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Verso le virtù celesti. La letterata conversazione dell'Accademia degli Insensati di Perugia (1561-1608).

SACCHINI, LORENZO

How to cite: SACCHINI, LORENZO (2013) Verso le virtù celesti. La letterata conversazione dell'Accademia degli Insensati di Perugia (1561-1608)., Durham theses, Durham University. Available at Durham E-Theses Online: http://etheses.dur.ac.uk/7723/

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2 L. Sacchini, Verso le virtù celesti. La letterata conversazione dell’Accademia degli Insensati di Perugia (1561-1608)

Abstract

In the still in many respects uncharted territory of the early modern Italian Academies, this thesis focuses on the earliest phase of the Accademia degli Insensati of Perugia (1561-1608). Although almost unknown to scholars now, the Perugian Academy was held in high esteem in the Late Renaissance. Over and above its local members, the Academy’s fame attracted outstanding poets (Giovan Battista Marino and Battista Guarini), renowned artists (Federico Zuccari), influential cardinals (Bonifacio Bevilacqua, Silvio Savelli, Maffeo Barberini – the future pope Urban VIII), who were all elected members. Both rooted in the city culture and open to contacts with other centres, the Accademia degli Insensati may be said to be genuinely representative of a typical mid-sized institution of its kind. After an introductory chapter presenting an overview of the academic phenomenon in the XVI and XVII century, the following chapters aim to reconstruct the history of the Academy and examine its literary output in depth. The analysis is conducted primarily on unpublished material, which shows the evolution of the institution over a period of approximately fifty years. The data collected for the purpose of this project range from unpublished material, such as the academic lectures preserved in Perugia (Biblioteca Augustea) and the hitherto unexplored lectures held in Trieste (Biblioteca Attilio Hortis) to the works published by the academicians. The examination of the entire corpus has led to identify three main areas of interest, which I have broadly described as self-referential, literary and philosophical. An element of great interest is represented by the establishment and reception of new literary and aesthetic theories and trends in the crucial passage from the Late Renaissance to the Baroque age. The thesis’ main aim is to properly evaluate the cultural impact of academic activities, in the intent of determining their actual contribution to the world of learning and the influence exercised by them. This appeared to be the only effective way of striking a middle course between the enthusiastic judgement of the contemporaries and the widespread scepticism of 19th and 20th-century scholars.

Verso le virtù celesti. La letterata conversazione dell’Accademia degli Insensati di Perugia (1561-1608)

Lorenzo Sacchini

School of Modern Languages and Cultures, Department of Italian, Durham University A thesis submitted for the degree of Doctor of Philosophy Supervisors: Prof. Carlo Caruso, Dr. Dario Tessicini 2013

SOMMARIO

ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI ...... 3 ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE ...... 4 RINGRAZIAMENTI ...... 5 PREMESSA ...... 6

1. L’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI TRA LODI E BIASIMI ...... 6

2. PERCHÉ UNA RICERCA SULL’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI? ...... 10

3. DI ‘ACADEMIA’ IN ACCADEMIA. DALLA CRUSCA ALLA CRUSCA ...... 14

CAPITOLO I: L’ACCADEMIA CINQUECENTESCA TRA REPUBBLICA E SOCIETÀ LETTERARIA ...... 20

I.1 L’ACCADEMIA: LE DIFFICOLTÀ DI UNA DEFINIZIONE ...... 20

I.2 LE ACCADEMIE: RES PUBLICA LITERARIA? ...... 26

I.3 PER UNA TEORIZZAZIONE DELL’ACCADEMIA ...... 33 I.3.1 L’accademia: tra virtù e lettere ...... 34 I.3.2 L’accademia: una concorde repubblica ...... 43

I.4 L’ORALITÀ NELLA CIVILE CONVERSAZIONE ACCADEMICA ...... 52

I.5 LA PRODUZIONE ACCADEMICA ...... 58 I.5.1 Quantità, circolazione e definizione ...... 58 I.5.2 Poesia e prosa accademica...... 61

CAPITOLO II: PER UNA STORIA DI PERUGIA NEL SECONDO CINQUECENTO E DELL’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI ...... 67

II.1 PERUGIA E LA “GUERRA DEL SALE” ...... 67

II.2 PERUGIA DOPO LA “GUERRA DEL SALE” ...... 70

II.3 LE ACCADEMIE PERUGINE: TRA PERIFERIA E CENTRO DELLO STATO ...... 77

II.4 UN PRIMO PROFILO STORICO DELL’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI ...... 80 II.4.1 Una visione d’insieme ...... 80 II.4.2 Una premessa necessaria: le fonti ...... 92 II.4.3 La fondazione dell’Accademia degli Insensati ...... 94 II.4.4 Cronistoria dell’Accademia degli Insensati ...... 98 II.4.4.1 La prima stagione ...... 98 II.4.4.2 La seconda stagione ...... 109

CAPITOLO III: LA PRIMA STAGIONE DELL’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI (1561-1590CA.) ...... 125

III.1 LA CRONOLOGIA, GLI ACCADEMICI, IL CORPUS ...... 125

III.2 LE IMPRESE E I NOMI ACCADEMICI: L’IDENTITÀ DEGLI INSENSATI ...... 128

III.3 LA LINGUA, IL MODELLO: GLI INSENSATI E PETRARCA ...... 139

1 III.4 UN TERZO FILONE (ETEROGENEO?) DI LEZIONI ...... 149

III. 5 OLTRE LE LEZIONI ACCADEMICHE ...... 155

III.6 TRA ICONOGRAFIA E LETTERATURA: IL MANOSCRITTO DI IMPRESE ACCADEMICHE DEGLI INSENSATI ...... 158

CAPITOLO IV: LA SECONDA STAGIONE DELL’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI: 1590CA.-1608 ...... 167

IV.1 LE FONTI ...... 167

IV.2 IL PERCORSO AUTOREFERENZIALE ...... 170

IV.3 LE LEZIONI LETTERARIE ...... 178 IV.3.1 La fine del magistero petrarchesco? ...... 178 IV.3.2 Gli Insensati tra gravità e piacevolezza ...... 188

IV.4 LE LEZIONI FILOSOFICHE DEGLI INSENSATI ...... 195 IV.4.1 Uno sguardo generale. Prima tipologia di lezioni ...... 195 IV.4.2. Seconda tipologia di lezione. La dialettica degli Insensati ...... 200 IV.4.3 Tra logica aristotelica e diritto giustinianeo ...... 208 IV.4.4 Il classicismo paradossale degli Insensati ...... 217

CONCLUSIONI ...... 226 APPENDICE I. DESCRIZIONE DEI MANOSCRITTI DELL’ACCADEMIA DEGLI INSENSATI ...... 232

MANOSCRITTI CONSERVATI A PERUGIA ...... 233

MANOSCRITTI CONSERVATI A TRIESTE ...... 251

APPENDICE II. LE STAMPE DEGLI ACCADEMICI INSENSATI ...... 257

1. LA SELEZIONE DEL CORPUS ...... 257

2. ELENCO DELLE OPERE A STAMPA DEGLI ACCADEMICI INSENSATI ...... 258

3. CRISPOLTI E LE OPERE DEGLI ACCADEMICI INSENSATI ...... 267

APPENDICE III. APPARATO FOTOGRAFICO ...... 271 CRITERI DI TRASCRIZIONE ...... 278 BIBLIOGRAFIA ...... 281

BIBLIOGRAFIA PRIMARIA ...... 281 Manoscritti ...... 281 Stampe ...... 282

BIBLIOGRAFIA SECONDARIA ...... 295

INDICE DEI NOMI ...... 323

2 Elenco delle Illustrazioni

Fig. 1 Impresa dell'Accademia degli Insensati ...... 271

Fig. 2 A. ALCIATO, Emblemata (serie della prudentia) ...... 271 Fig. 3 Impresa del Sordo ...... 272 Fig. 4 Impresa del Sonnacchioso ...... 272 Fig. 5 Impresa generale dell'Accademia degli Insensati ...... 273 Fig. 6 Impresa dello Stupido ...... 274 Fig. 7 Impresa dello Svanito ...... 274 Fig. 8 Impresa dell'Astratto ...... 275 Fig. 9 Impresa dello Spensierato ...... 275 Fig. 10 Impresa del Frenetico ...... 276 Fig. 11 Impresa del Mortificato ...... 276 Fig. 12 Impresa dell'Insensato ...... 277

Tutte le immagini sono contenute in Appendice III. Apparato fotografico.

3 Abbreviazioni bibliografiche

DBI Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-.

GDLI Grande Dizionario della lingua italiana, fondato da S.

BATTAGLIA e dir. da G. BÀRBERI SQUAROTTI, Torino, UTET, 1961-2009, voll. 21.

OLDOINI A. OLDOINI, Athenaeum Augustum, in quo Perusinorum scripta publice exponuntur studio Augustini Oldoini societatis Iesu erectum, Perusiae, typis et expensis Laurentii Ciani et Francisci Desideri, 1678.

VERMIGLIOLI G.B. VERMIGLIOLI, Biografia degli scrittori perugini e notizie delle opere loro, Perugia, presso Vincenzio Bartelli e Giovanni Costantini, 1828-1829, voll. 2.

VINCIOLI I G. VINCIOLI, Rime di Francesco Coppetta ed altri poeti perugini. Scelte con alcune note di G.V. Tomo primo, Perugia, per l’Er. del Ciani e Fr. Desideri, 1720.

VINCIOLI II G. VINCIOLI, Rime di Leandro Signorelli ed altri poeti perugini, scelte da G.V. con alcune annotazioni. All’eminentissimo e reverendissimo principe, il signor cardinale Marc’Antonio Ansidei, in Foligno, per Pompeo Campana, 1729.

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4 Ringraziamenti

Desidero in primo luogo esprimere profonda riconoscenza al professor Carlo Caruso che ha guidato il mio lavoro con entusiasmo e umanità. Ringrazio quindi il dottor Dario Tessicini per le sue preziose osservazioni, in particolare sulla seconda parte del testo. Pregevoli indicazioni di metodo sono giunte dagli incontri e dalle review con i dottori Annalisa Cipollone e Stefano Cracolici, che qui ringrazio.

Lo svolgimento della ricerca è stato ampiamente favorito dai colloqui con le professoresse Erminia Irace, Laura Teza, e con la dottoressa Maria Alessandra Panzanelli Fratoni. Ricordo poi con grande piacere gli informali ritrovi con la dottoressa Claudia Baldoli e le conversazioni milanesi con il professor Eraldo Bellini e la dottoressa Roberta Ferro.

Sono estremamente grato allo staff della School of Modern Languages and Cultures dell’Università di Durham (in particolare a Heather Fewnick e Lucia Luck). Sono altresì riconoscente al personale della Biblioteca Queriniana di Brescia, Augusta di Perugia, Attilio Hortis di Trieste.

Da ultimo, non posso dimenticare gli amici e colleghi Federico Casari e Giulio Marchisio (Esq.), quindi Agata Chrzanowska, Clare Harris, Matteo Maria Quintiliani ed Amy Wigelsworth. Un ringraziamento particolare va ad Andrea Salerni per la consulenza informatica.

Buona parte del lavoro è stata condotta in casa di Patrizia Meuti e Tania Clarkson, che ringrazio di cuore.

La tesi è dedicata ai miei genitori e ad Attilio, Dr.

5 Premessa

1. L’Accademia degli Insensati tra lodi e biasimi

Infinite cose si potrebbono dire della poesia senza variar dal nostro proposito, ma horamai ogni bello spirito tanto ne sa per lo molto esercitio delle accademie e scuole d’Italia, che sarebbe un voler dar lume alla luce del sole volerne scrivere in questo luogo. Del che mi saranno testimonio certo in Perugia mia patria l’Accademia de gl’Insensati, illustre già molt’anni, la quale rende maraviglia non pure a se stessa, ma all’Italia e a tutto il mondo, per le nobili parti de gl’ingegni che essa nodrisce, i quali tutti insieme lei rendono nobile, come ella poi ciascuno separatamente rende famoso, e in particolare il signore Cesare Crispoldo, gentilhuomo [di] rara dottrina e varia disciplina, ne la nobil casa del quale, come già i Platonici nella Villa d’Academo, gli Academici Insensati si radunano e ben si potrebbe alla sua casa dare quell’epiteto, che il prencipe della romana eloquenza diede alla casa d’Isocrate, illustre orator d’Athene: «domus Isocratis quasi ludus quidam, atque officina dicendi», e un’altra volta confermò l’istesso: «domus Isocratis officina habita eloquentia est». Sì come dunque è stata tenuta la casa di Isocrate fucina dell’eloquenza, così hora la casa del Crispoldo è tenuta fucina d’eloquenza e d’ogni arte liberale, ove concorreno a lavorare fabri di gran valore e d’onde alla giornata n’escono opere di tutta perfettione ed eccellenza.1

1 C. RIPA, Iconologia di C.R. perugino, cavaliere de’ santi Mauritio e Lazzaro, nella quale si descrivono diverse imagini di virtù, vitii, affetti, passioni umane, arti, discipline, umori, elementi, corpi celesti, provincie d’Italia, fiumi, tutte le parti del mondo ed altre infinite materie […], in Siena, appresso gli heredi di Matteo Florimi, 1613, parte II, pp. 156-158. Le fonti ciceroniane sono rispettivamente: Brut., VIII 32 e Orat., XIII 40-41. Si è deciso di citare dalla stampa del 1613 e non dalla recentissima e meritoria edizione einaudiana (C. RIPA, Iconologia, a c. di S. MAFFEI, testo stabilito da P. PROCACCIOLI, Torino, Einaudi, 2012, fondata sul testo base del 1603: Iconologia. Overo descrittione di diverse imagini cavate dall’antichità e di propria inventione, trovate e dichiarate da Cesare Ripa perugino […], in Roma, appresso Lepido Facii), perché nella prima l’omaggio nei confronti dell’Accademia degli Insensati è sviluppato con maggior ampiezza e comprende anche la lode della casa di Crispolti, leader del sodalizio perugino. Interessante è il confronto con la prima edizione dell’Iconologia del 1593, dove le medesime parole erano rivolte non soltanto all’Accademia degli Insensati, ma anche ad un sodalizio romano, l’Accademia degli Incitati: «mi saranno testimonio certo in Perugia, mia patria, l’Accademia de gl’Insensati, illustre già molt’anni, e in Roma, che è sempre principale in tutte le cose, quella de gl’Incitati, la quale rende maraviglia non pure a se stessa, ma all’Italia e a tutto il mondo» (Iconologia overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità e da altri luoghi […], in Roma, per gli eredi di Gio. Gigliotti, p. 215). Per le diverse edizioni dell’opera, si veda S. MAFFEI, Per una concordanza diacronica

6 Di certo, le parole cerimoniose contenute nell’Iconologia di Cesare Ripa non rivelano più, oggi, una verità universalmente riconosciuta. La notorietà e l’alta reputazione che un tempo accompagnavano il nome della perugina Accademia degli Insensati e quello della sua figura di riferimento, Cesare Crispolti, sono svanite col trascorrere dei secoli. Al pari di molte altre simili istituzioni letterarie, il sodalizio degli Insensati è noto soltanto a pochi studiosi o ad appassionati di storia locale. Il lusinghiero giudizio di Ripa risponde senz’altro alla consuetudine cinque e secentesca di dispensare elogi con grande generosità, ma non per questo doveva risultare del tutto ingiustificato ai lettori della sua opera. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, infatti, grazie agli sforzi compiuti in primis proprio da Crispolti, l’Accademia degli Insensati aveva guadagnato un certo prestigio, che le permise di poter annoverare tra i suoi membri illustri artisti e letterati del tempo e di portare a compimento importanti iniziative, come l’edizione dei Carmina latini nel 1606 nonché le stampe delle sillogi poetiche di Filippo Alberti e di Leandro Bovarini.2 Il medesimo giudizio di Ripa rende quanto mai evidente il profondo distacco che separa l’odierna cultura, o meglio sensibilità culturale, dalla vicenda della al suo tempo «illustre» Accademia degli Insensati e, più in generale, dal vastissimo fenomeno delle accademie italiane. Questa distanza si chiarisce meglio alla luce della sfortuna critica che ha interessato nei secoli tale fenomeno culturale, in buona sostanza compreso nel generale

dell’Iconologia di Cesare Ripa, in Repertori di Parole e immagini. Esperienze cinquecentesche e moderni data bases, a c. di P. BAROCCHI e L. BOLZONI, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1997, pp. 99-118; un elenco delle stampe è fornito nella Nota al testo di Paolo Procaccioli in RIPA, Iconologia [ed. 2012], cit., pp. CXVII-CXLV. Sull’Iconologia di Ripa, oltre all’ampia Introduzione di Sonia Maffei nel medesimo volume (pp. VII-CXV), si vedano almeno: C. BALAVOINE, Dès Hieroglyphica de Pierio Valeriano à l’Iconologia de Cesare Ripa, ou le changement de statut du signe iconique, in Repertori di Parole e immagini, cit., pp. 50-97; S. MAFFEI, La politica di Proteo: trasformazioni e peripezie dell’‘Iconologia’ di Cesare Ripa, in Officine del nuovo. Sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana fra Riforma e Controriforma. Atti del Simposio internazionale, Utrecht 8-10 novembre 2007, a c. di H. HENDRIX e P. PROCACCIOLI, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2008, pp. 479-495; Cesare Ripa e gli spazi dell’allegoria. Atti del convegno. Università degli Studi di Bergamo 9-10 settembre 2009, a c. di S. MAFFEI, Napoli, La Stanza delle Scritture, 2010. Le norme che regolano le citazioni dei testi antichi sono esposte nei Criteri di trascrizione, cui si rimanda. 2 Se ne discuterà più ampiamente in § II.4.4.2; per gli estremi bibliografici delle opere, si veda Appendice II.

7 pregiudizio (perlopiù ottocentesco) che ha investito la civiltà manierista e barocca.3 Il discredito nei confronti delle accademie del XVI e XVII secolo è maturato per gradi. In taluni casi si indirizzò direttamente verso l’istituzione accademica, ma più frequentemente si orientò verso gli uomini di cultura protagonisti di tale fenomeno e la produzione letteraria cui essi diedero vita. Le riunioni tra i dotti letterati secenteschi vennero prese di mira per il loro carattere pedantesco, ozioso, ridondante, quasi accidioso. Sebbene già nel Settecento le accademie non sfuggissero alle note ironiche di Pietro Verri o alle perplessità di Girolamo Tiraboschi, il culmine venne toccato nel secolo seguente quando esse divennero il bersaglio degli sfoghi di Foscolo, delle osservazioni di Leopardi e delle stilettate post-unitarie di Francesco de Sanctis.4 L’universo vasto e variegato delle accademie venne così escluso dal novero delle positive esperienze passate e si impose quale motivo di imbarazzo nazionale. Non per caso si deve ad un autore straniero, Michele

3 Il preconcetto degli uomini ottocenteschi nei confronti della cultura secentesca è stato studiato di recente da P. FRARE, La condanna etica e civile dell’ottocento nei confronti del barocco, «Italianistica», 33 (2004), 1, pp. 147-65 e A. QUONDAM, Marino e il Barocco, ieri e oggi, in Marino e il Barocco, da Napoli a Parigi. Atti del Convegno di Basilea, 7-9 giugno 2007, a c. di E. RUSSO, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 1-12. 4 Pietro Verri bollava come «fanciullaggini» le mire degli uomini di cultura secenteschi che si affannavano per ottenere le «patenti» accademiche: P. VERRI, Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia, in «Il Caffè» 1764-1766, a c. di G. FRANCIONI e S. ROMAGNOLI, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 211-222 (nel medesimo volume sono di grandi interesse anche le considerazioni al riguardo del fratello A. VERRI, Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni, in «Il Caffè», cit., pp. 539-560: 545). Tiraboschi considerava con favore le accademie cinquecentesche, nondimeno non nascondeva le sue riserve su quelle secentesche, dove «ogni cosa» pareva «languida e fredda»: G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana […], t. VIII, parte 1-2, Dall’anno MD[C] fino all’anno MDC[C], Firenze, presso Molini, Landi e c., 1812, p. 54 (sulle cui considerazioni in merito alle accademie, è utile F. ARATO, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS, 2002, pp. 284-285). Sono poi celebri le feroci critiche di Foscolo alle accademie ed in generale al mondo accademico: ex multis, si vedano almeno U. FOSCOLO, Lezione prima. De’ principi della letteratura, ID., Lezione seconda. La letteratura rivolta unicamente alla gloria, in ID., Orazioni e lezioni pavesi, a c. di A. CAMPANA, Roma, Carocci, 2009, rispettivamente pp. 125-141: 141; 187-210: 202-204. Seccamente, Leopardi dichiarava che le accademie «letterarie hanno piuttosto pregiudicato alla letteratura»: G. LEOPARDI, Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica, ec. Edizione tematica dello ‘Zibaldone di pensieri’ stabilita sugli ‘Indici’ leopardiani, a c. di F. CACCIAPUOTI, Introduzione di A. PRETE, Roma, Donzelli, 2002, pp. 47-49: 47. Da ultimo, secondo De Sanctis, la tendenza «accademica, letteraria e classica» rappresentava il «germe della dissoluzione» della letteratura italiana (in particolare di quella del Seicento) ed era all’origine di una letteratura votata alla «rettorica», cioè alla «menzogna», incapace di elaborare nuovi contenuti (F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a c. di N. GALLO, Torino, Einaudi - Gallimard, 1996, p. 613). Brevi ma acute osservazioni sulla questione, che andrebbe ripresa, in C. MOZZARELLI, Dell’Accademie: onore, lettere e virtù, in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, a c. di A. PROSPERI, Roma, Bulzoni, 2001, II, pp. 645-663: 645-649.

8 Maylender, il merito di aver superato il pregiudizio nei confronti delle istituzioni accademiche italiane ed aver restituito, con la sua indispensabile monografia Storia delle accademie d’Italia, la giusta dimensione a un movimento tanto vasto e significativo (se non altro, almeno per lo straordinario numero di persone coinvolte). Se da una prospettiva generale ci si sposta ad una locale, lo scenario non cambia. I giudizi tutt’altro che favorevoli sull’Accademia degli Insensati messi a punto, forse con una certa frettolosità, da Luigi ed Emilia Bonazzi sono bastati a scoraggiare per decenni ogni ipotesi di studio sul consesso perugino. Nel secondo volume della Storia di Perugia, pubblicato nel 1879, Luigi Bonazzi criticava l’accademia umbra per essere stata «tutt’altro che immune dal generale difetto» di «quelle associazioni». «Niuno» – scriveva Luigi Bonazzi – può infatti asserire che in esse «si coltivasse la letteratura senza scapito della sua missione sociale e della originalità degli ingegni». Egli riusciva persino a sostenere che l’Accademia degli Insensati fosse degenerata «in una fabbrica privilegiata di poesie convenzionali, in una associazione di mutuo incensamento». E nell’ambito della letteratura perugina, che nel XVII secolo si presentava «più esente da vizi che splendida per virtù», l’esperienza degli Insensati è osservata con una diffidenza che si trasforma in malcelata ironia. Per l’«influenza» che allora esercitava la «famosa» Accademia degli Insensati – aggiungeva infatti Luigi Bonazzi – «bisognava bene che per amore o per forza» ogni uomo di cultura «sagrificasse alle muse, col sonetto o con l’ode, o scrivesse qualcuno di quei discorsi d’insulso e paradossale argomento».5 Nella sua monografia sui sodalizi perugini (Accademie letterarie a Perugia), Emilia Bonazzi coglieva ancora una volta nella presunta dimensione sterile e frivola dell’accademia umbra la sua più eloquente caratteristica. Prendendo a prestito una medesima espressione già presente nella Storia di Perugia, l’autrice presentava di nuovo l’Accademia degli Insensati come «una fabbrica di poesie convenzionali». Arrivava allora a chiedersi se davvero «persone non prive d’ingegno» si riducessero a

5 L. BONAZZI, Storia di Perugia dalle origini al 1860, II. Dal 1495 al 1860, Perugia, Tipografia Boncompagni e c., 1879, pp. 314, 400.

9 dibattere sulle questioni del tutto irrilevanti affrontate nelle lezioni «con argomentazioni involute, cavillose, vuote di qualsiasi contenuto». Ne consegue che la reale «ragione d’essere» delle esercitazioni collettive consistesse «nella ricerca del modo di passare le ore destinate alle adunanze». Più interessante del giudizio dell’autrice è però lo svelamento, forse involontario, del suo ‘pre-giudizio’ sull’accademia; uno svelamento che si coglie nella frase (quasi una sentenza) che precede l’elenco delle lezioni accademiche: «a giudicare però soltanto dai titoli delle lezioni dei tre volumi inediti [i manoscritti 1058-1060 della Biblioteca Augusta di Perugia], qualche volta i signori accademici non sapevano che dirsi». Analizzando il lessico del passo proposto, risulta agevole osservare che l’avverbio «soltanto» indica evidentemente una maldisposizione, quasi un rifiuto, di prodursi in un effettivo incontro con i testi delle lezioni degli Insensati, e che il verbo «giudicare» comunica in maniera lampante la volontà dell’autrice di non rinunciare ad esprimere un giudizio di valore per molti versi già pronunciato in anticipo. Interrompendo la sua analisi per fermarsi alle prime impressioni o sensazioni, Emilia Bonazzi veniva però meno alla promessa, esposta nella prefazione, di studiare «tutte le notizie che esistono e che […] è stato possibile raccogliere» sulle accademie perugine.6 Il suo pregiudizio si risolve dunque in un disinteresse, quasi in una rinuncia. La presente ricerca sugli Accademici Insensati intende fuggire tanto l’eccessivo entusiasmo di Ripa quanto i deprimenti giudizi di Luigi ed Emilia Bonazzi. Ma per restituire l’accademia alla sua reale dimensione, ed eventualmente giungere ad una più equilibrata valutazione, si deve naturalmente superare ogni forma di preconcetto e tornare a studiare quanto quell’istituzione effettivamente produsse negli anni in cui fu attiva.

2. Perché una ricerca sull’Accademia degli Insensati?

Prima di procedere ad illustrare per grandi linee il contenuto della tesi, è necessario rendere note le ragioni che hanno portato a studiare

6 E. BONAZZI, Le accademie letterarie a Perugia, Foligno, Campitelli, 1915, pp. 5, 25, 27-28.

10 un’accademia di tardo Cinquecento e, nello specifico, l’Accademia perugina degli Insensati. In primo luogo, è forte la convinzione che molto resti ancora da fare per migliorare la conoscenza di un fenomeno tanto esteso quanto quello accademico. La fondamentale opera di Maylender mostra oggi ormai tutti i suoi limiti ed imprecisioni e può essere progressivamente sostituita da una serie di articoli, saggi o monografie che prendano in esame, con criteri rigorosi, la storia e la produzione letteraria dei singoli sodalizi. In secondo luogo, questa ricerca si inserisce nel contesto di un ritrovato interesse per il mondo accademico. Tale interesse si è concretizzato nel Regno Unito in un importante progetto, Italian Academies 1525-1700: the first intellectual networks of early modern Europe, che coinvolge tre fra le più importanti istituzioni culturali anglosassoni: la Royal Holloway University of London, la University of Reading e la British Library. Dal 2006 con un primo impegno triennale, e quindi dal 2010 con una nuova proposta di ricerca quadriennale (fino al 2014), il progetto ha quale fine principale quello di produrre un database dei libri della British Library pubblicati dalle accademie italiane nelle città di Bologna, Napoli, Padova, Siena, Venezia, Verona, Mantova, Ferrara, Roma e nella Sicilia. Accanto all’opera di catalogazione del materiale, durante gli anni di sviluppo del progetto sono state organizzate diverse occasioni di discussione e di confronto sul tema delle accademie, tra le quali due workshops (Science, learning and censorship: 2011; Ancients and Moderns in the Academies: 2013) ed una conferenza internazionale (Learned Academies 1525-1700: building intellectual networks in early modern Europe: 2012).7 L’indirizzo dato al progetto consente di cogliere appieno la dimensione reticolare del fenomeno dell’accademia italiana, un vero e proprio sistema che legava insieme le persone di cultura nel periodo che dal primo Cinquecento si spinge ben oltre il XVII secolo.

7 Le pagine web relative al progetto - home all’indirizzo http://italianacademies.org/ - forniscono utili informazioni sulle iniziative in corso e su quelle future, presentano il team di studiosi, coordinato dalla professoressa Jane Everson, ed elencano le pubblicazioni relative alla ricerca in corso. Il database delle pubblicazioni di accademie italiane conservate nella British Library è consultabile all’indirizzo http://www.bl.uk/catalogues/ItalianAcademies/.

11 Si consideri, da ultimo, l’oggetto del presente lavoro: l’Accademia degli Insensati. Essa certamente non appartiene al novero delle accademie principali e più note, quali possono essere l’, dei Lincei, del Cimento, etc., già oggetto di numerosi studi, e nemmeno può stare alla pari con quelle istituzioni, quali per esempio l’Accademia degli Intronati di Siena, degli Eterei di Padova, degli Umoristi di Roma o degli Oziosi di Napoli, che seguono da presso la fortuna critica delle più illustri accademie e vantano presenze eccellenti e importanti primati. Ed allora, perché gli Insensati? La volontà di colmare una lacuna negli studi, nobile e sensata motivazione, non è forse sufficiente a giustificare una simile indagine. La ragione è piuttosto da ricercarsi nella natura “media” dell’Accademia degli Insensati, che le deriva dalla sua posizione geografica (in un centro periferico, ma non estraneo alle sollecitazioni letterarie provenienti dagli ambienti toscani o romani), dalla composizione dei suoi membri (tra nomi oscuri ed importanti artisti e letterati), dalla loro quantità (indicativamente tra i 25 e i 45 elementi), e dal volume non sovrabbondante, ma nemmeno esiguo della sua produzione letteraria. Questa medietas del sodalizio umbro può riuscire estremamente suggestiva per comprendere meglio la conversazione accademica di un’istituzione ‘tipo’ dell’età tardo- rinascimentale e per sondare la ricezione e la riflessione intorno a temi o tendenze che altri centri culturali più prestigiosi venivano elaborando negli stessi anni. Attraverso la storia degli Insensati, si getterà luce su alcune dinamiche che certamente erano comuni a molte accademie e che delineano una vicenda meno illustre, ma invero assolutamente concreta e assai significativa, della letteratura italiana della seconda metà del Cinquecento e dei primi anni del Seicento. L’accademia perugina risulta poi interessante per la sua capacità di essersi conservata per un intervallo di tempo considerevole, lungo quasi centocinquant’anni. All’interno di tale periodo, troppo esteso per essere studiato nel dettaglio nella presente ricerca, si è deciso di isolare la stagione iniziale che dalla fondazione, nel 1561, arriva sino alla morte del suo personaggio guida, Cesare Crispolti, nel 1608. Si proverà dunque ad illustrare quel percorso ininterrotto e sufficientemente documentato di

12 quasi cinquant’anni di attività accademica, intrecciando il predominante punto di vista storico-letterario con osservazioni etiche e filosofiche, in conformità con i medesimi interessi implicati nella produzione degli Insensati. Nei successivi capitoli, in una prospettiva diacronica, si è distinto tra un primo momento di fondazione, crescita e sviluppo dell’accademia, indagato nel terzo capitolo (La prima stagione dell’Accademia degli Insensati: 1561-1590ca.), ed una seconda fase di piena maturità del consesso, esaminata nel quarto e conclusivo capitolo (La seconda stagione dell’Accademia degli Insensati: 1590ca.-1608). In tale faticosa ricostruzione, che non ha potuto giovarsi di precedenti saggi o monografie sull’argomento, si è dato ampio spazio alla produzione inedita del sodalizio perugino. Per il periodo iniziale di vita dell’accademia sono stati analizzati in primo luogo i manoscritti triestini Petr. I 49, I 50 e I 53 della Biblioteca Civica Attilio Hortis ed i perugini 1407 (fascicoli VIII e XXXIII) e 1717 della Biblioteca Augusta nonché il codice di imprese accademiche dell’Archivio Storico dell’Università di Perugia; per la seconda stagione, si sono analizzati i codici 1058, 1059 e 1060 della Biblioteca Augusta.8 La decisione di prendere in considerazione principalmente i manoscritti si spiega con una certa facilità: come si vedrà, essi recano testimonianza, meglio delle stampe, dell’attività accademica collettiva. Ciò ha portato – è vero – al sacrificio di alcuni testi di un qualche valore letterario (che ci si augura di analizzare magari in successive ricerche), ma ha consentito di tracciare un profilo più preciso dell’identità complessiva dell’Accademia degli Insensati. Nonostante la preferenza verso gli scritti inediti, non si è comunque ignorata la produzione a stampa, che si è rilevata assai utile per delineare la storia dell’istituzione almeno nei suoi tratti principali. A ciò è appunto dedicato il secondo capitolo (Per una storia di Perugia nel secondo Cinquecento e dell’Accademia degli Insensati) che si apre

8 Si veda infra il paragrafo § III.6 per la complessa questione cronologica che interessa il codice di imprese accademiche dell’Archivio Storico dell’Università di Perugia. Il ms. Petr. I 60 della Biblioteca Attilio Hortis di Trieste (d’ora in poi BHT), che presenta una lezione accademica del 1594 dell’Accademico Insensato Contolo Contoli, risulta difficilmente collocabile cronologicamente in una delle due fasi: si tornerà più diffusamente sull’argomento in apertura del capitolo III. I manoscritti appena citati nel testo, ricorrendo con grande frequenza nel corso del volume ed essendo descritti in Appendice I, non sono seguiti dalla formula cit. ad ogni occorrenza in nota.

13 con un’ampia panoramica sui fatti perugini a seguito della “guerra del sale” del 1540.

3. Di ‘academia’ in accademia. Dalla Crusca alla Crusca

Una ricerca erudita risulta esauriente quando l’oggetto dell’indagine è accompagnato da una opportuna contestualizzazione. Nel caso di un’accademia italiana, tale premessa è a maggior ragione necessaria, perché la mancanza di conoscenze sufficientemente dettagliate circa il quadro generale del fenomeno accademico e il concetto stesso di ‘accademia’ invitano ad allargare la prospettiva di indagine ad un contesto più ampio. A partire da tale consapevolezza, il percorso di avvicinamento all’Accademia degli Insensati sarà scandito attraverso due momenti distinti. In primo luogo, nel presente paragrafo si illustrerà brevemente la storia del termine ‘accademia’ nei secoli; quindi, nel primo capitolo (L’accademia cinquecentesca tra repubblica e società letteraria), si fornirà una sintesi degli sforzi di teorizzazione che accompagnarono il fenomeno accademico nella seconda metà del Cinquecento. Al momento di dare una definizione del termine, gli Accademici della Crusca nella prima edizione del loro Vocabolario non sembrano manifestare alcuna perplessità: il lemma «accademia», dal latino «academia» e dal greco «ἀκαδήμεια», usato per indicare l’antica «setta di filosofi così chiamata», identifica «oggi» un’«adunanza d’uomini studiosi, detti accademici». È una spiegazione asciutta, quasi tautologica, che implica una decisa semplificazione del dato reale. Rimane di conseguenza piuttosto vago e generico il significato denotativo del termine ‘accademia’. Il tentativo di approfondire, sul medesimo Vocabolario, i singoli termini chiave è risultato quasi del tutto vano. Il sostantivo «adunanza», dal verbo «adunare», ossia «accozzare, ragunare, unire, mettere insieme», sta quindi per raggruppamento, unione, incontro; l’aggettivo «studioso», per diretta influenza del latino studiosus, equivale a «diligente» e si oppone al suo

14 contrario «negligente». 9 L’accademia risulterebbe perciò agli occhi dei Cruscanti un raduno o un convito di uomini diligenti e disciplinati. Questa asciutta definizione si dimostra comunque utile per confermare una volta di più l’esito dell’evoluzione semantica del termine ‘accademia’, dalle lingue classiche fino all’italiano moderno, che è stata più volte oggetto delle osservazioni di Bruno Migliorini.10 La parola ἀκαδήμεια indicava in origine il piccolo appezzamento di terra nei pressi di Atene, dedicato al mitico eroe Ἀκάδημος. Nel 387 a.C. Platone stabilì nelle sue vicinanze la sua scuola filosofica, che prese appunto il nome di Accademia. Di qui, il significato della parola si allargò a definire anche la stessa dottrina filosofica impartita da Platone e si applicò anche ai suoi discepoli che furono detti accademici. Quando il termine passò nel mondo romano, venne utilizzato in primo luogo da Cicerone che, affascinato dal ricordo del precedente greco, chiamò «umbrifera academia» il luogo predisposto alle meditazioni nella sua villa Tuscolana. Quale che fosse il preciso luogo identificato dal termine, si può comunque concludere che nel mondo classico la parola ‘accademia’ conservasse pienamente il proprio valore di nome proprio. Dal XV secolo si impose un nuovo significato, in concorrenza con il precedente classico. Ciò avvenne in primo luogo per una ragione storico-

9 Vocabolario degli Accademici della Crusca ripresa anastatica della prima edizione, Venezia, 1612, Firenze - Varese, ERA Edizioni, 2008, pp. 8, 23, 860. In realtà, la derivazione etimologica dal lemma latino academia(m) sarebbe da escludere per ragioni di quantità della (penultima) sillaba e dunque di accento (M. CORTELLAZZO, P. ZOLLI, Il nuovo etimologico. DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, a c. di M. CORTELLAZZO e M.A. CORTELLAZZO, Bologna, Zanichelli, 19992, p. 43). 10 B. MIGLIORINI, Panorama dell’Italiano quattrocentesco, «Rassegna della letteratura italiana», 59 (1955), pp. 193-231: 222; ID., Le lingue classiche serbatoio lessicale delle lingue europee moderne [1956], in ID., Lingua d’oggi e di ieri, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1973, pp. 251-265: 257-258; ID., Storia della lingua italiana, con Introduzione di G. GHINASSI, Milano, Bompiani, 200411, pp. 269, 362. Sull’evoluzione semantica del termine si veda anche S. WIDLAK, Osservazioni sullo sviluppo semantico della parola Accademia in italiano, «Revue des langues vivantes – Tijdshrift voor levande talen», 36 (1970), pp. 1-26, che struttura la sua analisi a partire dalle ricerche di Migliorini; l’articolo ‘accademia’ in M. PFISTER, LEI. Lessico etimologico italiano, fasc. 8, I, Wiesbaden, Reichert, 19842. Nella seconda parte del suo intervento, Widlak ricostruisce l’evoluzione del valore semantico di ‘accademia’ con particolare riferimento alle accademie specializzate (musicali e di belle arti). Nonostante i buoni propositi dell’autore, alcune sviste appaiono così clamorose da non poter essere trascurate: l’Accademia degli Intronati risulterebbe essere la più famosa «accademia musicale», fondata a Siena nel «1460»; sotto la stessa etichetta si trova anche l’ e quella del Cimento, nata nel 1657 «a Roma» (Osservazioni sullo sviluppo semantico, cit., p. 15). Interessanti considerazione sul valore del termine latino academia ai tempi di Ficino in J. HANKINS, The Mith of the Platonic Academy of Florence, «Renaissance Quarterly», 44 (1991), pp. 429-475: 433-436

15 culturale: le associazioni filosofiche o letterarie, che iniziarono a prosperare dalla seconda metà del XV secolo, presero molto spesso il nome di academia. Lo testimonia, per esempio, il titolo di Academia Valdarnina che Poggio Bracciolini diede alla sua villa di Terranova. Il termine ‘academia’ subì dunque una prima mutazione, venendo ad indicare i luoghi prescelti per dialoghi eruditi e colte discussioni, ed una seconda, passando da nome ‘proprio’ a nome ‘comune’, 11 segno evidente della sua espansione e penetrazione nell’uso. Finalmente, alla metà del Quattrocento il termine venne ad acquisire il suo «significato moderno» di «gruppo di persone riunito per fini di studio».12 Sebbene il termine potesse designare ancora la sede degli incontri, in una lettera di Donato Acciaioli del 1455 si incontra la prima attestazione del sostantivo ‘academia’, usato per indicare il gruppo dei partecipanti alle riunioni erudite. Nel Cinquecento, in parallelo con la diffusione capillare dell’istituzione accademica, tale significato prevalse e si cristallizzò. Com’è noto, oggi il termine può vantare una certa polivalenza semantica. Da una parte, esso è usato per designare una serie di istituti di insegnamento di carattere superiore, e dall’altra, pur con una certa genericità, è impiegato per definire l’università ed il suo personale docente.13 Nel periodo cinque-secentesco il significato della parola mirava

11 È stato ancora una volta Bruno Migliorini a studiare questo passaggio nel suo volume Dal nome proprio al nome comune, Firenze, Olschki, 1968 (rist. anast. ed. 1927 con supplemento). 12 MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, cit., p. 269. 13 A differenza dell’aggettivo 'accademico’ che ha conservato pienamente il significato di «universitario» o «concernente l’università», oggi il valore di ‘accademia’ come sinonimo di università è in effetti accolto piuttosto raramente (lo registrano, per esempio, F. PALAZZI, G. FOLENA, Dizionario della lingua italiana, Torino, Loescher, 1992, p. 26; F. SABATINI, V. COLETTI, DISC. Dizionario italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti, 1997, p. 15). Quando è riscontrata la prossimità semantica tra le due parole, il termine ‘accademia’ è venuto per lo più ad indicare, in evidente continuazione con il significato già emerso nel periodo umanistico- rinascimentale, l’«insieme di studiosi di livello universitario» o «di rango universitario», ossia il gruppo di persone che lavora e opera all’interno dell’istituzione universitaria (PALAZZI, FOLENA, Dizionario, cit., p. 26; T. DE MAURO, Grande dizionario italiano dell’uso, I. A- CG, Torino, UTET, 1999, p. 23; Grande dizionario della lingua italiana moderna, I. A-D, Milano, Garzanti, 2000, p. 18). Ancora durante l’Ottocento, però, il lemma ‘accademia’ era inteso senza alcuna difficoltà come «università, Studio pubblico», come testimoniano i maggiori vocabolari del secolo: Vocabolario universale italiano, I, A-BU, Napoli, Tramater, 1829, p. 76; G. MANUZZI, Vocabolario della lingua italiana già compilato dagli Accademici della Crusca ed ora nuovamente corretto ed accresciuto, Parte prima, A-C, in Firenze, nella stamperia del vocabolario e dei testi di lingua, 18592, p. 47; N. TOMMASEO e B. BELLINI, Dizionario della lingua italiana, con un discorso di G. MEINI, Presentazione di G. FOLENA, Milano, Rizzoli, I,

16 invece a mettere a fuoco l’importanza della componente umana all’interno del sodalizio intellettuale. Era relegata di fatto in secondo piano la dimensione spaziale del ritrovo accademico, in perfetta coerenza con quanto realmente accadeva. In effetti, è comunemente attestata una certa provvisorietà dei luoghi destinati a ricevere gli incontri tra i membri accademici, che nel tempo potevano mutare. In generale, la sede fisica delle accademie non era sempre oggetto di particolare attenzione da parte dei soci, il che costituisce una delle differenze decisive con i salons francesi.14 Il cambiamento della sede nel caso italiano non pregiudicava in alcun modo l’esistenza del circolo intellettuale: il gruppo di sodali continuava a riunirsi e non rinunciava a percepirsi e a definirsi come ‘accademia’. Lo spazio dell’accademia era semplicemente il luogo scelto dall’assemblea dei soci per riunirsi in ‘accademia’.15 Più della sede, ciò che di norma qualifica l’accademia e la distingue dai tradizionali cenacoli o ritrovi, è il suo carattere istituzionale, che prende forma nello statuto, nella gerarchia dei ruoli accademici e nell’impresa generale. Se si escludesse del tutto l’aspetto formale, il rischio sarebbe quello di accogliere entro i confini della categoria ‘accademia’ un numero straordinariamente alto di assemblee, riunioni, incontri che mai in realtà furono, o ebbero intenzione di essere, o di definirsi, accademie. Tra i primi a cogliere con estrema lucidità il momento di passaggio dalla «brigata» di amici all’accademia regolata furono proprio gli Accademici della Crusca. È celebre il discorso che Leonardo Salviati tenne il 25 gennaio

1977, p. 416-417; P. FANFANI, Vocabolario della lingua italiana, Firenze, Successori Le Monnier, 18984, p. 24. 14 Non sarà superfluo ricordare sia il potere di fascinazione che l’Hotel de Rambouillet ebbe sui contemporanei, sia, al suo interno, la carica intima evocata dalla Chambre Bleue, dove si teneva il salon di Madame de Ramboillet (B. CRAVERI, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001, pp. 55-76). 15 Vigeva spesso una certa libertà rispetto alla scelta della sede dell’accademia. Nelle leggi degli Accademici Unisoni di Perugia, per esempio, si dice che «il luogo, dove si havranno a radunare gli Accademici, sarà la casa del signor Cesare Crispolti, canonico Perugino»; ma in alternativa sarà possibile riunirsi «dove più piacerà al Principe pro tempore» (Leggi degli Accademici Unisoni, in E. PATRIZI, La trattatistica educativa tra Rinascimento e Controriforma. L’‘Idea dello scolare’ di Cesare Crispolti, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, pp. 113-115: 114). Le Leggi sono contenute nel ms. 985 [M 8] conservato a Perugia, presso la Biblioteca Augusta (d’ora in poi BAP), cc. 300-304. Per la doppia segnatura dei manoscritti della biblioteca perugina, si veda l’avvertenza nei Criteri di trascrizione, in coda al volume.

17 del 1583, quando invitò la «brigata» di Crusconi ad evolversi in «Accademia della Crusca»:

Ora non sarebbe molto migliore cosa, più eccellente, con grazioso e piacevole ordine dar a questa nostra brigata nome d’Accademia, creare uno agl’altri superiore, leggere, censurare e esercitare tutti gl’altri ofici Accademici? Dite, di grazia, e che potrebbe esser contra a questa nostra volontà? Veruna cosa, ch’io sappia. Perché in prima voi siete atti a tanto peso, il quale per sé leggero voi leggierissimo lo rendereste.16

Secondo la cronaca di Piero de’ Bardi, che ricostruisce nel dettaglio il dibattito all’interno all’accademia, Salviati aveva quale obiettivo polemico quei letterati pieni di boria, che volevano mettersi in mostra con «modi stucchevoli». Allora il fiorentino, rivolgendosi ai suoi interlocutori, chiese loro di non darsi a «stolta gravezza», di non «mutar» la loro «natura» goliardica, ma piuttosto di istituzionalizzare «quelle medesime operazioni virtuose». Per fare ciò – continuava Salviati – è necessario

che noi non più Crusconi ci facciamo chiamare ma Accademici della Crusca; che facciamo tutto quello che habbiamo fatto infino ad ora, ma apparisca con più magnificenza; che facciamo un capo, il quale non ci comandi ma ci guidi; che mostriamo all’altre

16 Firenze, Archivio Storico dell’Accademia della Crusca, carte Bardi, Frammento 113, p. 2, ora edito in N. MARASCHIO, Lionardo Salviati, Piero de’ Bardi e l’origine dell’Accademia della Crusca, in Discorsi di lingua e letteratura italiana per Teresa Poggi Salani, a c. di A. NESI, N. MARASCHIO, Ospedaletto (Pisa), Pacini Editore, 2008, pp. 183-195: 186, da cui si cita (per la datazione del discorso di Salviati, si veda p. 192 del saggio citato). Le medesime ragioni espresse da Salviati tornano nelle parole pronunciate il 25 marzo del 1584 da Giovan Battista Deti, il Sollo, nell’atto di assumere l’incarico di arciconsole dell’accademia: «In verità infino ad ora non possiamo dire noi con verità, che questa sia stata Accademia, poiché essendo stata priva d’ordine, di capo, e di esercizj accademici, più tosto brigata s’è potuta chiamare. Ma oggi voi vi siete eletto un Capo che (benché considerando la persona indegnissimo di tanto gradi) mediante voi, che di lui non avete di mestiere, se non per ombra vi saprà reggere, e governare. Oggi si darà ordine a lezioni, a leggi, a giorni per fare le tornate e ad altre bisogne necessarie» (discorso citato in M. MAYLENDER, Storia delle Accademie d’Italia, con una prefazione di S.E. L. Rava, Bologna, L. Cappelli, 1926-1930, II, p. 123 e ripreso da A. QUONDAM, L’Accademia, in Letteratura Italiana, dir. da A. ASOR ROSA, I, Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 823-898: 853). Sulla prima stagione dell’Accademia della Crusca, si vedano almeno: S. PARODI, Quattro secoli di Crusca (1583- 1983), Firenze, Accademia della Crusca, 1983, pp. 11-12; S. PARODI, Piero de’ Bardi “motore” del primo Vocabolario dell’Accademia della Crusca, M. PLAISANCE, Le accademie fiorentine negli anni Ottanta del Cinquecento, in Neoplatonismo, musica letteratura nel Rinascimento, I Bardi di Vernio e l’Accademia della Crusca. Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze- Vernio 25-26 settembre 1998, a c. di P. GARGIULO, A. MAGINI, S. TOUSSAINT, Prato, Rindi, 2000, rispettivamente pp. 15-28, 31-39; N. MARASCHIO e T. POGGI SALANI, La prima edizione del ‘Vocabolario degli Accademici della Crusca’, in Una lingua, una civiltà, il ‘Vocabolario’, a c. di D. DE MARTINO, S. CASINI, Carbonate (Como), ERA Edizioni, 2008, pp. 22-58: 27-30.

18 adunanze il modo e la via del tenere Accademie scrivendo e leggendo.17

L’orazione dell’accademico fiorentino risulta di grande importanza non solo perché sancisce la necessità per le accademie di un ordine e di una guida («uno agl’altri superiore»), ma anche perché inscrive la pratica accademica, quale attività letteraria collettiva ed autocensoria, sotto il segno della piacevolezza, o meglio, dell’utile dulci.

17 Carte Bardi, Frammento 113, p. 3, in MARASCHIO, Lionardo Salviati, Piero de’ Bardi, cit., p. 187.

19 Capitolo I: L’accademia cinquecentesca tra repubblica e società letteraria

I.1 L’accademia: le difficoltà di una definizione

La larga diffusione delle accademie nella penisola rendeva sufficienti pochi tratti per rappresentare ed illustrare un modello culturale, sociale e letterario estremamente radicato nella civiltà italiana. Com’è già emerso nella Premessa, nella prima edizione del loro Vocabolario gli Accademici della Crusca si limitarono a confezionare una descrizione dell’accademia estremamente succinta. La riluttanza a fornire ulteriori dettagli si giustifica facilmente in considerazione del momento storico in cui uscì il Vocabolario, che coincideva appunto con la continua e rapida ascesa del fenomeno accademico. L’estrema proliferazione delle accademie rendeva infatti tali istituzioni estremamente familiari agli uomini di cultura del primo Seicento, cioè ai destinatari ideali dell’opera stessa degli accademici fiorentini. Gli interventi ormai numerosi sulle accademie italiane usciti negli ultimi cinquant’anni mostrano invece le difficoltà che s’incontrano oggi nel tentativo di definire l’accademia cinque-secentesca.1 La lontananza da quel

1 Forse resta ancora una corrispondenza non del tutto adeguata tra l’ampiezza del fenomeno accademico e la bibliografia che intende descriverlo (come notava ancora vent’anni fa F. MINONZIO, La ‘Storia delle Accademie d’Italia’, in «Biblioteche oggi», 8 (1993), pp. 72-74: 73). Tuttavia, ormai la tradizione di studi sulle accademie non è più limitata ad interventi sporadici: P. LONGARDI, P. GALDI, Premessa, nel loro Le accademie in Italia, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1956, pp. 7-13; C. PECORELLA, Note sulla classificazione delle accademie italiane dei secoli XVI-XVIII, «Studi sassaresi», s. 3, 1 (1967-1968), pp. 203-231; J. BEN-DAVID, The Scientist’s Role in Society. A Comparative Study, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, [1971], pp. 59-66; G. BENZONI, Le libidini della servitù e Per non smarrire l’identità: l’Accademia, in ID., Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Milano, Feltrinelli, [1978], rispettivamente pp. 78-143, 144-199; P. ULVIONI, Accademie e cultura in Italia dalla Controriforma all’Arcadia. Il caso veneziano, «Libri e documenti», 5 (1979), pp. 21-75: 21-31; U. BALDINI e L. BESANA, Organizzazione e funzioni delle Accademie, in Storia d’Italia. Annali, III. Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento ad oggi, a c. di G. MICHELI, Torino, Einaudi, 1980, pp. 1307-1333; E. RAIMONDI, Introduzione, A. QUONDAM, La scienza e l’Accademia, C. PECORELLA, L’Accademia come ordinamento giuridico, C. VASOLI, Le Accademie fra Cinquecento e Seicento e il loro ruolo nella storia della tradizione enciclopedica, in Università, Accademie e Società Scientifiche in Italia e in Germania dal Cinquecento al Settecento. Atti della settimana di studio, 15-20 settembre 1980, a c. di L. BOEHM, E. RAIMONDI, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 7-19, 21-67, 69- 79, 81-115; QUONDAM, L’Accademia, cit.; C. DI FILIPPO BAREGGI, Cultura e società tra Cinque e Seicento: le Accademie, «Società e storia», 21 (1983), pp. 641-665; EAD., L’Accademia: una

20 mondo si è notevolmente accentuata ed i contorni dell’accademia, quale istituzione letteraria e luogo della conversazione tra letterati, sono di conseguenza diventati meno chiaramente definiti. Allo studioso però non è richiesto soltanto di colmare la distanza cronologica nei confronti del fenomeno accademico, ma anche di pervenire ad un’idea di accademia che resti valida a diversi livelli. È necessario infatti che la definizione si adatti tanto al singolo sodalizio, quanto al fenomeno generale. In ragione della loro particolare natura relazionale, infatti, le accademie non vanno considerate esclusivamente nella loro singolarità, bensì nel più vasto e complesso organismo culturale e sociale che insieme contribuirono a creare. Ogni istituzione si trovava a dialogare, più o meno armonicamente, col sistema collettivo. In altre parole, ogni sodalizio era già di per sé un network, ossia l’espressione della rete di relazioni (sociali, letterarie, amicali, e così via), che si stabilivano tra i suoi membri, ed analogamente l’insieme delle accademie costituiva a sua volta un altro network, più ampio e ramificato, i cui punti nodali erano costituiti dalle singole unità accademiche. L’appartenenza a più di un’accademia, fenomeno comunissimo, è indicativo

struttura ambigua fra integrazione, opposizione e retorica, «Nuova rivista storica», 71 (1987), pp. 339-356; M. FUMAROLI, Il salotto, l’accademia, la lingua. Tre istituzioni letterarie, Milano, Adelphi, 2001 (ed. or. Paris, Editions Gallimard, 1994), pp. 29-32, 36-38; D.S. CHAMBERS, The earlier ‘Academies’ in Italy, M. FUMAROLI, Academia, Arcadia, Parnassus: trois lieux allégoriques de l’éloge du loisir lettré, in Italian Academies of the Sixteenth Century, ed. by D.S. CHAMBERS and F. QUIVIGER, London, The Warburg Institute, University of London, 1995, rispettivamente pp. 1-14, 15-35; S. RICCI, La crisi dell’umanesimo italiano, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. MALATO, V. La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, pp. 57-109: 78-88; G. DE MIRANDA, Introduzione, in ID., Una quiete operosa. Forma e pratiche dell’Accademia Napoletana degli Oziosi 1611-1645, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2000, pp. 1-16; MOZZARELLI, Dell’Accademie, cit.; G. DE MIRANDA, Tra storia politica e ragioni sociologiche. Rassegna di studi per una definizione delle accademie italiane sei-settecentesche, «Esperienze letterarie», 28 (2003), pp. 103-109; S. RICCI, Nota introduttiva alla Sezione II. Le istituzioni culturali, a c. di S. RICCI e G. DE MIRANDA, in Storia della letteratura italiana, cit., XIII. La ricerca bibliografica. Le istituzioni culturali, a c. di S. RICCI, Roma, Salerno, 2005, pp. 647-717; G. BENZONI, Il consorzio regolare. Le accademie e l’accademismo, in Storia letteraria d’Italia, nuova ed. a c. di A. BALDUINO, Il cinquecento, a c. di G. DA POZZO, II. La normativa e il suo contrario (1533-1573). Le nuove regole e l’estensione dell’analogia, Padova, Piccin Nuova Libraria, 2007, pp. 1431-1449; M. ARIANI, L’assestamento del fronte accademico, in Storia letteraria d’Italia, cit., Il cinquecento, a c. di G. DA POZZO, III. La letteratura tra l’eroico e il quotidiano. La nuova religione dell’utopia e della scienza (1573- 1600), Padova, Piccin Nuova Libraria, 2007, pp. 1783-1824; M. RINALDI, Le accademie del Cinquecento, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, II. Umanesimo ed educazione, a c. di G. BELLONI e R. DRUSI, Treviso-Vicenza, Fondazione Cassamarca, 2007, pp. 337-359; E. IRACE, M.A. PANZANELLI FRATONI, Le accademie in Italia dal Cinquecento al Settecento, in Atlante della letteratura italiana, a c. di S. LUZZATTO e G. PEDULLÀ, II. Dalla Controriforma alla Restaurazione, a c. di E. IRACE, Torino, Einaudi, 2011, pp. 314-322.

21 della complessità e capillarità del sistema. Questi due livelli differenti e complementari di aggregazione devono esser tenuti presenti in ogni nuova definizione di accademia. È possibile di qui proseguire oltre quanto emerso sinora. Siano esse considerate un universo aperto o chiuso, argomento assai discusso tra i critici, le accademie erano comunque parte integrante del contesto culturale loro contemporaneo. Con alcune rarissime eccezioni – celebre fu quella di Bruno, «achademico di nulla achademia» 2 – i letterati erano infatti accademici, e le due identità di accademico e di letterato si intrecciavano nell’uomo di cultura cinquecentesco. Non è del tutto ingiustificato sostenere allora che non ci fu letteratura senza accademie, e nemmeno ci furono accademie senza letteratura. Quanto è stato appena affermato al riguardo della letteratura si può facilmente estendere alle altre discipline del sapere, fino a concludere che tra le accademie ed il generale sistema culturale non vi fu alcuna frattura ovvero soluzione di continuità: le prime infatti funzionavano e partecipavano attivamente all’interno del secondo. Nel momento di elaborare una definizione di accademia, questi due elementi o sistemi non potranno essere in contraddizione l’uno con l’altro, ma piuttosto legati da un rapporto di prossimità, o meglio, ancora una volta, di complementarietà. Muoversi su un terreno tanto vasto ha portato a vistose differenze dal punto di vista delle interpretazioni. Lo dimostra in maniera emblematica il confronto tra il saggio di Amedeo Quondam, L’Accademia, cui si è già fatto riferimento nel precedente capitolo, e i due articoli di Claudia di Filippo Bareggi, usciti nel 1983 e nel 1987.3 Si assiste ad uno scontro, curiosamente non dissimile da un vero e proprio dibattito accademico, tra due prospettive d’indagine del tutto opposte. Secondo Di Filippo Bareggi, le «facili etichettature» non si dimostrano utili a definire le accademie: la loro «forma

2 Le parole di Bruno sono incise nel celebre frontespizio del Candelaio, comedia del Bruno nolano, achademico di nulla achademia, detto il Fastidito; in tristitia hilaris, in hilaritate tristis, in Pariggi, appresso Guglelmo Giuliano, 1582. Sulla commedia bruniana, si vedano almeno A.L. PULIAFITO BLEUEL, Comica pazzia. Vicissitudine e destini umani nel 'Candelaio' di Giordano Bruno, Firenze, Olschki, 2007; M. ARNAUDO, Alla palestra dell’intelletto: una lettura del ‘Candelaio’ di Giordano Bruno, «Italica», 84 (2007), pp. 691-707. 3 QUONDAM, L’Accademia, cit.; DI FILIPPO BAREGGI, Cultura e società tra Cinque e Seicento, cit.; EAD., L’Accademia: una struttura ambigua, cit.

22 ibrida», a metà tra riunione informale tra amici ed istituzione dedicata al sapere, ed il loro orientamento culturale, spesso oscillante tra specializzazione ed enciclopedismo, non potevano trovare riscontro in una sbrigativa definizione. Ciò che effettivamente contraddistinse le accademie era la loro «grande libertà», che spiegava sia la duttilità delle diverse manifestazioni, sia il vincolo di non costrizione che legava tra di loro i membri fin dalla fondazione. Richiamando una tesi già formulata da Paolo Galluzzi e Maurizio Torrini nella Prefazione di un numero monografico di «Quaderni storici», l’autrice oppone un netto rifiuto al «“mito” unitario dell’accademia», inadeguato a mettere in luce efficacemente i contrasti e le diverse sfumature del complesso e variegato mosaico accademico.4 In linea con simili premesse, Di Filippo Bareggi rileva il limite più grande delle riflessioni precedenti di Quondam e di Pecorella nella fonte utilizzata, vale a dire la Storia delle Accademie d’Italia di Michele Maylender. I cinque volumi dell’opera tendono a proporre – a giudizio della studiosa – un’immagine del mondo accademico «come un tutto indistinto». Di qui sono messe addirittura in discussione la possibilità e l’utilità di produrre delle sintesi, vista la difficoltà, quasi insormontabile, di raffigurare attraverso grafici o schemi un’«analisi quantitativa rigorosa applicata a temi così ambigui e sfuggenti come quelli attinenti la storia della cultura e delle idee». Meglio allora – conclude la studiosa – procedere a nuove analisi: «a nuove sintesi si penserà poi».5 Le critiche di Di Filippo Bareggi – va pur detto – poggiano in realtà su una forzatura di alcune sfumature del precedente lavoro di Amedeo Quondam. Nonostante sia orientato verso la ricerca di una «forma accademia», da riconoscere tra gli elementi comuni delle molteplici accademie, Quondam non nega per questo la varietà dell’universo accademico. Secondo lo studioso, l’«archetipo» del Cortegiano, sviluppato pragmaticamente dal modello della Civil conversazione di Stefano Guazzo,

4 P. GALLUZZI, M. TORRINI, Premessa, «Quaderni storici»: Accademie scientifiche del 600. Professioni borghesi, 48 (1981), pp. 757-762, dove si critica la «tranquillizzante immagine unitaria» che risulta dalla analisi precedenti sul fenomeno accademico (citazione a p. 759). 5 DI FILIPPO BAREGGI, Cultura e società tra Cinque e Seicento, cit., pp. 657-658, 665; EAD., L’Accademia: una struttura ambigua, cit., p. 343.

23 fungeva da comune denominatore delle esperienze accademiche. Scandito dalla regola della «grazia» e sotto il segno della «sprezzatura», aveva luogo l’ideale della conversazione accademica, in cui riusciva più piacevole l’uomo universale, capace di proporre, con amabile cortesia, un inesauribile ventaglio di argomenti. Tutto ciò non porta però ad una rinuncia alle distinzioni e alle differenziazioni. Piuttosto, quanto rilevato da Quondam serve ad individuare il modello di riferimento principale dell’universo accademico, modello che agiva non soltanto nelle accademie letterarie od universali, ma anche in quelle specializzate. Nel sesto paragrafo (L’insieme, le tipologie accademiche) del suo ampio saggio, Quondam propone infatti una classificazione piuttosto dettagliata dei diversi profili delle accademie, procedendo ad una distinzione tra quelle pubbliche e private, tra quelle istituzionalmente formalizzate e quelle ancora attive nella forma originale di ‘conversazione’, tra quelle universali e quelle settoriali, e così via.6 A ben vedere, entrambi i giudizi critici di Di Filippo Bareggi e di Quondam sono comunque legittimi, perché la vastità, la lunga durata, la straordinaria diffusione delle accademie consentono interpretazioni non univoche e persino, ad una prima lettura, confliggenti tra loro. Le osservazioni di Di Filippo Bareggi convincono di più nella pars construens, ossia nell’esortazione, parafrasando un motto scolastico, a distinguere frequentemente. Ed è altrettanto valido l’invito dell’autrice a porre in pratica gli insegnamenti di Dionisotti, che ha suggerito di «accostarsi ai fenomeni culturali senza dimenticare di inserirli nella storia concreta dalla quale essi mossero e di cui furono espressione».7 Il grande vantaggio della tesi di Quondam sta invece nella sua economicità, che pure, quasi paradossalmente, diventa sinonimo di grande ricchezza e complessità. Le accademie risultano così comprese in un più

6 Quondam si muove con estrema cautela, conscio anch’egli dei «non pochi errori» disseminati nell’archivio di Maylender, che rimane comunque «un punto obbligato di riferimento» per simili indagini. Inoltre, come egli segnala in merito alla distinzione tra «accademie pubbliche» e «accademie private», le classificazioni proposte non sono da intendersi in senso rigido: «questa suddivisione è […] complessa e precaria, e non potrebbe in alcun modo organizzarsi in tabelle d’insieme […], sia per la mobilità istituzionale dell’accademia, sia per lo stesso confine incerto tra pubblico e privato, tra formalizzato e non-formalizzato» (QUONDAM, L’accademia, cit., pp. 858-881, citazione a pp. 860-861). 7 DI FILIPPO BAREGGI, Cultura e società tra Cinque e Seicento, cit., p. 658.

24 ampio sistema, quello del classicismo di Antico regime, che Quondam stesso ha indagato approfonditamente negli ultimi trent’anni. Tale categoria è da intendersi tutt’altro che priva da sfumature, nel suo difficile equilibrio tra una pervasiva continuità di fondo, data dalle sue «invarianti micro e macrostrutturali», e una costante e prolungata evoluzione metamorfica. Sarebbe inopportuno ripercorrere il poderoso e incessante impegno dello studioso nello spazio di poche righe; tuttavia, conviene qui osservare la felice e fruttuosa connessione tra le accademie e la tradizione culturale della civiltà di Antico regime. Il classicismo era un sistema organico che funzionava da fattore aggregante ed identitario dei gentiluomini. Comprendeva insieme saperi diversi, quali la politica, l’etica, l’economica e l’estetica, strettamente interconnessi tra loro a confezionare insieme il sistema di riferimento morale e culturale degli uomini di cultura di Antico regime. In un recentissimo volume, Forma del vivere, Quondam si sofferma in particolare ad analizzare l’etica classicista, che naturalmente poggiava sulle categorie morali messe a punto dagli antichi. Entro il binomio umanistico litterae - mores, che presupponeva un inscindibile intreccio tra lettere e buoni costumi, si plasmava la «forma del vivere» del gentiluomo cinquecentesco, chiamato a dar prova di sé entro il contesto relazionale di riferimento. La sua abilità andava infatti esercitata sullo scenario del mondo, al cospetto di altri gentiluomini: in corte o in accademia, quindi, dove egli incontrava i suoi amici ‘conformi’ per «seconda natura». La teoria di Quondam emerge dunque da un quadro estremamente coerente: che la si voglia adottare o rifiutare, essa si impone quale punto di riferimento imprescindibile.8

8 Si veda perciò A. QUONDAM, Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, Bologna, il Mulino, 2010, cui si rimanda per la bibliografia dei molti interventi dedicati dall’autore alla tematica del classicismo di Antico regime. Le parole tra virgolette sono delle formule che lo stesso Quondam ha coniato e che lo studioso impiega assai spesso nei suoi contributi: sarebbe inutile porre in nota una particolare occorrenza.

25 I.2 Le accademie: Res publica literaria?

Come si è visto, il nome di Dionisotti è spesso ricordato per ribadire la necessità di inserire il fenomeno accademico entro il contesto storico- geografico di riferimento. Tuttavia, le osservazioni dello studioso espressamente dedicate alle accademie, che si leggono nel saggio su La letteratura italiana nell’età del concilio di Trento, hanno paradossalmente ricevuto assai minor attenzione. Dionisotti individua una doppia traiettoria, una di apertura e l’altra di chiusura, che caratterizza la storia della letteratura italiana nel ventennio che va dal 1540 al 1560. Durante gli anni immediatamente precedenti e successivi all’inizio del Concilio di Trento, la società letteraria, in piena espansione, dimostrò estrema facilità e disponibilità ad accogliere nuovi membri e nuove suggestioni. Fu in primo luogo un’apertura linguistica, ed in secondo luogo intellettuale, come dimostra anche la straordinaria carriera dell’«ignorante» Aretino. Per la «società letteraria» si era allora reso necessario andare alla ricerca di un «assetto che al tempo stesso accogliesse e disciplinasse» il gran numero dei suoi partecipanti; un assetto – chiosa Dionisotti – che quella stessa società letteraria «stentava a trovare».9 Nella visione proposta da Dionisotti, a questa iniziale stagione di apertura si contrappose, negli anni che coincisero con la conclusione dell’assemblea tridentina, un opposto moto di chiusura della società letteraria. Essa non era più disposta ad accogliere chi rivendicava le proprie umili origini e nemmeno chi vantava il proprio analfabetismo letterario. Era l’età dei gentiluomini, dell’onore e della ricomparsa della filologia: superata la metà del secolo, «la mira della letteratura italiana si fece risolutivamente più ambiziosa» ed il prepotente ritorno di una «scienza della letteratura» chiuse gli spazi precedentemente aperti.10

9 C. DIONISOTTI, La letteratura italiana nell’età del concilio di Trento [1965], in ID., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 227-254: 236-237. 10 DIONISOTTI, La letteratura italiana nell’età del concilio, cit., pp. 246-248. Le medesime riflessioni intorno al carattere della lingua e della letteratura italiana nel ventennio 1540- 1560 si ritrovano in un altro saggio di C. DIONISOTTI, Tradizione classica e volgarizzamenti, in ID., Geografia e storia, cit., pp. 125-178: 175-176.

26 Dionisotti collega il momento di espansione della società letteraria alle accademie: il consistente e rapido aumento dei ‘letterati’ è la ragione che ne spiega l’esistenza. L’ingresso di questa «folla» avvenne tra disponibilità all’accoglienza e azione di disciplinamento. In questo movimento tutto interno alla stessa classe degli uomini di lettere, poiché gli accademici furono, o si sentirono, ‘letterati’, emerse presto il bisogno di provvedere ad un tentativo di organizzazione, o meglio, di ‘istituzionalizzazione’. Nacque cioè quasi spontaneamente l’urgenza di regolare, attraverso la fondazione delle accademie, il flusso d’entrata nella nazione dei letterati. Da questo primo sforzo di formalizzazione, si spiega forse con maggior facilità il successivo passaggio che ebbe luogo in non poche accademie. Queste procedettero alla stesura degli statuti, alla definizione di una gerarchia, alla creazione di una simbologia identitaria ed autoreferenziale, e così via. Si può allora concludere che la ricerca di un assetto in grado di svolgere la doppia azione di accogliere e disciplinare i suoi affiliati venne perseguita dalla società letteraria, intesa nella sua globalità, così come dalle singole società letterarie, vale a dire dalle accademie che si dotarono di un’architettura istituzionale. Dionisotti fa continuo riferimento alla società letteraria. In merito alle accademie, altri critici hanno invece preferito servirsi dell’espressione Res publica literaria o Repubblica letteraria. 11 Da ultimo, se n’è fatto promotore Simone Testa, appartenente al project team di Italian Academies. In un suo articolo del 2010, egli rileva il recente accostamento, non ancora

11 Per una storia del concetto e dell’idea di repubblica delle lettere, si veda la sintesi di H. BOTS, F. WAQUET, La Repubblica delle lettere, Bologna, il Mulino, 2005 (ed. or. Paris, Belin, 1997). Risultano utili anche Res Publica literaria, die Institutionen der Gelehrsamkeit in der fruhen Neuzeit, a c. di S. NEUMEISTER, C. WIEDEMANN, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1987; M. FUMAROLI, The Republic of Letters, «Diogenes», 143 (1988), pp. 129-152; A. GOLDGAR, Impolite Learning. Conduct and Community in the Republic of Letters, 1680-1775, New Haven (Conn.), Yale University Press, 1995; M. FUMAROLI, L’età dell’eloquenza. Retorica e «res literaria» dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, Milano, Adeliphi, 2002 (ed. or. Genève, Droz, 1980); ID., La Repubblica delle lettere e l’identità europea, «Intesezioni», 27 (2007), pp. 157- 168. La costante attenzione di Fumaroli per il tema della Repubblica letteraria è stata oggetto del saggio di E. VINEIS, Marc Fumaroli e la Repubblica delle lettere, «Schede umanistiche», 15 (2001), 1, pp. 5-19, composto in occasione del conferimento allo studioso francese della laurea ad honorem presso l’Ateneo bolognese. Relativamente al contesto italiano: G. ALFANO, Dalla città alla repubblica delle lettere: forme della conversazione e modelli della politica nel Cinquecento italiano, Roma, Bulzoni, 2003; C. DE MICHELIS, La repubblica dei letterati d’Italia, «Lettere italiane», 62 (2010), pp. 517-528.

27 pienamente formulato, ma sempre meno esitante rispetto al passato, tra le accademie italiane e la République des Lettres. Sembra infatti superato quel pregiudizio, perlopiù francese, che in passato lo aveva invece negato o addirittura rifiutato. Quale ideale compimento di questo processo vi è proprio l’Italian Academies Themed Collection Database, che consente «di aprire alcuni degli spazi oggettivi in cui la République des lettres si è formata».12 Com’è noto, le origini dell’idea di Res publica literaria sono umanistiche: tale espressione apparve per la prima volta in una lettera del 6 luglio del 1417 di Francesco Barbaro a Poggio Bracciolini. Il giovane veneziano si complimentava con Bracciolini per la scoperta di preziosi manoscritti latini nelle biblioteche tedesche: il toscano aveva agito «pro communi utilitate» e meritava dunque i più alti elogi. Tuttavia, come hanno già osservato tra gli altri Marc Fumaroli e Stefano Jossa, già in precedenza alcuni letterati avevano immaginato, seppur in forme più sfumate, la creazione di una società ideale sotto il valore comune della letteratura.13 Gli esempi dei «fedeli d’Amore» di Dante, della «allegra brigata» di Boccaccio e del «voi» del primo verso del proemio del Canzoniere, con cui Petrarca chiamava a raccolta i suoi interlocutori, diedero inizio ad una suggestiva tradizione che ebbe grande fortuna nella storia della letteratura italiana. Il culmine venne raggiunto con l’apporto di Pietro Bembo, «il grande fondatore della comunità letteraria», che proponendo l’adozione di una lingua cristallizzata e dunque sicura, rese possibile una comunicazione più stabile tra i membri della società dei dotti.14 Non è necessario procedere oltre questa semplificazione di questioni in realtà assai complesse per comprendere che le corti e le accademie furono assai spesso le sedi prescelte per perpetuare questa comunità. Simili luoghi consentivano e

12 S. TESTA, Le Accademie senesi e il network intellettuale della prima età moderna in Italia (1525-1700). Un progetto online. Introduzione di Jane Everson, in «Bullettino senese di storia patria», 117 (2010), pp. 613-637: 617-620. In riferimento al recente passato, Testa lamenta invece nei lavori di Françoise Waquet l’accantonamento subito dalle accademie italiane «quando si è parlato di République des Lettres in ambito francese» (p. 617, cui si rimanda per la bibliografia degli scritti di Waquet). 13 FUMAROLI, Il salotto, l’accademia, la lingua, cit., pp. 29-31; S. JOSSA, L’Italia letteraria, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 77-99. 14 JOSSA, L’Italia letteraria, cit., p. 85.

28 creavano, attraverso il medium della letteratura, l’appartenenza culturale dei loro soci. L’idea delle accademie quale ‘Repubblica delle lettere’ non è certo nuova nell’ambito degli studi italiani, essendo già stata sostenuta per esempio da Benzoni, da Quondam e più recentemente da Nardi.15 Benzoni, per esempio, mette efficacemente in luce la doppia natura delle accademie, che da un lato svolsero «una funzione localmente unificatrice», restituendo un’identità alle periferie, e dall’altro, per i loro generali caratteri di uniformità, si rivelarono un «fattore di unificazione culturale». Pur essendo espressione della radicata frammentazione culturale della penisola, le accademie crearono, secondo Benzoni, un’estesa rete di contatti tra i diversi membri che oltrepassava i confini municipali. Grazie all’utilizzo di un linguaggio «convenzionale ed artificioso», purificato dagli influssi delle varietà locali, la conversazione accademica si apriva con disinvoltura sulla scena letteraria nazionale. La flessibilità del modello accademico, così largamente diffuso sin nei più sperduti consorzi umani, garantiva insomma la difesa delle periferie, ma insieme le indirizzava spesso verso il centro. Lo studioso arriva così a sostenere che esse delineavano già, in anticipo sull’Arcadia, la «“Repubblica letteraria” d’Italia». La stessa composizione delle accademie rispecchiava tale orientamento: nella maggioranza dei casi, magari accanto ad un gruppo compatto di esponenti locali, i membri delle singole istituzioni provenivano da regioni diverse. L’accoglienza di personaggi forestieri era resa possibile in nome del comune intendimento etico che era assicurato dalla condivisione di quella “seconda natura” di cui parla Quondam. A garantire il funzionamento dell’unione dei membri accademici era la qualifica, tanto vaga quanto ambita, di ‘letterato’; una qualifica che si rendeva concreta attraverso un percorso «circolare» per cui «l’accademia crea il letterato, i

15 BENZONI, Per non smarrire l’identità, cit., p. 180; QUONDAM, L’accademia, cit., pp. 858-881; F. NARDI, “Letture” in Accademia: esempi cinque-secenteschi, «Studi (e testi) italiani», 9 (2002), pp. 105-122: 122. Tale definizione si riferisce con ancora maggior facilità alle singole accademie: perciò non sorprende che Lucia Denarosi abbia intitolato Una cinquecentesca «Repubblica delle lettere» il primo capitolo del suo volume L’Accademia degli Innominati di Parma: teorie letterarie e progetti di scrittura (1574-1608), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, pp. 25-87.

29 letterati costituiscono le accademie».16 Ogni accademia risultava così una società organizzata di letterati, una repubblica insomma, con le sue regole e le sue leggi; ed analogamente, l’insieme delle accademie costituiva la grande repubblica dei letterati. Il concetto di Repubblica delle lettere si adatta perciò naturalmente alle accademie italiane del medio Cinquecento e del primo Seicento. Tuttavia, una duplice osservazione permette di precisare l’uso di tale espressione. In primo luogo, dal momento che ad essere in discussione è dopotutto una scelta terminologica, per definire la società degli accademici italiani della seconda metà del XVI secolo sembra preferibile la forma italiana di Repubblica delle lettere (o letteraria) rispetto a quella latina di Res publica literaria. Gli accademici si esprimevano infatti perlopiù in volgare, la lingua che andavano sviluppando dopo le dispute e le discussioni di inizio secolo, limitando di conseguenza l’uso del latino rispetto al secolo passato. Non di rado, come ben testimonia l’esempio di Benedetto Varchi, gli autori provvedevano ad inserire nelle loro lezioni accademiche traduzioni in volgare di passi latini.17 Era comune la consapevolezza di rivolgersi ad un

16 BENZONI, Per non smarrire l’identità, cit., pp. 179-180. 17 Il fiorentino nell’Hercolano affermava di approvare e lodare l’uso delle traduzioni e riferiva un’interessante opinione di «Bartolomeo Riccio», il quale invece si lamentava «che nelle città d’Italia si ragunino publicamente accademie, e che d’ogni sorte huomini si ritruovino molti, i quali non cessino di tradurre le cose latine nella lor lingua» (B. VARCHI, L’Ercolano, edizione critica a c. di A. SORELLA, Presentazione di P. TROVATO, Pescara, Libreria dell’Università, 1995, II, p. 908. Il riferimento di Varchi è a B. RICCI, De imitatione libri tres ad Alfonsum Alestinum principem suum in litteris alumnum, Venetiis, apud Aldi filios, 1541). Sull’opera di traduzione di Varchi e degli Infiammati, si vedano V. VIANELLO, Il letterato, l’Accademia, il libro. Contributi sulla cultura veneta del Cinquecento, Padova, Antenore, 1988, pp. 124-137; M.T. GIRARDI, Il sapere e le lettere in Bernardino Tomitano, Milano, Vita e Pensiero, 1995 (in particolare il capitolo La promozione del volgare, pp. 137-170, cui si rimanda per la bibliografia); A. SIEKIERA, Aspetti linguistici e stilistici della prosa scientifica di Benedetto Varchi, in Benedetto Varchi (1503-1565). Atti del convegno (Firenze, 16-17 dicembre 2003), a c. di V. BRAMANTI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, pp. 319- 376; A. ANDREONI, La via della dottrina. Le lezioni accademiche di Benedetto Varchi, Pisa, ETS, 2012, pp. 43-53. Claudia Di Filippo Bareggi ha ravvisato nel generale «impegno» nei confronti del volgare un intento condiviso tra le accademie cinquecentesche da lei considerate: Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, p. 135 (elenco delle accademie alle pp. 124-125). Già Alberto Lollio, nell’esortare all’uso della lingua toscana, aveva sottolineato la grande fortuna che questa stava ottenendo presso le accademie italiane: «essendo adunque la lingua toscana […] la più bella, la più nobile, la più ornata, la più ricca, la più usata, la meglio intesa e la più perfetta di tutte l’altre che vivano, e vedendo voi qualmente non solo tutte le academie d’Italia, ma etiandio tutti gli huomini di scienza, d’ingegno e di giudicio eccellenti […] per tale la conoscono, […] volgetevi allegramente, con acceso disio, […] al bello e al pretioso acquisto d’una sì dolce e sì leggiadra lingua» (A. LOLLIO, Oratione di messer A.L. in

30 pubblico assai ampio, che non comprendeva soltanto specialisti delle lettere e dunque uomini capaci di padroneggiare anche la lingua latina, ma anche, se non soprattutto, dilettanti affascinati dalle lettere. Gli accademici non erano infatti necessariamente uomini che avevano ricevuto un’educazione umanistica. Così, a contatto coi testi letterari prevaleva in questi una entusiastica curiosità esplorativa a scapito di una più compassata e meditata filologia. Per tornare alla definizione, si può allora concludere che le accademie italiane diedero vita ad una Repubblica delle lettere, i cui confini corrispondevano grosso modo a quelli della penisola, ed i cui soci, i letterati italiani, si esprimevano di preferenza in volgare.18 In secondo luogo, va ricordato che una piena e radicata consapevolezza di dar luogo ad una Repubblica letteraria venne formandosi soltanto un secolo dopo l’esuberante esplosione del fenomeno accademico. Con la costituzione dell’Arcadia, diventò reale l’idea di fondare un sistema generale dove trovasse accoglienza la società letteraria del tempo. Il progetto dei pastori Arcadi si contraddistinse da un lato per la condivisa e determinata reazione al cattivo gusto barocco e dall’altro per l’intenzione di dare una forma fisica alla Repubblica delle lettere. Quest’ultima si articolò in un sistema complesso di istituzioni, le colonie arcadiche, tutte soggette alla principale accademia romana. Il testo che meglio teorizzò questo cambiamento di prospettiva è uno scritto giovanile di Ludovico Antonio Muratori, dal titolo Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia.19 L’opuscolo, datato 1703, fu composto nel

laude della lingua toscana. Ai signori Academici Filareti, in ID., Due orationi del signor A.L., l’una in laude della lingua toscana, l’altra in laude della concordia. Ai signori Academici Filareti di Ferrara, in Venetia, per Sigismondo Bordogna, 1555, cc. 3r-11v: 11r-v). Su Alberto Lollio, si veda V. GALLO, Lollio, Alberto (Flavio), DBI, 65, 2005, ad vocem. Sul generale fenomeno dei volgarizzamenti nella stagione tra il 1540 e il 1560 si veda ancora DIONISOTTI, Tradizione classica e volgarizzamenti, cit., pp. 175-178. 18 Ciò naturalmente non esclude anche la coeva costituzione di una res publica literaria, la cui lingua era il latino, aperta ad una prospettiva europea e non limitata al contesto italiano. Interessanti stimoli di ricerca in merito all’apporto delle tradizioni volgari alla res publica literaria internazionale in A. VAN DIXHOORN, S. SPEAKMAN SUTCH, Introduction, in The Reach of the Republic of Letters. Literary and Learned Societes in Late Medieval and Early Modern Europe, ed. by A. VAN DIXHOORN, S. SPEAKMAN SUTCH, Leiden, Brill, 2008, I, pp. 1-16: 12-14 (ma tutta la miscellanea è da vedere in quanto questo è uno dei temi principali della ricerca proposto dai due curatori). 19 L’edizione moderna del testo si legge in L. PRITANIO [pseud. di L.A. MURATORI], Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia esposti al pubblico da L.P., in Dal Muratori al

31 1704 sotto lo pseudonimo di Lamindo Pritanio. Prima di essere aggregato nell’Accademia dell’Arcadia col nome di Leucoto Gateate, il modenese aveva inviato i suoi Primi disegni a numerosi uomini di cultura italiani nel tentativo di «svegliar chi dorme». Muratori si era così rivolto ai letterati e agli uomini di cultura italiani per invitarli ad unire gli sforzi comuni e dar vita ad una nuova comunità. Per realizzarla, l’erudito modenese guardava ancora alle accademie, riadattate però verso la polarità dell’utile a scapito del dulci. Fino ad allora, osservava Muratori, i numerosissimi sodalizi non avevano portato gli effetti positivi previsti: se anche «il fine può essere stato nobile, […] non può dirsi che il frutto corrisponda all’intenzione». Gli sforzi degli accademici si sono ridotti alla ricerca «di un breve applauso», del «transitorio diletto», non si sono indirizzati ad un progetto costruttivo e di ampio respiro. La soluzione non si trova in un’istituzione che sostituisca le accademie, che vanno se mai «migliorate» e rese «utili», ma piuttosto nell’unione dei diversi sodalizi in «una sola accademia e repubblica letteraria, l’oggetto di cui fosse perfezionar le arti e scienze col mostrarne, correggerne gli abusi e coll’insegnarne l’uso vero». La ricetta di Muratori prevedeva quindi una reductio ad unum delle diverse accademie, la loro fusione in un’istituzione più grande di carattere nazionale.20 Nei Primi disegni Muratori si rivolgeva con occhio critico verso il passato. La volontà di affrancarsi dalle precedenti istituzioni letterarie è dimostrata dalla ricerca di una razionalizzazione del sistema accademico, dalla centralità dell’«erudizione», dalla dettagliata gerarchizzazione dei ruoli accademici e soprattutto dalla necessità di una severa selezione intesa a disciplinare l’ingresso dei nuovi soci: è necessario «troncar le strade all’ambizione, all’invidia, e spezialmente alle brighe di coloro che senza merito vogliono entrar a parte dei titoli ed onori […] riserbati ai degni

Cesarotti, I. Opere di Ludovico Antonio Muratori, a c. di G. FALCO, F. FORTI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 177-197. Sull’opera sono utili: A. ANDREOLI, Come nacque nel Muratori l'idea dei ‘Primi disegni della repubblica letteraria d'Italia’, «Atti e memorie dell’Accademia nazionale di scienze, lettere e arti di Modena», s. 6, 11 (1969), pp. 166-170; E. RAIMONDI, Ragione ed erudizione nell’opera di Muratori [1967], in ID., I lumi dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Milano, Vita e Pensiero, 1989, pp. 79-97; V. KAPP, Muratori e l’idea della repubblica letteraria d’Italia, «Romanische Forschungen», 114 (2002), pp. 191-205; M. VERGA, Decadenza italiana e idea d’Europa (XVII-XVIII sec.), «Storica», 8 (2002), 22, pp. 7-33: 30-31. 20 [MURATORI], Primi disegni, cit., pp. 178, 181 (corsivo nel testo).

32 cittadini di questa repubblica». Eppure tra le righe di Muratori appaiono ancora le medesime espressioni che descrivevano nei due secoli precedenti il fine e il funzionamento delle accademie: «sarebbe necessario accendere gli animi con istimoli d’onore, con una nobile gara, e col determinare vicendevoli premi di gloria e di lode a chi più felicemente e valorosamente aumentasse l’imperio delle scienze e dell’arti». L’«onore», la «nobile gara», la ricerca della «gloria» sono i medesimi termini che, come si vedrà nel successivo paragrafo, plasmarono il concetto di accademia italiano del periodo tardo cinquecentesco.21

I.3 Per una teorizzazione dell’accademia

Non è possibile offrire nello spazio di poche pagine un’efficace sintesi del fenomeno accademico italiano. Invece di proporre una panoramica dettagliata sulle accademie, si è allora preferito insistere sul processo di teorizzazione che accompagnò la loro diffusione. Essendo il movimento accademico estremamente sviluppato e capillare, la validità di quanto viene esposto di seguito non si adatta necessariamente alle accademie italiane lungo tutto l’arco della loro storia. È pertanto opportuno precisare che si è fatto riferimento perlopiù a testi della seconda metà del Cinquecento, i quali, verosimilmente, descrivono la natura dell’istituzione accademica all’incirca negli stessi anni in cui nacque e si sviluppò il sodalizio degli Insensati di Perugia (1561). Le origini del fenomeno accademico appartengono ad un periodo ben precedente alla metà del Cinquecento. Ciò nonostante, proprio nella seconda metà del XVI secolo si assistette ad un aumento significativo nel numero delle accademie, che si erano ormai affrancate dall’originale modello umanistico.22 Secondo i calcoli di Quondam, che si basano sulle schede di

21 [MURATORI], Primi disegni, cit., p. 182. 22 L’affermazione risulta quasi un assioma, universalmente sostenuto (Dionisotti fu tra i primi: La letteratura italiana nell’età del concilio, cit., p. 236). Manca però al riguardo una bibliografia soddisfacente. Alcune riflessioni, non sempre efficaci, si leggono nell’intervento di RICCI, Nota introduttiva, cit., pp. 647-717: 655-659). Non è poi secondario il problema di individuare con certezza le accademie quattrocentesche. Clamoroso è il caso, per esempio, dell’esistenza della (supposta) Accademia Platonica ficiniana, che recenti indagini tendono

33 Maylender, il numero effettivo delle accademie attive nel XVI secolo risulta essere di 870. Si ottiene un’idea meglio definita della dimensione straordinaria del fenomeno quando si menzioni il numero – 342 – dei centri che accolsero almeno un’accademia. Le città e i paesi dove prosperarono le accademie si possono suddividere in due gruppi. Da una parte stanno le 11 capitali accademiche, in grado di vantare una notevole continuità negli atti fondativi, che assorbirono circa il 46% del totale delle stesse accademie; dall’altra parte vi sono i rimanenti 331 centri minori, in cui una tradizione accademica, pure accertata, si impose con minore costanza e continuità.23

I.3.1 L’accademia: tra virtù e lettere

Naturalmente, alcuni spunti o riflessioni che ritraevano i caratteri (spesso ideali) di una determinata accademia (altrettanto ideale) erano presenti in numerosissime orazioni o laudes accademiche. Si è perciò deciso di operare una severa selezione che privilegi i testi più noti e che meglio si prestano ad illustrare e a fare emergere gli elementi fondanti dell’accademia letteraria. Come si vedrà, il canone degli autori qui proposto ricalca ed integra in parte quelli già messi a punto in altri recenti contributi (richiamati di volta in volta in nota); il che testimonia anche di una sostanziale conformità di interpretazioni circa i modi e i fini della teorizzazione del fenomeno accademico da parte dei medesimi protagonisti. sostanzialmente a negare: HANKINS, The Mith of the Platonic Academy of Florence, cit.; ID., The Invention of the Platonic Academy of Florence, «Rinascimento», s. 2, 41 (2001), pp. 3-38. Nella citata miscellanea di studi The Reach of the Republic of Letters, Arjan van Dixhoorn e Susie Speakman Sutch propongono un’origine alternativa per le accademie europee: contestano il paradigma delle accademie italiane umanistiche perché «it neglects the older medieval history of literary association in which France, Germany and the Netherlands instead of Italy might well serve as a point of reference. These types of literary associations have not been taken into consideration in the pedigree of the so-called ‘academic’ movement of early modern Europe» (Introduction, I, pp. 6-7). Se lodevole è l’intento della miscellanea di considerare il fenomeno accademico in una prospettiva europea, meno lodevole è la riduzione dell’impostazione generale ad una (mera?) questione di precedenze, che ignora o sottovaluta le differenze tra le varie tradizioni nazionali. La confutazione delle indicazioni critiche di van Dixhoorn e Speakman Sutch richiederebbe una discussione troppo ampia; ci si limita qui a ricordare ciò che, finanche con eccessivo «orgoglio», sostiene Amedeo Quondam, nella Premessa al suo volume La conversazione. Un modello italiano, Roma, Donzelli, 2007, pp. VII-XVII. 23 Le 11 città risultano essere Roma, Napoli, Venezia, Bologna, Firenze, Siena, Ferrara, Palermo, Padova, Verona e Milano. I dati sono ricavati da QUONDAM, L’accademia, cit., pp. 886-898, che a sua volta trae le informazioni dalle schede di MAYLENDER, Storia delle Accademie d’Italia, cit.

34 Si è allora preferito proporre inizialmente una visione d’insieme dell’istituzione e procedere in un secondo momento a chiarirne i singoli aspetti. Il punto di partenza è la lucida e «citatissima» definizione proposta da Scipione Bargagli.24 La si legge in una lezione accademica in volgare che il senese recitò originariamente in una forma abbreviata in latino il 23 aprile 1564 (Oratio de laudibus Academicarum), in occasione della riapertura dell’Accademia senese degli Accesi. L’orazione Delle lodi dell’academie venne data alle stampe in due versioni a distanza di vent’anni una dall’altra: la prima nel 1569 e la seconda nel 1589.25 Non sorprende affatto che la prima e più articolata riflessione sull’accademia avesse luogo a Siena, forte della sua tradizione di accademie ‘regolate’. Simone Testa ha individuato con sicurezza nel capoluogo toscano «la città in cui il fenomeno delle Accademie ha il suo inizio per così dire ufficiale», perché proprio a Siena, che accolse gli accademici Intronati nel 1525, si passò «dall’idea di un sodalizio estemporaneo a quello di istituzione».26 Il citato Bargagli suddivise la sua orazione Delle lodi dell’academie in tre parti: le prime due espositive, l’ultima esortativa. Nella prima parte si ragiona intorno alla «nobile e antica» origine delle accademie e sulla loro «conformità […] con la stessa natura». Nella seconda s’illustra la «certa e grande utilità» e l’«honor» e la «reputatione» che queste garantiscono a chi vi prende parte. Nella conclusiva sezione, Bargagli apostrofava direttamente gli Accademici Accesi e li esortava a «porre ogni opera, ogni cura ed ogni

24 Così la qualifica giustamente RINALDI, Le accademie del Cinquecento, cit., p. 344. 25 S. BARGAGLI, Delle lodi dell’academie. Oratione di S.B., da lui recitata nell’Academia degli Accesi in Siena. All’illustrissimo signore Scipion Gonzaga principe, in Fiorenza, [Luca Bonatti], 1569; ID., Delle lodi dell’accademie. Orazion di S.B. riformata nuovamente e ristampata […], in ID., La prima parte dell’imprese di S.B. […] Appresso orazione delle lodi dell’accademie, in Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1589, pp. 113-142. Il manoscritto della versione latina dell’orazione, più breve rispetto alle successive italiane, è conservato presso la Biblioteca civica degli Intronati di Siena (segnatura: K. VI. 105). Sull’orazione di Scipione Bargagli si veda: ULVIONI, Accademie e cultura in Italia, cit., pp. 21-22; L. RICCÒ, Introduzione, in S. BARGAGLI, I trattenimenti, a c. di L. RICCÒ, Roma, Salerno, [1989], pp. XIII-LXXVIII: XXXIV- XXXVIII; EAD., La «miniera» accademica. Pedagogia, editoria, palcoscenico nella Siena del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 16-17; NARDI, “Letture” in Accademia, cit., pp. 105- 108; RINALDI, Le accademie del Cinquecento, cit., pp. 344-345; ARIANI, L’assestamento del fronte accademico, cit., pp. 1785-1787. 26 TESTA, Le accademie senesi, cit., p. 621; dello stesso avviso RINALDI, Le accademie del Cinquecento, cit., p. 347.

35 industria […] intorno allo esercitio e al concorso e allo studio dell’accademie» (12).27 Nel presentare l’argomento della sua orazione, l’autore dichiarava le sue difficoltà ed incertezze nell’affrontare un soggetto «fino a questo dì […] da niuna persona, in niuna guisa, giamai trattato» (11). Eppure la definizione di accademia, proposta nella prima parte, appare come una sintesi nitida ed equilibrata delle principali qualità che caratterizzavano l’idea di accademia ai tempi di Bargagli. La sua definizione era certamente il frutto della consapevolezza maturata dall’autore grazie alla sua duplice esperienza di letterato ed accademico:

Possiamo assai convenevolmente, secondo il parer mio, dire quella [ossia l’accademia] in vero non esser altro ch’uno adunamento di liberi e virtuosi intelletti, con honesta, utile e amichevole emulatione a saper pronti: li quali sotto diterminate lor leggi ed istatuti, in diversi e honorati studi, e principalmente di lettere, hora imparando e hora insegnando, s’assercitino per divenire ogni giorno più virtuosi e più dotti. (13)

Tramite l’uso di precisi aggettivi, è individuata in primo luogo la tipologia dei membri accademici, o meglio dei loro «intelletti», che dovevano essere «liberi e virtuosi» e «pronti» a ricevere il sapere. Le porte dell’accademia non erano aperte a tutti. In particolare, ne rimaneva escluso il popolo, l’«infido volgo», costante oggetto di una sprezzante presa di distanza. Si tratta certamente dell’ennesima riproposizione di un tema topico, affrontato molte volte dai letterati, che acquistava una valenza ancor più pregnante nel contesto delle accademie. L’affrancamento dal popolo rispondeva precisamente al desiderio di promozione sociale che si accompagnava naturalmente alla diffusione dei sodalizi letterari cinquecenteschi. Lo chiarisce assai efficacemente un passaggio contenuto nelle pagine della Civil conversazione che immediatamente precedono la descrizione dell’Accademia degli Illustrati di Casale (Monferrato). Qui Stefano Guazzo celebrava la conversazione con i «dotti» (aggettivo presente anche nella definizione di Bargagli), in opposizione a quella con gli «idioti»:

27 BARGAGLI, Delle lodi dell’academie, cit. Si cita dall’edizione del 1569.

36 Perché noi dicemmo poco fa, che ’l letterato riceve gran contento conversando con idioti, ora consideriamo quanto sia picciolo questo contento rispetto a quello ch’egli sente nel conversare con suoi eguali, conciosiaché l’uomo dotto si compiace molto più della conversazione de’ dotti, dai quali è anco più conosciuta e approvata la sua dottrina, che dagli idioti, i quali non così l’intendono né possono farne giudicio.28

Perché la conversazione potesse procurare agli interlocutori la conveniente soddisfazione, era necessario che si svolgesse tra «eguali» e «dotti». Di qui, le società accademiche accoglievano come membri soltanto coloro che potevano riconoscere come «eguali» e «dotti», termine usato da Guazzo come sinonimo di ‘letterati’. In tal modo si realizzava il mutuo ed appagante rispecchiamento tra i soci accademici, che Guazzo descriveva facendo riferimento alla «favola» di Narciso: «si può ben dir che [come per la favola di Narciso], quando un dotto ama un altro dotto, niente altro amano ambidue che la lor propria imagine in altrui, e che questo lor amore […] è perpetuo ed infinito».29 Accanto al termine «eguali», se ne può trovare un altro, altrettanto funzionale, spesso usato per indicare la profonda omogeneità nel tessuto culturale e sociale delle accademie. Facendo l’esempio del sodalizio degli Illustrati, Guazzo individuava infatti nella «conformità degli animi e de’ costumi» l’intima vicinanza tra i membri che si raccoglievano nell’accademia.30 Già Castiglione, richiamandosi al ciceroniano Laelius de amicitia, aveva proposto la «conformità» quale elemento necessariamente

28 S. GUAZZO, La civil conversazione, a c. di A. QUONDAM, Roma, Bulzoni, 2010 [ed. orig. 1993], I. Testo e appendici, p. 156. L’edizione proposta da Quondam si avvale della stampa del 1579 quale testo base (in Vinegia, presso Altobello Salicato). Com’è noto, l’editio princeps è del 1574 (in Brescia, appresso Tomaso Bozzola). 29 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, p. 160. 30 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, pp. 160, 157. Per meglio precisare l’idea di conformità cui Guazzo si riferisce può essere utile citare un passaggio del primo libro della Civil conversazione. Nel soddisfare la domanda di Annibale Magnocavalli, che gli chiedeva con quali persone si fosse intrattenuto più volentieri alla corte francese, Guglielmo Guazzo rispondeva con sicurezza «gli Italiani». Mosso dalle gentili pressioni del suo interlocutore, che gli domandava di precisare ulteriormente, Guglielmo specificava «i Lombardi», ed ancora: «i miei paesani». Ad una nuova sollecitazione a circoscrivere il novero di coloro che più lo «aggradivano», Guglielmo passava dalla distinzione geografica ad una di tipo pseudo- antropologico, affermando di prediligere «quei ch’io conosceva più conformi a’ miei costumi, perché ogni simile desidera il suo simile» (I, p. 72). Sull’origine classica del tema dell’amore del simile per il proprio simile «per virtus e per stato», si veda la nota in GUAZZO, La civil conversazione, cit., II. Apparati: note e indici, p. 166.

