Italique Poésie italienne de la Renaissance

X | 2007 Varia

Édition électronique URL : http://journals.openedition.org/italique/69 DOI : 10.4000/italique.69 ISSN : 1663-4438

Éditeur Librairie Droz

Édition imprimée Date de publication : 1 septembre 2007 ISBN : 978-2-600-01156-3 ISSN : 1423-3983

Référence électronique Italique, X | 2007 [En ligne], mis en ligne le 01 septembre 2010, consulté le 02 octobre 2020. URL : http://journals.openedition.org/italique/69 ; DOI : https://doi.org/10.4000/italique.69

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SOMMAIRE

Editoriale

Lo studiolo di madama. Minuzie di interesse vasariano Domenico Chiodo

Le « gioconde favole » e il « numeroso concento ». Alessandro Piccolomini interprete e imitatore di orazio nei cento sonetti (1549) Eugenio Refini

Epistole e prosimetri inediti del Feliciano. Fonti delle Porretane Alessandra Mulas

Les livres italiens de Philippe Desportes François Rouget

Jean et André Hurault : deux frères ambassadeurs à Venise et acquéreurs de livres du cardinal Grimani Isabelle de Conihout

Indice dei nomi

Indice degli autori e dei personaggi storici (PDF)

Indice della bibliografia (PDF)

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Editoriale

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1 Questo numero di Italique esordisce con una breve precisazione di Domenico Chiodo, che difende l’opera poetica del cinquecentista Antonfrancesco Raineri da una critica troppo sbrigativa, di cui lo scrivente è responsabile, esercitata sui Cento Sonetti, dei quali viene preso in conto particolarmente il LXXII, con la dichiarazione del fratello dell’autore, che rivela novità sullo studiolo di Margherita d’Austria, figlia di Carlo V, appoggiandosi a certe ragioni esposte da Agostino Casu. Il lavoro seguente si deve a un altro giovane, Eugenio Refini della Scuola Normale di Pisa, che illustra i Cento sonetti del Piccolomini, volume anche questo, come il precedente, appartenente alla Fondazione Barbier-Mueller, soprattutto alla luce di più riprese oraziane, denunciate in gran parte da un ignoto postillatore coevo, attivo sull’esemplare Barbier-Mueller. In pratica, non esiste bibliografia moderna su questi testi, per cui ogni passo in avanti rappresenta un incremento di sapere. E il macrotesto numerico di cento ha mosso Gorni a chiedersi se, in questo caso almeno, non sia da rivedere il vieto giudizio sull’influsso esercitato dalle muse italiane sulle francesi, capovolgendo il modello, dalla Francia all’Italia. Alessandra Mulas, altra giovane, questa di formazione romana, mostra, carte alla mano, che Sabadino degli Arienti per certe sue novelle Porretane sfrutta epistole e prosimetri inediti di quell’autentico fantasma delle nostre lettere che fu Felice Feliciano. A cui ora è addetta la Mulas, dopo la dolorosa scomparsa di Giulia Gianella e del padre Pozzi, che già ne ebbero la cura. François Rouget illustra il caso di quel singolare mediatore tra le due culture che fu Philippe Desportes, su cui non mancano studi vecchi e nuovi, ma sul quale resta ancora molto da dire, come s’ingegna a fare Rouget nel suo contributo. Buona ultima è la signora Isabelle de Conihout, bibliotecaria della Mazarine di Parigi, che mette a frutto il suo sapere sorprendente, riconoscendo, sotto una bella legatura della Fondazione Barbier-Mueller, l’esemplare di dedica dell’Espositione di M. Sebastiano Erizzo nelle tre canzoni di M. Francesco Petrarca chiamate le Tre sorelle, nuovamente mandata in luce da M. Lodovico Dolce, dedicata appunto a Jean Hurault de Boistaillé. Questo tesoro della Fondation Barbier-Mueller fa attualmente bella mostra di sé nell’esposizione ginevrina La Renaissance italienne. Peintres et poètes dans les collections genevoises (Catalogo Skira). Un Indice dei nomi, che comprende quello degli autori e dei personaggi storici e un Indice della bibliografia dei numeri VI-X di Italique, per cura di Paola Allegretti, chiudono la rivista, analogamente a quanto si fece nel volume V.

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Lo studiolo di madama. Minuzie di interesse vasariano

Domenico Chiodo

1 Nel corso di un seminario organizzato a Pavia per onorare la memoria di Cesare Bozzetti, seminario al quale non ho partecipato ma che alla lettura degli Atti1si mostra assai interessante, Agostino Casu è intervenuto sull’opera di un autore, Anton Francesco Raineri, troppo a lungo sottovalutato e ora improvvisamente oggetto di nuove attenzioni culminatenella riedizione della sua raccolta di rime2. Sulla sua fama, anche in epoca di rivalutazione della poesia petrarchista, ha pesato più del dovuto il giudizio riduttivo espresso da Guglielmo Gorni in un intervento rimasto a lungo l’unica testimonianza critica contemporanea sull autore3. Ora l edizione dei Cento sonetti e la ricostruzione biografica che in quella sede è fornita risarcisce appieno l’autore, e contemporaneamente il dotto intervento di Casu illustra doviziosamente la vocazione epigrammatica del suo canzoniere, da lui definito “visivo” per il carattere di ecfrasis che presentano numerosi sonetti. È proprio da uno di questi, il LXXII che parte lostudio di Casu: lo trascrivo, comprendendone anche la relativa “esposizione” del fratello Girolamo, dall’ edizione Sodano:

LXXII Qui di duo Regi il fero ardir estinse, Sallo il Tesin; qui ’l suo nemico sciolse, Non men forte che pio; qui chinar volse Al Pontefice il crin, che d’oro il cinse. Qui fe’ l’erbe vermiglie, e l’onda tinse Del sangue moro; e reverenti accolse Qui l’un duce e qui l’altro, e l’armi tolse Al Germano empio; e venne, e vidde, e vinse. Qui domò gl’Indi, e le vittrici insegne Di Giesù stese a un nuovo altro orizzonte L’immortal genitor CESARE vostro. Voi ne’ specchi de l’opre eterne e degne I begli occhi pascete, e d’oro e d’ostro Ornate ognor quell’onorata fronte.

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Per intender il presente sonetto è da saper che la sopradetta Madama d’Austria nel palazzo de’ Medici in Roma, ov’ella abitava allora, avea fatto far un studiuolo a canto a la sua camera, di lavori di marmo e di stucco, e di ornamenti d’oro e di pitture rarissimo, ov’ella tenea le gioie e le cose sue più care, et in mezzo una imagine di marmo finissimo di Cesare suo padre, il quale ella adorava, doppo Dio, con affetto mirabile. Era dipinto il detto studiuolo a parecchi quadri di mano dei più eccellenti pittori d’Italia, e tra gli altri si vedea la presa del Re di Francia e di quel di Navarra a Pavia, la liberazione dei detti Re, la Coronazione a Bologna di S. M., l’impresa di Tunisi, la restituzione in stato del Duca Francesco Sforza, la remissione del Duca di Cleves, la presa del Duca di Sassonia e di Langravio, e le vittorie nell’Indie Occidentali: sott’ai quali impuose a l’autore che facesse l’inscrizioni latine, da porvi come l’opra fosse finita; e così fece, ond’egli ne fu donato largamente, per mano di Mons. della Valle, da la generosa liberalità di S. Ecc., a la quale è diretto il presente sonetto.

2 Al di là delle osservazioni che, muovendo da questo testo, Casu propone, il sonetto raineriano e la sua “esposizione” sono documenti storici di un certo rilievo perché dello studiolo di Margherita d’Austria a Palazzo Madama altre notizie, assai meno dettagliate, si conoscono da un’opera ben più famosa dei Cento sonetti. Mi riferisco alle Vite del Vasari, ove dello studiolo si tratta in due differenti luoghi. Innanzi tutto nella vita di «Jacopo detto l’Indaco», ove, nel finale, l’autore ricorda come anche al fratello di lui, Francesco, fosse stato attribuito il medesimo soprannome e poi, ricordandone i lavori, conclude: Ma la miglior opera che mai uscisse dalle mani di costui, e la più lodata fu, nel palazzo de’ Medici in Roma, per la duchessa Margherita d’Austria uno studiolo di stucco tanto bello e con tanti ornamenti che non è possibil veder meglio, né credo che sia in un certo modo possibile far d’argento quello che in quest’opera l’ Indaco ece di stucco4.

3 Lo studiolo torna poi al centro della narrazione vasariana quando si tratta dell’opera di Daniele Ricciarelli, ovvero Daniele da Volterra, e del favore di cui lo circondavano «i signori Farnesi» e in particolare il cardinale Alessandro: E a madama Margherita d’Austria, figliuola di Carlo Quinto, nel palazzo de’ Medici a Navona, [’n]dello scrittoio del quale si è favellato nella vita dell’Indaco, in otto vani dipinse otto storiette de’ fatti et opere illustri di detto Carlo Quinto imperatore, con tanta diligenza e bontà, che per simile cosa non si può quasi fare meglio5.

4 Di tale studiolo si dice non sia rimasta traccia essendo andato distrutto in uno dei tanti rifacimenti cui è stato sottoposto Palazzo Madama; tuttavia la descrizione che ne offre in dettaglio Girolamo Raineri consente di dissipare ogni residuo dubbio su una questione sollevata da Vittorio del Gaizo nel suo studio storico artistico sul palazzo ora sede del Senato della Repubblica. La cosiddetta Sala Italia, un tempo Salone dei re, vasta sala di rappresentanza ricavata nel 1904 con l’abbattimento di una parete divisoria, presenta alle pareti, nella cornice in alto, riquadrati da fregi pittorici, sei affreschi dicarattere storico «che una volta erano otto ed ora sono sei, perché i due che si trovavano sui lati della parete divisoria furono asportati e collocati nella Sala Cavour». Esaminando tali affreschi lo stesso Vittorio del Gaizo nota la coincidenza numerica con l’indicazione vasariana relativa allo studiolo di Madama e, sia pure con molte cautele, tuttavia afferma di ritenere Daniele da Volterra «fuori causa per ovvie considerazioni stilistiche, senza dire che dalle storie non traspare alcun riferimento alla vita di Carlo V»6. Noti i soggetti dei quadri e nota l’indicazione che essi erano commentati da didascalie latine redatte dal Raineri, si può senza la minima esitazione escludere che gli affreschi superstiti abbiano a che fare con lo studiolo di Margherita, ma il commento di

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Girolamo Raineri suscita invece una nuova questione che va segnalata agli studiosi del Vasari. Questi infatti attribuisce senza meno a Daniele da Volterra la pittura di tutte otto le «storiette» a esaltazione dell’Imperatore, mentre il Raineri, che non soltanto quello studiolo avrà visitato ma che sarà stato anche spettatore dei lavori per il suo allestimento, parla al plurale dei «più eccellenti pittori d’Italia», espressione che potrebbe sottintendere una generica volontà di amplificare ulteriormente il tono encomiastico della descrizione, ma che più verosimilmente andrà intesa alla lettera e servirà dunque a correggere e integrare in sede di commento il passo delle Vite vasariane relativo a Daniele da Volterra.

NOTE

1. La lirica del Cinquecento. Seminario di studi in memoria di Cesare Bozzetti, a cura di Renzo Cremante, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004. 2. Cfr. A. Casu, Romana difficultas. I «Cento Sonetti» e la tradizione epigrammatica, in La lirica del Cinquecento, cit., pp. 123-54; ma soprattutto ANTON FRANCESCO RAINERI, Cento sonetti, altre rime e pompe. Con la brevissima esposizione di Girolamo Raineri, a cura di Rossana Sodano, Torino, Res, 2004. Si vedano però anche la sezione dedicata al Raineri in Poeti del Cinquecento, a cura di Guglielmo Gorni, 1.1, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001; e la scheda sui Cento sonetti redatta da Simone Albonico in “Sul Tesin piantàro i tuoi laureti”. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535-1706), Pavia, Cardano, 2002, pp. 95-99. 3. Cfr. G Gorni, Un’ecatombe di rime. I “Cento sonetti” di Antonfrancesco Rainerio, in «Versants», n. 15 (1989), pp. 135-52. Nel corso di un altro incontro fra studiosi della lirica cinquecentesca, questa volta a Padova pochi giorni dopo il seminario pavese del 13 e del 14 dicembre 2001, Gorni diede molto simpaticamente giustificazione dell’acrimonia eccessiva con cui si espresse sul Raineri, per essere questi stato oggetto della tesi di laurea che Bozzetti gli assegnò d’imperio rintuzzando ogni suo tentativo di sostenere la dissertazione su argomento dantesco, ambizione della cui legittimità il tempo è poi stato più sereno giudice. 4. GIORGIO VASARI,Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori. Nelle redazioni del 1550 e del 1568, Testo a cura di Rosanna Bettarini. Commento secolare a cura di Paola Barocchi, Sansoni, Firenze, 1971, vol. III pp. 630-31. Il brano relativo all’Indaco è presente soltanto nell’edizione del 1568. 5. VASARI, Le Vite, vol. V p. 543. 6. V.del Gaizo, Palazzo Madama, in Il Palazzo Madama. Sede del Senato, Roma, Editalia, 1969, p. 74.

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Le « gioconde favole » e il « numeroso concento ». Alessandro Piccolomini interprete e imitatore di orazio nei cento sonetti (1549)

Eugenio Refini

NOTE DELL'AUTORE

Questo lavoro si inserisce in una più ampia ricerca in corso su Alessandro Piccolomini; l’approfondimento sulla produzione lirica del senese prende le mosse da un soggiorno di studio presso l’Università di Ginevra e, soprattutto, dalla partecipazione al seminario di ricerca La lirica italiana del ’joo prima e dopo Bembo tenuto dal Prof. Massimo Danzi nell’a.a. 2005-06, che mi ha incoraggiato allo studio di Piccolomini poeta lirico. A lui devo un ringraziamento sincero per la disponibilità e cortesia con cui mi ha offerto numerosi suggerimenti e indicazioni preziose che segnalerò all’occorrenza. Ringrazio anche i Proff. Lina Bolzoni e Alberto Casadei che, una volta rientrato a Pisa, mi hanno seguito nella prosecuzione della ricerca; il Prof. Michel Jeanneret per la gentilezza con cui mi ha aperto le porte della Fondation Barbier-Mueller pour l’étude de la poésie italienne de la Renaissance.

1 I Cento sonetti del senese Alessandro Piccolomini (1508-1578) rientrano nel novero delle raccolte liriche cinquecentesche che, sostanzialmente neglette dalla critica, meritano — e necessitano — di essere riscoperte nell’ottica di una progressiva messa a fuoco del petrarchismo come fenomeno ben più variegato di quanto la vulgata tenda a raffigurarlo. Contributi recenti e numerose edizioni di canzonieri cinquecenteschi permettono oggi di riflettere criticamente sul fenomeno letterario più vistoso del Rinascimento neitermini di una ricca pluralità1 : l’indagine sulla raccolta piccolominiana dovrebbe offrire, a mio avviso, elementi importanti in tale direzione, evidenziando aspetti di un’ esperienza poetica caratterizzata da profonda

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consapevolezza teorica e dalla volontà di instaurare un rapporto con la tradizione che travalica i confini del rigorismo bembiano. Il petrarchismo codificato dalle Prose e dalla Rime di Bembo resta sì la matrice della lirica di Piccolomini, ma, come cercherò di mostrare, funzionale ad un’apertura verso altri modelli e, soprattutto, al recupero della tradizione classica.

2 Il canzoniere di Piccolomini, edito a Roma nel 1549, presenta numerosi aspetti d interesse, solo sporadicamente additati dalla critica2: scopo di questo lavoro è illustrare dapprima i caratteri fondamentali dei Cento sonetti (1), offrire poi una lettura dell’epistola prefatoria a Vittoria Colonna iuniore, nipote dell’ omonima poetessa, testo di grande importanza sul piano teorico e della codificazione del genere (2). Proporrò infine, dopo alcune considerazioni generali sulle ascendenze oraziane di Piccolomini (3), l’analisi di alcuni sonetti volta ad individuare il ruolo fondamentale che il modello di Orazio assume nel concreto dell’ esperienza lirica piccolominiana, con uno sguardo all’attività esegetica del letterato che può spesso illuminare aspetti della sua produzione poetica (3 e 5).

3 1. Occorre prima di tutto rilevare come la produzione lirica di Piccolomini non si esaurisca nella raccolta romana: mancando un’edizione moderna delle rime piccolominiane, siamo sprovvisti di un censimento completo della produzione lirica dell’umanista, ma i dati che ho potuto raccogliere fino ad ora permettono di individuare almeno una trentina di suoi componimenti stravaganti3. Basti, per il momento, ricordare la partecipazione di Piccolomini ad imprese editoriali di primaria importanza nel panorama cinquecentesco, come il Tempio alla divina signora Giovanna d’Aragona curato da Ruscelli (1554), e le successive Imagini del Tempio della signora Donna Giovanna Aragona del Betussi (1556).4 Se le raccolte che celebrano Giovanna d’Aragonasono posteriori ai Cento sonetti, è pur vero che la fama di Piccolomini poeta dovette diffondersi già prima della pubblicazione del suo canzoniere: vari suoi componimenti, non tutti confluiti nella raccolta maggiore, comparivano infatti già nelle antologie giolitine degli anni ’40.5La prima prova poetica di Piccolomini giunta fino a noi sembrerebbe però essere il madrigale O misero Stordito, o donne ingrate compreso nel Sacrificio, rappresentazione allegorica degli Accademici Intronati (dei quali Piccolominifaceva parte) messa in scena a Siena nell’Epifania del 15316. Accanto ad altre sporadiche apparizioni a stampa, ci sono poi i componimenti manoscritti7: aronte di vari testi sparsi in codici senesi e non solo, vale qui la pena di ricordare almeno la corrispondenza poetica tra Piccolomini e varie nobildonne senesi sul pellegrinaggio del poeta ad Arquà8. L’omaggio al sepolcro di Petrarca, coinvolge anche Benedetto Varchi, Emanuele Grimaldi e Leone Orsini, attestando una fitta rete di legami che Piccolomini intesse con gli esponenti della cultura di metà Cinquecento e che emerge in modo ancor più evidente proprio nei Cento sonetti: l’elenco dei destinatari delle liriche piccolominiane comprende Anni-bal Caro, Luigi Tansillo, Romulo Amaseo, Marcantonio Flaminio, Luca Gaurico, Jacopo Bonfadio, Hernando e Diego Hurtado de Mendoza, e su quest’aspetto sarebbe necessario tornare per un’indagine più approfondita degli ambienti culturali in cui Piccolomini si muove.

4 La varietà dei destinatari si sposa, nei Cento sonetti, con una straordinaria varietà di tematiche, aspetto fra ipiù significativi della raccolta e già esplicitato — come vedremo

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— nell’epistola prefatoria. Se si eccettuano i sonetti 1, 2, 51 e 100, che assumono un valore importante sul piano della struttura, la raccolta piccolominiana non persegue un filo unitario e, tantomeno, un intento narrativo. È tuttavia possibile individuare nuclei tematici intorno ai quali si addensano gruppi più o meno numerosi di sonetti. Puntualmente iscritti nei canoni del petrarchismo sono i testi che elogiano figure femminili: apre la serie il sonetto 3 a Vittoria Colonna che, in quanto dedicataria dell’intero volume, ha l’onore di essere il soggetto del primo componimento dopo il dittico liminare costituito dai sonetti 1 e 2; seguono i sonetti 7 (Portia Pecci), 9 (Honorata Tancredi), 17 (Giulia Gonzaga), 80 (Isifile Toscana). Di matrice chiaramente petrarchesca anche i componimenti alla «sua donna»: la serie si apre con il sonetto 19 (Nel giorno che prima vidde la sua Donna e ricevé favor d’una collanetta al braccio) per proseguire con i sonetti 43 (Quando l’Autore s’innamorò la seconda volta), 44, 46 (sull’immagine della donna scolpita nel cuore), 48 (De la perseveranza de l’Amor suo), 67 (In Bologna, in lontananza de la sua Donna), 77 (Nel ritorno suo di Roma a Siena, a la sua Donna), 78 (Nel ritorno de la sua Donna da la Villa), 91 (Sopra un sogno fatto da l’Autore essendo infermo nel mese d’agosto in Roma), 92 (In Padova, in lontananza de la sua Donna), 93 (sulla schiavitù d’amore cui il poeta è sottoposto da lungo tempo). Vari sono poi i sonetti amorosi che mettono in scena la situatone topica della donna ingrata che non corrisponde all’amore del poeta:10 (Ad una Donna nobile, la quale ad ogni hora si specchia), 30 (Ad una Donna inconstante, e pergiura e senza fede alcuna), 62 (Ad una Donna molto crudele), 66 (Sopra d’un favor fatto da una Donna stringendo la mano), 75 (Ad una gentildonna ingrata e superba). Di tema amoroso, ma iscritto in una traditone più propriamente spensierata e burlesca, il sonetto 23, in cui il poeta celebra le gioie degli amori facili e non troppo impegnativi.

5 Spiccatamente oraziani sono i sonetti rinconducibili all’archetipo del carpe diem (4, 15, 72, 84, 88) e quelli sull’elogio della vita in villa e dell’otium letterario (11, 14, 16, 22, 57, 98).9 Affini a questa tipologia, ma al tempo stesso ben individuabili come ‘serie’, i testi satirico-polemici: da quelli contro l’irrequietezza fine a se stessa (20, 68), a quelli contro l’avarila (26, 27, 55, 61, 70), la pigrizia (65) e l’ambizione (90, 99). L’indole satirico- polemica di Piccolomini emerge anche in testi che stigmatizzano piaghe della società coeva: vari sonetti chiamano in causa la crisi socio-politica della Repubblica di Siena e i suoi endemici conflitti interni (6, 21, 47, 94); la decadenza dei mores, soprattutto in ambito romano, è evocata invece nei sonetti 8 (De la corrotta vita de la nostra etade), 56 (Sopra l’ambition de la Corte di Roma), 74 (Sopra la malvagità e corrotti costumi del secol nostro)10.

6 Lo sguardo critico sulla Roma tridentina rivela un Piccolomini sensibile a quegli stessi problemi che occupavano uomini di chiesa e intellettuali vicini a istante riformate, e in tale prospettiva assumono un certo rilievo i sonetti ‘spirituali’ che si inseriscono a pieno sulla scia delle Rime spirituali di Vittoria Colonna (24, 25, 31, 71 - ma nella serie potrebbe rientrare anche il 33 AMesser Annibal Caro nel modo di lar priegni a Dio)11. La storia contemporanea, del resto, entra nei Cento sonetti tanto a scopo celebrativo (è il caso del sonetto 45, Per la vittoria contra Langravio l’Anno del XLVI nel qual tempo, morto il re di Francia, fu coronato il nuovo Re), quanto per mettere a fuoco momenti significativi di metà Cinquecento che ebbero un peso rilevante nell’assetto dato all’Europa nell’età di Carlo V (si vedano i sonetti 49, Sopra ’1 concilio e 64, L’anno del XLVIII ne i pericoli de la guerra in ITALIA ch’alhor pendevano).12

7 Accanto ad alcuni sonetti d’occasione (5, 13, 32, 37, 86, 89)13che, al di là di formule retoriche talvolta stereotipe, permettono di inquadrare i rapporti di Piccolomini con

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esponenti della società e della cultura italiane di metà secolo, si pongono testi che dibattono su temi all’ordine del giorno nel Cinquecento maturo come l’astrologia (12, 96) e lo studio delle «scientie» (40, 41).14Una loro specificità hanno poi i sonetti di corrispondenza poetica (29, 53, 79, 83),risposte a testi inviati a Piccolomini da altri poeti (Luigi Tansillo, Ferrante Carafa, Benedetto Varchi e Emanuele Grimaldi) e pubblicati in appendice alla raccolta. Legati agli interessi pedagogico-formativi di Piccolomini, anche autore di un trattato sulla formazione dell’Uomonobile nato in città libera (più tardi Institution morale), sono invece i sonetti 42, 73e 81che affrontano il tema dei valori familiari e del rapporto padri-figli. Veri e propri divertissements meta-letterari sono infine tre sonetti che, giocando sul cortocircuito tra la fictio letteraria e il suo effetto performativo, rievocano i fasti dei romanzi di cavalleria (38, 39, 97).15

8 I Cento sonetti comprendono dunque componimenti anche molto diversi tra loro, e la rassegna schematica che se ne è proposta mira esclusivamente a tracciarne le coordinate essenziali. Molti testi, infatti, potrebbero essere classificati come appartenenti a serie diverse, e solo un’attenta contestualizzazione all’interno dell’intera raccolta permetterebbe di metterne in luce le sfumature. Come si evince dai raggruppamenti tematici appena indicati, un’attenzione particolare meritano le serie indubitabilmente classificabili come tali e i dittici di sonetti: in molti casi, infatti, due sonetti consecutivi costituiscono una vera e propria sequenza, ed è anche la disposizione di tali dittici a facilitare l’individuazione dei nuclei tematici all’interno della raccolta.

9 2. Prima di valutare alcuni aspetti dei sonetti di Piccolomini, sarà utile soffermarsi sull’epistola prefatoria a Vittoria Colonna iuniore che, nel magro panorama della riflessione teorica cinquecentesca sul genere lirico, riveste un ruolo di grande rilievo16. L’epistola è infatti un ausilio importante per accedere alla raccolta e, al tempo stesso, un prezioso strumento di codificazione teorica del genere. Il testo, denso e lungo rispetto alla usuale misura delle prefazioni, ha un peso decisivo anche sul piano della veste tipografica: l’uso di un carattere corsivo di dimensioni ampie e una mise en page che frutta margini spaziosi rispetto alla tipologia ‘tascabile’ del volumetto, fanno sì che la prefatoria occupi ben venticinque pagine, imponendosi all’ attenzione del lettore anche da un punto di vista prettamente materiale17.

10 L’epistola risponde, almeno sul piano delle convenienze sociali, all’esigenza di giustificare la dedica dei Cento sonetti alla giovane Vittoria, figlia di Ascanio Colonna e della celebre Giovanna d’Aragona, ma l’esplicitazione di questo motivo pretestuale trova spazio soltanto alla fine della lettera. Piccolomini avvia una riflessione sulla poesia che, muovendo da considerazioni generali sull’utilità e sul diletto poetici, arriva a circoscrivere il campo d’indagine più particolare della poesia lirica. Dopo una breve, ma non superficiale considerazione di questioni metriche — anche in relazione al confronto con la metrica antica — l’autore propone un canone lirico indicativo della linea in cui vuole inserirsi. All’ evocazione dell’ occasione biografica che lo ha spinto aoffrire i Cento sonetti alla Colonna, segue, in chiusura, una descrizione sommaria della raccolta e un’indicazione di lettura che, risalendo ad Orazio, sembra offrirci una chiave di accesso preferenziale ai testi poetici piccolomi-niani.

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11 Prima di affrontare i due nodi centrali della riflessione sulla poesia (l’utilità e il diletto), Piccolomini si premura di postulare la priorità della poesia tra le «scientie efacultà che intiero e schietto mostrar si sforzano il vero e ’l buono». La preoccupazione morale del Piccolomini uomo di chiesa, inevitabilmente influenzato dai dettami della cultura tridentina, emerge dunque da subito. Ciononostante, egli non ha nessuna difficoltà a definire il carattere universale della poesia che, non restringendosi ad un campo d’indagine specifico, supera —o meglio, implica e comprende — tutte le altre scienze. Il poeta, un po’ come l’oratore aristotelico, deve avere una competenza universale; deve, cioè, essere «Geometra, Aritmetico, Astrologo, Naturale, Teologo, Economico e Politico, e in ogni arte finalmente dotto». La poesia, dunque, non si definisce a partire dai contenuti che si propone di illustrare, e in quest’ottica è sintomatico che essa sia considerata come superiore anche alla teologia; ciò che definisce la poesia è infatti quel «tralucente velame e trasparente vetro di lucida imitazione e di onesta favola» con cui il poeta riesce a far «manifestamente vedere» il vero e il buono. La poesia, in sostanza, è per Piccolomini una sorta di scienza ‘formale’, un linguaggio che si eleva al di sopra delle singole scienze e dei loro rispettivi contenuti alfine di illustrarli e renderli meglio visibili.18 Il paradosso del «manifestamente vedere» attraverso un «velame» — definito come «tralucente» — si spiega infatti con la similitudine squisitamente controriformistica della reliquia, laddove la reliquia in sé corrisponde al «vero» e il reliquiarioche la conserva al «velame» dell imitazione poetica. 19

12 I due strumenti basilari del linguaggio poetico sono quindi la «lucida imitazione» e «l’onesta favola», ed è proprio intorno alla loro definizione che ruota la riflessione piccolominiana sulla poesia. Se la lucida imitazione sembra fare latamente riferimento al piano dell’elocutio, si è legittimati a ricondurre l’onesta favola a quello dell’inventio, ed è proprio l’argomentazione dell’autore ad avviare il lettore su questa strada. Dopo aver postulato l’utilità e il diletto della poesia, infatti, Piccolomini si sofferma in modo capillare sui due termini, connettendo in primo luogo l’utilità al piano dei contenuti che, abbracciando tutte le scienze, può dirsi davvero universale. Da «l’amore verso Dio grandissimo e la cognition di quello» a «la notizia de le cose de la natura», da «la prudenzia e virtuosa vita nelle republice e ne le case nostre» a «qual’altro giovamento che rechi al mondo la Filosofia», la poesia si muove a tutto tondo nei vari campi del sapere. La similitudine d’ascendenza lucreziana della medicina «ricoperta di qualche scorza dolce», più utile ad un corpo malato di «quell’altra che palesando l’amarezza sua, sarà recusata da ’l gustodi chi l’ha da torre», spiega bene in che senso vada intesa l’utilità poetica secondo Piccolomini e, soprattutto, quali siano i suoi mezzi concreti: così parimente la medicina de l’intelletto, che non consiste in altro che ne la verità de le cose e ne la virtù de l’uomo, se sincera e schietta ci sarà presentata nel modo che i particulari Filosofi soglian fare, subito per il senso, che può troppo in noi, mostrarassi amara e difficile ad inghiottirsi. Dove che, se con qualche soave ricoperta, come di gioconde favole o di numeroso concento o d’altra così fatta cosa, ci sarà posta innanzi, secondo che il Poeta, che universal Filosofo si domanda, suol sempre fare, alora inghiottita quasi con utile inganno, non prima arà digerendosi dato principio di far palese la forza sua, che a gran corso sentirem divenir sana e felice la mente nostra.20

13 Piccolomini riconosce — come più tardi farà Tasso — che la verità de le cose non risulta facilmente digeribile all’uomo se presentata sincera e schietta. Il senso, ovvero la dimensione più propriamente sensibile e materiale dell’uomo, oppone resistenza agli insegnamenti dei particulari Filosofi: la notazione piccolominiana, affrancata da ogni forma di idealismo, mostra l’uomo nella sua naturalità e invita a prendere atto del fatto

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ch’egli tende per natura ad essere schiavo dei propri appetiti. Solo questa consapevolezza permette di riconoscere nella poesia un ‘farmaco’ che, sotto forma di gioconde favole o di numeroso concento, rende la verità appetibile e, restando dentro lametafora, deglutibile.21

14 Piccolomini, introducendo il concetto di «favola» come frutto dell’ inventio poetica, si prepara a controbattere un’eventuale obiezione: parlare di inganno, seppur utile, può infatti essere rischioso, ed è necessario chiarire che la poesia non ha per oggetto il falso.22 Il ricorso a «favole e finzion» non implica che il fine della poesia sia «trattare il falso»; al contrario, «la dolcezza di quel che si finge» fa sì che «più trapassi e meglio si digerisca nel petto degli uomini (che per il più sono ignoranti) il vero e ’l buono che i Poeti principalmente intendan di persuadere». Una rapida ricognizione tra i vari àmbiti della poesia permette infatti a Piccolomini di mostrare che il linguaggio poetico — inteso come utile inganno — altro non è che un involucro per rendere gli intelletti umani più permeabili al vero e al bene, oggetti primari della poesia. Al fine di rendere la propria argomentazione più convincente, l’umanista inizia col proporre l’esempio della poesia ‘teologica’, rappresentata emblematicamente da David, Mercurio Trismegisto e Museo «che han cantato teologicamente del grande Iddio»: crederem noi che tanto avessero in quei primi tempi, che rozzi erano gli uomini e come nuovi al mondo, radicato ne le menti di quelli la pianta de la religione e la cognizion di Dio, se con parole ignude d’ogni ornamento e vòte di ogni dolcezza di Poesia l’ avesser fatto?23

15 Se la poesia è lo strumento con cui è possibile radicare nelle menti degli uomini la pianta de la religione e la cognizion di Dio, essa permette anche di svelare all’uomo la via delle «cose naturali» e, analogamente, della vita civile. La poesia, per Piccolomini, non è mera svelatrice di contenuti, ma soprattutto rivelatrice di strade da percorrere e l’esempio della poesia sulla natura sembra molto eloquente: Empedocle, Pitagora, Platone, Lucrezio, Arato, Manilio e — non ultimo — Pontano, non solo lasciarono «depinte le cose de la natura», ma «indussero gli uomini a ricercarle». Questo anelito allo studio della natura e alla ricerca delle sue «cagioni» è da imputarsi, in Piccolomini, al suo essere anche filosofo naturale e esperto conoscitore di questioni scientifiche, e l’ampio spazio ch’egli dà a tale àmbito poetico nella sua trattazione teorica non può essere casuale. L’interesse specifico per il settore della poesia che tratta le cose della natura — e, per estensione, quelle del cielo — approda infatti alla celebrazione di Giovanni Pontano, ultimo e più recente cantore latino di argomenti celesti.24

16 L’utilità poetica è, infine, tanto più evidente qualora si pensi alla funzione civilizzatrice della poesia stessa che ha permesso agli uomini primitivi, rozzi e ferini, di ridursi «sotto a giogo di leggi e dentro a cerchio di mura, a la conversazion civile e mansueta». Avviando l’uomo sulla strada delle «azioni civili e domestiche», poeti mitici come Anfione e Orfeo hanno infatti dato vita alle prime forme di civiltà. La questione della funzione civilizzatrice della poesia si pone, peraltro, almeno su due livelli, ed assume un peso decisivo nella riflessione di Piccolomini. Il riferimento ad Anfione ed Orfeo, derivato direttamente dall’Arspoetica di Orazio, che «col suono dei versi loro, quelli uomini rozzi alla civiltà reducendo, quasi fiere, sassi e arbori a sé tiravano» sfrutta infatti il topos della poesia come strumento di fascinazione che vince le resistenze del mondo ‘materiale’ e lo ordina.25 Ad uno stadio successivo, però, la poesia diventa utile anche sul piano dei precetti effettivi e degli insegnamenti che può offrire ai componenti di una società:

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Util dunque si può concludere che la Poesia sopra tutte l’altre facultà stimar si debbi; col mezo de la quale, se a i tempi nostri le leggi e i precetti, che da prudenti Legislatori, così per accrescimento de la religione, come per sostentamento de le ben guidate case e ben corrette Republiche, fusser con misura di verso e sapore di Poesia mandate fuora, come avveniva in Grecia quando più fiorendo ella, fin dalle fascie ad apprenderla incomminciavano, molto più profundamente e universalmente ne le menti nostre si radicarebbero, che non veggiamo far’oggi; ché rarissimi son coloro che sappin la minima parte de i precetti che a le lor religioni appartengano e alla salute delle Città loro.26

17 Il confronto con la Grecia antica mostra che le leggi e i precetti stanno certamente alla base della società civile, ma sono la misura di verso e sapore di Poesia a far sì che essi possano effettivamente agire sugli uomini.I due livelli, quello retorico-formale e quello contenustico, concorrono dunque alla costruzione e, soprattutto, al mantenimento delle Città, e la sensibilità che Piccolomini mostra per la questione va probabilmente connessa alla problematica situazione socio-politica dell’Italia coeva e, più specificamente, della sua città natale.27

18 Una volta illustrato il senso dell’utilità della poesia, Piccolomini passa alla questione del diletto che, in una prospettiva squisitamente oraziana, deve sempre associarsi al giovamento.28 Il piacere che la poesia reca si basa, secondo Piccolomini, essenzialmente su due «nervi»: l’imitazione e la «misura proporzionata delle parole». Sviluppando un ragionamento molto sottile, il letterato mostra che l’imitazione, «ne la natura de le cose stesse consistendo, vien’ ad esser una stessa in tutte le lingue», mentre la seconda, «essendo radicata ne le parole medesime, vien per questo a variarsi secondo che le lingue si van cangiando». Detto in altri termini: l’imitazione penetra «come più naturale con la sentenzia de le parole fin nel centro de l’intelletto», mentre la «misura proporzionata de le parole» tocca «dolcemente il senso de l’odito nostro» grazie al «concento, che da ben misurato suono de le sillabe ne risulta». Se la prima, dirigendosi all’intelletto, si pone dunque al livello della sententia, la seconda — più propriamente legata al piano dell’ elocutio — riguarda direttamente la gestione delle parole e la loro ricezione ‘uditiva’; è tuttavia la complementarità d’entrambe, res e verba, a produrre il vero diletto poetico.

19 II diletto prodotto dall’imitazione può essere facilmente illustrato dagli esempi della pittura e del teatro. Ciò che, nella realtà della vita d’ogni giorno ci reca noia o, addirittura, dolore, attraverso l’imitazione si trasforma infatti, come già osservava Aristotele, in sommo piacere: per essempio ne la pittura si può vedere, dove qual si sia più e orrendo e spaventoso animale, o qual più dispiacevol cadavero o più orribile e noioso mostro che trovar si possa, se dipinto ci si mostra innanzi, tanto più ci deletta-remo di contemplarlo, quanto più sarà somigliante a quella propria natural bruttezza che gli conviene. Medesimamente non si potrà trovare uomo, così per brutte e mostruose parti del corpo e per odiosi costumi e vili operazioni odiato e aborrito da ciascheduno, che, colui che facetamente, o in Commedia o in qual si voglia altro gioco, cercarà d’imitarlo, tanto più non piaccia a i riguardanti, quanto più a la vera imperfezione de l’ imitato si farà simile. 29

20 Individuando la dimensione peculiare del piacere prodotto dall’imitazione — che è comunque una finzione — Piccolomini sembra formulare l’idea di uno statuto particolare della poesia che sovverte ipiù usuali nessi di causa ed effetto attivi nel mondo reale. L’imitazione produce diletto in quanto tale, ed è proprio in questa consapevolezza che va cercato uno degli elementi più interessanti della riflessione di

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Piccolomini sulla poesia e che sarà ripreso e appro-fondito nelle più tarde Annotationi alla Poetica di Aristotele30.

21 Più ampia e minuziosa è la trattazione del diletto prodotto dal «concento» e dal «numero» che nascono «da la misura del tempo che ne la pronunzia de le sillabe si ritruova». Si tratta, in questo caso, di una vera e propria digressione sul sistema metrico delle lingue moderne, delle sue differenze tra lingua e lingua e, soprattutto, delle differenze che lo distinguono dal sistema antico. Al di là delle considerazioni su aspetti ‘tecnici’ della questione, che meriterebbero un’analisi più dettagliata di quella che se ne offre in questa sede, vale la pena sottolineare qui la chiarezza con cui Piccolomini colloca il «concento» allivello dell’elocutio, ammettendo che ciascuna lingua ha il proprio sistema e stroncando in partenza ogni possibilità di considerazione gerarchica dei vari sistemi metrici. L’unica regola che sta alla base della loro differenziazione è infatti quella della «consuetudine» ed è proprio la forza della consuetudine a sancire una sorta di ‘relativismo metrico’ che mira, in primo luogo, a salvaguardare la legittimità del sistema ‘italiano’: E in questa cosa, la consuetudine con la proprietà d’una lingua ritien tal parte che dove che appresso di noi il verso ne la quarta, ne la sesta e ne la decima sillaba sostenendosi, e forza prendendo alquanto, viene a nascer di undici, di sette e di cinque sillabe, secondo che in ITALIA per il più s’usa, come ognun vede. Altre nazioni poi, come per essempio appresso gli Spagnoli o Francesi, d’altra maniera ricercano il verso, acciò che non orrenda l’ orecchia loro.31

22 Un’attenzione particolare merita, in questa digressione, l’insistenza con cuiPiccolomini fa riferimento ad un identità linguistica ‘italiana’.32 L’ uso dell’ aggettivo «italiana» in riferimento ad un’ideale lingua comune parlata nella penisola non è scontato a quest’altezza cronologica, ed il suo impiego sembra proprio per questo tutt altro che neutro.33 La celebrazione dei «buon Poeti, non sol Greci e Latini, ma italiani», che segue poco dopo nel testo dell’epistola, sembra non lasciare dubbi. Quell’utilità e quel diletto che il letterato ha mostrato essere il fulcro della poesia sono infatti, a suo avviso, una delle prerogative dei poeti italiani e, in particolare, dei lirici, stimati come i «più vari, più liberi e a più varie sorti di materie accomodati». Il legame diretto con la lingua — ‘involucro’ poetico per eccellenza e prima causa di ogni diletto in poesia — è del resto esplicitato ed introduce, finalmente, un canone lirico emblematico: Oltra che ne la Lingua nostra, minor copia di buoni scrittori in ogni altra sorte di Poesia abbiam tenuti che de Lirici non aviam fatto. Nel cui stilo, oltra il Petrarca che fu divino, molti altri sono stati ne i tempi nostri che Sonetti, Canzoni e Ballate han composto leggiadramente. Sì come sono il Bembo e la Escellentis-sima e santissima vostra Zia, la Signora D. Vittoria Colonna Marchesa di Pescara, la quale ha fatto conoscere al Mondo che non è necessario, come stimavano alcuni, che a sola materia amorosa s’accomodino i Sonetti sempre, ma ad ogni altro honorato soggetto son atti ancora, per santo e grave ch’ egli sia.34

23 L’auctoritas petrarchesca, sottolineata dal riferimento esplicito al filtro bem-biano, sembra dichiarare apertamente l’adesione piccolominiana ad un modello linguistico che fugge dalle soluzioni orgogliosamente localistiche d’area fiorentina.35 Il respiro ‘italiano’ dell’impresa teorica e poetica di Piccolomini pare anche confermato dall’evocazione del magistero di Vittoria Colonna che, in un’epistola indirizzata alla nipote della celeberrima poetessa, potrebbe sembrare una mera captatio benevolentiae. Piccolomini mostra che non si tratta solo di un’accortezza retorica: il modello offerto dalle Rime spirituali è infatti il massimo esempio di una poesia lirica che rinuncia al monotematismo amoroso di marca petrarchesca. La poesia lirica si apre a temi e

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argomenti «honorati, santi e gravi» ed è proprio in questa linea, disposta anche da un punto di vista linguistico a suggestioni ‘sovra-regionali’, che Piccolomini cerca di inserirsi con la sua raccolta.

24 La dichiarazione della priorità della lirica tra i vari generi poetici frequentati dal Cinquecento italiano, oltre a basarsi su un trio di modelli d’eccezione — Petrarca, Bembo, Colonna — mira anche a definire un canone delle forme liriche. Parlando solo di «Sonetti, Canzoni e Ballate» il poeta circoscrive le forme consacrate da una tradizione essenzialmente ‘alta’ che lascia in disparte madrigali, frottole e altri tipi testuali riconducibili ad un ambito più prettamente popolare. La considerazione gerarchica della forme liriche implica, del resto, una presa di posizione importante anche sul piano dei contenuti. Se il modello di Vittoria Colonna fornisce lo spunto per una raccolta di sonetti che non siano solo d’argomento amoroso, Piccolomini, dopo aver esplicitato l’occasione biografica della dedica, e dopo essersi profuso in una raffinata declinazione del consueto topos modestiae, torna in modo preciso su questo punto: Ho tolte adunque alcune de le mie rime, e quelle vi mando con questa mia, le quali non tutte i sospiri e le lagrime e l’istoria finalmente contengono de’ miei amori, com’han fatto de le rime loro fin qui la maggior parte di coloro che Sonetti o Canzoni sono stati soliti di comporre, in maniera che non è mancato chi abbia avuto ardire di affermare che le rime Liriche ITALIANE non comportano altro che sospiri, e tormenti amorosi e nori, erbe e frondi.36

25 La scelta delle rime da dedicare alla giovane Vittoria Colonna non ritaglia dunque un percorso amoroso, ma mira a toccare temi e argomenti diversi, emancipando la lirica dal sospetto di monotematismo che troppo a lungo pare averla accompagnata. Piccolomini prende le distanze da quegli autori che hanno promosso l’equazione tra poesia lirica e soggetto amoroso e che, ai suoi critici occhi di teorico del genere che è anche autore, sembrano essere stati la maggior parte. Se l’uso dell’aggettivo «italiane» in carattere maiuscolo può rimandare al progetto ideale di una koinè linguistica e, di conseguenza, poetica sovra-regionale, non passa certo inosservata la frecciata polemica rivolta contro coloro che pretendono di vedere nella lirica coeva solo sospiri, e tormenti amorosi e fiori, erbe e frondi. Risulta evidente il carattere ironico e antifrastico dell’affermazione, dal momento che Piccolomini, oltre a farsi sostenitore di una lirica pluritematica, additando l’esempio della Colonna, ne mostra la concreta attuabilità. È dunque legittimo chiedersi se non si tratti, almeno in questo caso, di un riferimento polemico preciso, ed è ancora l’opposizione alla cultura fiorentina coeva a venirci incontro.

