NA, frère C. Maecenas, mari Eques Romanus C. Proculeius, frère Eques Romanus 35)Terentia v. 60-5 ? MURENA Senator Scipio ? P. Vettius Chilo, frère Homo equestris ordinis 36)(Vettia) v. 73-71 T. Vettius, frère C. VERRES, mari Praetor (74)

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N. Cluentius, fils Eques Romanus (66) Tous ori- C. Vibius Capax, frère ginaires 37)(Vibia) v. 100-80 de Lari- num ? M. Caesius, mari Aedilis (à Arpinum) (46) Tous ori- Q. Fufidius, fils Tribunus militum (51) ginaires 38)(Ignota) v. 90 d’Arpi- num ? 39)(Ignota) v. 120-100 Corfidius, mari Equestris ordinis (L. GELLIUS), mari Senator (?) L. GELLIUS POPLI- Praetor (94), consul (72), COLA, fils censor (70) (-) Gellius (Poplicola), Nomen ordinis equestris 40)(Ignota) v. 110-90 fils retinet L. MARCIUS PHILIP- Consul (91), censor (86) PUS, mari L. MARCIUS PHILIP- Consul (56) PUS, fils (-) Gellius (Poplicola), Nomen ordinis equestris 41)(Ignota) v. 100-80 Libertina mari retinet L. Heluius, mari Eques Romanus Originai- 42)(Ignota) 114 aCn re d’Apu- lie ? P. Iunius, mari Redemptor 43)(Ignota) Vers 75 P. Iunius, fils C. Mustius, mari Eques Romanus Cn. Magius, mari Originai- 44)(Ignota) Début Ier s. St. Abbius Oppianicus, Eques Romanus, IIIIuir re de La- mari rinum C. Ouidius Naso, mari Eques Romanus Origi- v. 80-1 45)(Ignota) Ouidius, fils Eques Romanus naire de aCn ? C. Ouidius Naso, fils Eques Romanus Sulmo L. Pinarius Natta, fils In equestribus centuriis 46)(Ignota) v. 100-60 L. LICINIUS MURE- gratiosus NA, mari Praetor (65), consul (62) C. Plotius, mari Eques Romanus splen- 47)(Ignota) v. 80-70 Héritage didus

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BIBLIOGRAPHIE

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MatronaeOK.indb 238 21/06/16 08:55 ALESSANDRA VALENTINI

Ottavia la prima ‘First Lady of Imperial Rome’

Il titolo di questo contributo trae spunto dalla definizione utilizzata da A. Barrett nella sua monografia pubblicata nel 2002 e dedicata a ricostruire il profilo biografico di Livia, moglie di Augusto1. Lo studioso esplicita nella prefazione la motivazione che lo ha indotto ad utilizzare l’espressione ‘First Lady of Imperial Rome’ per descrivere il ruolo assunto da Livia nella nuova realtà politica del principato:

Livia potrebbe così essere definita la First Lady di Roma in senso ampio, dato che nessuna donna romana prima e dopo di lei riuscì ad ottenere rispetto e devozione più profondi e durevoli. Attraversò indenne un drammatico mutamento nel siste- ma costituzionale romano senza crearsi nemici chiaramente identificabili tranne, naturalmente, quelli supposti da Tacito. Forse sorprende ancora di più che Livia arrivasse a tanto sebbene la sua posizione e il suo status non fossero esattamente definiti. Livia è il legame tra i due tipi di istituzioni che hanno formato il modello basilare di governo dell’impero romano per i successivi quattro secoli. In quanto moglie di Augusto, da lei ci si attendeva che incarnasse la dignità e la maestà del principato di nuova creazione, ma nel contempo che rimanesse un decoroso e discreto simbolo di domestiche virtù. Sotto questo aspetto il suo ruolo fu molto vicino a quello di una First Lady come lo si intende in America: una donna che ri- veste un incarico pubblico ma che non occupa alcuna posizione ufficiale, soggetta pertanto a dure critiche se ha la presunzione di intromettersi nel campo politico; una donna il cui dominio è la propria casa, ma da cui ci si attende per tradizione che rappresenti i valori e i costumi domestici dell’intera cittadinanza2.

Tale definizione (ma Barrett non lo esplicita) sembra riprendere l’espressionefemina princeps, in più occasioni utilizzata da Ovidio in riferimento a Livia, e la variante Roma- na princeps che compare nella Consolatio ad Liviam3. Tali epiteti mettono in luce da una parte l’eccezionalità del ruolo assunto dalla moglie di Augusto e dall’altra suggeriscono la primogenitura di questo ruolo in una prospettiva cronologica.

1 Cf. Barrett 2002. L’espressione, applicata in senso più ampio alle donne appartenenti alla dinastie succedutesi al potere tra I e IV secolo d.C., viene utilizzata anche nel titolo della monografia di A. Freisenbruch, The First Ladies of Rome. The Women behind the Caesars, London 2010. 2 La citazione è tratta dall’edizione italiana della monografia di A. A. Barrett,Livia. The First Lady of Imperial Rome, New Heaven 2002. Cf. Barrett 2006, 13-14. 3 Per femina princeps vd. Ov. trist. I 6, 25; Pont. III 1, 125; per romana princeps vd. Cons. ad Liviam 353; 365.

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MatronaeOK.indb 239 21/06/16 08:55 ALESSANDRA VALENTINI

La posizione di Livia durante il periodo di governo di Augusto fu conseguenza della necessità del principe di fondare una dinastia; ciò indusse da una parte il princeps ad un progressivo riconoscimento del ruolo pubblico della moglie attraverso soluzioni di- verse nel tempo, dall’altra Livia stessa ad adattare il proprio comportamento alle scelte politiche del marito, assumendo progressivamente il ruolo di modello femminile nella res publica4. Le scelte compiute da Augusto per assicurare progressivamente alla moglie una posizione preminente all’interno della nuova realtà politica svelano la volontà del princeps di rafforzare il ruolo pubblico delle donne della suagens , con l’obiettivo di cre- are una domus principis e consolidare il principio dinastico5. In virtù della sua posizione di madre dell’erede di Augusto e della sua longevità a beneficiare di tale processo fu principalmente Livia; tuttavia la sperimentazione precocemente impostata da Augu- sto coinvolse anche, quale figura di primo piano, Ottavia Minore, sua sorella: Ottavia per un lungo periodo assunse, infatti, una posizione che possiamo ritenere preminente anche rispetto a Livia. In virtù del ruolo assunto prima nelle dinamiche di scontro poli- tico della tarda repubblica quale elemento di congiunzione tra due triumviri, in seguito nell’elaborazione delle linee di successione e nello scontro per il predominio a corte, Ottavia dimostra come le sperimentazioni in ottica di partecipazione politica femmi- nile della tarda repubblica costituiscano il punto di partenza su cui il princeps elaborò una nuova definizione del ruolo femminile nella mutata realtà politica dell’impero. In linea con la volontà di Ottaviano-Augusto di attuare il ripristino della tradizione romana, la biografia di Ottavia presenta un prima e un dopo6: prima un ruolo attivo in

4 Su Livia Cf. Fraschetti 1994, 123-152; Gafforini 1996, 121-144; Barrett 2002; Ce- nerini 2009, 9-24; Freisenbruch 2010, 47-85; Di Bella 2012, 333-352; Dennison 2013. 5 Cf. Bauman 1992, 91-98; Cenerini 2009, 87-99; Valentini 2011, 222-225. 6 Si ricordano in estrema sintesi le tappe principali della biografia di Ottavia: si tratta della sorella maggiore di Ottaviano, nata, forse, intorno al 69 a.C. dal secondo matrimonio di C. Otta- vio con Azia (dal precedente matrimonio con Ancaria era nata, infatti, un’altra bambina, Ottavia Maggiore). Intorno al 54 a.C. era andata in sposa al pompeiano C. Claudio Marcello: da questo matrimonio, durato fino al 40 a.C. nacquero tre figli, due femmine, Marcella Maggiore e Mar- cella Minore, e nel 42 a.C. un bambino, M. Claudio Marcello. Nel 40 a.C. alla morte del marito, a suggello degli accordi di Brindisi fu fatta sposare all’opportunamente vedovo Antonio. Nel 37 a.C., trascorsi i due anni precedenti in Oriente col marito, mediò efficacemente tra fratello e marito a Taranto. Antonio ripartì per l’Oriente lasciando la moglie presso il fratello in quanto in attesa della loro seconda figlia, Antonia Minore, che nascerà il 31 gennaio del 36 a.C. Nel 39 a.C. era nata una prima figlia anche lei di nome Antonia. Nel 35 a.C. tentò di riconciliarsi col marito: si mise in viaggio col denaro e le truppe che il fratello le aveva concesso per la campagna del marito contro Artavasde II di Armenia, ma Antonio le mandò incontro dei messi che le chiesero di tornare indietro; Ottavia consegnò loro le truppe e il denaro per Antonio e ritornò in Italia. Quando Ottavia tornò a Roma, il fratello le intimò di lasciare la casa del marito ma Ottavia rifiutò. Il divorzio si verificò infine per volontà di Antonio nel 32 a.C., atto ufficiale di rottura col

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MatronaeOK.indb 240 21/06/16 08:55 OTTAVIA LA PRIMA ‘FIRST LADY OF IMPERIAL ROME’

contesti privati che sconfinano nel pubblico, in bilico tra incarnazione del modello ma- tronale secondo la tradizione e la messa in atto di azioni dalla forte valenza di novitas; in seguito, dopo l’instaurazione del principato, l’impegno nella promozione e difesa degli interessi del ramo giulio della gens nella questione della successione e l’assunzione di una condotta che la elevava a modello di comportamento per il gruppo matronale7. Allo stesso modo la vita della matrona sembra essere scandita dalla cristallizza- zione in diversi ruoli nel corso della sua vita, quello di moglie prima di Azio, quello di vidua, dopo la morte di Antonio (in una vedovanza, che assume, tuttavia, quasi i caratteri ideali dell’univirato) e quello di mater con la progressiva promozione del figlio Marcello quale successore di Augusto. Vi è un ruolo, tuttavia, che caratterizza tutta la sua biografia, quello disoror 8. Ottavia spesso emerge, inoltre, dalla tradizione per contrasto rispetto ad altre figure femminili, prima in opposizione a Fulvia, poi a Cleopatra e, infine, a Livia. Nell’impossibilità in questa sede di illustrare la biografia di Ottavia nella sua com- pletezza, mi limiterò ad approfondire tre aspetti che chiariscono questo assunto: le strategie matrimoniali; il rapporto con gli intellettuali; la politica edilizia. Sono tre ambiti che concentrano l’attenzione su quella che può essere definita la seconda par- te della biografia di Ottavia, quella cioè caratterizzata dalle sperimentazioni connesse all’instaurazione del principato, alla definizione di nuove sedi di discussione politica e all’introduzione del principio dinastico. Malgrado non sia possibile desumere con buon grado di certezza dalle testimonian- ze antiche se il ruolo assunto da Ottavia fu attivo (le fonti antiche ricordano, infatti, iniziative attribuite alla matrona; oppure testimoniano che fu Augusto ad assegnare alla sorella alcune decisioni; oppure che fu lo stesso principe a coinvolgerla in alcune strategie), l’analisi delle testimonianze antiche consente di comprendere che Ottavia in termini attivi o passivi ebbe un ruolo nella politica del suo tempo, il quale si configu- rava come recupero di esperienze tradizionali ma anche come valorizzazione di aspetti della trasformazione tardorepubblicana che concorrono alla normalizzazione della no- vitas nel corso del principato augusteo.

proprio cognato. Dopo la morte del marito, Ottavia si assunse il dovere di crescere ed educare i figli del triumviro d’Oriente. Nel 25 a.C. il figlio Marcello sposò Giulia, l’unica figlia di Augusto, e morì solo due anni dopo, circostanza che impose al principe di rivedere i propri piani dinastici. Nell’11 a.C., poco meno di un anno dopo Agrippa, Ottavia morì e venne sepolta, accanto al figlio, nel Mausoleo di Augusto. Cf.PIR 2 O 66 e Cosi 1996, 255-272; Fischer 1999, 67-124; García Vivas 2003, 23-108; Di Bella 2012, 314-333. 7 Su questi aspetti cf. Bauman 1992, 91-98 e 100-103; Cosi 1996, 255-272; Cresci Mar- rone 2013, 79-98. 8 È il ruolo che lo stesso princeps le attribuisce nell’epitaffio funebre che segnalava la tomba di Ottavia nel Mausoleo. Cf. CIL, VI 40356 = AEp 1994, 219.

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1. Le strategie matrimoniali

In quanto donna quello dei rapporti familiari era per Ottavia il contesto privilegia- to degli interventi con possibili ricadute politiche9. In questo ambito la sua azione si esplicò in particolare nell’impostazione di una accorta politica matrimoniale: benché le decisioni finali dovessero spettare alprinceps, le fonti menzionano tuttavia, l’intervento di Ottavia in tali questioni, intromissione ammessa dalla tradizione. Non si deve dimen- ticare, infatti, che i testimoni antichi ad esempio ricordano, senza stupore, l’intervento delle donne degli Scipioni (Emilia) nelle decisioni relative ai matrimoni delle figlie10. La matrona ebbe complessivamente cinque figli, nati tra il 43 a.C. e il 36 a.C.: Marcella Maggiore, Marcello, Marcella Minore, Antonia Maggiore e Antonia Minore11; a questi si devono aggiungere i figli di Antonio avuti da Fulvia e Cleopatra, rimasti sotto la tutela di Ottavia alla morte del padre12. La prima ad essere interessata da strategie matrimoniali di chiara valenza politica fu Antonia Maggiore, la quale a soli due anni era stata fidanzata a L. Domizio Enobarbo, a suggello degli accordi di Taranto del 37 a.C.13. In questa occasione dovette giocare un ruolo centrale l’alleanza tra Gneo Domizio Enobarbo, padre di Lucio, e Antonio14. Signi- ficativa risulta, tuttavia, la circostanza per cui il matrimonio fu celebrato nel 26-25 a.C., per volontà, evidentemente, di Augusto che in questo modo accoglieva nella sua famiglia il figlio di un ex-nemico passato dalla sua parte solo poco prima della battaglia di Azio15. La cronologia dei due matrimoni di Marcella Maggiore risulta più complessa: la tra- dizione antica testimonia che andò in sposa, non sappiamo in che ordine, a M. Valerio Messalla Barbato Appiano (cos. 12 a.C.) e a Paolo Emilio Lepido (cos. 34 a.C.)16. Questi matrimoni attestano la ricerca da parte del principe, per il tramite della discendenza del- la sorella, di un’alleanza con tre importanti famiglie dell’aristocrazia romana: Messalla era stato adottato (la sua onomastica originaria doveva essere Appio Claudio Pulcro) e quindi garantiva un’alleanza con gli Appi e con i Valeri17; Lepido era esponente del-

9 Cf. Hillard 1992, 37-64; Corbier 1995, 178-193; McGinn 2002, 46-93; Cenerini 2010, 95-106; Kavanagh 2010, 271-286. 10 In relazione ad Emilia Terza e il matrimonio di Cornelia Minore con Tiberio Gracco vd. Liv. XXXVIII 57, 6-8 e cf. Valentini 2012, 206-222. 11 Vd. Strabo XIV 5, 14; Plin. nat. XIX 24; XXXVII 11; Plu. Ant. 87, 2; Svet. Aug. 63, 2; Serv. Aen. VI 816; Cf. PIR2 O 66 e Cosi 1996, 264. 12 Vd. Plu. Ant. 87, 2; Cf. PIR2 O 66; cf. Harders 2009, 217-240. 13 Cf. Svet. Nero 5; Plu. Ant. 87, 6; D.C. XLVIII 54, 4. 14 Cf. Valentini 2015, 138-148. 15 Cf. Fischer 1999, 110. 16 Cf. Syme 1986, 147-148. 17 Cf. PIR2 A 89.

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la gens di appartenenza del terzo triumviro. Paolo aveva contratto, inoltre, precedenti nozze con una Cornelia, con ogni probabilità figlia di Scribonia e, dunque, sorellastra dell’unica figlia di Augusto, Giulia (il loro figlio sarà il marito di Giulia Minore)18. Que- sta unione potrebbe forse sottendere un possibile accordo tra Ottavia e Scribonia, prima moglie di Ottaviano nell’ottica di contrastare l’ascesa del ramo claudio della domus19. Tuttavia alla luce dei dati attualmente tramandati dalla tradizione antica questa non può che rimanere una suggestione. Più interessanti si rivelano in prospettiva dinastica i matrimoni degli altri tre figli di Ottavia. Marcella Maggiore sposò nel 28 a.C. Agrippa, il quale sciolse il suo precedente ma- trimonio con Cecilia Attica: tale scelta rispondeva alla volontà del principe di legare alla sua famiglia il suo principale collaboratore20. Tale disposizione dovette, tuttavia, non risultare sgradita neppure ad Ottavia: la testimonianza di Plutarco relativa agli accordi di Taranto mette in luce il fatto che nell’intervenire tra fratello e marito, Ottavia aveva efficacemente cercato il supporto di Agrippa e Mecenate prima di recarsi da Ottaviano21:

Antonio, nuovamente irritato con Cesare per certe accuse, salpò alla volta dell’Italia con trecento navi. Brindisi non accolse la flotta ed egli si ormeggiò a Taranto. Lì Ottavia, che aveva navigato con lui dalla Grecia ed era incinta dopo aver avuto da lui una seconda bambina, lo pregò di inviarla dal fratello. Incontrò Cesare per via, e presi con sé, fra gli amici del fratello, Agrippa e Mecenate, lo supplicò e pregò molto di non permettere che divenisse dalla più felice la più sventurata delle donne.

L’ipotesi che tra Ottavia e Agrippa intercorressero ottimi rapporti è suffragata da quanto accadde dopo la morte di Marcello. Nel 25 a.C. Augusto aveva fatto sposare Marcello, il figlio di Ottavia, con la propria figlia Giulia, probabilmente nella prospet-

18 Cf. PIR2 V 373; Leon 1951, 168-175; Scheid 1975, 349-375; Canas 2009, 183-210. 19 Lo schieramento della matrona a favore del ramo giulio contro le pretese di successione di quello claudio è tradito, forse, dalla scelta della matrona di unirsi a Giulia in volontario esilio nel 2 a.C. per cui vd. Vell. II 100, 5 e D.C. LV 10, 14. Sempre in quest’ottica può essere letta, inoltre, il coinvolgimento ricordato da Sen. epist. 70, 10 della matrona nella vicenda di L. Scribonio Li- bone nel 16 d.C. Cf. Cosi 1996, 265. 20 Cf. Roddaz 1984, 23-30. 21 Plu. Ant. 35, 1-3: Αὐτὸς δὲ πάλιν ἔκ τινων διαβολῶν παροξυνθεὶς πρὸς Καίσαρα, ναυσὶ τριακοσίαις ἔπλει πρὸς τὴν Ἰταλίανοὐ δεξαμένων δὲ τῶν Βρεντεσινῶν τὸν στόλον εἰς Τάραντα περιώρμισεν. ἐνταῦθα τὴν Ὀκταουίαν ‒ συνέπλει γὰρ ἀπὸ τῆς Ἑλλάδος αὐτῷ ‒ δεηθεῖσαν ἀποπέμπει πρὸς τὸν ἀδελφόν, ἔγκυον μὲν οὖσαν, ἤδη δὲ καὶ δεύτερον ἐξ αὐτοῦ θυγάτριον ἔχουσαν. ἡ δ’ ἀπαντήσασα καθ’ ὁδὸν Καίσαρι καὶ παραλαβοῦσα τῶν ἐκείνου φίλων Ἀγρίππαν καὶ Μαικήναν, ἐνετύγχανε πολλὰ ποτνιωμένη καὶ πολλὰ δεομένη μὴ περιιδεῖν αὐτὴν ἐκ μακαριωτάτης γυναικὸς ἀθλιωτάτην γενομένην.

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tiva di rendere il nipote-genero suo erede22. Nel 23 a.C., tuttavia, Marcello improvvisa- mente morì23. E’ sempre Plutarco a ricordare che:

Ma quando Marcello morì, poco dopo le nozze, e Cesare non aveva molta scelta per trovare un genero fidato tra gli altri amici suoi, Ottavia fece la proposta che Agrippa dovesse prendere in moglie la figlia di Cesare, rimasta vedova, lasciando la sua. Prima se ne persuase Cesare, poi Agrippa; così Ottavia riprese la propria figlia e l’accasò con Antonio, mentre Agrippa sposava la figlia di Cesare24.

La strategia attuata in prima persona da Ottavia rispondeva a due obbiettivi: in pri- mo luogo assicurare il futuro dei propri nipoti che si sarebbero trovati ad essere fratelli dei figli di Giulia, probabili eredi di Augusto, e in secondo luogo contrastare l’ascesa dei figli di Livia, garantendo la nascita di eredi consanguinei del principe, preferiti a Tiberio e Druso in ottica di successione. Del resto che Ottavia e Livia in questo momento si trovassero in posizione competitiva e di contrapposizione si evince dalla testimonianza di Seneca che descrive il comportamento di Ottavia alla morte del figlio Marcello:

Odiava tutte le madri ed era furiosa soprattutto con Livia, perché le sembrava che al figlio di questa fosse passata la fortuna promessa a lei25.

In tale quadro Livia appare pressoché assente (se non per aver, invano, tentato di proporre un pretendente per la figlia di Augusto, il cavaliere C. Proculeio, strategia che mirava a ridimensionare l’importanza politica di Giulia)26. Diversamente rientra indi-

22 Vd. Vell. II 93, 2; Svet. Aug. 63, 1; Tac. ann. I 3; Plu. Marc. 20; Ant. 87; D.C. LIII 27, 5. Cf. Cosi 1996, 265 e 267; Di Bella 329-330. 23 Vd. Vell. II 93, 1; Tac. ann. II 41, 3; D.C. LIV 6, 5. Cf. Fantham 2006, 45; Levick 2010, 175; Rohr Vio 2011, 76-100. 24 Plu. Ant. 87: ἐπεὶ δὲ Μάρκελλος ἐτελεύτησε κομιδῇ νεόγαμος, καὶ Καίσαρι γαμβρὸν ἔχοντα πίστιν οὐκ εὔπορον ἦν ἐκ τῶν ἄλλων φίλων ἑλέσθαι, λόγον ἡ Ὀκταουία προσήνεγκεν ὡς χρὴ τὴν Καίσαρος θυγατέρα λαβεῖν Ἀγρίππαν, ἀφέντα τὴν ἑαυτῆς. πεισθέντος δὲ Καίσαρος πρῶτον, εἶτ’ Ἀγρίππου, τὴν μὲν αὑτῆς ἀπολαβοῦσα συνῴκισεν Ἀντωνίῳ, τὴν δὲ Καίσαρος Ἀγρίππας ἔγημεν. Par- zialmente confermato da Svet. Aug. 63, 1: Deinde, ut is obiit, M. Agrippae nuptum dedit exorata sorore, ut sibi genero cederet; nam tunc Agrippa alteram Marcellarum habebat et ex ea liberos («Poi, quando questi morì, a M. Agrippa, avendo ottenuto dalla sorella Ottavia che glielo cedesse come genero: infatti Agrippa aveva allora in moglie una delle Marcelle, che gli aveva dato figli»). Cf. PIR2 A 457 e Roddaz 1984, 353 n. 75. 25 Sen. Ad Marc. 2: Oderat omnes matres et in liviam maxime furebat, quia videbatur ad illius filium transisse sibi promissa felicitas. 26 Vd. Plin. nat. XXXVI 183; Svet. Aug. 63, 2; Tac. ann. IV 40, 4. Su C. Proculeio Cf. Rapke 1984, 21-22; Eck 2007, 926.

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rettamente in gioco nel 18 a.C., quando si decise di far sposare la figlia minore di Ot- tavia, Antonia, con Druso Maggiore27: le nuove dinamiche di successione create dalla nascita del primo nipote del princeps, Caio Cesare, nel 20 a.C. dovettero suggerire al ramo claudio della domus di operare un avvicinamento a quello giulio ancora una volta attraverso un legame matrimoniale28: nella stessa prospettiva deve essere letta anche la scelta di far sposare nel 20 a.C. Tiberio con Vipsania, figlia di Agrippa29. Al di là di una più o meno marcata intromissione nelle decisioni concernenti i legami matrimoniali dei propri figli, risulta interessante mettere in luce come i matrimoni con i figli di Ottavia siano utilizzati dalprinceps nell’ottica di stabilire alleanze interne ed esterne alla sua famiglia. In tutti i casi si tratta di personaggi che si legano al principe proprio attraverso la figura di Ottavia, che in virtù della sua numerosa prole assume un ruolo sotto questo aspetto non paragonabile a quello di Livia, per i figli della quale il più diretto legame con Augusto in questo frangente è costituito proprio dal matrimonio con una delle figlie di Ottavia.

2. Il rapporto con gli intellettuali

Il secondo ambito su cui si vuole soffermare l’attenzione riguarda il rapporto di Ottavia con i poeti. In questa prospettiva la tradizione antica permette di individuare due piani diversi: da una parte le dediche dei poeti che riconoscono l’importanza del suo ruolo all’interno della domus Caesaris: Atenodoro di Tarso dedicò a lei un opera storica30; Vitruvio la celebra all’inizio della sua opera31; Mecenate le dedicò un com- ponimento poetico32; Virgilio e Properzio non mancarono di celebrare il figlio dopo la sua morte33; dall’altra la tradizione menziona suoi interventi a favore di intellettuali: Vitruvio ne ricorda l’intercessione a suo favore presso Ottaviano34; Virgilio ricevette una sostanziosa somma per aver celebrato Marcello nella sua opera35. Si tratta dell’a- spetto che, forse, più allontana Ottavia da Livia; mentre la tradizione celebra Ottavia per il suo ruolo attivo nella promozione di poeti e letterati, per Livia non vi è alcun accenno di un intervento in tale settore: Livia svolge, infatti, il ruolo di patrona in am-

27 Vd. Val. Max. IV 3, 3; Svet. Cal. 1, 1; Plu. Ant. 87; J. AJ XVIII 143; 180. Cf. Fraschetti 1994, 135-136; Barrett 2006, 78-79. 28 Sull’anno di nascita di Caio Cesare vd. D.C. LIV 8, 5 e cf. PIR2 C 216. 29 Nep. Att. 19, 4; Cf. Syme 1986, pp. 144-145; Barrett 2006, 65; Canas 2012, 155-164. 30 Vd. Plu. Publ. 77, 8. 31 Vd. Vitr. praef. 1. 32 Vd. Prisc. X 47. 33 Vd. Prop. III 18; Verg. Aen. VI 860-886. 34 Vd. Vitr. praef. 1. 35 Vd. Don. Verg. ecl. 32.

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bito politico (facendosi promotrice delle istanze di terzi col marito), si riconosce il suo intervento nell’edilizia pubblica e in attività filantropiche ma non sembra partecipare attivamente alla promozione di poeti e letterati (l’unico esempio è il filosofo Areo che va posto, tuttavia, su un piano diverso)36. Sembra, dunque, che in questa prospettiva si possa supporre un passaggio di testimone prima tra Ottavia e Giulia Maggiore, e poi tra quest’ultima e Antonia Minore37. In questa prospettiva, dunque, la sorella del princeps mostra uno dei tratti peculiari del ruolo da lei assunto nell’elaborazione di un modello che verrà perpetuato dalle generazioni successive. Se, dunque, la tradizione serba memoria di una cospicua attività svolta da Ottavia a favore di poeti e intellettuali e un vivo interesse per la vita culturale dell’Urbe, in que- sta prospettiva fungendo quasi da figura speculare a quella delprinceps, la condotta di Ottavia dopo la morte di Marcello si rivela in contrasto con il suo ruolo di promotrice culturale. Secondo la testimonianza di Seneca:

(Ottavia) per tutto il tempo della sua vita non smise più di piangere e di gemere, e non volle assolutamente ascoltare parole che le arrecassero qualche conforto, non ammise neppure di distrarsi; fissa in un solo pensiero, anzi con la mente inchioda- ta ad esso, fu per tutta la vita tal quale era stata durante il funerale, non dico non risolvendosi a sollevarsi, ma rifiutando di consolarsi, giudicando che smettere di piangere fosse come perdere il figlio una seconda volta. Volle che nessun ritratto del figlio amatissimo le restasse, che nessuno gliene parlasse. Odiava tutte le madri ed era furiosa soprattutto con Livia, perché le sembrava che al figlio di questa fosse passata la fortuna promessa a lei. Amica esclusivamente del buio e della soli- tudine, non avendo riguardo neppure per il fratello, respinse i versi composti per celebrare la memoria di Marcello e altre attestazioni di onore letterarie, e chiuse le orecchie ad ogni consolazione. In disparte dalle consuete cerimonie solenni e odiava vivamente persino la condizione in cui il fratello era posto dalla propria grandezza, perché irradiava tutt’attorno a sé troppa luce, si seppellì e si nascose. Benché le stessero accanto figli e nipoti, non smise di indossare la veste da lutto, non senza offesa per tutti i suoi: pur essendo essi in vita, le sembrava di essere priva di figli. Livia aveva perso il figlio Druso, che doveva diventare un grande principe ed era già un grande generale; egli era penetrato a fondo all’interno della Germa- nia e aveva piantato le insegne romane là dove a mala pena si sapeva che esistessero dei Romani. Durante la spedizione era morto, mentre i nemici stessi, nel corso della sua malattia, si comportavano verso di lui con rispetto e pace reciproca, e non osavano augurarsi ciò che conveniva loro. Si aggiungeva a questa morte, a cui era andato incontro per lo stato, l’enorme rimpianto dei cittadini e delle provin-

36 Cf. Barrett 2006, 271-308. Sul filosofo Areo e i suoi rapporti con Livia vd. Sen.ad Marc. IV 5-6,1. 37 Per entrambe le principesse la tradizione ricorda, infatti, la frequentazione di intellettuali e poeti. Cf. Hemelrijk 1999, 108-116.

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ce e dell’Italia intera, attraverso la quale, poiché si erano riversati fuori in massa municipi e colonie a rendergli le estreme onoranze, fino a Roma era stato fatto passare un corteo funebre somigliantissimo ad un trionfo. Non aveva potuto, la madre, bere gli ultimi baci del figlio e le care parole della sua bocca nel momento della fine; dopo aver accompagnato in un lungo viaggio i resti del suo Druso, pur se da tanti roghi ardenti per ogni parte d’Italia era stato rinfocolato il suo dolore, come se altrettante volte perdesse il figlio, non appena, tuttavia, lo ebbe portato a seppellire nella tomba, vi depose insieme lui e il suo dolore, e non si dolse più di quanto fosse decoroso, in considerazione di Cesare, o giusto, essendo lui in vita. E poi non cessò di citare spesso il nome di Druso, di porsene dappertutto l’imma- gine davanti agli occhi, in privato e in pubblico, di parlare di lui, di sentire parlare di lui con grandissimo piacere: visse accompagnata dal ricordo di lui, ricordo che non può serbare né rendersi abituale nessuno che se ne sia fatto fonte di dolore38.

Dalla testimonianza di Seneca si desumono due dati interessanti: in primo luogo la tradizione attesta il rifiuto da parte di Ottavia di tutte le forme di commemorazione dedicate a Marcello. Se per smentire le affermazioni di Seneca è sufficiente menziona- re la dedica da parte di Ottavia della biblioteca in memoria del figlio all’interno della

38 Sen. Ad Marc. 2: Nullum finem per omne vitae suae tempus flendi gemendi que fecit nec ullas admisit voces salutare aliquid adferentis; ne avocari quidem se passa est, intenta in unam rem et toto animo adfixa. Talis per omnem vitam fuit, qualis in funere, non dico non est ausa consurgere, sed adlevari recusans, secundam orbitatem iudicans lacrimas amittere. Nullam habere imaginem filii carissimi voluit, nullam sibi de illo fieri mentionem. Oderat omnes matres et in liviam maxime fure- bat, quia videbatur ad illius filium transisse sibi promissa felicitas. Tenebris et solitudini familiaris- sima, ne ad fratrem quidem respiciens, carmina celebrandae Marcelli memoriae composita alios que studiorum honores reiecit et aures suas adversus omne solacium clusit. A sollemnibus officiis seducta et ipsam magnitudinis fraternae nimis circumlucentem fortunam exosa defodit se et abdidit. Adsi- dentibus liberis, nepotibus lugubrem vestem non deposuit, non sine contumelia omnium suorum, quibus salvis orba sibi videbatur. Livia amiserat filium Drusum, magnum futurum principem, iam magnum ducem: intraverat penitus germaniam et ibi signa romana fixerat, ubi vix ullos esse roma- nos notum erat. In expeditione decesserat ipsis illum hostibus aegrum cum veneratione et pace mutua prosequentibus nec optare quod expediebat audentibus. Accedebat ad hanc mortem, quam ille pro re publica obierat, ingens civium provinciarum que et totius italiae desiderium, per quam effusis in offi- cium lugubre municipiis coloniis que usque in urbem ductum erat funus triumpho simillimum. Non licuerat matri ultima filii oscula gratum que extremi sermonem oris haurire; longo itinere reliquias drusi sui prosecuta tot per omnem italiam ardentibus rogis, quasi totiens illum amitteret, inritata, ut primum tamen intulit tumulo, simul et illum et dolorem suum posuit, nec plus doluit quam aut ho- nestum erat caesare aut aequom tiberio salvo. Non desiit denique Drusi sui celebrare nomen, ubique illum sibi privatim publice que repraesentare, libentissime de illo loqui, de illo audire: cum memoria illius vixit; quam nemo potest retinere et frequentare, qui illam tristem sibi reddidit.

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porticus da lei fatta costruire39, è possibile ipotizzare che anche per quanto concerne i componimenti poetici non fosse attuata una censura totale quanto piuttosto una stretta selezione in ottica di trasmettere una memoria che valorizzasse il suo ruolo nelle strate- gie dinastiche. La tradizione antica attesta, infatti, che almeno due poeti si cimentarono nella commemorazione postuma di Marcello: Properzio e Virgilio40. In particolare in re- lazione all’autore dell’Eneide testimoni tardi menzionano un coinvolgimento diretto di Ottavia: Servio attesta, infatti, la presenza alla recitatio della matrona, che non rifiutava, quindi, la commemorazione pubblica del figlio41. Donato nella Vita di Virgilio testimo- nia, inoltre, il fatto che Ottavia consegnò al poeta per il lavoro svolto una sostanziosa ricompensa (di cui ricorda anche l’ammontare, diecimila sesterzi)42. I resoconti apparentemente contraddittori di Seneca, di Servio e Donato possono essere conciliati se si ipotizza che Ottavia, in accordo col principe, nell’ottica di tra- smettere un messaggio controllato e politicamente connotato, avesse attuato una precisa strategia volta a disincentivare la proliferazione di componimenti in onore di Marcello, attribuendo il compito di celebrarne la memoria ai poeti vicini ad Augusto. Svetonio testimonia, infatti, come questa fosse una strategia che lo stesso princeps metteva in atto nei riguardi dei componimenti che avevano quale oggetto la sua persona: solo i praestan- tissimi potevano, infatti, scrivere su di lui43. Seneca, inoltre, attribuisce ad Ottavia l’assunzione del lutto perpetuo. Anche questo elemento contribuisce a delineare una strategia funzionale a mantenere viva la memoria del proprio figlio. Ottavia è un personaggio con un ruolo pubblico, esercitato soprat- tutto nei riguardi del gruppo matronale e sancito dalle prerogative ottenute nel 35 a.C.: presentare se stessa in ogni circostanza con la veste da lutto consentiva una comunica- zione per imagines funzionale a riportare alla memoria la causa di tale lutto e, dunque, tenere vivo il ricordo del figlio defunto44. Il comportamento di Ottavia appare in netto contrasto con quello di Livia, la quale, sempre secondo Seneca, avrebbe più facilmente metabolizzato la scomparsa del secon- dogenito. Ma anche tale scelta sarebbe l’esito di un disegno preciso: l’accanimento nel ricordo di Druso Maggiore, morto nel 9 a.C., avrebbe, infatti, oscurato Tiberio, in quel

39 Vd. Plu. Marc. 30, 11. 40 Vd. Prop. III 18; Verg. Aen. VI 860-886. 41 Serv. ad Aen. VI 861. 42 Vd. Don. Verg. ecl. 32. 43 Vd. Svet. Aug. 89: Componi tamen aliquid de se nisi et serio et a praestantissimis offendebatur, admonebatque praetores ne paterentur nomen suum commissionibus obsolefieri («Si offendeva, però, se si scriveva alcunché su di lui, a meno che non fosse in tono serio e scritto dai maggiori; ammoniva, inoltre, i pretori di non consentire che si abusasse del suo nome nelle gare letterarie»). 44 Cf. Valentini 2011, 222-225. Sull’assunzione del lutto da parte delle matrone come stra- tegia per perpetuare la memoria di politici di primo piano Cf. Valentini 2012, 156-158.