37 implicato nel rapporto di amicizia: nell’«elezione degli amici coi quali si ha da tenere intrinseca pratica, […] la ragione vuole che di quelli che sono con stretta amicizia ed indissolubile compagnia congiunti, siano ancor le volontà, gli animi, i giudici e gli ingegni conformi».31 In forza di questa «conformità», rimaneva assicurata la collegialità dell’esercizio accademico, che si svolgeva, come scriveva Bargagli, «hora imparando e hora insegnando». La reciprocità della comunicazione accademica oscillava tra le due direzioni dell’apprendimento e dell’insegnamento, che da opposte divenivano complementari. Non era una comunicazione a senso unico, dall’allievo al maestro, ma uno scambio dinamico e continuo tra gli associati, un dialogo tra conformi, nel quale i singoli accademici che vi prendevano parte, interagivano su un piano di parità. Analogamente a Bargagli, Guazzo aveva così descritto i caratteri della conversazione tra letterati: «il dotto […] conversando con dotti si rallegra di quel che dà e di quel che riceve, perché scambievolmente insegna e impara»32. Lo si potrebbe allora definire uno scambio conveniente, in cui la domanda e l’offerta erano immediatamente soddisfatte con reciproco ‘rallegramento’ dei soggetti interessati. Estremamente efficace e suggestiva è l’immagine delineata da Luigi Groto, che rivolgendosi agli Accademici Illustrati di Adria, trovava un interessante parallelo tra l’istituzione accademica e il baratto:

Prima che nel mondo fosse conosciuto l’uso delle monete, le merci si commutavan tra sé: commutavasi biada per uva, lino per lana, legno per ferro, gemma per frutto e greggia per armento: e per questo felice cambio si è da noi ordinata questa academia, accioché ciascuno dia quel che ha e riceva quel che non ha, dia per ricevere e riceva per dare, insegni imparando e impari insegnando, habbia per discepolo in una scienza colui che in un’altra havrà per maestro.33 (20v)

31 B. CASTIGLIONE, Il Cortigiano, a c. di A. QUONDAM, Milano, Mondadori, 2002, I, p. 137. 32 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, p. 156. 33 L. GROTO, Oratione di L.G., cieco d’Hadria, recitata il dì primo di genaio e dell’anno 1565 in Hadria, nell’Academia de gl’Illustrati, il lunedì, in ID., Orationi volgari di L.G., cieco di Hadria. Da lui medesimo recitate in diversi tempi, in diversi luoghi e in diverse occasioni, parte stampate e ristampate altre volte ad una ad una e parte non mai più venute in luce […], in Venetia, appresso li Zoppini, 1589, cc. 19v-26v. Su Luigi Groto si veda V. GALLO, Groto (Grotto), Luigi, DBI, 60, 2003, ad vocem, cui si rimanda per ulteriore bibliografia.

38 L’avverbio «scambievolmente» usato da Guazzo ed il brano appena citato, dove ritorna di poco variata la formula dell’«hora imparando e hora insegnando», aprono le porte verso una dimensione fondamentale del discorso accademico: l’intercambiabilità dei ruoli al suo interno. Chi era pubblico poteva diventare autore e viceversa; gli accademici si alternavano volta per volta nella lettura della lezione, la giudicavano, la commentavano. Non esisteva in accademia una netta delimitazione tra scrittori e pubblico, perché tutti potevano trasformarsi – quando richiesto – in autori. In fondo, ciò è perfettamente coerente con l’idea di accademico-letterato promossa dai vari circoli italiani: la selezione era fatta in partenza; entro le mura virtuali dell’accademica, ogni suo membro, in qualità di letterato (poco importa se in essere o in fieri) doveva mostrarsi in grado di interagire sullo stesso piano con gli altri suoi sodali. Nei moderni critici questa strategia comunicativa è stata interpretata con una certa freddezza. Commenta Gino Benzoni: «la obbligatoria “cortesia” agevola la rapida trasformazione dell’acquirente in produttore, incoraggia l’uditore a diventare, a sua volta, dicitore. […] Ascoltare, applaudire; recitare, essere applaudito. Un rito con parti interscambiabili; una recita ove chi parla ha la sicurezza del plauso».34 Analogamente, Girolamo De Miranda riflette sul conseguente carattere di convenzionalità della produzione letteraria accademica: «il sodalizio non aveva interesse a proporre imprese poetiche particolarmente originali, perché il lavoro preparatorio alle tornate, gli incontri stessi dovevano essere occasione di conferme e non provocazioni letterarie». 35 I membri accademici, chiamati a far parte della micro- comunità letteraria, contribuivano allo sviluppo dell’accademia sia scrivendo componimenti poetici e lezioni, sia discutendo e valutando la produzione letteraria della medesima accademia. Ne consegue che essi dovevano in primo luogo modellare le proprie creazioni, pensando ai loro primi lettori: il gruppo di accademici cui si rivolgevano. Sarebbero stati infatti loro per primi ad avallare o a respingere un’opera presentata in accademia. Era allora necessario, in nome della sodalità, adeguare l’attività

34 BENZONI, Per non smarrire l’identità, cit., pp. 196-197. 35 DE MIRANDA, Tra storia politica e ragioni sociologiche, cit., p. 104.

39 letteraria all’orizzonte di attesa comune dei membri accademici, ed appagarne le aspettative, al fine di rinsaldare i vincoli di unione. Come si è visto, il continuo passaggio dal ruolo di autore a quello di fruitore coinvolgeva gli uomini «dotti» e «letterati». Nella maggior parte dei casi questi erano entusiasti cultori di quelle che oggi appaiono discipline diverse. Con la denominazione di «lettere» si intendeva il fondamento, la porta d’ingresso ad un sapere complessivo e non frammentato, secondo una concezione di stampo umanistico. Il reciproco insegnamento era fortemente incoraggiato a causa dell’impossibilità dell’uomo, che contasse solo sui propri sforzi di appagare il proprio naturale desiderio di conoscere e di apprendere. Tra le più significative riprese del famosissimo luogo aristotelico [Met. 980a], che apre anche il Convivio dantesco, si ricorda quella operata da Castiglione nel suo Cortegiano, dove il conte Ludovico Canossa sentenziava con orgoglio che «niuna cosa più da natura è desiderabile agli omini né più propria che il sapere».36 Estremamente lucida ed eloquente era la similitudine concepita da Groto, che mostrava la difficoltà dell’essere umano nel soddisfare autonomamente il proprio bisogno di sapere. L’ansia dell’incompletezza portava l’uomo a condividere le proprie conoscenze assieme agli altri «dotti», al fine di raggiungere la perfezione nelle scienze del sapere: «Chi non può con una scala giungere alla cima d’un’alta pianta, ne giunge molte l’una al capo dell’altra, non può la vita breve d’un huomo a prendere tutte le scienze: perciò s’uniscono nelle academie le vite di molti huomini dotti insieme, che formino un corpo in tutte le scienze perfetto» (20v).37 Allo stesso modo Guazzo era grato all’accademia per averlo accolto come «professore di filosofia» ed averlo finalmente «renduto […] dotato di qualche intelligenza di teologia, di poesia, e d’altre lodevoli scienze, delle quali non mi conosco in tutto ignudo».38 Era dunque l’unione dei membri a conferire valore al singolo accademico: la sua conoscenza e le sue abilità (performative) acquistavano senso compiuto all’interno dell’interazione accademica.

36 CASTIGLIONE, Il Cortigiano, cit., I, p. 76. 37 GROTO, Oratione di Luigi Grotto, cit. 38 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, pp. 157-158.

40 La circolazione e la trasmissione del sapere erano dunque i nobili intenti che si proponevano le accademie. Nella sua orazione Bargagli celebrava i circoli accademici in quanto sedi privilegiate per l’insegnamento delle lettere. In particolare, esaltava la pratica della poesia quale operazione opportuna e assai conveniente alle accademie:

Vi si essercitino di continuo anchora tutte le scienze e le buone arti, quivi nate, nutrite e vigorosamente cresciute. Delle quali quella specialmente tra l’altre mostra che vi sia riveduta e ritrovata spessissime volte, che non poco di diletto e di giovamento insieme per sua natura porta altrui. Dico della poesia naturalissima e antichissima di tutte l’arti, la qual arte non so ben discernere con qual di queste due cose hora dette dimostri le sue forze in noi maggiori. Poscia ch’ella sola s’attribuisce e si presume di poter congiungere e mescolare insieme singolare e ottimo componimento invero, il buono e ’l bello, o vero l’utile e ’l dolce, alle qua’ cose ogni altra pare che per lei si riduca e si riferisca. Hora a qual altra profession dunque, a qual altro studio è più convenevole, di qual altro più proprio d’attendere a sì belle, piacevoli e giovevoli lettere e l’occuparsi ne’ sì dolci, sì gratiosi e sì utili studi della poesia che alla dignissima academica sola?39 (29)

Coltivando nel sodalizio i «diversi e honorati studi, e principalmente di lettere» – come lo stesso Bargagli aveva in precedenza sostenuto – gli accademici si esercitavano a «divenire ogni giorno più virtuosi e più dotti». Proprio attraverso le lettere, le accademie consentivano ai loro associati di compiere un cammino verso le virtù. Lo stretto vincolo tra le virtù e le lettere era un assioma universalmente riconosciuto di ascendenza classica e quindi umanistica, registrato anche nelle lezioni degli Accademici Insensati.40 Il fondamento su cui si basa questo legame è la radicata convinzione che «le lettere, come la virtù […], possono essere insegnate e imparate».41 Non sorprendono così i tanti elogi delle lettere e delle loro qualità che appaiono con sempre maggior frequenza nel secondo Cinquecento e nel Seicento,42 il cui precedente più

39 BARGAGLI, Delle lodi dell’academie, cit. 40 Si veda infra § III.4. 41 QUONDAM, Forma del vivere, cit., pp. 200-212 (citazione a p. 200). 42 È il leitmotiv, per esempio, delle Orazione accademiche di Diomede Borghesi (a c. di C. CARUSO, Pisa, ETS, 2009).

41 significativo è da ricercarsi probabilmente nel Libro del Cortegiano. In polemica contro l’aristocrazia francese, ancora legata ad un’idea di nobiltà fondata sulle armi, Castiglione elogiava le lettere, come «vero e principal ornamento dell’animo», e le proponeva come elemento indispensabile per la formazione del perfetto cortigiano. Le lettere, «le quali veramente da Dio sono state agli uomini concedute per un supremo dono», si dimostrano pertanto «utili e necessarie alla vita e alla dignità nostra».43 Più volte nel corso del paragrafo è stato necessario ritornare all’opera di Castiglione. Se ciò non meraviglia affatto, perché la grande fortuna del Cortegiano prosegue ben oltre la metà del XVI secolo, le modalità di accesso e di recupero del testo destano tuttavia grande interesse. Fu ancora una volta Bargagli a compiere un passo decisivo in tale direzione, celebrando nella sua Oratione la corte di Guidobaldo da Montefeltro, e trasformandola nell’«Academia di Urbino».44 Nonostante Castiglione fosse stato alquanto esplicito, col dire di voler descrivere «la forma di cortegiania più conveniente a gentiluomo che viva in corte de’ principi», l’alterazione del contesto operata da Bargagli permise di avvicinare fino a confondere il soggetto del Cortegiano, l’uomo in corte, nell’uomo in accademia.45 Quale fu però la prima ragione che spiega il recupero del Cortegiano in connessione con le accademie? Sia l’opera di Castiglione sia le accademie sono da considerarsi quali strumenti di institutio: da una parte il Cortegiano, che si trova al culmine della lunga tradizione di testi di formazione umanistici e quindi rinascimentali, illustra il processo di crescita morale ed intellettuale del perfetto gentiluomo; dall’altra le accademie lo traducono nella pratica dei rapporti sociali, offrendo ai loro soci l’occasione di esercitare ed esibire

43 CASTIGLIONE, Il Cortigiano, cit., I, pp. 75-76. 44 Per ben due volte nel testo dell’Oratione, Bargagli equiparava la corte urbinate ad un’accademia. Nel primo caso, tra gli esempi d’«alcune altre nominate academie», Bargagli ricordava «quella sì celebre d’Urbino donde, sì come dal caval troiano […], usciron principi di lettere segnalatissimi». La seconda occorrenza è poi ancora più esplicita, perché il senese intravedeva nel «credito grande» guadagnato da Bembo e da Bibbiena nell’«Academia d’Urbino» la ragione della loro elezione a cardinale (Delle lodi dell’academie, cit., pp. 39, 43). Su questo punto si veda anche QUONDAM, L’accademia, cit., pp. 832-833. La medesima definizione della corte marchigiana quale «Academia di Urbino» si legge anche nella lezione dell’Insensato [L. CIARDI], Discorso dell’Ottuso (cioè del dottore L.C.) intorno all’impresa dello Spaventato (cioè Grazioso Graziosi dalla Pergola), BAP, ms. 1717, cc. 489r-492r: 492r. 45 CASTIGLIONE, Il Cortigiano, cit., I, p. 11.

42 le proprie abilità oratorie e di trarre dagli altri dotti adeguati ammaestramenti. Entrambi rispondevano cioè alla medesima esigenza di molti uomini del tempo di ricevere i precetti necessari ad una «forma di vita» virtuosa ed onorata. Le accademie non facevano altro che ribadire – con alcune minimi aggiustamenti – quel sistema etico degli antichi e degli umanisti, che Castiglione aveva sintetizzato, perfezionato e diffuso con una terminologia che si rivelò vincente. Questo sistema, studiato a fondo da Quondam, procedeva tra accelerazioni e momenti di stasi. Non per caso Leon Battista Alberti operava una distinzione tra autori «capre» e «bufali», ossia tra quei pochi che avevano innovato e fondato il paradigma etico dei gentiluomini e quella moltitudine che si era invece prodigata a ripeterlo e ribadirlo.46 Dando spazio a quella medesima moltitudine, le accademie furono senz’altro più vicine a questa seconda tendenza: cristallizzarono quell’ideologia e la misero in atto, tra lettere, virtù e quindi mores. Tornando alla definizione di Bargagli, si noti come essa riesca a proporre un ragionamento compiutamente circolare, aprendosi e chiudendosi sul medesimo tema della virtù e del sapere: i «liberi e virtuosi intelletti […] a saper pronti» dovevano infatti esercitarsi «per divenire ogni giorno più virtuosi e più dotti». Ma nelle parole di Bargagli era chiaramente suggerita una direzione agli sforzi dell’uomo, un’intenzione di movimento. Viene allora spontaneo pensare ad un’ellissi invece di una circonferenza, un forma cioè che non rompeva la circolarità, ma che la orientava verso un traguardo ben delineato: l’acquisto della virtù.

I.3.2 L’accademia: una concorde repubblica

Stabilito il fine e la dinamica del loro funzionamento, resta ora da vedere come si disciplinassero le accademie. Nella sua definizione, Bargagli faceva riferimento alle «diterminate lor leggi ed istatuti», insistendo quindi sull’importanza della formalizzazione e della regolazione scritta delle adunate letterarie. Analogamente, in un anonimo Discorso dell’Accademia e

46 La metafora, che torna con regolarità nel citato volume di Quondam (Forma del vivere), viene dal prologo del IV libro delle Intercenales di Leon Battista Alberti.

43 del Principe, opera degli Accademici Innominati di Parma, è fornita un’altra breve definizione di accademia, dove si dichiara che con questo termine «devrà dimandarsi ogni ridotto di persone per arme o per lettere segnalate, regolato dalle sue leggi nel quale a vicenda s’essercitino discipline diverse». Nelle carte successive, le «leggi» sono definite addirittura «anima dell’accademia», principi indispensabili per mantenere l’identità dello stesso sodalizio. Proseguendo nella metafora, l’ignoto autore costruiva un significativo parallelo tra la coppia corpo-anima e accademia-leggi, rilevando che come «il corpo quand’ei rimane privo dell’anima non è più quello, così priva di leggi l’Accademia non è Accademia».47 Anche il Breve trattato di Alessandro Canobbio, dove sono presentati i «principali fondamenti» per la fondazione dei sodalizi cinquecenteschi, dimostra che la creazione di un insieme di leggi sulle quali impostare la propria attività era naturalmente associata all’idea di accademia.48 Volendo offrire alcuni consigli sullo «stabilimento» delle accademie, Canobbio suggeriva ai soci di «osservar inviolabilmente gli ordini e leggi» raccolte negli statuti (13v). Per parte sua, anche Guazzo non perdeva occasione per celebrare le leggi dell’Accademia degli Illustrati, che pur essendo «molte di numero, […] si riducono tutte, in summa, all’onor di Dio e alla conservazione della grandezza dell’Academia».49 Sebbene soltanto il 10% circa delle accademie elencate da Maylender disponesse di un insieme di leggi, è alquanto probabile che la percentuale effettiva fosse in verità di gran lunga superiore.50 Il dato statistico non può tener conto della quantità di materiale più o meno esigua disponibile sulla singola istituzione e, in particolare, della grande perdita di documenti e di testimonianze (anche indirette) relative agli statuti accademici. Nel solo

47 Discorso dell’Accademia e del Principe fatto nell’Accademia de’ Signori. Innominati di Parma all’entrar al principato di quella dell’Ill(ustrissi)mo et E(ccellentissi)mo Signor Ranutio Farnese, Parma, Biblioteca Palatina, ms. 1291, fasc. 12, citato in DENAROSI, L’Accademia degli Innominati, cit., pp. 54, 58, la quale propone di identificare l’anonimo autore con Angelo Ingegneri: p. 53n. Il ritrovamento del Discorso si deve a C. BEVILACQUA, L’Accademia degli Innominati: un’istituzione culturale alla corte farnesiana di Parma, «Aurea Parma», 81 (1997), pp. 3-32. 48 A. CANOBBIO, Breve trattato di messer A.C. sopra le academie. A i magnifici signori Academici Novelli di Verona, in Venetia, appresso Andrea Bòchino e fratelli, 1571. Sull’autore del Trattato, si veda G. BENZONI, Canobbio, Alessandro, DBI, 18, 1975, ad vocem. 49 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, p. 158. 50 QUONDAM, L’Accademia, cit., p. 852.

44 caso delle sette accademie perugine della seconda metà del Cinquecento, la percentuale di accademie dotate di leggi era infatti ben più alta, perché ben quattro di esse (dunque oltre la metà in termini statistici) possedevano un loro statuto.51 Non bisogna perciò considerare minoritario o accessorio l’aspetto normativo di un’accademia. L’insieme delle leggi messe a punto dagli accademici soddisfaceva una duplice esigenza. Da una parte regolava gli aspetti pratici del funzionamento delle accademie, definendo i ruoli, i tempi, i mezzi e gli spazi del sodalizio, dall’altra serviva a compattare il gruppo degli accademici, rafforzando i caratteri identitari di ciascuna accademia. Pur tra le diverse varianti, si può riconoscere una sorta di struttura tipo di statuto: solitamente esso illustrava il nome e l’impresa generali dell’accademia, disciplinava la struttura delle riunioni e i criteri di ammissione, stabiliva la gerarchia e i ruoli, minacciava sanzioni per eventuali ritardi, inadempienze o assenze e regolava l’ordine degli incontri all’interno dell’accademia. A titolo di esempio, si riporta il caso delle leggi degli Accademici Unisoni di Perugia, edite nell’appendice del volume di Elisabetta Patrizi, dedicato al trattato L’idea dello scolare di Cesare Crispolti. Lo statuto è diviso in cinque parti, l’ultima delle quali contiene le firme dei tredici accademici che lo avevano approvato e sottoscritto. Il primo capoverso illustra la «creazione del principe dell’Accademia, e dell’offitio suo». La regola vuole che i nomi degli accademici venissero inseriti in un bussolotto, dal quale era estratto il nome di colui che per due settimane avrebbe ricoperto la carica di temporaneo principe dell’accademia. Forse a causa della dimensione piuttosto ridotta del sodalizio, non si faceva cenno a nessun altro ruolo accademico. Come stabiliva lo statuto, al principe non

51 La mancanza di fonti o di ricerche sul caso delle accademie degli Atomi, degli Eccentrici e degli Scossi non consente di escludere del tutto la possibilità che anche queste potessero avere un proprio statuto. La bibliografia sulle accademie perugine è indicata nel successivo capitolo § II.3. Un altro esempio simile è fornito dal campione di accademie considerato da Di Filippo Bareggi, nel quale circa due terzi dei consessi erano strutturalmente organizzati. A partire da questi dati non sembra del tutto condivisibile la conclusione dell’autrice, secondo la quale la socialità accademica rispondeva «più al desiderio degli intellettuali di trovarsi in una cerchia di amici entro cui fosse possibile conversare liberamente, che non al bisogno di strutturarsi e regolamentarsi in modo preciso» (DI FILIPPO BAREGGI, Il mestiere di scrivere, cit., pp. 133-134). Non sembra nemmeno, in realtà, che i due ambiti siano poi da considerarsi incompatibili.

45 erano riservati soltanto degli onori, ma anche degli oneri: almeno una volta durante il periodo del suo incarico, gli era richiesto di «dare a’ gl’Academici una Ricreazione di Pranzo, o Cena in casa sua, o in qualche vigna, con i maggiori e più dilettevoli, Trattenimenti di Musiche e suoni, che potrà». Dal principe si passava a trattare nel seguente paragrafo «degli Accademici, et offitio loro»: i membri accademici dovevano infatti possedere alcune qualità morali («si avvertirà, che siano di buona, et honesta vita») e dovevano prestare obbedienza al principe in carica. Si accennava di seguito alla possibilità di coinvolgere in accademia nuovi soci, «tanto Perugini, quanto forastieri […], pure che si dilettino di cantare, e sonare di viola, od arpicordo, o liuto». Nel terzo paragrafo si fa brevemente riferimento agli «esercitij Accademici», che consistevano principalmente nel «cantare quelle compositioni» scelte dal principe. Più denso di informazioni è il successivo paragrafo «del Luogo, dell’hora, e de i giorni dell’Academia», in cui sono definite la modalità degli incontri degli Unisoni, che avevano luogo presso la casa di Crispolti, «per essere di sua casa commoda di stantie, et […] in mezzo alle due piazze principali» della città. L’impegno richiesto agli accademici era tutt’altro che marginale, poiché erano chiamati a riunirsi ben tre volte alle settimana («il Lunedì, il Mercoledì, il Venerdì»), per un totale di circa sei ore. Lo statuto prevede anche alcune sanzioni pecuniarie (di un «mezzo Paolo» o di un «Paolo»), comminate per ritardi o eventuali assenze, ma soltanto nel caso in cui non fossero stati comunicati al principe secondo i tempi e i modi previsti. Ma «l’amore della virtù», che ispirava ogni membro ad essere «prontissimo, e sollecitissimo ad intervenire a queste Accademiche essercitationi», era il rimedio certamente più efficace contro ogni eventuale svogliatezza. 52 L’accorgimento di escogitare sanzioni pecuniarie si rendeva così, una sorta di «inutil precauzione». Poiché, come parimenti sottolineava Guazzo, «stringono assai più i legami della virtù che quelli del sangue», la sola virtù era ritenuta sufficiente per conservare naturalmente l’accademia, luogo di pacifica conversazione tra membri «dotti» ed «eguali». Appena pronunciate queste parole, che concludevano un accorato discorso di Annibale Magnocavalli sull’amabile

52 PATRIZI, La trattatistica educativa tra Rinascimento e Controriforma, cit., pp. 113-115.

46 conversazione tra i «letterati», il cavalier Guglielmo Guazzo, fratello di Stefano, non poteva fare a meno di immaginare quanto fosse grande «la concordia, il piacere e ’l beneficio che sorge dall’Accademia degli Illustrati».53 La «concordia di volontà o amore cordiale tra fratelli maggiori» era stato il sentimento che aveva unito assieme gli attori del mito di Urbino, ritratti da Castiglione nel suo Libro del Cortegiano.54 E proprio la concordia, spesso unita ad amore o utilizzata in luogo di quest’ultimo, risulta essere una delle categorie più frequentate dagli scrittori cinquecenteschi per rappresentare l’armonia che veniva a crearsi nelle accademie. In perfetta coerenza con quanto affermato precedentemente, a riprova della stretta correlazione tra le qualità accademiche, la concordia era intesa dagli Accademici della Crusca quale «conformità di voleri e d’operazione».55 Con questo termine si intendeva allora il risvolto pratico della conformità sociale e culturale degli accademici. Alcuni significativi passaggi dalle orazioni accademiche chiariscono il legame tra la concordia e i sodalizi letterari. È il caso del già citato Breve trattato di Alessandro Canobbio, dove l’autore, dopo aver individuato il fine dell’accademia nella ricerca della virtù e nell’abbandono del vizio, riconosceva la necessità di nutrire «un dolce amore» verso gli «eguali» suoi membri. Tale sentimento era indissolubilmente legato alla «concordia, la quale tengo per principal pietra nel fondamento delle academie e come necessaria calce che tenga amassate e unite l’altre pietre e che riduca a perfettione la fabrica e che in fine la biancheggi e abbellisca» (13v).56 Pochi anni prima, partendo dal presupposto che «se questa academia conserverà la concordia, la concordia conserverà questa academia», Luigi Groto si era a sua volta profuso in una convinta lode della concordia. Un’unica frase, in realtà un’interminabile elencazione, in cui la «concordia» è immaginata quale «cagione nella terra dell’abondanza, nell’acqua della tranquillità, ne’

53 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, p. 157. 54 CASTIGLIONE, Il Cortigiano, cit., I, p. 17. 55 Vocabolario degli Accademici della Crusca, cit., p. 205. 56 CANOBBIO, Breve trattato, cit. Il medesimo concetto era successivamente ribadito: «nel vostro core sculpite la concordia e con ogni fatica, studio e diligenza abbracciatela e esaltatela, acciò che essa abbracci e esalti la vostra academia e ciò facendo appresso gli huomini savi non picciola lode e riputatione acquistarete» (c. 14r).

47 venti della bonaccia, nell’aria della serenità, […] nelle lettere de’ ragionamenti, ne gli argomenti delle conclusioni, nell’opinioni delle grandi imprese, fra i maritati della multiplicatione, fra i prencipi de gli acquisiti e fra i cittadini del bene della città» (22v).57 Nel 1555 Alberto Lollio aveva dato alle stampe un’orazione accademica In laude della concordia. Era stata recitata l’anno precedente, in occasione dell’istituzione dell’Accademia ferrarese dei Filareti. L’autore vi esprimeva il suo «grandissimo […] contento», perché, dopo lo scioglimento della precedente Accademia degli Elevati, aveva potuto assistere alla nascita in Ferrara di una nuova accademia (15r). 58 Lollio proponeva la concordia, accanto all’osservanza delle leggi, come elemento essenziale per conservare l’accademia fiorente e per «aumentarla sempre di bene in meglio. Il che, come potremo noi fare più agevolmente, che con l’essere diligentissimi osservatori delle nostre sante leggi? e col nodrire fra noi un dolce amore e una indissolubile concordia?» (15v). D’altronde, proprio la «concordia» e l’«unione» erano state «il fondamento, la base e lo appoggio di tutte le congregationi e communanze de’ popoli» (15v). Dopo un laborioso excursus storico, l’autore finalmente approdava alla sua idea di accademia, che merita di essere citata per intero:

Ha l’academia (s’io non m’inganno) con la republica grandissima somiglianza. Conciosia cosa che, sì come in quella il pensiero e la intentione de’ cittadini è tutto rivolto all’utile commune e alla publica libertà, così, che altro è il fine e lo scopo nostro, se non l’acquisto della sola virtù, per amor della quale tante fatiche e tanti sudori continuamente spendiamo? E qual più bella, maggiore, o più propria libertà puote l’uomo acquistare di quella che egli riceve dalla istessa virtù? La pace, la quiete, la tranquillità e la unione sono i fomenti e i sostegni della republica, parimente lo spirito, il polso, la luce e la vita dell’academia è la concordia, nell’amorevol grembo della quale l’auttorità, la grandezza, l’essaltatione e la gloria di lei s’annida. (16v)

Nel testo di Lollio erano messi di nuovo in diretta correlazione l’utile, la libertà e l’acquisto della virtù, che risultava il fine ultimo dell’accademia.

57 GROTO, Oratione di Luigi Grotto, cit. 58 A. LOLLIO, In laude della concordia. A i signori Academici Filareti, in ID., Due orationi, cit., cc. 14r-18v.

48 Quest’ultima poggiava sulla concordia, che aveva garantito in passato anche la civile e pacifica convivenza tra gli uomini. Gli esempi presi dalla storia greca e latina insegnavano, secondo Lollio, che si dovevano eliminare dalle repubbliche i motivi di discordia. In nome della «concordia» si sottomettevano gli odi, gli istinti di vendetta, le manie di prevaricazione. Così definita, la «concordia» risultava essere una forma di autogoverno razionale e conveniente, che assicurava la conservazione e lo sviluppo non solo del singolo individuo, ma anche della sua (ideale) patria di appartenenza. È di estremo interesse il parallelo tra l’accademia e la repubblica, che anche Canobbio, Groto, Scipione Bargagli e l’anonimo Innominato, per rimanere agli autori sinora menzionati, avevano individuato. Il veronese, per mettere in guardia gli accademici dal moto distruttore della «discordia», faceva riferimento a quanto accadeva nelle «republiche», considerandole apparentemente affini alle accademie (13v).59 Più esplicitamente Groto, nell’accettare il principato dell’Accademia degli Illustrati di Adria, ammetteva di essere lieto di ricevere «il governo di questa nova republica» (21v).60 Da parte sua Bargagli, nell’orazione funebre dedicata ad Alessandro Piccolomini, l’aveva definito principe «dell’Infiammata republica», utilizzando il termine repubblica quale sinonimo di accademia (555).61

59 CANOBBIO, Breve trattato, cit. 60 GROTO, Oratione di Luigi Grotto, cit. Lo rileva anche RINALDI, Le accademie del Cinquecento, cit., p. 345. 61 S. BARGAGLI, Orazion di S.B. in morte di monsignor Alessandro Piccolomini, arcivescovo di Patrasso ed eletto di Siena, 1579, riveduta e novamente ristampata, in ID., Dell’imprese di S.B. gentil’huomo sanese, alla prima parte, la seconda e la terza nuovamente aggiunte […], in Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1594, pp. 546-573. Gli esempi non si esauriscono però agli autori fin qui citati. A cinque anni di distanza dalla stampa delle due orazioni di Lollio, anche l’Accademico Fiorentino Lelio Bonsi proponeva lo stesso confronto, definendo l’accademia «quasi picciola republica di huomini cortesi e letterati» (Parole fatte e recitate da Lelio Bonsi provveditore dell’, quando prese il suo consolato l’eccellentissimo messer Francesco Torelli, in ID., Cinque lezzioni di messer L.B., lette da lui publicamente nella Accademia Fiorentina […], in Fiorenza, appresso i Giunti, 1560, cc. 92v-94r: 93r). Quindi Romano Alberti, nell’offrire al cardinale Federico Borromeo il rendiconto dell’attività dell’Accademia del Disegno di Roma, ricordava Federico Zuccari nell’atto di presentare agli altri membri le leggi dell’accademia, indispensabili «a reggere e governare ogni republica e stato» (Origine e progresso dell’Academia del Dissegno, de’ pittori, scultori e architetti di Roma, dove si contengono molti utilissimi discorsi e filosofici raggionamenti appartenenti alle suddette professioni, e in particolare ad alcune nove definitioni del dissegno, della pittura, scultura e architettura […], in Pavia, per Pietro Bartoli, 1604, p. 6).

49 Il parallelo è trattato con maggior ampiezza nel Discorso dell’Accademia e del Principe degli Innominati, dove l’anonimo autore ragionava intorno «a qual sorte di governo rassomigliar si debba quello dell’Accademia». Dopo aver passato in rassegna le tre forme di governo aristoteliche (di uno, di pochi o di molti) e le relative degenerazioni, è finalmente sciolto ogni dubbio e indicata la soluzione del dilemma:

Restaci il governo di parte [la repubblica], e di parte che buona sia, detto aristocrazia, ovvero per altro nome il governo degli ottimati. Et questo sarà il nostro governo, e tale (s’io fossi d’altra Patria) dire’ che fosse quello della Repubblica Viniziana. […] Essendo adunque simile nel governo l’Accademia a così ben istituita repubblica egli è ben convenevole se quella ha un principe che l’abbia questa ancora, e che se l’un nell’una l’altro nell’altra sia il primo che l’autorità dell’uno si pareggi a quella dell’altro e che in amendue si ritrovino ugualmente tutte quelle virtù che più sono stimate degne di riverenza.62

L’identificazione del governo accademico ideale con la Repubblica veneziana è fortemente significativa, perché permette di cogliere esplicitamente il collegamento tra la teorizzazione accademica e la riflessione politica cinquecentesca. Come ha evidenziato Quentin Skinner nel secondo volume del suo ormai classico Visions of Politics, i due esempi delle città stato di Firenze e Venezia avevano ispirato, sin dalla fine del XIV secolo, una lunga tradizione di opere intorno alle diverse tipologie di governo.63 In analogia con l’anonima lezione dell’Accademico Innominato, alla città di Venezia era stata associata, sin dalla De Republica Veneta di Pier Paolo Vergerio, l’idea di repubblica di ottimati. Questa aristocrazia dei migliori o dei più virtuosi aveva ispirato il concetto di repubblica dei conformi, esemplificata nelle numerose accademie italiane cinquecentesche. Nel momento di accogliere la realtà, i membri delle accademie si preoccuparono di indirizzarsi verso la sua miglior forma e dunque mirarono a quella repubblica veneziana che, fondandosi su un governo di cittadini di altissima estrazione sociale, poteva

62 Discorso dell’Accademia e del Principe, cit., in DENAROSI, L’Accademia degli Innominati, cit., pp. 59-61. 63 Dal medesimo libro di Q. SKINNER, Visions of Politics. II. Renaissance Virtues, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 118-185 sono tratte le considerazioni sul pensiero politico italiano del presente paragrafo.

50 soddisfare il bisogno degli accademici di conformarsi ad una repubblica di eletti. Inoltre, nel tentativo di definire le qualità dei migliori cittadini o dei principi chiamati a governare, la riflessione politica doveva poi interrogarsi intorno alle loro virtù, incrociando quindi di nuovo un tema assai caro ai teorici delle accademie. Secondo gli Umanisti, la coltivazione della virtù si traduceva nell’acquisizione della nobiltà, esattamente come nelle accademie il possesso della virtù era ostinatamente perseguito proprio per la informale quanto ambita distinzione sociale che comportava. Ma non interessano soltanto le analogie nella comparazione tra teoria politica ed accademica: il tema della virtus consente di operare due riflessioni di grande interesse, che forse meriterebbero di essere investigate più a fondo. È noto infatti che il concetto di virtus andò modificandosi durante il Rinascimento: al suo sorgere, Petrarca individuò l’esercizio della virtù nella vita contemplativa, nell’otium letterario, inteso come una presa di distanza dalle compromissioni politiche e/o sociali; diversamente, Coluccio Salutati e gli umanisti della generazione a lui successiva modificarono profondamente l’idea di virtus, che divenne virtù civica, pratica di vita attiva, non aliena dalla partecipazione politica. Queste due nozioni di virtus coesistettero per un lungo periodo e si avvicendarono nelle preferenze dei diversi letterati. Di fronte a questa alternativa, quale tipo di virtù promossero le accademie? Gli esempi presentati nel precedente e nel presente paragrafo suggeriscono che le accademie operarono una sintesi tra le due possibilità: l’acquisto della virtù avveniva infatti grazie alle esercitazioni letterarie, calate però nel contesto di una comunità virtualmente e idealmente politica che necessitava del coinvolgimento di tutti i membri per realizzarsi e prosperare. Senza un impegno attivo, insomma, non poteva nascere quell’otium letterario cui si sarebbero dedicati gli accademici.64 Proprio sul tema della virtus avvenne lo strappo di Machiavelli con la tradizione precedente; uno strappo che le accademie intesero ricucire.

64 Non si vuole qui affrontare il tema del ritrovo accademico quale velleitario rifugio degli intellettuali, espropriati ormai di una vera e propria funzione politica: ne ha discusso a lungo, con valutazioni che oggi possono essere aggiornate, Gino Benzoni nel suo Per non smarrire l’identità, cit.

51 Nell’omogeneo ed elitario contesto accademico era negato il presupposto sul quale si basava la teoria machiavelliana (e machiavellica) delle virtù utili al principe, così come era negato il valore di una “discordia” politicamente “produttiva” all’interno delle repubbliche, frutto della tensione fra le classi sociali teorizzata da Machiavelli nei Discorsi. Secondo il letterato fiorentino, il mondo era attraversato da una profonda frattura tra «come si vive» e «come si dovrebbe vivere». Essendo gli uomini «tristi», il principe doveva regolarsi di conseguenza e mostrarsi «disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano». Per mantenere il suo potere, il principe doveva imparare a dotarsi delle opportune «qualità», senza prescindere anche da quei vizi malauguratamente utili alla sua causa. Il mondo accademico non conosceva però fratture al suo interno: l’unica premessa sulla quale esso si reggeva era il dover essere dei “conformi”, il che eliminava alla radice ogni necessità di contestare e respingere il sistema etico delle virtù classicamente intese. Le accademie rappresentavano proprio quelle «republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere», dove gli uomini virtuosi si incamminavano, concordi, verso la virtù.65

I.4 L’oralità nella civile conversazione accademica

L’accademia era un’istituzione a metà strada tra oralità e scrittura. Le due dimensioni della comunicazione accademica si integravano con estrema fluidità, essendo a tutti gli effetti tra loro complementari e talvolta concorrenziali. Tuttavia, pur essendo stata una dimensione fondamentale della comunicazione accademica, l’oralità non viene di solito associata immediatamente alle accademie. Esistono obiettive difficoltà che hanno reso più indefinito questo legame: a differenza dell’ampia traccia lasciata dalla attività letteraria scritta, risulta infatti ben più complesso individuare il ruolo svolto dall’oralità nell’economia del rituale accademico. Ne rimane una traccia indiretta nei luoghi delle lezioni o dei dialoghi, proposti di seguito,

65 N. MACHIAVELLI, Il Principe, a c. di G. INGLESE, Torino, Einaudi, 1995, pp. 102, 117-118.

52 dove sono descritte le dinamiche di interazione tra i membri all’interno del confronto accademico. Com’è noto, la forma scritta non esauriva il senso della lezione accademica, che era proposta agli altri membri attraverso una performance orale. Come riportano molti frontespizi, per essere trasmesse le lezioni (scritte) erano «dette», «lette» o «recitate» in accademia. La stessa definizione di ‘orazione’, che spesso ricorre negli esempi di prosa accademica, è in tal senso indicativa, perché non poteva non riconnettersi consapevolmente (in un’ottica classicistica) con la illustre tradizione oratoria greca e soprattutto latina.66 Le due tradizioni classiche vissero una iniziale e duratura fase orale, che nel caso della seconda si protrasse almeno fino all’epoca di Catone il Censore, quando divenne comune la consuetudine di trascrivere i discorsi effettivamente pronunciati. Nemmeno nel momento in cui finalmente si compì con Cicerone il superamento della finalità eminentemente persuasiva dell’oratoria, a vantaggio della sua dimensione altamente letteraria, si dissolse il primigenio modello orale delle orazioni romane. Il medesimo Cicerone assegnava all’actio, ossia all’esecuzione orale del testo, una cruciale importanza per il raggiungimento degli effetti dell’orazione. Nel De oratore scriveva che l’«actio […] in dicendo una dominatur; sine hac summus orator esse in numero nullo potest, mediocris hac instructus summos saepe superare» [III 213] e riportava di seguito il celebre esempio di Demostene, che identificò le prime tre doti di un oratore nella sola capacità di saper recitare il discorso.67 Come per l’oratoria romana, la messa per iscritto della conversazione accademica, per esempio in una lezione o in un discorso, equivaleva ad una sua prima o anche talora definitiva formalizzazione. La raggiunta stabilità del testo, fissata nella scrittura, era preceduta e di frequente anche seguita

66 Sul riuso cinquecentesco della tradizione oratoria latina si veda il recente volume di S. BENEDETTI, Ex perfecta antiquorum eloquentia. Oratoria e poesia a Roma nel primo Cinquecento, Roma, Roma nel Rinascimento, 2010. 67 Sull’actio nella letteratura latina si veda A. CAVARZERE, Gli arcani dell'oratore. Alcuni appunti sull'actio dei romani, Roma-Padova, Antenore, 2011, cui si rimanda per l’ampia bibliografia. In una prospettiva comparata, stimoli di enorme interesse per successive ricerche sulla conversazione accademica si ricavano dal suggestivo intervento di M. BETTINI, Le orecchie di Hermes, in ID., Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Torino, Einaudi, 2000, pp. 5-51.

53 dalla discussione, che costituiva una delle occasioni più comuni di dialogo all’interno dei sodalizi cinquecenteschi. Potevano essere oggetto di una disputa sia le opere dei soci, presentate al cospetto di altri accademici riuniti in assemblea, sia gli scritti degli altri letterati, classici o coevi, al centro degli interessi dei membri accademici. Risulta altresì probabile trovare traccia nei testi di controversie di più ampio respiro, legate magari a questioni di preferenze nel campo dell’estetica o delle lettere. Gli scritti accademici recano a volte testimonianza delle discussioni avvenute nel sodalizio, segno evidente di un processo culturale in atto. Per esempio Guazzo, nell’esordio del Paragone della poesia latina e della thoscana, rendeva noto l’esito, ancora sospeso, di una conversazione letteraria avvenuta presso l’Accademia degli Illustrati: «gran contesa, signor Ruffa, mi vien detto che nacque a giorni passati fra gli Academici Illustrati nel paragone della poesia latina e della thoscana, mentre una parte affermava esser più difficile la latina e l’altra per l’opposito teneva per più difficile la thoscana, sopra di che molte cose furono dette, ma niente fu conchiuso, onde la lite rimase indecisa» (64v).68 Un altro esempio tra i molti possibili viene dal frontespizio di una lezione recitata dal Velato Insensato, presso l’accademia perugina, nel 1597: Conclusioni diverse di don Ventura Venturi […] le quali si disputeranno in publica Academia degl’Insensati, sotto il felice reggimento dell’illustre signor Cesare Crispolti (in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci).69 È interessante definire in primo luogo i diversi tempi della elaborazione delle Conclusioni. Nella dedica al marchese Ascanio

68 S. GUAZZO, Del paragone della poesia latina e della thoscana, in ID., Dialoghi piacevoli del signor S.G. gentil’huomo di Casale di Monferrato, dalla cui famigliare lettione potranno senza stanchezza e satietà, non solo gli uomini ma ancora le donne, raccogliere diversi frutti morali e spirituali, in Venetia, presso Gio. Antonio Bertano, 1586, cc. 64v-71v. Analogamente, nella sua Civile conversazione, Guazzo sanciva la necessità della discussione colta ed il suo stretto rapporto con la conoscenza, l’arte retorica, la memoria, la verità: «sopra tutte l’altre cose hanno forza di risvegliar gli intelletti quelle virtuose contese che nascono fra letterati, i quali disputando imparano, e quel che in tal modo imparano lo sanno meglio e meglio l’espongono e più tenacemente lo fermano nella memoria, e mentre cercano a prova l’un l’altro di prevaler con ragioni, si viene al perfetto conoscimento delle cose: e perciò si suol dire che la disputa è il cribro della verità» (I, p. 31). 69 La medesima formula ricorre in un altro frontespizio degli Accademici Insensati: [A. CIBI], Conclusioni morali del Traviato Insensato, le quali si disputeranno in publica Academia de gl’Insensati [...], Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1578 (su cui si tornerà in § II.4.4.1). Erminia Ardissino ha di recente curato la pubblicazione di un’opera di Ventura Venturi, L’incarnazione, fornendo anche utili notizie sull’autore (Poemi biblici del Seicento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pp. 11-13).

54 II o Jr. della Cornia, Ventura Venturi accennava infatti ad uno scambio di opinioni avvenuto in precedenza con un altro Insensato, il pittore Federico Zuccari, che aveva prodotto nuove suggestioni: «ho aggionto finalmente alcune determinationi sopra il disegno, […] per l’occasione d’una disputa incominciata nell’Academia nostra dal signor Federico Zuccaro, pittore famosissimo» (A2v).70 Se ne deduce che le Conclusioni già esistevano in origine (non è dato sapere se in forma orale o scritta), furono in un secondo tempo dibattute in accademia (con Zuccari: fase orale), vennero poi restituite nel testo (‘l’aggiunta’ di cui parlava Venturi: fase scritta), e quindi di nuovo discusse in accademia (come recitava il frontespizio: nuova fase orale). Nel rapporto di complementarietà tra le due dimensioni, l’ordine gerarchico non era per nulla scontato. Le Conclusioni di Venturi dimostrano infatti che non sempre la scrittura era l’ultima fase della riflessione accademica. L’oralità poteva ancora imporsi come il punto d’approdo della riflessione accademica; talvolta anche dopo che un testo era stato stampato. Le Conclusioni interessano poi anche per la loro forma. I testi proposti da Venturi sono trentotto definizioni o sentenze piuttosto brevi, suddivise in quattro sezioni: «Della filosofia morale» [10 conclusioni]; «Della poetica» [9 conclusioni]; «In difesa d’Aristotile, d’Homero e di Torquato Tasso, contro la Deca disputata e il Trimerone di Francesco Patrizii» [16 conclusioni]; e «Del disegno» [3 conclusioni]. Per la loro natura quasi aforistica, queste si potevano benissimo adattare alla conversazione orale. In poche righe erano difatti condensate riflessioni profonde e sottili osservazioni che potevano svolgersi pienamente nel tempo dilatato della conversazione accademica. Gli esempi citati confermano oltre ogni ragionevole dubbio la massiccia presenza della dimensione orale, ma non aiutano a coglierla nel

70 Su Federico Zuccari, non di rado studiato assieme al fratello, si veda almeno: Federico Zuccari. Le idee, gli scritti. Atti del convegno di Sant’Angelo in Vado, a c. di B. CLERI, Milano - Pesaro e Urbino, Electa - Provincia di Pesaro e Urbino, 1997; C. ACIDINI LUCHINAT, Taddeo e Federico Zuccari: fratelli pittori del Cinquecento, Milano - Roma, Jandi Sapi, 1998; S. PIERGUIDI, Federico Zuccari, tra reazione antivasariana e ossequio al culto di Michelangelo, «Schede umanistiche», 20 (2006), 1, pp. 165-177; Taddeo and Federico Zuccaro: Artist-Brothers in Renaissance Rome, ed. by J. BROOKS, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2007; G. GIACOMELLI, Il Giudizio universale di Vasari e Zuccari fra chiesa, corte e teatro musicale, «Recercare», 20 (2008), pp. 95-115; S. TUMIDEI, Studi sulla pittura in Emilia e in Romagna. Da Melozzo a Federico Zuccari (1987-2008), Trento, Temi, 2011.

55 suo effettivo manifestarsi in accademia. Un testo sinora ignorato di un grammatico perugino cinquecentesco, Gregorio Anastagi, testimonia invece efficacemente l’aspetto dialogico della comunicazione accademica. 71 L’autore raccontava l’occasione di una disputa, avvenuta probabilmente presso l’Accademia perugina degli Eccentrici, intorno al sonetto petrarchesco Se Virgilio ed Homero havessin visto. Non serve qui sintetizzare il contenuto della lezione, che vede il confronto tra le due differenti esposizioni, proposte da Ludovico De Torres e da Ludovico Sensi, ma importa osservare le modalità con le quali si svolse l’interazione tra i membri. 72 La lezione, ad imitazione di una sessione accademica, è strutturata esattamente come un dialogo orale, dove si alternano ordinatamente le voci degli accademici: da un lato De Torres proponeva la sua interpretazione dei versi petrarcheschi, dall’altro Sensi la confutava punto per punto. Non è purtroppo possibile, per la lunghezza delle risposte, restituire qui l'avvicendamento delle voci accademiche. Si osserverà piuttosto, all’interno di questa lezione, la volontà di Anastagi di caratterizzare, attraverso l’esibizione di alcuni precisi dettagli, anche le pause e le fasi del dialogo, così da renderlo più realistico. Il lettore può per esempio cogliere Sensi mentre, con studiata gravità, riordinava le sue idee per prepararsi a rispondere («stette il magnifico Sensi, [po cass.] poscia che hebbe diligentemente ascoltato, così un pochetto sopra di sé pensoso, e poi con lieto viso, guardando il signor Torres disse incominciando: “Se io, arguto signor Lodovico, volessi…”») (92v), oppure assistere alla felice conclusione

71 G. ANASTAGI, Discorso sopra quel sonetto di Petrarca ‘Se Vergilio ed Homero havessin visto’, BHT, ms. Petr. I 55, cc. 90r-97r. Nonostante la scarsa notorietà del poeta e grammatico perugino Anastagi, di cui si ha qualche notizia in VERMIGLIOLI, I, pp. 40-41, la sua figura meriterebbe di essere approfondita. Ad eccezione dei Proverbi toscani – l’unica stampa che pubblicò in vita nel 1590 (Perugia, [s.t.]) – e ad un esiguo manipolo di stampe ottocentesche (elencate in nota 41 in § III.3), la sua restante produzione letteraria è ancora inedita. Tra le opere di Anastagi che si sono potute consultare, risultano di grande interesse I giorni festivi, una raccolta di annotazioni sul Canzoniere e sui Trionfi di Petrarca (Perugia, Biblioteca Augusta, ms. 80 [B 24]), e le Opere toscane, una serie di lezioni accademiche su questioni grammaticali, temi etici e filosofici (Perugia, Archivio Storico dell’Università di Perugia, ms. P. 1 III 37). 72 Su Ludovico De Torres si veda P. MESSINA, De Torres, Ludovico, DBI, 39, 1991, ad vocem; sul meno noto Ludovico Sensi: E. IRACE, La nobiltà bifronte. Identità e coscienza aristocratica a Perugia tra XVI e XVII secolo, Milano, Edizioni Unicopli, 1995, pp. 183-185.

56 della disputa, nella quale De Torres ammetteva la sua sconfitta, ma gioiva per il raggiungimento della verità:

Haveva fornito il parlamento suo il Sensi, quando il Torres, tutto lieto in piè levatosi, «Signor castellano, 73 – disse – voi non dicevate bugia che il Petrarca non era in fallo, ma non ci è stato di poco giovamento il magnifico Sensi, il quale ne ha cavato delle tenebre la pura verità, sì destramente, che io non meno di voi rimango del suo consiglio pienamente appagato». (96v-97r)

La disputa è finalmente risolta: la comunicazione accademica giunge alla «verità», dimostrando una volta di più la sua dimensione circolare, ossia la sua obbligatoria soddisfazione. Nei sodalizi cinquecenteschi, la conversazione si fondava sul modo dialogato di dirimere le questioni (e di confezionare, retoricamente, verità diverse) e sull’altissimo valore dato alla parola orale in concorrenza con la parola scritta. Lo stesso Guazzo nella sua Civil conversazione sanciva una volta di più la superiorità dell’oralità sulla scrittura e quindi dell’udito sulla vista:

La prova ci dimostra che meglio s’apprende la dottrina per le orecchie che per gli occhi, e che non accaderebbe consumarsi la vista né assottigliarsi le dita nel rivolgere i fogli degli scrittori, se si potesse aver del continuo la presenza loro e ricever per l’orecchie quella viva voce, la quale con mirabil forza s’imprime nella mente.74

Ma «la prova», ossia l’esperienza di questa verità, aveva come suo luogo di elezione l’accademia, dove si poteva ascoltare la «viva voce» dei letterati e godere della «presenza loro». Il desiderio dei membri accademici di riunirsi assieme per ascoltare ed accordare le proprie voci non era allora soltanto il consolatorio rifugio di una classe intellettuale allo sbando, ma corrispondeva anche alla cosciente realizzazione dell’uomo in quanto – aristotelicamente – animale sociale per eccellenza. Tale realizzazione si compiva appieno quando avveniva lo scarto, decisivo per ogni consorzio

73 De Torres si rivolgeva qui a Claudio Pozzi, castellano della fortezza di Perugia, con il quale aveva iniziato la disputa in accademia. In un secondo momento, la posizione di Pozzi venne affidata a Sensi «come a più esperto nelle lettere e [uomo] di grande autorità» (c. 91r). 74 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, p. 30.

57 umano socialmente organizzato, dal mezzo mediato della parola scritta al mezzo immediato della parola orale.

I.5 La produzione accademica

I.5.1 Quantità, circolazione e definizione

Gli studi critici giudicano estremamente abbondante la letteratura nata nelle accademie.75Lo straordinario irradiamento della rete accademica, diramatasi rapidamente in ogni città della penisola italiana, moltiplicò a dismisura i potenziali centri di trasmissione e di produzione letteraria. I numerosi membri prendevano parte con febbrile entusiasmo ad una attività letteraria per larga parte percorsa da luoghi comuni da ribadire, nella convinzione che proprio grazie all’insistenza su alcuni topoi, potessero finalmente raggiungere il loro riconoscimento sociale e culturale all’interno della comunità letteraria del tempo. Era un’adesione spontanea, convinta e largamente condivisa, che si esprimeva nella serialità e nella ripetizione di un repertorio assai vasto di temi.76 All’interno delle singole accademie non sempre si concordava sui modi del superamento della propria dimensione cellulare e sull’opportunità di un approdo sulla scena nazionale. Le accademie più ambiziose si orientarono verso la stampa che offriva l’opportunità di un riscontro pressoché immediato da parte della più vasta società letteraria. Il diffuso interessamento per il mezzo tipografico non sempre però si tradusse in effettive pubblicazioni, perché determinati ostacoli, perlopiù di ordine economico, ne impedirono la realizzazione. La maggioranza delle accademie, tuttavia, non poté o non volle (per ragioni di opportunità o di censura) affidare la propria produzione ai torchi

75 Confermano l’instancabilità dell’attività letteraria accademica DIONISOTTI, La letteratura italiana nell’età del concilio, cit., p. 257 e QUONDAM, L’accademia, cit., pp. 867-870. Benzoni definisce questa abbondanza come un «enorme cumulo di paccottiglia in prosa e in versi» che nemmeno «i ludi spiritosi che talvolta movimentano le accademie […] riescono ad alleggerire» (Per non smarrire l’identità, cit., p. 173). 76 Va però distinto – ed è una distinzione importante – tra la ricchezza dei temi affrontati (di cui sono forniti esempi nel successivo paragrafo § I.5.2) e la loro trattazione, spesso formalizzata secondo le categorie del sistema etico del classicismo.

58 degli stampatori. Come dimostra anche il caso degli Insensati, è ancora estremamente vasto il lascito accademico rimasto inedito e inesplorato. Naturalmente la circolazione di questo materiale era alquanto limitata e aveva come primo e talvolta unico destinatario l’insieme dei membri accademici. Ciò determinava alcune distintive caratteristiche del suo contenuto, tra le quali una forte autoreferenzialità ed una scarsa attenzione all’esplicitazione di taluni riferimenti del tutto ovvi all’interno del contesto accademico di origine.77 Se tali valutazioni generali possono dirsi ormai acquisite, risulta ben più complesso riconoscere le singole unità di questo cospicuo insieme di opere. La definizione di opera ‘accademica’ impone una serie di considerazioni che, generalmente ignorate dalla critica, sembrano in realtà tutt’altro che scontate. Tale definizione si traduce nella identificazione di quegli elementi che qualificano un testo come ‘accademico’, che consentono cioè di individuare la responsabilità collettiva dell’accademia nella sua ideazione o composizione. La questione è oltremodo complessa e ci si limiterà di seguito ad alcune considerazioni di ordine generale. Nell’accezione più larga, si potrebbe definire ‘accademico’ ogni testo scritto da un socio di un’accademia; in quella più stretta, soltanto le opere uscite a nome dell’intera accademia. Tuttavia, nessuna delle due risposte risulta del tutto soddisfacente. Nel primo caso, ci si troverebbe di fronte ad una sostanziale equivalenza tra la letteratura italiana e la letteratura accademica, dal momento che quasi tutti i letterati del tempo – come detto ad inizio capitolo – furono membri di almeno un’accademia. Così intesa, perciò, la qualifica di testo ‘accademico’ perderebbe del tutto il proprio valore. Nel secondo caso, invece, giudicando ‘accademici’ esclusivamente i testi proposti con il nome collettivo del sodalizio, verrebbero esclusi da questa categoria un gran numero di scritti che mostra una strettissima connessione con l’attività accademica. Non si tratta solo dei testi che per il loro intrinseco contenuto aderiscono al programma accademico, ma anche di quelle lezioni e discorsi,

77 Sulle modalità della circolazione manoscritta durante il Rinascimento, si veda B. RICHARDSON, Manuscript Culture in Renaissance Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 2009.

59 magari stampati a nome dei singoli membri o in forma anonima, che si riferiscono esplicitamente allo svolgersi dell’attività accademica (ricordando per esempio l’occasione della recita all’interno del consesso, la presenza di personaggi eccellenti, l’evento luttuoso che coinvolse uno dei soci, e così via). Nel tentativo di riconoscere la reale responsabilità di un’accademia nella creazione e nell’elaborazione di un determinato testo, risulta di estremo interesse il caso di Siena nel Cinquecento, analizzato con grande attenzione da Laura Riccò. Indagando in particolare alcune opere uscite a nome degli Accademici Intronati, la studiosa ha voluto accertare la forza della coesione culturale del sodalizio, nella convinzione che in determinati casi le ragioni collettive prevalessero su quelle individuali. Così, per esempio, avvenne per la commedia Hortensio, pubblicata nel 1571 dallo stampatore veneziano Luca Bonetti, che definì l’opera «quasi senza padrone»; così fu anche nel caso del Dialogo de’ giuochi, il cui autore, Girolamo Bargagli, nelle pagine di dedica a Isabella de’ Medici, si propose quale semplice custode della memoria della tradizione orale dell’Accademia degli Intronati, «unica vera titolare del diritto d’inventio». La pratica dell’occultamento del nome dell’autore dell’opera, tipica degli Intronati e dei Cortigiani Ferraiuoli (ma non accolta invece dagli Accademici Accesi o dai Travagliati), è a tutti gli effetti un elemento di grande aiuto per stabilire la paternità collettiva dell’opera.78 Il caso di Siena si presenta particolarmente favorevole sotto l’aspetto considerato e non può però adattarsi efficacemente alla complessiva situazione italiana. Dove non è possibile invece stabilire una distinzione così precisa, si deve ricordare che tutti i testi a nome dei singoli membri recano una potenziale doppia autorialità, oscillano cioè tra l’individualità del

78 Si veda il secondo capitolo (Dietro i frontespizi: firma collettiva, anonimato, nome accademico, pseudonimo, assunzione di autorialità) del volume di RICCÒ, La «miniera» accademica, cit., pp. 49-116: in particolare le pp. 51, 55-56, 59. Del tutto condivisibile la chiosa che chiude il capitolo: «Dovremo persuaderci, alla fine, che, in primo luogo, la firma collettiva non è segno di un’ambigua anonimia da sciogliere, bensì è esattamente ciò che afferma di essere, ovvero la dichiarazione che all’opera in oggetto hanno collaborato più persone che si riconoscono e vogliono essere riconosciute in un soggetto collettivo» (p. 113). Le opere cui si è fatto riferimento sono L’hortensio, comedia de gl’Academici Intronati, rappresentata in Siena alla presenza del serenissimo gran duca di Toscana, il dì XXVI di gennaio MDLX, quando visitò la prima volta quella città, in Siena, per Luca Bonetti, 1571; G. BARGAGLI, Dialogo de’ giuochi, con un’Introduzione di R. BRUSCAGLI, a c. di P. D’INCALCI ERMINI, Siena, Accademia senese degli Intronati, 1982.

60 singolo letterato e la collettività dell’accademia. Quando questi vengono a coincidere – l’autore cioè rispecchia nell’opera i valori ed i criteri estetici e morali promossi dall’accademia – ecco che la distanza si annulla, perde ogni significato ed il testo si presenta come un lavoro accademico. Al contrario, quando l’intervallo tra i due termini si allarga, emerge più chiaramente la sola o la predominante responsabilità del singolo autore del testo. Nessuno potrebbe infatti definire il Pastor fido di Guarini una realizzazione degli Accademici Eterei o degli Accademici della Crusca, né tantomeno l’Adone di Marino un’opera dell’Accademia degli Insensati di Perugia (cui pure Marino fu iscritto).79 In taluni casi è ben più difficile giudicare la produzione di un autore in rapporto all’accademia di appartenenza. Risulta in tal senso emblematica la composizione delle opere tragiche di Pomponio Torelli, recentemente al centro di una disputa scientifica tra Lucia Denarosi e Pietro Montorfani. La prima aveva invitato a studiare l’attività letteraria torelliana non soltanto quale «prodotto di una ricerca di esclusivo carattere individuale», bensì come il più alto risultato della «vera e proprio “scuola” tragica “Innominata”». Montorfani, invece, ha individuato nella prospettiva adoperata dalla studiosa nell’analizzare al complesso dell’Accademia degli Innominati, «il rischio […] di dissolvere la personalità e le scelte artistiche di Torelli all’interno dell’ipotesi […] di un ‘progetto culturale innominato’».80 In generale, quanto sostenuto da Montorfani risponde alla naturale tentazione di isolare il contributo di un grande autore sopra la medietà delle opere dell’ambiente culturale in cui è inserito; una tentazione che nel caso delle accademie non sempre trova piena giustificazione.

I.5.2 Poesia e prosa accademica.

Nella abbondante letteratura accademica si riconoscono da una parte i vari dialoghi, compendi, trattati, lezioni ed orazioni accademiche; dall’altra

79 Sulla presenza di Marino presso gli Insensati, si veda infra § IV.3.1. 80 I due volumi coinvolti nella polemica sono il già citato lavoro di Lucia Denarosi (L’Accademia degli Innominati, citazione a p. 259) e la recente monografia di P. MONTORFANI, Uno specchio per i principi. Le tragedie di Pomponio Torelli (1539-1608), Pisa, ETS, 2010 (citazione a p. 17).

61 le composizioni poetiche. Dal punto di vista qualitativo, bollare l’intera produzione accademica come frivola, superficiale e disdicevole è un’estremizzazione che oggi non si può accettare. Appare in tutta evidenza il profondo divario qualitativo tra gli scritti delle diverse centinaia di accademie e migliaia di accademici. Proprio l’enorme disponibilità di “letterati”, quindi di autori, suggerisce di formulare giudizi con maggiore cautela. Non sembra però improprio considerare la produzione poetica perlopiù una letteratura d’occasione.81 Il ritmo quasi incessante dell’attività letteraria delle accademie doveva stare al passo con le numerose occasioni celebrate nei componimenti. Lo chiarisce con precisione e dovizia di particolari il seguente passaggio della Civil conversazione, nel quale Guazzo enumerava le circostanze in cui gli Accademici Illustrati si erano impegnati ad offrire il proprio omaggio poetico:

Ora gli academici vanno tessendo diversi leggiadri componimenti in lode della virtuosa signora Costanza Carretta, con dissegno d’onorarla in Academia, e di presentarglieli raccolti in un vago e polito volume, dapoi che si saranno fatte le nozze tra lei e l’eccellente academico, il signor Bernardino Scozia. Sogliono anco in morte d’alcuno degli academici farsi sessioni funebri in suo onore, con tanta gravità e mestizia che è maraviglia. Il che parimente s’osserva quando sopraviene la morte d’alcuno prencipe, come particolarmente dimostrano le fatiche loro passate nella morte di Madama Margherita, […] intitolate Le lagrime degli Illustrati. Si fanno parimente sessioni nella venuta de’ prencipi o per qualche altro lieto avvenimento.82

Le poesie accompagnavano i matrimoni, i decessi, gli addottoramenti, le partenze, i ritorni e tutti gli altri avvenimenti più significativi della vita

81 Una analisi sulla produzione encomiastica del secondo Cinquecento è offerta in L. GIACHINO, «Al carbon vivo del desio di gloria». Retorica e poesia celebrativa nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2008. 82 GUAZZO, La civil conversazione, cit., I, p. 159. Il volume cui fa riferimento Guazzo in onore di Costanza Caretta, Contessa di Cosmato, non risulta sia stato pubblicato. Il marito di lei, Bernardino Scozia, era conte di Benevello e Murisengo e ricoprì l’incarico di presidente del Senato di Monferrato. Con l’appellativo di «Madama» Guazzo si riferiva a Margherita Paleologa, duchessa di Mantova e marchesana del Monferrato, di cui fu al servizio dal 1560 sino alla morte di lei nel dicembre del 1566. Nel volume Le lagrime degli Illustrati di Casale […], (in Trino, Giovan Francesco Giolito de’ Ferrari, 1567) si legge una lunga orazione funebre di Guazzo in onore della duchessa (le notizie si raccolgono dal volume GUAZZO, La civil conversazione, cit., II, pp. 15-16, 294-295).

62 privata e pubblica degli accademici, dei loro amici e dei potenti del tempo. La vita medesima degli accademici e dei loro congiunti era dunque iscritta nella dimensione dell’accademia. Vi arrivava però attraverso il filtro della letteratura, che ne garantiva la corrispondenza con la dignità dell’istituzione accademica. La citazione di Guazzo rivela poi un altro aspetto della produzione poetica del secondo Cinquecento, la sua funzione socializzante, che ben concorda con la funzione aggregativa delle accademie. Attraverso il medium della letteratura in versi, potevano essere raggiunti con una certa facilità sia gli altri accademici e gli amici letterati, sia i signori locali, i cardinali e persino re e pontefici. La poesia rappresentava dunque il linguaggio trasversale, la vera lingua di comunicazione del ceto illustre d’antico regime. Le raccolte letterarie del tempo abbondavano così di sonetti di proposta e di risposta e annoveravano nomi di celebri personaggi accanto a umili letterati oggi pressoché sconosciuti. Nelle Rime del 1609, l’Accademico Insensato Filippo Massini si rivolgeva, tra gli altri, alla regina di Spagna, Margherita d’Austria (Sposa real che ’n tanta altezza humile, p. 207), dedicataria anche di una composizione per le nozze con Filippo III (Del maggior duce, o figlia, pp. 208-212), a papa Clemente VIII (Giusto seder monarca, e forte e pïo, p. 216), al nobile milanese Pirro Visconti (Quel vetro tuo che con due man si prende, p. 226), così come agli Insensati Francesco Visdomini (cui indirizzava ben sei componimenti; di cui il primo è Del mio sol, del tuo sole il raggio ardente, p. 13), Leandro Bovarini (destinatario di 4 liriche, di cui la prima è Ditemi, Bovarin, voi che pur siete, p. 119); Marco Antonio Masci (Fur, Masci, i nostri avventurosi lidi, p. 201) e così via.83 Tra i corrispondenti di Massini figura anche un altro Accademico Insensato, Filippo Alberti, nelle cui Rime, offerte ad Ascanio II della Cornia, egli celebrava le morti di Costanzo Paolucci (Fur troppo, oimè, troppo fugaci e corte, p. 24), di Cesare Caporali (Potea d’inferno trar nuova Euridice, p. 35), del nonno di Ascanio della Cornia (Cadde Perugia allor, che mesta scorse, p. 52), del cardinale e legato di Perugia Silvio Savelli (Mal fai, nobil pittor, s’a questa altera, pp. 53-

83 F. MASSINI, Rime del signor F.M. l’Estatico Insensato al serenissimo don Cosmo II De’ Medici gran duca di Toscana, in Pavia, per Andrea Viani, 1609. Per la bibliografia su Massini, si rinvia a § III.2.

63 57), di Vincenzo Danti (Scrisse, pinse, scolpio, mentre al ciel piacque, p. 59), di Giuliano Goselini (Udite, o meraviglia, pp. 68-70), di Giovan Battista Canali (Chi più vive qua giù, più lungo essiglio, p. 61), i dottorati di Paolo Mancini (Di questa età mosse ancor Febo il piede, p. 33), di don Alfonso marchese d’Este (O meraviglia, o nuovo, p. 84), ed il compleanno di Enea Baldeschi (Dolce froda del tempo e dolce inganno, p. 65). Avvicinava così, in nome della letteratura, esponenti d’illustri famiglie perugine (Paolucci, della Cornia, Baldeschi) e forestiere (Mancini, Este), artisti (Danti), letterati, organizzatori culturali (Caporali, Goselini, Mancini) ed alti esponenti ecclesiastici (Savelli).84 Una simile produzione poetica era un mezzo di promozione sociale orientato in direzione della letteratura. Con l’invio e la ricezione dei sonetti in «proposta» e «risposta», 85 gli accademici si riconoscevano vicendevolmente come letterati ed uomini di cultura. A differenza del passato, alla poesia non si chiedeva più l’immortalità o di perpetuare il proprio ricordo dopo la morte, ma più semplicemente il permesso di appartenere alla società letteraria del tempo. La prospettiva era mondana, il riconoscimento immediato, la vera ambizione che sosteneva questa letteratura era la gloria terrena, mortale. Naturalmente, ciò determinava una letteratura assai copiosa, dove la qualità, o meglio la distinzione, era ricercata attraverso l’enfasi e la meraviglia. Ancora una volta era la serialità ad imporsi, l’insistita reiterazione degli stessi moduli poetici, adattati magari a diversi nomi diversi da elogiare. Risulta più eterogenea e forse più interessante la produzione accademica in prosa, dominata dalla grande massa di lezioni e di orazioni accademiche. Scorrendo gli argomenti preannunciati sin dai titoli delle dissertazioni, appare evidente l’interesse per ambiti assai diversi del sapere: si va dalla lettura di sonetti di Petrarca allo svelamento delle imprese

84 F. ALBERTI, Rime di F.A., nell’Academia de gli Insensati di Perugia detto lo Stracco. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio della Cornia, marchese di Castiglione, etc., in Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1602. Si è deciso di conservare i numeri di pagina dell’edizione citata, nonostante la numerazione sia spesso problematica, tra numeri ripetuti ed interruzioni. 85 Per diversi motivi è celebre l’ormai vetusta raccolta curata da Hugues Vaganay: Sonetti di proposta e risposta dei XVI, XVII e XVIII secoli. Saggio di bibliografia con indici, Erlangen, Fr. Junge, 1908.

64 accademiche, dall’esposizione della dottrina d’amore alla lode della vita di campagna, dalla superiorità tra le lettere e le armi alla scelta tra la vita attiva e contemplativa, e così via. Prendendo come esempio le lezioni che si recitarono durante il 1601 presso l’Accademia dei Ricovrati di Padova, si riconoscono due filoni d’interesse. Da una parte, si segnalano le attività connaturate con la natura dell’istituzione, dal carattere principalmente autoreferenziale, quali lo svolgimento dei pietosi uffici in onore di un accademico scomparso, lo svelamento dell’impresa generale e la riflessone sulla «forma dell’Academia». Dall’altra parte, emerge la vastità degli interessi dei Ricovrati, i quali composero lezioni sull’acquisto della gloria per chi «alla morte per la propria patria si espone»; sulla «concorrenza»; sul sonetto petrarchesco Era il giorno, che al sol si scoloraro; su una non meglio precisata «materia […] a questo tempo di Carnevale convenevole»; sul «sonno»; sulla «generatione et qualità delle comete»; sull’«antro figurato da Socrate nel 7 della Repubblica»; sulle «conchiusioni d’amore»; «in lode della Vigilanza»; sulla «più gloriosa vittoria» per l’uomo; sulla possibilità per le persone «volgari e vitiose» di arrecare «altrui honore»; sulla convenienza dell’«ira di Achille» ad essere materia di un poema eroico e sul suicidio quale eventuale «attione di virtù morale».86 Questa preziosa varietà di soggetti indagati va sempre intesa entro i limiti del carattere amatoriale e\o divulgativo di gran parte della produzione letteraria accademica. Gli stessi autori erano perlopiù mossi da curiosità piuttosto che realmente spinti all’indagine; la proposizione di una lezione era di fatto un’occasione, quasi un pretesto, per avviare la conversazione accademica, non un tentativo di esaurire la trattazione del tema esposto. In poche righe che sprigionano un vivace estro letterario, Gino Benzoni definisce e valuta in questi termini i caratteri della letteratura accademica:

86 Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata. A. Verbali delle adunanze accademiche dal 1599 al 1694, a c. di A. GAMBA e L. ROSSETTI, Trieste, LINT, 1999, pp. 72-89. Le ultime quattro lezioni citate risultano in realtà essere un genere meno formalizzato di «essercitio» accademico, che prevede l’esposizione di «dubii» sui quali si poteva ragionare «brevemente e con stile familiare».

65 Quali argomenti? Più seri, ma, proprio per questo, suscettibili di plumbea ovvietà e di tedioso sussiego, quelli del XVI secolo: la miglior via per giungere alla virtù, l’utilità della storia, la grandezza di Catone l’Uticense, la dignità dell’uomo, il valore della poesia. D’una torrenziale incontrollata incontinenza la scipitaggine del XVII secolo, quando i discorsi verbosissimi nascono quasi ‘accidentalmente ed a guisa di fonghi’. [...] Preferibile, ad ogni modo, l’affettata sprezzatura, non priva d’inventiva e di ‘ghiribizzo’ del secolo XVII, alla tetraggine del serioso impegno argomentativo del ‘500. Imperversano le cicalate su tutto [...]. Il vaniloquio non dà tregua, s’esercita sofistico ovunque: ora esalta la calvizie, il giorno dopo celebra la chioma fluente.87

Di là dalla ostentata insofferenza nel giudicare la produzione accademica (insofferenza che lascia trapelare i presupposti di una condanna morale), resta valida l’insistenza posta dal critico sulla propensione della letteratura accademica per la trovata paradossale, fine a se stessa. Non era importante stabilire la verità, ma era decisivo affermare un’opinione e proporla come verità secondo i metodi della più efficace e scaltrita retorica del tempo. Come si vedrà nell’ultimo capitolo, gli stessi Insensati si divertirono ad affinare la loro retorica e capovolgere anche più di una volta i propri presunti convincimenti, dimostrando – anche loro – che per riuscire vincenti nel «gareggiamento» accademico, bisognava risultare universali, dotti e piacevoli.

87 BENZONI, Per non smarrire l’identità, cit., pp. 171-172.

66 Capitolo II: Per una storia di Perugia nel secondo Cinquecento e dell’Accademia degli Insensati

II.1 Perugia e la “guerra del sale”

Alli 16 di maggio, alle 23 ore, il signor Ridolfo [Baglioni], come una folgore, con molti cavalli e soldati, per la porta Santa Sosanna entrò nella città, e prima fu in piazza che alcuno lo sapesse. E la subita e guasi non più aspettata sua venuta accese gli animi di tal sorte, che facilmente si sperava la vittoria, stando ciascuno alegro e baldanzoso. Così entrato nel palazzo de li signori priori, con molti fuochi e suoni di campane e di trombe e artigliarie, fu con intensa alegrezza ricevuto. […] Né voglio pretermettere, come nel venir suo, fur dati dal cielo segni e guasi prodigi mirabili, ché in un momento furiosamente si levaro i venti, con acqua, tempesta, e grandine e saette, con grandissimo spavento.1

Le grandi speranze di Perugia sembrano scontrarsi fin da subito con i presagi spaventosi e cupi che accompagnarono l’entrata in città del giovane Ridolfo Baglioni. L’iniziale entusiasmo dei cittadini venne improvvisamente proiettato in una dimensione di sinistro mistero. La tempesta sembrava preannunciare il drammatico destino della città umbra, che aveva osato opporsi al volere di papa Paolo III. E lo scontro armato con Roma, che prese la dicitura caratteristica di “guerra del sale”, fu di decisiva importanza per la città umbra, che dovette da quel momento in poi venire a patti con la fine

1 G. DI FROLLIERE, La guerra del sale. Ossia racconto della guerra sostenuta dai perugini contro Paolo III nel 1540, a c. di F. BONAINI, con annotazioni di A. FABRETTI e F.L. POLIDORI, in Cronache e storie inedite della città di Perugia, a c. di F. BONAINI, A. FABRETTI, F.L. POLIDORI, «Archivio storico italiano», 16 (1851), parte II, pp. 405-476: 460. Anche Cesare Bontempi non mancava di registrare il «tempo terribilissimo» con cui fu accolto Ridolfo Baglioni (Ricordi della città di Perugia dal 1527 al 1550 di Cesare di Giovannello Buontempi, continuati sino al 1563 da Marcantonio Bontempi, a c. di F. BONAINI, con annotazioni di A. FABRETTI e F.L. POLIDORI, in Cronache e storie inedite, cit., pp. 323-401: 379). Le poche notizie su Girolamo Di Frolliere (o Girolamo Frollieri) e sulla sua opera storica cinquecentesca si ricavano da A. MARIOTTI, Saggio di memorie istoriche civili ed ecclesiastiche della città di Perugia e suo contado, opera postuma di Annibale Mariotti, che contiene una dissertazione sugli storici perugini ed una descrizione della città di Perugia e de’ fatti principali della medesima, in Perugia, presso Carlo Baduel, 1806, pp. LXIII-LXIV.

67 della sua autonomia politica.2 L’illustrazione di tale evento è anche utile per contestualizzare storicamente l’attività dell’Accademia degli Insensati. A scatenare il conflitto fu il rifiuto che Perugia oppose ad un breve di Paolo III, nel quale era stabilito un considerevole aumento del prezzo del sale alla libbra. Nonostante le lamentele dello storico Cesare Bontempi, che bollava Paolo III come colui che «vuole da questa Città quello che è impossibile», non ci fu nessun ripensamento da parte del pontefice, che il 17 marzo del 1540 scomunicò la città come castigo per la resistenza oppostagli.3 Perugia, allora in tumulto, si organizzò per prepararsi a sfidare il papa. Per affrontare l’imminente drammatica situazione, si stabilì di istituire un consiglio, prima di venti, poi di venticinque persone, che avrebbe dovuto gestire l’emergenza. Si decise poi di ricorrere all’aiuto dei Baglioni, la famiglia che dalla fine degli anni ’80 del Quattrocento aveva esercitato su Perugia una signoria occulta.4 Dopo la rinuncia dell’anziano Braccio e quelle di Astorre ed Adriano, troppo giovani e sotto la tutela del celebre zio Alessandro Vitelli, condottiero del papa, le richieste d’aiuto della città si indirizzarono proprio verso Ridolfo Baglioni. Prima di accettare, egli impose severe condizioni economiche agli amministratori perugini, che per soddisfarle dovettero metter mano alla preziosissima «argenteria del palazzo de li magnifici signori priori».5 Nonostante il sopraggiunto aiuto di Ridolfo Baglioni e la strenua resistenza di Torgiano, dove il giovane

2 Di fondamentale importanza sono le fonti primarie sulla “guerra del sale” citate nella precedente nota, cui si deve aggiungere almeno P. PELLINI, Della historia di Perugia. Parte terza, con un’Introduzione di L. FAINA, Perugia, [Deputazione di storia patria per l'Umbria], 1970, pp. 618-636. La rivolta di Perugia contro il pontefice, punto di partenza delle analisi storiche cinquecentesche su Perugia, esposte in nota 9, è stata oggetto delle pagine di BONAZZI, Storia di Perugia, cit., II, pp. 122-150 e R. CHIACCHELLA, Per una reinterpretazione della «guerra del sale» e della costruzione della Rocca Paolina in Perugia, «Archivio Storico Italiano», 145 (1987), pp. 3-60. 3 BONTEMPI, Ricordi della città di Perugia, cit., pp. 377-378. Su Bontempi si veda G. DE CARO, Bontempi, Cesare, DBI, 12, 1971, ad vocem. 4 Sulla signoria esercitata dai Baglioni a Perugia, si rinvia al classico C.F. BLACK, The Baglioni as Tyrants of Perugia, 1488-1540, «The English Historical Review», 85 (1970), pp. 245-281. Sui Baglioni sono utili anche le monografia di O. GUERRIERI, I Baglioni, Firenze, Nemi, 1938 e A. BALEONEUS [alias Astorre Baglioni, membro della nobile famiglia], I Baglioni, Prato, La Tipografica Pavese, 1964, che soffre però, come già rilevato nella recensione da William Gilbert, di «an excess of family piety» («The American Historical Review», 71 (1966), pp. 1005-1006: 1006). 5 L’elenco dettagliatissimo degli oggetti preziosi presenti nel palazzo compare nella cronaca di DI FROLLIERE, La guerra del sale, cit., pp. 446-449. Nonostante gli sforzi della città, Ridolfo Baglioni, insoddisfatto del denaro procurato, minacciò più volte di andarsene, ma poi «l’amore della patria lo ritenne» (p. 467).

68 condottiero ed architetto militare Ascanio della Cornia ebbe modo di mettere in mostra tutto il suo talento, la guerra si tradusse in una sconfitta per Perugia nel volgere di poche settimane. Il 3 giugno del 1540 i priori incaricarono Ridolfo Baglioni, ben lieto di ricucire lo strappo con il papa, di trattare le condizioni di pace col nemico. A distanza di due giorni, Pier Luigi Farnese, figlio di Paolo III e comandante delle truppe papali, entrò a Perugia ed impose l’esilio di Ridolfo Baglioni.6 Conclusa la contesa, Paolo III decise di togliere a Perugia il magistrato dei priori e di elevare una imponente fortezza a perenne monito dell’evento: la Rocca Paolina. Proprio per seguire passo dopo passo i lavori di costruzione, affidati al celebre architetto Antonio da Sangallo il Giovane, il papa si recò assai spesso di persona a Perugia, facendo così avvertire concretamente la propria presenza in città. Dopo aver meditato a lungo, il papa stabilì la sede della futura fortezza sopra le case dei Baglioni, a voler così rappresentare simbolicamente la fine del loro potere sulla città. Le reazioni degli storici perugini di fronte alla violenta demolizione furono di profonda irritazione, come testimoniano i racconti di Girolamo Di Frolliere e di Cesare Crispolti:

Cominciava questa fabrica alla Sapienza Nuova, e seguitando al monasterio delle Vergini, s’avvicinava a San Cataldo, et abbracciava quasi tutto il borgo del monasterio di Santa Giuliana: nel quale spazio e giro furono distrutti molti sacrati tempii, e rovinate molte centinaia di case, con danno grandissimo del publico e de’ privati. Volendo il legato esseguire gli ordini, che più volte haveva havuti dal papa, fece con molta prestezza scaricare ancora le case, i tempii, e tutti gli edifitii, ch’alla fortezza erano vicini, senza haver

6 Pier Luigi Farnese è noto per i comportamenti dissoluti di cui diede prova in vita. L’episodio senz’altro più famoso è quello del cosiddetto ‘oltraggio di Fano’, raccontato con grande animosità e vivacità da Benedetto Varchi nella sua Storia fiorentina. Giunto nella cittadina marchigiana, Pier Luigi Farnese fece la conoscenza del governatore e del vescovo Cosimo Gheri, cui domandò «come si sollazzasse e desse buon tempo con quelle belle donne di Fano». Non frenato dalla reticenza di Gheri, che evitò di soddisfare le sue curiosità, Pier Luigi Farnese il giorno successivo «cominciò palpando e stazzonando il vescovo a voler fare i più disonesti atti che con femmine far si possano». Nonostante la ritrosia dell’alto prelato, il figlio del Papa minacciò e violentò il vescovo che di lì a poco, probabilmente a causa dell’aggressione subita, morì (B. VARCHI, Storia fiorentina. Volume V, Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1804, pp. 391-393). Risultano invece assai equilibrate le valutazione storiche sui Farnese di H. GAMRATH, Farnese. Pomp, Power and Politics in Renaissance Italy, Rome, «L’Erma» di Bretschneider, 2007, pp. 47-111 sugli anni 1534- 1558; in particolare, su Pier Luigi, pp. 56-65, 102-104.

69 consideratione o rispetto al grande e insopportabil danno, che da questo distruggimento risultava. 7 (499r)

Eliminando ogni traccia del passato comunale di Perugia, Paolo III intendeva enfatizzare la vittoria di Roma e l’assoggettamento della città umbra allo Stato pontificio. L’orgoglio del pontefice risultava in tutta la sua evidenza nella iscrizione che compariva nel cortile della fortezza: «Paulus III Pont. Max. tirannide eiecta novo civitatis statu constituto […] arcem hanc a solo excitatam mira celeritate munivit» (499v).8 Non sorprende allora che Paolo III amasse dichiararsi fondatore di una ‘nuova Perugia’, finalmente restituita al suo legittimo proprietario.

II.2 Perugia dopo la “guerra del sale”

Presentare i fatti accaduti circa vent’anni prima dell’istituzione dell’Accademia degli Insensati sembrerebbe a prima vista un’operazione ingiustificata, o perlomeno non necessaria. Tuttavia, come sostengono i più recenti e meglio impostati studi critici sulla Perugia cinque-seicentesca, il periodo tra la seconda metà del secolo XVI e i primi anni del secolo XVII

7 DI FROLLIERE, La guerra del sale, cit., p. 473; C. CRISPOLTI, Libro nono. Dove si contengono le cose dell’anno 1541 per sino all’anno 1559 e mezzo, in circa, cioè per sino alla morte di Paolo IIII, contenuto nel ms. 1662 della BAP, cc. 496r-532r e quindi, con cartulazione evidentemente errata, cc. 332r-346r. Il Libro nono fa parte dell’opera storica di Crispolti Annali delle guerre civili. Le varie copie manoscritte degli Annali sono descritte da Laura Teza (Appendice III: ‘I manoscritti di Cesare Crispolti’ in ‘Raccolta delle cose segnalate’ di Cesare Crispolti. La più antica guida di Perugia (1597), a c. di L. TEZA, apparato critico di S. STOPPONI, Firenze, Olschki, 2001, pp. 284-285, 287) che nel medesimo volume offre una panoramica intorno alla elaborazione della monumentale opera storica di Crispolti: L. TEZA, Cesare Crispolti, ‘sacerdote’ di Perugia, pp. 11-78: 75-78. Sulla Rocca Paolina si vedano S. GRASSI FIORENTINO, Perché una fortezza? Il caso di Perugia, «Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’università di Perugia»: Forme e tecniche del potere nella città (secoli XIV-XVII), 16 (1979-1980), pp. 297-311; A. GROHMANN, Perugia, Bari, Laterza, 19852, pp. 83-123; CHIACCHELLA, Per una reinterpretazione, cit.; P. CAMERIERI e F. PALOMBARO, La Rocca Paolina un falso d’autore. Dal mancato compimento alla radicale alterazione del progetto di Antonio da Sangallo il Giovane per il Forte di S. Cataldo, Perugia, La Provincia di Perugia, 1988; La Rocca Paolina di Perugia. Studi e ricerche, Perugia, Electa Editori Umbri, 1992; A. GROHMANN, Società ed economia a Perugia tra Cinquecento e Seicento (dove a pp. 31-36 si legge l’elenco degli edifici «scarcati», ossia abbattuti, per l’edificazione della fortezza) e G. CHIUINI, La città moderna, in L’Accademia riflette sulla sua storia. Perugia e le origini dell’Accademia del Disegno. Secoli XVI e XVII. Atti del Convegno, a c. di F. BOCO, A.C. PONTI, Perugia, Fondazione Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” – Futura, 2011, rispettivamente pp. 21-42 e 43- 59: 43-47. 8 CRISPOLTI, Libro nono, cit. Sulle numerose visite di Paolo III a Perugia, si veda MARIOTTI, Saggio di memorie istoriche civili ed ecclesiastiche, cit., pp. 591-658.

70 appare comprensibile soltanto tenendo conto delle due irrimediabili conseguenze che portò con sé la “guerra del sale”.9 La prima è la definitiva perdita della ‘tollerata’ e non formalizzata autonomia della città. Benché Giulio III avesse restituito nel 1553 a Perugia alcuni dei privilegi di cui la città ancora beneficiava nella stagione precedente agli attriti con Paolo III, era ormai Roma a coordinare l’attività politica e giudiziaria della città. Con il progressivo consolidarsi del potere papale, le magistrature cittadine – e in primo luogo il priorato – videro ridotta la propria «qualifica da politica ad amministrativa» e si sottomisero alle autorità governative romane.10 Non a caso i priori, ristabiliti con bolla papale da Giulio III, si riunivano al piano inferiore del palazzo condiviso con i governatori papalini che, gerarchicamente e materialmente, si trovavano ad un livello superiore.11 L’assetto governativo della città può allora essere definito una «diarchia» di poteri, dove si fronteggiavano su livelli diversi il potere cittadino in declino e il potere pontificio in ascesa.12 Non si arrivò

9 Su Perugia nel secondo Cinquecento, con particolare attenzione al post “guerra del sale”, oltre all’antico BONAZZI, Storia di Perugia, cit., II, pp. 151-270, si vedano A. GABRIJELCIC, Alle origini del Seminario di Perugia (1559-1600), «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 68 (1971), pp. 1-200: 1-5; R. PACI, La ricomposizione sotto la Santa Sede: offuscamento e marginalità della funzione storica dell’Umbria pontificia, in Orientamenti di una regione attraverso i secoli: scambi, rapporti, influssi storici nella struttura dell’Umbra. Atti del X Convegno di studi umbri, Gubbio 23-26 maggio 1976, Gubbio - Perugia, Centro di studi umbri Casa di sant’Ubaldo - Università degli Studi di Perugia, 1978, pp. 207-225; C.F. BLACK, Perugia and Papal Absolutism in the Sixteenth Century, «The English Historical Review», 96 (1981), pp. 509-539; M. CARAVALE, La Deputazione umbra e la storia locale italiana. L’Umbra nello stato pontificio, in Una regione e la sua storia. Atti del Convegno celebrativo del Centenario della Deputazione (1896-1996) Perugia, 19-20 ottobre 1996, a c. di P. PIMPINELLI e M. RONCETTI, Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbra, 1998, pp. 117-133; R. CHIACCHELLA, L’Umbria nel Cinquecento, in I cappuccini nell’Umbria del Cinquecento, a c. di V. CRISCUOLO, Roma, Istituto storico dei Cappuccini, 2001, pp. 23-40; EAD., Regionalismo e fedeltà locali. L’Umbria tra Cinque e Settecento, Firenze, Nerbini, 2004, pp. 7- 65; E. IRACE, Una voce poco fa. Note sulle difficili pratiche della comunicazione tra il centro e le periferie dello Stato Ecclesiastico (Perugia, metà XVI-metà XVII secolo), in Offices, écrit et Papauté (XIIIe-XVIIe siècle), études réunies par A. JAMME et O. PONCET, Rome, Ecole Française de Rome, 2007, pp. 273-299; EAD., Per una rilettura della Perugia seicentesca. Le ‘Aedes Barberinae’ e la storia della città, «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», 106 (2009), pp. 121-141: 121-125. 10 CHIACCHELLA, Regionalismo e fedeltà locali, cit., p. 48. 11 Pellini, che pur descriveva con toni trionfalistici la restituzione del priorato, non mancava di rilevare che ai magistrati perugini era stata «consignata quella parte inferiore del Palazzo [dei Signori], in cui essi hora risiedono» (Della historia, cit., pp. 831-832: 832). Si vedano anche CHIACCHELLA, Regionalismo e fedeltà locali, cit., p. 36 e IRACE, Una voce poco fa, cit., p. 278. 12 La critica concorda nel definire con l’espressione diarchia o duarchia la manifestazione del doppio potere (locale e pontificio) a Perugia: C.F. BLACK, Commune and the Papacy in the Government of Perugia 1488-1540, «Annali della Fondazione italiana per la storia

71 però ad una cancellazione o ad un azzeramento – se non per un breve periodo sotto Paolo III – delle strutture di governo municipali, a conferma di quella tendenza alla conservazione del potere locale decentrato, che Bandino Giacomo Zenobi ha individuato quale costante caratteristica dei rapporti tra il centro e la periferia negli Stati di antico regime. Il mantenimento o l’adattamento degli assetti già in essere diventava per il potere centrale la garanzia di un legame stabile con le periferie che, forti del rispetto della forma di governo precedente, non si sentivano del tutto usurpate dei propri diritti.13 A Perugia il potere locale era costituito dai dieci priori, eletti ogni tre mesi tra gli appartenenti alle quarantaquattro corporazioni delle Arti. Tale sistema di elezione era di fatto, dalla seconda metà del Cinquecento, controllato dalla nobiltà: tre priori venivano infatti scelti tra coloro che erano ammessi alle prestigiose corporazioni della Mercanzia e del Cambio, occupate in larga maggioranza dagli esponenti dell’aristocrazia locale. Dall’altra parte, vi era il potere pontificio, rappresentato dal governatore prelato o, meno frequentemente, dal cardinale legato.14 La preferenza del primo sul secondo si spiega con la gestione non impegnativa della città di Perugia, che non destava particolari preoccupazioni presso le alte gerarchie del potere romano. La seconda conseguenza della sconfitta armata della città umbra è il suo nuovo legame con Roma, che divenne sempre più stretto e marcato in senso gerarchico. Un’efficacissima immagine della forza di tale vincolo

amministrativa», 4 (1967), pp. 163-191; ID., Perugia and Papal Absolutism, cit., p. 512; CHIACCHELLA, Per una reinterpretazione, cit., p. 5; IRACE, La nobiltà bifronte, cit., p. 16; CHIACCHELLA, L’Umbria nel Cinquecento, cit., p. 27; EAD., Regionalismo e fedeltà locali, cit., pp. 31, 34. 13 B.G. ZENOBI, Le «ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 13-17: 15. Dal punto di vista geo-politico, Roberto Volpi ragiona intorno ai confini della legazione umbra all’indomani della effettiva reintegrazione nei domini pontifici nel suo Le regioni introvabili. Centralizzazione e regionalizzazione dello Stato pontificio, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 35-81: 68-81. 14 Un elenco dei cardinali legati e dei governatori succedutisi a Perugia, dalla metà del XVI secolo fino al 1809, è contenuto in Legati e governatori dello stato pontificio (1550-1809), a c. di C. WEBER, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, 1994, pp. 325-335. Sulla figura dei legati si rinvia ad A. GARDI, Il mutamento di un ruolo: i legati nell’amministrazione interna dello Stato Pontificio dal XIV al XVII secolo, in Offices et Papauté (XIVe-XVIIe siècle). Charges, hommes, destins, a c. di A. JAMME e O. PONCET, Rome, École française de Rome, 2005, pp. 371-437.

72 emerge dalle scrupolose osservazioni che Crispolti attribuiva indistintamente ai «perugini» riguardo la vicinanza del neoeletto papa Giulio III con Perugia:

Venne presto questa felice nuova [l’elezione di Giulio III] a Perugia, ove si fecero feste straordinarie, per essere stata maritata Jacoma, sorella del papa, a Francia della Cornia, dal qual matrimonio erano discesi Ascanio, Fulvio e Laura. Alcuni si rammentavano che ’l papa giovanetto era stato era stato allo Studio di Perugia, e altri ch’egli, sotto il cavaliere Di Monte legato suo zio, haveva essercitato l’ufficio di vicelegato della medesima città, della quale era stato fatto cittadino.15 (499v)

Si tentava perciò di conoscere e prevedere, attraverso lo scandaglio della storia personale del pontefice, la sua negativa o positiva inclinazione nei confronti della città. L’interesse, al limite del pettegolezzo, per la vita del papa indica chiaramente la consapevolezza da parte dei cittadini perugini di dipendere dalle decisioni e dalla volontà altrui. L’assoggettamento e il conseguente avvicinamento a Roma ebbero un ulteriore risvolto: aprirono ai gentiluomini più intraprendenti nuove prospettive di carriera nella capitale. Per coloro che erano meglio introdotti nell’ambiente romano, si concretizzava la possibilità di una realizzazione professionale su un palcoscenico ben più stimolante ed appagante di quello perugino, ormai scaduto a contesto periferico. Dopo il 1540, gli esponenti delle famiglie aristocratiche perugine si misero alla ricerca di nuove professioni «”nobilitanti”» in alternativa alle magistrature cittadine. Si erano rese necessarie altre modalità per esibire il proprio prestigio sociale e marcare la distanza dal popolo e dagli umili lavoratori manuali. In particolare, la soluzione venne individuata all’interno della diatriba umanistica lettere/arti, con, però, lo slittamento delle lettere a configurarsi in primo luogo quale pratica e studio del diritto. Da una parte

15 CRISPOLTI, Libro nono, cit. Le notizie riportate da Crispolti sono tutte esatte: Francia della Cornia è il soprannome di Francesco della Cornia, che sposò Giacoma Ciocchi Del Monte; Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, futuro Giulio III, studiò effettivamente a Perugia e suo zio, Antonio Maria Ciocchi Del Monte, venne nominato legato della città umbra l’8 ottobre 1515. Per le notizie biografiche sono sufficienti GABRIJELCIC, Alle origini del Seminario di Perugia, cit., p. 35; P. MESSINA, Del Monte (Ciocchi Del Monte) Antonio e G. BRUNELLI, Giulio III, Papa, rispettivamente in DBI, 38, 1990, ad vocem; 57, 2001, ad vocem.

73 l’apprendistato militare, dall’altra la laurea (solitamente) in utroque iure erano i consueti requisiti per le brillanti carriere che sarebbero proseguite fuori dai confini cittadini.16 Il periodo che segue la “guerra del sale” e si estende fino all’inizio del Seicento si presenta a prima vista lineare e pacifico. In questo lasso di tempo non si verificarono stravolgimenti o avvenimenti decisivi che interessassero la struttura governativa o la condizione della città. Si delinearono piuttosto tendenze drammaticamente negative, quali la generale depressione economica e la ricorrenza quasi cronica di carestie e magri raccolti, cui si unì la comparsa di epidemie.17 Dal punto di vista istituzionale, Perugia risulta essere «una delle città amministrativamente più integrate di tutto lo Stato pontificio». 18 Le ragioni dei vincitori erano lucidamente e un poco maliziosamente espresse in una lettera pastorale del 1609 del vescovo perugino Napoleone Comitoli, che rimase in carica per oltre trenta anni.19 Rivolgendosi alla città «con viscere insieme paterne e filiali», Comitoli intendeva celebrare le «maggiori grandezze» che Perugia aveva raggiunto «hoggi» e contrapporle agli errori del passato, quando la città si era «lassata

16 Il presente paragrafo altro non è che una succinta sintesi delle tesi contenute nel fondamentale IRACE, La nobiltà bifronte, cit., in particolare pp. 71-128 (citazione a p. 73). Il volume era stato anticipato dal saggio E. IRACE, Un ceto eminente pontificio tra governo della città e itineranza professionale: Perugia nel Cinque e nel Seicento, «Proposte e ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», 17 (1994), pp. 30-45. Più in generale, sull’esercito pontificio e sulle effettive possibilità di carriera, si veda ora G. BRUNELLI, Soldati del Papa. Politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa (1560-1644), Roma, Carocci, 2003. 17 Perugia nella seconda metà del Cinquecento venne colpita dalla peste nel 1580 e di nuovo nel 1591 (BONAZZI, Storia di Perugia, cit., II, p. 226 che basa le sue affermazioni su C. MASSARI, Saggio storico-medico sulle pestilenze di Perugia e sul governo sanitario di esse dal secolo XIV fino ai giorni nostri, Perugia, tipografia Baduel, da Vincenzo Bartelli, 1838). Massimo Petrocchi ha studiato il peso delle ripercussioni economiche sulla condizione dei contadini nel suo Aspirazioni dei contadini nella Perugia dell’ultimo trentennio del Cinquecento ed altri scritti, Roma, Elia, 1972, pp. 11-64. 18 IRACE, Una voce poco fa, cit., p. 276; valutazione condivisa da CHIACCHELLA, L’Umbria nel Cinquecento, cit., p. 32; EAD., Regionalismo e fedeltà locali, cit., pp. 51-52. 19 Sull’energica attività pastorale del vescovo Comitoli si vedano A. MARIOTTI, De’ Perugini auditori della Sacra Rota romana. Memorie istoriche, Perugia, presso Carlo Baduel, 1787, pp. 97-122; VERMIGLIOLI, I, pp. 331-334; R. CHIACCHELLA, Il tipo ideale di vescovo e l’applicazione del modello nelle chiese locali: Carlo Borromeo e la sua influenza nella diocesi di Perugia, in San Carlo Borromeo in Italia. Studi offerti a Carlo Marcora dottore dell’Ambrosiana, Brindisi, Amici della «A. De Leo», [1986], pp. 85-103: 94-98; P.M. TADDEI, Le opere e la vita di Napoleone Comitoli secondo le fonti della sua epoca, «Archivio perugino-pievese», 4 (2001), pp. 61-80; IRACE, Una voce poco fa, cit., pp. 288-291. Sulla sua figura è stata stampata nel 1701 un’anonima Vita di monsignor Napolione Comitoli, vescovo di Perugia, dedicata all’illustrissimo e reverendissimo signor Luc’Alberto Patritii, vescovo della medesima città, in Perugia, pel Costantini, 1701, che Mariotti attribuiva a padre Carlo Baglioni: De’ Perugini auditori, cit., p. 108.

74 trasportare da vana opinione di libertà, in concorrenza d’altre repubbliche». Le parole di Comitoli non tradiscono alcun tono polemico o aggressivo: il vescovo si limita piuttosto a ridimensionare e quasi a considerare inani le illusorie e ormai lontane aspirazioni della città. Simili premesse introducono quindi un quadro d’insieme perfettamente coerente e compatto, nel quale la «mutation […] in meglio» della città si è palesata in tutta la sua forza soltanto sotto l’egida della Chiesa:

Sopra questo fondamento di fedeltà e devotione verso la religione catolica e Santa Chiesa Romana è cresciuto e sta saldo l’edifitio della vera grandezza tua e della riputatione de’ tuoi figli. Piacciati considerar meco quanta abondanza, giustitia e pace sia dentro e fuori delle tue torri, case e possessioni: da che volontieri ti lassi reggere e governare dal paterno affetto e dalla dolce mano de’ sommi pontefici.20 (n.n.)