26 Stimolante sembra infatti una suggestione di Zaja che, a proposito del passo piccolominiano, ipotizza un riferimento diretto alle parole di Anton Francesco Grazzini nella sua prefazione al Primo libro dell’opere burlesche (Firenze, 1548).37 Le «petrarcherie, le squisitezze et le bemberie» hanno, secondo Lasca, «mezzo ristucco, e ’nfastidito il mondo, percioché ogni cosa è quasi ripiena di Fior frond’erb’ombre, antri, ond’aure soavi».38 Se le aure soavi rievocano senza dubbio i modi del lessico petrarchesco, l’intento polemico di Lasca emerge chiaramente nel monstrum, già esperito da Petrarca, «Fior frond’erb’ombre» che vorrebbe evidentemente sintetizzare i contenuti della scuola petrarchista, faziosamente percepita come puro ricettacolo di squisitezze e bemberie. Quest’ultimo termine, che identifica volutamente Bembo come responsabile della tendenza biasimata dal Lasca, non può che situarsi, in primo luogo, sul piano della lingua. L’italiano propugnato nelle Prose — e, di riflesso, nelle Rime — dal futuro cardinale è infatti un fiorentino’ di marca trecentesca che, costruito sui modelli classici

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(Petrarca e Boccaccio), mira a uscire dai più limitati confini della lingua ‘viva’, propugnata dagli autori fiorentini del Cinquecento. In tale contrapposizione, Piccolomini sta chiaramente dalla parte di Bembo, ponendosi costantemente il doppio problema della lingua e dei contenuti nella poesia lirica di marca petrarchista. In un autore come il senese, formatosi in un ambiente fisiologicamente in competizione con la cultura fiorentina, trapiantato a Roma dopo un soggiorno padovano che, anche sul piano della questione linguistica, ha lasciato su di lui segni indelebili, sembra davvero lecito individuare una presa di posizione consapevole nel dibattito sulla definizione di un codice linguistico ‘italiano’.

27 A prescindere, tuttavia, da una precisa intenzione polemica nei confronti della coeva prefazione ‘burlesca’, Piccolomini fa chiarezza sulla questione dei temi lirici e, riferendosi alla propria esperienza di poeta, si lascia andare ad una dichiarazione che, come vedremo a breve, si rivela assolutamente decisiva per il suo percorso intellettuale e, più specificamente, poetico. «Buona parte de mieiSonetti», afferma il letterato, «vedretefondata in diverse materie morali e piene di gravità, ad imitazion d’Orazio, il quale ammiro grandemente e tengo in pregio». Non soltanto Piccolomini anticipa sinteticamente un programma pluri-tematico e, se vogliamo, ‘impegnato’, ma si pone sotto l’egida di Orazio, auctoritas non trascurabile né neutra che agisce tanto sul piano poetico, quanto su quello ideologico-filosofico.

28 Una lettura attenta dell’epistola prefatoria ai Cento sonetti mostra dunque che ci troviamo di fronte ad un testo dallo spessore teorico rilevante, tappa trascurata ma imprescindibile per la codificazione del genere lirico nel pieno Cinquecento. Con la proposta di un preciso canone di autori (Petrarca, Bembo, Colonna) e di forme (sonetto, canzone, ballata), unitamente alla definizione di una pluralità di temi, Piccolomini offre un contributo non indifferente alla teoria del genere, e in tale prospettiva, la consapevolezza di aver scritto un «discorso» più che un «proemio» sembra assolutamente eloquente.39

29 3. Sebbene il riferimento a ‘maestri’ quali Petrarca, Bembo e Vittoria Colonna permetta ad Alessandro Piccolomini di inserirsi, come autore e come teorico del genere, in una linea poetica ben precisa, tanto sul piano dei contenuti, quanto su quello della forma, il senese non è certo il solo ad affidarsi a tali modelli, autorevoli e sostanzialmente indiscussi. Meno ovvio, e ben più ricco d’implicazioni è invece il riferimento all’ auctoritas oraziana, ed è proprio sul rapporto che lega il letterato al poeta latino che vale la pena soffermarsi dopo la lettura dell’epistola.

30 L’autore, come si è visto, dichiara quasi alla fine dell’epistola di aver scritto i suoi componimenti su «diverse materie morali e piene di gravità, ad imitazion d’Orazio», poeta da lui fortemente ammirato e tenuto in pregio. L’affermazione, per quanto lapidaria e priva di sviluppi, si concretizza dapprima nei riferimenti all’Arspoetica che abbiamo visto disseminati nel testo dell’epistola, ma stimola il lettore a cercare qualche traccia oraziana anche nella raccolta: considerando l’importante ruolo giocato dall’epistola nell’economia del volumetto, si è infatti legittimati a sfruttare anche il riferimento oraziano come chiave di lettura della raccolta.

31 Il peso oraziano nella lirica cinquecentesca ha iniziato ad essere studiato analiticamente solo di recente: i contributi di Gorni e Albonico sulla presenza di Orazio

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in Bembo e in altri poeti lirici come Ludovico Domenichi e Girolamo Muzio, hanno mostrato che l’opera oraziana può influenzare in vario modo la lirica del ’500.40 Lo stesso Bembo, negli ultimi anni, sembra infatti emanciparsi da un petrarchismo rigorosamente ‘petrarcheggiante’ per guardare ai modelli classici, la frequentazione dei quali emergeva peraltro già chiaramente nella celebre O superba e crudele, o di bellezza, imitazionepuntuale dell ode oraziana a Ligurino41. Ma l’influsso oraziano non si limita alla ripresa e imitazione di singoli testi: spostandosi infatti sul piano macrotestuale, sembra emergere una tendenza all’imitazione della struttura del corpus oraziano che si manifesta soprattutto nell’assetto ‘numerico’ dei testi all’interno dei canzonieri cinquecenteschi.

32 È stato più volte osservato che i petrarchisti, pur facendo del canzoniere di Petrarca un modello imprescindibile, hanno difficoltà a percepirne — e quindi imitarne — il disegno profondamente unitario.42 La ‘numerologia’ oraziana sembra, in qualche modo, sopperire a questa difficoltà: Albonico ha individuato un’importante cesura nelle ultime Rime di Bembo dopo il componimento 103, e non sarà un caso che proprio 103 sia il numero dei Carmina oraziani. Se 103 sono anche i testi che compongono il primo libro delle Rime di Ludovico Domenichi, ancora più interessanti sembrano i numeri delle Rime muziane: isolando le prime tre sezioni fra le quattro in cui Girolamo Muzio suddivide i suoi testi — la quarta costituisce di fatto un corpus a sé stante, — il numero dei componimenti in esse compresi ammonta ancora una volta a 103. La somma totale dei testi delle Rime è poi 160 che, non casualmente, corrisponde alla somma di tutte le opere di Orazio.43 Da Bembo a Tasso, la tendenza a costituire raccolte poetiche che, almeno sul piano della macro-struttura, si rifacciano alla numerologia oraziana, troverebbe ulteriori conferme. Basti pensare al caso delle poesie di Minturno, pubblicate a cura di Ruscelli nel 1559, per le quali un ordinamento di marca oraziana sembra incontrovertibile.44

33 Con l’edizione ruscelliana di Minturno ci si allontana però un po’ troppo dal nostro punto di partenza: per i sonetti di Piccolomini, pubblicati infatti dieci anni prima, gli unici casi di raccolte poetiche precedenti strutturate secondo il numero 100 sono l’Argo di Giovan Francesco Caracciolo (Napoli, 1506) e la Centuria di Luca Valenzano (Venezia, 1532), ma la scelta di realizzare una silloge di cento componimenti sarà destinata ad avere una certa fortuna tra Cinque e Seicento.45 Riflettendo però sulla fede oraziana apertamente dichiarata dall’autore nell’epistola prefatoria e confermata, come vedremo, nei testi poetici, è forse lecito ipotizzare che il numero 100, oltre a suggerire un’idea di completezza e chiusura già sfruttata dalla tradizione letteraria (i 100 canti della Commedia e le 100 novelle del Decameron sono solo i casi più eclatanti) possa intendersi come un facile e piacevole arrotondamento del 103 oraziano.46 Se a questo si aggiunge il atto che Piccolomini, un po’ come l’ultimo Bembo, si allontana dall’idea di un canzoniere esclusivamente amoroso per proporre una serie variegata di testi che non imitano solo l’Orazio lirico, ma anche quello satirico e quello più irruento degli epodi, sembra delinearsi un quadro che marca una svolta decisiva negli orientamenti del petrarchismo di metà Cinquecento, ben presto confermata dalla produzione di autori come il già citato Minturno.47

34 Attenendosi a dati sicuri, il percorso intellettuale di Piccolomini ci fornisce ulteriori elementi che ne fanno uno degli autori più rigorosamente oraziani del secolo. Prima di vedere, infatti, l’imitazione d’Orazio in atto all’interno della raccolta, è il caso di sottolineare che il ruolo giocato dalla citazione del poeta latino nell’epistolaprefatoria è

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destinato ad avere un’eco importante anche sul piano teorico. Dopo una giovinezza in cui la produzione letteraria occupa per Piccolomini il primo posto, gli anni della maturità lo vedono infatti impegnato sul fronte della teoria ed è in questo àmbito che l’interesse per Orazio giungerà al coronamento. È noto che negli ultimi anni di vita il letterato pubblicò la Retorica e la Poetica di Aristotele tradotte dal greco in volgare e ampiamente commentate, ma meno risaputo è il fatto che egli si fosse dedicato anche ad un commento per ‘annotazioni’ a tutta l’opera di Orazio, rimasto inedito e conservato tutt’oggi manoscritto. Per quanto riguarda i commenti aristotelici, che restano tra i contributi più interessanti nel dibattito rinascimentale su Aristotele, è lecito ipotizzare che, pur vedendo effettivamente la luce pochi anni prima della morte di Piccolomini, siano il frutto di una riflessione critica epuntuale iniziata almeno un trentennio prima, durante il soggiorno pado-vano.48

35 Le Annotationes quaedam in Horatium, frutto di una lettura capillaredell’opera oraziana alla luce della grande stagione del dibattito aristotelico,sembrano anch’esse appartenere agli ultimi anni ed il fatto che non siano statepubblicate parrebbe conermare questa datazione.49 Anche in questo caso, però, più che di un improvviso ‘ritorno’ a Orazio, si dovrà pensare al concretizzarsi di una riflessione iniziata probabilmente negli anni della giovanile formazione classicista nello Studio senese e nell’Accademia degli Intronati. Il commento oraziano sembra dunque coronare un percorso intellettuale che ha avuto nel poeta latino un punto di riferimento poetico e teorico decisivo. Il fatto che importanti elementi oraziani emergano anche dalla raccolta dei Cento sonetti conferma quest’impressione e, pur demandando ad altra sede una trattazione specifica sulle Annotationes, sarà il caso di farvi riferimento laddove esse possano aiutarci a rivelare lo stretto e proficuo legame che si instaura in Piccolomini lirico tra la conoscenza critica del modello latino e il suo riutilizzo al momento dell’elaborazione poetica.

36 4. Non potendo qui passare in rassegna l’intera raccolta piccolominiana, è mia intenzione fornire un saggio della presenza del modello oraziano nella lirica di Piccolomini attraverso una scelta di testi che possa essere rappresentativa di almeno alcuni fra i modi del comporre del poeta senese. Se l’influsso di Orazio è ben percepibile nella più parte dei componimenti, a partire dal sonetto proemiale, i rischi di una scelta arbitraria di testi emblematici sono forse scongiurati da alcune tracce di una lettura coeva che emergono da uno dei rari esemplari del canzoniere piccolominiano oggi conosciuti e che non sono state finora segnalate. I Cento sonetti posseduti dalla Fondation Barbier-Mueller pour l’Étude de la poésie italienne de la Renaissance di Ginevra presentano infatti, in margine ad alcuni dei componimenti, brevi note manoscritte di rimando esplicito a testi oraziani. Una medesima mano cinquecentesca, purtroppo anonima, ha infatti identificato alcuni ipotesti oraziani, modelli inconfutabili per le liriche di Piccolomini, attestando una rice-zione evidentemente consapevole del petrarchismo ‘classicista’ dell’autore.50

37 Prima di venire ai cinque sonetti in questione, sarà tuttavia opportuno individuare la presenza di Orazio nel canzoniere di Piccolomini anche su altri due piani, quelli della struttura e delle dichiarazioni esplicite. Pur non ‘narrando’ una storia, il poeta tenta, con la sua raccolta, di offrire un’immagine di sé e della sua vita alle soglie della

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maturità, e in quest’ottica è possibile individuare alcuni elementi portanti che sorreggono l’intera raccolta garantendone una certa unità. Il sonetto d’apertura (L’intenzione de l’autore nei suoi sonetti), per esempio, dichiara l’impostazione generale della raccolta e ne costituisce il programma poetico. Il componimento proemiale — soglia testuale per eccellenza — lascia ben trasparire anche i modelli stilistico-formali cui Piccolomini attinge:

Altra Tromba sarà, ch’alto risuoni I trionfi di Carlo, e mille attorno Varie d’abito e lingua aspre Nazioni, Che vinte van, con gran lor biasmo e scorno. Altri dotti diran, l’alte cagioni Di tante cose, onde sta ’l mondo adorno: Come ’l sol luce, o ’l ciel lampeggi o tuoni; Com’or vien breve, or si fa lungo il giorno. Me la Tosca mia Musa, ad altro stile Richiam’ogni or; né lascia tormi impresa, Che non convenga a la sua Lira umile. Dunque dirò, come mi tratti Amore Di tempo in tempo; e sol per mia difesa, D’alcun fors’ardirò punger l’errore.

38 Il modello primario su cui Piccolomini costruisce il sonetto proemiale, in cui sconfessa la possibilità di dedicarsi a una poesia ‘alta’, circoscrivendo il suo campo poetico alla Lira umile, può essere Orazio, Odi, I, 7: se è vero che del testo oraziano il sonetto sembra riecheggiare l’incipitario «Laudabunt alii» ai vv. 1 e 5 Altra Tromba sarà e Altri dotti diran, l’impressione che il primo referente sia proprio l’ode a Munazio Planco trova riscontro nella vasta fortuna che tale testo ebbe nel ’500 come modello di recusatio poetica, sfruttato soprattutto nei componimenti liminari.51 Guardando però più da presso il sonetto piccolominiano, è possibile individuare vari fili che si intrecciano e che concorrono a creare una tarsia pluri-dialogica che guarda in direzioni diverse. Nella prima quartina è la contrapposizione tra lirica ed epica ad emergere con forza, laddove il poeta afferma di non sentirsi in grado di cantare i trionfi di Carlo, soggetto epico demandato ad un’altra Tromba. Il riferimento alle vittorie di Carlo V, con l’implicita celebrazione dell’imperatore, sembra alludere ad esperimenti poetici avviati già durante gli anni Venti e Trenta da un poeta come Minturno che con il suo De adventu Caroli in Italiam, poema esametrico in tre canti, aveva segnato l’avvio di un filone epico neo-latino che Piccolomini non si sente di trasferire in àmbito volgare. Se la Tromba può, del resto, ben simboleggiare la poesia epica, è tuttavia opportuno osservare che alla «tromba» piccolominiana fa riferimento anche il sonetto di Luigi Tansillo, Chi generò tra gli alti e bei desiri, posto in appendice ai Cento sonetti: «Fate voi risonar per ogni lido / La vostr’altiera tromba, onde ne goda / Il Tebro, il Mincio, il Re de’ Fiumi e l’Arno» (vv. p-n). L’invito del Tansillo è rovesciato nel sonetto di risposta (29) in cui Piccolomini attribuisce all’amico la «tromba», riservando a sé la «sampogna».52

39 Il sonetto proemiale si lega dunque, almeno in parte, a questo dittico, ma l’altra Tromba non esaurisce qui le sue suggestioni: tale formula compariva infatti nel sonetto d’apertura delle Rime di Vittoria Colonna. Nonostante che i contesti siano diversi, il dubbio che il poeta volesse sfruttare anche una reminiscenza colonnese all’ inizio del suo percorso lirico pare più che ragionevole.53

40 Alla recusatio epica segue, nella seconda quartina, una recusatio ‘didascalica’, che trova precisi riscontri nell’epistola prefatoria: l’evocazione della poesia che ha per oggetto

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l’alte cagioni del mondo, con il riferimento esplicito a tematiche scientifico- astronomiche sembra infatti collegarsi a quanto Piccolomini diceva in sede teorica sulla ‘poesia della natura’. Ancora una volta il pensiero va a Pontano e a tutta la ricca tradizione della poesia didascalica celebrata dall’autore nella prefazione. Di fronte alle strade impegnative dell’epica e della poesia a soggetto scientifico, la Tosca ... musa lo richiama ad un altro stile che sia confacente alla sua Lira umile: il topos modes-tiae riporta dunque il poeta sulla via della poesia d’Amore, ma la consapevolezza che ci sono anche altre strade poetiche da percorrere non verrà meno. Se, in generale, il contenuto della raccolta sembra risolversi, almeno in fase proemiale, al Dunque dirò, come mi tratti Amore / Di tempo in tempo, è pur vero che le frecce di una satira di gusto oraziano hanno l’ultima parola: e sol per mia difesa, / D alcun fors ardirò punger l’errore.54 Un aspetto, infine, su cui non è possibile sorvolare, è la forte coloritura petrarchesca di molte soluzioni piccolominiane che marcano chiaramente il primo sonetto: la rima amore: errore — nonostante che in Piccolomini l’errore sia altrui — ricalca con evidenza il sistema rimico del proemiale Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono (Rvf 241, vv. 3 e 7), ma anche impresa: difesa trova un riscontro puntuale nel sonetto L’alto signor dinanzi a cui non vale (Rvf 241, vv. 2 e 6). Pur ammettendo che tali reminiscenze petrarchesche possano peccare di una certa banalità, il peso che il Canzoniere assume nella codificazione dello stile lirico piccolominiano emerge anche nella scelta di clausole metriche che attivano la memoria di interi versi petrarcheschi: è il caso del mondo adorno del v. 6 che porta con sé, di fatto, un intero verso di Rvf 70 (la celebre canzone Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi): «Tutte le cose di che ’l mondo è adorno» è infatti chiaramente ricalcato nel verso di Piccolomini Di tante cose, onde sta ’l mondo adorno.55

41 Il sonetto proemiale dei Cento sonetti, in definitiva, ci apre le porte di una raccolta variegata, in cui — come si è accennato — non si parla solo di amore: la varietà dei temi, che spaziano dall’amoroso allo spirituale, dalla riflessione sui mores al vagheggiammento di loci amoeni in cui trascorrere una vita di sereno ozio letterario, dalla satira sui vizi del mondo coevo agli impietosi squarci sulla Roma farnesiana, sembra ricondurci, infine, ad un’impostazione sostanzialmente oraziana (ma, come si è visto, non è solo Orazio a offrire spunti alla versificazione piccolominiana). 56Interessante esempio di ciò è anche il sonetto 51, un altro componimento ‘portante’ sul piano della struttura. Nel giorno del Natale de l’Autore, l’anno del XLVIII, aprescindere da minime incongruenze cronologiche, è ilcentro dei Centosonetti, ed è anche, simbolicamente, il centro della vita dell autore giunto al suo trentaseiesimo anno d’età: 57

Almo Sol già, de la gran ruota al punto Donde pria mi dè vita, il raggio santo Del tuo splendor, trentasei volte a punto Tornar t’ho visto a i due Gemegli a canto. Fin’or l’incarco a le mie spalle aggiunto, Non sentia de miei giorni; or grave è tanto, Ch’io inclino, a pena a mezza strada giunto: Deh ritien Febo i tuoi cavalli alquanto. Anzi spronagli (oimé) che in tanta guerra, Voi lumi in Ciel, mia vita ordiste insieme, Che io bramo ’l fin de i miei dí tristi, e rei. Anzi ritiengli pur, che due qui in terra, Luci di voi miglior, gli affanni miei, Fan dolci sì, ch’ho in odio l’ore estreme.

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42 L’incipit del sonetto ricalca un celebre sonetto di Petrarca (Rvf 244 Almo Sol, quella fronda ch’io sola amo), ma si distacca subito dal presunto epiù immediato modello per rifarsi ancora una volta ad Orazio. Il Carmen saeculare offre a Piccolomini un tono aulico su cui innestare una riflessione amara sulla vita che rielabora alcune soluzioni del dettato oraziano in un contesto diverso da quello originale. È questo un esempio del procedimento con cui Piccolomini attinge ai testi di Orazio che, spesso molto più lunghi della misura di un sonetto, tendono ad essere condensati. L’invocazione al sole, che nel Carmen apre il v. 9 («Alme Sol»), è sfruttata da Piccolomini come incipit; il passare degli anni come succedersi di cicli astronomici nella prima quartina, definizione cronologica di marca dantesca, rielabora invece la ciclicità evocata da Orazio ai vv. 21-24 («certus undenis deciensper annos / orbis ut cantus referatque ludos / ter die claro totiensque grata / noctefrequentis»). Alla richiesta rivolta dal poeta a Febo/Sole di trattenere i suoi cavalli per rallentare il corso della vita (v. 8), sottende poi l’immagine del carro solare nel Carmen (vv. 9-12), ma soprattutto l’affermazione oraziana che il dio può allungare la vita umana risanando i corpi stanchi (vv. 60-68: «Augur et fulgente decorus arcu / Phoebus acceptusque novem Camenis, / qui salutari levat arte fessos / corporis artus, /... / alterum in lustrum meliusque semper / prorogat aevum»). E proprio sull’immagine del corpo che invecchia Piccolomini costruisce la seconda quartina.

43 Paradossale e tutto piccolominiano è poi il doppio rovesciamento della richiesta: nella prima terzina il poeta invoca una fine rapida della guerra in cui è costretto a vivere dai lumi in Ciel, cioè dalle stelle (ovvero dagli Dei: al v. 2 del Carmen Febo e Diana erano definiti «lucidum caeli decus»). La seconda terzina, infine, vede entrare in gioco le Luci di voi miglior, gli occhi della donna che, contrapposti ai lumi in Ciel, spingono il poeta a ritrattare, nella speranza di veder prolungato ilsuo soggiorno sulla terra: la messa in atto della dialettica donna/sole permette dunque a Piccolomini di rielaborarel’ipotesto oraziano in modo coerente ai canoni del petrarchismo cinquecentesco.58 L’evoluzione amorosa del testo non deve, tuttavia, ar dimenticarel’occasione che lo ha prodotto, e che lo rende ancor più particolare. Il riferimento esplicito al compleanno del poeta è infatti raro in àmbito lirico, perché il codice poetico non permette di parlare di sé, se non nella misura in cui la propria vicenda — come nel caso di Petrarca — può essere esemplare. Tra le eccezioni vale la pena ricordare almeno Renato Trivulzio, autore di due libri di odi volgari contraddistinte da una lezione oraziana molto forte e traduttore delle odi del poeta latino. Si tratta, di fatto, di un autore la cui produzione poteva senz’altro interessare un ‘oraziano’ come Piccolomini (sarebbe utile indagare eventuali legami tra l’esperienza poetica piccolominiana e l’ambiente poetico oraziano del milanese Trivulzio che potrebbe contribuire ad una più chiara mappatura dell’influenza di Orazio sulla lirica italiana di primo Cinquecento).59

44 Quanto alla struttura dei Cento sonetti, un ultimo e non meno importante elemento è dato dal congedo. Piccolomini chiude la sua raccolta con un sonetto amaro e disilluso che contrappone alla vita romana l’auspicio di un prossimo ritiro tra’ dotti libri, al mormorio / De i bei ruscei. Il sonetto 100 si inserisce in una serie di testi polemici nei confronti della Roma tridentina in cui Piccolomini è costretto a vivere, ma lo sdegno pare qui sciogliersi in una più pacata presa di coscienza che trova il suo fondamento proprio nelle Satire di Orazio:

Ecco che in Roma sono, ecco che fuore D’ogni mia libertà, caro Belanto,

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Sotto ’l favor di quest’e quel signore, Traggio la vita, e ’l pel fo bianco intanto. L’ambition importuna, a tutte l’hore Punger mi cerca sì dietro, e daccanto, Che bench’a fren’io tenga sempre il core, Tal hor mi muove, a mal mio grado al quanto. Così, lasso, ognihor più perder veggio io La vita indarno. O cara villa, o quando Faran lieto i tuoi colli il mio desio? Quando tra dotti libri, al mormorio De i bei ruscei, le gravi cure in bando Poste, berò di quelle un dolce oblio?

45 Lasciando per il momento da parte un’analisi puntuale delle due quartine del sonetto che richiederebbe una lettura parallela degli altri sonetti specificamente ‘romani’, ci si limita a rilevare che i vv. 10-14 ricalcano puntualmente Sat. II 6 vv. 60-62, la celebre apostrofe oraziana alla vita in villa: «o rus, quando ego te adspiciam quandoque licebit / nunc veterum libris, nunc somno et inertibus horis / lucere sollicitae iucunda oblivia vitae?». Come si vedrà, si tratta di un motivo caro a Piccolomini, una delle marche più evidenti della sua ascendenza oraziana: proprio Sat. II 6 costituisce il modello per uno dei sonetti sull’elogio della vita in villa, e non è senz’altro un caso che il poeta affidi alla medesima reminiscenza oraziana la chiusa della sua raccolta.

46 La predilezione accordata dal poeta ad Orazio emerge poi in due dichiarazioni esplicite che fanno eco a quella con cui Piccolomini suggellava l’epistola prefatoria. Nel sonetto 11 Piccolomini propone un paradigma esistenziale basato su un otium letterario di marca schiettamente oraziana: «Io tra chiari ruscei di poggio in piano, / ogni grave pensier posto in oblio, / lieto men vo, non senz’Orazio in mano, / che insegna altrui, che cos’è ’l buono e ’l rio». Orazio è assunto, in primis, come maestro di filosofia morale, che insegna a distinguere tra il bene e il male, ed è ancora in questa veste che viene evocato nel sonetto 28 indirizzato al ‘Deserto’, al secolo Antonio Barozzi, letterato senese e accademico intronato, compagno e amico di Piccolomini. Vagheggiando un momento di svago intellettuale con i suoi amici, il ‘Deserto’ e il ‘Cieco’ (Antonio Cinuzzi, un altro accademico intronato, e lui pure destinatario di uno dei sonetti), Piccolomini definisce l’oggetto dei «nostri sermon», dove già l’uso del termine ‘sermone’ non può che rimandare al sermo oraziano: «qual ben sia sommo e pieno, / De l’uomo, e come poi s’acquisti o speri», con l’eloquentissima chiosa «Né in tanto Orazio mai cade di mano». La poesia oraziana fornisce dunque una precettistica ‘morale’ che può diventare modello di vita, oltre che modello poetico, ed è proprio un confronto, o meglio un dialogo quotidiano con l antico poeta latino a costituire la base di entrambi.60

47 5. L’esemplare Barbier-Mueller dei Cento sonetti, come si è detto, testimonia una chiara ricezione della matrice oraziana di Piccolomini da parte di un lettore cinquecentesco che individua alcune delle riprese oraziane della raccolta, fornendo una traccia utile all’avvio della nostra indagine. La lettura dei sonetti 1, 50 e 100 ha mostrato che la memoria poetica di Piccolomini non si esaurisce con Orazio; dovendo tuttavia accerchiare qui l’analisi, intendo offrire alcuni esempi della priorità, nei Cento sonetti, del modello oraziano, con la consapevolezza che l’intertestualità attivata da Piccolomini è molto più ricca eche soltanto un’attenta analisi dell’intero corpus lirico potrebbe darneragione.61

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48 È prima di tutto notevole che l’anonimo glossatore Barbier-Mueller individuicome oraziani proprio due sonetti sull’elogio della vita in villa. Il sonetto 14 D’una villa acquistata nuovamente ci mostra un Piccolomini soddisfattodell’acquisto, grato a Dio e partigiano del ‘giusto mezzo’ contro le derivedell’ambizion e della negligenzia:

Questo era Mario ’l fin del mio desio, Una villa ben posta, un colle ameno Che soccorriss’a punto (et anco meno Che Natura non chiede) al viver mio. Questo m’ha dato, e più, l’immenso IDDIO: Tal che non sol la Copia il corno ha pieno Per l’uso mio, ma colm’ha ’l grembio e ’l seno; Altro paese ormai non chieggio a DIO. Questa parte prend’io, di quant’intorno Gira la Terra; a questa ’l suo favore Mostri più sempre il Ciel di giorno in giorno. Questa m’acqueta a pieno, e mai non fia Per avara ambizion punto maggiore, Né minor mai per negligenzia mia.

49 Il sonetto ricalca l’incipit oraziano di Sat. II 6, da dove Piccolomini estrapola alcune soluzioni amplificandole fino a coprire lo spazio canonico dei 14 versi del sonetto.62 La prima quartina prende spunto dai vv. 1-3 «Hoc erat in votis: modo agri non ita magnus, / hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons / et paulum silvae super his foret», concentrandosi sulla villa ben posta che appaga i desideri del poeta e stemperando il severo «Hoc erat in votis» oraziano in una familiare allocuzione all’amico. Nella seconda quartina si assiste invece ad un calco più puntuale che non si limita tuttavia a Sat. II 6: il v. 5 Questo m’ha dato, e più, l’immenso IDDIO, che riprende i vv. 3-4 del testo oraziano («Auctius atque / di melius fecere»), e il v. 8 Altro paese ormai non chieggio a DIO, che ne amplia il «Nil amplius oro», incorniciano infatti un altro prestito oraziano che deriva, in questo caso, dalle Odi. L’immagine della cornucopia, con l’espediente del gioco di parola che separa il ‘corno’ dalla ‘copia’ risale infatti a Odi I 17 vv. 14-16 «Hic tibi copia / manabit ad plenum benigno / ruris honorum opulenta cornu», dove il riferimento alle ricchezze dei campi risulta pienamente coerente anche col contesto piccolominiano.63 Il calco di Sat. II 6 riprende poi nella seconda terzina del sonetto che, scongiurando i pericoli dell’ambizione e della negligenza, traduce quasi alla lettera i vv. 6-7 di Orazio «Si neque maiorem feci ratione mala rem / nec sum facturus vitio culpave minorem».

50 L’invito implicito ad accontentarsi di ciò che di buono la sorte ha in serbo per noi, comandamento oraziano per eccellenza, è dunque declinato attraverso un calco preciso della Satira II 6, a dimostrazione del fatto che i sonetti di Piccolomini non si ispirano solo all’Orazio lirico. Nell’ottica di una poesia pluritematica e volta a confrontarsi con i vari aspetti della realtà, la lirica propriamente detta si apre ad istanze diverse, ed il secondo sonetto della nostra serie conferma la tendenza di Piccolomini a spaziare tra i vari momenti della poesia oraziana. La nota manoscritta che correda il sonetto 16 In lode de la vita in villa rileva l’imitazione di un testo talmente noto che le basta citarlo attraverso il suo primo verso: «Beatus ille quiprocul negotiis». Il sonetto è infatti una sorta di vera e propria traduzione condensata del celebre Epodo II, del quale Piccolomini ricalca i vv. 1-10, ij-20, 39-40 e 43-44:

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Beato quel, che da città lontano Liber vivendo e d’ogni lite fuora, Nei proprii campi suoi suda e lavora, Sciolto d’usure, e d’ogni inganno umano. Di trombe ’l suon non sente orrendo e strano, Ch’a l’armi ’l chiami e svegli ad ora ad ora; Né fa mestier che per le sale ogniora De superbi signori, ondeggi invano. Or deriva un ruscello & or marita Le viti a gli olmi, or dolci frutti innesta, Fin che insieme col dì, l’opra ha finita. La sera al fuoco suo fa poi ritorno, Cena con voglia, e gli dan riso e festa La casta moglie e i cari figli attorno. Beatus ille qui procul negotiis, ur prisca gens mortalium paterna rura bobus exercet suis, solutus omni fenore, neque excitatur classico miles truci neque horret iratum mare, forumque vitat et superba civium potentiorum limina. Ergo aut adulta vitium propagine altas maritat populos, Quodsi pudica mulier in partem iuvet domum atque dulcis liberos, sacrum vetustis exstruat lignis focum lassi sub adventum viri

51 Le due quartine riprendono nell’ordine esatto i primi 8 versi dell’epodo, limitandosi a lasciare da parte alcuni frammenti di verso; più articolata la gestione delle terzine che prendono le mosse dall’immagine delle viti e dei pioppi (olmi in Piccolomini) e, con un passaggio dall’esterno all’interno che è al tempo stesso cronologico e spaiale, ricalca il quadretto familiare dei vv. 39-44.64Il rientro dell’uomo al focolare domestico, accolto dalla moglie e dai figli, chiude il sonetto che, lasciando da parte la rivelazione finale dell’epodo oraziano (che si scopre essere pronunciato dal «faenerator Alfius / iam iam futurus rusticus»), si mantiene sincero e genuino.

52 Anche in questo caso un testo ben più lungo della misura di un sonetto (l’Epodo II consta di 70 versi) viene adattato ad essa, ma con modalità diverse da quelle viste nel sonetto 14. Piccolomini legge l’epodo, ne ricava un nucleo valido di per sé e comunque coerente con l’impostazione generale dell’ideologia oraziana, ne seleziona un discreto numero di passaggi e li traduce fedelmente. Il trasferimento del materiale poetico latino nei 14 versi del sonetto implica tuttavia una rielaborazione personale che travalica la mera riscrittura, e che si inscrive in una riflessione più ampia condotta dal poeta sul tema della vita in villa. 65Isonetti 14 e 16 costituiscono una sorta di dittico, ma lo stesso tema torna, come si è detto, in altri testi della raccolta, configurandosi come uno degli elementi portanti dei Cento sonetti: a questo propositooccorre osservare che se il modello oraziano gioca qui un ruolo centrale, Piccolomini sembra anche appoggiarsi su una tradizione tipicamente toscana che, seppur cresciuta su Orazio, aveva assunto tra Quattro e Cinquecento una configurazione ormai stabile. L’elogio della vita in villa aveva trovato un’importante codificazione nel III libro dei Libri della famiglia di Leon

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Battista Alberti, che allo stesso tema aveva dedicato l’opuscolo volgare Villa, ma tracce di un interesse specifico per tali tematiche si trovano anche nell àmbito senese in cui Piccoomini consegue la sua prima formazione.66

53 Il modello oraziano emerge chiaramente anche laddove Piccolomini, lasciando da parte i sogni dell’otium letterario, si confronta con la realtà che lo circonda e ne ‘punge’ gli errori. La vena satirico-polemica, mai spinta ai livelli bassi della tradizione comico- burlesca, prende ispirazione dai testi di Orazio; tuttavia, come si è accennato, pare attingere copiosamente anche alla tradizione epigrammatica non solo greco-latina, ma anche neo-greca e neo-latina. L’impressione che la forma ‘sonetto’ possa ereditare talvolta i caratteri dell’epigramma, pare dunque confermata dalla raccolta di Piccolomini che spesso ama chiudere i suoi componimenti con massime e affermazioni di sapore gnomico. Tra i molti sonetti che pungono vizi umani come l’avarizia, l’ambizione e l’inquietudine cronica, tutti riconducibili alle dichiarazioni programmatiche del sonetto IIPer iscusa del reprendere con Sonetti i vizij de i calunniatori, l’anonimo annotatore Barbier-Mueller riconosce come oraziano il 26 A uno Avaro, sotto ’l nome di Mideo dove l’apostrofe a Mideo, senhal eloquente, rivela facilmente il vizio del personaggio chiamato in causa:

Splendor non ha, Mideo, l’oro e l’argento, Ch’ognior sotterra, avar, ascondi e premi, E sei per questo, a i tuoi bisogni estremi, Nel sostentar te proprio, e duro e lento. Sempr’accresci ’l tesoro, e sempre intento Sei ch’una dramma non ne manchi, o scemi: Quivi dì e notte col cor vegli e tremi; E volan gli anni in tanto più che vento. Non vedi tu gli eredi avidi appresso Con le man pronte a gittar via in un’ora, Quant’hai crudel fin’or tolto a te stesso? La tua giornata già tra sesta, e nona Sen va inchinando: or quel che resta ancora, Usa la vita, e lieto spende e dona.

54 La nota manoscritta individua con precisione l’ipotesto oraziano su cui è ricalcato l’ incipit della prima quartina, vale a dire Ode II 2 vv. 1-4:67«Nullus argento color est avaris / abdito terris, inimice lamnae / Crispe Sallusti, nisi temperato / splendeat usu». Risulta tuttavia evidente che Piccolomini rielabora la strofa oraziana aggiungendo elementi ad essa estranei, ma comunque riconducibili ad Orazio: l’immagine dell’avaro che nasconde sotto terra le sue ricchezze rimanda a Cremete, il vecchio avaro dell’ Aulularia di Plauto che, oltre a costituire l’archetipo per tutti gli avari del teatro moderno, era stato chiamato in causa come simbolo d’avarizia proprio da Orazio in Epod. I vv. 31-34 che pare offrire a Piccolomini anche lo spunto per la dittologia ascondi e premi: «Satis superque me benignitas tua / ditavit: hautparavero / quod aut avarus ut Chremes terra premam, / discinctus aut perdam nepos». Il calco dall’Ode II 2 trova inoltre un riscontro esegetico interessante nelle Annotationes quaedam in Horatium, il commento piccolominiano ad Orazio, dove l’autore, commentando l’ode, chiosa la parola «color» e illustra il senso della prima strofa: v. 1 Color: cum lux sit necessaria colori, ut sit color actu visibilis (ut aiunt Physici) si argentum terris abdatur, poterit pene existimari colore privatum. Allegorice autem pro colore, decus, fruitio, usus intelligendus est.68

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55 L’interpretazione che il poeta dà dell’ode oraziana, con un’esegesi che si appoggia sull’ auctoritas dei Physici, ovvero dei filosofi naturali, spiega che «color» deve essere inteso allegoricamente nel senso di decus, fruitio, usus: l’oro e l’argento, in sostanza, hanno valore solo in funzione dell’uso, e la lettura piccolominiana dell’ode, coerente con il sonetto, ci permette di comprendere meglio il senso di quest’ultimo.

56 Oraziane sono poi anche le considerazioni sul tempo che passa ai vv. 8 e 12-14, ma riscontri più precisi con altri testi del poeta latino emergono soprattutto dall’analisi della prima terzina. L’immagine degli eredi che, avidi, aspettano solo di sperperare le ricchezze accumulate dal vecchio avaro riecheggia gli amari quadri tratteggiati da Orazio ancora nell’Ode II 2 al v. 20 «divitiis potietur heres», ma anche nell’Ode III 24 vv. 61-64 «indignoquepecuniam / heredi properet. Scilicet improbae / crescunt divitiae; tamen / curtae nescio quid semper abest rei». La chiusa del sonetto, infine, di gusto epigrammatico e giocata sul forte anacoluto or quel che resta ancora, / usa la vita, e lieto spende e dona, sembra arieggiare l’invito a godere ciò che si mette da parte senza preoccuparsi di lasciarlo alle mani avide dell’erede nell’Ode IV 7 vv. 19-20 «Cuncta manus avidasfugient heredis, amico / quae dederis animo». 69Gli ultimi due calchi oraziani della serie individuata sulla scorta dell’ anonimo annotatore dell’ esemplare ginevrino ci portano nel più tradizionale àmbito della lirica d’amore, ed è interessante osservare, ancora una volta, come il modello latino si mescoli alla tradizione volgare. Il sonetto 30 Ad una Donna inconstante e pergiura e senza fede alcuna si presenta come una rielaborazione dell’Epodo XV, del quale vengono imitati i vv. 1-6 nellaprima quartina e la conclusione (più precisamente i vv. 17-18 e 23-24) nella seconda terzina:70

Coi raggi suoi la luna alta e lucente Splendea da ’l ciel (pur a pensarlo aggiaccio) Quando piangendo, con le luci intente Nel volto mio, postomi al collo il braccio, Giurasti, aimé, che per me pria che spente Fosser tue fiamme, arso sarebbe il ghiaccio; Né son poi stato a pena un mese assente, Che rott’hai di tua fe', perfida, il laccio. Chi fia non so, che me scacciato ha fuora Del rio tuo petto, e a tue parole infide Cred’or altiero, e non n’ha fatto’saggio. Ma sia chi vuole, o bello, o dotto, o saggio: Se ben tec’or del mal mio canta e ride, Piangerà tosto; e io rideronne alora. Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno inter minora sidera, cum tu, magnorum numen laesura deorum, in verba iurabas mea, artius atque hedera procera adstringitur ilex lentis adhaerens bracchiis, Et tu, quicumque es felicior atque meo nunc superbus incedis malo, sis pecore et multa dives tellure licebit tibique Pactolus fluat nec te Pythagorae fallant arcana renati formaque vincas Nirea, heu heu, translatos alio maerebis amores: ast ego vicissim risero.

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57 Nel sonetto 30 Piccolomini si ispira dunque per intero all’Epodo XV di Orazio, già imitato da Lorenzo de’ Medici nell’incipit del Corinto, mantenendone in qualche modo l’unità e la compiutezza:71 riprendendo i primi versi e la chiusa del componimento latino, collocati nelle zone corrispondenti del sonetto, il poeta mostra di volerne salvaguardare l’identità di ipotesto unitario. Molto interessante, a livello sintattico, la ripresa del cum inversum, costruzione tipicamente narrativa: quando ... giurasti ricalca infatti puntualmente il «cum tu ... in verba iurabas mea», e la sintassi oraziana è rispettata anchenella ripresa dell’ablativo assoluto «lentis adhaerens bracchiis» che diventaimpostomi al collo il braccio.72

58 Il procedimento di ‘condensazione’ del materiale oraziano messo in atto da Piccolomini emerge con chiarezza nella chiusa del sonetto, dove gli ultimi 8 versi dell’epodo vengono ripresi e sintetizzati: i vv. 17-18 confluiscono nei vv. 12-13 del sonetto, dove l’inciso o bello, o dotto, o saggio riassume il contenuto dei vv. 19-22 del testo latino (bello recupera «forma ... Nirea» di v. 22, mentre dotto e saggio condensano i «Phytagorae ... arcana» di v. 21). Gli ultimi due versi, infine, vengono ridotti a emistichi e accorpati nel v. 14 del sonetto («translatos alio maerebis amores» diventa Piangerà tosto, mentre «ast ego vicissim risero» diventa e io rideronne alora).

59 La forte ascendenza oraziana del sonetto 30 non inficia tuttavia la possibilità di rintracciarvi moduli poetici di diversa derivazione. L’adynaton della seconda quartina giocato sull’ossimoro arso ... ghiaccio, sembra essere una soluzione tipicamente manierista, sfruttata per esempio da Galeazzo di Tar-sia73, ma è soprattutto l’eco petrarchesco della rima ghiaccio: laccio a costituire una traccia certa delle risorse poetiche piccolominiane: interessante l’occorrenza nel celebre sonetto 134 di Petrarca Pace non trovo, et non ò da far guerra, dove oltre alla ricorrenza delle rime «ghiaccio: abbraccio: laccio: impaccio» ai vv. 2, 4, 6, 8 (da confrontare con la serie rimica piccolomi-niana aggiaccio: braccio: ghiaccio: laccio anch’essa ai versi pari), troviamo l’ossimoro «et ardo, et son un ghiaccio» al v. 2, analogo a quello diPiccolomini.74

60 Le dinamiche della variegata memoria letteraria di Alessandro Piccolomini emergono in misura ancora maggiore nel sonetto 62 Ad una Donna molto crudele, individuato dall’anonimo lettore dell’esemplare Barbier-Mueller come calco della famosa Ode III 10: 75

Se gli Avi e maggior tuoi, Tigri e serpenti Là ’n mezzo a l’Affricane aspre contrade, Fosser (Donna crudel), qualche pietade Pur fors’ arien de i lunghi miei tormenti. Le notti intiere (oimé), come consenti Mentr’ il fredd’ Aquilon la terra rade, E da ’l Ciel folta nieve e pioggia cade, Sentirmi fuor tremar battendo i denti? Noi contratiamo, e intanto i giorni, e l’ore, Tua gran beltade, e ’l mio natio vigore, Poco oltre anderem, ch’avran destrutto e spento. Non arà sempre mai lonor usato Tua porta; né ’l mio destro e manco lato Fien sempre atti a soffrir la piogia e ’l vento. Extremum Tanaim si biberes, Lyce, saevo nupta viro, me tamen asperas porrectum ante foris obicere incolis plorares Aquilonibus.