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momento sposato con Giulia Maggiore e, quindi, coinvolto, seppur non in posizione di primo piano, nelle strategie dinastiche45. Le scelte di Ottavia sembrano, in parte, trovare un precedente illustre in Cornelia, la madre dei Gracchi, la quale, racconta Plutarco, dopo la morte dei figli si ritirò a Capo Miseno e, circondata da intellettuali, coltivò la memoria dei propri figli46. Un riferimento nelle Res Gestae sembra confermare l’ipotesi che la scelta di Ottavia sia da iscrivere in una strategia volta a tener viva la memoria di Marcello, concordata col princeps:

Theatrum ad aedem Apollini in solo magna ex parte a privatiis empto feci, quod sub nomine M. Marcelli generi mei esset.47

A distanza di quasi quattro decenni dalla morte di Marcello e due matrimoni (con Agrippa e Tiberio) per Giulia, significativamente nel suo testamento politico il principe si riferisce al nipote con l’appellativo di gener, cioè nel principale ruolo da lui assunto all’interno della concezione politica e dinastica di Augusto. Se la menzione di Marcello in qualità di genero nell’iscrizione approntata nel momento della sepoltura nel Mau- soleo si rivela comprensibile nella volontà di esprimere il legame che al momento della morte il giovane vantava col princeps48, il riferimento delle Res Gestae, quando il ruolo di gener era ormai stato assunto da altri personaggi e risultava anacronisticamente attribu- ito a Marcello, si rivela spia della volontà di esplicitare che il principio dinastico debba muoversi nella prospettiva del ramo giulio della domus: è un omaggio al ruolo di Ottavia attraverso la sua discendenza nella politica successoria del princeps.

3. La politica edilizia

L’ultimo aspetto su cui si vuole soffermare l’attenzione è quello della politica edilizia attuata da Ottavia. Il nome della matrona risulta legato ad un importante edificio del Campo Marzio, la Porticus Octaviae, edificata tra il 33 e il 27 a.C.49. Le testimonianze antiche non permettono di chiarire se la committenza dell’opera sia da attribuire ad Ottaviano o alla sorella: Cassio Dione rileva che le spese legate alla sua costruzione fu-

45 Cf. Bauman 1992, 100-105. 46 Vd. Plu. CG 19 e cf. Hemelrijk 1999, 97; Dixon 2007, 55; Valentini 2012, 241-242. 47 RG 21: «Su terra in gran parte acquistata da privati costruii presso il tempio di Apollo un teatro che volli portasse il nome di M. Marcello, mio genero». 48 Cf. CIL, VI 40356 = AEp 1994, 219; Panciera 1994, 91-95 e Cresci - Nicolini 2010, 172-178. 49 Cf. Richardson 1976, 57-64; Coarelli 1997, 529-538; Viscogliosi 1999, 138-141; Woodhull 2003, 13-33; Gorrie 2007, 1-17.

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rono coperte con il bottino della guerra contro i Dalmati e, tuttavia, l’edificio non viene menzionato nelle Res Gestae tra le opere edilizie compiute dal principe50; compare anche nell’elenco stilato da Svetonio delle opere realizzate da Augusto insieme alla porticus Liviae che, tuttavia, sappiamo essere stata finanziata dalla moglie delprinceps e dal figlio Tiberio51. In virtù dei privilegi concessi nel 35 a.C. alla moglie e alla sorella ‒ esenzio- ne dalla tutela mulieris, attribuzione della sacrosanctitas tribunicia e del diritto di essere onorate con statue ‒ è possibile ipotizzare che la promotrice dell’opera fosse proprio Ottavia52. Se attraverso tale concessione Ottaviano mirava a mantenere un equilibrio tra gli onori concessi alle mogli dei due triumviri, nel caso della porticus si assiste ad una netta preminenza di Ottavia su Livia. L’operazione si inserisce nel più ampio progetto di rinnovamento delle infrastrutture di Roma attuato dal princeps: si tratta, infatti, del restauro intrapreso tra il 33 a.C. e il 27 a.C. di un precedente edificio, laporticus Metelli, costruita tra il 146 e il 131 a.C.: esso comprendeva oltre al portico, due biblioteche e una curia (curia Octavia) e inglobava al suo interno i templi di Giunone Regina e di Giove Statore, probabilmente anch’essi restaurati in questa occasione53. Il complesso si colloca- va nel Campo Marzio, luogo in cui più o meno nello stesso arco temporale il principe e i suoi collaboratori avevano avviato nuovi progetti edilizi: il Mausoleo, le terme di Agrip- pa, i Saepta Iulia, la costruzione del tempio di Marcello e il restauro del tempio di Apollo (quest’ultimo da parte di Caio Sosio). Si tratta di un’area che in precedenza aveva visto la costruzione di numerosi monumenti legati a vittorie militari e che progressivamente venne unificata da un progetto edilizio le cui strutture in modo complementare pre- sentavano una visione d’insieme del potere imperiale; con la costruzione della porticus si verificava, dunque, una sorta di intromissione femminile in un’area caratterizzata da un’edilizia promossa esclusivamente da uomini54. La struttura era caratterizzata, come ricordano Ovidio e Plinio, dalla presenza di un ricco apparato decorativo e di numerose opere d’arte, tra cui la statua di Cornelia55: si trattava anche in questo caso di una scelta significativa che contribuiva a chiarire in quale orizzonte ideologico si muoveva Ottavia. La statua, di cui si conserva la base, di II secolo a.C., che in origine rappresentava una divinità o forse una regina ellenistica, fu rifunzionalizzata in occasione dei restauri di età augustea. L’inserimento nella porticus

50 Vd. RG 20-22; D.C. XLIX 43, 8. 51 Vd. Svet. Aug. 29, 3. Sulla dedica da parte di Tiberio della Porticus Liviae vd. D.C. LV 8, 2 e cf. Panella 1999, 127-129. 52 Vd. D.C. XLIX 38, 1 e cf. Bauman 1981, 166-183; Scardigli 1982, 61-64; Flory 1993, 287-308; Hemelrijk 2005, 309-317; Valentini 2011, 222-225. 53 Cf. Coarelli 1997, 529-538. 54 Cf. Woodhull 2003, 22-25. 55 Vd. Ov. ars. I 70; Plin. nat. XXXIV 31; 35; 114; 139; XXXVI 15; 22; 24; 28; 34; 35); sulla statua di Cornelia vd. CIL, VI 1034; Plin. nat. XXXIV 14, 31.

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Octaviae di una effige di Cornelia, personaggio cristallizzatosi qualeexemplum femmini- le secondo i canoni del mos maiorum, diviene funzionale al programma di promozione del matrimonio e dei valori della famiglia incoraggiato dal principe ma anche a collegare la sorella di Augusto ad un preciso modello56: quasi una nuova Cornelia, Ottavia, di cui non si esclude fosse presente nell’edificio un’effige, si presenta come un nuovo esempio di matrona intriso delle virtù tradizionali ma che si muove in un nuovo orizzonte, quello dinastico, rappresentato dalla presenza nel complesso architettonico di due biblioteche dedicate al figlio Marcello defunto57. Tale scelta se da un lato rappresenta il tentativo della matrona di perpetuare la memoria del figlio defunto, dall’altro trasferisce un lutto personale in una dimensione collettiva. Insieme al vicino teatro fatto costruire da Augu- sto, riprendendo un progetto di Cesare, e dedicato alla memoria del nipote defunto, il portico di Ottavia costituiva un esteso spazio pubblico nell’area meridionale del Campo Marzio dedicato alla memoria di un defunto. Si tratta, dunque, di uno dei primi interventi edilizi probabilmente realizzati da una donna nell’Urbe, che attribuisce una netta preminenza nelle strategie del principe alla sorella lasciando nell’ombra la moglie: Livia fa la sua comparsa nelle strategie edilizie dell’Urbe soltanto nel 15 a.C. quando iniziarono i lavori per la costruzione della porticus Liviae sull’Oppio e che fu inaugurata da Tiberio nel 7 a.C. riprendendo l’associazione madre-figlio già presente negli edifici di Ottavia58. Soltanto dopo la nascita del primo nipote, Germanico, comune al ramo giulio e a quello claudio, avvenuta nel 15 a.C., Livia comincia a comparire nel panorama edilizio della città59.

Sebbene la tradizione antica riservi ad Ottavia un ruolo di subordine, che emerge spesso per contrasto ad altre personalità (Fulvia, Cleopatra e Livia), l’analisi delle vicen- de ad essa connesse consente di individuare per la matrona ampi spazi di azione a fianco del fratello. Essa assunse su di sé l’onore di rappresentare il modello matronale nelle fasi di affermazione delladomus Caesaris e rappresentò attraverso la sua discendenza il perno delle strategie matrimoniali che interessarono i meccanismi di successione. Fu lei fino alla morte avvenuta nell’11 a.C., seguita dal funerale di stato, a costituire la figura di primo piano della sperimentazione attuata da Augusto nell’ottica di individuare spazi istituzionali all’azione delle donne della sua gens.

56 Cf. Coarelli 1978, 13-28; Kajava 1989, 119-131; Ruck 2004, 285-302. 57 Cf. Lewis 1988, 198-200; Valentini 2011, 217-222. 58 Sulla data di inizio dei lavori per la costruzione della porticus vd. Ov. fast.VI 637-648; Svet. Aug. 29, 4; D.C. LIV 23, 1; sull’inaugurazione vd. D.C. LV 8, 2. Cf. Panella 1999, 127-129. 59 Sull’anno di nascita di Germanico cf. Svet. Cal. 1, 2 e cf. PIR2 I 221.

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Evergetismo femminile ad Ostia tra tarda repubblica ed età alto-imperiale

Negli Atti del convegno veronese del 2004 «Donna e vita cittadina nella docu- mentazione epigrafica», curati da Alfredo Buonopane e da Francesca Cenerini, com- parivano ben quattro contributi in cui si faceva riferimento ad operazioni evergetiche compiute da donne ad Ostia1. Da quei contributi prenderò le mosse, a dieci anni di distanza, nel tentativo di inserirli in un tessuto unitario e coerente, arricchito da ulte- riori documenti, allo scopo di ricercare nella colonia, a partire dalla documentazione epigrafica, casi di manifestazioni di evergetismo femminile, ad integrazione della reti- cenza delle fonti letterarie2. Tra le scarse iscrizioni ostiensi attribuibili all’età repubblicana e proto imperiale spiccano alcuni documenti, tutti molto noti, riconducibili a due dame della aristo- crazia locale. Il primo è un blocco in travertino trovato in contesto, benché reimpiegato, nel santuario della Bona Dea della via degli Augustali (regio V, Ins. X, 2)3. In esso si ricorda che una Octavia, figlia di unM. Octavius e moglie di un Gamala, curò che la porticus del santuario venisse intonacata, che venissero realizzati dei sedili e che la cucina fosse provvista di un tetto. Sulla personalità di Octavia molto si è scritto. Il primo editore, Mireille Cébeillac, in un articolo del 1973, in base alla cronologia attribuita al documento (80-50 a.C.), alla menzione dello sposo Gamala e ad un controverso passo di Cicerone4, aveva proposto

1 Manacorda 2005, 37-54; Asdrubali Pentiti 2005, 503-521, part. 509-517; Cao 2005, 569-583, part. 572-573. 2 Cito, per tutti, il caso della matrona cassinate Ummidia Quadratilla, di cui ci parla diffusa- mente Plinio in una sua lettera, senza peraltro menzionare nessuna delle numerose e ricche be- nemerenze della donna. Per inquadrare il discorso dell’evergetismo femminile ad Ostia è fon- damentale il contributo di Pensabene 1996, 185-222, che andrebbe tuttavia integrato con ulteriori documenti epigrafici. 3 CIL, I2 3025: Octavia, M. f., ‘Gamalâe’ (o Gamalai) (scil. uxor) / portic(um) poliend(am) / et sedeilia faciun(da) / et culina(m) tegend(am) / D(eae) B(onae) curavit. Vd. Cébeillac 1973, 517-553 (cf. AEp 1973, 127); Zevi 1997, 440-447; Cébeillac-Gervasoni 2004, 75-81. Sulla donna Herzig 1983, 85. Sul dossier di via degli Augustali vd. Brouwer 1989, 67-69, nrr. 60- 63, 425-427. 4 Cic. Att. XII 23, 3: De Gamala dubium non mihi erat. Unde enim tam felix Ligus pater? Nam quid de me dicam, cui ut omnia contingant, quae volo, levari non possum? (19 marzo 45 a.C.).

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di vedere nella donna un membro della gens degli Octavii Ligures di Forum Clodii, un centro dell’Etruria interna, situato a pochi chilometri a nord di Roma e di Ostia, sul lago di Bracciano. Più precisamente la studiosa pensava di poter identificare la donna con la sorella di M. e L. Octavii Ligures, senatori dell’età di Cicerone5. Già Zevi era intervenuto in merito al dettaglio della ricostruzione prosopografica6 e la studiosa stessa, riprenden- do l’argomento circa trenta anni più tardi, aveva espresso dubbi a tal proposito, ma non in merito all’origine familiare e al rango della donna. Se, come sembra, considerata la cronologia, il Gamala dell’iscrizione va identificato con il ben notoP. Lucilius Gamala «senior» di CIL, XIV 375, un matrimonio asimmetrico tra un esponente della élite locale e una donna di rango senatorio ben si inserirebbe in una tendenza delle alleanze matrimoniali nel Latium tra II secolo a.C. ed età augustea7. Ma proprio se noi vogliamo continuare ad identificare – come credo sia legittimo fare – lo sposo diOctavia in P. Lucilius Gamala «senior» non possiamo non tener conto della nuova cronologia del personaggio che lo vedrebbe attivo tra grosso modo il 75 a.C. ed il 37 a.C., anno della guerra contro Sesto Pompeo8.

Figura 1

5 Cébeillac 1973, 525-530 (stemma p. 528 n. 3), seguita da Torelli 1982, 295. Su M. e L. Octavii Ligures vd. anche Münzer 1937, c. 1851, nrr. 68-69; Wiseman 1971, 247, nrr. 290- 291; Broughton 1952, II, 493; 1960, III, 152 (M. Octavius Ligus era senatore dal 75 a.C.: cf. Cic. Ve r r. II 2, 21, cf. II 1, 126). 6 Zevi 1973, 555 n. 2. Sulle parentele vd. anche Mennella 1983, 215-218; Paci 1978, 280- 290, part. 287-290 (l’iscrizione di Octavia viene datata a «non dopo l’età cesariana»). 7 Cébeillac-Gervasoni 1998, 213-220, part. 215-218. 8 Zevi 2004, 15-31, 47-67, part. 64-67.

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MatronaeOK.indb 258 21/06/16 08:55 EVERGETISMO FEMMINILE AD OSTIA

Questa datazione che spinge verso il basso la forcella già definita, meglio si adattereb- be ad una nuova riflessione sulla cronologia dell’iscrizione diOctavia , alla luce di quanto ora sappiamo sull’uso di abbreviare con sigle il nome di divinità nella vicinissima Roma9. Di conseguenza l’attività evergetica di Octavia andrebbe piuttosto collocata negli anni centrali del I secolo che non in età sillana e dintorni, in ogni caso certamente prima dell’età augustea, come il contesto archeologico di ritrovamento suggerisce10. In quegli anni, mentre Gamala «senior» costruiva e restaurava un consistente nu- mero di edifici civili e religiosi della colonia, la moglie concentrava il proprio intervento sul più antico (all’epoca unico) santuario di Bona Dea. La scelta del luogo dell’inter- vento è stata messa in rapporto con l’origine della donna, Forum Clodii, dove il culto di Bona Dea era oggetto di particolare attenzione11. Ma, pur senza negare ciò, già Zevi in un articolo del 1997 aveva messo in rilievo la particolare valenza ‘politica’ della scelta, da leggere sullo sfondo del contrasto che poneva di fronte Cicerone e Clodio, quest’ultimo profanatore dei sacrifici alla dea12. Va ricordato, per inciso, che Octavia né costruisce né restaura il santuario, ma cura l’intonacatura delle pareti e l’aggiunta di elementi struttu- rali quali i sedili ed il tetto a copertura della cucina preesistente, una dotazione funzio- nale essenziale nel culto. Del resto, che l’antico santuario ostiense di Bona Dea sia il terreno d’elezione dell’e- vergetismo delle matrone della tarda età repubblicana e proto augustea lo mostra an- che un altro importante documento, una vera di pozzo in travertino , ritrovata anch’essa nell’area del santuario di via degli Augustali13. L’iscrizione, che con andamen- to circolare corre lungo la faccia superiore della margella ed è attualmente di difficile let- tura, ricorda una Terentia, figlia di unA. Terentius e moglie di un Cluvius, quale autrice della dedica alla dea di quello che doveva essere un altro elemento essenziale del culto. Se nel caso precedente la cronologia della donna resta incerta, per quanto riguarda Terentia un decreto a lei relativo, cui accennerò, ci consente di collocarla nella piena età augustea. Più problematica è invece la sua esatta identificazione, essendo iCluvii del tutto assenti ad Ostia in questa fase e rarissimi più tardi14, e i Terentii mancando nella classe dirigente locale sino ad età domizianea15.

9 Panciera 2012, 381. 10 Falzone 2006, 405-445, part. 408-419. 11 Si consideri in particolare CIL, XI 3303 = ILS 154. 12 Zevi 1997, 440-447. Su Clodio ancora attuale Moreau 1982. 13 Licordari 1984, 351, nr. 6 (cf. AEp 2005, 304): Terentia, A. f., Clu(v)i (scil. uxor) Bonae Deae. Su di essa Golda 1997, 115-116, nr. I.2, tav. 5.1 (con errore di lettura del nome del marito); Zevi 1997, 448-452; Zevi 2004, 19-22; Steuernagel 2004, 78-79. 14 L’eccezione è CIL, XIV 849, molto più tarda. 15 E’ del 92 d.C. il duovirato di L. Terentius Tertius (FO, fram. Fa d.), che peraltro non è un Aulus.

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Figura 2

Zevi, che affronta la questione in due successivi articoli del 1997 e del 2004, passa in rassegna le Terentiae di alto lignaggio vissute tra tarda repubblica ed età augustea per concentrare la sua attenzione sulla Terentia A. f.16, madre del praefectus Aegypti del 15 d.C. L. Seius Strabo, nota da una iscrizione di Volsinii17, sorella – come sembra ‒ di A. Terentius Varro Murena, cos. nel 23 a.C. (e cospiratore contro Augusto)18, e della omo- nima moglie di Mecenate, essa stessa probabile moglie di un membro della famiglia del cavaliere M. Seius, che avrebbe praticato con successo la pastio villatica nella sua villa del suburbio ostiense19. Anche se la nostra Terentia A. f. non potesse essere identificata con la clarissima femina di Volsinii, a quel gruppo familiare è possibile che appartenga e di quello abbia il rango [anche se non è entrata nel recente repertorio PIR2 T del 2009]20, mentre il legame tra Terentii e Seii potrebbe aiutare a meglio comprendere il radicamen- to nel territorio della colonia, radicamento che certo non le derivava dal marito Cluvius. Faccio osservare, a tal proposito, il diverso uso che viene fatto del gamonimico nelle iscrizioni di Octavia e di Terentia: mentre Octavia utilizza il cognome del marito, identi- ficante nella comunità ostiense,Terentia usa come elemento qualificante il gentilizio del marito, che forse singolarmente era poco evocativo. Il ramo dei Terentii, a cui apparte- neva la matrona, doveva avere posto radici nel milieu ostiense, non solo per la presenza di un liberto degli A. Terentii che tra il 30 ed il 20 a.C. rifà con altri il pavimento in

16 PIR2, T 102. 17 CIL, XI 7285 = ILS 8996 = AEp 1904, 37 = 1983, 398 = 1998, 86 (su Cosconia Gallitta). 18 PIR2, T 96. 19 Nicolet 1974, II, 1016-1017, nr. 317. Sulla presenza dei Seii ad Ostia in età tardo repub- blicana va segnalata la presenza in una delle tombe della necropoli di Porta Romana di una defixio con i nomi di alcune schiave ornatrices dei Seii: CIL, XIV 5306, su cui vd. anche Kolb - Campe- delli 2005, 137. L. Seii, tutti liberti, sono magistri primi del culto dei Lares Augusti, istituito ad Ostia verso la metà del I secolo: AEp 1964, 151-156 (= Bloch 1962, 211-223). 20 Ma cf. Brouwer 1989, 276, nr. 5, secondo cui Terentia apparterrebbe alla plebs ingenua.

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mosaico di uno dei Quattro Tempietti21, come ha ricordato Zevi, ma anche perché, nello stesso periodo, un altro liberto, A. Terentius A. l. Nicomedes, compare con altri liberti C. Iulii in una tomba della necropoli di Porta Laurentina22, ed un gruppo di liberti degli A. Terentii è proprietario di una tomba di cui dà notizia un’iscrizione reimpiegata nella vicina necropoli di Pianabella23. Se la scelta di Octavia di intervenire nel santuario di Bona Dea è stata proiettata sullo sfondo del contrasto tra Cicerone e Clodio, nella decisione di Terentia è stato invece visto, nel mutato clima che segue la fine delle guerre civili, unaimitatio Liviae: la moglie del principe, a dire di Ovidio, avrebbe restaurato il tempio subsaxano della Bona Dea, erede in questo della fondatrice, la vestale Claudia24. Ma di imitatio Liviae per Terentia si è parlato anche a proposito di altri due documenti: la lastra di rivestimento in mar- mo, posta in origine sopra uno degli ingressi a ricordo della costruzione di cryptam et calchidicum fatti fare dalla donna a proprie spese e su un terreno privato25 e il frammentario decreto decurionale che alla data del 12 gennaio del 6 d.C. menziona le cerimonie inaugurali del complesso26.

Figura 3

Già Zevi, nel più volte citato contributo del 1997, accostava il complesso ostiense al quasi contemporaneo edificio fatto costruire daEumachia a Pompei ed entrambi alla porticus Liviae dedicata nel 7 a.C. sull’Esquilino27, parlando espressamente di «osten-

21 CIL, XIV 4134. 22 Calza 1938, 62, nr. 22 (cf. AEp 1939, 147), ripresa in Barbieri 1958, 150 (dalla tomba 17 + 22: blocco in travertino). 23 Nuzzo 1999, 64-65, nr. A93, con foto (cf. AEp 2001, 704). Da valutare è anche la presenza di un A. Terentius in CIL, XIV 1757 in travertino. 24 Ov. fast. V 149-158. 25 Licordari 1984, 350, nr. 4 (cf. AEp 2005, 301). 26 Licordari 1984, 350-351, nr. 5; Manacorda 2005, 37-54, cf. AEp 2005, 303. 27 La porticus Liviae fu eretta da Augusto in nome di sua moglie e dedicata da Tiberio insieme con la madre Livia nel gennaio del 7 a.C. (D.C. LV 8, 2). Il recinto rettangolare posto al centro del complesso è stato da alcuni identificato con laaedes Concordiae, che Livia avrebbe fatto co- struire per celebrare la sua felice vita matrimoniale con Augusto (Ov. fast. VI 637-638): Bou- dreau Flory 1984, 310.

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tazione del consenso al regime augusteo»28. Non entro nel merito della interpretazio- ne del valore funzionale della crypta et calchidicum di Terentia. Mi limito ad osservare che la donna, pur costruendo solo suo e pecunia sua ha avuto bisogno sia di un decreto dell’ordo locale, sia di un pronunciamento del senato di Roma, ex s(enatus) c(onsulto)29, fatto tanto più notevole in quanto almeno nei casi di evergetismo civico testimoniato da iscrizioni repubblicane, non si registrano interventi del senato romano per autorizzare costruzioni fatte con denaro privato30. C’è allora da chiedersi se tale intervento non si possa giustificare in ragione dell’utilizzo che si intendeva fare della costruzione31. Già in altra occasione Silvio Panciera ha ricordato come solo in caso di consecratio di un luogo fosse richiesto il pronunciamento del senato di Roma32: ritengo che tale osserva- zione non debba essere dimenticata nella ricerca del significato da dare in questo caso alla espressione crypta et calchidicum. Non vorrei tuttavia che la lettura in chiave femminile del dato epigrafico assuma un valore errato. Per questa ragione ritengo che, almeno per quanto riguarda Octavia, il suo atto evergetico debba essere confrontato con quanto sappiamo dell’evergetismo civico nelle iscrizioni latine di età repubblicana: lo studio di Panciera, presentato nel colloquio di Nîmes del 1992 e pubblicato nel 1997, ci porta a dire che Octavia appartiene alla mi- noranza delle 10 donne evergeti note dalle iscrizioni per l’età repubblicana contro 472 uomini, mentre, al contrario, l’intervento praticato non solo rientra nella tipologia più attestata epigraficamente (quella degli ‘edifici, doni, arredi sacri’), ma anche nella sola in cui risultino coinvolte le donne note33. Già con Terentia, il quadro cambia: il modello costituito dalla domus imperiale, non

28 Zevi 1997, 448-452 (la citazione è a p. 449). L’A. torna sul tema in Zevi 2004, 19-22, dove aggiunge il confronto con Paestum: Torelli 1996, 153-178. Su Eumachia, Terentia, ma anche Baebia Bassilla a Velleia (CIL, XI 1189) vd. Cenerini 2006, 275-286. 29 Cébeillac-Gervasoni 1997, 311-312 sull’uso del termine senatus. Fausto Zevi ha accennato all’ipotesi che ex s.c. potesse fare riferimento ad una sorta di «legge quadro» e non ad un provvedimento ad hoc per Terentia. 30 Vd. Panciera 1997, 249-282, part. tav. X a p. 279 [ora ripreso in Panciera 2006, I, 53-82]. 31 L’utilizzo, come sappiamo, è assai discusso, anche alla luce di altre strutture con cui viene paragonato: mercato (stoffe, schiavi?) e/o luogo di culto. In particolare il complessoporticus , calchidicum, crypta di Eumachia, a Pompei (CIL, X 810 = ILS 3785) viene dedicato dalla donna nel suo ruolo di sacerdos publica; agisce in proprio e a nome del figlio; intervienesua pecunia; de- dica a Concordia Augusta e a Pietas. Sulla questione vd. Cébeillac-Gervasoni 1997, 311-312; Manacorda 2005, 37-54; Steuernagel 2004, 73; Fentress 2005, 231-232; Pensabene 2007, 300-315. 32 De Francisci 1926, I, 272. 33 Panciera 1997, 249-290, part. 262 e n. 51. I risultati di tale contributo andranno con- frontati con quelli che emergono invece dallo spoglio delle fonti letterarie, non sempre uguali: vd. Virlouvet 1997, 227-248.

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necessariamente dalle Augustae, sembra imporsi. Una Ag[rippina?], la figlia o piuttosto la moglie del console suffetto del 148 d.C.C. Fabius Agrippinus, viene onorata per de- creto dei decurioni e con il consenso del popolo poiché ella aveva lasciato per testamento una somma di 1.000.000 di sesterzi affinché con gli interessi di questa fossero mantenute 100 puellae alimentariae, fossero celebrati ludi annuali in memoria di Aemilia Agrippi- na, una sua stretta parente [sua madre o sua nonna], fossero offerti banchetti ai decurio- ni tre volte l’anno 34.

Figura 4

Lascio ad altra sede la questione della esatta restituzione del nome della donna e della ricostruzione dei legami con i personaggi delle rr. 3 e 11. Se l’indicazione della somma complessiva è piuttosto certa (alla r. 6, prima di centena, è visibile parte del tratto obli- quo di una X)35, è invece ignoto quanto di questa somma fosse destinato alle fanciulle, secondo quale periodicità e per quanto tempo36. Ciò che colpisce nel nostro caso è però

34 CIL, XIV 350 = 4450; Magioncalda 1994, 105-109, nr. 10; Cao 2010, 210-214, tav. 4, figg. 1-3. Sulla donna vd. anche Herzig 1983, 83; Cenerini 2012, 171-186, part. 174-175, 185. 35 Duncan-Jones 1982, 235 ad nr. 1078a, ipotizzando un tasso d’interesse del 5%, valuta che il capitale dovesse rendere annualmente 50.000 sesterzi. 36 Cf. invece i casi di Caelia Macrina e P. Licinius Papirianus. La prima, a Terracina, nella seconda metà del II secolo, istituisce una fondazione alimentare in memoria del figlio, desti- nando alla comunità 1.000.000 di sesterzi (come nel nostro caso), affinché, con gli interessi sul

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il fatto che a beneficiare della fondazione fossero solo lepuellae (è l’unico caso noto). A tal proposito già Wickert aveva opportunamente chiamato in causa il confronto con le puellae Faustinianae, istituite da Antonino Pio in memoria della moglie, Faustina Maior, morta alla fine d’ottobre del 140 e quello stesso giorno divinizzata37, più tardi replicate da Marco Aurelio in memoria della moglie, Faustina Minor, morta nel 17638. Se non conosciamo la reazione degli ostiensi alla notizia della morte di Faustina Minor, siamo invece informati di quanto la comunità dovesse ‘ostentare’ di essere toccata per la morte di Faustina Maior: l’evento è registrato nei Fasti locali39 e di lì a breve l’ordo decurionum dovette votare la realizzazione della cosiddetta ara Concordiae, in nome di Antonino e della diva Faustina, dove i fidanzati, futuri sposi, avrebbero rivolto una sup- plica alla coppia imperiale, modello di tutte le coppie40. Come già nel caso di Octavia, anche nel caso di Ag[rippina?] dobbiamo immagi- nare una ‘consuetudine’ evergetica di famiglia: mentre il padre o piuttosto il marito, in qualità di patronus coloniae41, avrà offerto benefici alla città, così la donna con la sua fondazione alimentare privata contribuiva a colmare dei vuoti che gli alimenta pubblici lasciavano. Certo la donna non si limita a questo: istituisce ludi annuali (suscettibili

capitale, venissero nutriti mensilmente 100 pueri e 100 puellae, dando ai primi 5 denarii fino al compimento del sedicesimo anno d’età, alle seconde 4 denarii fino al compimento del quattor- dicesimo anno (CIL, X 6328 = ILS 6278 = FIRA, III, 55d = Magioncalda 1995, 333-341). Il secondo, a Sicca Veneria nella Proconsolare, intorno al 175/180 d.C., istituisce una fondazione alimentare, destinando alla comunità 1.300.000 sesterzi, affinché, con gli interessi sul capitale, venissero nutriti mensilmente 300 pueri e 300 puellae, dando ai primi 2,5 denarii dai 3 fino ai 15 anni, alle seconde 2 denarii dai 3 ai 13 anni (CIL, VIII 1641 = ILS 6818 = FIRA, III 55b; Chri- stol - Magioncalda 1991, 312-330; Magioncalda 1994, 61-70, nr. 6; Magioncalda 1995, 341-346). 37 SHA, V. P i i VIII 1: puellas alimentarias in honorem Faustinae Faustinianas constituit. Cf. SHA, Sev. Alex. LVII 7. Si vedano anche le emissioni monetali, databili al 141 d.C., che recano nel verso la legenda puellae Faustin(ianae): RIC, III, nrr. 397, 398a, 398b. 38 SHA, V. Marci XXVI. 6: Novas puellas Faustinianas instituit in honorem uxoris mortuae; D.C. LXXII 31, 1. Diversamente Severo Alessandro aveva istituito fondazioni alimentari per fanciulle e fanciulli: SHA, Sev. Alex. LVII 7 (puellas et pueros, quemammodum Antoninus Faustinianas instituerat, Mammaeanas et Mammaeanos instituit). 39 Vidman 19822, 49-50 [fr. Oa + Ob + Oc + Od + Oe]; Bargagli-Grosso 1997, 45 [fr. Oa + Ob + Oc + Od + Oe]: X[-̣ - - k(alendas) Nov(embres) Fausti]na Aug[̣ usta excessit eo- demq(ue) die a] / senatu diva app[ellata et s(enatus) c(onsultum) fact]um fun[̣ ere censorio eam efferendam]. / Ludi et circenses [delati sunt. - - - i]dus N[ov(embres) Faustina Augusta funere] / censorio elata e[st, - - -? statuae aureae atq(ue) argenteae positae, s(enatus) c(onsultum)] / de puellis Faus[tinianis factum]. 40 CIL, XIV 5326; Marinucci 1992, 174-175, nr. C 24, con foto. 41 CIL, XIV 182 e CIL, X 525.

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quindi di essere inseriti nel calendario locale) in memoria di un’altra donna e per tre volte all’anno dispone che vengano offerti banchetti ai decurioni. Spettacoli e banchetti sono forme di munificenza comuni nelle fondazioni testamentarie; nondimeno, non si può non osservare che nel citato frammento dei Fasti Ostienses in cui si ricordano le misure prese per celebrare la morte di Faustina Maior ci siano anche i ludi. Se in tutti questi casi è possibile rintracciare un preciso modello nella scelta della forma di evergetismo adottata da alcune matrone ostiensi, in altri casi non siamo invece neanche in grado di dire quali benefici ricevuti siano alla base di onori decretati ad alcu- ne di esse (se benefici vi furono). Sono questi i casi di Ummidia Quadratilla, Plaria Vera ed Egrilia Plaria. Una Ummidia Quadratilla viene citata in un frammento dei Fasti Ostiensi relativo all’anno 115, in relazione con un Q. Asinius Marcellus consularis [- - -], secondo una ipotesi di Vidman42. Nella donna si è riconosciuta la nipote (neptem) della più nota omonima matrona di Cassino, morta quasi ottuagenaria nel 107 d.C.43. Quanto al moti- vo per il quale la donna sarebbe stata menzionata nei Fasti, Vidman aveva pensato ad un matrimonio che avesse lasciato un ricordo nella città (r. 8: [facta uxo]r)44 o ad un onore decretato alla donna (rr. 6-8: Um[midiae] / [Quadratillae] Q. Asini Marcelli consular(is) / [ux(ori) statua dec]r(eta) vel [elata fu]/[nere censo]r(io)45. In entrambi i casi, tuttavia,

42 Vidman 19822, 48, con foto [fr. Ka + Kb + Kc]; Bargagli-Grosso 1997, 40 [fr. Ka + Kb + Kc] = EDR121643 con foto: [- - - k(alend-)] Ian(uari-) Umm[idia] / [Quadratilla] Q. Asini Mar[celli] consular[is - - -] / [- - -]r. 43 PFOS 828, per la Ummidia Quadratilla citata nei FO; PIR, V 606 e PFOS 829 (stemma XXV) per la matrona cassinate, a cui occorre aggiungere Raepsaet-Charlier 1993, 267 add.: tra le fonti a lei relative vengono citate CIL, VI 28526 (sua verna); X 5183 e AEp 1946, 174 (da Cassino); XV 7567 (fistula urbana di controversa origine: vd. Granino Cecere - Ram- pichini 2012, 322, nr. VI. 26); Plin. nat. VII 24 (da cui apprendiamo che habebat pantomimos fovebatque effusius quam principi feminae conveniret; che morì quasi ottuagenaria; che lasciò la sua eredità a due nipoti); due iscrizioni segnalate come inedite da Licordari 1982, 26. Deve trattarsi delle due iscrizioni pubblicate successivamente da Leone 1982-83, 129-130, nr. 41, tav. LXXII, 41, cf. AEp 1985, 189: Dis̀ Manibus. / Dionysius / Ûmmidiae Quadratilla[e], / actoris (!), sibi et Primae coniu[̣ gi] / suae posterisque suis; Barbieri 1982-83, 160-161, nr. 109, tav. LXXX, 109, cf. AEp 1985, 255: D(is) M(anibus). / C. Ummidiu[s A]nicetus / fecit sibi et / Ummidiae [Ac?]te / libertae idem c[o]niugi / et lib(ertis) libertabusque suis / posterisque eorum. 44 Nei FO è ricordato un solo altro matrimonio: a. 145 Annia Faustina M. Aurelio Caesari nupsit. 45 Vidman 19822, 112-113. Poche sono le donne ricordate nei Fasti Ostienses e tutte appartenenti alla domus Augusta. In genere se ne ricorda la morte. Così per [Apicata], Seiani (scil. uxor), se l’integrazione è corretta, e per Iunilla, figlia di Seiano nell’a. 31 d.C.; perAntonia nel 37; per Drusilla nel 38; per Marciana nel 112; per Faustina nel 140; per Cornificia, sorella di M. Aurelio nel 152. Tuttavia per Faustina si ricordano anche la dedica di statue e l’istituzione di puellae Faustinianae e per Annia Faustina si ricorda la nascita di una figlia nel 147 e di un figlio nel 152,

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l’accento viene posto su Q. Asinius Marcellus, altrimenti attestato ad Ostia, e sulla rile- vanza che avrebbe avuto per la colonia il matrimonio di un rampollo di questa famiglia patrizia.