I rapporti con Roma furono in verità assai più complessi. Non potendosi fornire un’analisi sufficientemente dettagliata, si delineano qui gli aspetti che emergono con maggior evidenza dalla recente critica storica. Si può ritenere – come già sostiene Black – che lo Stato pontificio avesse raggiunto con Perugia almeno parzialmente il principale degli obiettivi prefissati, vale a dire il costante aumento della tassazione per far fronte agli accresciuti bisogni della capitale. Non sempre però le richieste di Roma poterono essere esaudite, trovandosi spesso la città umbra in difficoltà economica, né tantomeno per l’autorità pontificia pareva opportuno spingersi oltre determinati limiti: alcuni momenti di maggior agitazione raccomandavano infatti una certa prudenza nel vessare oltre misura le popolazioni sottoposte.21

20 NAPOLIONE [ossia N. COMITOLI], Lettera pastorale di monsignore N. vescovo. Alla sua diletta città e populo di Perugia, in Perugia, nella stampa de’ Petrucci, 1609. Analogamente, gli Accademici Insensati, nella persona di Vespasiano Crispolti, celebravano la «continua e perpetua pace» di cui Perugia godette grazie a Paolo III Farnese: Oratione del signor Vespasiano Crispolti, Academico Insensato di Perugia, in morte dell’illustrissimo signor Giulio Farnese, prencipe di detta academia, in Venetia, appresso i Gioliti, 1592, cc. A3r-v. Da ultimo, anche Pompeo Pellini in un passo della sua Historia rendeva omaggio alla pace e alla quiete portata dalla dominazione pontificia (cit., pp. 734-735). 21 BLACK, Perugia and Papal Absolutism, cit., pp. 516, 533, 538-539, il quale fa riferimento a due episodi specifici: il primo, del 1559, a seguito della morte di papa Paolo IV, il secondo, avvenuto nel 1586, come conseguenza di una costante carenza di grano e di pane. Sulla rivolta del 1586 si veda R. CHIACCHELLA, Archivi a sorpresa. Le migrazioni delle carte Dandini,

75 Dalla seconda metà del XVI secolo i propositi di accentramento del potere da parte della capitale si fecero più pressanti. Tali sforzi non si realizzarono immediatamente. Le analisi degli storici evidenziano al riguardo alcune contraddizioni che rallentarono considerevolmente il processo di centralizzazione dello Stato. In primo luogo, era evidente all’interno della Chiesa la separazione tra il potere temporale e spirituale: non sempre, cioè, il vescovo della città e l’alta gerarchia ecclesiastica (espressa a Perugia dal governatore e/o dal legato, a Roma dal papa e dalla curia) si trovavano a condividere le medesime decisioni. Proprio nel caso di Comitoli, che si spinse sino a voler disciplinare i comportamenti dei perugini inerenti la sfera sessuale, la romana Sacra Congregazione della Consulta ne ostacolò le intenzioni eccessivamente severe, schierandosi dalla parte della cittadinanza. Secondariamente, nella comunicazione tra le due città, si incrociavano troppe voci, a volte discordanti, che offuscavano la chiarezza dei messaggi. Accanto al governatore di Perugia, ancora sopravvivevano nella Provincia dell’Umbria altri ventotto governatori a rappresentare altrettante comunità, che intrattenevano con Roma rapporti diretti. Per parte sua Perugia, nemmeno dopo la “guerra del sale”, rinunciò al suo ambasciatore a Roma, che si aggiungeva alla figura dell’agente particolare, carica istituzionalizzata nel 1543. D’altronde, lo Stato Pontificio permetteva ancora «un’ampia concessione alle pratiche del patronage», con conseguente moltiplicazione degli attori coinvolti nel processo di trasmissione delle informazioni e delle relative decisioni. I legami personali potevano efficacemente sostituire o aggiungersi ai rapporti formali tra i diversi gradi della gerarchia amministrativa.22 Soltanto tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, in particolare sotto Sisto V e Clemente VIII, si avvertì un deciso cambiamento nella direzione della gestione del potere. Il maggior grado di formalità nelle comunicazioni con le province, la concentrazione a Roma delle pratiche afferenti la gestione dei poteri locali e la fondazione di nuove congregazioni

con un inventario a c. di P. MONACCHIA, Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2002, pp. 59-67. 22 BLACK, Perugia and Papal Absolutism, cit., pp. 523-526; IRACE, Una voce poco fa, cit., pp. 278-279, 285-295 (citazione a p. 286).

76 (tra cui, soprattutto, l’istituzione della Congregazione del Buon Governo nel 1592), furono elementi determinanti per impostare finalmente l’accentramento del potere. Tale tendenza non fece che aumentare la distanza tra il centro, avvertito come un’entità lontana, quasi inaccessibile, e le periferie dello Stato. Tutto ciò si tradusse in una condizione di “straniamento politico” per Perugia, che già dal 1540 aveva necessariamente mutato il suo quadro di riferimento. Prima la città, pur entro certi margini, decideva per se stessa; dal 1540, ed in misura sempre maggiore negli anni a seguire, il suo allontanamento rispetto ai centri decisionali divenne sempre più irreversibile.

II.3 Le accademie perugine: tra periferia e centro dello Stato

Riassumendo nelle sue parole i risultati cui è giunta una tradizione di studi ormai consolidata, Laura Teza ha da ultimo messo in luce la vivacità della stagione culturale perugina tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del XVII;23 una vivacità che era in netto contrasto con la sopravvenuta debolezza amministrativa della città umbra. L’apparente contraddizione si può però risolvere facilmente, ampliando appena quanto precedentemente esposto. Il contatto con Roma non si risolse infatti soltanto nella possibilità di inseguire nuove prospettive di carriera, ma ad un livello più profondo sancì l’ingresso della società umbra nell’orbita di un centro politico e culturale prodigiosamente dinamico. La corte di Roma e più in generale l’ambiente della capitale erano il crocevia dove confluivano le istanze politiche europee e dove nascevano e si animavano le nuove tendenze culturali. 24 L’inevitabile condizionamento che l’ambiente intellettuale romano poteva esercitare su Perugia non venne recepito passivamente, ma

23 L. TEZA, Girolamo Tezi, un ambasciatore culturale tra Roma e Perugia, «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», 106 (2009), pp. 143-169: 143-144. Ma si veda nel medesimo fascicolo anche l’intervento già citato di IRACE, Per una rilettura, pp. 121-124, cui si rimanda per la utile rassegna bibliografica dei più recenti interventi sulla società e cultura perugina di secondo Cinquecento (p. 122). 24 Sulla importanza politica della corte di Roma si veda l’esauriente volume miscellaneo La corte di Roma tra Cinque e Seicento: ‘teatro’ della politica europea, a c. di G. SIGNOROTTO, M.A. VISCEGLIA, Roma, Bulzoni, 1998.

77 produsse un desiderio di competizione, quasi di emulazione, nei confronti della città capitale. Per gli ambiziosi gentiluomini della periferica città umbra divenne allora necessario prodursi in un aggiornamento dei costumi, delle usanze e dei valori morali e sociali, al fine di poter competere con il più pretenzioso ambiente romano. Allo stesso modo, si rafforzarono i contatti tra gli uomini di cultura delle due città, che presero parte a circoli culturali e ad imprese editoriali comuni. Tra le sedi privilegiate d’incontro si imposero, accanto all’università, le numerose accademie perugine. Non tutti i sette sodalizi cittadini (degli Atomi, del Disegno, degli Eccentrici, degli Insensati, degli Insipidi, degli Scossi e degli Unisoni) potevano però vantare la presenza di membri forestieri o di soci illustri.25 Le differenze poi non riguardano solo la

25 Sulle accademie perugine si vedano le sintesi di S. PELLI, Le accademie in Perugia, in Studi storici e letterari dei professori e studenti del Liceo Ginnasio A. Mariotti di Perugia in memoria di Annibale Mariotti: 10 giugno 1801-10 giugno 1901, Perugia, Guerra, 1901, pp. 181-208; BONAZZI, Le accademie letterarie, cit.; G. INNAMORATI, Memorandum per la storia delle Accademie Umbre, in La funzione delle accademie nella cultura odierna: atti del Convegno organizzato per il 50 centenario della fondazione dell'Accademia (1477-1977), Spoleto, Edizioni dell'Accademia spoletina, 1979, pp. 33-53; E. IRACE, Le Accademie letterarie nella società perugina tra Cinquecento e Seicento, «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 87 (1990), pp. 155-178; EAD., Le Accademie e la vita culturale, in Storia illustrata delle città dell’Umbria. Perugia, a c. di R. ROSSI, II, Milano, Elio Sellino, 1993, pp. 481-496; EAD., Accademie e cultura ecclesiastica in antico regime, in Una Chiesa attraverso i secoli. Conversazioni sulla storia della Diocesi di Perugia, a c. di R. CHIACCHELLA, II. L’Età moderna, Perugia, Quattroemme, 1996, pp. 59-73. Secondo Amedeo Quondam (L’Accademia, cit.), le accademie perugine attive nel Cinquecento sarebbero state otto. È un’ipotesi che la scarsa disponibilità di materiale non consente di avvalorare, ma nemmeno di escludere del tutto. Poiché i dati raccolti da Quondam provengono dalla Storia delle accademie d’Italia di Michele Maylender, è ipotizzabile che la presunta ottava accademia perugina sia quella degli Alessi (I, p. 131), di cui non sono forniti dati cronologici precisi, oppure quella dei Tranquilli (V, pp. 333-334), che si sviluppò però nel contado perugino. Le attestazioni settecentesche dell’Accademia degli Alessi non si dimostrano sufficienti a togliere i dubbi sulla reale presenza di questa a Perugia: sia Johann Gottlieb Krause (Specimen historiae academiarum eruditarum Italiae, Lipsiae, in officina Gleditschiana, 1725, p. n.n. dell’elenco finale) sia Francesco Saverio Quadrio (Della storia e della ragione d’ogni poesia. Volumi quattro […], in Bologna, per Ferdinando Pisarri, all’insegna di S. Antonio, 1739, I, p. 90) si limitavano a nominarla soltanto; Gianmaria Mazzuchelli (Scrittori d’Italia. Cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani […], in Brescia, presso a Giambatista Bossini, 1753, vol. I, parte I, p. 460), che pur proponeva una brevissima descrizione, mostrava grande cautela nel sancirne l’effettiva esistenza. Sull’Accademia dei Tranquilli non esistono, prima della scheda di Maylender, altre testimonianze oltre alle parole di Marco Antonio Bonciari, richiamate da Vincenzo Cavallucci nelle Rime di Francesco Beccuti perugino, detto il Coppetta […], in Venezia, appresso Francesco Pitteri, 1751, II, p. 156. Nel suo Thrasymenus sive anthologiae illustrium exemplorum decades duae (in Augusta Perusia, apud Angelum Bartolum, 1641), Bonciari descriveva le fattezze di questa accademia che ricordava, sia per il suo modus operandi, sia per la distesa e complice atmosfera, l’«onesta brigata» boccaccesca (pp. 42-46). È del tutto impensabile considerare questo circolo quale ottava accademia perugina: di là dalla sua posizione fuori città e dai

78 composizione dei membri accademici, ma anche la struttura dei consessi e le discipline ivi coltivate. La quantità di fonti disponibili sulle diverse accademie, benché non permetta in talune circostanze – ossia nel caso degli Eccentrici, degli Insipidi e degli Scossi – di delineare un profilo dettagliato dell’istituzione, consente almeno di rintracciare per grandi linee gli interessi che vi si coltivarono. Da una parte gli Atomi, gli Eccentrici, gli Insensati e gli Scossi riproponevano la forma umanistica di accademia letteraria; dall’altra, gli Accademici del Disegno, gli Insipidi e gli Unisoni, interessandosi rispettivamente di teoria e pratica artistica, di diritto e di musica, intrapresero la via della specializzazione.26 Nelle accademie si realizzava quella sorta di società extra-statale o extra-municipale che avvicinava gli uomini conformi per ‘seconda natura’, e che superava così la distinzione centro-periferia. A legare insieme i membri di questa ampia e ideale nazione era dunque quel complesso sistema di valori elaborato durante il classicismo, che, come si è visto nel capitolo precedente, si rispecchiava nei fondamenti stessi della società accademica. Così, anche i gentiluomini di Perugia e di Roma, purché «virtuosi», «dotti» ed

dubbi sulla sua reale esistenza, i pochi caratteri emersi fanno pensare ad un circolo informale piuttosto che ad una reale accademia. Si è perciò preferito, in accordo con Cesare Crispolti, elencarne sette (e non otto), tante quante da lui stesso annoverate sia in Perugia Augusta descritta da C.C. perugino. All’eminentissimo e reverendissimo signor padrone colendissimo, il signor cardinale Gasparo Mattei, (in Perugia, appresso gli eredi di Pietro Tomassi e Sebastiano Zecchini, 1648, pp. 50-52), sia nel Libro decimo, dove si contengono le cose dall’anno 1559 all’anno 1570 (BAP, ms. 1663, cc. 355r-358r). Anche il Libro decimo, come il precedente, è parte degli Annali delle guerre civili. 26 Sugli Insipidi valgono le sole parole di Crispolti, che la definiva «academia particolare di leggi» (Libro decimo, cit., c. 356v). Tra le accademie perugine hanno ricevuto particolare attenzione gli Accademici del Disegno (Z. MONTESPERELLI, Brevi cenni storici sulla Accademia di Belle Arti in Perugia, Perugia, tipografia G. Donnini, 1899; G. CECCHINI, L’Accademia di Belle Arti di Perugia, Firenze, Le Monnier, 1954; L’archivio dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia. Inventario, a c. di V. ANGELETTI, coordinamento scientifico di F. CIACCI, Perugia, Soprintendenza archivistica per l’Umbria, 2009; L’Accademia riflette sulla sua storia, cit.) e gli Unisoni (A.W. ATLAS, The Accademia degli Unisoni: A Music Academy in Renaissance Perugia, in A Musical Offering. Essays in Honor of Martin Bernstein, ed. by E.H. CLINKSCALE and C. BROOK, New York, Pendragon Press, 1977, pp. 5-23; M. PASCALE, Vincenzo Cossa e l’ambiente musicale perugino tra Cinquecento e Seicento, in Arte e Musica in Umbria tra Cinquecento e Seicento. Atti del XII Convegno di Studi Umbri, (Gubbio-Gualdo Tadino, 30 novembre-2 dicembre 1979), Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi, 1981, pp. 159-199; B. BRUMANA, Iconografia della S. Cecilia ed accademie musicali: nuovi contributi, in Musica e immagine. Tra iconografia e mondo dell’opera. Studi in onore di Massimo Bogianckino, a c. di B. BRUMANA e G. CILIBERTI, Firenze, Olschki, 1993, pp. 115-136; G. CILIBERTI, Musica e società in Umbria tra Medioevo e Rinascimento, Turnhout, Brepols, 1998, pp. 200-235). Risultano molto più sfumati i caratteri delle altre istituzioni.

79 «honesti», si incontravano in accademia, dove intessevano relazioni che potevano avere valore anche al di fuori del singolo circolo culturale. Come riconoscono Teza ed Irace, l’Accademia degli Insensati si trovava al centro delle relazioni tra gli uomini di cultura romani e perugini.27 Specialmente negli anni a cavaliere tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, l’accademia annoverava tra i suoi membri numerose personalità afferenti all’ambiente culturale romano. Quest’ultima fase, meglio documentata, costituisce il punto di arrivo della tendenza dell’accademia ad aprirsi oltre l’orizzonte cittadino, una vocazione che si era già rivelata, pur con una certa diffidenza, anche durante i decenni iniziali.

II.4 Un primo profilo storico dell’Accademia degli Insensati

II.4.1 Una visione d’insieme

Prima di procedere a tracciarne la storia, è opportuno precisare l’oggetto d’indagine della tesi, l’Accademia degli Insensati, di cui si vuole offrire una panoramica generale, in maniera non dissimile dagli esempi forniti da Maylender. Sono di seguito presi in considerazione sia i caratteri identitari dell’accademia (l’impresa, il motto e il nome accademico), sia gli aspetti pratici (la sede materiale, il numero di soci, la gerarchia interna, e così via) che caratterizzarono effettivamente il sodalizio degli Insensati. Erano in primo luogo il nome e l’impresa generali a definire l’individualità della singola accademia rispetto alle altre. Questi due elementi si rivolgevano sia ai membri stessi, per rafforzare i legami di coesione all’interno del gruppo, sia al di fuori del consorzio accademico, per rendere noto alla società letteraria il progetto collettivo coltivato all’interno del sodalizio. La grande importanza dei vessilli accademici spingeva naturalmente i soci ad avere grande cura nella loro ideazione e a discuterne in un clima di narcisistico autocompiacimento. Non facevano eccezione gli Insensati che – come si vedrà nel seguente capitolo – durante i primi anni di

27 TEZA, Girolamo Tezi, cit., pp. 144-145; IRACE, Per una rilettura, cit., p. 124.

80 vita dedicarono numerose lezioni all’illustrazione dell’impresa e della denominazione comune. L’impresa raffigura uno stormo di gru che, pur gravate dal peso di una pietra, sorvolano uno specchio d’acqua. Accompagnata dal motto latino vel cum pondere, l’impresa degli Insensati si riferisce alla loro capacità di attraversare il mare delle vicissitudini terrene nonostante il peso della pietra, cioè degli stessi sensi, che li attira verso la terra. In tal modo gli Insensati mostravano di volere superare i confini dell’esperienza terrena, esplicitati dai sensi, per avanzare, finalmente senza impedimenti, verso le realtà celesti. Il loro nome, in pieno accordo con l’impresa, esprime l’ideale degli accademici di essere liberi dalle perturbanti percezioni sensoriali e pronti ad accedere alle verità più alte. Si conosce poco o nulla intorno alla gerarchia e alle modalità dello scambio accademico. La perdita delle leggi impedisce di precisare i ruoli e le dinamiche interne al sodalizio. Pur essendo così diffusamente invocate nelle lezioni, le norme accademiche non vengono mai riassunte o spiegate, restando di fatto del tutto inconoscibili. Con ogni probabilità il funzionamento dell’accademia non trova posto quale oggetto delle dissertazioni accademiche in quanto ormai parte integrante di un rito consolidato e, almeno all’interno del consesso, universalmente noto. Da alcuni scritti accademici si può ricavare qualche minima notizia sulle diverse cariche degli Insensati. Benché nelle lezioni sia nominato esclusivamente il principe, grazie ad alcune lettere indirizzate all’accademia viene confermata l’esistenza di altre figure, quali il «viceprincipe», impegnato a svolgere le effettive funzioni del principe quando questi era assente; il «segretario», incaricato di raccogliere le imprese e i nomi accademici ed i «censori», chiamati a dare un giudizio intorno alle opere degli accademici.28 Questi ultimi vengono sollecitati dall’Insensato Scipione

28 Il viceprincipe compare in una lettera di Scipione Tolomei scritta per Ascanio II della Cornia (citata alla nota 120); il segretario viene chiamato in causa da Bartolomeo Zucchi per ricevere il nome accademico che quest’ultimo aveva scelto per sé: Lettera a Cesare Crispolti, Roma, 2 giugno 1596, in B. ZUCCHI, Lettere di B.Z. da Monza, l’Internato Academico Insensato di Perugia, in Venetia, presso la Minima Compagnia, 1599, parte II, cc. 36r-v: 36v. Un conferma dell’esistenza di queste magistrature accademiche viene anche da L’Italia accademica di Giuseppe Malatesta Garuffi, dove sono offerti ulteriori dettagli sul

81 Tolomei, che volle sottoporre le proprie Lettere agli Insensati prima di consegnarle ad una circolazione più vasta. Non pretendendo che gli accademici si riunissero in assemblea per leggerle, Tolomei si disse soddisfatto qualora «gli ordinari censori, o altri a ciò deputati, di nuovo le rivedano e amendino» (636).29 Le lezioni risultano moderatamente più utili per descrivere le modalità dell’interazione accademica e per cogliere almeno uno degli obblighi sanciti dalle leggi accademiche. Le lezioni testimoniano infatti l’esistenza di una prassi tutt’altro che inusuale presso altri simili sodalizi: l’amichevole obbligo per i membri accademici (nuovi e già acquisiti) di recarsi in accademia per recitare le proprie lezioni e saldare così il «debito» che essi contraevano nel momento del loro ingresso in accademia. All’inizio della dissertazione gli autori lamentavano quasi sempre la loro inadeguatezza, ma si risolvevano a leggere comunque la propria orazione per il rispetto che portavano verso il principe (talvolta nominato «archinsensato») o le norme impresse nello statuto dell’accademia. L’Insensato Ottaviano Aureli, noto in accademia col nome di Svogliato, risolveva così il conflitto tra la debolezza del suo intelletto e l’osservanza delle leggi accademiche:

Se le nostre leggi non mi sforzassero, magnanimi signori [uditori cass.] uditori, io non sarei oggi venuto in questo luogo a manifestare maggiormente alle Ss. Vv. l’ignoranza mia. Percioché ben [lin.] conosco io [bene cass.] la bassezza dell’ingegno mio, la poca esperienza nelle lettere, la dottrina di chi mi ode, quello che richiede questo luogo, e finalmente quanto io sia non solo d’inventioni, ma di parole povero. […] Pur tuttavia, per non esser riputato disubidiente alle nostre leggi e non mancare giamai del debito mio, sottentrarò di buona voglia questo peso, come che

funzionamento della gerarchia degli Insensati: «è stile della medesima [accademia] di creare con voti segreti un principe, il quale elegge i censori e gli altri ufficiali, e singolarmente un viceprencipe ed un segretario» (L’Italia accademica, o sia le accademie aperte a pompa e decoro delle lettere più amene nelle città italiane […]. Parte prima […], in Rimino, [per Giovanni Felice Dandi], 1688, p. 160). 29 Richiesta di correttione di lettere. Lettera agli Accademici Insensati, Castiglione del Lago (Pg), [s.d.], in S. TOLOMEI, Lettere del signor S.T. perugino, Accademico Insensato. Ornate co’ titoli degli argomenti, divise in dieci libri e disposte secondo l’ordine de’ tempi, ma ridotte insieme a’ capi con una tavola delle materie in principio del volume e raccolte anche sotto i nomi con un altro indice in fine, in Perugia, nella stampa Augusta, 1617, p. 636.

82 gravissimo alle mie spalle, e tanto più volentieri, quanto io mi confido nell’immensa cortesia delle Ss. Vv.30 (176r-v)

Ben più tortuoso è l’inizio di un’orazione di Fulvio Mariottelli, in cui l’accademico offriva il proprio ringraziamento per essere stato accolto nel sodalizio. Nelle prime righe l’autore intrecciava, con un esibito gusto per il paradosso, il motivo della riconoscenza nei confronti degli Insensati con il tema centrale della lezione, la preferenza verso il «tacere» a scapito «del parlare»:

Sono già molti giorni, nobilissimi signori accademici, che le Ss. Vv. per lor gratia particolare, come per mia ventura singolarissima, m’accolsero nel nummero de gli Insensati. Ma perché come la grandezza di quella lor gratia prende l’essere da i meriti loro, così la singolarità di questa mia ventura prende misura dalla mia ignoranza, non ho mai potuto sperare di ringratiarle, non mi spronando quella meno ad un nobilissimo ringratiamento, che questa mi ritenghi in un vilissimo e biasimevole silentio. Non havendo io dunque nella mia ignoranza parole, che non siano di gran lunga inferiori alla gratia delle Ss. Vv., mi avvedo che non sono tanto in obligo con esse di ringratiarle, quanto son in obligo con me stesso, non potendo sodisfare a quell’obligo di sgravarmi da questa colpa.31 (9r)

La perdita delle leggi non consente di stabilire con sicurezza né la frequenza delle riunioni accademiche, né il giorno della settimana scelto per le sessioni. Tuttavia, in base alle lezioni che precisano l’anno, il mese e il giorno della recita, è stato possibile riconoscere almeno una duplice tendenza. Prendendo in considerazione le ventitré dissertazioni manoscritte datate, si ricava una decisa preferenza per la domenica (che ricorre in ben quindici occasioni) e per le date coincidenti con le feste religiose (per

30 [O. AURELI], Oratione dello Svogliato Insensato della felicità (cioè O.A.), ms. 1717, cc. 176r- 183v. Si legge una premessa molto simile in un’altra lezione dello stesso autore: «Non sarei giamai venuto [in oggi cass.] in questo luogo a manifestare alle Ss. Vv. l’ignoranza mia […] se le nostre leggi a ciò fare non mi sforzassero. Percioché conosco io bene la bassezza de l’ingegno mio e la poca esperienza nelle lettere, e conosco altresì quel che richiede un cotale ufficio. Nulla di meno ho voluto [con cass.] più tosto con far questo dimostrare la mia ignoranza che, altrimenti facendo, esser riputato disubidiente alle nostre leggi e mancatore del debito mio» ([O. AURELI], La nobiltà, dello Svogliato, ms. 1717, cc. 509r-511v: 509r-v). 31 F. MARIOTTELLI, Ringratiamento fatto a i signori Accademici Insensati dal molto reverendo signor F.M. per esser stato egli stato aggregato nell’accademia. E si discorre in biasmo del parlare e in lode del tacere, BAP, ms. 1058, cc. 9r-15r.

83 esempio nel caso di due dissertazioni, quali il Discorso intorno all’impresa dello Svanito e la Lettione […] delle qualità che a i nomi e alle imprese particolari […] si convengono, recitate il 3 maggio, giorno di santa Croce, rispettivamente del 1573 e del 1574).32 Inoltre, in assenza di un puntuale riferimento intorno alla dimensione del sodalizio, risulta possibile approssimare il numero dei membri accademici unicamente per via indiretta. Nella sua opera erudita, Giacinto Vincioli proponeva un ampio elenco degli accademici Insensati, che conta poco meno di seicento nomi: questa lunga lista non si rivela in tal senso particolarmente utile, perché l’intento del suo autore è di comprendere in un unico catalogo tutti i membri dell’accademia, senza alcun riguardo per la scansione cronologica.33 Ad offrire indizi sulla effettiva

32 In realtà le lezioni sono tre, perché la seconda conosce una doppia versione, proposta con lo stesso titolo e contenuta nel medesimo manoscritto: [O. AURELI], Lettione dello Svogliato Insensato delle qualità che a i nomi e alle imprese particolari de gli accademici si convengono. Letta da lui nell’academia il giorno di Santa Croce di maggio [di maggio lin.] dell’anno 1574, [ID.], Discorso intorno all’impresa dello Svanito (cioè GiamBattista Cesarei olivetano), fatto dallo Svogliato nell’Academia de gl’Insensati il giorno di Santa croce di maggio 1573, ms. 1717, rispettivamente cc. 203r-212v; 344r-372v e 374r-384v. Che la domenica fosse il giorno usuale di ritrovo per gli accademici lo conferma anche una lettera di Crispolti a Bonciari, edita pochi anni or sono da Elisabetta Patrizi, nella quale il primo invitava il noto umanista a recitare in accademia nel giorno festivo qualche suo componimento latino: «io havevo pensato di venire da Vossignoria, e pregarla a voler far favore all’Accademia, et a me di qualche suo epigramma sopra il nostro signore illustrissimo governatore, quale domenica prossima verrà alla nostra Accademia per sentire una lezione in lode del Riso» (Lettera, [s.l.], [s.d.], BAP, ms. 77 [B 21], in PATRIZI, La trattatistica educativa tra Rinascimento e Controriforma, cit., p. 112). Qualora si prendano in considerazione invece le dissertazioni a stampa degli Insensati Filippo Massini (Lettioni dell’Estatico Insensato, recitate da lui publicamente in diversi tempi nell’Academia de gli Insensati di Perugia. Nuovamente poste in luce, in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1588) e Leandro Bovarini (Prose del signor L.B., il Furioso Insensato Academico perugino […], in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603), la scelta della domenica quale giorno dedicato alle operazioni accademiche risulta meno netta, perché soltanto due delle sette lezioni datate furono recitate in quel giorno della settimana. 33 VINCIOLI, I, pp. 145-163. Ciononostante il lavoro di Vincioli risulta di grande aiuto per associare il nome accademico (benché non sempre riportato) al nome anagrafico del singolo Insensato. Il catalogo è però costellato da numerose sviste. Forse per celebrare l’importanza del sodalizio, Vincioli non si faceva remore nell’annoverarvi personaggi illustri sui quali ad oggi mancano certezze: tra i letterati, per esempio Antonio Querenghi o Girolamo Preti furono certo a contatto con alcuni dei membri Insensati ma assai probabilmente non furono membri dell’accademia. Dall’altra parte, Vincioli è autore di gravi dimenticanze, non menzionando tra gli Insensati Federico Zuccari e il suo amico e sodale Ventura Venturi, già citato nello scorso capitolo, ed autore di ben due lezioni manoscritte recitate presso l’accademia (Lettione in lode del pianto del molto reverendo prelato don V.V., senese dell’ordine olivetano, recitata da lui in publica accademia e Lettione del medesimo in lode del riso, recitata dal [lui cass.] medesimo in publica accademia e nel principato dell’illustre e molto reverendo signor Cesare Crispolti, BAP, ms. 1059, rispettivamente cc. 53r- 66r e cc. 66v-79v). Nell’introdurre l’elenco, l’erudito Vincioli forniva anche criptiche

84 dimensione del sodalizio sono invece una lezione accademica redatta intorno alla metà degli anni ’70, ed un codice di difficile datazione, contenente una collezione di imprese accademiche. Si tratta nel primo caso della esposizione di Ottaviano Aureli del sonetto petrarchesco I’ vo piangendo i miei passati tempi, recitata in accademia nel dicembre del 1575, ove è compresa una rassegna di nomi accademici, che Aureli introduceva con il pretesto di celebrare la forza dell’azione della «gratia» di Dio sugli uomini. 34 Secondo lo Svogliato Insensato, l’ultimo «documento», cioè insegnamento, che si può «pigliar» dalla lirica del Canzoniere è un invito a domandare a Dio la «gratia sua, perioché con la gratia sola [si può] supplire a tutti i nostri difetti e mancamenti» (276v). Dopo tale premessa, prende avvio un dettagliato elenco nel quale sono spiegati con veloci formule i positivi e salvifici effetti della grazia che

fa ricordar gli Smemorati; fa tornar in sé gli Astratti; illumina i Ciechi; fa udire i Sordi; dà mangiar a gli Affamati; insegna i Rozi; rende il senno a gli Svaniti; risveglia i Sonnacchiosi; dà bere a gli Assetati; fortifica i Deboli; ordina i Confusi; risana i Languidi; sensifica gli Insensati; fa risentir gli Stupidi; satia gli Avidi; ciba gli Ingordi; invia gli Smarriti; muove gli Immobili; soleccita gli Spensierati; aguzza gli Ottusi; assicura gli Spaventati; ferma i Sospesi; erudisce i Materiali; vivifica i Tramortiti; soccorre gli Immersi; rischiara gli Offuscati; conforta gli Sbattuti; pulisce i Rugginosi; tempra gli Stemperati; riposa gli Stracchi e finalmente invoglia gli Svogliati. (276v-277r)

informazioni sulle sue fonti, che sarebbero due manoscritti accademici, «uno de’ ‘Successi, discorsi e ragunanze dell’accademia’», composto in due fasi, tra il 1632 e il 1644 e tra il 1682 e il 1702, «ed un altro […] de’ ‘Nomi accademici’» (VINCIOLI, I, p. 144). Al riguardo non resta che prendere atto di quanto scrisse quasi un secolo fa Emilia Bonazzi in merito al primo codice, ed estendere le sue considerazioni anche al secondo: «questo importante manoscritto che ebbe il Vincioli non esiste più e sappiamo che all’infuori di lui nessuno l’ha veduto, o ne ha parlato» (Le accademie letterarie, cit., p. 18). 34 [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta da lui nell’Academia degli Insensati il dì 11 di decembre 1575. Sopra il sonetto ‘Io vo piangendo i miei passati tempi’, BHT, ms. Petr. I 53, cc. 264r-279v. In realtà, già un anno prima, nella citata lezione Delle qualità che a i nomi e alle imprese […] si convengono, lo stesso Svogliato aveva fornito una rassegna con una breve descrizione delle imprese, dalla quale si può ricavare la quantità degli accademici presenti fra gli Insensati. L’elenco di ventiquattro membri proposto nel 1574 appare però meno sistematico e più confuso (con tanto di ripetizioni) di quello redatto l’anno successivo, che si è scelto di illustrare.

85 La lunga citazione consente di quantificare il numero totale degli associati e di concludere che alla fine del 1575 erano presenti in accademia trentuno membri.35 Accanto alla lezione dello Svogliato, si deve poi prendere in considerazione un codice conservato presso l’Archivio Storico dell’Università di Perugia, dove sono effigiate le imprese accademiche degli Insensati.36 Sommando le quarantaquattro imprese ivi raffigurate, cui si deve sottrarre quella collettiva iniziale, si ottiene il numero di quarantatré insegne che corrisponde evidentemente al numero dei sodali Insensati in un determinato momento. La mancanza di una data non consente di stabilire con l’opportuna precisione il momento della stesura del manoscritto; tuttavia, la sua compilazione, senz’altro posteriore al 1575, è da porsi presumibilmente tra gli anni ’80 e ’90 del Cinquecento. Le quarantatré insegne qui presenti restituiscono con ogni probabilità uno dei momenti di massima espansione dell’accademia: il sodalizio era infatti cresciuto di una dozzina di unità rispetto ai trentun membri del 1575. Nonostante il maggior numero di associati, l’accademia perugina può essere comunque definita un sodalizio di medie dimensioni, che rispecchia in qualche modo la misura di una città periferica ma non marginale all’interno dello stato di appartenenza. Forse il numero dei membri aumentò di non poche unità nel momento in cui gli Accademici Scossi si fusero con gli Insensati. «Di due corpi separati fu fatto uno robustissimo», commentava Crispolti, il quale celebrava l’unione tra i due sodalizi perugini sia nel Libro Decimo dei suoi Annali sia in Perugia Augusta.37 L’ingresso degli Scossi dovette avvenire a una data piuttosto tarda: l’unico riferimento certo viene da una lezione dell’Insensato Giovanni Corso (Se si può amare una cosa doppo morte),

35 L’elenco di trentuno membri è di seguito riproposto, con i nomi degli accademici disposti però in ordine inverso. Dopo aver mostrato gli effetti della «gratia», lo Svogliato invitava a considerare la sua azione positiva nel soddisfare i «nostri bisogni», come si deduce «discorrendo intorno a i […] particolari dissegni», ossia intorno alle imprese, dell’accademia. La «divina gratia» è di volta in volta il corpo principale dell’impresa: «è la volante aquila dello Svogliato; la picciola verghetta dello Stracco; il tagliente temperino dello Stemperato; il gran barilone del Rugginoso […]» ([AURELI], Sopra il sonetto ‘Io vo piangendo i miei passati tempi’, cit., 276v). 36 Per una descrizione, si veda Appendice I; per un’analisi del suo contenuto, si veda invece § III.6. 37 CRISPOLTI, Libro decimo, cit., c. 357v; ID., Perugia Augusta, cit., p. 50.

86 conservata nel manoscritto 1058, che contiene lezioni dell’ultima decade del Cinquecento. Nell’ingegnosa similitudine iniziale, l’autore istituiva un parallelo con un soldato che, a riposo per via della scomparsa del proprio capitano, viene richiamato a dar prova del suo valore «in altro drappello e in altra compagnia». Poi, fuor di metafora, descriveva in questi termini il suo transito nel nuovo sodalizio:

Essendosi poi mancato il prencipe e disunitasi l’accademia, posta da una banda i libri di belle e polite lettere, mi diedi a voltar testi e chiose, dimenticandomi affatto di quel poco ch’io poteva sapere ne i belli studi di humanità. Essendo poi alli giorni passati [...] ricevuto nella dottissima Accademia Insensata, ed essendo in obbligo di far parole in questo onoratissimo luogo, ho ripreso alcuni pochi libri che già dalla polvere erano consumati e tignati e mi sono, se ben timodo e tremante, ingegnato di esseguire il comandamento fattomi.38 (24r-v)

Le riunioni degli Scossi non dovettero essere caratterizzate da quella concordia gentile e cortese, immaginata per esempio da Lollio o da Groto. Vi erano infatti alcuni accademici «indegni», che – stando alla testimonianza dell’Insensato Leandro Bovarini – avevano cercato di guadagnarsi l’onore con gli sforzi altrui. Il ricordo della loro cacciata dal consesso è conservato in due sonetti di Bovarini; nel primo l’accademia prende la parola per sfogare il proprio rancore contro l’«invida schiera»:

Questa vil, dico, che non fu già mai cagion, se non d’opprobrio e dishonore, che come roza parte, che ’l candore, macchiava di virtù, da me scacciai,

vorrà de l’altrui spoglie rivestirsi, e celar l’ignoranza e i vitii insieme, e co’ fregi non suoi, fama acquistarsi!39 (148, vv. 5-11)

38 G. CORSO, Lettione recitata nell’Accademia Insensata dal molto eccellente signore G.C., dottore dell’una e l’altra legge, dove egli tratta se si può amare una cosa doppo morte, ms. 1058, cc. 24r-31v. 39 L. BOVARINI, Questa ch’un tempo al ver camin drizzai, in ID., Rime del signor L.B., il Furioso Academico Insensato di Perugia. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor marchese don Alfonso d’Este, in Perugia, per Vincenzo Colombara, 1602. Su Bovarini si veda: OLDOINI, pp. 203-204; VINCIOLI, II, pp. 191-204; MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, cit., vol. II, parte III, 1762, p. 1914; VERMIGLIOLI, I, pp. 248-249.

87 Nel secondo il poeta invoca il Signore perché smascheri l’inganno perpetrato dalla medesima «steril setta arrogante»:

Scopri tal frode al mondo e mostra come ne le catrede mai cosa non disse ch’altro ingegno del suo non le dettasse.

Sì vedrem poi torle di viva il nome da l’infamia, e morì questa – dirasse – per che del sudor suo già mai non visse.40 (149, vv. 9-14)

Non è possibile procedere oltre e nemmeno ipotizzare se il richiamo al verso 9 del primo sonetto, alle «altrui spoglie» con cui questi fuorusciti accademici potrebbero «rivestirsi», sia un riferimento preciso, magari agli Insensati. L’episodio infatti non si può contestualizzare all’interno della storia degli Scossi, che resta d’altronde quasi del tutto ignota.41 Un nuovo incremento nel numero degli Insensati ebbe luogo con ogni probabilità negli anni a cavaliere tra XVI e XVII secolo, quando cioè le mire più alte del sodalizio si accompagnarono al desiderio di trovare una collocazione prestigiosa presso la società dei letterati del tempo. Le annessioni di celebri artisti, letterati, o prelati, che si aggregarono al consolidato gruppo perugino evidenziano la maggior facilità rispetto al passato ad accettare o andare alla ricerca di membri accademici. Federico Zuccari, Cesare Nebbia, Giovan Battista Marino, Battista Guarini, i cardinali Roberto Ubaldini e Carlo Emanuele Pio di Savoia, per esempio, entrarono a far parte degli Insensati, sebbene alcuni di loro frequentassero assai sporadicamente l’accademia, con la quale d’altronde intrattennero contatti alquanto labili. Ne consegue una inevitabile distinzione tra un gruppo più circoscritto di soci, realmente attivo nell’ambito dell’accademia, le cui

40 L. BOVARINI, Che rassembri valor se hor te non teme, in ID., Rime, cit. 41 Di là dalle poco esaurienti fonti novecentesche (PELLI, Le accademie in Perugia, cit., p. 189; BONAZZI, Le accademie letterarie, cit., p. 41), le notizie più interessanti vengono ancora una volta dai luoghi già citati delle opere di Crispolti. Nella descrizione della loro impresa, il perugino rivendicava a nome della città la precedenza su una delle imprese più note del Cinquecento: gli Scossi infatti idearono il «il frollone da burattare la farina, […] il qual corpo di frollone presero poi anche gli Accademici della Crusca di Fiorenza per loro impresa universale, avendolo tolto alla Scossa, la quale fu in Perugia molti anni prima instituita» (Perugia Augusta, cit., p. 52). Questa notazione è ribadita in CRISPOLTI, Libro Decimo, cit., c. 357v.

88 insegne sono senz’altro comprese nel sopradetto manoscritto, e un insieme di personaggi illustri, più lontani e defilati, che dall’accademia ottenevano un titolo onorifico in più e ad essa offrivano in cambio il proprio prestigioso consenso. Tuttavia, al di là del differente grado di partecipazione, nonché della diversa fortuna e posizione sociale che i suoi soci furono in grado di raggiungere, esisteva tra gli accademici almeno un elemento di profonda coesione. Pur con alcune significative eccezioni – prima fra tutte quella dei quattro fondatori del consesso42 – gli Insensati furono nella maggioranza dei casi dottori di giurisprudenza. È questo uno degli elementi che rimane costante nello sviluppo cronologico dell’accademia, dalla nascita fino all’apogeo sotto la guida di Crispolti. Nell’indisponibilità dello statuto, non è possibile stabilire se ciò rispondesse o meno ad una norma prefissata; ma sembra comunque che lo si possa escludere. Proprio in ragione delle significative infrazioni alla regola, la massiccia partecipazione in accademia di dottori in utroque iure appare il frutto di una consuetudine, con ogni probabilità dovuta all’importanza della facoltà di legge nello Studio perugino, e non la diretta conseguenza di un vincolo prefissato. La loro presenza resta comunque un dato di fatto incontrovertibile, di cui erano consci gli stessi accademici: non per caso l’Insensato Fulvio Mariottelli nella sua lezione accademica si rivolgeva più volte agli astanti definendoli «signori legisti».43 Da ultimo, resta da capire dove gli Insensati organizzassero i loro incontri. Cesare Crispolti con una certa dose di orgoglio, sia in Perugia Augusta, sia nel Libro decimo degli Annali, dichiarava che le Accademie degli Unisoni e degli Insensati avevano sede in casa sua. 44 Tuttavia, tale affermazione va almeno circostanziata: nei primi anni di attività dell’accademia, infatti, la sede di ritrovo degli Insensati era la villa di Luciano Pasini, editore fra gli altri dell’Accademico Insensato Sforza Oddi. La notizia viene resa nota da Vermiglioli che ne ricordava anche la fonte: il

42 Sui fondatori del consesso si veda infra il paragrafo § II.4.3. 43 MARIOTTELLI, Ringratiamento fatto a i signori Accademici Insensati, cit., cc. 12v, 14v. 44 CRISPOLTI, Libro decimo, cit., c. 356r; ID., Perugia augusta, cit., p. 52. Laura Teza dedica acute osservazioni intorno alla «duplice dimensione» privata e pubblica della casa di Crispolti: Cesare Crispolti, ‘sacerdote’ di Perugia, cit., pp. 16-19.

89 testamento di Pasini conservato nell’Archivio di Stato di Perugia. Redatto nel 1591 dal notaio e accademico Ottaviano Aureli, il documento sancisce la libertà per gli Accademici Insensati di «radunarsi e legger lettioni e fare qual si voglia essercitii academici in casa di esso testatore, nella sala solita, dove al presente è la cattedra di detta academia e alcune imprese» (106v).45 Il fatto che la «sala» fosse definita «solita» e che contenesse la «cattedra» e le «imprese» dell’accademia induce a pensare che la frequentazione della casa di Pasini fosse tutt’altro che episodica, almeno fino ai primi anni ’90 del Cinquecento.46 Nelle intestazioni delle dissertazioni accademiche più tarde, sono ricordati soltanto occasionalmente i luoghi fisici in cui le lezioni erano state lette. Ciò si verifica con ogni probabilità per sottolineare una situazione eccezionale: non per caso, le cinque lezioni che riportano il luogo dell’avvenuta recita, erano state pronunciate «nella sala dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, governatore di Perugia e dell’Umbria», o in alternativa, nel «Palazzo apostolico».47 Quasi tutte le altre

45 Archivio di Stato di Perugia (d’ora in poi ASCP), registro notarile n. 1977, notaio Ottaviano Aureli, Testamento di Luciano Pasini, cc. 104v-109r. Ne dà notizia per primo VERMIGLIOLI, I, p. 330. 46 Una nuova conferma della villa di Pasini quale sede degli Insensati viene da una breve nota di Vermiglioli intorno al medico e letterato Luigi Pacifico Pascucci, vissuto tra il XVIII e il XIX secolo. Pascucci aveva restaurato l’Accademia degli Insensati, dopo esser divenuto «possessore di una campestre e suburbana abitazione, ove […] quel Luciano Pasini, da noi già ricordato, solea radunare quegli academici stessi. Ivi unitamente al ritratto di Luciano e di Livia sua consorte, rimangono ancora dipinti gli emblemi e le imprese di vari di quegli accademici» (VERMIGLIOLI, II, p. 343). Soltanto una delle lezioni più antiche specifica la sede della recita: [O. AURELI], Lettione di O.A. nella quale si ragiona de i miracoli. Letta da lui in casa di messer Alessandro della Penna la prima domenica d’aprile 1571, dello Svogliato, ms. 1717, cc. 214r-221r. Il diverso luogo qui menzionato non sembra però sufficiente a contraddire la consuetudine di recitare le lezioni accademiche nella villa di Pasini. 47 Precisamente A. GIORNI, Lettione fatta dal molto reverendo signor A.G. nell’Accademia Insensata nella sala dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, governatore di Perugia e dell’Umbra, e prencipe di detta accademia. Si tratta in questa lezione del fato, ms. 1058, cc. 36r-42r; V. CRISPOLTI, Lettione dell’illustrissimo e molto reverendo signor V.C., canonico del duomo di Perugia, nella quale si tratta del consiglio, recitata nell’Accademia Insensata li 24 di maggio 1598, presente l’illustrissimo signor cardinale Savello, legato di Perugia, in Palazzo Apostolico, ms. 1059, cc. 89v-95v; L. OLIVA, Chi più honore apporta quello che dice a quello che ascolta, che chi ascolta a quello che parla e in lode del parlare. Discorso fatto in palazzo alli 18 di ottobre 1602 dal molto reverendo signor L.O., Accademico Insensato, detto lo Scemo, presente il signor cardinale legato Bevilacqua, il signor gran priore vicelegato. Nel felicissimo principato dell’illustrissimo signor Carlo Pio e C. CRISPOLTI, Discorso in lode della città e in biasimo della villa del signor C.C., recitato da lui nella sala del palazzo alli 6 di dicembre 1600, alla presenza dell’illustrissimo cardinale Bevilacqua, legato dignissimo e protettore della nostra Accademia Insensata, BAP, ms. 1060, rispettivamente cc. 39r-50r, 67r-77v; C. CONTOLI, Lettione di C.C. dell’Accademia degli Insensati, detto lo Insensato, letta da

90 dissertazioni invece si limitano a specificare che la recita si era svolta nell’«Academia de gli Insensati», a sottolineare una volta di più la precedenza del ‘luogo accademico’, quale contesto sociale e culturale di riferimento, sul luogo concreto. La natura spesso sfuggente delle sedi accademiche consente anche nel caso degli Insensati di elaborare nuove e suggestive ipotesi. Nell’ambito delle sue ricerche intorno alla faticosa creazione della biblioteca pubblica in Perugia ad opera di Prospero Podiani, Maria Alessandra Panzanelli Fratoni ha proposto un luogo alternativo quale sede dell’Accademia degli Insensati. Nella delibera di rimborso in favore di Podiani, che aveva anticipato 20 scudi al pittore Giovan Battista Lombardelli, la sala della biblioteca era definita «stantia academiae librariae». La studiosa ha allora ricollegato tale espressione all’Accademia degli Insensati, cui anche lo stesso Podiani apparteneva, escludendo la possibilità di un riferimento ad un altro consesso. Ciò in ragione non solo dei rapporti di amicizia e di collaborazione, stretti dal medesimo con altri membri Insensati (in particolare con Filippo Alberti, Cesare Crispolti e Fulvio Mariottelli), ma anche a partire dall’interpretazione da lei stessa fornita dell’apparato iconografico della sala. Confrontando la scena effigiata in una delle due lunette affrescate, rappresentante il monte Parnaso, con le teorie artistiche esposte nell’Iconologia di Cesare Ripa, la studiosa vi ha notato diversi e significativi punti di contatto. Ha potuto così dimostrare sia la responsabilità di Podiani e Mariottelli (quest’ultimo già collaboratore di Ripa) nella scelta dei soggetti effigiati, sia il loro proposito di favorire l’attività letteraria degli Insensati grazie all’ispirazione delle muse e della dea Minerva.48

lui publicamente nel Palazzo Apostolico in Perugia alla presenza dell’illustrissimo e reverendo monsignor Carlo Conti, barone romano, vescovo di Ancona, della città di Perugia e Provincia dell’Umbria, generale governatore e prencipe dell’academia, il dì 20 di Novembre 1594, ms. Petr. I 60, cc. 1r-36r. 48 M.A. PANZANELLI FRATONI, Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità. Il caso di Prospero Podiani, tesi di dottorato in ‘Scienze bibliografiche, archivistiche e documentarie e per la conservazione e il restauro dei beni librari e archivistici’, Università di Udine, a.a. 2005/2006, à Capitolo I. Atto I: dalla donazione del 1582 alla sua conferma il 17 ottobre 1615 (si ringrazia l’autrice per aver messo a disposizione di chi scrive una copia in formato html della sua tesi di dottorato); EAD., Notizie sulla formazione culturale di Girolamo Tezi. Ragionando dei libri che egli ebbe in prestito da Prospero Podiani e delle origini della Biblioteca Augusta di Perugia, in «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», 106 (2009), pp. 171-242: 195-206. Per i rapporti tra Mariottelli, Podiani e Ripa si veda C.

91 La presenza di Podiani in accademia, confermata invero da fonti esterne alla produzione degli Insensati, porta con sé una conseguenza di assoluto rilievo. Egli infatti possedeva un immenso patrimonio librario, che dagli anni ’80 del Cinquecento era a disposizione degli altri membri accademici (o quantomeno dei soci che erano in stretti rapporti con lui).49 Benché la biblioteca fosse stata immaginata fin dal principio quale istituzione aperta all’intera comunità, e dunque non sia da considerarsi parte integrante dell’accademia o una sua appendice, nondimeno i volumi di cui disponeva circolavano con frequenza – come è facile immaginare e come i registri dei prestiti confermano – tra i membri dell’associazione. Sulle note di prestito appuntate da Podiani si ritrovano infatti i nomi dei membri Insensati, i quali si rivolgevano spesso al bibliotecario per soddisfare le proprie richieste in fatto di libri.50

II.4.2 Una premessa necessaria: le fonti

Le esigue testimonianze, dirette e indirette, sull’Accademia degli Insensati portano, quasi istintivamente, a rinunciare all’impresa di

STEFANI, Cesare Ripa: New Bibliographical Evidence, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 53 (1990), pp. 307-312: 309, 311. 49 Sarà perciò da tener presente l’Inventario della biblioteca che l’Insensato Mariottelli aveva redatto nel 1617, oggi conservato in forma manoscritta nella Biblioteca Augusta di Perugia (ms. 3082). L’Inventario è stato a lungo studiato da Panzanelli Fratoni, che l’ha ordinatamente trascritto (à Allegato. Inventario del 1617: BAP, ms. 3082) ed analizzato (à Capitolo II. Atto II: L’inventario di Fulvio Mariottelli e la nascita della biblioteca pubblica) nella sua tesi di dottorato Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità, cit. Un anno dopo, Mariottelli fece seguire l’Inventario da una relazione a stampa: All’illustrissimo ed eccellentissimo signore, il signor Bartolomeo del Monte marchese di Piano, capo del magistrato de i diece, e a i signori suoi colleghi e a gli altri nobili e popolari di Perugia. Ragguaglio intorno alla libraria che fu del signor Prospero Podiani (in Perugia, appresso Marco Naccarini, 1618), sulla quale si veda: A. SERRAI, Fulvio Mariottelli. Raggvaglio intorno alla libraria che fu del sig. Prospero Podiani (1618), nel suo Storia della bibliografia, V. Trattatistica Biblioteconomica, a c. di M. PALUMBO, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 238-256. 50 Sui prestiti agli Accademici Insensati si veda M.A. PANZANELLI FRATONI, Tracce di circolazione del libro a Perugia tra Cinquecento e Seicento, in Biblioteche nobiliari e circolazione del libro fra Settecento e Ottocento. Atti del convegno nazionale di studio, Perugia, Palazzo Sorbello, 29-30 giugno 2001, a c. di G. TORTORELLI, Bologna, Pendragon, 2002, pp. 263-325: 301-312. L’azione di sostegno di Podiani nei confronti dell’accademia non si limitò soltanto all’approvvigionamento di libri. Mosso dalla consapevolezza che «academias bonarum litterarum in ciuitatibus studiosis ualde prodesse», egli foraggiò con una donazione l’attività degli Insensati. Destinò infatti all’accademia la non trascurabile somma di mille scudi di paoli dieci per scudo, da pagarsi alla sua morte (nel 1617): ASCP, Miscellanea b 103, Donazione all’Accademia degli Insensati, di cui è offerta una trascrizione in PANZANELLI FRATONI, Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità, cit., à Prospero Podiani fa una donazione in favore dell'Accademia degli Insensati.

92 tracciarne un profilo storico. D’altronde, anche Lucia Denarosi, nella sua recente monografia sull’Accademia degli Innominati di Parma, ha desistito dal proposito di restituire una storia dell’istituzione, ben consapevole che le troppo numerose lacune non consentono di fondare un discorso storico sufficientemente accurato e preciso.51 Ed invero, un’identica premessa non può non risultare altrettanto legittima nel caso degli Insensati, per il quale l’ingente perdita di documenti è tale da risultare quasi scoraggiante. Ciononostante, le pagine che seguono intendono comunque almeno abbozzare un primo quadro cronologico dell’accademia, nella convinzione che si riveli un passo indispensabile per avvicinarne la produzione letteraria. Inoltre, in mancanza di una storia moderna del sodalizio, la ricostruzione del percorso diacronico degli Insensati si è rivelata una stringente necessità: il generoso ma approssimativo tentativo settecentesco di Giacinto Vincioli, di cui si dirà nel successivo paragrafo, ed i profili storici messi a punto ad inizio Novecento non possono essere considerati esaurienti. Le notizie sugli Insensati si ricavano innanzitutto da un ristretto numero di opere secentesche e dalle lezioni composte dagli stessi accademici. Le prime risultano assai utili, sebbene dedichino agli Insensati soltanto brevi appunti;52 le seconde, di norma assai avare di notazioni effettivamente fruibili, sono le uniche testimonianze disponibili nei periodi più oscuri del sodalizio. Soltanto alcune delle grandi opere storiografiche o erudite settecentesche ricordano l’accademia, aggiungendovi talvolta qualche minimo dettaglio; le storie letterarie ottocentesche invece tacciono.53 I risultati più alti dell’erudizione locale si riassumono nei nomi di Giacinto Vincioli, Annibale Mariotti e Giovan Battista Vermiglioli. Nella sua infaticabile opera di custode della storia di Perugia, Mariotti non mostrò grande interesse verso gli Insensati, di cui si occupò brevemente nel suo

51 Così scrive l’autrice nell’Introduzione al suo volume DENAROSI, L’Accademia degli Innominati, cit., pp. 11-24. Invece di una storia, Denarosi allora preferisce porre in appendice un Elenco degli accademici (pp. 403-407) insieme con la Cronologia accademica (pp. 409-415). 52 Non mancano cenni agli Insensati nelle già citate opere storiografiche di Cesare Crispolti: Libro decimo, cit., cc. 357v-358r; ID., Perugia Augusta, cit., p. 50. Si vedano poi OLDOINI, pp. 1- 2; MALATESTA GARUFFI, L’Italia accademica, cit., pp. 157-161. 53 QUADRIO, Della storia e della ragione d’ogni poesia, cit., I, p. 90; TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, cit., t. VII, parte 1, Dall’anno MD fino all’anno MDC, Firenze, presso Molini, Landi e c., 1809, p. 152.

93 postumo Saggio di memorie […] della città di Perugia, e poco più diffusamente nel manoscritto 1460 della Biblioteca Augusta di Perugia.54 La Biografia degli scrittori perugini di Vermiglioli, strumento indispensabile nella ricostruzione delle vicende biografiche dei singoli membri Insensati, dedica poco spazio alla loro storia accademica, utilizzando come principale fonte proprio il volume di Vincioli.55 Nel Novecento si succedono piuttosto frequenti le sintesi sulle accademie perugine: dai primi interventi quasi pioneristici di Silvio Pelli ed Emilia Bonazzi si giunge finalmente ai contributi di Aurelio Valeriani, di Giuliano Innamorati, di Giuseppe Fanelli e di Erminia Irace.56 Gli ultimi studi citati, offrendo un’analisi libera dai preconcetti storiografici precedentemente invalsi, hanno permesso di ridefinire su solide basi la questione dei sodalizi umbri ed hanno condotto a risultati di rilievo sulla storia degli stessi Insensati.

II.4.3 La fondazione dell’Accademia degli Insensati

Il testo con cui si intende aprire la presente indagine storica potrà sorprendere per la sua natura un poco eterodossa, del tutto differente da quella delle fonti appena proposte. Si tratta della Lezione […] sopra la canzone del Coppetta ‘In perdita della gatta’ di Giacinto Vincioli, che restituisce con dei tratti da leggenda eroicomica la nascita dell’Accademia degli Insensati. La lunga citazione dal testo di Vincioli trova una duplice giustificazione nell’alto valore di inventiva e creatività letteraria e nel guadagno conoscitivo che lo scritto offre. Benché sinora non sia stata collegata dalla critica agli Insensati, l’arguta ed esilarante Lezione, scritta

54 Per quanto, beninteso, è stato possibile appurare da un primo esame delle sue molteplici carte conservate in Biblioteca Augusta (mss. 1456-1507), molte delle quali attendono ancora di essere propriamente inventariate e analizzate. Per ora, quindi, si veda MARIOTTI, Saggio di memorie istoriche, civili ed ecclesiastiche, cit., pp. 35, 37; BAP, ms. 1460 (o CVIII delle carte Mariotti), cc. 98v-99r (che è una raccolta di «appunti intorno agli uomini illustri di Perugia»). 55 VERMIGLIOLI, I, pp. 329-330. 56 Agli interventi già citati in nota 25, si aggiungono quindi: A. VALERIANI, L’insegnamento di Giovanni Tinnoli «Magister» dello Studio Perugino del sec. XVI, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studi di Perugia», 2 (1964-1965), pp. 43-95: 64-72; G. FANELLI, Introduzione, in F. MASSINI, Il madrigale, a c. di G. FANELLI, Urbino, Argalìa, 1986, pp. 5-29: 7-8. Da non dimenticare poi il solito MAYLENDER, Storia delle Accademie d’Italia, cit., III, pp. 306-311.

94 sotto il falso nome di Cintio di Nico Gattafilota, lascia sorprendentemente trapelare alcuni elementi che hanno un effettivo riscontro con la realtà.57 Ciò a dispetto della pesante opera di mascheramento compiuta da Vincioli, che non risparmia nemmeno gli elementi di identificazione bibliografica (quali il nome dell’autore della lezione, «Cintio di Nico Gattafilota», del “curatore”, «Asirio Franco Dalla Torre» e dello stampatore «Gattommamone») e gli estremi dell’edizione («Gattapoli, gli anni de’ Berlingaccini dalla perdita della Gatta, 148). La Lezione di Cintio di Nico Gattafilota è l’esposizione di una canzone burlesca di Coppetta, Utile a me sopra ogn’altro animale.58 La lettura della seconda strofa, dove con divertito compiacimento si narra del rapimento della gatta e dei vani corteggiamenti dei suoi pretendenti, diventa occasione per collegare la scomparsa dell’animale ai fondatori dell’Accademia degli Insensati, perdutamente innamorati del felino del poeta:

Egli [ossia Francesco Coppetta] dice ch’avea degl’innamorati la sua gatta che tutta la notte le andavano sotto le finestre a far le serenate […]. Or questa gente, per quanto ho potuto sapere, non furono già di quelli che hanno il cervello sopra la berretta [...], ma furono persone di molto garbo, e ve ne voglio nominar due o tre che io ho trovati in una Cronaca manoscritta di Giovanni Andrea del Mazzo, ch’ora si conserva in casa degli eredi di Cecco Nuccoli. Un di costoro, dice l’autore della Cronica, era Giovanni Tinnolo: costui, per quel che mi ha detto lo Strambottino, fu letterato, ed egli ha del suo, certo libretto d’un buon metodo circa il modo d’argomentare. Ne nomina anche un altro, ed è Ottaviano Platoni, e questi ancora fu uomo virtuoso. Poi, se mal non mi ricordo, nomina un tal Rubino Salvucci. Ora sappiate che costoro furono

57 C. GATTAFILOTA [ossia G. VINCIOLI], Lezione di Cintio di Nico Gattafilota sopra la canzone del Coppetta ‘In perdita della gatta’. Aggiunte alcune annotazioni di Asirio Franco Dalla Torre, in Gattapoli, gli anni de’ Berlingaccini dalla perdita della Gatta, 148. Una conferma della paternità della Lezione a Vincioli viene da G. MELZI, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all’Italia, in Milano, coi torchi di Luigi di Giacomo Pirola, 1848, I, p. 209 (dove però Coppetta è chiamato erroneamente Cesare e non Francesco). 58 La canzone di Francesco Coppetta dei Beccuti, Utile a me sopra ogn’altro animale, si legge ancora nell’edizione curata da Ezio Chiorboli per la collana Scrittori d’Italia: G. GUIDICCIONI, F. COPPETTA BECCUTI, Rime, Bari, Laterza, 1912, pp. 307-310. Andrea Crismani sta ora attendendo all’edizione critica delle Rime di Coppetta. Alcuni risultati del suo lavoro d’indagine sono emersi in un recente saggio, dove l’autore rende noto un nuovo codice (Treviso, Biblioteca Civica, ms. 1610) contenente alcuni componimenti del poeta perugino: A. CRISMANI, Appunti su un nuovo manoscritto di rime di Francesco Coppetta dei Beccuti, «Filologia italiana», 8 (2011), pp. 143-166.

95 ancora i fondatori della nostra già celebre Accademia degl’Insensati: della quale una cosa non voglio lasciar di dirvi: ed è che appunto del principio suo fu cagione la perdita della gatta del Coppetta: e sentite il come. Questi, ch’io v’ho nominati, che andavano a cantare sotto le finestre alla gatta del Coppetta, perduta ch’egli l’ebbe, ne presero tutti insieme una passione grandissima: e perché spesso s’adunavano a lodarla e perché dal dolore parevano insensati, le loro adunanze furono dette l’adunanze degl’Insensati.59

Il giocoso travisamento del reale significato di ‘Insensati’ e la poco verisimile ragione della nascita dell’accademia sono naturalmente parte integrante dello stravolgimento della realtà operato da Vincioli. Non così invece i nomi dei fondatori degli Insensati, che furono effettivamente quelli di Giovanni Tinnoli, Ottaviano Colombi, detto Platoni, e Rubino Salvucci, cui bisogna aggiungere Tommaso Perigli (o Perilli); tutti e quattro appartenenti al collegio dei filosofi e dei medici.60 Nelle Rime di Francesco Coppetta ed altri poeti perugini, da lui curate, Vincioli discuteva più diffusamente della nascita «dell’Accademia Perugina, chiamata poi Insensata».61 Sfortunatamente, le sue pagine hanno apportato non poca confusione intorno alla storia del sodalizio ed hanno indotto all’errore anche il solitamente precisissimo Giovan Battista Vermiglioli. In accordo con Vincioli, anch’egli pose l’inizio dell’accademia nel 1546, non accorgendosi che nel lavoro erudito del primo la fondazione degli Insensati

59 GATTAFILOTA [ossia G. VINCIOLI], Lezione di Cintio di Nico Gattafilota, cit., pp. 22-24. L’espressione «avere il cervel sopra la berretta», attestata quale voce proverbiale anche nel primo Vocabolario degli Accademici della Crusca, era il classico attributo di «chi procede inconsideratamente e con poco senno» (cit., p. 120). 60 Tommaso Perigli è del tutto ignorato dalle fonti storiografiche, che lo ricordano solo per essere uno dei fondatori dell’accademia. Su Ottaviano Colombi si vedano OLDOINI, p. 259; VERMIGLIOLI, I, pp. 328-331 e PELLI, Le accademie in Perugia, cit., pp. 182 e 187 (dove, riprendendo Oldoini, lo definiva «celebre estensore delle memorie dell’accademia stessa»); su Rubino Salvucci si vedano OLDOINI, p. 298 e VERMIGLIOLI, II, pp. 278-279. Giovanni Tinnoli ha attirato maggiormente l’attenzione dei critici, in particolare grazie ai suoi interessi filosofici: OLDOINI, pp. 191-192; L. JACOBILLO, Bibliotheca Umbriae sive de scriptoribus Provinciae Umbriae alphabetico ordine digesta, Fulginiae, Apud Augustinum Alterium, 1658, p. 150; VERMIGLIOLI, II, pp. 303-304; PELLI, Le accademie in Perugia, cit., pp. 182, 187; BONAZZI, Storia di Perugia, cit., II, p. 237; VALERIANI, L’insegnamento di Giovanni Tinnoli, cit.; ID., Il pensiero filosofico di Giovanni Tinnoli, in Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento. Atti del IV Convegno di studi umbri, Gubbio 22-26 maggio 1966, Gubbio - Perugia, Centro di studi umbri Casa di sant’Ubaldo - Università degli studi di Perugia, 1967, pp. 285-300; C.H. LOHR, Renaissance Latin Aristotle Commentaries: Authors So-Z, «Renaissance Quarterly», 35 (1982), pp. 164-256: 196. 61 VINCIOLI, I, pp. 136-144 (citazione a p. 136).

96 era stata probabilmente (volutamente ?) confusa con la formazione dell’Accademia degli Atomi, nata negli anni immediatamente successivi alla “guerra del sale”. 62 Fondando le sue affermazioni su un imprecisato manoscritto «a forma di diario», impossibile da rintracciare, Vincioli indugiava sull’attiva partecipazione nel consesso di Francesco Beccuti, animatore proprio degli Atomi. La sua presenza presso gli Insensati non è registrata in nessuna delle loro lezioni; una circostanza perlomeno sospetta, vista la grande ammirazione con la quale il poeta era universalmente ricordato nell’ambiente perugino.63 Ad escludere in maniera definitiva la data proposta concorrono poi i dati anagrafici dei fondatori, che risultano troppo giovani nel 1546 per aver dato vita al sodalizio accademico, e la cronologia delle prime prove letterarie degli Insensati, che comparvero a partire dal 1565.64 Respinta l’ipotesi di Vincioli, si può finalmente porre senza esitazioni l’anno di istituzione dell’accademia nel 1561, come testimoniato in primis dallo stesso Crispolti e quindi dalla quasi totalità degli altri documenti.65 La fondazione dell’accademia, non essendo rammentata in alcuna delle lezioni e nemmeno celebrata nelle composizioni accademiche, resta

62 VERMIGLIOLI, I, pp. 329-330. Sulla retrodatazione dell’Accademia degli Insensati, si veda IRACE, Le Accademie letterarie, cit., p. 177. Vincioli era però a conoscenza dei testi di Crispolti. Nel momento di stabilire l’anno dell’ideazione dell’impresa e del nome degli Insensati, egli optava per il 1561, in accordo con lo stesso Crispolti: «Dell’impresa dell’accademia, […] non meno che del nome Insensati e dell’elezione di san Mattia in protettore, si credono autori Giovanni Tinnolo, Rubino Salvucci, Ottaviano Platoni e Francesco Perigli. E credesi ciò seguito del 1561, come si legge nel primo libro della Perugia Augusta del Crispolti» (VINCIOLI, I, pp. 163-164). Oltre all’errore nel nome del quarto fondatore (Francesco, invece di Tommaso), non si può non avvertire il fatto che queste affermazioni risultino in netto contrasto con quanto affermato dallo stesso Vincioli nelle pagine appena precedenti. 63 Le dissertazioni degli Insensati confermano invece la presenza di Coppetta nel consesso degli Atomi. Nella lezione dello Svogliato Delle qualità che a i nomi e alle imprese […] si convengono, cit., è menzionato «Coppetta, che allora in quell’academia, insieme col Platone, padre del nostro signor Smemorato, e con altri suoi coetanei molto onoratamente si essercitava» (c. 203v). «Platone» era il soprannome di Francesco Colombi, chiamato così in onore della sua sapienza; i suoi figli si dissero perciò Platoni in omaggio al padre (IRACE, Nobiltà bifronte, cit., p. 153). 64 Ottaviano Colombi era nato nel 1542, Rubino Salvucci si addottorò nel 1569, Giovanni Tinnoli scrisse le sue prime opere nella seconda metà degli anni ‘60: sarebbero verisimilmente tutti e tre troppo giovani per aver fondato l’accademia negli anni ’40 del Cinquecento. Non sono disponibili invece dati biografici su Perigli. Sulla cronologia delle prime composizioni accademiche, si veda infra § II.4.4.1. 65 CRISPOLTI, Libro decimo, cit., c. 357v; ID., Perugia Augusta, cit., p. 50; OLDOINI, p. 1; MALATESTA GARUFFI, L’Italia accademica, cit., p. 158. Le lezioni accademiche al riguardo tacciono.

97 pertanto un momento isolato della sua storia. Non sono però di secondaria importanza gli unici elementi noti dell’evento, ossia la provenienza perugina dei suoi quattro fondatori e la comune frequentazione dell’università. Risultano entrambi fattori centrali per la caratterizzazione dell’accademia, che si mantennero costanti per tutto il periodo preso in esame. Certo, attraverso i decenni l’accademia si aprì con maggior disponibilità al confronto con uomini di cultura ed artisti provenienti da altre città; eppure rimase sempre ben definita l’identità orgogliosamente locale, fortemente perugina, del sodalizio. In secondo luogo, è da notare che l’Accademia degli Insensati, come d’altronde gli altri sodalizi perugini, operò a stretto contatto con l’università: gli studenti e/o i docenti dell’Ateneo erano infatti spesso anche membri di almeno una delle numerose assemblee cittadine. Le accademie offrivano un complementare palcoscenico rispetto a quello tradizionale dell’università, dove i gentiluomini perugini potevano accrescere la forza della propria presenza all’interno dell’élite cittadina. La ricostruzione, proposta di seguito, della storia dell’accademia consente finalmente di chiarire una distinzione che è già emersa in numerose occasioni. Più volte infatti si sono isolati gli anni di vita dell’accademia a cavaliere tra Cinquecento e Seicento, in implicita contrapposizione con il periodo precedente. In effetti, in base alle testimonianze disponibili, è possibile riconoscere due diverse fasi nel percorso degli Insensati: una prima, cui sarà dedicato il terzo capitolo, che dagli anni ’60 arriva fino ai primissimi anni ’90, ed una seconda, affrontata nel quarto capitolo, che a partire dall’ultima decade del Cinquecento si conclude con la morte di Cesare Crispolti nel 1608.

II.4.4 Cronistoria dell’Accademia degli Insensati

II.4.4.1 La prima stagione

I caratteri di indeterminatezza si presentano con maggior frequenza nella prima fase della storia dell’accademia. Le ambizioni più misurate che il sodalizio espresse nel periodo iniziale, insieme all’assenza di un leader al pari di Crispolti, capace cioè di catalizzare e capitalizzare gli sforzi

98 accademici, hanno senza dubbio disincentivato l’interesse dei consociati a promuovere e diffondere con una qualche testimonianza ufficiale l’attività della loro congregazione. Tuttavia, grazie ai manoscritti 1407 (fascicoli VIII e XXXIII) e 1717 della Biblioteca Augusta di Perugia, cui si devono ora aggiungere i codici Petr. I 49, I 50 e I 53 della sezione Petrarchesca- Piccolominea della Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste, è possibile documentare almeno la prima produzione letteraria dell’accademia; una produzione che non si limitò ai soli manoscritti, ma realizzò anche un numero piuttosto esiguo di stampe accademiche.66 Poiché soltanto quattordici delle ventiquattro lezioni contenute nei manoscritti sopra menzionati recano una data, è possibile offrire soltanto una cronologia indicativa della produzione accademica. La più antica tra le testimonianze disponibili è la Lettione di Contolo Contoli sopra il sonetto del Petrarca O d’ardente virtute ornata e calda, recitata in accademia il 24 giugno del 1565, a distanza di quattro anni dal momento della fondazione.67 Per tutto il decennio successivo al 1565, la superstite produzione letteraria dell’accademia risulta alquanto ricca, a dimostrazione di una alquanto vivace prima stagione culturale del sodalizio. Evidentemente gli accademici Insensati avvertirono fin da subito la necessità di fondare la propria identità e di attestare le proprie preferenze in ambito letterario: non sorprende allora che le prime dissertazioni da una parte illustrino, o meglio dichiarino, oltre ai nomi dei consociati, l’impresa generale e quelle particolari, e dall’altra indichino nel magistero di Petrarca il centro dei loro interessi letterari. La veloce espansione vissuta dall’accademia nel decennio 1565- 1575 è confermata anche da una delle rare testimonianze ricavabili fuori dal novero della produzione accademica: si tratta di una lettera del settembre 1569 inviata da Firenze a Prospero Podiani, nella quale un non ben identificato Don Ricci esprimeva il suo «contento grandissimo, che

66 Si rimanda pertanto alle Appendici I e II. Sulla presenza dei manoscritti dell’accademia a Trieste, si veda infra § III.3. 67 [C. CONTOLI], Lettione dell’Insensato sopra il sonetto del Petrarca ‘O d’ardente virtute ornata e calda’, letta nell’Accademia degli Insensati il dì 24 di giugno 1565, ms. Petr. I 53, cc. *111r- *120v. La giustificazione dell’asterisco [*] per le carte del ms. Petr. I 53 seguenti la c. 81* è data in Appendice I.

99 l’Accademia uadia tanto augmentando» e chiedeva al suo interlocutore di riferirgli chi vi fosse «entrato […] da febbraio in qua».68 Nel quindicennio che dalla seconda metà degli anni ’70 arriva sino ai primi anni ’90, si registra una netta diminuzione del numero delle lezioni accademiche degli Insensati. La produzione manoscritta – secondo le date riportate nelle intestazioni – ammonta a sole tre lezioni recitate in accademia negli anni ’80.69 È vero altresì che proprio all’inizio di questo periodo comparvero le prime prove a stampe. Nel 1576 l’Accademico Insensato Vincenzo Tranquilli pubblicò un breve opuscolo intitolato Pestilenze che sono in Italia da anni MM.CCC.XI in qua, dove sono descritte le precedenti epidemie di peste che si verificarono sul suolo italiano dal 735 a.C. in poi.70 Nella premessa al testo, Orlandino Vibi, uno dei «Presidenti della Sanità di Perugia», esprimeva la convinzione che «la soluzione migliore per i rumori di peste serpeggianti sia imparare dalle cose passate ad affrontare quelle presenti» e rivelava allora di aver «conferito questo pensiero con uno dell’Academia de gli Insensati [ossia Vincenzo Tranquilli], mio molto amorevole e intrinseco, che ha fatto qualche studio nelle istorie» (A2r). 71 Nel giro di «pochissimi giorni», Tranquilli compose un’«osservatione» non solo delle pestilenze, ma anche dei rimedi usati per

68 Lettera a Prospero Podiani, Firenze, 16 settembre 1569, citata in PANZANELLI FRATONI, Tracce di circolazione del libro a Perugia, cit., pp. 304-305; EAD., Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità, cit., à Capitolo I. Atto I: dalla donazione del 1582 alla sua conferma il 17 ottobre 1615; EAD., Notizie sulla formazione culturale di Girolamo Tezi, cit., p. 175. 69 [F. MASSINI], Lettione in difesa del Petrarca [1582], Biblioteca Comunale di Siena, ms. G VII 51, cc. 176r-188v (la presenza a Siena del codice è segnalata da P.O. KRISTELLER, Iter Italicum. A finding list of uncatalogued or incompletely catalogued humanistic manuscripts of the Renaissance in Italian and other libraries, London - Leiden, The Warburg Institute - Brill, 19983, II. Orvieto to Volterra Vatican City, p. 153); [G.L. LUNGO], Proemio delle scienze matematiche (cioè G.L. dal Piemonte). Lezione del Concentrato Accademico Insensato, ms. 1717, cc. 430r-440r, dove a c. 440r compare la data «il primo di giugno 1583» ed ancora nel medesimo codice [O. AURELI], Ragionamento dello Svogliato Insensato in difesa del nome e impresa dell’Assiderato (cioè Paolo Emilio Santorio da Cosenza principe dell’accademia), fatto nell’academia il dì 13 di ottobre 1587, ms. 1717, cc. 420r-427v. 70 [V. TRANQUILLI], Pestilenze che sono in Italia da anni MM.CCC.XI in qua, co i prodigii osservati inanzi all’avvenimento loro e i rimedii e provisioni usatevi di tempo in tempo, in Perugia, per Baldo Salviani, 1576. Poche le notizie offerte sull’autore dal solito VERMIGLIOLI, II, p. 311. Tra le sue opere, si segnala un inventario manoscritto degli stemmi gentilizi delle famiglie nobili perugine, non di gran pregio, ma certo di una qualche utilità per gli studiosi: è il ms. gamma.y.5.4 della Biblioteca Estense di Modena, disponibile online sul sito web della biblioteca (url: http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu- gamma.y.5.4.html). 71 [O. VIBI], A gli Illustrissimi signori miei osservandissimi, i signori Presidenti della Sanità in Perugia, in [TRANQUILLI], Pestilenze che sono in Italia, cit., cc. A2r-v.

100 affrontarle: un’opera insieme «utile e dilettevole» che Vibi decise di dare alle stampe, in modo «ch’ella potesse esser letta da ciascuno» (A2v). Si tratta certo di un’opera non imputabile alla totalità dell’accademia, ma al singolo scrittore, il quale però era riconosciuto quale «uno dell’Academia de gli Insensati», come se questa qualifica, non per caso rimarcata da Vibi, conferisse a Tranquilli un maggior prestigio ed una qualche autorità nel discutere la materia. In quello stesso 1576 il Forsennato Insensato Sforza Oddi diede alle stampe la prima edizione della sua fortunata commedia I morti vivi.72 Il volume si apre con un breve scritto di dedica ad Isabella e Lavinia della Rovere, sorelle del duca d’Urbino Francesco Maria II. Le ragioni della dedica sono esplicitate sin dalle primissime righe: la richiesta di protezione alle due donne è invocata al fine di difendere l’opera di Sforza Oddi dalle aspre critiche di coloro che – a giudizio di chi scrive – volevano guadagnare la gloria personale, evidenziando con puntigliosa meschinità i difetti dei lavori altrui:

L’essempio di quella cerva che, per aver solo intorno al collo scritto il gran nome di Cesare, visse molti secoli senz’esser per verun tempo offesa o insidiata giamai, muove oggi noi, illustrissime ed eccellentissime signore, volendo conforme al debito nostro procurar fido schermo e lunga vita a i MORTI VIVI, comedia del FORSENNATO nostro Academico, a consecrarla, come facciamo, a gli amati e riveriti nomi delle Signorie Vostre illustrissime ed eccellentissime, con certezza ch’ella meglio così, che in qual si voglia altra guisa verrà difesa da i morsi di que’ maligni, che non sapendo d’altronde acquistar luce alle tenebre dell’ignoranza loro, con lacerar tuttavia gli scritti altrui, pensano (mal’accorti che sono) per chiari e illustri farsi conoscere al mondo.73

72 S. ODDI, I morti vivi. Comedia del molto eccellente signore S. d’O., nell’Accademia degli Insensati detto il Forsennato, in Perugia, ad istantia di messer Luciano Pasini, per Baldo Salviani, 1576. È fondata proprio sul testo del 1576 la recente edizione della commedia per le cure di Anna Rita Rati: S. ODDI, I morti vivi, in ID., Commedie. ‘L’Erofilomachia’, ‘I morti vivi’, ‘Prigione d’Amore’, Perugia, Morlacchi, 2011, pp. 311-467, da cui si cita nel testo. 73 ACCADEMICI INSENSATI, All’Illustrissime ed eccellentissime Signore, e padrone nostre colendissime, le Signore Donna Isabella e Donna Lavinia Della Rovere, in ODDI, I morti vivi, cit., pp. 313-316: 313-314. Il Forsennato è il nome accademico dello stesso Sforza Oddi. Si è qui deciso di rispettare il formato utilizzato dalla curatrice che mette in maiuscoletto i nomi accademici e il titolo dell’opera, seguendo il consueto uso cinquecentesco; come si vedrà di

101 Ora la cerva, protetta dal «pretioso monile» ornato con i «bellissimi nomi d’Isabella e di Lavinia della Rovere», potrà finalmente vagare «in questa e in quella riva» e non temere più le malvagie intenzioni dei suoi predatori. La dedica è chiusa dalla firma degli «umilissimi servitori gli Academici Insensati», che si presentano in una pubblicazione a stampa con il solo nome comune del sodalizio. Ma la prima attestazione pubblica dell’accademia ha luogo ancora in precedenza, nel frontespizio, dove è rappresentata l’impresa del sodalizio Insensato. Che fosse in gioco, attraverso il nome del Forsennato, la reputazione dell’intera accademia, lo dimostrano, oltre all’impresa sul frontespizio e alla firma degli «Academici Insensati» a chiusura della dedica, anche i sei componimenti poetici che la seguono. Si tratta di cinque sonetti e di un madrigale, composti da cinque Accademici Insensati per celebrare il riscatto dall’oblio di Sforza Oddi e della sua commedia grazie alla salvifica azione di Isabella e Lavinia della Rovere.74 Il primo dei due sonetti proposti dall’Accademico Insensato Filippo Alberti è scandito da una lunga sequenza di ingegnose antitesi, che giocano con il nome della commedia:

Per ch’abbian vita dopo morte i morti, e glorioso nome in vita i vivi, a chi far ne può tosto e vivi e morti, sacriam d’un vivo spirto i MORTI VIVI. (vv. 1-4)

seguito, tale modalità operativa ha una sua precisa funzionalità nel caso dei Morti vivi. Il mito della cerva protetta dal collare è già romano, quindi medievale; ma con ogni probabilità il riferimento degli Accademici Insensati si indirizza verso la celebre ripresa petrarchesca di Rvf 190 (Una candida cerva sopra l’erba). Nel sonetto del Canzoniere coesistono non solo l’enigmatica immagine, ma anche lo stupore estatico dello spettatore, quasi ‘insensato’ di fronte alla straordinaria apparizione. Sul sonetto petrarchesco, oltre ai commenti moderni del Canzoniere, si vedano: E. PROTO, Il sonetto ‘Una candida cerva’ di F. Petrarca, «Rassegna critica della letteratura italiana», 28 (1923), pp. 129-140; B.T. SOZZI, Per il sonetto ‘Una candida cerva’, «Studi petrarcheschi», 8 (1976), pp. 213-217; S. CARRAI, Il sonetto “Una candida cerva” del Petrarca. Problemi d’interpretazione e di fonti, «Rivista di Letteratura Italiana», 3 (1985), pp. 233-251; GIOV. BÀRBERI SQUAROTTI, La candida cerva (RVF 190). Dal mito a Beatrice, «Revue des Études italiennes», 44 (1998), pp. 79-95; articolo poi ampliato in ID., Selvaggia dilettanza. La caccia nella letteratura italiana dalle origini a Marino, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 213-243. 74 Gli autori delle liriche sono presentati esclusivamente col nome accademico: [G.J. CAVALLETTI] («Attonito»), Chiare stelle che ’l sol vincer solete; [J. MASCI] («Ingordo»:), Forsennato gentil, che’n varii ogetti; [G. DEGLI ODDI] («Arido»), Qual’alma pura a Dio devota ancella; [F. ALBERTI] («Stracco»), Perch’habbian vita dopo morte i morti; [ID.], Come d’un bel desio s’accenda il core; [L. PASINI] («Immobile»), Torna, deh torna omai [madrigale], in ODDI, I morti vivi, cit., pp. 317-321.

102 Il tessuto contrappuntistico del sonetto è modulato dalle due sole parole rima, «vivi» e «morti», che si alternano dal primo all’ultimo verso del componimento, mentre entrambi i termini, in varia guisa, ricorrono in ogni verso. Di là dalla arguzia e raffinatezza retorica del testo, uno dei primi e forse più riusciti esempi di poesia degli Insensati, interessa qui sottolineare la non casuale allusione alla morte dei sensi coltivata in accademia:

Anzi chi morto al SENSO, i SENSI ha vivi, pregiato al fin da i vivi e caro a i morti, sarà vita egualmente a i morti e a i vivi.75 (vv. 12-14)

Vi è poi un ulteriore elemento che avvicina i Morti vivi all’attività degli Insensati: il testo della commedia è infatti disseminato di nomi accademici, utilizzati in funzione aggettivale. Tale intenzione dell’autore si manifesta chiaramente dal fatto che i medesimi nomi siano posti esplicitamente in rilievo dal carattere maiuscolo e risultino perciò immediatamente identificabili da parte del lettore. La difficoltà di Oddi sta nell’integrare queste tessere lessicali entro il dettato della commedia, senza far avvertire alcuno iato o momento di sospensione nello svolgersi delle vicende della trama. La complessità dell’operazione è evidente, per esempio, nella prima scena dell’atto terzo, nel momento in cui Oranta racconta a Rossana, che in realtà è Alessandra, della titubanza di Ottavio nello sposarla:

E anchorch’egli m’abbia finalmente promesso di sposarmi questa sera, nondimanco sta tutto trafitto, SBATTUTO, SOSPESO E SPAVENTATO per non so che imagine, fantasma, pensiero o imaginazione ch’ella si sia di quell’Alessandra, parendogli sempre di vedersela inanzi, che non può pensare in me.76

Nel presente caso l’autore mira infatti ad occultare (e a palesare per il lettore accorto) il breve elenco dei quattro aggettivi “accademici” facendoli

75 Il sonetto non compare nelle raccolte liriche del poeta perugino (per cui si rimanda ad Appendice II). Tutt’altro che recente e soddisfacente la bibliografia disponibile su Alberti: OLDOINI, pp. 283-284; VINCIOLI, II, pp. 205-215; MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, cit., vol. I, parte I, 1753, pp. 302-303; VERMIGLIOLI, I, pp. 1-4; S. FERRARI, Di alcune imitazioni e rifioriture delle “Anacreontee” in Italia nel sec. XVI, «Giornale storico della letteratura italiana», 20 (1892), pp. 395-424: 398-399, 420-422; A. ASOR ROSA, Alberti, Filippo, DBI, 1, 1960, ad vocem. 76 ODDI, I morti vivi, cit., p. 377. Lo Sbattuto è Vinciolo Vincioli, ecclesiastico perugino alla corte di Clemente VIII (VERMIGLIOLI, II, p. 335); il Sospeso è Orazio Montesperelli, sul quale mancano notizie biografiche, e lo Spaventato è Grazioso Graziosi (su cui si veda § IV.2).

103 seguire da altrettanti sostantivi. È facile riscontrare una qualche artificiosità nella pratica dell’innesto dei nomi accademici, che obbliga l’autore a rallentare lo svolgimento del dialogo, e che costituisce il prezzo da corrispondere per riuscire nel suo intento allusivo. A soli due anni di distanza dai Morti vivi, furono pubblicate le Conclusioni morali del Traviato Insensato. Si tratta di un breve opuscolo dove è contenuta una sorta di essenziale summa etica, che l’autore aveva raccolto e sistemato appositamente «per essercitio di questa nostra accademia».77 Il materiale proposto dal Traviato è ordinato in quattro categorie («Del fine e felicità dell’huomo»; «Delle virtù morali»; «Dell’amicitia»; «D’amore»), ciascuna delle quali ospita una successione di succosi aforismi. La loro forma può variare, oscillando tra i due estremi della sentenza o massima («nessun huomo poter essere felice, se non è Insensato»: [A4v]) e dell’interrogativo filosofico ancora insoluto («se la virtù si può generare e acquistare per una sola operatione»: B1r). Come viene candidamente ammesso nella dedica iniziale all’Astratto Insensato (il futuro cardinale Carlo Conti), era stata la «maggior commodità» offerta dalla stampa a convincere gli Insensati ad affidare le Conclusioni alle cure del tipografo. La diffusione dell’opera doveva soddisfare una circolazione interna alquanto limitata: la pubblicazione era infatti stata decisa «a fin che più agevolmente si potesse darne copia a tutti gli accademici». Analogamente al caso della commedia di Sforza Oddi, al destinatario della dedica era richiesta la «difesa» e la «protettione» dell’opera, perché le Conclusioni non subissero i morsi dei «velenosi e adormentati serpi» e pure di coloro «che svegliati, cercassero in qual si voglia modo morderle e lacelarle» (A2v). Questa pubblicazione rappresenta una tappa importante all’interno della attività letteraria dell’accademia perugina perché il suo contenuto è direttamente connesso alle esercitazioni accademiche. Un ulteriore motivo invita ad attribuire ancora maggior rilievo alle Conclusioni: queste infatti, ad esclusione delle ristampe dei Morti vivi del

77 [CIBI], Conclusioni morali del Traviato Insensato, cit. Si deve a Vincioli (I, p. 150) l’identificazione del Traviato Insensato con Alessandro Cibi «dottore di leggi».

104 Forsennato Insensato, furono seguite da un lungo periodo di silenzio da parte dell’accademia sul fronte delle stampe e dal diradarsi, come già detto, della produzione manoscritta.78 Finalmente, nel 1586 l’accademico Aurelio Orsi diede alle stampe il suo De bello belgico, nel quale cantava le imprese eroiche di Alessandro Farnese in missione nelle Fiandre per conto di Filippo II.79 Con questa pubblicazione, composta mentre gli eventi erano ancora in corso, si inaugura quella tradizione di opere letterarie sul lungo conflitto tra le Province Unite e la Spagna che culmina con il ben più noto De bello belgico di Famiano Strada.80 A dieci anni esatti dalle Conclusioni vennero stampati il Discorso matematico di Giovanni Luigi Lungo e le Lettioni dell’Estatico Insensato, le quali raccolgono quattro dissertazioni accademiche di Filippo Massini composte tra il 1581 e il 1587.81 Nella dedica dell’Accademico Insensato Giovan Battista Fazio a monsignor Giovanni Pellicani, presidente di Romagna nonché governatore di Perugia, viene chiaramente affermato che

78 Nell’intervallo di tempo preso in esame, dopo l’edizione del 1576, i Morti vivi vennero stampati a Venezia nel 1578 e di nuovo nel 1582 (in entrambi i casi appresso Gio. Battista Sessa e fratelli) con il medesimo frontespizio della princeps e la sola aggiunta della formula «nuovamente corretta e ristampata». L’elenco delle stampe della commedia è fornito da Anna Rita Rati nella Nota ai testi, in ODDI, Morti vivi, cit., pp. 121-136: 126-128. 79 A. ORSI, A. Ursus Accademicus Insensatus. De bello belgico. Ad Alexandrum Farnesium serenissimum Parmae et Placentiae principem, Perusiae, ex typographia Andreae Brixiani, 1586. Su Aurelio Orsi si vedano M. CASTAGNETTI, La Caprarola ed altre Galerie. Cinque lettere di Maffeo Barberini ad Aurelio Orsi, «Studi secenteschi», 34 (1993), pp. 411-450; C. CARUSO, Poesia umanistica di villa, in Feconde venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, a c. di T. CRIVELLI, con una bibliografia degli scritti a cura di C. CARUSO, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1997, I, pp. 272-294; T. LEUKER, Incisività sublime: l’arte epigrammatica di Aurelio Orsi nel giudizio di Giambattista Marino, in The Neo-Latin Epigram. A Learned and Witty Genre, ed. by S. DE BEER, K.A.E. ENENKEL, D. RIJSER, Lovanio, Leuven University Press, 2009 (numero speciale della rivista «Supplementa humanistica Lovaniensa»: 25), pp. 233- 253. 80 La prima deca andò a stampa nel 1632 (Romae, typis Francisci Corbelletti) la seconda nel 1647 (Romae, presso gli eredi del medesimo editore). La letteratura sulla guerra delle Fiandre è esaminata in C. CORDIÉ, Alessandro Farnese all’assedio di Anversa, «Italica», 25 (1948), pp. 150-160. 81 [MASSINI], Lettioni dell’Estatico Insensato, cit., dove sono comprese Della difesa del Petrarca intorno all’opposizioni fatteli dal Castelvetro nel suo comento della ‘Poetica’ di Aristotele (pp. 1-38); Della contemplatione dell’huomo estatico (pp. 39-91); Della conversione dell’huomo a Dio (pp. 93-146) e Del madrigale (pp. 147-185). I titoli per esteso delle quattro dissertazioni sono posti in Appendice II. Il Discorso matematico del signor Giovanni Luigi Lungo piemontese, cittadino e Accademico Insensato di Perugia, detto il Concentrato […] (in Mantova, per Francesco Osanna stampator ducale, 1588), che l’autore aveva già recitato di fronte agli Accademici Insensati il primo giugno del 1583, è di poca utilità per la storia del sodalizio: pur fregiandosi del titolo di Concentrato Insensato, nella dedica All’illustrissimo signore, il signor Federico San Giorgio, Lungo non rammentava nemmeno l’occasione della lettura perugina, ma soltanto quella avvenuta «in Romagna, e nella città di Forlì» [c. †3r].

105 tanto la prima lezione, recitata «alla presenza sua dall’Estatico […] nell’Academia de gl’Insensati», quanto gli «altri discorsi» erano stati pronunciati «dal medesimo nell’istessa academia» (Ir).82 Si tratta dunque di quattro dissertazioni che erano state scritte in vista di una loro recita in accademia e che probabilmente circolarono precedentemente in forma manoscritta. Nelle due lezioni centrali, dedicate ad esporre altrettanti sonetti del lucchese Giovanni Guidiccioni, Massini istituiva un parallelo tra i soggetti delle due liriche, rispettivamente l’estasi e la conversione, e il progetto culturale dell’accademia perugina. In particolare nella seconda lezione (Della contemplatione dell’uomo estatico), Massini confessava di aver scelto il sonetto Avvencianci a morir, se proprio è morte, perché «in esso si ragiona dell’estasi, o della contemplatione, […] che altro non è che una morte ai sensi, profession propria di questa Insensata Academia e spetie particolare di insensataggine, onde io il mio nome academico pigliai, quando Estatico in essa mi fei chiamare» (46).83 La ricerca di tale «morte volontaria» coincideva con il distacco dalle distrazioni dei sensi che impediscono un sereno cammino spirituale. Nei tempi passati – continuava Massini – questa pratica aveva caratterizzato molti antichi filosofi (da «Pitagora» a «Socrate», da «Zoroastro» a «Platone»); ora essa si configura quale primo obiettivo delle esercitazioni accademiche degli stessi Insensati, che «di questa altissima alienation mentale» avevano fatto «nobile professione» (89-90).84 Delle quattro lezioni di Massini, soltanto la prima Difesa del Petrarca è conservata in forma manoscritta nella Biblioteca Comunale di Siena.85 Il testo di Massini era stato inviato dagli Insensati, nella persona dell’Agitato Insensato Ludovico Botonio, all’erudito senese Belisario Bulgarini, fondatore degli Accesi, membro degli Intronati e in tarda età dell’Accademia di Venezia. A testimoniare l’avvenuto passaggio del codice da Perugia a Siena è lo

82 G.B. FAZIO, Al molto illustre e reverendissimo signore monsignor Giovanni Pelicano Presidente di Romagna, in [MASSINI], Lettioni dell’Estatico Insensato, cit., cc. Ir-IIr. Le date della carica di governatore di Pellicani si ricavano da Legati e governatori, cit., p. 329. 83 Le due liriche di Guidiccioni sono ora pubblicate nella recente edizione G. GUIDICCIONI, Rime, a c. di E. TORCHIO, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2006, pp. 65, 73. Si noti poi che il nipote di Giovanni Guidiccioni, Lelio, nato negli anni ’80 del Cinquecento ed anch’egli poeta, vantava stretti rapporti con gli Insensati: M. DI MONTE, Guidiccioni, Lelio, DBI, 61, 2004, ad vocem. 84 [MASSINI], Della contemplatione dell’uomo estatico, cit. 85 Si veda nota 69.

106 scambio di lettere tra i due accademici, posto in coda alle Difese di Bellisario Bulgarini del 1588.86 Nella convinzione o nella speranza che tra di loro si instaurasse «una maggior strettezza d’unione», condividendo entrambi il medesimo giudizio intorno al «poema di Dante», l’Accademico Insensato Botonio inviò una lettera a Bulgarini nel maggio del 1587 (107). 87 Il perugino era perfettamente al corrente delle controversie letterarie più aspre di quegli anni; controversie che, a suo giudizio, Bulgarini affrontava con la decisione di chi «combatte […] con l’ingegno e con la penna in favore e a difesa del giusto» (108). Tra i numerosi accenni ai dibattiti letterari coevi, l’Agitato ricordava di sfuggita le «oppositioni fatte al Petrarca e a Dante da V.S., dal Mutio e dal Castelvetro», aggiungendo che «a quest’ultimo» era stato «risposto a bastanza nella nostra Academia de gl’Insensati e con più salda dottrina e con più fondate ragioni dall’eccellente signor Filippo Massini» (108). 88 Nella sua lettera a Botonio, il senese lo ringraziava calorosamente, per aver deciso di schierarsi in suo favore, pur essendo lui un «piccolo Pimmeo», costretto a combattere contro «tanti smisurati giganti» (113-114). Dopo aver però rivendicato il suo ruolo non del tutto marginale «appo coloro che delle cose poetiche prendono alcun gusto», Bulgarini definiva «non prive di sale» le Annotazioni di Girolamo Muzio

86 B. BULGARINI, Difese di B.B., in risposta all’‘Apologia’ e ‘Palinodia’ di monsignor Alessandro Cariero padovano, e alcune lettere passate tra ’l signor Lodovico Botonio, nell’Accademia degl’Insensati di Perugia detto l’Agitato e il medesimo Bellisario, per l’occasione della controversia nata fra esso Bulgarino, il signor Ieronimo Zoppio, il sopradetto Cariero e il signor Iacopo Mazzoni, discorrendosi intorno alla ‘Commedia’ di Dante […], in Siena, appresso Luca Bonetti, 1588, pp. 105-124. La biografia di Bulgarini è esposta in L. DE ANGELIS, Biografia degli scrittori sanesi composta e ordinata dall’abate L.D.A. […], Siena, nella stamperia Comunitativa, presso Giovanni Rossi, 1824, pp. 170-177; F. AGOSTINI, Bulgarini, Bellisario, DBI, 15, 1972, ad vocem; la sua attività di studioso, letterato e linguista è oggetto di un recentissimo volume di M. QUAGLINO, «Pur anco questa lingua vive, e verzica». Bellisario Bulgarini e la questione della lingua a Siena tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 2011; su Botonio si veda il solito VERMIGLIOLI, I, pp. 243-244 (che non manca di notare l’errata grafia «Lodovico Baronio» invece di «Botonio» nella citata Biografia degli scrittori sanesi, p. 176). 87 Lettera a Belisario Bulgarini, Perugia, 15 maggio 1587, in BULGARINI, Difese, cit., pp. 107- 112. 88 Le opere menzionate da Botonio sono: B. BULGARINI, Alcune considerazioni di B.B., gentilhuomo sanese, sopra ’l ‘Discorso’ di messer Giacopo Mazzoni [….], in Siena, appresso Luca Bonetti, 1583; ID., Repliche di B.B. alle risposte del signor Orazio Capponi sopra le prime cinque particelle delle sue ‘Considerazioni’ […], in Siena, appresso Luca Bonetti, 1585; G. MUZIO, Battaglie di Hieronimo M. giustinopolitano per difesa dell'italica lingua, […] ed alcune bellissime annotationi sopra il Petrarca, in Vinegia, appresso Pietro Dusinelli, 1582; F. PETRARCA, Le Rime del P., brevemente sposte per Lodovico Castelvetro […], in Basilea, ad istanza di Pietro de Sedabonis, 1582.

107 sopra Petrarca, che lo avevano reso ancor più desideroso di possedere «le Risposte fatte al Castelvetro dal molto eccellente signor Filippo Massini». Pregava perciò Botonio di inviargli «una copia a mano, quando con buona grazia dell’autore si possan havere» (114).89 Nella terza ed ultima lettera inclusa nel volume delle Difese, Botonio rispondeva positivamente alla richiesta di Bulgarini, promettendogli l’invio della lezione di Massini, di cui annunciava a breve la pubblicazione:

Questa lettione si darà tosto alla stampa, in compagnia di due altre sue gratiose sorelle, concette e partorite dall’autor medesimo, nella nostra academia, interpretando leggiadramente due leggiadri sonetti di monsignor Guidiccioni. E, se l’affettione e il poco giuditio non m’inganna, mi pare di poter sperare che dal mondo non habbiano da essere neglette, anzi più tosto ricevute come degne di poter comparire appresso quelle del Gello, del Varchi e del Giambullari.90 (122)

Anche negli anni ’80 l’accademia continuò dunque la sua attività, che verisimilmente non si era limitata ai pochi incontri nei quali si discussero le tre lezioni manoscritte e le quattro dissertazioni di Massini. Ciononostante, la diminuzione di testimonianze intorno alla produzione degli anni ’80 potrebbe effettivamente corrispondere ad un ritmo più contenuto dell’attività accademica in quegli anni. Non è pertanto il caso di formulare giudizi definitivi in merito all’operosità dell’accademia nel periodo 1575- 1590, ma è ipotizzabile che, dopo lo slancio del decennio iniziale, il sodalizio stesse attraversando una fase di declino e forse di stanchezza. In definitiva, questa prima stagione presenta da una parte una serie compatta di lezioni manoscritte, composte perlopiù tra gli anni ’60 e ’70 del Cinquecento, e dall’altra un iniziale approccio verso la stampa, ossia verso una dimensione pubblica largamente riconosciuta. La definizione dell’identità dell’accademia, che impegnava assiduamente i membri Insensati nelle lezioni svolte entro le mura amiche del sodalizio, approdava perciò oltre il ristretto contesto accademico quasi esclusivamente grazie ad

89 Lettera a Ludovico Botonio, Siena, 20 giugno 1587, in BULGARINI, Difese, cit., pp. 113-116. 90 Lettera a Belisario Bulgarini, Perugia, 20 settembre 1587, in BULGARINI, Difese, cit., pp. 117-124. In realtà, come già emerso, le lezioni di Massini comprese nell’omonimo volume del 1588 sono quattro. Qui Botonio non menzionava la più antica lezione Del madrigale, recitata in accademia nell’aprile del 1581.

108 iniziative personali. La dedica collettiva ai Morti vivi resta infatti un esempio isolato di un (breve) testo prodotto dall’intero sodalizio. Nondimeno, opere quali le Conclusioni morali del Traviato Insensato e le Lettioni di Massini si connettevano direttamente all’attività collettiva dell’accademia e al progetto comune qui promosso. Le prime erano di servizio all’attività dell’accademia, di cui tracciavano l’orizzonte morale di riferimento; le seconde erano state recitate ed approvate in accademia e non sono immaginabili fuori da quel determinato contesto. Le Lettioni dimostrano poi che già in questa prima fase di sviluppo i membri accademici più ambiziosi (come per esempio lo stesso Massini o Botonio) intendevano promuovere e legare il nome degli Insensati alle polemiche letterarie più in auge. Iniziano qui i primi tentativi degli accademici di ottenere un riconoscimento, per sé o per il consesso, all’interno della composita società letteraria di fine Cinquecento, superando i confini municipali cui altrimenti sarebbero stati costretti.

II.4.4.2 La seconda stagione

Nonostante i forti elementi di continuità tra la prima e la seconda fase degli Insensati, non sono pochi i cambiamenti che contraddistinsero il periodo di maggior fioritura dell’accademia. Li si devono quasi esclusivamente a Cesare Crispolti, l’Affascinato Insensato, la cui scomparsa spinse il Sommerso Insensato Fulvio Mariottelli a pronunciare «con le lagrime a gl’occhi» una toccante orazione funebre in suo onore.91 Nato nel 1563 da Ranieri di Pierantonio Crispolti, discendente di una delle famiglie di più antica nobiltà, Cesare entrò in Seminario nel 1577, dove si formò sotto la guida di Marco Antonio Bonciari, latinista e successivamente membro dell’accademia, che lo introdusse allo studio delle arti liberali. Deciso a prendere i voti, nel 1586 divenne canonico e due anni più tardi sacerdote. In parallelo con la sua carriera religiosa, Crispolti coltivò con costanza gli studi giuridici e si laureò nel 1591 nello Studio perugino in utroque iure. Mentre

91 F. MARIOTTELLI, Oratione fatta per l’essequie del signore Cesare Crispolti, dottore di leggi e canonico di Perugia, agl’Accademici Insensati sotto il principato dell’illustrissimo signor Federico abbate della Corgna li 27 d’aprile 1608, ms. 1060, cc. 129r-134r, ora edita a cura di L. MAZZERIOLI, nell’Appendice I. Testamenti, del volume ‘Raccolta delle cose segnalate’, cit., pp. 261-268: 261, da cui si cita.