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Audi quo strepito ianua, quo nemus inter pulchra satum tecta remugiat ventis, et positas ut glaciet nives puro mimine Iuppiter? non hoc semper erit liminis aut aquae caelestis patiens latus.

61 Analogamente a quanto visto per il sonetto precedente, Piccolomini imita qui un intero componimento oraziano riprendendone l’inizio e la fine, in modo da salvaguardarne la compiutezza. In questo caso è la seconda quartina a ricalcare da vicino i versi oraziani: l’Aquilone, la pioggia, i venti e la sosta di fronte alla porta dell’amata — già topos elegiaco — vengono ripresi dal poeta con un surplus di realismo che pare allontanarsi per un momento dai canoni del petrarchismo. La dimensione metereologica e la dovizia di particolari con cui Piccolomini descrive gli agenti atmosferici trova riscontro — come è evidente dal confronto che si è proposto — con l’ode oraziana, ma è forse opportuno accennare ad una tradizione poetica non propriamente petrarchista (Folengo, Valenziano, Trivulzio, Bandello) che lascia ampio spazio a caratterizzazioni metereologiche analoghe a quella del sonetto del poeta senese. Riscontri precisi, nella medesima prospettiva, si trovano poi nella tradizione cavalleresca: la folta nieve, per esempio, insieme alla pioggia che cade in clausola d’ende-casillabo è soluzione boiardesca e, per la verità, non solo cavalleresca.76 Allo stesso àmbito pare risalire anche una notazione di realismo quasi degradantecome il «battendo i denti» di v. 877. Nonostante che il sonetto si apra a dati di realismo che smorzano l’aulicità del dettato petrarchesco, Piccolomini mantiene un tono sostanzialmente elevato grazie ad una gestione della sintassi che si appoggia, come si è già avuto modo di mostrare, sui modelli latini. La prima terzina, per esempio, mostra una struttura difficile, ma dovrebbe essere accolta senza intervenire sul testo78. Di marca più spiccatamente petrarchesca pare invece la clausola manco lato al v. 13, dove però Piccolomini riprende da vicino il testo di Orazio.79

62 Anche in questo caso, come si è visto per il sonetto 26, la riflessione del poeta sul modello latino trova riscontri interessanti nelle tarde Annotationes quaedam in Horatium: la lettura che Piccolomini fa dell’ode oraziana in sede di commento può infatti aiutare a leggere il sonetto che da quell’ode prende spunto. Già la glossa al «saevo viro» di v. 2, che non aveva seguito diretto nel sonetto, oltre a spiegare la dinamica del procedimento imitativo, offre una notazione culturale che rivela lo spirito ‘cinquecentesco’ con cui illetterato legge Orazio: v. 2 Saevo viro: videtur argumentum inefficax; quanto saevior erit cuiusvis foeminae maritus, tanto illa placabilior solet amantibus evadere. Solve, quoniam per “saevum” intelligit hoc in loco “barbarum”, ita quod regionis naturam, non hominis mores ponderat; et sic per viri saevitiam, nationis barbariem innuit, ac si diceret “si tu barbara esses circa Tanaim nata ac nupta” .80

63 Più crudele è il marito, più facilmente la donna avrà degli amanti: l’osservazione misogina ci mostra un Piccolomini lontano dai tempi della Raffaella, e nella stessa direzione sembra andare la spiegazione dell’aggettivo «saevum». Non è l’uomo ad avere costumi barbari, ma è la donna che li acquisisce, proprio come se fosse nata in quelle aspre contrade cui il poeta faceva riferimento anche nel sonetto. Il discredito nei confronti delle donne emerge del resto chiaramente nella glossa al v. 13 dell’ode, «O quamvis neque te munera nec preces», dove, alludendo evidentemente ai «munera» e alle «preces», lo scaltrito commentatore afferma: «nota causas quae movere solent

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foeminas ad adulteria \patranda\ ac committenda». Ancora più utili, ai fini dell’interpretazione del sonetto, le osservazioni che Piccolomini sviluppa nella glossa al «non hoc semper erit liminis» di v. 19che, con il successivo e ultimo verso, veniva imitato quasi letteralmente nell’ultima terzina del sonetto stesso: v. 19 Non hoc semper erit liminis: exponunt omnes unanimes quod Poetae latus non semper erit patiens illius liminis, ubi totas noctes cubans morari solebat prius: sicut etiam non erit patiens semper aquae coelestis, pluviarum scilicet. Sed forte ne idem bis dicatur, ac ut argutior sit sensus, potest sic exponi, ut dicatur non semper futurum esse id liminis, hoc est non semper erit illud limen adeo frequen-tatum, ac desyderatum, ut nunc est; quasi dicat illa senescente negligendum id limen et parvifaciendum fore. Duo itaque dicit ac minatur poeta videlicet Lyces domum non semper ita fore frequentem ac cultam ut nunc est, et sui ipsius latus non semper patiens fore ventorum et imbrium: nam utrumque tempus ipsum immutabit.81

64 L’interpretazione del verso legge tra le righe un doppio senso, o meglio, come afferma il commentatore, un senso più «arguto»: la porta della donna, davanti alla quale il poeta innamorato ha trascorso tante notti in balìa di pioggia, neve e venti, non sarà sempre così «frequentata» e «desiderata» dagli spasimanti, e il fianco del poeta, che a lungo si è appoggiato ad essa, non sarà ancora a lungo capace di sostenere le intemperie. Il tempo, infatti, non risparmierà nessuno dei due, non la bellezza della donna, né la forza del poeta. L’annotazione si mostra dunque coerente con la lettura/riscrittura dell’ode che Piccolomini aveva realizzato nel sonetto 62, e permette di inscrivere in una riflessione attenta sui testi oraziani le integrazioni e innovazioni del poeta rispetto al modello latino.

65 Gli esempi analizzati permettono di individuare alcuni aspetti del rapporto di Piccolomini con Orazio che, collocandosi tra imitazione, esegesi e autonoma riflessione teorica, costituisce un punto fermo nel percorso intellettuale dell’umanista. Sebbene una valutazione più ampia dei Cento sonetti necessiti di ulteriori indagini sull’intera raccolta, l’esemplificazione proposta sembra già mettere in evidenza un dato rilevante: l’imitazione piccolominiana di Orazio opera delle selezioni sul testo latino che tradiscono una ricezione del modello volta a ‘individualizzare’ l’esperienza poetica. La ripresa del Carmen saeculare, che offre lo spunto per un sonetto interamente concentrato sul soggetto poetico, unitamente alla scelta – negli altri casi presi in esame – di quegli elementi dei testi oraziani che più si prestano all’elaborazione di un paradigma ‘personale’, confermano la tendenza del poeta a concentrare, in sede lirica, l’attenzione sulla propria esperienza personale.

66 Per quanto riguarda gli eventuali nessi che possano legare la produzione lirica di Piccolomini e la sua riflessione teorica sulla poesia, elementi di grande interesse emergono, come si è visto, dall’epistola prefatoria, inaspettato ‘tratta-tello’ sul genere lirico. L’auctoritas di Orazio si affianca a quelle di Petrarca, Bembo e Colonna, ed il peso accordatole pare tanto più interessante qualora lo si metta in relazione ad una delle ultime fatiche erudite dell’umanista senese, le Annotationes quaedam in Horatium. La possibilità di muoversi tra le considerazioni teoriche dell’epistola, l’imitazione di Orazio nei Cento sonetti e il più tardo commento si rivela dunque stimolante e foriera di elementi nuovi.

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NOTE

1. CENTO / SONETTI. / DI. M. ALISANDRO / PICCOLOMINI. // in ROMA / Appresso Vincentio Valgrisi, M.D.XLVILLI. La bibliografia sui Cento sonetti di Piccolomini è poverissima e ormai datata.Essa si riduce ai contributi di V. G B. Pellizzaro, I sonetti di Alessandro Piccolomini, in «Rassegna Critica della Letteratura Italiana», Vili (1903), pp. 77-111; M. Rossi, Le opere letterarie di Alessandro Piccolomini, in «Bullettino Senese di Storia Patria», XVII (1910) fase. Ili e XVIII (1911) fase. I; E Cerreta, Alessandro Piccolomini letterato e filosofo senese del Cinquecento, Firenze, Olschki, i960, pp. 61-66. Si segnala un più recente contributo che, pur non affrontando un’analisi della raccolta nel suo insieme, mette in luce il peso della riflessione politica nella lirica di Piccolomini: K. Ley, Alessandro Piccolominis Cento sonetti zwischen Zensur und Selbst-zensur. Zur Aktualität von Petrarcas “poesia civile” in der Krise der Renaissance, in «Italienisch», XXVI (2004), pp. 2-18. 2. Prendo in prestito tale formula da un recente contributo di R. Gigliucci (Appunti sul petrarchismo plurale, in «Italianistica», XXXIV, 2, 2005, pp. 71-75) che propone un’articolata classificazione del fenomeno petrarchista mostrandone il carattere fondamentalmente eterogeneo. Limitando, per il resto, i riferimenti bibliografici all’essenziale, preme ricordare almeno la ricchezza di spunti che emergono dall’antologia Poeti del Cinquecento. Tomo I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi, S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, non solo per l’attenzione con cui i curatori propongono i testi antologizzati, ma anche per i cappelli introduttivi ai singoli autori che forniscono un quadro generale del petrarchismo nelle sue varie declinazioni. 3. L’indagine su raccolte collettive cinquecentesche e su manoscritti è attualmente in corso, e rimando ad altra sede i risultati dello spoglio che sto effettuando. 4. Del tempio alla diuina signora donna Giouanna dAragona, fabricato da tutti ipiu gentili spiriti et in tutte le lingue principali del mondo. Prima parte, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554 (due sonetti: Donna scesa dal Cielo a far onore, p. 55 ; Nei gran Tempi sublimi illustri e chiari, p. 374; un madrigale: Ben è ragion, che ’n ogni piaggia e riva, p. 56). Le imagini del tempio della signora Donna Giouanna Aragona, dialogo di M. Giuseppe Betussi. Alla illustriss. s. Donna Vittoria Colonna di Tolledo, Firenze, M. Lorenzo Torrentino, 1556 (un sonetto: Non ebbe più di voi leggiadro viso, p. 81). 5. Rime diuerse di molti eccellentiss. auttori. Libro primo, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 15 46 (tre sonetti: Donna, che con eterno, alto lavoro, p. 247; Giunto Alessandro alla famosa tomba, p. 247; La vergin, cui servì la prima gente, p. 248; gli ultimi due corrispondono, seppur con varianti, ai sonetti 86 e 91 del canzoniere). Rime di diuersi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Libro secondo, Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1547 (un madrigale e un sonetto verisimilmente legati: Flori, deh, Flori mia, deh, bella Flori, e. 141V; Già ride il ciel, Zefir già di ampi onori, e. 142r). 6. ACCADEMICI INTRONATI, Il Sacrificio, Siena, 1537, e. 5r. Per indicazioni più precise sul Sacrificio, che meriterebbe oggi un’edizione e uno studio specifico anche in relazione alla commedia degli Ingannati di cui costituisce il preambolo, cfr. N. Newbigin, «Il Sacrificio» e «Gli Ingannati» nel Carnevale senese del 1532, in ACCADEMICI INTRONATI, Gl’Ingannati con il Sacrificioe la canzone nella morte di una civetta, rist. anast. dell’esemplare della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, Bologna, Forni, 1984, pp. V-XIX. 7. Tra le altre stampe che comprendono liriche di Piccolomini si vedano: Rime di diuersi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni. Libro quinto, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari et fratelli, 1552, pp. 400-401 (il sonetto Bonfadio mio; che con stil chiaro et pieno corrisponde, nonostante le varianti, al 50 dei Cento sonetti); Sonetti di diuersi accademici sanesi, Siena, Salvestro Marchetti, 1608, pp. 1-3 (cinque sonetti altrimenti sconosciuti); ALESSANDRO PICCOLOMINI, De le stelle fisse, Venezia, al segno del Pozzo, 15 52, c. 3v (sonetto alla destinataria del trattato, Laudomia Forteguerri: Gli alti trofei de iprimi illustri heroi).

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8. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Cod. Pal. 288, cc. 65v-6t)r (cinque sonetti di nobildonne senesi e relative risposte di Piccolomini; la corrispondenza prende avvio dal sonetto Giunto Alessandro a lafamosa tomba, già edito nelle Rime diverse cit., del 1546, e poi di nuovo nei Cento sonetti). 9. Si tratta di sonetti per lo più indirizzati ad amici e compagni di studio che celebrano i valori dell’amicizia con toni familiari e a tratti malinconici. 10. I sonetti ‘romani’, cui si unisce il sonetto 100 (che chiude emblematicamente la raccolta unendo le insidie tese al poeta dall’ambizione durante il suo soggiorno romano ad una malinconica apostrofe alla «cara villa»), costituiscono una delle serie più interessanti della raccolta. La decadenza dell’Urbs è d’altronde un tema diffuso nella letteratura cinquecentesca anche al di fuori d’Italia: tra i molti casi vale la pena ricordare quello di Joachim Du Bellay che fa di Roma l’oggetto delle sue Antiquités de Rome, del Songe e di alcuni tra i Regrets. Bellay, lucido e amareggiato spettatore della «Babilonia» romana, fu a Roma dal 1553 al 1557 e sembrerebbe aver conosciuto i Cento sonetti di Alessandro Piccolomini, dai quali avrebbe anche ripreso alcune soluzioni metriche (cfr. F. Cerreta, Alessandro Piccolomini cit., pp. 61-66; J. Vianey, La part de l’imitation dans les Regrets, in «Bulletin Italien», IV, 1904, pp. 30-48). L’indagine sull’influenza dei Cento sonetti sull’opera di Bellay necessiterebbe tuttavia di essere ripresa e approfondita. 11. Se già la predilezione per Vittoria Colonna, apertamente dichiarata nell’epistola prefatoria, dice molto sull’apertura di Piccolomini a istanze religiose più o meno apertamente eterodosse, la provenienza senese (l’Accademia degli Intronati fu un nucleo importante di diffusione delle idee riformate), la frequentazione di figure-chiave della Riforma in Italia come i fratelli Socini, e la conoscenza di Marcantonio Flaminio, Jacopo Bonfadio e altri intellettuali sensibili alle influenze riformate, fanno pensare che un’indagine volta a chiarire questo aspetto della cultura piccolominiana potrebbe dare risultati interessanti. 12. La celebrazione di Carlo V è evidente già nel sonetto I laddove il poeta si dice inadatto a cantare i «Trionfi di Carlo». 13. Fra i sonetti d’occasione meritano una particolare attenzione il sonetto 37 Sopra il ritratto dell’Illustrissimo Signor Don Diego de Mendozza, che fece Tiziano, e il sonetto 86 Fatto inArquà sopra ilsepolchro di Messer Francesco Petrarca. Nel primo caso Piccolomini celebra il ritratto di Diego Hurtado de Mendoza fatto da Tiziano, già cantato in un sonetto di Pietro Aretino: il Mendoza era stato ambasciatore imperiale a Venezia dal 1539 al 1547, e non è escluso che Piccolomini l’abbia conosciuto durante il soggiorno di studi a Padova (1538-42). Lo spagnolo fu poi ambasciatore a Roma, ebbe un ruolo decisivo nello ristabilimento dell’ordine a Siena già nel 1548 e proprio per questo Piccolomini gli indirizzò il sonetto 47 A l’Illustrissimo Signor Don Diego de Mendozza, quando con l’aiuto della sua prudentia fu data miglior forma a la Republica di Siena l’anno del XLVIII. Il legame di Piccolomini con i Mendoza è del resto confermato dalla frequentazione di Hernando de Mendoza, già citato nell’epistola prefato-ria e destinatario dei sonetti 4, 17, 38, 58. Quanto al sonetto sul sepolcro di Petrarca, oltre a riprendere l’ incipit di Rvf 187 Giunto Alexandro a la famosa tomba, esso offrì lo spunto per la già citata corrispondenza poetica sul pellegrinaggio ad Arquà. 14. Chiaro esempio di dittico sono i sonetti 40 Contra gli Studij de le Scientie e 41 In defensione de gli Studij de le Scientie giocati sull’affermazione di due tesi opposte. 15. Anche in questo caso i sonetti 38 Nel pianger che fa una bellissima donna leggendo l’historie de gli amanti antichi e 39 A Madonna Portia Pecci, la quale, leggendo Amadis de Gaula, giudicava che segno di poco amore mostrasse in viver tanto lontano da Oriana come faceva costituiscono una sorta di dittico. La letteratura offre poi la possibilità di filtrare vicende amorose contemporanee nel sonetto 97 Ad un amico, sotto ’l nome di Ruggiero; il quale ama una donna iniqua, peggior d’Alcina. 16. A lavoro avviato mi sono reso conto che l’epistola prefatoria è stata pubblicata da D. Chiodo in «Lo Stracciafoglio», II 4 (2001), pp. 5-14: lo studioso propone una breve introduzione al testo che non entra però nel dettaglio. Più puntuali i riferimenti all’epistola piccolominiana in P. Zaja, Intorno alle antologie. Testi e paratesti in alcune raccolte di lirica cinquecentesche, in “Ipiù vaghi e i più

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soavi fiori”. Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di M. Bianco e E. Strada, Torino, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 113-45 (su Piccolomini le pp. 124-26). 17. La ‘preziosità’ tipografica del volumetto piccolominiano è confermata anche dal fatto che ogni sonetto occupa un’intera pagina. 18. Un commento più approfondito all’epistola non potrà peraltro sorvolare sulle analogie che affermazioni di questo genere presentano con la riflessione poetica delle epistole petrarchesche: cfr., a solo titolo d’esempio, FRANCESCO PETRARCA, Fam. X 4, 1-2: «theologie quidem minime adversa poetica est. Miraris? parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo: Cristum modo leonem modo agnum modo vermen dici, quid nisi poeticum est? [...] apud Aristotilem primos theologizantes poetas legimus», con il riferimento d’obbligo ad ARISTOTELE, Met. 983b 28-3 2. Un altro raffronto necessario sarebbe con il XIV e il XV libro delle Genealogie boccacciane. Mi limito qui, per l’immagine del «velame», ad un’unica ma significativa citazione da GIOVANNI BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, XIV VII, 1: «ornare compositum inusitato quodam verborum atque sententiarum contextu, vela-mento fabuloso atque decenti veritatem contegere». 19. ALESSANDRO PICCOLOMINI, A la eccellentissima e virtuosissima signora, la S. Donna Vittoria Colonna, figlia degli eccellentissimi, il S. Ascanio Colonna, e la S. D. Giovanna Aragonia (d’ora in avanti Epistola), c. *iiijv: «sì come nel maneggiare e mostrar’altrui qualche santa reliquia, colui sarà di più lode meritevole e di più fede, il quale per reverentia e rispetto, col mezzo d’alcun sottil velo o transparente cristallo la trattarà, e altrui mostrarà secondo che si conviene; che quell’altro non farà poi che, fuori d’ogni venerazione e riguardo, con le mani stesse non ben purgate, maneggiaralla a guisa di cosa vile». 20. PICCOLOMINI, Epistola, cc. *vv-*vir. Sull topos lucreziano della poesia-medicina nel Rinascimento, cfr. V. Prosperi, Di soavi licorgli orli del vaso : la fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino, Aragno, 2004. 21. Interessanti le analogie con quanto Piccolomini afferma nel trattato De la institutione di tutta la vita de l’homo nato nobile e in città libera (1542) a proposito De le favole che a ifanciulli narrar si debbano (Inst, II, 5): «e finalmente sen cotai Novelle, insiememente di un certo che di dolcezza che di diletto ripiene, e d’uno invitamento a ben fare, adornate. Acciò che i fanciulli per il diletto di quella dolcezza, con grande attention di mente, si bevin cose, che col tempo gli habbin da essere di virtuose operationi essempio saldissimo» (cito dall’ediz. Venezia, Scoto, 1545, c. 34v). Ma si vedano anche le affermazioni sulla Poetica in Inst, III, 2: «[Poetica] la quale per il mezzo del diletto nato da l’imitatione (la quale imitatione è fondamento de la poesia. E per molte ragioni, naturalmente dilettevolissima agli uomini), e fatto maggiore, la dolcezza de i rhitmi e misure, aggiontovi ancora la piacevolezza de le Favole, come coperta di quel che utilissimo dentro a quelle s’asconde: habbia a far bere al volgo, quelle medicine de l’animo, che per essere in superficie amare, senza tal coperta di questo mele, difficil sarebbe, che si bevessero» (ivi, c. 50r). 22. Per il tema del ‘falso’ poetico, un riferimento imprescindibile è GIOVANNI BOCCACCIO, Genealogie, XIV 13 Poetas non esse mendaces. 23. PICCOLOMINI, Epistola, c. *viv . Anche in questo caso, e soprattutto per il riferimento a David, non peregrino mi pare il confronto con FRANCESCO PETRARCA, Fam. X 4, 6 e XXII 10, 10-11; Bucolicum carmen, X 160-61. Ma si pensi anche al peso che il modello davidico ha nell’elaborazione petrarchesca degli Psalmipenitentiales. Come auctoritas classica, non si può tuttavia dimenticare GEROLAMO (cfr. almeno Epist. LIII, 8 e Comm. in Abac. II, 1). 24. Il riferimento all’umanista napoletano conferma l’interesse specifico di Piccolomini per la poesia didascalica d’argomento scientifico. È tuttavia il caso di sottolineare che proprio all’inizio del Cinquecento i rapporti culturali tra Siena e Napoli andavano intensificandosi (ed è in quest’ottica, come si vedrà, che devono essere esaminati i rapporti del poeta con Luigi Tansillo). La celebrazione di Pontano può dunque essere vista anche in tale prospettiva, e diventa ancora

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più interessante se si pensa al silenzio di Piccolomini su Sannazaro che, come si vedrà a breve, non è ricordato nel canone poetico offerto dall’autore. 25. Per il riferimento ai due poeti mitici Anfione e Orfeo, cfr. ORAZIO, Ars poetica 391-401. 26. PICCOLOMINI, Epistola, cc. *viiv-*viiir. 27. Il progressivo passaggio della Repubblica di Siena nell’orbita mediceo-imperiale, e la perdita della sua indipendenza, erano infatti, agli occhi di Piccolomini, l’inevitabile frutto di insanabili e meschine lotte interne, e il fatto che egli sia tornato più volte a riflettere su questo tema spinoso legittima l’idea che anche l’epistola prefatoria dei Cento sonetti possa farvi riferimento. Oltre a ricordare i vari impegni politico-diplomatici assunti dal letterato nella difficile fase del passaggio di Siena sotto Firenze, non si può non pensare al peso che assume all’interno della sua produzione un trattato come la già citata Institutione di tutta la vita de l’huomo nato nobile e in città libera. 28. La commistione di docere e delectare è sancita in modo esplicito da Piccolomini: «manifestissima cosa è che de la Poesia è proprio offizio, non sol demonstrando e commovendo (come l’altre scienzie fanno), ma dilettando ancora, cercar di far conoscere il vero e ’l buono», PICCOLOMINI, Epistola, c. *viiiv. Evidente il riferimento al canonico precetto oraziano di Ars poetica 343-44: «Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, / lectorem delec-tando pariterque monendo». La ripresa di moduli oraziani prosegue subito dopo, laddove il poeta sottolinea l’impossibilità, per la poesia, di essere mediocre (cfr. Ars poetica 372-73). 29. PICCOLOMINI, Epistola, c. Ajv. Cfr. ARISTOTELE, Poetica, 1448b 10-15: «Anche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà godiamo a contemplare la perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri. La causa, anche di ciò, è che imparare è un grandissimo piacere» (si cita da ARISTOTELE., Poetica, traduz. di G Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998). 30. Cfr. ALESSANDRO PICCOLOMINI, Annotationi nel libro della Poetica di Aristotele, Venezia, Guarisco, 1575, particella XIX, pp. 67-71. 31. PICCOLOMINI, Epistola, c. Aiiij r. 32. Sulle implicazioni ‘linguistiche’ della cultura piccolominiana — per le quali sarebbe necessario rifarsi con precisione anche al suo soggiorno padovano e al programma dei ‘Volgarizzamenti’ — cfr. R. Belladonna, Some Linguistic Theories of the Accademia Senese and of the Accademia degli Intronati di Siena, in «Rinascimento», XVIII (1978), pp. 229-48, e Two Unpublished Letters about the Use of the volgare sent to Alessandro Piccolomini, in «Quaderni d’Italianistica», VIII (1987), pp. 53-74. Si vedano anche i più recenti atti del convegno Lingua e letteratura a Siena dal ’500 al ’700, a cura di L. Giannelli et alii, Siena, Università degli Studi, 1994. Comunque rilevante lo scarto tra il respiro ‘italiano’ della prefatoria ai Cento sonetti e la celebrazione del toscano neWInstitutione (cfr. Inst. II 9, De la lingua toscana). 33. Le prime attestazioni d’uso dell’aggettivo in relazione ad un’identità linguistica sovraregionale sembrano essere in Leonardo e Machiavelli. La più cospicua concentrazione di occorrenze nei testi di Bembo, Trissino e Muzio esplicitamente dedicati alla questione della lingua, e più cronologicamente affini all’epistola di Piccolomini, farebbe pensare, in effetti, ad un uso consapevole dell’aggettivo da parte del poeta. 34. PICCOLOMINI, Epistola, ce. Aiiijv-Avr. 35. Il sonetto 18 A Giovanni Antonio Seroni, ne la morte del Bembo, coerentemente a tale impostazione, celebra il poeta come «illustre d’ITALIA alto splendore» (18, v. 10). 36. PICCOLOMINI, Epistola, e. Aviir. 37. Il primo libro dell’opere burlesche. Di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola, ricorretto, et con diligenza ristampato, Firenze, Bernardo Giunta, 1548. 38. Si cita da Zaja, Intorno alle antologie cit., p. 119.

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39. Dopo essersi profuso in un’ulteriore declinazione del topos modestiae, Piccolomini conclude la lunga epistola con una frase che sembra effettivamente tradire una certa consapevolezza teorica: «E con questo fo fine a questa mia, la quale, più in luogo di un tal discorso, che di proemio, ho io scritta così lungamente» (PICCOLOMINI, Epistola, e. Aviiir). L’impiego del termine ‘discorso’, in un contesto di questo tipo, non può essere casuale. Nel linguaggio tecnico della critica e della teoria letterarie del Cinquecento, il genere del ‘discorso’ ha uno statuto ben preciso, e sta normalmente ad indicare un testo teorico in cui, spesso, si affrontano questioni connesse alla codificazione dei generi letterari. 40. G. Gorni, «Né cal di ciò chi m’arde». Riscritture da Orazio e Virgilio nell’ultimo Bembo, in «Italique», I (1998), pp. 25-34; S. Albonico, Come leggere le «Rime» di Pietro Bembo, in «Filologia italiana», I (2004), pp. 161-82. Perii caso della raccolta poetica di Domenichi, pubblicata da Giolito a Venezia nel 1544, cfr. anche LUDOVICO DOMENICHI, Rime, a cura di R. Gigliucci, Torino, Res, 2004. Un vecchio studio cui occorre far riferimento, nonostante la difficile reperibilità, è E. Stempliger, Das Fortleben der Horazischen Lyrik seit der Renaissance, Leipzig, 1906; sulla ricezione di Orazio nella poesia rinascimentale si vedano anche le indicazioni di G Curcio, Quinto Orazio Flacco studiato in Italia dal secolo XIII al XVIII, Catania, Battiato, 1913 (soprattutto i capitoli 7-9). 41. PIETRO BEMBO, Rime 1530, 87; ORAZIO, Odi IV, 10. Che questo aspetto fosse già percepito dai lettori contemporanei è evidente qualora si pensi alle numerose auctoritates latine rilevate nelle Rime di Bembo da Sertorio Quattromani. Su questo cfr. G Gorni, Un commento inedito alle Rime del Bembo da attribuire a Sertorio Quattromani, in Il commento al testo lirico, a cura di B. Bentivogli e G Gorni, , Istituto di Studi Rinascimentali, «Schifanoia», XV-XVI, 1995, pp. 121-32. 42. Per alcune fondamentali indicazioni sulla ricezione del modello ‘canzoniere’ da parte dei lirici cinquecenteschi, cfr. almeno G. Gorni, Il canzoniere, in Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 113-34. 43. Cfr. Albonico, Come leggere cit., p. 173. Lo studioso ricorda che «in poesia 103 non è un numero qualsiasi: è infatti quello complessivo delle odi oraziane, i cui quattro libri hanno, rispettivamente, 38, 20, 30 e 15 testi». Che l’imitazione dei ‘numeri’ oraziani sia un motivo sempre più importante nel corso del XVI secolo, sembra essere confermato dal ben più tardo esempio tassiano. Prima di soffermarsi infatti sui casi ‘probanti’ di Muzio e Domeni-chi, Albonico osserva che anche «in Tasso attorno alla stessa cifra si crea un confine (la fine delle ‘rime per Lucrezia’), più profondo di quello bembiano». 44. ANTONIO MINTURNO, Rime et prose, Venezia, Rampazzetto, 1559. 45. Hanno portato l’attenzione sull’imporsi del numero 100 nella struttura dei canzonieri del ’500, Gorni, Metrica e analisi letteraria cit., p. 129; M. Danzi, Nota introduttiva a Luca Valenzano, in Poeti del Cinquecento cit., pp. 439-40; S. Carrai, Una nuova antologia di poeti del Cinquecento, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», IV (2001), pp. 478-79. Il caso cronologicamente più prossimo a quello di Piccolomini, e col quale sarebbe interessante istituire un primo confronto, sono senz’altro i Cento sonetti di Anton Francesco Raineri (Milano, Borgo, 1553; si può oggi fare riferimento a ANTON FRANCESCO RAINERI, Cento sonetti, altre rime e pompe, a cura di R. Sodano, Torino, Res, 2004). Restando a metà secolo, ma cambiando di genere, si può ricordare il caso di V BRUSANTINO, Cento novelle in ottava rima, Venezia, 1554. Tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, occorre ricordare alcune altre raccolte di sonetti organizzate secondo il numero 100: GIOVANNI PAOLO CASTALDINI, Cento sonetti spirituali e morali, Bologna, Benacci, 1585; Muzio MANFREDI, Cento sonetti, Ravenna, Heredi Giovanelli, 1602; GIOVAN FRANCESCO MAIA MATERDONA, Cento sonetti amorosi, Bologna, Mascheroni, 1628. Sempre strutturato secondo il numero 100, ma parzialmente diverso quanto al genere, il libro-gioco di GIULIO CESARE CROCE, Notte solazzeuole di cento enigmi da indouinare, aggiontoui altri sette sonetti nel medesimo genere..., Verona, Dalle Donne & Vargnano, 1599. Sullo stesso numero si costruiscono anche raccolte di madrigali: M. MANFREDI, Cento madrigali, Mantova, 1587, e A. VALERINI, Cento madrigali, Venezia, 1592.

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46. L’effetto ‘performativo’ prodotto dai numeri di Boccaccio è lampante nella princeps del Novellino che, curata da Carlo Gualteruzzi, uscì a Bologna nel 1525 con il titolo di Le cento novelle antike. Quanto agli autori classici, se 100 si avvicina all’oraziano 103, è però vero che un altro modello potrebbe essere costituito dagli Epigrammi di MARZIALE: il poeta latino suggerisce il numero 100, con valore puramente indicativo, se non propriamente iperbolico, nell’ultimo epigramma del I libro (I 118, vv. 1-2: «Cui legisse satis non est epigrammata centum, / Nil illi est, Caedicine, mali») e nel primo del II libro (II 1, w. 1-2: «Ter centena quidem poteras epigrammata ferre, / Sed quis te ferret perlegeretque, liber?»). Marziale, tuttavia, raccoglie 100 epigrammi solo nel III libro, pur ruotando sempre intorno al 100 negli altri libri (I: 118; II: 93; IV: 89; V: 84; VI: 94; VII: 99; Vili: 82; IX: 103; X: 104; XI: 108; XII: 98). Il peso della tradizione epigrammatica sembra non essere irrilevante per le raccolte di sonetti cinquecentesche, e non si può quindi escludere un’influenza dei ‘numeri’ epigrammatici sui canzonieri lirici del XVI secolo. 47. Un confronto tra Piccolomini e Minturno è acutamente suggerito da Zaja che, pur senza approfondire la questione, rileva l’affermarsi di una linea più ‘classicista’ che propriamente petrarchista: «Andrà rilevato piuttosto come in un autore di solida formazione classica qual è il Minturno la ricerca di una diversa declinazione del modello petrarchesco si attui attraverso un più diretto confronto con i lirici antichi, secondo una prospettiva in parte comune anche ad altri autori, come dimostrano le dichiarazioni del Piccolomini» (Zaja, Intorno alle antologie cit., p. 125). 48. La Parafrase della Retorica aristotelica uscì in tre volumi a Venezia tra 1565 e 1572; le Annotationi nel libro de la Poetica d’Aristotele, ancora a Venezia nel 1575 (entrambi i commenti con varie ristampe successive). La militanza attiva nell’Accademia degli Infiammati e il confronto con esponenti della scuola pomponazziana come Sperone Speroni, unitamente ai dati certi che attestano una discussione dei trattati aristotelici in seno all’accademia padovana, permettono infatti di rilevare nell’intero percorso di Piccolomini una disposizione notevole alla riflessione sui generi letterari e sulla loro evoluzione. 49. Le Annotationes quaedam in Horatium sono conservate dal Ms H.VII.25 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, autografo di Piccolomini, ma non datato. Rimandando ad altra sede una descrizione puntuale del codice, ci si limita a indicarne sinteticamente il contenuto: cc. 4r-62v [commento alle Odi]; cc. 63r-70r [commento agli Epodi]; cc. 72r-115r [commento alle Satire]; cc. 116r-151r [commento alle Epistole]; c. 152r-v [commento al Carmen Saeculare]; cc. 155r-167r [commento all’Ars poetica]. 50. Per la delicata questione dei volumi ‘postillati’, mi rifaccio alle linee metodologiche tracciate in G. Frasso, Libri a stampa postillati Riflessioni suggerite da un catalogo, in «Aevum», LXIX (1995), pp. 617-40. 51. La fortuna dell’ode I 7 di Orazio è provata, per esempio, dall’ancor più preciso calco che ne fa Minturno nel sonetto proemiale delle sue Rime del 1559: il «laudabunt alii» oraziano è posposto in Minturno al v. 3 («dican gli altri»), mentre l’approdo contrastivo alla scelta del poeta apre, come già in Piccolomini, la prima terzina («Io canto la divina, alma Beltate»). Il medesimo componimento di Orazio fungerà anche da ipotesto per il sonetto proemiale delle Rime amorose di Gian Battista Marino (1602) che doveva evidentemente conoscere anche il testo di Minturno. Nel testo di Marino, l’opposizione tra la materia rifiutata e la materia accolta si gioca nelle due quartine (si vedano almeno il v. 1, «Altri canti di Marte e di sua schiera», e Y incipit del. v. 5, «I’ canto, Amor ... »). Sul riuso dell’ode I, 7 nei due sonetti di Minturno e Marino, cfr. S. Carrai, Classicismo latino e volgare nelle rime del Minturno, e In esordio del canzoniere: Minturno, Marino e un modulo oraziano, in Iprecetti di Parnaso: metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 167-92, 193-200. 52. PICCOLOMINI, Cento sonetti, 29 vv. 9-14: «Prima io diceva, o che nel Tosco lido / S’oda almen mia sampogna, onde ne goda, / Tra l’gran Tebro e la Magra, Ombrone e Arno. / Muta rest’or, che troppo passa il Sarno / Di vostra tromba ’1 suon, né fia che m’oda / la nostr’Arbia minor del

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vostro Aufido». Tansillo figura dunque tra i corrispondenti poetici di Piccolomini ed il legame tra i due poeti meriterebbe di essere ulteriormente approfondito: ci restano almeno cinque sonetti di Tansillo indirizzati a Piccolomini, trai quali uno in cui se ne celebra proprio l’ascendenza poetica oraziana. La Voce’ poetica del senese è infatti definita da Tansillo come «la più sonora lira e la più dotta,/ che mai sonasse successor d’Orazio» (LUIGI TANSILLO, Canzoniere, sonetto 300, w. 13-14; si cita dall’ediz. Pèrcopo, rist. a cura diT R. Toscano, Napoli, Liguori, 1996, voi. II, p. 16 2; gli altri sonetti a Piccolomini sono inn. 296-99 alle pp. 158-61). Un rapporto abbastanza stretto trai due è testimoniato anche dagli intermezzi che Tansillo compose per una recita napoletana della commedia di Piccolomini L’ Alessandro nel 1558, allestita per quella stessa Vittoria Colonna iuniore, sposa di Don Garzia di Toledo, figlio del vicerè spagnolo Don Pedro, cui il poeta aveva dedicato i Cento sonetti (cfr voi. I, p. xxiv, e i testi degli intermezzi alle pp. 251-64). Tali rapporti si dipanano lungo l’asse Siena-Napoli che era andato consolidandosi tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50, e che, nel caso di Piccolomini, si avvale anche del tramite offerto dal periodo romano. 53. VITTORIA COLONNA, Rime, I, vv. 7-8: «per altra tromba e più sagge parole / convien ch’a morte il gran nome si toglia» (si cita dall’ediz. Bullock, Bari, Laterza, 1982). 54. Lo stesso tema torna, con intento giustificatorio, nel sonetto 2 Periscusa del reprendere con Sonetti, i vitij de i calunniatori, che costituisce a tutti gli effetti una sorta di chiosa al sonetto proemiale. 55. Il verso «Tutte le cose di che ’l mondo è adorno» apre l’ultima stanza della canzone petrarchesca e il rilievo della sua posizione può agevolmente giustificarne la memorabilità. La clausola «mondo adorno» torna anche in Rvf. 119 v. 82. Ci si limita inoltre ad ipotizzare la presenza di altre tessere poetiche che esulano dal repertorio petrarchesco, ma che possono mostrare la ricchezza e varietà della memoria poetica di Piccolomini. Se la dittologia «biasmo e scorno» che chiude il v 4 pare riecheggiare una clausola ariostesca (Orlando Furioso, VIII, LXXXVIII, 4 e XXXVIII, LXXII, I), laddove, peraltro, la sola clausola «scorno» è comunque attestata nel Canzoniere tre volte (Rvf. 105 v . 2; Rvf. 119 v . 78; Rvf. 201 v . 8), più curioso sembra il ricorso alla formula «altro stile»: si tratta, di per sé, di una formula facile, ma vale forse la pena registrarne l’occorrenza in due casi che si avvicinano al testo di Piccolomini anche per il contesto. Pulci, alla fine del suo poema, propone un’ironica dichiarazione di modestia che, dopo la rievocazione dell’episodio di Marsia, approda ad una recusatio analoga, se non nel tono almeno nel suo avvio, a quella di Piccolomini: «Altri verrà con altro stile e canto, / con miglior cetra, e più sovrano artista; / io mi starò tra faggi e tra bifulci / che non disprezzin le muse de’ Pulci» (LUIGI PULCI, Morgante, XXVIII CXXXIX, 5-8). L’altro caso, più propriamente ‘lirico’, è ANTONIO TEBALDEO, Rime, 58, 3, dove «altro stile» cade in clausola di verso: «e dico: “Stolto, hormai prendi altro stile”». Il poeta si rivolge a se stesso spronandosi ad abbondanare il «folle errore e puerile» (v. 2) che è, evidentemente, l’amore. Sebbene si tratti di moduli ricorrenti nella poesia Quattro- Cinquecentesca, il sonetto tebaldeano sembra interessante in rapporto a quello di Piccolomini perché oltre all’«errore», vi compare pure l’«impresa» (v. 7) e, sopratutto le terzine sembrano arieggiare tematiche oraziane che saranno tipiche di molte rime piccolominiane. Si vedano, in particolare i vv. 12-14: «Mentre ch’io parlo e cum meco contendo, / il tempo passa, come un ombra e un sogno: / e moro, e posso aitarme, e non me aiuto». 56. La rinuncia all’esclusività della tematica amorosa non è caratteristica del solo Piccolomini. Si potrebbero infatti, a tale proposito, estendere al senese alcune osservazioni sui Cento sonetti di Antonfrancesco Rainerio (1553) proposte da A. Casu, Romana difficultas. I “Cento sonetti” e la tradizione epigrammatica, in La lirica del Cinquecento. Seminario di studi in memoria di Cesare Bozzetti, a cura di R. Cremante, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 123-54: «In palese contrasto con l’ortodossia bembiana, il genere amoroso è qui solo una delle possibili fonti dell’invenzione lirica, che trae anzi il suo pregio proprio dalla pluralità dei modelli e delle occasioni» (p. 145).