Figura 5 Personalmente non sottovaluterei anche la menzione di Ummidia Quadratilla e del- la sua famiglia: se si può discutere della pertinenza ad Ostia di due iscrizioni della col- lezione Iaia, citate da Licordari in un contributo del 198246, non è invece in discussione l’origine ostiense di un terzo documento, attualmente inedito, di cui poco correttamen- te dà notizia Manfred Clauss nella sua banca dati, in cui, se l’integrazione è corretta, si potrebbe vedere un actor della donna o della sua antenata47, segno comunque della presenza della famiglia nella colonia.

mentre nel 164 abbiamo, in un contesto molto lacunoso, una dedica, di non si sa cosa, alla diva Faustina. Di recente, Zevi 2010, 213-215 ha proposto di identificare nelQ. Asinius Marcellus consularis [- - -] non il console degli inizi del II secolo, noto da CIL, XIV 4447, ma il figlio omonimo di questi, che sarebbe attestato da CIL, XIV 4448, ed ha avanzato la seguente integrazione: Um[midia? Quadratilla?] Q. Asini Marcelli consular(is) [f(ili), p(atroni) c(oloniae) etc.]. 46 Si tratta delle due iscrizioni cui l’A. fa riferimento in Licordari 1982, 26, qui citate a nota 43. Come è noto, queste iscrizioni appartengono al gruppo delle 170 epigrafi appartenute al Dr. Iaia, medico condotto di Ostia Antica, in gran parte provenienti dall’acquisto di una raccolta del conte Orlando, poi sequestrate dalla Guardia di Finanza ed affidate alla custodia della ex Soprin- tendenza Archeologica di Ostia (vd. Barbieri 1982-83, 105). La pertinenza di queste è contesa tra Ostia e Roma e in molti casi è obiettivamente difficile decidere. 47 L’iscrizione (inv. 11758, conservata nella via Tecta, un magazzino chiuso al pubblico) è contrassegnata, nella banca dati di Manfred Clauss, dalla ingressatura EDCS292 e di essa viene fornita anche una foto dell’autore: [Di]s Man(ibus) / [- - -]andae vernae / [su]ae fecit / [Res]titutus / [Ummid?]iae Quadratillae / [a]ct(or); / [quae v]ixit annis IIII, / [dieb]us XVI. L’iscrizione è attualmente in corso di pubblicazione da parte di F. Marini Recchia, nel quadro della edizione delle iscrizioni sepolcrali di Ostia, sotto la direzione di M. Cébeillac-Gervasoni e F. Zevi. A r. 5 è ovviamente possibile anche l’integrazione [Asin?]iae, che, però, è forse troppo breve.

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Ma tornando al lacunoso passo dei Fasti Ostienses, se di onori alla donna si è trattato, ci si dovrà interrogare se dietro questi non sia da ricercare un atto evergetico della medesima nei confronti della città. Parimenti c’è da chiedersi se dietro gli onori concessi dalla colonia alla contemporanea Plaria Vera48 sia un qualche beneficio a vantaggio della città o un semplice omaggio alla donna che aveva innalzato al rango senatorio la locale famiglia degli Egrilii49. Non si dimentichi che sia da CIL, XIV 5346 sia da CIL, XIV 399 [trovata nella via dei Sepolcri e di probabile carattere funerario] la donna risulta essere stata flamini- ca divae Augustae50: l’elezione alla carica prevedeva una summa honoraria e la base con sta- tua considerata potrebbe essere una forma di ringraziamento della comunità per il modo in cui questa era stata spesa. Analoghe considerazioni andranno fatte per la discendente di Plaria Vera, la nipote Egrilia Plaria51 : anche in questo caso è possibile che la donna venga onorata in quanto figlia diM. Acilius Priscus Egrilius Plarianus, patrono della colonia e degli iuvenes, come si dice esplicitamente nella iscrizione52, ma non è escluso che la donna possa aver fatto qualcosa per gli iuvenes medesimi.

Figura 6

48 Tutta la documentazione a lei relativa viene da Ostia: CIL, XIV 399; 5346; 4446 + inv. 7503 = Zevi 1970, 291-293, nr. 3. 49 Su questo punto vd. Bloch 1953, 262-264; Zevi 1970, 290-293; PFOS 612 (stemma XLIII); PIR2 P 447; Herzig 1983, 84-85. Plaria Vera avrebbe sposato A. Egrilius Rufus, eques Romanus. 50 Granino Cecere 2014, 75-78, nr. 10. 51 Zevi 1970, 293-295, nr. 4: (cf. AEp 1969-70, 87b). Su di lei vd. PFOS 341 (stemma XLIII); Herzig 1983, 84. 52 Anche lui, peraltro, evergete, come risulta da CIL, XIV 4443.

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Una ipotesi di questo tipo è stata formulata a proposito di Q. Asinius Marcellus dell’iscrizione CIL, XIV 4448, che con la nostra ha numerosi punti in comune53: qui la dedica degli iuv[enes de]curionum / q[ui Ostia]e ludunt è stata motivata in quanto il giovane Marcellus, che era [patro]nus dell’associazione, potrebbe aver partecipato al lusus iuvenalis, ponendosi alla testa dello squadrone54. Nel caso della iscrizione di Egrilia Plaria, dove pure alle rr. 7-9 sono possibili le integrazioni [iuvenes decurion(um)] / [qui Ostiae ludunt] / pub[l(ice) posueru]nt o [iuvenes decurion(um)] / [patronae d(ecurionum) d(ecreto)] / pub[l(ice) posueru]nt, la ragione della dedica potrebbe ricercarsi nel patrona- to della associazione55 o nella cura di una specifica edizione56. Come premesso, che dietro gli onori resi a Ummidia Quadratilla – se ve ne furo- no –, a Plaria Vera e ad Egrilia Plaria ci siano atti evergetici compiuti dalle donne è una mera ipotesi. Qualora così fosse, Ummidia Quadratilla, Plaria Vera, Egrilia Plaria ma anche Ag[rippina] e prima di lei Octavia e Terentia dovrebbero comunque essere inserite nel più ampio dibattito che vuole da una parte le donne inseparabili dal loro strato sociale o dalla loro famiglia di appartenenza, dall’altra quali attori dell’azione da considerare separatamente, anche se è indubbio che tanto in un caso quanto nell’altro abbiano contribuito alla vita civica. La munificenza diTerentia in piena età augustea ha per oggetto costruzioni pubbliche, in un caso certamente, in un altro probabilmente di carattere religioso, vale a dire la forma di evergesia femminile più attestata in uno dei periodi meglio documentati. La munificenza diAg [rippina?] invece in un caso si appunta sulla forma meno diffusa di evergesia femminile (quella deglialimenta ), nel caso dei ludi e dei banchetti nella forma più documentata dopo quella relativa alle co- struzioni pubbliche. Difficile dire cosa potrebbero aver fattoUmmidia Quadratilla e

53 Zevi 1970, 295: «.. ha molte affinità, non solo nelle formule impiegate, ma anche nella grandezza, nel tipo della cornice, nella forma delle lettere». Sull’iscrizione vd. anche EAOR, IV, nr. 41. 54 Zevi 2010, 215. 55 Così sembra interpretare Jaczynowska 1978, 46, n. 138 con rimando ad App. 7; come tale non è però inserita nell’elenco dei patroni alle pp. 112-113. Un solo caso certo di patronato femminile sulle associazioni di iuvenes è noto a Tibur (AEp 1956, 77 = 1958, 177: M(arciae) Ul- piae M. f. / Sossiae Calli/gonae stola/[t]ae matronae / [so]dalicium iuve/[nu]m Herculano/[rum] patronae); fine II - inizio III. Sull’iscrizione vd. Granino Cecere 2005, 155-161, in cui la stu- diosa suppone una origine orientale della donna, in base all’onomastica e all’uso dell’espressione stolata matrona, e un rango equestre della famiglia; ipotizza il peso della ginnasiarchia affidata a donne). Cf. anche, sempre a Tibur, CIL, XIV 3638, una dedica della comunità locale e degli iuvenes Antoniniani Herculani ad una donna, Aelia [- - -?] / Tranquill[- - -], moglie o figlia diM. Festus [- - -], a memoria di Caracalla (ma vd. Granino Cecere 2005, 155 n. 29, che interpreta diversamente). 56 Inclina verso questa ipotesi Cébeillac-Gervasoni 2010, 289-290 nel commento ad AEp 1977, 153.

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Plaria Vera. Nel caso della prima mi limito a far osservare la singolare coincidenza che il C. Ummidiu[s A]nicetus, attestato in AEp 1985, 255, forse da Ostia, ha lo stesso nome di C. Ummidius Actius Anicetus, pantomimo noto da un’iscrizione di Puteoli57, unani- mamente considerato uno degli attori del grex appartenuto alla matrona cassinate58. La nipote omonima dei Fasti Ostienses – se qualcosa ha fatto ‒ avrebbe potuto dare spetta- coli nel teatro della colonia, attingendo a quel vivaio. Ad ogni modo, nel caso di Octavia e di Terentia, i loro nomi, incisi in iscrizioni poste direttamente sulle opere da loro stesse finanziate, avrebbero dovuto fissare e perpetuare nel tempo la memoria del loro atto evergetico: per Octavia non fu così (la sua iscrizione era stata già rimossa una generazione più tardi); maggiore fortuna ebbe l’altra donna, poiché di una crypta Terentiana restaurata si parla nei fasti della colonia circa un seco- lo più tardi59. Nel caso di Ag[rippina] è la comunità ostiense che contribuisce a con- servare memoria della generosità della donna, erigendole una statua: già ella, tuttavia, aveva operato in questo senso, istituendo una fondazione che avrebbe dovuto incidere pesantemente e in vario modo sulla vita cittadina. Se la giovane Ummidia Quadratilla abbia fatto qualcosa e cosa o addirittura sia stata onorata, come si è visto, è mera ipotesi. Quanto a Plaria Vera e ad Egrilia Plaria è indubbio che siano state onorate con basi e statue: se, soprattutto nel caso della prima che era stata flaminica divae Augustae, per ringraziarle di benefici ricevuti o, senza apparente ragione, per onorare il gruppo fami- liare, resta questione aperta. In ogni caso, la città, associando il nome della matrona con quello della comunità locale, ne avrà tratto prestigio e avrà garbatamente incoraggiato un atto di generosità. Per nessuna di loro, tranne per Plaria Vera, conosciamo specifici ruoli pubblici (sacerdotesse, patrone o matres delle città o di collegia). Tutte, nondime- no, ‒ anche se per alcune è solo una ipotesi ‒ hanno approfittato della possibilità che le ricchezze e il rango concedevano loro per incidere nel ‘pubblico’ lasciando una traccia di sé, più o meno duratura, in un ambiente – quello delle realtà locali – in cui le donne del loro rango potevano permettersi di fare anche quello che a Roma da Augusto in poi, tranne alle donne della domus imperiale, era loro negato60.

57 CIL, X 1946 = ILS 5183 (Pozzuoli): C. Ummidius / Actius / Anicetus / pantomimus. 58 Leppin 1992, 191-192. 59 FO, fram. Fb d., anno 94 d.C. (non ci dimentichiamo che un L. Terentius Tertius è duovir nel 92 d.C.). 60 Per altri confronti vd. Hemelrijk 2012, 478-490.

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Sub specie dearum. Su alcuni tipi statuari femminili nella Cisalpina romana

Come noto, durante il regno di Augusto si avvia un attento quanto intenso processo di standardizzazione di formule iconografiche per la rappresentazione del nuovo potere: le immagini concorrono a definire un vero e proprio ‘sistema seman- tico’1, che diventa un ‘repertorio’, cui da subito attingono anche le élites locali per la propria auto-rappresentazione. La manipolazione dei paradigmi divini ed eroici da parte della propaganda2 imperiale da un lato, dall’altro le condizioni generali di benessere portano a una diffusione ‘ecumenica’ di statue iconiche. Al di là delle differenze stilistiche all’in- terno di serie che – pur mantenendosi scrupolosamente nel tempo – sono via via reinterpretate nello Zeitstil del periodo in cui ad esse si fa ricorso, è proprio il ‘tipo’ che realizza l’evidenza del messaggio che si vuole proporre, così da parte del potere centrale come delle élites. Ci si occuperà qui di tipi femminili che hanno una buona diffusione in Cisal- pina durante la prima età imperiale e che traggono i propri modelli da creazioni

1 Hölscher 1993; Polito 2012, 339-345. 2 Polito 2012, 339 mette in guardia dal rischio di trasporre all’antico categorie mo- derne come quella di propaganda, pur rendendo merito alle indagini degli anni ’80 e se- guenti di aver ricostruito «un sistema di creazione delle immagini e dei monumenti dalla forte connotazione ideologica, basata sul cosciente utilizzo di tipi architettonici e deco- rativi, iconografie e stili, con tutto il loro portato storico sostanzialmente intatto». Allo stesso modo egli nota (340) come un’ampia corrente di studi abbia posto in secondo piano l’aspetto politico-ideologico dell’arte romana, privilegiando la prospettiva della fruizione e della funzione delle immagini nei contesti di vita. Tonio Hölscher ha proposto recente- mente (Hölscher 2015) di interpretare l’universo figurativo di età augustea come una sorta di sistema chiuso, capace di esprimere pressoché esclusivamente valori etici basilari (pietas, gravitas, dignitas, … ) sfruttando un rigido repertorio di immagini dai significati ‘pre-caricati’; nella scelta di modelli classici non vi sarebbe nessun concreto riferimento al periodo classico in quanto tale, ma solo al complesso di valori ormai stabilmente collegato alle varie forma e iconografie. Sul problema dell’interpretazione antica delle opere d’arte nella critica moderna si veda Bravi 2012, in particolare là (18 ss.) dove si discute la teoria del decorum di Hölscher: le opere esposte negli spazi pubblici non sono ‘oggetti museali’, ma elementi che assumono significati propri della comunicazione sociale, che quotidiana- mente si realizzava nei luoghi e negli spazi più frequentati di Roma e delle città romane.

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tardo-classiche, quali la Themis di Ramnunte3, la statua Agora S 23704, l’Artemisia di Alicarnasso5, la cosiddetta Kore di Prassitele6. Occorre una considerazione preliminare. La pax augusta aveva portato con sé l’idea di fecondità e pienezza della natura e dell’uomo, della sua vita in particolare. E le im- magini che a questa idea si riferiscono sembrano rientrare tutte in una sorta di aura di sacralità (anche quando non si voglia esprimere un inequivocabile concetto di divinità, ma più semplicemente un ‘valore’, una virtù, una forza naturale): esse risultano creazioni eclettiche sul piano della forma, polivalenti sul piano dei contenuti. Diventa così diffi- cile, spesso, riconoscere incontestabilmente una Venere da una Diana, una Pace da una Fortuna, una Italia da una Terra, ecc., se non per la presenza di un attributo preciso; ma a volte l’accumulo di segni e attributi arriva a complicare ancora l’identificazione, fuori da un contesto ben definito e – quello sì – chiarificante. Come suggerisce Zanker7, il motivo mitologico ha ormai la funzione principale di sottolineare virtù e legami simbolici, non quella – propria dell’età ellenistica – di mani- festare sensibilmente qualità divine (del sovrano). Sarebbe pertanto da rifiutare l’idea8 secondo cui le statue di Livia che riprendono tipi divini, ad esempio, esprimano tout court una posizione soprannaturale e sovrumana del sovrano e della sua famiglia (Livia tra l’altro diventa diva solo nel 42 d.C.). Per riprendere ancora Zanker, la stessa ‘sigla di Giove’ per Augusto rappresenterebbe una immagine allegorica del potere universale del princeps, un potere legittimo e definitivo, come quello del padre degli dei; Augusto vuole essere il rappresentante degli dei in terra, il garante dell’ordine. Da tutto ciò deriva la possibilità che queste iconografie (tranne ovviamente loJupi - terkostüm9 nelle sue declinazioni) siano utilizzate anche da personaggi non strettamente della famiglia imperiale né della corte, ma appunto appartenenti alle élites urbane e, progressivamente, provinciali, per le quali il princeps e la sua cerchia rappresentano il modello par excellence; l’imitazione fisionomica dei ritratti di corte addirittura arriva al punto di rendere in taluni casi impossibile riconoscere il rappresentato o la rappresenta- ta, se non attraverso un’epigrafe, quando la si possegga. Nel ‘sistema semantico’ di Hölscher si viene a creare una vera e propria de-storicizza- zione delle forme stilistiche greche, dei modelli greci, a favore appunto di un sistema di

3 Fuchs 1982, 193-195; Becatti 1987, 320-321; Todisco 1993, 137-139; Moreno 1994, 169-172. 4 Palagia 1982, 100-113; Saletti 2004, 5-13. 5 Wayw e l l 1978, 21 ss., 70-72; Künstlerlexicon 2001, 131 ss.; Lucchese 2009, 32 ss. 6 Kabus-Jahn 1963; Saletti 2002, 215-222. 7 Zanker 1987, 248 ss. 8 Mikocki 1995, 18. 9 Balty 2007, 49-73. Si veda anche Maggi 2014, c.s. (oltre al precedente Maggi 1990, 63-76).

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tipi carichi di significati, comunque flessibile, incentrato su principi etici, in cui «i valori astratti sono la vera zona di contatto tra tema rappresentato e forma visiva»10. Con tutto ciò, avendo come scopo la comunicazione di un messaggio, la standardiz- zazione, l’omologazione, l’assenza di creatività, la mancanza di diversificazione formale – anche quando sia effettivamente presente11 – possono rivelarsi un punto di forza. Così l’assimilazione di Livia a Demetra/Cerere, ben illustrata a livello epigrafico, numismatico, scultoreo12, sembra avere un ruolo essenziale nella propaganda imperia- le (come sarà per la maggioranza delle successive imperatrici). Più raramente Livia è assimilata a Artemide/Diana o a Afrodite/Venere; compare pure nelle vesti di Tyche/ Fortuna; in funzione della posizione del suo sposo può essere Era/Giunone. E così sarà anche per Giulia, Antonia Minore, Livilla, Agrippina Maggiore, Agrippina Minore, ecc. Un interessante caso di contaminazione – tra il tipo Kore ‘Urania’ Vaticano-Conser- vatori e il tipo Demetra Uffizi-Doria – è rappresentato dalla nota statua di Velleia, nella quale Cesare Saletti ha riconosciuto Livia, mentre (quasi) tutta la critica tedesca e anglo- sassone insiste nel vedervi Drusilla, sorella di Caligola13. In questo caso la raffigurazione nella doppia veste di Kore e Demetra trova una perfetta corrispondenza nell’epigrafe, che ricorda Livia come figlia adottiva di Augusto e madre di Tiberio e Druso Maggiore. Questa assimilazione godette di grande popolarità sia in Oriente sia in Occidente per tutta la dinastia giulio-claudia; in relazione all’aspetto funerario di Kore, ebbe grande successo anche nella ritrattistica privata14. La Cisalpina conferma il dato, mostrando – se ancora ce ne fosse bisogno – il grande aggiornamento delle nostre terre rispetto ai

10 Hölscher 1993, 79. Cf. Polito 2012, 340: nella realtà, proprio un sistema così ‘intellettualistico’ di utilizzo delle immagini sembra garantire una competenza e dunque una piena comprensione degli strumenti usati da parte delle élites, ma anche dei ceti medi. Che l’obiettivo di un monumento come l’ Ara Pacis o il Foro di Augusto (ma possiamo aggiungere la statua di Augusto di Prima Porta; e, prima ancora, il ‘Generale di Tivoli’) sia trasmettere contenuti romani a un pubblico romano (forse sarebbe meglio dire ‘romanizzato’, anche) è fuori di dubbio. Ma il modo con cui questi messaggi erano costruiti, il meccanismo evocativo innescato con l’utilizzo di forme e immagini ben pre- cise, di ascendenza classica, dunque classicistiche, non poteva che essere ben chiaro in termini storici e ideologici a chi lo applicava (341). E’ chiaro (Mansuelli 1984, 1-11) che Augusto, quale committente di programmi ufficiali, sia stato mosso da una partecipazione culturale. Ma è altrettanto evidente che uno stile, il clas- sicismo, non possa esser stato imposto solo da una scelta, da un gusto personale, bensì debba rientrare in una adesione più vasta, da parte di coloro che quei programmi dovevano attuare (gli artisti) come ricevere (in primis le classi senatoria e equestre): cf. Maggi 2015 c.s. 11 Si consideri l’aspetto dell’eclettismo. 12 Mikocki 1995, 18-21. 13 Si veda Maggi 2008, 23-30. 14 Mikocki 1995, 94.

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messaggi propagandistici che il potere centrale diffonde verso le ‘periferie’, anche nei cosiddetti centri minori. La documentazione cisalpina presenta una dozzina di pezzi (più alcuni di collezione per i quali non sono disponibili dati di provenienza):

- quattro statue a Verona, rispettivamente da piazza del Duomo, datata generica- mente agli inizi del periodo giulio-claudio (tipo Themis)15; sulla fontana di piazza delle Erbe, probabilmente dal teatro, tiberiana (tipo Themis)16; forse da piazza del Duomo, claudia (tipo Orante/Themis)17; da piazza del Duomo, epoca claudia (tipo Orante/Themis)18;

- una statua a Genova, forse da Verona19, giulio-claudia (tipo ‘Demetra-Kore’)20;

- una statua a Aquileia, da Aquileia, età di Caligola (tipo Themis)21;

- una statua a Portogruaro, da Concordia, claudia (tipo Themis)22;

- una statua a Trieste, dall’area della cattedrale di Trieste, epoca tiberiano-claudia (tipo Themis-Artemisia)23;

- una statua a , da Vicenza (teatro Berga?), età giulio-claudia24;

- una statua a Pavia, da Pavia, limite est della città romana, età augustea25;

15 Denti 1991, 250-251 nr. 19, tav. LXXX, 1-2. 16 Denti 1991, 251-253 nr. 20, tav. LXXX, 3. Secondo la tradizione dal tempio capitolino; oggi si preferisce lasciar aperta la possibilità di una provenienza dal teatro: cfr. CafÁ 2014, 339. 17 Denti 1991, 256-258 nr. 23, tav. LXXXIII, 1-2. 18 Denti 1991, 258 nr. 24, tav. LXXXIII, 3-5. 19 Entrata nella collezione Varni, già di Negro; si veda Bettini - Giannattasio - Pastorino - Quartino 1998, 56-57 nr. 12. 20 Saletti 2002, 219 n. 50; Maggi 2008, 27. 21 Denti 1991, 97-99 nr. 24, tav. XXXVI, 2; Saletti 2004, 5 ss., fig. 1. 22 Denti 1991, 134-137 nr. 2, tav. XLV, 1, Livia divinizzata; Saletti 2004, 8 ss., fig.5, pro- pone un confronto con il pezzo aquileiese: in accordo con Denti per quanto riguarda la parentela tipologica, nega però la possibilità di riconoscervi Livia (ed evidenzia la diversità concettuale che sta alla base dei due pezzi, concordiese e aquileiese – nel primo vi è dinamismo di ascenden- za lisippea, notevole gioco di chiaroscuro, trattamento delle vesti differenziato: esso si rifà con maggior fedeltà al tipo Agorà S 2370-Kallipolis, vero modello per la più modesta Themis, con il risultato di un ellenismo vibrante e ritmato). 23 Denti 1991, 41-43 nr. 5, tav. VIII, 1-2; Verzár-Bass 2003, 51-53 nr. 5, tav. III, 8. 24 Denti 1991, 216-218 nr. 8, tav. LXIX, 1-2. 25 Saletti 1984, 317, 320-321. Cf. Maggi 2014, 59-65.

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- una statua a Parma, da Velleia, età tiberiana (Livia)26;

- una statua a Parma, dal teatro di Parma, epoca giulio-claudia27;

- vi sono inoltre una statua a Udine, forse da Zara, collezione Cernazai28, e una a Milano forse da Zara29.

Se è vero che il contenuto della comunicazione per immagini era prioritario, certo la forma aveva un ruolo importante. Nel caso in esame un velo di classicismo avvolge le immagini. Ma perché il classicismo? Cos’è il classicismo? E’ questo un tema tornato d’attualità con la mostra per il bimillenario augusteo30. Può essere utile rileggere alcune posizioni della critica, che già alcuni decenni or sono avevano cercato – con successo – di fare chiarezza sul tema, partendo dal luogo comune secondo il quale v’è quasi un’e- quazione di causa/effetto tra il classicismo e la produzione artistica negli anni del princi- pato augusteo31. Penso soprattutto alla lezione di Guido A. Mansuelli32. Per comprendere il classicismo augusteo occorre precisare cosa fosse stato in realtà il classicismo nella sua area naturale di sviluppo, la Grecia, e poi cosa fosse diventato a Roma, dove, dalla fine del III secolo a.C. si verifica l’importazione – non solo per sac- cheggio, ma per committenza – di prodotti artistici attici e, sincronicamente o quasi, la presenza – sempre per committenza – di artisti attici, prevalentemente scultori. Il carattere intellettualistico del classicismo è spiegabile fin dall’esame della lettera-

26 Saletti 1968, 23-26, tavv. I-II. Ancora recentemente Boschung 2002, 26, 28-34 nr. 2.8, vi riconosce Drusilla: la sua voce si inserisce dunque nella corrente critica che continua a credere nella identificazione con Livia del ritratto della statua di Drusilla (cfr. Smith, 2006, 199). Tut- tavia, anche a voler trascurare i dati del trovamento, le affinità tecniche e stilistiche della statua con l’Agrippina Maggiore (questa sì concordemente riconosciuta come tale!) e il Caligola/Clau- dio (anche questo pezzo fuori discussione!), l’incompatibilità dell’epigrafe di Livia con quelle di Agrippina Maggiore e di Drusilla, la collocazione della statua tra i familiari della domus e non tra gli Augusti, non sembrano comunque probanti i tentativi di riportare il ritratto nella serie di effigi di Livia: non vi è corrispondenza nelle serie numismatiche; la frangia non è mai documen- tata nel tipo ‘Mittelscheitelfrisur’ (solo nel tipo ‘Nodusfrisur’); l’aspetto dell’effigiata è partico- larmente giovanile; la presenza del diadema è problematica per un personaggio che all’epoca di Caligola non è ancora diva (mentre lo è Drusilla). Cf. Saletti 2002. 27 Saletti 1968, 128 n. 10; Fuchs 1987, 105, dwI2. 28 Denti 1991, 94 n. 185. 29 Camporini 1979, 53-54 nr. 42. In Filges 1997, sono riportate altre statue conservate in musei del nord Italia, di provenienza sconosciuta: a Venezia (nr. 40, 197), a Milano (nr. 169), a Trieste (nr. 171). 30 Augusto 2013. 31 Si veda Maggi 2015 c.s. 32 Mansuelli 1984, 1-11.

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tura artistica: assai indicativa è la testimonianza di Plinio, nat. XXXIV 52, il cui con- suntivo, che indica per l’arte un parametro valutativo evoluzionistico, porta fino alle estreme conseguenze della morte dell’arte (cessavit ars) e della sua resurrezione (revixit) in coincidenza appunto con l’affermarsi del classicismo attico. Con ciò di fatto si esclude il barocco, che ebbe in Asia nel regno di Pergamo il suo epicentro33. Ma il barocco è ‘ingombrante’34…. Il barocco può restar fuori da un piano teorico, in nome di un integralismo dottrinario, non dalla pratica artistica: per restare nel tema in questione, basta l’esempio della statua piacentina di Cleomene III – più tardi, in età cesariano-augustea – per documentare cosa fosse per gli operatori artistici attici classicistici la recezione del barocco. «E, se ben osserviamo, nemmeno la specie più sterilmente riproduttrice (almeno in teoria), quella dei copisti, si è poi veramente mossa sempre sui binari di una dipendenza pedissequa, senza concedersi qualche liber- tà di aggiornamento o di interpretazione, per la disperazione dei filologi delle copie» concludeva Mansuelli35. E ancora: «Sicchè dovremmo mettere in conto del classicismo attico una suscettibilità di aperture che consentissero all’arte di esso di vivere e non di annullarsi in una pura ripetizione delle forme e delle iconografie del passato»36. Insom- ma, così come il classicismo attico era stato suscettibile di aperture e novità ‘barocche’ a livello strutturale, anche a Roma il barocco aveva stabilito radici così profonde che il doppio versante, dottrinario e politico, classicista non era sufficiente a estirparlo. Nono- stante il rigore e la freddezza formale classicistica, la stessa Ara Pacis partecipa di concetti barocchi, è indiscutibile, e barocca è la statua di Prima Porta con la sua enfatica lorica, carica di simboli. E’ innegabile che questo eclettismo, pieno di interne contraddizioni, rifletta l’ecletti- smo e le contraddizioni del momento augusteo in generale, che sotto etichette ‘formali’ cercava di coprire fermenti non recepiti, contrasti solo attutiti, problemi irrisolti, nato com’era da una serie di equivoci e compromessi. Certo l’età di Augusto non ebbe grandi figurativi, uomini che per sensibilità fossero in grado di interpretazioni immediate37.

33 Mansuelli 1984, 3, il quale pure dichiarava che questo ‘barocco’ non fu creato senza il concorso di operatori artistici attici, ciò è a dire che la tradizione attica – attiva presso la corte pergamena – poteva ben generare forme barocche; e, in fondo, già Prassitele e Scopa si potevano definire (con estrapolazione di termini) ‘pre-barocchi’ (nota 18). 34 La definizione è ancora di Mansuelli 1984, 3. 35 Mansuelli 1984, 3. 36 Ibidem. 37 Polito 2012, 342 si chiede se – accanto al fecondo filone di studi sulla funzione e fruizio- ne delle immagini, sui Lebenswelten, ecc. – non possano ancora aver legittimità i più tradizionali tentativi di comprendere la concezione delle immagini come fatto intenzionale, prodotto di in- terazione tra artisti e committenti (e pubblico): la nostra risposta – come la sua – è affermativa.

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E il panorama offerto dalle statue iconiche femminili cisalpine – almeno per quel che riguarda gli esempi qui presentati – sembra mostrare una decisa prevalenza di un classi- cismo freddo e accademico, abbastanza lontano da contaminazioni barocche. Ciò avviene anche ad Aquileia – e in generale nella Venetia et Histria –, là dove nel II secolo a.C. pure erano in uso stilemi dell’ellenismo orientale e nel I secolo a.C. ac- canto a elaborazioni artistiche ‘plebee’ (per usare un’espressione di Bianchi Bandinelli), peculiari dei municipi centro-italici, si sviluppano tendenze più raffinate, ispirate alle varie correnti artistiche ellenistiche, non solo classicistiche, ma anche pergamene, rodie, alessandrine. Se però si guarda ai due esempi concordiese e aquileiese precedentemente ricordati, si noterà come – seppur derivate dallo stesso modello, la Themis, a sua volta dipendente da tipi di IV secolo (più la seconda della prima) – nella statua di Aquileia il rendimento delle pieghe del chitone si uniforma nel movimento e nella corposità a quel- lo dello himation, perdendosi il contrasto di tono e di volume che tra i due indumenti è determinato nel modello; ma nello himation stesso è molto chiaro l’influsso del pesante modellato, ricco di volumi e chiaroscuri, che l’eclettismo ha ripreso dal barocco e che nel Nord è rappresentato dalla statua piacentina di Kleomenes e non solo, come sottoli- neava Mansuelli. Gli esempi di Concordia e Aquileia ripetono del modello solo le linee fondamentali; in pratica sono prodotti eclettici, modificati attraverso varie acquisizioni di diversa tradizione culturale. In alcuni esiti di questo generale eclettismo si rileva una più riuscita coerenza, ad esempio nella Livia veleiate, statua iconica non necessariamente predisposta per un ritratto imperiale. Vorrei chiudere ancora su una nota hölscheriana: le statue (degli dei, degli eroi, dei defunti, di uomini viventi da onorare) conferiscono una presenza corporea a personag- gi rappresentati (ri-presentati) come partner sociali, nella comunità concettuale, per la prassi sociale. E come tali svolgono la loro funzione negli spazi della vita sociale come elementi (quasi) viventi, con-cittadini. Si ‘viveva’ con le immagini, nei santuari, nelle necropoli, nei fori38.

38 Hölscher 2015.

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L’interventismo familiare di Antonia Minore: il caso della morte di Germanico e Livilla.

Antonia Minore1, figlia del triumviro Antonio e di Ottavia, sorella di Cesare Otta- viano, è senza dubbio una figura femminile meritevole di speciale attenzione: la don- na, pur mostrandosi fedele a quegli ideali tradizionali che distinguono la matrona romana, e che individuano nella cura della famiglia la sua principale (se non unica) attività d’interesse, è indubbiamente legata agli avvenimenti che segnano i primi de- cenni dell’impero. Le vicende della sua famiglia vanno a intrecciarsi e s’identificano con quelle della domus Augusta, che, con l’avvento del principato augusteo, diviene il fulcro della vita politica romana. Probabilmente nel 18 a.C.2, Antonia sposa Druso Maggiore figlio di Livia Dru- silla (moglie di Augusto) e del suo primo marito, Tiberio Claudio Nerone; dalle testimonianze antiche sappiamo che il matrimonio tra Antonia Minore e Druso fu prolifico: i due, infatti, ebbero molti figli ma soltanto tre ne sopravvissero (Germa- nico, Livilla, Claudio)3. Alla morte prematura del marito Druso nel 9 a.C., all’apogeo della sua folgoran- te carriera politica4, Antonia Minor, appena ventisettenne, seppe sottrarsi volonta-

1 Le fonti su Antonia Minore sono riportate in PIR2 A 885; FOS 73. Un lavoro completo, forse l’unico, su Antonia Minore è quello di Kokkinos 1992: l’autore raccoglie una grande abbondanza di materiale documentario sulla donna (archeologico, epigrafico, numismatico, pa- pirologico), nonostante mi trovi a dissentire da alcune sue interpretazioni. 2 Gli studi più recenti propendono per datare il matrimonio tra Antonia e Druso al 18 a.C., inizio del cursus honorum dell’uomo: cf. Kokkinos 1992, 11; Segenni 1994, 298. Scuderi 1984, 121 sposta le nozze al 16 a.C. 3 Svet. Claud. 1, 6: Ex Antonia minore complures quidem liberos tulit, verum tres omnino reli- quit: Germanicum, Livillam, Claudium; Plu. Ant. 87, 6-7: ricorda solo Germanico e Claudio (Ἐκ τούτων ἐγένετο Γερμανικὸς καὶ Κλαύδιος), dimenticando vistosamente Livilla. 4 La carriera di Druso fu agevolata da Augusto in persona, che lo volle questore prima del tempo (Tac. ann. III 29, 1; D.C. LIV 10, 4; Svet. Claud. 11, 3) e fu coronata da successi militari in Germania e in Gallia. Ottenne il consolato nel 9 a.C., in coppia con Tito Crispino (Svet. Claud. 1, 3; D.C. LV 1, 1), appena prima di attaccare le tribù germaniche e raggiungere il fiume Elba. Fu proprio durante la sua ultima spedizione in Germania che Druso trovò inaspettatamen- te la morte, forse per un incidente causato dal suo cavallo (Liv. perioch. CXLII ) o per malattia (Val. Max. V 5, 3; D.C. LV 1, 4). S’insinuò anche il sospetto che fosse stato lo stesso Augusto a volere la morte del suo figliastro facendolo avvelenare (Svet.Claud. 1, 4).