109 non si ha notizia di un suo impiego presso l’università, non mancano le testimonianze intorno ad un suo incessante impegno nel collegio dei giuristi, nel quale fece il suo ingresso nel 1592, e nelle accademie degli Unisoni e degli Insensati, dove ebbe modo di proseguire gli studi iniziati da giovane. I suoi interessi spaziavano dalla letteratura alla storia, dalla numismatica alla pedagogia, dalla musica all’arte. Non dotato di grandi averi, fu egli stesso collezionista scrupoloso e attento, capace di allestire in casa sua una galleria tutt’altro che disprezzabile di opere d’arte.92 Pubblicò in vita soltanto l’Idea della scolare (Perugia, per Vincentio Colombara, 1604), lasciando alla sua morte, il 22 aprile del 1608, una grande quantità di materiale inedito, oggi solo in minima parte recuperato.93 Nella sua commemorazione dell’amico e sodale, Mariottelli decise di rinunciare alla freddezza dell’abbellimento retorico (perché «chi parlando può cercare gli artificii, non ha il dolore»), dando sfogo al «dolor» che «si compiace sol di se stesso, della sua propria faccia, pallida, horrida, macilenta, di parole nude, de sensi poveri, di voce fiacca». La celebrazione del lutto accademico per la morte di Crispolti, che lasciò l’Accademia degli Insensati quale sua «sconsolata vedova», divenne anche l’occasione per proporre un consuntivo dell’attività da lui svolta all’interno del sodalizio e per onorare l’accademia stessa. A ben vedere, le lodi sono velate da un misto di timore e

92 Si è discusso a lungo e si discute tutt’ora se il Mondafrutto in suo possesso fosse l’originale o una copia di quello caravaggesco: di qui è nato un forte interesse per la vicinanza tra l’eclettica figura di Crispolti e il pittore lombardo: L. SALERNO, I dipinti emblematici, in L. SALERNO, D.T. KINKEAD, W.H. WILSON, Poesia e simboli nel Caravaggio, «Palatino», 10 (1966), 2, pp. 106-112: 107-108; E. FUMAGALLI, Precoci citazioni di opere del Caravaggio in alcuni documenti inediti [1994], in Come dipingeva Caravaggio, Atti della giornata di studio (Firenze 28 gennaio 1992), a c. di M. GREGORI, Milano, Electa, 1996, pp. 143-150: 143; S. MACIOCE, Una nota per il ‘Mondafrutto’ e C. BELLONI, Cesare Crispolti perugino: documenti per una biografia, in Michelangelo Merisi da Caravaggio. La vita e le Opere attraverso i Documenti, Atti del Convegno Internazionale di Studi, a c. di S. MACIOCE, Roma, Logart Press, 1996, rispettivamente pp. 123-135 e 136-147; TEZA, Cesare Crispolti, ‘sacerdote’ di Perugia, cit., pp. 57-58. 93 Di recente sono state pubblicate le edizioni critiche di due sue opere: la già citata ‘Raccolta delle cose segnalate’, a cura di Laura Teza, e la già edita Idea dello scolare, a cura di Elisabetta Patrizi, che indagano rispettivamente Crispolti storico d’arte e pedagogo. In precedenza, la lezione Del sonetto, di cui ci si occuperà infra in § IV.3.1, era stata edita a cura di Bernard Weinberg nel quarto volume dei Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Roma - Bari, Laterza, 1974, pp. 193-205, con note alle pp. 420-421. Per la bibliografia sull’autore si rimanda agli ampi testi introduttivi di TEZA, Cesare Crispolti ‘sacerdote’ di Perugia, cit., pp. 11-78 ed E. PATRIZI, Cesare, Crispolti e l’‘Idea dello scolare’. Un trattato educativo tra Rinascimento e Controriforma, in EAD., La trattatistica educativa tra Rinascimento e Controriforma, cit., pp. 25-107.

110 di inquietudine, che si manifesta pienamente nella preghiera rivolta da Mariottelli a Federico della Cornia: «voi illustrissimo prencipe […] riparate almeno che non rovini questa bella fabrica di sì illustre accademia». Non v’era dubbio per gli Insensati, insomma, che la fine di Crispolti dovesse avere forti ripercussioni sulle ambizioni e sulla tenuta del sodalizio. D’altronde, come confessava candidamente il Sommerso Insensato con una serie di interrogazioni retoriche, l’intraprendenza di Crispolti si era rivelata fondamentale nel reclutare e nell’incalzare i nuovi membri: «chi ve n’ha aggregato la maggior parte? Cesare Crispolti. Chi gli ha inviati con lettere? Cesare Crispolti. Chi li ha accesi con le parole? Cesare Crispolti. Chi gli ha spronati et incitati tutti sempre regolarmente alla gloria? Cesare Crispolti». In aggiunta alla sua opera di cooptazione di nuovi soci, Crispolti è omaggiato anche per aver scritto «tanti volumi di lettioni, orationi e discorsi academici […] di propria mano per conservarle tra le cose sue più care». L’Affascinato Insensato si era preso cura da un lato di promuovere e rendere nota l’attività accademica anche oltre il contesto perugino – paradossalmente proprio lui che non si era «già mai voluto allontanare dalla sua dolce patria» – e dall’altro di custodire (a futura memoria) i più alti risultati raggiunti dall’accademia nel campo delle lettere.94 Il costante impegno di Crispolti nell’arruolare nuovi soci accademici si rivolgeva principalmente verso uomini di cultura perugini ma non escludeva affatto i forestieri. Con questi ultimi Crispolti si avvalse proprio dello strumento epistolare, come avvenne per esempio nel caso dello storico e letterato monzese Bartolomeo Zucchi, raggiunto da una missiva del perugino mentre si trovava nella capitale. La corrispondenza tra Crispolti e Zucchi, che si legge in forma parziale nelle opere di quest’ultimo, può essere d’aiuto, in assenza dell’epistolario crispoltiano, per conoscere le modalità messe in atto dal perugino per venire a contatto con nuovi accademici.95

94 MARIOTTELLI, Oratione fatta per l’essequie, cit., pp. 262-263, 266-267. 95 Vermiglioli, basandosi sulle ricerche di OLDOINI (pp. 65-66), ricordava due volumi manoscritti di sue lettere, presenti «nell’Indice della Biblioteca dei padri gesuiti di Perugia, […] che con nostro sommo dispiacere si saranno smarriti, o rimarranno altrove nascosti» (I, p. 361). Il patrimonio (a stampa e manoscritto) della libreria del Collegio dei Gesuiti di Perugia venne ceduto nel 1774 al comune e dunque fatto confluire nel fondo della Biblioteca Augusta, dove però le lettere di Crispolti risultano assenti. Per la biografia di

111 Manca purtroppo la lettera con la quale Crispolti invitò il suo destinatario a partecipare al sodalizio, ma non manca fortunatamente il ringraziamento di Zucchi per tale prestigioso conferimento:

E nel vero, io non saprei ben dire se, letta la lettera di lei, restassi con maggior rossore in viso che con consolatione nel cuore, veggendomi improvisamente chiamato a luogo così illustre e riguardevole senza miei precedenti meriti. […] Ma poiché la bontà di V.S. mi assicura, io non permetterò che quella mi esca de l’animo. […] L’esser ricevuto in nobilissima academia reca altrui honore e obbligatione, ma l’esservi io così prontamente accettato, con universale appl[a]uso, com’ella scrive, e senza mia richiesta, mi accresce amendue in infinito.96

Crispolti aveva scritto a Bartolomeo Zucchi senza che questi avesse manifestato il desiderio di essere associato agli Insensati. Forse il perugino era rimasto ben impressionato dalle qualità del giovane, lodato con generose parole dall’amico comune Girolamo Della Rovere; ma più probabilmente il suo interesse verso il monzese nacque in virtù degli illustri contatti che il segretario Zucchi poteva vantare nell’ambiente ecclesiastico romano.97 Nella sua lettera di risposta al monzese, Crispolti gli intimava di

Zucchi si veda G. MARIMONTI, Memorie storiche della città di Monza, compilate sull’opera del canonico Anton Francesco Frisi e continuate dal professor dottor G.M., Monza, tipografia di Luca Corbetta, 1841, pp. 275-278; per la sua attività di letterato e segretario, si rimanda al recente volume di G. BARUCCI, Le solite scuse. Un genere epistolare del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 18, 37-38, 49-50, 53-54, 82-83, 89-90, 92-92, 95, 100, 102-103, 140, 149-151. 96 Lettera a Cesare Crispolti, Roma, 15 maggio 1596, in ZUCCHI, Lettere di B.Z. da Monza, cit., parte II, cc. 30v-32r: 31r. I contatti con gli Insensati non si esauriscono con la lettera appena citata: nella raccolta si leggono infatti altre due missive indirizzate a Crispolti (cc. 36r-v; 89v), una a Fulvio Mariottelli (cc. 22r-v), una a Vincenzo «Palutari» [ossia Palettari] (cc. 41r-v), ed una all’accademia perugina (cc. 99v-100r), di cui si offre una sintesi. Avendo spedito agli Insensati un suo volume, che non è stato possibile identificare, Zucchi decise di scrivere loro per spiegare il suo gesto all’apparenza sfrontato: considerava infatti un «grosso fallo» la possibilità che il libro raggiungesse l’accademia per altre vie (c. 99v). Delle altre lettere, la più significativa è quella spedita a Palettari (Roma, 6 luglio 1596) dove è contenuta una sincera celebrazione dell’amicizia accademica. Incoraggiando il destinatario a spedirgli le sue opere, Zucchi commentava: «io non voglio con questa occasione darmi a lei per amico, perché essendo io tutto di cotesta illustrissima academia, penso d’esser etiandio di tutti i signori academici amico e servidore, senz’altri termini di complimento, non necessari dove la virtù ha congiunti gli animi, come l’humanità ha uniti i nomi, ma la ringratio ben de la stima, ch’ella fa, de la persona mia» (c. 41v). 97 Risulta problematica l’identificazione del «perugino» Girolamo Della Rovere, ricordato anche da Vincioli nel solito elenco di Insensati (I, p. 160), che non può essere l’omonimo cardinale, nato a Torino nel 1530 e deceduto a Roma nel 1592. Si sa però che apparteneva alla famiglia Della Rovere, come si evince una lettera dello stesso Zucchi, inviata a Girolamo, per congratularsi della nomina del parente a cardinale: «di questo accrescimento con lei io

112 non esser così modesto e di accettare le giuste lodi tributategli da Della Rovere, perché «se punto potrà l’academia nostra contro ’l tempo e contro la morte, io non dubito che ’l potrà per mezo di Vostra Signoria, il che so ch’ella desidera, non essendo tanto Insensata, che non desideri così grande bene».98 Come dimostra lo scambio epistolare con Zucchi, gli Insensati orientavano non di rado le loro trame relazionali in direzione di Roma, non rinunciando quindi al tentativo di ritagliarsi un ruolo nel centro dello stato pontificio. Il primo contatto con i personaggi nati nella capitale, o comunque a lungo gravitanti su Roma, avveniva però assai più di frequente ancora a Perugia. Qui i giovani rampolli di diverse case nobiliari italiane venivano ad addottorarsi (di preferenza, come già ricordato, in utroque iure) e gli alti prelati erano chiamati a svolgere incarichi di governo.99 È il caso per esempio dei romani Melchiorre Crescenzi e Paolo Mancini, del genovese Gasparo Murtola e del cremonese Girolamo Vidoni, studenti all’università di Perugia, oppure di Carlo Conti e di Silvio Savelli, a capo, in tempi diversi, dell’amministrazione della Provincia umbra.100

mi rallegro con ogni affetto, persuadendomi che se bene quanto al sangue questo signore non le attiene, essendo egli però de la medesima famiglia, ella gli habbia particolarmente divotione» (Lettera a Girolamo Della Rovere, Roma, 7 dicembre 1586, in ZUCCHI, Lettere di B.Z. da Monza, cit., parte I, cc. 17v-18r: 18r). 98 Lettera a Bartolomeo Zucchi, Roma, 24 maggio 1596, in B. ZUCCHI, L’idea del segretario dal signore B.Z. da Monza Academico Insensato di Perugia rappresentata e in un ‘Trattato de l’imitatione’ e ne le lettere di principi e d’altri signori, in Vinetia, presso la Compagnia Minima, 1600, parte II, p. 310. Nella medesima raccolta epistolare, definita da Barucci «opera capitale e fondamentale» (Le solite scuse, cit., p. 37), si devono a Crispolti altre due lettere; una prima, indirizzata a Girolamo Della Rovere, in cui egli annunciava la conferma della nomina ad Insensati sua e di Zucchi (p. 309) ed una seconda, in cui di nuovo Crispolti rimproverava amorevolmente Zucchi, colpevole di celare i suoi grandi meriti, anche quando la «modestia» contraddice la «verità» (pp. 310-311). 99 Ancora per tutto il Cinquecento e l’inizio del Seicento era forte il prestigio dello Studio perugino che attirava in primo luogo uomini di Chiesa e futuri funzionari della macchina amministrativa pontificia. Sull’Università di Perugia si vedano G. ERMINI, Storia dell’Università di Perugia, Firenze, Olschki, 1971 e gli interventi contenuti in Doctores excellentissimi: giuristi, medici, filosofi e teologi dell'Università di Perugia (secoli XIV-XIX). Mostra documentaria, Perugia 20 maggio-15 giugno 2003, a c. di C. FROVA, G. GIUBBINI, M.A. PANZANELLI FRATONI, Città di Castello (PG), Edimond, 2003. 100 Sull’iscrizione di Crescenzi, Mancini e Murtola all’università perugina, si veda L. MARCONI, Studenti a Perugia. La Matricola degli scolari forestieri (1511-1723), con R. ABBONDANZA e A. BARTOLI LANGELI, Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2009, pp. 51, 53, 56 e 263. Non è registrata nel medesimo libro la partecipazione allo Studio di Girolamo Vidoni, che è comunque attestata in L. CARDELLA, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa […]. Tomo sesto, in Roma, nella Stamperia Pagliarini, 1793, pp. 267-269: 267. Conti fu governatore dal gennaio 1594 al maggio 1595, Savelli fu cardinale legato dal novembre 1597 al marzo 1599 (Legati e governatori, cit., p. 330).

113 Nella seconda fase della vita dell’accademia, i contatti tra questa e gli alti funzionari pontifici si intensificarono sensibilmente. A testimoniarlo sono in primo luogo i titoli e i frontespizi delle lezioni che non lesinano dettagli intorno all’occasione della recita e al pubblico degli astanti. Con la formula «alla presenza di», o più semplicemente con il solo aggettivo «presente», erano di volta in volta omaggiati i monsignori, vescovi, governatori e cardinali che assistevano alle esercitazioni accademiche. Le personalità ricordate nelle lezioni manoscritte corrispondono con precisione ai nomi degli amministratori che si succedettero al governo della Provincia dell’Umbria, essendo proprio i legati e i governatori pontifici i primi destinatari degli ossequi dell’accademia. Non di rado, questi avevano poi un ruolo attivo nel sodalizio, dove ricoprirono incarichi diversi: i già citati Carlo Conti e Silvio Savelli ed il cardinale Bonifacio Bevilacqua furono principi degli Insensati; quest’ultimo fu anche protettore dell’accademia insieme con Carlo Emanuele Pio di Savoia.101 In rari casi, l’influenza dei funzionari del papa si spinse fino a formulare esplicite richieste, alle quali gli altri accademici certo non potevano opporsi. Così avvenne per esempio in occasione del «passaggio della corte papale per l’Umbria» di ritorno da Ferrara, quando Leandro Bovarini venne invitato a comporre un’orazione «per comandamento dell’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale Savello» (4).102 Non deve stupire, né deve essere caricata di troppi significati l’ingerenza – certamente esercitata con la giusta grazia – da parte della gerarchia ecclesiastica nell’orientare la produzione accademica. Non è nemmeno noto in realtà se il comando di Savelli giungesse a Bovarini in

101 Bevilacqua fu legato di Perugia dal 1600 al 1606 (Legati e governatori, cit., p. 330), Pio di Savoia entrò in accademia dopo il 1604. Negli scritti degli Insensati il suo nome è infatti sempre accompagnato dal titolo di cardinale; titolo che egli ottenne, diciannovenne, il 9 giugno del 1604 da papa Clemente VIII. Per la biografia di Pio di Savoia si rimanda all’opera erudita di CARDELLA, Memorie storiche de’ cardinali […]. Tomo sesto, cit., pp. 115-118 e alla monografia di P.G. BARONI, Un cardinale del Seicento. Carlo Emanuele Pio di Savoia, Bologna, Ponte Nuovo, 1969. 102 D. DEGLI ODDI, All’illustrissimo e reverendissimo signor mio padrone colendissimo, il signor cardinale di Santa Cicilia, in L. BOVARINI, Del silentio opportuno, oratione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato, fatta da esso nel passaggio della corte papale per l’Umbria […], in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603, pp. 3-5. Considerata la morte di Savelli nel 1599 e il periodo della sua legazione (tra 1597 e 1599) è assai probabile che la lezione dovesse essere stata preparata per il novembre del 1598, in occasione del ritorno a Roma di Clemente VIII dal lungo soggiorno ferrarese (A. BORROMEO, Clemente VIII, in Enciclopedia dei papi, Roma, Istituto della Encliclopedia Italiana, 2000, III, pp. 249-269: 256).

114 qualità di principe dell’accademia o di legato della Provincia.103 Tuttavia, renderlo pubblico significava anche inserirlo nel galante rito accademico, all’interno del quale, come si è già osservato, era talora necessario un qualsivoglia stratagemma (come l’obbedienza al principe o il rispetto per le leggi) per giustificare la recita di una lezione o la composizione di una lirica encomiastica. Analogamente, nemmeno nelle lezioni inedite sembra emergere alcuna malcelata o serpeggiante ostilità fra gli accademici e le autorità pontificie. Ipotizzare il contrario sarebbe in fondo alquanto improbabile, se si considera in primo luogo la composizione stessa del sodalizio degli Insensati, frequentato perlopiù da studiosi di diritto divenuti poi giuristi o appunto uomini di chiesa: cardinali, vescovi, chierici di camera, abati, canonici e sacerdoti costituivano una componente alquanto numerosa all’interno della compagnia accademica. Era pertanto quasi inevitabile che nelle relazioni tra i soci del sodalizio potessero intervenire i rapporti di forza in vigore al di fuori del contesto accademico: nondimeno, non ci sono ragioni per ritenere che l’azione dagli alti prelati fosse considerata con fastidio dagli altri soci. Al contrario, si può sostenere che l’accademia, consapevole della decisiva importanza di non destare i sospetti degli alti funzionari del papa, cercò invece insistentemente di guadagnarsi la loro approvazione.104 La promozione dell’accademia e la sua tutela non furono i soli indirizzi cui si rivolse l’azione del suo leader. Come già emerso nell’orazione di Mariottelli, l’impegno di Crispolti si diresse a perpetuare il ricordo dell’accademia oltre la propria morte: egli capì per primo l’esigenza di tramandarne in forma scritta la memoria. A tal fine, come si legge nei suoi

103 «Ma voi, illustrissimo Savello, prudentissimo legato di questa provincia, che con somma pietà e providentia governate felicissimamente i popoli e questa città, e l’academia nostra reggete, perché più tosto havete voluto favorir me de’ vostri comandamenti, che tanti altri più degni e a me di gran lunga superiori?» (BOVARINI, Del silentio opportuno, cit., p. 9). 104 È lo stesso Crispolti a raccontare nel Libro decimo dello scioglimento dell’Accademia degli Unisoni, imposto dal «cardinale d’Urbino», al tempo legato di Perugia e dell’Umbria. Secondo lo storico perugino, la decisione, «presa sotto gravi pene» da Giulio Feltrio Della Rovere, era il risultato delle male voci messe in circolo da «alcuni maligni e invidiosi che hebbero repulsa d’entrare in quel numero eletto» (c. 355v). L’episodio è senz’altro da porsi tra il 1561, anno della fondazione dell’accademia, e il 1566, ultimo anno della legazione di Della Rovere (Legati e governatori, cit., p. 327; sul cardinale si veda M. SANFILIPPO, Della Rovere, Giulio Feltrio, DBI, 37, 1989, ad vocem).

115 due testamenti, Crispolti aveva lasciato agli Insensati «tres libros in foglio» in cui aveva copiato di sua mano un corpus di «lectiones selectas, materna lingua compositas, quej a variis accademicis diversis temporibus magno cum applauso recitatej fuerunt». 105 Questi tre volumi di lezioni manoscritte corrispondono ai codici 1058, 1059 e 1060 della Biblioteca Augusta di Perugia e sono da considerarsi come il canone accademico per eccellenza della storia degli Insensati. L’intenzione di Crispolti, che sentiva con grande responsabilità il suo ruolo di guida del consesso, era di raggruppare insieme le migliori lezioni accademiche (sue e degli altri membri) e di proporle come ‘memoria ufficiale’ dell’attività accademica; una micro-tradizione che si chiude – e non è certo un caso – proprio con l’orazione di Mariottelli, il congedo, o meglio il passo d’addio alle aspirazioni di Crispolti. Nei due testamenti redatti nel 1606 e nel 1608, si fa riferimento anche ad un «alium librum in foglio», in cui sono contenute «lectiones vel orationes latinas selectas». Questo codice è oggi perduto, ma resta ugualmente importante la testimonianza di un sistematico impegno che si rivolse anche al latino. Nonostante siano in realtà poche le composizioni latine giunte sino a noi, la presenza tra i membri accademici di Marco Antonio Bonciari, Orazio Cardaneti, Giovan Battista Lauri ed Aurelio Orsi non può non aver almeno parzialmente condizionato le scelte linguistiche compiute nel sodalizio.106 Non sarà forse un caso allora che l’unica stampa collettiva sotto l’egida degli Insensati sia una raccolta di liriche latine, gli Academicorum Insensatorum carmina del 1606, la quale anticipa di quasi un

105 Appendice I. Testamenti, cit., p. 256. 106 Come ulteriormente provato anche dalla lettera già citata di Crispolti a Bonciari, nella quale l’umanista era incoraggiato a venire in accademia per recitare qualche suo epigramma in lode del Governatore pontificio (trascritta in PATRIZI, La trattatistica educativa tra Rinascimento e Controriforma, cit., p. 112). Bonciari è senz’altro uno degli accademici più celebri, nonostante non siano in realtà numerosi gli studi su di lui: MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, cit., vol. II, parte III, 1762, pp. 1571-1577; VERMIGLIOLI, I, pp. 221-239; R. NEGRI, Bonciari (Bonciario, Bonciarius), Marco Antonio, DBI, 11, 1969, ad vocem; GABRIJELCIC, Alle origini del Seminario di Perugia, cit., pp. 128-141. Sul suo allievo Giovan Battista Lauri, si veda VERMIGLIOLI, II, pp. 61-66. Su Cardaneti, autore di un volgarizzamento del Laelius de amicitia (Dialogo di Cicerone dell’amicitia […], in Firenze, per Lorenzo Torrentino, 1559): VERMIGLIOLI, I, pp. 274-280; C. MUTINI, Cardaneti, Orazio, DBI, 19, 1976, ad vocem.

116 secolo la successiva miscellanea di poesie degli Insensati, dal titolo I Capricci poetici, che apparve a stampa soltanto nel 1698.107 A partire dai primissimi anni ’90 del Cinquecento, le pubblicazioni in volgare degli accademici, considerando anche le ristampe delle fortunate opere di Filippo Massini e Sforza Oddi, si susseguirono con una certa regolarità, a dimostrazione che il rapporto con la stampa si era fatto evidentemente più immediato rispetto alla stagione precedente.108 Tale consapevolezza indusse Crispolti ad imporre un freno alla facilità degli Insensati nel cedere alle lusinghe della stampa. Egli accolse allora con entusiasmo l’opera del 1597 di Fulvio Mariottelli dall’eloquente titolo di Invettiva […] recitata per dimostrare che non sia bene lo stampar le compositioni academiche. Dimostrandosi non solo promotore e depositario della memoria dell’accademia, ma anche vigile censore della sua attività, Crispolti premise una lettera all’Invettiva, nella quale rivendicava il proprio impegno a sorvegliare tutto quanto potesse «nuocere a la buona fama de gli Insensati» (n.n.).109 Insieme con Mariottelli si scagliava contro la pretesa di alcuni soci di stampare le composizione accademiche, una decisione ambiziosa e sciagurata, che portava con sé soltanto danno e disonore. «Forse sperate di poter superar gli antichi?», domandava con aria di sfida Crispolti, convinto che i celebri esempi del passato (classico) non potessero essere sopravanzati (n.n.). 110 Aggiungeva poi che gli stessi «huomini

107 A. ORSI, M. BARBERINI, CL. CONTOLI, G.B. LAURI, V. PALETTARI, M.A. BONCIARI, Academicorum Insensatorum carmina. Ad Illustrissimum ac reverendissimum Carolum Emmanuelem Pium Sanctae Romanae Ecclesiae cardinalem amplissimum, Caesare Crispolto canonico et utroque iure consulto academiae principe, Perusiae, apud Academicos Augustos, [1606]; Capricci poetici di diversi autori perugini ascritti all’augustissima Accademia degl’Insensati. Raccolti da Francesco degli Oddi, Accademico Insensato, e da esso consecrati all’eminentissimo e reverendissimo cardinal Durazzo, in Perugia, per Costantini, 1698. 108 Si rimanda ad Appendice II. 109 [F. MARIOTTELLI], Invettiva del Sommerso Insensato agli Academici Insensati di Perugia. Recitata per dimostrare che non sia bene lo stampar le compositioni academiche […], in Perugia, appresso Vincentio Colombara erede d’Andrea Bresciano, 1597. Alfredo Serrai ne dà una breve sintesi nel capitolo Fulvio Mariottelli, cit., pp. 238n-239n. Nel caso dell’Invettiva, non è possibile in alcun modo ricostruire la cartulazione originaria: sia perché sono tagliati i margini delle pagine, sia perché l’esemplare consultato è mutilo di alcune carte (Roma, Biblioteca Angelica, coll. C.5.43/21). L’Invettiva viene presa di nuovo in esame in § IV.4.4. 110 Ad un secolo di distanza dall’Invettiva, questo generale atteggiamento di ritrosia degli Insensati nei confronti della stampa fu mal tollerato da Francesco degli Oddi, responsabile della pubblicazione dei Capricci poetici: «Le gru insensate, guernite di penne coraggiose, anche col peso delle armi, o degli studi più gravi, volarono sempre mai spedite per lo cielo

117 singolari» impegnatisi nelle stampe erano in realtà stati costretti o mossi dalla necessità. Per dare forza a questa dichiarazione, Crispolti, ricorrendo peraltro a proposte di natura topica, esponeva i casi di alcuni soci Insensati i quali avevano subito il furto delle proprie carte e assistito impotenti alla pubblicazione delle loro opere pur contro le loro intenzioni. In questo elenco figurano gli autori più rappresentativi dell’accademia (Cesare Caporali, Sforza Oddi, Filippo Massini, Aurelio Orsi, Filippo Alberti), accanto ad altri oggi certamente meno noti (Vinciolo Vincioli, Enea Baldeschi, Vespasiano Crispolti ed Ascanio Paolucci, cognato di Cesare).111 L’opera di controllo da parte delle personalità più influenti dell’accademia evidentemente si fondava sul presupposto che le composizioni in questione fossero almeno in parte dovute alla stessa accademia. Quale che fosse l’intenzione di sincerità degli avvertimenti di Crispolti e di Mariottelli,112 questi non sortirono alcun effetto, dato che nello stesso 1597 vennero stampate le già citate Conclusioni diverse di don Ventura Venturi da Siena.113 Le trentotto dichiarazioni elaborate da Venturi riassumono con estrema brevità, a mo’ di compendio, gli esiti di alcune delle principali dispute filosofico-letterarie della seconda metà del Cinquecento. Il principale obiettivo polemico di Venturi sono le tesi di Francesco Patrizi, espressamente prese di mira nella più ampia terza parte, proseguimento della seconda, intitolata «della poetica». Qui sono illustrate le caratteristiche del «poema epico», migliore quando «imita un’attione sola» e quando il suo

della gloria, portando a i liti più strani la rinomanza della nostra famosa accademia: ma insieme, o siasi stata modestia troppo guardinga, o magnanimo rifiuto, in gran parte occultarono alla pubblica luce i loro nobilissimi parti. Pur nondimeno, perché questi non giacciano del tutto nascosi; io […] ho intrapreso a recarne alcun saggio alle stampe» (cc. A4r-v). 111 Data la sua importanza, in Appendice II è offerta una trascrizione del presente passaggio. 112 I quali, comunque, si mantennero moderatamente fedeli a quanto sostenuto nell’Invettiva. Mariottelli fu tuttavia meno restio di Crispolti alla stampa: durante la sua vita pubblicò oltre all’Invettiva e al Ragguaglio, già menzionati, anche la Neopaedia sive nova, aut inexplicata hucusque in discendis atque docendis methodi ratio […], Romae, typis Iacobi Mascardi, 1624. Nell’elenco delle sue opere stilato da Vermiglioli (II, pp. 81-82), viene poi ricordato un inedito Esame delle imprese secondo le dottrine di Aristotele per l’impresa degli Accademici Insensati, di grande interesse per lo studio dell’accademia, ad oggi non rintracciato. 113 V. VENTURI, Conclusioni diverse di don V.V. da Siena, Academico Insensato detto il Velato, le quali si disputeranno in publica academia de gl’Insensati, sotto il felice reggimento dell’illustre signor Cesare Crispolti, li e li [sic] di agosto 1597, hore [ _ ], in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1597.

118 soggetto è l’«historia alterata e abbellita con favole» (B1r). Venturi mostrava la propria preferenza verso Tasso, più votato di Ariosto al rispetto dei precetti aristotelici, in particolare verso il suo «poema nuovo», la Conquistata, «più perfettionato secondo le leggi dell’epica poesia che il vecchio», cioè la Liberata (B1v). Stabiliva poi che «il vero genere della poesia è l’imitatione», distingueva tra l’«art’historica», che narra «le cose occorse e vere», e la «poetica», che illustra «le verisimili, quelle che possono essere o che parono»: produceva ogni sforzo insomma nel difendere Aristotele, nella ferma convinzione che «i principii insegnatici […] nella sua Poetica sono proprii e bastanti ad insegnarci l’arte della poesia» (B2r)-[B3r]. La prima parte dell’opera è invece destinata alla definizione della «virtù morale», che è un «habito per il quale si moderano […] le passioni e perturbationi dell’huomo» [A3v]. Segue la difficoltosa distinzione tra questa e la «virtù heroica», con la quale si intende il «supremo grado delle altre virtù» che mutano il destino del singolo individuo da semplice uomo ad «heroe» [A4r]. Se confrontate con quelle più antiche del Traviato Insensato, queste Conclusioni rivelano una maggior coesione nel trattamento della materia, indagata con maturità e sicurezza: le affermazioni di Venturi prediligono la forma chiusa della sentenza definitiva, lasciando meno spazio a dubbi da risolvere. La pubblicazione delle Conclusioni presuppone ancora, con buone probabilità, una circolazione estremamente ridotta; la piena fruizione dell’opera risulta infatti piuttosto difficoltosa fuori della mediazione orale dei suoi destinatari ideali, gli stessi Insensati. Una diffusione ben più vasta interessava invece le raccolte poetiche degli accademici. Sul fronte della poesia lirica, si distinguono piuttosto chiaramente due diversi indirizzi: Filippo Massini e Gasparo Murtola si cimentarono per lo più nella forma breve del madrigale; Filippo Alberti e Leandro Bovarini furono autori di due raccolte ben più impegnative, pubblicate entrambe nel 1602.114

114 [F. MASSINI], Lucherino, madrigali dell’Estatico e Farnetico Academici Intenti. All’illustrissimo signor Lodovico abbate Sforza, in Pavia, per gli heredi di Gierolamo Bartoli, 1599; G. MURTOLA, Gli occhi d’Argo. Cento madrigali del signor G.M., detto lo Scioperato nella Academia dell’Insensati e consigliero trionfante nello Studio di Perugia […], in Perugia, per Vincentio Colombara, 1599; G. MURTOLA, Dei lirici del signor G.M., detto lo Scioperato Insensato. Parte prima e seconda. All’illustrissimo e reverendissimo signor, monsignor

119 Nel dedicare le Rime di quest’ultimo al marchese Alfonso d’Este, l’Insensato Tommaso Giglioli ricordava i suoi numerosi tentativi di convincere il loro autore, in genere assai restio, a pubblicarle. Le composizioni di Bovarini giacevano ancora «nell’immeritate tenebre», dove lui stesso le aveva relegate, indottovi dalla sua «modestia» (†2v). 115 Forse in ossequio agli avvertimenti di Mariottelli e Crispolti, egli «risospingeva» continuamente le ragioni addotte da Giglioli, almeno finché non gli fu svelato l’illustre dedicatario della stampa. Non appena Bovarini ebbe udito il nome di Alfonso d’Este, cedette ed autorizzò la pubblicazione delle sue liriche, con risoluzione immediata dell’impasse. Minor cerimonia ma maggiori aspettative accompagnarono invece la stampa delle Rime di Alberti. Lo stesso Crispolti fiutò distintamente le qualità della produzione dell’amico poeta e nella breve dedica ad Ascanio della Cornia Jr., «meritissimo principe della nostra academia», spiegò le ragioni che lo avevano indotto a favorirne la pubblicazione, in evidente contraddizione con le sue stesse raccomandazioni di pochi anni prima (5):

Melchiorre Crescentio, chierico di camera. Di nuovo posti in luce, in Venetia, ad instanza di Gasparo Ruspa, 1601; ALBERTI, Rime, cit.; BOVARINI, Rime, cit. Sempre come «Estatico Insensato» Massini pubblicò la sua raccolta di Rime nel 1609 (se ne parlerà più diffusamente in apertura del prossimo capitolo: § III.1). Per le opere poetiche minori di Massini, Murtola e Alberti, si veda poi Appendice II. Può stupire, nell’elenco qui proposto, l’assenza della produzione lirica dell’Insensato Cesare Caporali, forse il più noto poeta perugino del Cinquecento. La ragione sta nella tarda cronologia delle opere in cui Caporali si presenta come Accademico Insensato: la Vita di Mecenate (in Venezia, presso Gio. Battista Strozzi) e la ristampa della Vita e degli Horti di Cesare Caporali nell’Academia delli Insensati di Perugia detto lo Stemperato […], in Parma, nella stamperia d'Erasmo Viotti) datano entrambe 1604 e sono quindi postume. Nella precedente e fortunata serie di Rime piacevoli, la cui editio princeps, pur con qualche margine d’incertezza, dovrebbe essere la Raccolta d’alcune piacevoli rime (in Parma, per gli heredi di Seth Viotto) del 1582, Caporali non compare mai col titolo o col nome di Insensato. Ciò non deve portare a mettere in dubbio la sua presenza nel sodalizio, bensì a ritenere la raccolta del 1604 come un’appropriazione tarda da parte dell’accademia della produzione letteraria di Caporali non per forza rispondente alle volontà del poeta perugino (si veda l’elenco in Appendice II). Per il catalogo delle rime di Caporali bisogna ancora far riferimento a quello stilato da Vincenzo Cavallucci in C. CAPORALI, Rime di C.C. perugino, diligentemente corrette, colle osservazioni di Carlo Caporali […], in Perugia, nella stamperia Augusta di Mario Riginaldi, 1770, pp. XL-XLIV. Per ulteriori considerazioni sulla presenza di Caporali in accademia, si veda § III.5. 115 G.T. GIGLIOLI, All’illustrissimo ed eccellentissimo signor patron mio colendissimo, il signor marchese don Alfonso d’Este, in BOVARINI, Rime, cit., cc. †2r-†4r. L’episodio era ricordato nella dedicatoria alla lezione Del tempo di Bovarini, dove era menzionata la «resistenza» che egli aveva opposto a Giglioli in occasione della stampa della sua raccolta poetica (C. ALESSI, All’illustrissimo ed eccellentissimo signor e padron mio colendissimo, il signor marchese don Alfonso d’Este, in L. BOVARINI, Del tempo, lettione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato di Perugia […], in Perugia, per Vincenzo Colombara, 1603, pp. 3-6). Nelle altre dediche anteposte alle cinque lezioni delle Prose, era nuovamente testimoniato il riserbo quasi scontroso con il quale Bovarini accoglieva la richiesta di una loro pubblicazione.

120 Ho preso risolutione di far mettere alle stampe le Rime di Filippo Alberti, nostro academico, per adempire l’obligo e il carico ch’io sosteneva quando con questa intentione le raccolsi, sendomi parse veramente degne di vita, per l’honorato giudicio ch[e] ne hanno fatto i primi huomini che habbiano poetato in questa lingua nell’età nostra.116 (3-4)

Si esponeva dunque senza remore Crispolti per omaggiare le Rime di Alberti e rivendicarle quale opera ispirata dall’accademia, indotto a ciò per via di quell’«honorato giudicio» che altri letterati avevano accordato allo stesso Alberti. Il riferimento è probabilmente da intendersi allo scambio di sonetti avuto da quest’ultimo con Torquato Tasso, il quale, nel gennaio del 1588, aveva scritto una lettera al perugino per esprimergli la sua vicinanza per il periodo di prigionia che Alberti stava scontando.117 Tasso chiudeva la sua missiva esaudendo la richiesta di risposta al sonetto di Alberti, «acciocché V.S. conosca quanto sia agevol cosa il superare un poeta già invecchiato nelle miserie», ed allegando il componimento Fu giovanil, ma glorioso ardire in risposta al sonetto Tasso, membrando io vo’, che ’l folle ardire.118 Inoltre Crispolti certo non ignorava il potenziale valore “promozionale” della raccolta di Alberti, che – come si è già osservato nello scorso capitolo – celebra, accanto agli accademici, i potenti e gli uomini politici più in vista del tempo. Al pari di numerose altre pubblicazioni degli Insensati, anche le Rime sono dedicate ad Ascanio II della Cornia, figlio di Diomede e di Porzia Colonna di Zagarolo. Benché non più al centro delle vicende militari e politiche statali, come furono al tempo di Ascanio I e del cardinale Fulvio Giulio, i della Cornia mantennero comunque pressoché intatto il loro prestigio, quantomeno in ambito locale. Il feudo elevato al rango di marchesato nel 1563, il palazzo affrescato e la piccola corte di Castiglione del Lago, dove gravitavano tra gli altri Caporali ed il segretario

116 C. CRISPOLTI, All’illustrissimo ed eccellentissimo signor e patrone colendissimo il signor Ascanio della Cornia marchese di Castiglione ecc., in ALBERTI, Rime, cit., pp. 3-6. 117 Lettera a Filippo Alberti, Roma, 9 gennaio 1588, in T. TASSO, Lettere inedite, poste insieme dall’abate Pier’Antonio Serassi, Pisa, presso Niccolò Capurro, 1827, p. 145. La circostanza della prigionia di Alberti sarebbe altrimenti ignota. I due letterati si conobbero certamente di persona: Alberti ricordava le conversazioni letterarie, nella fattispecie in merito a Coppetta, avute con Tasso, «il quale, ragionando meco più volte in Ferrara, pareva che sentisse infinita dolcezza ogn’hora che si ricordava il nome del Coppetta» (Elogi degli huomini illustri di Perugia, di Filippo Alberti, BAP, ms. 1020 [M 43], c. XIVv). 118 ALBERTI, Rime, cit., pp. 61, 91.

121 Tolomei, rendevano la loro presenza nel contado perugino ben più tangibile di quella papale, quasi del tutto inavvicinabile. Perciò la morte di Ascanio II nel 1605 venne solennemente commemorata dagli Insensati, i quali offrirono al figlio Fulvio un’orazione in ricordo del padre. Fu Tommaso Giglioli, noto in accademia col nome di Distratto, a comporre il Discorso in forma di panegirico, dove celebrò Ascanio quale altissimo esempio di tutte le virtù civili e militari. 119 Nell’esordio l’autore si giustificava per aver omaggiato il defunto con un discorso invece che col silenzio. Nonostante «il parlare» rischiasse di rinnovare le lacrime, poteva però anche «mutare il torbido e men composto in dolce e serenissima tranquillità, a guisa di medico che hora inasprisce, hora addolcisce la piaga per risaldarla affatto» (7). L’inevitabile accumularsi di topoi spesso desueti non fiacca per nulla lo scorrere elegante della prosa di Giglioli; essi diventano anzi di volta in volta occasione efficace per commemorare il defunto, la sua stirpe e il «vincolo» stretto con accademia. Questa infatti, pur avendo accolto Ascanio quale «figlio e parte di lei» per via del suo grande valore, subito «lo elesse quasi per padre, conferendogli il sommo carico del prencipato» (8).120 Il culmine dell’orazione viene raggiunto dall’apoteosi finale di della Cornia, accolto in cielo, nel «vero paradiso della visione celeste», dove potrà godere della «luce scambievole» di cui si nutrono vicendevolmente le anime (39). L’anno dopo aver accompagnato nell’accademia divina l’anima di Ascanio, gli Insensati diedero alle stampe la raccolta di Carmina latini, che rappresenta probabilmente il punto più alto delle trame relazionali intessute da Crispolti. Non per caso il suo nome, benché egli non sia tra gli

119 [G.T. GIGLIOLI], Discorso accademico in forma di panegirico, fatto e recitato in publica Academia degl’Insensati, alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale Bevilacqua, legato di Perugia e dell’Umbria, dal Distratto Academico Insensato. Nella morte dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio marchese della Corgna […], in Perugia, appresso gli Accademici Augusti, 1605. 120 Della Cornia non mancò in realtà di manifestare le sue perplessità e di rifiutare l’incarico in più di un’occasione: «il principato di cotesta nobil accademia sta poco bene a chi non fa continua residenza in Perugia […]. Per questo e per la debolezza mia, io lo rifiutai da principio e havendolo poi accettato per creanza di non abusar la cortese offerta delle Ss. Vv. l’ho sempre con rimordimento tenuto. Mi si è poi aumentato lo scrupolo per la morte del signor vice principe e per l’assenza da me più lungamente disegnata, però, anteponendo io il publico beneficio al mio privato interesse, rinuntio il grado nelle lor mani, pregandole che con nuova elettione provedano all’indennità loro» (Rinuntia d’uffitio. Lettera agli Accademici Insensati, Castiglione del Lago (Pg), [s.d.], in TOLOMEI, Lettere, cit., p. 644).

122 autori dei componimenti, compare direttamente nel frontespizio, dove per l’ultima volta rivendica la sua esperienza di leader dell’accademia: «Cesare Crispolto canonico et utroque iure consulto academiae principe». Il che conferma una volta di più la volontà del perugino di fare del sodalizio una cosa di sua proprietà, risultato che egli mise in atto per tempo e che realizzò grazie al suo impegno (nel cercare nuovi membri, nell’allacciare nuovi rapporti, e così via) e alla sua, forse non del tutto disinteressata, disponibilità a sostenetere materialmente il sodalizio (per esempio, trasferendo nella sua stessa dimora cittadina la sede dell’accademia). La raccolta di oltre duecento pagine comprende un alto numero di componimenti, perlopiù epigrammi, ed è incentrata intorno al nome di Aurelio Orsi, il quale però nel 1606 era già deceduto da circa quindici anni. Non sarà perciò infondato riconoscere quali veri destinatari di quest’opera postuma il cardinale Pio di Savoia, cui è dedicato il volume, oppure Maffeo Barberini, presente nella raccolta con alcuni carmina, che guardava ad Orsi quale modello di poesia epigrammatica latina, in quanto Orsi stesso gli era stato maestro.121 Accanto ad Orsi, a Barberini e a Melchiorre Crescenzi,122 gli altri autori dei componimenti sono i perugini Claudio Contoli, Giovan Battista Lauri, Vincenzo Palettari e Marco Antonio Bonciari. Con le composizioni latine, che presentano per larga parte materiale già edito, si compie e insieme si conclude la seconda stagione dell’accademia. Al cospetto di una produzione manoscritta piuttosto omogenea, che sarà analizzata nel quarto capitolo, la bibliografia a stampa degli Insensati appare invece alquanto composita e variegata, contraddistinta da una pluralità di iniziative personali difficilmente riconducibili ad un preciso disegno letterario. Nemmeno le opere dei soci più autorevoli crearono esempi di micro-tradizioni, non rari nel panorama accademico cinque-secentesco. D’altronde la produzione dell’accademia, indirizzandosi verso più generi letterari, ne rispecchia fedelmente la dimensione e missione universalistica e anti-specialistica. Tale varietà, mentre attiva dell’accademia un’immagine vivace ed autorevole, mostrandola in grado di rapportarsi senza complessi

121 Come ha rilevato CARUSO, Poesia umanistica di villa, cit., pp. 286-287. 122 Crescenzi non è nominato nel frontespizio, benché nei Carmina si leggano alcuni suoi epigrammi dedicati ad Orsi (pp. 201-202).

123 di inferiorità con istituzioni e personaggi di maggior prestiglio, non cosentì forse di superare, sul piano pratico, l’indefinitezza del progetto «insensato» avanzato sin dalla prima stagione. In altre parole, la mancanza di un chiaro indirizzo sul piano dell’attività letteraria pubblica (ossia a stampa), in nome dell’orientamento contemplativo dato all’accademia, la privò di un’identità collettiva forte e riconoscibile all’interno di una società letteraria in rapida evoluzione.

124 Capitolo III: La prima stagione dell’Accademia degli Insensati (1561-1590ca.)

III.1 La cronologia, gli accademici, il corpus

Nel precedente capitolo si è illustrata la divisione in due periodi distinti dell’accademia perugina. Il discrimine tra le due fasi è l’azione esercitata sul consesso da parte di Cesare Crispolti, che dai primi anni ’90 del Cinquecento assunse il ruolo di leader degli Insensati.1 Come ogni periodizzazione arbitraria, tale distinzione evidenzia alcuni limiti e sconta il pericolo di possibili contraddizioni o incongruenze.2 Ciononostante, essa risulta ancora efficace a spiegare quella evidente mutazione di prospettiva che emerge dal confronto tra i due periodi. Prima di raggiungere l’apice della sua fama e prima ancora di poter contare tra i propri membri importanti uomini di cultura, forestieri o alti prelati romani, l’Accademia degli Insensati aveva avuto modo di affermarsi quale principale sodalizio cittadino; così che quando Crispolti ne prese il comando, o se si vuole il possesso, trovò un sodalizio ben consolidato, che già poteva vantare circa tre decenni di vita. Trent’anni spesi non invano, evidentemente, se proprio durante questo primo periodo di fondazione e di vita istituzionale l’accademia aveva plasmato un’identità collettiva sufficientemente forte (benché invero poco determinata, quantomeno alla

1 È bene precisare qui una volta per tutte che la funzione guida di Crispolti in accademia non può comunque definirsi tecnicamente ‘principato’. Non venne meno infatti, anche durante la stagione “crispoltiana” dell’accademia, l’alternarsi dei vari membri alla carica di principe, che venne ricoperta, oltre che da Crispolti, anche da altri accademici, in maggioranza prelati. La sua autorità sul consesso aveva dunque una connotazione del tutto informale, essendo piuttosto il risultato del suo grande impegno e senso di responsabilità verso il sodalizio. 2 Risulta in tal senso emblematica la Lettione di Contolo Contoli dell’Accademia degli Insensati, detto lo Insensato, letta da lui […] il dì 20 di novembre 1594 (cit.), recitata presumibilmente all’inizio del «reggimento» di Crispolti. Il soggetto, un sonetto petrarchesco (precisamente Rvf 150), così come i modi dello svolgimento della lettura del componimento e persino l’identità del suo autore fanno pensare ad una dissertazione ancora fortemente legata alla prima stagione del consesso degli Insensati. Contolo Contoli infatti era stato molto attivo nel primo trentennio di vita dell’accademia: la sua lezione risulta allora un frutto tardo dell’attività accademica precedente. Altrettanto complessa dal punto di vista cronologico è la collocazione del manoscritto di imprese degli Insensati conservato nell’Archivio Storico dell’Università di Perugia (se ne discute infra in § III.6).

125 luce della documentazione superstite) da garantirle una duratura stabilità. Questa stagione iniziale degli Insensati, successiva al passaggio – per usare le parole del Cruscante Salviati – dalla «brigata» di amici all’«accademia» di “conformi”, non solo vide la nascita dell’apparato istituzionale dell’accademia, ma si distinse anche per la forte coesione della sua produzione letteraria. Il risultato dell’attività accademica venne affidato in larga parte al supporto manoscritto, mentre alcune prove di maggior impegno trovarono la via della stampa. Più precisamente, la produzione letteraria della prima fase è contenuta nei codici 1407 (fascicoli VIII e XXXIII) e 1717 della Biblioteca Augusta di Perugia, nei manoscritti Petr. I 49, I 50 e I 53 della Biblioteca Civica di Trieste Attilio Hortis e nelle già citate pubblicazioni di Sforza Oddi, di Alessandro Cibi, di Aurelio Orsi, di Giovanni Luigi Lungo e di Filippo Massini.3 Tra le personalità più rappresentative di questa stagione iniziale figura in primo luogo Ottaviano Aureli, lo Svogliato Insensato, che compose ben ventuno lezioni accademiche. Con ogni probabilità fu lui, prima dell’avvento di Crispolti, il punto di riferimento del consesso. Avendo però affidato la sua produzione esclusivamente a carte manoscritte e rinunciando alla stampa, Aureli risulta oggi un autore quasi del tutto ignoto, a ennesima conferma che il mezzo di diffusione della propria opera si rivela determinante per la fortuna del suo artefice. La scarsa notorietà si traduce a sua volta in una grave carenza di notizie sulla sua vita: Vermiglioli conosce soltanto il nome del padre, Claudio Aureli; l’anno della sua morte, il 1599; e la sua sepoltura presso la chiesa dei Gesuiti di Perugia. L’erudito perugino ha però il grande merito di ordinare e restituire il corpus degli scritti di Aureli, che grosso modo corrisponde alle sue lezioni manoscritte ricordate in Appendice I.4 Alle poche informazioni raccolte da Vermiglioli, si può

3 I primi risultati emersi dall’indagine dell’attività letteraria manoscritta durante la prima stagione dell’Accademia degli Insensati sono già stati parzialmente illustrati in L. SACCHINI, Inediti dell'Accademia degli Insensati nella Perugia del secondo Cinquecento, ora in corso di stampa per «Lettere italiane». 4 In aggiunta alle lezioni note, Vermiglioli (I, pp. 73-75) annovera tra le sue opere anche una non più rintracciabile invettiva manoscritta In Pyrram meretricem, presumibilmente forgiata sul modello di HOR. Carm, I, V.

126 soltanto aggiungere la sua professione di notaio, testimoniata dai molti atti rogati a suo nome e conservati nell’Archivio di Stato di Perugia. Pur non potendo vantare la spiccata facilità compositiva di Aureli, Contolo Contoli fu per un lungo periodo presente in accademia, dove recitò almeno sei lezioni.5 Come nel caso di Aureli, le testimonianze sulla sua vita sono limitate, tanto che risultano ignote anche la sua data di nascita e di morte. È noto però che fu anch’egli notaio ed esercitò la sua professione in patria.6 Da ultimo, non si può non menzionare Filippo Massini, letterato e giurista perugino, nato nella città umbra il primo maggio del 1559 ed autore, come già anticipato nel precedente capitolo, di una raccolta di quattro esercitazioni accademiche (le Lettioni appunto) stampate nel 1588 e successivamente di alcune sillogi poetiche.7 Il suo ingresso in accademia coincise o seguì di poco l’ottenimento delle insegne dottorali in utroque iure, nel 1580. Meno di dieci anni più tardi, nel 1588, Massini si allontanò dall’Umbria per proseguire la propria carriera accademica in altre città del centro e nord Italia (Fermo, Pisa, Pavia e Bologna). Nonostante i contatti con il sodalizio degli Insensati rimanessero forti, come testimoniano i numerosi componimenti di scambio con gli accademici presenti nelle Rime del 1609, la sua influenza dovette risultare senz’altro più determinante in questa prima stagione accademica rispetto a quella successiva. A differenza di Aureli e Contoli, Massini non è del tutto ignoto agli studiosi di letteratura italiana: a partire dai contributi di Quinto Marini e di Mirko Volpi, pubblicati nel 2004 nel volume miscellaneo Sul Tesin piantàro i tuoi laureti, il poeta perugino ha

5 Fu attivo dal 1571, anno della sua prima lezione (Lettione dell’Insensato (C.C.) letta publicamente nella academia il dì 5 di luglio 1571, sopra il sonetto del Petrarca ‘Amor io fallo e veggio il mio fallire’, ms. Petr. I 53, cc. *121r-*131r) al 1594, quando recitò la lezione petrarchesca ricordata in nota 2. 6 Anche il volenteroso Vermiglioli dovette arrendersi alla mancanza di testimonianze sulla sua vita, cui dedicò soltanto sei righe (I, p. 337). 7 La principale raccolta di liriche di Massini è rappresentata dalle Rime del 1609, che comprendono le poesie composte dell’autore nell’arco di oltre un ventennio. In coda al suddetto volume si legge una sua raccolta di madrigali, intitolata il Lucherino, la prima volta a stampa nel 1599 (cit.) e di nuovo nel 1603 (in Pavia, appresso Pietro Bartoli). Massini compose altre due sillogi di madrigali: Candore amoroso. Madrigali del signor F.M. l'Estatico Insensato Affidato, stampato nel 1610 sia a Pavia (per Andrea Viani) che a Perugia (nella Stampa Insensata) e, secondo Vermiglioli (II, p. 98), anche a Venezia del 1609 (copia non rintracciata); e Chiaroscuro amoroso. Madrigali del eccellentissimo signor F.M. l’Estatico Insensato, prencipe de gli Affidati, in Pavia, per Pietro Bartoli, nel 1611.

127 goduto di una discreta fortuna negli studi letterari.8 La produzione poetica di Massini, che si accompagna ad un impegno critico non superficiale, dimostra in effetti, rispetto alla media dell’attività degli Insensati, una consapevolezza più matura ed una sensibilità più viva nel rapportarsi con i nuovi orientamenti della lirica cinque-secentesca.

III.2 Le imprese e i nomi accademici: l’identità degli Insensati

Durante la prima stagione dell’accademia, più prossima al momento della fondazione, la produzione letteraria degli Insensati manifesta evidenti caratteri di autoreferenzialità. Del resto, non appena il gruppo di perugini e forestieri si riunì in accademia, ebbe la necessità di autodefinirsi e di autoregolarsi quale entità collettiva e formalizzata. I primi Insensati si mossero perciò alla ricerca di una definizione del consesso e dei suoi fini. Perduto lo statuto degli Insensati, questo laborioso processo è testimoniato da un ampio numero di lezioni presenti nel manoscritto 1717 che illustrano il nome e l’emblema dell’accademia e di alcuni singoli accademici. L’insieme di queste dissertazioni costituisce un filone piuttosto omogeneo, dove l’esplorazione in profondità della comune «insensataggine» diviene un tema topico e variamente trattato. Nell’adespoto Discorso intorno al nome e impresa communi, posto in apertura del suddetto codice, è trattato il duplice svelamento del significato

8 Il primo recupero è avvenuto in realtà già nel 1986 grazie a Giuseppe Fanelli, che curò l’edizione della lezione dell’accademico umbro sul madrigale: MASSINI, Il madrigale, cit. (ma si veda di seguito: § III.4). Dal 2004, come detto, gli interventi su Massini si susseguono piuttosto copiosi: Q. MARINI, Libri italiani del Seicento, pp. 21-28, Q. MARINI e M. VOLPI, Poesia lirica, encomiastica e giocosa, pp. 185-193, e le due schede curate da Mirko Volpi sulla produzione lirica di Massini, pp. 216-219 (sulle Rime), 219-220 (sul Candore amoroso) in Sul Tesin piantàro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535- 1706). Catalogo della mostra. Pavia, Castello Visconteo, 19 aprile-2 giugno 2002, Pavia, Cardano, 2002; U. MOTTA, Petrarca a Milano al principio del Seicento, in Petrarca in Barocco. Cantieri petrarcheschi. Due seminari romani, a c. di A. QUONDAM, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 227-273: 255-265; R. FERRO, Federico Borromeo ed Ericio Puteano. Cultura e letteratura a Milano agli inizi del Seicento, Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni, 2007, pp. 37-38, 46, 53, 81, 344-345, 349, 352; L. SACCHINI, Primi sondaggi sulle ‘Rime’ di Filippo Massini, «Testo», 57 (2009), pp. 35-57. Tutti i recenti studi elencati hanno però privilegiato il Massini maturo, quello pavese, ed i suoi contatti con l’ambiente culturale lombardo a cavaliere tra Cinque e Seicento.

128 del nome e dell’impresa degli Insensati.9 Il nome scelto, in ossequio ad una consuetudine già attestata da accademie quali gli «Intronati» e i meno noti «Travagliati» di Siena, aveva una «doppia significatione, una ciò è in apparenza, nella scorza, e l’altra in sostanza nella medolla» (155r). Se il primo significato, riservato «alle persone volgari» (155r-v), risulta finanche troppo ovvio (Insensato è colui «che o per infirmità di corpo abbia perso il conoscimento, […] o pure che di natura sia scemo di cervello»: 156v); il secondo valore della parola è ad appannaggio esclusivo degli «huomini dotti e intendenti» (155v). Definendo se stessi «Insensati», gli accademici in realtà intendevano dirsi ‘non sensati’, cioè liberi dagli «appetiti» e dai «sensi» che offuscano e combattono la «ragione». Gli accademici, rifiutandoli, mostravano la loro natura di uomini «contemplativi», capaci di superare i limiti della conoscenza sensoriale e di darsi alle «cose celesti e divine» (157r). Il medesimo intendimento è implicitamente esibito nelle figure, o «corpi», presenti nell’impresa scelta: gli accademici rappresentarono se stessi come uno stormo di gru che, pur appesantite da una pietra tra le zampe, sorvolano il mare agitato dal vento (fig. 1).10 Al pari del volo degli uccelli, gli Insensati si dimostrano più forti del richiamo degli appetiti sensoriali e si avviano agli stadi più alti della conoscenza umana:

Con questa impresa vogliono questi Insensati mostrare al mondo che, sì come queste grue, vel cum pondere, etiandio col peso di quei sassi, che tengono ne i piedi, volano in alto e si allontanano da terra; così essi, come che siano aggravati dal gravissimo peso de i sensi, i quali sono tanto gravi, che per lo più ci tirano alle cose basse, terrene, mortali e transitorie, cercano tuttavia da quelle allontanarsi e inalzarsi alla contemplatione delle cose alte, celesti, immortali ed eterne.11 (158r)

9 Discorso intorno al nome e impresa communi degli Academici Insensati, ms. 1717, cc. 155r- 160v. 10 Di qui in avanti il rimando tra parentesi tonde (fig. 1à12) si riferisce al numero della serie di immagini che si presentano in Appendice III. 11 Non sembra però che gli Insensati siano stati attratti dall’etimologia del termine contemplazione, che avrebbe invece permesso di connettere ancor più suggestivamente l’attività contemplativa con l’immagine delle gru in volo: il latino contemplare (latino classico contemplari) indica infatti l’attività dell’augure di osservare il volo degli uccelli

129 Come aveva già notato il cremonese Paolo Aresi nel Libro sesto delle Sacre imprese, l’insegna scelta dagli Insensati deriva con tutta probabilità da uno degli emblemi di Andrea Alciato, precisamente dal diciassettesimo emblema dell’Emblematum libellus del 1546 (Venetiis, Aldus, c. 29r). 12 Va però detto che la pictura cui i versi latini erano associati diviene in realtà più somigliante all’impresa degli Insensati nell’edizione degli Emblemata del 1550 (Lugdunii, apud Mathiam Bonhomme, p. 23: fig. 2). 13 La scena presentata nel volume del giurista milanese vede in primo piano Pitagora intento a meditare sul volo delle gru. Il componimento latino che accompagna l’emblema spiega la rivelazione che ebbe il filosofo in quel preciso istante. In un primo momento Pitagora rimprovera se stesso, chiedendosi con angoscia «Quo praetergressus? quid agis? quid omittis agendum?» (v. 3); quindi la sua attenzione si rivolge alle pietre che le gru stringono negli artigli per non essere sbandate dai «mala flamina». Di fronte a quella vista egli si convince che la vita degli uomini debba conformarsi a questa ratio («Qua ratione hominum vita regenda fuit», v. 8): a trovare cioè un contrappeso (la pietra) per non cedere alla forza delle passioni (delle correnti aeree).14

entro uno spazio di cielo circoscritto (templum) (P. LIA, Contemplazione, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, 2006, III, ad vocem). 12 P. ARESI, Delle sacre imprese di monsignor P.A. vescovo di Tortona. Libro sesto. In cui le fatte in biasimo di Satanasso si contengono […]. Parte prima, in Tortona, per Pietro Gio. Calenzano, 1634, p. 113. 13 La medesima immagine compare per la prima volta nell’edizione spagnola degli Emblemata, tradotti da Bernardino Daza: Los emblemas de Alciato traducidos en rhimas españolas […], en Lyon, por Guilielmo Rovillo, 1549, p. 207. 14 Non erano però i soli Insensati a poter sfoggiare una simile impresa. Nei Discorsi […] sopra l’imprese di Giovanni Andrea Palazzi, viene ricordata tra gli esempi di motti dalla forma negativa, cioè introdotti da una negazione, un’impresa di Francesco Lanci «ch’ havendo fatto la gru co ’l ciottolo nel piede, che vol’in alto, per mostrare che se bene egli s’inalzava alle volte alle cose grandi nondimeno dalla vanità e dall’inconsideratione non si lasciava portare, ma che misurava ben bene le forze sue, disse non sine pondere; dove, se bene il motto è negativo, nondimeno pone la natura di quell’uccello, che per non esser trapportato da i venti, come per contrapeso, suol portare in un piede un sasso, quanto troppo vuol inalzarsi a volo» (G.A. PALAZZI, I discorsi di messer G.A.P. sopra l’imprese, recitati nell’Academia d’Urbino. Con la tavola delle cose più notabili che in loro si contengono, in Bologna, per Alessandro Benacci, 1575, p. 130). Sulla biografia di Lanci, si veda [F. VECCHIETTI], Biblioteca picena, o sia notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni. Tomo quinto […], Osimo (Ascoli Piceno), presso Domenicantonio Quercetti, 1796, pp. 221-222, che documenta il suo rapporto di amicizia con l’Insensato Sforza Oddi; sulla sua opera di modesto letterato e di brillante creatore d’imprese, è utile G. ARBIZZONI, «Un nodo di parole e di cose». Storia e fortuna delle imprese, Roma, Salerno, 2002, pp. 63, 72-76. Anche Aresi

130 L’impresa degli Insensati da una parte semplifica non di poco l’emblema di Alciato, dall’altra vi introduce nuovi simboli. Al posto di Pitagora ed ai monti che si stagliano sullo sfondo, come nuovo elemento, accanto alle gru e ai sassi, compare il mare. La distesa d’acqua ondeggiante, continuamente colpita «da i procellosi venti delle tribulationi» (158v), corrisponde metaforicamente a «questo mondo», ossia alle avversità che l’uomo incontra durante la sua esistenza terrena. 15 I sassi mutano radicalmente di significato rispetto all’emblema di Alciato, essendo interpretati dagli accademici come i sensi che disturbano la contemplazione e conducono alle cose terrene. Maggiori attenzioni sono destinate alle gru, descritte in base ai testi delle auctoritates classiche. 16 L’illustrazione dell’impresa è seguita dal racconto del volo delle gru sopra «il mar di Ponto», cioè il mar Nero: gli uccelli, «per volar con più fermezza, s’empiono il gozzo di rena e prendono col piede una pietra, la quale lasciano poi cadere quando hanno passato il mezo» del mare (157v).17 Vengono poi via via aggregate, senza alcuna sistematicità, le numerose ragioni che avevano convinto gli accademici a scegliere le gru. Questi «animali civili e domestichevoli» erano infatti «simbolo» della «vigilanza», della «custodia» e della «prudenza», ed avevano delle tendenze belligeranti e delle abitudini migratorie che potevano metaforicamente rappresentare l’impegno accademico degli Insensati (159r). Infatti, come le gru lottano contro il popolo dei Pigmei, «che sono

rilevava la somiglianza tra le imprese di Lanci e degli Insensati: Delle sacre imprese, cit., p. 113. 15 Discorso intorno al nome e impresa communi, cit. Come ulteriore esempio, viene qui esplicitamente rievocata (c. 158v) l’immagine petrarchesca del «mondo» quale «tempestoso mare» della conclusiva canzone alla Vergine (Rvf 366, v. 67). 16 Una sintesi sulla simbologia della gru è offerta in A. CATTABIANI, Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche, Milano, Mondadori, 2000, pp. 169-177. 17 PLIN. Nat. Hist., X 30; PLUT. Soll. anim., 10, 967b-c; B. LATINI, Il Tesoro di messer B.L., fiorentino, precettore del divino poeta Dante, nel quale si tratta di tutte le cose che a mortali se appartengono, in Vinegia, per Marchio Sessa, 1533, cc. 79v-80r. Aristotele negava invece la leggenda della pietra che serve alle gru da zavorra: ARIST. Hist. anim., VIII 12, 597b. Gli Insensati, che ricordavano l’obiezione del filosofo greco, superavano la difficoltà asserendo che «nell’imprese si possono figurare le cose vere e le false; purché elle [possan cass.] siano note e possano esser [intese e cass.] conosciute [da cass.] e intese» (Discorso intorno al nome e impresa communi, cit., c. 158r).

131 mostri, e gli vincono,18 così essi [gli accademici] fanno di continuo guerra co’ i mostruosi diletti mondani e ne restano vincitori» (159v). Ed ancora al pari delle gru, che abbandonano i lidi nostrani quando sboccia la primavera, gli accademici rifiutano il diletto proveniente dai caldi piaceri e si rifugiano nella rigida autodisciplina imposta dal sodalizio. La serie delle corrispondenze tra gli Insensati e le gru procede ben oltre le due proposte. D’altronde, non era certo il rigore ma piuttosto la volontà di suscitare meraviglia ad invitare gli accademici alla costruzione di parallelismi acuti e talvolta non del tutto motivati. La lezione si conclude poi con l’immagine delle gru in volo, una visione che ha una duplice valenza: da un lato esprime la profonda unione all’interno del sodalizio Insensato, dall’altro ne rivela le dinamiche di reciproca interazione, secondo modalità già note e del tutto consuete per i consessi cinquecenteschi:

Tengono queste grue nel volar un bellissimo ordine. Percioché una, come capo e guida dell’altre, vola inanzi e con la voce fa segno all’altre della strada che hanno a tenere, e l’altre tutte seguono a due a due, venendo sempre allargandosi, sino al fine, e vengono a figurare quasi un triangolo, e ciascuna posa il collo su la schiena di quella che le vola inanzi, eccetto la prima che non ha dove posarlo, la quale, quando è stanca o roca per lo gridare, cede il luogo ad un’altra che in suo luogo entra per guida di tutte, e ella si mette nelle fila con l’altre, e così fanno di mano in mano, nella guisa che fanno ancora questi academici, che a vicenda vengono sostenendo il peso e la fatica di avere a reggere e guidare questa Insensata schiera.19 (160r)

18 Già presente nell’incipit del III libro dell’Iliade (vv. 2-7), l’episodio della lotta tra le gru e i pigmei è narrato anche in ARIST. Hist. anim., VIII 12, 597a; PLIN. Nat. Hist., VII 2. 19 CIC. Nat. deor., II XLIX; C. ELIANO, C.A. Praenestini de animalium natura libri XVII […], in ID., C.A. Praenestini pontificis et sophistae, qui Romae sub imperatore Antonino Pio vixit, Meliglossus aut Meliphthongus ab orationis suavitate cognominatus, opera […], Tiguri, apud Gesneros fratres, 1556, pp. 1-365: 53-54; AMBROGIO (SANTO), L’essamerone di s.A., vescovo di Milano, tradotto in volgar fiorentino per lo reverendo messer Francesco Cattani da Diacceto, canonico di Firenze e protonotaro apostolico, in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1560, pp. 322-324, le cui osservazioni, a margine dell’immagine del volo delle gru, certo non dovevano dispiacere agli Insensati: «che cosa più bella di questa, che la fatica e l’honore siano uguali a tutti? […] Questo è proprio della republica antica e l’imagine della città libera; così, coll’essempio degli uccelli, cominciò l’huomo da principio ad esercitar la republica ricevuta dalla natura, che la fatica fosse comune, comune la degnità, apparasse ciascuno a dividersi a vicenda i pensieri, far parte a tutti del servir e del comandare, che a niuno mancasse la sua parte dell’honore, niuno fosse esente dalla fatica» (p. 323, ma con errori di numerazione). Nello stesso luogo già ricordato (Nat. Hist., X 30), Plinio riferiva questo modo di volare alle oche («anseres») e ai cigni («olores»), ma non alle gru.

132 L’impresa generale doveva essere tenuta presente da ciascun membro Insensato nel momento in cui provvedeva ad ideare il proprio vessillo che lo avrebbe distinto di fronte agli altri associati. Non per caso lo Svogliato, nel discorso Delle qualità che a i nomi e alle imprese particolari de gli accademici si convengono, indicava il rispecchiamento tra l’impresa individuale e quella collettiva come la principale caratteristica delle sei fondamentali richieste nella creazione delle imprese. Secondo Aureli, infatti, «il buono academico» che si dota d’impresa, deve fare in modo «primieramente che [essa] convenga con l’intentione universale dell’accademia» (210r). 20 Era dunque una pratica imitativa, o meglio emulativa, che coinvolgeva in una prova di ingegno tutti i membri dell’accademia. Il processo di scelta da parte di ciascun socio Insensato veniva a configurarsi quindi come l’esaltazione del particolare segno distintivo all’interno di un micro-sistema etico uniforme e condiviso. Lo Svogliato proponeva di seguito un elenco delle imprese accademiche, soffermandosi in particolare sul «camaleonte» dell’«Astratto», sullo «struzzo» dello «Svanito», sul’«elefante» dello «Smemorato», sullo «sparviere» del «Cieco» e sull’«aspide» del «Sordo» (210r-v).21 Quest’ultima impresa è il soggetto di due lezioni accademiche, disposte una di seguito all’altra nel manoscritto 1717 (fig. 3). Nonostante la prima dissertazione Sopra l’impresa del Sordo risulti adespota, è assai probabile che possa essere attribuita a Pier Antonio Ghiberti, autore del successivo Discorso dello Spensierato sopra l’impresa del Sordo.22 Infatti, ad eccezione del diverso esordio – piano ed estemporaneo il primo, teso verso un’autocompiaciuta erudizione il secondo – le due esposizioni nello svolgimento del tema procedono analogamente, si rifanno alle medesime fonti e presentano un’analoga struttura bipartita. Nella prima lezione, più compatta e forse più riuscita, l’autore lodava la generale consuetudine di produrre imprese, con le quali gli accademici «in

20 [AURELI], Delle qualità che a i nomi e alle imprese […] si convengono, cit. 21 Le insegne descritte sono rispettivamente la 37a, 15a, 8a, 36a, 20a del manoscritto delle imprese accademiche degli Insensati cui si è fatto riferimento in nota 2. 22 [P.A. GHIBERTI ?], Sopra l’impresa del Sordo (cioè canonico Rubino Salvucci), [ID.], Discorso dello Spensierato (cioè di P.G., principe della accademia) sopra l’impresa del Sordo, ms. 1717, rispettivamente cc. 473r-478v, 479r-487v.

133 un [splin.] medesimo tempo aprono e chiudono i concetti loro, [honorano cass.] mostrandogli a i dotti e ingeniosi huomini, nascondendogli a gli ignoranti e grossolani» (473r). Ben consapevole degli accorgimenti necessari alla creazione delle imprese, «il nostro Sordo [spscr. a Spensierato]» aveva raffigurato un aspide «che con la coda si serra un’orecchia e l’altra accosta alla terra» (473r), accompagnando l’immagine col motto petrarchesco «altro schermo non trovo che mi scampi» (Rvf 35, v. 5). Prima di svelarne il significato, Ghiberti indagava la «natura» del serpente scelto dal Sordo, appoggiandosi nella sua descrizione a «Giulio Solino», «Odoardo» e «Mattiolo» (473v). 23 In verità, queste «serpi» interessano a Ghiberti quasi esclusivamente perché possono essere soggette ad incantesimi, cosa che per la sua eccezionalità viene corroborata da un diffuso elenco di autori che si conclude con le citazioni dei poeti volgari (Ariosto, Petrarca e, in ultimo, Boccaccio).24 Inizia qui una lunga e fantasiosa digressione intorno agli incantesimi, che diviene più cupa mano a mano che cresce la consapevolezza che dietro ogni atto inspiegabile per la natura umana possa celarsi la proteiforme abilità ingannatrice del «nostro Avversario», il diavolo. Predicata allora «l’astensione» (476r) dalle pratiche divinatorie, l’autore muove verso la «dichiaratione» dell’impresa, esponendo in primo luogo la convinzione che «i principali inimici non pur dell’anima, ma della vita nostra sono i piaceri, di cui tanto si compiacciono i sensi nostri» (477r). Poiché inseguire i sensi fa divenire l’uomo «un essere bestiale e ferino», gli Insensati, rifiutando di soggiacere a tale pericolo, dovevano opporre resistenza alle tentazioni dei piaceri (477v). Così il Sordo, «che per l’aspide si rappresenta, per non divenir preda del senso e del

23 [G.G.] SOLINO, Delle cose maravigliose del mondo, tradotto dall’illustrissimo signore don Giovan Vincenzo Belprato conte di Anversa, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1557, pp. 137-138; E. WOTTON, E.VV. Oxoniensi de differentiis animalium libri decem […], Lutetiae Parisiorum, apud Vascosanum, 1552, cc. 98v-99r; DIOSCORIDE [PEDANIO], P.A. MATTIOLI, I discorsi di messer P.A.M. medico sanese ne i sei libri della materia medicinale di P.D. anazarbeo […], in Venetia, nella bottega d’Erasmo, appresso Vincenzo Valgrisi e Baldassar Costantini, 1557, p. 740 (la editio princeps è del 1544). 24 L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXXII, 19; Rvf 239, vv. 28-29; G. BOCCACCIO, Laberinto d’amore di messer G.B. di nuovo ristampato e diligentemente corretto per Thomaso Porcacchi. Con le postille nel margine e con la tavola in fine, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1564, p. 55.

134 piacere sensuale, serra l’orecchia alle lor lusinghe», dando così dimostrazione di voler rimanere Insensato (478r).25 Mentre il gesto dell’aspide di privarsi dell’udito rinvia quasi istantaneamente al rifiuto dei sensi promosso dall’accademia, il significato dell’impresa del Sonnacchioso risulta a prima vista più oscuro (fig. 4). Commentata nel Discorso dello Smemorato, l’immagine scelta dall’accademico raffigura un tasso destato dal «fulmine o saetta», con il motto «non omnibus dormio».26 Nella prima parte lo Smemorato Ottaviano Colombi ragionava intorno ai due elementi principali dell’impresa, nella seconda della «convenienza» tra il nome particolare del Sonnacchioso e i vessilli generali dell’accademia, nella terza dei «concetti alti e misteriosi» veicolati dall'immagine (458r). L’autore indugiava a lungo sulla natura del fulmine, che descriveva, in pieno accordo con la teoria aristotelica, quale improvvisa eiezione del vapore secco entrato in contatto col fuoco.27 Di seguito, inseriva una concisa descrizione del tasso, la cui natura placida ed umbratile chiariva fin da subito la rispondenza col nome del Sonnacchioso. Pur nella sua brevità, la rappresentazione del mammifero è alla base di tutte le successive interpretazioni dell’impresa: il tasso, «animal di quattro piedi, di grandezza d’una volpe», aguzza l’ingegnosità degli accademici perché è solito vivere nelle «caverne» ed è di natura «molto sonnolento» (460r).28 Diviene allora «facil cosa» palesare la stretta correlazione tra il nome particolare del Sonnacchioso ed il nome e l’impresa generali del sodalizio perugino: infatti, rappresentandosi come un animale «sonnolento e

25 Questa «nobilissima operatione» sarà possibile grazie all’aiuto dell’accademia, raffigurata come la «terra» cui l’aspide schiaccia l’altra orecchia, «la quale, a guisa di fecondo terreno, produce e fiori e frutti che sono i dotti e vaghi ragionamenti che s’odono in essa» ([GHIBERTI ?], Sopra l’impresa del Sordo, cit., c. 478r). Forse non del tutto soddisfatto della sua illustrazione dell’impresa, lo Spensierato aggiungeva poi nelle righe finali un riferimento alla vita extra-accademica del Sordo, proponendo anche l’ipotesi alternativa che con questa impresa egli volesse «mostrare d’essere risoluto di volere attendere a i dolcissimi studii della filosofia come ha felicemente fatto», senza dare ascolto «a coloro che lo dissuadevano» (c. 478v). 26 [O. COLOMBI], Discorso dello Smemorato (O. Platoni) sopra l’impresa dell’eccellente signor Sonnacchioso, ms. 1717, cc. 458r-463r. 27 ARIST. Meteor., II IX, 369a-b. 28 ALBERTO MAGNO (SANTO), Divi A.M. de animalibus libri vigintisex novissime impressi, impressum Venetiis, per Joannem et Gregorium de Gregoriis fratres, 1495, c. 222v. Nella lezione è citato anche il verso dell’Orlando furioso di Ariosto, dove i «tassi», insieme con gli «orsi» e i «ghiri», sono detti «sonnacchiosi» (XXXII, 12).

135 dormiglioso», l’accademico alludeva al «riposo delle virtù sensitiva» che avviene durante il sonno. Nella più ampia terza parte, Colombi elencava le «molte belle significationi» che poteva vantare l’impresa «artificiosissima e vaghissima» del Sonnacchioso. Tra le quattro interpretazioni fornite dallo Smemorato, le più convincenti sono parse la seconda, dove l’autore approfondiva l’intrinseco legame concettuale con l’impresa generale, e la terza, dove invece immaginava una visione amorosa. Il tasso, da intendersi in entrambi i casi come l’autore dell’impresa, acquista significati diversi per adattarsi a quelli altrettanto mutevoli del fulmine. Quest’ultimo rappresenta nel primo caso le percezioni sensoriali: infatti, come «i fulmini sono belli nel principio, per la luce che ne danno, ma cattivi nel fine per lo male che ne fanno, così i sensi mostrano da principio la via piana e dilettevole, ma al fine conducono al precipitio» (462r). Ai fulmini può opporsi la contemplazione, cioè la tregua dalle pulsioni dei sensi, di cui è simbolo il tasso. Questo animale, «docile al sonno» e amante della «quiete», non per caso «si diletta nelle caverne», uno dei «luoghi solitarii ed oscuri» che favoriscono la concentrazione (462r). Nell’impresa quindi il Sonnacchioso si rappresenta quale animale desideroso di dedicarsi alle cose celesti, sebbene fosse talvolta «sforzato [ad] attendere a i sensi per li bisogni del corpo e della vita» (461v). La medesima impresa può anche «tirare a soggetto amoroso molto commodamente» (462v). La nuova interpretazione crea un parallelo tra il tasso, destato dal fulmine, e il cuore del Sonnacchioso, colpito da una saetta ‘amorosa’ che inaspettatamente lo raggiunge: «come il tasso non dorme tanto profondamente che non si svegli al romore e al suono del fulmine, così l’autore non ha il cuor tanto duro che non possa esser ferito da una divina bellezza» (462v). Dopo aver illustrato l’impresa, lo Smemorato raccoglieva gli elementi che giustificavano questa ultima esposizione, concentrandosi sulle similitudini realizzabili a partire dai due corpi ivi contenuti. Il fulmine, per esempio, per avere quale bersaglio della sua azione «i più alti edificii»,29

29 Presumibilmente qui agisce il ricordo, con variatio, della celebre ode di Orazio sui fulmini che colpiscono le cime dei monti: HOR. Carm., II 10, vv. 11-12.

136 poteva essere inteso come simbolo delle bellezze, che analogamente «atterrano i più alti e [su cass.] nobili cori» (462v). Il tasso poi, essendo «frigido» e dormendo a lungo, è affine «all’huomo privo d’amore», e rappresenta il contrario dell’innamorato che mai riesce a trovare quiete (462v).30 Di qui, condensato nello spazio di poche righe e senza apparenti connessioni con il resto dell’argomentazione, l’autore del Discorso procedeva a tracciare un breve excursus, dai toni ambigui, benché non osceni, sull’amore come fuoco vivo:

l’amore si dipinge con una facella accesa in mano, e gli amanti non si lamentano mai d’altro che del fuoco e meritatamente, perché sì come dallo sbattere delle cose corporee e dure ne nasce il fuoco, così dalla frequente speculatione della cosa amata, che è continua attione degli spiriti, s’accende il fuoco e s’infiammano essi (462v).

Molto più lineare risulta invece l’ultima interpretazione, secondo la quale il Sonnacchioso, rappresentandosi come un tasso dormiente, non risponde ai costanti richiami di Dio, finché non si risveglia al «romore della tribulationi», simboleggiate dal fulmine. L’abbondante produzione accademica dedicata all’esposizione delle singole imprese conta altre otto simili lezioni all’interno del medesimo manoscritto 1717. 31 Per orientare questa difficile ricerca, lo Svogliato Insensato vincolava l’inventiva dei suoi consociati al rispetto di sei condizioni, che esponeva nel già citato discorso Delle qualità che a i nomi e alle imprese particolari de gli accademici si convengono. La lezione ha una

30 Dove si può notare una leggere incoerenza (al limite della contraddizione) con la precedente dichiarazione dell’impresa. Se prima lo Smemorato aveva insistito sull’azione del fulmine che desta il sonno del tasso (cioè della bellezza divina che scalfisce il cuore dell’accademico), in un secondo momento invece ribadiva la natura anti-amorosa del tasso, che a differenza dell’innamorato dorme tranquillo (come se l’azione del fulmine fosse quindi annullata). 31 Onde evitare una nota troppo lunga contenente gli estremi di ogni lezione (per i quali si rimanda all’Appendice I), si è preferito proporre di seguito un elenco delle otto lezioni, indicando per ognuna l’autore e l’impresa descritta. Si hanno così la lezione dell’Ingordo sopra l’impresa dello Svogliato (cc. 222r-227r); dello Smemorato sopra l’impresa dell’Ingordo (cc. 394r-403v); dello Svogliato sopra l’impresa dell’Assiderato (cc. 420r- 427v); del Rozo sopra l’impresa del Debole (cc. 464r-472v); dell’Ottuso sopra l’impresa dello Spaventato (cc. 489r-492r); una doppia lezione dello Svogliato sopra l’impresa dello Svanito (cc. 344r-372v, cc. 374r-384v) ed una lezione adespota, iniziata a metà, sopra l’impresa dell’Astratto (cc. 387r-393v).

137 struttura tripartita e si rivolge in primo luogo «a coloro che non sono ancora nominati [spscr. a battezati] e non si sono proveduti d’impresa» (203r). Nella prima parte è preso in esame il «costume» dei membri delle accademie di dotarsi di un nome e di un’impresa particolari; un «costume» che evidentemente era già in voga da svariati anni giacché l’avevano rispettato sia gli «Intronati di Siena» sia gli «Atomi» di Perugia (203v). Non essendo però nota la «cagione» che aveva spinto i primi accademici a introdurre questa consuetudine, lo Svogliato intendeva ipotizzarla «per via di congetture». Non escludeva che fosse desiderio di «mostrare ingegno», «brevità» o «modestia», oppure volontà di «secretezza», tuttavia riteneva «più del verisimile» che fosse un modo per rappresentare fenomenologicamente la rinascita (o nuova nascita) morale dei consociati nel momento del loro ingresso nei rispettivi sodalizi: infatti, «proponendosi gli academici [primieramente cass.] di rinovare e cambiar l’abito dell’animo loro, […] par cosa ragionevole che a guisa di frati in segno di ciò debbano primieramente [splin.] cambiare e mutare i propri nomi» (204r-v). L’esposizione delle sei «qualità» del nome accademico è contenuta nella seconda parte della lezione. Dopo averle commentate lungamente, lo Svogliato ne distingueva «tre che si devono cercar e tre fuggire», che riassumeva in questi termini: «la prima che convenga col nome universale; la seconda che sia nome aggettivo; la terza che sia voce buona e regolata della medesima lingua che è il nome universale; la quarta che non sia superbo; la quinta che non sia vitioso; la sesta, ed ultima, che non sia disonesto» (208r). Dopodiché aggiungeva un’«altra qualità», non strettamente necessaria, ma foriera di maggior «perfettione», ossia che il nome «possa ricevere più significationi», una immediata, ingannevole e fuorviante, ed un’altra nascosta, più vera (208r).32 Le medesime qualità erano richieste per l’impresa accademica particolare, che doveva inoltre accordarsi col nome accademico scelto. Risulta allora evidente che tutti i requisiti elencati dallo Svogliato possano essere ricondotti al rispetto di due categorie fondamentali: la convenienza e la conformità, le quali, come si è

32 Per una più ampia disamina delle sei «qualità», si veda SACCHINI, Inediti dell'Accademia degli Insensati, cit.

138 visto nel precedente capitolo, caratterizzarono in profondità l’ideologia delle accademie.

III.3 La lingua, il modello: gli Insensati e Petrarca

Il carattere autoreferenziale non è ravvisabile soltanto nelle lezioni esplicitamente dedicate a trattare le insegne accademiche, ma emerge in filigrana anche in molte altre dissertazioni. Non può mancare nell’Oratione funebre del Sordo insensato nella morte del Sonnacchioso Insensato, cioè Conventino Castaldi, l’unica lezione di questa prima fase scritta in occasione del decesso di un membro accademico.33 Al pari di altre simili orazioni, anche questa si risolve in una celebrazione dell’accademico defunto e delle sue virtù, che non a caso rispecchiano quelle dell’accademia. La luttuosa circostanza impose ad ogni accademico di «lasciare in disparte le feste, il riso, le allegrezze» e di commemorare degnamente la scomparsa del «maggior lume» dell’accademia (338r). L’«acerba morte», che aveva raggiunto il Sonnacchioso «nella sua più bella e più fiorita etade», aveva lasciato il Sordo, secondo un topos ben collaudato, «privo di sentenze, bisognoso di parole, voto di argomenti» (338r).34 Quest’ultimo, non potendo però rifiutarsi di obbedire al principe del «doglioso insensato gregge», pose comunque inizio al suo ricordo del Sonnacchioso. Dopo aver lodato la casa dei Castaldi, che «è stata sempre onorata» e segnalata nel campo delle «armi» e delle «leggi» (338v),35 ed aver celebrato la prestanza fisica del defunto, il suo corpo robusto e proporzionato, il Sordo ripercorreva la vita del Sonnacchioso che, a guisa di «nuovo Hercole», si trovò ancora in giovane età davanti ad un bivio. Di fronte alle due vie, egli si mosse in direzione contraria rispetto al resto della gioventù perugina, procedendo verso quella strada «erta, stretta, piena di sassi e spine» che

33 [R. SALVUCCI], Oratione funebre del Sordo Insensato nella morte del Sonnacchioso Insensato (cioè del dottore Convintino Castaldi medico), ms. 1717, cc. 338r-343r. 34 Dove appare fin troppo evidente il paradosso dell’affermazione, tra l’esibita assenza di «sentenze» e la citazione petrarchesca immediatamente precedente (una sorta di crasi tra gli incipit «Ne l’età sua più bella e più fiorita» e «Tutta la mia fiorita e verde etade»: Rvf 278; 315). 35 Sulla famiglia Castaldi, si veda IRACE, Nobiltà bifronte, cit., p. 139n.

139 porta alla virtù (339v). Si diede dunque alla filosofia e poi alla medicina, mostrando in entrambi i casi grandi capacità. La sua esperienza di giovane «veterano» negli studi gli valse l’ingresso in accademia, dove in diverse occasioni ebbe modo di esporre con grande maestria i componimenti del Canzoniere. Nel recitare le sue lezioni petrarchesche di fronte ai soci accademici – si chiedeva il Sordo – «quanti luoghi della più nascosta filosofia ci apriva? quanti punti difficili e oscurissimi ci faceva chiari? quanti passi dubbiosi ci esponeva?» (340r). Non serve proseguire con la lettura della lezione, dove si insiste di nuovo sulle abilità di studioso ed oratore di Castaldi e sono narrate le circostanze della sua morte per febbre, ma conviene invece porre attenzione all’ultimo passaggio citato. L’impegno di Castaldi nel commentare i sonetti del Canzoniere documenta la pratica delle letture petrarchesche in accademia, svolta con costanza durante la prima fase e restituita nei manoscritti triestini citati e da quattro dissertazioni del codice perugino 1717. 36 Queste ultime dissertazioni erano evidentemente sfuggite a Domenico Rossetti (o a chi, in Perugia, era incaricato di recapitargli il materiale), il quale ad inizio Ottocento andava collezionando stampe e manoscritti per allestire nella sua Trieste una duplice raccolta di materiale bibliografico su Enea Silvio Piccolomini e Francesco Petrarca. Uomo di grande cultura e spiccata curiosità, vissuto tra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XIX, l’aristocratico Rossetti ha sempre interessato i critici per la capacità di orientare i propri interessi in molteplici direzioni, dall’astronomia all’estetica, dalla letteratura alla botanica, dall’archeologia

36 O cinque, qualora si voglia considerare petrarchesca anche la conclusiva lezione adespota De’ centoni (cc. 493r-496v). Pur non trattandosi in senso stretto di una lettura di un sonetto del Canzoniere, la dissertazione propone alcuni esempi di centoni di versi petrarcheschi. D’altronde, secondo quanto sostenuto dall’anonimo autore, l’idea del centone è strettamente legata al solo Petrarca, fin dalle sue origini: «il primo che l’uso del comporre de’ versi del Petrarca i centoni ritrovò, doveva essere qualche bello ingegno innamorato», che non potendo superare la bravura del «miracoloso poeta», decise di valersi dei suoi versi (c. 493r). Due delle quattro lezioni petrarchesche ricordate sono contenute nel corpo del ms. 1717: [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta da lui nell’Academia de gli Insensati il giorno di san Matteo 1572 sopra il sonetto ‘Io no’ fui d’amar voi’, [G. TINNOLI], [Lettione] del Cieco (cioè dottore G.T.) [sopra il sonetto del Petrarca ‘Non d’atra e tempestosa onda marina’], cc. 404r-410v, 418r-419v. Le altre due, adespote e senza titolo, sono comprese nei fogli allegati al codice: la prima è sul sonetto I begli occhi ond’i’ fui percosso in guisa, la seconda sul sonetto Io non fu’ d’amar voi lassato unquancho.

140 all’idrologia, e così via.37 Tra le innumerevoli iniziative da lui intraprese, la costituzione del fondo petrarchesco – che interessa da vicino gli Insensati – è scrupolosamente ripercorsa da Stefano Zamponi e da Simone Volpato, il quale ultimo inoltre indaga le ragioni che mossero Rossetti ad impegnarsi a fondo in un progetto di tale vastità. La raccolta, che in un secondo tempo sarebbe divenuta un prezioso strumento bibliografico, fu inizialmente concepita dal giurista triestino come una «biblioteca ‘civile’», nella quale Petrarca era visto come il campione dell’amor di patria.38 Per aumentare la sua collezione, Rossetti compose tre Collezioni a stampa (rispettivamente Prima, Seconda e Terza), uscite tra il 1817 e il 1822, nelle quali invitava eruditi, letterati e bibliotecari a collaborare con lui. Forse, proprio in risposta ai tre opuscoletti giunsero da Perugia a Trieste i manoscritti Petr. I 49, I 50, I 53, I 55, I 60.39 Nel momento della loro acquisizione, questi codici sono stati tutti registrati da Rossetti come manoscritti degli Accademici Insensati. In realtà, il codice Petr. I 55 è opera del grammatico e letterato perugino Gregorio Anastagi, attivo nella seconda metà del Cinquecento e membro

37 Sulla figura di Domenico Rossetti e la costruzione del Museo Petrarchesco Piccolomineo si vedano R. MARINI, Domenico Rossetti, Trieste, Borsatti, 1936; C. PAGNINI, Appunti sulla vita e l’opera di Domenico Rossetti, in D. ROSSETTI, Scritti inediti, Udine, Idea, 1944, I, pp. 29-88; S. ZAMPONI, Introduzione in ID., I manoscritti petrarcheschi della Biblioteca Civica di Trieste. Storia e catalogo, Padova, Antenore, 1984, pp. 3-37; C. DIONISOTTI, Petrarca, Rossetti e Hortis [1987], in ID., Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, pp. 165-178; F. COSSUTTA, Ideologia e scelte culturali di Domenico Rossetti. Il suo petrarchismo, Udine, Del Bianco Editore, 1989; Le collezioni del Museo Petrarchesco Piccolomineo nella Biblioteca “A. Hortis” di Trieste, a c. di A. SIRUGO, Firenze, Olschki, 2005; S. VOLPATO, «Studio e lavoro come un ragno». Domenico Rossetti e la collezione petrarchesca: i cataloghi e i repertori bibliografici, in Biblioteche private in età moderna e contemporanea, a c. di A. NUOVO, Milano, Sylvestre Bonnard, 2005, pp. 271-282; ID., Domenico Rossetti collezionista e studioso di Petrarca, in «Studi petrarcheschi», n.s. 21 (2008), pp. 185-216. 38 ZAMPONI, Introduzione, cit., p. 13. Di qui la preferenza per il Petrarca latino: VOLPATO, Domenico Rossetti collezionista e studioso, cit., pp. 207-214. Su Petrarca quale campione di moralità civile, G. BALDASSARRI, Unum in locum. Strategie macrotestuali nel Petrarca politico, Milano, Edizione Universitaria di Lettere Economia Diritto, 2006. 39 È Vermiglioli in più luoghi della sua Biografia a dare notizia dell’invio dei manoscritti: in conclusione della scheda su Ottaviano Aureli, ricordava infatti che «queste lezioni petrarchesche […] furono da noi donate al chiarissimo signor dottore de’ Rossetti per sempre più arricchire la sua bibliografia petrarchesca che va ordinando, per pubblicarne un giorno dotto e ricco catalogo a beneficio degli studi bibliografici e della storia di quel grande italiano» (I, p. 75). I cinque codici vennero catalogati dallo stesso Rossetti nel suo manoscritto Inventario dei manoscritti degli Accademici Insensati di Perugia (senza segnatura), reperito ed edito da Zamponi nell’Appendice II del suo I manoscritti petrarcheschi, cit., pp. 155-157.

141 dell’Accademia degli Eccentrici.40 Nelle cinque lezioni ivi contenute emerge da un lato la capacità di Anastagi di valutare i fatti linguistici con maggior accuratezza rispetto agli Insensati, che non avevano in genere competenze specifiche di natura grammaticale, e dall’altro la sua abilità nel diversificare l’impianto espositivo della lezione petrarchesca.41 Oltre agli Insensati e agli Eccentrici, però, anche gli Unisoni proponevano esercitazioni sui componimenti petrarcheschi;42 il che dimostra quanto fosse diffuso il culto di Petrarca nella Perugia della seconda metà del Cinquecento, favorito in primis proprio dalle accademie cittadine. In assenza di elementi concreti, non vi è modo di appurare se gli Insensati conducessero le proprie esercitazioni sull’intera raccolta petrarchesca oppure soltanto su un numero circoscritto di componimenti. La seconda ipotesi sembra però preferibile, mentre la prima appare assai più difficile da giustificare: se accettata, obbligherebbe infatti a congetturare

40 Il solo Vermiglioli offre un conciso profilo di Anastagi (I, pp. 40-41), nel quale elenca ben venti sue opere, la maggior parte delle quali manoscritte. Almeno a livello locale, Anastagi godette di una certa notorietà nell’Ottocento, quando si allestirono le edizioni di alcuni suoi lavori: G. ANASTAGI, Agille ninfa del Trasimeno, stanze inedite di G.A. perugino. Pubblicate nelle faustissime nozze dei signori Metilde Antonini e dottore Luigi Antonio Brizi da Vincenzo Santucci, Perugia, dai torchi di Garbinesi e Santucci, 1827; ID., L'Endimione, poemetto che nelle felicissime nozze dei signori Luigi Belforti e Carolina Censi la prima volta esce in luce, Perugia, tipografia Santucci, 1833; ID., Orazione in lode di Astorre Baglioni capitano de i Veneziani, Perugia, Bartelli, 1848. L’unica sua opera pubblicata in vita sono I proverbi toscani di messer Gregorio Anastagi. Opera nuova, utile e diletevole, divisa in due parti, per ordine d’alfabeto, in Perugia, [s.t.], 1590. 41 Il ms. Petr. I 55 comprende le seguenti dissertazioni: Diversità del Petrarca e del Boccaccio nell’uso di molte voci, cc. 1r-40v; Dialogo sopra il primo sonetto del Petrarca, cc. 41r-62r; Lettione sopra quel sonetto del Petrarca ‘Passa la nave mia colma d’oblio’, cc. 63r-83r; Discorso sopra la canzone del Petrarca ‘Nela stagion che ’l ciel rapido inchina’, cc. 86r-88v; Discorso sopra quel sonetto del Petrarca ‘Se Vergilio ed Homero havessin visto’, cc. 90r-97r (cui si è già accennato nel paragrafo § I.4). Di grande interesse è la prima dissertazione che mostra le varianti grafiche in oltre duecento vocaboli utilizzati da Petrarca e Boccaccio. Conformandosi ai modelli bembeschi, Anastagi suggerisce di imitare la grafia proposta da Petrarca per le opere in versi e quella adoperata da Boccaccio per le opere in prosa. La lezione, che presenta in ogni carta la medesima struttura (vocabolo + citazioni dai due autori), soffre inevitabilmente di una certa ripetitività. La sua importanza è comunque parsa evidente anche a Gino Belloni, che nella recensione al citato libro di Zamponi mostra una certo stupore per la mancanza di ricerche al riguardo: «Studi petrarcheschi», n.s. 2 (1985), pp. 315-317. Una prima sintesi sulla figura di Anastagi è stata offerta da chi scrive nella relazione Per uno sconosciuto in meno: Gregorio Anastagi, grammatico e poeta perugino (1539-1601) presentata alla conferenza biennale della Society for Italian Studies, che si è tenuta nel luglio 2013 presso la Durham University. 42 È lo stesso Sozi a fare riferimento esplicito alle esercitazioni accademiche sui «sonetti del Petrarca» che avevano luogo nel sodalizio degli Unisoni (R. SOZI, Annali, memorie e ricordi di Perugia [...], BAP, ms. 1221 [170], citato in G. CILIBERTI, Protest music a Perugia nel XVI secolo. Gli scritti musicali di Raffaello Sozi (1529-1589), «Musica disciplina», 53 (2003-2008), pp. 121-139: 137).

142 non solo una perdita ingentissima di lezioni, ma anche un persistente e, perlomeno, insolito silenzio da parte degli accademici su un progetto tanto ambizioso e duraturo. Nel caso, più probabile, di una serie di lezioni sopra una selezione di liriche, risulta impossibile stabilire quali criteri la ordinassero. Non aiutano di certo le testimonianze superstiti, che presentano le esposizioni di un insieme di sonetti non correlati da alcun tipo di connessione tematica, stilistica o numerica all’interno della organizzata sequenza delle rime e l’uso di frammenti può risultare contradditorio qui. L’interesse degli Insensati verso Petrarca si spiega con l’interpretazione che dello stesso emerge dalle lezioni, nelle quali il poeta del Canzoniere s’impone da una parte quale modello linguistico di riferimento, dall’altra quale sintesi perfetta di virtù morali. Non per caso nell’ultima sezione delle dissertazioni più ampie, generalmente tripartite, gli Insensati si soffermavano ad approfondire alcuni aspetti linguistici o a rendere noti gli insegnamenti morali derivabili dalla lettura del sonetto. Nella loro più semplice forma bipartita, invece, le dissertazioni si aprono con un cappello introduttivo sul sonetto, all’interno del quale riassumono il significato del testo, stabiliscono l’occasione della sua composizione e dichiarano inoltre l’«intenzione» perseguita dal poeta. Nella seconda parte della lezione è inserita un’estesa e dettagliatissima parafrasi del componimento, che procede verso per verso. Le grandi somiglianze tra le lezioni a struttura binaria consentono di proporre una qualunque delle dissertazioni quale esempio delle altre simili esposizioni petrarchesche. Secondo consuetudine, la lezione dello Svogliato Sopra il sonetto del Petrarca ‘Padre del ciel dopo i perduti giorni’, che si è deciso di analizzare, si apre con la trascrizione del sonetto, con tutta probabilità letto ad alta voce di fronte all’assemblea.43 A corollario dei versi di Petrarca, vi è un unico capoverso nel quale si esaurisce la prima parte della lezione. Qui, nel volgere di poche righe, che si concludono con una prima valutazione (in senso lato) formale e stilistica del componimento, sono dichiarate la data della sua composizione e le ragioni che indussero il poeta a dettarlo:

43 [AURELI], Sopra il sonetto del Petrarca ‘Padre del ciel, dopo i perduti giorni’, cit.