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57. Secondo il sonetto, Piccolomini avrebbe 36 anni nel 1548, ma ciò discorda con la sua data di nascita, certamente collocabile nel 1508. 58. Nonostante l’impostazione del sonetto sia chiaramente oraziana, all’incipit pluri-evocativo che rimanda anche a Petrarca, corrispondono echi petrarcheschi anche nel resto del sonetto. La rima «guerra»: «terra», infatti, pur non essendo particolarmente difficile e univocamente riconducibile al Canzoniere, vi compare tre volte (Rvf. 26, vv. 1 e 8; Rvf. 36, vv. 3 e 6; Rvf. 302, vv. 2 e 7), ed almeno il sonetto 36 mostra altre affinità col testo di Piccolomini. Si vedano i vv. 1-4, dove l’«incarco» — ovvero il peso dell’amore — si associa ad un senso digravitas che tornerà nel sonetto del senese: «S’io credesse per morte esser scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco»; per «incarco», lemma petrarchesco sempre legato al travaglio amoroso, cfr. Rvf. 32, v. 7; Rvf. 144, v. 6; Rvf 228, v. 13; Rvf 252, v. 3: fra di essi spicca il sonetto Rvf 252, In dubbio di mio stato, or piango or canto, perché propone ai vv. 5-8 un’elaborata declinazione di quella dialettica donna/sole che costituisce il nucleo del componimento piccolominiano e che già molti poeti avevano appreso a sfruttare prima del senese. Fra i molti casi che si potrebbero citare, ci si limita a ricordare quello macroscopico del canzoniere di GIROLAMO BRITONIO, La gelosia del sole, (Napoli, Mair, 1519 e poi Venezia, Sessa, 1531) in cui tale dialettica deborda dai testi poetici per coinvolgere il titolo della raccolta. 59. Devo l’indicazione dell’inedito Renato Trivulzio a Massimo Danzi. Sul poeta e sull’ambiente milanese si rimanda all’importante saggio di S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990. Oltre a riscoprire la figura poetica del Trivulzio, individuandone il fortissimo legame con l’opera oraziana, lo studioso ricostruisce in dettaglio l’ambiente culturale milanese di primo Cinquecento, e fornisce anche dati che dovrebbero costituire l’avvio di una ricerca sugli eventuali rapporti di Piccolomini con tale ambiente: sappiamo infatti che nel dicembre 1548, in occasione della visita del principe Filippo, figlio di Carlo V, a Genova e Milano, fu messa in scena anche la commedia piccolominiana L’Alessandro, un manoscritto della quale, molto probabilmente legato a quest’occasione, è oggi conservato a Madrid (Biblioteca dell’Escurial, Ms b.IV.12); Albonico ricorda anche che l’epistola prefatoria dei Cento sonetti è datata proprio da Genova nel dicembre 1548 (pp. 220-21). Se si aggiunge il fatto che un sonetto di Piccolomini compare nella più tarda e già citata raccolta Le imagini del tempio della signora Donna Giouanna Aragona del Betussi (15 56), unitamente alla certezza di rapporti tra Piccolomini e il poeta senese Luca Contile, ‘collega’ del Betussi a Savona e per lungo tempo attivo in area lombarda (p. 260), il sospetto che le tendenze oraziane della lirica piccolominiana possa in qualche modo collegarsi agli esperimenti poetici lombardi, assume una certa ragionevolezza. Quanto al Contile, oltre a ricordare che compare tra i corrispondenti poetici di Piccolomini (sonetto 87), sarà il caso di osservare che la loro prossimità anagrafica e geografica giustificherebbe una ricognizione volta ad individuare più precisi rapporti sul piano letterario. 60. Orazio è, metonimicamente, il ‘libro’ che ne contiene le opere, e in questa veste può stare nelle mani del poeta: si noti, a questo proposito, la declinazione del topos del dialogo con gli autori aggiornata secondo i canoni dell’età della stampa. L’Orazio ‘tascabile’ che accompagna Piccolomini, perfettamente in linea con il formato imposto dalle edizioni aldine, è complemento indispensabile per l’intellettuale, e gli permette di ambientare il dialogo con i classici, che in Machiavelli avveniva ancora all’interno dello studio, in un contesto diverso e riposante come quello della villa. Sul tema del dialogo con gli autori, cfr., anche per i numerosi rimandi bibliografici a contributi precedenti, il recente L. Bolzoni, Lettura come dialogo con gli autori: un mito letterario fra Petrarca, Erasmo e Tasso, in «Rivista di letterature moderne e comparate», LVII (2004), pp. 287-301. 61. È evidente che i modelli classici di Piccolomini non si esauriscono con Orazio, e sarebbe opportuno valutare la presenza di altri lirici latini nelle poesie del senese. Oltre a Catullo, gli

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epigrammisti e gli elegiaci dovevano costituire infatti un punto di riferimento imprescindibile per un autore così fortemente classicista. Un capitolo a parte sarebbe poi quello dell’influenza virgiliana: Piccolomini aveva partecipato ad un volgarizzamento collettivo dei primi sei libri dell’ Eneide (I sei primi libri de l’Eneide di Virgilio, Venezia, Zoppino, 1540) traducendo il VI, e la frequentazione di Virgilio potrebbe aver lasciato qualche traccia nell’opera volgare del senese. Una puntuale valutazione delle fonti piccolominiane non potrà poi prescindere dalla miniera di spunti e situazioni offerti dall’Antologia Palatina e dalla Planudea, come emerge dal recente contributo di Casu, Romana dijicultas cit.: nell’ambito di un’analisi dei Cento sonetti di Antonfrancesco Rainerio, lo studioso rileva anche nella raccolta di Piccolomini tracce delle antologie greche: il sonetto 5 2, per esempio, oltre a ricalcare Orazio, Sat. I 4, vv. 6-13, sembra prendere spunto da un epigramma di Polliano, mentre il sonetto 20 unirebbe ad elementi oraziani (cfr. Odi III 1, v. 40) la memoria di un epigramma di Ammiano. Tali testi, reperibili nell’edizione di Johannes Soter (Epigrammata Graeca veterum elegantissima, eademque Latina ab utriusque linguae viris doctissimis versa, atque in rem studiosorum e diversis autoribus per Ioannem Soterem collecta, Coloniae, 1525 — ma Casu utilizza la ristampa di Friburgo, Stephan Melechus, 1544) rappresentano dunque una tradizione diversa da quella oraziana che sarà necessario tenere in considerazione per ogni indagine ulteriore sui sonetti piccolominiani. Una conferma dell’utilizzo degli Epigrammata Graeca da parte di Piccolomini viene inoltre dal sonetto 65, imitazione di un epigramma «in pigrum ac somnolentum» dello stesso Soter, incluso nella sua edizione. L’indagine sugli ‘autori’ di Piccolomini non dovrebbe poi lasciare da parte Lucrezio che, elogiato apertamente nell’epistola prefatoria, è ricalcato almeno nel sonetto 88 (cfr. LUCREZIO, De rerum natura, III 93 2-39); per indicazioni più precise su tali casi, cfr. Casu, Romana diffcultas cit., pp. 146-50. 62. Nota manoscritta a piè di pagina dell’esemplare Barbier-Mueller: «Vid. Horat. Lib. II Satyra VI. Hoc erat in votis». 63. Cfr. anche Carmen saeculare, vv. 59-60: «apparetque beata pleno / Copia cornu». È tuttavia il caso di osservare che il modulo oraziano della cornucopia aveva già trovato applicazioni analoghe a quella di Piccolomini in ARIOSTO, Orlando Furioso VI, LXXIII, 7-8: «non entra quivi disagio né inopia, / ma vi sta ognor col corno pien la Copia»; e Orlando Furioso XXV, LXXX, 1-2: «Et alla mensa, ove la Copia fuse / il corno, l’onorò come suo donno». 64. Per l’immagine delle viti ‘maritate’ agli olmi, cfr. anche PIETRO BEMBO, Stanze, XL 7-8. 65. Il ritiro a vita privata nella villa è uno dei topoi della cultura rinascimentale che trova, evidentemente, le sue origini nel mondo classico. Per molti intellettuali, spesso uomini di chiesa, la villa costituisce una sorta di luogo d’evasione in cui affrancarsi dalla lacerazioni della società coeva. Indicazioni preziose su questo tema si trovano in G. Fragnito, In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Venezia, Arsenale, 1988. Attraverso il caso di Ludovico Beccadelli, la studiosa affronta una tendenza diffusa e mette a fuoco problemi che toccano da vicino molti letterati agli inizi dell’età della Controriforma. 66. LEON BATTISTA ALBERTI, I libri della famiglia, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, i960,I, pp. 198-202; per l’opuscolo Villa pp. 359-363. I testi ‘agronomici’ di Alberti segnano una tappa importante nella ripresa della tradizione dei ‘rei rusticae scriptores’: a tale proposito Grayson rilevava che la vera novità in Alberti sembra essere la presenza de Le opere e igiorni di Esiodo, testo poco conosciuto fino a Quattrocento avanzato, e che avrebbe sollecitato anche l’attenzione di Poliziano nella sua prolusione Rusticus del 1483. Sull’importanza della linea ‘agronomica’ che passa attraverso le opere di Alberti, cfr. M. Danzi, «In bene e utile della famiglia»: appunti sulla precettistica albertiana del governo domestico e la sua tradizione, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento: studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, Firenze, Olschki, 2001, pp. 107-40. Quanto alla diffusione dei testi didattici che hanno per oggetto la vita in villa, si vedano almeno le due precoci stampe di Hesiodi Opera et Dies, Nic. de Valle e Greco Conversio, Roma, 1471, e dei Rei rusticae scriptores, Venezia, Nic.

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Jensen, 1472 (la miscellanea veneziana comprendeva testi fondamentali della tradizione agronomica antica come Catone, Varrone, Columella e Palladio). Sull’interesse degli umanisti quattrocenteschi per la tradizione rustico-bucolica, cfr. V Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano, Bologna, 1921, I, pp. 231-51. La diffusione dell’interesse rustico in àmbito senese è ben testimoniata dal trattato in dieci libri De la divina villa di Corniolo della Cornia da Perugia, conservato manoscritto nella Biblioteca degli Intronati di Siena (Ms L.VII.15), e oggi reperibile in L. Bonelli Conenna, La divina villa di Corniolo della Cornia. Lezioni di agricoltura tra XVI e XV secolo, Siena, Accademia dei Fisiocritici, 1982. Per la specificità ‘senese’ del tema della vita in villa, cfr. Vita in villa nel Senese. Dimore, giardini e fattorie, Siena, Banca Monte dei Paschi, 2000 (comprende una ricca bibliografia alle pp. 560-67). 67. Nota manoscritta dell’esemplare Barbier-Mueller: «Nullus argento color est etc. Lib. II. Od. II». 68. ALESSANDRO Piccolomini, Annotationes quaedam in Horatium, Siena, Biblioteca degli Intronati, Ms H.VII.25, c. 25v. 69. Il riferimento a Odi IV, 7, la celebre ode a Torquato, sembra legittimato anche dal fatto che si tratta di una delle odi oraziane che più esplicitamente affrontano il tema del tempo e della morte, con il conseguente invito a godere della vita, elementi presenti, come si è detto, anche nel sonetto pie colominiano. 70. Nota manoscritta dell’esemplare Barbier-Mueller: «Vid. Hor. Epod. Od. XV Nox erat, in coelo fulgebat sereno». 71. Cfr. LORENZO DE’MEDICI, Innamoramento di Lorenzo de’ Medici (Corinto), vv. 1-2: «La luna in mezzo alle minori stelle / chiara fulgea nel ciel quieto e sereno» (si cita da LORENZO DE’ MEDICI, Scritti scelti, a cura di E. Bigi, Torino, Utet, 195 5), dove l’imitazione dell’Epodo XV, vv. 1-2, più fedele di quella piccolominiana, non sembra aver lasciato traccia nel sonetto del poeta senese. 72. Ha portato alla mia attenzione l’imitazione laurenziana di Orazio ed il costrutto del cum inversum Massimo Danzi. Per l’immagine delle braccia dell’amata al collo del poeta cfr. anche Odi III 9, 1-4: «Donec gratus eram tibi / nec quisquam potior brachia candidae / cervici iuvenis dabat, Persarum vigui rege beatior». 73. GALEAZZO DI TARSIA, LIV (extrav.), v. 182: «o travagliato amante arso dal ghiaccio» (per Galeazzo si fa riferimento all’edizione critica delle Rime di C. Bozzetti, Milano, Mondadori, 1980). Sui legami di Galeazzo con l’ambiente senese, si rinvia a M. Danzi, Storia e fortuna senesi di un sonetto di Galeazzo di Tarsia, in «Italique», I (1998), pp. 61-78. 74. La rima «laccio»: «ghiaccio» torna anche nel sonetto L’aura celeste che ’n quel verde lauro (Rvf. 197) ai vv. 9 e 12, ma l’occorrenza sembra meno significativa rispetto a quella di Rvf. 134. 75. Nota manoscritta dell’esemplare Barbier-Mueller: «Extremum Tanain si biberes etc. Od. X. Lib. III». 76. MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando Innamorato I, XI, xi, 1-2 («Né sì spesso la pioggia, o la tempesta, / Né la neve sì folta da il cel cade»), e Orlando Innamorato II, XVII, XLVII, 6-7 con la variante «spessa» per «folta», ma dove compare pure il vento («Né abatte il vento sì spesso le fronde, / Né si spessa la neve o pioggia cade»). Sul fronte più propriamente lirico si veda anche il Boiardo di Amorum libri tres, I, XLVII, V. 13, ma l’intero sonetto boiardesco ruota attorno ad una definizione metereologica che implica pioggia, vento, neve e, come anche in Piccolomini, l’ossimoro tra il gelo esterno e l’ardore amoroso che brucia il poeta; cfr. i vv. 1: «Con qual piogia noiosa e con qual vento»; 3: «Gelata neve intorno me tempesta»; 7-8: «et ho dentro dal cor fiama sì desta / che del guazoso fredo nulla sento»; e infine 12-14: «Or mi par bianca rosa e bianco fiore / la folta neve che dal ciel riversa, / pensando al vivo Sol che io me avicino» (si cita da MATTEO MARIA BOIARDO, Amorum libri tres, a cura di A. Zanato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. 86-87). 77. BOIARDO, Orlando Innamorato I, III, 11, 8; I, XXVI, VII, 7; II, XXIV, xxrv, 4; II, XXX, xi, 6; II, 30, xii, 1; III, Vili, XXVI, 2. Ma cfr. anche ARIOSTO, Orlando Furioso XXXIII, 67, 3. In tutti i casi, però, la formula ricorre all’inizio del verso.

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78. Accettando il testo, occorrerebbe pensare ad una disposizione franta degli elementi del periodo che risponde più ai canoni della libertà sintattica latina che alle regole dell’italiano. Senza pronunciarsi per il momento più precisamente sulla questione, vale tuttavia la pena osservare che il senso della terzina pare salvo: passiamo il tempo a ‘contrastare’ — afferma il poeta rivolgendosi alla donna (dove l’uso assoluto del verbo rimanda, da un lato all’uso latino, dall’altro alla tradizione dei ‘contrasti d’amore’), — ma nel giro di poco tempo «i giorni e l’ore», ovvero il tempo stesso che fugge, avranno annientato la tua bellezza e la mia forza. 79. Petrarca preferisce, come clausola di verso, «lato manco» (cfr. Rvf. 209, 12; Rvf. 228, 1).In un caso, poi, la formula si trova a cavallo di due versi (Rpf. 29, 30-31). Interessante l’occorrenza in LUIGI TANSILLO, Canzoniere, sonetto cccxx, vv. 3-4, dove, proprio come in Piccolomini, il «manco lato» è associato al «destro». 80. PICCOLOMINI, Annotationes, e. 37v. 81. PICCOLOMINI, Annotationes, e. 38r.

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Epistole e prosimetri inediti del Feliciano. Fonti delle Porretane

Alessandra Mulas

1 La maggior parte dei contributi dedicati a Sabadino degli Arienti e più in particolare alla sua sfaccettata raccolta di novelle intitolata le Porretane, non dimentica di citare le novelle III e XIVche ritraggono in toni vivaci e sottilmente parodici l’eccentrica figura di Felice Feliciano, fornendone una delle immagini piùvive e gustose1. In genere la saggistica limita a questo i rapporti fra i due personaggi, ma forse, sfogliando le ricche carte che il Feliciano ci ha lasciato e che finora sono rimaste piuttosto in ombra, si può ipotizzare un legame più profondo e di ben altro valore. Del resto è proprio questa la strada che Giulia Gianella suggerì per prima in una nota del suo ricchissimo efecondo saggio su Felice Feliciano2, e che in tempi più recenti Leonardo Quaquarelli ha trattato tangenzialmente in uno dei suoi contributi3. Ma prima di riprendere questa ipotesi e approfondirla, occorre spendere qualche parola a favore delle Porretane, per comprenderne la ragione intrinseca e quella esteriore, che riconnette l’opera al suo contesto storico-letterario.

2 La trattazione più completa ed accurata al riguardo è senz’alcun dubbio quella firmata da Bruno Basile, che nell’introduzione alla sua edizione delle Porretane del 1981 per i tipi della Salerno editrice4, tratteggia con grande competenza le questioni nodali relative al testo. Come è ben noto, Sabadino degli Arienti compose la sua opera per i Bentivoglio, signori di Bologna. Questa corte, effettivamente, sollecitava con insistenza i letterati che ospitava affinché celebrassero con il loro ingegno ifasti attuali della famiglia. L’Arienti scrisse numerose opere celebrative (come Il torneo fatto a Bologna il IV Ottobre 1470, la Descrizione del giardino della Viola, l’Epitalamio nelle pompe nuziali di Annibale figlio del Principe Giovanni Bentivoglio, il De Hymenaeo o il Gynevera de le clare donne), ma le stesse Porretane possono essere lette come un encomio tessuto con i fili della prospera tradizione boccacciana. Si tratta, contrariamente al giudizio assolutamente negativo che ne dava il Di Francia5, di un opera complessa, lontana dall’esaurirsi nel fine elogiativo. In essa, infatti, alla seduzione del modello trecentesco si accosta la necessità di reperire nuove strutture narrative, capaci di contenere ed esaltare la coesistenza di ceti sociali molto distanti fra di loro che costituivano l’essenza ultima della corte

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bentivoliesca. Inoltre Sabadino si trovava di fronte alla necessità di racchiudere una serie di racconti piacevoli e grati ai protettori in una cornice di nobile affabulazione, ragion per cui decise di far interpretare agli stessi membri della famiglia Bentivoglio gli astratti novellatori della brigata boccaccesca. Si poneva infine il problema delle fonti, a cui l’autore doveva necessariamente attingere per dar vita al suo complessoorganismo. Dalle analisi di Bruno Basile6 emerge una limitatissima presenza dei classici, mentre ben più rappresentata è la cultura dei notai letterati bolognesi, vale a dire testi giuridici, e accanto a questi Cicerone, Petrarca, Guarino Veronese, Poggio Bracciolini, Boccaccio, Sacchetti, Luigi Pulci, ai quali Sabadino univa un’esperta conoscenza della tradizione orale delle cronache cittadine. La consistenza di questi debiti è riscontrabile all’interno della tessitura delle sessantuno novelle: in più luoghi si leggono riscritture da Boccaccio, da Poggio Bracciolini, dalle Facezie del Piovano Arlotto, dal Poliziano volgare. Questa mescidanza, oltre all’insistita celebrazione del lusso che si sposa con aspetti decisamente più umili della contemporaneità7, gli permise di ottenere quell’unione di sublime e quotidiano spicciolo che era propria dell’umanesimo bolognese del Quattrocento.

3 A questo punto occorre chiedersi quale sia il tasso di originalità delle Porretane. Leggendo il datato, ma sempre prezioso, volume del Di Francia, si scopre quanto sia alto il numero delle novelle derivate da fonti precedenti, più o meno celebri8. Da Boccaccio vengono desunte le novelle porretane XXXIV e XLV, che riprendono da vicino quelle decameroniane V 9e VII 4; dalla Facezia di Poggio Bracciolini sono tratte le novelle XXX e XXXIII;la LII deriva invece dalla XLIX delle Cent nouvelles nouvelles di Antoine de la Sale e contemporaneamente dal Pecorone VII 1 di Giovanni Fiorentino; la XLVI dal Morgante XVI 42seg. del Pulci; la XXVIIIdal Sercambi V (De summa justitia) e da Masuccio Salernitano XLVII9. Costante all’interno dell’opera è poi il contatto con il Trecentonovelle del Sacchetti. Un caso a parte è quello relativo alla tradizione popolare orale, che si configura come un floridissimo deposito di spunti, come testimoniano in particolare le novelle II (che si richiama anche alla favola IX della Disciplina clericalis), XXXIX, XIX. Occorre poi aggiungere che nell'opera del Sacchetti si ritrovano molti dei temi trattati nelle novelle di Sabadino (la Porretana LV corrisponde, nelle linee generali e probabilmente per mezzo di un tramite orale, alla CLXXVI del Sacchetti e alla XII di Masuccio, così come la Porretana XXXVII risulta connessa alle novelle XI e XII del Sercambi «e ambedue costoro stringe, d’ignorata parentela, col rimatore quattrocentesco de La Novella di due preti et uno cherico innamorati di una donna, coi tre autori francesi dei favolelli di Costant du Hamel, D’Estormi, Le Prestre teint, come pure con tanti altri più lontani confratelli, che obbligherebbero, chi volesse andarli a rintracciare, a un disagevole viaggio in Oriente»)10, anche se l’Arienti ne ignorava lesistenza. La somiglianza sarà dunque da ascrivere all’estesa diffusione orale che le vicende narrate dovevano aver raggiunto.

4 Mi sembrerebbe a questo punto inesatto sostenere la tesi dell’originalità dell’opera, che pure sussiste, ma non riguarda certamente la scelta dei temi,quanto piuttosto, come si è già detto, l’inserzione delle novelle all’interno dell’insolita cornice e del peculiare contesto bentivoliesco. L’affermazione apparirà tanto più fondata qualora si metta in parallelo il Ms C. II. 14. della Biblioteca Civica di Brescia con la raccolta delle Porretane. Il codice, non autografo e databile alla fine del XV secolo o all’inizio del XVI, è il frutto della trascrizione di un manoscritto appartenuto con ogni probabilità a Felice Feliciano, o meglio da lui compilato. La critica, sebbene nutra una profonda diffidenza nei confronti del testimone bresciano che, mancando della garanzia dell’autografia,

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potrebbe essere stato contaminato da inserzioni successive, è tuttavia concorde nel ritenerlo il quarto e più vario testimone epistolare del Veronese.

5 Ebbene, leggendo il manoscritto, non si può non notare che almeno in quattro luoghi l’Arienti accolse e rielaborò i testi contenuti nel ms. bresciano, che credo di poter ascrivere, indirettamente, alla penna del Feliciano. Ma prima di inoltrarci nell’analisi dei testi, occorrerà soffermarci sulla peculiare forma che ne accomuna la maggior parte. Infatti molte delle epistole contenute nel ms. bresciano si presentano sotto forma di prosimetri e più in particolare di un testo epistolare in prosa, più o meno lungo, seguito da un sonetto, spesso caudato, secondo le abitudini del Feliciano. La peculiarità di una tale forma all’interno di un simile contenitore (ossia un epistolario, sebbene carico di un alto tasso di letterarietà) risulterà evidente. La tradizione italiana, e prima ancora tardo-latina e romanza (con ovvio riferimento a Boezio, Marziano Capella, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla, alle vidas e razos) per non parlare delle origini del genere che alcuni fanno risalire alla satira menippea, conobbe numerose attestazioni della forma prosimetrica. Relativamente ai primi secoli della nostra letteratura possiamo citare alcuni esempi nelle Lettere di Guittone, la Vita Nova di Dante, il Convivio, il Novellino, il Reggimento e costume di donna di Francesco da Barberino, il Libro del Biadaiolo di Domenico Lenzi, l’Ameto e il Decameron di Boccaccio, il Novelliere del Sercambi, il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino e il Libro delle rime di Franco Sacchetti.11 Ma in nessuno di questi casi le rime seguono, per posizione e contenuto, un’epistola, come invece avviene negli epistolari del Feliciano.12 Occorre infatti precisare che non si tratta di una peculiarità del solo codice bresciano, che per la sua scarsa affidabilità potrebbe far pensare, seppure con qualche forzatura, ad una creazione successiva, a un’interpolazione consapevole e ben accordata, ma si tratta, invece, di una costante, che ritroviamo in tutti e quattro gli epistolari. L’apporto innovativo del codice bresciano, rispetto alle altre tre sillogi epistolari, è relativo alla trascrizione di missive scritte da altri personaggi, come ad esempio Jacopo Zaccaria o Francesco Porcari; ebbene, anche in queste epistole, di altra mano, troviamo la stessa forma prosimetrica. Questo ci porta a concludere che, sia chesi tratti di epistole scritte dal Feliciano per conto di altri (ipotesi per la quale propendo), sia che siano effettivamente opera d’altri, il connubio fra epistola e versi (sonetti, spesso caudati, si è detto, ma in qualche caso anche altri metri) doveva essere sentito come forma attuale e praticabile, condivisa dalla cerchia degli umanisti di metà Quattrocento raccolti attorno al patrizio romano Francesco Porcari.

6 Un’altra particolarità che occorre sottolineare è l’inserzione delle novelle prosimetriche all’interno di epistole. Il campo della epistolografia non gode al momento di particolare fortuna13, così che non è possibile avere uno sguardo d’insieme soddisfacente, tuttavia mi sembra di poter affermare che l’inserzione di novelle all’interno di lettere sia una pratica abbastanza isolata. Il precedente più noto è senza dubbio l’Historia de duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini, in seguito Pio II, tuttavia in questo caso il fine primario è l’enunciazione della novella, mentre la lettera che la racchiude, costruita secondo le norme dell’ epistolografia quattrocentesca e indirizzata a Mariano Sozzini, giurista senese di cui il Piccolomini era stato allievo, si configura come elegante pretesto o cornice dinamica. Nel caso del Feliciano, invece, le epistole-novelle non fuoriescono dalla misura e dallo scopo epistolare, piuttosto operano dall’interno, innestando sulla struttura e finalità globale dell’epistola i ritmi e le forme della novella.

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7 Torniamo infine all’analisi dei testi, cominciando dalla XIV novellaporretana, dedicata ad una vicenda da barbiere, che vede — e in questo non sarà forse da scorgere una semplice coincidenza — come protagonista lo stesso Feliciano. Occorrerà innanzitutto notare che Sabadino operò una profonda rielaborazione dell’epistola-novella tràdita dal codice bresciano (testo 1), non solo parafrasandone con costanza il testo, ma alterando anche alcuni punti della vicenda, per lo più particolari descrittivi. Mi riferisco, innanzitutto, alla presentazione del protagonista che in Sabadino occupa uno spazio considerevole rispetto all’estensione complessiva del testo. Altre modifiche riguardano il luogo: nel testo del Feliciano l’episodio si svolge nelle campagne attorno a Roma, in quello di Sabadino fra le montagne di . Inoltre mutano alcuni particolari, come la ragione del viaggio del protagonista, costituita dalla ricerca della pietra antimonia in Sabadino (in linea, quindi con la presentazione del Feliciano come appassionato alchimista), e invece da un’imprecisata gita nel Feliciano; cambia, infine, il periodo di trascuratezza vissuto dal protagonista, da venticinque a diciassette giorni. Altri particolari si ripetono assolutamente identici, così da deporre non già a favore di una generica ispirazione, ma di una precisa e costante riscrittura: l’abituale uso dell’aratro da parte dell’improvvisato barbiere, il coltellaccio poco affidabile utilizato al posto del rasoio, le tele aragne usate come lenitivo dei tagli, il discorso pronunciato dal figlio del tonsore e l’espediente fisiologico addotto per la fuga.

8 Leggendo in parallelo le due novelle, tuttavia, si noterà senza alcuna fatica come l’Arienti innalzi il tasso di letterarietà, trasformando la scarna vicenda felicianea in un gustoso quadretto comico, lavorando soprattutto su quegli spunti che il Feliciano aveva lasciato grezzi e che rivelavano una grande potenzialità narrativa, come la descrizione dell’aspetto irsuto del protagonista, i preparativi per la rasatura, la fuga o l’acquisto della coperta di bue. Dunque all’Arienti spetta il raffinamento di una vicenda che nasce però dell’inventiva del Feliciano.

9 Diverso è il caso della LIX novellaporretana, che riprende un’altra epistola che nel codice bresciano è trascritta in due versioni pressochè identiche ma con diverso destinatario (testi 2e 2a). Se nel caso della novella precedente si assisteva ad una rielaborazione costante, ma poco vistosa, e alla ripresa della tematica ma non di interi passi, in questo caso invece si nota contemporaneamente una maggiore vicinanza e una maggiore distanza dal testo di partenza, che probabilmente andrà spiegata con il passaggio attraverso il filtro decame-roniano. Come nota Bruno Basile, la vicenda riprende quella narrata nella novella II 4 del Decameron, ma il contatto fra i due testi si limita all’avventuroso ambiente mercantesco, all’incerto peregrinare per mari e terre straniere fino ad arrivare nel mondo arabo, e alla successione di sventura e fortuna che connota il destino del protagonista. Nel confronto fra il testo del Feliciano e quello dell’Arienti andranno considerate le maggiori differenze e le somiglianze più significative. Innanzitutto l’Arienti introduce la novella attraverso il ritratto del personaggio principale (che tra l’altro ha mutato nome, passando da quello di Tarulpho, della versione felicianea, a quello di Eliseo Bolognini), descritto quale ricco mercante, condizione ben diversa da quella di camerero del testo felicianeo. E diverse sono le vicende che lo portano alle disgrazie: se Tarulfo è presentato sin dall’esordio della vicenda come un camerero alla corte siciliana, che è costretto a lasciare nel momento in cui questa cade sotto il dominio dei nemici, Eliseo assume tale carica solo dopo il naufragio che lo costringe ad abbandonare la sua attività di mercante, descritta con dovizia di particolari. Effettivamente questa sezione della novella, che tra l’altro

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c’informa dell’origine bolognese di Eliseo, delle sue fortune, dell’inizio del suo viaggio e del modo in cui si è salvato dal naufragio, sostituisce quella iniziale dell’epistola del Feliciano, che allude a vicende personali e riporta l’arguta facezia del ladro di frumento, dalle cui sentenze si origina e trova giustificazione la narrazione. Tuttavia al di là di questa profonda discrepanza iniziale, il testo viene seguito con una fedeltà notevole, fedeltà che non riguarda semplicemente lo svolgersi logico e cronologico dei fatti, ma l’adozione di intere frasi e, perfino, di alcuni nomi, e più precisamente, quello della città di Lariche e quello del mercante Telesio, entrambi di fantasia e quindi vistosa spia di imitazione diretta. Differenze degne di nota riguardano, oltre allo stiledella novella, che si rivela più curato, più raffinato, il discorso pronunciato da Tarulfo-Eliseo: in terza persona e decisamente più sintetico nel Feliciano, in prima persona, esteso e accurato nell’Arienti. Diverso inoltre il finale: mentre nel codice bresciano il protagonista ottiene come ricompensa del suo discorso la vita, nella Porretana invece ottiene anche l’elezione a principe e dunque un innalzamento sociale. La conclusione della novella, che ricollega il testo alla cornice, è una ripresa, con variazione, dell’incipit felicianeo. Anche l’Arienti allude a vicende prossime ai narratori e dunque alla sua cerchia, ma non menziona alcun fatto autobiografico, ricollegandosi invece alla querelle sulla predestinazione e sull’influenza degli astri, dibattito che risulta di interesse precipuo alla corte dei Bentivoglio e per riflesso anche all’interno di altre novelle Porretane.

10 La novella XXIX delle Porretane ci svela un percorso leggermente diverso. Infatti il tema delle brache del prete è frutto di un’antica sedimentazione letteraria. Il soggetto, presente tangenzialmente in Apuleio, e in maniera più puntuale in alcuni antichi favolelli francesi (come il Dit de la nonnete, il Les braies le priestre o il Des braies au cordelier), viene ripreso in area italiana e in epoca precedente a quella de Le Porretane da Boccaccio (Decameron, IX 2), Sacchetti (Trecentonovelle, CCVII), Bracciolini (Facezia CCXXXII) e Masuccio Salernitano (Novellino, III).14Tuttavia, come nota Bruno Basile, l’Arienti introduce delle innovazioni, alcune, come la scusa della rogna lenita dalla lingua del bue, di indubbia originalità, mentre altre, come l’intervento dell’amica che la aiuta a giustificare le brache o la presenza dei denari, si ritrovano in una delle epistole-novelle del Feliciano (testo 3), e dunque sembrano deporre a favore di un calco. Più precisamente la novella porretana appare come l’insieme arguto e ben congegnato di una pluralità di aspetti che hanno come centro propulsore l’antica facezia delle brache del prete. Anche in questo caso però, pur in assenza di richiami espliciti e riprese letterali, si nota l’influenza del Feliciano, che dunque deve essere stata una fonte rilevante nella costruzione del testo. Lo stesso Feliciano si pose sulla scia del testo di antica memoria, ma lo rivitalizzò grazie all’abituale fantasia comica. Ancora una volta l’Arienti utilizzò la vena creativa del Feliciano come una miniera dalla quale attingere temi e spunti che la sua abilità narrativa affinava con garbo.

11 Discorso simile andrà fatto anche per la VII novella porretana, dedicata all’abate di San Cataldo, che trova puntuali riscontri con un’altra vicenda narrata nel codice bresciano (testo 4). Anche in questo caso non si tratta di una ripresa pedissequa, ma di una discreta e attenta inserzione. Da attribuire all’ingegno dell’Arienti sono in primis la presentazione della vicenda come discorso riferito, poi gli ampi excursus biografici e geografici che aprono la novella e la concludono nell’epilogo. Altri elementi invece denunciano chiaramente la sua provenienza dallo scrittoio del Feliciano. Mi riferisco alla meta romana del viaggio, alla compagnia di due famigli, al vagare nella selva, al

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catalogo dei beni posseduti dal prete e poi rubati, allo spunto del discorso del prete, che come d’abitudine, viene esteso e raffinato dall’Arienti, mentre nel Feliciano si riduce ad uno scarno ma efficace scambio di battute che ricorda da vicino lo stile epigrafico delle Facetiae del Bracciolini. La risposta dei ladroni è in entrambi casi breve e lapidaria. Interessante è anche l’uso di espressioni analoghe, una per tutte in zupone (zipone nell’Arienti). Ancora da segnalare è l’omissione nella Porretana del particolare scabroso del fanciullo, chierico e amante dell’abate e membro della piccola comitiva, o la scelta del mantello come preda iniziale dei ladroni, mentre nel Feliciano si tratta di cavalli. Infine diverso è lo spazio dedicato alla vicenda nei due autori: nel Feliciano, infatti, questa occupa poco meno di un quarto del testo in cui è inserita, nei confronti del quale svolge la funzione di riassunto faceto o chiusa riepilogativa di insistita comicità, allo stesso modo della vicenda del ladro condotto alle forche nella novella di Tarulfo, di cui sopra s’è discusso. Nell’Arienti, invece è proprio questa vicenda a sostenere la narrazione, mentre il contesto nel quale è inserita risulta poco più che un riempitivo. In questo modo si ribaltano i rapporti di forza, facendo di una sintetica chiusa comica lo spunto di un’intera novella. Da questa sommaria analisi non sarà difficile cogliere l’entità del debito dell’Arienti, o più in generale, dal momento che pur non disponendo di notizie dirette al riguardo, sospetto una più ampia diffusione del tema, confermare la sua attitudine al prestito con rielaborazione.

12 Anche a voler benevolmente espungere da questa rosa di rielaborazioni le novelle VII e XXXIX, come frutto di una circolazione ampia e famosa, restano comunque la XIV e soprattutto la LIX che depongono a favore di una strettissima interdipendenza che, se le congetture relative alla datazione, di cui si discuterà poco più avanti, non sono il frutto di una svista o di una partigianeria, si tradurrebbe in un’imitazione stretta del Feliciano da parte di Sabadino.

13 Come ho accennato più volte, l’Arienti elegge a protagonista di due sue novelle (III e XIV) Felice Feliciano, descrivendolo come «uomo egregio, de claro ed erudito ingegno, literato e de virtù laudevole pieno e de graziosa e lepida conversazione tutto ornato, cognominato Antiquario per aver lui quasi consumato gli anni suoi in cercare le generose antiquità de Roma, de Ravenna e de tutta l’Italia, [...] posto ogni suo studio e ingegno in cercare e investigare l’arte magiore, cioè la quinta essenzia»,15 e in un altra novella come «provido uomo [...] del quale credo più faceto uomo non trovasse né maneggiasse mai, [...] in continuo pensiero, sollecitudine ed exercizio de trovare elvero effecto de l’archimia (ne la quale oltra el patrimonio suo, che fu assai buono e amplo haconsumato ogni suo guadagno, impignato li amici e quasi la vita propria; e come ciascuno de vui può vedere, ancora che sia de vertù predito e fecundo, mendico quasi se trova, non mancando però tuttavia del pristino suo lavoro dal quale dice non voler cessare per niente fino a la morte, parendoli uno dolce impoverire el fundere nelli grusuoli16 quello poco de argento ch a le volte a le mano lipervene, e non poco onore essere veduto per le piazze gir tinto del volto e de la mano non altrimenti che sefosse uno aurifice o magnano)».17 Si tratta, come si può chiaramente osservare, di una descrizione sufficientemente particolareggiata che, a causa del contesto comico e della specifica situazione narrativa, pone l’accento sulle caratteristiche più vistose del personaggio, su quelle più grottesche o rappresentative. Come che sia, il ritratto dimostra una conoscenza abbastanza precisa, che suppongo possa essere avvenuta a Bologna, «matre e alimento de ogni vertù», come la definiva il Feliciano,18 fra il 1471 anno in cui l’Arienti divenne segretario di Andrea Bentivoglio mentre il Feliciano

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entrava a far parte della corte dei Bentivoglio (dopo la scomparsa del Marcanova che era stato suo ospite durante il primo soggiorno bolognese), e la fine del 1473 anno in cui il Veronese lasciava Bologna per recarsi, come sembra probabile, a Perugia al seguito di Filasio Roverella. Mi sembrerebbe difficile che il Feliciano e l’Arienti, pur accomunati dall’appartenenza alla corte bentivoliesca, non avessero mai approfondito la loro conoscenza, tanto più che anche Felice nutriva qualche ambizione prosastica e che l’Arienti nel suo successivo carteggio con Isabella d’Este dimostrava interessi antiquari, 19 ma soprattutto dal momento che entrambi i personaggi erano alla continua ricerca di un mecenate potente e affidabile che permettesse loro di vivere con maggior agiatezza e in costante serenità. A questo si aggiunge che Filippo Vitali, la voce narrante della XIV novella porretana che descrive il Feliciano alle prese con un agreste barbiere, figura come destinatario di alcune epistole del Veronese, confermando così la fitta rete di rapporti che connettevano gli appartenenti alla corte dei Bentivoglio.

14 Molto complessa è infine la questione della datazione che si basa su di una limitatissima e intricata tradizione manoscritta e a stampa, che solo di recente Bruno Basile è riuscito a ricomporre in un quadro razionale.20 La tradizione del testo si articola in un codice autografo (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, cod. Palatino 503), una editio princeps quattrocentesca (di cui ci resta un solo testimone integro) e cinque stampe di area veneta comprese fra il 1504 e il 1540, queste ultime dipendenti dalla princeps bolognese e dunque di scarso rilievo filologico. Apparentemente la questione sembrerebbe di ovvia risoluzione dal momento che l’autografo è datato in una trascrizione della guardia, di probabile mano cinquecentesca («COMPILATE e SCRITTE / DA ME SABADINO DEGLI ARIENTI / BOLOGNESE. / nelli anni del Signore Mcccclxiii»), al 1463 e la stampa al 1483. Sembrerebbe, come dicevo, una questionebanale: dapprima la stesura dell’autografo e dopo alcuni anni, con la definitiva stabilizzazione (e successo) in terra di Italia degli stampatori tedeschi (in questo caso, Enrico da Colonia), l’edizione a stampa. Ma i problemi sono molti, dunque cerchiamo di analizzarli singolarmente tenendo come punto di riferimento l’autografo e la princeps. A prima vista sembrerebbe che l’edizione a stampa, seguita dallo stesso autore, sia da considerarsi come definitiva voluntas, tuttavia, ad un’analisi serrata delle correzioni che invece presenta l’autografo, ci si accorgerà che si tratta di ritocchi apportati alla lezione affidata alla stampa, dunque successivi a quest’ultima che perde così lo statuto di lezione definitiva. Il cod. Palatino 503 sarà allora da considerarsi come lussuoso esemplare di dedica, condotto su una copia dell’edizione a stampa o di una sua affine. Dunque l’autografo, anche se contiene una data più alta (giudicata errata dal Gentile e dal Basile e da loro precisata, in base alla datazione di alcune novelle, a post 1475) andrà considerato come l’ultima versione del testo, direttamente controllata dall’autore. Questo però porta ad una conclusione allarmante: la data riportata nel colophon è errata. A questa conclusione si arriva anche seguendo alcuni indizi interni. Infatti, come ha dimostrato Pasquale Stoppelli, nella novella XLIX vi è un riferimento alla morte di Ulisse Bentivoglio, avvenuta nel 1489; allo stesso modo nella novella LV Bartolomeo Saliceto viene presentato come «secretario del reverendissimo cardinale ungaro», con riferimento ad Ascanio Sforza che resse il vescovato ungherese di Agria solo a partire dal 1492. A questi dati Bruno Basile ha aggiunto un’ulteriore precisazione che si ricava dalla cronologia delle opere di Battista Spagnoli, detto il Mantovano, enumerate nella LXI novella: sia la menzione del De suorum temporum calamitatibus, sia quella dei compiuti quarant’anni dell’autore (nato nel 1448) rimandano al biennio 1488-1489. Questa serie di informazioni spingono decisamente oltre la data dichiarata della stampa (1483), che andrà considerata come

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una retrodatazione, pratica alla quale lo stampatore Enrico da Colonia era avezzo. La datazione effettiva della princeps sarà da collocare, allora, al 1492 circa, mentre quella dell’autografo di dedica (che abbiamo detto essere ricavato dalla stampa stessa ed essere latore dell’ultima e definitiva versione del testo) al 1498. Le Porretane vanno così considerate un work in progress, distese su un arco temporale che va dal 1470 al 1492. Non oltre, visto l’accenno che si fa nella LIX novella al Regno di Granata che a partire dal 2 gennaio 1492 era passato nelle cattoliche mani di Isabella e Ferdinando di Castiglia. Appurata la falsità delle datazioni riportate dai due testimoni e ristabilita una cronologia coerente, restano da spiegare le motivazioni della falsificazione. Per far questo è necessario ricollegarsi al particolare clima politico e sociale che si era venuto a creare a Bologna dopo la morte di Andrea Bentivoglio (1491), protettore dell’Arienti, e la presa del potere da parte di Giovanni II Bentivoglio, alla cui cortel’Arienti, come molti altri, ricoprì l’ingrato ruolo di dipendente non stipendiato. Evidentemente questa posizione non doveva risultare congeniale allo scrittore che decise così di ricercare la protezione degli Estensi, con i quali aveva sempre mantenuto contatti, ai quali decise infine di dedicare le Porretane, come risulta dalla Dedicatoria e dalla Conclusione. Questa finale translatio spiegherebbe anche l’origine delle accurate decorazioni che ornano il manoscritto (copia autografa di dedica, come si è detto), che sembrano essere avvicinabili alla scuola ferrarese ruotante attorno a Francesco del Cossa. Le Porretane però, alla data del 1491 circa, erano già completate e accordate sulle tonalità dell’elogio dei Bentivoglio, né vi era alcun motivo valido per inimicarsi questa potente famiglia. È così che la raccolta di novelle mantenne questa sorta di doppio registro: da una parte l’elogio dei signori di Bologna, dall’altro l’esplicita dedica a quelli di Ferrara, nella persona di Ercole d’Este. Ma vi era un’altra difficoltà. Con Giovanni II il clima bolognese era profondamente mutato, lasciando spazio all’insoddisfazione, come la congiura dei Malvezzi, sanguinosamente repressa, dimostra. Nella cornice dell’opera, ambientata nel 1475 (momento di massima gloria per i Bentivoglio), vi era una imbarazzante vicinanza fra i membri della famiglia bolognese e alcuni dei partecipanti a questa congiura. È per questo che Sabadino degli Arienti decise di retrodatare la sua opera al 1463, facendo così salva l’opera e la duplice intenzione celebrativa. L’armonia sociale, intellettuale e politica che quelle pagine descrivevano era definitivamente infranta e le Porretane a questo punto non potevano che divenire un monumento alla passata felicità, e anche per gli Estensi un omaggio a quel tempo andato, di cui la famiglia ferrarese era stata parte integrante. Dunque la ragione della retrodatazione è da considerarsi prettamente politico-diplomatica.

15 Al di là di questa complessa vicenda, quello che più importa è constatare che la stesura avvenne solo dopo il 1470 e per un arco di tempo molto esteso, e questo potrebbe spiegare i contatti con la produzione epistolare-novellistica del Feliciano. Forse la corte bentivoliesca, alla quale appartennero entrambi i letterati, fu un luogo propizio agli scambi e ai confronti. Si può ragionevolmente ipotizzare che i due abbiano discusso dell’opera che l’Arienti andava stendendo e che il Feliciano l’abbia messo al corrente delle sue operette prosastiche. L’Arienti potrebbe aver raccolto nelle Porretane suggestioni anche da queste ultime, al pari di quanto avvenne per molte altre novelle di autori come Masuccio Salernitano, Giovanni Fiorentino o Domenico Sercambi, visto che gli agganci sono notevoli e insistiti. Riguardo al Feliciano e alla datazione dei suoi testi, il termine più certo ante quem è il 1479-80 quando il Veronese morì nei boschi de La Storta. L’antigrafo del codice bresciano, che come abbiamo visto è una copia, dovrà essere stato realizzato precedentemente, all’arrivo del Feliciano a Roma (1478) o anche

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prima, come dimostra lamassiccia presenza del Porcari, mecenate romano, all’interno dell’epistolario, e completato in un secondo momento. Ma nel 1478 l’opera dell’Arienti era ancora fluida e dunque mi chiedo perchè non parlare di un debito dell’Arienti nei confronti dell’Antiquario, anche perché non si tratterebbe di un episodio isolato.

16 Riporto qui di seguito le epistole-novelle dal codice bresciano (Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14), con la breve rubrica e il sonetto che le accompagna. A causa della natura problematica del testo la trascrizione è fortemente conservativa.