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riamente5 (ma più probabilmente per concessione dello zio Augusto) al processo di riforme in campo matrimoniale voluto dallo stesso Augusto e destinato a operare sul tessuto sociale. Divenne quindi una ‘donna sposata a un solo uomo’ (il termine lati- no sicuramente rende appieno la valenza del significatounivira )6, simbolo dell’amore familiare, esempio perfetto della buona matrona romana; l’univirato di Antonia con- tribuì alla creazione di un’immagine della sua personalità e della sua condotta di vita completamente positiva: del resto, le fonti a più riprese si soffermano sulla sua bellezza e saggezza, lodandone la singolare castità dei costumi7, di lei il biografo Plutarco tesse in brevi parole un elogio incondizionato: «Antonia famosa per senno e bellezza», τὴν δὲ σωφροσύνῃ καὶ κάλλει περιβόητον8. Inoltre, il costante allineamento di Antonia alla po- litica augustea prima, tiberiana poi, consentì alla donna anche di sottrarsi alle scabrose vicende che segnarono la vita dei personaggi femminili del casato imperiale in quegli anni (lo scandalo della figlia di Augusto, Giulia, è forse uno dei più significativi). Negli anni immediatamente successivi alla morte di Druso, non si hanno informa- zioni storiche dirette su Antonia, che fu testimone però del consolidamento sociale e politico dei figli. Infatti, «il matrimonio di Germanico con Agrippina, figlia di Giulia e Agrippa, avvenuto nel 5 d.C. e quello di Livilla, prima con C. Cesare poi con Druso Mi- nore, figlio di Tiberio e Vipsania, vennero a rafforzare la posizione dei suoi figli all’inter- no della famiglia imperiale»9. Le fonti letterarie non consentono di sapere se la madre Antonia ebbe un ruolo attivo nell’organizzazione di tali rilevanti legami coniugali per la sua progenie, poiché gli avvenimenti che interessarono Germanico, Claudio e Livilla solo raramente vedono aperti interventi di Antonia. Sicuramente Antonia assistette al grande prestigio politico e sociale di cui godette il figlio maggiore Germanico: con la morte degli eredi designati C. e L. Cesari e la succes-

5 Flavio Giuseppe (AJ. XVIII 180) sottolinea esplicitamente come Antonia si rifiuti di rispo- sarsi nonostante un’insistenza diretta da parte dello zio Augusto: […] καίπερ τοῦ Σεβαστοῦ κελεύοντός τινι γαμεῖσθαι […]. 6 Cf. Treggiari 1991, 235-236: «But, despite the ideal of monogamy for women, Roman practice was mostly against it. Society expected widows and divorcees to marry, unless perhaps they were beyond child-bearing […] many of the women who win this title (univirae) on their inscriptions also died comparatively young […] Antonia the Younger […] is unusual among the women of Augustus’ family in being permitted to remain a widow». 7 Gli autori sottolineano anche la fedeltà che Antonia mostrò verso l’amato marito Druso, al quale sempre rimase legata: Val. Max. IV 3, 3: «[…] Anche Antonia, donna che superò in lodi gli splendori raggiunti dagli uomini della sua famiglia», femina laudibus virilem familiae suae cla- ritatem supergressa, «compensò con un’eccezionale fedeltà l’amore del marito», amorem mariti egregia fide pensavit; J. AJ XVIII 180: Antonia donna virtuosa e pudica. 8 Plu. Ant. 87, 6. 9 Segenni 1994, 302.

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MatronaeOK.indb 288 21/06/16 08:55 L’INTERVENTISMO FAMILIARE DI ANTONIA MINORE

siva adozione del figlio di Antonia da parte dello zio Tiberio, per volere di Augusto in persona nel 4 d.C.10, il giovane Germanico raggiunse una posizione ragguardevole nella successione al principato, colmata da una folgorante carriera11 ricca di successi come fu quella del padre Druso. Infatti, a soli ventotto anni, prima dell’età legale, nel 12 d.C., Germanico fu eletto console, dopo le vittoriose campagne contro i Dalmati e in Germa- nia a fianco del padre adottivo Tiberio. A seguito della celebre missione sul Reno, l’indipendenza che si era guadagnata Ger- manico, l’amore dei soldati per lui, e soprattutto la devozione che Agrippina12 suscitava tra le legioni, aumentarono la gelosia e le paure di Tiberio; egli richiamò dal Reno il fi- glio adottivo concedendogli l’onore del trionfo e sostituendolo al comando col proprio figlio Druso. Nel maggio del 17 d.C. pensò di inviarlo in Oriente per ristabilire l’ordine romano in Armenia13. Forse Antonia rimase vicina al figlio Germanico durante la sua folgorante carriera, com’è ovvio pensare indugiando in semplici stereotipi, ma «nessun episodio, neppure casuale, viene esplicitamente a legarla alla carriera prestigiosa di Germanico»14: l’unica presenza femminile che condivise i successi di Germanico (dal Reno fino in Oriente) fu certamente la moglie Agrippina. Antonia Minore compare direttamente nel narrato tacitiano concernente le onoran-

10 Le fonti attribuiscono l’adozione di Germanico a una precisa volontà di Augusto, presen- tandola come un’imposizione a Tiberio, nonostante quest’ultimo avesse già un figlio, Druso Mi- nore: cf. Tac. ann. I 3, 5; Svet. Tib. 15, 2; Cal. 4; Vell. II 104, 1; D.C. LV 13, 2. Per un approfon- dimento delle testimonianze sull’adozione di Germanico cf. Gallotta 1987, 14-17. 11 Per una rapida panoramica biografica generale di Germanico, comprese le tappe del suo cursus honorum cf. Svet. Cal. 1, 1-2. Sulla carriera di Germanico cf. il dettagliato capitolo La carrière de Germanicus in Hurlet 1997, 163-208. 12 Sulla posizione di Agrippina Maggiore, moglie di Germanico, durante la rivolta delle legio- ni renane del 14 d.C. e le distinte tradizioni letterarie a proposito cf. Valentini 2014, 144-149. 13 Cf. Tac. ann. II 43, 1; J AJ XVIII 54. 14 Cf. Segenni 1994, 303-304. Di differente avviso il okkinosK 1992, 17; 38; 43-50. Lo studioso (archeologo) è convinto che Antonia abbia fatto parte del seguito di Germanico in Oriente: egli porta a sostegno della sua ipotesi alcune testimonianze epigrafiche rinvenute in area orientale, nei luoghi visitati da Germanico e tramandati nel resoconto tacitiano (ann. II 53-54). Infatti, due iscrizioni rispettivamente da Ilio (IGR, IV 206) e dall’isola di Lesbo (IG, XII 2, 207) menzionano Antonia come benefattrice. Se da una parte le attestazioni epigrafiche potrebbero comprovare la ricostruzione del Kokkinos, il mancato accenno da parte di Tacito sull’eventuale presenza di Antonia in Oriente non può non essere considerato. A comprova cf. Wood 1999, 145: «The evidence for Antonia’s presence on this journey is circumstantial ‒ a member of the imperial family need not visit a city in order to be its benefactor, and to be honoured with statues and inscriptions ‒». La versione di Kokkinos è inoltre rivista e ridiscussa da Cogitore 2014, 168-169.

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MatronaeOK.indb 289 21/06/16 08:55 GABRIELE MARTINA

ze funebri da decretare al figlio morto in Oriente: l’astro nascente, infatti, si era spento ad Antiochia, nel sobborgo di Dafne15, il 10 ottobre del 19 d.C. S’insinuò, come noto, che il figlio di Antonia fosse stato eliminato tramite avvelenamento, e il sospetto gravò pesantemente sullo stesso Tiberio16, reo di aver tramato la fine del figlio adottivo con la connivenza dell’allora governatore della Siria, Cn. Pisone17. Nel resoconto tacitiano (annales III 3, 1-3) compare la dura condanna nei confronti di Tiberio e della madre Livia, i quali durante i giorni di lutto per il compianto Ger- manico publico abstinuere, inferius maiestate sua rati si palam lamentarentur, an ne om- nium oculis vultum eorum scrutantibus falsi intellegerentur e inoltre vi si aggiunge, con malcelato stupore, che matrem Antoniam non apud auctores rerum, non diurna actorum scriptura reperio ullo insigni officio functam: Tacito registra quindi che non vi è nessuna traccia, e negli storici del tempo e nelle cronache ufficiali, di una partecipazione attiva della madre Antonia alle onoranze decretate al defunto figlio. La dinamica degli avvenimenti presentati da Tacito è però letteralmente smentita da un importante documento epigrafico: laTabula Siarensis18, tavola bronzea rivenuta nel 1981 in Spagna, nel territorio dell’antica provincia della Baetica ove un tempo sorgeva la città di Siarum. La testimonianza in questione è costituita da due frammenti non riaccostabili che restituiscono, su quattro colonne, il testo assai lacunoso delle decisioni prese dal senato romano circa le onoranze funebri da decretare al defunto Germanico: il primo frammento riporta su una colonna la fine dellarelatio e l’inizio della sententia relative a un senatoconsulto collocabile alla fine di dicembre del 19 d.C., le cui disposi- zioni proseguono nel secondo frammento che testimonia (IIa-b), inoltre, l’esistenza di un altro senatus consultum databile con esattezza al 16 dicembre del 19 d.C.19; le ultime linee della tabula riportano inoltre l’inizio della rogatio che i consoli designati per il nuovo anno (20 d.C.), M. Valerius Messala e M. Aurelius Cotta Maximus20, avrebbero

15 Cf. Tac. ann. II 83, 2: lo storico parla di un monumento per Germanico a «Epidafne, il luogo dove si era spento», tribunal Epidaphnae quo in loco vitam finierat: si noti la svista dello storico che fraintende la precisazione ἡ ἐπὶ Δάφνῃ. 16 Sul ruolo di Tiberio nella morte di Germanico cf. Lyasse 2011, 116-118; 122-125. Lo studioso ha modo di affermare che «il est à peu près certain que le prince ne nourrissait aucune mauvaise intention contre son fils adoptif» (125). 17 Le fonti genericamente parlano di avvelenamento: Svet. Cal. 1, 3; 2; Tac. ann. II 43, 2; 69, 3; J. AJ XVIII 54. Per un quadro dettagliato delle testimonianze antiche a proposito cf. Gallot- ta 1987, 195-200; Bouix 2011, 111-121. 18 L’edizione più recente con trascrizione e commento della Tabula Siarensis è quella di Sán- chez-Ostiz 1999. Il primo editore della Tabula è stato González 1984, 55-100. Inoltre per un elenco delle onoranze che si decretarono a Germanico cf. Tac. ann. II 83; CIL, VI 911 = 31199. 19 Frammento IIb, linee 11-12, 20-21. 20 Cf. Tac. ann. III 2, 3: consules M. Valerius et M. Aurelius (iam enim magistratum occeperant).

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dovuto presentare dinanzi al popolo di Roma (linee 27-30 frammento IIb: utique […] legem ad populum de honoribus Germanici Caesaris ferendam curent)21. La Tabula di Siarum, a dispetto delle parole di Tacito, a più riprese menziona Anto- nia e mostra come la donna, insieme con gli esponenti più rappresentativi della domus Augusta, fosse direttamente invitata a prendere parte alle decisioni riguardanti gli onori funebri da tributare al figlio. Riporto le linee 5-8 del frammento I, ove la madre di Ger- manico compare insieme ad altri membri della domus imperiale:

atqui is adsueta sibi [moderatione, ex omnibus iis]/ honoribus, quos habendos esse censebat senatus, legerit eo[s quos ipse et Iulia]/ Augusta mater eius et Dru- sus Caesar materque Germanici Ca[esaris Antonia22,]/ adhibita ab eis ei delibera- tioni, satis apte posse haberi existu[marint]23

Il senato romano quindi invitò (adhibita) ufficialmente Antonia Minore,mater Ger- manici Caesaris, a prendere parte alla scelta degli omaggi pubblici che si pensava rendere al defunto Germanico. Degno di nota mi sembra essere l’accostamento del nome di Antonia a quelli dell’imperatore Tiberio, del quale si sottolinea la ‘consueta prudenza’ (adsueta moderatione) e di Livia, qui ricordata come Giulia Augusta: nomi ricordati, nella loro absentia, dallo stesso Tacito. Antonia ricompare nuovamente poche linee dopo, poiché la madre del defunto era inclusa nel gruppo statuario che avrebbe affiancato la statua di Germanico in trionfo in un arco a lui dedicato nel Circo Flaminio. Di seguito linee 18-21 frammento I:

supraque eum ianum statua Ger[manici Caesaris po-]/neretur in curru trium- phali et circa latera eius statuae D[rusi Germanici patris ei-]/us naturalis, fratris Ti(beri) Caesaris Aug(usti) et Antoniae matris ei[us et Agrippinae uxoris et Li-]/ uiae sororis et Ti(beri) Germanici fratris eius et filiorum et f[iliarum eius.]

Il resoconto tacitiano sembrerebbe essere smentito24 dai senatoconsulti de honoribus

21 Le linee assai frammentarie di questa rogatio si incrociano e recuperano le prime linee della famosa rogatio (la rogatio Valeria Aurelia de honoribus meritis Germanici Caesaris) conservata dalla cosiddetta Tabula Hebana, rinvenuta nel 1947 in territorio toscano, ove con ogni proba- bilità sorgeva l’antica colonia romana di Heba. Per un confronto fra la Tabula Siarensis e quella Hebana cf. Nicolet 1988, 827-866; Fraschetti 1988a, 867-889; Lebek 2000, 45-67. 22 L’integrazione del nome di Antonia è ormai sicura grazie al ritrovamento nel 2010 di un’i- scrizione inedita del Museo Archeologico di Perugia: trattasi di una tabula bronzea che riporta un testo lacunoso e frammentario su 22 righe in parte sovrapponibile al testo tramandato dalla Tabula Siarensis (framm. I): cf. Cipollone 2011, 3-18. 23 Per il testo della Tabula Siarensis ho seguito l'edizione di Gonzalez 2002. 24 Cf. Shotter 1968, 210 il quale invece presta fede al resoconto tacitiano: «Tacitus’ expla-

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Germanici Caesaris: Antonia, come parrebbe naturale, madre del defunto, fu ufficial- mente invitata dal senato per rendere omaggio nel migliore dei modi possibili al com- pianto figlio. Così come ovvio sarebbe comparsa nel gruppo statuario che sì onorava Germanico, ma che al contempo univa nel ricordo e nella dedica onorifica i suoi parenti più prossimi, dal padre naturale Druso a Tiberio, padre adottivo del giovane, dalla mo- glie Agrippina alla madre Antonia e la sorella Livilla. Secondo le ipotesi ricostruttive di S. Segenni, sarebbe invece probabile che Anto- nia non fosse presente al solo arrivo a Roma delle ceneri del defunto figlio, riporta- te con solenne fierezza dalla moglie Agrippina: Tacito quindi dilaterebbe un singolo episodio per estenderlo a condotta generale facendoci rientrare anche i momenti del lutto e delle onoranze25. Se si prestasse fede del resto a Tacito, Antonia Minore avrebbe quindi assunto il medesimo comportamento degno di essere deprecato dell’imperatore Tiberio, sul quale gravavano le pesanti accuse di aver voluto la morte del figlio adottivo, e della madre di lui Livia. Sarebbe quindi rientrata nella condotta ufficiale adottata dal potere centrale rappresentata dal princeps e dalla sua influente genitrice: in ogni modo, avere la madre del defunto al proprio fianco, significava agli occhi dell’opinione pubblica, già esacer- bata dalla scomparsa dell’amato Germanico, e soprattutto allo sguardo dell’indomita Agrippina, scagionare da qualsiasi colpevolezza l’imperatore e questo a uno storico del calibro di Tacito non dovrebbe essere sfuggito. Tacito trova comunque delle ‘scusanti’ per giustificare il comportamento non proprio consono a una matrona e madre dello spessore di Antonia Minore: fu forse il dolore troppo grande per la morte del figlio, victus luctu animus magnitudinem mali perferre visu non toleravit26, oppure fu impedita da una malattia, valetudine praepediebatur, ma ciò che sembra più plausibile allo sto- rico è che invece fosse stata costretta, cohibitam, da Tiberio e da Livia a non mostrarsi affinché sembrasse pubblicamente che il loro dolore era pari a quello della madre del defunto, par maeror et matris exemplo27. Indirettamente entrambi cercavano di masche-

nation of Tiberius’ absence from the funeral […] no doubt has more than a grain of truth». 25 Cf. Segenni 1994, 305: «Tacito, sul filo di una sottile ambiguità, dilata e generalizza dunque un episodio particolare, un momento preciso, sfumandone, stemperandone l’incisivi- tà». Così Fraschetti 1990, 93 n. 80: «la celebre e puntualissima formulazione di Tacito […], se vera, deve intendersi limitata esclusivamente ai soli “insigna officia” compiuti a Roma all’arrivo di Agrippina con le ceneri di Germanico». 26 Anche Ottavia Minore, madre di Antonia, si lasciò sopraffare dal dolore per la perdita del figlio Marcello, morto nel 23 a.C., senza mai riprendersi del tutto: cfr. Sen.Ad Marc. II 3-4. Forse un voluto accostamento da parte di Tacito di madre e figlia: cf. egenniS 1994, 306 n. 31. 27 Sempre Segenni 1994, 305-306: «Non dovette essere sfuggita, infatti, allo storico, la for- za e il valore che poteva assumere l’allineamento di Antonia nelle posizioni dell’imperatore. Una presa di posizione, anche se discreta, della madre di Germanico a fianco di Tiberio portava ad atte-

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rare un’eventuale gioia per la scomparsa di Germanico con un dolore che, di fatto, però, secondo Tacito, non condividevano in alcun modo: tanto è vero che lo storico non ha alcun problema nell’affermare che, agli occhi dei più, Tiberio non si sforzasse troppo a nascondere il suo compiacimento per la morte del figlio adottivo,gnaris omnibus laetam Tiberio Germanici mortem male dissimulari28. Non si può quindi non scorgere, dietro un tal resoconto, l’impietoso ritratto dell’uomo esperto nell’arte della dissimulazione che lo storico traccia dell’imperatore Tiberio29, colui che nullam […] ex virtutibus suis quam dissimulationem diligebat30, quella stessa dissimulatio31 che non l’avrebbe abbandonato neppure in punto di morte quando ormai le forze gli venivano meno (iam Tiberium corpus, iam vires, nondum dissimulatio deserebat32). Le giustificazioni addotte da Tacito mal convengono con il rapporto di estrema fidu- cia e rispetto che legava Tiberio ad Antonia, testimoniato da altre fonti33, così come mal si adatta al quadro di opinioni estremamente lusinghiero e positivo di Antonia presente nelle testimonianze antiche e già citate in precedenza. Concluderei allora con le parole del Fraschetti che, riferendosi all’assenza di Antonia

nuare i sospetti di un suo coinvolgimento nella morte del nipote e figlio adottivo». Degna d’inte- resse l’opinione espressa da Cogitore 2014, 169, secondo la quale nell’allineamento di Antonia e Livia alle posizioni di Tiberio si assisterebbe a una «volonté d’abstraire des passions purement humaines les figures tutélaires féminines de Livie et Antonia, dans une sorte d’éloignement pro- pre au monde divin. Dans ce cas, le rôle d’Antonia dans ce moment crucial est clair : Tibère lui demande de contribuer à garantir la stabilité de la famille impériale, la cohésion de la domus». 28 Tac. ann. III 2, 5. Ma è la stessa Tabula Siarensis a dimostrare il contrario e cioè che il dolore di Tiberio per la perdita del figlio adottivo fu vero e sincero e in alcun modo dissimulato. Infatti, il secondo senatoconsulto del dicembre del 19 d.C. (frammento II B, linee 11-17) testimonia di un elogium pronunciato o fatto pronunciare dal princeps (linee 11-12: car]men, quod Ti(berius) Caesar Aug(ustus) […] [de laudando Germanico filio ]suo proposuisset). L’encomio letto in senato fu ricava- to da un taccuino privato (libellus) dell’imperatore ove egli aveva raccolto tutti i suoi sentimenti e opinioni nei confronti di Germanico (linea 14: [animus Ti(beri)] Caesaris Aug(usti) intumus). Tale libellus era prova evidente dei veri sentimenti di Tiberio e che il suo non era un falso dolore (linea 16: ipse se velle non dissimulare eodem libello testatus/ esset): cf. Zecchini 1986, 23-29. 29 Contrariamente a quanto affermato da Tacito, Lyasse 2011, 125 è del parere che, durante i giorni di lutto seguiti alla morte di Germanico, Tiberio fece invece prova di moderatio, mo- strandola «en limitant son deuil et la manifestation de son affliction, puis en refusant de laisser le désir de vengeance l’emporter sur les exigences de justice». Sul tema della dissimulatio in Tacito cf. Strocchio 2001. 30 Tac. ann. IV 71, 3. 31 Tacito (ann. V 1) è del parere che anche la madre Livia si adeguò alla dissimulazione del figlio:simulatione filii bene composita. 32 Tac. ann. VI 50, 1. 33 Cfr. J. AJ XVIII 180: Τιμία δὲ ἦν Ἀντωνία Τιβερίῳ εἰς τὰ πάντα συγγενείας τε ἀξιώματι.

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raccontata da Tacito, ha modo di dire: «Antonia, che almeno secondo Tacito (o, piutto- sto, secondo le sue fonti […]), non avrebbe preso parte ad alcuno di questi insigna officia, su esplicita indicazione del Senato – come testimonia la Tabula Siarensis – fu invece ‘invitata’ (adhibita) a partecipare alla scelta degli onori funebri per il figlio»34. Inoltre Antonia Minore si ritrova nuovamente menzionata nel senatoconsulto De Cn. Pisone patre35, mediante il quale il senato romano rendeva pubblici i risultati delle investigazioni compiute sull’operato del legatus di Siria, Cn. Pisone, reo di aver agito contro Germanico e indirettamente contro la domus Augusta36. La madre Antonia, in- fatti, è menzionata tra i personaggi della famiglia di Germanico (linea 136: ceterorum quoq(ue) contingentium Germanicum), il cui comportamento dimostrato durante l’affai- re Germanico/Pisone, agli occhi del senato di Roma, era lecito menzionare e ossequiare (linea 137: necessitudine magnopere probare)37. Le parole presenti nel decreto ufficiale e indirizzate alla madre del defunto sono il segno di un elogio sentito (linee 140-142):

itemq(ue) Antoniae Germanici Caesaris matris, quae unum matrimonium Dru/ si Germ(anici) patris experta sanctitate morum dignam se divo Aug(usto) tam arta propin/quitate exhibuerit

Il senatoconsulto ha modo di delineare un ritratto ben caratterizzante di Antonia Minore, marcando il suo ruolo di univira, di donna che è rimasta maritata e fedele a un solo uomo. Furono i suoi costumi integri e irreprensibili (sanctitas morum) a renderla meritevole (dignam) del posto che occupava nella domus Augusta, degna della sua pa- rentela con Augusto divinizzato: le parole del decreto s’inseriscono così in quel filone

34 Fraschetti 1988b, 60. 35 Il decreto, con una subscriptio dell’imperatore, fu pubblicato in diverse copie in tutto l’im- pero; alcune di queste copie sono state rinvenute in Spagna e pubblicate. L’edizione di riferimen- to del S.C. de Cn. Pisone Patre è quella curata da Eck - Caballos - Fernández 1996. Il testo è stato tradotto e commentato anche da Damon 1999, 13-42: l’edizione in questione è contenuta in un’uscita speciale dell’«AJPh» dedicata interamente al S.C., con numerosi articoli consacrati a tal decreto. 36 Dal processo contro Cn. Pisone, celebrato a Roma nel 20 d.C., non vengono fuori accuse tali da poter provare un suo coinvolgimento nell’avvelenamento di Germanico. Le altre imputa- zioni (insubordinazione, aver fomentato una guerra civile in Siria alla morte di Germanico: Tac. ann. III 10) furono comunque talmente gravi che non lasciarono speranza all’imputato, il quale, traendone le conseguenze, si suicidò prima della fine del processo: cf. Bouix 2011, 120-121; Lyasse 2011, 122-124. 37 Nel SC i personaggi della domus imperiale non sono presentati secondo l’ordine che si trova nella Tabula Siarensis: nel SC Agrippina è citata prima di Antonia. Considerando l’im- portanza dell’argomento, ulteriori approfondimenti saranno sviluppati nel mio lavoro di ricerca dottorale.

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assolutamente elogiativo che le testimonianze antiche restituiscono di Antonia Minore. Ancora una volta un documento ufficiale emanato dal Senato per volere dell’impe- ratore annovera a giusto diritto la nostra Antonia tra i membri della famiglia imperiale, implicando la sua necessaria partecipazione alle deliberazioni successive alla morte del figlio e legate alle onoranze funebri da decretargli così come alla ‘vendetta’ contro i suoi presunti uccisori e nemici. A tal proposito il nome di Antonia Minore è inserito ancora una volta, insieme a Tiberio, la madre di quest’ultimo, Agrippina e il giovane Druso, nell’elenco di perso- naggi che Valerio Messalino38 propose di ringraziare pubblicamente in senato per aver vendicato Germanico: è lo stesso Tacito (ann. III 18, 3) a darne notizia:

Addiderat Messalinus Tiberio et Augustae et Antoniae et Agrippinae Drusoque ob vindictam Germanici grates agendas

Resta difficile spiegare in cosa sia effettivamente consistita questa ‘azione vendicativa’ da parte dei familiari più prossimi di Germanico, azione che sarebbe valsa un pubblico elogio nell’aula del senato: forse nella volontà di ricercare prove e indizi che confermas- sero il coinvolgimento di Pisone, nonostante l’azione mitigante sulla sentenza di con- danna, giunta dopo il suicidio dello stesso legato di Siria, da parte del princeps. Di certo è da escludere l’interpretazione pensata dal Kokkinos: data per certa la partecipazione della madre Antonia alla spedizione in Oriente del figlio Germanico, nonostante il si- lenzio di Tacito, la donna avrebbe raccolto le eventuali prove per confermare in seguito la colpevolezza di Pisone39. La partecipazione attiva, attestata da un invito ufficiale da parte del senato romano, di Antonia Minore nella scelta degli onori da attribuire al figlio defunto e la sua non chiara azione di vendicatrice della memoria di Germanico sono assodate e porterebbero la donna ad agire su un piano più pubblico che privato: la sua assenza nei giorni del lutto per il figlio non poteva non colpire e forse quasi scandalizzare l’opinione pubblica già impressionata dalla perdita di Germanico40; la sua presenza serviva forse anche a contro- bilanciare la forte figura di sua nuora Agrippina, verso la quale s’indirizzava un immenso

38 Probabilmente si tratta del console del 20 d.C., lo stesso della rogatio Valeria Aurelia de honoribus meritis Germanici Caesaris o più probabilmente del padre di quest’ultimo M. Valerius Messalla Messalinus, intimo amico dell’imperatore Tiberio e figlio del celebre oratore Messalla Corvino: cf. Tac. ann. I 8, 4; III 34, 2 e inoltre Scheid 1975, 123-128 nr. 121. 39 Kokkinos 1992, 23: «Nevertheless Antonia’s participation in Germanicus’ eastern mis- sion, ignored by Tacitus, may explain why she was able to help avenge Piso’s conspiracy» e 159. 40 Cf. Tac. ann. III 2, 2: quorum diversa oppida […] lacrimis et conclamationibus dolorem tes- tabantur.

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trasporto popolare, studia hominum accensa in Agrippinam41, rimarcando la centralità di quest’ultima all’interno del casato imperiale in quanto nipote di Augusto e moglie di Germanico. Gli anni che seguirono la morte di Germanico furono segnati da momenti estrema- mente delicati per l’unione della domus Augusta e per la corsa alla successione al potere unico: si accentuò il profondo e inevitabile contrasto tra Tiberio e la vedova di Germa- nico, Agrippina, che cercava di tutelare i figli nati dalla loro unione42; e cresceva inoltre il potere e la pericolosa indipendenza dello spietato prefetto del pretorio, Seiano43. Nella sua rapida e vorace ascesa al potere, L. Elio Seiano44, l’eques originario del mu- nicipum di Volsinii, riuscì ad avvicinare e sedurre la sola figlia femmina di Antonia Mi- nore, Livilla45. La figlia di Antonia Minore aveva sposato intorno all’1 a.C., C. Cesare, nipote e figlio adottivo di Augusto46. Alla sua morte inattesa, Livilla sposò in seconde nozze il figlio di Tiberio, Druso Cesare e la loro unione fu feconda47, paragonabile a quella del

41 Cf. Tac. ann. III 4, 2. 42 Il matrimonio di Germanico e Agrippina fu assai prolifico, sarebbero nati infatti ben nove figli: sopravvissero però solo tre figlie femmine (Agrippina Minore, Giulia Drusilla e Livilla) e tre figli maschi (Caio, futuro imperatore, Nerone e Druso Cesare): cf. Lindsay 1995, 1-17. 43 Cf. Tac. ann. IV 17, 3: fu Seiano medesimo a istigare Tiberio, sostenendo che a Roma esi- stevano due opposti partiti come al tempo delle guerre civili (instabat quippe Seianus incusa- batque diductam civitatem ut civili bello), uno favorevole all’imperatore, l’altro invece era chia- ramente dalla parte di Agrippina e dei suoi figli esse( qui se partium Agrippinae vocent). Del re- sto però si assistette al passaggio di diversi amici di Germanico e clienti della sua famiglia tra le file dei sostenitori di Seiano/Tiberio e così viceversa, e cioè da posizioni avverse alla famiglia di Germanico molti si avvicineranno a sua moglie Agrippina, legata ad ambienti senatoriali tradi- zionalisti opposti a Tiberio: a tal proposito cf. Pani 1977, 135-146; Id. 1979, 142-156. Sulla contrapposizione tra Agrippina e Seiano cf. Bauman 1992, 143-156. Alla fine, Tiberio riuscì a eliminare la scomoda Agrippina, facendo esiliare, nel 29 d.C., lei e suo figlio Nerone Cesare sull’isola di Ventotene: cf. Svet.Tib. 53, 3-4. Circa le accuse addotte da Tiberio contro Agrippina e il figlio Nerone cf. Tac.ann. V 3, 1-2; Tac. ann. VI 25, 2. 44 Su Seiano cfr. PIR2 A 255; Demougin 1992, 234-237. 45 Il suo nome è ricostruibile come (Claudia) Livia Giulia. Il naturale gentilizio paterno Clau- dia, che precede il cognomen Livia, è attestato in CIL, VI 15502=ILS 8054, il cognomen Iulia è invece attestato in CIL, VI 5198=ILS 1752. Negli autori antichi è generalmente chiamata Livia (Tac. ann. II 84, 1; Plin. nat. XXIX 20) ma, come attestato in Cassio Dione (LVII 22, 2), forse già nell’antichità era ricordata sotto il nomignolo di Livilla, ἥν τινες Λιουίλλαν ὀνομάζουσιν: que- sto diminutivo per esempio è accolto dalla tradizione storiografica francese, e in tal modo è da me nominata nel presente lavoro. 46 Cf. Tac. ann. IV 40, 4: Liviam, quae G. Caesari […] nupta fuerit; D.C. LV 10, 18. 47 Dal loro matrimonio infatti nacquero una figlia, Giulia che sposerà il figlio primogenito di Germanico e Agrippina, Nerone (Tac. ann. III 29, 3; Svet. Aug. 99, 1); e due figli gemelli, Ger-

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fratello Germanico e Agrippina, et coniunx Germanici Agrippina fecunditate ac fama Li- viam uxorem Drusi praecellebat48. Seiano, nei suoi lucidi piani di potere, riuscì a sedurre la figlia di Antonia che Tacito (ann. IV 3, 3) descrive come una delle donne più belle, nonostante da piccola non fosse poi così graziosa49, formae initio aetatis indecorae, mox pulchritudine praecellebat, portan- dola così all’adulterio. Lo schema pensato dal prefetto del pretorio, stando alla testimo- nianza tacitiana, è ben chiaro: eliminare il marito di Livilla, designato alla successione e condividere il trono dopo averla sposata, ad coniugii spem, consortium regni. Fu solo alla morte di Druso Minore, intorno al 23 d.C. ‒ la sua morte all’inizio sem- brò non destare alcun sospetto50 ‒ che Seiano ebbe l’ardire di chiedere ufficialmente la mano di Livilla a Tiberio. La risposta del princeps, riportata da Tacito (ann. IV 40), è di una lucidità spiazzante e mostra in tutta la sua chiarezza l’assoluta situazione di equi- libri precari all’interno della domus: il matrimonio con un cavaliere romano avrebbe infangato l’immagine di Livilla51, nipote di Augusto e un tempo moglie di C. Cesare e di Druso, entrambi designati alla successione imperiale (Liviam, quae G. Caesari, mox Druso nupta fuerit, ea mente acturam ut cum equite Romano senescat); le sue nozze, inol- tre, avrebbero ancora di più esacerbato l’astio di Agrippina, spezzando letteralmente in due parti la domus (de inimicitiis primum Agrippinae, quas longe acrius arsuras si matri- monium Liviae velut in partis domum Caesarum distraxisset). È lecito domandarsi quale fu la posizione di Antonia Minore, madre della donna e il parente a lei più prossimo. Dalle fonti antiche non emerge che Antonia abbia svolto alcun ruolo nell’intera vicen- da; è infatti citata solo indirettamente nella risposta data da Tiberio a Seiano: il princeps sostiene che la giovane ha ancora una madre e una nonna – Livia ‒ alle quali chiedere consigli e suggerimenti, esse illi matrem et aviam, propiora consilia.

manico e Tiberio (Tac. ann. II 84, 1: soror Germanici Livia, nupta Druso, duos virilis sexus simul enixa est; Tac. ann. III 56, 4). 48 Tac. ann. II 43, 6. 49 Per un ritratto di Livilla in Tacito cf. Sinclair 1990, 238-256. 50 Cf. Svet. Tib. 62, 1: il padre Tiberio pensava che la morte del figlio fosse stata causata da intemperanza o malattia, quem cum morbo et intemperantia perisse existimaret; Tac. ann. IV 8, 1 parla di un veleno somministrato a Druso nel tempo poiché si pensasse a una malattia fortuita, venenum quo paulatim inrepente fortuitus morbus adsimularetur; D.C. LVII 22, 1-4 scrive sem- plicemente che Druso morì per veleno, φαρμάκῳ διώλετο, e si accusò lo stesso Tiberio, il quale, durante la malattia e la morte del figlio, non avrebbe cambiato le sue abitudini; Oros.hist . VII 4, 9: Germanico e Druso Minore perirono per manifestis veneni signis, segni evidenti di avvele- namento. 51 Il Senatus consultum de Cn. Pisone Patre (linee 142-145) attesta che sia Tiberio che la ma- dre Livia avessero un’ottima opinione di Livilla (de qua optume et avia sua et socer idemque pa- truos, princeps noster, iudicaret).