143 Era il giorno nel quale si fa commemoratione della Passione di Nostro Signore dell’anno (per quanto si può raccogliere dal presente sonetto e da quello che il Petrarca disse altrove) 1338, quando il Petrarca nostro, pentito de gli errori suoi e dell’offese verso il creator suo (come suol fare o deve in simil giorno [ogni cass.] ogni buon cristiano), rivolto a Dio benedetto [lo cass.] per pregarlo che gli havesse [spscr. a habbi] misericordia, fece il presente sonetto, nel quale altra non è l’intention sua che di pregare Iddio, che gli porga la gratia sua e che lo faccia tornar a miglior vita. Il sonetto è facile e piano, e agevolmente s’intende, ma con tutto ciò è bello, leggiadro e alto di stile. E (se vogliamo saper ancora questo) è posto nel genere giudiciale, avvenga che accusi sé medesimo e l’error suo e domandi perdono.44 (249r-v)

Fissare il giorno della Passione del 1338 quale data dell’effettiva stesura della lirica, significa evidentemente ritenere che i sonetti fossero stati composti da Petrarca in concomitanza con gli eventi descritti.45 Secondo lo Svogliato, cioè, il poeta aretino, evidentemente pervaso da afflato religioso,

44 Appaiono evidenti i richiami al lavoro esegetico di Alessandro Vellutello, secondo il quale Petrarca nel sonetto «mostra de’ suoi passati errori essersi reso in colpa, come in ta[li] giorni santi ha in costume ogni buon christiano di fare, pregando Iddio, che mediante la sua illuminante gratia […] lo voglia a migliore e più laudabile vita» (Le volgari opere del Petrarcha con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, in Vinegia, per Giovanniantonio e fratelli da Sabbio, 1525, c. 58v). Sui commentatori petrarcheschi del Cinquecento rimane attuale l’ottima sintesi di G. BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo. Studi sul commento umanistico-rinascimentale al ‘Canzoniere’, Padova, Antenore, 1992. Sui medesimi esegeti del Canzoniere, ma in ottica tassiana, ha scritto F. D’ALESSANDRO, Torquato Tasso e alcuni commenti cinquecenteschi al Petrarca, «Aevum», 76 (2002), pp. 737-759; EAD., Il Petrarca di Minturno e Gesualdo. Preistoria del pensiero poetico tassiano, «Aevum», 79 (2005), pp. 615-637. Il «genere giudiciale», o altrimenti ‘giudiziario’, è uno dei tre generi in cui era stata divisa la retorica da Aristotele (Rhet. I 3, 1358b). 45 La medesima «presunzione, nemmeno discussa, che il tempo dell’opera corrispondesse a quello reale di composizione», era necessaria a Vellutello per stabilire il corretto ordine delle rime del Canzoniere rispetto all’edizione aldina del 1501 (BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo, cit., p. 66). Non è secondario, nella lezione di Aureli, il discorso sulla datazione, che impone il confronto con gli altri interpreti di Petrarca. Commentando il nono verso («hor volge, Signor mio, l’undecim’ anno»), lo Svogliato annoverava infatti la possibilità, sostenuta da «alcuni» (per esempio da Giovanni Andrea Gesualdo nel suo Petrarcha colla spositione di misser G.A.G., in Vinegia, per Giovann’Antonio di Nicolini e fratelli da Sabbio, 1533, cc. LXXXIIr-v), che la data della composizione del sonetto fosse da anticipare all’inizio dell’undicesimo anno del suo innamoramento, dunque al 1337. Tuttavia, la convinzione di Aureli è che Petrarca scrisse il componimento «nel fine dell’undecimo anno dell’amor suo», precisamente il venerdì santo, e perciò che la data corretta della stesura del sonetto sia il 6 aprile del 1338. La presente questione cronologica è strettamente connessa al primo momento in cui si rivelò il sentimento d’amore di Petrarca per Laura. Come è ormai noto, però, il 6 aprile del 1327, proposto dal poeta (Rvf 3; 211), non può essere un venerdì santo (è infatti il lunedì della settimana santa, venerdì fu il 10 aprile): evidentemente gli Insensati non erano al corrente della polemica, sorta intorno alla metà del XVI secolo, sulla reale data dell’innamoramento di Petrarca: M. SANTAGATA, Piccola inchiesta cinquecentesca sul 6 aprile di Petrarca, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, II, pp. 985-999, cui si rimanda per la bibliografia precedente.

144 decise di scrivere questi versi proprio il giorno in cui si celebra la crocifissione di Cristo. Una simile convinzione presuppone a sua volta la certezza della corrispondenza tra gli eventi vissuti dal poeta e gli eventi narrati nei sonetti: gli Insensati ritenevano infatti che il poeta avesse messo in versi il reale svolgimento degli avvenimenti accadutigli.46 Il mancato svelamento della finzione letteraria, operata dai testi di Petrarca, impone quindi di considerare il personaggio Petrarca testimone e protagonista degli incontri con Laura. A conferma di ciò, nella lezione dedicata a Dodici donne onestamente lasse, Petrarca viene descritto nell’atto di osservare Laura e le altre donne durante una gita al fiume e nel commento al sonetto Quel sempre acerbo e onorato giorno, il poeta è rappresentato come un innamorato che vuole conservare il ricordo di quel sentimento di «dolcezza» di fronte a Laura piangente.47 La seconda parte della lezione su Padre del ciel dopo i perduti giorni prevede l’analisi di ogni verso del sonetto con puntuali chiose, ove necessario, alle singole parole o sintagmi. Come si può vedere nella seguente tabella, che riporta soltanto una parte dei commenti di Aureli, nella dissertazione si susseguono definizioni delle parole (talvolta con il recupero dell’etimologia latina), note grammaticali e perfino spiegazioni retoriche:

v. 1 Padre del ciel dopo «“Padre del cielo”: questa è perifrasi di Dio, presa i perduti giorni dal luogo della generatione [della prima maniera cass.] della seconda specie, ciò è quando sono più parole senza verbo» (249v); «“dopo i perduti giorni”: perdere si chiama il tempo e i giorni quando si spendono in cattive operationi, come era avvenuto al Petrarca il quale havea speso i giorni suoi nel vano amor d’una femina» (249v). v. 2 Dopo le notti «“vaneggiare” significa stare in pensieri vani e non vaneggiando spese retti dalla ragione» (250r). v. 4 Mirando gli atti “mirando”: «i gerundii […] servono a tutti i tempi per mio mal sì secondo che sarà l’altro verbo che gli sarà a canto»

46 L’equivalenza tra Petrarca autore e Petrarca poeta si realizza anche nel precedente commento di Vellutello: BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo, cit., p. 67. 47 [O. AURELI], [Ex cass.] Lettione sopra il sonetto del Petrarca ‘Dodici donne onestamente lasse’, dello Svogliato, [ID.], Lettione dello Svogliato letta nell’Academia de gli Insensati [sopra il sonetto del Petrarca ‘Quel sempre acerbo e onorato giorno’], ms. Petr. I 53, cc. 242r-247v: 242r-v; 318r-323v: 318r-v.

145 adorni (250v-251r). v. 8 Il mio duro «l’aggiunto “duro” in questo luogo è voce aversario se ne metaforicamente presa dalle cose dure, come pietre, scorni ferro, legno e simili […]; o vogliam che sia voce alterata dalla latina dirus, che vuol dire crudele» (253v). v. 10 Ch’io fui «“che” in questo luogo val ‘quando’, ‘dapoiché’, ed è sommesso al mo’ di parlar comune e quotidiano, come se diremo dispietato giogo sono quindici giorni che io non ti ho veduto, sarà il medesimo che se diremo sono quindici giorni passati dapoiché io non ti ho veduto» (254r); «“al dispietato giogo”: questo [voce dispiet cass.] aggettivo ‘dispietato’ val quanto aspro e crudele ed è per mio avviso voce composta dalla particella ‘dis’, che ha forza di negare o contradire […], e dalla parola ‘pietà’, quasi significhi senza pietà» (254r). v. 14 Ramenta lor «l’articolo ‘li’ quando sta invece di pronome nel com’hoggi fosti in numero del più, non si mette mai nel terzo caso, ma croce solamente nel quarto: onde non si dirà ‘li diede’ cioè è diede a loro, ma si dirà in quel caso ‘diede loro’» (255v).

L’interesse degli Insensati si concentra a vari livelli sulla lingua dei sonetti ed in particolare sulla scelta dei termini (o talvolta della loro forma grafica) che risultano adatti per la poesia e per la prosa, secondo una distinzione che s’impose con le Prose di Bembo. Come dimostra anche la presente lezione, gli Insensati intendevano cioè dedurre e memorizzare, attraverso la lettura di Petrarca, le norme che disciplinano il funzionamento della lingua sia poetica sia prosastica. Non per caso l’autore si premurava, per esempio, «di ricordar una regola della lingua intorno a questa parola “dopo”» (v. 1) secondo la quale «questa voce nel verso si scrive sempre [in verso cass.] per semplice ‘p’ e in prosa per doppio ‘p’, e dicesi doppo» (249v), ed ancora di puntualizzare che «miserere» («miserere del mio non degno affanno», v. 9) era da usarsi soltanto «nel verso» (254v).48

48 Mentre Fortunio, con un breve cenno, di fatto non risolveva la questione della conveniente forma della parola ‘dopo’ (Regole grammaticali della volgar lingua di messer Francesco Fortunio, novellamente reviste e con somma diligentia emendate, in Vinegia, per Francesco Bindoni e Mappheo Pasini compagni, 1539, c. 48v; la princeps è del 1516), Ludovico Dolce l’aveva affrontata e definita precisamente come indicato nella lezione: «’doppo’ si doppia da’ prosatori, ma nel verso non si pone altrimenti che con solo ‘p’» (Le

146 Gli esempi appena proposti, presi da un’unica lezione, si presentano simili in tutte le altre esercitazioni manoscritte su Petrarca. La loro ricorrenza testimonia in maniera eloquente l’esigenza degli accademici di approssimarsi attraverso la lezione petrarchesca alla lingua letteraria toscana, che verisimilmente non riuscivano a padroneggiare con naturalezza. Di qui si comprende il carattere formativo delle esercitazioni accademiche, che offrivano ai consociati l’occasione per misurarsi con lo strumento linguistico in un contesto di vicendevole e positivo confronto. Queste lezioni aiutavano i membri Insensati a conquistare quell’ambita sprezzatura linguistica, necessaria per acquisire l’altrettanto desiderata patente di ‘letterato’. Tuttavia, l’unica classificazione sinora avanzata, fondata sulla maggiore o minore lunghezza delle esposizioni petrarchesche, non sembra esaustiva. In base al contenuto, infatti, si può distinguere tra una maggioranza di lezioni volte ad esplorare la lingua di Petrarca (e a godere dei suoi insegnamenti morali) ed alcune poche lezioni che indagano il tema filosofico suggerito dalla lettura dal sonetto e lasciano in secondo piano l’analisi dei versi. In questi casi, il costante interesse linguistico non è disgiunto da un indirizzo filosofico che di fatto determina la differente tipologia della esposizione. Se ciò è piuttosto raro nel novero delle lezioni di

osservationi del Dolce, da lui stesso in questa seconda editione emendate e ampliate, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1552, p. 137; la princeps è del 1550). Questo passaggio delle Osservationi del Dolce non era sfuggito al suo avversario Girolamo Ruscelli che nel Secondo dei suoi Tre discorsi giudicava la regola opportuna, ma incoerente la sua applicazione da parte dello stesso Dolce: «havete voi inteso signor mio, come voi dite, che ‘doppo’ si doppia da’ prosatori? […] La regola è buona e vera e osservatissima, che sempre nel Boccaccio, nel Bembo e in ogni buono scrittore in prosa si legge ‘doppo’ con doppia ‘p’, e o buona o trista che sia, voi la ponete. Hora leggasi detto vostro libretto, che tal regola insegna, dall’un capo all’altro, e in esso si troverà la detta parola ‘dopo’ usata più di trentacinque volte, e sempre usate ‘dopo’ con una ‘p’ sola […]. Se dunque voi, padron mio, insegnate a noi poveri discepolotti vostri che nelle prose si scriva ‘doppo’ con doppia ‘p’, perché poi voi medesimo, nel medesimo libro scritto da voi in prosa, usate regola contraria e scrivete sempre dopo con una ‘p’, come dite che si scrive nel verso?» (Tre discorsi di Girolamo Ruscelli a messer Lodovico Dolce. L’uno intorno al ‘Decamerone’ del Boccaccio, l’altro all’‘Osservationi della lingua volgare’, e il terzo alla tradottione dell’Ovidio, in Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1553, p. 53). Proprio sul pungente fervore critico di Ruscelli nei confronti di Dolce si concentrano le riflessioni di S. TELVE, Ruscelli grammatico e polemista: i ‘Tre discorsi a Lodovico Dolce’, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2011.

147 Aureli (di cui può esser così definita soltanto la lezione sul sonetto Rvf 89),49 non lo è per quelle di Contolo Contoli. Le sue lunghe dissertazioni non di rado presentano una forma ibrida, nella quale convergono interessi linguistici e filosofici; addirittura, nel caso della lezione Sopra il sonetto del Petrarca ‘Amor che ’ncende il cor d’ardente zelo’, l’autore passa in rassegna piuttosto velocemente le quartine e le terzine e si impegna invece a «dividere le spetie di diversi amori, quello che sia determinare, dimostrare [la cass.] il suo nascimento e generatione, dichiarare in che sia dal desiderio differente, […] indi del timore e gelosia ragionare» (85v).50 La lezione è dunque una sorta di breve trattato sull’amore, che si conclude con alcune osservazioni sulla gelosia di Petrarca. Non è certo un caso che il medesimo tema ed il riferimento al medesimo sonetto comparissero nella Lettura [...] sopra un sonetto della gelosia di monsignor Della Casa, la più fortunata delle lezioni padovane di Benedetto Varchi. 51 Recitata nell’Accademia degli Infiammati probabilmente nell’autunno del 1541 e stampata nel 1545, questa esercitazione spiega alla luce di celebri esempi letterari la psicologia dell’uomo geloso. Varchi commentava i casi narrati da Boccaccio, Ariosto, Orazio e Properzio e giungeva infine a smentire l’ostentata imperturbabilità di Petrarca che affermava di non provare gelosia per la donna amata. Al contrario del fiorentino, Contoli difendeva il poeta del Canzoniere dalle accuse di essere menzognero, ritenendo infatti che quest’ultimo «non fosse mai geloso di gelosia propriamente detta, ma […] solo temesse non poter mai arrivare ai meriti della sua divinissima Laura» (109r).52 Di là dalle differenze contenutistiche, conta qui osservare che l’«impalcatura concettuale» della lezione varchiana, nella quale il sonetto diviene «occasione per una discussione filosofica», è presa a modello per queste

49 [O. AURELI], L’ultima domenica di aprile 1569 a dì 24. Lettione dello Svogliato letta nell’Academia de gli Insensati, sopra il sonetto ‘Fuggendo la prigione [ove Amor m’ebbe]’, ms. Petr. I 53, cc. 280r-287v: la lezione è di fatto una lunga meditazione sul tema della libertà. 50 C. CONTOLI, Lettione di C.C. Academico Insensato perugino sopra il sonetto del Petrarca ‘Amor che ’ncende il cor d’ardente zelo’, ms. Petr. I 53, cc. *81r-*109r. 51 B. VARCHI, Lettura di messer B.V. sopra un sonetto della gelosia di monsignor Della Casa, fatta nella celebratissima Accademia de gl’Infiammati a Padova, in Mantova, [Venturino Ruffinelli], 1545. Il sonetto di Della Casa è Cura, che di timor ti nutri e cresci. 52 CONTOLI, Sopra il sonetto del Petrarca ‘Amor che ’ncende il cor d’ardente zelo’, cit.

148 esercitazioni letterario-filosofiche degli Insensati. 53 Nell’ambito della ricezione ancora tutta da scrivere delle lezioni varchiane, sembra insomma di poter stabilire un evidente contatto con alcune delle esercitazioni petrarchesche degli Insensati. Come si vedrà nel capitolo successivo, soltanto questa modalità espositiva sopravvisse nelle esigue esercitazioni letterarie della seconda fase dell’accademia perugina.

III.4 Un terzo filone (eterogeneo?) di lezioni

Il duplice proposito di fondare l’entità accademica e di definire il modello poetico e linguistico di riferimento assorbe buona parte delle esercitazioni accademiche della prima fase. Ne sono apparentemente escluse alcune lezioni, che affrontando temi diversi fra loro, non risultano direttamente connesse al resto dell’attività accademica. Questo terzo insieme di lezioni si presenta senz’altro meno compatto dei due precedenti, essendo composto da singole dissertazioni che trattano tematiche definibili in senso lato etiche, estetiche e mondane. Appare fin da subito evidente la coesione di un ristretto gruppo di cinque lezioni che disquisiscono a vari livelli intorno alla virtù. Nel suo Compendio del trattato della bellezza, esempio di faticosa elaborazione teorica sovrabbondante di auctoritates, lo Smemorato Ottaviano Colombi ragionava intorno alla bellezza dell’animo, la «supprema parte» della bellezza umana.54 Essa equivale alla «virtù», intesa in termini aristotelici e ciceroniani, che può essere «intellettuale», quando è riferita «alla scienza, alla sapienza, alla prudenza, all’intelletto e all’arte», oppure «morale», quando è connessa con i «costumi» (167r-v). La «perfettione» dell’animo si raggiunge solo con l’acquisto di tutte le virtù e delle loro «parti», che sono unite insieme tra loro «in guisa di catena», tale per cui il possesso dell’una presuppone il conseguimento delle altre (167v). Questo ideale di

53 Per una succinta analisi della lezione varchiana citata, si veda ANDREONI, La via della dottrina, cit., pp. 58-63 (citazione, p. 63), che precisa quanto precedentemente sostenuto da P. CHERCHI, Due lezioni di Benedetto Varchi ispirate da J.L. Vives, «Lettere italiane», 40 (1988), pp. 387-399. 54 [O. COLOMBI], Compendio del trattato della bellezza (di O. Platoni, detto lo Smemorato, filosofo e medico), ms. 1717, cc. 163r-174v.

149 kalokagathia può compiersi appieno soltanto grazie ad un impegno duraturo e costante: la bellezza «intellettuale» diventa infatti più forte «col tempo, co’ l’esperienza», quella «morale, […] non essendo questa altro che un habito già da noi contratto al ben fare», necessita del pari di pratica e di un «lungo esercitio» (171r).55 Il Compendio di Colombi però non specifica l’ambito nel quale l’uomo bello e valoroso fosse chiamato ad esercitarsi. Proprio da qui prende invece avvio la lezione di Giovanni Tinnoli In lode della virtù, che precisa agli altri soci accademici quale percorso formativo consentirà loro di avviarsi alla perfezione: «tra l’ertissime e lodevolissime vie che ci conducono alla nobilissima virtù, questa sola i dotti e scientiati huomini affermono essere la primiera: ciò è gli ottimi studii delle buone e sante lettere» (192v-193r).56 Perché la virtù sia «perfetta» servono dunque le lettere che si devono coltivare con «l’attione e l’essercitio» sin dai primi anni di età. La tesi della lezione, provare che grazie alla «dottrina» si possa diventare «virtuosi», viene dimostrata in realtà con la sola insistita reiterazione del concetto medesimo, che trova il suo compimento dopo la lunga sezione dedicata alla descrizione della virtù.57 Questa convinzione si tramuta allora in un invito,

55 Un ideale espressamente dichiarato, dal momento che «le lodi della bellezza potranno esser fondate sopra la conformità e quasi continua unione che essa tiene con la bontà, tal che il bello e il buono par che sia quasi una medesima cosa» (c. 173r). 56 [G. TINNOLI], In lode della virtù, del Cieco (dottore G.T. filosofo e medico), ms. 1717, cc. 192r- 201v. 57 Questa parte centrale, che procede sulla scorta delle auctoritates filosofiche classiche, presenta la definizione della virtù quale «retto abito dell’animo nostro per il quale siamo huomini da bene» ([TINNOLI], In lode della virtù, cit., c. 199r). La sezione si apre con la suggestiva rappresentazione della virtù alata che solleva da terra i virtuosi e con un breve excursus che interrompe la compostezza speculativa della lezione. Si tratta di un vero intermezzo drammatico, in cui emerge tutto lo sdegno dell’autore di fronte all’immagine della virtù «in forma di pellegrino» errante sulla terra: «o miseri mortali che non vi svegliate omai dal sonno! Perché non albergate la santissima dea? Perché non l’adorate? Voi siete pur desiderosi di onore e di gloria, voi pur cercate la beatitudine in questa vita, voi pur desiderate essere nel colmo della felicità» (cc. 197r-v). Poiché la raffigurazione della virtù come «pellegrino» è stata concepita «in tempi nostri», è possibile che la fonte utilizzata da Tinnoli sia V. CARTARI, Le imagini de i dei de gli antichi, nelle quali si contengono gl’idoli, riti, cerimonie e altre cose appartenenti alla religione de gli antichi […], in Lione, appresso Stefano Michele, 1581, p. 308 (ma la prima edizione veneziana è del 1556, per Francesco Marcolini) oppure La piacevol notte e lieto giorno del lucchese Nicolao Granucci, dove sono lodati «certi gioveni nostri domestici» per aver mostrato la virtù come un viandante «che via di fretta camini, non ritrovando stanza fra di noi» (in Venetia, appresso Iacomo Vidali, 1574, c. 127v). Su Cartari si vedano M. PALMA, Cartari, Vincenzo, DBI, 20, 1977, ad vocem; S. PIERGUIDI, I disegni Rothschild di Giovanni Guerra e ‘Le immagini degli Dei’ di Vincenzo Cartari,

150 anch’esso replicato più volte, ad impegnarsi negli «studi», grazie ai quali si raggiungono «in questa vita tutte le gran cose che a uno huomo possono facilmente accadere» (200v). Stabilito ormai il binomio virtù-lettere, saranno le tre lezioni dello Svogliato Aureli ad ampliarlo in maniera decisiva e a completarlo con un terzo elemento. Le sue dissertazioni Della felicità, Contro la povertà e Della nobiltà presentano la medesima struttura ed un contenuto assai simile. Ad inizio lezione sono esposte e dimostrate con vari esempi le soluzioni spicciole escogitate dal popolo intorno all’acquisizione della vera felicità, ricchezza e nobiltà. In un secondo momento, con repentino passaggio, queste ipotesi sono rovesciate e sostituite con la tesi definitiva, cioè la verità degli uomini dotti, che restituisce il vero messaggio delle dissertazioni.58 Nella prima delle tre orazioni, al fine di mostrare agli altri Insensati come si consegue la felicità, Aureli adottava l’opinione condivisa dai più, i quali sostenevano che essa si ritrovasse «nelle ricchezze». La povertà infatti non consente di guadagnare né «piaceri», né «onori», porta invece con sé il «disprezzo» e l’allontanamento delle persone care. Ha inizio qui un convinto elogio delle ricchezze che «ci acquistano de gli amici, ci fanno padroni a gli altri huomini, ci fanno pronti, animosi, […] dilettano la gioventù, aiutano la vecchiezza» (179v). Di seguito alla lunga elencazione, qui di necessità abbreviata, si giunge all’inaspettata svolta, che chiude la prima sezione della lezione ed inaugura la seconda. Il drastico rovesciamento di prospettiva era stato in realtà accuratamente preparato, perché l’autore aveva inserito nelle parti precedenti del testo alcuni brevi sintagmi (quali «dicono che»: 178v, o «come alcuni vogliono»: 179v), volti ad attribuire ad altri l’opinione comune del popolo e a distinguerla dalla sua, ben più assennata. La tesi di Aureli ricorda da vicino quanto sostenuto da Tinnoli nella lezione citata in precedenza:

«Schede umanistiche», 18 (2004), 2, pp. 135-158; su Granucci: F. PIGNATTI, Granucci, Nicolao, DBI, 58, 2002, ad vocem. 58 Alle già citate orazioni dello Svogliato Della felicità e La nobiltà, si deve aggiungere il Ragionamento dello Svogliato Insensato contra la povertà, ms. 1717, cc. 186r-191r. Nel caso dell’orazione Della nobiltà, con ogni probabilità non conclusa dall’autore, il rispecchiamento con le dissertazioni precedenti si compie parimenti, ma si interrompe all’altezza del secondo passaggio, prima della rivelazione della verità.

151 Giudicar dobbiamo solamente colui potersi e doversi veramente felice chiamare, il quale, lasciate tutte le delitie e piaceri, lasciate tutte le ricchezze e tesori, lasciate tutte le dignità e onori del mondo, alla sola virtù attende, e in quella acquistarsi pone ogni studio e opera e diviene di lei possessore, raccogliendo abbondantissimi frutti delle sue onorate fatighe. La sola virtù adunque è quella che ne può fare veramente felici, non i piaceri, non le ricchezze, non le dignità (180r).

Il guadagno per l’uomo che sceglie di votarsi alla virtù è pressoché immediato: essa infatti gli consegna beni eterni, non corruttibili, e gli consente di raggiungere ugualmente i «piaceri» (ma spirituali e non più corporali), le «ricchezze», le «dignità» e gli «onori». Volendo poi rivelare le modalità attraverso le quali arrivare alla virtù, Aureli sosteneva che «fra tutti i sentieri […], nessuno (per mio aviso) ce n’è, che più agevole e più spedito sia […] quanto lo studio delle belle lettere» (182v-183r). Esortando anch’egli, come Tinnoli, all’apprendimento e alla pratica delle lettere, Aureli subordinava questa attività al rispetto di una condizione, il suo compiersi in unione con gli altri uomini, perché «se uno solo e da sé medesimo si esercitasse, poco (per mio credere) o niente di frutto farebbe. Ma se l’essercitatione è in compagnia, […] si fa un frutto miracoloso e noi ne possiamo parlare come per arte» (183r). Naturalmente qui Aureli intendeva riferirsi all’accademia stessa, definita nel proseguo del testo quale «nostra essercitatione» (183r), che egli celebrava nella parte finale della lezione per la sua capacità di mantenere i propri membri «Insensati», cioè dediti alle «cose alte». Ad eccezione di questo gruppo compatto, le altre lezioni degli accademici umbri si presentano come un insieme piuttosto disomogeneo. Ciò che in realtà differenzia queste poche dissertazioni dalle altre è l’impossibilità di classificarle in uno dei filoni tematici che si sono sin qui identificati (lezioni autoreferenziali, su Petrarca e sulla virtù). Tuttavia, la trattazione di argomenti all’apparenza distanti da quelli già esposti incrocia di nuovo i medesimi interessi letterari, mondani e, in senso lato, filosofici, con cui l’accademia era solita misurarsi, rendendo così evidenti gli elementi di continuità della produzione degli Insensati.

152 Accanto ai temi etici esplorati nelle citate Conclusioni del Traviato Insensato, le lezioni degli Insensati si indirizzano di preferenza ad indagare temi letterari. Probabilmente il vertice del pensiero degli Insensati in questa prima fase è toccato dalla lezione a stampa Del madrigale di Filippo Massini, che rappresenta anche la prima riflessione teorica su un argomento propriamente letterario compiuta da un Accademico Insensato. 59 Sulla scorta di Bembo che aveva annoverato il madrigale tra le forme «libere», Massini si opponeva a tutti coloro che, a suo giudizio, avevano tentato di costringerlo entro una serie di vincoli metrici, formali e tematici. Si chiedeva infatti l’autore perché si dovessero negare ai «moderni» quelle stesse libertà che gli «antichi» si presero, essendo peraltro noto a tutti che i primi «in questa sorte di componimento sieno stati, e quanto a i pensieri e quanto alle testure, più felici» dei secondi (164). Pure, la riconquista di queste libertà è di fatto subordinata al rispetto di alcuni criteri derivati dall’equiparazione tra il madrigale e una «canzone di una stanza sola». In virtù di questo rispecchiamento tra le due forme metriche, Massini prevedeva per il madrigale un numero di versi non minore di cinque né maggiore di venti, un intervallo tra una rima e l’altra mai superiore ai cinque versi, la possibilità di lasciare un verso «scompagnato», secondo un uso ormai consolidato dei poeti «antichi» e «moderni», e la «mescolanza» tra versi «interi» (endecasillabi) e versi «rotti» (settenari). Nel momento di discutere i soggetti adatti al madrigale, Massini non escludeva a priori il trattamento di materie gravi, ma riconosceva senza esitazioni la piacevolezza «più propria» alla brevità della forma metrica in discussione. La lezione, che si snoda non senza qualche intoppo tra proposizioni teoriche e attenzione alla prassi, è costantemente citata dalla critica moderna quale uno degli interventi più significativi all’interno della discussione sulla struttura del madrigale di fine Cinquecento.60

59 [F. MASSINI], Del madrigale, lettione dell’Estatico Insensato, recitata da lui publicamente nell’Academia de gl’Insensati di Perugia il dì 28 d’Aprile 1581, nel reggimento dell’eccellente signor Bastiano Amerighi, detto il Bizzarro, in [ID.], Lettioni dell’Estatico Insensato, cit., pp. 147-185. 60 Sulla lezione, oltre all’Introduzione dell’edizione curata da Giuseppe Fanelli, già ricordata, si vedano: A. MARTINI, Ritratto del madrigale poetico tra Cinque e Seicento, «Lettere italiane», 33 (1981), 4, pp. 529-548; ID., Marino e il madrigale poetico fra Cinque e Seicento, in The

153 Le lezioni di Contolo Contoli, conservate nel manoscritto 1407, ricalcano la tipologia filosofica delle dissertazioni petrarchesche e dimostrano una emergente curiosità per gli autori contemporanei. La prima delle due lezioni espone infatti il sonetto di Domenico Venier V’amo donna e di me sol per ch’io v’amo, la seconda il componimento di Cesare Caporali Di poco sdegno alta querela nata.61 In entrambi i casi l’analisi dei sonetti è presto abbandonata in favore di altri temi che evidentemente risultano più confacenti agli interessi dell’autore della lezione. Nella prima dissertazione si passa a trattare dell’amore, con continui richiami alle Conclusioni amorose tassiane; nella seconda si illustra invece il duello tra gentiluomini, un tema tipicamente mondano, con una dettagliata esposizione delle norme che ne regolano l’esecuzione.62 Lo svolgimento delle lezioni degli Insensati si distende di frequente fino a comprendere insieme più ambiti del sapere, di là da quanto espresso nel titolo. Oltre alle lezioni del manoscritto 1407, un ulteriore esempio può essere il discorso De’ colori di Ottaviano Aureli, dove l’esposizione di una questione filosofico-estetica – lo svelamento del «significato» dei colori – viene posta al servizio di un’esigenza, per così dire, socio-mondana. Il suo

“Sense” of Marino, ed. by F. GUARDIANI, New York-Ottawa-Toronto, Legas, 1994, pp. 361-393; S. RITROVATO, Forme e stili del madrigale cinquecentesco, «Studi e problemi di critica testuale», 62 (2001), pp. 131-154 e ID., Antologie e canoni del madrigale (1545-1611), «Studi e problemi di critica testuale», 69 (2004), pp. 115-136; MOTTA, Petrarca a Milano, cit., pp. 255-265. 61 C. CONTOLI, Lettione di C.C. Academico Insensato sopra un sonetto di Domenico Veniero, letta da lui publicamente nell’academia il dì [†† cass.] di ottobre 1572, ID., Lettione di C.C. Insensato Academico, letta da lui publicamente nell’academia il dì [ _ ] di aprile del 1573, sopra il sonetto di Cesare Caporale [per cass.] ‘Di poco sdegno, alta querela nata’, BAP, ms. 1407, fasc. VIII, cc. [1r-16v]; fasc. XXXIII pp. 1-56. Contoli, a c. 3v della prima lezione, sosteneva di aver trovato il componimento di Venier «tra le rime di diversi», ma lasciò uno spazio bianco nel momento di rendere noto il nome della raccolta («il cui titolo è sì fatto [ _ ]»). Presumibilmente egli lesse il sonetto nella silloge poetica Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte e mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli […], in Vinegia, al segno del Pozzo, 1553, c. 131v. 62 Come rivela Angelo Solerti nella sua Vita di Torquato Tasso (Torino - Roma, Loescher, 1895, I, pp. 128-131), le Conclusioni amorose vennero discusse nell’Accademia Ferrarese nel 1570 e furono stampate nell’edizione delle Rime del 1581 (Rime del signor Torquato Tasso, parte prima. Insieme con altri componimenti del medesimo, in Vinegia, [Aldo Manuzio il giovane], 1581). Poiché la lezione di Contoli è dell’ottobre 1572, si deve allora presumere la lettura in accademia di opere tassiane ancora in forma manoscritta. Sull’opera di Tasso, si vedano A. MANETTI, Le conclusioni amorose, «Studi tassiani», 24 (1974), pp. 33-45; M. FARINA, Tasso's ‘Fifty Conclusions about Love’: An Introduction, «Forum Italicum», 38 (2004), pp. 364-375. Una sinossi della seconda lezione di Contoli, che narra il duello tra «Amore» e il «core» di Coppetta, è offerta in SACCHINI, Inediti dell'Accademia degli Insensati, cit.

154 autore riconosceva infatti fin dall’inizio che la lezione era stata concepita per fornire un aiuto nel momento della creazione delle proprie imprese o dell’esposizione di quelle altrui. I colori interessano qui in quanto erano uno degli elementi caratteristici delle «dilettevoli» imprese.63 Analogamente, nella lezione De i miracoli, all’apparenza fuori dal novero dei consueti argomenti, i fenomeni sovrannaturali sono considerati dallo Svogliato prima «per quanto appartiene al grammatico», poi al «filosofo» (216r).64 Non deve però in alcun modo sorprendere l’apparente eterogeneità disciplinare: questo complesso di lezioni rispecchia in realtà la commistione tra tematiche etiche, estetiche e mondane tipica del sistema culturale classicistico e va evidentemente interpretato quale esempio di una serie di esercitazioni sopra il vasto campo delle ‘lettere’.

III. 5 Oltre le lezioni accademiche

Sebbene le esercitazioni collettive rappresentassero senza dubbio il centro della produzione della fase pre-crispoltiana, nei primi tre decenni di vita dell’accademia i singoli membri Insensati si cimentarono anche in altri generi letterari, quali la poesia lirica o la commedia. Tra i partecipanti al consesso non si possono certo dimenticare le figure di Cesare Caporali e Sforza Oddi, nomi non del tutto secondari nel panorama letterario nazionale, che già a quell’altezza cronologica avevano fornito le loro prime (e forse più significative) prove.65

63 [O. AURELI], Discorso dello Svogliato Insensato intorno alla dichiaratione e significati de’ colori fatto nell’Academia de gli Insensati, ms. 1717, cc. 497r-507r. Dopo aver presentato l’argomento della lezione, Aureli ne rivendicava la novità, essendo quella da lui proposta «materia nuova, e da nessuno fino ad ora (che io sappia) trattata» (c. 497r). L’autore forse fingeva di non sapere di aver toccato, descrivendo le qualità dei colori (anche in rapporto alle imprese), uno dei temi in realtà più fortunati e discussi del Cinquecento. Sull’importanza dei colori nel periodo in esame, si rimanda ad A. QUONDAM, Tutti i colori del nero. Moda e cultura del gentiluomo nel Rinascimento, (Costabissara) Vicenza, Angelo Colla Editore, 2007 (in particolare, pp. 79-118); in un’ottica generale resta valida la sintesi di M. BRUSATIN, Storia dei colori, Torino, Einaudi, 1983. 64 [AURELI], Lettione di O.A. nella quale si ragiona de i miracoli, cit. 65 La prima e la seconda commedia di Sforza Oddi uscirono rispettivamente nel 1572 (Erofilomachia) e nel 1576 (I morti vivi); la terza, Prigione d’amore, nel 1590. Questa data è però messa in discussone da Anna Rita Rati, la quale non esclude che in precedenza l’opera fosse già stata stampata a Perugia nel 1576, come già sosteneva Vermiglioli nella sua Biografia (II, p. 148-149): A.R. RATI, Introduzione, in ODDI, Commedie, cit., pp. 7-99: 8n. Il

155 Nel suo commento alle opere del commediografo perugino, Anna Rita Rati sottolinea infatti l’importanza, per la stesura delle commedie, della partecipazione di Oddi alle due accademie perugine degli Unisoni e degli Insensati. L’apparato paratestuale che accompagna la commedia i Morti vivi del 1576, così come la presenza nel testo teatrale dei nomi degli accademici, dimostra già di per sé quanto fosse forte il legame di Sforza Oddi con l’accademia. 66 Non per caso, non solo in questa commedia, che segna probabilmente il culmine dell’esperienza accademica dell’autore, ma anche nell’Erofilomachia e nella Prigione d’amore, vi sono continui riferimenti al mondo e agli studi della giurisprudenza, che evidentemente rimandano all’ambiente culturale e sociale di provenienza dell’autore.67 Anche Caporali, la cui Vita di Mecenate venne stampata nel 1604 quale opera dello Stemperato Insensato, non dovette essere estraneo all’ambiente accademico.68 L’episodio raccontato dal suo nipote ed esegeta

Viaggio e gli Avvisi di Parnaso di Caporali, composti intorno al 1580, furono pubblicati nel 1582 (L. FIRPO, Allegoria e satira in Parnaso, «Belfagor», 1 (1946), pp. 673-699: 686). Le due opere di Caporali presentano (anche da un punto di vista terminologico) i due diversi esiti della letteratura parnassica: da una parte il Viaggio, in versi, illustra un’esplorazione fantastica sul monte Parnaso, che deriva dai generi delle visioni e dei poemi allegorici; dall’altra gli Avvisi, in prosa, mostrano evidenti contatti con la forma delle prime gazzette e dei ragguagli della seconda metà del XVI secolo: F. CAPPELLI, Parnaso bipartito nella satira italiana del ‘600 (e due imitazioni spagnole), «Cuadernos de Filologìa Italiana», 8 (2001), pp. 133-151: 136-139. L’edizione moderna del Viaggio di Parnaso è a cura di Norberto Cacciaglia (Perugia, Guerra Edizioni, 1993). 66 Si veda quanto affermato nel capitolo precedente (§ II.4.4.1). Prima della recentissima pubblicazione di Rati, la sola Erofilomachia era già stata edita in tre edizioni moderne, curate rispettivamente da Benedetto Croce (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1946), Aldo Borlenghi (in Commedie del Cinquecento, II, Milano, Rizzoli, 1959) ed Emilio Faccioli (nel volume Il teatro italiano, II, a c. di G. DAVICO BONINO, t. 3, Torino, Einaudi, 1978). Su Sforza Oddi, oltre alle pagine introduttive delle edizioni citate, si veda almeno: B.M.H. CORRIGAN, Sforza Oddi and his comedies, «PMLA», 49 (1934), pp. 719-742; R.W. LESLIE, Sforza Oddi and the "Commedia Grave": Setting the Stage for Shakespeare, «Comparative Drama», 30 (1996-97), pp. 525-551; A. COLLER, Ladies and Courtisans in Late Sixteenth-Century "Commedia grave": Vernacular Antecedents of Early Opera's "Prime donne", «Italian Studies», 62 (2007), pp. 27-44. 67 RATI, Introduzione, cit., pp. 19, 81-86. 68 Pur godendo di buona fama negli studi, perché riconosciuto quale iniziatore della tradizione allegorica parnassiana, Caporali è stato per lungo tempo il bersaglio di giudizi estetici piuttosto negativi: B. CROCE, Due illustrazioni al «Viaje del Parnaso» del Cervantes, in ID., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 19483, pp. 119-154: 119-139; FIRPO, Allegoria e satira in Parnaso, cit.; F.D. MAURINO, Cervantes, Cortese, Caporali and their journeys to Parnassus, «Modern Language Quarterly», 19 (1958), pp. 43-46; C. MUTINI, Caporali, Cesare, DBI, 18, 1975, ad vocem; CAPPELLI, Parnaso bipartito nella satira italiana, cit.; F. CIRI, «Merlin Coccajo» in Parnaso. Folengo nell’opera burlesca di Cesare Caporali, «Quaderni folenghiani», 5 (2004-2005), pp. 97-103. Sulla situazione del bernismo nel secondo Cinquecento, entro il quale si muoveva Caporali, si veda D. ROMEI, Poeta satirica e giocosa nell’ultimo trentennio del Cinquecento, banca dati del «Nuovo Rinascimento»

156 Carlo, secondo il quale mentre Cesare leggeva le sue poesie in accademia, «furonvi alcuni che, da parte scrivendo, le divolgarno poi anche alle stampe», potrà anche non esser veritiero; ma di certo le poesie di Caporali circolarono tra gli Insensati in forma manoscritta e riscossero un duraturo apprezzamento.69 Non solo: come informa Vincenzo Cavallucci, Caporali attese (invano) di ricevere il commento alle sue rime proprio dall’Insensato Fulvio Mariottelli.70 Nonostante siano dunque evidenti i punti di contatto di Oddi e Caporali con il sodalizio di appartenenza, in entrambi i casi le opere dei due autori non sono a ben vedere direttamente riferibili all’attività dell’accademia. In altre parole, non sembra esistere (o almeno non risulta documentata) all’interno dell’accademia una qualche tradizione di poesia burlesca o di teatro comico – se così possono esser definite le commedie verbose di Oddi – che possa realizzarsi appieno nelle raccolte poetiche di Caporali o nelle opere teatrali di Oddi. Né tantomeno sembra che le loro opere abbiano stimolato gli accademici a promuovere con una certa regolarità questi generi letterari. Forse si può riconoscere all’interno della letteratura perugina di Cinquecento e di primo Seicento una produzione a vario titolo basso-mimetica, che inizia con Coppetta, prosegue con Caporali e si perfeziona con Boccalini. Ma anche questa micro-tradizione (si badi bene: del tutto ipotetica) non può comunque essere riferita in alcun modo all’attività dell’Accademia degli Insensati, di cui era membro il solo Caporali.71 Per quanto concerne la commedia, invece, l’esempio di Oddi fu

(http://www.nuovorinascimento.org/nrinasc/saggi/pdf/romei/cinquec.pdf), in rete dal 21/8/1998. 69 C. CAPORALI, Rime di C.C., con l’osservationi di Carlo Caporali, dal medesimo di nuovo reviste e accresciute. Al molto illustre ed eccellente signore Nicolò Minato, in Venetia, appresso Giacomo Bortoli, 1656, p. 3. Tra le testimonianze della imperitura fortuna di Caporali in accademia, si segnala un interessante manoscritto (ms. 122 [C. 5] della BAP) che contiene il suo Viaggio di Parnaso con il commento dell’Accademico Insensato Pietro Dionigio Veglia. Su Veglia, filosofo e matematico perugino del Seicento, si veda VERMIGLIOLI, II, pp. 313-316. 70 V. CAVALLUCCI, Vita di Cesare Caporali, in CAPORALI, Rime [ed. 1770], cit., pp. 1-35: 30. 71 Non s’ignorano e nemmeno si vogliono negare i sin troppo evidenti contatti tra Caporali e Boccalini, che nei suoi Ragguagli, pubblicati a Venezia tra il 1612 e il 1613 (appresso Pietro Farri), raggiunse il culmine del genere parnassiano (introducendovi anche molti mutamenti, primo dei quali la scelta della prosa al posto della terzina). Verosimilmente i due si incontrarono a Perugia dove aveva studiato il loretano Boccalini: si veda al riguardo L. MARCONI, Traiano Boccalini studente a Perugia (1578-1582). Documenti inediti sulla permanenza e laurea nello “Studium” perugino, «Il pensiero politico», 31 (1998), pp. 73-87.

157 senza dubbio significativo per un altro accademico Insensato, Francesco Podiani.72 Tuttavia, anche questa connessione tra i due membri accademici, certo non basta a sancire l’esistenza di un interesse collettivo dell’accademia per il teatro comico.

III.6 Tra iconografia e letteratura: il manoscritto di imprese accademiche degli Insensati

Nell’analizzare questo quadro, tutto sommato compatto, della produzione ascrivibile alla prima fase di vita degli Insensati, ancora non si è fatto cenno (se non brevemente in nota) ad un manoscritto di imprese accademiche, conservato presso l’Archivio Storico dell’Università di Perugia (parte III, n.n.). Il codice, in ragione della sua sfuggente cronologia, e della sua elegante veste iconografica, merita una trattazione a parte. Il volume presenta una serie di quarantaquattro imprese disegnate a penna. Ad eccezione della prima, che corrisponde a quella collettiva degli Insensati (fig. 5), le altre quarantatré si stagliano su uno sfondo variamente decorato con edicole fittizie ed altre più semplici strutture architettoniche. Ogni insegna è abbinata al nome accademico del suo autore, ad un cartiglio con lo stemma della famiglia di quest’ultimo e ad un breve testo letterario, non sempre presente.73 L’analisi del manoscritto non può che partire dal problema della datazione. L’unica certezza è la compilazione della parte letteraria ad opera di un’unica mano, con la sola eccezione dell’impresa dell’Accademico Desioso, che si differenzia dalle altre anche per il formato maggiore della

72 Come dimostra Antonella Lommi, la commedia Erofilomachia di Oddi è tra i modelli dei Fidi amanti di Francesco Podiani (A. LOMMI, Introduzione, in Due commedie patetiche del Cinquecento. Il ‘Pellegrino’ di Girolamo Parabosco; ‘I fidi amanti’ di Francesco Podiani, a c. di A. LOMMI, Milano, Unicopli, 2008, pp. 7-48: 29). 73 Per una più ampia descrizione si rimanda all’Appendice I. Il manoscritto, riscoperto soltanto di recente per merito di Maria Alessandra Panzanelli Fratoni (Doctores excellentissimi, cit., pp. 192-194), sarà oggetto di una più approfondita indagine a cura della stessa, di Laura Teza, e di chi scrive. Questo nuovo progetto, nato dalle informali conversazioni perugine, ha come obiettivi quelli di datare con maggior precisione il codice, di proporre un’analisi dell’apparato iconografico e di produrre un’edizione critica e commentata dei testi.

158 carta. Si è originata di qui la supposizione che il manoscritto sia stato vergato in un lasso di tempo ragionevolmente circoscritto. Nello studio del codice, è parsa fin da subito evidente la presenza di un gran numero di accademici della prima fase. Infatti, se si confronta la già citata rassegna fatta dallo Svogliato del 1575 con i quarantatré nomi accademici presenti nel volume dell’Archivio Storico, si contano ben venticinque corrispondenze sulle trentuno dell’elenco.74 Tuttavia, proprio i mancati riscontri tra i due manoscritti sono stati determinanti per stabilire la posteriorità del codice di imprese. Qui sono infatti presenti i nomi di alcuni accademici, nati nella seconda metà degli anni ’50 o nei primi anni ’60 del Cinquecento, che nel 1575 erano troppo giovani per partecipare al sodalizio. Compaiono tra questi Filippo Massini, il quale – come detto – entrò a far parte dell’accademia dopo il 1580, anno della sua laurea, e l’Assiderato Paolo Emilio Santorio, che venne accolto tra gli Insensati con ogni probabilità alla fine del 1587. 75 Da ultimo, si devono tenere in considerazione le due significative presenze delle imprese dell’Affascinato Cesare Crispolti (con ogni probabilità da poco ascritto all’accademia) e del Mortificato Paolo Mancini. Il nobile romano, noto per essere il fondatore ad inizio Seicento dell’Accademia degli Umoristi, studiò giurisprudenza a Perugia, iscrivendosi alla Matricola degli studenti stranieri il 30 novembre 1593.76

74 [AURELI], Sopra il sonetto ‘Io vo piangendo i miei passati tempi’, cit., cc. 276v-277r. 75 Così si può legittimamente dedurre da una lezione, fortunatamente datata, di Ottaviano Aureli, Ragionamento dello Svogliato Insensato in difesa del nome e impresa dell’Assiderato […] fatto nell’Academia il dì 13 ottobre 1587, cit. Ad inizio dissertazione, lo Svogliato celebrava il nome dell’Assiderato e ricordava le discussioni che accompagnarono l’accoglimento della sua impresa, nel momento della sua ricezione in accademia: «quando nei giorni addietro il nostro meritevolissimo archinsensato propose la sua bellissima e per ogni parte perfettisima impresa, […] e che sopra quella fu nell’academia lunga pezza ragionato e che finalmente, messa a partito a voti secreti, fu da tutti favoritissimamente approvata, senza discrepanza d’alcuno; tutta via non sono mancati di quelli che da poi, o per non si esser trovati presenti […], o per mostrare l’ingegno loro, o per altre cagioni, sono andati [†††] tutta via oppugnandola» (c. 420r). Poiché è ipotizzabile che la scelta del nome e l’invio dell’impresa fossero le prime incombenze di ogni nuovo membro accademico, ne consegue che l’ingresso in accademia di Santorio sia da porsi cronologicamente in una data prossima all’autunno del 1587. 76 La prima attestazione della presenza di Crispolti nell’Accademia degli Insensati è in un atto notarile del 1591 (ASCP, Archivio Storico del Comune di Perugia, Fondo Notarile, Atti di Ottaviano Aureli, 24/7/1591, cc. 229v-232v, citato in IRACE, Le Accademie letterarie, cit., p. 166n); sull’iscrizione di Mancini alla Matricola: MARCONI, Studenti a Perugia, cit., p. 53. Va inoltre precisato, vista l’importanza di tale elemento per la datazione del manoscritto, che

159 Non è possibile, per il momento, procedere oltre: le corrispondenze tra il nome accademico e il nome anagrafico non sono ad oggi sicure in tutti i casi e nemmeno sono note le date di adesione all’accademia della maggior parte degli iscritti. Ciò nonostante, i dati parziali appena esposti consentono comunque di circoscrivere il momento della stesura del manoscritto tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90 del Cinquecento.77 È senz’altro da escludere che tale periodo dovesse prolungarsi di molto oltre il 1593. In primo luogo, infatti, ad eccezione dei casi appena ricordati, nel manoscritto non compaiono le imprese degli accademici appartenenti alla seconda fase, le cui prime lezioni manoscritte sono della metà degli anni ’90.78 Ed in secondo luogo, nella stampa della terza edizione del suo trattato Dell’imprese del 1594, Scipione Bargagli rivelava di aver già avuto modo di vedere le imprese dei singoli Insensati, soffermandosi su quelle del Ruvido e dell’Insensato.79 non esistono dubbi sulla corrispondenza tra l’impresa del Mortificato e la figura di Paolo Mancini: infatti al centro della fittizia architettura compaiono in un piccolo cartiglio i due pesci, l’«arma» familiare dei Mancini di Roma (descritta in G.B. DI CROLLALANZA, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti […], Pisa, presso la Direzione del giornale araldico, 1888, II, p. 60). 77 Dopo aver abbinato, ove possibile, il nome accademico al nome anagrafico, si sono confrontate le date di nascita e di morte degli accademici le cui imprese sono effigiate nel codice. Il quadro che emerge conferma una volta di più l’ipotesi proposta. Anche la morte dell’Affamato Vincenzo Patrizi nel 1589, che a prima vista può risultare inconciliabile con la più tarda affiliazione di Mancini alla Matricola del 1593, non costituisce di per sé una ragione di ripensamento. Si può sanare l’apparente incongruenza ipotizzando una stesura del codice continuata per almeno quattro anni, oppure, facendo riferimento alla natura celebrativa e commemorativa del manoscritto, per cui il ricordo di Patrizi trovava comunque spazio nelle carte del codice. 78 Lo conferma il titolo del ms. 1058, dove è specificato che le lezioni sono state «recitate […] sotto il felicissimo reggimento dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, vescovo d’Ancona, governatore di Perugia e principe di detta accademia e d’altri principi»: come detto in precedenza (cap. II, n. 100) Carlo Conti ottenne il ruolo di governatore nel 1594 e lo conservò fino al maggio del 1595. 79 Nella sua descrizione Bargagli muoveva alcune critiche all’impresa dell’Insensato: «Fra le imprese de gli Accademici Insensati, ch’io ho hauto agio di vedere, sonvene parecchie, le quali tutto o maggior parte scuoprono delle qualità oggi appetite da voi. Di queste, una è d’un mangano il quale, havendo sotto della tela, col suo peso la fa diventar liscia e morbida, come per morto appare: sub pondere laevis. Il nome accademico dell’autore è il Ruvido. Un’altra ve n’ha dell’Insensato, che preso ha la siringa del dio Pane: la quale appiccicata ad un arbore, stando di rimpetto ad una bocca di vento, rende grata e soave melodia: et insensata melos. […] L’impresa dunque dell’Insensato, per essere ornata di tutte le qualità che la possano in prospettiva render pienamente riguardevole […], è caduta pure in un difetto sostanziale, di esser posata sopra favolosa materia, come conoscete esser la Siringa strumento di canne al dio Pane appropriata»: S. BARGAGLI, Dell’imprese di S.B., gentilhuomo sanese. Alla prima parte, la seconda e la terza nuovamente aggiunte […], in Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1594, pp. 217-219 (editio princeps: 1578). Il Ruvido è il cappellano Ippolito Sebastiano Rancanelli (VINCIOLI, I, p. 159); l’oggetto della sua impresa, il

160 Il contenuto del codice di imprese e la sua presunta datazione nel momento di passaggio tra la prima e la seconda fase del sodalizio autorizzano ad interpretarlo quale compimento ultimo dell’indirizzo autoreferenziale promosso in accademia sin dai primi anni. Le ormai antiche lezioni sulle singole imprese vengono sintetizzate nell’ottava o nel breve testo in prosa che accompagna l’illustrazione dell’insegna accademica. La coesistenza in un medesimo testo di scritti ecfrastici ed imprese non era al tempo del tutto scontata, benché la si possa spiegare con alcuni esempi coevi. Di là dal modello tipografico, forse da identificarsi negli Emblemata di Alciato, e dagli esempi francesi, dalla metà del secolo si costituì anche in Italia un gruppo compatto di pubblicazioni che presentano soluzioni assimilabili a quella proposta dagli Insensati.80 Tra queste, la fortunata raccolta di Imprese di diversi prencipi, duchi e signori, pubblicata dopo il 1562, è senz’altro alquanto prossima alla forma del codice degli Insensati per la scelta della forma metrica adottata.81 Qui infatti ogni illustrazione del

«mangano», è uno strumento che veniva utilizzato per la rifinitura dei tessuti. Come si vedrà in § IV.2, Bargagli estendeva le sue obiezioni anche all’impresa generale del consesso. 80 La prima edizione dell’Emblematum liber di Alciato è del 1531 (Augusta, per i tipi di Heinrich Steyner), ma l’autore intese sostituirla con quella parigina del 1534 (stampata da Wechel). Sul fronte delle traduzioni, importanti perché presentano soluzioni metriche non distanti da quella degli Insensati, dopo la raccolta spagnola già citata e quelle francesi e tedesche, nel 1551 venne stampata in Francia una versione italiana degli Emblemata di Alciato: Diverse imprese accommodate a diverse moralità con versi che i loro significati dichiarano insieme con molte altre nella lingua italiana non più tradotte [...], in Lione, da Mathias Ponhomme. Grande influenza ebbe poi la Délie di Maurice Scève (a Lyon, chez Sulpice Sabon, pour Antoine Constantin, 1544), che raggiunse la perfetta fusione del linguaggio poetico ed impresistico e venne imitata da Ercole Tasso (A. MAGGI, Il sé e la doppia alterità: imprese e versi in ‘La Virginia’ di Ercole Tasso e in ‘Délie’ di Maurice Scève, in ID., Identità e impresa rinascimentale, Ravenna, Longo, 1998, pp. 47-78). Una delle prime e più significative sintesi tra le due modalità espressive venne sperimentata in Italia da Berardino Rota e da Scipione Ammirato. Il primo inserì nella sua raccolta di Sonetti (in Napoli, apresso Mattia Cancer, 1560) alcuni componimenti ad imitazione del ciclo di imprese sull’amore coniugale con cui aveva decorato la sua villa suburbana. Ammirato, che di quella silloge poetica fu il commentatore, affrontò da un punto di vista teorico il parallelo tra poesia ed impresa nel suo dialogo intitolato Il Rota (in Napoli, appresso Gio. Maria Scotto, 1562): sui due autori si veda il secondo capitolo (Imprese e poesia nel ‘Rota’ di Scipione Ammirato [1989]) del volume di ARBIZZONI, «Un nodo di parole e di cose», cit., pp. 37-57. 81 L. DOLCE, B. PITTONI, Di B.P. pittore vicentino, imprese di diversi prencipi, duchi signori e d’altri personaggi ed huomini letterati ed illustri. Con alcune stanze del D. che dichiarano i motti di esse imprese, [Venezia, [s.t.], [s.d. ma successiva al 1562, anno in cui venne licenziata la prefazione]. Più somigliante alla forma iconografica del manoscritto di imprese degli Insensati è la successiva raccolta di L. DOLCE, [B. PITTONI], Imprese nobili ed ingeniose di diversi prencipi ed altri personaggi illustri nell’arme e nelle lettere […], con le dichiarationi in versi di messer L.D. e d’altri (in Venetia, presso Girolamo Porro, 1578), ove i testi letterari sono inseriti nell’architettura fittizia con cui è decorata ogni pagina del volume.

161 pittore vicentino Battista Pittoni è seguita da un’ottava composta da Lodovico Dolce, volta a celebrare il personaggio simboleggiato nell’impresa. Tuttavia, a differenza del manoscritto perugino, la raccolta di Imprese di diversi non delinea un gruppo compatto di accademici, ma descrive una serie disomogenea di persone illustri. Sotto questo aspetto, si erano avvicinati al progetto degli Insensati gli Accademici Occulti di Brescia, i quali nel 1568 avevano confezionato il loro libro di Rime, con l’aggiunta delle imprese e dei discorsi, quale iniziativa collettiva promossa dall’accademia.82 Pure, le due realizzazioni accademiche presentano un contenuto ben diverso: fin dal titolo, si comprende come nel caso degli Occulti la componente letteraria sia di primaria importanza e risulti perciò molto più curata. Qui ogni impresa è seguita da una dettagliata esposizione e da una breve rassegna di rime del singolo associato, elementi del tutto assenti nella raccolta degli accademici perugini.83 Il codice degli Insensati, improntato al rispetto della sua struttura modulare (impresa + ottava o impresa + breve testo in prosa), propone lo svolgimento del medesimo motivo affidato ai due linguaggi, figurativo e verbale. Il testo letterario non solo illustra l’impresa, ma ne svela il recondito significato, presentando l’interpretazione di stampo morale approvata dallo stesso accademico. Il significato dell’impresa è la risultante dell’interazione tra i corpi presenti, ciascuno dei quali acquista un valore simbolico che deve essere illustrato nell’ottava o nel testo in prosa seguente. Le acutezze ed ingegnosità sono di fatto assenti nelle composizioni in rima, che sviluppano

82 Rime de gli Academici Occulti con le loro imprese e discorsi, in Brescia, appresso Vincenzo da Sabbio, 1568; sulle quali si veda A. MAGGI, L’identità come impresa in ‘Rime degli Accademici Occulti’, «Esperienze letterarie», 22 (1997), 1, pp. 43-61. 83 Di pochi anni successiva all’opera degli Occulti è la rassegna di imprese accademiche contenuta nella seconda parte del Ragionamento di Luca Contile sopra la proprietà delle imprese con le particolari de gli Academici Affidati e con le interpretationi e croniche […], in Pavia, appresso Girolamo Bartoli, 1574, cc. 45v-161r (il cui apparato iconografico, con i compendi delle parti in prosa che seguono le singole imprese, è stato recentemente ripubblicato: Imprese della Accademia degli Affidati di Pavia nel “Discorso” di Luca Contile, con note introduttive di Cesare Repossi e Renato Marchi, Pavia, Torchio de’ Ricci, 1989). Altri esempi più tardi sono i latini Emblemata anniversaria Academiae Altorfinae, studiorum iuventutis exercitandorum causa proposita et variorum orationibus exposita, Norimbergae, imprensis Levini Hulsy, 1597 e le Rime de gli Academici Gelati di Bologna, Bologna, presso gli heredi di Gio. Rossi, 1597.

162 piuttosto gli spunti pseudo-eruditi suggeriti dalle illustrazioni. Le descrizioni esplicitano cioè quel patrimonio di conoscenze naturalistiche fondato su un insieme di fonti classiche e mediche, che divenne ben presto un sapere tradizionale in questo particolare genere della trattatistica delle imprese. Nonostante la varietà dei soggetti rappresentati, lo stile misurato e sobrio, quasi spoglio, delle ottave genera un’impressione di forte omogeneità tra i vari componimenti. Nell’impresa dello Stupido Insensato, identificato da Vincioli con Troilo Baglioni, compaiono insieme un leone ed un gallo, il primo docile e remissivo, il secondo, per contrasto, impettito e superbo (fig. 6). La scena è così descritta:

Per virtù che del sol negli occhi porta il gallo, solo a lui china la testa il leon fero, e di servir sopporta, signor degli altri, e qui stupido resta. Terrà questi la voglia oppressa e morta, mentre solo a mirar l’anima desta l’alta virtù del’insensata legge, per cui se stesso, humil, danna e corregge. (14a).

La leggenda del leone sottomesso al gallo, narrata da Plinio il Vecchio, Claudio Eliano, Sant’Ambrogio e ripresa più diffusamente nel terzo libro dell’Historia animalium di Conrad Gesner, istituisce metaforicamente il parallelo con la condizione del membro accademico.84 Evocato al quarto verso, l’Accademico Stupido d’ora in poi, come sottolinea il mutamento nel tempo verbale, rinuncerà a soddisfare i propri sensi (nella fattispecie il gusto) e si darà completamente alla contemplazione. L’ottava restituisce così il preciso momento in cui l’uomo, resistendo alle tentazioni dei sensi, diventa finalmente insensato. In altri casi, attraverso la similitudine con un animale, il singolo associato è presentato in quanto già degno di appartenere al consesso degli Insensati. Lo Svanito Giovan Battista Cesarei è effigiato come uno struzzo,

84 PLIN. Nat. Hist., X 19, X 24; C. GESNER, C.G. Tigurini medici et philosophiae professoris in Schola Tigurina, historiae animalium liber III, qui est de avium natura, Tiguri, apud Christoph. Froschoverum, 1555, p. 385; ELIANO, De animalium natura libri XVII, cit., pp. 1-365: 62, 78, 113; AMBROGIO, L’essamerone, cit., p. 395. Sulla simbologia del gallo si veda CATTABIANI, Volario, cit., pp. 211-224.

163 scelto per essere ad un tempo una creatura sbadata e meditativa (fig. 7). L’ottava, che descrive prima l’uccello poi l’accademico, è tutta giocata sull’interazione tra memoria e contemplazione:

Se ben lo struzzo è smemorato assai, né mai la mente nel passato aggira, pur volge a tempo al ciel superno i rai, e le stelle Virgilie85 intento mira. Lo Svanito non volge il pensier mai a desir van, ma contemplando, aspira a gloriosa fama ed immortale, e di null’altro gli rimembra o cale. (15a)

Analogamente allo struzzo, l’accademico è Svanito perché, sempre intento a fissare le realtà celesti, dimentica gli altri pensieri ingannevoli e falsi.86 Nel suo svolgimento narrativo, l’ottava disegna un percorso perfettamente ciclico: da una prima situazione di mancanza di memoria (lo struzzo «smemorato» del v. 1), attraverso una fase intermedia sotto il segno della contemplazione, dove avviene il punto di contatto tra l’animale e l’accademico, si giunge ad una nuova negazione della memoria («di null’altro gli rimembra o cale», v. 8), di segno però positivo. I testi in prosa, in genere estremamente stringati, si limitano ad esporre l’impresa e ad esplicitare il parallelo tra le proprietà leggendarie dell’animale ed il comportamento “insensato” del singolo accademico. La forma spoglia delle descrizioni, raramente assorbite da preoccupazioni formali, è ben testimoniata dai seguenti esempi delle imprese dell’Astratto (fig. 8) e dello Spensierato (fig. 9):

85 Altro nome per l’ammasso stellare delle Pleiadi, sul quale si veda P. CAPPONI, La stella perduta. Le Pleiadi nella tradizione mitologica e popolare, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010. 86 La particolare simbologia dello struzzo qui proposta sembra appartenere ad una sorta di tradizione minore, che risale probabilmente al libro di Giobbe (39, 13-18) e al commento che ne fece san Tommaso (Divi Thomae Aquinatis […] in librum beati Iob expositio, cum indice rerum memorabilium, Romae, apud Paulum Manutium Aldi f., 1562, pp. 408-410). Altre testimonianze vengono dai bestiari medievali e dalla fortunata opera compilatoria di Guglielmo Durand (ristampata in più occasioni anche nella seconda metà del Cinquecento: Rationale divinorum officiorum […], Lugduni, sumptibus Ioannis Baptistae Buysson, 1592, pp. 33-34). Una succinta sintesi intorno alla simbologia dello struzzo nel testo della Bibbia e nella cultura classica è offerto da G. SAVIO, Le uova di struzzo dipinte nella cultura punica, Madrid, Real academia de la Historia, 2004, pp. 107-109; in una prospettiva più ampia: CATTABIANI, Volario, cit., pp. 249-257.

164 Mostra il camaleonte essere intento di occidere con lo sputo un rio serpente mentre quel dorme e vi sta tanto astratto per non fallir, ch’altro non vede o sente. Vuol dir l’autor ch’egli s’ingegna affatto di sopprimere il senso, onde la mente sciolta s’alzi poggiando a glorioso segno. (37a)

L’avoltoio suole per agevolarsi il volo mettersi in luogo elevato e spander l’ali al vento, così lo Spensierato, essendo per sua natura poco atto a levarsi con la mente in alto alla contemplatione delle cose celesti, spera con l’agiuto del vento del’accademia farlo e col mezzo di quella inalzarsi, ove alzato per sé non farà mai.87 (7a)

Gli altri testi, che procedono di norma in maniera analoga, evocano spesso, come in quest’ultimo caso, il salvifico apporto dell’accademia sul singolo membro. Più raramente, l’autore esplicitava almeno in maniera parziale i riferimenti implicati nella scena effigiata nell’impresa. Ciò accade per esempio nell’illustrazione del Frenetico, dove è rappresentato un aratro trainato da un bue e da un cavallo (fig. 10):

Il Frenetico vuol mostrare che egli, col mezzo del giogo dell’accademia, sottometterà l’appetito sensitivo, inteso per il cavallo, e lo farà andare del pari alla parte ragionevole, intesa per il bue. Allude alla favola d’Ulisse, che per voler mostrare di essere frenetico e pazzo, accoppiò insieme tali animali e seminava il sale. (44a)

L’impresa si riferisce appunto all’episodio dell’ambasciata di Menelao e Palamede ad Itaca, quando Ulisse si finse pazzo per sottrarsi all’obbligo di andare alla guerra di Troia. Mettendo Telemaco davanti all’aratro, Palamede smascherò la simulazione di Ulisse, che aveva arrestato le bestie per non travolgere il figlio.88

87 Le fonti classiche (Aristotele e Plinio), che pure dedicano ampio spazio al camaleonte, ne ignorano lo «sputo» che uccide i serpenti. L’episodio è raccontato però da Giovan Battista Ramusio: Primo volume delle navigationi e viaggi, nel qual si contiene la descrittione dell’Africa […], in Venetia, appresso gli heredi di Lucantonio Giunti, 1550, c. 102r. Il riferimento agli avvoltoi che faticano a prendere quota riprende una credenza antica, ben nota anche a sant’Antonio di Padova. Il santo portoghese in una sua predica avanza un parallelo, forse non ignoto all’Accademico Spensierato, tra l’avvoltoio e l’uomo di Chiesa che, distratto dalle cose temporali, non riesce ad elevarsi verso le cose celesti e ad abbandonare quelle terrene (CATTABIANI, Volario, cit., pp. 429-438: 437). 88 Non menzionato da Omero, l’episodio ebbe una certa notorietà già in epoca romana: OV. Met. XIII, vv. 56-60; PLIN. Nat. Hist., XXXV 39; MART. XIII, 75; HYG. Fab., XCV. Lo ricorda anche Servio nel suo commento a VERG. Aen. II, v. 81 (tra le molteplici stampe cinquecentesche, si veda ad esempio Publii Virgilii Maronis, universum poema una cum emendatissimis

165 L’esempio appena proposto è l’ultimo della serie dei testi collocati al di sotto delle quarantatré imprese. Al pari di una galleria, dove sono esposti i quadri accompagnati da una concisa didascalia, il manoscritto esibisce con orgoglio le imprese e le correda di una sorta di glossa esplicativa. Le parti in prosa e in poesia si occupano infatti di dichiarare il concetto recondito delle illustrazioni, rendendo le imprese, da metafore, similitudini. La semplificazione concettuale, implicata in una simile operazione, viene resa in una forma letteraria che rifiuta ogni tipo di abbellimento retorico. La prosa è alquanto lineare, addirittura dimessa, se confrontata con quella ricca e abbondante delle lezioni accademiche; le ottave, di là da qualche prevedibile inversione talvolta giustificata da ragioni metriche, ripropongono una dispositio delle parole estremamente simile alle parti in prosa. La prossimità delle due modalità di espressione linguistica, che si è inteso sottolineare, aiuta forse a spiegare l’aspetto più singolare del manoscritto, vale a dire l’alternanza tra le due forme. L’appiattimento stilistico rende in fondo del tutto indifferente la scelta del singolo autore, che invece, come si è visto ad inizio capitolo, doveva rispettare regole severe per ideare l’impresa conveniente a raffigurare il suo consenso al progetto collettivo dell’accademia.

commentariis Servii, Marii et Tiberii Donatii […], Venetiis, apud Alovissium de Tortis, 1561, c. 146v). Sulla fortuna iconografica del tema si veda M. LORANDI, Il mito di Ulisse nella pittura a fresco del Cinquecento italiano, Milano, Jaca Book, 1995, pp. 159-167.

166 Capitolo IV: La seconda stagione dell’Accademia degli Insensati: 1590ca.-1608

IV.1 Le fonti

Oltre a fare un uso maggiore della stampa rispetto al passato, durante la seconda stagione di vita dell’Accademia gli Insensati sperimentarono altre forme di produzione letteraria. Il filone della poesia lirica, per esempio, prima frammentato in isolate e sporadiche composizioni, raggiunse una dimensione significativa nelle raccolte di Alberti, Bovarini, Murtola e Massini. Sul versante della prosa, si assiste invece ad una varietà prima sconosciuta; varietà che si tradusse nella pubblicazione di epistolari, dialoghi, trattati educativi, oltre alla riproposizione delle lezioni accademiche, che costituisce un elemento di continuità con la precedente attività letteraria.1 Tuttavia, è evidente fin da subito che la diversità delle forme e degli esiti letterari cui giunsero gli Insensati non consente di rintracciare un percorso lineare e condiviso dai diversi accademici. Si ricava piuttosto l’impressione di un fiorire di opere difficilmente conciliabili con un progetto accademico collettivo e sufficientemente definito. Gli unici due generi che mostrano evidenti segni di coesione tra di loro e con l’attività proposta entro le mura accademiche sono la poesia lirica e, ancora una volta, le lezioni accademiche. Nelle dediche che precedono questi testi, ricorrono con assidua frequenza gli elogi degli altri membri Insensati o della stessa accademia, i riferimenti all’attività del sodalizio o il ricordo dell’avvenuta recita. Al pari della stagione precedente, le lezioni si confermano una volta di più come il fulcro della produzione accademica, nonché il punto di incontro degli interessi dei sodali. La natura duttile delle dissertazioni, in fatto di struttura e di tematiche, così come la loro naturale collocazione all’interno della ritualità accademica, rendono le lezioni il terreno privilegiato sul quale gli Insensati erano chiamati a confrontarsi.

1 Per l’elenco delle opere, si rimanda naturalmente alle Appendici I e II.

167 Perciò proprio le lezioni accademiche saranno il principale oggetto d’indagine del presente capitolo.2 La quasi totalità delle dissertazioni degli Insensati è conservata in forma inedita nei più volte ricordati manoscritti 1058, 1059 e 1060 della Biblioteca Augusta di Perugia, che furono in larga parte ricopiati da Cesare Crispolti.3 Si deve senz’altro a lui la sistemazione del materiale, che venne ordinato, con tutta probabilità, nella prima decade del Seicento. L’idea di fondo che animò il disegno di Crispolti fu il desiderio di concentrare in un numero limitato di codici un corpus parziale e circoscritto di lezioni accademiche degli Insensati che verisimilmente rappresentassero il meglio della produzione collettiva. Il tentativo di procurare un’ampia selezione di testi accademici si realizzò negli ultimi anni di vita del perugino. Forse ciò non accadde del tutto casualmente: di fronte alla morte, cioè all’oblio assoluto, Crispolti provvide con sollecitudine alla stesura dei manoscritti, così da guadagnare, per sé e per la sua accademia, una gloria duratura.4

2 Tra le raccolte poetiche degli Accademici Insensati (si veda sempre l’Appendice II) l’unica che ha già attirato l’attenzione dei critici è la silloge delle Rime di Filippo Massini, di cui si è detto in § III.3. Risultano pressoché sconosciute le raccolte poetiche di Bovarini e dello stesso Murtola. Quest’ultimo è infatti più noto per l’incontro-scontro con Marino che non per la sua produzione letteraria, su cui si veda almeno: C. PEIRONE, Le muse massare: scelte metriche e pubblico nella Torino barocca, in V. BOGGIONE, C. PEIRONE, I modi della metrica: Murtola e Gozzano, Torino, Tirrenia Stampatori, 1991, pp. 55-97; M. ROSSI, Poemi e gallerie enciclopediche: La ‘Creazione del Mondo’ di Gasparo Murtola e il collezionismo di Carlo Emanuele I di Savoia, in Natura-Cultura. L’interpretazione del mondo fisico nei testi e nelle immagini. Atti del convegno internazionale di studi, Mantova, 5-8 ottobre 1996, a c. di G. OLMI, L. TONGIORGI TOMASI, A. ZANCA, Firenze, Olschki, 2000, pp. 91-120; M. MARINI, Michelangelo da Caravaggio, Gaspare Murtola e ‘la chioma avvelenata di Medusa’, Venezia, Marsilio, 20032; sulla sua biografia si veda ora la recente ricostruzione di E. RUSSO, Murtola, Gasparo, DBI, 77, 2012, ad vocem. Meritano senz’altro uno studio approfondito, che ancora latita, le Rime di Filippo Alberti (in duplice edizione: in Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1602 – con ristampa l’anno successivo – e in Roma, appresso Guglielmo Facciotto, 1602). Sinora ha forse pesato sull’opera di Alberti il giudizio poco lusinghiero di Alberto Asor Rosa (Alberti, Filippo, cit.), che aveva considerato la varietà metrica l’«unica nota relativamente originale» delle sue Rime. 3 Si ricordi quanto già riferito in precedenza in § II.4.4.2. 4 Si può ritenere senza alcuna difficoltà che le lezioni comprese nei manoscritti siano la bella copia delle esercitazioni recitate in precedenza: ciò appare chiaro non solo perché a copiarle quasi tutte e a dare loro una loro forma ordinata fu il solo Crispolti, ma anche perché la disposizione delle lezioni all’interno dei manoscritti non è sempre coerente con l’ordine cronologico (si veda Appendice I). Non è possibile sapere da quale momento Crispolti avesse incominciato a trascriverle, ma certo tale attività si prolungò almeno fino al dicembre del 1606 (data della lezione Della simulatione autografa di Crispolti, presente nel ms. 1060, cc. 112r-128r). L’alternanza più marcata di grafie diverse, oltre a quella solita di Crispolti, nel ms. 1060 rispetto al ms. 1059, può essere un indizio delle sopraggiunte sue difficoltà nel trascrivere i testi e quindi nel proseguire con l’impegno accademico (sulle grafie nei mss., si veda l’Appendice I).

168 Il medesimo Crispolti, autore di poco meno di un terzo di queste lezioni, risulta l’accademico più prolifico della raccolta. Fra le dodici orazioni a lui attribuite bisogna però sottrarre dal novero delle lezioni accademiche degli Insensati il Discorso a favore de’ piaceri e diletti, che venne recitato, come è esplicitato nel titolo, presso il consesso degli Unisoni.5 La presenza di questa lezione nei tre tomi delle esercitazioni degli Insensati rende evidente la volontà di Crispolti di ritenere l’accademia (o forse entrambe le accademie, degli Insensati e degli Unisoni) di sua proprietà, o quantomeno suggerire l’identificazione di esse con il suo lungo «reggimento».6 Non è chiaro se nella compilazione dei manoscritti Crispolti avesse tenuto conto anche di un qualche criterio tematico. Di certo, in questa seconda fase, l’orientamento degli interessi degli Insensati si ampliò sensibilmente rispetto al trentennio precedente. Le dissertazioni affrontano temi a prima vista eterogenei: si interrogano intorno a preferenze estetiche (In lode della bellezza; In lode della bruttezza; De i nei); descrivono stati d’animo (Della vergogna; In lode del pianto; In lode del riso); discutono tematiche mondane (In lode della lode; In lode del biasmo); illustrano dubbi filosofici (Se si può amare una cosa doppo morte; Intorno al ben fare); espongono componimenti poetici (di Coppetta, Della Casa, Tansillo e Tasso) e così via.7 Tuttavia, la dispersione è evitata in primo luogo dal dialogo che si crea tra le lezioni, che spesso interagiscono tra loro sia a livello tematico

5 C. CRISPOLTI, Discorso del signor C.C. a favore de’ piaceri e diletti, recitato da lui ne’ tempi carnevaleschi nell’Academia degli Unisoni l’anno 1604, ms. 1060, cc. 107r-111v. Con l’esclusione della sopradetta lezione dalle quaranta totali comprese nei manoscritti, le orazioni di Crispolti risultano essere quindi undici su trentanove. Si aggiunga però che nel medesimo ms. 1060, l’intitolazione del discorso De i nei […], recitato nell’Accademia de gl’Insensati alli 10 di marzo 1602 (cc. 30r-38v), attribuito al «signor N.», lascia intravedere in linea, con cassatura, il nome di «Cesare Crispolti». Ciò porterebbe di nuovo a dodici il novero delle dissertazioni crispoltiane nei tre codici (si veda al riguardo ancora l’Appendice I). 6 La presunzione di Crispolti non appare un atto di arroganza, ma piuttosto la matura consapevolezza del suo impegno svolto nel sodalizio; una consapevolezza che anche gli altri consociati gli riconoscevano volentieri. La celebrazione della cura assidua che egli dedicò agli Insensati, trova la sua celebrazione nell’orazione funebre di Fulvio Mariottelli, dove senza mezzi termini Crispolti viene indicato quale primo responsabile dell’attività dell’accademia ed artefice della sua promozione entro la società dei letterati e uomini di cultura del tempo (Oratione fatta per l’essequie, cit.). 7 Gli estremi bibliografici di buona parte delle citate lezioni verranno offerti nel corso del capitolo; altrimenti, si può vedere il catalogo generale in Appendice I.

169 (come si evince anche dai titoli antitetici proposti), sia per richiami puntuali nel corpo del testo. Al di fuori di questo compatto corpo di lezioni manoscritte, si annoverano l’Invettiva contro la stampa di Fulvio Mariottelli, cui si è fatto riferimento nel terzo capitolo, tre lezioni di Leandro Bovarini, andate a stampa nel 1603, ed altrettante orazioni funebri, opera di autori diversi.8 La somma tra le lezioni nei manoscritti crispoltiani e le altre lezioni superstiti appena elencate, che si trovano fuori del canone accademico, equivale presumibilmente soltanto ad una parte delle esercitazioni accademiche effettivamente composte. Sono diversi gli indizi che portano a formulare un simile giudizio: lo testimoniano sia il numero piuttosto esiguo di lezioni (quarantasei) in un intervallo di tempo di circa quindici anni, dunque relativamente ampio; sia le notizie provenienti da varie fonti intorno a lezioni che non sono pervenute sino a noi.9

IV.2 Il percorso autoreferenziale

Scorrendo i titoli delle lezioni ordinate da Crispolti, emerge a prima vista un distacco sensibile in rapporto alle esercitazioni della prima fase dell’accademia. Rispetto ai tre filoni allora individuati (autoreferenziale, petrarchesco e filosofico-mondano), si assiste alla sospensione delle letture

8 Sono elencate secondo l’ordine in cui si trovano citate nel testo: [MARIOTTELLI], Invettiva del Sommerso Insensato, cit.; BOVARINI, Del silentio opportuno, cit., ID., Del tempo, cit., ID., Del moto, lettione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato, recitata da lui publicamente nell’Academia de gli Insensati il dì 25 di aprile 1602, esponendo il sonetto del signor Francesco Coppetta, ‘Questo che ’l tedio onde la vita è piena’ […], in ID., Prose, cit., rispettivamente pp. 1- 24; 1-55; 1-47; CL. CONTOLI, Oratio habita a C.C. Academico Insensato, in funere Caesaris Caporalis Perusini eximii poetae […], BAP, ms. 199 [D 17]; V. CRISPOLTI, In morte dell’illustrissimo signor Giulio Farnese, cit.; [GIGLIOLI], Nella morte dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio marchese della Corgna, cit. 9 A partire proprio dai manoscritti perugini: nel codice 1058, per esempio, viene annunciata nella «Tavola delle lettioni» un discorso di Cesare Crispolti Sopra quelle parole di Tacito «Atque omnem potestatem ad unum conferri pacis interfuit» [c. Iv] che in realtà non vi compare. Inoltre, consultando gli elenchi di opere che Vermiglioli offre in coda alle sue schede biografiche, sono menzionate due lezioni accademiche di due importanti membri degli Insensati evidentemente perdute: l’Orazione in difesa della impresa dello Stolido Accademico Insensato di Filippo Alberti e l’Esame delle imprese secondo le dottrine di Aristotele per l’impresa degli Accademici Insensati di Fulvio Mariottelli: VERMIGLIOLI, rispettivamente I, p. 4 e II, p. 82. Analogamente, non si ha notizia dell’opera Le rose di Leandro Bovarini, stampata a Perugia nel 1603: VERMIGLIOLI, I, p. 249.

170 del Canzoniere, al ridimensionamento delle scritture riguardanti l’accademia o i suoi membri e, per contrasto, all’irraggiamento di un insieme articolato di indagini, latamente filosofiche, su temi di diversa natura. Ma il distacco dalla precedente stagione si evidenzia anche nella meccanica sostituzione del nome accademico col nome anagrafico dell’autore, una consuetudine che ha luogo nella maggioranza delle lezioni. Al contrario di quanto accadeva nelle accademie senesi, cui si è fatto riferimento nel primo capitolo, nella seconda fase dell’attività accademica gli Insensati rinunciarono a definire se stessi attraverso la loro identità collettiva e preferirono rivendicare nei loro scritti la personale responsabilità del singolo autore. Se da un lato questo diverso atteggiamento rende manifesta una maggior labilità della coesione accademica, dall’altro rende ragione delle più alte ambizioni dei singoli associati, che evidentemente miravano a far circolare la loro opere in un contesto più ampio rispetto al provinciale sodalizio umbro. L’esiguità delle testimonianze di un interesse volto all’autodefinizione del sodalizio si spiega probabilmente con la mutata condizione delle stessa accademia, che poteva ora contare sulla sua storia passata e soprattutto su una dimensione istituzionale ormai assodata. Le lezioni dedicate ad illustrare le imprese dei membri accademici sono soltanto due, entrambe comprese nel manoscritto 1058. Forse non è un caso che gli autori delle due insegne, il Mortificato Paolo Mancini, nobile romano e fondatore degli Umoristi, e il vecchio Insensato Contolo Contoli, che fu uno dei soci più attivi durante la prima fase, fossero anche personalità di spicco all’interno dell’accademia: presumibilmente l’inaridimento della corrente autocelebrativa indusse gli accademici a scegliere con maggior precisione i destinatari delle loro lodi. Dal punto di vista della dispositio, queste lezioni non si discostano dagli esempi precedenti: in un primo momento si soffermano sul nome del socio accademico, ne giustificano la conformità con quello generale del sodalizio, illustrano quindi l’impresa e ne svelano, infine, i significati reconditi. Nella compatta descrizione di Dionigi Crispolti, fratello di Cesare, Sopra l’impresa del signor Paolo Mancini, l’attributo di Mortificato viene

171 connesso alla teoria platonica della reminiscenza, secondo la quale l’anima apprende ricordando quanto aveva già conosciuto prima di unirsi al corpo.10 Del pari, l’autore dell’impresa, prima vivo, poi morto ed ora Mortificato (ossia morto, ma potenzialmente ancora in grado di tornare in vita),11 «spera, mediante gli essercitii di questa nobilissima accademia, ravvivare in se stesso quella virtù» che venne meno quando l’«animo fu infuso nel suo corpo» (49v). La liberazione dell’anima dagli istinti corporali è perfettamente racchiusa nel significato di Mortificato (colui che riesce a domare i «sensi» e gli «affetti»), nome accademico che bene si conforma allora al progetto generale degli Insensati. L’impresa di Mancini rappresenta il fiore dell’amaranto che riceve acqua da una brocca ed il motto latino Hic reviviscam (fig. 11). Di là dalle generiche qualità dell’acqua, «anima vitale» delle creature del mondo, risulta di maggior interesse la simbologia del fiore effigiato nell’insegna. È lo stesso Dionigi Crispolti ad indicare in Plinio il Vecchio ed in Pietro Andrea Mattioli («il commentatore di Dioscoride») le fonti grazie alle quali si illustra la natura del fiore dell’amaranto, che «bagnato nell’acqua, ritorna in vita» (50v).12 Di qui si dichiara finalmente l’intenzione racchiusa nell’impresa di Mancini:

10 D. CRISPOLTI, Discorso recitato dal signor D.C. nell’Accademia degl’Insensati sopra l’impresa del signor Paolo Mancini detto il Mortificato, che è un amaranto posto nell’acqua, con il motto ‘Hic reminiscam’, ms. 1058, cc. 48v-56v. Dionigi o Dionisio Crispolti, di qualche anno più giovane di Cesare, fu anch’egli un giurista e letterato; allestì in vita una vasta biblioteca, che alla sua morte venne donata ai padri gesuiti. Tra le sue opere ricordate da Oldoini (pp. 90- 91) e da Vermiglioli (I, pp. 362-363), vi sarebbero una manoscritta Orazione di ringraziamento quando ebbe luogo fra gli Accademici Insensati e una redazione della storia dell’Accademia degli Insensati, sulla cui esistenza in realtà esistono non pochi dubbi; entrambi gli scritti risultano comunque irrintracciabili. La dottrina platonica della reminiscenza, che riceve una prima attestazione nel Menone (81a-e), viene portata a compimento nelle celebri pagine del Fedone (72e-75d). La bibliografia sull’argomento è naturalmente sterminata; per uno sguardo d’insieme si rimanda almeno a V. MEATTINI, Anamnesi e conoscenza in Platone, Pisa, ETS, 1981; D. SCOTT, Platonic Recollection, in Plato 1. Metaphysics and Epistemology, ed. by G. FINE, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 93- 124. 11 Questa particolare accezione del termine nel suo significato di condizione umana temporanea, in attesa di mutamento, è propria del linguaggio teologico: GDLI, X, pp. 962- 963: 962. 12 PLIN. Nat. Hist., XXI 23; DIOSCORIDE, MATTIOLI, I discorsi di messer P.A.M. medico sanese, cit., p. 487. Nel suo Trattato delle imprese, Giulio Cesare Capaccio proponeva l’amaranto quale «ieroglifico per significar un huomo che sempre ha vissuto sano» (in Napoli, appresso Gio. Giacomo Carlino e Antonio Pace, 1592, c. 138v). Di qui in avanti, si è deciso di individuare, tra i volumi citati in nota, quelli posseduti da Podiani nella sua biblioteca. Nella fattispecie,

172 Mostra dunque l’autore che l’animo suo, inteso per questo fiore, se bene divenne languido e quasi secco, per essere stato spogliato di tutti gl’habiti delle virtù, quando fu rinchiuso, come in carcere, nel suo corpo, si habbia a ravvivare, posto a guisa di questo fiore, nell’acqua degl’essercitii accademici e habbia a ricuperare il perduto vigore. (54r)

Come il fiore del Mortificato può attingere alla fonte accademica per riacquistare la propria energia vitale, così la zampogna dell’Insensato suona grazie al vento dell’accademia. Questa scena è rappresentata nell’impresa di Contolo Contoli (fig. 12), descritta nella lezione di Grazioso Graziosi Sopra l’impresa del signor Insensato.13 Il soffio dei venti zefiri, che anima le canne del flauto dell’Insensato, innesca il travaglio etico del socio accademico, finalmente pronto a raggiungere la sua «perfettione» morale. Se ormai simili interpretazioni delle imprese, sulla scorta delle precedenti già proposte, le opere di Mattioli e di Capaccio sono entrambe presenti nella libreria di Podiani (in particolare di quella di Mattioli si possedeva l’edizione princeps del 1544, ancora in cinque libri: in Venetia, per Nicolò de Bascarini da Pavone di Brescia; ed una copia latina della medesima opera Petri Andreae Matthioli senensis medici, Commentarii in sex libros Pedacii Dioscoridis Anazarbei de medica materia […], Venetiis, ex officina Valgrisiana, 1565). Questa opera di riconoscimento è offerta solo nel presente capitolo perché analizza esclusivamente lezioni successive al 23 dicembre 1582, data del contratto con cui Podiani si impegnava a render pubblica la sua collezione (le infinite vicissitudini che seguirono questo primo atto sono esposte in PANZANELLI FRATONI, Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità, cit.). Grazie al citato Inventario di Mariottelli e al lavoro di trascrizione di Maria Alessandra Panzanelli Fratoni, è stato infatti possibile identificare con buona certezza l’anno e il luogo di pubblicazione dei volumi della biblioteca. Dove è stato possibile, si è fatto riferimento alle copie delle opere in possesso di Podiani, con l’ovvia avvertenza che la presenza delle stesse nella biblioteca è un indizio della loro disponibilità e non necessariamente della loro lettura o fruizione da parte degli accademici. Non sono state interessate da questa ricerca le opere classiche, antiche (Naturalis historia, le varie orazioni cicerioniane) o moderne (Canzoniere di Petrarca, Orlando furioso di Ariosto, ecc.), la cui amplissima diffusione renderebbe inutile questa distinzione. 13 G. GRAZIOSI, Discorso del sopradetto signor G.G., detto lo Spaventato, recitato pubblicamente nell’Accademia Insensata, sopra l’impresa del signor Insensato, ms. 1058, cc. 77v-86v. Grazioso Graziosi, diplomatico e uomo di fiducia a Roma del duca di Urbino Francesco Maria II Della Rovere, ebbe importanti contatti con artisti e letterati del tempo. È noto agli studiosi per la famigliarità che intrattenne con Tasso. Dopo averlo ospitato nella sua abitazione romana, Graziosi allegava alla lettera scritta in casa sua da Tasso, le sue considerazioni sullo stato del poeta: «il povero Tasso ieri, dopo aver magnato in casa mia, si pose a scrivere molte lettere, fra l’altre questa. […] Vostra signoria abbi pacienzia e compassione a questo poverello, che dar dir bene in fuora, non sa del resto che dica o voglia: e di tutte queste lettere abbiamo tenuto copia. O che compassione se li deve avere!» (Lettera a Giulio Veterano, Roma, 22 luglio 1587, citata nelle Lettere di Torquato Tasso, disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1854, IV, p. 147). Riferisce Crescimbeni che un’impresa simile a quella dell’Insensato, ma con il motto Arbor vittoriosa e trionfale [Rvf 263], venne adottata dalla colonia cagliese dell’Arcadia: Breve notizia dello stato antico e moderno dell’adunanza degli Arcadi publicata l’anno 1712 d’ordine della medesima adunanza [1712], in Dell’istoria della volgar poesia scritta da G.M.C. Volume sesto, in Venezia, presso Lorenzo Basegio, 1730, pp. 305-328: 313.

173 risultano del tutto prevedibili, la prolissa celebrazione del desiderio di «virtù», che si sublima proprio negli studi accademici, è invece un elemento di relativa novità in questo genere di lezioni e merita di essere brevemente percorso. Ad inizio lezione, in forma di excursus, Graziosi procedeva con un parallelo tra la «carnalità» dell’uomo, che mira a mantenere la vita carnale, e l’anima («la parte ch’è in noi migliore»), che invece tende verso la «vera, perfetta e virtuosa vita» (77v). Al fine di soddisfare il naturale moto dell’anima, gli uomini si impegnano a rendere più ricca di «virtù» e di «scienze» la loro «vita interiore». Tale nobile aspirazione, che rese potenti le grandi città della Grecia (Atene, Tebe, Corinto e Argo) e dell’impero Romano, trova poi il suo perfetto compimento «in questa nostra Italia, theatro e corona dell’universo, nella quale fioriscano tanti grandi [spscr. a gentil] huomini in ogni scienza, in ogni arte, in ogni facultà, che rendono quest’età nostra non meno gloriosa e chiara che si sia stata ogn’altra dal principio del mondo» (78r). In particolare, questa lunga translatio studii e virtutis – così la intendeva Graziosi – si concretizza appieno nelle «accademie», nate in ogni angolo d’Italia e segnatamente «in questo luogo», cioè in Perugia. Di qui, in un breve passaggio che si chiude con la topica espressione di modestia dell’autore, non può mancare un riferimento all’Accademia degli Insensati e all’usanza di produrre ed esporre imprese per la loro fruizione collettiva:

Se stessi gl’accademici rendono chiari e gl’altri infiammano a questo bel desiderio di buona vita, scoprendo con quelle imprese che in publico, per comun solazzo e piacere, appese si vedono, ogn’un per sé, sotto varie figure, il suo bel desiderio di gloriosa vita, come ad ogn’uno è leccito vedere in questa honoratissima Accademia Insensata, ove sono tanti elevati e belli ingegni, che a me, ignorante e rozzo, parrebbe alle volte spetie di superbia essere entrato a correre con essi loro sì honorato arringo.14 (78v)

La digressione iniziale di Graziosi, che giunge per gradi ad onorare il circolo degli Insensati, si limita ad un omaggio di maniera e non esprime il senso profondo della «professione» accademica collettiva. Questo sarà

14 Per il significato di «arringo» (o, più comunemente aringo) si rimanda a GDLI, I, pp. 657- 656; L. PEIRONE, Aringo, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Encliclopedia Italiana, 1970, I, ad vocem.

174 invece il compito della lezione di Rubino Salvucci Sopra l’insensataggine, che rappresenta di fatto il punto più alto del filone autoreferenziale durante la seconda fase dell’accademia.15 Non è certo un caso che a proporlo fosse uno dei fondatori del sodalizio, il quale, tornato in accademia dopo un temporaneo allontanamento dalle esercitazioni collettive, 16 si arrogava il diritto di spiegare il senso della missione accademica, celato sotto il termine di «insensataggine». In apertura del discorso, Salvucci operava una distinzione tra il «fine» e lo «scopo» dell’accademia, intendendo per il primo il traguardo da raggiungere, e per il secondo, invece, il «mezzo» impiegato per il suo conseguimento. 17 Nel caso degli Insensati, il fine della loro condizione è il «contemplare e il conoscere le cose della natura e di Dio, quanto è all’huomo concesso» (25v). Ciò può accedere in tre diversi modi, di cui il più nobile – e dunque quello che interessa gli Insensati – è il modo proprio dei «dialettici». Lo scopo, invece, è la «soggiogatione de’ sensi», cui non è possibile pervenire, se prima non si è a sua volta acquisita la necessaria «quiete interiore» (26v-27r). Nella seconda parte della lezione si insiste sulla «difficoltà» e sulla «nobiltà» del progetto accademico degli Insensati. La prima dipende direttamente dalla «difficoltà» del suo scopo: infatti, nonostante si possa impegnare completamente la propria vita nel tentativo di sottomettere i sensi, non si può avere la sicurezza di vincerli del tutto. La nobiltà è legata invece alla «professione» degli Insensati, che ha un «nobilissimo» fine: la

15 R. SALVUCCI, Lettione del molto eccellente e reverendo signor R.S., dottore di theologia e canonico, detto per nome accademico il Sordo, sopra l’insensataggine, recitata da lui publicamente nel principato dell’illustrissimo signor Bartolomeo Cesis cardinale, ms. 1059, cc. 24v-32v. 16 Per descrivere il suo affrancamento dagli studi, l’autore tracciava un paragone con un soldato veterano che, tornato a battagliare dopo una lunga pausa, si mostra nuovamente un principiante: «è sentenza di coloro che scrivono delle cose militari, che quel soldato, il quale per lungo spatio di tempo ha cessato dal guerreggiare, ancor che veterano sia, si deve haver per novitio. […] Io mostrerò hoggi coll’essempio mio, che questo è verissimo, percioché se bene già molti anni sono attendeva diligentemente e per aventura non senza qualche frutto a questi accademici essercitii, tuttavia è stata così lunga l’intermissione, che ritornando hora, né io loro, né essi me riconoscono» (SALVUCCI, Sopra l’insensataggine, cit., c. 24v). 17 Una simile osservazione si legge anche all’inizio della seconda parte della predica Della vigna di C. MUSSO, Prediche del reverendissimo monsignor C.M. da Piacenza, vescovo di Bitonto, fatte in diversi tempi e in diversi luoghi […], in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1558, pp. 96-125: 105. Per l’intricata questione delle edizioni delle Prediche di Musso, si rimanda al lavoro di C.E. NORMANN, Humanist Taste and Franciscan Values. Cornelio Musso and Catholic Preaching in Sixteenth-Century Italy, New York, P. Lang, 1998, pp. 159-165.

175 contemplazione. Si compie qui, nella sezione finale, l’apoteosi della contemplazione, che non solo è «vita di Iddio» ed unica operazione a lui conveniente, ma è anche espressione intellettuale, che diviene di fatto categoria etica, sotto la quale inscrivere la vita virtuosa degli Insensati. Di più: è una via, l’unica, al «trasumanare» di dantesca memoria, perché «la contemplatione innalza l’huomo sopra la natura humana e lo fa simile a gli angeli e a Dio» ed è insieme «fondamento della beatitudine» (32r-v).18 Lo sviluppo in crescendo del discorso di Salvucci, che culmina con la celebrazione del fine dell’accademia, è in realtà inframezzato da una breve digressione di natura polemica. Si tratta della risposta ad una «obbiettioncella», procurata da «alcuni moderni, in certi Discorsi sopra l’impresa», intorno alla mancata «rispondenza» tra le gru e il nome degli Insensati (27v). Non è stato difficile riconoscere, sotto il velo della perifrasi, il senese Scipione Bargagli, che aveva considerato l’avvedutezza e la sensatezza dei grossi pennuti contraria al significato del concetto dell’impresa. 19 La critica di Bargagli induce Salvucci a introdurre una precisazione sul significato del termine «insensato», che in «terzo luogo» verrebbe ad indicare «colui che, havendo il senso, da lui non è guidato e retto» (28r).20 Questa precisazione è seguita dalla dimostrazione del fatto

18 Emerge qui una vicinanza piuttosto evidente con le teorie di san Tommaso, secondo il quale la beatitudine esprime essenzialmente un «carattere contemplativo» (si veda: B. MONDIN, Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD, 1991, pp. 85-87, 135-136: citazione a p. 86). Sulla contemplazione in san Tommaso, si vedano almeno le considerazioni di I. BIFFI, La costruzione della teologia. III. Teologia, storia e contemplazione in Tommaso d’Aquino, Milano, Jaka Book, 1995, pp. 18-80; ID., Sulle vie dell’Angelico. Teologia, storia, contemplazione, Milano, Jaka Book, 2009, pp. 53-137; E. GILSON, Il tomismo. Introduzione alla filosofia di san Tommaso d’Aquino, con un saggio introduttivo di C. MARABELLI, Milano, Jaka Book, 2011 (ed. or. Paris, Librairie Philosophique J. Vrin, 19646), alle quali si rimanda per ulteriore bibliografia. 19 «L’impresa degli accademici di Perugia mancherà ben della qualità della corrispondenza, che si dee trovare infra la figura di quella e ’l nome di questi, essendo tal figura una schiera di grue, le quali, carpito ciascuna un sasso co’ piedi e col gozzo pieno di rena, si partono dal lito e volansene in alto, per passare oltre a mare, col motto Vel cum pondere (ancora col peso) – mi stimo che vogliano intendere del quale son cariche – trapasseranno o trapasseremo francamente e sicure le malaggevolezze che si provano nel varcar sopra ’l mare; e il nome di tali accademici sonando gl’Insensati. La qual voce non sento che nel corpo di essa figura tanto o quanto risponda; anzi più tosto con esso contenda, se vero è, come tale s’ha da supporre, il sensato e accorto provvedimento di tali animali dell’aria» (BARGAGLI, Dell’imprese di S.B., gentilhuomo sanese, cit., pp. 215-216). 20 Nel primo e nel secondo significato, l’aggettivo viene a definire rispettivamente gli elementi naturali inanimati, cioè «tutto ciò che non ha il senso» o, in alternativa, «colui che poche cose sa», cioè lo «sciocco» (SALVUCCI, Sopra l’insensataggine, cit., c. 28r).

176 che le gru sono state condotte dalla ragione, e non dai sensi, durante il loro attraversamento del mare raffigurato nell’impresa. L’assunto dimostrativo si riduce in realtà ad un postulato, esposto più con la veemenza del punto esclamativo, che con la finezza del ragionamento:

dipoi, se fosse una moltitudine di animali, i quali in un’opera difficilissima insieme si aiutassero e con ordine maraviglioso la conducessero felicemente a fine, non potremmo noi dire che questi animali non fossero dal senso, ma dalla ragione e dalla prudenza governati! (28r).

Questa lezione, che riassume e ribadisce quanto più volte espresso nel primo periodo dell’accademia, è di fatto l’unico esempio nella seconda stagione di un discorso direttamente connesso con la definizione del consesso perugino. In altri casi, infatti, si trovano brevi cenni all’attività collettiva o elogi formulari del sodalizio, 21 che poteva contare ora, a cavaliere tra XVI e XVII secolo, su una consapevolezza più matura della propria identità di accademia letteraria.

21 Nella maggior parte degli esordi o degli epiloghi delle orazioni è presente un omaggio all’accademia perugina, talvolta lodata in quanto congregazione di virtuosi, altre volte acclamata per i suoi illustri appartenenti. Tra le più efficaci e felici evocazioni del sodalizio, è senz’altro da ricordare quella composta da Valerio Seta nelle carte conclusive della sua Lettione dell’echo. Prima l’autore celebrava con una domanda retorica la missione dell’accademia, sottolineandone il valore etico e religioso; quindi lodava l’attività collettiva del consesso: «Dove si fa più bel riflesso e ritorno in Dio con volo di contemplatione e con impeto d’amore; dove meglio s’amano le cose divine, le virtù e scienze, che in questa fioritissima accademia, il cui scopo altro non è, a punto, se non d’affaticarsi in questo? […] Dirò bene che i leggiadri componimenti, le pellegrine inventioni, i dotti discorsi, le virtuose attioni, che dentro a questa accademia, dentro a queste mura, quasi dentro a cavi sassi, bene spesso risuonano, fanno così bell’echo e così bel rimbombo, che fuori se ne spande la voce e sen’ode il famoso grido appreso a qualsivoglia gente» (V. SETA, Lettione dell’echo, fatta e recitata nell’Accademia degli Insensati da maestro V.S. veronese, reggente di Santa Maria Nuova, alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Malvagia, governator di Perugia, e dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor marchese della Corgnia, prencipe di detta accademia, ms. 1059, cc. 116r-124v: 123v). Si avverte qui che «monsignor Malvagia» sarà da identificarsi col bolognese Innocenzo Malvasia, governatore dal marzo 1599 al settembre 1600 (Legati e governatori, cit., p. 330). Ciò permette di datare la lezione di Salvucci entro il medesimo intervallo di tempo.