17 Testo 1, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 8or-8ov: Feliciano Antiquario al nobel iovene Ludovico tonsore essendo in villa manda salute. Ludovico, io mi partì da Roma cum la barba longa e volsi venirti a trovare, ma non hebi tempo. Pensai atrovar in villa tonsore che mi radesse, e fomene posto uno ale mane il qual tutto il giorno cum l’aratro fende la terra, e guardandoli ale mane le vite carge di groppi e di calli, e pegio che radeva cum uno onto coltelazo da cuzina, e tanto fui bestiale che mi lassai la barba bagnare e insaponare. E lui, andato arotar il coltelazo, venne uno suo figliolo cum uno tagliero cargo di tele di ragno e dimandai che volesse far di quelle tele di ragno. Lui rispose: «Quando mio padre radendo intacha ad altrui le maselle o il mento, pone di sopra queste tele di ragno e in termine de XV giorni guarisse». Io, che non voleva sopra dil grugno quelle tachature, finsi de andar a orinare e lavorai de gambe come bocalare [sic],21 tanto che, come a Dio piace, li sum ussito dale mane. E penso domane a Roma tornare e venirti a trovare, aciò che di vechio tu mi faci garzone, e che mi lavi el capo che sono XXII giorni che non mi lavai, e pare che li crini d’un porco selvatico. Vivi sano, se puoi, e questo mio soneto darai a Pietro tuo compagno.

Veduto ho chadun esser in assetto a far tuto quel mal che far si possa, ma è da saper se alchun di pasta grossa tien altro stilo che que’che habiam preditto. D’ogni mester se intende ciò ch’è detto, unde la question n’è quasi mossa, tutti ne vanno insieme nella fossa, quel che s’è incerti ne riman soletto; salvo che qui ci resta el bon barbero che ti rade e polisse come uno spechio, et lava la fronte nel bacino, et usa cum gran prudentia el suo mestiero e ti fa bel garzon quando sei vechio, polito e vago come un armelino. Dico per tal destino che l’arte dil barbier me par un gioco che ti fa bello e netto e spendi pocho.

18 Testo 2, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 85v- 87r: Feliciano Antiquario raconta una adversa fortuna al magnanimo homo romano Francisco Porcario, quale fu historia e non fabula. Comune proverbio è che le cosse adverse che sono destinate dal cielo, el più dele volte per lo meglio intervengano a noi mortali, benché sono molti che il contrario dicono. Come quel ladro, il quale nel suo tempo, di nocte e più volte havia furato de molto formento e conduto ale forche per

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questo delicto, a quelli che lo confortavano dandoli a credere che questo li fusse per lo meglio advenuto, e lui sempre negava, che non gli era questa fortuna advenuta per lo meglio, ma per lo frumento furato, e non per lo melio22 come essi dicevano. Sì che in costui alisse il proverbio. Unde, verace homo, essendomi in questi giorni incontrata alchuna adversità, che nel entrar de Bologna mi foron tolte alcune taze d’arzento de valuta de più de cento fiorini, dicendo che non havia la contralittera dela gabella. E foron molti di mei amici, quando mi videron suspirar e forse lachrimar, dixeron che io supportasse questa fortuna cum patienta, perchè l’era per lo meglio che io l’havesse perdute a Bologna, che dovendi portar al Signor di quelle fino a Roma, era in dubio per la strata esser per quelle robato e morto, le qual taze mi bisognarà cum tempo pagarle. Un altra volta, da poi, venendo da Fuligno a Roma mi fu levato il cavalo, che non era mio, per lo insulto de alchuni barri23 e ladri di strata. E disseme gli amici mei, ch’io volesse pigliar questa fortuna per lo meglio, assignandomi che forse per disaventura saria cascato in uno fosso il cavalo, e chi sa, forse in un fiume, e mi seria negato e submerso. Di che sono ambiguo a creder che questo mi possi esser advenuto per lo meglio, vedendo me ogni giorno pegio seguire. Ma per fortificar la opinione di coloro che dicono questo essermi per lo meglio advenuto, dico che legendo nelle historie dil re Lanzilago, quando la Sicilia esso havea, uno suo camerero assai sfortunato e molto patiente ali insulti dela fortuna il quale se chiamava Tarulpho. Unde, una matina cavalcando per lo reame presso de Nola sopra de un ponte, temendo il cavalo d’una rota che voltava un molino, per la qual prese tanto spavento, che rotto per forza le cinge, redine e pectorali, gitò Tarulpho nel fiume, il quale non fue prima fora dila sella, che percosse sopra d’un palo fitto nell’aqua cum una gamba, el quale si ruppe, e tracto ala ripa fue medicato da uno ignorante, in modo che sempre si dolse e per tuta la sua vita, andò zoppo e nelle sue adversitate diceva esserli questo per lo meglio advenuto. Né dopuoi doi anni passaron, che essendo in una silva ala caza d’un silvatico porco, si mosse una fronde acuta e trasseli del capo l’ochio sinistro e anche questo per lo meglio esserli advenuto affirmava. Et dil mese di setembre, ritrovandosi in una vigna, ove cum uno suo sparaviero transtulava ale quaglie, agitandolo ad una quaglia e non potendola havere, preso il suo uccello sopra d’un arbore e ali rami di quello incapistrato24, rimase suspeso. Tarulpho, essendo senza famiglio, molto sopra del arbore e essendo nel colmo, puose il pede sopra d’un siecho troncho, e rompendose insieme cum quello ne venne a terra, e percotendo sopra d’un saxo si rupe una spalla e male amedicato sempre gobbo, zoppo, guerzo rimase. Et questa ultima volta, più che mai, essergli per lo meglio avenuto dicea. Morto re Lancilago, li fue forza abandonar quelle contrade, essendo il regno in man de suoi nemici venuto. E volto quel camino in Manfredo-nia, fue da pirati preso e in uno belinzero25 conduto, cargo di preda. E dato le vele al vento gionsero in Cypri ove fu venduto ad uno moro che se chiamava Thalasio, e tenelo in suo paese guardiano de suoi camelli circa cinque anni, et questa fortuna anche per lo meglio diceva che gli era advenuta. Et cognosciuta da alcun moro la virtù de Tharulpho, furtivamente il condusse in una citade chiamata Labrich, ove uno potente signore dimorava, il quale Tharulpho, havendo in quello idioma la sua lingua domestica, li fue assai facil cossa venir in gratia di quel signore, e per le sue virtute ogni giorno nella dilectione dil re accreseva, in tanto che tuto il populo lo riputava secundo signore. Costume antiquo era in quelle contrate, quando per morte mancava il signore, quella medesima hora decapitare el più dilecto servitore che il signore havuto havesse, aciò nel altro seculo il morto re havesse compagno che’l ministrasse. Unde tocata a Tarulpho la sorte, montò Tarulpho sopra un bancho in arengo, e cum la sua eloquentia

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disse che lui era promptissimo per morte seguir el signore per ogni regione ove andasse, ma che dovesseno saviamente considerare il fine di questo, perchè essendo nel altro seculo molti potenti signori e baroni e parenti dil morto signore e degli altri assai che lo conosceno, extimate che li saria grandissima vergogna haver per compagno uno che sia guerzo, gobo e zopo come lui era, e tanto bene depinse il suo sermone, che fu rivocata la prima sententia, e servato Tarulpho fue dato questo honore e guadagno ad uno altro di suoi servitori chiamato Zabocho. E in questo modo Tarulpho scampò la mala ventura per esser guerzo, zopo e gobo. Nui adon-que diremo, nobile zovene, che l’esserme tolte le taze a Bologna, e per la via de Fuligno il cavalo, sia per lo meglio, come in ogni sua adversità Tarulpho dicea.

Ardendo i cieli e gli elementi insieme, sentino il gran furor de Iove irato, regnano Marte e Orione armato de ira e desdegno, el nostro clima oppreme. Non è chi spieri, ma chi langue e geme di tale iniquo et infelice stato, e questo advien che ’l publico privato deventa, e di virtù si perde il seme. Caro Veronese mio, morendo io spero a’ tempi nostri anchor veder Phetunte fulminato cader nel fiume Hespero, Ilcharo harai le tue pene disgonte e sarai per volar più ch’altri altiero in mar non pur ma merso in Acheronte.

19 Testo 2a, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 91r-92v: Feliciano Antiquario al nobel giovene Dominico Morosino. Comun proverbio è che le cose adverse che sono destinate dal celo, el più dele volte per lo melio intervengano a noi mortali, benché sono molti che il contrario dicono. Come quel ladro el quale, nel suo tempo, di notte havea furato formento e conduto ale forche era confortato che se disponesse a patientia, dicendoli che forse questo per salute del’ anima sua per lo melio gli era advenuto. A cui il ladro rispose che non era il vero, ma che era per formento furato, e non per lo melio, come essi dicevano. Sì che in costui falisse il proverbio. Unde, generoso Dominico, essendomi in questi giorni incontrata una adversità, dicono molti che questo è per lo melio. Questo februaro preterito, intrando in Bologna mi foron tolte alcune taze d’arzento, dicendo che io non havea contralittera dala gabella e erano di valuta più de XL.ta fiorini d’oro. E foron molti di mei amici, vedendomi suspirare e lachrimare, diseron che io supportasse questa fortuna cum patientia, che Idio havea lassata correr questa per il melio, che non mi essendo tolte queste taze, mi era necessario portarle al signor di quelle fin a Roma, e saria stato a pericolo nela strata esser per quelle robato e morto, le qual taze mi bisognarà cum tempo pagarle. Un’altra volta da poi, venendo da Fuligno a Roma mi fu levato el cavalo, che non era mio, per lo insulto de alcuni barri e ladri de strata. E dissemi li amici mei, ch’io volesse piliar questa fortuna per il melio, assignandomi che forsi, per disaventura, saria cascato in uno fosso il cavalo, e chi sa, forsi in un fiume, e mi saria negato e submerso. Di che sono ambiguo a creder che questo mi possa esser advenuto per lo melio. Ma per fortificar la opinione de coloro che dicono questo

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esserme per lo melio advenuto, dico che legendo nele historie del re Lanzilago, quando lassò la Sicilia, esso havea uno suo camerero assai sfortunato e molto patiente ali insulti dela fortuna, il quale se chiamava Tharulpho. Unde, una matina cavalcando per lo reame presso de Nola sopra un ponte, temendo il cavalo d’una rota che voltava un molino, per la qual prese tanto spavento, che rotto per forza le cinge, redine e pectorali, zitò Tarulpho nel fiume, il quale non fu prima fuora di sella, che percosse sopra d’un palo fitto nel’aqua cum una gamba, el quale si rupe, e tratto ala ripa fu medicato da uno ignorante chyrurgico, in modo che sempre se dolse, e per tuta la sua vita andò zopo e nele sue adversitate diceva esserli questo per lo melio advenuto. Né dopuoi doi anni passaron, che essendo in una silva ala caza d’un salvatico porco, si mosse una fronde acuta e trasseli dal capo l’ochio sinistro, et anche questo per lo melio esserli advenuto affirmava. Et dil mese di setembre, ritrovandose in una vigna, ove cum uno suo sparaviero transtulava ale qualie, e gitandolo ad una qualia e non potendola havere, prese il suo volo sopra d’un arbore, et ali rami di quello incapestrato rimase suspeso. Tarulpho, essendo senza familio, montò sopra l’ arbore e essendo nel culmo, pose il piede sopra de un sicco tronco, e rompendosi insieme cum quello revenne a terra e percotendo sopra d’un saxo si rupe una spalla, e male amedicato sempre gobo, zoppo e guerzo rimase. Et questa ultima volta più che mai esserli per lo melio advenuto diceva. Morto re Lancilago li fu forza abandonar quelle contrade, essendo il regno in man de suoi inimici venuto. E volto quel camino in Manphredonia, fue da pyrati preso et in uno belinzero condutto, cargo di preda. E date le vele al vento, gionsero in Cypri ove fu venduto ad uno moro che se chiamava Thalasio, e tenelo in suo paese guardiano de suoi camelli circa cinque anni, et questa fortuna anche per lo melio diceva che gli era advenuta. Et cognossuta da alchun moro la virtù de Tarulpho, furtivamente il condusse in una citade chiamata Labriche, ove uno potente signore demorava, il quale Tarulpho, havendo in quello idioma la sua lingua domestica, li fu assai facil cosa venir in gratia de quel signore, e per le sue virtute ogni giorno nela dilectione dil re accresceva, in tanto che tutto il populo lo reputava secundo signore. Costume antiquo era in quelle contrate, quando per morte mancava il signore, quella medesima hora de decapitare il più dilecto servitore che ’l signore havuto havesse, aciò che nel altro seculo il morto re havesse compagno che ’l ministrasse. Unde tocata a Tarulfo la sorte, montò Tarulpho sopra de un bancho in arengo cum la sua eloquentia disse che lui era promptissimo per morte seguir el signore per ogni regione ove ne andasse, ma che dovesseno saviamente considerare il fine de questo, perchè essendo nel altro seculo, molti potenti signori e baroni e parenti del morto signore e deli altri assai che lo conosceno, extima che li saria grandissima vergogna haver per compagno uno che sia guerzo, gobo e zopo como lui era, e tanto bene depinse il suo sermone, che fu revocata la prima sententia, e servato Tharulfo e fo dato quello honore e guadagno ad uno altro di suoi servitori chiamato Zabocho. Et in questo modo Tarulpho scampò la mala ventura per esser guerzo, zopo, gobo. Noi adon-que diremo, nobile zovene, che l’essermi tolte le taze a Bologna, e per la via de Fuligno el cavalo, sia sta[to] per lo melio, come in ogni sua adversità Tarulpho diceva.

Ardendo i cieli e gli elementi insieme, senteno el gran furore de Iove irato, regnano Marte e Orione armato de ira e disdegno, il nostro clima opprime. Non è che spieri, ma chi langue e geme di tale iniquo e infelice stato,

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e questo advien che ’l publico privato deventa, e di virtù si perde il seme. Caro Veroneso mio, morendo io spero a’ tempi nostri anchor veder Phetonte fulminato cader nel fiume Hespero, Ilcaro harai le tue penne disgonte, e sarai per volar più ch’altri altero in mar non pur ma merso in Acheronte.

20 Testo 3, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 70v-71v: Humanitatis exemplo domino Reinaldo Bregoncio equiti claris-simo et compatri optimo. A questi dì, in villa ritrovandomi per veder alchuni polledri quali erano ale campagne, mi convene adaptare alcuna pace tra il prete di quella villa et mio cavalaro, al quale ho lassata la custodia del mio iumento, et perchè la cossa è molto ridicula non posso rimanermi de scriverla a voi. Doveti sapere che don Andreuzo dela Puglia fue posto a Monte Morello a governar l’anime di quelli contadini già sono quatro anni passati, et per sua bona ventura se inamorò dela Philippa, moliere de Fracalosso mio cavalaro, e si prosuma che pur l’habia cinto el basto.26 Hora, advene che Fraca-losso havendo fatta una soma de pomi per portar al mercato al castello de Sancto Firmano, fece moto ala Philippa volerse partire nella hora de mezanotte, la quale li aparechiò uno carneruzo cum uno fazoleto e doi pani, cum uno pezo di caso e dietelo a Fracalosso, il quale il posse, non sapendo la Philippa, sotto il capizale dil matarazo. Et andando per adventura la Philippa ala fonte per aqua, ritrovò il prete che mundava nell’aqua la salatuza, e salutatosi insieme adimandò il prete che fusse di Fracalosso, a cui la Philippa disse esserni bene, et come nella mezanotte se partiva cum l’asino cum una soma de pomi per andar a Sancto Firmano al mercato. Et il prete l’hebbe a pregare che la fusse contenta che lui andasse, partito el marito, a lei e che lo haviva tanto cargo el balestro che stava a pericolo de romper la noce.27 Ale qual parole un pocho ne rise la Philippa e disse: «Se Fracolosso se parte, noi lo scargaremo e lo cargaremo più volte». Di che il prete, tirandosi del fondo dil petto un grande suspiro, disse: «Laudato ne sia Dio e la vostra gratia». E prima che dala fonte se partisero, si bassarono più volte, non senza caldo sudore del’uno e del’altro. Venuto la notte, Fracalosso si coricha cum la sua Philippa, la quale disse che il capo gli dolea per negar al marito il solito piacere, e per servar quelle fatiche al prete, il quale, a non mentire, gli dava più fermi colpi ala taglia.28 E gionta l’ora dela mezanotte, Fracalosso carga il suo asino e, senza ricordarsi dil carneruzo, prese una sua maza in collo, se ne parte. Il prete, che quella notte non volsi dormire per veder la partita de Fracalosso, subito intra per l’usso dov’è l’orto col forno, e pian piano facendosi lume cum le mane, andosene ala Filippa che lo aspetava a culo scoperto per meglio potere scaricare la balestra. E subito tratose le brache, ale quale haveva un picolo borsello cum cinque fiorini d’oro atacato, le pose sotto el preditto capizale, e parendoli cento anni de coricarsi presso la Philippa, si pose in letto nudo e pigliatola a mezo la cropa la strinse forte, basandola dolcemente e cum molti gemiti e suspiri per una volta scaricono el balestro, et poi rimase cossì insieme ligati, parlavano del suo amore. Et non essendo Fracalosso anchor dela villa lun-tano d’un miglio, se aricordò haver lassato el carnerolo al capizale del letto, il quale subito voltato l’asino tornossene indreto, et intrato in casa posse la mano al capizale del letto e tolse le brache dil prete

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[lacuna] el carnuzo dicendo: «Cossì incontra a chi non ha memoria!». La Philippa ricoprendo il prete, levossi nel letto a sedere e disse: «Vo’ tu che te accendi el lume?» El qual disse non voler altro, e partisse de subito. In quel ponto se strinse cossì forte el serame dil prete che dubito in quello anno non poterlo aprire, et disse: «Crede’ tu, Philippa, che più l’habi a ritornare costui?» Lei rispose che non tornaria per fino ala cena, e riserata la porta cum la stanga ritornossene a lecto. Il prete, presi la mane al capizale per ritrovar le brache e non le trova, accendossi el lume e rivoltano tuto il letto et comprese che Fracalosso l’havesse tolte insieme col carnerolo, a cui il prete rimase molto dolente, attento che gli fosse el borsello cum cinque fiorini. Anche molto li dolea del pericolo dela Philippa, la quale, cum subito consiglio, ritrovò una sua fide-lissima comare, cum la quale havia sempre fatto de simel brigate inseme, e detili uno cisto di pomi, e poseli al culo uno paro de brache cum alchuni pochi dinari e dixe: «Andate, comadre, cum questi pomi, e ponetivi a sedere apresso di Fracalosso vendendo li pomi, e li dinari che ritrareti poniteli in questo bursello che sta atacato ale brache, et fate che Fracalosso ogni volta vi veda, et nel partire veniti cum lui, e qualche volta poneti mano al borsello e pagatili el vino. Son certo che lui prenderà admiratione che voi portate le brache. E voi direti: «Cossì se chostuma in tutte le femine, agiongendo como anche mi le porto, anci, direti sapere come io ho tachato ale mie brache cinque fiorini d’oro, ancora non sono dieci giorni che io scosso d’alcune femine dela villa, per fare alcuna opera devotissima in laude de Dio». E come la Filippa disse cossì fece, et venduti li pomi se ritornarono a casa cum Fracal-losso, il quale per le parolle dela donna fue tracto di gran suspecto, et vixeno molto contento per questo modo. Magnifico Compatre, se inganeno li homini, li quali hano le sue mogliere malvase. Et havedomi il prete scoperto lo ingano e adimandato per mercede, perchè il male più oltra non vadi, li feci restituire li dinari salvo che cinque lire, li quali fece spendere in uno asino galiardo e giovene, et fecelo poi dare como roba dil prete in custodia a Fracalosso, che li facesse le spese e lo affaticasse, sapendo io che ’l suo era per molta fatica roto e dilumbato. Et per questo modo il prete hebbe dapuoi iusta casone di andare spesso a vedere il suo asino. Poteti vedere che io non ho in tutto, standomi in villa, el tempo mal speso, havendo questa pietosa opera conducta a bon fine.

21 Testo 4, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 88v-89r: Feliciano Antiquario raconta al sp[ectabile] homo Francisco Porcario una ventura che gli è incontrata novamente. Non è meglio al homo che cade nell’aqua, se lui pò ussire non aspetar barcha né ponte, perchè ogni dimora alcuna volta è nociva. Cavalcando il mese passato, solo, per una silva per andar a Fuligno, e smontato in uno picolo chapanello ove si vendeva vino, atrovai in quel locho tre compagni che erano vestiti in habito longo di color negro e mi disseron: «Gentil homo, diceti se voi haveresti ritrovato per via un frate de S. Francisco a piedi cum una sacheta in collo». Ali quali respose non haverlo trovato, e questi me disseron che ’l frate era fugito del ordine, e portavasi via furtivamente una corona d’oro cum quatro balassi, la qual costò ala confraternita de Fuligno fiorini 150 e haveane fatto per voto ala figura dela Verzine Maria nela chiesia Mazore, perchè fosse mediatrice a pregar il Suo Figliolo Clementissimo, ché liberasse quella cità da peste, et al presente son anni cinque che cum la gratia de Dio e di Essa, Beatissima Madre, non ci è di quel male perita persona. E po’ che hebe beuto, disse uno di valenti homini, il quale doppo

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intese se chiamava Carnesicca, se io li voleria vendere il mio ron-cino, ché me lo pagaria, e aperse la mano e monstromi circa fiorini XXX et disseme: «Piliati quelli che voi volete». Al quale rispose: «Missere, io vi ringratio dela vostra larga proferta, el cavalo non è mio, ché me l’ha prestato Monsignor da Sermona, il quale, venendo da Marema de Siena, firmandosi sopra dil lago de Montebarato, [lacuna] ditto roncino cum uno suo mulo cum l’hoste de Bolsena, e bisognami in termine de nove giorni darli il cavalo». Dissemi poi il valente homo: «Qual via fareti voi per giongere al fiume?» Io dissi: «Quella da man manca, per evitar le aque che era sparte dal fiume». Lui me pregò, se io vedesse il frate, che io intrasse cum qualche parola in sermone cum lui, e che io dicessi haver veduta frustar una femina ala piaza de Fuligno, e se ’l dimanda per qual casone, direti perchè lei ha dato il modo ad uno frate a fuzer di presone, il quale se dice habia furato una corona d’oro dela chiesa Mazore — e se io29 li dicesse simel parole non era dubio ch’el frate tornaria ocultamente a Foligno per parlare a questa femina e condurla seco, essendone il frate di costei grandemente occupato — et se ’l se maraveliasse dela andata vostra, che par esser verso Fuligno, direti havervi domenticato due lettere che importavano molto. Questo è quanto per cortesia da voi voliamo». Al quale rispose di farlo di bona volia, e tolta licentia mi partete da loro, tropo ben conoscendo che li erano inganatori e maistri da truffe, e dove da mano manca li promisi andare, andai dala dritta verso di San Gemignano. Havendo prima cavalcato dua milia prima che al fiume giongesse, ritrovai il frate sotto de un sovero che piangea et dimandandome elemosina, di che oltra passai senza far moto. Il giorno sequente gionsi a Fulegno, ove ritrovai messer Iacobo Valeriano commissario dil Papa, il quale è gran tempo che io li son domestico, e fornito il mio bisogno, ritornai a Roma, piliando la strata del monte verso di Narni, per voler evitar la campagna ove li tre mercadanti trovai. Et dilongato da Foligno milia XXX, il giorno sequente attrovai quatro compagni cum uno ragazo, posti sopra una colina de un monte, che ad una sella un stalll rotto aconzavano et uno al suo cavalo teneva. Et fra costoro non vidi alcuno di primi compagni dela campagna, e gionti sopra di loro li salutai. Et uno se firmò nel mezo dela strata, et dissemi: «Amico, siate el benvenuto! Idio vi ha mandato qui, voletimi voi portar a Roma questa mia lettera al Prothonotario De Mirabali». Al quale rispose che volenteri, e costui mi prese dela brilia el cavalo e guardoli le gambe e l’ochio e disse: «Al corpo mio se voi venisti da Bolsena, diria che questo cavalo fosse mio, ché già sono più mesi che lo lassai al hoste dela stella [sic] in pegno per doi fiorini! Et donde venite voi?» Et io dissi nel mio animo: «Aiuteme Dio!» e poi respose: «Io vengo da Fuligno, et sum mandato dal conte Hieronymo per fatti del Papa. El cavalo non è vostro, voi seti in errore». E fece venire coloro che aptavano el stallle, e disse: «Non vi pare questo il mio cavalo, che lassai a Bolsena?» sì bene che gli è desso risposeno insieme, et io guardando d’intorno mai vidi persona che venisse, e fecime smontar a mal mio grado. E volemo d acordo andar ala rasone,30 dicendo loro che me provariano che ’l cavalo era il suo, et io li voleva provar il contrario. E caminando verso un picol castello, mi adomandono securtade de XV fiorini a provar la mia rasone, e che me lassariano el cavalo. E non essendo conossuto in quello loco, fu commissa la causa ad uno prete. E passata poca hora veneron li tre mercadanti del capanello e disseron: «Que fate voi qua, homo da bene? Voleti voi vendere il vostro cavalo?» Rispondendo colui: «Non dite il suo cavalo, che ’l è il mio e farne la prova, come il lassai a Bolsena in mane de un hoste». Rispose Carnesicha: «Cossì mi disse il bon homo nela silva Tignola.» E quivi, referite al prete tute le mie parole che za dissi a coloro, per la qual cosa iudicò el prete che ’l cavallo remanesse a costui, né mi valse il pregar il prete, ché in depositione tenesse el

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cavalo fino che da Roma tornasse. Et a far poche parole per non aver pregio, tolse le mie bolzie31 in spalla e tornami a Roma a piedi, havendomi costoro prima più volte ditto ribaldo e ladro. Et perchè a proposito mio fassi la novella dil’abbate di Monte Morello, parsemi per milior partito lassarli solo il cavalo, che insieme con quello el mantello, el vestuto, le bolzie e stivali. L’abbate di Monte Morello, perchè la storia intendi, cavalcando cum quatro cavali verso Viterbo, ritrovò nela silva de Bacano più ladri, li quali spoliavano ogni persona. E prese le brilie di cavali de misser lo abbate e lo miseno a piedi cum doi preti et uno suo zago32 de anni XV, orse colui che riscaldava l’ abbate nel letto, al tempo del verno. E dopo molte iniuriose minaze haute de ladri, disse lo abbate: «Io mi appello a Dio di questo torto che tu me fai et prego la sua iusticia che te ne pagi». Al quale i ladri resposeno: «Idio al presente ha altro che fare!» Disse lo abbate: «S’el ha altro che fare, non fugirai tu che nela valle de Iosaphat, quando se renderà rason de ogni iniusticia, tu non pag[h]i questo e ogni altro tuoi debiti». E ritornando indredo li ladri alcuni passi, disseron: «Poichè voi mi fate cossì longo termine al pagare, io volio che tu mi dia in credenza li toi vestimenti, bolzie e valise, cum quelli di toi compagni e puoi ad uno tempo pagaremo ogni cosa!» Et toltoli de molte fiorini et ogni vestuto, rimase al vento et ala pioza l’abbate e i doi monaci e lo suo zago in zupone. Concludendo dico adonca, generoso Francisco, che melio mi fu a lassar ali boni mercadanti el cavalo perso cum rasone per la prova del Carnesicca, che azonzere al male il pegio e fossi rimaso come fece l’ abbate in zupone.33

NOTE

1. Cfr . GIOVANNI SABADINO DEGLI ARIENTI, Due episodi della vita di Felice Feliciano: ovvero, la terza e decimaquarta novella da Le porretane di Sabadino degli Arienti: saggio di un nuovo carattere detto Griffo, Verona, Officina Bodoni, 1939. 2. Giovanni Pozzi e Giulia Gianella, Scienza antiquaria e letteratura: Il Feliciano, in «Storia della cultura veneta», dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, vol. 3, tomo I, a cura di Girolamo Arnaldi e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 459-77. La nota a cui mi riferisco è la ventottesima, p. 465. Né questa è la prima volta che una scarna annotazione della studiosa si rivela una fonte preziosa per successivi approfondimenti, come nel caso di Jacopo Zaccaria e del “suo” Inscriptionum Libellus. Al riguardo si veda Alessandra Mulas, L’Inscriptionum Libellus di Jacopo Zaccaria e l’umanesimo romano, in «Albertiana» VIII, 2006, in corso di stampa. 3. Leonardo Quaquarelli, Felice Feliciano nel suo epistolario, in L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese: Tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, Atti del Convegno di Studi, Verona, 3-4 giugno 1993, a cura di Agostino Contò e Leonardo Quaquarelli, Padova, Antenore, 1995. 4. SABADINO DEGLI ARIENTI, Le Porretane, a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno editrice, 1981. 5. Cfr. Letterio Di Francia, Novellistica (Storia dei Generi Letterari Italiani), vol. I, Milano, Vallardi, 1924, pp. 488-93. 6. Basile, Introduzione, in DEGLI ARIENTI, Le Porretane, pp. IX-LII. 7. Questa compresenza di registri, intendo quello aulico, raffinato, “classicista” e quello sensuale, goliardico, carnascialesco, mi sembra essere una delle costanti del XV secolo. Tuttavia molte delle sintesi e degli studi relativi a questo complesso secolo (penso soprattutto al lavoro di Contini)

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sembrano apporre un veto, se non una censura, a questa dualità, solo apparentemente ossimorica; mi sembra, insomma, che ci sia una sorta di imbarazzo nel trattare i temi di più esplicita sensualità, che porta, in molti casi, a escludere dagli studi opere rappresentative di questo sentire. 8. Cfr. Di Francia, Novellistica cit., pp. 488-93, 458, 455. 9. Cfr. Di Francia, Novellistica cit., p. 458. 10. Cfr. Di Francia, Novellistica cit., p. 491. 11. Cfr. Il prosimetro nella letteratura italiana, a cura di Andrea Comboni e Alessandra Di Ricco, Dipartimento di Scienze filologiche e storiche dell’Università di Trento, Trento, 2000 e in particolar modo Lucia Battaglia Ricci, Tendenze prosimetriche nella letteratura del Trecento, pp. 57-96. 12. Gli epistolari del Feliciano sono quattro, di cui i primi tre autografi: Verona, Biblioteca Civica, Ms 3039, Londra, British Library, Harley 5271, Oxford, Bodleian Library, Canoniciano italiano 15, Brescia, Biblioteca Querinina, C. II. 14. 13. Le «Carte messaggere»: Retorica e modelli di comunicazione epsitolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni editore 1981; Metodologia ecdotica dei carteggi, Atti del Covegno Internazionale di Studi, Roma, 23, 24, 25 ottobre 1980, a cura di Elio d’Auria, Firenze Le Monnier, 1989; Alla lettera: Teorie e pratiche epistolari dai greci al Novecento, a cura di Adriana Chemello, Milano, Guerini Studio, 1998; Maria Luisa Doglio, L’arte delle lettere: Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000. 14. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, p. 334 e Di Francia, Novellistica cit., pp. 455 e 490. 15. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, III. La quinta essenza è la parte più pura delle sostanze, ottenuta attraverso cinque distillazioni, cfr. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, p. 28. 16. Crogioli: strumenti tipici delle pratiche alchemiche. Cfr. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, p. 112. 17. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, XIV. 18. Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14, c. 7r. 19. Mi riferisco, prescindendo dalle notazioni sparse, alle lettere del 31 gennaio 1506 e del 24 febbraio 1508 in Carolyn James, The letters of Giovanni Sabadino degli Arienti (1481-1501), Leo S. Olschki editore, The University of Western Australia, Firenze-Perth, 2002, pp. 236-37 e 255-56. 20. Ricavo la complessa analisi da Basile, Nota al testo, in DEGLI ARIENTI, Le Porretane, pp. 591-626. La nota contiene la descrizione dell’autografo e della princeps delle Porretane. 21. Forse connesso a baccalare: stalliere, grazone del vetturino (abituato a lavorare in movimento e forse di corsa) e anche mensola sporgente dallo scafo delle galere, la cui estremità reggeva due travi sui quali erano disposti gli scalmi per i remi (in questo caso si evocherebbe l’immagine della velocità connessa alla navigazione. Il termine, d’ambito navale e marinaresco richiamerebbe il belinzero, di cui alla nota 5, testimoniando una certa conoscenza dei termini marinareschi che il soggiorno veneziano del Feliciano potrebbe agevolmente giustificare.) Il termine, nella forma baccalarazzo, è attestato anche nell’Arienti. Cfr. Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, Utet, vol. I e Max Pfister, LEI (Lessico Etimologico Italiano), Reichert Verlag, Wiesbaden, vol. IV, col. 125-126. Desidero ringraziare il prof. Matteo Motolese per i preziosi suggerimenti con cui ha indirizzato queste brevi ricerche linguistiche. 22. Meglio-miglio-melio: l’oscillazione fra forme concorrenti è uno dei tratti salienti dell’epistolario, che, per altro, risulta poco curato sul piano formale e su quello grafico. Dall’analisi testuale si deduce che l’anonimo copista, dotato di una modesta cultura, apparteneva all’area settentrionale, non ulteriormente circoscrivibile. 23. Barro (Baro): nel senso di truffatore, imbroglione. La forma ipercorretta o dialettale barro risulta attestata anche in Arienti, cfr. Pfister, LEI cit., vol. IV, col. 1402 e Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. VII. 24. Incapistrato (Incapestrato): legato col capestro, tenuto al laccio. Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol.VII.

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25. Belinzero (Belingiére): (attestato nel XV sec. in area veneziana) nave veliera attrezzata per catturare balene, ma anche imbarcazione a remi lunga e sottile, impiegata dalle baleniere a vela per la cattura e l’inseguimento dei cetacaei. Cfr. Dizionario d marina medievale e moderno, Reale Accademia d’Italia, Roma, 1937. Consultando il LEI cit., vol. IV col. 789 e 791, si ottiene un utilizzo del termine ancora più aderente «navire rapide, à l’usage des corsaires et souvent employé comme bâtiment léger dans les flottes du 13eau 16e siècles». 26. Cinto el basto (Porre il basto): sellare il cavallo, e, per estensione, domarlo, in questo caso nel senso di possedere sessualmente. Cfr. Valter Boggione, Giovanni Casalegno, Dizionario Letterario Amoroso: Metafore, eufemismi, trivialismi, Torino, Utet, 2000. 27. Noce (Noce): con riferimento tanto all’organo sessuale maschile nel suo insieme, quanto ai soli testicoli, soluzione che in questo caso mi sembra da preferire. Cfr. Dizionario Letterario Amoroso cit. 28. Taglia (Taglio): organo sessuale femminile, cfr. Dizionario Letterario Amoroso cit. 29. Improvviso passaggio alla prima persona singolare, in contrasto con il discorso diretto svolto sin qui in terza persona singolare. 30. Andar ala rasone (Andare alla ragione): rivolegersi o presentarsi all’autorità giudiziaria per denunciare un reato o per discolparsi. Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. XV. 31. Bolzie (Bolgia): borsa, bisaccia, tasca di stoffa o di cuoio, valigia. Cfr. Pfister, LEI cit., vol. VIII col. 266 e Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. II. 32. Zago (Zago): diacono, chierico. Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. XXI. 33. Zupone (Zupone-Cipone): giubbone, tradizionale sopravveste maschile quattrocentesca. Cfr. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, p. 39e Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. XXI.

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Les livres italiens de Philippe Desportes

François Rouget

1 Depuis la publication des travaux de H. Vaganay, J. Vianey, et surtout ceux plus récents et décisifs de J. Balsamo1, on connaît mieux la nature et l’étendue des échanges culturels qui s’établirent au XVIe siècle entre la France et l’Italie. Au cours de ces échanges, et étant donné l’attrait qu’exerça l’Italie sur la France, le livre italien joua une place importante et influença considérablement la littérature française. Dès les campagnes militaires de François Ier en Italie, les Français acquirent de nombreux livres publiés en Italie, et les échanges ne cessèrent de se multiplier2. A. Parent rappelle que pour répondre aux besoins croissants du public parisien en livres d’humanités, les marchands et libraires français importent directement des livres de Venise et de Florence. De plus, les imprimeurs italiens — comme les héritiers d’Alde — «viennent eux-mêmesvendre leurs livres à Paris et y installer des dépôts».3

2 C’est dire que par les contacts directs ou indirects entre les divers partenaires du marché du livre, les lecteurs français peuvent aisément assouvir leur curiosité et leur goût pour la bibliophilie. L’attrait pour le livre italien ne se démentira pas tout au long du XVIe siècle. On le constate à la lecture des inventaires des grandes bibliothèques du royaume, en particulier dans la seconde moitié du siècle. Dans une récente étude publiée dans cette revue, Isabelle de Conihout parvenait à chiffrer la proportion de livres italiens dansquelques bibliothèques d’amateurs4: 16% pour celle des Laubespine- Villeroy, 25% pour celle de Thomas Mahieu, 20% pour celle de Florimond Robertet de Fresne, contre 6% dans celle de Jacques-Auguste de Thou, autant dans cellesde Claude Dupuy et de R. Belleau5. La bibliothèque d écrivains de premier plan, comme Montaigne et Ph. Desportes, présente entre 16 et 18% de livres italiens. C’est aussi la proportion que l’on retrouve dans la belle collection réunie par et pour Henri III, et sa sœur Marguerite de Valois, à la mêmeépoque.6 La place des livres italiens dans les collections privées va donc croissant vers 1570, indice de l’influence exercée par les Italiens à la cour de Henri III, et auprès de poètes français qui redécouvrent et illustrent le néo- pétrarquisme.

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3 Parmi ceux-ci, Philippe Desportes constitue un cas exemplaire. Favori du roi qu’il suivit en Pologne, imitateur des pétrarquistes italiens, fin lecteur de littérature italienne, il parvint à réunir une bibliothèque riche qu’on peut évaluer à 1000 titres. Dans la recension effectuée par I. de Conihout, on identifie une quarantaine de livres en italien, mais c’est sans compter les livres en latin sortis des presses italiennes ni ceux en italien parus dans les autres pays d’Europe.7

4 Dans les pages qui suivent, nous voudrions rappeler l’histoire de la bibliothèque de Desportes, qui suscita l’admiration et la convoitise de ses contemporains, puis étudier la place qu’y occupent tous les livres italiens — qu’ils aient été ou non publiés en Italie — et signaler à l’attention des chercheurs de nouveaux titres italiens, non recensés jusqu’ici, et qui viennent grossir la bibliothèque de Desportes.

1. Les livres en italien

5 Nous savons par son biographe, J. Lavaud, que Philippe Desportes possédait une fort belle bibliothèque dont il était fier, et dont l’histoire a été retracée par Isabelle de Conihout.8 La partie italienne était importante, ce qui n’étonne point quand on sait avec quelle ferveur Desportes imita Pétrarque, l’Arioste et les poètes néo-pétrarquiens du XVIe siècle. 9 Le goût de Desportes pour l’italien est attesté très tôt par sa participation au volume d’Imitation de quelques chans de L’Arioste par divers poetes François (Paris, L. Breyer, 1572) et par la composition de ses Premières Œuvres, dont l’édition princeps est de 1573. C’est aussi le moment où Desportes accompagne Henri d’Anjou et de Pologne dans son voyage polonais, et lors du retour, durant l’été de 1574, Desportes le suit encore en qualité de secrétaire. Lors du séjour à Venise, Desportes en profita pour acquérir des livres que lui disputa le duc d’Anjou, nouveau roi de France.10 À l’image de son roi, qui se mit à l’étude de l’italien sous la conduite de J. Corbinelli et qui ne cessa d’accroître sa bibliothèque, Desportes montra toujours une curiosité insatiable pour la littérature transalpine, curiosité qui se révèle dans le nombre de ses livres italiens. Selon l’inventaire dressé par I. de Conihout, ceux-ci figurent au nombre de 45 et constituent plus de 15% de sa bibliothèque. Il s’agit naturellement d’un total provisoire car d’autres titres italiens portant l’ex libris de Desportes peuvent faire l’objet de redécouvertes, comme on le verra plus loin. Par ailleurs, le chiffre avancé ne tient compte que des livres de langue italienne et laisse de côté tous les autres, ceux qui ont été écrits en latin (une quarantaine), ou traduits en langue moderne, à l’étranger (une quinzaine d’ouvrages). Tous ces livres font pourtant partie d’un ensemble ou «corpus» italien de Desportes qui a pu l’influencer à des degrés divers, que ce soit avant le départ pour la Pologne (1573) ou après son retour en France (1575),11 et cela jusqu’à la fin de l existence du poète chartrain.12

6 Ces livres italiens de langue italienne, entrés dans la collection de Desportes, recouvrent divers centres d’intérêt. La poésie y figure en bonne place: outre les grands classiques (Pétrarque; Dante, Convivio, 1531, no 55), Desportes a porté sa curiosité sur leurs commentateurs (J. Mazzoni, Della difesa della Comedia di Dante, 1587, no 189; G. Malatesta, Della nuova poesia overo delle difese del Furioso, 1589, no 196) et sur les poètes modernes, renommés (Serafino, Opere, 1544, no 74.; F. Berni, (Opere, 1545, no 77) ou moins connus (C. Frangipani, Hélice, 1566, no 131; D. Rondinelli, Il Pastor vedovo, 1599, no 222). Signalons, enfin, que Desportes possédait un exemplaire du Commento [...] sopra piu sue Sonetti e canzoni (Florence, 1500) de G. Benvieni, inconnu des bibliographes.13

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7 Outre la poésie, les autres genres littéraires sont bien représentés, en particulier le genre épistolaire pour lequel Desportes semble avoir eu une véritable prédilection: A. S. Minturno, Lettere (Venise, 1549, no 87)14, L. Contile, Delle lettere (Pavie, 1564, no 127), B. Guarini, Lettere (Venise, 1594, no 211)15 et G. B. Leoni, Delle lettere familiari (Venise, 1600, no227). Exercice rhétorique illustrant l’éloquence de l’écrivain, la lettre connaît une vogue certaine vers 1565 et qui ne se démentira jusqu’au début du XVIe siècle. Desportes, qui fréquente autant les «salons» de son époque que l’Académie du Palais, montre là l’étendue de sa curiosité. Possesseur de La Rhetorica de B. Cavalcanti (Venise, 1578, no 159), il peut aussi imiter l’éloquence que lui offrent les livres de discours: Discorsi de P. de Grimaldi Robio (Venise, 1544, no 76) et Discorsi poetici de F. Summo (Padoue 1600, no 226). Un autre témoignage de la curiosité de Desportes pour les questions linguistiques est étayé par la récente redécouverte de son exemplaire de L’Hercolano de B. Varchi (Florence, 1570), où se voit débattue la question de l’usage littéraire de la langue toscane (fig. 1).16

Fig.1

8 Si le discours critique et le commentaire historique intéressent Desportes, c’est l’histoire en général qui retient son attention. Il peut ainsi goûter les Gioie historiche d’O. Toscanella (Venise, 1567, no 133) et les descriptions historiques de villes italiennes comme le Compendio dell’istoria [...] di Napoli par P. Collenuccio (Venise, 1591, no 200) et l’ Historia [...] di Milano par A. M. Spelta (Pavie, 1603, no 236). Signalons aussi LaHistoria della città di Parma de B. Angeli (Parma, 1591), dont Desportes possédait un exemplaire, non répertorié jusqu’ici (fig. 2-3).17

9 À côté de l’histoire des villes et des principautés, Desportes attache un intérêt ponctuel à l’histoire politique (S. Schiappalaria, Osservationi politiche [...] Vita di Cesare, Vérone, 1600, no 228) qui rejoint son goût pour l’histoire et la stratégie militaire (L. Gorgieri,

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Trattato della guerra, Pesaro, 1548-1555, no 98; F. Patrizzi, La militia romana di Polibio, Ferrare, 1583, no 174).

10 La curiosité historique de Desportes le conduit aussi à collectionner d’autres ouvrages de sciences, à commencer par la cosmographie et la géographie (G. L. Anania, L’Universale fabrica del mundo, Venise, 1576, no 152; F. L. Vulcano, Vera et nuova descrittione di tutta Terra Santa, Naples, 1563, no 124), mais encore la géométrie. En ce sens, la vente aux enchères chez Sotheby’s, en avril 2002, de l’exemplaire de Desportes de La Prospettiva di Euclide [...] (Florence, Giunti, 1573; fig. 4) constitue une double révélation. L’intérêt du poète pour la science des nombres reste cependant fort limité, tout comme son goût de l’économie que la possession du Trattato del debito de P. Torelli (Parme, 1596, no 217)ne suffit à prouver.

Fig. 2.

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Fig. 3.