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Come spiegare allora questo silenzio su un intervento che, a mio parere, sarebbe do- vuto essere scontato della madre di Livilla? È stato sostenuto che il silenzio che circonda Antonia Minore in quegli anni turbolenti forse sia legato a una sua posizione di neu- tralità nei confronti dei vari schieramenti al potere o forse ad una sua piena adesione alle decisioni del princeps, mostrando quindi una fedeltà indiscussa al potere centrale rappresentato da Tiberio52. Prestando fede alle fonti53, Antonia Minore ebbe un ruolo decisivo nella caduta del prefetto Seiano (anni 30/31 d.C.), smascherandone le trame e rivelando i suoi progetti sovversivi all’imperatore Tiberio: ruolo che probabilmente andrebbe ridimensionato nella sua portata54. La rovina del prefetto del pretorio, che fu giustiziato insieme ai suoi figli e il cui corpo fu lasciato al pubblico ludibrio55, comportò inevitabilmente anche la fine di Livilla: Apicata, infatti, ripudiata da Seiano che intendeva unirsi alla figlia di Antonia, rivelò i dettagli del complotto che i due presunti amanti avevano orchestrato per eliminare Druso Minore56. La critica moderna ritiene inverosimile che l’uccisione di Druso sia il frutto di un sodalizio ‘criminale’ tra Seiano e Livilla57, anche perché non

52 Così Segenni 1994, 309: «Il silenzio che la circonda, dunque, potrebbe autorizzare a vedere nella linea di condotta in questi anni, una sostanziale equidistanza di Antonia dai vari “schieramenti” […] se non addirittura ad una sua adesione discreta, ma costante all’azione e alle posizioni dell’imperatore». 53 J. AJ XVIII 180-182: fu il liberto Pallante, su istruzione di Antonia Minore, a portare a Tiberio la missiva che svelava i piani di congiura del prefetto del pretorio; D.C. LXVI 14, 1: riporta l’aneddoto della liberta Caenis, dalla singolare memoria, alla quale Antonia dettò il mes- saggio da riportare all’imperatore. 54 Cf. Nicols 1975, 48-58: viene ridimensionato il ruolo chiave di Antonia, vagliando criti- camente modalità di stesura e tempi di composizione delle fonti che testimoniano del diretto intervento della donna. La valorizzazione di Antonia Minore, secondo lo studioso, si verrebbe a collocare nel quadro di esaltazione della figura di Agrippa I di Giudea (da Antonia più volte assistito e patrocinato: cf. J. AJ XVIII 143-168; 183-191; 202-203), condotta da Flavio Giu- seppe, mentre l’aneddoto della liberta Caenis dalla prodigiosa memoria, tramandato da Cassio Dione (LXVI 14, 1), non è altro che una rielaborazione di età Flavia, confluita poi nell’opera dello storico: la liberta fu infatti concubina di Vespasiano. Eccessivo però sembra essere il rifiuto di entrambe le testimonianze, che, spogliate degli evidenti elementi romanzeschi, potrebbero conservare delle tracce di veridicità storica: cf. Segenni 1994, 313. 55 Cf. Iuv. X 61-72; D.C. LVIII 11, 5; InscrIt., XIII 1, 189: coniur(atio) Seian[i]/[extincta e]t compl[ures] [in s]calis [Gemon(iis) iacuer(unt)]. 56 Cf. Svet. Tib. 62, 1: parla genericamente di delazione (indicio), senza citare il nome di Api- cata; D.C. LVIII 11, 6; Tac. ann. IV 3, 4: Livilla avrebbe coinvolto nel piano criminale il suo me- dico personale e amico, Eudemo (sumitur in conscientiam Eudemus, amicus ac medicus). Inoltre per il resoconto della morte di Druso cf. Tac. ann. IV 10, 2. 57 Cf. Cenerini 2014, 128 n. 60.

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si hanno tracce di un effettivo processo a carico di Livilla, nonostante però il contro- verso autore dell’Octavia, nel ricordare il destino crudele di Livia Drusi, parli di facinus poenamque suam, delitto e il suo relativo castigo58. A tal proposito circa il destino della donna, meritano considerazione le parole di Cassio Dione (LVIII 11, 7):

Ἤδη δὲ ἤκουσα ὅτι ἐκεῖνος μὲν αὐτῆς διὰ τὴν μητέρα τὴν Ἀντωνίαν ἐφείσατο, αὐτὴ δὲ ἡ Ἀντωνία ἑκοῦσα λιμῷ τὴν θυγατέρα ἐξώλεσε. Τοῦτο μὲν οὖν ὕστερον ἐγένετο

Lo storico di Bitinia tramanda la notizia come un sentito dire (impiega il verbo ἤκουσα59): Tiberio avrebbe risparmiato Livilla per via di sua madre Antonia Minore (διὰ τὴν μητέρα τὴν Ἀντωνίαν) – ancora una volta è attestato il rapporto di profonda stima e rispetto che legava i due – la quale però avrebbe fatto morire di stenti la figlia; Dione ag- giunge che fu la madre in persona a volere la morte della figlia, agendo volontariamente (ἑκοῦσα), senza alcuna costrizione esterna. Se si prestasse fede alla tradizione accolta da Dione60, sembrerebbe che Antonia Minore agisca nei confronti della figlia Livilla, rea di aver disonorato se stessa e la sua famiglia, attraverso un’ipotetica unione adulterina con Seiano, esercitando quello ius vitae ac necis sui filii familias61, prerogativa del pater- familias sin dalle più lontane origini. Il diritto di vita e di morte sui figli sarebbe forse alla base dello ius occidendi che la lex Iulia de adulteriis concedeva, con le limitazioni del caso, al padre dell’adultera nel momento in cui avesse colto figlia e amante in flagrante62,

58 Cf. Octavia 942-943: Felix thalamis/ Livia Drusi natisque ferum / ruit in facinus poe- namque suam. Livilla fu sottoposta a damnatio memoriae: cf. Tac. ann. VI 2. Il suo nome fu eraso dall’iscri- zione che accompagnava il ciclo scultoreo celebrativo della gens giulio-claudia del tempio di Roma e Augusto a Leptis Magna: cfr. Livadiotti - Rocco 2005, 231-235. 59 Cf. Millar 1964, 36: «There are a considerable number of passages where he (Dio) intro- duces information with the word “ἤκουσα” […] in considering the sources used by ancient histo- rians we perhaps underestimate the part played by the vague area of knowledge about figures and events in the past, and anecdotes and legends». Cf. Inoltre Syme 1983, 9: l’utilizzo dell’espres- sione Ἤδη δὲ ἤκουσα in Dione è da riferirsi ad una «subsidiary source». 60 La tradizione accolta da Cassio Dione è ritenuta sospetta già da Garzetti 1960, 73. 61 Il giurista Papiniano fa discendere lo ius vitae ac necis del capofamiglia da una lex regia (coll. 4, 8, 1). Nel codex di Teodosio è menzionato invece come un diritto paterno esercitato in antichi- tà, e forse in disuso all’epoca (Cod. Theod.IV 8, 6pr.). Dionigi di Alicarnasso (II 26, 3) afferma che il legislatore romano ha affidato pieni poteri (ἅπασαν ἐξουσίαν) al padre sul figlio durante -tut ta la sua vita (παρὰ πάντα τὸν τοῦ βίου χρόνον); cf. inoltre Gell. V 19, 9, il quale riporta la formula dell’adrogatio, mediante la quale un cittadino sottoponeva alla propria potestas di capofamiglia (utique ei vitae necisque in eum potestas siet) un altro cittadino consenziente che ne diventava quindi a tutti gli effetti figlio (uti patri endo filio est). 62 Cf. Coll. 4, 2, 3; Fayer 2005, 227.

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mentre, probabilmente, la pena prescritta dalla lex Iulia per chi era condannato in segui- to a pubblico giudizio per aver commesso il crimen adulterii era la relegatio in insulam63 e la publicatio bonorum, la confisca dei beni. Se effettivamente si verificò una relazione adulterina con Seiano, dalla quale la figlia di Antonia, vista la sua posizione a corte di moglie e madre di eredi, non avrebbe avuto poi molto da guadagnare, Livilla poteva essere scacciata da Roma e relegata su un’isola impervia, come avvenne per altre figu- re femminili imperiali incriminate per adulterio o crimini riferibili alla sfera sessuale64. La decisione della causa sarebbe spettata all’imperatore Tiberio, il quale avrebbe agito pubblicamente nei confronti di Livilla, sua nipote e vedova del figlio naturale, Druso Minore. Invece, dal suo soggiorno di Capri, ove il princeps era stato informato dei piani sovversivi di Seiano, per il tramite di missive indirizzategli appunto da Antonia, Tiberio avrebbe cercato di risolvere privatamente la faccenda di Livilla, demandando indiretta- mente la sua auctoritas alla madre di lei, Antonia, con la quale condivideva gli interessi di unità della domus, già duramente colpita dalle opposizioni di Agrippina e dalle ansie successorie per la sua progenie. Antonia Minore, nella sua posizione di totale allineamento alle direttive imperiali, fu consapevole del fatto che un’eventuale unione tra Seiano e sua figlia Livilla avreb- be creato una situazione di forte instabilità all’interno dell’impianto successorio della domus, poiché avrebbe messo a rischio le posizioni del nipote Caio, figlio superstite di Germanico, e dei comuni nipoti suoi e di Tiberio, figli appunto della stessa Livilla e di Druso65. Alla fine, Antonia si risolve direttamente per l’eliminazione della figlia e la sua azione potrebbe essere paragonata a quella di un paterfamilias: la donna, pur non possedendo realmente lo status e le prerogative di un capofamiglia, sembra che agisca come tale, operando nel pieno rispetto delle leggi e delle istituzioni, soprattutto per pre- servare la purezza del sangue familiare e gli equilibri politici e dinastici66. A mio avviso, l’autorevolezza di Antonia Minore le sarà derivata, oltre che dal suo legame di sangue

63 Si discute in dottrina se anche la pena della relegatio in insulam sia stata ufficialmente stabi- lita dalla Lex Iulia de adulteriis; cf. Fayer 2005, 338-348. 64 Ad esempio, Giulia Maggiore, figlia di Augusto, fu la prima donna del casato imperiale a essere confinata, accusata dal padre di ripetute violazioni allalex Iulia de adulteriis: cf. Svet. Aug. 65, 3; Vell. II 100, 5; Sen. benef. VI 32, 1; Tac. ann. I 53, 1; D.C. LV 10, 14-15. Gli studi degli ul- timi anni tendono a smentire il movente letterario dell’impudicitia di Giulia, accusa pretestuosa per nascondere un’idealistica congiura che faceva capo alla figlia di Augusto e a illustri personag- gi dell’élite romana: cfr. da ultimo Braccesi 2012, 111-154. 65 Cf. Cenerini 2014, 129-130: «Antonia Minore interviene proprio per evitare questo matrimonio e le sue eventuali conseguenze politiche e dinastiche». 66 Tale ipotesi è stata abbozzata con prudenza anche da Cogitore 2014, 170: «C’est donc bien la pureté de sang et de la dynastie qu’Antonia protège ici, quitte à provoquer la perte de sa fille. On peut même considérer qu’elle agit ici en homme et joue le rôle d’un paterfamilias».

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con Augusto e di parentela acquisita con Tiberio, anche dallo status di univira, di donna affrancata da qualsiasi potere maschile, maggiormente rafforzata dalla sua posizione di assoluto rilievo all’interno della domus imperiale, dopo la caduta della nuora Agrippina e soprattutto dopo la morte dell’impotens Livia. Si potrebbe pensare che il quadro assolutamente immacolato di madre e matrona restituito dalle fonti antiche sia segnato dall’episodio che la inquadra come madre im- passibile dinanzi alla condanna a morte di sua figlia, perseguendo più una logica di sta- to atta a preservare l’equilibrio interno della successione al potere unico che un istinto materno: sono invece convinto che anche la testimonianza dionea, se veritiera, serva a costruire quell’immagine che al contempo unisce la madre modello, la moglie e vedo- va fedele con la matrona degna di rispetto invitata ufficialmente dal senato di Roma a scegliere le onoranze funebri per il figlio Germanico, ricordata per averne vendicato la memoria, annoverata tra i più importanti membri del casato imperiale, ma soprattutto per aver agito in nome delle istituzioni, punendo la figlia Livilla67. L’interventismo di Antonia Minore si sviluppa quindi e su un piano pubblico (in re publica), come dimostra il caso della morte di Germanico e dei suoi onori funebri, e su un piano strettamente privato, intimo e familiare (in domo), come nella circostanza della consegna di Livilla alla madre e della sua successiva condanna a morte68: Antonia sembra conoscere la portata delle sue azioni e del suo ruolo, al contempo cosciente di quegli obblighi e limiti che il suo status di matrona, moglie, madre ed esponente della famiglia imperiale le impongono.

67 Non può non venire alla mente il paragone con il primo console della storia repubblicana di Roma Lucius Iunius Brutus che rimase impassibile dinanzi alla condanna a morte del figlio accusato di tradimento: cf. Liv. II 5, 5-8; D.H. VIII 79, 4. 68 Cf. Cogitore 2014, 170: «Il s’agit ici d’une mort que j’appellerais ‘familiale’, non pu- blique, limitée au cadre privé de la famille, en lien avec l’accusation d’adultère et non avec celle de conspiration».

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Les spectacles, nouveau lieu d’intervention des femmes dans la vie publique romaine à la fin de la République et au début de l’Empire?

Poser la question des espaces et occasions de l’action féminine dans la société ro- maine en se focalisant sur cette période de grands bouleversements politiques que sont les premiers siècles avant et après Jésus-Christ suppose de s’interroger sur l’impact de ces transformations sur le statut des femmes et donc sur l’évolution de ce statut. L’idée sous-jacente d’une éventuelle « émancipation de la femme »1 à cette période est déjà ancienne et s’explique par une présence effectivement plus importante des femmes dans les sources. C’est notamment le cas dans les sources relatives aux spectacles où les femmes apparaissent de manière sensible à partir du Ier siècle av. J.-C. Or, les spectacles, malgré leur statut particulièrement ambigu dans la société ro- maine2, constituent à la fois un lieu et une occasion politiques majeurs3 dont les struc- tures se mettent précisément en place à cette période ; dans le contexte des guerres civiles, ils possèdent un rôle de tribune politique tout à fait exceptionnel4 qu’ils conservent en partie sous l’empire puisqu’ils restent des lieux de rencontre entre l’empereur et le peuple romain, de consensus politique et de relative liberté d’expression5. Dans le même temps, leurs formes et leur place dans la société romaine se renouvellent : leur nombre croît, les différents genres se définissent plus précisément et l’organisation des jeux est réglementée, notamment par Auguste qui soutient et encadre ce renouveau6. Il paraît donc difficile de ne pas mettre en relation cette visibilité nouvelle des femmes dans la documentation relative aux spectacles avec les transformations qui af- fectent le ‘système des spectacles’7 romains et qui s’inscrivent plus globalement dans les évolutions majeures que connaît la société romaine entre le Ier siècle av. J.C. et le Ier

1 Fau 1978 ; Augenti 2009. 2 Dupont 1985, 19-24, 123. Si le succès des spectacles à Rome est constant, rappelons qu’ils restent pendant tout l’empire l’objet d’une vive critique morale et que les individus s’y produi- sant sont marqués d’infamie par une note du censeur (DIG. III 2 ; Hugoniot 2004). 3 Veyne 1976 ; Nicolet 1976, 479-494; Arnaud 2004. 4 Cic. fam. VIII 2, 1 ; Vell. II 79, 5. 5 Arnaud 2004. 6 Garelli 2007, 168-173 ; Clavel-Levêque 1984, 15-87. 7 Les nombreuses dimensions (sociale, culturelle, politique et économique) qui caractérisent cet objet historique complexe, son importance et son intégration, à différents niveaux, dans la société romaine, enfin sa structuration et sa réglementation progressives entre la fin de la République et le début de l’empire permettent légitimement de parler d’un véritable ‘système des spectacles’.

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siècle ap. J.-C. : l’occasion politique et sociale créée par la mutation des spectacles et leur place croissante dans la vie civique bénéficie-t-elle également aux femmes et, si c’est le cas, selon quelles modalités? On se propose ici de mettre en évidence deux phénomènes qui affectent le monde des spectacles romains à partir du Ier siècle av. J.-C. et à travers lesquels les femmes gagnent en visibilité dans la société romaine : le développement d’une vaste classe de profession- nels des spectacles et l’apparition d’une pratique aristocratique nouvelle, la participa- tion à certaines exhibitions spectaculaires. Il s’agira de s’interroger sur les causes et les conséquences de chacun de ces phénomènes de natures différentes (socio-économique pour le premier, socio-politique pour le second) : quelles sont les mutations sociales, politiques et économiques, profondes à l’origine de ces phénomènes et quels sont les enjeux pour femmes concernées? Le développement de professions largement ouvertes aux femmes Le phénomène qui paraît le plus directement lié à des transformations internes au « système des spectacles », est sans doute le développement et la diversification d’une vaste classe de professionnels des spectacles qui laissent une place importante aux femmes. En effet, parmi les mutations qui affectent les spectacles et expliquent l’appari- tion des femmes sur scène, la plus remarquable est sans doute l’établissement du mime comme genre théâtral majeur. Mimae et autres professionnelles Deuxième genre théâtral de l’époque impériale après la pantomime, le mime est un art composite reposant sur des intrigues légères, stéréotypées, essentiellement construites autour du thème de l’adultère, et laissant une grande place à l’improvisa- tion, à la musique et au chant8. Les acteurs spécialisés dans un type de rôle9 sont orga- nisés professionnellement en troupe, grex10, dirigée par l’archimimus qui détient pro- bablement le premier rôle11. Contrairement aux acteurs de la comédie et de la tragédie classiques, les mimes ne sont pas masqués et les rôles féminins sont donc tenus par des

8 La définition de ce genre est un exercice difficile qui n’a pas fait l’objet de synthèse récente comme le soulignait déjà Slater (Slater 2002) : Cicu 2012 a rassemblé la documentation mais manque de rigueur dans ses définitions. Le terme existe en grec et désigne des pratiques scéniques qui se diversifient à l’époque hellénistique. Certaines de ces pratiques sont introduites à Rome bien avant le Ier ap. J.-C. siècle, mais elles ne constituent pas un genre homogène. Le développe- ment du mime ‘littéraire’ et la formation de greges semble bien se produire au début du Ier siècle av. J.-C. Voir Cic. fam. IX 16, 7 ; Garelli 2007, 128-129 ; Bonaria 1965, 1-5. 9 L’épigraphie nous renseigne sur l’existence de mimes spécialisés dans le second, le troisième ou le quatrième rôle. CIL, VI 10103 ; X 814 ; 1404 ; XIV 4198. 10 Cic. Phil. 8, 26 ; Svet. Cal. 58. 11 Le sens précis d’archimimus est en fait impossible à établir, les sources se contentant d’évoquer ces personnages sans préciser leur fonction au sein du grex.

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femmes. Les commentateurs anciens qualifient ce genre de vulgaire notamment en rai- son du comportement obscène des acteurs, et plus particulièrement des actrices, qui semble participer très largement au succès du genre12. La présence des femmes apparaît ainsi essentielle à la définition de ce genre populaire. L’analyse lexicographique permet de se faire une idée plus précise de la place des femmes parmi les acteurs de mimes. Le terme mimus désigne d’une part le genre théâtral et les œuvres produites sur scène, d’autre part les acteurs ; ce deuxième sens représente un peu plus de soixante-dix occurrences dans toute la littérature latine parmi lesquelles seuls cinq individus peuvent être clairement identifiés13. Les trente-deux occurrences du féminin mima permettent également d’identifier six individus : Arbuscula, Cythe- ris, Lucceia, Origo, Tertia et Thymele. (voir nr. 2, 5, 8, 11, 19, 22 tableau I). Les deux dernières sont uniquement qualifiées demima par des scholies mais l’identification des scholiastes est probable pour l’une comme pour l’autre14. En ce qui concerne l’épi- graphie, six inscriptions évoquent neuf individus masculins qualifiés demimi 15, quatre autres se réduisent au terme mimus/mimi seul et sont donc difficiles à exploiter16. Onze inscriptions mentionnent des mimae ; l’une d’elles évoque un groupe de mimae17, deux autres n’apportent rien en dehors du terme mima18, cinq semblent bien désigner des mimes professionnelles19 et trois sont plus ambiguës20. Les proportions d’hommes et de femmes mimes sont donc relativement proches, en particulier lorsque l’on considère les individus identifiables. Par ailleurs, si les mentions littéraires au masculin pluriel sont particulièrement abondantes, celles-ci ne désignent pas nécessairement uniquement des hommes mais des groupes pouvant évidemment comprendre des mimes des deux sexes. C’est précisément dans la période qui va du Ier siècle av. J.-C. au Ier siècle ap. J.-C., et plus particulièrement dans les dernières décennies de la République, que les sources littéraires évoquent les mimes les plus célèbres : Tertia, Arbuscula et Cythéris. Les sources épigraphiques du premier siècle après J.-C. attestent également de leur rôle dans ce milieu professionnel et notamment dans les organisations d’acteurs qui

12 Tert. spect. 17, 1 ; Mart. III 86, 4 ; Val. Max. II 10, 8. 13 Laberius (Sen. contr. 7, 3), Isidore (Cic. Ve r r. II 3, 78 ; 5, 31 ; 5, 81), Sergius (Plu. Ant. 9), Latinus (Svet.. Dom. 15, 3), Cassium (Tac. ann. I 73, 2) et Pomponium (Fest. 436-438). 14 Arbuscula se produit dans des spectacles scéniques (Cic. Att. IV 15, 6) et semble pouvoir aisément prendre la parole en public (Hor. sat. I 10, 76). Thymele, quant à elle, est à plusieurs reprises associée au mime Latinus en tant que partenaire de scène (Mart. I 4 ; Iuv. I 36 ; VIII 197). 15 CIL, VI 10108 ; VIII 27525 ; IX 4463 ; XIV 3683 ; AEp 1898, 147 ; CIL, IV 10246c. 16 CIL, IV 4163 ; CAG, I 101 ; CAG, XLVI 133 ; CAG, LIX-II 226. 17 CIL, VI 10109. 18 CIL, VI 10113 ; ILAlg-1, 756. 19 CIL, VI 10110 ; CIL, VI 10111 ; CIL, VI 10112 ; CIL, X 07046 ; AEp 1993, 912. 20 CIL, VI 4173 ; VIII 14482 ; 25801a. Le terme mima pourrait bien être un cognomen.

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structurent la profession. Deux inscriptions sont, à cet égard, révélatrices :

Sociarum/ mimarum./ In fr(onte) p(edes) XV,/ in agr(o) p(edes) XII.21

Malheureusement perdue, cette première inscription atteste de l’existence d’une association professionnelle à vocation funéraire de mimae ; ces femmes avaient donc la possibilité de s’organiser en dehors des structures de la troupe d’acteurs mixte. Il n’existe pas, à notre connaissance, d’autre attestation d’association professionnelle ex- clusivement féminine.

Dis Manibus/ M(arci) Fabi M(arci) f(ilii) Esq(uilina) Regilli et Fabiae [---]/ Fabia M(arci) et Ͻ(mulieris) lib(erta) Arete, archim[ima]/ temporis sui prima, diurna fec[it]/ sibi et suis quibus legavit testa[mento]// M(arco) Fabio Chrysanto/ M(arco) Fabio Phileto/ M(arco) Fabio Salvio Vest(iario)/ M(arco) Fabio Hermeti/ M(arco) Fabio Torquato/ Fabiae Mimesi/ M(arco) Fabio Azres[to]/ M(arco) Fa- bio Antigono/ M(arco) Fabio Carpo l(iberto)/ M(arco) Fabio Peculiari l(iberto)/ M(arco) Fabio Hilaro l(iberto)/ M(arco) Fabio Secundo l(iberto)/ M(arco) Fabio Aucto l(iberto)/ Fabiae Cypare l(ibertae)// posterisq[ue eorum monumentum]/ ne abalien[etur maneatque]/ in familia [exceptis his]:/ Sex(to) Pompeio [---]/ l(iberto) Neriano [---],/ A(ulo) Cosio Iucu[ndo quos cum Fabiis]/ et in eod(em) mon[umento sepeliri volo]/ Camo [---]22.

Également perdue, la dédicace de monument funéraire réalisée par l’archimima Fabia Arete, pour elle-même, ses patrons, Marcus Fabius Regillus et son épouse, et sa familia, témoigne de la possibilité pour certaines de ces artistes d’occuper la fonction d’archimima et donc de diriger une troupe d’acteurs23. On ne peut pas affirmer que les femmes étaient complètement absentes desludi scae- nici avant le développement du mime à Rome au début du Ier siècle av. J.-C., mais elles devaient l’être de la comédie et de la tragédie classiques, où les rôles féminins étaient incarnés par des acteurs masqués, et qui disparaissent à cette période pour laisser la place à des genres plus populaires. Le mime n’est d’ailleurs qu’un de ces genres ; le théâtre, ses techniques et ses professionnels se diversifient largement, laissant une grande place au chant24, à la musique et à la danse25, autant de nouvelles techniques dans lesquelles

21 CIL, VI 10109. 22 CIL, VI 10107. 23 On connaît cependant beaucoup plus d’archimimi (quinze individus attestés dans l’épigraphie), que d’archimimae (seulement deux autres attestations : CIL, VI 10106 ; AEp 2009, 01746). 24 Hier. Chron. a. Abr. 189 ; Ov. fast. III 535. 25 Cic. Cael. 65 ; Plin. nat. VII 159. La danse et la musique dans le mime sont également bien

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les femmes trouvent une place. Les spectacles occupent ainsi une part importante des professions féminines recensées par Elena Malaspina dans son étude lexicale publiée en 200326 : vingt-neuf termes sur cent-vingt-sept désignent des professionnelles des spec- tacles, c’est à dire près d’un quart. Ce chiffre ne nous informe évidemment pas sur le nombre de professionnelles mais témoigne de la diversité des professions concernées. Or ce type de professions donne aux femmes l’occasion d’un rôle dans la vie publique. Parmi ces termes, on trouve notamment celui d’Acroama utilisé essentiellement dans le contexte des jeux pour qualifier l’artiste qui se fait entendre. On trouve deux at- testations féminines dans l’épigraphie27 ; les cinq autres sont au pluriel28. À travers cette analyse lexicographique, apparaît par ailleurs de manière frappant la diversité des musi- ciennes : la «joueuse de cithare», Citharistria ou psaltria, la «joueuse de castagnettes», Crotalistria, la «joueuse de cymbales» Cymbalistria, la «joueuse de lyre» Fidicina ou Lyristria, la «chanteuse soliste», Monodiaria, «la joueuse de flûte» Tibicina.29. Toutes ces artistes n’étaient pas nécessairement destinées à la scène, mais cette possibilité n’est pas à exclure pour certaines d’entre elles, notamment la citharoeda dont le masculin citharoedus désigne un type d’artistes participants aux compétitions agonistiques30 et la choraule (également plus connu au masculin, le terme désigne le joueur de flûte qui accompagne le chœur)31. Dans l’autre grand genre de la scène romaine, la pantomime, on ne trouve pas de pantomima avant l’antiquité tardive, mais certains termes féminins rappellent la pratique du pantomime et laissent supposer que, si les grands pantomimes étaient des hommes32, une place devait être ménagée aux femmes dans ces représenta- tions, probablement lors d’intermèdes dansés : gesticularia saltatricula33, artes omnium/

attestées par les précisions scénographiques qui apparaissent dans le fragment du mime Chari- tion retrouvé sur le papyrus P.Oxy. 413 (commentaire et traduction, Andreassi 2001, 38-49). 26 Malaspina 2003. 27 CIL, VI 8693 ; AEp 1985, 99 (nr. 23 tav. I). 28 CIL, VI 1063 ; 1064 ; VIII 6996 ; CILA, III-I 84 ; AEp 1976, 351. 29 Cette liste n’est pas exhaustive et les traductions proposées sont indicatives. En effet, l’état de la recherche ne permet pas toujours de rendre compte de manière précise, certaine et syn- thétique du sens de ces différents termes techniques transmis par les sources. 30 CIL, VI 10125 ; Peche-Vendries 2001, 59. 31 Nr.17 tav. I ; Peche-Vendries 2001, 91. 32 Selon ce que laissent entendre les sources, le danseur de pantomime incarnait seul les différents rôles d’une « pièce mythologique », accompagné par un orchestre composé de musiciens et de chanteurs. Luc. Salt. 61-68 ; Garelli 2007, 223-227. 33 Gell. I 5. Hortensius aurait été comparé à la danseuse Dionysia (nr. 6 tav. I) pour ses gestes d’histrion combinés à son élégance (munditias gestumque in agendo histrionicum). La technique de cette ‘petite danseuse’ est d’abord celle du geste puisqu’elle est appelée gesticularia. Par ailleurs le verbe gesticulare semble bien désigner l’action réalisée par le pantomime chez Suétone (Ner. 42 ; Dom. 8).

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omnes erodita34. D’autres indices vont dans le sens d’une éventuelle participation des femmes aux spectacles de pantomime comme la représentation du jugement de Paris décrite par Apulée dans ses Métamorphoses35, qui ressemble en tout point à un spectacle de pantomime tel que le décrit Lucien et où les déesses sont incarnées par des femmes36. Enfin les professions telles que «danseurs» ou «acteurs d’intermède» saltatrix( /tor et emboliarius/a) sont majoritairement représentées par des femmes37. À partir d’un recensement de l’ensemble des professionnelles des spectacles pour l’Occident romain, soit environ quarante individus, on a pu établir une liste de vingt- deux femmes appartenant à la période qui nous intéresse (Tableau I). Les sources lit- téraires particulièrement abondantes concernent la moitié de ces individus ; elles sont beaucoup plus rares pour les périodes ultérieures. Les femmes professionnelles des spec- tacles sont donc surreprésentées dans les sources relatives aux spectacles à cette période, en particulier dans les sources littéraires. Si ce phénomène peut s’expliquer par le déve- loppement et la diversification des professions artistiques ouvertes aux femmes, il s’agit à présent de tenter de comprendre les raisons de ce développement. Quelles mutations à l’origine du phénomène? Il n’y a pas que les femmes qui accèdent, grâce au renouvellement des spectacles, à un espace public attractif. Le succès de la pantomime permet en effet à des individus d’ori- gine servile de faire des carrières exceptionnelles ; certains vont jusqu’à recevoir les orne- ments décurionaux38. Les jeux existent avant le premier siècle avant J.-C. mais ils n’ont pas la même ampleur : d’abord, le nombre d’individus concernés est bien moindre, ensuite les gladiateurs sont essentiellement des prisonniers et non des professionnels enfin, au théâtre, on ne connaît pas de grande ‘vedette’ avant Q. Roscius, contemporain de Cicéron. Le développement de ces professions qui deviennent attractives, même si elles restent extrêmement déconsidérées et soumises à l’infamie, s’explique par la mas- sification des spectacles (multiplication des jours de fêtes et de la durée des spectacles)39 mais aussi par leur diversification, encouragées qu’elles sont par le pouvoir romain pour répondre aux goûts d’une population habituée à la surenchère des hommes politiques à la fin de la République. On peut, à cet égard, citer l’exemple de M. Scaurus évoqué à

34 CIL, VI 10096 ; 10127 (nr.12 tav. I). 35 Apul. met. III 30-33. 36 Sur l’existence de ‘femme pantomime’ vd. STARKS 2008. 37 Emboliarius n’est attesté qu’une fois dans un graffiti de PompéiCIL ( , IV 1949), alors qu’on a recensé trois artistes féminines qualifiées d’emboliariae ou d’arbitrix imboliarum (nr. 4, 12 et 18 tav. I). Dans l’épigraphie on trouve deux saltatores (CIL, VI 10142 ; XIV 3547) pour deux ou trois saltatrices (CIL, VI 10143 ; 10144 ; VIII 12925). Dans la littérature le masculin sal- tator semble surtout utilisé pour insulter l’adversaire politique (Cic. Pis. 22 ; Mur. 13 ; Planc. 87). 38 CIL, X 1727 ; AEp 1888, 126 ; CIL, XIV 4254 ; AEp 1953, 188. 39 Dupont 1985, 21-22.

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plusieurs reprises par Cicéron40, et celui de César qui s’endette pour les spectacles de son édilité. César puis Auguste ont, par ailleurs, les moyens financiers de surpasser lar- gement la libéralité des magistrats des dernières décennies de la République et ont tout intérêt à le faire ; développer et structurer les spectacles permet notamment à Auguste de les contrôler et de s’assure un média efficace à Rome et dans l’empire41. Or, un spectacle qui surpassent les précédents joue sur le nombre de combattants et d’artistes, sur la durée des représentations, mais aussi sur leur diversité, le caractère spectaculaire des mises en scène et des techniques42 qui passe notamment par le dé- veloppement de la musique, du chœur, des danses43, sur l’émulation44, et surtout sur le caractère innovant. En effet, le souci de toujours montrer sur scène l’exceptionnel, l’exotique, le jamais vu45, est un véritable topos de la littérature sur les spectacles ; or, l’exceptionnel sur scène ou dans l’arène, ce peut être des nobles46, de très vieux acteurs47, des nains48, des combattants du monde entier49, de nouvelles espèces animales50 et des femmes. Celles-ci apparaissent donc comme élément de diversité et d’innovation dans les spectacles notamment dans les spectacles de gladiateurs, comme en témoigne une inscription d’Ostie dans laquelle Hostilianus, un magistrat local est loué pour avoir, le premier, donné des combats de femmes51. On voit donc comment les femmes, comme d’autres individus issus des marges de la société romaine, ont put d’une certaine manière accéder, à travers les spectacles, à un espace de la vie civique qui gagne en importance face au déclin des lieux et institutions traditionnels. Mais quels avantages sociaux et politiques en retirent-elles ? Statut social et influence politique des professionnelles des spectacles La question du statut social de ces femmes implique celle de leur statut juridique, qui est problématique à plusieurs égards. Il faut en premier lieu souligner que les noms de

40 Cic. off. II 57 ; Sest. 115 ; Val. Max. II 4, 6-7. 41 Voir n. 6. 42 Cic. fam. VI 1, 2. 43 Voir n. 24 et 25. 44 Cela explique notamment la nécessité de structurer les spectacles, dans la deuxième moitié du Ier siècle ap. J.-C., pour permettre des compétitions entre acteurs (Macr. II 7, 8 ; Tac. ann. I 54, 2), entre équipes du cirque (Svet. Cal. 30) et entre types de gladiateurs (Svet. Cal. 55). 45 Les sources grecques utilisent également le terme thaumaston, comme pour les phénomènes naturels, les curiosités de la nature. 46 Voir deuxième partie. 47 Plin. Nat. VII 158. 48 Stat. silv. VI 57 ; D.C. LXVII 8. 49 D.C. LI 22, 4. 50 César aurait ainsi été le premier à montrer des girafes (D.C. XLIII 22). 51 CIL, XIV 4616 [frg. A] ; 5381 [frg. B] ; Fora 1996, 64-66, 79 ; Cébeillac -Gervasoni - Caldelli - Zevi 2006, 289-290.

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scène des artistes empêchent souvent de connaître avec certitude ces statuts juridiques généralement identifiables par l’onomastique. Malgré de nombreuses incertitudes, il semble que les esclaves soient plus nombreuses parmi ces professionnelles que chez leurs homologues masculins, même si les affranchies sont également bien représentées et si l’hypothèse que certaines soient des ingénues n’est pas à exclure52. Il faut égale- ment souligner que la marque d’infamie qui affecte tous les professionnels des spec- tacles et implique une limitation de leurs droits et libertés civiles et politiques (notam- ment le droit de Postulatio in iure)53 a un impact très relatif, essentiellement moral, sur les femmes qui ne disposent pas de ces droits. L’hypothèse selon laquelle ces femmes disposeraient d’une autonomie plus grande54 est intéressante mais suppose de savoir de qui dépendent ces femmes. Les stèles funéraires mentionnent fréquemment, mais pas systématiquement, les tuteurs masculins traditionnels, maîtres55, patrons56, conjoints57. Cythéris (nr. 5) et Tertia (nr. 19) constituent deux cas à part d’actrices qui semblent échapper à la tutelle masculine originelle pour celle d’un amant puissant. Ainsi, Cicéron affirme que Tertia est enlevée à son père et à un musicien auquel elle était promise par Verrès58. De même, Cythéris semble placée dans une position exceptionnelle de par sa relation avec Antoine59. Au-delà des questions proprement juridiques, se pose celle de la condition de ces artistes et de leur niveau de vie. Si de très jeunes défuntes apparaissent dans les sources épigraphiques, cela ne signifie pas nécessairement que ces professionnelles avaient un faible niveau de vie ; des contre-exemples attestent d’ailleurs de longévités exception- nelles. Ainsi Pline affirme que emboliarial’ Galeria Copiola (nr. 4) « a été ramenée sur la scène, à l’âge de 104 ans, sous le consulat de C. Poppaeus et de Q. Sulpicius60, à l’oc- casion des jeux votifs donnés pour le salut du divin Auguste ; elle avait été engagée pour ses débuts par l’édile de la Plèbe M. Pomponius, sous le consulat de C. Marius et de Cn. Carbon, 91 ans auparavant61 ; lors de la dédicace de son grand théâtre62, le Grand

52 Voir tableau I. 53 Wolf 2010. 54 Entre autres, Perea Yebenes 2004. 55 CIL, VI 10110 (nr. 7 tav. I) ; 10112 (nr. 20) ; 10141 (nr. 9). 56 CIL, VI 10107 (nr. 3) ; 10122 (nr. 17). 57 CIL, VI 10112 (nr. 20) ; 10120 (nr. 21) ; 10141 (nr. 9). 58 Cic. Ve r r. II 3, 78. 59 Cic. Phil. II 58. Cependant Giusto Traina a bien montré que les liens entre l’actrice et son patron Volumnius Eutrapelus ne disparaissent pas (Traina 1994). 60 9 p.C. 61 82 av. J.-C. 62 55 av. J.-C.