177 IV.3 Le lezioni letterarie

IV.3.1 La fine del magistero petrarchesco?

Al contrario della tradizione autoreferenziale che, pure al tramonto, non si dissolse del tutto, il filone petrarchesco non sembra far più parte degli interessi dell’accademia. Nei tre manoscritti delle lezioni degli Insensati non trovano più spazio le esposizioni di sonetti del Canzoniere, sostituite dalle letture di componimenti di poeti cinquecenteschi. Le cinque letture degli accademici sono dedicate rispettivamente ad illustrare due sonetti di Della Casa, uno di Tansillo, uno di Coppetta ed un madrigale tassiano.22 Ed al di fuori del noto corpus crispoltiano di lezioni, cioè nelle Prose di Bovarini, sono presi in esame altri due sonetti, rispettivamente uno di Tasso e uno di Coppetta.23 La novità dei modelli poetici si accompagna al drastico abbandono della tipologia di lezione più in auge durante la prima stagione, che procedeva a stretto contatto con il sonetto. La struttura delle lezioni più recenti recupera invece le più rare esposizioni letterario-filosofiche del periodo precedente, nelle quali il sonetto non viene analizzato minutamente, ma serve piuttosto ad introdurre un tema filosofico. Nelle letture dei manoscritti 1058-1060 il componimento non costituisce più il vero fulcro della lezione, ma viene tutt’al più richiamato negli snodi decisivi dell’argomentazione. I versi dei poeti vengono a costituire insomma una sorta di abbellimento iniziale, a partire dal quale si innescano ragionamenti

22 L. CENCI, Lettione recitata nell’Accademia degl’Insensati dall’eccellente signor L.C., dottore de l’una e l’altra legge, in espositione di quel sonetto del Coppetta che comincia ‘Mortal bellezza in questo o in quel soggetto’, ms. 1058, cc. 15v-23r; R. UBALDINI, Lettione sopra il sonetto di monsignor Della Casa, ch’incomincia ‘Doglia, che vaga donna al cor n’apporte’, recitata publicamente nell’Accademia Insensata dall’illustrissimo signor R.U., C. CRISPOLTI, Del sonno. Lettione del sopradetto signor C.C., recitata da lui publicamente nell’accademia, esponendo quel sonetto di monsignor Della Casa, ch’incomincia ‘O sonno, o de la queta, umida, ombrosa | notte’, C. CARBONCHI, Della notte. Discorso recitato publicamente nell’accademia dal signor C., esponendo quel sonetto del Tansillo, che comincia ‘Orrida notte, [che rinchiusa il negro]’, ms. 1059, cc. 16r-24r, 33r-40v, 41r-47r; De i nei, cit. 23 BOVARINI, Del tempo, cit. (l’indicazione esplicita del componimento interviene non nel frontespizio, ma nella ripresa del titolo della lezione: Del tempo. Lettione del signor L.B. […], esponendo il sonetto del signor Torquato Tasso ‘Vecchio e alato Dio nato col sole’ […]); ID., Del moto, cit., dove nel frontespizio è indicato che soggetto dell’esposizione sarà il sonetto di Francesco Coppetta Questo che ’l tedio, onde la vita è piena.

178 e riflessioni di ordine filosofico e sempre più saltuariamente di ordine linguistico o retorico. Questo tipo di impostazione deriva con tutta probabilità dall’esempio delle lezioni prodotte in seno all’Accademia degli Infiammati di Padova e quindi diffusosi piuttosto velocemente nell’ambiente fiorentino. Come si è visto nel precedente capitolo, il più grande interprete di questa tipologia di lezioni fu Benedetto Varchi, che vi aveva operato una sintesi tra l’elemento letterario del sonetto o della canzone e il tema filosofico, appena sbilanciata verso quest’ultimo.24 Nelle cinque esposizioni confezionate dagli Insensati, l’attenzione verso la veste elocutiva dei testi poetici viene meno quasi del tutto. Lo stesso interesse linguistico, così forte nella prima fase di vita dell’accademia, risulta ormai quasi del tutto assente, rimpiazzato solo parzialmente da isolate valutazioni sullo stile del componimento di volta in volta presentato. Quelle più incisive e meditate riguardano il sonetto di Tansillo Orrida notte, che rinchiusa il negro, oggetto della lezione di Carbonchio Carbonchi Della notte.25 Si appuntano nella parte finale del discorso, quando cioè l’autore poneva fine alla sua indagine filosofica sulla notte e si soffermava a considerare gli «artifizii» presenti nel componimento. Egli riconosceva la presenza di tre figure retoriche distinte: la «metafora», il «contraposto» e la «pretermissione». Carbonchi dimostra di apprezzare senza riserve l’uso che Tansillo aveva fatto della metafora nell’ultimo verso del componimento («che se n'andria tinto d'invidia il giorno»). Il poeta aveva attribuito l’«invidia,

24 Si ricordi quanto già esposto in § III.3. Sulle lezioni di Varchi, con ampio spazio al periodo fiornetino, si veda ANDREONI, La via della dottrina, cit., cui si rimanda per l’ampia bibliografia. Sulla fortuna del modello della lezione accademica di Varchi nel sodalizio degli Umidi, si veda M. PLAISANCE, Une première affirmation de la politique culturelle de Côme Ier: la transformation de l’Académie des ‘Humidi’ en Académie Florentine (1540-1542), in Les écrivans et la pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne, 1973, pp. 361-438: 392-393. 25 CARBONCHI, Della notte, cit. Il sonetto si legge ora in L. TANSILLO, Rime, introduzione e testo a c. di T.R. TOSCANO, commento di E. MILBURN e R. PESTARINO, Roma, Bulzoni, 2011, II, pp. 674- 675. La prima attestazione a stampa del componimento è nelle Rime di diversi illustri signori napoletani e d’altri nobilissimi intelletti, nuovamente raccolte e non più stampate. Terzo libro, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1552, c. A5r (si veda La tradizione a stampa, curata da Tobia R. Toscano, in TANSILLO, Rime, cit., I, pp. 70-106: 75).

179 propria dell’huomo» ad una «cosa inanimata» come «il giorno», rendendo manifesta la sua fedeltà all’esempio aristotelico.26 La nozione di «contraposto», sulla quale convergono le maggiori attenzioni di Carbonchi, è invece connessa alla disposizione della materia all’interno del sonetto.27 Mentre in un primo momento, per reazione al non riuscire a prender sonno, Tansillo aveva descritto la notte come «orrida» usurpatrice dell’«allegro» del «mondo», ecco che si mostra pronto a lodarla, fino a fare «invidia» al giorno, nel caso in cui questa gli avesse concesso un lungo momento di riposo. Il «contraposto» o «contentione» o ancora «distintione» si verifica «nel primo ternario», ossia nel momento in cui il poeta sosteneva – e quindi dimostrava nei versi successivi – di esser disposto a cantare della notte l’esatto contrario di quanto detto nelle due quartine (46r). In precedenza, esattamente all’altezza dei vv. 3-4 del componimento («[…] di color funebre | ammanti il mondo e spoglilo d’allegro»), Carbonchi non aveva omesso di elogiare un altro esempio di «contraposti», facendo risalire l’uso di questa pratica all’esempio di Cicerone:

Quasi un simile modo di dire usò Marco Tullio nell’oratione Pro Murena: «odit populus Romanus privatam luxuriam, publicam magnificentiam diligit».28 E certo grandissima vaghezza arrecano i contraposti nell’oratione, ma nelle rime nessuna figura di parole vi ha che più l’adorni. Questa figura usata dal poeta è da gl’oratori chiamata distintione perché distingue un contrario dall’altro. (43v)

Da ultimo Carbonchi celebrava Tansillo perché si sarebbe «servito con molta felicità» della «pretermissione», cioè della preterizione, da «Cicerone» definita «reticenza» (46r).29 Carbonchi intravedeva questa figura

26 ARIST. Rhet. III 10-11, 1411b-1412a. 27 Per un catalogo ragionato delle antitesi d’amore nella poesia petrarchista, si rimanda al suggestivo lavoro di R. GIGLIUCCI, Contraposti: petrarchismo e ossimoro d’amore nel Rinascimento: per un repertorio, Roma, Bulzoni, 2004. Dello stesso autore si veda anche Oxymoron Amoris. Retorica dell’amore irrazionale nella lirica italiana antica, Anzio, De Rubeis, 1990. 28 CIC. Pro Mur., 76, passaggio che presenta una evidente struttura chiastica. 29 Con tutta probabilità il riferimento di Carbonchi è alla Rhetorica ad Herennium, al tempo creduta di Cicerone, dove in verità l’aposiopesi è definita praecisio (IV 41). Va poi detto che le due figure retoriche della reticenza o aposiopesi e della preterizione, per quanto vicine, non si equivalgono; si veda sulla prima: B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano,

180 retorica all’altezza dei vv. 9-10 («Direi ch'esci dal cielo, e ch'hai di stelle | mille corone»), ossia nella contrapposizione tra il «direi» di inizio v. 9 e l’effettiva pronuncia dell’elogio alla notte: «e pure lo dice» (46r). Al proposito si può obiettare, però, che nei versi presi in esame, in mancanza di un avverbio di negazione («[Non]/[Neanche] direi che...», per esempio) e parimenti di un’interruzione del discorso, non si realizzano in realtà né una preterizione, né tantomeno un’aposiopesi. Si è perciò portati ad ipotizzare che il concetto espresso qui da Carbonchi sia ancor più sottile e si possa cogliere solo contestualizzando l’espressione e connettendola al resto del sonetto. Benché Tansillo promettesse alla notte di lodarla in caso di avvenuto riposo, egli non avrebbe in realtà pronunciato le sue lodi, perché difficilmente si sarebbe realizzato il desiderio dell’autore di dormire. In altri termini, il «direi» è fondato su una condizione impossibile e quindi funziona, anche logicamente, come in se stesso contraddittorio. Si fonda di nuovo sulla ricerca dei «contraposti» l’analisi condotta dall’anonimo accademico sul madrigale tassesco Caro amoroso neo, per lungo tempo attribuito alternativamente a Luigi Tansillo.30 L’attenzione dell’autore verso il modulo ossimorico appare evidente sin dai primi passaggi della sua lezione De i nei, nella quale intende dimostrare che le «imperfettioni» diventano «perfettioni», che i «difetti» producono «mirabili effetti» e che le «macchie» si tramutano nei «più belli ornamenti» (30v). Anche i nei allora, benché nascano dall’«humor melanconico» e vi crescano sopra i peli, sono segno di «bellezza»; gli stessi peli esaltano nell’uomo la «virilità e robustezza» e ne arricchiscono il fascino. I nei femminili sono stati cantati da molti poeti, quali Ovidio, Tasso e Marino: quest’ultimo, per esempio, nel madrigale Quel neo, quel vago neo, li paragonò ad un «boschetto», dove Amore, nascosto tra gli alberi, attira i malcapitati nella

Bompiani, 1997, p. 255; D. CORNO, Aposiopesi, in Enciclopedia dell’italiano, Roma, Istituto della Encliclopedia Italiana, 2010, I, pp. 88-89; sulla seconda: F. TATEO, Preterizione, in Enciclopedia dantesca, cit., 1973, IV, ad vocem; MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, cit., pp. 255-256. 30 De i nei, cit. La questione dell’attribuzione è discussa in R. PESTARINO, Tansillo e Tasso, o della «sodezza», in Sul Tasso. Studi di filologia e letteratura italiana offerti a Luigi Poma, a c. di F. GAVAZZENI, Roma-Padova, Antenore, 2003, pp. 533-559, ora in ID., Tansillo e Tasso, o della «sodezza» e altri saggi cinquecenteschi, Pacini, Ospedaletto (Pisa), 2007, pp. 101-116: 101 e n, 103n.

181 sua «rete».31 In coda alla terza parte, dedicata alle «lodi» dei nei, l’autore ritornava al componimento di Tasso, cogliendovi la presenza di un’antitesi ai vv. 2-3 («che s’illustri un bel volto | col nero tuo fra ’l suo candore accolto»), che commentava in questi termini: «è regola molto tenuta,32 tanto appresso i nostri legisti, quanto appresso i filosofi, che gli opposti, posti l’uno contra l’altro, meglio si conoscono» (36v). L’accostamento dei contrari fa emergere ancor più distintamente i due termini che si contrappongono: da qui gli esempi dei colori scuri che restituiscono i chiari, dello stesso neo che libera la lucentezza del volto e, più acutamente, delle ombre nelle pitture che «fanno meglio scolpire le figure» (36v). Tra gli esempi citati nella lezione adespota, datata 20 marzo 1602, acquista rilievo il riferimento al nome di Marino, che è una nuova testimonianza del repentino successo conosciuto dalle sue Rime veneziane di inizio 1602.33 Eppure, questa attenzione così pronta a cogliere le ultime novità in fatto di poesia (e di poetica) resta invero un fatto isolato: si registra soltanto in altre due occasioni la presenza di Marino nei discorsi degli Insensati, di cui la prima per suo diretto interessamento. Il poeta napoletano si era infatti offerto nel 1605 di celebrare la memoria del marchese Ascanio della Cornia Jr. nel sonetto Nel bel diamante, ove scolpite e fisse, posto in conclusione dell’orazione funebre del Distratto Insensato Giovanni Tommaso Giglioli (40).34 Nel secondo caso fu Cesare Crispolti a celebrare nella sua ultima lezione Della simulatione la penna di Marino che «leggiadramente, secondo il suo costume» aveva composto il sonetto Giuda, amico ne vieni? o pur fallaci (127v).35

31 G.B. MARINO, Quel neo, quel vago neo, in ID., La Lira, a c. di M. SLAWINSKI, Torino, Res, 2007, I, p. 340. 32 «Tenuta»: lezione incerta, restituita per congettura. Nel testo pare leggersi «tuita»/«trita»; entrambe le voci, per ragioni diverse, paiono inammissibili. A margine il richiamo ad ARIST. Rhet. III 2, 1405a. 33 Datano rispettivamente 10 e 15 febbraio le dediche di Marino della prima e seconda parte delle sue Rime (in Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1602). Com’è noto, la Parte prima è offerta all’Accademico Insensato Melchiorre Crescenzi, la Parte seconda a Tomaso Melchiorri. Per i rapporti di Marino con quest’ultimo, si veda G. DE MIRANDA, Giambattista Marino, Virginio Orsini e Tommaso Melchiorri in materiali epistolari inediti e dimenticati, «Quaderni d’italianistica», 14 (1993), pp. 17-32. 34 [GIGLIOLI], Nella morte dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio marchese della Corgna, cit. 35 CRISPOLTI, Della simulatione, cit.

182 L’omaggio di Crispolti si spiega non soltanto con il suo apprezzamento verso la vena poetica del napoletano, ma anche – se non soprattutto – in ragione della qualifica di Marino quale «nostro honoratissimo academico» (127v). Già, perché il futuro autore dell’Adone era un membro del sodalizio perugino e nel suo passaggio nella città umbra, in buona parte ancora da indagare, lasciò alcune tracce significative, che sono già state oggetto delle ricerche di Norberto Cacciaglia e Maurizio Slawinski.36 Tuttavia, il materiale mariniano o d’interesse mariniano non si riduce ai quattro manoscritti (538, 946, 1307, 1323) trovati dai due studiosi nella Biblioteca Augusta: nuove testimonianze sono emerse di recente ed altre ancora attendono di essere portate alla luce. 37 Anziché restituire un’analisi degli ultimi documenti ritrovati, che meriterebbe un approfondimento troppo esteso e non del tutto pertinente al tema del presente paragrafo, risulta più opportuno circoscrivere la breve rassegna a ciò che riguarda da vicino Marino e gli Accademici Insensati; di più: il loro corpus di lezioni. Qui si trova infatti un altro componimento del poeta napoletano non menzionato in precedenza. Non si è trattato però di una

36 N. CACCIAGLIA, …E un Marino a Perugia. Proposte, risposte, della corte e della pittura nel primo Seicento, «Philo(:)logica», 5 (1994), pp. 87-106; ID., Momenti perugini nell’attività poetica di Giambattista Marino, «Annali dell'Università per stranieri di Perugia», 2 (1994), pp. 155-178; M. SLAWINSKI, Marino tra Umbria e Inghilterra, «Rassegna europea di letteratura italiana», 10 (1997), pp. 53-80. Mentre Cacciaglia propende per una data più alta (tra 1602 e 1603: Momenti perugini, cit., p. 155), Slawinski fissa l’ingresso di Marino in accademia nel 1605, proprio in ragione della testimonianza per le esequie di Ascanio II della Cornia (Marino tra Umbria e Inghilterra, cit., pp. 56-60). Da ultimo, Emilio Russo ha edito le varianti contenute nel codice perugino 538 [H 23] rispetto alla edizione postuma del settimo canto della mariniana Gerusalemme distrutta (in Venezia, appresso Girolamo Piuti, 1626): E. RUSSO, Una nuova testimonianza sulla ‘Distrutta’ del Marino, in ID., Studi su Tasso e Marino, Padova, Antenore, 2005, pp. 68-100: 80n, 95-100. 37 Nell’intervento di Alessandro Martini, che ha mostrato in un codice parigino dei primi anni del Seicento (Bibliothèque nationale de France, ms. ital. 575) la presenza di componimenti mariniani della più tarda Lira, lo studioso confronta le varie redazioni dell’Inno alle stelle e si sofferma sull’«assai autorevole» ms. 314 della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, copiato dal pesarese Salvator Salvatori. Martini ipotizza, citando Emilio Russo (Marino, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 23n, 53n), che Salvatori disponesse di «fonti anche di prima mano, risalenti ai rapporti del Marino con l’Accademia degli Insensati»: A. MARTINI, «Tempro la lira»: le poesie di Marino in un codice per le nozze del primissimo Seicento (BNF, ital. 575), in Marino e il Barocco, cit., pp. 13-56: 34-45, citazione a p. 34n. Non si può allora non raccogliere l’invito dello stesso Russo che nella sua citata monografia ha esortato a continuare gli studi sul rapporto tra Marino e l’accademia perugina. Un primo sondaggio, condotto da chi scrive, tra i codici della Biblioteca Augusta ha fatto emergere ulteriori componimenti mariniani, taluni di dubbia attribuzione. La complessità della questione non consente per ora di approfondire qui il problema: se ne discuterà in una prossima pubblicazione.

183 dimenticanza perché esso non compare in alcuna delle lezioni degli Insensati, bensì sul recto di un foglio volante, di formato minore rispetto alle altre carte del manoscritto perugino 1060. Vi si legge il celebre sonetto Negra sì, ma sei bella; o di Natura, la cui lezione presenta alcune minime ma significative varianti rispetto all’edizione della Lira del 1614 (fin dall’incipit, che nella stampa è Nera sì, ma se’ bella, o di Natura).38 Di là dall’importanza del ritrovamento del sonetto, forse non è un caso che anche il componimento in questione sia tutto giocato su una serie continua di contrapposizioni paradossali, secondo uno schema così conforme al gusto estetico degli Insensati.39 Nonostante la presenza di Marino nell’accademia, il canone di letterati proposto dagli Insensati è pressoché interamente tre e cinquecentesco. Dante, Petrarca, Boccaccio, Bembo, Ariosto, Guidiccioni vengono di frequente chiamati in causa, accanto agli onnipresenti filosofi ed autori classici, a confermare il pensiero degli autori delle lezioni. Non vi è invece spazio per poeti quali Guido Casoni, Gabriello Chiabrera, Angelo Grillo che pure, entro il volgere del XVI secolo o nei primissimi anni del XVII, avevano già dato alle stampe alcune tra le loro opere più significative.40 Raccoglie i favori del solo Crispolti anche Battista Guarini, che era membro dell’accademia col nome di Arido.41 All’infuori di quest’ultimo, e soprattutto

38 La questione è affrontata con maggior ampiezza in L. SACCHINI, Da Francesco Petrarca a Giovan Battista Marino: l’Accademia degli Insensati di Perugia (1561-1608), comunicazione raccolta negli atti dell’Italian Academies International Conference, British Library, London September 17-18, 2012, i.c.s. Qui, la versione perugina del componimento è inserita entro la tradizione precedente alla Lira del 1614, ricostruita da MARTINI, «Tempro la lira», cit., pp. 46-47. A commento del sonetto, si vedano le pagine dello stesso Alessandro Martini nel volume da lui curato G.B. MARINO, Amori, Milano, RCS libri, 2001, pp. 149-150 e di P.V. MENGALDO, Prima lezione di stilistica, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 91-97. 39 Di grande interesse sulle antitesi mariniane (alla luce delle categorie del Cannochiale aristotelico di Emanuele Tesauro) è lo studio di P. FRARE, Antitesi metafora e argutezza tra Marino e Tesauro, in The “Sense” of Marino, cit., pp. 299-322; dello stesso Frare si veda anche Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento [1992], nel suo «Per istraforo di perspettiva». Il «Cannocchiale Aritotelico» e la poesia del Seicento, Pisa-Roma, I.E.P.I., 2000, pp. 85-99. 40 Nella biblioteca di Podiani sono presenti due opere di Casoni (Della magia d’amore composta dal signor G.C. da Serravalle […], in Venetia, appresso Agostin Zoppini e nepoti, 1596; Ode del signor cavalier G.C. […], in Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1602) e due di Grillo (Pietosi affetti di don A.G. […], [s.l.] [s.d.]; Christo flagellato e le sue essequie celebrate co’l pianto di Maria vergine […], in Venezia, appresso Bernardo Giunti, Gio. Battista Ciotti e compagni, 1607); non sono registrate opere di Chiabrera e Marino. 41 Lo rivela lo stesso Crispolti nella lezione finale Della simulatione (cit., c. 120v). Guarini era inoltre in contatto con un altro membro dell’accademia, vale a dire con Marco Antonio

184 di Tasso, la cui attività critica e letteraria conobbe fin da subito immediata fortuna,42 gli Insensati preferivano invero i letterati del medio Cinquecento a quelli di fine secolo, così come conferma la scelta di Della Casa, Tansillo e Coppetta quali poeti oggetto di almeno una esposizione accademica. L’unica dissertazione di argomento letterario non ancora citata – in quanto alternativa alla tipologia finora proposta – è la Lezione del sonetto di Cesare Crispolti.43 A differenza delle altre esposizioni di un componimento altrui, la lezione di Crispolti è una vera e propria teorizzazione della detta forma metrica. Qui il sonetto è analizzato alla luce del binomio gravità e piacevolezza, le due categorie estetiche sulle quali, secondo Bembo, deve fondarsi ogni scrittura.44 La definizione di sonetto adottata da Crispolti è però di Antonio Minturno, il quale lo descriveva come una «composizione grave e leggiadra […] tessuta sotto certo nummero di versi e sotto certo ordine limitata». 45 Acquisisce importanza nel discorso dell’accademico perugino il «confine angusto e determinato» entro il quale è circoscritta la forma metrica (nel numero e nella misura dei versi, nella successione delle rime, ecc.), una delimitazione che consente di distinguerla rispetto alle

Bonciari (si veda § II.4.4.2 e infra, nota 64). Restano a testimoniarlo quattro sue lettere inedite, indirizzate al perugino, conservate nel ms. 76 [B 20] della Biblioteca Augusta di Perugia (cc. 114r-v; 116r; 118r; 120r-v). 42 Fanno fede i numerosi omaggi alle spoglie e alla tomba di Tasso, raccolti ed esposti ne L’onorato sasso. Un secolo di versi in morte di Torquato Tasso, a c. di D. CHIODO, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003. 43 Si cita dall’edizione moderna di Bernard Weinberg: C. CRISPOLTI, Del sonetto, in Trattati di poetica e retorica, cit. Il titolo della lezione nel manoscritto è C. CRISPOLTI, Lettione recitata publicamente nell’Accademia Insensata dall’illustrissimo e molto reverendo signor C.C., in tempo ch’egli era prencipe di detta accademia. Tratta in essa del sonetto, ms. 1058, cc. 64r- 69r. Weinberg propone per la lezione la data del 1592 (pp. 193, 420), ma non offre motivazioni al riguardo. Quasi certamente la lezione è degli anni ’90 del Cinquecento, ma si ritiene più plausibile una data più tarda, dal 1594 in avanti. Come detto, il 1594 segna il momento della venuta a Perugia in qualità di «governatore» di Carlo Conti, ricordato nel primo volume quale principe dell’accademia (si veda Appendice I). 44 Il celebre passo è in P. BEMBO, Prose della volgar lingua, in ID., Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a c. di C. DIONISOTTI, Milano, TEA, 1993, [2.IX]: in questo e nei successivi riferimenti alle Prose si riproduce la suddivisione in paragrafi adottata da Dionisotti. Nella biblioteca di Podiani ci sono due copie delle Prose di Bembo dell’edizione fiorentina, per Lorenzo Torrentino, del 1549; la stessa che Dionisotti adotta come testo base. Le due notissime categorie di Bembo sono discusse da H. GROSSER, La sottigliezza del disputare. Teoria degli stili e teorie dei generi in età rinascimentale e nel Tasso, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 53-63. 45 A. MINTURNO, L’arte poetica del signor A.M., nella quale si contengono i precetti heroici, tragici, comici, satyrici e d’ogni altra poesia […], in Venetia, per Gio. Andrea Valvassori, 1563, p. 240, (opera presente nella biblioteca di Podiani), citata in CRISPOLTI, Del sonetto, cit., p. 196.

185 forme non (del tutto) regolate, come la canzone e l’epigramma. Il sonetto può dividersi tra quartine e terzine o, in alternativa, tra la prima quartina e il resto del componimento, in base all’uso di «Petrarca, dal quale ciascuno deve apprendere le regole del buon comporre». Non vengono invece dati suggerimenti sulle «desinenze», per le quali si rimanda di nuovo a «Petrarca, [i] quai sonetti potranno servire per regola e modello di questo edifizio», perché «seguendo ciascuno così ottimo architetto, sarà impossibile che possi già mai errare». Ed ancora sulla scorta di esempi petrarcheschi, Crispolti arrivava a qualificare come «vario» il soggetto del sonetto, almeno in ciò simile alla canzone.46 Si compie qui il definitivo avvicinamento alle tesi tassiane della Lezione sul sonetto Questa vita mortal di monsignor Della Casa, che consentono a Crispolti di formulare il punto centrale del suo discorso. In contrasto con le precedenti teorie di Dante e Bernardo Tomitano,47 Crispolti prevedeva anche per il sonetto la possibilità di trattare un argomento grave in uno stile grave e riconosceva come necessaria la conformità tra i «concetti» e le «parole», dovendo i primi uniformarsi alle seconde:

Con tutto ciò (e sia detto con pace di Dante e del Tomitano), s’egli è leccito, come provato abbiamo, che nel sonetto soggetto grave e magnifico abbia luogo, sarà parimente leccito che le parole siano

46 CRISPOLTI, Del sonetto, cit., pp. 196-198. 47 Com’è noto, il nome di Dante torna di grande attualità nel dibattito linguistico cinquecentesco dopo che Giangiorgio Trissino offrì nel 1529 una traduzione in volgare del trattato dantesco De Vulgari Eloquenza (Vicenza, presso Tolomeo Ianiculo). Crispolti non citava il passaggio dantesco che contestava, ma è ipotizzabile che si trattasse del breve cenno sull’inferiorità del sonetto rispetto alla canzone ed anche alla ballata («Cantiones nobiliores ballatis esse sequitur extimandas, et per consequens nobilissimum aliorum esse modum illarum, cum nemo dubitet quin ballate sonitus nobilitate modi excellant»: DANTE A., De vulgari eloquentia, a c. di M. TAVONI, in ID., Opere. Rime, Vita Nova, De Vulgari Eloquentia, a c. di C. GIUNTA, G. GORNI, M. TAVONI, con un’Introduzione di M. SANTAGATA, Milano, Mondadori, 2011, pp. 1065-1547: 1404-1406; e si veda anche la nota a p. 1406n per un commento sulla “bocciatura” dantesca del sonetto). Crispolti mostra anche di non gradire le considerazioni critiche di Tomitano che aveva giudicato «temperata» la «testura» del sonetto. Nella teoria degli stili elaborata dal padovano, il sonetto appartiene effettivamente al livello «mezzano» ed è dunque destinato a rappresentare «cose mezzane»: B. TOMITANO, Ragionamenti della lingua toscana di messer B.T. I precetti della rhetorica secondo l’artificio d’Aristotile e Cicerone nel fine del secondo libro nuovamente aggionti, di Venezia, per Giovanni de’ Farri e fratelli, 1546, pp. 172, 276. Sulle osservazioni stilistiche di Tomitano, si veda GROSSER, La sottigliezza del disputare, cit., pp. 69-73; GIRARDI, Il sapere e le lettere, cit., pp. 211-223 (sulla virtù del «temperamento», cui faceva riferimento Crispolti: pp. 215-216). Come informa la stessa Girardi (pp. 4n-5n), la princeps dei Ragionamenti del 1545 differisce dall’edizione citata solo per il frontespizio.

186 gravi e magnifiche; però che essendo le parole, conforme a quello che n’insegna Aristotile nel terzo libro della Rettorica, imitazione de’ concetti, debbono la loro bassezza e la loro altezza imitare. Appresso, se la natura non ad altro effetto ci diede il parlare se non perché con esso significhiamo i concetti dell’animo nostro, e se dall’arte a questo stesso effetto il verso fu ritrovato, chiara cosa è ch’i concetti sono il fine e per conseguenza la forma dell’orazione, e le parole e la composizione, la materia e l’instrumento. Onde convenevole mi pare che l’istrumento serva al fine et il meno nobile al più nobile. 48

Dopo aver proposto la definizione del sonetto, la sua divisione, le differenze con le altre forme metriche e la qualità del suo soggetto, sono infine specificati, nella parte conclusiva della lezione, i «luoghi» dai quali si può ottenere gravità e piacevolezza. La prima è data non solo dai traslati, dalle parole «peregrine», dalle «descrizioni», ma anche – come sostenuto dal grammatico perugino Vincenzo «Menni» – dalle voci con grande copia di consonanti nonché – come proposto da «Bembo» – dalla distanza delle rime tra loro e dallo «spezzare» dei versi.49 Dall’altra parte la piacevolezza si origina invece dall’abbondanza delle vocali e dalla presenza nella parola delle consonanti «liquide».

48 CRISPOLTI, Del sonetto, cit., p. 201. Si confronti il passo della lezione di Tasso: «Ma, con pace di Dante sia detto, s’egli è pur lecito che nel sonetto concetti gravi e magnifici abbiano luogo, sarà parimenti lecito che le parole siano gravi e magnifiche, però che, essendo le parole, come Aristotele nel terzo libro della Rettorica c’insegna, imitazione de’ concetti, debbono la loro bassezza e la loro altezza imitare. Oltre di ciò, se la natura non ad altro affetto ci ha dato il parlare se non perché con esso significhiamo i concetti dell’animo nostro e se da l’arte a questo istesso effetto fu ritrovato il verso, chiara cosa è che i concetti siano il fine e conseguentemente la forma dell’orazione e le parole e la composizione del verso la materia o l’instromento: però convenevole mi pare che l’instromento serva al fine, e il men nobile al più nobile, ché più nobili sono i concetti dell’elocuzioni» (Lezione recitata nell’Accademia ferrarese sopra il sonetto «Questa vita mortal» di monsignor della Casa in T. TASSO, Le prose diverse, nuovamente raccolte ed emendate da Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1875, II, pp. 111-134: 119). Lo rivela anche Nicola Gardini nel suo volume Storia della poesia occidentale, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 45n-46n, dove tra le auctoritates utilizzate da Crispolti ricorda «Vomitano», che sarà però da correggere in «Tomitano». Sulla lezione giovanile di Tasso, si vedano almeno le considerazioni di A. CRISTIANI, Dalla teoria alla prassi. La gravitas nell’esperienza lirica di Giovanni Della Casa, «Lingua e stile», 14 (1979), pp. 81-106; R. FEDI, Tasso, Della Casa e un poeta dimenticato, «Filologia e critica», 10 (1985), pp. 342-365; GROSSER, La sottigliezza del disputare, cit., pp. 159-173; C. SCARPATI, Vero e falso nel pensiero poetico del Tasso, in C. SCARPATI, E. BELLINI, Il vero e il falso dei poeti: Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Milano, Vita e pensiero, 1990, pp. 1-34: 9-13; C. GIGANTE, Tasso, Roma, Salerno, 2007, pp. 91-93. 49 Sulla gravità data dalla lontananza delle rime: BEMBO, Prose, cit., [2.XII]. Sul secondo riferimento delle Prose agli enjambement si tornerà in nota 66.

187 Quest’ultima lezione, l’unica che a ben vedere contiene riflessioni non superficiali nel campo della critica letteraria, invita a ripensare la possibile frattura tra la prima e la seconda stagione dell’accademia. Sebbene non ci siano più esposizioni su liriche petrarchesche, nel novero degli autori presi in considerazione dagli Insensati Petrarca resistette comunque quale modello da seguire nella composizione dei sonetti. Da parte degli accademici non venne messo in atto nei suoi confronti alcun tipo di disconoscimento. Tuttavia, la stessa continuità nel nome di Petrarca era di fatto meno esclusiva rispetto al passato e concedeva non poco spazio all’emergere di un preciso interesse per alcuni dei più autorevoli letterati moderni del Cinquecento.

IV.3.2 Gli Insensati tra gravità e piacevolezza

Le esigue riflessioni degli accademici assumono il giusto valore se vengono rilette e contestualizzate entro i più ampi scenari della critica letteraria di secondo Cinquecento. Si deve considerare in primo luogo il significato della scelta petrarchesca, che nelle intenzioni degli accademici veniva a coincidere con una preferenza per il modello bembesco. Non per caso, i riferimenti al cardinale veneziano sono numerosi nei testi degli Insensati, in particolare nei momenti in cui si affrontano questioni stilistiche o linguistiche. Queste occorrenze si addensano copiose proprio nella suddetta lezione Del sonetto. Tuttavia, non sono più le uniche: il discorso di Crispolti dialoga infatti anche con altri teorici del medio o del secondo Cinquecento, quali Minturno, Tomitano e Tasso, dai quali l’accademico coglieva intuizioni decisive per la formulazione della sua idea di sonetto.50

50 Sulla figura di Bernardo Tomitano risultano imprescindibili le monografie di GIRARDI, Il sapere e le lettere, cit. (che rileva uno dei punti di contatto con il pensiero di Tasso proprio nelle pagine della Lezione di quest’ultimo su Della Casa: pp. 77-78; 125-127) e M.R. DAVI DANIELE, Bernardino Tomitano filosofo, medico e letterato: profilo biografico e critico, Trieste, Lint, 1995. Su Antonio Minturno si vedano i recenti interventi di G. ALFANO, Dioniso e Tiziano. La rappresentazione dei ‘simili’ nel Cinquecento tra decorum e sistema dei generi, Roma, Bulzoni, 2001 (in particolare, il capitolo II: Dall’umanesimo all’accademia: la riflessione poetica di Antonio Minturno, pp. 97-136); D. COLOMBO, La cultura letteraria di Antonio Minturno, «Giornale storico della letteratura italiana», 181 (2004), pp. 544-557; D’ALESSANDRO, Il Petrarca di Minturno e Gesualdo, cit.; G. TALLINI, «Voluptas» e «docere» nel pensiero critico di Antonio Minturno, «Esperienze letterarie», 33 (2008), pp. 73-100. Sulla sua attività poetica: S. CARRAI, Sul Minturno poeta. Preliminari d’indagine [1989], ora nel suo

188 Ma i nomi testé citati appartengono tutti – e allora non può essere solo una coincidenza – a quella corrente di sostenitori della gravitas che Andrea Afribo ha delineato con precisione nella sua importante monografia Teoria e prassi della “gravitas” nel Cinquecento. 51 Questi uomini di lettere (e di filosofia) bollavano come pedanteria o addirittura «superstizione» la preferenza bembesca per la piacevolezza, che si traduceva in un concetto di imitazione pedissequa dei componimenti del Canzoniere. Proponevano per contro, dopo il recupero di Aristotele e sulla scorta delle teorie speroniane, pur smussate delle loro asperità, un’idea di poesia non più ridotta a grammatica, ma fondata sul primato del contenuto sulla forma. Ciò non porta in alcun modo a negare la valenza dell’esempio di Petrarca, ma consente ai letterati più esigenti di muoversi con maggior libertà all’interno di questa fortunatissima tradizione poetica, il Petrarchismo, evitando il vincolo troppo stretto al verbo del poeta del Canzoniere ed ipotizzando un nuovo tipo di imitazione, più sottile e meno esibita.52 Alla luce delle considerazioni appena svolte, acquistano allora un significato più profondo i rilievi di Crispolti, che aveva riconosciuto un innalzamento della forma del sonetto verso i vertici propri della canzone; un innalzamento reso possibile a partire dalla comunanza dei loro soggetti. Di qui, conformandosi ancora una volta alle teorie di Minturno e poi di Tasso, Crispolti arrivava a dichiarare che il sonetto poteva accogliere, oltre alla tradizionale materia amorosa, anche argomenti più alti, degni del genere epico. 53 Il processo di «eroicizzazione» del sonetto comportava anche

I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 167-198. 51 A. AFRIBO, Teoria e prassi della “gravitas” nel Cinquecento, Firenze, Cesati, 2001, che accenna anche alla lezione Del sonetto di Crispolti (p. 100). 52 Probabilmente un ulteriore sviluppo delle considerazioni di Afribo potrebbe giungere dalla riflessione guariniana. In particolare nel Verrato secondo (in Firenze, per Filippo Giunti, 1593), Guarini faceva riferimento ad una duplice linea poetica: una prima, grandiosa e magnifica, fondata sull’esempio di Pindaro ed Orazio, contrapposta ad una seconda, più dimessa e leggiadra, che si rifaceva invece ad Anacreonte e Catullo. Il merito di Della Casa, secondo Guarini, fu quello di ripristinare la prima tendenza, obliata dall’egemone modello petrarchesco (p. 238; su cui si veda C. SCARPATI, Poetica e retorica in Battista Guarini, in ID., Studi sul Cinquecento italiano, Milano, Vita e Pensiero, 1982, pp. 201-238, in particolare, pp. 230-232). 53 Se il sonetto è un esempio di «lirica poesia», e questa ha per soggetto «dèi», «eroi» ed «amori», ne viene che analogamente «nei sonetti si canteranno gli dèi, gli eroi, gl’amori e cose simili» (CRISPOLTI, Del sonetto, cit., p. 199). Il passo di Crispolti è di nuovo un calco della

189 l’affermazione di nuovi modelli nel campo delle preferenze poetiche. Della Casa divenne il modello di uno stile «magnifico», nonché il maggior esponente di una gravitas stilistica che superava le movenze simmetriche del petrarchismo più ortodosso.54 Proprio a Della Casa e a Tasso erano state dedicate ben quattro esposizioni da parte degli Insensati, a dimostrazione di un vivo interesse nei confronti dei due poeti. Anche gli accademici perugini erano insomma parte di quella «piccola borghesia poetica […] succube del verbo casiano, ora sentito più appetibile di quello petrarchesco, ormai tendenzialmente ridotto a grammatica di base, dunque a routine e a merce non più di lusso».55 Infatti, dopo essersi esercitati per circa un trentennio quasi esclusivamente sulla produzione petrarchesca, gli Insensati si mossero alla ricerca di un modello poetico ancora più ricercato. Non sorprende allora che la scelta si orientò verso la poesia alta e severa di Della Casa; una poesia difficile, che nasceva laboriosamente e che risultava, proprio per questo, elitaria ed altamente seducente.56 Tuttavia, la questione è ancora più complessa, perché in questo quadro, che viene delineandosi, di adesione alla teoria della gravitas, non

Lezione di Tasso sul sonetto di Della Casa: «Aggiungasi che ’l sonetto è parte o specie della lirica poesia; e la lirica poesia, come nella Poetica d’Orazio si legge, canta degli dii e degli eroi» (p. 118). Sui mutamenti del genere sonetto in nome della gravitas: AFRIBO, Teoria e prassi, cit., pp. 120-132. Si ricordi poi che all’incirca nel medesimo periodo era assai dibattuta la questione della somiglianza tra sonetto ed epigramma classico. E fu proprio Tasso uno dei primi ad applicare al sonetto la formula di chiusura dell’epigramma. Sull’avvicinamento tra le due forme metriche, si vedano le considerazioni di A. MARTINI, Introduzione, in MARINO, Amori, cit., pp. 5-40 12-18 e C. CARMINATI, Introduzione, nel volume da lei curato F. MENINNI, Il ritratto del sonetto e della canzone, Lecce, Argo, 2002, I, pp. XI- LXXXI: XX-XXI; per un parallelo tra la situazione italiana e spagnola: F. DELLE PEZZE, Per una tipologia sintattica del sonetto aureo spagnolo, Firenze, Allinea, 2002, pp. 23-30. 54 CRISTIANI, Dalla teoria alla prassi, cit., pp. 82-83; GROSSER, La sottigliezza del disputare, cit., p. 165. 55 A. AFRIBO, Giovanni Della Casa tra Cinque e Seicento, «Lingua e Stile», 38 (2003), pp. 87- 100, ora in ID., Petrarca e petrarchismo. Capitoli di lingua, stile e metrica, Roma, Carocci, 2009, pp. 209-235: 211-212. 56 Lo stesso Crispolti, con un ingegnoso parallelo, insisteva sulla complessità che interviene nella composizione del sonetto, dovuta in primo luogo alle sue dimensioni estremamente ridotte: «Nasce questa difficoltà da molte cagioni, ma principalmente dalla picciolezza sua. In un quadro grande dipinto non si notano se vi sono alcune cose fatte meno acconciamente, né poste a suo luogo, né distinte con l’ombre, perché ve ne sono molt’altre che con la varietà dei colori, con la distinzione de’ membri, con l’ornamento delle vesti e con bella situazione de’ luoghi rapiscano gli occhi e gl’animi di coloro ch’il mirano. Ma in una picciola pittura si nota con severo giudizio ogni diffetto per minimo che sia. Il medesimo appunto avviene nel sonetto» (Del sonetto, cit., pp. 195-196).

190 mancano evidenti segnali di incoerenza. Risultano in tal senso emblematiche non solo la Lezione di Crispolti, che promuove da una parte il sistema petrarchesco di Bembo e dall’altra include nella discussione sul sonetto i teorici della “fazione opposta” (Minturno, Tasso), ma anche la scelta degli autori dei componimenti, dove al prestigioso e solidale binomio Della Casa- Tasso si deve aggiungere anche il perugino Coppetta, inferiore a Della Casa proprio sul terreno della gravità, come ebbe a rilevare Tasso. Gli Insensati non potevano infatti ignorare il confronto, proposto nel dialogo La Cavalletta, tra il sonetto di Coppetta Locar sopra gli abissi i fondamenti e il sonetto di Della Casa Questa vita mortal che ’n una o ’n due, già esposto da Tasso nella giovanile Lezione accademica sul poeta fiorentino. Coppetta ne usciva perdente, perché avendo cominciato il sonetto con parole «piene di molta gravità», non era riuscito ad elevare ulteriormente il registro nella parte finale. Della Casa, rispettoso dei principi dello stile grave elaborati dallo pseduo-Demetrio, aveva fatto l’esatto contrario e toccato negli ultimi versi il livello massimo di gravità.57 Un’altra ragione, più sottile, merita poi di essere osservata. Si ricordi l’insistenza degli Insensati in relazione ai «contraposti», tipici della poesia di Petrarca e dunque assiduamente riproposti nelle liriche cinquecentesche. Tasso, al contrario degli accademici perugini, mostrava al riguardo una certa qual cautela e quasi ritrosia. È vero: nei Discorsi del poema eroico non mancò di definirli «particolarmente […] belli», ma subito dopo, quasi a circostanziare la portata del suo lusinghiero giudizio, aggiungeva che «questa figura» è «sprezzata» da chi ricerca lo stile magnifico. 58 I «contraposti» sarebbero, dunque, tipici dello stile «ornato» della poesia lirica, ma non dello stile più elevato del poema eroico che Tasso andava ricercando. La miglior sintesi del pensiero di Tasso sull’argomento è

57 T. TASSO, La Cavaletta overo de la poesia toscana, in ID., Dialoghi, a c. di G. BAFFETTI, Introduzione di E. RAIMONDI, Milano, Rizzoli, 1998, II, pp. 665-732, citazione a p. 678. Sul dialogo di Tasso, si veda GROSSER, La sottigliezza del disputare, cit., pp. 248-257. Nella biblioteca di Podiani è stranamente piuttosto esigua la presenza di opere di Tasso. Nessuna di quelle qui citate vi compare. 58 T. TASSO, Discorsi del poema eroico, in ID., Prose, a c. di E. MAZZALI, con una Premessa di F. FLORA, Milano - Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 487-729: 697-698.

191 contenuta in una sua lettera “poetica” indirizzata a Luca Scalabrino, lettera nella quale il poeta aggiungeva un ulteriore significativo dettaglio:

E qui torno a replicare quel che ho detto, che non è il medesmo carattere il magnifico e l’ornato; e se ben il magnifico non ricusa l’ornato, anzi molto volentieri e molto spesso il riceve e se ne copre tutto, per così dire; tuttavia l’ornamento è proprio della forma di dire mediocre, quale è la lirica; nella quale si schiva, come viziosissima, la replicazione delle parole e s’affettano i contraposti e gli antiteti. Il magnifico all’incontro non cura di mirar sì basso: e talora, avendo proposto tre cose, risponde a due; nè, se per altro è opportuna, fugge la replicazion delle parole.59

Il riferimento nelle ultime righe della citazione, a prima vista oscuro, si chiarisce facilmente grazie al nome che Tasso allegava quale riuscito esempio dello stile magnifico: monsignor Della Casa. La considerazione appena prodotta permette di rilevare che il passo appena citato è in realtà una ripresa in forma più breve di un’osservazione già svolta in precedenza nella Lezione sul sonetto Vita mortal di Della Casa. Tasso, prendendo in considerazione la prima terzina del sonetto Questa vita mortal che ’n una o ’n due («Anzi il dolce aer puro, e questa luce | chiara, che ’l mondo a gli occhi nostri scopre, | traesti tu d’abissi oscuri e misti»), lodava l’inserimento dell’irrelato «dolce» a spezzare la perfetta simmetria della doppia antitesi «puro», «chiara» vs. «misti», «oscuri».60 L’autore della Liberata sottolineava il merito di Della Casa di aver liberato la poesia dal rigido vincolo imposto dai «contraposti», consegnando in qualche modo al passato la pratica del sistematico rispecchiamento antitetico che, invece, tanto attraeva gli Insensati.61 Parimenti, ancora nella Lezione sul sonetto di Della Casa, Tasso aveva ripreso Bembo per aver cosparso «ogni sua, benché gravissima, composizione, […] senza misura alcuna di questi contraposti»; e per aver così legittimato, con il suo esempio, la prassi poetica della larga schiera di

59 Lettera a Luca Scalabrino, Ferrara, [s.d.], in T. TASSO, Lettere poetiche, a c. di C. MOLINARI, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Guanda, 1995, pp. 251-266: 260-263. 60 TASSO, Lezione, cit., p. 129; su cui si veda GROSSER, La sottigliezza del disputare, cit., p. 170n; GIGANTE, Tasso, cit., p. 93. 61 Su Tasso e i contraposti si vedano GROSSER, La sottigliezza del disputare, cit., pp. 170-173, 245, 294-300; GIRARDI, Il sapere e le lettere, cit., pp. 209n-210n; R. GIGLIUCCI, Introduzione. Sull’ossimoro d’amore nel Rinascimento, in ID., Contraposti, cit., pp. 65-68.

192 suoi seguaci, i quali «pur ch’empiano le loro composizioni d’antiteti, nulla curano se di spiriti e di concetti sono vuote».62 L’opinione divergente degli Insensati e di Tasso in merito alla convenienza dei «contraposti» può in effetti apparire un motivo di contrasto sin troppo cavilloso perché fosse percepito pienamente. Ma anche rispetto alla scelta – questa sì ben più condizionante – dei modelli poetici e teorici di riferimento, non sembra che gli Insensati avvertissero un qualche elemento di divergenza o di inconciliabilità. Il che si può spiegare in due motivi: o ipotizzando da un lato l’assenza negli accademici di una sensibilità letteraria sufficientemente allenata a cogliere le differenze tra le diverse posizioni in gioco, oppure ammettendo la volontà degli stessi di mostrarsi equidistanti tra i sostenitori della gravità e della piacevolezza.63 Nel primo caso, il mancato rivelarsi di una chiara linea in fatto di scelte poetiche può esser dovuto all’assenza, almeno sul lato del volgare, di un filosofo, di un grammatico o comunque di un teorico della letteratura in grado di indirizzare le preferenze degli Insensati.64 Gli indiscussi meriti di Crispolti

62 TASSO, Lezione sopra il sonetto, cit., p. 130. La medesima citazione è servita a Rossano Pestarino per estendere il giudizio tassiano anche all’opera di Tansillo. Benché nella produzione lirica di entrambi sia innegabile una comune «sodezza di pensieri», come notava già Federigo Meninni, a distanziarle vi sarebbe proprio la pratica antitetica, che è uno degli artifici stilistici «più evidenti» nella poesia di Tansillo: PESTARINO, Tansillo e Tasso, cit., pp. 106-107, con citazione, a p. 107n, del Ritratto del sonetto e della canzone di Meninni (in Napoli, per Giacinto Passaro, 1677). Oltre all’ottimo libro di Pestarino, su Tansillo si vedano almeno A. AFRIBO, Aspetti del petrarchismo di Luigi Tansillo, «Rivista di letteratura italiana», 12 (1994), pp. 43-77; E. MILBURN, Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth- Century Naples, Leeds, Maney Publishing for the Modern Humanities Research Association, 2003 (discusso in R. PESTARINO, Due recenti contributi su Luigi Tansillo, in ID., Tansillo e Tasso, cit., pp. 223-246); R. PESTARINO, Lirica “narrativa”: i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo, «Critica letteraria», 39 (2011), 153, pp. 693-723; T.R. TOSCANO, Tra corti e campi di battaglia: Alfonso d’Avalos, Luigi Tansillo e le affinità elettive tra petrarchisti napoletani e spagnoli, «e-Spania», rivista elettronica, fascicolo in linea dal 13 giugno 2012 (url: http://e- spania.revues.org/21383). Sul contesto culturale, rimane valida la sintesi di E. RAIMONDI, Il petrarchismo nell’Italia meridionale [1973], in ID., Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 267-306 (con pagine di assoluto valore sulla preferenza della poesia meridionale, e quindi anche di Minturno, per un classicismo «grave»). 63 Vi sarebbe in realtà una terza ipotesi che consiste nel considerare le due linee poetiche (Petrarca-Bembo da una lato; Petrarca-Guidiccioni-Della Casa-Tasso dall’altro) e teoriche (di nuovo Bembo [Dolci] vs. Speroni [Tomitano]-Minturno-Tasso) non in opposizione fra loro. Questo porterebbe però a negare la tesi che Afribo sviluppa con abbondanza documentaria nel suo citato volume Teoria e prassi della gravitas. Alla luce delle testimonianze invero esigue degli Insensati, pare del tutto insostenibile una ritrattazione di quanto avanzato dallo studioso. 64 L’inciso tra virgole serve a puntualizzare che quest’affermazione non vale per il latino. L’accademia poteva infatti contare sulla prestigiosa presenza di Marco Antonio Bonciari, il cui magistero era indiscutibilmente riconosciuto anche al di fuori dai confini regionali e

193 quale infaticabile organizzatore culturale non sembrano essere accompagnati da una paragonabile abilità in fatto di studi letterari: come dimostra anche la sua Lezione del sonetto, Crispolti si accontentava di combinare insieme, non sempre del tutto coerentemente, le idee altrui.65 La seconda ipotesi appare invero meno probabile, perché presuppone una serie di riflessioni sulla letteratura che (anche in termini prettamente quantitativi) paiono assenti nelle lezioni degli Insensati. Pure, un microelemento testuale, niente più che un dettaglio, può suggerire che tra gli Insensati (o almeno nel pensiero del suo maggior esponente: Crispolti) vi fosse la volontà, magari la consapevolezza, di provare una composizione tra le due linee stilistiche, non nascondendo comunque una preferenza per Bembo. Si sarà forse notato, in conclusione della Lezione del sonetto, l’errato riferimento al Bembo quale sostenitore dello spezzamento dei versi per ottenere la gravità dello stile. Non importa sottolineare qui l’errore, o meglio il «lapsus»; 66 importa piuttosto ritrovare in questa disattenzione la conferma di una persistente volontà di conformità alla via segnata da Bembo e modellata su Petrarca, che però andava di pari passo con un gusto nuovo, teso verso la gravità pensosa di Della Casa e Tasso.

nazionali. Bonciari era un convinto sostenitore della ubertas ciceroniana in contrapposizione agli imitatori della brevitas atticista. La sua passione per Cicerone si spinse a tal punto da dare ai suoi familiari i nomi dei familiari dell’oratore latino (come attesta MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, vol. II, parte III, 1762, pp. 1571-1577: 1574). In mancanza di studi recenti sul Bonciari teorico ed in considerazione del tanto materiale ancora inedito, afferente la sua attività di grammatico e letterato, le sue teorie critiche risultano ancora in larga parte ignote. Indicazioni utili giungono dal lavoro di Roberta Ferro che nel suo citato volume ha tracciato i rapporti del perugino con Ericio Puteano, allievo di Giusto Lipsio e noto esponente del laconismo (Federico Borromeo ed Ericio Puteano, pp. 344-352). Ulteriore bibliografia su Bonciari è fornita in § II.4.4.2. 65 Si mostra ben più rigoroso Crispolti nel registrare gli oggetti d’arte e i nomi dei pittori nella sua Raccolta o i fatti d’arme nei suoi Annali. La sua attenzione si scontra invece con il pressapochismo dell’omonimo nipote, che nel radunare le carte per la stampa di Perugia Augusta, in non pochi casi banalizzava la lezione del testo dello zio: si vedano al riguardo le considerazioni di TEZA, Cesare Crispolti ‘sacerdote’ di Perugia, cit., pp. 66-78. 66 Così lo ha definito Andrea Afribo che per primo ha segnalato l’inesattezza di Crispolti: Teoria e prassi, cit., p. 100. Il passo di Crispolti, cui si è velocemente accennato in precedenza (si veda § IV.3.2), compare nella lezione Del sonetto, cit., p. 204: «similmente dice il detto Monsignor Bembo che la gravità deriva dello spezzare che si fa de’ versi».

194 IV.4 Le lezioni filosofiche degli Insensati

IV.4.1 Uno sguardo generale. Prima tipologia di lezioni

Il maggior numero delle lezioni della seconda stagione non si occupa più, se non per rapidi cenni, di commentare testi poetici oppure di dichiarare imprese accademiche. Il consesso degli Insensati è ormai divenuto una «setta di filosofi», e come tale si interroga su una serie di argomenti più o meno strettamente connessi con la filosofia. Per rintracciare almeno alcune delle costanti che ritornano più di frequente nelle indagini degli Insensati, non sarà inutile offrire la sinossi della lezione Della vergogna di Leandro Bovarini.67 Stampata nel 1602, fu in realtà recitata in accademia nel gennaio del 1595, a tre anni di distanza dunque dalla più significativa opera letteraria sul medesimo argomento, i Due dialoghi della vergogna del ferrarese Annibale Pocaterra.68 Ad inizio lezione, Bovarini non nascondeva il disagio per essere stato chiamato a parlare, dal basso della sua ignoranza (come vuole un consumato topos), di fronte ad un sodalizio tanto illustre, che nell’occasione poteva fregiarsi anche della presenza del governatore Carlo Conti, principe dell’accademia. La soggezione di Bovarini al cospetto del nobile auditorio lo portava a ragionare «d’alcune cose» suggeritegli dalla «vergogna» che provava in quel preciso istante (9). Di qui si chiarisce l’elezione della stessa

67 L. BOVARINI, Della vergogna. Lettione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato di Perugia, recitata da lui publicamente nell’Academia de gli Insensati il 14 di gennaio 1595 […], in ID., Prose, cit. La medesima lezione, copiata da Crispolti, si legge nel ms. 1058, cc. 1r-8v (con titolo diverso: Lettione recitata publicamente dal signor L.B. nell’Accademia degl’Insensati nel felicissimo principato dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, vescovo di Ancona e prencipe di detta accademia. Sopra la vergogna). 68 A. POCATERRA, Due dialoghi della vergogna d’A.P., dedicati al serenissimo don Alfonso II, duca di Ferrara ecc., in Ferrara, appresso Benedetto Mammarelli, 1592; su cui si veda G. RICCI, Annibale Pocaterra e i ‘Dialoghi della vergogna’. Per la storia del sentimento alla fine del Cinquecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 17 (1991), pp. 43- 75; W.L. GUNDERSHEIMER, Renaissance Concepts of Shame and Pocaterra's ‘Dialoghi Della Vergogna’, «Renaissance Quarterly», 47 (1994), pp. 34-56 (che sorprendentemente ignora sia il precedente lavoro di Ricci, sia la ristampa reggiana dei Dialoghi nel 1607, nota a Ricci); qualche cenno all’opera di Pocaterra in P. HART, The Badge of Shame: Blushing in Early Modern English Literature, «Ecloga Online Journal», 4 (2005: http://www.strath.ac.uk/ecloga/archive/2005/eclogacontents2005/ per l’indice del volume) che indaga il motivo della vergogna in una prospettiva europea.

195 vergogna argomento quale argomento da esporre nella lezione.69 L’esordio trova dunque il suo compimento nel momento in cui viene annunciato il tema, che qui come in altri casi è acutamente riferito alla condizione emotiva o alla situazione effettiva (intra o extra accademica) in cui avvenne la recita. Questa ingegnosa procedura è una modalità espressiva che si ripete non di rado nelle dissertazioni accademiche, divenendo più frequente in quelle più tarde. Quasi analogamente a Bovarini, per esempio, il senese Ventura Venturi confessava di aver scelto il pianto quale argomento della sua omonima lezione (In lode del pianto), volendo dar voce a quella «mistura d’affetti» che aveva provato per la gioia di essere stato iscritto in accademia ed il timore di dover recitare una lezione davanti ai soci riuniti ad ascoltarlo.70 Nel suo discorso In lode della villa, in maniera non dissimile Crispolti faceva riferimento ai «lieti tempi, ch’invitano ciascuno […] a godersi la villa» e suggeriscono altresì anche l’oggetto della sua esposizione celebrativa (51r).71 Tornando alla lezione di Bovarini, le ragioni per la scelta dell’argomento sono seguite dalla dichiarazione di come l’autore intendesse procedere nello svolgimento della sua argomentazione. Dopo un succinto excursus su come il termine fosse inteso dai colti romani (Catone, Cicerone e Valerio Massimo) e da Petrarca, si pone la necessità di partire da un dato fermo, quale la definizione aristotelica. «Senza allontanarci da Aristotele, – scriveva Bovarini – possiamo dire che questa vergogna sia un affetto e perturbatione d’animo che nasce in noi da quelle opere che, come malvagie, pare che portino vituperio» (11). 72 L’illustrazione della dispositio della

69 Sugli aspetti etici e giuridici della vergogna, si veda M.C. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Roma, Carocci, 20072, pp. 207-370 (ed. or. Princeton (NJ), Princeton University Press, 2004). Un punto di vista sociologico, votato al contemporaneo, è offerto in G. TURNATURI, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Milano, Feltrinelli, 2012. Una sintesi diacronica sulla fortuna del tema in E. IRRERA, Immagini della vergogna tra Antico e Moderno, «Intersezioni», 27 (2007), pp. 5-22. 70 VENTURI, Lettione in lode del pianto, cit. 71 C. CRISPOLTI, Discorso in lode della villa e in biasmo della città, fatto dal signor C.C. e recitato in publica accademia alli 20 di settembre l’anno 1600, ms. 1060, cc. 51r-66r. 72 Dove si noti che nella precedente redazione manoscritta il passaggio rivela più apertamente il debito aristotelico e insiste sulla condizione interiore invece che sugli effetti di essa (il «vituperio» della lezione a stampa): «per intendere meglio la qualità e conditione di questa vergogna, vediamo la diffinitione che ne dà il filosofo. La vergogna, secondo Aristotele, è un affetto dell’animo, che nasce in noi dall’immaginatione di cose mal fatte» (Sopra la vergogna, cit., 2r). La concezione aristotelica della vergogna è esposta in Eth. Nic.

196 materia ed il ricorso alla definizione aristotelica, due elementi spesso presenti nei discorsi degli Insensati, anticipano qui le seconda e l’ultima parte della lezione, dove sono esposte rispettivamente le «cagioni materiali» della vergogna, cioè «le cose» che la procurano, e la sua «cagione obiettiva e terminativa», vale a dire «gli huomini» di cui si deve provare vergogna (9- 10). Le prime nascono da un difetto o «mancamento» di una qualche virtù che dà spazio all’azione del vizio, causa di atti e gesti vergognosi. Accanto alla condanna per comportamenti contro la giustizia, l’eroismo, la liberalità e la fortezza, sono altresì stigmatizzate le condotte non accettabili socialmente: per esempio, quando un «huomo di qualche grado» si riunisce con i nobili di una città per imparare la musica, «sarebbe vergogna» se egli fosse «manchevole di quella virtù», cioè il «saper di musica» (18). Nella terza parte della lezione, Bovarini riduceva i motivi di vergogna alla duplice «tema» di «esser notati di qualche errore e di […] acquistar mala fama e opinione». In entrambi i casi, gli uomini da temere, più o meno «virtuosi» che siano, saranno quelli in grado di testimoniare un errore o un comportamento non conforme ai precetti etici condivisi, sicché Bovarini avvertiva di prestare particolare attenzione, tra gli altri, ai «nostri servi», i quali possono rendere pubblici i nostri difetti.73 Dopo la definizione e gli avvertimenti pratici offerti dall’autore, Bovarini intendeva fornire un ultimo insegnamento per «rimovere la cagione di quelle cose che apportano vergogna» (33). Per farlo, si serviva della celebre rappresentazione dell’anima quale carro alato del Fedro platonico (246a-e, 253d-255b), una

IV 15, 1128b e in Rhet. II 5-7, 1383b-1385a; al riguardo sono utili D. KONSTAN, The Emotions of the Ancient Greeks. Studies in Aristotle and Classical Literature, Toronto Buffalo London, University of Toronto Press, 2006, pp. 91-110; A. TAGLIAPIETRA, La forza del pudore. Per una filosofia dell’inconfessabile, Milano, Rizzoli, 2006 e, in un’ottica di genere, E. CATTANEI, La paideia della donna e il pudore in Aristotele, in Saggi di filoosofia e storia della filosofia. Scritti dedicati a Maria Teresa Marcialis, a c. di A. LOCHE e M. LUSSU, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 23-34. Anche Pocaterra si avvaleva della formulazione aristotelica: Due dialoghi della vergogna, cit., p. 23. 73 Questa concezione della vergogna corrisponde esattamente all’etica della «reputazione» promossa da Aristotele: Rhet. II 6-7, 1384a-1385a. Del tutto diverso è in questo aspetto il concetto di pudore elaborato da Pocaterra. Quest’ultimo procedeva infatti verso una visione intimistica, quasi colpevolistica, del sentimento, che si risolveva in interiore homine. Di qui, anche l’idea di nobiltà e di onore che trapela dai suoi Dialoghi sembra allontanarsi dal confronto necessario con l’opinione pubblica. Nel suo saggio Ricci cerca allora di far emergere, senza però radicalizzare, gli aspetti contrari, nel pensiero di Pocaterra, alla «visione corrente» (Annibale Pocaterra e i ‘Dialoghi della vergogna’, cit.).

197 delle immagini ricorrenti nelle dissertazioni degli Insenati. Qui si mostrano i due «appetiti» presenti «in noi», «ragionevole» e «irragionevole», come due cavalli che trainano il carro della «ragione» e si scontrano tra di loro (33). Al fine di non cedere alla seduzione dei piaceri «vani» – concludeva Bovarini – è cosa giusta indirizzare il carro, «col freno della ragione», verso il cammino della «virtù». Il passaggio da Aristotele verso Platone, che si perfeziona nella parte conclusiva della lezione, è un procedimento tutt’altro che raro nella produzione accademica degli Insensati e palesa in maniera evidente l’ecclettismo filosofico del consesso umbro. Nelle dissertazioni dei soci, le conoscenze iniziali si fondano perlopiù sui libri di Aristotele, quindi evolvono e vengono a dialogare con altre auctoritates, tra le quali compare, quasi sempre, anche Platone. La dipendenza dalle definizioni dello Stagirita, non esclusiva ma certo predominante, non impedisce, insomma, il confronto con altre teorie più o meno vicine a quelle aristoteliche.74 Non poche delle lezioni volte all’esplorazione di un tema specifico, come le dissertazioni Sopra le tenebre, Intorno al ben fare o Del consiglio, funzionano all’incirca secondo le modalità appena descritte. Queste lezioni, che presentano gli stessi principi già visti nella dissertazione Della vergogna, appartengono alla prima tipologia di esercitazioni accademiche.75 Delle tre lezioni citate, secondo quanto riferiva il suo autore Vespasiano Crispolti nell’esordio, la dissertazione Del consiglio è divisa in cinque parti. Dopo aver riferito i cinque modi in cui si «prende», cioè si intende, il «consiglio», l’autore si soffermava unicamente sul primo (sul consiglio in campo giuridico), definendolo, ancora una volta con una formula aristotelica, come «deliberatione de’ mezzi utili per conseguir il fine da noi desiderato e procurato» (90v).76 Dopo aver precisato il concetto di «consiglio» con il

74 Una simile opera di sintesi tra le dottrine filosofiche platonica ed aristotelica (con una netta preferenza per la prima) veniva intrapresa all’incirca negli stessi anni nell’Accademia parmense degli Innominati: DENAROSI, L’Accademia degli Innominati, cit., pp. 61-73. 75 G. GRAZIOSI, Discorso recitato nell’Accademia Insensata dal signor G.G., detto lo Spaventato, nel quale discorso egli tratta intorno al ben fare, ms. 1058, 69v-77r; V. CRISPOLTI, Lettione […] nella quale si tratta del consiglio, cit.; G. GRISALDI, Dell’eccellentissimo signor J.G., dottore di leggi, discorso sopra le tenebre, recitato in pubblica academia, ms. 1060, cc. 15r-29r. 76 V. CRISPOLTI, Lettione […] nella quale si tratta del consiglio, cit. La fonte è ARIST. Eth. Nic., III 5, 1112b.

198 supporto di altre auctoritates (Giovanni Damasceno, san Tommaso, Simplicio, Cicerone, ecc.), nella terza parte Vespasiano Crispolti passava in rassegna le qualità («virtù», «prudenza», «perizia») che dovevano possedere i bravi consiglieri e metteva in guardia dai loro possibili vizi. Nella quarta parte sono elencate le «dieci cose che non cadono in consulta» (le cose «eterne», «invariabili», «impossibili», frutto della fortuna, ecc.) (94r-v) e nella quinta parte viene individuato nella «notte» il «tempo» più opportuno per chiedere o dare consigli. Esaurita la parte teorica, nel congedo l’autore esplicitava, con un richiamo proprio a Platone, le «grandi utilità» che possono derivare dal corretto apprendimento del «consiglio»:

Questo vi farà conoscer quello che s’ha da fuggire da quello che s’ha a seguire. Questo vi farà usar bene tutte le cose […]. Vi farà conversar con decoro con tutti. Vi farà antiveder le occasioni. Vi farà accortamente parlare. E finalmente tanti commodi ne troverete, che confessarete con Platone, il consiglio esser una cosa sacra.77 (95v)

I punti di contatto con la precedente dissertazione Della vergogna (svelamento della dispositio della lezione, definizione di Aristotele, prelievi da altre auctoritates, riferimento finale a Platone, ecc.) acquistano un’ulteriore conferma nella condivisa visione utilitaristica, che è in realtà un elemento comune a molte altre lezioni non ancora sufficientemente rilevato. Nella parte conclusiva di entrambe le dissertazioni vengono infatti constatati i benefici che gli accademici potevano cogliere seguendo gli insegnamenti ivi esposti. Mentre Bovarini insisteva sulla difesa della pubblica reputazione e sull’esigenza di muoversi verso la virtù, Vespasiano Crispolti si soffermava non solo sull’azione premonitrice ma anche sull’utilità relazionale («conversar con decoro») del consiglio. Quale che sia lo specifico beneficio acquisibile dalla lezione, importa qui osservare che si

77 PLAT. [?] Teag., 122b. Per la questione intorno all’autenticità del Teage, da cui è presa la citazione (con ogni probabilità per via indiretta), si rinvia a F. ARONADIO, Introduzione, nel volume da lui curato PLATONE, Dialoghi spuri, Torino, UTET, 2008, pp. 7-138: 42-49. Il richiamo a Platone e la definizione della notte quale momento più opportuno per ricorrere ai consigli fanno certo venire in mente il Consiglio Notturno delle Leggi di Platone (sul quale da ultimo si veda G. PANNO, Dionisiaco e Alterità nelle ‘Leggi’ di Platone. Ordine del corpo e automovimento dell’anima nella città-tragedia, saggio introduttivo di M.M. SASSI, Milano, Vita e Pensiero, 2007, pp. 215-266); nondimeno, l’insistere su un parallelo che non sembra interessare l’autore sarebbe un errore di sovrinterpretazione.

199 tratta pur sempre di una capacità spendibile a livello pragmatico e sociale; si tratta cioè di un insegnamento etico che si trasforma in un fare, o ancora meglio, in una pratica sociale.

IV.4.2. Seconda tipologia di lezione. La dialettica degli Insensati

Questa prima tipologia di esercitazione accademica, che sin qui si è descritta, non è però l’unica proposta dagli Insensati. Come già lascia intendere la diversa forma dei loro titoli, lezioni come In lode della bellezza, In lode della bruttezza, In lode della lode, In lode del biasmo, e così via, formano coppie di elementi antinomici, nelle quali le conclusioni avanzate nella prima lezione vengono simmetricamente ribaltate nella seconda, dove si sostiene l’esatto contrario di quanto affermato in precedenza.78 Alle due coppie sopra citate, se ne devono aggiungere altre due, In lode del pianto – In lode del riso, In lode della villa e in biasmo della città – In lode della città e in biasimo della villa, l’ultima delle quali è in realtà ulteriormente complicata da una coda, una terza lezione, dal titolo Discorso nel quale si risponde alle calunnie che si danno alla città.79 Se in ognuno di questi micro-sistemi la prima lezione può essere di fatto non dissimile dalla forma delle precedenti, la seconda (o eventualmente la terza) diviene invece una sorta di esercizio logico-retorico che procede, lungo una serie di contrapposizioni, alla formulazione o alla dimostrazione di una nuova – talvolta inaspettata – verità. La triade di lezioni sul contrasto tra la villa e la città, che rappresenta forse l’esempio più riuscito di questa tipologia espositiva, recupera una tradizione letteraria antichissima. La contrapposizione tra il mondo agreste

78 L. SCOTTI, Discorso recitato nell’Accademia degl’Insensati dal signor L.S. in lode della bellezza, F. MARIOTTELLI, Discorso recitato dal molto reverendo signor F.M. nell’Accademia Insensata pubblicamente alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, prencipe di detta accademia. E si tratta in detto discorso in lode della lode, C. CRISPOLTI, Lettione contraria alla precedente, in biasmo della lode e in lode del biasmo, recitata publicamente dal sopradetto signor C.C., ms. 1058, cc. 32r-35v, 87r-91v, 92r-97v; L. SCOTTI, Discorso recitato in accademia publica dal signor L.S., in biasmo della bellezza e in lode della bruttezza, ms. 1059, cc. 10v-15v. 79 VENTURI, Lettione in lode del pianto, cit.; ID., Lettione […] in lode del riso, cit.; CRISPOLTI, Discorso in lode della villa, cit.; ID., Discorso in lode della città e in biasimo della villa, cit.; ID., Discorso del signor C.C. nel quale si risponde alle calunnie che si danno alla città, ms. 1060, cc. 78r-86r.

200 e la città è un tema plurisecolare che trova la sua origine nella letteratura latina e continua la sua grande fortuna nella letteratura volgare a partire dal decisivo esempio del Decameron.80 Ma questo contrasto tra i due opposti universi ha preso nei secoli varie forme a seconda della cronologia dell’opera. Insomma, la dicotomia città-campagna, oltre a essere un topos letterario, è in primo luogo il riflesso di una condizione storica nonché sociale.81 Nel tempo in cui Crispolti scriveva le sue tre lezioni, ad inizio Seicento, la villa come abitazione o dimora propria “dell’uomo nobile” era nel pieno del suo sviluppo.82 Anche la lezione di Crispolti, allora, si inserisce in quel filone di lettere, trattati o dialoghi, che conta nella seconda metà del Cinquecento gli esempi di Alberto Lollio, Agostino Gallo, Anton Francesco Doni, Bartolomeo Taegio, in cui si celebra la vita (o il soggiorno) in villa come pratica conveniente per il gentiluomo di antico regime.83 In altre parole, anche questo tema veniva inglobato nella più generale discussione intorno alle modalità di espressione della nobiltà, dell’essere o dell’apparire aristocratico. Il contrasto città-campagna veniva quindi a ridursi, anche nelle

80 Sulla letteratura in villa, oltre al saggio di S. PAVARINI, Il podere (in Luoghi della letteratura italiana, Introduzione e cura di G.M. ANSELMI, G. RUOZZI, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 298-305), quasi interamente dedicato ad autori del XIX e XX secolo, si veda la pregevole miscellanea La letteratura di villa e di villeggiatura, Atti del convegno di Parma, 29 settembre – 1 ottobre 2003, Roma, Salerno, 2004, cui si farà riferimento più volte nel corso del paragrafo. Sulla «villa» in Bocaccio, si vedano R. ANCONETANI, I ‘villani’ nel ‘Decameron’, «Bollettino di italianistica», n.s. 4 (2007), pp. 32-69 e, nella raccolta di studi appena citata, L. BATTAGLIA RICCI, La villa come luogo narrativo, pp. 33-64. 81 F. SBERLATI, Villania e cortesia. L’opposizione tra città e campagna dal Medioevo al Rinascimento, in La letteratura di villa e di villeggiatura, cit., pp. 65-114: 96-99. 82 C. MOZZARELLI, L’antico regime in villa. Tre testi milanesi: Bartolomeo Taegio, Federico Borromeo, Pietro Verri, in L’antico regime in villa, a c. di C. MOZZARELLI, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 9-47: 17 e n, che riprende R. BOSSAGLIA, L’arte dal Manierismo al primo Novecento, V. Storia di Monza e della Brianza, Milano, Il Polifilo, 1971, p. 68. Sull’istituzione della villa, è da vedere l’importante monografia di J.S. ACKERMANN, La villa. Forma e ideologia, Torino, Einaudi, 1990 (ed. or. Princeton, Princeton University Press, 1990), che pure negli ultimi anni non è stata esente da critiche (come per esempio da parte di R. VARESE, Fonti letterarie e iconografiche della villa, in La letteratura di villa e di villeggiatura, cit., pp. 307-318). 83 A. LOLLIO, Lettera di messer A.L. nella quale rispondendo ad una di messer Ercole Perinato, egli celebra la villa e lauda molto l’agricoltura […], in Vinetia, appresso Gabriel Giolito di Ferrari, 1544; A. GALLO, Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa […], in Brescia, appresso Gio. Battista Bozzola, 1564 (poi, con incrementi, Le tredici giornate […], in Venetia, presso Nicolò Bevilacqua, 1566 e infine Le sette giornate dell'agricoltura di messer A.G., nuovamente aggiunte alle tredici altre volte date in luce, in Venetia, appresso Gratioso Percaccino, 1569); A.F. DONI, Le ville […], in Bologna, appresso Alessandro Benacci, 1566, in edizione moderna a c. di U. BELLOCCHI, Modena, Aedes Muratoriane, 1969; B. TAEGIO, La villa. Dialogo di messer B.T. […], Milano, dalla stampa di Francesco Moscheni, 1559, edito ora a c. di T. LORINI nel volume L’antico regime in villa, cit., pp. 49-162. Sul versante della poesia, si ricorda almeno Il podere di Luigi Tansillo, la cui postuma editio princeps è del 1769 (Il podere di L.T. pubblicato per la prima volta, in Torino, nella Reale stamperia).

201 carte di Crispolti, alla contrapposizione tra il nobile di città e il nobile di campagna (e non tra il nobile cittadino e il «villano» o «contadino»).84 Nella prima lezione Crispolti elencava molteplici ragioni per dimostrare che la vita in villa fosse di gran lunga preferibile.85 La villa è descritta quale luogo salubre, quieto, lontano dalle angosce e dai ritmi cittadini, dove il gentiluomo può dedicarsi alla caccia e al suo ozio letteratissimo.86 Nella dissertazione sono messi costantemente a confronto il signore di campagna e di città in diversi momenti della giornata (al risveglio, a tavola, di notte, e così via): mentre il primo si rilassa e si bea dello scenario agreste e conduce la giornata senza perturbazioni, il secondo non può sfuggire alle insidie della città e rimane perciò vittima dei suoi stessi vizi (della gola in particolare). Nella villa l’uomo può soddisfare i tre «fini dell’humane operationi», cioè l’«utile», l’«honesto» e il «diletto». La villa apporta «utile» tanto al corpo quanto all’animo, che qui non è molestato come in città «dalle acre punture della vana ambitione» (61v). La scelta della campagna è poi la dimostrazione di un vivere «honesto», perché tanti nobili e potenti vi si sono stabiliti, rinunciando al potere o alla gloria cittadina. E da ultimo, la villa comporta maggior «diletto», perché le cose naturali danno più «diletto» di quelle artificiali, cioè cittadine. Nella seconda lezione si discute invece della città in termini assai generali e un po’ schematici, secondo una struttura simile a quella della prima tipologia di lezioni.87 Nella parte iniziale della dissertazione, l’origine della città è spiegata ricorrendo all’illustrazione platonica del mito di Prometeo o, in alternativa, agli scritti di Cicerone. Secondo il filosofo greco, il mitico eroe, consegnando ai mortali la sapienza “tecnica” e il fuoco, permise loro di organizzarsi in comunità stanziali e di dare inizio alla costruzione di

84 Questa seconda contrapposizione interessa invece il saggio citato di Francesco Sberlati, che si occupa anche di chiarire le implicazioni semantiche nelle definizioni di «villano» e «contadino» (Villania e cortesia, cit., pp. 102-107). 85 CRISPOLTI, Discorso in lode della villa, cit. 86 È il modello di ozio, a stretto contatto con la natura, che Petrarca ereditò dalla tradizione greco-romana e propose quindi nel suo De vita solitaria. Al riguardo, si vedano almeno F. TATEO, L’ozio segreto di Petrarca, Bari, Palomar, 2005; J. CONAWAY BONDANELLA, Petrarch's Rereading of Otium in ‘De vita solitaria’, «Comparative Literature», 60 (2008), pp. 14-28. Nella biblioteca di Podiani era conservata l’edizione del De vita solitaria del 1498 (impressum Mediolani, per magistrum Vldericum Scinzenzeler). 87 CRISPOLTI, Discorso in lode della città, cit.

202 città.88 L’oratore romano nella Pro Sestio e nel De inventione faceva invece coincidere la nascita delle città con la nascita delle civiltà e dell’equità sociale.89 La parte senz’altro più interessante è un lungo inserto drammatico, posto al centro della lezione, in cui Crispolti immaginava la città di Roma mentre, come una madre affranta, apostrofava proprio Cicerone, reo di aver lodato la villa. Prendendo la parola, la città rammentava al figlio ingrato i doni che gli aveva offerto, elevandolo, dalla sua condizione oscura, alla gloria delle lettere e degli onori:

Non sono io, o Tullio, non sono quella Roma che dal tuo Arpino, ove nascesti, ti ricevetti nel mio grembo, ti abbracciai teneramente, come se fosti nato dalle mie proprie viscere; ti ammaestrai ne i civili costumi facendoti deporre quella rozzezza che havevi bevuta col latte. T’insegnai l’arte oratoria, e quell’eloquenza, colla quale poi tante volte fosti udito tonare e folgorare contro i rei ne i miei famosi rostri ed essaltare al cielo i buoni! E tu, con queste armandoti, a chi te le diede, muover così atroce guerra! Io non son quella che ti feci così chiaro nella filosofia, che la fama tua spiega l’ali per il mondo tutto? […] Io di basso ed oscuro non t’innalzai a quei più sublimi gradi di honori che solevo dare a i più cari e pregiati miei figli? (72v-73r)

La presente lezione, celebrando la città quale strumento di pace ed agente dispensatrice di virtù, fa leva sugli stratagemmi retorici per convincere gli astanti e non si occupa di rispondere alle critiche proferite in precedenza contro la città. Questo sarà invece il compito dell’ultima dissertazione, dove Crispolti riprendeva punto per punto e ribaltava le ragioni, ora divenute «calunnie», del primo Discorso in lode della villa.90 La precisione nel ribattere alle argomentazioni fasulle contro la città è tale che lo stesso Crispolti numerava a margine, in quindici punti, le menzogne che aveva richiamato e confutato.

Calunnia: Obiezione/i:

1 La città è meno nobile della a. Le cose che precedono sono imperfette e

88 PLAT. Prot., 320c-321d. 89 Rispettivamente CIC. Sest. 91-92; CIC. De Inuent. I 2. 90 CRISPOLTI, Discorso […] nel quale si risponde alle calunnie, cit.

203 villa perché meno antica. acquistano «perfettione» col tempo (78v). b. Il paradiso terrestre fu una città, perché fu una «congregatione di huomini sotto un capo solo» (79r). Dunque la città è più antica.

2 Dopo il peccato originale, Il coltivare la terra fu allora una punizione, non Adamo coltivava la terra. una ricompensa. (79r-v)

3 Le mura cittadine, Ma le prime mura non hanno a che fare con «bagnate col sangue l’uccisione di «Remulo», perché furono erette fraterno», riparano gli da Caino. Esse servono a difendersi dalle uomini malvagi e fanno da guerre. Giustizia e Pace nelle città «trionfano» prigione alla Giustizia e alla e raggiungono il loro massimo splendore (79v- Pace. 80r).

4 Come sostengono i poeti, a. In realtà, i poeti si sbagliano, perché è negli «aurei tempi di «cosa notissima» che si formavano le città Saturno» non c’erano città già ai tempi di Giove (80v). e si viveva in campagna b. Non era comunque, quella di Saturno, una con tranquillità. bella età: si andava in giro mezzi nudi e si assuefaceva il corpo ad un «otio infingardo» (80v).

5 Nella villa l’animo gode di L’animo virtuoso non si fa «distrahere» dalle uno «stato placido e «cose esterne». Il silenzio poi non giova quieto» e non è disturbato quando il nostro animo è in tumulto (81r-v). dai rumori della città.

6 Animo nella villa è liberato In realtà, essa penetra pure nei luoghi più dall’«ambitione». remoti. E non esiste categoria più soggetta al desiderio di gloria di coloro che sostengono di fuggirla (81v-82r).

7 La vita in villa procede Ma l’ozio può esser cagione di tanti mali. Per nell’ozio. difendere il proprio ozio, l’uomo arriva a «putrefarsi ed amarcirsi» sia nel corpo, sia nell’animo (82r).

8 La villa è più adatta a L’animo nostro opera meglio quando è «tra se coltivare le «nobili» stesso raccolto»; è più facile che ciò avvenga in

204 scienze. città, senza la distrazione della «vista de’ campi spatiosi». Senza dimenticare poi che in città «la commodità de’ libri, le conferenze degli huomini litterati, le varie accademie e l’emulatione degli uguali […] sono d’utile incredibile a gli studii» (82r-83r).

9 La villa è utile per i Ci sono in città diverse piazze e strade piane o giovamenti del corpo. montuose, senz’altro meno polverose di quelle di campagna, che sono molto utili per gli esercizi del corpo (82v).

10 La villa è utile perché ci si La gola molesta anche chi sta in villa, a maggior nutre con piatti «rari» e ragione chi mangia cibi «intermessi» che bevande «esquisite». sembrano innocui e non lo sono (82v).

11 L’aria è più pulita in villa. L’aria non può esser confinata solo in villa. Inoltre, si dice che i luoghi maggiormente abitati godano dell’aria migliore. A confermarlo è anche l’esperienza dell’aria di Roma (82v-83r).

12 Le acque dei pozzi sono più Le acque che scorrono in campagna sono pulite di quelle dei canali di infestate dei «mortiferi veleni» degli animali città. (83v).

13 La terra come una «madre Ma quello di cui abbiamo bisogno lo si trova benigna» offre all’uomo le prima in città che non in villa. Inoltre, in molti cose necessarie. casi la detta «liberalità» della terra viene a mancare. (84r).

14 Molti personaggi illustri si Ciò significherebbe imitare gli uomini trasferirono in campagna. «superiori» quando non sono stati coerenti con se stessi. Inoltre, i filosofi sembrano non approvare che le persone create da Dio «per il governo de’ popoli» abbandonino il proprio ruolo e si isolino in campagna (84v-85r).

15 Maggiore è il «diletto» Ma la natura è «cieca» e «ha bisogno della nella villa perché maggiore guida dell’arte». Le cose prodotte da è il piacere che si «trahe quest’ultima, per essere «pellegrine, nuove e

205 dalla cose naturali». inusitate», procurano un «diletto» maggiore (85v-86r).

Delle quindici coppie antitetiche, l’ultima è forse l’unica a superare i limiti della contingenza della lezione e a dare spazio ad una tematica alquanto dibattuta nel Cinquecento. Infatti, essa viene ad intercettare il tema della contrapposizione tra l’arte e la natura; una questione di centrale importanza per le teorie estetiche rinascimentali ed inestricabilmente legata al processo della mimesi artistica. Di là dal loro diverso valore, tutte le contrapposizioni qui proposte da Crispolti sono comunque in primo luogo funzionali a dimostrare la superiorità della città sulla campagna. All’interno della triade villa vs. città, gli esempi di quest’ultima lezione e della prima (dove erano contrapposte le giornate del gentiluomo di campagna e di città) confermano chiaramente che l’ormai noto procedimento oppositivo non ha luogo soltanto tra una dissertazione e l’altra, ma entro i confini della singola lezione. Il medesimo procedimento si palesa infatti anche nella lezione di Cesare Crispolti Del timore, che procede, forse in virtù della prossimità semantica tra i soggetti delle lezioni, in maniera non dissimile (non solo a livello di dispositio) dalla lezione Della vergogna.91 Ad inizio lezione, Crispolti non esitava a rendere manifesto il proprio «timore» nel recitare la sua dissertazione di fronte a «tali uditori», ma si decideva comunque a procedere, confortato dalla consueta «benignità» degli accademici. Spiegava poi come si cagionasse il timore (come reazione del corpo ad ogni cosa che «sia per nuocerci») ed i suoi effetti («pallidezza», «tremore» e «horrore»), e giungeva finalmente alla definizione aristotelica (1v-2r). Con minime varianti, questa è la medesima che Bovarini aveva utilizzato per la vergogna: «timore altro non è ch’una perturbatione dell’animo o dolore, nato da immaginatione di futuro male

91 C. CRISPOLTI, Lettione [recitata cass.] dell’illustrissimo e molto reverendo signor C.C., canonico e dottore dell’una e l’altra legge, e recitata da lui [e…lui splin.] pubblicamente nell’Accademia Insensata, nella quale lettione si tratta del timore, ms. 1059, cc. 1r-10r. Al tema della fortezza, quale virtù (cardinale), è stato dedicato un numero monografico della rivista «Communio. Rivista internazionale di teologia e cultura», 163 (1999).

206 che corrompi e o che apporti dolore» (2v).92 Vengono di seguito elencati i «mali» che si devono temere e la «sorte di huomini» che temono. Di nuovo, come nella lezione Della vergogna, il timore è vissuto in una prospettiva più pubblica che privata o personale: sì, c’è il timore della morte (che temiamo però solo «quando vicina la veggiamo», 3r),93 ma c’è soprattutto il timore verso «l’ira di quelli ch’hanno potere e facultà di nuocerci» (4r), l’«inimicitia» degli uomini «destri nei loro negotii» (4r), e, più in generale, verso il tradimento degli uomini «consapevoli di qualche nostro importante delitto o scelerato fatto» (5r). Conclusa allora l’esposizione sul timore, Crispolti si impegnava ad affrontare, nelle ultime carte della lezione, «una bella e curiosa questione» (6v). Proprio qui, con l’inserimento di una disputa per contrasti sul tema della presenza o assenza del timore nell’«huomo forte», 94 avviene il superamento rispetto alla forma della dissertazione Della vergogna. La questione viene divisa in tre «parti»; similmente alle lezioni sul discorso città vs. villa, la prima e la terza sono tra loro opposte, mentre la seconda rende chiaro lo scioglimento della questione. Sono tre le ragioni che sostengono la prima ipotesi, cioè che l’«huomo forte» non provi timore: in primo luogo, egli fronteggia le cose più «terribili», dunque non ha paura di nulla, nemmeno della morte; secondariamente, egli non può essere animato insieme da fortezza e timore, poiché la prima è «contraria» al secondo; e da ultimo, l’«huomo forte» è sempre stato immaginato dai poeti come un «leone», un «cinghiale», 95 un «torrente», una «procella», cioè come un animale vigoroso o un impetuoso fenomeno naturale. Ciononostante, resta il fatto, secondo l’autore, che «la contraria parte è più vera, ciò è che

92 ARIST. Rhet. II 4-5, 1382a. Sul timore in Aristotele: KONSTAN, The Emotions of the Ancient Greeks, cit., pp. 129-155. 93 È il passo appena successivo alla definizione: ARIST. Rhet. II 5, 1382b. Come nota Konstan, qui Aristotele probabilmente riprende PLAT. Rep. I, 330d (The Emotions of the Ancient Greeks, cit., p. 130). 94 Questo tema, attraverso la mediazione aristotelica, è stato ampiamente discusso nel Cinquecento. Il testo che più di tutti sembra fare qui da riferimento per Crispolti è La Circe dell’Accademico Fiorentino Giovan Battista Gelli (in Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 1549, pp. 152-159), la cui vicenda filologica è stata illustrata da R. TISSONI, Per il testo della ‘Circe’ di Giovan Battista Gelli, «Studi di filologia italiana», 20 (1962), pp. 99-136. 95 Nel descrivere l’immagine della fortezza, Cesare Ripa aveva fatto riferimento ai medesimi animali (rispettivamente, al «leone» per la fortezza dell’animo, al «cignale» per quella del corpo), attribuendo tale simbologia a Pierio Valeriano: Iconologia [ed. 2012], cit., p. 206.

207 nell’huomo forte talvolta cade il timore» (7r).96 Ed allora nella terza parte vengono fornite le tre «risposte», o confutazioni, alle argomentazioni esposte in precedenza. In primo luogo, concedendo qualcosa alle opposte ragioni, si dice che senz’altro l’«huomo forte» va incontro a sfide pericolose, ma ciò non vuol dire che non tema: semplicemente egli non considera così importante la propria vita quando il suo gesto può far «conseguire un maggior bene» (7v). Secondariamente, senza mettere in discussione il principio di non contraddizione, si precisa però che esso vale quando i due opposti si presentano contemporaneamente, il che non avviene nel caso del timore e della fortezza. Da ultimo, si rileva la contraddittorietà insita nella fonte proposta: infatti gli stessi poeti, che hanno immaginato l’«huomo forte» con i tratti fieri degli animali feroci, hanno mostrato che anche i grandi eroi, «a somiglianza de i leoni cacciati», si sono ritirati «alle volte dalla battaglia» (8r). Queste tre ragioni consentono a Crispolti di risolvere la questione e di affermare, in conclusione, che vi è timore anche nell’«huomo forte», ed è il timore di «Iddio», dell’«infamia» (ossia della perdita dell’«honore»), delle «cose mal fatte» e della «morte»: insomma di un «male soprastante» (9r-v).

IV.4.3 Tra logica aristotelica e diritto giustinianeo

Dagli esempi sin qui presentati, si sarà con tutta probabilità notato che i ragionamenti degli Insensati procedono deduttivamente a partire dalla confutazione di una delle due tesi opposte. Lo scioglimento di ogni dubbio o questione è così assicurato dal principio di non contraddizione, il «principio più sicuro di tutti», secondo la definizione dello stesso Aristotele.97 Questa prima considerazione rischia però di essere decontestualizzata, se non

96 Crispolti lo dimostrava facendo appello all’«autorità», all’«esperienza» e alla «ragione». L’«autorità» è Aristotele che «in più luoghi» la sosteneva; in particolare si fa riferimento a un passo dell’Etica Nicomachea, in cui si dice che l’uomo forte teme, ma sa tollerare le gravi difficoltà (III 12, 1117a). L’«esperienza» poi insegna che non vi è «al mondo alcuno che tall’hora non odii, o desideri, o abborrisca, […], o temi» (7r). Da ultimo, la «ragione» – che invero si fonda di nuovo sulle autorità di Aristotele, Plutarco e della Sacra Scrittura – dimostra che tutti gli uomini hanno degli «affetti» che possono essere «buoni» o «cattivi»; questi ultimi li ebbe anche Gesù quando «hebbe timore di quei crudi tormenti» (7r). 97 ARIST. Met. γ 3, 1005b: per la citazione, si è fatto riferimento all’edizione ARISTOTELE, Metafisica, a c. di G. REALE, II. Testo greco con traduzione a fronte, Milano, Vita e Pensiero, 1993, p. 143.

208 inserita in una serie di ulteriori acquisizioni sulla modalità investigativa degli accademici, la cui illustrazione consentirà altresì di comprendere le motivazioni che spinsero gli Insensati a farne così largo uso nelle lezioni. Si considerino, in prima istanza, gli scritti prodotti dall’accademia che, pur non dilungandosi ad esporre le modalità dei propri ragionamenti, forniscono comunque in almeno due luoghi alcune indicazioni decisive. Nel primo caso, nella lezione Della fortuna di Fabrizio Licciotti, si ottiene una ulteriore conferma della vicinanza con il metodo di ricerca della verità aristotelico, la cui esposizione è affidata alle parole del commentatore Simplicio:

Fia bene homai […] soddisfare al precetto di Simplicio, il quale dice che in tre modi si deve stabilire verità: prima con l’addurre opinione contraria, poi col riprendere dette opinioni con ragioni dimostrative, finalmente col rispondere alle false opinioni. 98 (45v)

Se, fino a qui, tutto appare coerente, la seconda spiegazione offerta dagli Insensati non è a prima vista altrettanto scontata. Il riferimento è collocato questa volta in conclusione ad una densa pagina della lezione di Giovanni Corso, Se si può amare una cosa doppo morte, intorno al «modo di disputare», indagato a partire dai filosofi antichi.99 Pare piuttosto evidente l’idea di Corso di distinguere le varie impostazioni metodologiche in base ad una minore o maggiore approssimazione alla verità. Il grado più basso è occupato dai sofisti, ridicolizzati da Socrate, che «arrogantemente» promettevano di rispondere a qualsiasi domanda. Risultano al contrario più efficaci sia il «dialogo», «ridotto a perfettione dall’istesso Platone», sia il metodo proposto da «Archesila», e adottato da Cicerone, per cui chi proponeva una questione, era chiamato anche a difenderla contro le obiezioni che gli venivano mosse (25r). Infine, dopo aver brevemente avanzato anche l’ipotesi di tacere, come suggeriva ancora Platone nel

98 F. LICCIOTTI, Lettione recitata nell’Accademia Insensata pubblicamente dal molto reverendo signor F.L., dove tratta della fortuna, ms. 1058, cc. 42v-48r. Non è stato possibile reperire testimonianze utili all’identificazione dell’autore accademico. 99 CORSO, Se si può amare una cosa doppo morte, cit.

209 Timeo,100 Corso proponeva un’ultima categoria di uomini, i legisti, alle prese con la risoluzione delle dispute:

Altri poi, come sono i nostri legisti, mossi dall’autorità del giureconsulto nella legem naturalem ss. illud De adquirendo rerum dominio e dell’imperadore nel ss. illud del’Instituta De rerum divisione, sogliono, nella questione da disputarsi, addurre prima gl’argomenti per una parte, secondariamente per l’altra, ed ultimamente conchiudere con quella opinione che pare loro più vera, o più probabile, con rispondere, dove fia di mistiero, alle raggioni addotte in contrario. Noi, adunque, non partendoci dalla nostra professione, nella questione da noi proposta, primieramente addurremo le raggioni per quella parte, che non possi amarsi la cosa già morta, secondarimanete allegaremo quelle che fanno per la contraria. Ultimamente, conchiuderemo con quella opinione che ne parrà più vera e sostentabile, dechiarando le cose che ne parranno necessarie alla nostra opinione. (25r)

Secondo Corso, quindi, il metodo dialettico messo in pratica dagli Insensati deriva invece dalla lettura e dallo studio di due luoghi del Corpus Iuris Civilis: precisamente il primo titolo del LXI libro (De adquirendo rerum dominio) delle Pandette e il primo titolo del II libro (De rerum divisione) delle Istituzioni di Giustiniano.101In altre parole, mentre per l’Insensato

Licciotti il metodo d’indagine risale ad Aristotele, secondo Corso, esso è strettamente legato alla formazione intrapresa dalla maggior parte dei membri dell’accademia, divenuti uomini ed esperti di diritto.

100 «Furono poi alcuni filosofi, i quali costumavano che quegli che cercava e dimandava, non haveva altra cura che di tacere, com’usa di fare nel Timeo Platone» (CORSO, Se si può amare una cosa doppo morte, cit., c. 25r). Il riferimento a Platone pare però oscuro: nel Timeo in più luoghi si fa riferimento alla voce o all’udito (47c-e; 67a-c; 80a-b), ma non secondo quanto asserito da Corso. Più probabile, allora, che l’accademico perugino si riferisse alla inusuale struttura del dialogo, dove il lungo monologo dottrinale di Timeo occupa oltre la metà dello scritto e “costringe” al silenzio gli altri interlocutori. È poi da osservare che fino a questo punto, cioè fino al riferimento al dialogo platonico, la pagina di Corso ricalca con precisione il Libro de natura de amore di Mario Equicola. Il testo è ora proposto nell’edizione critica di Laura Ricci del ms. N.III 10 della Biblioteca Nazionale di Torino: Libro de natura de amore, in La redazione manoscritta del ‘Libro de natura de amore’ di Mario Equicola, a c. di L. RICCI, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 207-558: 262-263. 101 Le Istituzioni di Giustiniano si fingono essere state composte dal medesimo imperatore: ciò spiega perché Corso scrivesse «autorità […] dell’imperadore» riguardo a questo testo. Sulle Istituzioni, è di grande utilità G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle ‘Istituzioni’ di Giustiniano, Milano, Giuffrè, 2004.

210 Per risolvere l’apparente disparità di opinioni, 102 è bene prendere di nuovo in considerazione la tipologia di ragionamento proposta dagli Insensati. Come è del tutto evidente, si tratta della riproposizione del metodo delle disputationes, tipico della filosofia scolastica.103 Esso prendeva forma nella quaestio, dove una tesi proposta veniva discussa attraverso il serrato confronto tra due punti di vista opposti, uno favorevole e l’altro contrario.104 Per lungo tempo ne fu considerato inventore Abelardo, che con il suo Sic et non aveva raccolto e ordinato una lunga serie di opinioni di auctores (a prima vista) tra loro discordi su centocinquantotto problemi morali e teologici. La sua opera è di capitale importanza per la diffusione del metodo dialettico della scolastica, la cui nascita deve essere però messa in diretta correlazione con la riscoperta, nel XII secolo, della logica comparativa aristotelica, che ne costituì il fondamento teorico.105 Già dal Medioevo, le quaestiones non riguardavano in maniera esclusiva gli argomenti dottrinali, né si curavano soltanto di sciogliere le

102 L’Innominato Torelli, per esempio, rilevava una decisa contraddizione tra il metodo d’indagine dei filosofici e dei giuristi. Con il primo egli identificava il dialogo platonico, che considerava il modello del ragionamento accademico. Torelli apprezzava in particolare la natura pressoché sfuggente dell’autorità platonica, che lasciava agli accademici ampi margini di libertà nello sviluppare un proprio pensiero. Perciò, egli guardava con distacco quegli studiosi «che omai di Filosofi paiono divenuti legisti», eccessivamente educati «alla scuola delle parole» e al rispetto dell’autorità (P. TORELLI, Del debeto academico intorno all’autorità delli autori più stimati, in Archivio Storico di Parma, Archivio Torelli, b. 21, VI. Manoscritti letterari di Pomponio Torelli. Discorsi accademici: 4, citato in DENAROSI, L’Accademia degli Innominati, cit., p. 47). 103 Di grande rilievo è l’antica sintesi di M. GRABMANN, Storia del metodo scolastico, condotta su fonti edite e inedite, con Presentazione di M. DAL PRA, Firenze, La Nuova Italia, 1980 (ed. or. Freiburg i.B., Herder, 1909-1911). 104 Trattano ampiamente della quaestio F. GIL, Prove attraverso la nozione di prova/dimostrazione, Milano, Jaka Book, 1990, pp. 125-130 (ed. or. Lisbona, Impresa Nacional Casa de Moeda, 1986); B. LAWN, The Rise and Decline of the Scholastic ‘Quaestio disputata’, Whit Special Emphasis on its Use in the Teaching of Medicine and Science, Leiden – New York – Köln, Brill, 1993 (pp. 3-5 sulla quaestio applicata alla giurisprudenza); R. SCHÖNBERGER, La Scolastica medievale. Cenni per una definizione, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 47-72; più brevemente J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, Milano, Mondadori, 1979, pp. 90-97 (ed. or. Paris, Editions du Seuil, 1957). Opportuno l’avvertimento di Riccardo Quinto, che invita a considerare quale elemento fondante della Scolastica non solo la detta quaestio, ma anche l’insieme delle auctoritates che formano la base di una determinata disciplina: Scholastica: storia di un concetto, Padova, Il Poligrafo, 2001, p. 362. 105 D. KNOWLES, L’evoluzione del pensiero medievale, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 170-171, 205-295: in particolare, pp. 251-261 (ed. or. London, Longman, 1962). Ha riportato l’attenzione su questo aspetto centrale del metodo aristotelico L. SORBI, Aristotele. La logica comparativa, Firenze, Olschki, 1999. Per gli elementi di continuità tra la logica antica e quella medievale: S. EBBESEN, La logica scolastica dell’antichità come fonte della logica scolastica medievale, in La logica nel Medioevo, a c. di N. KRETZMANN, A. KENNY, J. PINBORG, Jaca Book, 1999, pp. 1-32 (ed. or. Cambridge, Cambridge University Press, 1982).