Fig. 4

11 Enfin, dans cet ensemble de livres italiens, une place importante revient aux ouvrages de philosophie et de théologie, ce qui ne peut surprendre quand on sait la proportion

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des livres religieux dans la production éditoriale de l’époque, et quand on considère la composante sacrée de la production poétique tardive de Desportes paraphrase des Psaumes).18 Sur les rayons de la bibliothèque du Chartrain, on trouve ainsi Pic de la Mirandole (Le Sette sposizioni [...] Heptaplomeron, Pescia, 1555, no 99), Denys l’Aréopagite (Delli divini nomi, Venise, 1563, no 123), pour la philosophie, et des titres de politique ecclésiale (I. Chizzuola, Risposta [...] Paolo Vergerio del concilie) publicata da Papa Pio IV, Venise, 1562, no 118) ou d’histoire religieuse (G. Bosio, Dell’istoria della sacra religione [...], Rome, 1594, no 208). L’intérêt de Desportes pour les affaires religieuses, que l’on constate dans la composante italienne de sa bibliothèque, est avéré et renforcé par la présence de nombreux autres ouvrages portant sur l’histoire, la doctrine et les débats de l’Église, composés en latin et en français.19

2. Les livres en latin

12 Jusqu’ici, notre enquête s’est portée sur les ouvrages italiens publiés en Italie. Il faut la poursuivre avec tous ces livres dont la langue est le latin et dont le nombre avoisine celui des titres en vernaculaire comptabilisés dans la bibliothèque de Desportes. L’importance du latin dans la production éditoriale italienne de l’époque ne peut surprendre; elle est identique en France. Le latin demeure encore à cette époque la langue des clercs et des savants. Étant donné la nature des sujets et des disciplines constatée dans la collection du poète chartrain, la place et la proportion des livres en latin confirment nos attentes. Comme pour les livres en langue italienne, les livres en latin imprimés en Italie recouvrent une diversité de contenus et ont été produits entre 1493 (M. Bosso, Recuperationes desulanae, Bologne, no7) et 1604 (L. de Cruz, Liber psalmorum [...], Naples, no 240), c’est-à-dire peu avant la disparition de Desportes en 1606.

13 Pour un poète français du XVIe siècle, l’écriture lyrique profane et sacrée trouve une de ses principales sources d’inspiration dans la littérature latine et néo-latine. Lecteur du Canzoniere de Pétrarque, du Décaméron de Boccace, Desportes goûte et connaît fort bien aussi les productions latines de ces grands écrivains. Observateur des innovations littéraires des poètes italiens du XVIe siècle, il imite et adapte, comme Ronsard et les membres de la «Brigade», les poésies latines de P. Bembo, A. Navagero, L. Alamanni, G. Cotta, M. Molza, l’Arioste et J. Sannazar. Là encore, ce qui frappe dans cette catégorie de livres latins est leur extrême diversité de matières. En poésie, F. Sabeo (Epigrammatum [...] libri quinque, Rome, 1556, no 102) figure aux côtés des poètes rassemblés par G. Taigeto dans son anthologie (Carmina praestantium poetarum, Brescia, 1565, no 128), mais aussi de B. Botta (Davidias, Pavie, 1573, no 146; fig. 5). C’est aussi dans l’édition italienne procurée par R. Titi qu’il lit l’œuvre latine de Némésien (Bucolica, Florence, 1590, no 197).

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Fig. 5

14 Langue de savoir et de communication du savoir, le latin sert de support linguistique à de nombreuses disciplines. Dans la bibliothèque latine de Desportes, les Belles-Lettres sont bien représentées. Outre la poésie, Desportes apprécie les ouvrages traitant d’éloquence. Le genre de la lettre, si abondamment illustré en italien, continue de fleurir en latin (M. Bosso, Epistolarum, Venise, 1502, no 21). C’est par ce genre littéraire — autant que le dialogue — que les écrivains définissent les principes de l’art oratoire. Le latin demeure la langue d’investigation et de pédagogie pour les questions de linguistique, de rhétorique et d’éloquence. Desportes détenait un exemplaire des Tabulae rhetoricae de R. C. Angeli (Venise, 1571),20 mais encore les Orationes d’A. Navagero (Venise, 1560, no 115), l’édition par C. Sigonio des Fragmenta Ciceronis [...] (Venise, 1560, no 115), et les Trattati overo discorsi [...] (Venise, 1571, no 142) ainsi que la Rhetorica (Venise, 1578, no 159) de B. Cavalcanti.21

15 Curieux de tout, on l’a vu, Desportes a collectionné de nombreux autres ouvrages en latin sur des sujets historiques et philosophiques. En histoire, Desportes s’intéresse autant à l’Antiquité qu’à son temps. Nous savons qu’il possédait un exemplaire du De mysteriis Aegyptorium de Jamblique (Rome, 1556; fig. 6),22 mais aussi de la Descriptio [...] rerum germani-carum (Rome, 1546, no 81), le Commentarius de Obelisco (Rome, 1586, no 188)23 et les Annales de L. Cavitelli (Crémone, 1588, no 194). Histoire des peuples et des villes, l’histoire investit aussi le champ de l’art militaire (P. Belli, De re militari et bello tractatus, Venise, 1563, no 121), de l’architecture (éd. D. Barbaro du De Architectura de Vitruve, Venise, 1567, no 132), voire de la jurisprudence (C. Tolomei, De corruptis verbis juris civilis dialogus, Sienne, v. 1517, no 34; A. Massa, De exercitatione jurisperitorum libri tres, Rome, 1550, no 89).

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Fig. 6

16 En philosophie, on retrouve Denys l’Aréopagite dans la traduction que M. Ficin a réalisée du De Mystica theologia et du De Nominibus (Venise, 1538, no 64), les commentaires d’A. de Salo Scaino (In octo Arist. de Republ. Questiones, Rome, 1577, no 157) et le traité de P. Duodo (Peripateticarum de anima, Venise, 1587, no 192) sur la philosophie politique etmétaphysique d’Aristote. Ces titres, auxquels il faut ajouter les manuscrits possédés par Desportes,24 corroborent l’intérêt que celui-ci portait à la philosophie.

17 On peut en dire autant de ses livres de doctrine chrétienne, qu’ils concernent les ouvrages de polémique, d’histoire, de traduction ou de commentaire. C’est cette catégorie d’ouvrages religieux qui est la plus nombreuse dans la collection de livres latins de Desportes; rien de très surprenant à cela, lorsque l’on garde à l’esprit que Desportes avait reçu les ordres mineurs, lui permettant de jouir de bénéfices ecclésiastiques, nombreux et richement dotés, et qu’il consacra la dernière partie de sa vie à paraphraser en français les Psaumes de la Bible. S’il dut utiliser nombre d’ouvrages de piété publiés en France (on songe en particulier au Psalterium sextuplex Hebraicum, Lyon, Gryphe, 1530, dans la traduction de S. Pagnino, no 51), il put s’inspirer de la lecture du De confutatione hebraicae sectae de G. B. Graziadei (Rome, 1500, no 18), du Soliloquiae de C Appiano (Crémone, 1496, no 12), des ouvrages des Pères et docteurs de l’Église, tels les Carmina de Grégoire de Nazianze (Venise, 1504, no 24), l’Ortus deliciarum de Laurent Justinien (Milan, 1515, no 30), les Opera de saint Thomas (Rome, 1570, no 140), et enfin des livres d’enseignement et de liturgie, comme les Institutiones christianae [...] de J. de Damhouder (Venise, 1597, no 218), les Regulae omnes ordinationes [...] Pauli III (Rome, 1547, no 82),25 le De consideratione et judicio praesentium temporum de L. Politi (Venise, 1547, no 83) et le Psalmodia et catholicum Psalmorum [...] de B. Botta (Pavie, 1590, no 164). Au total, on constate que Desportes a été un découvreur et un lecteur attentif des ouvrages de piété publiés en latin dans l’Italie de la Renaissance.

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3. Livres italiens publiés hors d’Italie

18 Il reste à porter un regard sur tous ces autres livres d’écrivains italiens qui furent publiés dans le reste de l’Europe. Dans ce domaine aussi, l’influence de la culture italienne se fit sentir de manière significative. Qu’ils publient des éditions originales ou des rééditions, en langue italienne, en latin ou en traduction, les éditeurs européens accueillent largement dans leurs fonds ces écrivains italiens, célèbres ou moins connus, que le public goûte alors avec ferveur. On peut classer ces livres italiens publiés en Europe — ayant appartenu à Desportes — en fonction de leur lieu d’édition. On observe ainsi que la majorité d’entre eux (70 %) parurent en France. C’est d’abord de Lyon, plaque tournante du commerce et carrefour des échanges culturels entre l’Italie et la France, où s’était établie une importante communauté italienne, que proviennent les livres italiens de Desportes. Cette abondance est due en partie par l’impression et la diffusion de livres en langue italienne entreprises par leséditeurs lyonnais, comme Il Decamerone de Boccace, annoté par Bembo (G. Roville, 1555; no 96).26 Les livres d’auteurs italiens publiés à Lyon et retrouvés dans la collection de Desportes concernent surtout la théologie. Il s’agit du Tractatus de synodo episcopi (J. David, 1529)27 de E. Botteo, du Psalterium sextuplex hebraicum (S. Gryphe, 1530; no 51) de S. Pagnino, déjà mentionné, des Annotationes in Commentaria Caietani (M. Bonhomme, 1542; no 69) de L. Politi, et du Libri de potestate Papae et concilii de G. G. Albani (J. de Tournes et G. Gazeau, 1558; no 107).

19 Dans les ouvrages italiens publiés à Paris et collectionnés par Desportes, on constate une plus grande variété de sujets: la poésie néo-latine avec G. Pavini (Baculus pastoralis, F. Regnault, 1514; no 29) et l’anthologie procurée par G. M. Toscano (Carmina illustrium poetarum italorum, A. Gorbin, 1576-1577; no 154); l’histoire littéraire avec l’importante édition du De Vulgari eloquentia de Dante commentée par Jacopo Corbinelli (J. Corbon, 1577; no 156) — dont la parution coïncide avec la promotion d’une éloquence royale soutenue par Henri III—;28 l’art de la guerre avec le De re militari de R. Valturio (Chr. Wechel, 1535; no 60); la philosophie avec le Spaccio de la bestia trionfante de G. Bruno (s. n., 1584; no 178); enfin, l’histoire ecclésiastique avec l’ouvrage de G. C. Romano, De Regimine principum ecclesiasticorum opusculum (Th. Brumen, 1587; no 193).

20 Produits dans la capitale du royaume dans laquelle résidaient le plus souvent la Cour et Desportes, ces livres italiens proposés aux chalands bénéficiaient d’une situation économique et culturelle privilégiée. Pour un poète italianisant comme Desportes, curieux des dernières parutions, cette production italienne d’auteurs italiens, à Lyon ou à Paris, en visite ou en résidence permanente à la Cour, comblait ses attentes et enrichissait ses goûts.

21 C’est sans doute encore à Paris que Desportes acquit les autres ouvrages italiens de sa collection, qu’ils aient été imprimés à Anvers, Londres, Hambourg, ou Bâle. Pour nombre des livres édités dans ces villes, l’un des lieux privilégiés de diffusion était la capitale française. Et, on le sait, certains titres sortis des presses anversoises étaient uniquement destinés au marché français. Les éditions anglaises figurant dans la bibliothèque de Desportes sont peu nombreuses: outre The Principall navigations (Londres, G. Bishop, 1589) de R. Hakluyt — offert à Desportes par l’auteur lors de son séjour parisien? —,29 on note deux exemplaires du Delegationibus libri tres de l’Italien A. Gentile (Londres, Th. Vautrollerius, 1585; no 179-180). D’Allemagne, plus précisément des presses hambourgeoises de J. Wolff est sorti le traité de la Magia philosophica de F.

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Patrizzi (1593; no 206). Deux autres ouvrages latins, le De bono senectutis de G. Paleotti (1598; no 219), et les Poemata de L. Gambara (1569)30 sont sortis des presses plantiniennes à Anvers. Ajoutons, pour finir, deux titres en latin d’écrivains italiens édités à Bâle: il y ad’abord l’édition de Longin par F. Robortello (Liber de [...] orationis genera, J. Oporin, 1554; no 95). Signalons enfin un titre inconnu des recensions effectuées par les bibliophiles de Desportes: le volume des Epistolarum libri octo du célèbre humaniste d’Arezzo, Leonard Bruni (H. Petri, 1535; fig. 7),31dans la seule édition parue au XVIe siècle de ce livre publié pour la première fois en 1472 (Venise, A. Moreto et G. Squarciafico), et qui constitue une source de première main pour connaître l’histoire politique, culturelle et littéraire de l’Italie du Quattrocento.

Fig. 7

22 On le voit, Desportes semble avoir recherché puis accumulé dans son impressionnante bibliothèque toutes sortes d’ouvrages, des plus communs aux plus rares, lui permettant d’enrichir sa connaissance de l’Italie, de son histoire et de sa culture, et de se familiariser avec les plus notables personnages littéraires que l’Italie avait produits. La ferveur que montre Desportes pour la culture italienne fut reconnue par ses contemporains qui, non sans malice, se plurent à identifier les sources de ses poèmes assimilées à des plagiats.32 D’autres admirateurs de son œuvre, parmi lesquels figurent des Italiens (I. Andreini, V. Belando, Fl. De Birague, M. Equicola),33 surent lui rendre un vibrant hommage et choisirent même — tel M. Baccellini — de traduire dans la langue italienne celui qui avait tant fait pour acclimater au goût français la littérature italienne.34

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NOTES

1. H. Vaganay, Le sonnet en France et en Italie au XVIe siècle, Lyon, 1903; J. Vianey, Le pétrarquisme en France au XVIe siècle, Paris-Montpellier, 1909; J. Balsamo, Les rencontres des Muses. Italianisme et anti- italianisme dans les Lettres françaises de la fin du XVIe siècle, Genève, Slatkine, 1992. 2. Sur ce point, voir le rôle décisif joué par les rois français dans l’acquisition et l’importation en France de livres italiens qui servit de modèle aux autres lettrés; cf. U. Baurmeister, D’Amboise à Fontainebleau: les imprimés italiens dans les collections royales aux XVe et XVIe siècles, in Passer les monts. Français en Italie - l’Italie en France (1494-1525), Actes du Xe colloque de la Société française d’étude du Seizième Siècle, réunies par J. Balsamo, Paris-Florence, Champion-Cadmo, 1998, pp. 361-86. 3. A. Parent, Les métiers du livre à Paris au XVIe siècle (1535-1560), Genève, Droz, 1974, p. 154. 4. I. de Conihout, À propos de la bibliothèque aux cotes brunes des Laubespine-Villeroy: les livres italiens chez les secrétaires du roi dans la seconde moitié du XVIe siècle , in «Italique», vol. VII (2004), pp. 137-59, voir en particulier les pp. 152-55. 5. M. Connat-Jurgens, Mort et testament de Rémy Belleau , in «Humanisme et Renaissance», t. VI (1945), pp. 328-56. 6. Voir J. Boucher qui dresse un inventaire incomplet des ouvrages ayant appartenu au roi dans Société et mentalités autour de Henri III, Lille-Paris, ART - Champion, 1981, t. III, pp. 861 -77. Voir F. Le Bars, Les reliures de Henri III: essai de typologie , in Henry III mécène dir. I. de Conihout, J.-F. Maillard et G. Poirier, Paris, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2006, pp. 228-47, et M.-N. Matuszeck, La bibliothèque de Marguerite de Valois, in Henry III mécène cit., pp. 274-92. M.-N. Matuszek dénombre une trentaine de livres italiens sur près de 300 titres. 7. I. de Conihout, Du nouveau sur la bibliothèque de Philippe Desportes et sur sa dispersion, in Philippe Desportes (1546-1606). Un poète presque parfait entre Renaissance et Classicisme, Actes du colloque international de Reims, ét. réunies par J. Balsamo, Paris, Klincksieck, 2000, pp. 121-60. 8. Voir respectivement J. Lavaud, Un poète de cour au temps des derniers Valois. Philippe Desportes (1546-1606), Paris, Droz, 1936, p. 408 et suiv, et de Conihout, Du nouveau cit., pp. 128-36. 9. Outre Lavaud, Un poète de cour cit., p. 410, voir Balsamo, Les rencontres des Muses cit., p. 232 et suiv, et F. Rouget, Philippe Desportes, médiateur du pétrarquisme français, in Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, ét. réunies par J. Balsamo, Genève, Droz, 2004, pp. 331-51. 10. Lavaud (Un poète de cour cit., pp. 224-25, note 4) rapporte à ce sujet une anecdote consignée par N. Bourbon (Borboniana, t. II, p. 304): «Le Roi étant à Venise, à son retour de Pologne, M. Des Portes y acheta pour cinq cens écus de livres. Le Roi les voulut avoir, et lui en fit rendre mille écus, et quelque temps après lui fit rendre les livres aussi». 11. On note que la moitié des livres italiens de Desportes ont été publiés avant 1573, mais rien n’autorise à penser évidemment qu’ils sont entrés dans sa bibliothèque à cette date. 12. L’édition italienne la plus ancienne est celle des poésies profanes de Pétrarque (Milan, 1494; no 10 de la liste de Conihout); l’une des dernières acquisitions est l’Historie di quattro principali citta del mondo de M. Zappuilo (Vicence, 1603; n° 238). 13. Je remercie J. Balsamo de m’avoir indiqué l’existence de ce volume figurant dans la collection privée d’un Turinois. 14. Desportes possédait aussi un exemplaire de L’Amore innamorato (Venise, 1559, n° 111) du même auteur. 15. Simultanément, Desportes semble avoir acquis Il Segretario du même Guarini, publié la même année (no 212). 16. Volume proposé par la Librairie Giraud-Badin, à Paris (2003; no 110).

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17. Ce volume a conservé sa reliure de l’époque aux armes et chiffres dorés d’Antoine de Selve. Nous remercions P. Sourget, de la Librairie Sourget, à Paris, de nous avoir procuré les deux clichés de cet ouvrage. 18. À ce sujet, on consultera l’introduction de B. Petey-Girard à sa belle édition des CL Pseaumes de David mis en vers françois par Desportes (Paris, STFM, 2006, pp. 5-118). 19. Parmi les plus importants, citons le volume factice n°44 du répertoire d’I. de Conihout, comportant 21 pièces latines publiées entre 1519 et 1526, mais aussi un volume factice non signalé jusqu’ici et rassemblant 5 titres de Th. De Bèze dont le premier est le recueil de Sermons (Genève, Le Preulx, 1593) (Bibl. de la Sorbonne, TRP-22-12). Signalons enfin un recueil factice, absent du répertoire d’I. de Conihout, composé de livres exposant la vie et les doctrines des penseurs protestants (De persona et doctrina Martini Lutheri [...], par A. Catharinus, Mayence, 1548; etc.) et catalogué à l’Arsena de Toulouse (8° Rés. Mn 6000). 20. Cet exemplaire, absent de la recension dressée par I. de Conihout, figure à présent dans la Réserve de la Bibliothèque municipale de Chartres. 21. Signalons que le volume factice, dans lequel ces deux titres ont été rassemblés (Bibliothèque Sainte-Geneviève, 4° R. 587), contient aussi trois autres ouvrages de J. de Tenores, dont l’ Introduttione [...] sopra i tre libri della rhetorica di Aristotile (Venise, 1578); ceux-ci, néanmoins, ne portent pas l’ex libris de Desportes. 22. Ce volume — non recensé jusqu’ici — est passé dans la collection des livres d’Antoine Godeau, un des admirateurs fervents de Desportes et, comme lui, paraphraste des Psaumes. 23. À noter que ce titre est rassemblé avec sept autres titres dans le recueil factice conservé à la Bibliothèque Mazarine (Maz. 18355). Si un seul porte la signature de Desportes, on peut s’interroger cependant sur la provenance des autres qui présentent avec lui de nombreux points communs: lieu d’impression (Rome), date (six sur huit sont de 1586), imprimeur (Grassi pour 5 titres), sujet (l’obélisque de Rome, dans quatre titres). 24. Voir l’article d’I. de Conihout, À propos cit., liste des manuscrits, n° 246-286, pp. 155-60. 25. À noter que le recueil factice où se trouve ce titre en comporte deux autres sur le même sujet: Regula sanctissimi D. N. D. Pauli Papae Tertii [...], 1549, et Regula cancellariae sanctissimi Domini nostri Domni Pauli [...], 1548 (Bibliothèque Sainte-Geneviève, 8° E. 3079, Inv. 1684). Mais seules les Regulae (1547), en tête du volume, présentent la signature de Desportes et des traits de soulignement qui sont le signe d’une lecture attentive par le poète chartrain. 26. Sur ce point, voir N. Zemon Davis, Le monde de l’imprimerie humaniste: Lyon , in Histoire de l’édition française, t. 1: Le livre conquérant du Moyen Age au milieu du XVIIe siècle, dir. H.-J. Martin et R. Chartier, Paris, Promodis, 1982, pp. 255-77. 27. Recensé mais non localisé par I. de Conihout, (n° 48), cet ouvrage figure à présent à la Houghton Library de Harvard University (cote: IC5. B6583. 573d). 28. Voir M. Fumaroli, Aulae Arcanae. Rhétorique et politique à la Cour de France sous Henri III et Henri IV, in «Journal des savants» (avril-juin 1981), pp. 137-89 (repris dans La diplomatie de l’esprit, Paris, Hermann, 1994, pp. 59-124). 29. Absent de la liste d’I. de Conihout, l’ouvrage figure à présent dans la Réserve de la bibliothèque de Princeton University. 30. Inconnu d’I. de Conihout, cet exemplaire de Desportes a été vendu par la Librairie Scheler à Paris en novembre 2004 (Catalogue 29, n°76). Relié à la suite figurait le Themis dea, seu de lege divina, de S. W Pighius (Anvers, Plantin, 1568), bibliothécaire du cardinal de Granvelle, qui consacre ici deux études d’archéologie romaine dont la première concerne la statue de Thémis en marbre acquise par le cardinal Pius de Carpi à Rome. Seul le premier titre porte la signature de Desportes. 31. Le livre a été vendu par la librairie Gilhofer & Ranschburg, à Lucerne, en avril 2005. 32. Voir Le [sic] Rencontre des Muses de France et d’Italie (Lyon, Roussin, 1604), où se voient reproduits 43 sonnets de Desportes et leurs sources italiennes.

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33. Voir en particulier les Rime de I. Andreini (Paris, Cl. De Monstrœil, 1603) où l’auteur adresse un sonnet à Desportes qualifié de «Sacro Vate del Pindo»; et les Lettere facete de V Belando (Paris, A. L’Angelier, 1588) qui saluent deux fois Desportes «appolinesca e prior del Monte Parnasso». 34. Voir Li Sette Salmi penitentiali Davidici. Aggiunti li salmi penitentiali Franzesi della tradottione del dottissimo Signor Filippo Portes abbate di Tirrone (Paris, Ph. Du Pré, 1604).

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Jean et André Hurault : deux frères ambassadeurs à Venise et acquéreurs de livres du cardinal Grimani

Isabelle de Conihout

1 La collection de littérature italienne que Jean-Paul Barbier-Mueller a donnée à l’Université de Genève vient de s’enrichir d’un magnifique volume, qui prouve que bibliophilie et littérature peuvent faire bon ménage. Il s’agit de l’exemplaire de dédicace à l’ambassadeur de France à Venise, Jean Hurault de Boistaillé, de l’édition par Lodovico Dolce du commentaire d’Erizzo sur Pétrarque, parue à Venise en 1562 chez Andrea Arrivabene: Espositione di M. Sebastiano Erizzo nelle tre canzoni di M. Francesco Petrarca chiamate le Tre sorelle, nuovamente mandata in luce da M. Lodovico Dolce (fig. 1). Le volume a été relié en maroquin rouge, à décor doré d’arabesques (fig. 2) , par l’un des meilleurs ateliers vénitiens de la période, actif dans les années 1560, baptisé par Ilse Schunke le «Leermauresken-Meister», sur l’activité duquel le point a été fait en 1991 par Anthony Hobson1. Un cartouche doré occupe le centre des plats, orné au plat supérieur des armoiries peintes en or de l’ambassadeur, les quatre soleils des Hurault («d’or à la croix d’azur cantonnée de quatre ombres de soleil de gueules»). Le plat inférieur porte symétriquement une peinture légèrement effacée, deux personnages dans lesquels on peut reconnaître Pétrarque et Mercure, double allusion au texte recouvert et au dédicataire, messager du roi de France. Sur la page de titre, de la main de l’ambassadeur: «Ex Bibliotheca Jo. Huraultii Boistallerii». La dédicace de trois pages, «All’illustrissim. S. il S. Giovanni Hurault, Signor di Boistaillé, consigliere della Cristianiss. Maesta et Maestro delle richieste della casa Reale, Ambasciadore del Cristianiss. Carlo Nono Re di Francia appresso la sereniss. Reipublica Vinitiana» est datée de Venise, 21 septembre 1561. Soulignant l’intérêt du commentaire d’Erizzo, Dolce y rend un hommage appuyé au jeune ambassadeur, qui «nelflore del sua giovenile età fu giudicata degna di carichi importantissimi»: parmi ces tâches la délicate restitution de la Corse à Gênes. Dolce souligne ensuite l’intérêt du diplomate pour la

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poésie et l’étude, les rapportant à un idéal de «gentilhuomo» commun à Erizzo, au sénateur Venier à qui avait été destiné son commentaire, et au jeune Hurault.2

Fig. 1 – Page de titre avec l’ex-libris de Jean Hurault de Boistaillé

Exemplaire de dédicace à Jean Hurault de Boistaillé de l’édition par Lodovico Dolce du commentaire d’Erizzo sur Pétrarque, Venise, 1562. Coll. J. P Barbier-Mueller.

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Fig. 2. – Reliure

Exemplaire de dédicace à Jean Hurault de Boistaillé de l’édition par Lodovico Dolce du commentaire d’Erizzo sur Pétrarque, Venise, 1562. Coll. J. P Barbier-Mueller.

1. Jean Hurault de Boistaillé

2 Quelque attendues que soient les louanges de ce type de dédicace, elles n’avaient cette fois rien d’immérité. Jean Hurault de Boistaillé (=JHB), le dédicataire du Pétrarque, reste, avec son frère André Hurault de Maisse (dont je montrerai plus loin que ses livres les plus précieux sont conservés à la Bibliothèque Mazarine) une figure encore méconnue. Si les achats de livres grecs des ambassadeurs français en poste à Venise pendant la première moitié du XVIe siècle, pour eux-mêmes ou afin de contribuer au développement de la Bibliothèque royale, sont bien connus,3 l’activité «bibliophilique» de leurs successeurs a fait l’objet de moins d’attention. JHB, pendant sa relativement brève ambassade (mai 1561 – mars 1564, réunit une collection de plus de cent manuscrits grecs et orientaux aujourd’hui principalement conservée à la Bibliothèque nationale, où elle entra en 1622 avec la collection de son cousin le chancelier Philippe Hurault de Cheverny, ainsi qu’à la bibliothèque de Leyde dans les collections Scaliger et Vossianus. Certes les mentions d’achat, de copie, de reliure ou de possession portées par JHB sur ses manuscrits ont depuis longtemps frappé l attention. Léopold Delisle4 citait à son sujet son lointain prédécesseur l’helléniste Jean Boivin, mort en 1726: «la passion pour cette sorte de livres etoit alors si grande chez luy5 que ses deux fils, Jean et André, se faisoient un plaisir de collationner eux-mêmes les copies avec les originaux. J’ay remarqué dans la bibliothèque royale plus d’une centaine de volumes qui paroissent luy avoir appartenu, ayant son nom au commencement, souvent même le prix du livre, les frais de l’écriture et de la reliure et autres notes semblables. Ils sont presque tous couverts de peaux vertes». Mais JHB n’a pas encore suscité l’étude qu’il mériterait.

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2. Famille et carrière

3 Sur la famille Hurault, une famille du Blaisois qui prospère au service des Orléans à la fin du XVe siècle, et sur son ascension, on dispose de l’étude consacrée par Yves Durand au membre le plus éminent de cette famille, le chancelier Philippe Hurault de Cheverny, cousin issu de germains de notre ambassadeur.6 L’arrière-grand père commun à Cheverny et à Boistaillé, Raoul de La Grange, eut notamment deux fils, fondateurs des deux principales branches de la famille. Jacques, mort en 1519, est l’auteur de la branche des Cheverny, tournée vers la finance. Il est le grand-père du chancelier, né posthume en 1528 après la déconfiture de son père Raoul, entraîné dans la faillite de son beau-père, le principal des généraux de finance, Jacques de Beaune de Semblançay. Cette branche Cheverny, fort diminuée à la suite de la faillite Semblançay — la veuve et les héritiers de Raoul furent condamnés à une amende de 100.000 livres — souffrit aussi de la participation d’un frère de Raoul, Jacques, aux entreprises du connétable de Bourbon dont il était le conseiller. Après cet effondrement pendant le second quart du XVIe siècle, ce n’est que progressivement que Philippe Hurault de Cheverny reconquit le prestige perdu. Destiné à l’Église, il se tourna vers la magistrature, devint conseiller au Parlement en 1554, maître des requêtes en 1562, puis chancelier du duc d’Anjou, futur Henri III, et épousa en 1566 la fille du Président de Thou. On connaît la suite de son extraordinaire ascension.

4 Le fils cadet de Raoul de La Grange, Jean, grand-père de notre ambassadeur, est l’auteur de la branche Boistaillé, plus ‘parlementaire ’. Il quitta le Blaisois pour Paris, acquit des terres dans la région d’Étampes (Boistaillé, Belesbat, Juvisy, Maisse). Conseiller au Parlement de Paris en 1490, président en la Cour des aides le 18 novembre 1500, maître des requêtes le 18 mars 1513, puis président de la Cour des aides, il se maria dans la robe parisienne, épousant Guillemette de Guetteville qui lui donna trois fils. Deux d’entre eux, Robert et Jean, eurent des carrières ecclésiastiques. On ne dispose à ma connaissance d’aucune étude sur ces deux savants abbés, auxquels Oronce Fine dédicaça en 1516-1517 son édition en deux volumes des œuvres de Johannes de Bassolis7, qui s’ouvre sur une copie du célèbre titre gravé de Bade.8 Le livre comporte une dédicace à chacun des deux frères Hurault, avec une lettre orenée à leurs armes: Jean [mort en août 1559), qui devient le 37ème abbé de la Trinité de Morigny (Essonne, abbaye bénédictine fondée en 1095) et Robert (1483-1367), chanoine puis abbé de Saint-Martin d’Autun et futur chancelier de Marguerite de Navarre, «utriusque philosophie ac mathematices exploratori». Une troisième dédicace à un allié des Hurault, Michel Boudet, évêque de Langres, insiste sur la munificence avec laquelle Robert Hurault a contribué à alimenter la bibliothèque d’Oronce Fine. Hasards de la République des lettres, le premier volume s’ouvre sur une épître liminaire adressée à un grand seigneur de l’Église, le patriarche d’Aquilée Domenico Grimani, qui fit don de sa célèbre bibliothèque, héritière de la bibliothèque de Pic de la Mirandole, riche en manuscrits grecs et hébreux, au monastère vénitien de Sant’Antonio di Castello et que nous retrouverons un peu plus loin dans cet article.

5 On ne sait pas grand-chose non plus du frère des deux abbés, le père de notre ambassadeur, Nicolas, conseiller-clerc au Parlement en 1521.9 Mort en 1560, il fut inhumé à Morigny. L’abbaye, qui avait déjà été gouvernée par un premier abbé de la famille Hurault entre 1504 et 1524, devint un fief Hurault, et les abbés de la famille s’y

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succèdèrent tandis que le choeur de l’abbatiale devenait la nécropole de la famille, dont la seigneurie principale, le château de Bélesbat, acquis en 1498, était toute proche.10 En dépit des nombreuses transformations qu’a subies l’église de Morigny, la chapelle axiale porte toujours l’écu des Hurault à la croisée des voûtes. Il figure également sur la poterne d’entrée du château de Bélesbat, en grande partie reconstruit à la fin du XVIIe siècle et au XVIIIe siècle, célèbre pour ses jardins en bordure de l Essonne.11

6 Nicolas Hurault, que nous voyons s’activer aux côtés de Jean Grolier en 1549 à la reconstruction du Palais,12 était, comme son cousin Cheverny, dans la clientèle des Guises.13 Il était également proche du chancelier de L’Hôpital, lui-aussi grandi sous la protection des princes lorrains. Sans enfants de sa première femme Claude Allegrin, Nicolas Hurault en eut six d’Anne Maillard, sa seconde épouse, également issue de la robe parisienne. Leur fils aîné, Robert (conseiller au Grand Conseil en 1554, mort en 1592)14 épousa en 1556 la fille unique de Michel de L’Hospital, Madeleine, s’engageant à ce que les enfants issus du mariage accolassent les deux noms.15 Les terres du chancelier étaient voisines de celles des Hurault: il se retira après sa disgrâce de 1568dans sa terre de Vignay, distante de Bélesbat d’une douzaine de kilomètres, et c’est à Bélesbat, chez sa fille, qu’il mourut en 1573.

7 Les maîtres des requêtes, petit corps d’officiers proches de la personne royale, constituaient l’élite du Parlement. Robert, le gendre du chancelier, fut nommé maître des requêtes dès 1560, ses deux frères puinés, Jean et André, les héros de cet article, le furent respectivement en 1565 et 1573.16

8 Commençons par Jean, le dédicataire du Pétrarque de Jean Paul Barbier-Mueller. En l’absence de toute biographie le concernant,17 voici quelques repères sur sa carrière. Primitivement destiné à l’Église, il bénéficia peut-être de l’influence et de l’érudition de ses oncles les protecteurs d’Oronce Fine. Reçu conseiller clerc au Parlement par création le 5 juillet 1555 (il était alors abbé du Breuil-Benoît, en Normandie),18 il obtint l’abbaye familiale de Morigny à la mort de l’oncle homonyme auquel il succèda.19 Il entra à la suite de son père dans la clientèle des Guises. C’est ainsi que le cardinal de Lorraine le recommandait à l’ambassadeur à Venise, François de Noailles, et au résident à Constantinople, Jean de la Vigne, car il «est de ma nourriture».20 Il était aussi protégé par le cardinal de Tournon, qui le recommandait également car «ce n’est point de ces brouillons ny affamez qui ne servent qu’à nourrir et entretenir la division entre les ministres du Roy»21. Enfin le chancelier de L’Hospital, devenu un allié proche, facilita sa carrière.

9 Il fut donc chargé d’une première et importante mission au Levant fin 1557-début 1558. 22En route vers Constantinople, il fut bien accueilli à Venise par l’ambassadeur en poste: «Depuis trois jours arriva en ça Mr de Boistaillé, abbé du Breuil et conseiller du roy en sa court et parlement de Paris, lequel est de qualité et de la maison des Hurault, bien cogneue et respectée des princes et des seigneurs de la court. Vous lui ferez tout le bon accueil et traitement que vous pourrez estant personnage si docte et honneste que vous le cognoistrez, et d’ailleurs serviteur favorisé de Mgr le cardinal de Lorraine».23

10 Qu’allait donc faire ce jeune abbé à Constantinople? On sait que la ‘scandaleuse’ alliance du roi très chrétien et du sultan avait été établie par François Ier. La redoutable armée navale turque aidait la France à garder le contrôle de la Méditerranée, point de passage obligé entre les deux possessions du seul véritable ennemi, l’Empereur. En 1553, la prodigieuse flotte du célèbre Draghut avait ainsi aidé les Français à s’emparer de la Corse, possession génoise. Les Français, avec l’aide du héros corse Sampiero Corso,

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avaient été bien accueillis. La Corse, passée sous domination française à l’exception de la citadelle de Calvi, fut réunie à la Couronne de France en septembre 1557.24

11 Mais une guerre larvée se poursuivait cependant dans l’île entre Gênes et la France. C’est afin d’en finir grâce à l’aide turque, que Boistaillé fut envoyé à Constantinople. Officiellement porteur d’une dépêche du roi de France au Sultan, il était en fait chargé d’obtenir une aide financière et le départ de la flotte turque en direction de la Méditerranée occidentale, afin de venir appuyer les armées françaises dans la défense de la Corse contre les entreprises génoises. Arrivé à Constantinople en mars 58, il s’acquitta de la seconde partie de sa mission avec succès et, après «s’est montré aussi diligent que saige negociateur»,25 il quitta la Turquie en avril, ayant obtenu que la flotte turque appareillerait en direction de Bonifacio.26

12 Las! les choses ne se passèrent pas exactement comme prévu: en juillet 1558, une flotte turque de plus de cent galères, commandée par Piali-Pacha, arriva effectivement à Toulon, non sans avoir ravagé Sorrente et incendié Minorque. Elle fit sa jonction avec les représentants de la France. Mais, après plusieurs jours de festivités et de promenades entre Porquerolles et Toulon, Boistaillé tentant en vain d’obtenir l’accord du Turc sur un plan de campagne, Piali-Pacha trahit le 24 juillet au profit des gênois. Un Discours et rapport du voyage de l’armée de mer turquesque [...] jusqu’au jour qu’elle est partie d’avec les gallaires du roy pour s’en retourner sans rien faire pour le service de S.M., probablement rédigé par JHB,27 constitue la chronique très pittoresque de cet été nautique et mouvementé, qui voit notre jeune abbé se transformer en loup de mer, navigant entre différents ports de Corse et le littoral compris entre Toulon et Antibes, à la poursuite de la flotte de son terrible et récalcitrant allié. À la suite du désastre de Saint-Quentin, des conférences de paix s’engagèrent en octobre 1558. Le traité du Cateau-Cambrésis, signé le 2 avril 1559, marquait la fin de l’aventure italienne. La France renonçait à la Corse. JHB fut envoyé à Gênes pendant l’été 1559 pour négocier la restitution de la Corse.28 L’un des deux députés génois avec lesquels il traita n’était autre que Giovanni Battista Grimaldi, le célèbre commanditaire identifié par Anthony Hobson des reliures au médaillon d Apollon et Pégase.29 On aimerait beaucoup avoir assisté à cette rencontre... On ne sait à quoi JHB occupa l’année 1560, probablement à régler diverses affaires à la suite des décès de son oncle Jean, abbé de Morigny, et de son père. Il fut l’année suivante choisi comme ambassadeur à Venise, où il arriva en mai 1561. Sa correspondance diplomatique originale est aujourd’hui à la Bibliothèque de l’Arsenal.30 Elle a conservé sa reliure d’origine, trois grands volumes en forme de portefeuilles. En tête de ces trois registres, JHB a inscrit un titre à la manière des ex- libris qu’il appose sur les manuscrits de sa collection: «Johannis Huraltii Boistallerii Caroli Noni Gallorum regis ad Venetos legati Commentariorum legationis suae liber primus, 1561». Cette correspondance a été largement publiée pour ce qui concerne les relations avec la Turquie par Charrière, qui ne cache pas son admiration pour notre jeune ambassadeur: «Les lettres que M. de Boistaillé écrit sous l’impression de la guerre civile de 1562, et qui se prolongent sur les deux années suivantes [...] peignent admirablement la situation de l’Europe pendant cette crise terrible, et contiennent les révélations les plus neuves sur la politique de la France dans cet intervalle. Quelques traits d’une éloquence pathétique y rendent communicative l’émotion de l’écrivain; et la douleur patriotique qu’il exprime en présence des événements donne encore plus de prix à un commentaire déjà si intéressant pour la curiosité comme pour l’expérience de notre âge».31

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13 Cet ensemble de lettres adressées à la cour de France, mais aussi à d’autres diplomates et à divers correspondants italiens mériterait une édition complète. Notons quelques lettres à caractère plus personnel, comme une lettre à son frère Robert de Belesbat, ou cette autre à Marc Antonio Barbaro, ambassadeur de Venise en France, à qui il propose de le recommander au chancelier de L’Hospital comme il l’a déjà fait pour son prédecesseur Michele Suriano qu’il a servi auprès de son frère, «genero di detto Cancellario».32

14 Si elle favorisait sa carrière, sa proximité du chancelier de L’Hospital le rendait en revanche suspect du point de vue de l’orthodoxie: c’est ainsi que le 19 septembre 1562, l’ambassadeur vénitien à Rome rapportait au Conseil des Dix que le pape lui avait dit «essere avvisata per buonissima via, che l’ambasciatore del re christianissimo residente presso la Serenita Vostra è un grande Ughenotto, e che come tale faceva predicar nella sua casa secondo l’uso e dottrina d Ughenotti».33 Catherine de Medicis le rassurait: «Quant a ce que vous me mandez vous avoir esté dict de quelque mauvaise impression qu’on m’a voullu donner en vous du coté de Romme, asseurez-vous que je n’en oys jamais parler et que j’ay trop bonne opinion de vous pour en prendre auculne mauvaise impression légèrement».34 Il avait encore un an et demi à passer à Venise, qu’il quitta au printemps 1564: en mars 1564, il attendait l’arrivée de son successeur, Arnauld du Ferrier, et son congé.

15 Après le retour de JHB en France, on n’a plus que des traces sporadiques de son activité. Il rejoignit Catherine de Médicis et Charles IX dans leur ‘grand tour’. C’est de Lyon que, le 26 juin 1564, il écrivait à Saint-Sulpice, ambassadeur de France à Madrid, lui recommandant un de ses parents qui se rend en Espagne «avec le fils de Mr de l’Aubespine».35 Comme avec Grimaldi, il s’agit encore d’une rencontre entre amateurs de livres, le «fils de Mr de Laubespine» étant ce jeune prodige pour lequel ont été exécutées quelques unes des plus belles reliures françaises du XVIe siècle, auquel j’ai consacré un article dans Italique VII.

16 Il refusa l’ambassade de Madrid, et rentra à Paris pour assister Montmorency dans son gouvernement en l absence du roi et de sa mère.36 C’est ainsi qu il fut chargé en janvier 1565d’une mission délicate, signifier à ses anciens protecteursles Guises l’interdiction qui leur était faite d’entrer en Île de France.37 Il épousa en mai 1565Antoinette Le Clerc- Cottier, également issue d’une famille de parlementaires.38 Il fut officiellement nommé maître des requêtes le 3 décembre 1565(mais il en portait le titre dès son ambassade à Venise). Ses lettres de provision témoignent de l’estime que lui portait la reine mère: «pour la parfaite et entiere confiance que nous avons de ses sens, suffisances, loyautes, preud’hommie, literature, experience au faict de judicature et bonne diligence [...] tant en l’exercice de l’office de conseiller en nostre cour de Parlement [...]qu’en l execution de plusieurs charges, commissions, voyages et ambassades».39Les renseignements se font encore plus rares pour les sept dernières années de sa vie. En octobre 1568, il était malade (une maladie diplomatique?) et ne put prêter le serment d’observer la foi catholique imposé aux maîtres des requêtes. Il était «de quartier» en octobre 1569.40 Il mourut prématurément en 1572 en allant en Angleterre, choisi pour accompagner le duc de Montmorency et Paul de Foix chargés de «fere ouverture et proposer à la dicte dame Reyne le mariage de monseigneur le duc d’Allençon», avec les moyens financiers (12.000 écus) nécessaires pour «reduire à leur devotion les personnes qui se sont cy devant monstrez contraires au mariage».41 Il est enterré à Morigny, où je n ai pas retrouvé sa tombe.42 Cette carrière exemplaire, qui ne devait rien à son célèbre cousin Cheverny

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puisque JHB mourut trop tôt pour bénéficier de la faveur du futur chancelier de Henri III, n’a pas jusqu’à présent retenu l’attention des historiens, Charrière excepté, mais il faut dire que la diploma-tie française du XVIe siècle est encore insuffisamment étudiée. 43

3. L’amateur de livres

17 Même silence depuis Léopold Delisle à propos de l’amateur de livres, à l’exception de quelques mentions dans des catalogues de manuscrits grecs et hébreux, et de Jean Irigoin qui a étudié à partir des inscriptions relevées sur les manuscrits de JHB les tarifs en usage dans la Venise du XVIe siècle et les prix demandés par les copistes et vendeurs de manuscrits. Ce n’est que tout récemment qu’un chercheur américain, Donald F. Jackson, a publié la liste des manuscrits grecs ayant appartenu à JHB,44 à partir de l’inventaire dressé au XVIe siècle par son agent le crétois Zacharie Scordylis 45 et des inventaires établis à la Bibliothèque royale lors de l’entrée de la collection Hurault de Cheverny au XVIIe siècle. Il fournit dans cet article un très précieux relevé des inscriptions et ex-libris que comportent les manuscrits et de leurs provenances. Au même moment, Marie-Pierre Laffitte, attirant l’attention sur le caractère composite de la collection Cheverny,46 indiquait qu’elle comportait 136 manuscrits grecs, trois manuscrits arabes et huit manuscrits hébreux fig.3)47 ayant appartenu à Hurault de Boistaillé et annonçait une étude plus détaillée à venir. Jackson a pour sa part recensé 107 manuscrits grecs conservés à la BNF, tous entrés, sauf six, en 1622. Plus de la moitié, 64 au moins, ont reçu la reliure orientalisante qui avait déjà frappé Boivin.48 Mais la Bibliothèque royale n’est pas la seule héritière des livres de JHB. Aux six manuscrits grecs entrés tardivement dans les collections royales, après un détour dans différentes collections privées (Colbert, Baluze, Le Tellier, Tabourot) s’ajoutent au moins 17manuscrits grecs conservés ailleurs dans le monde. Parmi ceux-ci, un seul, le Ms 120 de Montpellier, est passé de la Bibliothèque royale dans la célèbre collection Bouhier.49 Les autres, à l’Arsenal et dans plusieurs collections étrangères, à l’Ambrosiana, à la Vaticane, à Berne et surtout à Leyde dans les fonds Scaliger et Vossianus (9 manuscrits grecs recensés par Jackson) ont eu des circuits différents sur lesquels je reviendrai plus loin.