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Pompée l’avait rappelée alors qu’elle était déjà vieille »63. Selon les informations que fournit Pline, Galeria serait donc née en 95 av. J.-C., aurait commencé sa carrière à l’âge de treize ans et se serait retirée de la scène bien avant ses quarante ans puisque cet âge semble déjà être un motif d’étonnement et d’intérêt (pro miraculo) lorsqu’elle est rappelée sur scène pour la première fois en 55 av. J.-C. Galeria semble donc avoir pu choisir de se retirer de la scène relativement tôt64 et vivre plus de soixante-dix ans sans pratiquer son art ce qui suppose une certaine autonomie et surtout une aisance financière non négligeable. Cela nous amène à considérer les revenus manifestement très variables de ces professionnelles. Dionysia (nr. 6) gagne 100 000 sesterces selon Cicéron. Fabia Arete (nr. 3) semble prendre en charge la sépulture de ses patrons et de toute la familia65. De l’autre côté du corps social, l’association de mimae déjà évoquée dispose d’un emplacement funéraire collectif modeste de quinze pieds de largeur et dix pieds de profondeur (15m²), quand la monodiaria Heria Thisbe (nr. 21) et son époux, vainqueur de compétitions musicales, possèdent, eux, un emplacement quasi- ment équivalent (dix pieds sur dix). L’épigraphie funéraire témoigne ainsi de l’écart social entre certains de ces professionnels. Enfin, étant donné l’accès à l’espace public et la position centrale que leur confère leur profession, on peut se demander de quelle liberté de parole et de quelle in- fluence politique pouvaient disposer les plus populaires de ces artistes. Deux indivi- dus fournissent, à cet égard, quelques pistes de réflexion. Arbuscula (nr. 2) constitue un exemple féminin de l’insolence (petulantia) dont semblent pouvoir faire preuve certains acteurs romains66. Horace souligne67 son audace et raconte que, méprisant (contemptis) ouvertement le public qui la huait (explosa) et prétendant au soutien des élites, elle aurait affirmé : « Il me suffit que les chevaliers m’applaudissent ». Cette liberté de parole dans ce qui devient l’une des rares tribunes publiques sous l’empire n’est pas négligeable. Cythéris (nr. 5) est avant tout une figure de l’art oratoire élabo- rée par Cicéron, celle de l’actrice-prostituée qui détourne l’homme politique de ses devoirs et le soumet à sa volonté, bouleversant ainsi l’ordre social. Cependant l’exis- tence de ce type d’individus, issus du monde du spectacle et placés au-dessus de leur rang social grâce à leurs relations avec des hommes politiques, semble attestée par la

63 Plin. nat. VII 158. 64 Relativement par rapport à l’âge atteint par cette artiste car, étant donnés l’espérance de vie moyenne à Rome et le caractère probablement très physique de cette profession, on comprend tout à fait que cette retraite ne paraisse pas spécialement précoce à Pline. Cela donne une idée de la durée moyenne de ce type de carrières qui semblent pouvoir commencer vers dix ans (nr. 10 et nr. 12) et se déployer sur une vingtaine d’années. 65 Voir inscription supra. 66 Svet. Aug. 45, 4 ; D.C. LIV 17, 5 ; Cic. Att. II 19. 67 Hor. sat. I 10, 76-77.

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redondance des anecdotes et ce depuis Sylla qui le premier fait le choix de s’entourer publiquement d’acteurs et d’actrices68. Certes, Il s’agit ici de femmes issues de classes sociales relativement basses, souvent d’origine servile, et donc assez éloignées de l’idéal de la matrone romaine. Discréditées socialement et moralement par leur profession infamante, leur influence dans la sphère publique est réduite. Cependant les cas de Cythéris, Arbruscula ou Arete sont autant d’exemples d’interventions de femmes dans la sphère publique, sur des plans très divers : Cythéris participe à l’image publique de Marc Antoine, Arbuscula exprime un position- nement social et politique à l’occasion d’une altercation avec le public, Arete dirige une troupe d’acteur et participe donc à l’organisation des spectacles. Par ailleurs, la tribune des spectacles ne concerne pas uniquement les femmes de basse extraction sociale. Les femmes de l’aristocratie sur scène et dans l’arène Le succès croissant de la scène au moment où déclinent les institutions républicaines et disparaissent les tribunes politiques traditionnelles de l’aristocratie provoque un autre phénomène notable : cet espace public, pourtant frappé d’infamie mais de plus en plus populaire, semble exercer une attraction croissante sur les élites qui, à plusieurs reprises entre le Ier siècle avant et le Ier siècle après J.-C., montent sur scène malgré des interdits juridiques répétés. Ces individus sont aussi bien des hommes que des femmes. La participation non négligeable des élites romaines aux spectacles On dénombre une soixantaine de références à la participation des élites aux spec- tacles. Ces sources mentionnent au moins vingt-cinq épisodes précis entre Sylla et Do- mitien. Certaines se contentent de mentionner le phénomène de manière générale, par- fois à propos d’un individu déterminé ou bien d’une mesure législative visant à interdire ces pratiques. Parmi ces références, quatorze mentionnent des femmes. Cela correspond à trois épisodes sous Auguste69, trois sous Néron70, un probable sous Domitien71, une évocation satirique de Juvénal72 et trois interdits, sous Auguste73, sous Tibère74 et, de façon tardive et ambiguë, sous Septime Sévère75. Il convient de revenir sur le contexte dans lequel se produisent ces femmes. À partir du premier siècle av. J.-C. des occasions de paraître dans les spectacles sont ménagées aux élites. Ce phénomène est relativement nouveau et suppose un contexte particulier et exceptionnel en raison du statut des spectacles et de leurs professionnels dans la so-

68 Plut. Sull. 36, 1-2. 69 D.C. LIII 31, 3 ; LV 10, 12 ; Svet. Nero 4, 12. 70 D.C. LXI 17, 2-5 ; LXI 19 ; Tac. ann. XIV 15 ; XV 32 ; Svet. Nero 11. 71 D.C. LXVII 8 ; Svet.. Dom. 4, 6. 72 Iuv. VI 246 – 267. 73 D.C. LIV 2. 74 AEp 1978, nr. 145. 75 D.C. LXXV 16, 1.

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ciété romaine. Florence Dupont a mis en évidence ce souci de séparer strictement les sphères de la vie civique et du divertissement et de disqualifier cette dernière pour éviter que la performance ludique ne concurrence celle des hommes politiques76. La perfor- mance publique mise au service du plaisir de la population plutôt que de l’intérêt de la cité est vaine et constitue une forme de soumission, de prostitution du corps et de la voix. Elle est donc indigne d’un homme libre77, qui plus est d’un citoyen ou d’un magis- trat. Les sources insistent sur le scandale et le déshonneur que cela représente pour des familles entières mais également pour les ordres tous entiers. Le passage le plus virulent est peut-être celui de Tacite concernant les spectacles de Néron:

La publicité de sa honte, loin de lui apporter satiété, comme on le pensait, lui servit de stimulant ; et, pensant atténuer le déshonneur s’il multipliait la flé- trissure, il fit monter sur la scène les descendants de nobles familles, que l’indi- gence forçait à se vendre ; bien qu’ils aient achevé leur destinée, je ne crois pas devoir les nommer, par respect pour leurs ancêtres. […] Ni la noblesse, ni l’âge, ou le fait d’avoir rempli des charges n’empêchèrent personne de pratiquer l’art d’un histrion grec ou latin et même de s’abaisser à des gestes et des chants in- dignes d’un homme. Bien plus des femmes de haut rang vont jusqu’à étudier des rôles indécent.78.

Selon Plutarque79, le premier à chercher un moyen de produire des élites est Sylla en 81 av. J.-C. Pour faire accepter cette innovation sans scandale, il institue des jeux parti- culiers, à caractère exceptionnel et s’appuyant sur une vielle tradition, les Jeux Troyens, réservés aux enfants de la noblesse. On peut s’interroger sur les motifs de Sylla ; s’agit-il de soumettre et humilier les élites en leur imposant cette exhibition publique ou au contraire de les flatter en leur permettant de prouver leur valeur ? Près de quarante ans plus tard, César prend moins de précautions et, dans une logique de surenchère et de recherche de l’extraordinaire, il est le premier à produire des chevaliers sur scène et dans l’arène. Cependant, probablement soucieux de la législation ou de l’honorabilité de cet ordre, il n’autorise pas les sénateurs à s’exhiber. Il y a donc une volonté de César de donner des jeux exceptionnels, qui rencontre une aspiration des élites elles-mêmes à se produire dans ces spectacles80. C’est au début du règne d’Auguste que les premiers sénateurs apparaissent dans

76 Dupont 1985, 57-65 ; 2000, 79-85. 77 Lada-Richards 2003. « Haud uiriles » nous dit Tacite (Tac. ann. XIV 15, 1). 78 Tac. ann. XIV 14. Vd. également Tac. ann. XV 32 ; D.C. LXI 17 et 19 ; et le sénatus- consulte de Larinum (AEp 1978, nr. 145) qui insiste sur le fait que ces pratiques portent atteinte à la majesté du Sénat. 79 Plu. Cat. Mi. 3. 80 Svet. Iul. 39, 2 ; D.C. XLIII 22-23.

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des spectacles81 et, selon Dion Cassius, une « femme noble » (la première mentionnée par les sources) monte sur scène en 28 av. J.-C., lors de l’édilité de Marcellus qui reçoit une autorisation exceptionnelle d’Auguste82. Dion Cassius et Suétone évoquent tous les deux des sénatus-consulte visant à interdire la scène et l’arène aux sénateurs et che- valiers83. Mais très vite les entorses se multiplient, d’abord à l’initiative de Domitius Ahenobarbus, puis à celle de Pylades le pantomime impérial. Ces deux personnages, influents à des degrés divers, produisent des chevaliers et des matrones.84 Tibère renforce la législation. Un sénatus-consulte trouvé à Larinum et daté de 19 ap. J.-C., seule source législative de notre corpus, constitue un témoignage direct de ces pratiques et des efforts du pouvoir romain pour les interdire. Il insiste notamment sur le souci de préserver l’honneur des ordres supérieurs et mentionne les tentatives de contraventions aux interdits antérieurs qu’il s’agit de réprimer.

concernant les [sénateurs] et ceux qui, au mépris de la dignité de leur ordre, se produisent sur la scène ou dans les jeux [....] De même que les sénatus-consultes adoptés à ce sujet dans les années antérieures prescrivent ce qu’il convient de faire lorsqu’est commis un délit qui affaiblit la majesté du Sénat, [de même a-t-on décidé de prendre à ce sujet les mesures suivantes]. On ordonne, lorsqu’il s’agit soit d’un fils, d’une fille, d’un petit-fils, d’une petite-fille, d’un arrière-petit-fils ou d’une arrière-petite-fille de sénateur, soit d’un homme [dont le père, le grand père] paternel ou maternel ou le frère, ou encore d’une femme dont le mari, le père, le grand-père paternel ou [maternel ou le frère] aurait eu le droit d’assister aux spectacles depuis les sièges réservés aux chevaliers, que personne ne le pro- duise sur une scène ou ne l’engage par contrat [pour combattre dans l’arène ?]85.

L’interdit de se produire sur scène et dans l’arène porte sur les hommes et femmes des deux ordres définissant une très large parenté et la volonté de se produire semble bien émaner des élites qui tentent de contrevenir à la législation le leur interdisant. Sous Caligula puis Claude les élites paraissent cantonnées aux Jeux Troyens qui connaissent un succès continu86. En revanche, le phénomène se reproduit ensuite mas- sivement sous Néron87. C’est l’occasion pour les historiens anciens d’accabler ‘le mau-

81 D.C. LI 22, 4. 82 D.C. LIII 31, 3. 83 D.C. LIV 2 ; Svet. Aug. 43. Dion Cassius précise que cette décision est adoptée pour lutter contre les pratiques de chevaliers et de « femmes illustres » qui s’exposent sur scène. 84 Svet. Nero 4, 2 ; D.C. LV 10, 12. 85 AEp 1978, 145 ; Ricci 2006, 50 ; Buonocore 1992, 17-26. 86 Svet. Iul. 39 ; Aug. 43 ; Cal. 18 ; Claud. 21 ; D.C. XLVIII 20, 2 ; 43 ; XLIX 43 ; LI 22 ; LIII 1, 4 ; LIX 7 ; Tac. ann. XI 11. 87 D.C. LXI 17-21 ; Tac. ann. XIV 14-15 ; 20-21 ; XV 32 ; Svet. Nero 11-12.

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vais empereur’. Mais si certains tentent de présenter les élites comme contraintes par Néron88, une lecture attentive des différents témoignages laisse deviner une volonté partagée des différents acteurs89. Néron crée des spectacles spécifiques, à la manière de Sylla avec les Jeux Troyens, les Iuvenalia, au public restreint, et les Neronia, proches des agônes grecs, étrangers à la notion d’infamie, pour permettre aux élites de faire la démonstration de leur excellence sportive et artistique. Il s’agit de rendre acceptable l’exhibition des élites en jouant sur le contexte et la fonction de la performance. Le procédé ne semble pas convaincre les commentateurs du siècle suivant. Les jeux de Néron sont abandonnés et on ne revoit que ponctuellement les aristo- crates dans des jeux sous Domitien, notamment peut-être dans ses concours grecs, les Capitolia. Il n’y a ensuite plus aucune attestation du phénomène avant l’interdit de Septime Sévère concernant la participation des femmes aux combats (le terme ἀγών semble désigner les luttes athlétiques plutôt que les combats de gladiateurs), pour pré- server l’honneur des plus nobles d’entre elles90. Il existe donc toujours une participa- tion des élites, probablement limitée aux concours, qui ne fait plus scandale puisque les sources ne l’évoquent plus. Des femmes « illustres » sur scène et dans l’arène Le statut social des femmes mentionnées par les sources à l’occasion de ces épi- sodes est en partie gommé par l’expression générique, « femmes illustres », γυναῖκες ἐπιφανεῖς, chez Dion Cassius91 et feminae inlustres chez Tacite92. Cette formulation sté- réotypée semble cependant bien qualifier des femmes des ordres supérieurs qui ne dis- posent pas personnellement de la dignité sénatoriale ou équestre, mais partagent celle des hommes de leur famille. Aelia Catella, la seule nommée93 est, selon Marie-Thérèse Raepseat-Charlier qui s’appuie sur l’onomastique, la fille de Sex. Aelius Catus consul en 4 ap. J.-C94. Juvénal évoque la pratique en amateurs de la gladiature par certaines descendantes de grands hommes politiques (Metellus, Lepidus, Fabius Gurges), mais il n’est pas sûr que celles-ci se produisent réellement en public95. Suétone précise bien ce- pendant, pour évoquer ces individus, ex utroque ordine et sexu (« des deux ordres et des deux sexes »)96 et Dion Cassius, καὶ ἄνδρες καὶ γυναῖκες οὐχ ὅπως τοῦ ἱππικοῦ ἀλλὰ καὶ τοῦ βουλευτικοῦ (« des hommes et des femmes non seulement de l’ordre équestre mais aussi

88 Tac. ann. XIV 14, 3. 89 Notamment Tac. ann. XIV 15. 90 Vd. n. 43. 91 D.C. LIV 2. 92 Tac. ann. XIV 15. 93 D.C. LXI 19. 94 Raepseat-Charlier 1987, 34. 95 Iuv. VI 246-267. 96 Svet. Nero 11.

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de l’ordre sénatorial »)97. Dans le même extrait il parle notamment de grandes familles comme les Fabii, les Furii, les Porcii, les Valerii. Les matrones équestres et sénatoriales s’exposent donc sur scène et même parfois dans l’arène (à deux reprises au moins sous Néron)98, prenant la place des profession- nelles. La signification de ces exhibitions publiques est difficile à saisir car leur mention dans les sources est souvent laconique et fortement réprobatrice. L’intérêt des indivi- dus se produisant sur scène n’est jamais mentionné. Il y a en tout cas là un choix et des enjeux différents de ceux des professionnelles. Les pratiques féminines s’insèrent vrai- semblablement ici dans un phénomène qui concerne l’intégralité d’une classe sociale sans distinction de genre. Ces femmes interviennent toujours dans les spectacles avec des nobles de sexe masculin. On ne peut que supposer la dimension politique de ce phé- nomène. Cependant les individus, hommes et femmes, qui se prêtent à ces exhibitions publiques sont retenus par les sources essentiellement comme des représentants de leur ordre, de leur classe sociale et de leur gens. On ne peut donc pas ignorer l’impact que devait avoir ce type d’interventions, auxquelles les femmes participent au même titre que les hommes, sur l’image publique des grandes familles aristocratiques de l’empire, en particulier à un moment où déclinent les tribunes traditionnelles de l’aristocratie. Pour les commentateurs, cet impact est négatif, mais il s’agit d’un point de vue très spécifique, propre à une élite intellectuelle minoritaire. L’empereur ne force pas les aristocrates mais semble souvent complaisant. Cela sup- pose que chacun y trouve un intérêt. Celui du public est évident : voir l’exceptionnel. Celui de l’empereur serait de s’assurer un soutien populaire par le succès de ses spec- tacles. Dans ces conditions, celui des élites est certainement de chercher à plaire à l’em- pereur, mais aussi probablement de jouir d’un certain succès populaire à une époque où il n’est plus tellement possible de s’illustrer militairement en remportant des triom- phes, ou encore de se placer en évergète particulièrement généreux, du moins dans la capitale. Les spectacles constituent bien une nouvelle tribune politique et sociale pour ces élites99. Le succès des Jeux Troyens dont le but est, selon Suétone, de « de mettre ainsi en lumière la valeur d’une lignée illustre »100 en témoigne. Et il est intéressant de constater que les femmes ont leur place sur cette tribune. On notera que l’exhibition de femmes nobles ne semble pas tellement plus scanda- leuse que l’exhibition des élites en général, aux yeux de Suétone, Tacite et Dion Cas- sius. Et, si la sixième satire de Juvénal semble sous-entendre que ces pratiques seraient la conséquence d’une passion dégradante spécifiquement féminine101, la huitième satire

97 D.C. LXI 17. 98 D.C. LXI 17 ; Tac. ann. XV 32. 99 Suspene 2004 ; Bur 2011. 100 Svet. Aug. 43. 101 Vd. n. 82.

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rééquilibre la balance des genres en critiquant cette fois la pratique scandaleuse des élites masculines qui se produisent indubitablement en public102.

Plutôt que de chercher à mettre en évidence, dans un des domaines de la vie pu- blique (les spectacles), un phénomène plus large d’émancipation de la femme, il est utile de renverser le raisonnement en s’interrogeant sur les mutations et évolutions qui af- fectent la société romaine et qui permettent ou suscitent l’ouverture de nouveaux lieux d’expression et de représentations publiques, les spectacles. Ces lieux, parfois anciens, se transforment, changent de nature, s’adaptent aux mutations politiques majeures de la fin de la République, et semblent ménager une place dans l’espace public à des caté- gories sociales qui y étaient auparavant moins visibles, mais aussi en fournir à des caté- gories sociales qui ont, elles, perdu leur tribune traditionnelle. L’apparition notable des femmes dans la documentation relative aux spectacles à partir du premier siècle avant J.-C. paraît donc pouvoir s’expliquer en partie dans le cadre de sce processus. C’est le statut ambigu des spectacles, à la fois hautement politiques, au cœur de la vie publique, mais rejetés en dehors de la vie politique officielle, qui permet aux marginaux et notam- ment aux femmes d’y occuper un rôle informel.

102 Iuv. VIII 183-210.

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Flavius Josèphe et le rôle des femmes en politique, de Cléopâtre à Antonia

Pour qui veut réfléchir sur les femmes en action dans les domaines privés et publics, nombreuses sont les démarches possibles, tant le sujet est riche et se prête à des ap- proches variées. J’ai ici fait le choix de partir d’un auteur, Flavius Josèphe, qui se trouve au confluent des mondes grec et romain, choix stratégique dans la mesure où la question de l’action des femmes et de leur place peut se poser en des termes féconds si on com- pare les deux mondes ; en effet, les femmes ont, dans les cités d’époque hellénistique et dans la sphère plus proprement romaine, des places et des rôles parfois différents, parfois semblables, en tout cas comparables si on fait montre de prudence et qu’on s’en tient à une étude précise des sources1. Flavius Josèphe, en tant qu’il est précisément au confluent de ces deux mondes, offre le plus grand intérêt : ses contacts avec l’élite impériale romaine et sa proximité avec Vespasien, qui le loge près de lui2, lui permettent de connaître et de prendre en compte la situation propre au pouvoir romain. L’empereur Titus a de plus cautionné son œuvre3. Mais il est aussi, très probablement, un intime d’Agrippa II et, à ce titre, très proche des sphères politiques orientales4. Cette position ambiguë rend bien sûr nécessaire la plus grande prudence, même si on refuse de voir en Flavius Josèphe le tenant du régime flavien, ou le simple l’écho d’une vision officielle des faits5 ; elle est aussi le gage d’une grande richesse dans les informations portées par les textes. Par ailleurs, si l’historien affirme écrire lesAntiquités juives pour un public grec (AJ I 5.9), tous les spécialistes s’accordent à dire que le public romain est également sa cible6. C’est à ce titre que ses œuvres sont particulièrement intéressantes pour la question des femmes et c’est pour cette raison qu’il faudra garder en tête cette perspective pour tirer parti des analyses qui vont suivre : qui est vraiment destinataire de l’image des femmes dans ses œuvres ? Certes, Flavius Josèphe n’a pas toujours bonne presse et son usage est délicat. La question de ses sources, épineuse, se pose de manière particulièrement aiguë pour la pé-

1 Cette démarche est notamment celle d’un livre collectif à paraître, Femmes influentes dans le monde hellénistique et à Rome, dir. A. Bielman, I. Cogitore et A. Kolb. 2 Cotton ˗ Eck 2005, 37-39. 3 Curran 2005, 73. 4 Mason 2003, 559-563 claire mise au point sur la carrière de Flavius Josèphe. 5 Beard 2003, 556. 6 Mason 2003, 565.

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riode de la fin de la République, quoiqu’elle soit moins étudiée que pour les trois derniers livres des Antiquités juives. Le rapport à Nicolas de Damas est un point d’achoppement de nombreuses études sur ses sources et qui en reste souvent à un non liquet7. Autre pro- blème, la position de Flavius Josèphe évolue, entre le Bellum Iudaicum et les Antiquités juives, particulièrement dans le rapport aux Romains, alors même que certains épisodes ou certains personnages capitaux sont présents dans les deux œuvres8 : comment réagir face à ces éclairages souvent divergents ? Enfin, l’historien a souvent recours à destopoi qui mettent en jeu des thèmes classiques et des conventions génériques qui brouillent le sens et la portée des textes9. Ainsi, on peut dire que l’intérêt qu’on trouve à lire Flavius Josèphe est proportionnel à la difficulté d’en tirer le meilleur parti, sans surinterprétation ni préjugé. À titre d’exemple, on pourrait ainsi rappeler que les femmes sont chez lui souvent présentées selon un jour peu flatteur, voire totalement négatif10, conformément au topos qui veut qu’elles agissent en étant portées par leur nature incontrôlable : Cléopâtre en est l’archétype, femme poussée par une faim de richesses et de pouvoir, esclave de ses désirs (AJ XV 90-97), ou encore Mariamme qui est un infatigable ferment de discorde à la cour de son époux Hérode11. Ces topoi pourraient suffire à occuper la réflexion. Mais si on approfondit, comme il est de règle pour réussir à dépasser les barrières érigées par une rhétorique qui veut amener le lecteur à un point précis, on voit aussi chez Flavius Josèphe des éléments bien plus intéressants concernant les femmes. Ainsi, il souligne ré- gulièrement le fait que l’action des femmes, quel que soit le jugement qu’on peut porter, est presque toujours motivée par l’intérêt de leur(s) fils, en prévision d’une succession dont les chemins ne sont pas toujours simples. Leur rôle dans la transmission du pouvoir et l’organisation de la succession est mis en valeur, comme lorsqu’Helena d’Adiabène, femme et sœur du roi Monobazus, manœuvre pour que son fils Izatès lui succède AJ( XX 17). La femme est alors la garante de l’eugeneia, et, comme on va le voir, elle repré- sente souvent cette valeur12. Autre élément à souligner : l’historien a le souci constant de penser la place des femmes en termes de hiérarchie entre elles, qu’il s’agisse de formes d’inégalités ou de parité, comme l’isotimia entre Mariamme et Salomé. Cette constatation m’a précisément mise sur la trace que je voudrais exposer ici, celle des réseaux qui, entre femmes de pouvoir, font circuler des informations et provoquent des décisions, par des canaux non officiels mais efficaces.

7 Toher 2003, 428. 8 Rajak 2007, 23-24. 9 Mader 2000, 6 (et passim) souligne l’intérêt de l’étude des topoi hérités de la tradition gréco-romaine. 10 Assez général sur cette tradition, Ehrenkrook 2011, 145-163. 11 Parmentier 2006 sur les trahisons à la cour d’Hérode. 12 Goodman 1988, 117.

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À ce stade de mon enquête, trois réseaux sont apparus, dans le Bellum Iudaicum et dans les Antiquités juives, qui mettent en jeu des femmes de pouvoir, appartenant à des cours différentes, et qui permettent de penser l’action des femmes, entre monde hellé- nistique et monde romain, sur la période qui va de la fin de la République romaine aux premiers temps de l’Empire. Examinés avec prudence et précision, les textes qui les font apparaître rendent possibles quelques constatations sur le fonctionnement concret de semblables réseaux d’influence et d’action.

Un premier réseau existe entre Alexandra, fille d’Hyrcanus II et mère de Mariamme qui épouse Hérode le Grand, et Cléopâtre. Ce réseau transparaît à deux occasions qui, de fait, sont liées : en 36-35 a.C., Hérode fait venir de Babylone un certain Ananel pour lui donner la charge de grand-prêtre, qu’Alexandra estime devoir revenir à son propre fils, Aristobule, parce qu’il est Hasmonéen. Outrée de cette décision, Alexandra écrit à Cléopâtre pour que celle-ci obtienne qu’Antoine oblige Hérode à donner la prêtrise à Aristobule :

ἐτετάρακτο δὲ καὶ χαλεπῶς ἔφερεν τὴν ἀτιμίαν τοῦ παιδός, εἰ περιόντος ἐκείνου τῶν ἐπικλήτων τις ἀξιοῦται τῆς ἀρχιερωσύνης, καὶ γράφει Κλεοπάτρᾳ μουσουργοῦ τινος αὐτῇ συμπραγματευομένου τὰ περὶ τὴν κομιδὴν τῶν γραμμάτων αἰτεῖσθαι παρ᾽ Ἀντωνίου τῷ παιδὶ τὴν ἀρχιερωσύνην13.

La lettre n’obtient pas dans un premier temps le résultat escompté par Alexandra, mais joue pour ainsi dire un rôle dramatique, car un ami d’Antoine, Q. Dellius, ren- contre alors Aristobule en Judée et est frappé par sa grande beauté, ainsi que par celle de Mariamme sa sœur ; il en fait un tel éloge auprès d’Antoine que ce dernier, dont l’appétit érotique (selon Josèphe !) aurait été ainsi éveillé, demande à Hérode d’envoyer Aristo- bule en Egypte. C’est alors qu’Hérode consent à confier la grande prêtrise à Aristobule. Le résultat attendu par Alexandra est ainsi atteint, mais, si l’on s’en tient à la tonalité du récit par Josèphe, pour des raisons immorales et non grâce à l’efficacité des femmes. Mais allons plus loin. Pour tenter d’analyser cet épisode, on peut remarquer que la lettre d’Alexandra est transmise par un chanteur, μουσουργοῦ τινος, et ne passe donc pas par des canaux officiels ; elle entre dans le cadre de relations privées, alors même que le contenu de la lettre concerne des affaires hautement politiques. Le recours à un musi- cien en est le signe : peut-être s’agit-il d’un musicien itinérant, si on suppose l’existence d’artistes passant d’une cour à l’autre. En tout cas , il ne s’agit pas d’un messager « pro- fessionnel » ni officiel. Ce premier élément est à garder en mémoire pour comprendre le fonctionnement concret des réseaux féminins. Ensuite, on peut se demander pour quelles raisons Alexandra ne s’adresse pas direc-

13 J. AJ XV 24.

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tement à Hérode, auprès de qui elle a bien évidemment accès, étant donnée sa place à la cour ; elle pouvait également passer par l’intermédiaire de sa fille Mariamme, mariée à Hérode et avec qui les relations ne se sont pas encore dégradées. Précisément, Ma- riamme elle-même intervient aussi auprès d’Hérode, dans le même sens que sa mère, sans que Flavius Josèphe ne précise si elle le fait de son propre chef ou sur demande de sa mère (AJ XV 31) ; l’historien signale cette intervention de Mariamme juste avant la décision prise par Hérode, signe peut-être de son efficacité. Or Alexandra choisit d’agir par l’intermédiaire de Cléopâtre ; est-ce le signe d’une plus grande confiance dans le pouvoir de persuasion d’une reine d’Égypte, plus lointaine et puissante ? Il me semble que cette réponse n’est que partielle. Le fait qu’Alexandra ait ainsi recours à Cléopâtre, pour atteindre Hérode par le biais d’Antoine, doit plutôt être interprété comme le signe d’un élargissement des réseaux familiaux et même, plus largement, orientaux : l’appel à la reine d’Égypte vise le Romain Antoine, ainsi reconnu comme l’arbitre des discordes locales14. Alexandra déplace de cette manière le conflit en dehors des strictes frontières familiales, n’a pas recours à sa fille pour agir sur son gendre, mais va chercher, au-delà des frontières, deux autorités, la reine d’Égypte et le Romain Antoine, dans une démarche qui dépasse les intérêts locaux. Le récit de Josèphe montre bien qu’Hérode lui-même, quand il apprend ce recours d’Alexandra à Cléopâtre, l’interprète comme une action politique destinée à lui nuire auprès de Cléopâtre : ἐπιβουλεῦσαι λέγων τῇ βασιλείᾳ καὶ διὰ τῆς Κλεοπάτρας πράττειν. L’accusation est forte, si le verbe ἐπιβουλεῦσαι est bien celui employé par Hérode ; en tout cas, l’expression montre bien le poids que Josèphe lui-même accorde à cette action d’Alexandra et l’interprétation qu’il lui donne. Le texte est clair : Hérode craint que l’intervention des Romains ne le dépouille à terme du pouvoir, au profit d’Aristobule. Je ne m’arrêterai pas ici sur le fondement de cette crainte, pour m’en tenir à ce qui concerne Alexandra et Cléopâtre. Dans l’accusation qu’Hérode porte contre Alexan- dra, l’adverbe κρύφα a toute son importance : c’est le côté non officiel et caché de l’ac- tion d’Alexandra qui est condamné au premier chef. Du coup, la transmission de la lettre par un musicien fait sens : Alexandra a choisi un mode de communication privé et caché parce que sa démarche mettait en jeu des puissances extérieures à la cour d’Hérode, et que ce sont précisément ses liens personnels avec la reine d’Egypte qui permettent ce détour. On peut même penser que, ce réseau entre femmes étant connu, les communica- tions d’Alexandra avec la cour d’Egypte étaient surveillées et que le recours à un messa- ger inhabituel pouvait être une manière de contourner cette surveillance. Enfin, le dénouement de l’épisode est aussi intéressant: Hérode accorde la grande

14 Goodman 1988, 32-33 sur le rôle des Romains, César puis Antoine, dans les affaires successorales de Judée. F. Millar a souligné l’intérêt que représenteraient des études sur les interactions entre les maisonnées d’Hérode et des empereurs romains, Millar 2007, 20.

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prêtrise à l’Hasmonéen Aristobule, se rendant ainsi aux arguments de sa femme Mariamme, selon Josèphe : l’historien choisit donc d’accentuer le rôle joué par Ma- riamme, sans même s’arrêter à une éventuelle efficacité des pressions romaines. Il insiste sur l’importance d’une femme, Mariamme, plutôt que de présenter un royaume tota- lement sous la coupe des Romains. De fait, il centre ensuite son récit sur les règlements internes à la cour, en signalant qu’Hérode pardonne à Alexandra, mais en la plaçant sous surveillance, prisonnière dans son palais, sous bonne garde, n’ayant plus de vie privée ; le rôle joué par Cléopâtre est minoré, elle n’est guère plus que la destinataire de la lettre d’Alexandra, qui n’est qu’une péripétie du récit, et la réalité de son action auprès d’Antoine n’est pas soulignée ni développée15. On peut donc dire que l’épisode est résolument inscrit dans un contexte local, les rôles joués par Cléopâtre et Antoine sont mentionnés à titre dramatique, sans que leur efficacité soit considérée. Le réseau que nous pouvons voir transparaître entre Alexandra et Cléopâtre n’est pas au premier plan du récit. Il apparaît de nouveau, dans la suite immédiate de cet épisode. La réconciliation entre Hérode et Alexandra n’est que façade, et cette dernière, enfermée dans son palais, écrit à Cléopâtre pour se plaindre de la situation. L’échange de courrier, sur le mode de transmission duquel Josèphe ne donne cette fois aucune information, se poursuit avec une réponse de la reine d’Egypte, offrant l’asile à Alexandra si elle réussit à s’enfuir:

ἔπεμπεν οὖν παρὰ τὴν Κλεοπάτραν ἐν οἷς εἴη συνεχὲς ὀδυρομένη καὶ παρακαλοῦσα προσβοηθεῖν αὐτῇ κατὰ δύναμιν. ἡ δὲ λαθοῦσαν ἐκέλευσεν ἐπ᾽ Αἰγύπτου σὺν τῷ παιδὶ πρὸς αὐτὴν ἀποδιδράσκειν. [46] ἐδόκει ταῦτα καὶ τεχνάζεται τοιάδε: δύο λάρνακας ὡς εἰς ἐκκομιδὴν νεκρῶν παρασκευασαμένη ταύταις αὐτὴν καὶ τὸν υἱὸν ἐνέβαλεν, ἐπιτάξασα τῶν οἰκετῶν τοῖς συνειδόσιν διὰ νυκτὸς ἐκφέρειν. ἦν δὲ τοὐντεῦθεν ἐπὶ θάλατταν ὁδὸς αὐτοῖς καὶ πλοῖον, ὃ διαπλεύσειν εἰς τὴν Αἴγυπτον ἔμελλεν, παρεσκευασμένον. [47] ταῦτα Σαββίωνι τῶν ἐκείνης φίλων Αἴσωπος οἰκέτης αὐτῆς ἀπαγγέλλει προπεσὼν ὡς εἰδότι φράσαι. πυθόμενος δὲ Σαββίων, καὶ γὰρ ἦν ἐχθρὸς Ἡρώδου πρότερον, ὅτι τῶν ἐπιβουλευσάντων Ἀντιπάτρῳ κατὰ τὴν φαρμακείαν εἷς ἐνομίζετο, τὸ μῖσος ὑπαλλάξεσθαι τῇ περὶ τὴν μήνυσιν εὐνοίᾳ προσεδόκησεν καὶ καταλέγει τῷ βασιλεῖ τὴν τῆς Ἀλεξάνδρας ἐπιβουλήν. [48] ὁ δὲ τὴν μὲν ἕως τῆς ἐγχειρήσεως ἐάσας προελθεῖν ἐπ᾽ αὐτοφώρῳ τοῦ δρασμοῦ συνέλαβεν, παρῆκεν δὲ τὴν ἁμαρτίαν, χαλεπὸν μὲν οὐδέν, εἰ καὶ σφόδρα βουλομένῳ ἦν αὐτῷ, διαθεῖναι τολμήσας, οὐ γὰρ ἂν ἀνασχέσθαι Κλεοπάτραν αἰτίαν ἐπὶ τῷ πρὸς αὐτὸν μίσει λαβοῦσαν, ἐμφαίνων δὲ μεγαλοψυχίαν μᾶλλον ἐξ ἐπιεικείας αὐτοῖς συνεγνωκένα16.

15 C’est tout juste si Josèphe, pourtant prolixe quand il s’agit de condamner la reine d’Égypte, affirme qu’Antoine avait trop peur d’elle pour convoquer Aristobule et Mariamme dont Dellius lui a vanté la beauté… (XV 28). 16 J. AJ. XV 45.