211 aporie teoriche dei passi biblici o dei Padri della Chiesa. La procedura dialettica divenne un vero e proprio metodo d’insegnamento canonizzato, valido per diversi ambiti del sapere, tra cui il diritto. All’inizio del XII secolo, la scuola dei Glossatori di Bologna applicò per prima il metodo scolastico allo studio dei testi di giurisprudenza. 106 La lezione dei giuristi bolognesi si diffuse presto in tutta Europa, creando una sorta di università sovranazionale di diritto, che condivideva le medesime modalità di trasmissione del sapere e la medesima terminologia (ovviamente latina).107 Non solo: a rendere non ancora uniformi, ma quantomeno comunitarie la pratica e la teoria della giurisprudenza medievale, contribuivano anche le basi sulle quali poggiava lo stesso diritto. Il sistema giuridico medievale comportava una continua integrazione, o meglio una simbiosi, tra il diritto canonico, che aveva trovato una prima sistemazione nell’opera del 1140 del monaco camaldolese Graziano (Concordia discordantium canonum), e il diritto romano-giustinianeo, che si fondava ancora sul Corpus Iuris Civilis dell’imperatore Giustiano.108 Ancora ai bolognesi si deve il ripristino del testo integrale dell’opera giustinianea, un’opera dotata «di un valore quasi sacrale», di una «natura elevata e trascendente», che venne adattata al mondo loro coevo grazie al medium della dottrina.109

106 Sul procedimento dialettico dei Glossatori e sulle fonti da loro utilizzate, si vedano almeno: H. KANTOROWICZ, The Quaeastiones Disputatae of the Glossators, «Tijdschrift voor Recthsgeschedenis – Revue d’histoire du droit», 16 (1939), pp. 1-67; i contributi di B. PARADISI, Osservazioni sull’uso del metodo dialettico nei glossatori del secolo XII [1968] e Metodo di esposizione e costruzione del sistema nei Maestri italiani del sec. XIV [1960], nel suo Studi sul Medioevo giuridico, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1987, II, rispettivamente pp. 695-709; 775-777; A. GIULIANI, Osservazioni sulla procedura nel metodo dialettico: dalla tradizione aristotelica a quella medievale, in L’educazione giuridica. VI. Modelli storici della procedura continentale. Tomo I. Profili filosofici, logici, istituzionali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, pp. 27-31; H.J. BERMAN, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 137-173 (ed. or. Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1983); A. PADOA-SCHIOPPA, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 137-166. 107 KNOWLES, L’evoluzione del pensiero medievale, cit., pp. 80-81; BERMAN, Diritto e rivoluzione, cit., pp. 167-173. 108 È bene al proposito ricordare la fortunata e controversa teoria del «diritto comune» formulata da Francesco Calasso in Introduzione al diritto comune, Milano, Giuffré, 1951 e, quindi, in ID., Medio Evo del diritto, I. Le fonti, Milano, Giuffré, 1954. Sulla trasmissione della compilazione giustinianea nel Medioevo, si rinvia a The ‘Corpus Iuris Civilis’ in the Middle Ages. Manuscripts and Trasmission from the Sixth Century to the Juristic Revival, ed. by C.M. RADDING, A. CIARALLI, Leiden – Boston, Brill, 2007. 109 M. CARAVALE, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, con una Premessa di N. IRTI, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 17-26, citazione a p. 21.

212 Questa struttura bifronte del diritto (romano/giustinianeo e canonico) si protrasse ben al di là del Medioevo. Nella penisola italiana rimase attuale oltre il XVI secolo. Ciò implica che nonostante la richiesta sempre più forte di adeguamento alla realtà contemporanea, il fondamento dello ius fosse ancora costituito, da una parte, dalle raccolte di diritto canonico e, dall’altra, dal Corpus iuris civilis. Si chiarisce così, senza alcuna difficoltà, il riferimento di Corso alla compilazione giustinianea, un riferimento che doveva apparire del tutto familiare nel contesto di un’accademia prevalentemente di giuristi. Analogamente, il presupposto logico-dialettico di derivazione aristotelica, che ancora si accompagnava allo studio universitario del diritto (ossia all’esposizione del Corpus iuris civilis), 110 consente di risolvere altresì l’inconciliabilità iniziale tra le opinioni di Corso e di Licciotti.111

110 Sul tema delle congiunzioni tra dialettica e diritto moderno, si veda V. PIANO MORTARI, Dialettica e giurisprudenza. Studio sui trattati di dialettica legale del sec. XVI, «Annali di storia del diritto», 1 (1957), pp. 293-401. Di grande interesse sono le analisi sull’utilizzo del principio di non contraddizione nel contesto di indagini giuridiche: R. GUSMANI, Il principio di non contraddizione e la teoria linguistica di Aristotele, in La contradizion che nol consente. Forme del sapere e valore del principio di non contraddizione, a c. di F. PUPPO, con un’Introduzione di M. MANZIN, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 21-62; F. PUPPO, Dalla vaghezza del linguaggio alla retorica forense. Saggio di logica giuridica, Padova, CEDAM, 2012, pp. 58-64, 101-110, 272-274. Sull’insegnamento della filosofia aristotelica nelle università italiane nel Cinquecento, si veda almeno J. KRAYE, La filosofia nelle università italiane del XVI secolo, in Le filosofie del Rinascimento, a c. di C. VASOLI, Milano, Paravia – Bruno Mondadori, 2002, pp. 350-373. 111 Appare ora più chiaro il riferimento, citato in precedenza, dell’anonimo accademico alla contrapposizione tra gli opposti quale regola «molto tenuta» presso i filosofi e i legisti (De i nei, cit., c. 36v). Nel quadro appena ricomposto, si presenta però ancora un particolare non più chiaramente definibile. Risulta, infatti, alquanto problematico comprendere le effettive ragioni per cui Corso avesse citato esclusivamente il De adquirendo rerum dominio e il De rerum divisione, cioè soltanto due luoghi ben precisi della compilazione giustinianea. Il richiamo può esser dovuto alla non del tutto occasionale presenza nei due libri del procedimento dialettico (con la proposizione di opinioni diverse rispetto a precisi punti del diritto) oppure all’eventuale ricordo delle quaestiones che sopra questi luoghi erano nate durante il periodo di studio o di insegnamento universitario (o magari, addirittura, nella stessa accademia). Nel caso della prima ipotesi, va però osservato che i testi indicati da Corso non esprimono sempre con chiarezza vere e proprie quaestiones con ipotesi contradditorie, ma piuttosto esplicitano posizioni o convincimenti discordanti. Nel De adquirendo rerum dominio si trovano procedimenti dialettici nei paragrafi: 7 [pp. 7-9], 19 [p. 12], 28 [p. 14], 44 [pp. 18-19], 65 [p. 24] (con riferimento, tra parentesi quadre, alle pagine dell’edizione Digest 41, I & II with translation and commentary, ed. by F. DE ZULUETA, Aalen, Scientia, 1979; ristampa ed. Oxford, Clarendon Press, 1950); per il De rerum divisione, si vedano i paragrafi: 13 [p. 50], 25 [pp. 52-53] (con riferimento alle pagine dell’edizione The Institutes of Gaius and Justinian […], ed. by T.L. MEARS, Clark (New Jersey), The Lawbook Exchange, 2004; rist. anastatica dell’ed. London, Stevens and sons, 1882). Contro questa ipotesi va detto, però, che simili contrapposizioni non compaiono unicamente nei libri segnalati da Corso, ma sono relativamente diffuse in tutto il Corpus iuris civilis. Risulta forse

213 Per illustrare il metodo d’indagine degli Insensati non risulterà allora del tutto immotivato rivolgere l’attenzione anche alle opere di giurisprudenza.112 In particolare, risulta alquanto fruttuoso – per via di similitudini che mano a mano emergeranno – il confronto tra le lezioni accademiche e un’importante opera di un giurista astigiano della prima metà del Cinquecento. Si tratta della Sylva nuptialis (impressit in amena civitate Astensi, Franciscus de Silva, 1518) di Giovanni Nevizzano, presente in due copie nella biblioteca di Podiani e perciò senz’altro nota agli accademici. 113 Il testo, riscoperto verso la fine dell’Ottocento da Carlo Lessona, non ha poi goduto di grande fortuna tra gli studiosi, almeno fino alla recente seconda riscoperta da parte di Giuliano Marchetto.114 L’opera di

più plausibile la seconda ipotesi, cioè che queste due sezioni del codice giustinianeo fossero un serbatoio di quaestiones sulle quali forse anche gli Insensati si erano esercitati durante gli anni dell’apprendimento universitario. Gioca in favore di questa seconda supposizione anche la contiguità tematica tra i due luoghi citati del Corpus iuris civilis. Non solo entrambi hanno a che fare con le modalità di acquisto del possesso delle cose, ma propongono pure, in molti casi, gli stessi esempi (diritto di proprietà su animali selvatici, sulle isolette formatesi nel mare o nei fiumi che scorrono tra i campi di diversi possidenti, sui prodotti finiti composti però di materie prime in possesso di altre persone, e così via). Non sorprende allora l’affermarsi dall’ultimo quarto del XVI secolo di una tradizione di stampe, pressoché unicamente straniere, di disputationes che espongono i due luoghi del corpus iuris: si ricordano qui, ex multis, M. ENTZLIN, M. BONACKER, Disputatio de rerum divisione et acquirendo earum dominio […], Tubingae, apud Georgium Gruppenbachium, 1591; K. RITTERSHAUSEN, H. HEUSHKEL, Theses de rerum divisione et adquirendo earum dominio […], Noribergae, in officina Gerlachiana, per Paulum Kauffmannum, 1594; H.U. HUNNIUS, G. BREITHAUPT, Collegii privati Institutionum Justinianearum. Dissertatio IV. De rerum divisione et acquirendo earum dominio […], Gieassae, typis Chemlinianis, 1609. 112 Occorre precisare che gli Insensati non furono gli unici ad appropriarsi di questa impostazione metodologica e ad applicarla a discipline diverse dalla filosofia o dalla giurisprudenza. Tra gli esempi coevi, il già citato Diomede Borghesi era solito proporre all’inizio di alcuni suoi «ragionamenti» linguistici la confutazione di una sentenza altrui, secondo una modalità che «ricorda quella di filosofi e giuristi» (C. CARUSO, Introduzione, in BORGHESI, Orazioni accademiche, cit., pp. 9-32: 22). Di grande interesse è poi il ben più antico caso di Boccaccio: C. DI FRANZA, Modelli scolastici nel Boccaccio napoletano, «California Italian Studies», 3 (2012), pp. 1-19 (disponibile on line: http://escholarship.org/uc/item/2j06c7nz). Da ultimo, Matteo Palumbo rileva, senza però insistervi, la «natura inquisitiva e giudiziaria» dei dialoghi antitetici nell’opera storica di Guicciardini (M. PALUMBO, I discorsi contrapposti nella ‘Storia d’Italia’ di Francesco Guicciardini, «MLN. Italian Issue», 106 (1991), pp. 15-37: 16): è forse una questione che merita di esser ripresa. 113 Si tratta in entrambi i casi dell’edizione G. NEVIZZANO, Sylva nuptialis […], [Lione, Jacques Giunta], 1540. Giustamente Panzanelli Fratoni pone il trattato di Nevizzano nel catalogo delle opere proibite (finì all’Indice nel 1596): PANZANELLI FRATONI, Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità, cit., à I libri proibiti, numeri 353 e 354. 114 C. LESSONA, La ‘Sylva nuptialis’ di Giovanni Nevizzano giureconsulto astigiano del Secolo XVI: contributo alla storia del diritto italiano, Torino, tipografia A. Locatelli, 1886; G. MARCHETTO, Il matrimonio tra politica e diritto: la ‘Sylva nuptialis’ di Giovanni Nevizzano d’Asti (1518), «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 29 (2004), pp. 33-70; ID., Luoghi letterari e argomentazione giuridica nella ‘Sylva nuptialis’ di Giovanni Nevizzano

214 Nevizzano, proposta dapprima in quattro libri e successivamente ampliata sino alla misura di sei, discute l’utilità del matrimonio, uno dei motivi più in voga del tempo.115 Analogamente alle lezioni degli Insensati, la Sylva è interamente strutturata in forma di quaestio. L’autore insisteva molto sulla scelta di tale procedimento logico, nella convinzione che solo il metodo disputatorio potesse portare ad approssimare la verità. La sua fiducia nella quaestio era tanto grande, che la fece addirittura oggetto di una quaestio, dove, naturalmente, prevalgono le ragioni a favore del suo utilizzo. La disputa viene risolta, operando una distinzione tra la sofistica, intesa in un’accezione positiva come discussione regolata, e l’eristica, discussione fondata su argomentazioni fallaci. 116 Attraverso il metodo dialettico, Nevizzano stabiliva un ordine entro la selva,117 cioè l’ammasso disordinato e confuso, delle possibili argomentazioni. Non è dato sapere se la Sylva di Nevizzano possa esser stata modello per gli Insensati; lo stesso metodo proposto dal suo autore era invero ormai tradizionale per gli studi giuridici del tempo. Piuttosto, conta rilevare un altro punto di contatto evidente tra le opere in questione, che si ritrova nella commistione tra il metodo della giurisprudenza, cui si è appena fatto riferimento, e la letteratura. Si è già visto che gli Insensati, nel dimostrare le proprie tesi, si riferivano di norma tanto ai filosofi quanto ai letterati latini (in prima istanza Cicerone) e moderni (Petrarca, ma anche Guidiccioni, Ariosto, Tasso, e così via). Analogamente, l’autore della Sylva nuptialis si affidava spesso a fonti extra-giuridiche per la risoluzione delle quaestiones, orientandosi di preferenza verso poeti e prosatori classici, medievali e a lui

d’Asti (1518), «Laboratoire Italien. Politique et societé». Droit et littérature, 5 (2004), pp. 85- 104, cui si rimanda per ulteriore bibliografia. 115 Sulla fortuna del tema nel Cinquecento: D. FRIGO, Dal caos all’ordine: sulla questione del «prender moglie» nella trattatistica del sedicesimo secolo, in Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, a c. di M. ZANCAN, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 57-93; ID., Il Padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’«economica» tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1985; MARCHETTO, Il matrimonio tra politica e diritto, cit. Per una prospettiva storica sul matrimonio: D. LOMBARDI, Matrimoni di antico regime, Bologna, il Mulino, 2001; EAD., Storia del matrimonio: dal Medioevo a oggi, Bologna, il Mulino, 2008. 116 MARCHETTO, Luoghi letterari e argomentazione giuridica, cit., pp. 91-92. 117 Sulle selve quale genere letterario, è d’obbligo il riferimento alla miscellanea Ricerche sulle selve rinascimentali, a c. di P. CHERCHI, Ravenna, Longo, 1999.

215 coevi. Le opere letterarie servivano a Nevizzano non solo come «deposito di topoi» o raccolta di testimonianze, ma anche come vere e proprie «auctoritates», la cui credibilità dipendeva in primo luogo dall’impiego che ne avevano fatto i giuristi dell’età precedente.118 La Sylva e le lezioni degli Insensati appaiono perciò in tal senso perfettamente speculari: benché entrambe siano opere di giuristi, la prima è un trattato di giurisprudenza che si nutre di letteratura mentre le seconde sono opere letterarie che presentano un palese sostrato giuridico. In conseguenza di ciò i medesimi accademici si immedesimarono a tal punto nel loro ruolo di giuristi da fingere, in un caso almeno, di recitare le loro orazioni di fronte ad un giudice, quasi fossero in un «tribunale». Nel suo Discorso in lode della villa, Crispolti, impegnato a convincere il principe degli Insensati in favore della villa, simulava di trovarsi di fronte all’autorità giudiziaria:

Saggio e giusto signore, che qui hora, come nel tribunale e in vostro giuridico luogo, sedete in alta e riguardevol seggia, havendo sentite tante ragioni e diligentemente essaminati in testimonii tanti huomini gravi e illustri, che sono stati da me prodotti, son sicuro ch’insieme con Marco Tullio nel libro De senectute, in persona di Catone maggiore, [vi] pronunciarete a favor della villa (66r).119

Questo espediente retorico dimostra una volta di più l’assunzione da parte degli Insensati di una prospettiva giuridica, ma testimonia nello stesso tempo anche la loro volontà di oltrepassare i confini della disciplina e rivolgersi oltre (il De senectute non è certo un’opera oratoria!). Un simile procedimento giuridico, applicato a questioni filosofiche, che si basa, a sua volta, sulle auctoritates filosofiche e letterarie (gli «huomini gravi e illustri»), comporta e convalida l’unità in accademia delle tre discipline, giurisprudenza, filosofia, letteratura, nonché il tentativo di perpetuare il

118 MARCHETTO, Luoghi letterari e argomentazione giuridica, cit., pp. 94 (citazione), 96-98. 119 CRISPOLTI, Discorso in lode della villa, cit. Segue citazione di CIC. De sen., XVI 56-57. Ad inizio lezione, rivolgendosi a tutti i membri accademici, Crispolti aveva già anticipato la richiesta di un giudizio finale (nella fattispecie intorno alla maggior felicità del gentiluomo di città o di campagna): «Voi poi, alla fine, come giudici saggi e discreti, potrete sententiare qual debba essere stimato più felice e più beato: o quegli che habbita la città, overo colui che sta nella villa» (Discorso in lode della villa, cit., c. 51r).

216 modello di gentiluomo della civile conversazione, cioè dell’uomo capace di rendersi universale, discutendo ogni argomento secondo convenienza.120

IV.4.4 Il classicismo paradossale degli Insensati

Con le sue quaestiones, dove faceva appello ad altre discipline oltre al diritto, anche Nevizzano cercava di affrancare la giurisprudenza dai limiti di un angusto tecnicismo. Solo superando le ristrettezze di un’angusta specializzazione e rivolgendosi (anche) alla letteratura, il diritto avrebbe recuperato quella dimensione umana, o meglio etica, di cui l’Astigiano era fervido sostenitore.121 Il contatto della giurisprudenza con la letteratura apre le porte anche alla retorica, e di qui, ad una verità non più obiettiva, ma pattizia, fondata sul conflitto di opinioni diverse, cioè su doxai contrapposte. Per non cedere, però, ad un pericoloso cortocircuito semantico, Nevizzano si proponeva di offrire una duplice garanzia: da una parte assegnava un alto valore alla communis opinio, cioè ad una verità fondata sul giudizio dei più o dei migliori, e dall’altra, insisteva sullo statuto scientifico della giurisprudenza, scientia scientiarum, che poggiava su una serie di «principi primi, le leggi, che sono veri e non sono opinabili».122 Le conclusioni cui giungeva Nevizzano non possono valere per gli Insensati. Le loro dissertazioni operano in un ambito diverso da quello del diritto, un ambito molto più sensibile e permeabile alle insidie del falso e della menzogna. Anche gli Insensati si rivolgevano comunque alle auctoritates, ma il loro utilizzo non ubbidisce ad alcuna disciplina. Questa

120 Lo stesso Crispolti, facendo propria un’idea al tempo comunemente accettata, rimarcava i contatti di vicinanza tra gli ambiti disciplinari: considerava infatti «le scienze à guisa di anelli di catena, così tra loro uniti, che uno non si può tirare senza tutti» (CRISPOLTI, Idea dello scolare, cit., p. 231; per un commento, nel medesimo volume, si vedano le pp. 93-94). 121 Sulla commistione tra etica, filosofia e diritto, pur in riferimento ad una cronologia più alta, si veda C. VASOLI, Le discipline e il sistema del sapere, in Sapere e/è potere. Discipline, Dispute, e Professioni nell’Università medievale e moderna. Il caso bolognese a confronto. Atti del 4° convegno. Bologna 13-15 aprile 1989, II. Verso un nuovo sistema del sapere, a c. di A. CRISTIANI, Bologna, Comune di Bologna – Istituto per la Storia di Bologna, 1990, pp. 11-36. 122 Il paragrafo sintetizza la tesi centrale del citato saggio di MARCHETTO, Luoghi letterari e argomentazione giuridica (citazione a p. 101). Sulla communis opinio nella giurisprudenza del Cinquecento è utile G. ROSSI, La forza del diritto: la communis opinio doctorum come argine all’arbitrium iudicis nel processo della prima età moderna, in Il diritto come forza. La forza del diritto. Le fonti in azione nel diritto europeo tra medioevo ed età contemporanea, a c. di A. SCIUMÈ, Torino, Giappichelli, 2012, pp. 33-61, cui si rimanda per ulteriore bibliografia.

217 libertà porta al verificarsi anche di casi limite, dove la medesima opinione può valere sia a favore sia contro la tesi proposta. Questo è ciò che accade, per esempio, nel caso di un celebre aneddoto riguardante Pitagora, il quale – raccontava Diogene Laerzio – imponeva ai suoi discepoli un silenzio di cinque anni.123 Nella lezione In biasimo del parlare di Fulvio Mariottelli, l’avvertimento del filosofo greco serve a sostenere le ragioni del silenzio contro il parlare che sarebbe, invero, una «cosa cattiva» (5v).124 Nella dissertazione di Leone Oliva Che più honore apporta, le parole di Pitagora mutano completamente il loro valore. Qui, per dimostrare la tesi opposta, ossia che il «parlare» è «cosa divina», oltre all’esempio di Cristo che incarna la «parola», il «verbum» di Dio, si fa riferimento al medesimo detto di Pitagora, che ricorreva al silenzio prolungato «perché conosceva quanto si richiedeva all’eccellenza del parlare» (48v).125 Il valore dimostrativo delle auctoritates è sempre soggetto, insomma, alle ragioni (talvolta arbitrarie) di colui che ne fa uso.126 A differenza della Sylva di Nevizzano, però, le auctoritates non devono necessariamente ricomporsi nella communis opinio. Pare infatti che le lezioni dimostrino una certa indifferenza al riguardo, tutt’al più una generica tendenza a negare o a sconfessare l’opinione dei più. Gli stessi titoli In lode del tacere, In lode della bruttezza, In lode del biasmo, sono esempi in tal senso significativi.127 La propensione ad avversare la communis opinio è

123 DIOG. LAERT., VIII 10. 124 MARIOTTELLI, Ringratiamento fatto a i signori Accademici Insensati, cit. 125 OLIVA, Chi più honore apporta quello che dice a quello che ascolta, cit. Pregevole e generoso è il contributo sul tema del silenzio di L. BISELLO, Sotto il ‘manto’ del silenzio: storia e forme del tacere (XVI-XVII secolo), Firenze, Olschki, 2003. 126 In un solo caso, sia nelle lezioni accademiche sia nella Sylva vengono messe direttamente in discussione le auctoritates letterarie. Durante la quarta contrapposizione del Discorso […] nel quale si risponde alle calunnie, Crispolti riprendeva i poeti per «haver finto» che nel regno di Saturno non vi fossero città ed aver compiuto così un «errore» di non poco conto (c. 80v). Allo stesso modo Nevizzano, dopo aver descritto con le opinioni degli auctores i tanti difetti della donna, asseriva che in realtà i poeti mentono e dunque non sono credibili. Nondimeno, come nota Marchetto, tutta la sua opera è costellata di auctoritates letterarie e dunque questa confutazione ha un valore soltanto contingente (MARCHETTO, Luoghi letterari e argomentazione giuridica, cit., pp. 94-97). Lo stesso si può dire anche per l’opera degli Insensati. La sensazione è, insomma, che la dichiarazione delle bugie dei poeti non sia altro che uno stratagemma per condurre in porto il proprio ragionamento e non abbia valore al di fuori del contesto in cui è inserita. 127 Il presunto anticanone etico ed estetico cinquecentesco è ben illustrato nella miscellanea Disarmonia, bruttezza e bizzaria nel Rinascimento. Atti del VII convegno internazionale (Chianciano-Pienza, 17-20 luglio 1995), a c. di L. SECCHI TARUGI, Firenze, Cesati, 1998.

218 in realtà soltanto la prima di una serie di similitudini che alcune lezioni degli accademici intrattengono con la tradizione medio-cinquecentesca degli elogi paradossali. Questo genere letterario, ben indagato nella recente sintesi di Maria Cristina Figorilli, venne importato nella letteratura volgare dai Paradossi del milanese Ortensio Lando.128 Ciò che distingue i Paradossi dalle tradizioni precedenti è il loro modello, vale a dire i petrarcheschi De rimediis utriusque fortunae.129 La forma ancipite dell’opera, il cui secondo libro costituisce uno speculare ribaltamento del primo, è un espediente retorico che venne più volte proposto da Lando. Questa seconda similitudine con le lezioni degli Insensati appare ancora più evidente quando si osserva che negli elogi paradossali, tanto della classicità quanto del Cinquecento, «la punta più estrema dell’artificiosità retorica, il massimo grado dell’onnipotenza virtuosistica della parola si raggiunge […] con l’uso di far seguire alla lode il biasimo della stessa materia».130 Ma il serio ludere di Lando o di Doni non equivale del tutto al lusus disimpegnato degli Insensati. Sotto la scorza degli scritti degli accademici non è dato cogliere né la critica

128 O. LANDO, Paradossi, cioè sententie fuori del comun parere novellamente messe in luce, opra non men dotta che piacevole, a Lione, per Gioanni Pullon da Trino, 1543. All’interno della ormai ricca bibliografia sull’opera principale di Lando, si segnalano almeno: A. CORSARO, Per l’edizione critica dei ‘Paradossi’ di Ortensio Lando, «Medioevo e Rinascimento», 8/n.s. 5 (1994), pp. 149-182; ID., Tra filologia e censura. I ‘Paradossi’ di Ortensio Lando, in La censura libraria nell’Europa del secolo XVI, a c. di U. ROZZO, Udine, Forum, 1997, pp. 297-324; P. CHERCHI, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 98-106; P. PROCACCIOLI, Per Ortensio Lando a Venezia. In margine alla recente edizione dei ‘Paradossi’, «Filologia e critica», 27 (2002), pp. 102-123; M.C. FIGORILLI, Contro Aristotele, Cicerone e Boccaccio: note sui ‘Paradossi’ di Ortensio Lando, «Filologia e critica», 33 (2008), pp. 35-64. Lo stesso Corsaro ne ha curato anche l’edizione: O. LANDO, Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2000. Oltre al volume citato di M.C. FIGORILLI, Meglio ignorante che dotto: l’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 2008, per una panoramica sulla letteratura paradossale cinquecentesca, si vedano P. PROCACCIOLI, Cinquecento capriccioso e irregolare. Dei lettori di Luciano e di Erasmo; di Aretino e di Doni; di altri peregrini ingegni, in Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nell’Italia del Classicismo, Seminario di letteratura italiana, Viterbo, 6 febbraio 1998, a c. di P. PROCACCIOLI e A. ROMANO, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1999, pp. 7-30; A. CORSARO, Prisca Aetas. Eros e paradosso nella cultura letteraria del Cinquecento, «Italica», 82 (2005), pp. 390-407. 129 CHERCHI, Polimatia di riuso, cit., pp. 99-101; FIGORILLI, Meglio ignorante che dotto, cit., pp. 10-13. Per la fortuna dell’opera petrarchesca, si veda, dello stesso P. CHERCHI, Petrarca in Barocco: il ‘De rimediis’ nella ‘Polyanthea’ del Seicento, «Giornale storico della letteratura italiana», 182 (2005), pp. 321-339. La medesima opera di Petrarca è stata assunta da Amedeo Quondam quale atto fondativo della tradizione etica classicista: QUONDAM, Forma del vivere, cit., pp. 254-304. È un “paradosso” che vale la pena di capire e investigare a fondo: il De remediis, secondo quanto sostengono gli studiosi, sarebbe così all’origine sia degli elogi paradossali sia del codice etico che nel Cinquecento fisseranno Castiglione, Della Casa e Guazzo. 130 FIGORILLI, Meglio ignorante che dotto, cit., p. 7.

219 militante contro il modello culturale dominante, né la presenza di temi religiosi eterodossi o di riferimenti osceni.131 Analogamente, anche il parco tematico proposto dagli Insensati non regge il confronto per disomogeneità ed eclettismo con quello degli scritti paradossali citati. Tuttavia, non sarà di secondaria importanza rilevare che uno dei temi di maggior successo entro questa tradizione è la lode dell’ignoranza, cioè la produzione di scritture contro la scrittura. Sebbene non vi sia nelle lezioni degli Insensati alcun invito a spogliarsi del sapere e ad abbracciare il suo contrario, è evidente la vicinanza tra questo filone paradossale e l’Invettiva di Mariottelli del 1597, che è precisamente una stampa contro la stampa. Nella Lettera che precede lo scritto di Mariottelli, Crispolti era ben conscio di proporre un paradosso, ma giustificava la sua convinzione di pubblicare comunque l’Invettiva dell’amico, facendo appello alle «stesse ragioni» che avevano convinto lui e gli altri accademici a non dare alle stampe le esercitazioni accademiche:

Se la nostra persuasione merita lode, si procurerà con publicarla, se merita biasimo e che le stampe non siano da fuggirsi, […] si farà almeno come con lo scorpione, che premuto sopra ove ha morso, serve per medicina al proprio veleno.132 (n.n.)

Non mancava poi di riconoscere il merito dell’amico Mariottelli per aver generato «nell’istesso tempo, verso l’istessa cosa [: la stampa], per forza d’ingegno, […] l’odio e l’amore» (n.n.). L’alto tasso di ambiguità che subito emerge dal contenuto dell’opuscolo accademico non è però l’unico elemento che segna la vicinanza con le scritture paradossali cinquecentesche. Infatti a

131 Sono assenti altresì alcuni degli elementi chiave che invece risultano topici nel genere paradossale, quali la dichiarazione apologetica delle auctoritates, le lunghe rassegne di exempla, nonché, ancora a livello di dispositio, il procedere nell’argomentazione per rapidi e talvolta sconnessi passaggi. L’aspetto bizzarro, disarmonico ed insieme elegante, che porta ad uno straniamento del lettore, resta esclusivo del genere paradossale e non viene proposto nelle lezioni degli Insensati. Si rimanda nuovamente agli interventi quadro di PROCACCIOLI, Cinquecento capriccioso e irregolare, cit.; A. CORSARO, Introduzione, in LANDO, Paradossi, cit., pp. 1-25; FIGORILLI, Meglio ignorante che dotto, cit. 132 Per l’immagine dello scorpione: DIOSCORIDE, MATTIOLI, I discorsi […] ne i sei libri della materia medicinale, cit., p. 730; G.A. DELLA CROCE, Cirugia universale e perfetta di tutte le parti pertinenti all’ottimo chirurgo […], in Venetia, presso Giordano Ziletti, 1583, libri VI, trattato I, c. 4r (princeps del 1574 – in Vinegia, appresso Giordano Ziletti – posseduta da Podiani; ma l’opera venne edita per la prima volta in latino l’anno precedente: Chirurgiae Ioannis Andreae a Cruce, Veneti medici, libri septem […], Venetiis, apud Iordanum Zilettum, 1573).

220 rendere ancora più forte tale legame è la ripresa, tanto nella Lettera di Crispolti, quanto nell’Invettiva di Mariottelli, del topos terenziano del «tutto è stato già detto».133 La continua, sovrabbondante produzione di trattati, dialoghi, lezioni su ogni argomento dello scibile umano scatena sia per Mariottelli e Crispolti che per gli autori di scritti paradossali il lamento per la troppa facilità nell’approdo di queste opere e dei loro autori alle stampe. La condivisa insofferenza di fronte alla «sazietà» del panorama letterario coevo porta nondimeno ad escogitare soluzioni diverse, quasi opposte. Per Lando e gli altri si tratta di ritagliarsi uno spazio letterario alternativo e libero rispetto ai vincoli della corrente letteraria principale; per i due accademici si tratta invece di accettare i confini del sistema culturale vigente ed operare una scelta iperclassicista, conformandosi al canone degli antichi e negando ogni possibilità di un suo superamento. Oltre a chiedere agli altri soci in forma retorica: «Forse sperate di poter superar gli antichi?», Crispolti li avvertiva intorno alla temerarietà di consegnare i propri lavori alle stampe e li invitava a non «farsi vedere publicamente per inferiori», dopo che già i greci «Homero» e «Demostene» e i latini «Virgilio» e «Cicerone» avevano composto le loro opere.134 Mentre Lando definiva Aristotele un «animalaccio» e Cicerone «ignorante di filosofia»;135 gli Insensati ribadivano con convinzione il valore ineguagliabile della cultura classica, la supremazia dell’antico sul moderno. Ma sorprendentemente, proprio quando il loro massimo sforzo si rivolgeva a difendere i grandi autori del passato, gli Insensati davano vita ad un ultimo e forse involontario paradosso: inserivano la difesa degli scrittori e pensatori classici nell’unico scritto accademico in cui promuovevano le proprie ragioni senza fare ricorso ad alcuna auctoritas. Stabilivano cioè l’autorità degli antichi senza far ricorso alla loro autorità.

133 TER. Eun., v. 41. Per la formula terenziana, si veda FIGORILLI, Meglio ignorante che dotto, cit., p. 84 e n; la quale, analizzando un corpus di opere di Aretino, Caro, Lando e Doni, offre anche una vasta panoramica sui testi paradossali in opposizione alle scritture (pp. 75-104). 134 I quattro nomi canonici ricorrono anche nelle Prose di Bembo [1.XVIII e di nuovo 2.III], che con ogni probabilità è il testo cui Crispolti si riferiva. 135 Il XXIX e il XXX paradosso di Lando s’intitolano rispettivamente Che Aristotele fusse non solo un ignorante ma anche lo più malvagio uomo di quella età; Che M. Tullio sia non sol ignorante de filosofia, ma di retorica, di cosmografia e dell’istoria: LANDO, Paradossi [ed. CORSARO], cit., pp. 253-261, 262-271.

221 Quest’ultima incoerenza metodologia, insieme con il paradosso sul quale si regge tutta l’Invettiva, rende assai complesso stabilire l’effettiva sincerità delle affermazioni di Crispolti e Mariottelli. Ad interessare i due autori sembra essere più la sfida retorica implicata nel testo che non il suo contenuto. Probabilmente, i due accademici volevano dimostrare di essere in grado di sostenere – proprio con una stampa – che stampare fosse sbagliato, che la bruttezza fosse preferibile alla bellezza, il tacere preferibile al parlare ed il biasimo alla lode. Il complesso rapporto degli Insensati nei confronti della verità emerge con tutta evidenza nella bella lezione finale di Crispolti, dall’eloquentissimo titolo Della simulatione. 136 Il motivo esplorato nella detta lezione, quasi sempre associato alla dissimulazione, è uno tra i più fortunati del Cinquecento letterario italiano, sin dalla sua fondazione – o se si preferisce: rifondazione – nel Cortegiano di Castiglione e, in ambito politico, nel Principe di Machiavelli.137 Per la sua natura proteiforme, il tema conobbe grande successo anche nel Seicento, quando ricevette la sua definitiva consacrazione in uno dei testi più celebri del secolo: la Dissimulazione honesta di Torquato Accetto (in Napoli, nella stampa di Egidio Longo, 1641).138 Senza ripercorrere la lunga lezione di Crispolti,

136 CRISPOLTI, Della simulatione, cit. 137 Per un confronto tra i due testi cinquecenteschi sul tema in discussione, si rinvia a G. FERRONI, «Sprezzatura» e simulazione, in La Corte e il cortigiano, I. La scena del testo, a c. di C. OSSOLA, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 119-147. La simulazione e, soprattutto, la dissimulazione tra XVI e XVII secolo sono state ampiamente discusse dalla critica (in particolare negli interventi sulla Ragion di Stato, che qui non interessa approfondire): per una rassegna di studi, si veda la nota bibliografica in T. ACCETTO, Della dissimulazione onesta – Rime, a c. di E. RIPARI, Milano, BUR, 2012, pp. 40-42; per il contesto europeo, si rimanda a J.R. SNYDER, Dissimulation and the Culture of Secrecy in Early Modern Europe, Berkeley, University of California Press, 2009. Limitatamente agli aspetti etici ed estetici della simulazione, che emergono dalla lezione di Crispolti, si vedano almeno le riflessioni di V. DINI, G. STABILE, Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un’antropologia in prima età moderna, Napoli, Liguori, 1983; D. ARICÒ, Anatomie della ‘dissimulazione’ barocca, «Intersezioni», 8 (1988), pp. 59-85; ed in QUONDAM, Forma del vivere, cit., il paragrafo Essere e apparire: la dissimulazione e la grazia: pp. 534-538. In taluni casi, gli studiosi non hanno distinto tra simulazione e dissimulazione, oppure si sono serviti dei due termini come fossero equivalenti. Tuttavia, una distinzione c’era (e di fatto ancora sussiste) e Crispolti, nella seconda parte della sua lezione, la metteva bene in evidenza: «Simulatione è […] quando co i segni de i fatti esteriori si mostra il contrario di quello che è nella mente; dissimulatione è quando si cuopre [sic] una cosa che in verità è» (Della simulatione, cit., cc. 114v). 138 Nel 1928 il trattato di Accetto venne riscoperto e stampato per Laterza da Benedetto Croce, che dedicò all’opera anche il saggio Torquato Accetto e il trattatello «Della dissimulazione onesta» [1928], in ID., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 19492, pp. 86-94. Soltanto negli ultimi anni, la Dissimulazione onesta è stata edita

222 brevemente discussa anche da Laura Teza,139 se ne intende mettere in luce soltanto un aspetto alquanto rilevante per il discorso ora in esame. Si noti, in primo luogo, l’iniziale ritrosia di Crispolti nel prendere posizione sugli eventuali pregi della simulazione. In apertura della lezione, egli sottolineava la pari bellezza ed utilità dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) quando sono presi nella loro purezza e quando invece sono combinati con altri elementi:

Suole molte volte una simplicità sincera e nuda aggradire e grand’utile apportare. Ma suole ancora, ben spesso, cosa che si celi, e quasi con velo si copra, essere di non minor diletto e utile cagione. Bello è l’aspetto della terra, massimamente ne’ tempi di primavera, quando ella è d’erba e di fiori ornata, e utile grande nell’estate e nell’autunno con la copia de’ frutti n’apporta. Ma bella è ancora la terra nell’inverno, quando è da bianche falde di nevi e da marmi di ghiaccio ricoperta e utile in quella stagione n’arreca […]. L’acque del mare, o de’ fiumi, o de’ fonti, o de’ laghi paiono talvolta cristalli e argenti, ma morte parrebbono se tallhora non si conturbassero, né apportarebbono alle piante nutrimento se con le parti della terra non si mischiassero. Questo aere che ne circonda e che ci fa respirare e vivere, o come ci piace, quando nella purità sua lo godiamo! Ma quando è co i vapori dell’acqua e con l’essalationi della terra unito, ci dà ruggiade, zuccheri e mele. Cagiona le pioggie cotanto necessarie e co i varii e belli colori dell’iride e d’altre impressioni ci diletta. Purissimo è nella sua sfera il fuoco, ma composto quagiù in terra riscalda, risplende e mille utilità n’arreca. Il cielo, mentre la notte per mezo semplice e puro vagheggiare si lascia, esso ancora di là sua con mille occhi rivagheggia. Ma se è da qualche vapore ingombrato, apre nuovi occhi e gli altri maggiori dimostra. (112r- v)

da Salvatore Silvano Nigro (Torino, Einaudi, 1997) e, come detto, da Edoardo Ripari (Milano, BUR, 2012), ed è stata oggetto delle analisi di R. VILLARI, Elogio della dissimulazione: La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 27-45, 114-116; D. VAGNONI, Esempi di trasformazione semantica nella ‘Dissimulazione onesta’ di Torquato Accetto, «Esperienze letterarie», 21 (1996), 2, pp. 67-88; D. VAGNONI, Immagini neoplatoniche e teologia negativa nella dissimulazione di Torquato Accetto, «Linguistica e letteratura», 1-2 (2004), pp. 89-115; M. PACIONI, Apocalittica ‘Dissimulazione onesta’, in Apocalissi e letteratura, a c. di I. DE MICHELIS, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 125-142; M. ARNAUDO, L’altra dissimulazione: Accetto, Pallavicino, Machiavelli, «Italica», 86 (2009), pp. 488-499. Al riguardo, non sono comunque mancate le perplessità – in fondo condivisibili – sulla moderna e forse eccessiva fortuna del libello: QUONDAM, Forma del vivere, cit., p. 534. 139 TEZA, Cesare Crispolti ‘sacerdote’ di Perugia, cit., pp. 21-22.

223 Sin qui, non viene espressa alcuna predilezione tra la spoglia «simplicità» e la decorata «simulatione», entrambe capaci di produrre quella canonica mescolanza di utile e dilettevole di oraziana memoria. In conclusione della lezione, Crispolti dimostra di nuovo di non sapersi decidere in merito alla natura della simulazione e della dissimulazione, tanto che, «finché non si determina se […] siano buone o rie», rimandava gli altri soci ad una nuova discussione al riguardo e lasciava la questione in sospeso (128r). Un’esitazione di ordine morale sembra qui impedire all’autore di formulare un giudizio pieno, di esprimere una scelta chiara. Tuttavia, lo stesso Crispolti in più punti della lezione, forse inconsapevolmente, rivelava una malcelata preferenza per la simulazione, almeno in merito ad alcuni precisi casi:

Nella pittura piacciono invero le figure e i paesi da dotta mano dipinti che alla prima vista ci si appresentano. Ma più si apprezza quello che di sotto si nasconde, come splendore di gioie, di drappi e di metalli da bei colori velato, come figure e paesi ombreggiati. Grande fu stimato l’aspetto di mestitia che Timante espresse nel volto di coloro che al lagrimevole sagrifitio d’Ifigenia erano presenti. Ma maggiore fu tenuto quello che col dipingere il volto d’Agamennone co’ suoi panni coperto, lasciò nell’imaginativa altrui […].140 Bello è il parlare nudo e puro. Ma il prattico oratore l’adorna, lo veste, lo arricchisce con metaffore, con perifrasi, con apostrofi e con altri artifitiosi modi. […] I versi leggiadri de’ poeti sono da noi letti con piacere per la purità ed eleganza della lingua e perché da vena naturale scaturiscano. Ma più ammirati sono quando ornati si vedono di mille gioie di vaghi concetti. Le favole ci dilettano nella scorza, ma più le allegorie che quasi midolla stanno sotto quelle nascoste. (112v-113r)

Non può essere certo una coincidenza il fatto che gli esempi descritti da Crispolti non riguardino la condotta morale dell’uomo (intorno alla quale egli rinunciava ad esporsi),141 ma esclusivamente le arti, o meglio, il loro

140 Il riferimento è al pittore greco Timante di Citno e alla sua opera più famosa, il Sacrificio di Ifigenia. L’episodio è raccontato da PLIN. Nat. Hist., XXXV 36. 141 Riferendosi all’interiorità dell’uomo, Crispolti lodava sia l’anima candida e retta, sia quella proteiforme del simulatore, che si adatta a seconda della situazione: «Dico che un’anima pura e semplice dee per certo commendarsi e stimarsi […]; ma di non minor loda è quell’anima degna che, secondo le bisogne, della veste della simulatione si copre, a guisa del serpe, che hora depone e hora prende la sua spoglia consparsa di macchie e di scaglie» (Della simulatione, cit., cc. 113r-v).

224 linguaggio. I testi letterari, così come le raffigurazioni artistiche, risultano più seducenti, conturbanti, quasi baroccamente “meravigliosi”, quando il loro messaggio prende forma nascostamente, e resta celato alla vista o all’udito. Dissimulando la verità, coprendola ai sensi, gli accademici perugini portavano in primo piano la retorica e la vivacità del loro ingegno. Si realizza qui un’ulteriore e più complessa forma di «insensataggine»: una rinuncia ai sensi che equivale ad un rifiuto dei limiti della verità sensibile e ad un’apertura di credito verso una verità fantastica, sospesa, irrelata da una corrispondenza in res.

225 Conclusioni

Senza voler indugiare nella retorica dei «contraposti», va osservato che i quasi cinquant’anni di storia dell’Accademia degli Insensati si prestano assai bene ad assecondare una simile interpretazione. Naturalmente, modulare l’analisi sulla ricerca di coppie simmetricamente oppositive porterebbe a forzare in non pochi casi tanto il lavoro di ricerca sinora condotto, quanto la realtà dei fatti. Perciò, queste brevi osservazioni finali sono intese a rilevare quegli elementi (apparentemente o effettivamente) contrastivi che hanno caratterizzato l’esperienza dell’accademia perugina. Dal punto di vista cronologico, dal 1561 al 1608, la presenza dell’accademia nella vita culturale perugina e del centro Italia fu in buona sostanza continuativa. Dalla fine degli anni ’60 fino alla prima decade del Seicento, le composizioni letterarie degli Insensati furono prodotte con una certa regolarità e frequenza. Anche dopo la morte di Crispolti, i lavori degli Insensati continuarono ad uscire a stampa, ma venne meno negli anni, o comunque non fu più registrata, l’attività collettiva dell’accademia, cioè la sua dimensione primaria. Nel periodo post 1608, l’impegno che prima Ottaviano Aureli, e poi Cesare Crispolti, avevano profuso nel coordinare il lavoro dell’accademia non venne raccolto da nessun altro socio. Così, senza poter più contare sul proprio leader, i contorni dell’accademia si fecero via via più sfumati, tanto da risultare, ad oggi, meno distinguibili dall’ambiente letterario esterno. Non poteva infatti bastare a tutelare l’identità dell’accademia il solo progetto accademico, che dimostra in verità una vaghezza quasi ineffabile. La mortificazione dei sensi, la tensione verso la contemplazione delle virtù celesti non possono essere elementi così chiaramente definiti da indirizzare in maniera efficace la produzione dell’accademia. Senza dubbio alcuno, il proposito generale degli Insensati ebbe una maggior influenza nei primi anni di vita del consesso, quando possedeva un forte valore di autoriconoscimento ed era l’elemento verso cui convergeva, in sostanza, tutta la prima tradizione autoreferenziale. Più avanti negli anni, esso rimase un irrinunciabile eppur lontano simulacro senza più alcuna reale influenza.

226 Il compito di perpetuarne il culto venne allora affidato non a caso ad uno dei primi e più anziani accademici, Contolo Contoli, anch’egli una sorta di reliquia della prima stagione. Eppure, proprio per la sua indeterminatezza e genericità, il medesimo progetto ha garantito all’accademia la sua lunga durabilità. Rimanendo attuale ed immutato sin dal momento della fondazione, esso fu il più efficace trait d’union tra i vari membri e le varie età del consesso. D’altronde la prospettiva di esercitare la virtù per mezzo delle lettere e con l’aiuto della positiva influenza della grazia divina è un progetto tanto generico (quanto “facilmente indimostrabile”) che non poteva non coinvolgere ed attirare una buona parte del ceto dei notabili cittadini e persino alcuni foresti. Mostrarsi Insensati, nell’accezione nota di uomini distanti e distaccati dai sensi, non solo rispondeva efficacemente agli obiettivi educativi della Controriforma, ma consentiva soprattutto il realizzarsi di quella corrispondenza etico-sociale perseguita dagli uomini di cultura del tempo. L’appartenenza ad un’accademia di virtuosi faceva scattare tutta quella serie di (auto)-riconoscimenti che rendevano esclusiva ed appagante per i suoi partecipanti la socialità accademica cinque e secentesca. Tuttavia, la genericità del progetto, mentre agevolava la coesione sociale, comportava in ambito letterario ampi margini di autonomia e discrezionalità nella scelta dei generi letterari. Non sorprende così che la produzione accademica degli Insensati conosca una sola vera e propria costante, le lezioni, ed una parziale, le sillogi poetiche, e produca nello stesso tempo una serie alquanto eterogenea di altre pubblicazioni. Le commedie, le tragedie, le Conclusioni, il trattato educativo, le raccolte di lettere, e così via, sono, genere per genere, testimonianze troppo esigue per realizzare una consuetudine compositiva sufficientemente definita. Le numerose opere risultano invero troppo disparate tra loro per essere riconducibili ad una individualità accademica. Neanche gli indiscussi magisteri di Oddi Sforza, per la commedia, e di Marco Antonio Bonciari, per la prosa latina, di fatto fecero scuola all’interno del sodalizio.

227 Considerando poi le forme materiali di diffusione della produzione letteraria degli Insensati, emerge l’importanza, soprattutto nella seconda stagione, della scelta tra il manoscritto e la stampa. La diversa circolazione delle composizioni accademiche comportava infatti anche delle conseguenze non secondarie sul piano del contenuto; conseguenze che si tradussero, semplificando appena, in una manifestazione più tangibile della comune appartenenza accademica nei codici invece che nelle pubblicazioni. Il carattere marcatamente autoreferenziale di non poche lezioni accademiche della prima stagione avrebbe perso d’efficacia se destinato ad una circolazione a stampa, che prevedibilmente si sarebbe rivolta al di fuori dell’ambiente accademico. Non per caso nella seconda stagione, gli interessi filosofici, ossia più “universali”, vennero affidati con minor difficoltà alla stampa: la loro ricezione poteva senz’altro superare la ristretta cerchia dei soci accademici. Si noti poi che, ad eccezione dei Carmina latini del 1606, gli Insensati non stamparono lavori collettivi. Tutt’al più si limitarono a corredare l’opera del singolo con una dedica o dei sonetti firmati dagli altri soci. Al contrario delle stampe, i manoscritti mostrano un’evidente responsabilità collegiale e rivelano il soggetto collettivo dell’accademia. Addirittura, nel caso dei tre noti manoscritti perugini, è chiaro l’impegno di Crispolti di dotare l’accademia di un canone scelto di lezioni collettive. Il fatto che simili manoscritti, a differenza, per esempio, delle dissertazioni di Massini o di Bovarini, non approdassero alla stampa, non può dipendere ancora dal caso. È invece l’esito di una scelta, forse dettata dall’Invettiva di Mariottelli contro la stampa, forse – più probabilmente – legata all’esigenza di soddisfare in primis i veri destinatari di queste lezioni accademiche, cioè gli accademici stessi. Naturalmente, la fortuna antica ed odierna dell’accademia è stata fortemente impedita dalla mancata stampa e vasta circolazione delle lezioni degli Insensati. Ciononostante l’influsso del sodalizio non fu certo marginale o circoscritto unicamente al novero dei suoi associati: non solo l’accademia esercitò un forte potere di attrazione sul ceto colto della città, ma propose anche un modello “medio” di interazione culturale, significativo in primo luogo per la sua straordinaria diffusione e formalizzazione.

228 Anche sul piano geografico, le dinamiche della comunicazione accademica possono dirsi “in conflitto” o in sospeso tra una dimensione interna ed esterna o, se si vuole, di apertura e chiusura. In questa prospettiva, appare sin troppo evidente il contrasto tra la realtà provinciale di Perugia e quella centrale ed accentratrice di Roma. L’accademia, senza mai rinnegare, anzi ribadendo con orgoglio, la sua appartenenza al contesto perugino, non poteva nascondere una qualche timida aspirazione verso il più evoluto e disinvolto ambiente romano. L’ambizione del consesso a venire in contatto con l’universo romano portò gli accademici, soprattutto nella seconda fase, ad accogliere tra le proprie file diversi personaggi romani per nascita o per adozione. Più del dualismo tra la maggioranza di perugini e la minoranza di romani, interessano lo stato e la professione dei suoi membri. La particolare composizione del sodalizio, che ospitava in larga maggioranza, giuristi da una parte, e dall’altra uomini di Chiesa, non può però essere all’origine di conflitti o rivalità, perché le due tipologie di soci erano perfettamente integrabili, nonché talvolta sovrapponibili (come dimostra in primo luogo l’esempio del «canonico e dottore» di leggi Cesare Crispolti). Va da sé, però, che le differenze più evidenti riguardino le due fasi del consesso. Nel periodo iniziale era assai sviluppato lo spirito comunitario, che si risolveva in una lunga serie di lezioni volte a fornire le giuste autodefinizioni del sodalizio. Dal punto di vista letterario, si assiste alla larga preponderanza del modello petrarchesco, che concedeva solo minimi spazi ad altri autori. L’interesse verso il poeta del Canzoniere portò anche alla costruzione di una micro-tradizione assai compatta di esposizioni accademiche. Dopo che la conversazione degli Insensati finalmente si istituzionalizzò, la loro attività non era più vincolata a fondare gli elementi identitari del consesso. In ambito letterario, il solo modello petrarchesco non bastava, non affascinava più. Nonostante il forte, talvolta inibente, rispetto per l’autorità (in questo caso di Bembo), gli Insensati indirizzarono i propri interessi anche verso altri autori cinquecenteschi, molto più vicini cronologicamente alla loro esperienza accademica. Quindi, mentre andava

229 esaurendosi quasi del tutto il filone autoreferenziale, emergeva con ben maggior forza rispetto al passato una vivace curiosità per questioni più o meno latamente filosofiche, tra loro alquanto diversificate. Come detto, le note appena svolte mostrano in più casi l’accademia al centro di una lunga serie di antinomie più o meno rigide o sfumate. Ognuna di esse offre a ben vedere la possibilità di ripercorrere di nuovo la vicenda degli Insensati e di avviare nuove ricerche. Non sarebbe del tutto ingiustificato, infatti, riconsiderare la produzione accademica soffermandosi, per esempio, sulla opposizione materiale edito vs. materiale inedito, sulla dialettica periferia (Perugia) – centro (Roma), oppure – ancora – sulla dinamica allontanamento-sovrapposizione tra voce del singolo e voce accademica, e così via. Tuttavia, nel momento di elaborare una conclusione a questa prima ricerca sugli Insensati, è doveroso mantenere fede alla prospettiva generale della tesi, quella diacronica, che è parsa la più rilevante e quindi la meglio adatta a contenere le altre. Non è certo il caso di indugiare qui sui fragili equilibrismi di categorie sempre più difficilmente definibili (quali per esempio quelle di Manierismo o di Barocco), bensì di rilevare per l’ultima volta la lenta e graduale transizione dei gusti estetici e quindi etici degli accademici e le implicazioni che di qui derivano. La produzione degli Insensati sembra infatti connotarsi come un itinerario da una parte verso la variatio e la curiositas, dall’altra verso una maggiore complessità. Dalla prima alla seconda stagione, l’accademia si mosse dalla piacevolezza di Petrarca verso la gravitas di Tasso e Della Casa, concentrò le proprie attenzioni dalla lettera al concetto dei sonetti, subì il fascino di temi oscuri e cupi (nelle lezioni con soggetto la notte, il sonno o le tenebre), non disdegnò qualche sortita estrosa, financo bizzarra (come la lezione sui nei, la lode della bruttezza o del biasimo) e soprattutto ampliò considerevolmente il ventaglio di temi oggetto dell’interesse accademico. Il ricorso a «qualche immaginoso contropiede estetico» si accompagnò ad un constante innalzamento e avvitamento del tessuto semantico, che raggiunse vette

230 sempre più alte e sottili.1 Ma tali sommità comportano inevitabilmente un aumento delle difficoltà nel reggersi in equilibrio e rendono più frequenti (soprattutto se volontari!) gli slittamenti e scivolamenti semantici. La conseguente serie di paradossi che gli Insensati edificarono rivela il suo valore proprio nella dilettevole complessità dell’operazione retorica, che basandosi su un assunto dal basso grado di plausibilità, esaspera ed impreziosisce il suo tessuto letterario. Per tornare alla premessa e alle parole di condanna di Emilia Bonazzi, la quale, quasi con spregio, notava che talvolta «i signori accademici non sapevano che dirsi», si deve osservare che proprio quello è il senso più alto della comunicazione accademica degli Insensati (e certo non loro esclusiva); una comunicazione volutamente complessa, arguta, seducente, smaliziata e fragile, che acquista efficacia e significato nel suo essere – essa stessa – simulazione, cioè arte, letteratura.2

1 C. FRUTTERO, F. LUCENTINI, A che punto è la notte, Milano, Mondadori, 1979, p. 72. 2 BONAZZI, Le accademie letterarie, cit., p. 25.

231 Appendice I. Descrizione dei manoscritti dell’Accademia degli Insensati

Nel presentare il corpus di manoscritti analizzati si è tenuto conto di un criterio geografico e cronologico: i diversi codici sono stati collocati secondo il loro luogo di conservazione e quindi secondo la loro datazione (talvolta desumibile soltanto per via ipotetica). Nei rimandi alle carte dei codici, si è fatto riferimento – qui e nel testo della tesi – alla cartulazione originale, che è stata preferita nei casi di doppia cartulazione. In mancanza di questa, si è utilizzata la cartulazione successiva. Sistemi di cartulazioni più complessi hanno necessitato di ulteriori indicazioni, che sono fornite nelle descrizioni dei codici.

Bibliografia Alcuni dei manoscritti [d’ora in poi ms./mss.] degli Accademici Insensati sono già stati precedentemente descritti:

• I mss. 1058-1060 sono illustrati nell’Appendice III: ‘I manoscritti di Cesare Crispolti’ all’interno del volume curato da Laura Teza, ‘Raccolta delle cose segnalate’ di Cesare Crispolti. La più antica guida di Perugia, Firenze, Olschki, 2001, pp. 286- 287. • Tutti i mss. conservati a Trieste sono accuratamente descritti

da S. ZAMPONI, I manoscritti petrarcheschi della Biblioteca Civica di Trieste. Storia e catalogo, Padova, Antenore, 1984, pp. 118-129, 131-132. • Il ms. sulle imprese degli Accademici Insensati è illustrato in una scheda di Maria Alessandra Panzanelli Fratoni in Doctores excellentissimi. Giuristi, medici, filosofi e teologi dell'Università

di Perugia (secc. XIV-XIX), a c. di C. FROVA, G. GIUBBINI, M.A.

PANZANELLI FRATONI, Città di Castello, Edimond, 2003, pp. 192- 194.

232 Manoscritti conservati a Perugia

Ms. 1407 Biblioteca Augusta

Cart., ms. composito, contente 34 fascicoli di formato diverso. Le lezioni degli accademici Insensati compaiono nei fascicoli contrassegnati dai numeri romani VIII, IX e XXXIII.

Fasc. VIII: cart., 1572, 280 x 210mm., cc. 18, non legato, bianche: cc. 17r, 18r-v. Numerazione a lapis continua non originale. Contiene la Lettione di Contolo Contoli Academico Insensato sopra un sonetto di Domenico Veniero, letta da lui publicamente nell’academia il dì [†† cass.] di ottobre 1572. Il componimento esposto nella dissertazione è V’amo donna, e di me, sol per ch’io v’amo. A c. 17v si legge un frammento di una poesia anonima. Data la forma metrica delle due quartine, strutturate secondo la rima abbracciata ABBA, si tratta con ogni probabilità di un sonetto, che si conclude a metà dell’ottavo verso:

Vero non fia già mai alma gentile, che l’ira in te da l’empia invidia scesa, mi faccia abandonar quell’alta impresa, ond’al ciel m’ergo e fommi a Dio simile.

Quelle virtù che fanno eterno aprile a chi d’honesto amore ha l’alma accesa, mi faran chiaro al mondo e chi contesa mi ha la tua gratia

Fasc. IX: cart., ex. XVI sec. o a cavaliere tra XVI e XVII sec., 267 x 200 mm., cc. 6, non legato. Numerazione continua a lapis, non originale. Vi è contenuta un’Oratio de vita et hominis immortalitate, habita a Vincentio Palettario in Academia Insensata, principe Caesare Crispolito.

233 Fasc. XXXIII: cart., 1573, 278 x 204 mm., cc. 32, bianche: pp. 57, 58, 62, 64, non legato. Le cc. sono ordinate da una doppia numerazione: una paginazione originale che numera tutte le facciate (pp. 1-64) ed una cartulazione successiva a lapis (cc. 1-32). Nelle pp. 1-56 il codice contiene la Lettione di Contolo Contoli Insensato Academico, letta da lui publicamente nell’academia il dì [ _ ] di aprile del 1573, sopra il sonetto di Cesare Caporale [per cass.] ‘Di poco sdegno, alta querela nata’. Due altri frammenti della medesima lezione si leggono alle pp. 60-61 e 63. A p. 63 il collegamento con la lezione è effettuato con un asterisco a margine, che può riferirsi a p. 13 o a p. 14. A p. 59 si legge una copia in bella grafia del medesimo sonetto esposto nella dissertazione.

Merita una breve osservazione il fascicolo X del presente ms. (cart., ultimo quarto XVI sec., 271 x 200 mm., cc. 23, non legato). Alcuni elementi inducono infatti a considerarlo nel novero delle «essercitationi» degli Insensati. Il fascicolo contiene la lezione adespota Se l’amore è per elettione o per destino. La lezione è con ogni probabilità di un perugino o comunque di un uomo attivo a Perugia: l’esempio offerto per spiegare la differenza tra possibilità e contingenza, espresso nella frase «che il Papa non viene a Perugia è contingente, perché può anco venirvi» (8r), permette infatti di ipotizzare e circoscrivere il luogo di provenienza o di attività dell’autore. Ben più rilevante ai fini della premessa fatta è però l’estrema somiglianza tra la scrittura del presente fascicolo e quella del ms. triestino Petr. I 60, contenente una lezione dell’Accademico Insensato Contolo Contoli. Si è deciso comunque di non includere la presente lezione nel corpus di quelle degli Insensati, perché non è stato possibile appurare oltre ogni dubbio la coincidenza tra le due grafie.

234 Ms. 1717 Biblioteca Augusta

Cart., 1569-1587, 278 x 203 mm., cc. IV + 236 + II, bianche: cc. IIr-IVv, 161v, 165v, 175r-v, 184r-185v, 191v, 202r-v, 213r-v, 221v, 227v, 330r-v, 343v, 373r-v, 385r-v, 411r-v, 417r-v, 428r-v, 440v, 463v, 488r-v, 492v, 496v, 507v, 512r-v; legatura tarda, presumibilmente del XVIII secolo, che reca sul dorso il titolo Discorsi degli Accademici Insensati. Al corpo centrale del ms. si devono poi aggiungere 3 allegati inseriti, ma non rilegati, nel volume. Nel codice la cartulazione è doppia: una originale ed una successiva, a lapis. La prima numerazione da c. 155 a c. 512 procede con interruzioni: sono numerate le cc. 155-227; 324-330; 338-385; 387-440; 458-512; la seconda, che contrassegna con numeri romani le cc. di guardia (cc. I-IV), si rivela anch’essa non continua: cc. 1-72; 79-85; 93-191; 193-247. Come si può vedere dall’elenco, la maggioranza dei titoli delle lezioni riporta una parentesi tonda che contiene l’individuazione dei nomi anagrafici degli accademici. Lo stesso fenomeno, seppur con minore frequenza, ha luogo anche nei mss. triestini Petr. I 49 e I 53. Di solito è un’integrazione a margine o in sopralinea, all’altezza del titolo della dissertazione, in cui i nomi accademici dei vari Insensati sono volta per volta accompagnati da quelli anagrafici e saltuariamente da qualche ulteriore dettaglio (provenienza, professione, ecc.). L’identificazione dell’autore avviene grazie ad una scritta diversa rispetto a quella cui si deve il testo, senza dubbio ottocentesca. Per facilitarne il riconoscimento, nel corso del testo della tesi e nel seguente elenco, tale integrazione viene compresa tra parentesi tonde. Il ms. contiene le seguenti lezioni:

1. Discorso intorno al nome e impresa communi degli Academici Insensati, cc. 155r-160v.

235 2. [O. COLOMBI], Compendio del trattato della bellezza (di O. Platoni,1 detto lo Smemorato, filosofo e medico), cc. 163r-174v.

3. [O. AURELI], Oratione dello Svogliato Insensato della felicità (cioè O.A.), cc. 176r-183v.

4. [O. AURELI], Ragionamento dello Svogliato Insensato contra la povertà, cc. 186r-191r.

5. [G. TINNOLI], In lode della virtù, del Cieco (dottore G.T. filosofo e medico), cc. 192r-201v.

6. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato Insensato, delle qualità che a i nomi e alle imprese particolari de gli accademici si convengono. Letta da lui nell’academia il giorno di Santa Croce di maggio [di maggio lin.] dell’anno 1574, cc. 203r-212v.

7. O. AURELI, Lettione di O.A. nella quale si ragiona de i miracoli. Letta da lui in casa di messer Alessandro della Penna la prima domenica d’aprile 1571, dello Svogliato, cc. 214r-221r.2

8. [J. MASCI], Discorso dell’Ingordo (cioè J.M.) sopra l’impresa dello Svogliato, cc. 222r-227r.

9. [O. AURELI], Sonetto del Sannazaro, letto dallo Svogliato nell’Academia de gli Insensati la seconda domenica di settembre del 1569, cc. 324r- 329r.3

10. [R. SALVUCCI], Oratione funebre del Sordo Insensato nella morte del Sonnacchioso Insensato (cioè del dottore Convintino Castaldi medico), cc. 338r-343r.

11. [O. AURELI], Discorso intorno all’impresa dello Svanito (cioè GiamBattista Cesarei olivetano), fatto dallo Svogliato nell’Academia de gl’Insensati il giorno di Santa Croce di maggio 1573, cc. 344r-372v.

1 Qui e nei successivi due casi, l’anonimo postillatore ottocentesco identifica Colombi attraverso il suo soprannome «Platoni» (si ricordi quanto detto supra in § II.4.3). 2 La parte «Dello Svogliato» è di una scrittura diversa rispetto alla solita grafia ottocentesca che svela i nomi anagrafici degli accademici e rispetto a quella che verga brevi appunti sugli Insensati a cc. Ir-v (si veda in coda all’elenco delle lezioni). Ricorre per tre volte nel ms. Questa è l’unica lezione del manoscritto che reca nel titolo il nome dell’autore (pur in forma abbreviata: è infatti anche nel ms. «O.A.»). 3 Il sonetto di Sannazaro è il centone petrarchesco L’alma mia fiamma, oltre le belle bella (l’incipit viene da Rvf 289).

236 12. [O. AURELI], Discorso intorno all’Impresa dello Svanito, fatto dallo Svogliato, nella Academia de gli Insensati il giorno di Santa Croce4 di maggio 1573, cc. 374r-384v. 13. [Lezione iniziata a metà, cc. 387r-393v]. Si può comunque intuire l’argomento della lezione: la dichiarazione del nome e dell’impresa dell’Astratto Insensato.

14. [O. COLOMBI], Discorso dello Smemorato (cioè dottore O. Platoni medico) sopra l’impresa dell’Ingordo (cioè Jacopo Masci), cc. 394r- 403v.

15. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta da lui nell’Academia de gli Insensati il giorno di san Matteo 1572 sopra il sonetto ‘Io no’ fui d’amar voi [lassato unquancho]’, 5 cc. 404r-410v.

16. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta da lui nell’Academia de gli Insensati la prima domenica di novembre 1569, cc. 414r-416v.6

17. [G. TINNOLI], [Lettione] del Cieco (cioè dottore G.T.) [sopra il sonetto del Petrarca ‘Non d’atra e tempestosa onda marina’], cc. 418r-419v.

18. [O. AURELI], Ragionamento dello Svogliato Insensato in difesa del nome e impresa dell’Assiderato (cioè Paolo Emilio Santorio da Cosenza principe dell’academia), fatto nell’academia il dì 13 ottobre 1587, cc. 420r-427v.7

19. [G.L. LUNGO], Proemio delle scienze matematiche (cioè G.L. dal Piemonte). Lezione del Concentrato Accademico Insensato, cc. 430r- 440r.8

20. [O. COLOMBI], Discorso dello Smemorato (O. Platoni) sopra l’impresa dell’eccellente signor Sonnacchioso, cc. 458r-463r.

21. [A. DELLA PENNA], Lezione del Rozo (cioè A.d.P.) sopra l’impresa del Debole (cioè Giuseppe Franceschini), cc. 464r-472v.

4 Il termine «Croce» è reso dal simbolo «+». 5 «Sopra … voi»: parte aggiunta da un’altra mano; la stessa di cui si è detto in nota 2. 6 Si tratta dell’esposizione di un’ottava dell’Orlando Furioso (VII, 13). 7 Paolo Emilio Santoro (o Santorio) non era in realtà di Cosenza, bensì di Caserta. È però probabile che la mano ottocentesca, indicando in Cosenza la città di provenienza di Santoro, si riferisse all’incarico di arcivescovo che Santoro svolse nella diocesi calabrese dal 7 luglio 1617 al 20 novembre 1623 (F. SORIA, Memorie storico-critiche degli storici napolitani di F.S., in Napoli, nella stamperia Simoniana, 1782, II, pp. 546-551). 8 Il Proemio venne stampato a Mantova nel 1588: si veda Appendice II.

237 22. [P.A. GHIBERTI?], Sopra l’impresa del Sordo (cioè canonico Rubino Salvucci), cc. 473r-478v.9

23. [P.A. GHIBERTI], Discorso dello Spensierato (cioè di P.G., principe della accademia) sopra l’impresa del Sordo, cc. 479r-487v.

24. [L. CIARDI], Discorso dell’Ottuso (cioè del dottore L.C.) intorno all’impresa dello Spaventato (cioè Grazioso Graziosi dalla Pergola), cc. 489r-492r. 25. De’ centoni, cc. 493r-496r.

26. [O. AURELI], Discorso dello Svogliato Insensato intorno alla dichiaratione e significati de’ colori fatto nell’Academia de gli Insensati, cc. 497r-507r.

27. [O. AURELI], La nobiltà, dello Svogliato,10 cc. 509r-511v.

Sono otto le grafie che è stato possibile riconoscere tra le ventisette lezioni accademiche presenti nel codice. Grafia A: lezioni 1, 6, 7, 12, 15, 16, 18; grafia B: lezioni 2, 11; grafia C: lezioni 3, 4, 5, 9, 25, 26, 27; grafia D: lezioni 8, 13, 14, 20, 21, 22, 23; grafia E: lezioni 10; grafia F: lezioni 17, 24; grafia G: lezione 19; grafia H: lezione 25. Le lezioni non risultano autografe: spesso alla medesima grafia si devono lezioni di autori diversi. Sulla controguardia compaiono alcune annotazioni a lapis, certamente di un bibliotecario. Vi sono indicati il numero totale delle carte, le carte bianche, quelle timbrate, veloci osservazioni sulla cartulazione e l’indice degli allegati inclusi nel ms. Il primo dei fogli cartulati con numeri romani (Ir-v) contiene brevi e raffazzonati appunti, attribuiti a Giovan Battista Vermiglioli,11 su alcuni membri accademici: si legge un breve elenco di accademici con a fianco l’indicazione Biografia degli scrittori perugini (ossia l’opera dello stesso Vermiglioli) e un parziale sommario non del presente codice, ma di alcune lezioni presenti nei mss. 1058-1060. Sfugge del tutto il criterio dell’elenco,

9 Sulla probabile attribuzione della lezione a Ghiberti, si veda § III.2. 10 «Dello Svogliato»: parte aggiunta da un’altra mano; si veda nota 2. 11 Così nella descrizione del ms. 1717 contenuta nel Catalogo dei manoscritti in prosecuzione di quello redatto da Alessandro Bellucci e pubblicato nel volume quinto degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia di Giuseppe Mazzatinti, (dattiloscritto presente a Perugia, Biblioteca Augusta), p. 41.

238 che presenta dissertazioni spesso e volentieri nemmeno in successione nei rispettivi codici di appartenenza.

Gli allegati. In tutti e tre i casi si tratta di materiale adespoto, non databile con precisione. Nel foglio che funge da busta i tre allegati sono numerati con numeri romani. Allegato I, 280 x 206 mm., di cc. 6, numerazione non originale a lapis, contiene un’anonima lezione petrarchesca sul sonetto petrarchesco I begli occhi ond’i’ fui percosso in guisa. Sulla prima facciata, in alto a sinistra, sopra il titolo, compare la lettera B maiuscola. Allegato II, 283 x 207 mm., di cc. 6, numerato anch’esso a lapis, comprende un frammento di un’altra lezione anonima sul sonetto di Petrarca Io non fu’ d’amar voi lassato unquancho. Allegato III, 266 x 196 mm., di una sola carta è un estratto di una lettera adespota, indirizzata al canonico regolare lateranense Carlo Olivieri, noto esorcista ed autore del Baculus Daemonum. Essendo solo un frammento, non è semplice ricostruire il senso proprio della missiva, in cui si fa riferimento alle «tanto belle ordinazioni» e alle «tante belle regole», elaborate dal «santo istitutore», che «tendono principalmente a mantenere fra i soggetti di Congregazione [di S. Filippo Neri] il bel vincolo della carità» [recto]. La chiusa, piuttosto accesa nei toni, è un monito intorno al pericolo «che la maledetta mondana politica metta piede nelle case di S. Filippo» [verso]. Si è deciso di includere gli allegati I e II nella produzione letteraria degli Insensati perché il soggetto, la forma espositiva e la dispositio delle due lezioni petrarchesche sono parsi in perfetta continuità con gran parte dell’attività dell’accademia perugina. Per l’Allegato II è stata poi determinante la coincidenza tra la sua scrittura e quella delle lezioni elencate ai punti 3, 4, 5, 9, 26 e 27 del presente ms. Si può presumere, date le cassature e i frequenti ripensamenti, che si tratti di lezioni ancora da trascrivere in bella copia ed inserire quindi nel ms. 1717. Dall’altra parte, invece, il contenuto della lettera adespota non presenta alcun elemento che consenta di riconoscere una qualche famigliarità con la produzione letteraria dell’accademia perugina. Tuttavia, è d’obbligo segnalare che il nome del destinatario, vale a dire Carlo Olivieri,

239 compare nell’elenco fornito da Giacinto Vincioli tra quelli degli accademici Insensati.12

Ms. 1058 [N 10] Biblioteca Augusta

Libro primo delle lettioni volgari recitate publicamente nell’Accademia de gl’Insensati sotto il felicissimo reggimento dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, vescovo d’Ancona, governatore di Perugia e prencipe di detta accademia e d’altri prencipi.

Cart., ex. XVI sec., 331 x 231 mm., cc. 98, legatura coeva. La cartulazione originale procede senza interruzioni dalla c. 1 alla c. 97. Sulla prima carta di guardia, oltre al titolo, compare una spirale decorativa e sotto la firma «Cesaris Crispoltii I.V.D.», che ha valore di nota di possesso. Sul verso della stessa carta si trova la «Tavola della lettioni, ch’in questo libro primo si contengono», che restituisce, come nei successivi mss. 1059 e 1060, i titoli delle lezioni in una forma abbreviata rispetto a quella che introduce le singole lezioni. Di solito non sono specificati il nome accademico e/o l’occasione della recita. A differenza dell’effettivo contenuto del ms., nella Tavola è presentata una lezione che in realtà non vi compare: Discorso terzo del medesimo [Cesare Crispolti] sopra quelle parole di Tacito «Atque omnem potestatem ad unum conferri pacis interfuit» da Cornelius Tacitus ‘Historiae’, libro I.13 Forte è il sospetto che si tratti di un’aggiunta spuria, sia perché manca l’indicazione della carta, sia perché solo in questo caso la grafia risulta inequivocabilmente differente rispetto a quella solita di Crispolti. Risultano molto prolissi e dettagliati i titoli che si trovano ad inizio di ogni lezione. Questo è l’indice del ms.:

12 VINCIOLI, I, p. 157. 13 Le edizioni moderne recano «potentiam» invece di «potestatem» (per un confronto: P.C. TACITO, Historiarum libri, ed. by C.D. FISHER, Oxonii, e typographeo claredoniano, 19566, p. I 1).

240 1. L. BOVARINI, Lettione recitata publicamente dal signor L.B. nell’Accademia degl’Insensati nel felicissimo principato dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, vescovo di Ancona e prencipe di detta accademia. Sopra la vergogna, cc. 1r-8v.14

2. F. MARIOTTELLI, Ringratiamento fatto a i signori Accademici Insensati dal molto reverendo signor F.M. per essere egli stato aggregato nell’accademia. E si discorre in biasmo del parlare e in lode del tacere, cc. 9r-15r.

3. L. CENCI, Lettione recitata nell’Accademia degl’Insensati dall’eccellente signor L.C., dottore de l’una e l’altra legge, in espositione di quel sonetto del Coppetta che comincia ‘Mortal bellezza in questo o in quel soggetto’, cc. 15v-23r.

4. G. CORSO, Lettione recitata nell’Accademia Insensata dal molto eccellente signore G.C., dottore dell’una e l’altra legge, dove egli tratta se si può amare una cosa doppo morte, cc. 24r-31v.

5. L. SCOTTI, Discorso recitato nell’Accademia degl’Insensati dal signor L.S. in lode della bellezza, cc. 32r-35v.

6. A. GIORNI, Lettione fatta dal molto reverendo signor A.G. nell’Accademia Insensata nella sala dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, governatore di Perugia e dell’Umbra, e prencipe di detta accademia. Si tratta in questa lezione del fato, cc. 36r-42r.

7. F. LICCIOTTI, Lettione recitata nell’Accademia Insensata pubblicamente dal molto reverendo signor F.L., dove tratta della fortuna, cc. 42v-48r.

8. D. CRISPOLTI, Discorso recitato dal signor D.C. nell’Accademia degl’Insensati sopra l’impresa del signor Paolo Mancini detto il Mortificato, che è un amaranto posto nell’acqua, con il motto ‘Hic reminiscam’, cc. 48v-56v.

9. C. CRISPOLTI, Lettione recitata dall’illustrissimo e molto reverendo signor C.C., canonico e dottore de l’una e l’altra legge, chiamato l’Affascinato, nella quale lettione egli tratta del fascino, cc. 57r-63v.

14 La lezione fu poi stampata nel 1603 a Perugia. Si veda Appendice II.

241 10. C. CRISPOLTI, Lettione recitata publicamente nell’Accademia Insensata dall’illustrissimo e molto reverendo signor C.C., in tempo ch’egli era prencipe di detta accademia. Tratta in essa del sonetto, cc. 64r-69r.15

11. G. GRAZIOSI, Discorso recitato nell’Accademia Insensata dal signor G.G., detto lo Spaventato, nel quale discorso egli tratta intorno al ben fare, cc. 69v-77r.

12. G. GRAZIOSI, Discorso del sopradetto signor G.G., detto lo Spaventato, recitato pubblicamente nell’Accademia Insensata, sopra l’impresa del signor Insensato, cc. 77v-86v.

13. F. MARIOTTELLI, Discorso recitato dal molto reverendo signor F.M. nell’Accademia Insensata pubblicamente alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, prencipe di detta accademia. E si tratta in detto discorso in lode della lode, cc. 87r- 91v.

14. C. CRISPOLTI, Lettione contraria alla precedente, in biasmo della lode e in lode del biasmo, recitata publicamente dal sopradetto signor C.C., cc. 92r-97v.

Nel codice lo spazio bianco in conclusione ad ogni lezione è ornato con alcuni abbellimenti, quali spirali, vortici, abbozzi di forme geometriche ed ellittiche. Di una certa pregevolezza due disegni che compaiono in coda rispettivamente alle lezioni Del sonetto (c. 69r) e Del ben fare (c. 77r). In entrambi i casi un viso umano si trova al culmine di una figura che si distende sul foglio in maniera non dissimile da una croce. In qualche modo tale composizione ricorda la costituzione corporea, sebbene al posto delle braccia e del bacino ci siano elementi decorativi piuttosto indistinti, quali greche e piccoli drappi.

15 Come detto in § II.4.4.2, Bernard Weinberg ha fornito una moderna edizione della lezione nel quarto volume da lui curato dei Trattati di poetica e retorica nel Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1974, IV, pp. 193-205, con note alle pp. 420-421.

242 Ms. 1059 [N 11] Biblioteca Augusta

Libro secondo delle lettioni volgari recitate publicamente nell’Accademia de gl’Insensati sotto il felice reggimento del molto illustre e reverendo signor Cesare Crispolti canonico e dottore dell’una e dell’altra legge.

Cart., a cavaliere tra XVI e inizio XVII (1596-1599 gli estremi cronologici, ma buona parte delle lezioni non sono datate), 325 x 226 mm., cc. 147, bianche: cc. 96v, 137v-146v, legatura coeva. Doppia cartulazione dalla cc. 1 alla 130: quella originale procede secondo il numero delle carte; quella successiva a lapis interviene soltanto ad indicare la prima carta di ogni nuova decina (alle cc. 10r, 20r, 30r, e così via). Da c. 131 sino alla conclusione del codice, interviene un’altra mano che numera erroneamente cc. 231-246. Sulla controguardia c’è la registrazione a lapis delle carte totali del codice, di quelle timbrate e di quelle bianche. Sulla prima carta, sotto il titolo generale del manoscritto, si trova una spirale e quasi sul fondo della pagina un ‘8’ probabilmente stampato. Sul verso si legge la «Tavola delle lettioni, ch’in questo secondo libro si contengono». Di seguito è proposto l’elenco di titoli delle lezioni:

1. C. CRISPOLTI, Lettione [recitata cass.] dell’illustrissimo e molto reverendo signor C.C., canonico e dottore dell’una e l’altra legge, e recitata da lui [e…lui splin.] pubblicamente nell’Accademia Insensata, nella quale lettione si tratta del timore, cc. 1r-10r.

2. L. SCOTTI, Discorso recitato in accademia publica dal signor L.S., in biasmo della bellezza e in lode della bruttezza, cc. 10v-15v.

3. R. UBALDINI, Lettione sopra il sonetto di monsignor Della Casa, ch’incomincia ‘Doglia, che vaga donna al cor n’apporte’, recitata publicamente nell’Accademia Insensata dall’illustrissimo signor R.U., cc. 16r-24r.

243 4. R. SALVUCCI, Lettione del molto eccellente e reverendo signor R.S., dottore di theologia e canonico, detto per nome accademico il Sordo, sopra l’insensataggine, recitata da lui publicamente nel principato dell’illustrissimo signor Bartolomeo Cesis cardinale, cc. 24v-32v.

5. C. CRISPOLTI, Del sonno. Lettione del sopradetto signor C.C., recitata da lui publicamente nell’accademia, esponendo quel sonetto di monsignor Della Casa, ch’incomincia ‘O sonno, o de la queta, umida, ombrosa | notte’, cc. 33r-40v.

6. C. CARBONCHI, Della notte. Discorso recitato publicamente nell’accademia dal signor C.,16 esponendo quel sonetto del Tansillo, che comincia ‘Orrida notte, [che rinchiusa il negro]’, cc. 41r-47r.

7. L. BOVARINI, Delle gioie. Discorso recitato publicamente nell’accademia dal signor L.B, detto per nome accademico il Furioso, cc. 47v-52v.17

8. V. VENTURI, Lettione in lode del pianto del molto reverendo prelato don V.V., senese dell’ordine olivetano, recitata da lui in publica accademia, cc. 53r-66r.

9. V. VENTURI, Lettione del medesimo in lode del riso, recitata dal [lui cass.] medesimo in publica accademia e nel principato dell’illustre e molto reverendo signor Cesare Crispolti, cc. 66v-79v.

10. C. CRISPOLTI, Lettione del principe del signor C.C., recitata da lui alli 3 di maggio 1598, alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo cardinale Savello, legato di Perugia e principe dell’Accademia Insensata, cc. 80r-89r.

11. V. CRISPOLTI, Lettione dell’illustrissimo e molto reverendo signor V.C., canonico del duomo di Perugia, nella quale si tratta del consiglio, recitata nell’Accademia Insensata li 24 di maggio 1598, presente l’illustrissimo signor cardinale Savello, legato di Perugia, in Palazzo Apostolico, cc. 89v-96r.

12. G. MURTOLA, L’iride. Discorso di G.M., detto lo Scioperato, fatto nell’Academia dell’Insensati nel principio di maggio 1599, presente l’illustrissimo monsignor Malvagia, governator di Perugia, nel

16 Nel titolo viene ricordato solo il suo cognome «Carbonchio». 17 La lezione venne compresa, come la precedente Sopra la vergogna (ms. 1058), nella raccolta di Prose di Bovarini, edita a Perugia nel 1603. Si veda perciò Appendice II.

244 principato dell’eccellentissimo signor marchese della Cornia, cc. 97r- 115v.

13. V. SETA, Lettione dell’echo, fatta e recitata nell’Accademia degli Insensati da maestro V.S. veronese, reggente di Santa Maria Nuova, alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Malvagia, governator di Perugia, e dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor marchese della Corgnia, prencipe di detta accademia, cc. 116r-124v.

14. T. GIGLIOLI, Discorso sopra l’acqua, del molto eccellente signor T.G., recitato da lui in publica accademia, cc. 125r-137r.

A differenza del precedente, il presente ms. non è integralmente dovuto alla mano di Crispolti. Dalla c. 96r infatti si alternano due differenti scritture oltre a quella di Crispolti: la prima interessa la lezione Dell’iride di Murtola, la seconda, che nelle carte finali si fa più trasandata e quasi perde i suoi tratti distintivi, le ultime due dissertazioni (Dell’eco e Sopra l’acqua). Un elemento di similitudine con il precedente ms. è la decorazione, per lo più con spirali, presente negli spazi lasciati bianchi tra una lezione e l’altra.

Ms. 1060 [N 11 bis] Biblioteca Augusta

Cart., Ia decade sec. XVII, 310 x 220 mm., cc. I + 185, bianche: cc. Ir-v, IIr, IIIv, Vv, 14v, 29v, 50v, 66v, 86v, 128v, 134v-136v, 138v-181v, legatura coeva. Come nel precedente ms. la cartulazione è doppia, una originale ed una successiva. Quella autentica (cc. 1-134, senza interruzioni) numera le cc. delle lezioni degli Insensati, ma tralascia, oltre alle carte finali (bianche) che seguono l’ultima orazione accademica, anche le carte iniziali dove compaiono una serie di scritti prefatori di cui si dirà di seguito. La seconda numerazione a lapis rosso, oltre a scandire le decine come nel ms. precedente, continua la cartulazione delle singole cc. oltre l’orazione finale e contrassegna con i numeri romani le cinque carte iniziali che precedono il testo della prima lezione accademica.

245 Sulla controguardia si legge l’elenco a lapis delle carte totali del codice, di quelle timbrate e di quelle bianche. Pur in assenza del titolo generale del volume, presente nei precedenti mss., prima delle dissertazioni si trova, come di consueto, il sommario dei «Titoli de’ discorsi che si contengono in questo terzo libro» (cc. IIv-IIIr). Di seguito si legge l’elenco delle lezioni contenute nel codice:

1. C. CRISPOLTI, Del Sole. Discorso del signor C.C., canonico e dottore di leggi detto l’Affascinato, recitato da lui in publica accademia l’anno 1602 alli 20 d’ottobre, alla presenza dell’eccellentissimo signore Silvestro Aldobrandino gran priore, cc. 1r-14r.

2. G. GRISALDI, Dell’eccellentissimo signor Jacomo G., dottore di leggi, discorso sopra le tenebre, recitato in pubblica academia, cc. 15r-29r. 3. De i nei. Discorso del signor N. [signor N. spscr. a Cesare Crispolti], recitato nell’Accademia de gl’Insensati alli 10 di marzo 1602, cc. 30r- 38v.18

4. L. OLIVA, Chi più honore apporta quello che dice a quello che ascolta, che chi ascolta a quello che parla e in lode del parlare. Discorso fatto in palazzo alli 18 di ottobre 1602 dal molto reverendo signor L.O., Accademico Insensato, detto lo Scemo, presente il signor cardinale legato Bevilacqua, il signor gran priore vicelegato. Nel felicissimo principato dell’illustrissimo signor Carlo Pio, cc. 39r-50r.

5. C. CRISPOLTI, Discorso in lode della villa e in biasmo della città, fatto dal signor C.C. e recitato in publica accademia alli 20 di settembre l’anno 1600, cc. 51r-66r.

6. C. CRISPOLTI, Discorso in lode della città e in biasimo della villa del signor C.C., recitato da lui nella sala del palazzo alli 6 di dicembre 1600, alla presenza dell’illustrissimo cardinale Bevilacqua, legato dignissimo e protettore della nostra Accademia Insensata, cc. 67r-77v.

18 La «Tavola» iniziale presenta la lezione come adespota. Tuttavia, sebbene il nome sia stato volutamente depennato, ancora si riesce a leggere distintamente «Discorso del signor Cesare Crispolti». È allora possibile ipotizzare – come già accennato nel testo – che l’autore in un secondo momento abbia avuto qualche ripensamento intorno all’opportunità di affrontare un argomento sì topico, ma ancora potenzialmente sconveniente.

246 7. C. CRISPOLTI, Discorso del signor C.C. nel quale si risponde alle calunnie che si danno alla città, cc. 78r-86r.

8. S. PEZZINI, Discorso del signor S.P. sopra il volare, recitato nell’Academia de gli Insensati 1601, cc. 87r-97v. 9. Discorso sopra il bacio, cc. 98r-106v.

10. C. CRISPOLTI, Discorso del signor C.C. a favore de’ piaceri e diletti, recitato da lui ne’ tempi carnevaleschi nell’Academia degli Unisoni l’anno 1604, cc. 107r-111v.

11. C. CRISPOLTI, Della simulatione. Discorso del signor C.C., principe dell’Accademia Insensata, recitato da lui publicamente in detta accademia alli 23 di decembre l’anno 1606, presente monsignor Serega, governatore di Perugia, cc. 112r-128r.

12. F. MARIOTTELLI, Oratione fatta per l’essequie del signor Cesare Crispolti, dottor di leggi e canonico di Perugia, a gl’Accademici Insensati, sotto il principato dell’illustrissimo signor Federico abbate della Corgna il 27 d’aprile 1608, cc. 129r-134r.19

Al pari del ms. 1059, il presente codice è in larga parte scritto da Crispolti: da attribuirsi alla sua mano le cc. IIv, IVr-Vr, 1r-14r, 30r-86r, 112r- 128r. Si riconoscono poi altre 6 differenti grafie: la prima interviene soltanto nel sommario a c. IIIr per indicare l’Oratione in morte in omaggio a Crispolti; la seconda interessa due differenti lezioni (Sopra le tenebre e Sopra il volare, rispettivamente cc. 15r-29r e 87r-97v), la terza il discorso Del bacio (cc. 98r- 106v); la quarta quello A favore de’ piaceri e diletti (cc. 107r-111v), la quinta l’Oratione […] per l’essequie del signor Cesare Crispolti (cc. 129r-134r). La sesta scrittura, difficilmente leggibile, riguarda un’isolata parte del codice, posta dopo le lezioni accademiche. Vi trova spazio un breve testo in prosa, il cui titolo, in alto a sinistra, è semplicemente Bellezza (cc. 137r-138r). Questo è l’incipit: «O bellezza, luce distillata dal sole, tu sei fiore dell’influenza de’ cieli, prima dote della fortuna [...]» (137r).

19 Come già ricordato, l’orazione è stata edita da Lidia Mazzerioli nel volume ‘Raccolta delle cose segnalate’, cit.: Appendice I. Testamenti, pp. 261-268.

247 Nello spazio tra il sommario e la prima delle orazioni (cc. IVr-Vr), si legge una serie di brevi scritti degli accademici che introducono la lezione Del Sole di Crispolti. A c. IVr vi è una dedica di Cesare Crispolti «All’illustrissmo ed eccellentissimo signor e padron mio colendissimo il signor don Silvestro Aldobrandini, gran priore di Roma», che è di seguito proposta:

Il mio sole, ch’alli giorni passati osò di scoprirsi nel cielo della nostra Accademia Insensata, restò grandemente confuso dal vedersi avantaggiare da tanti chiari lumi di virtù, ch’ivi si trovavano, [e cass.] [e] massimamente da voi, eccellentissimo signore, ch’a guisa d’un sole in terra tra loro risplendevate, come l’altro in cielo in mezo de’ pianeti. Onde si haveva eletto, in pena del suo soverchio ardire, di starsene per sempre nascosto tra l’oscure nuvole del mio scrinio. Ma mutato proposito e risolutosi di mostrarsi hora di nuovo al nobile cospetto vostro, farà per aventura, ch’alcuno dica con Empedocle, che siano due soli, l’un appresso a l’altro, o co’ i nuovi professori delle cose metereologiche, che qualche nuvola disposta e proportionata, ricevendo i raggi del sole, sia specchio e imagine di lui. Voi sete qua giù in terra un vero sole, e da voi deriva nell’altro ogni suo splendore. Degnatevi dunque di gradirlo come effetto vostro e riconoscete adombrato in lui quel che voi sete. Dicono i naturali che quando si veggiono più soli, che i greci chiamano parelii, è certo presagio di copiosa pioggia; però io spero che siano per piovere gratie e favori nell’arido mio terreno, fondato non in alcuno mio merito, ma in una sincera e divota servitù e nella molta benignità di vostra eccellenza, a cui per fine, humilmente inchinandomi, prego da Dio [spscr. a Iddio] ogni maggiore essaltatione. Di Perugia li 16 di novembre 1602.

Seguono alle cc. IVv e Vr cinque componimenti latini; tre di Giovan Battista Lauri e due di Giovan Battista Vecchi. I tre testi latini di Lauri sono nell’ordine un distico elegiaco (De sole haud mirum loquitur si Caesar in astrum), una coppia di distici elegiaci (Cum tibi siderae radiant in stemmate flammae) e un epigramma di 10 vv. (Dum tener aquaeris sol Tethyos errat in undis). Quest’ultimo componimento è designato dall’autore come «logogriphus». Qui la maestria di Lauri poeta latino si dimostra appieno, non solo nell’intitolazione del testo («Silvester Aldobrandinus | venturis erit sol alter in annis»), ma anche nella creazione

248 al v. 7 di un perfetto esametro latino con il logogrifo dell’indirizzario della lode: «venturis sol alter erit Silvester in annis». Le liriche latine di Vecchi sono un epigramma di 6 vv. (Te Caesar docto celebrat sermone per orbem) e un epodo giambico (distici di trimetri e dimetri giambici: Es docte Caesar, Caesar ipso clarior). Le cinque liriche celebrano sia Silvestro Aldobrandini sia Cesare Crispolti e la sua orazione. Da ultimo, è doveroso segnalare la presenza nel codice di un singolo foglio non legato e di formato decisamente più piccolo rispetto a quello del ms., collocato sopra la c. IIIr. In esso è scritto un sonetto di Giovan Battista Marino Negra sì, ma sei bella, o di natura, che compare tra i componimenti della Lira III del 1614.20 Si è deciso di proporre l’edizione del sonetto:

Per una schiava nera caramente amata dal suo signiore

Negra sì, ma sei bella, o di natura tra le belle d’Amor, legiadro mostro, fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura presso l’ebano tuo, l’avorio e l’ostro.

Hor dove, hor quando, il mondo antico o ’l nostro vidde sì viva mai, senti sì [spscr. a più] pura o luce uscir di tenebroso inchiostro, o di spento carbon nascere arzura?

Servo di chi mi è serva, ecco che avolto porto di bruno laccio il core intorno che per candida man non fia disciolto:

là dove nasci o sol, sol per tuo scorno un sole è nato; un sol, che nel bel volto porta la notte21, e ha ne gli occhi il giorno.

20 Ne tratta L. SACCHINI, Da Francesco Petrarca a Giovan Battista Marino: l’Accademia degli Insensati di Perugia (1561-1608), contributo che si legge negli atti dell’Italian Academies International Conference British Library, London September 17-18, 2012, i.c.s. 21 «Notte» è soprascritto a «morte»; tuttavia è ancora chiaramente leggibile. L’impressione che se ne riceve è che il copista – pur avendo voluto correggere la precedente lezione – abbia comunque inteso mantenere la sostanziale adiaforia tra le due varianti.

249 Ms. di imprese accademiche degli Insensati Archivio Storico dell’Università di Perugia, parte III, n.n.

Cart., ex. XVI secolo, 240 x 175 mm., cc. I + 86 + II; numerose le cc. bianche, che si sono ricostruite [1v]-[2v], [3v]-[4v], [5v]-[6v], [7v]-[8v], [9v]- [10v], [11v]-[12v], [13v]-[14v], [15v]-[16v], [17v]-[18v], [19v]-[20v], [21v], [22v], [23v]-[24v], [25v]-[26v], [27v]-[28v], [29v]-[30v], [31v]-[32v], [33v]- [34v], [35v]-[36v], [37v]-[38v], [39v]-[40v], [41v]-[42v], [43v]-[44v], [45v]- [46v], [47v]-[48v], [49v]-[50v], [51v]-[52v], [53v]-[54v], [55v]-[56v], [57v], [58v]-[59v], [60v]-[61v], [62v]-[63v], [64v]-[65v], [66v]-[67v], [68v]-[69v], [70v]-[71v], [72v]-[73v], [74v]-[75v], [76v]-[77v], [78v]-[79v], [80v]-[81v], [82v]-[83v], [84v]-[86v]. Come si può notare, tranne in rari casi, ogni bifolio reca un’impresa disegnata sul recto della prima carta. La legatura è originale. Il volume non è propriamente inventariato: è nota la sua appartenenza alla parte III dell’Archivio Storico dell’Università di Perugia

(ASUPG, p. III), ma non è data l’esatta collocazione all’interno di questa sezione. Il manoscritto non mostra alcuna cartulazione, ma risultano numerate le singole imprese, con le eccezioni delle imprese del Desioso (la 16a, ma i margini sono corrosi), del Debole [23a], dello Stracco [24a], del Rapito [25a], del Forsennato [28a], dell’Incantato [30a], del Rugginoso [31a], dell’Affascinato [34a]. Il codice è aperto dall’impresa generale dell’Accademia degli Insensati, seguita dalle 43 imprese dei vari membri: dell’Intricato; dell’Oppresso; del Furioso; dello Svogliato; dell’Insensato; dello Spensierato; dello Smemorato; del Rozo; del Mortificato; dell’Ofuscato; del Traviato; dell’Immobile; dello Stupido; dello Svanito; del Desioso; del Tramortito; del Sonnacchioso; del Balordo; del Sordo; del Confuso; dell’Affamato; del Debole; del Languido; dello Stracco; del Rapito; dell’Asetato; del Forsennato; del Ruvido; dell’Incantato; del Rugginoso; dell’Estatico; del Materiale; dell’Affascinato; dello Smarrito; del Cieco; dell’Astratto; dello Stolido; del Vano; dell’Assiderato; dell’Ingordo; del Sospeso; del Frenetico. Prima dell’impresa del Frenetico ve n’è una anonima: in essa è rappresentata una lucertola, forse un basilisco, con in bocca una penna di struzzo.

250 Ogni immagine è divisa in due parti: in quella superiore è raffigurata l’impresa con il motto; in quella inferiore è collocato uno spazio bianco in cui nella maggioranza dei casi è presente un testo. In esso si illustrano, attraverso lo svelamento della simbologia della stessa impresa, le intenzioni del singolo accademico. Tra l’impresa e il breve scritto, oppure sotto quest’ultimo, è posto lo stemma della casata dell’accademico, che ne aiuta l’identificazione. Tutti gli elementi sinora menzionati sono inseriti in una sfarzosa e ricca impalcatura architettonica, dal carattere puramente decorativo. Ad eccezione di quella dello Stupido, del Sonnacchioso, dell’Affamato, del Debole e dell’Astratto, dove un colore marrone crea un leggero contrasto con il nero della trama ornamentale, le insegne sono di norma monocolori. I testi che di solito le accompagnano hanno una struttura varia: nella maggioranza dei casi sono delle ottave, più raramente sono brevi composizioni in prosa. Nell’insegna dell’anonimo, del Mortificato, del Traviato, del Balordo, del Languido, dello Stracco, del Rapito, del Forsennato, del Ruvido, dell’Incantato, del Rugginoso, dell’Estatico, dello Stolido, del Vano, lo spazio riservato al testo è lasciato bianco. Si riconosce un’unica grafia per tutte le imprese con l’eccezione della sedicesima (del Desioso) che differisce dalle altre anche per il formato della pagina, leggermente più ampio (270 x 190 mm.).

Manoscritti conservati a Trieste

Ms. Petr. I 49 Biblioteca Attilio Hortis

Cart., sec. XVI, 288 x 215 mm., cc. I + 8 + II, bianche: c. 256v, non legato. Cartulazione originale, senza interruzioni: cc. 256-263. Il quaderno contiene la Lettione sopra il sonetto del Petrarca ‘Lieti fiori e felici e ben nate erbe’ del Sordo (canonico Rubino Salvucci) letta

251 nell’Academia de gli Insensati [del Sordo spscr. a dello Svogliato; entrambe le lezioni poi cass.22]. Accanto alla solita scrittura ottocentesca che, come nel ms. 1717, interviene a determinare l’identità dell’accademico, si riconosce nel presente ms. un’unica grafia. Il foglio di guardia, di formato leggermente minore, reca quasi all’altezza del margine superiore sinistro la lettera maiuscola C. Questa testimonia l’attinenza del manoscritto con le carte donate al triestino Domenico Rossetti per la sua raccolta petrarchesca. Infatti Rossetti, catalogando nel suo Inventario il materiale degli Insensati in suo possesso, pone sotto la lettera C unicamente questa lezione.23 L’originaria collocazione del codice si chiarisce alla luce delle considerazioni sul ms. Petr. I 53, cui si rimanda.

Ms. Petr. I 50 Biblioteca Attilio Hortis

Cart., sec. XVI, 285 x 213 mm., cc. I + 12 + II, bianche: c. [12v], non legato. Le carte non sono numerate. Contiene un’unica lezione accademica adespota sul sonetto petrarchesco I begli occhi ond’i’ fui percosso in guisa. Il sottotitolo si legge alquanto male: Letta ne l’Accademia de gl’Insensati il dì 7 di maggio h. 20 m. 10. Lo stesso componimento era già stato discusso nella dissertazione presente nel primo allegato del ms. 1717: le due esercitazioni risultano comunque del tutto indipendenti. La prima carta è stata tagliata nella parte superiore: si legge soltanto «degli Accademici Insensati», ma la presenza di alcune lettere spezzate poste proprio all’altezza del margine superiore fanno presupporre che forse siano andate perdute l’intestazione e l’indicazione autoriale. Nella carta

22 Risulta chiaro dalle correzioni che in origine la presente Lettione era stata attribuita allo Svogliato («dello Svogliato») e che successivamente la seconda ‘l’ di «dello» sia stata trasformata nella ‘S’ di Sordo, così da ottenere «del Sordo». 23 D. ROSSETTI, Inventario dei manoscritti degli Accademici Insensati di Perugia, BHT, ms. senza segnatura, citato in ZAMPONI, I manoscritti petrarcheschi, cit., pp. 156-157: 156.