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Fig. 3. – Pentateuque, Allemagne, vers 1330, ex-libris de Jean Hurault de Boistaillé. BNF, Ms hébreu 48-49.

Cliché BNF

18 La bibliothèque de JHB comportait aussi des manuscrits orientaux, notamment hébreux. Ils sont partagés entre la BNF et le fonds Scaliger de la Bibliothèque de Leyde. On sait que le philologue et historien français Joseph Juste Scaliger avait accepté en 1593 le poste que lui offrait la nouvelle Université de Leyde.50 À sa mort en 1609, il lègua à l’Université qui l’avait accueilli «omnes libros Hebraicos, Syriacos, Arabicos et aliarum orientalium lingua-rum», soit 170 volumes, auxquels s’ajoutaient une quarantaine de manuscrits grecs et latins.51 Parmi ces livres, trésors de la Bibliothèque de Leyde, sont identifiés comme venant de JHB trois manuscrits grecs (Scaliger 51,52 et 58) et huit manuscrits hébreux (Scaliger 3, 5, 9, 11, 12, 14, 15, et Hébreu 96).52

19 Les inscriptions manuscrites variées apposées par JHB, déjà étudiées par Jean Irigoin pour leurs mentions de prix, constituent comme un journal de ses acquisitions. Ces inscriptions montrent un amateur exigeant, connaissant assez bien le grec pour collationner lui-même les manuscrits, faisant restaurer et compléter les manuscrits achetés («Opera et impensis J. Huraulti Boistallerii liber hic lacer et mutilus huicformae est restitutus. Venetiis, Anno 1562» sur le BNF Grec 3015, «Hic liber prius concisus et lacer restitutus et huic formae redditus est a me Johanne Huraultio Boistallerio regis apud Venetos legato. Venetiis, A. 1561» sur le Scaliger 14). Elles fournissent d’utiles précisions sur l’établissement des textes dans le cas de manuscrits neufs, commandés à l’un ou l’autre des scribes qu’il faisait travailler, au premier rang desquels Zacharie Scordylis et Nicolas della Torre, qui lui servaient aussi de fournisseurs pour les manuscrits anciens. Les manuscrits hébreux ont parfois été achetés à des particuliers, comme le Scaliger 9: «Habui ab heredibus R. Zalman D. hebraei dum essem Venetiis legatus regius A. 1362». Plusieurs proviennent d’un membre non identifié de la famille

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de l’éditeur Bomberg («Emi a Bombergo S V 1563» sur le Scaliger 5). Deux ou trois manuscrits seulement ont été acquis lors de la mission de JHB à Constantinople, parmi eux le manuscrit arabe 384 de la BNF et un célèbre manuscrit enluminé à Constantinople au Xe siècle, le Psautier de Paris, BNF Grec 139. Les acquisitions ont été faites pour l’essentiel à Venise au cours de l’année 1562, certaines proviennent des principales collections padouanes (Sainte-Justine de Padoue) et vénitiennes: le couvent des dominicains de SS. Giovanni e Paolo (Zanipolo), Santa Maria ab Orto et surtout Sant’ Antonio di Castello, qui abritait la collection Grimani.

20 En effet, comme le banquier Jean-Jacques Fugger (1516-1575),JHB a réussi à se procurer, en dépit des sévères prescriptions qui en interdisaient l’aliénation, des manuscrits de la célèbre bibliothèque Grimani. Le cardinal Domenico Grimani (1461-1523), tout occupé, selon l’heureuse formule de M. Lowry, à convertir «the commercial wealth of one generation into the ecclesiastical respectability of the next»,53 fut un des amateurs de livres les plus actifs à la fin du XVe et au début du XVIe siècle. Il réunit une énorme bibliothèque de 15.000 volumes, dont près de 400 manuscrits grecs. Son acquisition la plus importante fut celle des 1190 volumes de la bibliothèque de Pic de la Mirandole, riche en manuscrits grecs (157) et hébreux (124), achetée en 1498, l’année même de la publication du dernier volume de l’édition d’Aristote en grec procurée par Alde. En 1520, par disposition testamentaire, Grimani léguait tous ses livres grecs et hébreux et la moitié de ses livres en latin, 8000 volumes, au couvent vénitien de Sant’ Antonio di Castello (et non à San Marco, craignant que sa bibliothèque ne connaisse le sort de l’autre grande collection vénitienne, celle du cardinal Bessarion, léguée en 1468 mais qui resta inaccessible jusqu’au milieu du XVIe siècle). Un bâtiment spécial fut construit pour abriter la collection, déménagée de Rome à Venise en 1522. L’autre moitié de la bibliothèque revenait au neveu du cardinal, Marino Grimani.

21 En dépit des précautions qu’avait sagement prises le cardinal Grimani (interdiction de sortie, apposition de son ex-libris, obligation annuelle d’un récolement), le sort de sa bibliothèque fut tragique. Un incendie la ravagea en 1687, et seuls survécurent les manuscrits qui en étaient sortis au mépris des prescriptions du fondateur. Dans une étude parue après l’article de Donald Jackson, Henri Saffrey recense 43 manuscrits grecs de la collection Grimani conservés dans le monde, dont deux provenant de JHB.54 L’examen minutieux des manuscrits permet de revoir ce chiffre à la hausse: Jackson montre ainsi que l’ambassadeur a acquis au moins 18 manuscrits grecs Grimani, dont 11 provenant de Pic de la Mirandole.55

22 Les manuscrits orientaux, en particulier hébreux, étaient à la suite de l’acquisition de la collection Pic de la Mirandole un des points forts de la bibliothèque Grimani. Parmi les manuscrits hébreux de JHB, deux au moins proviennent également de la bibliothèque Grimani, les manuscrits Scaliger 11 et 12.56

4. La dispersion

23 Aucune des études citées ci-dessus n’a montré ni pour quelle raison ni à quelle date les livres de JHB ont rejoint la collection des cousins Cheverny, alors qu’il avait des enfants qui auraient dû en hériter. On ignore également pourquoi la bibliothèque JHB n’est pas entrée tout entière dans la collection Cheverny. En mourant, JHB laissait une veuve, Antoinette Le Clerc-Cottier, que des patentes du prévôt de Paris datées du 29 novembre 1572 constituaient tutrice de leurs trois enfants.57 L’inventaire des biens de

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l’ambassadeur, dressé par les notaires Brigrand et Foucart en décembre 1572, qui devrait contenir l’inventaire de sa bibliothèque, ne semble hélas pas avoir été conservé. Celui de sa femme, morte en avril 1583, qui décrit les biens de leur hôtel de la rue Pastourelle et ceux qu’elle possède dans l’hôtel de sa sœur Anne, veuve de Jean-Robert de Hellin, avec laquelle elle vit rue du Temple, «révèle une situation de fortune très appréciable»,58 mais ne décrit aucun livre. À cette date, l’aîné des enfants, prénommé Jean comme son père (1566-1631), conseiller en Parlement depuis 1582,59 est tuteur de son frère François60 et de sa sœur Anne.61 Ils partageront en 1592 la succession de leurs père et mère devant un notaire chartrain dont les minutes ne sont hélas pas conservées.62

24 Est-ce à ce moment que le chancelier Cheverny, profitant d’un manque d’intérêt des héritiers de JHB, a mis la main sur les livres de l’ambassadeur? A-t-il obtenu l’accord des frères survivants de Jean, Robert de Belesbat et André de Maisse, ou au contraire a- t-il profité de l’absence de ce dernier, retenu à l’étranger par ses fonctions d’ambassadeur, qui aurait eu, nous le verrons, toutes les raisons de garder pour lui ce trésor?

25 Marie-Pierre Laffitte annonçant une étude plus détaillée à paraître dans le «Bulletin du Bibliophile», j’y renvoie pour l’histoire de la bibliothèque Hurault entrée à la BNF, essayant pour ma part de deviner ce qui a pu se produire pour les livres ayant suivi un autre circuit. C’est sans doute avant son départ de France en 1593 que Scaliger a obtenu les manuscrits grecs et orientaux aujourd’hui conservés à Leyde.63 Ils ne portent aucune indication sur la manière dont Scaliger se les est procurés, mais leur examen montre qu’aucun n’a reçu la luxueuse reliure orientalisante commandée par JHB. Il est donc probable que Scaliger a obtenu ces volumes, peut-être considérés comme moins précieux, en toute légalité (l’ex-libris de JHB n’est pas gratté), grâce à ses relations avec les parlementaires érudits parisiens, contemporains et amis des Hurault, Claude Dupuy et Henri de Mesmes chez qui JHB rencontrait Denis Lambin64 et Pierre Daniel, l’humaniste orléanais. Scaliger avait eu accès à la bibliothèque du chancelier Cheverny65, et il resta très lié avec la génération suivante, qui a également pu l’aider à obtenir les manuscrits,66 qu’ils soient restés chez les Boistaillé ou passés chez les Cheverny: Jacques-Auguste de Thou, beau-frère de Cheverny, les fils Dupuy, Gosselin et , auquel il lègua «une couppe d’argent doré avec son étui, que les Messieurs des estatz de Holande m’ont donnée».67 Nous verrons plus loin que Casaubon et André Hurault de Maisse étaient en relation étroite, puis que ce dernier confia à Casaubon l’un des manuscrits d’Athénée qui lui servit à établir son édition critique.

26 Tous les livres de Scaliger ne sont pas restés à Leyde: dans son testament, il laissait ses amis et élèves Mylius, Baudius et Daniel Heinsius choisir librement parmi ses livres grecs et latins.68 On ignore sur quels manuscrits et imprimés, et en quelle quantité, se porta le choix des amis,69 mais il est possible qu’aient figuré parmi eux des livres de JHB. Enfin, tout le reste de l’importante bibliothèque de Scaliger, environ 1700 volumes, fut selon sa volonté vendu aux enchères le 11 mars 1609. Le rarissime catalogue de vente ne signale aucun livre provenant de JHB, mais seuls les livres annotés par Scaliger y font l’objet d une mention particulière.70 Il est également possible que des livres de JHB aient été dispersés à cette occasion.

27 Scaliger n’est pas le seul à avoir obtenu des livres de JHB. Pierre Daniel (1531-1604), l’humaniste orléanais déjà cité, lié aux Hurault,71 a de son côté possédé au moins un manuscrit grec et surtout le seul inventaire subsistant de la bibliothèque grecque de

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JHB, passés ensuite dans la bibliothèque de Jacques Bongars et aujourd hui conservés à Berne.72

28 Les amis de Scaliger connaissaient l’intérêt des livres de JHB. Il n’est pas étonnant de voir entre les mains de leurs fils, à la génération suivante, la plupart des membra disjecta actuellement repérés de cette bibliothèque. Un et peut-être deux manuscrits grecs de JHB passèrent chez Christine de Suède par l’intermédiaire de son agent Nicolas Heinsius.73 Les tenait-il de son père Daniel, le légataire de Scaliger, ou les avait-il obtenus d’autre source?

29 En 1690, la bibliothèque de Leyde racheta en Angleterre la bibliothèque d’Isaac Vossius (Leyde 1618-Windsor 1688).74 Elle contenait au moins quatre manuscrits grecs 75 et quatre manuscrits latins ayant appartenu à JHB76, qui ont donc rejoint sur les rayons de Leyde les livres passés par Scaliger. Ces manuscrits, Isaac Vossius les tenait non de son père, mais de Melchisedech Thévenot (1621-1692).77Ils portent tous son ex-libris et ont pour la plupart reçu au XVIIe siècle une reliure uniforme en peau retournée. À quelle source Thévenot les a-t-il obtenus? Il fut certes garde de la Bibliothèque royale de 1684 à 1691, mais ces manuscrits ne portent aucune des cotes anciennes de cet établissement et ont suivi un autre chemin.

30 Certains livres en effet étaient restés aux mains des descendants directs de JHB. En 1631, à la mort de son fils Jean de Boistaillé, dernier du nom, qui laissa de son épouse Marguerite Bourdin seulement deux filles, Geneviève, épouse de Blaise Méliand, et Marie, épouse de Louis de Bréhant, on inventoria dans son hôtel du Faubourg Saint- Victor, «au cabinet dudit deffunct, [...] soixante volumes et livres de plusieurs grandeurs et hauteur prisez ensemble 50 livres». Figuraient probablement parmi eux les trois volumes de l’ambassade de Venise, conservés à la Bibliothèque de l’Arsenal dans les collections de Paulmy, descendant de Geneviève Hurault et de Blaise Méliand.78 S’y trouvait aussi certainement un manuscrit grec qui a également rejoint les rayons de l’Arsenal, mais par un canal différent, une bible qui porte l’ex-libris de JHB et un ex-dono de Méliand au couvent parisien des Carmes déchaussés.79

31 Les manuscrits grecs et orientaux sont évidement ceux qui ont le plus retenu l’attention. Mais JHB possédait des volumes moins ‘exotiques’, comme ce manuscrit de l’entrée de l’empereur Charles IV en France et à Paris en 1377, connu par la «copie de la librairie de Jean Hurault, sieur de Boistaillé, 1571» conservée à la Bibliothèque Méjanes.80

32 Il avait également des livres imprimés, dont je ne connais pour le moment qu’un très petit nombre. Le legs de Scaliger à l’Université de Leyde comportait, outre les précieux manuscrits déjà cités, des livres imprimés en langue orientale dont l’inventaire reste à faire. J’en connais deux, un exemplaire enluminé de la Bible hébraïque imprimée à Brescia par Soncino en 149481 et le Pentateuque de Bomberg de 1527.82 Le nom de Jean Hurault a été soigneusement masqué dans les deux cas. La collection Vossius, acquise en 1690, contenait 4000 imprimés. Il est possible que d’autres livres de JHB y soient, attendant également d’être retrouvés sur les rayons de Leyde.83

33 Outre le Pétrarque à l’origine de cet article et les deux imprimés hébraïques de Leyde, j’ai découvert encore deux incunables: le Théocrite d’Alde conservé à la Bibliothèque Municipale de Niort dans un recueil de pièces relié vers 1700,provenant de l’abbaye poitevine de Celles sur Belle;84 et le très bel exemplaire imprimé sur vélin et enluminé, aux armes peintes de la famille vénitienne Barbarigo, de la Naturalis historia de Pline, Venise, Jenson, 1472, magnifiquement relié au XVIIIe siècle, conservé à Vienne. L’ex- libris est le suivant «Ex bibliotheca Jo. Hurault Boistallerii, emi coron. 10 a Lodovico».

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85L’inscription de son ex-libris sur la page de titre est le plus sûr moyen pour un bibliophile de passer à la postérité, et d’autres découvertes auront certainement lieu. En attendant, le Pétrarque de Jean Paul Barbier-Mueller apparaît donc comme une exception, presque paradoxale. Ce volume est le seul actuellement connu que JHB a reçu en présent et qu’il n’a pas acheté. Alors qu’on a coutume d’attribuer à tort et à travers l’épithète de bibliophile à bien des possesseurs de livres dont le seul mérite est de les avoir reçus en cadeau, Jean Hurault de Boistaillé doit donc figurer au premier rang des amateurs de livres.

5. André Hurault de Maisse

34 J’en arrive à l’autre bibliophile de la famille, le frère cadet de JHB, André Hurault de Maisse (1539-1607 = AHM). Pas plus que son frère, il n’a trouvé d’historiographe, et sa passion pour les livres rares est restée encore plus discrète.

35 La Bibliothèque Mazarine conserve une collection de manuscrits grecs, petite mais importante en qualité. En 1998, je venais d’être nommée à la Bibliothèque Mazarine, quand Donald Jackson m’écrivit pour m’annoncer sa venue, annonçant qu’il recherchait les manuscrits grecs ayant appartenu à Pic de la Mirandole et au cardinal Grimani. Un simple contrôle dans le Catalogue général des manuscrits me montra que la Mazarine ne conservait à première vue qu’un seul manuscrit connu pour avoir appartenu au cardinal vénitien, qui n’était pas un manuscrit grec, mais un très célèbre manuscrit du IXe siècle contenant les Lettres du pape Léon le Grand.86 Le manuscrit a perdu sa reliure d’origine, probablement arrachée quand il est sorti clandestinement de la bibliothèque Grimani.87 En revanche ont été conservées les pièces liminaires dues aux auteurs du don de cet antique manuscrit au cardinal: Germano Belloni a écrit cinq distiques sur le feuillet de garde. Un autre Belloni, Antonio, le notaire humaniste d’Udine, secrétaire du cardinal Grimani,88 est l’auteur d une longue adresse écrite au recto du premier feuillet, célébrant la bibliothèque du cardinal. Cette page porte également différentes marques de provenance, la cote ancienne Grimani 1124, l’ex-libris du cardinal, «Liber Dominici Grimani Car.lis S. Marci», et un ex-dono du XVIIe siècle: «Nunc Institutionis Parisiensis Oratorii Domini Jesu Christi, Dono R. P. Andreae de Berziau, eiusdem Oratorii presbiteri, anno Domini MDCLXII» (fig. 4). Le manuscrit a donc été offert en 1662 par un oratorien nommé André de Berziau à la bibliothèque parisienne de l’Institution de l’Oratoire, un noviciat annexe de la maison créée par Bérulle, où il fut confisqué sous la Révolution et d’où il passa à la Mazarine.

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Fig. 4. – Saint-Léon le Grand, Epistolae, IXe siècle. Pièce liminaire d’Antonio Belloni, ex-libris du cardinal Grimani et ex-dono d’André de Berziau à l’intitution de l’Oratoire, 1662. Bibliothèque Mazarine, Ms 1645.

36 Or la moitié des manuscrits grecs de la Mazarine, une dizaine, ont été confisqués justement dans la bibliothèque de l’Institution de l’Oratoire. Comme les Lettres de saint Léon, ces manuscrits ont été modestement ettardivement reliés (au XVIIIe et au début du XIXe siècle). Ils ne portent aucune autre trace de circulation que l’ex-libris manuscrit de l’Institution dans laquelle ils ont été trouvés à la Révolution. Une seule exception, le manuscrit grec 4461, où l’on devine un ex-libris du cardinal Grimani, très rogné et difficile à lire (fig. 5), qui n’est signalé ni dans le Catalogue des manuscrits de la Bibliothèque Mazarine, ni dans le Catalogue des manuscrits grecs d’Henri Omont. C’est seulement dans la version longue de ce catalogue publiée dans les Mélanges Graux en 1884 que Henri Omont l’a relevé, omettant d’ailleurs de le signaler dans la présentation qu’il fait des manuscrits et de leur provenance en tête de son catalogue.89

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Fig. 5. – Michel Apostolis, Recueil de proverbes, manuscrit autographe, XVe. Provenance Pic de la Mirandole et cardinal Grimani. Bibliothèque Mazarine, Ms grec 4461.

37 Aussi, j’accueillis Donald Jackson en lui suggérant que les manuscrits grecs confisqués à l’Institution de l’Oratoire avaient sans doute la même provenanceBerziau que le manuscrit de saint Léon, et que c’était parmi eux qu’il fallait chercher les manuscrits Grimani. La connaissance qu’a Donald Jackson des inventaires Pic de la Mirandole et Grimani lui a permis d’identifier effectivement comme provenant de la bibliothèque du cardinal vénitien huit de nos manuscrits grecs, dont quatre ont appartenu à Pic,90 portant tous, sauf un, l’ex-libris de l’Institution de l’Oratoire. Les prémices de cette découverte et l’identification des quatre manuscrits Pic ont été publiées, avec l’accord de Jackson, à la fin de l’année 2000 dans l’article que Christian Förstel a accepté de consacrer à ma demande, et je l’en remercie, aux manuscrits grecs de la Mazarine.91

6. André de Berziau et l’Institution de l’Oratoire

38 En attendant la publication de l’étude plus complète de Donald Jackson, je voudrais ici m’attacher à ce qui reste mystérieux, le circuit par lequel ces monuments de la collection Grimani sont parvenus à l’Institution de l’Oratoire, et de là à la Mazarine. La congrégation de l’Oratoire fut, comme on sait, fondée en 1611 par Bérulle. La bibliothèque de la maison-mère, rue Saint-Honoré, prodigieusement enrichie par le legs d’Achille Harlay de Sancy, remarquable en manuscrits et imprimés orientaux,92 comptait près de 40.000 volumes à la Révolution93. Un établissement annexe fut rapidement créé, le Séminaire de l’Oratoire, installé en 1618 dans l’ancienne abbaye Saint-Magloire,94 dont la bibliothèque s enrichit également de précieux legs, dont ceux de La Poterie, l’ancien bibliothécaire de Mazarin, et de l’évêque Louis Fouquet, frère du surintendant. Elle comptait à la Révolution environ 15.000 volumes.95

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39 Les deux maisons ne suffisant plus à cet ordre en pleine expansion, un troisième établissement fut créé en 1650, l’Institution ou noviciat de l’Oratoire, grâce à la libéralité de Nicolas Pinette, trésorier de Gaston d’Orléans, assisté d’une pieuse personne, Françoise Chouberne, qui avait su mener la fille du duc d’Épernon jusqu’au Carmel Bientôt installée dans un bâtiment dû à l’architecte Daniel Gittard, l’Institution, monument à la gloire de l’Enfant Jésus (une sculpture de l enfant au maillot adoré par les anges figure sur la façade)96était destinée à former les prêtres de la congrégation. Mais elle offrait aussi une agréable retraite aux portes de Paris. La bibliothèque, moins importante que celles des deux maisons principales de l’Oratoire, mais «remarquable par l’excellent choix de ses ouvrages et ses précieux manuscrits», comptait 5.000 livres à la Révolution.97

40 Une étude de Servois98 a montré que le vrai fondateur de l’Institution, autant sinon plus que Pinette, était l’oratorien André de Berziau, curieusement absent des Mémoires pour servir à l’histoire de l’Oratoire de Louis Batterel,99 mais dont le père Léonard de Sainte- Catherine disait qu il avait «donné plus de 300.000 livres tournois à l’Institution sans vouloir paraître». André de Berziau (1620-1696) avait 32 ans lorsqu’il renonça aux agréments de la vie mondaine pour entrer à l’Oratoire. Économe de l’Institution, il y vécut jusqu’à sa mort en novembre 1696, contribuant financièrement à son développement dans des proportions considérables, qu’il s’ingénia si bien à garder secrètes que les historiens ont du mal à les comptabiliser. Cette discrétion faisait enrager Servois, qui vit longtemps en lui l’Arsène des Caractères de La Bruyère, 100 et regrettait de ne trouver aucun renseignement «sur la jeunesse de Berziau, son jansénisme, son rôle à l’hôtel de Lesdiguières [...] ses relations avec La Bruyère». En 1922, Servois publiait des extraits d’une notice sur Berziau, tirés d’un nécrologe inédit de l’Oratoire découvert par Léonce Lex, archiviste de Saône-et-Loire.101 Entré au noviciat de l’Oratoire établi à Saint-Magloire, Berziau le quitta pour s’installer, comme nous l’avons vu, dans la nouvelle Institution. Sa mauvaise santé, mais aussi son attachement au jansénisme, l’écartèrent des hauts emplois de la congrégation. Ses grandes qualités «outre la lumière de la piété, un très bon esprit, un jugement solide, un sens admirable, une sagesse et une discrétion extraordinaire» le firent choisir comme «directeur spirituel du prince de Conti et du jeune duc de Lesdiguières». Elles rendent en revanche peu probable son identification avec l’Arsène de La Bruyère, chez qui alternent périodes de pénitence et de dissipation.102 Le nécrologe est muet sur la bibliothèque de Berziau, à l’exception d’une anecdote surprenante, la vente au temps de la Fronde, au profit des pauvres, de son saint Augustin. Comme il est peu probable que la vente d’une édition imprimée ait pu permettre le soulagement des pauvres, il s’agissait forcément d’un manuscrit très précieux, qui reste à retrouver.

41 Je continuais les recherches et m’aperçus que la Mazarine conservait, outre les manuscrits grecs, plusieurs manuscrits et livres imprimés qui provenaient de l’Institution de l’Oratoire, portant un ex-libris d’André de Berziau ou recouverts d’une reliure du XVIIe siècle avec, répétés dans les entre-nerfs du dos, de gros trèfles correspondant aux armes de cette famille «d’azur à trois trèfles d’or» (fig. 6). Deux de ces documents attestent du passage de livres ayant appartenu à AHM dans la bibliothèque du Père de Berziau. Un manuscrit enluminé vénitien de la première moitié du XV siècle réunissant des œuvres de Sénèque, le Ms 3855 (fig. 7),103 porte un très bel ex- libris d’AHM (fig.8). Il a été relié au XVII e siècle aux trèfles Berziau. Une édition de Quinte-Curce, Bâle, Froben, 1545, porte l’ex-libris plus simple d’AHM et un ex-dono

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d’André de Berziau à l’Institution sous une forme abrégée (ses initiales A.B. à la fin de l’ex-libris de l’Institution; fig. 9).

Fig. 6. – Anthologa Graeca Planudea éd. J. Lascaris, Florence, 1494. Reliure aux tréfles de la famille Berziau. Bibliothèque Mazarine, Inc 775.

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Fig. 7. – Sénèque, Recueil de différentes œuvres, manuscrit vénitien de la première moitié du XVe siècle, prov. André Hurault de Hurault de Maisse-André de Berziau. Bibliothèque Mazarine, Ms 3855.

Fig. 8. – Ex-libris d’André Hurault de Maisse. Bibliothèque Mazarine, Ms 3855.

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Fig. 9. – Quinte-Curce, De Rebus Gestis Alexandri Magni, Bâle, 1545.

Ex-libris simple d’André Hurault de Maisse et ex-libris de l’Institution de l’Oratoire et d’André de Berziau (ses initiales A.B.). Bibliothèque Mazarine, 5 5 5 2, A 2 e ex.

42 Je me lançais donc à la recherche de précisions sur la connection Hurault-Berziau. Le père Batterel cite, à propos de l’édition de saint Léon procuréepar un autre oratorien, le savant père Quesnel, en 1675, le «manuscrit de ces lettres ancien de 900 ans, que nous conservons à la bibliothèque de l’Institution. Il nous vient du père de Berziau. Celui-ci l’avait eu de M. son père, président aux Enquêtes du parlement de Paris. André Hurault, son beau-frère (sic) l’avait acheté à Venise pendant qu’il y était ambassadeur pour le roi, et il avait appartenu au cardinal Dominique Griovani (sic)». Ce texte est une traduction, en partie fautive, de la longue introduction que Quesnel consacre au manuscrit donné par Berziau à l’Institution, dans lequel il avait trouvé 28 lettres inconnues de saint Léon.104 Cette introduction nous apprend ce qui devait être la tradition familiale chez les Berziau: AHM, beau-père (et non beau-frère) du père d’André de Berziau avait mené pendant son ambassade une politique systématique d’acquisition de livres choisis, imprimés et manuscrits, au premier rang desquels le manuscrit de saint Léon provenant du cardinal Grimani.

7. Catherine de Hellin et ses deux maris, Théodore de Berziau l’amateur d’estampes et André Hurault de Maisse l’amateur de manuscrits

43 AHM mena une carrière assez parallèle à celle de son aîné Jean. Sa pierre tombale105conservée dans l’église de Morigny, nécropole familiale des Hurault comme je l’ai déjà dit, donne un excellent résumé de sa carrière, sur laquelle je passe rapidement, ayant l’intention de revenir ailleurs plus précisément sur le personnage. Conseiller en Parlement en 1565,106 puis maître des requêtes en 1573,107 il se maria une première fois en 1578 avec Renée Boilesve, et partit comme ambassadeur à Venise remplacer Arnauld du Ferrier en 1581. AHM fut à deux reprises et longuement ambassadeur à Venise (de 1581 à 1588, puis de 1589 à 1596, où il défendit avec succès les intérêts de Henri IV).108 Il fut ensuite ambassadeur en Angleterre en 1597-1598. Seul a été édité le journal de son ambassade anglaise, célèbre par la description qu’il y fait de la reine Elisabeth alors âgée de 65 ans.109 En 1599, à la mort de Cheverny qui voulait lui obtenir les sceaux afin qu obligé envers lui, il eût soin de ses enfants,110 Bellièvre lui fut préféré comme chancelier. Mais les deux hommes gardèrent d’excellentes relations, et nous verrons qu’une alliance réunit plus tard les deux maisons.111

44 La mission en Gaule narbonnaise à laquelle fait allusion l’épitaphe est une délicate mission financière dans le Midi de la France, menée en mars 1599 avec le gendre de Bellièvre, Eustache de Refuge.112 La grande affaire fut le rappel des jésuites, pour lequel

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AHM fut chargé de traiter avec le père Maggio et le nonce.113 Il n’était pas d’une austérité absolue: en témoignent deux poèmes libres conservée dans les papiers des Dupuy,114 et une fille naturelle née en Italie.115

45 Il mourut en 1607, après une carrière brillamment menée sous la protection successive de deux chanceliers ses alliés, L’Hospital puis Cheverny.

46 Son intérêt pour les livres est resté inconnu, sauf pour les lecteurs de la préface du père Quesnel à son édition de saint Léon. Il est attesté par l’inscription qui avait déjà frappé Boivin, montrant les deux frères André et Jean collationnant «à quatre mains» à Venise en 1562 la transcription faite par le scribe Camillus Venetus d’un manuscrit Grimani: «Ex bibliotheca Di Antonii transcriptum et transcriptum recognaverunt Jo. et Andreas Huraultii fratres, anno 1562».116 En effet, chargé d’un message royal pour son frère, 117 André s’était rendu en Italie. Fin février 1562 (n. st.), Jean écrivait au grand-duc de Florence, lui recommandant son frère passant à Florence sur la route de Rome, qu’il avait chargé de chercher dans les librairies des livres rares, et il le suppliait de lui permettre d’accéder à «tante excellente e rare cose e antichità che sono nel suo stato». 118

47 Les deux frères semblent être restés très proches. Vers 1597, André, veuf et sans enfants légitimes, se remaria avec la nièce de l’épouse de Jean, Catherine de Hellin, d’une famille de parlementaires et d’ambassadeurs. Elle était veuve de Théodore Berziau, seigneur de Grabbe, mort en 1586. J’ai découvert l’inventaire après-décès de ce dernier, et je compte en donner ailleurs une édition complète car il nous montre dans son hôtel de la rue de Bussy, fait rarissime au XVIe siècle, la collection d’un amateur de dessins et de gravures resté jusqu’ici inconnu. L’orfèvre expert inventorie, après des pièces d’orfèvrerie aux armes (trois trèfles) des Berziau, une trentaine de planches de cuivre. Suit la prisée, effectuée par l’enlumineur Guillaume Richardière, des «pourtraictures», c’est-à-dire des recueils de dessins et de gravures, une cinquantaine, dont certains très luxueusement reliés en maroquin mosaïqué. On note: Un grand livre en maroquin de piesses raportees de plusieurs couleurs plein de pieces de portraiture en taille douce [...] prisé 13 ecus. Un livre relie en maroquin en volume carré et rempli d’un ovalle de cuyr jaspé plein de portraictures en taille douce au nombre de 2 cent 66 pièces [...] prisé 9 ecus. Ung petit livre couvert en veau rouge doré à grands coings plain de plusieurs pieces d’antrelacs et autres [...] prisé 2 ecus. Ung livre en long couvert de maroquin doré et une ovalle au mittan de maroquin jaspé plein de pieces et pourtraitures en taille douce au nombre de 3cents 53 pieces [...] prisé 12 ecus. Ung grand livre couzu en gros aiz de pappier [...] plain de pieces faictes à la main de plusieurs bons maistres au nombre de 150 pièces prisé 30 ecus. Trente plantes de fleurs et fruits faictz d’enluminures au naturel [...] prisé 7 ecus.

48 Suit un important inventaire des livres, qui commence par la bibliothèque juridique, assez courte, une vingtaine de volumes in-folio. La bibliothèque choisie (livres en grand papier ou reliés en maroquin) se trouve décrite dans une seconde armoire: je renvoie là aussi à l’édition complète, en soulignant que par son contenu (histoire, voyages, architecture, sciences naturelles, littérature en langue italienne) cette bibliothèque est très proche des bibliothèques raffinées des secrétaires du roi que j’ai analysées dans le numéro VII d’Italique.

49 AHM et Catherine de Hellin n’eurent pas d’enfants. Après la mort d’André, une série d’actes notariés du début de 1608 permet de comprendre qu’il y eut accord entre

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Catherine de Hellin et les héritiers naturels de son mari, ses neveux Hurault de L’Hospital et Hurault de Boistaillé, enfants de ses frères Robert et Jean, aux termes desquels elle conservait le domicile parisien de son mari, près des Enfants Rouges, et la seigneurie de Maisse.119Elle avait eu deux fils de son premier mariage avec Théodore Berziau, André et Théodore II (âgé de huit mois en décembre 1586), qui s’installèrent dans la succession d’André de Maisse. Le château de Maisse120 appartint dès lors aux Berziau, puis aux Refuge (Claude de Refuge, le petit-fils de Bellièvre, ayant épousé en 1643 Anne-Marie de Berziau, fille de Théodore II).121 Même chose pour l’abbaye de Morigny: Théodore II, conseiller au Parlement en 1609 puis président aux enquêtes le 7 mai 1620,122 avait reçu en provision l’abbaye de Morigny, succédant à Jean Hurault de Boistaillé, le fils de l’ambassadeur. Il se démit pour épouser Jeanne Lottin. Lui succéda à Morigny comme abbé commendataire son frère André de Berziau, oncle homonyme de notre orato-rien, devenu conseiller au Parlement en 1613, mort le 17 août 1642 et enterré à Maisse,123 auquel succèda Henri de Refuge.

50 Théodore II Berziau, président de Grave, «l’honneur du Parlement», mourut en 1623 «dans son hôtel de Maisse, proche les enfans Rouges»,124 laissant deux fils, Théodore III, tué en 1648 à la bataille de Lens sans avoir eu d’héritier, et André le futur oratorien. C’est donc à leur soeur Anne-Marie, épouse de Claude de Refuge, que passèrent ensuite les restes de la succession Hurault de Maisse.

51 Je n’ai pas encore trouvé l’inventaire de la bibliothèque d’AHM, ni les inventaires qui ont pu être dressés chez les Berziau et les Refuge, mais les ex-libris rencontrés à la Mazarine et les documents d’archives que j’ai cités sont suffisamment éloquents: c’est chez les Berziau, où elle a probablement rejoint la riche bibliothèque du premier époux de Catherine de Hellin, Théodore I Berziau, qu’est passée, au moins en partie,125 la bibliothèque d’AHM. Cette recherche n’en est qu’à ses débuts, mais je voudrais donner une liste des livres ayant appartenu à AHM que je connais, à la Mazarine et ailleurs. Cette liste provisoire comporte treize manuscrits grecs, dont plusieurs (les Ms 4453, 4456 et 4461) très importants, quatre avec la double provenance Pic-Grimani et quatre Grimani ‘simples’. La provenance AHM est assurée pour deux manuscrits italiens, les lettres de saint Léon dont il a déjà été beaucoup question dans cet article et un Sénèque enluminé à Venise au début du XVe siècle. Elle est plus que probable pour trois autres manuscrits enluminés d’origine italiennne, dont l’un des trésors de la Bibliothèque Mazarine, le célébrissime Bréviaire d’Oderisius, chef d’œuvre de la calligraphie bénéventaine exécuté entre 1099 et 1105, «le plus beau livre, peut-être, qu’ait produit le scriptorium du Mont-Cassin».126

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Fig. 10. – Bréviaire du Mont-Cassin, manuscrit enluminé vers 1100. Bibliothèque Mazarine, Ms 364.

52 Deux incunables italiens ayant appartenu à Berziau également conservés à la Mazarine viennent très probablement aussi d’AHM. Cette provenance est attestée enfin pour quelques éditions du XVIe siècle ayant reçu l’ex-libris de l’ambassadeur, deux à la Mazarine, deux à la Réserve de la BNF (dont un Tacite largement annoté par l’humaniste florentin Giannotti), et la dernière actuellement en circulation.

53 Il est probable que d’autres manuscrits ou éditions anciennes confisqués sous la Révolution à l’Institution de l’Oratoire, au Séminaire Saint-Magloire ou à l’Oratoire proviennent d’AHM (à la Mazarine les Ms 1564, 1526, 1599, etc). La poursuite de ce travail et l’exploitation des inventaires anciens des différentes bibliothèques de l’Oratoire devraient permettre d’autres découvertes.127 Il reste aussi à tenter de retrouver les albums du premier époux de Catherine de Hellin, Théodore Berziau, l’amateur d’estampes et de dessins que cette première recherche a fait surgir du néant. En attendant, le frère de Jean Hurault de Boistaillé est sorti de l’ombre. Il mérite lui aussi de figurer parmi les amateurs éclairés de son temps.

54 Je signalerai en conclusion deux volumes Hurault conservés à la Mazarine, dont j’ignore à quel membre de la famille ils ont appartenu:

ANNEXES

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Livres ayant appartenu à André Hurault de Maisse

1. Manuscrits grecs

Bibliothèque Mazarine; Ms 445 3, Synesii Cyrenei Opuscula. «Témoin capital de la renaissance du XIVe siècle [...] qui contient les œuvres du philosophe néo-platonicien Synesius (v. 370-412), copié par le grand philologue byzantin Demetrios Triclinios (1280-1340)»,128 ce manuscrit a successivement appartenu à Pic de la Mirandole et à Grimani.129 Il ne porte pas l’ex-libris d’AHM, mais dans son introduction à son édition de saint Léon, le P. Quesnel confirme que parmi les achats vénitiens de l’ambassadeur figurait un manuscrit des Opuscula Graeca de Synesius de Cyrène, qui fut utilisé par Frédéric Morel pour son édition, puis donné par Berziau à 1’institution de 1’Oratoire.130

Bibliothèque Mazarine; Ms 4454, Collectif) Epistolarum, manuscrit du XVIe siècle. Confisqué à l’Institution de l’Oratoire. Bibliothèque Mazarine; Ms 4456, Aristotelis De anima libri III. Manuscrit copié à Mistra «en 1450, du vivant de Pléthon, le plus grand intellectuel grec de son époque, professeur de Bessarion, par Charytonyme Hermonyme, son élève»,1 provenant également de Pic de la Mirandole et de Grimani2. Confisqué à 1’institution de 1’Oratoire. A. Diller, Three Greek scribes working for Bessarion, in «Italia medioevale e umanistica», 1967, pp. 403-10.

Bibliothèque Mazarine; Ms 4457, Aphtonii sophistae progymnasmata, manuscrit du XVe siècle provenant de Grimani.3 Confisqué à l’Institution de l’Oratoire. Bibliothèque Mazarine; Ms 445 8, Plutarchi Chaeronensis opuscula moralia, manuscrit du XIVe siècle provenant de Grimani.4 Pas de provenance, mais probablement confisqué à l’Institution de l’Oratoire.

Bibliothèque Mazarine; Ms 4459, Epicteti manuale, manuscrit du XVIe siècle. Confisqué à l’Institution de l’Oratoire. Bibliothèque Mazarine; Ms 4460, Simplicii commentarius in Epicteti manuale. Le manuscrit provient de Pic de la Mirandole et de Grimani.5 Confisqué à l’Institution de l’Oratoire. Bibliothèque Mazarine; Ms 4461, Michaelis Apostolii proverbiorum centuriae XXI, très important manuscrit autographe de Michel Apostolis, renfermant son «oeuvre maîtresse, un recueil de proverbes grecs»,6 provenant de Pic de la Mirandole et de Grimani.7 Confisqué à 1’institution de l’Oratoire. Bibliothèque Mazarine; Ms 4462, Procopii Caesariensis De bello persico, manuscrit provenant de Grimani.8 Confisqué à 1’institution de 1’Oratoire.

Bibliothèque Mazarine; Ms 4463, Athenagorae Atheniensis apologia, manuscrit du XVIe siècle. Confisqué à l’Institution de l’Oratoire.

Bibliothèque Mazarine; Ms 4464, Philonis Judaei vita Moysis, manuscrit du XIVe siècle provenant de Pic de la Mirandole et de Grimani.9 Confisqué à l’Institution de l’Oratoire. Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 8409, Evangelia quatuor, cum Eusebii canonibus, manuscrit du XIIe siècle, ex-dono «Oratorii Sammagloriani, ex dono patris de Berziau, O. D. J. 1661».

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Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 8410, Acta et Epistolae Apostolorum, manuscrit du XIIe siècle, ex-dono «Oratorii Sammagloriani, ex dono patris de Berziau, P. O. D. J.», et ex-lïbris du séminaire de saint-Magloire daté de 1661.

British Library, Ms Royal. 16 C XXTV, Athénée, Deipnosophistae, manuscrit copié par Zacharias Calliergès sur le manuscrit Marcianus 447, prov. Casaubon. Le manuscrit ne porte pas l’ex-libris d’André Hurault, mais les indications que donne Casaubon dans ses Animadversionum in Athenaei Dipnosophistas libri XV, Lyon, 1600, «Ad lectorem»: «item aliud cujus nobis vir amplissimus Régi ab intimis consilii Andréas Huraldus Messaeus copiam fecit». Voir W G. Arnott, A note on the two manuscripts of Athenaeus’ Dipnosophistae in the British Muséum, in «Scriptorium», 1964, pp. 269-70.

2. Manuscrits latins, tous d origine italienne

Bibliothèque Mazarine; Ms 1645, Recueil des lettres du pape saint Léon, manuscrit frioulan du IXe siècle. Provenance Antonio et Germano Belloni, cardinal Grimani, ex-dono d’André de Berziau à l’Institution de l’Oratoire, 1662 (provenance Hurault attestée par Quesnel). Bibliothèque Mazarine; Ms 364, Bréviaire du Mont-Cassin, manuscrit enluminé de la fin du XIe siècle, provenant de l’Institution de l’Oratoire (pas de mention, mais provenance attestée par Mabillon et Dom Martène). Bibliothèque Mazarine; Ms 3855, Sénèque, Recueil de différentes œuvres, manuscrit d’origine vénitienne de la première moitié du XVe siècle, lettres ornées, page de titre enluminée, armoiries italiennes postérieures non identifiées «de gueules au chevron accompagné de trois fioles le tout d’or».10 Ex-libris d’AHM «ex libris A. Huraultii, regii apud venetos legati, anno Salut. 1583». Reliure aux trèfles des Berziau, non signalée par le CGM. Confisqué à l’Institution de l’Oratoire.

Bibliothèque Mazarine; Ms 15 27, Claudii Ptolemei Cosmographia, traduction de Jacopo Angelo de Florence, manuscrit enluminé à Venise ou à Padoue au milieu ou dans la seconde moitié du XVe siècle, lettres ornées. Reliure aux trèfles des Berziau non signalée par le CGM. Confisqué à l’Institution de l’Oratoire.

Bibliothèque Mazarine; Ms 3854, Sénèque, Epistole ad Eucilium, manuscrit d’origine lombarde, sans doute milanaise, de la première moitié du XVe siècle, lettres ornées, armoiries italiennes non identifiées «d’argent à un chevron d’azur chargé de cinq étoiles d’or, accompagné d’un arbre arraché de sinople, au chef d’or chargé d’une aigle éployée de sable», timbrées d’une crosse et accompagnées d’une mitre et de deux clefs en sautoir.11 Reliure aux trèfles des Berziau non signalée par le CGM et mention de reliure le 20 février 1644 signée Berziau. Confisqué à l’Institution de l’Oratoire.