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Flavius Josèphe développe ici un de ces passages dont il a le secret, presque rocambo- lesque, avec cette histoire de fuite d’Alexandra et son fils cachés dans des cercueils, qui iraient d’abord par route jusqu’à la mer puis seraient chargés sur un bateau pour aller en Egypte… Une trahison d’un ami d’Alexandra auprès du roi fait avorter l’affaire. Le fait que l’entreprise échoue signale bien la valeur purement dramatique de l’épisode, auquel on aurait du mal à donner une réalité historique affirmée. Mais on peut néanmoins réfléchir sur l’épisode pour tenter de discerner le fonction- nement du réseau entre Alexandra et Cléopâtre, car, même si l’ épisode est inventé, le réseau a pu exister et son existence même pouvait servir à donner corps au récit. Or, le fonctionnement du réseau est net : des lettres ont été échangées, des décisions ont été mises en œuvre pour préparer la fuite, des préparatifs ont été faits. En outre, si on en reste au niveau du récit, on peut considérer que le réseau a une efficacité, car Hérode, malgré la dénonciation, ne sévit pas contre Alexandra, par crainte de la réaction de Cléo- pâtre et, faut-il le dire, d’Antoine peut-être aussi17. Un autre épisode démontre l’existence de ce réseau : quelque temps après cet épisode, Hérode, inquiet de la popularité grandissante du jeune Aristobule, le fait noyer (XV 53-56). Alexandra écrit alors à Cléopâtre pour l’en informer et cette dernière intervient auprès d’Antoine pour demander que la mort d’Aristobule soit vengée : on retrouve ici le même système de « billard à trois bandes », Alexandra écrivant à Cléopâtre pour que celle-ci fasse intervenir Antoine auprès d’Hérode (voire contre Hérode…). Il est parti- culièrement intéressant de regarder les arguments avancés par Cléopâtre pour pousser Antoine à l’action : Hérode a été fait roi par Antoine lui-même, il ne devrait donc pas se comporter ainsi envers ceux qui sont les vrais rois par la naissance:

Τὴν δ᾽ Ἀλεξάνδραν ἥττησε μὲν οὐδὲν τῶν τοιούτων, ἀεὶ δὲ καὶ μᾶλλον ἡ μνήμη τοῦ κακοῦ παρέχουσα τὴν ὀδύνην ὀδυρτικὴν ἐποίει καὶ φιλόνεικον, καὶ γράφει τὴν ἐπιβουλὴν Ἡρώδου τῇ Κλεοπάτρᾳ καὶ τὴν ἀπώλειαν τοῦ παιδός. 63] ἡ δὲ καὶ πάλαι σπεύδουσα προσαρκέσαι δεομένῃ καὶ τὰς ἀτυχίας οἰκτείρουσα τῆς Ἀλεξάνδρας αὐτῆς ἐποιεῖτο τὸ πᾶν πρᾶγμα καὶ Ἀντώνιον οὐκ ἀνίει τίσασθαι τὸν φόνον τοῦ παιδὸς παροξύνουσα: οὐ γὰρ ἄξιον Ἡρώδην δι᾽ αὐτοῦ καταστάντα βασιλέα τῆς οὐδὲν προσηκούσης ἀρχῆς εἰς τοὺς ὄννως βασιλεῖς τοιαύτας ἐπιδείκνυσθαι παρανομίας18.

De manière indirecte, c’est l’argument d’eugeneia que porte Cléopâtre, même si, il faut le reconnaître, Antoine n’est peut-être le mieux à même de l’apprécier… Il faut sup- poser que Flavius, en mettant cet argument dans la bouche de Cléopâtre, la fait s’adres- ser à Antoine comme à un roi égyptien, sans tenir compte de sa naissance romaine ; plus simplement, on peut considérer que l’historien traite ici Antoine comme un personnage

17 Mais le texte est très corrompu sur cette fin du XV 48. 18 J. AJ XV 62.

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de ce roman oriental… Quoi qu’il en soit, l’argument portant sur la haute naissance des rois est important et peut être utilisé pour comprendre le fonctionnement du réseau qui unit Alexandra et Cléopâtre, car il serait logique de penser que semblable argument, qui oppose Hérode, créé roi par les Romains, et Aristobule, Hasmonéen par sa mère, ait été avancé par Alexandra elle-même auprès de Cléopâtre : argument de femme, la haute naissance est un argument de reine. Le fait de partager une haute naissance est ce qui rassemble Alexandra et Cléopâtre, et forme, pour ainsi dire, la base de leur réseau. Quelle efficacité obtient le réseau dans cet épisode ? Il semble que, dans un premier temps, un résultat se produise : Hérode est convoqué par Antoine et se rend à la convo- cation. Mais, grâce à de nombreux cadeaux, il retourne Antoine en sa faveur au point que celui-ci conseille à Cléopâtre plus de retenue dans les affaires politiques:

οὐ γὰρ ἔφη καλῶς ἔχειν Ἀντώνιος βασιλέα περὶ τῶν κατὰ τὴν ἀρχὴν γεγενημένων εὐθύνας ἀπαιτεῖν: οὕτως γὰρ ἂν οὐδὲ βασιλεὺς εἴη: δόντας δὲ τὴν τιμὴν καὶ τῆς ἐξουσίας καταξιώσαντας ἐᾶν αὐτῇ χρῆσθαι. τὸ δ᾽ αὐτὸ καὶ τῇ Κλεοπάτρᾳ μὴ πολυπραγμονεῖσθαι τὰ περὶ τὰς ἀρχὰς συμφέρειν19.

Dans ce bref passage, deux points sont à retenir : Antoine ne se rend pas aux argu- ments de Cléopâtre et les renverse totalement, repoussant le raisonnement fondé sur l’eugeneia pour lui opposer un raisonnement fondé sur l’exercice du pouvoir. En effet, selon lui, il n’est pas bon de demander des comptes à un roi, ce qui fragiliserait son pouvoir et, indirectement, celui des Romains, pour avoir mal jugé Hérode et lui avoir confié à tort le pouvoir. Antoine répond, pour ainsi dire, en Romain maître des lieux, quand Cléopâtre raisonnait en reine issue d’un système dynastique. Il est alors cohérent qu’Antoine, agissant toujours en Romain, renvoie Cléopâtre parmi les femmes, à une place éloignée de la politique, μὴ πολυπραγμονεῖσθαι τὰ περὶ τὰς ἀρχὰς.

Ces deux épisodes, si fantaisistes qu’ils puissent être, offrent donc malgré tout des éclairages utiles : les deux femmes, depuis une position élevée quoique différente, entre- tiennent une correspondance, qui peut passer par des canaux secrets, dans laquelle elles partagent des informations et grâce à laquelle elles peuvent élaborer une stratégie com- mune, destinée à maintenir et faire perdurer le système dynastique auquel elles ont part. Les ombres et difficultés que contiennent ces épisodes peuvent provenir du récit fait par Hérode lui-même, que Josèphe signale juste après (AJ XV 77-79) et dans lequel il fait totale allégeance à Antoine. Mais l’existence et les quelques détails de fonctionnement du réseau ne sont pas nécessairement inventés : ce réseau fait partie du récit et le rend crédible, argument pour que nous admettions son existence.

19 J. AJ XV 76.

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Autour d’Hérode, le récit de Flavius Josèphe dessine un autre réseau féminin, qui nous entraîne cette fois plus loin géographiquement, en unissant Salomé, sœur d’Hé- rode, à Livie20. Salomé est un personnage important dans le Bellum Iudaicum et dans les Antiquités Juives. Elle apparaît quand Hérode, se rendant à une convocation d’Antoine, remet au mari de celle-ci, Joseph, la garde de Mariamme et le charge de la tuer s’il ne revenait pas (BJ I 441 et AJ XV 65). Après la mort de Joseph son mari, Salomé, restée veuve, entend se remarier avec Syllaeus l’Arabe, de haut rang. Elle s’adresse alors à Livie pour que celle-ci intervienne auprès d’Hérode et lui fasse accepter cette union (BJ I 566). Là encore, comme dans le cas des relations entre Alexandra et Hérode, on peut se demander pourquoi Salomé ne s’adresse pas directement à son frère, mais fait passer sa demande par l’intermédiaire de Livie, de nouveau dans ce système que j’ai appelé « bil- lard à trois bandes ». On note cependant une différence notable : cette fois, la présence de Rome est plus directe, puisque c’est à une femme romaine que Salomé demande ap- pui, sans qu’on puisse préjuger des moyens d’actions de Livie auprès d’Hérode, puisque l’affaire semble se situer dans les années qui précèdent Actium. Il ne semble pas attendu que Livie intercède auprès d’Antoine pour agir sur Hérode et Octave n’est pas en mesure de le faire non plus, si cette chronologie est juste. Est-ce pour cette raison que Salomé n’obtient pas gain de cause et qu’Hérode la ma- rie par la contraine à un de ses amis, Alexas (BJ. I 566) ? Impossible de l’affirmer. Mais ce réseau est cependant de nouveau à l’œuvre un peu plus tard, dans une affaire assez incroyable, une fois encore, que Flavius Josephe raconte à la fois dans les Antiquités Juives et dans le Bellum Judaicum. On apporte à Hérode une lettre d’une affranchie de Livie, Acmè21, qui dénonce Salomé dont elle aurait trouvé, parmi la correspondance de Livie, une lettre comportant des accusations contre Hérode. Mais, toujours selon Josèphe dans le BJ, tout cela n’est qu’une manœuvre d’Antipater, fils d’Hérode, qui a corrompu Acmè pour nuire à Salomé:

Μετὰ δὲ ταῦτα καὶ κατὰ Σαλώμης ἐπίβουλος Ἀντίπατρος εὑρίσκεται: τῶν γὰρ Ἀντιφίλου τις οἰκετῶν ἧκεν ἐπιστολὰς κομίζων ἀπὸ Ῥώμης παρὰ Λιουίας θεραπαινίδος Ἀκμῆς τοὔνομα. καὶ παρὰ μὲν ταύτης ἐπέσταλτο βασιλεῖ τὰς παρὰ Σαλώμης ἐπιστολὰς ἐν τοῖς Λιουίας εὑρηκέναι γράμμασιν, πεπομφέναι δὲ αὐτῷ λάθρα δι᾽ εὔνοιαν. 642] αἱ δὲ τῆς Σαλώμης λοιδορίας τε τοῦ βασιλέως περιεῖχον πικροτάτας καὶ κατηγορίαν μεγίστην. ταύτας δὲ πλάσας Ἀντίπατρος καὶ τὴν Ἀκμὴν διαφθείρας ἔπεισεν Ἡρώδῃ πέμψαι22.

20 Matthews 1999, 200 sur la relation de « patronage » entre Livie et Salomé. 21 Kokkinos 2007b, 229. 22 J. BJ I 641.

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Mais l’histoire est plus complexe dans les Antiquités juives : un ami d’Hérode pré- sent lors de l’arrivée du messager s’aperçoit que l’esclave qui apporte la lettre d’Acmè en cache une autre, cousue dans la doublure de son vêtement ! Or cette lettre, adres- sée par Acmè à Antipater, permet de déjouer tout le stratégème : Acmé y déclare avoir, conformément à l’ordre d’Antipater, écrit la prétendue lettre de Salomé à Livie et l’avoir transmise à Hérode comme convenu pour provoquer la mort de Salomé (AJ XVII 137). Suit même la citation de la lettre, supposée écrite par Salomé à Livie, mais en réalité de la main d’Acmè:

ἦν δὲ ἡ παρὰ τῆς Σαλώμης δοκοῦσα εἶναι πρὸς τὴν δέσποιναν αὐτῆς ὑπ᾽ Ἀντιπάτρου ἐπ᾽ ὀνόματι τῷ Σαλώμης ὅσα γοῦν ἡ διάνοια θέλοι ὑπηγορευμένη, λέξει δὲ συνέκειτο αὐτῆς23.

Le fonctionnement du réseau entre Salomé et Livie se dessine donc, entre les lignes de cette histoire digne d’un romain feuilleton du XIXème siècle : si l’on écarte les indi- cations rocambolesques, demeurent cependant quelques éléments qui ont toute chance d’être réels : Salomé et Livie ont l’habitude de correspondre par lettres ; elles conservent des copies de ces lettres, sans doute rangées et organisées, puisque Acmè déclare avoir trouvé « la lettre de Salomé dans la correspondance de Livie », τὰς παρὰ Σαλώμης ἐπιστολὰς ἐν τοῖς Λιουίας εὑρηκέναι γράμμασιν ; des affranchies, comme Acmè, ont accès à cette correspondance et servent sans doute de secrétaires, assez instruites pour non seulement écrire et copier, mais encore pour forger des faux, « à la manière de ». On retrouve donc ici tous les traits des «bureaux» impériaux, mais aussi des per- sonnages importants des mondes grec et romain, et un fonctionnement sans doute aussi clairement établi, à la seule différence que cela reste principalement dans un monde de femmes : on s’écrit entre reines (ou sœurs, mères de rois), et le secrétariat est féminin. Le réseau féminin double ainsi les réseaux masculins et officiels. Certes, la dimension théâtrale de l’affaire et le récit dramatisé de Flavius Josèphe rappellent la nécessité de la prudence dans l’interprétation de l’épisode, dont la véracité n’est pas certaine; par exemple, quelle est la probabilité qu’une affranchie de Livie écrive au roi Hérode pour lui dénoncer Salomé, par une lettre dont Josèphe est supposé reproduire la teneur (AJ XVII 139) ? Même dans le cadre d’une manœuvre imaginée par Antipater pour nuire à Salomé, était-ce bien le meilleur moyen ? Pourtant, l’existence de la correspondance entre Salomé et Livie n’est pas mise en question et son fonctionnement semble même si bien installé qu’elle a pu être utilisée dans le stratagème (qu’il soit vrai ou inventé par Jo- sèphe). De ce fait, on peut avancer l’hypothèse que le recours, précisément, au réseau de correspondance entre Salomé et Livie peut donner du corps au stratagème d’Antipater

23 J. AJ XVII 138.

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et l’inscrire dans une pratique connue ; dans ce cas, Antipater utiliserait l’existence de ce réseau pour cet acte de désinformation et d’espionnage. On peut en outre s’appuyer sur le contenu supposé de la lettre de Salomé à Livie, qui transmettrait des griefs de Salomé envers son frère : αἱ δὲ τῆς Σαλώμης λοιδορίας τε τοῦ βασιλέως περιεῖχον πικροτάτας καὶ κατηγορίαν μεγίστην (BJ I 642). Le fonctionnement est semblable à ce que nous avons vu dans la correspondance entre Alexandra et Cléo- pâtre, quand Alexandra se plaint d’Hérode à la reine. Enfin, du fait que ce réseau fait intervenir Livie, on peut tirer quelques éléments de réflexion : par rapport au premier réseau examiné et qui mettait en jeu deux femmes orientales, Alexandra et Cléopâtre, celui-ci offre la nouveauté, considérable, de relier une femme orientale et une femme romaine. Or, ce que nous voyons du fonctionnement de ce réseau ne diffère en rien de ce que nous avons vu pour Alexandra et Cléopâtre : on peut donc poser comme hypothèse que les fonctionnements hellénistiques sont tout simplement transposés dans une dimension qui désormais inclut Rome. En outre, si on rappelle que le réseau Alexandra/Cléopâtre avait pour but, entre autres, d’agir sur An- toine, il est clair que la disparition d’Antoine et de Cléopâtre a pu permettre le dévelop- pement du réseau Salomé/Livie24. On peut ainsi émettre l’hypothèse d’une succession chronologique des réseaux, s’appuyant sur des paris politiques quant à la longévité de tel ou tel personnage. Cette hypothèse est appuyée par la mise en relief d’un troisième réseau discernable dans les écrits de Flavius Josèphe, cette fois entre Bérénice et Antonia25 minor. La situa- tion est un peu différente de ce que l’on a vu précédement, d’abord parce que l’historien ne transmet aucune information concernant le fonctionnement concret de ce réseau, rien sur une éventuelle correspondance par exemple, mais aussi parce que le lien entre les deux femmes n’est pas utilisé dans le récit au moment où il est en action : Josèphe n’en parle pas du vivant de Bérénice, mais en fait état a posteriori pour préciser la situation d’Agrippa I, son fils, quand il est à Rome auprès de Drusus26:

Ἀγρίππας ἐν Ῥώμῃ διαιτώμενος καὶ ὁμοτροφίας καὶ συνηθεὶας αὐτῷ πολλῆς γενομέ- νης πρὸς Δροῦσον τὸν Τιβερίου τοῦ αὐτοκράτορος υἱὸν καὶ Ἀντωνίᾳ τῇ Δρούσου τοῦ μεγάλου γυναικὶ εἰς φιλίαν ἀφίκετο, Βερενίκης τῆς μητρὸς τιμωμένης παρ` αὐτῇ καὶ προαγωγῶν ἠξιωκυίας τὸν υἱόν27.

24 Signalons que ces réseaux, que j’examine ici particulièrement sous l’angle de la correspondance et des modes d’action, sont également économiques ; voir par exemple AJ XVIII 31 Salomé léguant à Livie sa toparchie de Jamnia ainsi que d’autres terres fertiles. 25 Antonia l’aînée a également pu être concernée, selon Matthews 1999, 201. 26 Kokkinos 1998, 271-275. 27 J. AJ. XVIII 143.

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C’est parce que Bérénice était amie d’Antonia qu’Agrippa va trouver auprès d’elle appui et aide à Rome28. Josèphe signale alors, à ce moment les aspects économiques des liens qui avaient existé entre les deux femmes, comme le legs d’esclaves fait par Berenice à Antonia par testament (AJ XVIII,156) et surtout, quand Agrippa est face à de grosses difficultés financières et doit rembourser de fortes sommes, Antonia lui vient en aide, par fidélité au souvenir de Bérénice29:

ἡ δὲ Βερενίκης τε μνήμῃ τῆς μητρὸς αὐτοῦ, σφόδρα γὰρ ἀλλήλαις ἐχρῶντο αἵδε αἱ γυναῖκες, καὶ αὐτῷ ὁμοτροφίας πρὸς τοὺς ἀμφὶ Κλαύδιον γεγενημένης, δίδωσι τὸ ἀργύριον, καὶ αὐτῷ ἀποτίσαντι τὸ χρέος ἀνεπικώλυτος ἦν ἡ φιλία τοῦ Τιβερίου30.

C’est donc pour ainsi dire par reflet que le réseau Bérénice/Antonia transparaît dans le récit. Peut-être est-ce la raison pour laquelle Flavius Josèphe ne brode pas de roman au- tour de ce lien, ou par prudence envers la famille d’Agrippa dont l’historien est proche. Mais on peut, à partir de cet élément, avancer quelques hypothèses sur la date à la- quelle ce réseau a pu prendre forme. La mère de Bérénice était Salomé, que nous avons vue liée à Livie : il est donc peu probable que le réseau Bérénice/Antonia dérive de celui de Salomé/Livie. Les rapports entre Livie et Antonia sont, comme on le voit chez les historiens latins, présentés comme empreints de prudence et certes pas de connivence ; on peut douter que leurs amitiés aient été communes, si tant est d’ailleurs qu’il faille parler d’amitié, car, comme nous l’avons vu, ce sont plutôt des relations diplomatiques et politiques s’appuyant sur les outils féminins. Il faut donc chercher ailleurs la source de ce réseau. On sait (BJ I 244) qu’Antoine avait été l’hôte d’Antipater lors de l’expédition qu’il avait menée en Judée avec Gabi- nius ; cet Antipater est le père de Salomé, donc le grand-père de Bérénice. On peut, avec prudence, proposer de voir ici la source du réseau entre Bérénice et Antonia, poursui- vant aux générations suivantes les liens entre Antipater et Antoine. Ainsi se dessinerait, dans le temps, un passage de relais qui mènerait d’Antipater à Salomé et de Salomé à Bérénice puis à Agrippa, d’un côté, et, de l’autre, d’Antoine à Antonia minor. Cette hypothèse est certes fragile, ne serait-ce qu’en raison de l’inscription dans un temps long et, qui plus est, marqué par la guerre civile romaine et par l’éviction d’Antoine à Ac- tium. Mais précisément, la réflexion sur la durée peut permettre d’avancer un peu : si on suppose l’existence de plusieurs réseaux, dont certains sont actifs et d’autres restent dormant en fonction des événements, la longue durée de leur vie surprend moins. Si Salomé a « activé » son réseau avec Livie, dans l’épisode vu plus haut, elle ne semble pas

28 Sur l’attitude d’Antonia envers les élites étrangères à Rome, Bowersock 2005, 58-59. 29 Rappelons aussi que Bérénice a légué ses biens à Antonia et non à Livie, cf. Kokkinos 1998, 275. 30 J. AJ XVIII 165.

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avoir fait de même du réseau avec Antonia : il s’agit alors d’un réseau dormant, d’une part peut-être parce qu’il ne devient actif qu’une fois qu’il unit des femmes, et donc une fois qu’Antoine l’a en quelque sorte légué à Antonia ; et d’autre part parce que, du vivant de Salomé, Livie jouit d’une position bien plus forte et plus intéressante que celle d’An- tonia. Salomé meurt en 10 p.C. À cette date, Livie, épouse d’Auguste, a eu le temps de conforter sa position aux côtés du Princeps. Il est donc peu surprenant qu’aucune trace, à cette date, ne transparaisse d’un réseau entre Salomé ou sa fille Bérénice et Antonia. Rappelons en outre que, depuis la mort de Drusus en 9 a.C., Antonia reste dans l’ombre de Livie, y compris lors de la mort de Germanicus, comme l’a montré Tacite. Or, après la mort de Livie, Antonia joue un rôle de plus en plus important à Rome, ce qu’illustre par exemple son action lors de la conspiration de Séjan en 31 p.C. Et, précisément dans ces années-là, Agrippa est présent à Rome. De ce fait, on peut considérer que c’est à ce mo- ment-là qu’il active ou réactive le réseau existant entre Salomé puis Bérénice et Antonia, afin d’en bénéficier lui-même. Ces réflexions et hypothèses vont donc bien dans le sens d’une succession chronolo- gique des réseaux entre femmes, en rapport avec les rythmes et accidents de la politique romaine, selon la position de force de telle ou telle femme de la cour impériale romaine. Reprenant les éléments avancés ci-dessus, je propose l’évolution suivante : Hérode, à la fin de la République, est proche d’Antoine, puis se rallie à Octave après Actium ; cela peut être mis en lien avec la disparition du réseau Alexandra/Cléopâtre, auquel fait suite le réseau Salomé/Livie, conforme aux évolutions du pouvoir à Rome et à la place éminente de Livie auprès d’Octave puis d’Auguste. Par la suite, quand Antonia devient la figure féminine dominante de la cour romaine, sous Tibère, le réseau Bérénice/An- tonia prend le relais. Cette évolution amène d’autres questions : l’absence de traces d’un réseau Béré- nice/Livie, qui aurait pris la suite de celui entre Salomé, mère de Bérénice, et Livie pourrait s’expliquer par un choix de Bérénice, qui active un réseau avec Antonia, res- pectant en cela le réseau masculin qui liait son grand-père Antipater à Antoine. Dans ce cas, le réseau féminin serait en quelque sorte la déclinaison féminine d’un réseau masculin, qui reprend une composante masculine avec Agrippa/Antonia. Enfin, il est important de souligner le basculement géographique que ces trois ré- seaux semblent illustrer, qui voit le centrage sur l’orient (Judée-Egypte) remplacé par une prise en compte plus directe de Rome, dans des réseaux où une femme orientale est en lien avec une femme de la famille impériale julio-claudienne. Le tournant politique de la bataille d’Actium semble ainsi avoir des répercussions sur ces pratiques politiques particulières. Cependant, on retiendra également que, même avec ce déplacement géographique, les pratiques caractéristiques des cours hellénistiques se perpétuent et que les femmes romaines s’inscrivent dans ce fonctionnement de réseaux féminins hellénistiques, sans

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qu’il soit possible de voir des changements qui seraient dus à l’élément romain ; le fonc- tionnement reste le même, alors même que le cadre, géographique et politique, a changé et a pris les dimensions de l’empire romain31.

On le voit, la lecture de Flavius Josèphe, si on se dégage de tout l’apparat romanesque qui plaît à cet auteur, permet malgré tout quelques hypothèses sur la question de l’action des femmes. Le plus grand intérêt de cet enquête est, à mon sens, la continuité qui se fait jour entre la période hellénistique et la période impériale romaine, dans des pratiques qui font partie d’une culture politique féminine commune. Aussi trouvons-nous ici un élément de réponse à la question, posée en préambule de cette rapide étude, de savoir qui est le public destinataire de cette peinture des femmes en action. Pour ce qui concerne l’action des femmes par l’intermédiaire de réseaux officieux, parfois fondés sur une cor- respondance et appuyés sur des bases économiques, un historien comme Flavius Josèphe ne voit aucune rupture entre l’orient et l’occident, entre les royaumes orientaux et le principat julio-claudien32.

31 On peut étendre cette réflexion en amont, en direction des dynasties séleucides par exemple, comme l’a fait Dreyer 2011, 45-57 ; ou pour la place des Amis royaux, Savalli ˗ Lestrade 2003, 64-65 ; plus ancien, mais encore intéressant pour la largeur de vues, Macurdy 1932. 32 On peut rapprocher cette constatation de celle que fait Van Bremen 2003, 326, pour qui les fonctionnements civiques et royaux sont en interaction et non en contradiction ; son approche qui remet en question les limites entre privé et public, Van Bremen 1996, 152-156, est très féconde sur cette question des réseaux féminins et mériterait d’être développée.

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Le madri modello: Cornelia, Aurelia, Azia. Su Tacito, Dialogus de Oratoribus, 2, 28-29 e sul ‘recupero’ del passato da parte di San Gerolamo

In prospettiva di matronae agentes, oggetto di questo convegno, il primo secolo è quello più facilmente denso di matronae che compiono il loro ruolo di ‘madri’, perlome- no nelle fonti, dove la memoria femminile spesso risulta di interesse non primario per gli storici antichi, e gravitante in maniera evidente intorno a figure maschili. La morte dei mariti lasciava ovviamente la responsabilità di crescere e guidare i figli: il compito poteva da queste donne essere svolto anche dopo essersi risposate. Oltre alle note Cor- nelia, Aurelia e ad Azia, abbiamo, a titolo di esempio, menzione della Servilia di Bruto, o della Mucia di Sesto Pompeo. Nota è l’influenza oppressiva di Servilia su Bruto. Molto defilata fu Azia, e discreta e riservata anche Aurelia, che però, nel 62, fece sospendere le cerimonie in onore della Dea Bona profanate da Clodio, relegando alla nuora Pompea il ruolo di ospite nella casa di cui avrebbe dovuto invece essere domina. Cornelia, è opinione comune, è il modello di donna esemplare che più ritorna nelle fonti1. Cornelia è inoltre la donna-madre per eccellenza. La sua figura è protagonista di una serie di tradizioni, anche anteriori a quella dell’eccezionalità della sua fecondità, come testimoniato per esempio da Plinio. Da più parti si è cercato di ricostruire in maniera accurata la vita di questa matrona, cercando di capire se e quanto gli aneddoti tramandati dalla storiografia siano leggenda o veri e propri fatti storici2, ma rimane che una visione di insieme indica che la donna fu certamente un ottimo esempio di matrona ‘attiva’3.

1 Tra i numerosi studiosi che si sono occupati di Cornelia cf. almeno, Petrocelli, 1994, 21-70; Hemelrijk 1999, 64-80; Gourevitch - Raepsaet-Charlier 2003, 197-199; Hän- ninen 2007, 73-88; Dixon 2007 (su cui cf. Valentini 2009, 196-201); Valentini 2014, 222-244. 2 Cf. Hänninen 2006, 73, che paragona la tradizione su Cornelia a una «fragmentary mo- saic image»; cf. anche Dixon 2007, XII, che si propone di delineare una «Cornelia tradition», cioè di studiare l’immagine di Cornelia tipizzata in modello così come traspare dalla tradizione storiografica (cf. Valentini 2009, 196-197; Valentini 2012, 222). 3 La tradizione su Cornelia non è stata sempre e solo positiva, come rilevato in un recente studio da Mayer I Olivè 2014: qui è posta evidenza su un passo di Giovenale, Iuv. 6, 167-171 Willis , che presenta una chiara discordanza con un altro documento relativo a Cornelia, e cioè CIL, VI 31610, che testimonia l’esistenza di una statua conosciuta in una struttura precedente, la porticus Metelli (cf. Kajava, 119-131). Non è mia intenzione in questa sede di prendere parte

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Di Cornelia si sottolineano quasi sempre tre aspetti a mio parere importanti: il ri- fiuto alle seconde nozze (quindi l’univirato, paragonabile, nel senso più traslitterato, e assolutamente fuori tempo nel caso di questa donna della repubblica, alla vedovanza perpetua cristianamente concepita); l’avere allevato buoni figli; la cultura. Hemelrijck4 prima, e, recentemente, Alessandra Valentini5, hanno ben sottolineato come il ruolo di Cornelia si configuri come primo esempio nella storia di Roma antica di donna e madre famosa anche per la sua educazione: l’ambiente in cui era cresciuta infatti le aveva per- messo di valersi della frequentazione di intellettuali, provenienti soprattutto da Oriente, che gravitavano intorno a Scipione Africano Maggiore. Le doti per così dire ‘eccezionali’ di Cornelia si esplicitano nel suo essere madre, anche in correlazione alla sua fertilità. A puro titolo di esempio (per un’ultima analisi di fonti letterarie rimando ancora al lavoro di Mayer I’Olivè6) tutta la tradizione appare concorde nell’attribuire a Cornelia una fecondità quasi eccezionale, che avrebbe dato vita almeno a dodici figli. Lo stesso Plinio, nella sua Storia Naturale, in un contesto de- dicato alla rassegna delle compatibilità fra i corpi e degli effetti procreativi, ci dice: «Ci sono coloro che generano solo femmine, o solo maschi, mentre con molta frequenza si ha anche alternanza come la madre dei Gracchi, per dodici volte, o Agrippina, moglie di Germanico per nove volte»7. Una testimonianza altrettanto interessante appare inoltre quella di Plutarco (Vita di Caio Gracco, 19): lo storico ci informa circa la longevità della donna, che finì per soprav- vivere, riuscendo sempre ad amministrare con padronanza e autonomia la propria po- sizione, a tutti gli uomini della sua famiglia8. Altre menzioni degne di rilievo riguardo a Cornelia arrivano per esempio da Seneca: una sezione della Consolatio ad Marciam è dedicata all’esposizione di alcuni exempla, che in questo caso servono ad arricchire e a raf- forzare l’ideale femminile che Seneca ha in mente: Lucrezia, Cornelia (madre dei Grac- chi), Cornelia (moglie di Livio Druso)9. Di Cornelia, Seneca ricorda e insiste sulla sua

alla complessa questione letteraria relativa a Giovenale, né allo studio epigrafico, ma rimando almeno a Coarelli 1996, 280-293; Ruck 2004, 477-493; Valentini 2011, 217-221. 4 Cf. Hemelrijk 1999, 93. 5 Cf. Valentini 2012, 228. 6 Cf. Mayer I Olivé 2014, 660-671. 7 Plin. nat. VII 57. 8 In Plutarco sono numerose le citazioni di Cornelia nelle vite dei figli Caio e Sempronio Gracco: cf. Mayer I Olivé 2014, 660 n. 10. 9 Sen. Ad Marciam 16, 3, Haase, 125: Ex una tibi familia duas Cornelias dabo: primam Scipio- nis filiam, Gracchorum matrem. Duodecim illa partus totidem funeribus recognovit. Et de ceteris facile est, quos nec editos nec amissos civitas sensit: Tiberium Gracchum et Caium Gracchum, quos etiam qui bonos viros negaverit, magnos fatebitur, et occisos vidit et insepultos. Consolantibus tamen miseramque dicentibus: “nunquam, inquit, non felicem me dicam, quae Gracchos peperi”.

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condizione di figlia di Scipione e madre dei Gracchi. Analoghe considerazioni possono essere fatte per quanto riguarda la Consolatio ad Helviam matrem10. Interessante è notare come Seneca citi Cornelia prima come figlia, poi come madre: Velleio Patercolo, nella sua opera, marca per Cornelia prima la condizione di madre dei Gracchi, poi quella di figlia dell’Africano11. Tacito, in un noto passo, sembra riflettere la medesima sensazione: Cornelia è, prima di tutto, madre. Nel suo Dialogus de oratoribus infatti Tacito, facendo parlare Messalla, polemizza contro alcuni vizi che allignano nella corrotta società roma- na, e ricorre a tre esempi di madri ideali: Cornelia, Aurelia e Azia12. Tacito afferma che

Una volta il figlio, nato da madre onesta, non era allevato nella stanzetta di una nutrice prezzolata, ma nel grembo e tra le braccia della madre, il cui primo vanto era quello di custodire la casa e di dedicarsi alla cura dei figli. Si sceglieva inoltre una parente anziana, dai costumi esemplari, per affidarle la discendenza della fa- miglia: e non solo gli studi e le occupazioni, ma anche gli svaghi e i giochi dei bambini erano regolati da un certo verecondo ritegno.

Così noi sappiamo, dice Tacito al paragrafo 4, che

Cornelia, madre dei Gracchi, e Aurelia, madre di Cesare, e Azia, madre di Augu- sto, attesero all’educazione dei loro figliuoli, e ne fecero degli uomini destinati a primeggiare. Per effetto di questa severa disciplina l’animo di ciascuno, puro e intatto e non ancora sviato da alcuna malizia, accoglieva sùbito e con avidità gli studi liberali; e, sia che inclinasse all’arte della guerra, o alla conoscenza del diritto, o allo studio dell’eloquenza, a questo soltanto si dedicava e tutto quanto lo assorbiva.

Il discorso di Tacito continua polemicamente contro il costume dell’affidamento del figlio, appena nato, a un’ancella greca (dispregiativograecula ancilla), alla quale si aggiungono uno o due servi presi a caso nella turba, il più delle volte spregevolissimi. A causa di questo, dice Tacito, le anime fresche e nuove s’impregnano sùbito delle chiac- chiere e dei pregiudizi di costoro. Il passo di Tacito è sintomatico della tendenza all’e-

10 Sen. Ad Helviam Matrem, 16, 2-6 Haase, 407. : qui segue, ancora una volta di prammatica, l’esaltazione dell’eletta Cornelia e, sempre di età repubblicana, della fiera Rutilia: «La sorte aveva ridotto da dodici a due i figli di Cornelia: a contarli, ne aveva persi dieci, a valutarli, aveva perso dei Gracchi». 11 Vell. II 6-7, Hellegouarc’h, 13: Hunc Ti. Gracchi liberi, P. Scipionis Africani nepotes, viva adhuc matre Cornelia, Africani filia… 12 Tac. dial. 28, 2 Oniga: Ac non studia modo curasque, sed remissiones etiam lususque puero- rum sanctitate quadam ac verecundia temperabat. Sic Corneliam Gracchorum, sic Aureliam Caesa- ris, sic Atiam Augusti [matrem] praefuisse educationibus ac produxisse príncipes liberos accepimus.