3. Livres imprimés

Bibliothèque Mazarine; lnc 775, Anthologia Graeca Planudea, éd. Janus Lascaris, Florence, Laurentius (Francisci) de Alopa, 11 Août 1494, in-4o (Catalogues régionaux des incunables des bibliothèques publiques de France. 6. Bibliothèque Mazarine, [réd.] par Denise Hillard, Bordeaux, Paris, 1989, n°148). Reliure au trèfle et ex-libris «A. de Berziau» sur feuillet de garde. Ex libris Institution de l’Oratoire.

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Bibliothèque Mazarine; lnc D*1181, Christophorus Landinus, Disputationes camaldulenses, [Venezia], [Nicolo Brenta], circa 1507], in-fo (Hillard 1190) relié avec P. Giovio, Elogia veris clarorum vivorum imaginibus apposita, Venetiis, apud Michaelem Tramezinum, 1546, in-P. Reliure parchemin rigide, ex-libris commun Institution et Berziau.

Bibliothèque Mazarine; 5552 A 2e ex, Quinte-Curce, De Rebus Gestis Alexandri Magni, éd. Christophorus Bruno, Basileae, in officina Frobeniana, 1545, in-P. Reliure parchemin souple, ex-libris simple «Ex libris A. Hurault» et ex-libris commun Institution et Berziau.

Bibliothèque Mazarine; 10624 B, Publio Fausto Andrelini, Amorum libri quattuor, Venetiis, per Bernardinum Venetum de Vitalibus, mensis Ianua-rii 1501, in-40. Reliure parchemin souple, ex-libris «A.H.De Maisse. Venetiis, 15 84» et ex-libris de l’Institution.12 Bibliothèque Mazarine; A 10537, Volumen statutorum, legum, ac iurium d. Venetorum [...] summo studio, labore, ac diligentia. d. lac. Nouello iur. doct. nuperin lucem data, Venetiis, [al segno della Fontana], 1586, in-4o. Reliure parchemin souple, relié avec une autre pièce que je n’ai pas relevée. Pas d’ex-libris AHM (mais l’édition date de son séjour à Venise) et ex-libris commun Institution-Berziau. BNF; Rés m. J 2, Plutarchi Chaeronei Moralia opuscula, multis mendarum milibus [sic] expurgata, Basileae, per H. Frobenium et N. Episcopium, 1542, in-o. Exemplaire très largement annoté par l’humaniste florentin Donato Giannotti (1492-1573). Provenance D. Giannotti -Jean? Hurault (ex-libris) - André Hurault de Maisse (ex-libris sur la page de titre) -Thiroux de Gerseuil.13 BNF; Rés J 301, Tacite, Annalium... sive Historiae Augustae... libri sedecim qui supersunt, éd. Beatus Rhenanus, Basileae, Froben, 1544. Reliure en parchemin souple, exemplaire annoté, ex-libris «Ex bibliothecae A. Hurault». Ximenes Rare Book, Varro, Marcus Terentius, M. Terentii Varronis pars librorum quattuor et viginti de lingua Latina, Lyon, apud haeredes Seb. Gryphii, 1563. Relié avec A. Turnèbe, Commentarii et emendationes in libros M. Varronis de lingua Latina, Paris, A. Wechel, 1566, in-8o. Reliure veau XVIIe siècle, ex-libris d’André de Maisse sur les deux pages de titre («Andr. Huraultii» sur le premier, «Hurault» sur le second). Bibliothèque Mazarine; 30387, Vitruvii de architectura libri decem, [Lyon: Guillaume Huyon pour les héritiers de Balthazard Gabiano], 1523, in-8o (Baudrier, VII, 167 Gabiano; Fowler no 397 Huyon). C’est sans doute à un oncle de nos deux ambassadeurs qu’a appartenu le petit Vitruve lyonnais de 1523, premier traité illustré sur l’architecture imprimé en France, relié en veau aux soleils des Hurault, avec l’ex-libris simple «J? Hurault». Il appartient au fonds primitif de la Bibliothèque Mazarine, soit provenant de Mazarine, soit entré à la Mazarine en 1668 à la suite de l’échange avec la Bibliothèque royale. Bibliothèque Mazarine; Rés A 14225, St Basile, De Vita ac miraculis D. Theclae, Antverpiae, ex off. Plantiniana, apud J. Moretum, 1608, in-4o. Reliure en veau exécutée vers 1630, encadrement à semé de flammes, chiffre «H C» et armes Hurault, prov. Séminaire des Missions étrangères.

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NOTES

1. A. R. A. Hobson et P. Culot, Italian and French 16th-century bookbindings, Bruxelles, 1991, no 16, p. 47. 2. Voir les notices consacrées à ce volume par P. Allegretti et J. Balsamo dans le catalogue de l’exposition La Renaissance italienne. Peintres et poètes dans les collections genevoises, Genève, 2006, pp. 67-71, et J. Balsamo, De Dante à Chiabrera. Poètes italiens de la Renaissance rassemblés par Jean Paul Barbier Mueller, Genève, 2007, no 162, pp. 300-32. 3. J. Irigoin, Les ambassadeurs à Venise et le commerce des manuscrits grecs dans les années 1540-1550, dans Venezia, centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI), aspetti e problemi. Atti del secondo Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana, Florence, 1977, t. II, pp. 399-415. A. R. A. Hobson, Humanists and bookbinders, the origins and diffusion of the humanistic bookbinding, 1459-1559, Cambridge, 1989. C. Förstel, Les manuscrits grecs dans les collections royales sous François Ier, in «Revue française d’histoire du livre», 98-99 (1998), pp. 71-88. M. P. Laffitte et F. Le Bars, Reliures royales de la Renaissance, la Librairie de Fontainebleau, 1544-1570, Paris, Bibliothèque nationale de France, 1999. Voir aussi, pour l’amateur espagnol Mendoza, A. R. A. Hobson, Renaissance book collecting, Jean Grolier and Diego Hurtado de Mendoza, Cambridge, 1999. 4. L. Delisle, Le Cabinet des manuscrits à la Bibliothèque impériale, Paris, 1868, p. 213 et seq. Voir aussi la courte notice de H. Omont, Inventaire sommaire des manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationale, Paris, 1886, p. XIX. 5. Jean Boivin, cité par Delisle, Le Cabinet cit., confond divers membres de la famille, comme nous le verrons plus loin. 6. Y. Durand, Philippe Hurault de Cheverny, chancelier de France (1528-1599), dans Le Conseil du roi, éd. R. Mousnier, 1970, pp. 69-86. Voir aussi A. Lapeyre et R. Scheurer, Les notaires et secrétaires du roi sous les règnes de Louis XI, Charles VIII et Louis XII, Paris, 1978, p. 166 et seq. Et le Dictionnaire de biographie française, t. 18, 1989, où la branche Boistaillé-Belesbat fait l’objet d’une brève notice, pp. 58-59. H. de Vibraye, Histoire de la Maison Hurault, Blois, 1928, et deuxième édition corrigée, Paris, 1972. 7. JOHANNES DE BASSOLIS, Œuvres, Paris, François Regnault et Jehan Frellon, 1516-1517, in-fo, 4 tomes en deux volumes. B. Moreau, Inventaire chronologique des éditions parisiennes du XVIe siècle d’après les manuscrits de Philippe Renouard, t. 2, 1977, 1516,n° 1264 et 1517, no 1532. 8. P. Renouard, Bibliographie des impressions et des oeuvres de Josse Badius Ascensius, Paris, 1908, pp. 47-54. R. Mortimer, Harvard College Library Department of Printing and Graphic Arts catalogue of books and manuscripts I. French 16th century books, Cambridge (Mass.), 1964, no s. 511 et 522. R. Brun, Le livre français illustré de la Renaissance, Paris, 1969, p. 44, signale la possible intervention de Finé dans ce titre. A. F. Johnson, Oronce Fine as an illustrator of books, in «Gutenberg Jahrbuch», 1926, pp. 108-109 et R. Brun, Maquettes d’éditions d’Oronce Finé, dans Studia bibliographica in honorem Herman de la Fontaine Verwey, Amsterdam, 1966, ne parlent pas de l’édition de Bassolis. 9. E. Maugis, Histoire du Parlement de Paris de l’avènement des rois Valois à la mort d’Henri IV, Paris, 1913, t. 1, p. 164, année 1522 et M. Popoff, Prosopographie des gens du Parlement de Paris, Saint- Nazaire-le-Désert, 1996, p. 619 et seq. 10. Dom BASILE FLEUREAU, Les Antiquitez de la ville, et du Duché d’Estampes avec l’histoire de l’abbaye de Morigny, Paris, 1683 (reprint 1997); E. Menault, Essais historiques sur les villages de la Beauce. Morigny (village monacal), son abbaye, sa chronique et son cartulaire, Paris, 1867; L. Gui-bourgé, L’abbaye de Morigny, dans Bulletin de la société historique et archéologique de Corbeil, d’Étampes et du Hurepoix, 1963, pp. 77-89; R. de Saint-Périer, L’écu des Hurault à Morigny, dans Bulletin des Amis d’Étampes et de sa région, 7 (janvier 1951), pp. 123-25. Sur les acquisitions des familles parlementaires dans la région et notamment celles des Hurault, voir J. Jacquart, La crise rurale en Île de France, 1550-1670, Paris, 1974, p. 74, 228, 245-46.

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11. Le château de Bélesbat (commune de Boutigny, Essonne) est aujourd’hui un hôtel qui s’attache à faire revivre les fastes du domaine, notamment la ‘Fête de Bélesbat’ qui y fut donnée par Voltaire en 1725. 12. A. Leroux de Lincy, Recherches sur Jean Grolier, Paris, 1866, p. 13. 13. 1552, 11 avril, lettre de Louis de Lorraine, évêque d’Albi, à Antoine Duprat, lui demandant de remettre à M. de Boistaillé, auquel ils ont donné charge de le solliciter, une copie d’un accord sur les réparations à faire en l’évêché d’Albi (D. Cuisat, Lettres du cardinal Charles de Lorraine, Genève, 1998, no 131, p. 157). Voir aussi un acte signalé au fichier du Minutier central, une procuration du 8 avril 1552 du cardinal de Lorraine à Nicolas, Sr de Boistaillé et de Bélesbat. 14. Sur Robert, voir C. Trani, Les Magistrats du Grand Conseil au 16e siècle, 1547-1610, Paris, Fédération des sociétés historiques et archéologiques de Paris et de l’Île de France, 1991, p. 156 et M. Etchechoury, Les maîtres des requêtes de l’Hôtel du roi sous les derniers Valois, 1553-1589, Paris, 1991, no 69, p. 231. 15. Les Hurault de L’Hospital sont les seuls membres de la branche Hurault de Boistaillé à faire l’objet de notices dans le Dictionnaire de biographie française, article Hurault no s. 20 à 23, pp. 70-71. 16. Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit., passim et notices 71 pour Jean et 74 pour André. 17. Les sources classiques divergent même de dix ans sur la date de sa mort. La généalogie ‘officielle’ de la famille Hurault, publiée en 1636 (Les Mémoires d’Estat de messire Philippes Hurault, comte de Chiverny, chancelier de France [...] ensemble la généalogie de la maison des Hurauts, Paris, 1636) et à sa suite Fleury-Vindry (Les ambassadeurs français permanents au XVIe siècle, Paris, 1903, p. 52) le fait mourir en l’an 1582, «allant ambassadeur en Angleterre pour le roi Henri III». Cette erreur est déjà corrigée par Maugis, Histoire du Parlement cit., qui donne la date exacte, 1572, mais se trompe en le faisant apparaître sous deux noms différents, Jean II (p. 207) et Jean III (p. 219). Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit., notice 71, p. 233, le donne comme mort en 1571 (au lieu de 1572), sa veuve mourant en avril 1583. Le Ms 4917 de la Bibliothèque l’Arsenal, une généalogie manuscrite familiale du XVIIe siècle et l’édition originale de H. de Vibraye, Histoire de la Maison Hurault cit., ne donnent aucune date pour sa mort. C’est la bonne date, 1572, qui est donnée dans l’édition corrigée de 1972. 18. Aucun renseignement dans B. de Xivrey, Recherches historiques sur l’abbaye du Breuil-Benoît, Paris, 1847, ni dans Abbaye du Breuil-Benoît (Marcilly-sur-Eure). Collection des monographies de l’année des abbayes normandes, Rouen, CRDP, 1979, qui signale l’abbatiat de son cousin Denis Hurault, avec une reproduction de la chasse-reliquaire de saint Eutrope aux armes des Hurault. 19. Menault, Essais historiques sur les villages de la Beauce cit., pp. 160-63. 20. Cuisat, Lettres du cardinal Charles de Lorraine cit., no. 421 et 422, 30 décembre 1557, p. 297, et lettre du 10 février 1558 à François de Noailles, évêque de Dax: «Il a fait grand plaisir au cardinal de si bien adresser et instruire M. du Breuil [...] en considération de ce qu’il est à moi», no 448, p. 307. 21. Lettre du cardinal de Tournon à Jean de La Vigne, 1558, 15 janvier, datée de Venise, et le post- scriptum daté du 20 janvier: M. François éd., Correspondance du cardinal François de Tournon 1521-1562, Paris, 1946, lettre no 562, p. 346. 22. Sur cette mission, voir essentiellement E. Charrière, Négociations de la France dans le Levant (1515-1589), T. II, Paris, 1850. 23. Lettre de Noailles à Jean de La Vigne, ambassadeur à Constantinople, Venise 1558, 1er février: Charrière, Négociations de la France cit., p. 431. 24. H. Joly, La Corse française au XVIe siècle: la première occupation (1553-1559), Lyon, 1942. 25. Lettre de la Vigne à Henri II, 1558, 27 mars: Charrière, Négociations de la France cit., p. 455. 26. Lettre du 14 avril 1558: «Sire, le G. S., après vous avoir envoyé Mr de Boistaillé, estant de retour en cette ville, a si diligemment fait solliciter la sortie de son armée que aujourd’huy, contre l’espérance de tout le monde, elle part de ce port pour s’en aller droit à Boniface en Corse», Charrière, Négociations de la France cit., p. 457.

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27. Charrière, Négociations de la France cit., pp. 508-23. 28. Lettres closes, St. Germain 1559, 29 juillet, enjoignant au parlement de Paris de tenir pour excusé «Me Hurault de Boistaillé, que le roy envoie pour affaires urgentes vers la seigneurie de Gênes»: M.-T. de Martel, éd., Catalogue des actes de François II, Paris, 1991, n° 28, p. 8. Voir aussi Joly, La Corse française cit., p. 185 et seq. 29. A. R. A. Hobson, Apollo and Pegasus, an enquiry into the formation and dispersal of a Renaissance library, Amsterdam, 1975, p. 59. Pendant cette mission à Gênes, JHB semble s’être lié avec le génois Giuseppe Albera, dont le nom figure dans la dédicace du commentaire de Pétrarque par Dolce comme témoin des mérites du jeune diplomate: «délie quali tutte cose ne fa fede in générale la publica fama, e in particolare tra molti che ne ragionano pienamente, è il Magnifico S. Gioseppe Albera, gentilhuomo Genovese». 30. Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 4536 à 4538. 31. Charrière, Négociations de la France cit., p. XXIX. 32. Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 4536, fo 92-93. 33. P. Paschini, Venezia e l’Inquisizione romana da Giulio III a Pio IV, Padoue, 1959, p. 135, cité par Alain Talion, La France et le concile de Trente, Rome, 1997, p. 618. Lors de son procès par l’ en 1568, Endimio Calandra reconnaît que JHB lui a proposé de venir s’abriter en France, voir S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l’inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Citta del Vaticano, 1991, p. 256 et 277, n. 100. 34. H. A. de La Ferrière-Percy éd., Lettres de Catherine de Médicis, I (1533-1563), Paris, 1880, p. 444. 35. E. Cabié, Ambassade en Espagne de Jean Ebrard, seigneur de Saint-Sulpice, Albi, 1903, pp. 278-79. 36. Cabié, Ambassade en Espagne cit., pp. 311-12, lettre de Saint-Sulpice à JHB, 1564, 17 octobre: «Quant à ce que vous désirez que je vous succède en cette charge, je la connais telle que certainement elle outrepasse ma force et capacité [...] Je n’ai pas envie de plus voyager». 37. Lettre à Montmorency, 1565, 21 janvier, Lettres de Catherine de Médicis cit., pp. 252-53. 38. Renseignement tiré de l’inventaire après-décès de cette dernière. 39. Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit., pp. 289-90. 40. Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit., pp. 148-51 et p. 282. 41. Instruction pour le fait de mariage adressée par Charles IX à son ambassadeur en Angleterre, Blois, 25 avril 1572, publiée dans Supplément à la correspondance diplomatique de Bertrand de Salignac de la Mothe Fenelon, t. VII, Paris, 1840, pp. 289-94. 42. Je remercie Monsieur le curé de Morigny pour son accueil. 43. Talion, La France et le concile de Trente cit., chapitre I: Les structures de la vie diplomatique au temps du Concile; D. L. Jensen, French diplomacy and the Wars of religion, in «The Sixteenth century journal», t. 5 (1974), pp. 23-46. 44. D. F. Jackson, The Greek manuscripts of Jean Hurault de Boistaillé, in «Studi Italiani di Filologia Classica», 2004, pp. 209-52. 45. Bibliothèque de Berne, Ms 360, éd. G. G. Mueller, Analecta bernensia, I, 1839 et Serapeion, 19 (1858), p. 161. 46. M. P. Laffitte, Les manuscrits chez les amateurs, fin XVI e-fin XVIIe siècle, dans Mazarin, les Lettres et les arts. Actes du colloque tenu en décembre 2002, éd. I. de Conihout et P. Michel, Paris, 2006, pp. 326-37, notamment pp. 328-30. 47. Voir G. Vajda, Catalogue des manuscrits arabes [...], 2, Paris, Bibliothèque Nationale, 1978, p. XIII, pour les Ms arabes 108 et 202 et F. Déroche, Catalogue des manuscrits arabes, Manuscrits musulmans, Les manuscrits du Coran, t. II, Paris, 1985, pour le Ms arabe 384, p. 53 n° 34 et pl. XVII. Pour les manuscrits hébreux, voir M. Garel, D’une main forte, manuscrits hébreux des collections françaises (Exposition, Bibliothèque nationale), Paris, 1991, n° 103-104 (avec reproduction de l’ex-libris de JHB) et no 128. 48. Voir la reproduction d’une de ces reliures dans l’article de Laffitte, Les manuscrits chez les amateurs cit.

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49. H. Omont, Catalogue des manuscrits grecs des départements, Paris, 1886, pp. 44-45. Cote Rigault DXXXVII, pas de cote Dupuy. 50. A. Grafton, Joseph Scaliger, a study in the history of classical scholarship, Oxford, 1983-1993, 2 vol. 51. H. J. Dejonge, The Latin testament of Joseph Scaliger, 1607, in «Lias», 1975, p. 249. La version latine du testament est plus complète que la française, qui ne parle pas des livres non orientaux. Voir le Catalogus bibliothecae publicae Lugduno-Batavae, Leyde, 1640, «Catalogus librorum quos bibliothecae Josephus Scaliger legavit», pp. 159-72. 52. M. Steinschneider, Catalogus codicum hebraeorum bibliothecae academiae Lugduno-Batavae, Leyde, 1858; Bibliotheca Universitatis Leidensis, codices manuscripti II: Codices scaligerani (praeter orientales), Leyde, 1910; A. Van der Heide, Hebrew manuscripts of Leiden University Library, Leyde, 1977. 53. M. Lowry, Two great venetian libraries in the age of Aldus Manutius, in «Bulletin of the John Rylands Library», 57 (1974), no 1, pp. 128-66. Sur la bibliothèque Grimani, voir Th. Freudenberger, Die Bibliothek des Kardinals Domenico Grimani, in «Historisches Jahrbuch», 56 (1936), pp. 15-45; G. Mercati, Codià latini Pico Grimani Pio e di altra biblioteca ignota del secolo XVI, Città del Vaticano, 1938; G. Tamani, I Libri ebraci del cardinal Domenico Grimani, in Annali di Ca’ Foscari, 26 (1995), pp. 5-52. 54. A. Diller, H.D. Saffrey, L. G Westerink, Bibliotheca graeca manuscripta Cardinalis Dominià Grimani (1461-1523), Venise, Ed. della Laguna (Biblioteca Nationale Marciana, Collana di Studi, 1), 2004. 55. BNF, Ms Grec *128, *140, *162, *209, *1771, 1808, *1896, *1902, *1920, 2403, *2481, 2835, 2978, 3002, 3005, *3011, 3015, * Suppl. grec 65, Leyde Voss Q 57. Les manuscrits provenant de Pic sont précédés d’un astérisque. 56. Van der Heide, Hebrew manuscripts cit., p. 63. Les deux manuscrits portent l’ex-libris du cardinal Grimani. 57. Renseignements tirés de l’inventaire après décès de la veuve, 30 avril 1583, Arch. Nat., MC, ét/ XXI-52. 58. Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit. 59. Maugis, Histoire du Parlement cit., p. 264, le nomme Jean V et se trompe en le donnant comme le frère de son oncle André Hurault de Maisse. Il a peut-être été maître des requêtes en 1586, voir Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit, n° 76, p. 235, qui donne les références de son inventaire après décès. 60. François, né en 1572, épouse Isabelle de la Tranchée dont il laissera 3 filles, voir Vibraye, Histoire de la Maison Hurault cit., p. 129. 61. Anne, née en 1567, morte en 1633, épouse Paul de Cugnac dont postérité. 62. Inventaire après décès de Jean de Boistaillé, 6 août 1631, Arch. Nat., MC, ét/LI-215, inventaire des papiers, pièce 1. 63. Les huit Ms hébreux JHB figurent tous dans l’inventaire de Scaliger, probablement antérieur à son départ de France en 1593, conservé dans les papiers des Dupuy (Dupuy 395, fo178-179). Voir Van der Heide, Hebrew manuscripts cit., pp. 10-11 et 20-21. 64. Lambin remercie JHB de l’aide qu’il lui a apportée pour son édition de Cornélius Nepos de 1569. Préface à l’édition, f° aaaa3:. «tamquam formam rudem [...] vidissent Erricus Mem-mius Malassiseus et Io. Huraltus Boëtallerius, supplicum libellorum in regia Magistri [...] et Cl. Puteanus jurisconsultus». 65. «J’ay veu une belle bible hébraïque avec la Massora a Monsieur le chancelier de Chiverny [...] c’estoit une belle bibliothèque, j’ay veu tous les livres», Scaliger, BNF, Fr 2388, p. 311 et Scaligerana, Cologne, 1695, p. 60. 66. Lettre de Scaliger, 1601: «Je suis pouvre de tout, mesmement en livres», P. Tamizey de Larroque éd., Lettres françaises inédites de Joseph Scaliger, Agen, 1879, p. 334. 67. A. Magen, Documents sur Jules-Cesar Scaliger et sa famille, Agen, 1873, p. 78. 68. «Nobilissimo viro Cornelio Mylo, huius academiae curatori, item Heinsio, atque Baudio potestatem facio, quos velint libros de meis Graecis et latinis eligere, ita ut post Mylium, Heinsius, post Heinsium Baudius sequatur».

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69. Heinsius semble avoir été particulièrement gourmand, puisqu’on lui connaît 200 livres annotés par Scaliger, voir F. F. Blok, Nicolas Heinsius in dienst van Christina van Zweden, Delft, 1949, p. 125, cité par De Jonge, The Latin testament cit. 70. Le Catalogue de vente le plus intéressant, celui de Kiel, très annoté, qui indique les noms des acquéreurs, a été détruit. On en possède heureusement une reproduction, commentée par H. J. De Jonge, The auction catalogue of the library of J. J. Scaliger, afacsimile édition with an introduction, Utrecht, 1977. 71. L. Jarry, Pierre Daniel, avocat au parlement de Paris et les érudits de son temps d’après les documents inédits de la bibliothèque de Berne, Orléans, 1876, notamment p. 409: «Daniel semble vivre avec les de Mesmes, les Hurault et les L’Hospital sur un certain pied d’intimité». Voir à la Bibliothèque de Berne le Ms 141, f° 18, 19, 190, 214, 214a. Mon collègue M. Martin Germann, conservateur de cette bibliothèque, m’a fait très obligeamment parvenir le texte d’une lettre de Jacques Cappel, sieur duTilloy (1529-1586), adressée en 1571 à JHB, relative à divers projets de lecture et d’écriture (Berne, Burgerbibliothek, Ms 141, f° 151). 72. H. Omont, Catalogue des manuscrits grecs des bibliothèques de Suisse, Leipzig, 1886 (Extrait de Centralblattfür Bibliothekwesen, 3, 1886, pp. 385-453), pp. 423-24, Ms Grec 547, Hymni et Preces, 101 fo, 208x146 mm, «reliure italienne gaufrée» et Ms Grec 360, Catalogus codicum manuscriptorum graecorum bibl HuraltU Boistallerii, XVIe s, 12 fo, 240x180 mm., rel. parchemin. Patrick Andrist, qui prépare le catalogue des manuscrits grecs de Berne à paraître en 2007, m’indique qu’il a été possible d’identifier d’autres manuscrits grecs provenant de JHB à Berne, et me précise que le fils de JHB, Jean, était en relation épistolaires avec Daniel et l’appelait son professeur. 73. Bibliothèque Vaticane, Reg. Grec 156, («ex bibliotheca Jo. Huraultii Boistallerii», cf Scriptorium 1964, n° 18, p. 169 et 261) et Reg. Grec 104, acq. par Heinsius pour la reine Christine. Voir Jackson, The Greek manuscripts cit., pp. 241-42, et H. Stevenson, Codices manuscriptigraeci Reginae Svecorum, Rome, 1888. 74. K. A. Meyier, Codices vossiani latini, Leyde, 3 vol., 1973-1977, t. I, p. XI. Voir F. F. Blok, Contributions to the history of Isaac Vossius’s library, Amsterdam-Londres, 1974, et Isaac Vossius and his circle, his life until his farewell to Queen Christina of Sweden 1618-1655, Groningen, 2000. Voir aussi A. Balsem, Tibri omissi italiani del Cinquecento provenienti dalla Biblioteca di Isaac Vossius, ora nella Biblioteca della Pijks universiteit di Teida, Leyde, 1994. 75. Quatre manuscrits ont appartenu à JHB de manière certaine (Vossius GF17, GQ57, GQ66, GF8). La même provenance est envisagée par Jackson pour 5 autres manuscrits grecs, GO1, GF40, GF35, GF65, GF58, voir Jackson, The Greek manuscripts cit., p. 229, p. 234, p. 241. 76. Je remercie le Dr. A. Th. Bouwman, conservateur des manuscrits occidentaux de la Bibliothèque de la Rijksuniversiteit de Leyde, pour son aide et son accueil. Les manuscrits sont décrits par Meyier, Codices vossiani latini cit.: VLF14, VLQ3, VLQ4 et VLQ100, auxquels il faut peut être ajouter le VLQ46. 77. F. Mourlot, Les manuscrits latins de Melchisédec Thévenot à la Bibliothèque de l’Université de Teyde, in «Revue des bibliothèques», 1894, p. 109 et seq. Sur Thévenot voir F. Richard, Catalogue des manuscrits persans / Bibliothèque nationale, Département des manuscrits, Paris, 1989, pp. 11-12. 78. «Ces mémoires me sont venus par la succession de feu M. Meliand [...] mon grand-père maternel», H. Martin, Catalogue des manuscrits de la Bibliothèque de l’Arsenal, Paris, 1885-1899, t. IV, 1888, pp. 75-76. 79. Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 8415, voir H. Omont, Inventaire sommaire des manuscrits grecs des bibliothèques de Paris, dans Recueil de travaux d’érudition classique, dédié à la mémoire de Charles Graux, Paris, 1884, pp. 305-20, manuscrit décrit à la p. 312. Cité comme perdu, avec une cote ancienne, par Jackson, The Greek manuscripts cit., p. 223 (ce serait le no LXII de l’inventaire de Scordylis). 80. Bibliothèque Méjanes, Ms 427, reliure en vélin doré. 81. Bibliothèque de l’Université de Leyde, Inc 1368 G 8°: «Ex bibliotheca (la suite caviardeé).Emi 4 coro». Reliure en parchemin blanc, remplaçant la reliure d’origine, tranches dorées et ciselée. A.

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K. Offenberg, Hebrew incunabula in public collections, a first international census, Nieuwkoop (Netherlands), 1990, pp. VII-VIII, souligne au sujet de ce volume la rareté des incunables hébreux enluminés. 82. Bibliothèque de l’Université de Leyde, 854 C 38 8°. Reliure à décor doré italienne en maroquin brun, tranches ciselées. Ex libris de Hurault au titre lavé et effacé. 83. Cette recherche pourrait être inscrite au programme de l’actif Institut Scaliger de Leyde. Je remercie son directeur, le Dr. K. van Ommen, de son accueil. 84. Niort, Bibliothèque Municipale, G10, voir H. Richard, Catalogues régionaux des incunables des bibliothèques publiques de France, vol XIV, région Poitou-Charentes, Paris, 1996, n° 472 p. 147. 85. J. Van Praet, Catalogue des livres imprimés sur vélin de la Bibliothèque du roi, Paris, 1822-1828, t. VI, Supplément, p. 51. Th. Gottlieb, K. K. Hofbibliothek Bucheinbände [...] 100 Tafeln, Wien, [1910], pl. 60. Reliure mosaïquée et doublée du XVIIIe siècle. 86. Bibliothèque Mazarine, Ms 1645. Voir B. Bischoff, Manuscripts and libraries in the age of Charlemagne, Cambridge, 1995, p. 49; R. Schieffer, Der Brief Papst Leo, dans Antidoron, Hulde aan Dr. Maurits Geerard (Hommage à Maurits Geerard pour célébrer l’achèvement de la «Clavis Patrum graecorum»), I, Wetteren (Belgique), 1984, pp. 81-87. 87. Le manuscrit a été restauré et a reçu une reliure neuve en 1997. Mais le dossier de restauration conserve comme témoin de la reliure antérieure des fragments d’un papier à la colle brunâtre du début du XIXe siècle. 88. Saffrey, Bibliotheca graeca manuscripta cit., p. 11. Sur Antonio Beiloni, voir Dizionario Biografico degli Italiani, tome VII. Je n’ai pu consulter la thèse de Michela Maniassi, Antonio Belloni: un umanista tra le carte di un notaio nella Udine del cinquecento. Tesi di laurea. Facoltà di lettere e filosofia. Corso di laurea in conservazione di beni culturali. Università degli studi di Udine, anno accademico 1997-98. 89. Omont, Inventaire sommaire des manuscrits grecs cit., p. 310. 90. Communication écrite de Donald Jackson, août 2000. 91. C. Förstel, Les manuscrits grecs, dans Art et métiers du livre, n° 222 (La Bibliothèque Mazarine), décembre 2000, pp. 58-59. 92. F. Richard, Achille de Harlay de Sancy et ses collections de manuscrits hébreux, in «Revue des études juives», CXLIX, 4 (1990), pp. 417-47 et pl. 93. A. Franklin, Les anciennes bibliothèques de Paris, églises, monastères, collèges, etc, tome II, Paris, 1870, pp. 337-43. 94. Actuel Institut des jeunes sourds, 254, rue Saint-Jacques, en face de l’église Saint-Jacques-du- Haut-Pas 95. Franklin, Les anciennes bibliothèques cit., pp. 365-68. 96. Façade conservée 70, av Denfert-Rochereau, actuel hôpital Saint-Vincent-de-Paul. 97. Franklin, Les anciennes bibliothèques cit., tome III, Paris, 1873, pp. 35-36. 98. G. Servois, Notes sur les fondateurs de l’Institution de l’Oratoire, au faubourg saint-Michel, Paris, 1915 (extrait du Bulletin de la Société de l’Histoire de Paris et de l’Île de France, t. XLI, 1914). 99. L. Batterel, Mémoires pour servir à l’histoire de l’Oratoire, Slatkine, 1971, reprint de l’édition de 1902. 100. JEAN DE LA BRUYÈRE, Des Ouvrages de l’Esprit, 24 (IV): «Arsène, du plus haut de son esprit, contemple les hommes, et dans l’éloignement d’où il les voit, il est comme effrayé de leur petitesse; loué, exalté, et porté jusqu’aux cieux par de certaines gens qui se sont promis de s’admirer réciproquement, il croit, avec quelque mérite qu’il a, posséder tout celui qu’on peut avoir, et qu’il n’aura jamais; occupé et rempli de ses sublimes idées, il se donne à peine le loisir de prononcer quelques oracles; élevé par son caractère au-dessus des jugements humains, il abandonne aux âmes communes le mérite d’une vie suivie et uniforme, et il n’est responsable de ses inconstances qu’à ce cercle d’amis qui les idolâtrent: eux seuls savent juger, savent penser,

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savent écrire, doivent écrire; il n’y a point d’autre ouvrage d’esprit si bien reçu dans le monde, et si universellement goûté des honnêtes gens, je ne dis pas qu’il veuille approuver, mais qu’il daigne lire: incapable d’être corrigé par cette peinture qu’il ne lira point». 101. Malheureusement la publication in-extenso par Léonce Lex (annoncée dans le Bulletin de la Société de l’Histoire de Paris et de l’Île de France, 1916, pp. 32-33) de ce document, qui semble aujourd’hui perdu, n’a jamais eu lieu. Merci à ma consoeur Isabelle Vernus, des archives de Saône-et Loire, et à Josette Gonzalves, de la BM de Mâcon, pour leurs recherches. 102. Œuvres de La Bruyère, éd G. Servois, Troisième édition revue et augmentée, tome IV, Paris, 1922, «Additions et corrections», pp. 143-46. 103. Je remercie Jean-Baptiste Lebigue et les chercheurs de la section Iconographie de l’IRHT à qui je dois des précisions sur le lieu et la date d’exécution de ce manuscrit, ainsi que d’un autre, le Ms 3854, qui sera évoqué plus loin. 104. Sancti Leonis Magni papae primi Opera omnia, Paris, 1675, 2 vol. in-4o, Praefatio, fo e4 et seq.: «Huic codex paternae haereditatis pars non ignobilis obvenit a nobilissimo viro, parente suo, Theodoro de Berziau, Classium inquisitoriarium in curia parisiensi praeside, non avita solum nobilitate, sed propria etiam laude propter eximias animi dotes, literarum-que studium singulare clarissimo. Is porro Codicem leoninum cum aliis optimae notae habuit a Vitrico suo illustrissimo Andrea Huralto Messaeo [...] viro in tractandis publicis rebus prudentiae dexteritatisque non vulgaris, quem celeberrimuus Huraltus Chevernius [...] etiam se vivente deligi peroptaverat [...]. Is cum ea occasione Venetiis ageret, ut erat literarum studiosissimus, plurima selectorum librorum volumina, partim excusa, partim manuscripta diligenter conquisivit, pecunia redemit, inque Gallias exportata suae intulit Bibliothecae. [...] Venetiis igitur asportatus in Gallias nostras Codex epistolarum S. Leonis, qui olim fuerat celebris illius Dominici Grimani cardinalis: is enim Codicem notatum num. 1124 propria, ut videtur, manu inscripserat: Liber Dominici Grimani Cardinalis S. Marci». Préface reprise dans la Patrologie latine, t. 54, col. 40-42. 105. «Andreae Huralto, natalibus, pietate, prudentia, animi moderatione, omnique liberali disciplina clarissimo, qui adolescens praeceptis et exemplis magni Galliae Solonis Michaelis Hospitalii, affinis sui, imbutus ubi virtutes maturuerunt, senator parisiensis, deinde libello-rum magister in regia fuit. Quos magistratus summa integritate, industria, solertiaqueque gessit. Legationibus Veneta tertiu et Britannica pro Henrico III et Henrico IV RR. Diffici-limis temporibus paris fide et fortitudine functus. In principis consistorio magna laude n'omit, summis de rébus in consilium adhibitus, nihil rege et Rep. charius unquam habuit . Publici privatique juris peritissimus ob hocque in Gailiam narbonensem ad ordinandum provinciae statum: et Massiliam ut Reginae occurreret missus sapientia, comitate, morum, suavitate, et elegantia omnium gratiam promeritus, sapientissimo Principi dignus visus est qui ad summum togae fastigium eveheretur. Quo judicio suaque conscientia contentus aula se subducere deinceps sibique vivere statuit immortalitatem itaque veraque gaudia cogita-tione identidem prae sumens. Disenteria autumni tempore, paucos dies conflictatus, principis, procerum, omniumque bonorum dolore et desiderio constans, lubensque vita exiit. Catharina Heilinia, conjux conjugi dulcissimo benemerito et omnibus titulis majori quocum decennium felicissimum egit. M. P. Vixit annos LXVIIL Obiit IX. K. Oct. A. M. VICVII. R.I.P.» 106. Maugis, Histoire du Parlement cit., p. 231, avec quelques erreurs. 107. Etchechoury, Les maîtres des requêtes cit., n°74 p. 234. 108. Fleury-Vindry, Les ambassadeurs français permanents cit., notice no 97 erronée, mais chronologie correcte pp. 21-23. Sur l’importance de ces ambassades, voir Jensen, French diplomacy cit., p. 34. 109. L. A. Prévost-Paradol, Elisabeth et Henri IV (1595-1598), ambassade de Hurault de Maisse en Angleterre au sujet de la paix de Vervins, Paris, 1863; R. A. Jones, A journal of all that was accomplished by Monsieur de Maisse, ambassador in England from king Henri IV to queen Elizabeth [...] 1597, Londres,

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1931. Résumé de sa mission dans P. Laffleur de Kermaingant, L’Ambassade de France en Angleterre sous Henri IV [...] Mission de Jean de Thumery sieur de Boissise: 1598-1602, Paris, 1886, t. I, pp. 139-48. 110. Durand, Philippe Hurault de Cheverny cit., p. 79 et BNF, Ms Fr 11424, inventaire après décès du chancelier Cheverny: Maisse y est tuteur du dernier fils du chancelier, Louis, baron d’Huriel. 111. O. Poncet, Pomponne de Bellièvre (1529-1607), un homme d’Etat au temps des guerres de religion, Paris, 1998, p. 224. 112. Poncet, Pomponne de Bellièvre cit., p. 335 113. F. T. Perrens, L’Eglise et l’Etat en France sous le règne de Henri IV et la régence de Marie de Médicis, Paris, 1872; B. Barbiche éd., Correspondance du Nonce en France. Innocenzo del Bufalo, évêque de Camerino (1601-1604), Rome-Paris, 1964, p. 67 et 225. 114. BNF, Dupuy 837, f° 9 (L’Amour vainqueur) et f° 150 (Priapée). 115. Cette Marie Hurault de Maisse épousa le 4 février 1598 Charles Benvenuti, auquel son beau- père fit obtenir des lettres de naturalisation et de reconnaissance de noblesse le 14 décembre 1599 (rien à son sujet dans le livre de J.-F. Dubost, La France italienne, XVIe-XVIIe siècle, Paris, 1997). Veuve, Marie se remaria avec Jean de Pradines, gentilhomme de Gaston d’Orléans. Elle-même mourut le 5 février 1650, et fut enterrée aux côtés de son second mari, dans l’église de Maisse (Vibraye, Histoire de la Maison Hurault cit., éd. de 1972, p. 130). 116. BNF, Ms Grec 416, Jackson, The Greek manuscripts cit., p. 236. 117. Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 4537, f° 51: «Sire [...] observant ce qu’il vous a plu me commander par mon frère», dépêche faite en France le 28 août 1562 par Mons. de Messe. 118. Bibliothèque de l’Arsenal, Ms 4537, f° 157. 119. Arch. Nat., MC, VIII/572, f° 61;XXI/73 et CXXII/380. 120. Château rasé en 1877, voir H. Stein, Les archives de Maisse, Paris, 1884. 121. BNF, Ms PO 319. 122. F. BLANCHARD, Les éloges de tous les premiers-présidents du parlement de Paris, Paris, 1645, p. 116. 123. Menault, Essais historiques sur les villages de la Beauce cit., pp. 164-65. 124. FLEUREAU, Les Antiquitez de la ville cit., p. 553. 125. Je connais pour le moment deux manuscrits qui n’ont pu appartenir aux Berziau: le registre des dépêches d’AHM pour 1587-1588, resté dans la famille Hurault, parvenu dans les collections de l’Arsenal (Ms 4539) via Jean Hurault de Boistaillé fils, Méliand et Paulmy; et le manuscrit d’Athénée de la British Library (voir liste infra) probablement prêté à Casaubon et jamais rendu par ce dernier. 126. A. Wilmart, Les prières de saint Pierre Damien pour l’Adoration de la Croix, in «Revue des sciences religieuses», IX (1929), pp. 513-23, notamment p. 514. G. de La Batut, Les Principaux Manuscrits à peintures conservés à la bibliothèque Mazarine de Paris, Mâcon, 1933, (Bulletin de la Société française de reproductions de manuscrits à peintures, 16e année), pp. 9-12; H. Toubert, Le bréviaire d’Oderisius [...] et les influences byzantines au Mont-Cassin, dans Mélanges de l’Ecole française de Rome, Moyen Age et Temps modernes, t. 83, 1971, 2, pp. 187-261. 127. Le Ms 4166 de la Mazarine, catalogue partiel de la bibliothèque de l’Institution, est à cet égard décevant. La relation Berziau-Hurault n’a évidemment pas échappé à la sagacité de l’ancien directeur de la Bibliothèque Mazarine, Pierre Gasnault, qui au moment où je rends cet article me signale qu’il connaît un autre catalogue de la bibliothèque de l’Institution de l’Oratoire, plus complet et permettant de nouvelles identifications, qu’il compte publier, donnant ainsi une suite à cet article. 128. Förstel, Les manuscrits grecs dans les collections cité. 129. D. Jackson, communication écrite août 2000. 130. «Ex hujus penu jam a septuaginta et quinque annis aliqua Synesii Opuscula Graeca prodiere studio Federici Morelli Regii tune in Academia professons, ope Ms Codicis Graeci, qui epistolas et Tractatus aliquo continet, quo etiam usus est, mutuante eodem Morello, doctissimus Petavius in

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sua omnium Synesii operum editione anni 1612. annis 1631 et 1648. repetita. Servatur modo codex iste in Oratoriana eadem Sanmichaelini suburbii bibliotheca». Voir SYNÉSIUS DE CYRÈNE, Epistolae, graecis cum antiquis codd. mss. accurate collatis, cum interpretatione latina viri eruditissimi et notis, Parisiis, ex officina typogr. C. Morelii, 1605: à la fin du volume, après les notes de l’humaniste genevois Franciscus Portus, note au lecteur de Frédéric Morel: «Scholia quaedam graeca, et pleraque in Graeca editione hacte-nus mendosa maleque interpuncta, ope vet. Cod. Ms quo viri clarissimi D. Huralti Messaei, Sacri consistori comitis benignitate Fred. Morellus Prof. Reg. usus fuerat, restituta perspicax Lector animadvertet».

NOTES DE FIN

1. Förstel, Les manuscrits grecs dans les collections cité. 2. D.Jackson, communication écrite août 2000. 3. D. Jackson, communication écrite août 2000. 4. D. Jackson, communication écrite août 2000. 5. D. Jackson, communication écrite août 2000. 6. Förstel, Les manuscrits grecs dans les collections cité. 7. D.Jackson, communication écrite août 2000. 8. D.Jackson, communication écrite août 2000. 9. Förstel, Les manuscrits grecs dans les collections cité et D. Jackson, communication écrite août 2000. 10. M. Pecqueur, Répertoire des manuscrits de a Bibliothèque Mazarine peints aux armes de leur premier possesseur (XIIIe-XVIIe siècles), in «Bulletin d’information de l’Institut de recherche et d’histoire des textes», t. IX (i960), p. 82. Voir Catalogue des manuscrits en écriture latine [...], éd. Samaran et Marichal, t. I, p. 442. 11. Pecqueur, Répertoire cit., Catalogue des manuscrits cit., p. 423. 12. Je remercie ma collègue Jacqueline Labaste, dont le précieux fichier de provenances m’a permis de trouver cet exemplaire. 13. M. Cuvigny, Giannotti, Turnèbe, Amyot résultats d’une enquête sur quelques éditions annotées des Moralia de Plutarque, in «Revue d’histoire des textes», 1973, pp. 57-77.

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