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semplarità anche retorica della figura della madre, e della sua responsabilità. La condi- zione di exemplum esercitata da Cornelia assume una funzionalità altamente retorica, e contiene la precisazione della responsabilità della stessa, ma anche delle altre madri nominate, nella condotta ed educazione dei figli. Quello che appare evidente è infatti che Tacito tende, più o meno consapevolmen- te, a sottolineare il rapporto di causa effetto buona madre-buoni figli, e cioè a delinea- re quello che possiamo definire ‘modello di madre ideale’. È altrettanto evidente, ma è bene sottolinearlo, che il contesto da cui ho estrapolato il passo tacitiano, è molto più complesso: per Tacito infatti l’eloquenza e tutte le altre arti sono decadute dalla famosa gloria di un tempo. Ma colpisce che questa ‘decadenza’, se seguiamo il discorso di Mes- salla, non è stata causata inopia hominum; essa infatti si è sviluppata per 4 cause ben chiare, e precisamente la pigrizia della gioventù (genericamente dei giovani quindi), la trascuratezza dei genitori (negligentia parentum), l’ignoranza dei maestri e da ultimo la dimenticanza del costume antico. A una lettura sempre più attenta, stupisce il fatto che queste quattro cause, espresse al paragrafo 2 in maniera generica, e con il plurale (parentum, preacipientium nel testo), vengano poi sviluppate al paragrafo 4 nel particolare. È proprio qui che si può pensare di trovare una, per così dire ‘certificata’, definizione di madre ideale. Nel paragrafo infatti, è la donna, in particolare la madre, che è colpevole di non sapere più allevare in maniera consona il figlio. Tacito non usa il termine ‘rea’, ma è ben chiaro e anche molto sottile nel delineare per Roma, e per i suoi vizi locali e particolari, il punto da cui essi sono scaturiti, e precisamente natos statim, cioè fin dalla culla (paragrafo 3). Se non fosse chiaro, ciò che si legge nel paragrafo 4 è la spiegazione precisa; non deve apparire quindi casuale, per Tacito, il richiamo alla tradizione e a quelle madri esemplari che hanno fatto dei loro figli dei destinati a primeggiare: Cornelia, Aurelia, Azia. Come si è visto quindi, da Plutarco, a Plinio, a Quintiliano e altri, e insomma gran parte della tradizione raccoglie le notizie su Cornelia, e le sviluppa secondo diverse linee di interpretazione e propaganda (ancora, rimando all’analisi di Mayer I Olivé13). Riguardo in particolare Seneca, l’autore ricorda Cornelia in un’opera poco cono- sciuta, cioè il suo trattato Contro il matrimonio, che pare sia rifluito quasi completamen-

13 Interessante appare anche la lettura delle fonti operata in questo studio, che rileva l’alter- nanza delle definizioni attribuite a Cornelia, sempre più madre (secondo quindi una topica che corre lungo tutta la tradizione) e sempre meno figlia, o addirittura prima definita madre, poi figlia. Esemplare un passo di Orosio, autore cristiano, del IV secolo d.C.:Oros . hist. V 12, 9, Arnaud-Lindet 106: Caput Gracchi excisum consuli adlatum est, corpus ad Corneliam matrem Misenum oppidum devectum est. Haec autem Cornelia, Africani maioris filia,Misenum, ut dixi, prioris filii norte secesserat. Bona Gracchi pubblicata sunt; Flaccus adulescens in robore necatus est. Ex factione Gracchorum ducenti quinquaginta in Aventino caesi fuisse referuntur. Cf. Mayer I Olivè 2014, 664.

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te nell’opera di Gerolamo, l’Adversus (= Contra) Jovinianum del 393 d.C14. Che Seneca abbia scritto un’opera sul matrimonio è informazione pervenuta dal solo San Gerolamo, che afferma di avere fatto riferimento con una certa ampiezza e libertà alla vasta tradizio- ne di scritti sull’argomento, citando, tra gli altri autori, appunto Seneca. Bisogna tenere a mente che tranne quando Gerolamo dichiara esplicitamente la provenienza senecana dei suoi materiali, la ricostruzione del materiale originale di Seneca è di pura necessità congetturale. Vi è tuttora infatti una notevole difformità tra gli studiosi nel delimita- re con precisione nell’opera quanto sia riconducibile a Seneca15. È tuttavia di notevole interesse potere evidenziare come, nonostante nessun manoscritto di questa opera di Seneca sia sopravissuto, sia menzionato dal solo Gerolamo. Non si può affermare con certezza dove e quando Gerolamo abbia avuto modo di leggere quest’opera, ma potreb- be essere un’ipotesi percorribile quella di una visione più o meno diretta a Roma, nel corso delle sue letture nelle case delle nobili donne romane (un tempo pagane poi con- vertite al cristianesimo) con le quali Gerolamo si intratteneva e aveva formato una sorta di Domestica Ecclesia16. Con queste donne infatti, e in queste circostanze, Gerolamo si occupa della problematica della verginità, della vedovanza, delle seconde nozze e del- le pratiche ascetiche, inimicandosi non solo gran parte dell’aristocrazia romana ancora pagana, ma anche gran parte del clero, che vedeva non bene i suoi rapporti quotidiani prevalentemente con donne. Quello che si può dichiarare con convinzione dai frammenti di provenienza forse senecana conservati in Gerolamo è la tendenza fondamentale dell’opera perduta, e cioè una concezione di matrimonio che presenta una netta somiglianza con il pensiero cri- stiano, e che si inserisce bene nel sistema di pensiero di Gerolamo17. Gerolamo (allora davvero da Seneca?) afferma, nella parte dedicata all’elogio della pudicizia (1, 47), che per una donna la virtù specifica risiede nella pudicizia: è il caso, tra

14 Patrologiae, Altaner 256. Su Gerolamo in particolare cf. almeno Kelly 1988; Moreschi- ni 1988; Rebenich 1992; Kamesar 1993; Krumeich 1998; Laurence 1997; Id. 2010; Fürst 2003; sul Contra Jovinianum. Cf. Martina 2001, 325; Hunter 2005 e 2007. 15 Gli studi riguardo al rapporto Seneca-Gerolamo, e la visione dei cristiani dell’opera di Se- neca, si sono moltiplicati nel corso degli anni, dopo il contributo di Hagendhal 1954, che re- cava la convinzione (137-139 e 217) che Gerolamo conoscesse, tra le opere pertinenti alla storia di Seneca, almeno gli Annales di Tacito e il De poetis di Svetonio (opera perduta). Cf. Martina 2001; Takács 2000, 325-326. Da San Gerolamo, Seneca è l’unico autore pagano menzionato nel De viris illustribus del 392, forse per le contestate e dubbie lettere che Seneca avrebbe scritto a San Paolo. 16 L’espressione è di Gerolamo (Hier. Ep. 30, 14): saluta felicianen, uere carnis et spiritus uir- ginitate felicem; saluta reliquum castitatis chorum et domesticam tuam ecclesiam... 17 Cf. Griffin 1976 («the fragments show him praising women who showed the loyalty by not remarryng», 371 e n. 3; Tacács 2000, 327.

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le altre, di Cornelia. La sua pudicitia la eleva a fianco di Gracco; qui l’affermazione è evidente: Gerolamo fa equivalere quindi il valore di una donna pudica a quello di uno dei grandi uomini del passato. L’insieme delle virtù morali e intellettuali di Cornelia sono certamente esemplari per Gerolamo; se così non fosse, non potremmo trovare altra giustificazione del fatto che la menzione di Cornelia da parte di Seneca deve avere per forza stimolato in Gerolamo qualcosa, o avergli fornito il collegamento ideale a qualche concetto basilare che voleva esprimere nei suoi scritti. Infatti proprio il riferi- mento a questa donna, a questo modello anacronisticamente riutilizzato, ricompare in altre due sue opere: nella lettera a Furia e nel Commentario a Sofonia 18, oltre appunto nell’Adversus (= Contra) Jovinianum, come esempio di ottima vedova in un certo senso ‘ripescato’ dal passato. Per ciò che concerne il passo che si trova nel Prologo del Commentario a Sofonia, la spiegazione può essere la seguente. Qui a mio parere in particolare Gerolamo ha neces- sità di trovare una donna che le fonti avessero dichiarato colta19. Il bisogno di Gerolamo nasce dalla critica dei suoi contemporanei che lo accusavano di rivolgersi a donne, e per lo più a loro, nei suoi scritti: le donne non erano evidentemente considerate di livello tale da potere essere oggetto di stimoli culturali. Nel suo Commentario a Sofonia (In Soph., Prol., p. 655), rispondendo alle critiche sul suo insegnamento a discepole di sesso femminile, Gerolamo cita allora esempi di donne acculturate: «Vado alle donne dei pagani…la folla di tutta la città di Roma am- mira Cornelia, la vostra (vestra) Cornelia, madre dei Gracchi». La possibilità che le donne del circolo di Gerolamo conoscessero greco, latino ed ebraico era molto limitata, anche se più volte, nel suo Epistolario, Gerolamo afferma che le sue corrispondenti erano in grado di leggere e tradurre greco e ebraico. Per dare più forza alle sue tesi, Gerolamo allora cerca forse nel passato una donna nota per la sua cultura, e recupera Cornelia appunto. La questione della cultura femminile, nel IV secolo ancora, è una questione dibat- tuta. Poco probabile, a mio avviso, che tutte le donne del circolo geronimiano fossero, nonostante l’estrazione sociale aristocratica, di cultura elevata. In questo periodo era un caso eccezionale anche per i rappresentanti colti del sesso maschile essere in grado di parlare più di una lingua20.

18 Hier. Ep. 54 (partic. 4) e Hier. In Soph., Prol. Adriaen 655. 19 Per esempio cf. Cic. Brut. 104;125 e 211; Quint. inst. I 1, 6. Ancora, Plu. TG 1, 5 e CG 19. 20 Cf. Neri 2014, Girotti 2014, 89-91: Gerolamo stesso richiama come esempio straordi- nario di bilinguismo, non frequente nell’epoca, Pretestato. Se Pretestato è così lodato per questa sua caratteristica, dobbiamo forse ritenere che il bilinguismo non fosse così frequente al tempo di Gerolamo, e tantomeno per le donne. L’intelligenza e la cultura si manifestano, nelle Epistole di Gerolamo, attraverso la conoscenza dell’ebraico, unita a quella delle Sacre Scritture, del latino e del greco. Il termine ingenium, inteso come capacità di apprendimento, viene richiamato piut-

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Per ciò che concerne le altre due citazioni, quelle nell’Adversus Jovinianum e nell’e- pistola a Furia, le domande da porsi sono le seguenti. Perché Gerolamo riutilizza Corne- lia? Perché un esempio così lontano nel tempo, e di una donna che ha fatto, o meglio di cui le fonti hanno fatto, un modello di maternità? L’utilizzo di un tale modello stupisce proprio perché a citarlo è Gerolamo, uno dei Padri della Chiesa più intransigenti, che cerca, con i suoi scritti, di elevare il ruolo di don- na vergine e vedova, e di mettere al secondo posto il ruolo di madre e moglie. Il ricorso alla storia di Gerolamo, in tutta la sua opera, si sostanzia di analogie e di paradigmi, ed è costante, almeno per quello che ho potuto constatare, la sua ricerca di un legame con il passato. Questo passato viene però, a quanto può sembrare, utilizzato e reinterpretato attraverso l’uso di alcuni esempi, di modelli femminili, che hanno suscitato l’interesse di più fonti. È il caso di Cornelia, ma anche di Didone, di Lucrezia, di Valeria Messalla, o di Marcia, figlia minore di Catone, e di altre21. La produzione (e il conseguente messaggio) di Gerolamo si rivolge soprattutto alle donne dell’aristocrazia senatoria nella Roma di fine IV-inizio V secolo – donne a cui la tradizione classica aveva assegnato il ruolo di moglie fedele e madre feconda22. A partire da Tertulliano fino ad Ambrogio e a Gerolamo, è prima di tutto la pudicizia che viene esaltata, accompagnata da modestia e umiltà e mai disgiunta dall’attività cari- tativa. Queste però sono doti che troviamo anche nelle matrone dei secoli precedenti. Tacito, nel passo letto, usa il termine casta (associato a parens), e utilizza anche i termini verecundia e sanctitate, che, anche se non direttamente usati per la madre, per proprietà transitiva sono di lei, dato che da lei erano trasmessi, con il parto e il successivo occuparsi dei figli, appunto ai figli stessi. Ma tra gli autori cristiani, qualcosa cambia: nei trattati, nelle omelie, nelle epistole in-

tosto spesso come collegato alle vedove destinatarie delle lettere geronimiane: per alcuni è fuori discussione che le doti intellettuali di certe vedove (Paola e Marcella per lo più) e il loro amore per lo studio non fossero almeno in parte reali [Turcan 1968]. Anche Chausson 2000, 174, ammette la possibilità di una cultura notevole delle donne del circolo di Gerolamo, come di altre donne cristiane, tra cui Proba, che scrisse un poema in versi. In ogni caso, per Gerolamo, le capacità di apprendimento delle donne della sua cerchia avrebbero dovuto costituire un esempio per tutte le donne cristiane. 21 Cf. Hier., adv. Iovin. I 46, 287-288. Anche altrove Gerolamo riprende esempi dal passato, per esempio nella lettera a Salvina (Ep. 79, 7), rimasta vedova. Qui il richiamo è a Enea e Dido- ne, con ripresa di un passo dell’Eneide virgiliana (IV 28-29). Gerolamo utilizza a mio avviso la citazione relativa al momento in cui Enea sta per lasciare Didone, per contrastare il costume delle vedove che tendono a risposarsi. Cf., sui segnali e tentativi di Gerolamo di misurarsi, pur con difficoltà, con la tradizione pagana rispetto a quella cristiana, Mazzoli 2004, 166-168. 22 Per il modello ideale femminile precedente al modello creato dal cristianesimo cf. almeno Cenerini 2002, 2005, 2009; Valentini 2012 con annessa bibliografia aggiornata.

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dirizzate alle comunità femminili a carattere domestico che si andavano costituendo, ven- gono ripetutamente propagandate la verginità per le giovani donne e la continenza con la rinuncia alle seconde nozze per le vedove. Quali condizioni ideali di vita sono indicate la verginità, la vedovanza e il matrimonio. Quest’ultimo non manca di essere disprezzato, soprattutto da Gerolamo, e descritto come molto negativo per la vita della donna. Il Contra Jovinianum è in tutto e per tutto una sorta di difesa della verginità, a partire dalla preservazione della castità. Gerolamo anche qui si rivolge a donne, e sostiene che la donna di virtù sia la donna che detiene integro il suo pudore: i temini pudor, pudicitia, designano la virtù reclamata per la donna, da Platone ai tempi di Gerolamo. Il Santo ci fornisce esempi di donne pagane che si caratterizzano per pudicitia (adv. Iovin. I 47- 4923), ma, invece di accontentarsi del significato che del termine danno i filosofi pagani, cioè ritegno e discrezione, Gerolamo sceglie proprio i casi in cui la pudicitia, anche nel mondo pagano, ha messo in scena il rifiuto assoluto della sessualità: e quindi, oltre a Lucrezia, a Porcia, a Tanaquilla, ecco Cornelia, madre dei Gracchi. Affinché le donne capiscano l’ispirazione della pudicitia dei cristiani, bisogna, dice Gerolamo, che esse ap- prendano la castità degli esempi pagani (I 47-49)24. A queste non mancano modelli nella loro religione, a cominciare dagli esempi che dà San Paolo, ma, agli occhi di Gerolamo, attento alla tradizione e agli ambienti che sta cer- cando di cristianizzare (e che, non va dimenticato, gli sono ostili proprio perché attaccati alla religione tradizionale pagana), è più importante legarsi al passato comune di Roma. Quello che è interessante è che Gerolamo cerca, attraverso il recupero del passato, e in questo caso dell’esempio dato da Cornelia, di testimoniare un’evoluzione della pu- dicitia, dal mondo pagano a quello cristiano. Cornelia è l’esempio ideale per spiegare e convincere di uno slittamento di valore di questo concetto. Per far sì che le donne prima di tutto, ma anche gli aristocratici uomini, vedessero questo slittamento in maniera gra- duale, Gerolamo a mio parere decide di recuperare Cornelia, matrona che doveva avere lasciato un qualche segno di diversità rispetto ad altre donne, e se ne serve per propagan- dare un nuovo messaggio. Interessante, se la mia ipotesi ha un qualche fondamento, osservare come Cornelia e ‘il suo agire’ quindi non sono serviti da propaganda solo nel I secolo, ma almeno fino al IV: l’evoluzione dell’agire femminile, vero o supposto, si caratterizza quindi in un percorso diacronico. Gerolamo non si ferma a questo semplice recupero dal passato, ma si spinge addirit-

23 Adv. Iovin. I 47-49, 289-291 (non cito il passo nella sua interezza ma solo nei tratti fondamentali ai fini del discorso)… Pudicitiam inprimis esse retinendam... multa sunt, quae praeclara ingenia nobilitent:mulieris virtus proprie pudicitia est… Haec aequavit Corneliam Graccho, haec Porciam alteri Bruto. 24 Adv. Iovin., I 47-49, 289-291: vedi nota precedente.

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tura oltre, fino a inventare una finta (ma non per tutti25) discendenza da Cornelia per Paola, la sua corrispondente e amica per eccellenza, la sua compagna spirituale, e anche per l’amica Furia. Entrambe, Paola e Furia, scelgono, in un momento di grandi cambia- menti religiosi (fine IV secolo) la strada della vedovanza perpetua, come aveva fatto, nel I secolo, la stessa Cornelia, che aveva più volte rifiutato le seconde nozze26. Cornelia nelle epistole di Gerolamo, è definitavestra, cioè la vostra famigliare: la discendenza si trasmette per via ereditaria, e per via ereditaria qualcuno, un modello di donna ideale pagana, trasmette alle generazioni femminili successive della propria fami- glia anche la forza di una scelta controcorrente come quella praticata da Paola e Furia27. Con la morte del marito, Cornelia assume lo status di vedova sui iuris: da qui, come è stato sottolineato da più studiosi28, le notizie su di lei diventano più numerose. La matrona pare sottoposta all’autorità di un tutor, forse lo stesso figlio Tiberio, anche se nessuna fonte ci parla di lui o di qualche altra figura che si occupasse della gestione di determinati affari29. Pare in tutto e per tutto che Cornelia fosse relativamente autonoma nel gestire gli affari della propria famiglia, almeno da quello che ci dice Plutarco:

Cornelia, presa su di sé la cura dei figli e dei beni, si dimostrò tanto avveduta, tan- to amorosa e magnanima, che di Tiberio si disse che non aveva deliberato male, quando aveva scelto di morire al posto di tale donna30.

E ancora, è soprattutto nell’epistola a Furia (chiamata anche de viduitate servanda), a 54, 4 che Cornelia serve ancora da richiamo, questa volta anche per la polemica relativa all’eredità dei beni:

Tuo padre è contrariato (dal fatto che non ti risposi), ma Cristo gioirà; la tua fa- miglia piangerà, ma gli angeli saranno allegri… a chi lascerai tutte le tue ricchezze? alla Chiesa, a Cristo31.

25 Chausson 2000, 174, ammette la possibilità che alcune dame romane del circolo di Gerolamo fossero discendenti degli Scipioni. 26 Plu. TG 1. Cf. Cenerini 2002, 25-26; Valentini 2012, 225. 27 Le due donne, rappresentanti di famiglie aristocratiche pagane, si convertirono al cristiane- simo. Esse sono destinatarie di alcune lettere scritte da Gerolamo. Per una descrizione e analisi accurata delle Epistole cf. Laurence, 2012. 28 Gardner 1986, 51-57; Petrocelli 1994; Dixon 2007; Valentini 2012, 224-225. 29 Pomeroy 1978, 162; Valentini 2012, 225. 30 Plu. TG 1. 31 Hier. Ep. 54, 4: Cui dimittis tantas divitias? Christo, qui mori non potest. Quem habebis heredem? ipsum quem et Dominum. Contristabitur pater sed laetabitur Christus, lugebit familia sed angeli gratulabuntur.

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La donna, la vedova, nei casi particolari di Paola e di Furia, si manterrà casta (che richiama ancora una volta il casta parens32 del passo di Tacito) e pudica ma con una di- versa accezione. La consacrazione esclusiva all’ascetismo può apparire più facile per una vedova senza figli: nel caso di Furia, è il padre che le chiede di risposarsi a motivo della preservazione del nomen di famiglia (54,4): anche qui, Gerolamo si richiama a Corne- lia, usandola questa volta come mezzo per contrastare le richieste del padre (e di tutta l’aristocrazia senatoria):

Tu sei angosciata perché la discendenza di Furio non si propagherà, e perché tuo padre non avrà nipoti. Ma chi ha avuto figli, forse questi sono sempre stati in grado di portare avanti il loro lignaggio? La vostra Cornelia, modello di castità e fecondità, ha forse avuto gioia dall’avere dei Gracchi33?

Gerolamo ha recepito il modello delineato da Tacito riguardo a Cornelia, e, usando- lo per i suoi fini, lascia a mio parere anche un’ulteriore spia: a 54,5, dice a Furia:

guardati dalle nutrici, i loro consigli non vanno nel tuo interesse, ma nel loro34.

Non si può non pensare alla nutrice prezzolata e alla greculae ancillae del passo taci- tiano: ma anche qui, la situazione è ribaltata secondo il pensiero di Gerolamo: Furia non deve fare figli, così eviterà di essere mal consigliata dalle nutrici. Si può pensare che non sia casuale che in merito a una donna, univira e vedova, siano associati e messi quasi sullo stesso piano i figli e il patrimonio. In effetti, la fecondità femminile portava a due conseguenze importanti: l’assicurarsi la continuazione di una gens, con la prosecuzione del nomen, ma anche la possibilità della non dispersione dell’e- redità famigliare, non intesa come eredità spirituale, ma economica. Dalle fonti a nostra disposizione, non emerge mai una sorta di ammirazione dei contemporanei di Cornelia

32 Sul termine parens vorrei aggiungere un’ulteriore riflessione: è singolare che Tacito usipa - rens e non mater, ma non deve essere certo casuale. Il termine parens infatti determina il genitore, in questo caso la genitrice, proprio in senso di ‘procreazione’; è quindi più preciso di mater, che è usato in senso solo affettivo, sociale e civile. Tacito, conparens , tende a sottolineare il legame propriamente biologico ed ereditario. 33 Hier. Ep. 54, 4: quid angustiarum habent nuptiae didicisti in ipsis nuptiis… An vereris ne proles Furiana deficiat, et ex te parens tuus non habeat pusionem qui reptet in pectore. Omnes habent filios quae habuere matrimonia et quibus nati sunt liberi sui generi responderunt? Cornelia vestra, pudicitiae simul et fecunditas exemplar, Graccos suos se genuisse laetata est? 34 Hier. Ep. 54, 5: Cave nutrices et gerulas et istius modi vinosa animalia, quae de corio tuo saturare ventrem suum cupiunt. Non suadent quod tibi, sed quod sibi prosit.

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per la scelta di mantenere l’univirato. Questa lode emerge invece, per la prima volta, esplicitamente da San Gerolamo. Cornelia è la matrona, la donna del passato che serve a Gerolamo da esempio/stru- mento per il suo nuovo messaggio, quello cristiano, che polemizza contro le seconde nozze e incita alla vedovanza perpetua, vista quasi come un ritorno alla verginità. La differenza sostanziale tra Cornelia e le vedove cristiane è che a loro, questo non deve sfuggire, viene consentito di utilizzare il proprio patrimonio per destinarlo alla Chiesa, o ai poveri, o agli ammalati. Queste riservano per loro stesse solo la parte ne- cessaria al proprio mantenimento e mantengono altre vedove meno abbienti: agendo così, insomma operano quella che per gli aristocratici pagani può essere ‘dispersione del patrimonio di una famiglia’. L’interesse di Gerolamo per molte clarissimae feminae del IV secolo è apparso per molti inspiegabile: escludendo un interesse puramente culturale, sarei più propensa a pensare al fatto che Gerolamo, dovendo trovare fondi per la Chiesa, abbia deciso di inserirsi in questi circoli femminili di preghiera dove molte donne, vedove, potevano essere maggiormente convinte al messaggio cristiano. Esse quindi avrebbero potuto non risposarsi, scegliere come continuare autonomamente la propria vita, e avrebbero ammi- nistrato il proprio patrimonio senza vincolarlo a un secondo marito o ad altri figli. Nella scelta, esse sfuggivano al destino delle loro ‘antenate’ (mogli, madri), salvo però rientrare in altre categorie (vergini, sante, monache), e non essere quindi mai ‘autonome’. Mi pare quindi di potere arrivare a proporre come conclusione che l’allargamento delle compe- tenze femminili nell’ambito famigliare non può essere considerato un fenomeno cir- coscrivibile soltanto ad alcuni periodi drammatici, come gli anni delle guerre civili, ma una vera e propria linea di tendenza individuabile da diverso tempo nel costume sociale romano. Se, nel caso di Cornelia, alcuni episodi possono essere considerati di carattere puramente aneddotico, una parte di verità, che è rifluita nelle fonti fino a San Gerolamo, deve esserci stata e ci testimonia l’importanza di un certo tipo di azione femminile, an- che se sempre limitata, fin dai primi secoli. L’agire femminile, una buona disponibilità economica delle donne, devono avere però sempre manifestato un certo sconcerto da parte dei rappresentanti, maschili, della tradizione. Cornelia prima, Paola e Furia tre secoli dopo, scelgono una sorta di autonomia ma scatenano, più o meno consapevol- mente, una violenta opposizione.

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Conclusioni

A conclusione dei lavori si può riscontrare il raggiungimento di risultati notevoli. I due giorni di studio organizzati da Francesca Cenerini e Francesca Rohr ci rendono molto grati nei loro confronti. La loro introduzione ed anche i loro contributi di aper- tura hanno assicurato alla riflessione collettiva un’impostazione generale e precisa del tema, ponendo domande acute utilissime per ricostruire una storia delle attestazioni ri- ferite alle donne nella documentazione fra l’età repubblicana e l’inizio dell’alto impero. Come Isabelle Cogitore ha fatto notare a chi scrive a proposito dei loro contributi, essi illustrano come nel periodo oggetto di esame si compia una transizione dall’impostazio- ne di interventi femminili collettivi, senza una precisa specificazione in merito al criterio di aggregazione del gruppo, ad azioni femminili individuali, attestate nelle fonti e nelle pratiche sociali e politiche del tempo. Alfredo Buonopane ha preso in esame tutta la documentazione pertinente all’unio- ne fra Cicerone e sua moglie (o fra Terenzia e suo marito, per rovesciare la prospettiva consueta), considerando le molte e problematiche questioni economiche che si vennero presentando nel contesto di un periodo di gravi difficoltà per gli esponenti dell’ordine senatorio, e valorizzando aspetti non altrimenti noti in relazione alla gestione delle fi- nanze (come ad esempio la corresponsione rateizzata della dote della figlia al genero). Buonopane non ha seguito il punto di vista di Cicerone (autore unico ed autoreferen- ziale del dossier a noi giunto), ma è riuscito a farci intravedere quello di Terenzia stessa, promotrice in prima persona di iniziative economiche e sociali. Nella relazione di Ida Gilda Mastrorosa sono state illustrate le diverse modalità di separazione fra coniugi, con un’attenzione specifica al quadro giuridico e alle dinamiche umane. Il contributo ha evidenziato come in questo periodo sia molto diversificata la tipologia delle ragioni a fondamento di un ripudio (non tutte conseguenti alla più nota motivazione, ovvero l’assenza di figli). I contributi di Novella Lapini e di Gian Luca Gregori possono sembrare gemelli, soprattutto sul piano del metodo. N. Lapini ha ricostruito l’identità di Cerellia corri- spondente di Cicerone; valorizzando la rarità del gentilizio nelle attestazioni di famiglie senatorie ed equestri, ha accostato la donna ad una ben nota famiglia legata all’ultima moglie di Cicerone, formulando proposte ragionevoli ed elaborando seducenti albe- ri genealogici. G. L. Gregori, riprendendo il dossier epigrafico di attestazioni di Polla Valeria e di Valeria Polla, dimostra che conosce le sue Pollae; sotto il profilo metodolo- gico, il suo contributo dimostra come sia opportuno rivedere le datazioni di ogni docu- mento per distinguere donne pressoché omonime ed evitare l’accettazione meccanica di

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vecchie identificazioni erronee fossilizzate nella bibliografia. Dai contributi e dalla discussione di questa prima fase dei lavori, si può conclude- re che ci sono testimonianze certe di una reale autonomia giuridica della matrona in campo economico in età tardorepubblicana. Ormai non dobbiamo più stupirci che la realtà non sia quella descritta nei manuali che insistono su norme a volte spettacolari ma non sempre valide, senza registrare tutte le evoluzioni prodottesi sia nel diritto che nella società. Le domande sollecitate da questi interventi possono essere tante. Come Terenzia ha acquisito possedimenti in Asia? (si penserà al caso, però ben diverso, di Anicia Faltoni Proba che nel V sec. d.C. ebbe delle proprietà in Asia grazie all’eredità ri- cevuta da tutta una catena di antenati). Isabelle Cogitore ha ragione nel sostenere che la donna, coinvolta in questioni economiche, necessariamente interferisce anche nelle vi- cende politiche: la tutela o la trasmissione dei patrimoni per via femminile consente agli uomini della famiglia di perseverare nella loro attività politica, come A. Buonopane ha ben dimostrato a proposito delle preoccupazioni di Cicerone in merito alla trasmissione dei beni di Terenzia al loro figlio. Senza denaro, il figlio mantiene la dignità senatoria ma non può più sostenere una carriera e quindi la famiglia è destinata alla morte politica dopo due o tre generazioni (basta ricordare il destino della discendenza di Ortensio in età tiberiana). Non si sa se può parlare di Rivoluzione romana (l’espressione symiana suscita qualche perplessità per la sua sistematicità); però un Francese, a proposito di un periodo di disordini civili, non può non pensare alle pratiche delle nobildonne nel corso della Révolution française: gli uomini venivano uccisi od esiliati; visto che il divorzio era ormai diventato legale, si divorziava, la donna manteneva la proprietà del castello e dei beni, che gestiva per conto dei figli e si adoperava a salvare il patrimonio mentre il marito minacciato, se non era stato assassinato, fuggiva all’estero: la situazione è assai prossima ad alcuni degli episodi descritti da A. Buonopane: le donne salvavano la domus, conside- rata nelle diverse accezioni con cui figura nel titolo del Convegno. Carlo Franco pone l’attenzione sulle molte questioni sollevate dalla laudatio Turiae. Il contributo illustra come l’autore del testo, attraverso la voce del marito della defunta che fa proprie le espressioni della propaganda augustea, e mediante un costante tono po- lemico ostile a Lepido, descriva l’azione eccezionale di una donna attiva in un contesto molto particolare e consenta di giustificare le violazioni del costume insite in tali ini- ziative proprio alla luce del contesto; in particolare risultano interessanti la supplica di cui si fa promotrice Turia, pratica comune ad altre donne nella stessa situazione e nello stesso periodo, e il trattamento subito da donne il cui marito era stato dannato o esiliato (così era stato anche per Terenzia durante l’esilio di Cicerone). Le stesse procedure di supplica sono state studiate anche da Beatrice Manzo nel suo contributo sugli interventi pubblici di matrone in età tardo-repubblicana; il suo lavoro individua il proprio focus sull’eterogenea tipologia di azioni compiute dalle donne in campo pubblico, in difesa dei loro propri interessi o di quelli dei mariti, dei figli o della famiglia. Sara Borrello

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apre nuove prospettive analizzando il caso di Servilia, amante di Cesare, madre di Bruto e suocera di Cassio, protagonista sulla scena politica, informatrice e referente per gli uomini della sua famiglia, organizzatrice presso la sua domus di incontri di senatori coin- volti negli eventi, al centro di una propria rete di amici attivi sulla scena politica. Luigi Sperti ha direzionato l’attenzione sulle convenzioni che presiedettero alla rap- presentazione delle matrone in stile ellenizzante, mostrando la diffusione di modelli di V-IV secolo a.C. veicolati tramite stele attiche: l’iconografia ha assolto un ruolo fonda- mentale nei nostri lavori, perché essa consente di cogliere la ricchezza della mentalità del tempo, di cui le parole dei testi letterari e delle iscrizioni non possono rendere in- teramente conto. L’indagine accurata di Anthony Alvarez Melero ci fornisce un elen- co circoscritto ma preciso delle matrone equestri attestate per l’età tardo repubblicana: considerazioni relative ai rapporti di parentela e alla ubicazione geografica, all’endoga- mia e all’esogamia che parimenti connotano questo periodo sono di notevole interesse e costituiranno un punto di riferimento di qualità sul quale fondare ulteriori studi proso- pografici. Lo stimolante contributo di Alessandra Valentini ci illustra tutti i particolari della posizione protocollare, familiare e politica di Ottavia minore secondo tre categorie (strategie matrimoniali, relazioni con intellettuali, politica edilizia), mettendo in luce le differenze rispetto a Livia (ad esempio in campo culturale). Maria Letizia Caldelli attraverso il suo contributo ha avvicinato secondo una nuova prospettiva l’evergetismo femminile ad Ostia: ha indagato in ottica comparativa nume- rose donne, con attenzione specifica alle loro iniziative pubbliche ad Ostia e alle loro relazioni familiari. In connessione con il contributo di L. Sperti, Stefano Maggi ci ha mostrato, attraverso il caso esemplare della Cisalpina, come le rappresentazioni femmi- nili scultoree si trovino al crocevia di « enjeux » stilistici e culturali, in quanto produ- zioni, cito, «eclettiche sul piano della forma e polivalenti sul significato». L’analisi di Gabriele Martina sull’interventismo familiare di Antonia minore ci consente di intrave- dere come i membri della domus imperiale si garantissero il consenso pubblico. Il contri- buto utilizza come indicatore le occasioni del lutto, per le quali Tacito rappresenta una fonte letteraria privilegiata ma per le quali ci gioviano anche di testi ufficiali, noti tramite copie epigrafiche, che completano le nostre conoscenze in una ineludibile comparazione con i testi letterari – anche se questi ultimi conservano informazioni su aspetti più segre- ti o privati e problematici. Beatrice Girotti riposiziona opportunamente esempi ospitati nel testo tacitiano all’interno del corretto contesto di filoni culturali e politici e mostra come sulla scia di Tacito Girolamo metta a confronto le donne senatorie pagane del passato con le donne senatorie cristiane della sua epoca, anche in chiave genealogica, riutilizzando il passato e reinterpretandolo, per diffondere un nuovo messaggio. Riprendendo il dossier delle atte- stazioni di donne sui palcoscenici tardorepubblicani ed altoimperiali, Agathe Migayrou dimostra che la nuova visibilità delle donne negli spettacoli si deve interpretare non in

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chiave di emancipazione femminile (anche per le nobildonne) ma di trasformazione degli spazi scenici che consentono nuove pratiche estranee alla legge e ai divieti (si può ricordare lo scandalo che suscitò la marquise d’Elbœuf, figlia di Sophie Troubetzkoi e del duca di Morny, fratellastro di Napoleone III, per aver riprodotto sul manifesto che annunciava il suo spettacolo di pantomima con la scrittrice Colette (allora sua amante), gli stemmi della famiglia di Morny, i cui esponenti animarono una violenta protesta durante la manifestazione che non erano riusciti ad impedire). Isabelle Cogitore compie un vero e proprio lavoro di cesello, rintracciando le mo- dalità attraverso cui si scambiarono informazioni e richieste le donne appartenenti alle famiglie reali od imperiali e sottolineando come fossero attivi in questa rete di relazioni i valori elaborati nel mondo greco o romano, con valutazioni diverse del ruolo concesso a queste donne (proprio una gang di amiche che manipolano i mariti o i fratelli). I le- gami, talmente complessi fra persone che non si erano mai incontrate, non furono solo epistolari: si può pensare che vi fossero state occasioni di incontro nel corso di soggiorni a Roma o in Italia di principi ed anche di principesse straniere, come ha ben rilevato Cecilia Ricci1 in uno suo studio fondamentale.

Alla conclusione di questi lavori e discussioni, emerge come l’importanza politica, economica, giuridica, sociale delle matrone in domo e in re publica non sia più da dimo- strare per il I secolo a.C. e come tale condizione assicuri le chiavi di lettura necessarie a comprendere la posizione di Ottavia, Livia e delle donne che in seguito fecero parte del- la casa imperiale: esse furono eredi di comportamenti e pratiche già sperimentate dalle aristocrazie in età tardorepubblicana. I manuali si devono aggiornare, così come i pre- giudizi di noi Moderni che abbiamo spesso una visione troppo rigida di questa società, certo austera e condizionata da molte costrizioni morali e divieti giuridici, ma connotata da qualche spazio di libertà e di autonomia, che il solo quadro giuridico non lascia sem- pre intravedere. Questa linea interpretativa ha trovato sostegno in un’analisi che ha fatto interagire ricerche promosse attraverso una prospettiva tematica e studi che scaturiscono da un approccio biografico su singole donne (Terenzia, Servilia, Ottavia, Antonia). Per tutti questi risultati, si deve sottolineare la visione lungimirante di Francesca Cenerini e di Francesca Rohr nella organizzazione di questo incontro e essere loro grati per i frutti della riflessione collettiva di cui sono state promotrici.

1 C. Ricci, Principes ed reges externi (e loro schiavi e liberti) a Roma et in Italia. Testimonianze epigrafiche di età imperiale, in Rend. Mor. Acc. Lincei, s. 9, 7, 1996, p. 561-592.

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