252 iniziale del testo della lezione si legge in alto in posizione centrale una ‘E’ maiuscola, che testimonia la presenza di questa lezione nell’Inventario di Rossetti.24

Ms. Petr. I 53 Biblioteca Attilio Hortis

Cart., sec. XVI, 288 x 215 mm., cc. I + 132 + II, bianche: cc. 234v, 242v, 248v, 288r-289v, 297r, 300r-v, 301r-v, 317v, *81v-*82r, *109v, *110v, *121v, *131v-*132v, non legato. Doppia è la cartulazione: originale con interruzioni (cc. 234-255; 264-323) che si esaurisce alla c. 323, e lascia senza numerazione le cc. successive (ossia le cc. *81-*132 della seconda numerazione); ed una successiva, a lapis, che procede senza interruzioni dalla c. 1 sino alla conclusione del codice, c. 132. Come è stato già rilevato da Stefano Zamponi, gli intervalli nella successione delle carte della prima numerazione consentono di collocare il ms. Petr. I 49 tra le cc. 255 e 264 del presente manoscritto, così da restituire la forma originale del codice.25 Non solo: la cartulazione consente di appurare l’originale posizione del gruppo mss. Petr. I 49, I 53 all’interno del ms. perugino 1717. Il primo intervallo nella cartulazione del ms. 1717 (cc. 227-324) può essere infatti quasi completamente colmato dalle cc. 234-323 dei due mss. triestini. Considerata dunque l’importanza della cartulazione originaria, si è deciso di mantenerla e di utilizzare quella successiva soltanto dove la prima è assente. Onde evitare fraintendimenti nella giusta successione delle cc., si è deciso di far precedere un asterisco (*) al numero della c. identificata dalla cartulazione posteriore. Gli autori delle lezioni sono Ottaviano Aureli lo Svogliato e Contolo Contoli l’Insensato. A differenza delle nove dissertazioni di Aureli, che

24 ZAMPONI, I manoscritti petrarcheschi, cit., p. 157. 25 ZAMPONI, I manoscritti petrarcheschi, cit., p. 120.

253 risultano tutte opera della stessa mano, e sono dunque presumibilmente autografe, le lezioni di Contoli presentano tre differenti scritture.26 Si ricostruisce l’indice del manoscritto:

1. [O. AURELI], Lettura sopra ’l sonetto del Petrarca ‘Qual ventura mi fu, quando da l’uno’, dello Svogliato, cc. 234r-241v.27

2. [O. AURELI], [Ex cass.] Lettione sopra il sonetto del Petrarca ‘Dodici donne onestamente lasse’, dello Svogliato, cc. 242r-247v.28

3. [O. AURELI], Lettura sopra il sonetto del Petrarca ‘Padre del ciel, dopo i perduti giorni’, dello Svogliato. Letta nell’Academia de gli Insensati, cc. 248r-255v.

4. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta da lui nell’Academia degli Insensati il dì 11 di decembre 1575. Sopra il sonetto ‘Io vo piangendo i miei passati tempi’, cc. 264r-279v. 29

5. [O. AURELI], L’ultima domenica di aprile 1569 a dì 24. Lettione dello Svogliato letta nell’Academia de gli Insensati, sopra il sonetto ‘Fuggendo la prigione [ove Amor m’ebbe]’, cc. 280r-287v.30

6. [O. AURELI], Sonetto dell’Insensato (cioè Claudio Contoli) [‘Santa, saggia, leggiadra, onesta e bella’], letto dallo Svogliato nell’Academia de gli Insensati, cc. 290r-297r.31

7. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta nell’Academia degli Insensati [sopra il sonetto del Petrarca ‘Laura che ’l verde lauro e l’aureo crine’], cc. 302r-315v.32

26 Diversamente Zamponi definisce «autografe» tutte le lezioni contenute nel presente manoscritto, riconoscendo perciò soltanto due scritture (I manoscritti petrarcheschi, cit., p. 123). 27 Un segno grafico non identificabile, simile ad una «R», segue l’incipit del sonetto. Sotto il titolo della lezione è scritto «Non letta», ma nel margine inferiore, sulla sinistra, è visibile «Letta dal Debile». 28 All’altezza del margine inferiore sinistro compare la scritta «Letta dallo Svanito». 29 «Sopra ... tempi»: in carattere minore, di un’altra mano rispetto a quella che scrive titolo e lezione. La scrittura sembra essere comunque tardo cinquecentesca. 30 «Sopra...prigione»: si veda nota precedente. 31 La posteriore indicazione autoriale viene opportunamente smentita da un’altra mano ottocentesca che così commenta in sopralinea: «veramente è Contulo Contuli». Il sonetto in questione non è un centone petrarchesco, sebbene il suo incipit sia un verso del Canzoniere: Rvf 247, v. 3. 32 Sopra il titolo compare una B in carattere maiuscolo che indica la posizione della lezione nell’Inventario di Rossetti. Alla lettera B compaiono le nove lezioni di Ottaviano Aureli

254 8. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato nell’Academia Insensata [sopra il sonetto del Petrarca ‘Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno’], cc. 316r-317r.33

9. [O. AURELI], Lettione dello Svogliato letta nell’Academia de gli Insensati [sopra il sonetto del Petrarca ‘Quel sempre acerbo e onorato giorno’], cc. 318r-323v.

10. C. CONTOLI, Lettione di C.C. Academico Insensato perugino sopra il sonetto del Petrarca ‘Amor che ’ncende il cor d’ardente zelo’, cc. *81r- *109r.34

11. [C. CONTOLI], Lettione dell’Insensato sopra il sonetto del Petrarca ‘O d’ardente virtute ornata e calda’, letta nell’Accademia degli Insensati il dì 24 di giugno 1565, cc. *111r-*120v.35

12. [C. CONTOLI], Lettione dell’Insensato (C.C.) letta publicamente nella academia il dì 5 di luglio 1571, sopra il sonetto del Petrarca ‘Amor io fallo e veggio il mio fallire’, cc. *121r-*131r.36

Nello spazio tra la decima e l’undicesima lezione (c. 110r) si legge una lirica anonima, da ricondursi con tutta probabilità alla prima produzione letteraria in versi dell’accademia. Essendo alquanto rare le testimonianze di produzione lirica della prima fase degli Insensati, ed essendo il testo sconosciuto, si è deciso di darne l’edizione:

Pallida donna in habito succinto, di color qual è ’l ciel quand’è sereno, m’apparve e disse: «a che ti viene hor meno, contenute nel presente ms., definito per errore l’accademico «Svegliato» (ZAMPONI, I manoscritti petrarcheschi, cit., p. 156). 33 Sulla sinistra del sonetto, citato per intero nella prima facciata della lezione, si riconosce un numero («11») seguito da una linea obliqua. 34 Il testo della lezione inizia a c. 83r; a c. 82v si leggono 7 righe scritte da un’altra mano, con ogni probabilità coeva. Sopra il titolo compare la lettera C in carattere maiuscolo; sotto, il numero 198. A differenza degli altri casi, la lettera qui non è stata apposta da Rossetti, il quale aveva catalogato le lezioni di Contoli sotto la lettera ‘A’ (ZAMPONI, I manoscritti petrarcheschi, cit., p. 156). 35 Sopra il titolo compare la lettera ‘D’ in carattere maiuscolo; sotto il numero 198. Come nel caso precedente, non torna la corrispondenza con l’Inventario rossettiano, dove alla lettera D sono elencate le lezioni del perugino Gregorio Anastagi, contenute nel ms. Petr. I 55 della medesima biblioteca triestina. Sotto il sonetto compare l’indicazione della data in cui è stata recitata la lezione: «Letta nell’Accademia degli Insensati il dì 24 di giugno 1565». 36 Sopra il titolo compare la lettera ‘F’ in carattere maiuscolo; sotto il numero 373. Si vedano le considerazioni fatte nelle due note precedenti.

255 misero, onde ne sei sì macro e spinto?».

«Gelosia» rispos’io, «donna, m’ha vinto». «Io!», soggiuns’ella, «o pien d’error che ’l seno apri col vulgo sciocco al mio veleno, ch’altro spesso non è ch’un pensier finto.

Ti consiglio a lasciar sì folle impresa, ché si la donna tua t’ama e t’adora, hor può ingombrargli altro pensier il petto.

Ma se di te non cura la diffesa, doglioso,37 è vana; e a che prender diletto, morir bramando, chi ti fugge ogni hora?».

Ms. Petr. I 60 Biblioteca Attilio Hortis

Cart., 1594, 267 x 200 mm., cc. 36, bianche: cc. 35v-36v, non legato. Numerazione a lapis, non originale, senza interruzioni. Vi è contenuta una dissertazione accademica: Lettione di Contolo Contoli dell’Accademia degli Insensati, detto lo Insensato, letta da lui publicamente nel Palazzo Apostolico in Perugia alla presenza dell’illustrissimo e reverendo monsignor Carlo Conti, barone romano, vescovo di Ancona, della città di Perugia e Provincia dell’Umbria, generale governatore e prencipe dell’academia, il dì 20 di Novembre 1594. La lezione ha come oggetto il sonetto di Petrarca Che fai, alma? che pensi? avrem mai pace? Il titolo riportato è scritto nella coperta, ed è di nuovo ripetuto nella prima carta del testo con qualche minima variazione [1r]. Si riconosce un’unica mano.

37 «Doglioso», come «spesso» del v. 8, è sottolineato.

256 Appendice II. Le stampe degli Accademici Insensati

1. La selezione del corpus

Nel momento di stilare l’elenco delle opere a stampa dell’accademia, è stato necessario trovare un criterio sicuro che potesse determinare l'iscrizione della singola opera al corpus degli Accademici Insensati. Si è perciò stabilito di ricorrere alla presenza (o assenza) nel frontespizio della (auto)qualifica dell’autore quale «Accademico Insensato». La decisione è stata votata al rispetto della chiara volontà dell’associato di definirsi appartenente all’accademia. Si può senz’altro obiettare che la sola esibizione della patente di «Insensato» non sia in realtà sufficiente per considerare un’opera di responsabilità collettiva del sodalizio. Ma qui tale assunto non è implicato: non è messa in discussione l’autorialità dell’opera, specialmente quando viene manifestatamente esibita dal singolo accademico (come accade nella stragrande maggioranza dei casi). Nondimeno l’autodefinizione di Insensato sancisce un legame inequivocabile tra l’autore dell’opera e l’accademia e risulta di norma tutt’altro che irrilevante. Assai di frequente, infatti, si accompagna ad almeno uno dei tre seguenti fattori, che possono aiutare a rilevare il diverso grado di pertinenza dell’opera all’attività accademica:

I. la rappresentazione (nel frontespizio, nelle pagine di guardia o in conclusione della dedica) dell’impresa delle gru insensate o del singolo accademico. II. l’inserimento di uno o più componimenti in prosa o in poesia degli altri membri. Si possono avere: a. dediche firmate dall’intero consesso degli Insensati o da almeno da un altro socio accademico. b. composizioni poetiche degli altri associati. Si può trattare di rime in lode dell’autore o dell’opera, poste di solito nelle

257 pagine seguenti la dedica, ovvero, per le sillogi poetiche, di sonetti di scambio. c. lettere firmate dagli altri soci. III. l’esplicitazione del legame con l’accademia, attraverso a. il ricordo della effettiva occasione della recita della lezione. b. la testimonianza del momento dell’aggregazione in accademia. c. il riferimento all’attività svolta dal singolo associato in accademia o dall’intero sodalizio.

2. Elenco delle opere a stampa degli Accademici Insensati

Nell’elenco che qui si propone, i frontespizi delle opere sono pertanto seguiti da un numero romano [I, II e/o III], posto tra parentesi quadre, che interviene quando si riscontrano nella detta opera uno o più dei tre elementi appena esposti. Analogamente, sotto la trascrizione dei singoli frontespizi delle opere accademiche vengono fornite l’indicazione di eventuali ristampe o edizioni (antiche e moderne) e la collocazione dell’esemplare consultato nel caso di opere estremamente rare.

1. S. ODDI, I morti vivi. Comedia del molto eccellente signore S. d’O., nell’Accademia degli Insensati detto il Forsennato, in Perugia, ad istantia di m. Luciano Pasini per Baldo Salviani, 1576. [I, II] Altre edizioni: in Venetia, appresso Gio. Battista Sessa e fratelli, 1578; presso il medesimo editore, 1582; in Venetia, appresso B. Carampello, 1595; in Venetia, appresso Lucio Spineda, 1602; in Venetia, appresso li Sessa, 1605; in Firenze, nella stamperia de’ Giunti, 1608. I morti vivi vennero ristampati anche in combinazione con le altre opere del

medesimo autore: S. ODDI, Comedie del signor S. degl’O., cioè ‘Il duello d’Amore e di Amicitia’, ‘Li morti vivi’ e ‘La prigione d’Amore. Di nuovo con diligentia ristampate, in Vinegia, presso Gio. Battista e Gio. Bernardo Sessa, 1597.

258 La commedia I morti vivi è stata di recente edita in S. ODDI, Commedie:

‘L’erofilomachia’, ‘I morti vivi’, ‘Prigione d’amore’, a c. di A.R. RATI, Perugia, Morlacchi, 2011 (pp. 311-467).

2. [A. CIBI], Conclusioni morali del Traviato Insensato, le quali si disputeranno in publica Academia de gl’Insensati li 2 di febraio 1578, in Perugia, appresso Pietrogiacomo Petrucci, 1578. [I, III] Collocazione: Biblioteca Statale di Cremona, Ingr. F. 2. 3./1.

3. A. ORSI, A. Ursus Accademicus Insensatus. De bello belgico. Ad Alexandrum Farnesium serenissimum Parmae et Placentiae principem, Perusiae, ex typographia Andreae Brixiani, 1586. [II] Il De bello belgico di Orsi venne ristampato nel 1606 nei Carmina degli Accademici Insensati (numero 35 dell’elenco).

4. G.L. LUNGO, Discorso matematico del signor G.L.L. piemontese, cittadino e Accademico Insensato di Perugia, detto il Concentrato. All’illustrissimo signor Federico San Giorgio, cavalier e commendatore dell’ordine gerosolimitano, capitano generale della città e dominio di Mantova, in Mantova, per Francesco Osanna stampator ducale, 1588. Collocazione: Museo Galileo (Firenze), GDA 037.

Il Discorso è presente anche in forma manoscritta nel codice BAP, 1717, cc. 430r-440r.

5. [F. MASSINI], Lettioni dell’Estatico Insensato, recitate da lui publicamente in diversi tempi nell’Academia de gli Insensati di Perugia. Nuovamente poste in luce, in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1588. [I, II, III] Comprende al suo interno Della difesa del Petrarca intorno all’oppositioni fatteli dal Castelvetro nel suo comento della ‘Poetica’ d’Aristotele. Lettione dell’Estatico Insensato, recitata da lui publicamente nella academia il dì 25 d’agosto 1582, nel reggimento dell’eccellente signor Pier’Antonio Ghiberti, detto lo Spensierato, pp. 1- 38; Della contemplatione dell’huomo estatico. Lettione dell’Estatico Insensato, recitata da lui publicamente nell’Academia de gl’Insensati di Perugia il 17 di gennaio 1585, interpretando il sonetto di monsignor Guidiccioni ‘Avvencianci a morir, se proprio è morte’ nel reggimento

259 dell’eccellente signor Ottaviano Platoni, detto lo Smemorato, in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1588, pp. 39-91; Della conversione dell’huomo a Dio. Lettione dell’Estatico Insensato, recitata da lui publicamente nell’Academia de gl’Insensati di Perugia, alla presenza del molto illustre e reverendissimo monsignor Pelicano, allora governatore di Perugia e dell’Umbria, il dì 30 di agosto 1587, interpretando il sonetto di monsignor Guidiccioni ‘Traggiti a più bel rio l’ardente sete’ nel reggimento del molto illustre signor Paolo Emilio Santori, detto l’Assiderato, in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1588, pp. 93-146; Del madrigale, lettione dell’Estatico Insensato, recitata da lui publicamente nell’Academia de gl’Insensati di Perugia il dì 28 d’aprile 1581, nel reggimento dell’eccellente signor Bastiano Amerighi, detto il Bizzarro, in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1588, pp. 147-185. Come si può notare, ad eccezione della prima, le altre lezioni riportano nel frontespizio luogo, editore e anno di stampa. Non risulta però che le singole dissertazioni siano state stampate singolarmente. La prima lezione Della difesa del Petrarca è conservata manoscritta nella Biblioteca Comunale di Siena (ms. G VII 51). La lezione Del madrigale è stata edita a cura di Giuseppe Fanelli:

F. MASSINI, Il madrigale, Urbino, Argalìa, 1986.

6. [F. MASSINI], Canzone dell'Estatico Insensato in lode della santissima Casa Lauretana. Al molto illustre e reverendissimo monsignor Fulvio Paolucci governatore della città di Loreto, a Fermo, presso Sertorio de' Monti, 1592. Altre edizioni: in Perugia, per Vincentio Colombara herede d'Andrea Bresciano, 1595; in Fermo, [s.t.], 1597; in Pavia, per gli heredi di Gierolamo Bartoli, 1598.

7. V. CRISPOLTI, Oratione del signor V.C., Academico Insensato di Perugia, in morte dell’illustrissimo signor Giulio Farnese, prencipe di detta academia, in Venetia, appresso i Gioliti, 1592. Collocazione: Perugia, Biblioteca Augusta, I L 573.

8. [N. DEGLI ODDI], In lode del revendissimo padre don Placido Fava, abate generale meritissimo della congregatione di Mont’Oliveto, canzone del

260 Solo Accademico Insensato, in Siena, nella stamperia di Luca Bonetti, 1596. Collocazione: Perugia, Biblioteca Augusta, I I 2519/I.

9. V. VENTURI, Conclusioni diverse di don V.V. da Siena, Academico Insensato detto il Velato, le quali si disputeranno in publica Academia de gl’Insensati, sotto il felice reggimento dell’illustre signor Cesare Crispolti, li e li [sic] di agosto 1597, hore [ _ ], in Perugia, appresso Pietroiacomo Petrucci, 1597. [III] Collocazione: Perugia, Biblioteca Augusta, I I 1847/1.

10. F. MARIOTTELLI, Invettiva del Sommerso Insensato agli Academici Insensati di Perugia. Recitata per dimostrare che non sia bene lo stampar le compositioni academiche. Sotto il felice principato dell’illustre signor Cesare Crispolti, in Perugia, appresso Vincentio Colombara erede d’Andrea Bresciano, 1597. [I, II, III] Collocazione: Roma, Biblioteca Angelica, C.5.43/21.

11. [F. MASSINI], La villa. Canzone dell’Estatico Academico Intento al molto illustre signor don Giuseppe Salimbeni, commendatore di San Lazzaro, in Pavia, per gli heredi di Gierolamo Bartoli, 1598. Collocazione: Pavia, Biblioteca Universitaria, MISC.TIC. T. 12 n. 12.

12. G. MURTOLA, G.M. Academici Insensati Ianus, sive foelix ineuntis anni auspicatio. Ad illustrissimum et reverendissimum cardinalem Sylvium Sabellum Perusiae et totius Umbriae legatum, Perusiae, ex typographia Vincentii Columbarii Andreae Brixiani heredis, 1598.

13. [F. MASSINI], [C. BOSSI], Lucherino, madrigali dell’Estatico e Farnetico Academici Intenti. All’illustrissimo signor Lodovico abbate Sforza, in Pavia, per gli heredi di Gierolamo Bartoli, [s.d.]. Presumibilmente stampato nel 1599, come si può dedurre dalla dedica. Collocazione: Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, XX. 16. 0023/01. Altre edizioni: in Pavia, appresso Pietro Bartoli, 1603.

14. G. MURTOLA, Gli occhi d’Argo. Cento madrigali del signor G.M., detto lo Scioperato nella Academia dell’Insensati e consigliero trionfante nello

261 Studio di Perugia. All’illustrissimo ed eccellentissimo signore, il signor Ascanio Della Corgnia, marchese di Castiglione, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1599. [III] Altre edizioni: in Venetia, Gasparo Ruspa, 1601; in Venetia, appresso Roberto Meglietti, 1603 (dove non compare più la qualifica di Insensato, segno evidente che le ambizioni di Murtola nel giro di pochi anni si mossero in altre direzioni).

15. B. ZUCCHI, Lettere di B.Z. da Monza, l’Internato Academico Insensato di Perugia, in Venetia, presso la Minima Compagnia, 1599. [II] Altre edizioni: in Milano, per l'herede del quondam Pacifico Pontio e Gio. Battista Piccaglia compagni, 1602 (senza più la qualifica di Internato Insensato).

16. F. ALBERTI, Canzone di F.A. Academico Insensato in lode di Nostro Signore Clemente VIII, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1600.

17. B. ZUCCHI, L’idea del segretario dal signore B.Z. da Monza Academico Insensato di Perugia rappresentata e in un ‘Trattato de l’imitatione’ e ne le lettere di principi e d’altri signori, in Vinetia, presso la Compagnia Minima, 1600. [II] Altre edizioni: presso il medesimo editore, 1606. Zucchi poi nel 1614 aggiunse I complimenti del signore Bartolomeo Zucchi da Monza città imperiale. Parte quinta dell’Idea del segretario. Ecci un indice de’ generi delle lettere, in Vinetia, appresso Pietro Dusinelli, 1614.

18. G. MURTOLA, La fascia. Canzone del signor G.M., detto lo Scioperato Insensato, per lo nascimento della signora Anna Maria Murtola. All’illustrissimo signor, il signor Honofrio Santacroce, in Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1601. Collocazione: Biblioteca Nazionale Centrale (Firenze), Palat. (11).C.9.5.5./15.c.

19. G. MURTOLA, Dei lirici del signor G.M., detto lo Scioperato Insensato. Parte prima e seconda. All’illustrissimo e reverendissimo signor, monsignor Melchiorre Crescentio, chierico di camera. Di nuovo posti in luce, in Venetia, ad instanza di Gasparo Ruspa, 1601.

262 20. F. ALBERTI, Rime di F.A., nell’Academia de gli Insensati di Perugia detto lo Stracco. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio della Cornia, marchese di Castiglione, etc., in Venetia, presso Gio. Bat. Ciotti, 1602. [II] Altre edizioni: in Roma, appresso Guglielmo Facciotto, 1602; in Venetia, presso Gio. Bat. Ciotti sanese. All’insegna dell’Aurora, 1603. Le edizioni veneziane sono identiche; quella romana si distingue per la presenza di un numero esiguo di componimenti diversi.

21. L. BOVARINI, Rime del signor L.B., il Furioso Academico Insensato di Perugia. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor marchese don Alfonso d’Este, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1602. [I, II]

22. L. BOVARINI, Del tempo, lettione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato di Perugia. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor marchese don Alfonso d’Este, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II, III]

23. L. BOVARINI, Del moto, lettione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato, recitata da lui publicamente nell’Academia de gli Insensati il dì 25 di aprile 1602, esponendo il sonetto del signor Francesco Coppetta, ‘Questo che ’l tedio onde la vita è piena’. All’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale Bevilacqua, legato di Perugia, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II, III]

24. L. BOVARINI, Della vergogna, lettione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato di Perugia, recitata da lui publicamente nell’Academia de gli Insensati il dì 14 di gennaio 1595, nel reggimento dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor Carlo Conti, allhora governatore di Perugia. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio della Corgna, marchese di Castiglione, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II]

La lezione è compresa nel codice BAP, 1058, cc. 1r-8v.

25. L. BOVARINI, Delle gemme, discorso del signor L.B., il Furioso Academico Insensato, fatto da lui in publica Academia de gli Insensati il dì 25 d’agosto 1596, nel reggimento del molto illustre e reverendo signor

263 Cesare Crispolti. All’illustrissimo signor Carlo Pio, prencipe di detta academia, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II, III] La medesima dissertazione, pur con un titolo differente (Delle gioie),

è presente nel manoscritto BAP, 1059, cc. 47v-52v.

26. L. BOVARINI, Del silentio opportuno, oratione del signor L.B., il Furioso Academico Insensato, fatta da esso nel passaggio della corte papale per l’Umbria. All’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale di Santa Cicilia, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II, III]

27. L. BOVARINI, Prose del signor L.B., il Furioso Insensato Academico perugino. Nuovamente stampate e con diligenza corrette, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II, III] L’opera comprende al suo interno le cinque precedenti lezioni, disposte secondo il seguente ordine: Del silentio opportuno; Delle gemme; Della vergogna; Del tempo; Del moto. A differenza del caso delle Lettioni di Massini, qui ogni dissertazione venne prima stampata autonomamente e in un secondo momento raccolta insieme alle altre. Lo stampatore infatti precisava: «molti signori dell’Academia Insensata di Perugia mi hanno fatto stampare separatamente alcuni discorsi del signor Leandro Bovarini, gentilhuomo perugino, e io, per fare che ’l mondo possa godergli con più satisfatione e più compitamente, gli ho raccolti tutti nel presente volume» [c. †1v].

28. L. BOVARINI, Prose e Rime del signor L.B. il Furioso Insensato Academico perugino. Nuovamente stampate e con diligenza corrette, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1603. [I, II, III] Collocazione: Biblioteca Augusta (Perugia), I N 53. Le Prose e Rime di Bovarini raccolgono insieme le opere ai numeri 21 e 27 senza alcuna modifica.

29. M.A. BONCIARI, M.A.B. Perusini Academici Insensati, epistolae ad reverendissimum Neapolionem Comitolum Perusiae episcopum, Perusiae, typis Petri Iacobi Petrutii, impensis Marci Naccarini, 1603. [II, III]

264 Ristampate con aggiornamenti (Editio secunda recita infatti il frontespizio) l’anno successivo: Marpurgi Cattorum, typis Pauli Egenolphi, typogr. Acad., 1604.

30. C. CAPORALI, Vita di Mecenate di C.C., nell’Accademia de gli Insensati di Perugia detto lo Stemperato. All’illustrissimo ed eccellentissimo signore Ascanio della Corgna, marchese di Castiglione, in Venezia, presso Gio. Battista Strozzi, 1604. Senza alcuna pretesa di esaustività – data le complesse vicende editoriali delle opere di Caporali – si rileva che nel solo 1604, l’opera venne stampata in Modona [sic], per Francesco Gadaldino stampator ducale, 1604; in Milano, per Gratiadio Ferioli, ad istanza di Gio. Iacomo Como, 1604; in Venetia, presso Gio. Batt. Ciotti, 1604 (con l’aggiunta degli Horti di Mecenate in Parma, nella stamperia di Erasmo Viotti, 1604). Si è già ricordato (in § II.4.4.2) che le dette pubblicazioni sono postume.

31. C. CRISPOLTI, Idea dello scolare che versa negli studi affine di prendere il grado del dottorato, del signor C.C. perugino, canonico e dottore, Academico Insensato. Ove dichiarandosi con molte allegorie e varii significati quello ch’importino l’insegne, che si soglion dare nel dottorato, si dimostrano le parti e conditioni che dee havere il dottore. All’illustrissimo e reverendissimo signor cardinal San Cesareo, in Perugia, per Vincentio Colombara, 1604. Il testo è stato edito per le cure di Elisabetta Patrizi nel suo volume La trattatistica educativa tra Rinascimento e Controriforma. L’‘Idea dello scolare’ di Cesare Crispolti, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, pp. 187-355.

32. [G.T. GIGLIOLI], Discorso accademico in forma di panegirico, fatto e recitato in publica Academia degl’Insensati, alla presenza dell’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale Bevilacqua, legato di Perugia e dell’Umbria, dal Distratto Academico Insensato. Nella morte dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor Ascanio marchese della Corgna. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor Fulvio della

265 Corgna, marchese di Castiglione, ecc. Sotto il prencipato del molto illustre signor Cesare Crispolti, canonico e dottor di leggi, in Perugia, appresso gli Accademici Augusti, 1605. [II, III]

33. G. GRISALDI, Oranta. Tragedia nel signor G.G., il Tardo Academico Insensato. All’illustrissimo ed eccelentissimo signor Ascanio della Corgna, marchese di Castiglione, etc., in Perugia, per Vincentio Colombara, 1605. [II]

34. F. ZUCCARI, Lettera a prencipi e signori amatori del dissegno, pittura, scultura e architettura. Scritta dal cavaglier F.Z., nell’Academia Insensata detto Il Sonnacchioso. Con un lamento della pittura, opera dell’istesso, in Mantova, per Francesco Osanna stampator ducale, 1605.

Opera modernamente edita in F. ZUCCARI, Scritti d’arte, a c. di D.

HEIKAMP, Firenze, Olschki, 1961, pp. 103-129.

35. A. ORSI, M. BARBERINI, CL. CONTOLI, G.B. LAURI, V. PALETTARI, M.A.

BONCIARI, Academicorum Insensatorum carmina. Ad Illustrissimum ac reverendissimum Carolum Emmanuelem Pium Sanctae Romanae Ecclesiae cardinalem amplissimum, Caesare Crispolto canonico et utroque iure consulto academiae principe, Perusiae, apud Academicos Augustos, [1606]. [I, II, III]

36. L. BOVARINI, Frutti dell'autunno. Dialogo in dialogo del signor L.B., il Furioso Eccentrico Insensato, ove si discorre pienamente de’ più nobili, materia dilettevole e curiosa. E nel fine si raccolgono alcune brevi regole del modo dello scrivere dialoghi. All’altezza serenissima del gran duca di Toscana, in Venetia, presso Daniele Bissuccio, 1606.

37. F. PODIANI, Gli schiavi d’Amore. Comedia del signor F.P. Accademico Insensato di Perugia. All’illustrissimo ed eccellentissimo signor Fulvio Della Corgna, marchese di Castiglione, in Perugia, appresso gli Accademici Augusti, [1607]. [III] Altre edizioni: in Venetia, appresso Giovanni Alberti, 1607.

Nello stilare il catalogo delle opere degli Insensati sono state escluse le pubblicazioni legate alla professione dei rispettivi soci (perlopiù canonici e

266 giusperiti), dove comunque non era costume presentarsi col nome accademico. Sono state altresì scartate le composizioni poetiche presenti nelle raccolte di altri autori ‘non Insensati’. È poi opportuno ricordare l’opera che gli Insensati produssero a fine Seicento, i Capricci poetici di diversi autori perugini ascritti all’augustissima Accademia degl’Insensati, raccolti da Francesco degli Oddi Accademico Insensato e da esso concescrati all’eminentissimo e reverendissimo cardinal Durazzo (in Perugia, pel Costantini, 1698). Qui, accanto alla grande maggioranza di componimenti di autori generalmente della seconda metà del XVII secolo, si trovano alcuni letterati già attivi nei primissimi decenni del Seicento, quali Lucullo Baffi, Cesare Meniconi ed Antonio Maria Narducci. Resta però insindacabile il fatto che l’opera, essendo concepita negli ultimi anni del Seicento, non spartisca ormai più nulla con le iniziative editoriali promosse dagli Insensati tra 1561 e 1608.

3. Crispolti e le opere degli Accademici Insensati

Come si è detto in § II.4.4.2, nella sua lettera premessa all’Invettiva di Mariottelli, Cesare Crispolti aveva stilato un catalogo di soci accademici che avevano dato le proprie opere alle stampe. Lo scopo dichiarato del perugino è dimostrare che anche il loro esempio poteva servire da monito per non operare in futuro la medesima scelta. Infatti anche le commedie di Sforza Oddi, le prose di Massini, le rime di Cesare Caporali e così via, ossia quelle opere degli Insensati che potevano reggere il confronto con quelle classiche, erano state pubblicate contro la volontà dei loro autori. L’etica della discrezione mostrata dai loro autori e la convenienza di non entrare in competizione con gli antichi spiegano efficacemente la ritrosia verso la stampa. Tuttavia, il passaggio della lettera che presenta i vari scritti costituisce una sorta di dettagliato canone delle pubblicazioni accademiche, che Crispolti sembra ostentare con un qualche orgoglio. È una testimonianza senz’altro importante per comprendere quali opere il più importante esponente dell’accademia considerasse in qualche modo afferenti al sodalizio entro la data del 1597 (anno di pubblicazione

267 dell’Invettiva). Si è deciso perciò di proporre di seguito il passo senza operare alcun taglio, rinviando alle note per gli estremi bibliografici delle opere accademiche cui si fa riferimento, più o meno esplicitamente, nel testo:

Non è paradosso, è verità apertissima, che le stampe sono il bastone de gli infermi, la guida de’ ciechi, il vestimento de gli ignudi; ma chi ben vede con l’intelletto, chi è ben sano di mente, chi è ornato e arricchito d’ingegno, indarno avviene che pensi di potere con le stampe dar accrescimento d’alcuna sorte a la propria felicità. S’io volessi allungarmi in cosa che non richiede lunghezza, vi ricorderei ad uno per uno, quando pur non mi mancassero e ’l tempo e la memoria, come quanti mai huomini singolari, che siano stati fuora del numero del volgo hanno posto in luce l’opere loro, l’hanno solo poste da necessità costretti in tutte l’età delle quali habbiamo qualche notitia e la maggior parte di quei dotti che stampano a i tempi nostri, per necessità si conducono e contra voglia. Né cercherei, signori, essempi lontani, poi che da vicino i nostri stessi academici conosciuti e praticati da voi, pur troppo ne somministrano. Il signor Cesare Caporali, detto lo Stemperato, il quale con felicità di piacevole stile molti anni sono, secondando il genio de le sue muse, voltato contra la corte (come quelli che caminando fra le tenebre della notte col canto si procurano sicurezza) fece quelle rime sue, che contra sua voglia li furono tolte e stampate con suo dolore, come sapete.1 Le comedie del signor Sforza d’Oddo, detto il Forsennato, se bene sono tali, che agguagliano quelle de gli antichi scrittori, come si conosce [d]all’applauso universale che non adula, furono da gli avidi stampatori per sete di guadagno publicate con suo dispiacere sempre. Come con suo dispiacere, nei primi anni de la sua gioventù, fu sforzato egli per purgarsi da le false calunnie, a dar fuora quel primo libro di legge, che fece la strada a gli altri suoi, che a publico benefitio si stampano. 2 E pur in fede dell’eccellenza sua hoggi in Pavia, città fioritissima in lettere, se

1 Sulla difficoltà di ricostruire le vicende editoriali delle opere di Caporali, si è detto in § II.4.4.2. Di un certo interesse è l’espressione «voltato contro la corte», che senz’altro fa riferimento ad un’opera giovanile dello stesso Caporali intitolata, appunto, Sopra la corte. Si tratta di due capitoli berneschi nei quali Caporali, recuperando e insieme smorzando noti motivi dello stesso Berni e di Aretino, lamenta la sua umiliante condizione di dipendenza da un signore. La Corte compare nelle Rime piacevoli di messer Cesare Caporali di Perugia, accresciute da altre sue non più stampate e con l’aggionta d’alcune parte burlesche e parte gravi di diversi nobilissimi ingegni […], in Parma, appresso Erasmo Viotti, 1592. 2 Sui Morti vivi di Oddi si veda l’elenco delle opere accademiche proposto in precedenza (§ 2); sulle stampe delle altre commedie si rimanda alla Nota ai testi di Anna Rita Rati in ODDI, Commedie, cit., pp. 121-136: 123-132. Il «primo libro» di argomento giuridico scritto da Oddi è il Compendiosae substitutionis tractatus a S.O. iure consulto perugino editus, Perusiae, apud Valentem Panizzam mantuanum, 1571.

268 ne sta fra i dottori, honorato del primo luoco. L’Istituta Canonica, che pur gode il mondo, per benefitio d’uno de gli academici nostri, fu mandata in luce per gli espressi comandamenti dei due Pii, il Quarto e ’l Quinto, come parte mancata a le leggi christiane, e che per dono del cielo singolarissimo, dovea nascere da la mano e da la penna d’uno academico nostro.3 Il signor Filippo Massini, detto l’Estatico, che è di sì bello e gentile spirito, che sa (forse solo all’età nostra) soggiogar le muse vagabonde e licentiose all’imperio delle leggi civili, chiamato per gli Studi dell’Italia con quell’applauso che sappiamo tutti; chi è di noi che non possa far fede che li dispiace ricordarsi del furto di quelli che diedero a le stampe le prose sue?4 Il medesimo affetto per alcune de le sue compositioni, vaghe e pure, ma stampate, so io che sente il signor Enea Baldeschi, pur tra i vostri più singolari.5 Quelle poche cose che sono date a le stampe del signor Vespasiano Crispolti, Ritirato6 fra l’abondanza de le sue nobili scienze e varie dottrine, io posso far fede che contra sua voglia si sono impresse. L’istesso è avvenuto al signor Ascanio Paolucci, detto il Rugginoso, che a gli honori militari ha congiunto con tanta sua lode (ornamento de la sua nobiltà) la leggiadria de le muse.7 Aurelio Orso, Imperfetto di nome, perfetto d’ingegno, quando la prima volta vide a le stampe le proprie compositioni latine, sospirò in testimonio del suo dispiacere.8 E pur sono tali che lo fanno parer nato non ai tempi nostri, ma ai tempi felici de la più latina eloquenza. Il signor Filippo Alberti, detto lo Stracco, che si fa ricordare con maraviglia, per mezzo di quelle poche compositioni che li furono

3 Il riferimento è alle Institutiones iuris canonici del giurista perugino Giovanni Paolo Lancellotti, sulle quali hanno scritto M. CARIA, Le ‘Institutiones iuris canonici’ di G.P. Lancellotti (1522-1590): status quaestionis e nuove ricerche in corso, «Studi urbinati», 69 (2001), 2, pp. 7-38; L. SINISI, Nascita e affermazione di un nuovo genere letterario. La fortuna delle ‘Institutiones iuris canonici’ di Giovanni Paolo Lancellotti, «Rivista di storia del diritto italiano», 77 (2004), pp. 53-95; R. TEODORI, Lancellotti, Giovanni Battista, DBI, 63, 2004, ad vocem; L. KONDRATUK, Les institutions Iuris canonici de G.P. Lancellotti: l'émergence du systématisme moderne en droit canonique (XVIe-XVIIIe siecles), tesi di dottorato in ‘Théologie catholique. Droit canonique’, Université de Strasbourg, 2008 (consultabile online: http://scd-theses.u-strasbg.fr/596/). Nel suo intervento Sinisi esamina la complicata vicenda editoriale dell’opera, pubblicata per la prima volta nel 1563 a Venezia per i tipi di Comin da Trino. 4 Il riferimento è ovviamente alle Lettioni del 1588, ricordate anche nell’elenco (§ 2). 5 Non sono note opere a stampa prima del 1597 di Enea Baldeschi, monsignore e canonico della cattedrale. Ricostruisce i suoi rapporti con Prospero Podiani M.A. PANZANELLI FRATONi, Bibliofilia, biblioteche private e pubblica utilità. Il caso di Prospero Podiani, tesi di dottorato in ‘Scienze bibliografiche, archivistiche e documentarie e per la conservazione e il restauro dei beni librari e archivistici’, Università di Udine, a.a. 2005/2006, à Capitolo I. Atto I: dalla donazione del 1582 alla sua conferma il 17 ottobre 1615. 6 Scritto in carattere maiuscolo in quanto nome accademico di Vespasiano Crispolti. Un suo componimento latino è nel volume del De bello belgico di Orsi del 1586; quindi l’altra sua opera a stampa edita prima del 1597 è l’orazione in memoria di Giulio Farnese, già ricordata in § 2. 7 Alcune sue composizioni si leggono nelle Rime piacevoli [ed. 1592], cit. 8 Senz’altro Crispolti si riferisce al suo De bello belgico: si veda di nuovo l’elenco (§ 2).

269 tolte gli anni passati, dispiace a se stesso, per quello solo che piacquero troppo a gli altri le cose sue, e le mandarono a la luce.9 Non mi devo scordare che una sola canzone si vede a le stampe, ch’io sappia, del signor Vinciolo Vincioli, vostro Sbattuto, il quale ad honore di questa patria, per benefitio di papa Clemente Ottavo, ha congiunto a la nobiltà e virtù sua la buona fortuna, la quale veramente honora se stessa, nella persona di lui, facendosi per lui cara a la santa clemenza di prencipe vigilantissimo.10 E se egli, con tutto che habbia fatto singolarissimo studio sopra tutti i poeti, che nelle migliori lingue hanno scritto felicemente, maraviglioso per l’ingegno e per la copia de gli alti pensieri, non ha lasciato penetrare a le stampe le sue fatiche; e che altra ragione più efficace di questa si aspetta? Che altro volete, se gli essempi de gli stessi academici, che hanno l’applauso del mondo per lo mezzo de le stampe, servono a persuadervi di non stampare? (n.n.).

9 Prima delle sue sillogi poetiche secentesche e della sua canzone a papa Clemente VIII, Alberti compose e diede alle stampe L’aso. Canzone fatta in soggetto di Sisto quinto, in Roma, appresso Tito e Paolo Diani, 1589; altre sue composizioni si leggono nelle edizioni delle più volte citate Rime piacevoli 10 Un gran numero di composizioni di Vinciolo Vincioli sono raccolte in VINCIOLI, I, pp. 257- 306, che ricorda, quale primo esperimento lirico dell’accademico, le trentadue poesie apparse nella silloge Per donne romane. Rime di diversi, raccolte e dedicate al signor Giacomo Buoncompagni da Mutio Manfredi, in Bologna, per Alessandro Benacci, 1575, pp. 427-443. Sempre Vincioli (I, p. 283) dà notizia della Canzone del signor Vinciolo Vincioli al serenissimo signor duca di Savoia sopra l’impresa di Geneva, in Perugia, appresso Pietro Paolo Orlando, 1589, che è senz’altro il componimento cui allude qui Crispolti.

270 Appendice III. Apparato fotografico

Fig. 1 Impresa dell'Accademia degli Insensati L. BOVARINI, Prose e Rime, Perugia, Colombara, 1603, p. [8].

Fig. 2 A. ALCIATO, Emblemata (serie della prudentia) (ed. Lione, Mathiam Bonhomme, 1550, p. 23) Disponibile online: http://www.emblems.arts.gla.ac.uk/alciato/

271

Fig. 3 Impresa del Sordo Archivio Storico dell'Università degli Studi di Perugia, parte III, n.n., Ms. imprese accademiche, 20a.

Fig. 4 Impresa del Sonnacchioso ASUPG, ms. imprese accademiche, 18a.

272

Fig. 5 Impresa generale dell'Accademia degli Insensati ASUPg, ms. imprese accademiche, [1a].

273

Fig. 6 Impresa dello Stupido ASUPG, ms. imprese accademiche, 14a.

Fig. 7 Impresa dello Svanito ASUPG, ms. imprese accademiche, 15a.

274

Fig. 8 Impresa dell'Astratto ASUPG, ms. imprese accademiche, 37a.

Fig. 9 Impresa dello Spensierato ASUPG, ms. imprese accademiche, 7a.

275

Fig. 10 Impresa del Frenetico ASUPG, ms. imprese accademiche, 44a.

Fig. 11 Impresa del Mortificato ASUPG, ms. imprese accademiche, 10a.

276

Fig. 12 Impresa dell'Insensato ASUPG, ms. imprese accademiche, 6a.

277 Criteri di trascrizione

La trascrizione dei testi antichi è stata condotta secondo criteri conservativi.

I pochi interventi sono così riassumibili:

• Distinzione di u da v. • Scioglimento senza segnalazione delle numerose abbreviazioni presenti nei testi, ad eccezione di Ss. Vv. per Signorie Vostre, formula d’uso odierno che non consente margini di ambiguità. • Mutamento della nota tironiana e di et > e (o ed). • Correzione, senza segnalazione, dei refusi evidenti (i primi huomini che habbiamo poetato in questa lingua > i primi huomini che habbiano poetato in questa lingua: citato in § II.4.4.2). • Separazione delle unità grafiche, il cui uso non corrisponde a quello moderno (sono interessati principalmente alcune particelle proclitiche e gli articoli che si uniscono alla parola che segue: es. iquali > i quali; lequali > le quali; dinuovo > di nuovo, ecc.). • Soppressione delle numerose maiuscole nel caso di titoli nobiliari o ecclesiastici (Marchese > marchese; Cardinale > cardinale), formule encomiastiche (Illustrissimo e Reverendissimo > illustrissimo e reverendissimo), formule allocutive (Signori Academici > signori academici). • Riduzione di j in i e del nesso ij in ii. • Normalizzazione secondo l’uso moderno degli accenti e della punteggiatura. • Soppressione del segno di troncamento davanti a voci apocopate ove non più richiesto dall’uso moderno.

Si è poi proceduto al mantenimento:

• Dell’h etimologica o pseudo-etimologica, così come dei nessi –ti, -tti seguiti da vocale.

278 • Delle oscillazioni delle consonanti scempie o doppie: basti il ricorrente esempio di academia/accademia; academico/accademico. • Delle oscillazioni nella forma sintetica e analitica (prevalente) delle preposizioni articolate: ne la/nella; de la/della; de gli/degli; a i/ ai; ecc.; delle congiunzioni: poi che/poiché; per che/perché; ecc.; e degli avverbi: pur troppo/purtroppo.

Il rispetto di questi criteri nelle citazioni da manoscritti e stampe antiche ha fatto emergere inevitabili difformità rispetto ai testi cinque e secenteschi citati da edizioni moderne. Nel caso delle prime, poi, si è inserito il riferimento alla carta (c.) o alla pagina (p.) del testo tra parentesi tonde, onde evitare di frammentare la lettura.

Segni diacritici

Nell’edizione dei testi antichi si è deciso di inserire alcuni segni diacritici ed abbreviazioni per rilevare gli interventi correttori o ripensamenti da parte degli autori (o copisti) dei testi:

• splin. lezione inserita in sopralinea • lin. lezione inserita in linea • cass. lezione cassata • spscr. a lezione soprascritta ad altra lezione cassata • † una lettera/numero illeggibile • †† due lettere/numeri illeggibili • ††† parola illeggibile • _ spazio lasciato bianco per omissione di lezione

Dato il numero piuttosto esiguo di tali correzioni, si è deciso di inserire queste minime osservazioni nel testo, tra parentesi quadre []. Di norma, il segno diacritico riguarda la parola precedente la parentesi; in caso contrario gli estremi della lezione interessata sono contenuti tra le quadre (es. «e

279 recitata da lui [e…lui splin.]»). Pochi altri casi di maggior complessità sono stati illustrati in nota.

Avvertenza per la collocazione dei manoscritti perugini I manoscritti conservati presso la Biblioteca Augusta di Perugia mantengono fino al numero 1356 una doppia segnatura. Quella più antica è alfanumerica fino al ms. 1239 e numerica fino al detto 1356 (contrassegnata con numeri romani). La segnatura più recente corrisponde invece a quella proposta da Alessandro Bellucci nel quinto volume degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia (Forlì, Luigi Bordandini, 1895) di Giuseppe Mazzatinti. Tutti i manoscritti dopo il numero 1356 sono stati ordinati proseguendo questa seconda segnatura, che si è preferito utilizzare anche nel testo della tesi per ragioni di uniformità. Nel caso dei codici della Biblioteca Augusta fino al numero 1356, viene data in nota la corrispondenza tra la più recente segnatura e quella precedente: es. G. ANASTAGI, I giorni festivi, Perugia, Biblioteca Augusta, ms. 80 [B 24].

280 Bibliografia

Bibliografia primaria

Manoscritti

Modena, Biblioteca Estense gamma.y.5.4

Perugia, Biblioteca Augusta 76 [B 20] 80 [B 24] 122 [C5] 199 [D 17] 1020 [M 43] 1460 1662 1663

Perugia, Archivio Storico dell’Università di Perugia P. 1 III 37

Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati G VII 51

Trieste, Biblioteca Attilio Hortis Petr. I 55

281 Stampe

ACCETTO T., Della dissimulazione onesta – Rime, a c. di E. RIPARI, Milano, BUR, 2012.

ALBERTI R., ZUCCARI F., Origine e progresso dell’Academia del Dissegno, de’ pittori, scultori e architetti di Roma, dove si contengono molti utilissimi discorsi e filosofici raggionamenti appartenenti alle suddette professioni, e in particolare ad alcune nove definitioni del dissegno, della pittura, scultura e architettura […], in Pavia, per Pietro Bartoli, 1604.

ALBERTO MAGNO (SANTO), Divi A.M. de animalibus libri vigintisex novissime impressi, impressum Venetiis, per Joannem et Gregorium de Gregoriis fratres, 1495.

ALCIATO A., Emblemata A.A. denuo ab ipso autore recognita ac, quae desiderabantur, imaginibus locupletata. Accesserunt nova aliquot ab autore emblemata suis quoque eiconibus insignita, Lugdunii, apud Mathiam Bonhomme, 1550.

ALCIATO A., Emblatum libellus, Parisiis, excudebat Christianus Wechelut, 1534.

ALCIATO A., Emblematum libellus nuper in lucem editus, Venetiis, Aldus, 1546.

ALCIATO A., Los emblemas de A. traducidos en rhimas españolas. Añadidos de figuras y de nuevos emblemas en la tercera parte de la obra […], en Lyon, por Guilielmo Rovillo, 1549.

ALCIATO A., Viri clarissimi domini A.A. iuris consultissimi Mediolanensis ad dominum Chonradum Peutingerum Augustanum iurisconsultum, Emblematum liber, excusum Augustae Vindelicorum, per Heynricum Steynerumdie, 1531.

AMBROGIO (SANTO), L’essamerone di s.A., vescovo di Milano, tradotto in volgar fiorentino per lo reverendo messer Francesco Cattani da Diacceto, canonico di Firenze e protonotaro apostolico, in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1560.

AMMIRATO S., Il Rota overo dell’imprese. Dialogo del signor S.A. nel quale si ragiona di molte imprese di diversi eccellenti autori e di alcune regole e avertimenti intorno a questa materia […], in Napoli, appresso Gio. Maria Scotto, 1562.

ANASTAGI G., Agille ninfa del Trasimeno. Stanze inedite di G.A. perugino, pubblicate nelle faustissime nozze dei signori Metilde Antonini e dottore Luigi

282 Antonio Brizi da Vincenzo Santucci, Perugia, dai torchi di Garbinesi e Santucci, 1827.

ANASTAGI G., I proverbi toscani di messer G.A. Opera nuova, utile e diletevole, divisa in due parti, per ordine d’alfabeto, in Perugia, [s.t.], 1590.

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BARGAGLI S., Dell’imprese di S.B., gentilhuomo sanese. Alla prima parte, la seconda e la terza nuovamente aggiunte […], in Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1594.

BARGAGLI S., Delle lodi dell’academie. Oratione di S.B., da lui recitata nell’Academia degli Accesi in Siena. All’illustrissimo signore Scipion Gonzaga principe, in Fiorenza, [Luca Bonatti], 1569.

BARGAGLI S., Delle lodi dell’accademie. Orazion di S.B. riformata nuovamente e ristampata […], in ID., La prima parte dell’imprese di S.B., dove, doppo tutte l’opere così a penna come a stampa, ch’egli ha potuto vedere di coloro che della materia dell’imprese hanno parlato, della vera natura di quelle si ragiona. Riveduta nuovamente e ristampata. Appresso orazione delle lodi dell’accademie, in Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1589, pp. 113-142.

BARGAGLI S., Orazion di S.B. in morte di monsignor Alessandro Piccolomini, arcivescovo di Patrasso ed eletto di Siena, 1579, riveduta e novamente ristampata, in ID., Dell’imprese di S.B. gentil’huomo sanese, alla prima parte, la

283 seconda e la terza nuovamente aggiunte; dove, doppo tutte l’opere così scritte a penna come stampate, ch’egli potuto ha leggendo vedere di coloro che della materia dell’imprese hanno parlato, della vera natura di quelle si ragiona. Alla regia e cesarea maestà del savissimo ed ottimo imperatore Ridolfo il II dedicate, in Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1594, pp. 546-573.

BEMBO P., Prose della volgar lingua, in ID., Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a c. di C. DIONISOTTI, Milano, TEA, 1993.

BOCCACCIO G., Laberinto d’amore di messer G.B. di nuovo ristampato e diligentemente corretto per Thomaso Porcacchi. Con le postille nel margine e con la tavola in fine, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1564.

BONCIARI M.A., Thrasymenus sive anthologiae illustrium exemplorum decades duae, in Augusta Perusia, apud Angelum Bartolum, 1641.

BONSI L., Parole fatte e recitate da L.B. provveditore dell’Accademia Fiorentina, quando prese il suo consolato l’eccellentissimo messer Francesco Torelli, in ID., Cinque lezzioni di messer L.B., lette da lui publicamente nella Accademia Fiorentina […], in Fiorenza, appresso i Giunti, 1560, cc. 92v-94r.

BONTEMPI C., Ricordi della città di Perugia dal 1527 al 1550 di Cesare di Giovannello Buontempi, continuati sino al 1563 da Marcantonio Bontempi, a c. di F. BONAINI, con annotazioni di A. FABRETTI e F.L. POLIDORI, in Cronache e storie inedite della città di Perugia, a c. di F. BONAINI, A. FABRETTI, F.L. POLIDORI, «Archivio storico italiano», 16 (1851), parte II, pp. 323-401.

BORGHESI D., Orazione accademiche, a c. di C. CARUSO, Pisa, ETS, 2009.

BRUNO G., Candelaio, comedia del Bruno nolano, achademico di nulla achademia, detto il Fastidito; in tristitia hilaris, in hilaritate tristis, in Pariggi, appresso Guglelmo Giuliano, 1582.

BULGARINI B., Alcune considerazioni di B.B., gentilhuomo sanese, sopra ’l ‘Discorso’ di messer Giacopo Mazzoni [….], in Siena, appresso Luca Bonetti, 1583.

BULGARINI B., Difese di B.B., in risposta all’‘Apologia’ e ‘Palinodia’ di monsignor Alessandro Cariero padovano, e alcune lettere passate tra ’l signor Lodovico Botonio, nell’Accademia degl’Insensati di Perugia detto l’Agitato e il medesimo Bellisario, per l’occasione della controversia nata fra esso Bulgarino, il signor Ieronimo Zoppio, il sopradetto Cariero e il signor Iacopo Mazzoni, discorrendosi intorno alla ‘Commedia’ di Dante […], in Siena, appresso Luca Bonetti, 1588.

284 BULGARINI B., Repliche di B.B. alle risposte del signor Orazio Capponi sopra le prime cinque particelle delle sue ‘Considerazioni’ […], in Siena, appresso Luca Bonetti, 1585.

CANOBBIO A., Breve trattato di messer A.C. sopra le academie. A i magnifici signori Academici Novelli di Verona, in Venetia, appresso Andrea Bòchino e fratelli, 1571.

CAPACCIO G.C., Delle imprese. Trattato di G.C.C. in tre libri diviso. Nel primo, del modo di far l’impresa da qualsivoglia oggetto, o naturale o artificioso, con nuove maniere si ragiona. Nel secondo tutti ieroglifici, simboli e cose mitiche in lettere sacre o profane si scuoprono e come da quegli cavar si ponno l’imprese. Nel terzo, nel figurar degli emblemi di molte cose naturali per l’imprese si tratta, in Napoli, appresso Gio. Giacomo Carlino e Antonio Pace, 1592.

CAPORALI C., Rime di C.C., con l’osservationi di Carlo Caporali, dal medesimo di nuovo reviste e accresciute. Al molto illustre ed eccellente signore Nicolò Minato, in Venetia, appresso Giacomo Bortoli, 1656.

CAPORALI C., Viaggio di Parnaso, a c. di N. CACCIAGLIA, Perugia, Guerra Edizioni, 1993.

CARTARI V., Le imagini de i dei de gli antichi, nelle quali si contengono gl’idoli, riti, cerimonie e altre cose appartenenti alla religione de gli antichi, raccolte dal signor V.C. con la loro espositione e con bellissime e accomodate figure novamente ristampate […], in Lione, appresso Stefano Michele, 1581.

CASONI G., Della magia d’amore composta dal signor G.C. da Serravalle […], in Venetia, appresso Agostin Zoppini e nepoti, 1596

CASONI G., Ode del signor cavalier G.C. […], in Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1602.

CASTIGLIONE B., Il Cortigiano, a c. di A. QUONDAM, Milano, Mondadori, 2002.

COMITOLI N. [NAPOLIONE], Lettera pastorale di monsignore N. vescovo. Alla sua diletta città e populo di Perugia, in Perugia, nella stampa de’ Petrucci, 1609.

CONTILE L., Ragionamento di L.C. sopra la proprietà delle imprese con le particolari de gli Academici Affidati e con le interpretationi e croniche […], in Pavia, appresso Girolamo Bartoli, 1574.

COPPETTA BECCUTI F., Rime di Francesco Beccuti perugino, detto il Coppetta […], a c. di V. CAVALLUCCI, in Venezia, appresso Francesco Pitteri, 1751.

285 CRESCIMBENI G.M., Breve notizia dello stato antico e moderno dell’adunanza degli Arcadi publicata l’anno 1712 d’ordine della medesima adunanza [1712], in Dell’istoria della volgar poesia scritta da G.M.C. Volume sesto, in Venezia, presso Lorenzo Basegio, 1730, pp. 305-328.

CRISPOLTI C., Perugia Augusta descritta da C.C. perugino. All’eminentissimo e reverendissimo signor padrone colendissimo, il signor cardinale Gasparo Mattei, in Perugia, appresso gli eredi di Pietro Tomassi e Sebastiano Zecchini, 1648.

DANTE A., De vulgari eloquentia, a c. di M. TAVONI, in ID., Opere. Rime, Vita Nova, De Vulgari Eloquentia, a c. di C. GIUNTA, G. GORNI, M. TAVONI, con un’Introduzione di M. SANTAGATA, Milano, Mondadori, 2011, pp. 1065-1547.

DELLA CROCE G.A., Chirurgiae I.A. a Cruce, Veneti medici, libri septem […], Venetiis, apud Iordanum Zilettum, 1573.

DELLA CROCE G.A., Cirugia universale e perfetta di tutte le parti pertinenti all’ottimo chirurgo. Di G.A.D.C. medico vinitiano, nella quale si contiene la theorica e prattica di ciò che può essere nella cirugia necessario […], in Venetia, presso Giordano Ziletti, 1583.

DI FROLLIERE G., La guerra del sale. Ossia racconto della guerra sostenuta dai perugini contro Paolo III nel 1540, a c. di F. BONAINI, con annotazioni di A. FABRETTI e F.L. POLIDORI, in Cronache e storie inedite, cit., parte II, pp. 405-476.

Digest 41, I & II with translation and commentary, ed. by F. DE ZULUETA, Aalen, Scientia, 1979 (rist. ed. Oxford, Clarendon Press, 1950).

DIOSCORIDE [PEDANIO], MATTIOLI P.A., Di P.D. anazarbeo libri cinque della historia e materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da messer P.A.M sanese medico, in Venetia, per Nicolò de Bascarini da Pavone di Brescia, 1544.

DIOSCORIDE [PEDANIO], MATTIOLI P.A., I discorsi di messer P.A.M. medico sanese ne i sei libri della materia medicinale di Pedacio Dioscoride anazarbeo […], in Venetia, nella bottega d’Erasmo, appresso Vincenzo Valgrisi e Baldassar Costantini, 1557.

DIOSCORIDE [PEDANIO], MATTIOLI P.A., P.A.M. senensis medici, Commentarii in sex libros P.D. anazarbei de medica materia […], Venetiis, ex officina Valgrisiana, 1565.

Diverse imprese accommodate a diverse moralità con versi che i loro significati dichiarano insieme con molte altre nella lingua italiana non più tradotte [...], in Lione, da Mathias Ponhomme, 1551.

286 DOLCE L., Le osservationi del D., da lui stesso in questa seconda editione emendate e ampliate, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1552.

DOLCE L., PITTONI B., Di B.P. pittore vicentino, imprese di diversi prencipi, duchi signori e d’altri personaggi ed huomini letterati ed illustri. Con alcune stanze del D. che dichiarano i motti di esse imprese, [Venezia], [s.t.], [s.d.].

DOLCE L., [PITTONI B.], Imprese nobili ed ingeniose di diversi prencipi ed altri personaggi illustri nell’arme e nelle lettere […], con le dichiarationi in versi di messer L.D. e d’altri, in Venetia, presso Girolamo Porro, 1578.

DONI A.F., Le ville […], in Bologna, appresso Alessandro Benacci, 1566.

DONI A.F., Le ville, a c. di U. BELLOCCHI, Modena, Aedes Muratoriane, 1969.

DURAND G., Rationale divinorum officiorum […], Lugduni, sumptibus Ioannis Baptistae Buysson, 1592.

ELIANO C., C.A. Praenestini de animalium natura libri XVII […], in ID., C.A. Praenestini pontificis et sophistae, qui Romae sub imperatore Antonino Pio vixit, Meliglossus aut Meliphthongus ab orationis suavitate cognominatus, opera […], Tiguri, apud Gesneros fratres, 1556.

Emblemata anniversaria Academiae Altorfinae, studiorum iuventutis exercitandorum causa proposita et variorum orationibus exposita, Norimbergae, imprensis Levini Hulsy, 1597.

ENTZLIN M., BONACKER M., Disputatio de rerum divisione et acquirendo earum dominio […], Tubingae, apud Georgium Gruppenbachium, 1591.

EQUICOLA M., Libro de natura de amore, in La redazione manoscritta del ‘Libro de natura de amore’ di Mario Equicola, a c. di L. RICCI, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 207-558.

FORTUNIO G.F., Regole grammaticali della volgar lingua di messer F.F., novellamente reviste e con somma diligentia emendate, in Vinegia, per Francesco Bindoni e Mappheo Pasini compagni, 1539.

FOSCOLO U., Lezione prima. De’ principi della letteratura, ID., Lezione seconda. La letteratura rivolta unicamente alla gloria, in ID., Orazioni e lezioni pavesi, a c. di A. CAMPANA, Roma, Carocci, 2009, pp. 125-141, 187-210.

GALLO A., Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa […], in Brescia, appresso Gio. Battista Bozzola, 1564

287 GALLO A., Le sette giornate dell'agricoltura di messer A.G., nuovamente aggiunte alle tredici altre volte date in luce, in Venetia, appresso Gratioso Percaccino, 1569.

GALLO A., Le tredici giornate della vera agricoltura e de’ piaceri della villa di messer A.G. Novamente ristampate con molti miglioramenti e con aggiunta di tre giornate […], in Venetia, presso Nicolò Bevilacqua, 1566.

GELLI G.B., La Circe […], in Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 1549.

GESNER C., C.G. Tigurini medici et philosophiae professoris in Schola Tigurina, historiae animalium liber III, qui est de avium natura, Tiguri, apud Christoph. Froschoverum, 1555.

Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata. A. Verbali delle adunanze accademiche dal 1599 al 1694, a c. di A. GAMBA e L. ROSSETTI, Trieste, LINT, 1999.

GRILLO A., Christo flagellato e le sue essequie celebrate co’l pianto di Maria vergine […], in Venezia, appresso Bernardo Giunti, Gio. Battista Ciotti e compagni, 1607.

GRILLO A., Pietosi affetti di don A.G. […], [s.l.] [s.d.].

GROTO L., Oratione di L.G., cieco d’Hadria, recitata il dì primo di genaio e dell’anno 1565 in Hadria, nell’Academia de gl’Illustrati, il lunedì, in ID., Orationi volgari di L.G., cieco di Hadria. Da lui medesimo recitate in diversi tempi, in diversi luoghi e in diverse occasioni, parte stampate e ristampate altre volte ad una ad una e parte non mai più venute in luce […], in Venetia, appresso li Zoppini, 1589, cc. 19v-26v.

GUAZZO S., Del paragone della poesia latina e della thoscana, in ID., Dialoghi piacevoli del signor S.G. gentil’huomo di Casale di Monferrato, dalla cui famigliare lettione potranno senza stanchezza e satietà, non solo gli uomini ma ancora le donne, raccogliere diversi frutti morali e spirituali, in Venetia, presso Gio. Antonio Bertano, 1586, cc. 64v-71v.

GUAZZO S., La civil conversazione, a c. di A. QUONDAM, Roma, Bulzoni, 2010 [ed. orig. 1993].

GUIDICCIONI G., COPPETTA BECCUTI F., Rime, Bari, Laterza, 1912.

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288 HUNNIUS H.U., BREITHAUPT G., Collegii privati Institutionum Justinianearum. Dissertatio IV. De rerum divisione et acquirendo earum dominio […], Gieassae, typis Chemlinianis, 1609.

Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte e mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli. Al molto reverendo e honoratissimo Girolamo Artusio. Con gratia e privilegio, in Vinegia, al segno del Pozzo, 1553.

Imprese della Accademia degli Affidati di Pavia nel “Discorso” di Luca Contile, con note introduttive di Cesare Repossi e Renato Marchi, Pavia, Torchio de’ Ricci, 1989.

JACOBILLO L., Bibliotheca Umbriae sive de scriptoribus Provinciae Umbriae alphabetico ordine digesta, Fulginiae, apud Augustinum Alterium, 1658.

L’hortensio, comedia de gl’Academici Intronati, rappresentata in Siena alla presenza del serenissimo gran duca di Toscana, il dì XXVI di gennaio MDLX, quando visitò la prima volta quella città, in Siena, per Luca Bonetti, 1571.

LANDO O., Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere, a c. di A. CORSARO, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2000.

LATINI B., Il Tesoro di messer B.L., fiorentino, precettore del divino poeta Dante, nel quale si tratta di tutte le cose che a mortali se appartengono, in Vinegia, per Marchio Sessa, 1533.

Le lagrime degli Illustrati di Casale in morte dell’illustrissima ed eccellentissima madama Margherita Paleologa, duchessa di Mantova e marchesana del Monferrato, in Trino, Giovan Francesco Giolito de’ Ferrari, 1567.

LEOPARDI G., Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica, ec. Edizione tematica dello ‘Zibaldone di pensieri’ stabilita sugli ‘Indici’ leopardiani, a c. di F. CACCIAPUOTI, Introduzione di A. PRETE, Roma, Donzelli, 2002.

LOLLIO A., Due orationi del signor A.L., l’una in laude della lingua toscana, l’altra in laude della concordia. Ai signori Academici Filareti di Ferrara, in Venetia, per Sigismondo Bordogna, 1555.

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MACHIAVELLI N., Il Principe, a c. di G. INGLESE, Torino, Einaudi, 1995.

289 MALATESTA GARUFFI G., L’Italia accademica, o sia le accademie aperte a pompa e decoro delle lettere più amene nelle città italiane, raccolte e descritte dall’abbate e dottore don G.M.G., pubblico bibbiotecario e lettore di Rimino ed istografo de’ Concordi di Ravenna. Parte prima dedicata a gl’illustrissimi signori, li signori Academici Scelti del collegio de’ nobili di Parma, in Rimino, [per Giovanni Felice Dandi], 1688.

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MARIOTTELI F., All’illustrissimo ed eccellentissimo signore, il signor Bartolomeo del Monte marchese di Piano, capo del magistrato de i diece, e a i signori suoi colleghi e a gli altri nobili e popolari di Perugia. Ragguaglio intorno alla libraria che fu del signor Prospero Podiani, in Perugia, appresso Marco Naccarini, 1618.

MARIOTTELLI F., Neopaedia sive nova, aut inexplicata hucusque in discendis atque docendis methodi ratio […], Romae, typis Iacobi Mascardi, 1624.

MASSINI F., Candore amoroso. Madrigali del signor F.M. l'Estatico Insensato Affidato, in Pavia, per Andrea Viani, 1610.

MASSINI F., Candore amoroso. Madrigali del signor F.M. l'Estatico Insensato Affidato, in Perugia, nella Stampa Insensata, 1610.

MASSINI F., Chiaroscuro amoroso. Madrigali del eccellentissimo signor F.M. l’Estatico Insensato, prencipe de gli Affidati, in Pavia, per Pietro Bartoli, nel 1611.

MASSINI F., Rime del signor F.M. l’Estatico Insensato. Al serenissimo don Cosmo II de’ Medici, gran duca di Toscana, in Pavia, per il Viani, 1609.

MINTURNO A., L’arte poetica del signor A.M., nella quale si contengono i precetti heroici, tragici, comici, satyrici e d’ogni altra poesia […], in Venetia, per Gio. Andrea Valvassori, 1563.

MURATORI L.A [a nome di L. PRITANIO.], Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia esposti al pubblico da L.P., in Dal Muratori al Cesarotti, I. Opere di Ludovico Antonio Muratori, a c. di G. FALCO, F. FORTI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 177-197.

290 MUSSO C., Prediche del reverendissimo monsignor C.M. da Piacenza, vescovo di Bitonto, fatte in diversi tempi e in diversi luoghi […], in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1558.

MUZIO G., Battaglie di Hieronimo M. giustinopolitano per difesa dell'italica lingua, […] ed alcune bellissime annotationi sopra il Petrarca, in Vinegia, appresso Pietro Dusinelli, 1582.

NEVIZZANO G., Sylva nuptialis […], [Lione, Jacques Giunta], 1540.

ODDI S., Commedie. ‘L’Erofilomachia’, ‘I morti vivi’, ‘Prigione d’Amore’, a c. di A.R. RATI, Perugia, Morlacchi, 2011.

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PALAZZI G.A., I discorsi di messer G.A.P. sopra l’imprese, recitati nell’Academia d’Urbino. Con la tavola delle cose più notabili che in loro si contengono, in Bologna, per Alessandro Benacci, 1575.

PELLINI P., Della historia di Perugia. Parte terza, con un’Introduzione di L. FAINA, Perugia, [Deputazione di storia patria per l'Umbria], 1970.

PETRARCA F., De vita solitaria; Epistola de dispositione vitae suae; Carmina dum laboraret in extremis; Epitaphium, impressum Mediolani, per magistrum Vldericum Scinzenzeler, 1498.

PETRARCA F., Le Rime del P., brevemente sposte per Lodovico Castelvetro […], in Basilea, ad istanza di Pietro de Sedabonis, 1582.

PETRARCA F., Le volgari opere del P. con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, in Vinegia, per Giouanniantonio e fratelli da Sabbio, 1525.

PETRARCA F., Petrarcha colla spositione di misser Giovanni Andrea Gesualdo, in Vinegia, per Giovann’Antonio di Nicolini e fratelli da Sabbio, 1533.

RAMUSIO G.B., Primo volume delle navigationi e viaggi, nel qual si contiene la descrittione dell’Africa e del paese del prete Ianni con varii viaggi, dal mar Rosso a Calicut e infin all’isole Molucche, dove nascono le spetierie, e la navigatione attorno il mondo […], in Venetia, appresso gli heredi di Lucantonio Giunti, 1550.

291 RICCI B., De imitatione libri tres ad Alfonsum Alestinum principem suum in litteris alumnum, Venetiis, apud Aldi filios, 1541.

Rime de gli Academici Gelati di Bologna, Bologna, presso gli heredi di Gio. Rossi, 1597.

Rime de gli Academici Occulti con le loro imprese e discorsi, in Brescia, appresso Vincenzo da Sabbio, 1568.

Rime di diversi illustri signori napoletani e d’altri nobilissimi intelletti, nuovamente raccolte e non più stampate. Terzo libro, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1552.

RIPA C., Iconologia, a c. di S. MAFFEI, testo stabilito da P. PROCACCIOLI, Torino, Einaudi, 2012.

RIPA C., Iconologia di C.R. perugino, cavaliere de’ santi Mauritio e Lazzaro, nella quale si descrivono diverse imagini di virtù, vitii, affetti, passioni umane, arti, discipline, umori, elementi, corpi celesti, provincie d’Italia, fiumi, tutte le parti del mondo ed altre infinite materie […], in Siena, appresso gli heredi di Matteo Florimi, 1613.

RIPA C., Iconologia overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità e da altri luoghi […], in Roma, per gli eredi di Gio. Gigliotti, 1593.

RIPA C., Iconologia overo descrittione di diverse imagini cavate dall’antichità e di propria inventione, trovate e dichiarate da Cesare Ripa perugino […], in Roma, appresso Lepido Facii, 1603.

RITTERSHAUSEN K., HEUSHKEL H., Theses de rerum divisione et adquirendo earum dominio […], Noribergae, in officina Gerlachiana, per Paulum Kauffmannum, 1594.

ROTA B., Sonetti del signor B.R. in morte della signora Porta Capece sua moglie, in Napoli, apresso Mattia Cancer, 1560.

RUSCELLI G., Tre discorsi di G.R. a messer Lodovico Dolce. L’uno intorno al ‘Decamerone’ del Boccaccio, l’altro all’‘Osservationi della lingua volgare’, e il terzo alla tradottione dell’Ovidio, in Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1553.

SCÈVE M., Délie. Obiect de plus haulte vertu, a Lyon, chez Sulpice Sabon, pour Antoine Constantin, 1544.

SOLINO [G.G.], Delle cose maravigliose del mondo, tradotto dall’illustrissimo signore don Giovan Vincenzo Belprato conte di Anversa, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1557.

292 STRADA F., F.M. Romani e Societate Iesu, De bello belgico decas prima, ab excessu Caroli V imperatoris usque ad initia praefectura Alexandri Farnesii Parmae ac Placentiae ducis III […], Romae, typis Francisci Corbelletti, 1632.

STRADA F., F.M. Romani e Societate Iesu, De bello belgico decas secunda, ad initio praefectura Alexandri Farnesii Parmae ac Placentiae ducis III […], Romae, ex typographia haeredum Francisci Corbelletti, 1647.

TAEGIO B., La villa, a c. di T. LORINI, in, L’antico regime in villa, a c. di C. MOZZARELLI, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 49-162.

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322 Indice dei nomi

A Acidini Luchinat Cristina, 55 Ackermann James S., 201 Abbondanza Roberto, 113 Afribo Andrea, 189, 190, 193, 194 Abelardo, 211 Agostini Francesco, 107 Accademia degli Accesi, 35, 60, 106 Alberti Filippo, 7, 63, 64, 91, 102, 118, 119, Accademia degli Affidati, 162 120, 121, 168, 170, 262, 263, 269 Accademia degli Alessi, 78 Alberti Leon Battista, 43 Accademia degli Atomi, 45, 78, 79, 97, 138 Alberti Romano, 49 Accademia degli Eccentrici, 45, 56, 78, 79, 142 Alberto Magno (santo), 135 Accademia degli Elevati, 48 Alciato Andrea, 130, 131, 161 Accademia degli Eterei, 12, 61 Aldobrandini Silvestro, 246, 248, 249 Accademia degli Illustrati, 36, 38, 44, 47, 49, Alessi Cesare, 78, 120 54, 62 Alfano Giancarlo, 27, 188 Accademia degli Incitati, 6 Alfonso d’Avalos, 193 Accademia degli Infiammati, 30, 148, 179 Alfonso II d'Este, 195 Accademia degli Innominati, 29, 44, 50, 61, 93, Ambrogio (santo), 132, 163 198, 211 Amerighi Bastiano, 153, 260 Accademia degli Insipidi, 78, 79 Ammirato Scipione, 161 Accademia degli Intronati, 12, 15, 35, 60, 106, Anacreonte, 189 129, 138, 281 Anastagi Gregorio, 56, 141, 142, 255, 280 Accademia degli Occulti, 162 Anconetani Raffaella, 201 Accademia degli Oziosi, 12, 21 Andreoli Aldo, 32 Accademia degli Scossi, 45, 78, 79, 86, 87, 88 Andreoni Annalisa, 30, 149, 179 Accademia degli Umoristi, 12, 159, 171 Anselmi Gian Mario, 201 Accademia degli Unisoni, 17, 45, 46, 78, 79, 89, Antonini Metilde, 142 110, 115, 142, 156, 169, 247 Antonio da Sangallo il Giovane, 69, 70 Accademia dei Filareti, 31, 48 Antonio di Padova (santo), 165 Accademia dei Gelati, 162 Arbizzoni Guido, 130, 161 Accademia dei Lincei, 12, 15 Aresi Paolo, 130 Accademia dei Ricovrati, 65 Aretino Pietro, 26, 219, 221, 268 Accademia dei Tranquilli, 78 Ariani Marco, 21, 35 Accademia dei Travagliati, 129 Aricò Denise, 222 , 12, 15 Ariosto Ludovico, 119, 134, 135, 148, 173, Accademia del Disegno (Perugia), 70, 78, 79 184, 215 Accademia del Disegno (Roma), 49 Aristotele, 105, 118, 119, 131, 132, 135, 144, Accademia dell'Arcadia, 20, 21, 29, 31, 32, 173 165, 170, 180, 182, 187, 189, 196, 198, 199, Accademia della Crusca, 12, 14, 15, 18, 19, 20, 207, 208, 210, 211, 213, 219, 221, 259 47, 61, 88, 96, 107 Arnaudo Marco, 22, 223 Accademia di Belle Arti (Perugia), 70, 79 Asor Rosa Alberto, 18, 103, 168 Accetto Torquato, 222, 223 Astorre Baglioni, 68 Acciaioli Donato, 16 Atlas Allan W., 79

323 Aureli Claudio, 126 Berman Harold Joseph, 212 Aureli Ottaviano, 82, 83, 84, 85, 86, 90, 100, Bernstein Martin, 79 126, 127, 133, 140, 141, 143, 144, 145, 148, Besana Luigi, 20 151, 152, 154, 155, 159, 226, 236, 237, 238, Bettini Maurizio, 53 253, 254, 255 Bevilacqua Bonifacio, 90, 114, 122, 201, 246, 263, 265 B Bevilacqua Cornelia, 44 Biffi Inos, 176 Baffi Lucullo, 267 Bisello Linda, 218 Baglioni Adriano, 68 Black Christopher F., 68, 71, 75, 76 Baglioni Astorre, 68, 142 Boccaccio Giovanni, 28, 134, 142, 147, 148, Baglioni Braccio, 68 184, 214, 219 Baglioni Carlo, 74 Boccalini Traiano, 157 Baglioni Ridolfo, 67, 68, 69 Boco Fedora, 70 Baglioni Troilo, 163 Boehm Laetitia, 20 Balavoine Claudie, 7 Boggione Valter, 168 Baldassarri Gabriele, 141 Bolzoni Lina, 7 Baldeschi Enea, 64, 118, 269 Bonacker Melchior, 214 Baldini Ugo, 20 Bonaini Francesco, 67 Balduino Armando, 21 Bonazzi Emilia, 9, 10, 78, 85, 94, 231 Barbaro Francesco, 28 Bonazzi Luigi, 9, 10, 71, 74, 96 Bàrberi Squarotti Giorgio, 4 Bonciari Marco Antonio, 78, 84, 109, 116, 117, Bàrberi Squarotti Giovanni, 102 123, 185, 193, 194, 227, 264, 266 Barberini Maffeo, 105, 117, 123, 266 Boncompagni Giacomo, 270 Bargagli Girolamo, 60 Bonsi Lelio, 49 Bargagli Scipione, 35, 36, 38, 41, 42, 43, 49, Bontempi Cesare, 67, 68 160, 161, 176 Bontempi Marcantonio, 67 Barocchi Paola, 7 Borghesi Diomede, 41, 214 Baroni Pier Giovanni, 114 Borlenghi Aldo, 156 Bartoli Langeli Attilio, 113 Borromeo Agostino, 114 Barucci Guglielmo, 112, 113 Borromeo Federico, 49, 128, 194, 201 Battaglia Ricci Lucia, 201 Bossaglia Rossana, 201 Belforti Luigi, 142 Bossi Carlo, 261 Bellini Bernardo, 17 Botonio Ludovico, 106, 107, 108, 109 Bellini Eraldo, 187 Bots Hans, 27 Bellocchi Ugo, 201 Bovarini Leandro, 7, 63, 84, 87, 88, 114, 115, Belloni Carla, 110 119, 120, 167, 168, 170, 178, 195, 196, 197, Belloni Gino, 21, 142, 144, 145 198, 199, 206, 228, 241, 244, 263, 264, 266 Belprato Giovan Vincenzo, 134 Bracciolini Poggio, 16, 28 Bembo Pietro, 28, 42, 144, 145, 146, 147, 153, Bramanti Vanni, 30 184, 185, 187, 191, 192, 193, 194, 221, 229 Breithaupt Georg, 214 Ben-David Joseph, 20 Brizi Luigi Antonio, 142 Benzoni Gino, 20, 21, 29, 30, 39, 44, 51, 58, 65, Brook Claire, 79 66 Brooks Julian, 55

324 Brumana Biancamaria, 79 Castiglione Baldassarre, 37, 38, 40, 42, 43, 47, Brunelli Giampiero, 73, 74 219, 222, 265, 266 Brunetto Latini, 131 Catone Marco Porcio, il Censore, 216 Bruno Giordano, 15, 16, 22, 187, 201, 213 Catone Marco Porcio, il Censore, 53 Brusatin Manlio, 155 Catone Marco Porcio, l’Uticense, 66 Bruscagli Riccardo, 60 Cattabiani Alfredo, 131, 163, 164, 165 Bulgarini Belisario, 106, 107, 108 Cattanei Elisabetta, 197 Cattani Francesco, 132 C Catullo Gaio Valerio, 189 Cavalletti Giovanni Jacopo, 102 Cacciaglia Norberto, 156, 183 Cavallucci Vincenzo, 78, 120, 157 Cacciapuoti Fabiana, 8 Cavarzere Alberto, 53 Calasso Francesco, 212 Cecchini Giovanni, 79 Camerieri Paolo, 70 Cenci Lodovico, 178, 241 Campana Andrea, 8 Censi Carolina, 142 Canali Giovan Battista, 64 Cesarei Giovan Battista, 84, 163, 236 Canobbio Alessandro, 44, 47, 49 Cesi Bartolomeo, 175, 244 Canossa Ludovico, 40 Chambers David S., 21 Capaccio Giulio Cesare, 172, 173 Cherchi Paolo, 149, 215, 219 Caporali Carlo, 120, 157 Chiabrera Gabriello, 184 Caporali Cesare, 63, 118, 120, 121, 154, 155, Chiacchella Rita, 68, 70, 71, 72, 74, 75, 78 156, 157, 234, 265, 267, 268 Chiodo Domenico, 185 Capponi Orazio, 107 Chiuini Giovanna, 70 Capponi Paola, 164 Ciacci Francesca, 79 Caravaggio, Michelangelo Merisi, 110, 168 Ciaralli Antonio, 212 Caravale Mario, 71, 212 Ciardi Laudenzio, 42, 238 Carbonchi Carbonchio, 178, 179, 180, 181, Cibi Alessandro, 54, 104, 126, 259 244 Cicerone Marco Tullio, 15, 53, 116, 132, 180, Cardaneti Orazio, 116 186, 194, 196, 199, 202, 203, 209, 215, 216, Cardella Lorenzo, 113, 114 219, 221 Caretta Costanza, 62 Ciliberti Galliano, 79, 142 Caria Maria, 269 Ciocchi del Monte Antonio Maria, 73 Carminati Clizia, 190 Ciocchi del Monte Giacoma, 73 Caro Annibale, 221 Ciri Filippo, 156 Carrai Stefano, 102, 188 Clemente VIII, papa Ippolito Aldobrandini, 63, Carretta Costanza, 62 76, 103, 114, 262, 270 Carriero Alessandro, 107 Cleri Bonita, 55 Cartari Vincenzo, 150 Clinkscale Edward H., 79 Caruso Carlo, 41, 105, 123, 214 Coletti Vittorio, 16 Casini Simone, 18 Coller Alexandra, 156 Casoni Guido, 184 Colombi Francesco, 97 Castagnetti Marina, 105 Colombi Ottaviano (Platoni), 96, 97, 135, 136, Castaldi Conventino, 139, 236 149, 150, 236, 237, 260 Castelvetro Ludovico, 105, 107, 108, 259 Colonna Porzia, 121

325 Comitoli Napoleone, 74, 75, 76 Croce Benedetto, 156, 222 Conaway Bondanella Julia, 202 Conti Carlo, 90, 91, 104, 113, 114, 160, 185, D 195, 200, 240, 241, 242, 256, 263 Contile Luca, 162 D’Alessandro Francesca, 144, 188 Contoli Claudio, 117, 123, 170, 266 D’Este Alfonso, 87, 120, 263 Contoli Contolo, 13, 90, 99, 125, 127, 148, 154, D’Incalci Ermini Patrizia, 60 171, 173, 227, 233, 234, 253, 254, 255, 256 Da Pozzo Giovanni, 21 Coppetta dei Beccuti Francesco, 4, 78, 94, 95, Dante Alighieri, 28, 107, 131, 184, 186, 187 96, 97, 121, 154, 157, 169, 170, 178, 185, Danti Vincenzo, 64 191, 241, 263 Daza Bernardino, 130 Cordié Carlo, 105 De Angelis Luigi, 107 Corno Dario, 181 De Beer Susanna, 105 Corrigan Beatrice M.H., 156 De Caro Gaspare, 68 Corsaro Antonio, 219, 220 De Martino Domenico, 18 Corso Giovanni, 86, 87, 209, 210, 213, 241 De Mauro Tullio, 16 Cortellazzo Manlio, 15 De Michelis Cesare, 27 Cortellazzo Michele A., 15 De Michelis Ida, 223 Cortigiani Ferraiuoli, 60 De Miranda Girolamo, 21, 39, 182 Cossa Vincenzo, 79 De Sanctis Francesco, 8 Cossutta Fabio, 141 De Torres Ludovico, 56, 57 Craveri Benedetta, 17 De Zulueta Francis, 213 Crescenzi Melchiorre, 113, 120, 123, 182, 262 De’ Bardi Piero, 18, 19 Crescimbeni Giovanni Mario, 173 De’ Medici Cosimo II, 63 Criscuolo Vincenzo, 71 De’ Medici Isabella, 60 Crismani Andrea, 95 Degli Oddi Diomede, 114 Crispolti Cesare, 6, 7, 12, 17, 45, 46, 54, 69, 70, Degli Oddi Francesco, 117, 267 73, 79, 81, 84, 86, 88, 89, 90, 91, 93, 97, 98, Degli Oddi Gisberto, 102 109, 110, 111, 112, 113, 115, 116, 117, 118, Degli Oddi Niccolò, 260 120, 121, 122, 125, 126, 159, 168, 169, 170, Della Casa Giovanni, 148, 169, 178, 185, 186, 171, 178, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 219, 189, 190, 191, 193, 194, 195, 196, 198, 199, 230, 243, 244 200, 201, 202, 203, 206, 207, 208, 216, 217, Della Cornia Ascanio, 69, 73, 121 218, 220, 221, 222, 223, 224, 226, 228, 229, Della Cornia Ascanio II, 55, 63, 64, 81, 120, 232, 233, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 121, 122, 170, 182, 183, 262, 263, 265 247, 248, 249, 261, 264, 265, 266, 267, 269, Della Cornia Diomede, 121 270 Della Cornia Federico, 111, 247 Crispolti Cesare Jr., 194 Della Cornia Francesco, 73 Crispolti Dionigi, 171, 172 Della Cornia Francesco, 73 Crispolti Ranieri, 109 Della Cornia Fulvio Giulio, 73, 121 Crispolti Vespasiano, 75, 90, 118, 170, 198, Della Cornia Laura, 73 199, 260, 269 Della Croce Giovanni Andrea, 220 Cristiani Andrea, 187, 190, 217 Della Penna Alessandro, 90, 236, 237 Crivelli Tatiana, 105 Della Rovere Francesco Maria II, 101

326 Della Rovere Girolamo, 112, 113 Farina Michael, 154 Della Rovere Girolamo (card.), 112 Farnese Alessandro, 105 Della Rovere Giulio Feltrio, 115 Farnese Giulio, 170, 260, 269 Della Rovere Isabella, 101, 102 Farnese Pier Luigi, 69 Della Rovere Lavinia, 101, 102 Farnese Ranuccio, 44 Delle Pezze Francesca, 190 Fava Placido, 260 Demostene, 53, 221 Fazio Giovan Battista, 105, 106 Denarosi Lucia, 29, 44, 50, 61, 93, 198, 211 Fedi Roberto, 187 Deti Giovanni Battista, 18 Ferrari Severino, 103 Di Crollalanza Giovan Battista, 160 Ferro Roberta, 128, 194 Di Filippo Bareggi Claudia, 20, 22, 23, 24, 30, Ferroni Giulio, 222 45 Figorilli Maria Cristina, 219, 220, 221 Di Franza Concetta, 214 Filippo II, re di Spagna, 105 Di Frolliere Girolamo, 67, 68, 69, 70 Filippo III, re di Spagna, 63 Di Monte Michele, 106 Fine Gail, 172 Dini Vittorio, 222 Firpo Luigi, 156 Diogene Laerzio, 218 Fisher Charles D., 240 Dionisotti Carlo, 24, 26, 27, 31, 33, 58, 141, Flora Francesco, 191 185 Folena Gianfranco, 16, 17, 144 Dioscoride Pedanio, 134, 220 Folengo Teofilo, 156 Dolce Ludovico, 146, 147, 161, 162 Forti Fiorenzo, 32 Doni Antonio Francesco, 201 Fortunio Francesco, 146 Drusi Riccardo, 21 Foscolo Ugo, 8 Durand Guglielmo, 164 Franceschini Giuseppe, 237 Durazzo Stefano, 267 Francioni Gianni, 8 Frare Pierantonio, 8, 184 E Frigo Daniela, 215 Frisi Anton Francesco, 112 Ebbesen Sten, 211 Frova Carla, 113, 232 Eliano Claudio, 132, 163 Fruttero Carlo, 231 Enenkel Karl A.E., 105 Fumagalli Elena, 110 Entzlin Matthaeus, 214 Fumaroli Marc, 21, 27, 28 Equicola Mario, 210 Ermini Giuseppe, 113 G Everson Jane, 11, 28 Gabrijelcic Arturo, 71, 73, 116 F Gaio (giurista romano), 213 Galdi Piero, 20 Fabretti Ariodante, 67 Gallo Agostino, 201 Faccioli Emilio, 156 Gallo Niccolò, 8 Faina Luciano, 68 Gallo Valentina, 31, 38 Falco Giorgio, 32 Galluzzi Paolo, 23 Fanelli Giuseppe, 94, 128, 153, 260 Gamba Antonio, 65 Fanfani Pietro, 17 Gamrath Helge, 69

327 Gardi Andrea, 72 Grosser Hermann, 185, 186, 187, 190, 191, Gardini Nicola, 187 192 Gargiulo Pietro, 18 Groto Luigi, 38, 40, 47, 48, 49, 87 Gavazzeni Franco, 181 Guardiani Francesco, 154 Gelli Giovan Battista, 108, 207 Guarini Battista, 61, 88, 184, 189 Gesner Conrad, 163 Guazzo Stefano, 23, 36, 37, 38, 39, 40, 44, 46, Gesualdo Giovanni Andrea, 144, 188 47, 54, 57, 62, 63, 219 Gheri Cosimo, 69 Guicciardini Francesco, 214 Ghiberti Pier Antonio, 133, 134, 135, 238, 259 Guidiccioni Giovanni, 95, 106, 108, 184, 193, Ghinassi Ghino, 15 215, 259, 260 Giachino Luisella, 62 Guidiccioni Lelio, 106 Giambullari Pierfrancesco, 108 Guidobaldo da Montefeltro, 42 Gigante Claudio, 187, 192 Gundersheimer Werner L., 195 Giglioli Tommaso, 120, 122, 170, 182, 245, Gusmani Roberto, 213 265 Gigliucci Roberto, 180, 192 H Gil Fernando, 211 Gilbert William, 68 Hankins James, 15, 34 Gilson Étienne, 176 Hart Patrick, 195 Giorni Alessandro, 90, 241 Heikamp Detlef, 266 Giovanni Damasceno (santo), 199 Hendrix Harald, 7 Girardi Maria Teresa, 30, 186, 188, 192 Heushkel Heinrich, 214 Girolamo Muzio, 107 Hortis Attilio, 141 Giubbini Giovanna, 113, 232 Hunnius Helfrich U., 214 Giuliani Alessandro, 212 Giulio III, papa Giovanni Maria Ciocchi del I Monte, 71, 73 Igino, 165 Giunta Claudio, 186 Ingegneri Angelo, 44 Giustiniano, imperatore, 210, 212 Inglese Giorgio, 52 Goldgar Anne, 27 Innamorati Giuliano, 78, 94 Gorni Guglielmo, 186 Irace Erminia, 21, 56, 71, 72, 74, 76, 77, 78, 80, Goselini Giuliano, 64 94, 97, 139, 159 Gozzano Guido, 168 Irrera Elena, 196 Grabmann Martin, 211 Irti Natalino, 212 Granucci Nicolao, 150 Isocrate, 6 Grassi Fiorentino Silvia, 70 Graziano, monaco, 212 J Graziosi Grazioso, 42, 103, 173, 174, 198, 238,

242 Jacobillo Ludovico, 96 Gregori Mina, 110 Jamme Armand, 71, 72 Grillo Angelo, 184 Jossa Stefano, 28 Grisaldi Giacomo, 198, 246, 266 Grohmann Alberto, 70

328 K M

Kantorowicz Hermann, 212 Machiavelli Niccolò, 51, 52, 222, 223 Kapp Volker, 32 Macioce Stefania, 110 Kenny Anthony, 211 Maffei Sonia, 6, 7 Kinkead Duncan T., 110 Maggi Armando, 161, 162 Knowles David, 211, 212 Magini Alessandro, 18 Kondratuk Laurent, 269 Magnocavalli Annibale, 37, 46 Konstan David, 197 Malatesta Garuffi Giuseppe, 81, 93, 97 Krause Johann Gottlieb, 78 Malato Enrico, 21 Kraye Jill, 213 Malvasia Innocenzo, 177, 244, 245 Kretzmann Norman, 211 Mancini Paolo, 64, 113, 159, 160, 171, 172, Kristeller Paul Oskar, 100 241 Manetti Aldo, 154 L Manuzzi Giuseppe, 17 Manzin Maurizio, 213 Lancellotti Giovanni Paolo, 269 Marabelli Costante, 176 Lanci Francesco, 130 Maraschio Nicoletta, 18, 19 Lando Ortensio, 219, 220, 221 Marchetto Giuliano, 214, 215, 216, 217, 218 Lauri Giovan Battista, 116, 117, 123, 248, 266 Marchi Renato, 162 Lawn Brian, 211 Marcialis Maria Teresa, 197 Le Goff Jacques, 211 Marconi Laura, 113, 157, 159 Leopardi Giacomo, 8 Marcora Carlo, 74 Leslie Robert W., 156 Margherita d’Austria, regina di Spagna, 63 Lessona Carlo, 214 Margherita Paleologa, 62 Leuker Tobias, 105 Marimonti Giuseppe, 112 Licciotti Fabrizio, 209, 213, 241 Marini Maurizio, 168 Loche Annalisa, 197 Marini Quinto, 127, 128 Lohr Charles H., 96 Marini Remigio, 141 Lollio Alberto, 30, 31, 48, 49, 87, 201 Marino Giovan Battista, 8, 61, 88, 102, 105, Lombardelli Giovan Battista, 91 153, 154, 168, 181, 182, 183, 184, 190, 249 Lombardi Daniela, 215 Mariottelli Fulvio, 83, 89, 91, 92, 109, 110, Lommi Antonella, 158 111, 112, 115, 116, 117, 118, 120, 157, 169, Longardi Piero, 20 170, 173, 200, 218, 220, 221, 222, 228, 241, Lorandi Marco, 166 242, 247, 261, 267 Lorini Teodoro, 201 Mariotti Annibale, 67, 70, 74, 78, 93, 94 Lucentini Franco, 231 Martini Alessandro, 153, 183, 190 Luchetti Giovanni, 210 Marziale Marco Valerio, 165 Lungo Giovanni Luigi, 100, 105, 126, 237, 259 Masci Jacopo, 102, 236 Lussu Marialuisa, 197 Masci Marco Antonio, 63 Luzzatto Sergio, 21 Massini Filippo, 63, 84, 94, 100, 105, 106, 107, 108, 109, 117, 118, 119, 120, 126, 127, 128, 153, 159, 167, 168, 228, 259, 260, 261, 264, 267, 269

329 Mattei Gasparo, 79 Narducci Antonio Maria, 267 Mattioli Pietro Andrea, 134, 172, 173, 220 Nebbia Cesare, 88 Maurino Ferdinando D., 156 Negri Renzo, 116 Maylender Michele, 9, 11, 18, 23, 24, 34, 44, Nesi Annalisa, 18 78, 80, 94 Neumeister Sebastian, 27 Mazzatinti Giuseppe, 238, 280 Nevizzano Giovanni, 214, 215, 216, 217, 218 Mazzerioli Lidia, 109, 247 Nigro Salvatore Silvano, 223 Mazzoni Jacopo, 107 Normann Corrie E., 175 Mazzuchelli Gianmaria, 78, 87, 103, 116, 194 Nuovo Angela, 141 Mears T. Lambert, 213 Nussbaum Martha C., 196 Meattini Valerio, 172 Melchiorri Tommaso, 182 O Melozzo da Forlì, 55 Melzi Gaetano, 95 Oddi Sforza, 89, 101, 102, 103, 104, 105, 117, Mengaldo Pier Vincenzo, 184 118, 126, 130, 155, 156, 157, 227, 258, 259, Meniconi Cesare, 267 267, 268 Meninni Federigo, 190, 193 Oldoini Agostino, 4, 87, 93, 96, 97, 103, 111, Messina Pietro, 56, 73 172 Migliorini Bruno, 15, 16 Oliva Leone, 90, 218, 246 Milburn Erika, 179, 193 Olivieri Carlo, 239 Minato Niccolò, 157 Olmi Giuseppe, 168 Minonzio Franco, 20 Orazio Flacco Quinto, 136, 148, 189, 190 Minturno Antonio, 144, 185, 188, 189, 191, Orazio Flacco Quinto, 126 193 Orsi Aurelio, 105, 116, 117, 118, 123, 126, Molinari Carla, 192 259, 266 Monacchia Paola, 76 Ossola Carlo, 222 Montesperelli Orazio, 103 Ovidio Nasone Publio, 165, 181 Montesperelli Zopiro, 79 Montorfani Pietro, 61 P Mortara Garavelli Bice, 180, 181 Paci Renzo, 71 Motta Uberto, 128, 154 Padoa-Schioppa Antonio, 212 Mozzarelli Cesare, 8, 21, 201 Pagnini Cesare, 141 Muratori Ludovico Antonio, 31, 32, 33, 187 Palazzi Fernando, 16 Murtola Anna Maria, 262 Palazzi Giovanni Andrea, 130 Murtola Gasparo, 113, 119, 120, 167, 168, 244, Palettari Vincenzo, 112, 117, 123, 266 245, 261, 262 Pallavicino Ferrante, 223 Musso Cornelio, 175 Palma Marco, 150 Mutini Claudio, 116, 156 Palombaro Fabio, 70 Muzio Girolamo, 107 Palumbo Margherita, 92, 214 Muzio Manfredi, 270 Panno Giovanni, 199 Panzanelli Fratoni Maria Alessandra, 21, 91, N 92, 100, 113, 158, 173, 214, 232, 269

Nardi Florinda, 29, 35

330 Paolo III, papa Alessandro Farnese, 67, 68, 69, Pimpinelli Paola, 71 70, 71, 72, 75 Pinborg Jan, 211 Paolo IV, papa Gian Pietro Carafa, 75 Pindaro, 189 Paolucci Ascanio, 118, 269 Pio di Savoia Carlo Emanuele, 88, 114, 117, Paolucci Costanzo, 63, 64 123, 246, 264 Paolucci Fulvio, 260 Pio IV, papa Giovanni Angelo Medici, 269 Parabosco Girolamo, 158 Pio V, papa Ghisleri Antonio, 269 Paradisi Bruno, 212 Pitagora, 106, 130, 131, 218 Parodi Severina, 18 Pittoni Battista, 161 Pascale Michelangelo, 79 Plaisance Michel, 18, 179 Pascucci Luigi Pacifico, 90 Platone, 15, 97, 106, 172, 198, 199, 203, 207, Pasini Luciano, 89, 90, 101, 102, 146, 258 209, 210 Patrizi Elisabetta, 17, 45, 46, 84, 110, 116, 160, Plinio Secondo, il Vecchio, 131, 132, 147, 163, 265 165, 172, 224 Patrizi Francesco, 118 Plutarco, 131, 208 Patrizi Luca Alberto, 74 Pocaterra Annibale, 195, 197 Patrizi Vincenzo, 160 Podiani Francesco, 158, 266 Pavarini Stefano, 201 Podiani Prospero, 91, 92, 99, 100, 173, 191, Pecorella Corrado, 20, 23 202, 269 Pedullà Gabriele, 21 Poggi Salani Teresa, 18 Peirone Claudia, 168 Polidori Filippo Luigi, 67 Peirone Luigi, 174 Poncet Olivier, 71, 72 Pelli Silvio, 78, 88, 94, 96 Ponti Antonio Carlo, 70 Pellicani Giovanni, 105, 106 Pozzi Claudio, 57 Pellini Pompeo, 68, 71, 75 Prete Antonio, 8 Perigli Tommaso, 96, 97 Preti Girolamo, 84 Perinato Ercole, 201 Procaccioli Paolo, 6, 7, 219, 220 Pestarino Rossano, 179, 181, 193 Properzio Sesto, 148 Petrarca Francesco, 28, 51, 56, 57, 64, 99, 100, Prosperi Adriano, 8 102, 105, 106, 107, 108, 127, 128, 134, 139, Proto Enrico, 102 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, Puliafito Bleuel Anna Laura, 22 152, 154, 173, 184, 186, 188, 189, 190, 191, Puppo Federico, 213 193, 194, 196, 202, 215, 219, 230, 237, 239, Puteano Ericio, 128, 194 249, 251, 254, 255, 256, 259, 260 Petrocchi Massimo, 74 Q Pezzini Sebastiano, 247 Pfister Max, 15 Quadrio Francesco Saverio, 78, 93 Piano Mortari Vincenzo, 213 Quaglino Margherita, 107 Piccolomini Alessandro, 49 Querenghi Antonio, 84 Piccolomini Enea Silvio, 140 Quinto Riccardo Riccardo, 211 Pierguidi Stefano, 55, 150 Quiviger Francoise, 21 Pierio Valeriano [Delle Fosse Giovanni Pietro], Quondam Amedeo, 8, 18, 20, 22, 23, 24, 25, 29, 7, 207 33, 34, 37, 38, 41, 42, 43, 44, 58, 78, 128, Pignatti Franco, 151 155, 219, 222, 223

331 R Salimbeni Giuseppe, 261 Salutati Coluccio, 51 Radding Charles M., 212 Salviati Leonardo, 18, 19, 126 Raimondi Ezio, 20, 32, 191, 193 Salvucci Rubino, 95, 96, 97, 133, 139, 175, 176, Ramboillet Catherine de Vivonne, 17 236, 238, 244, 251 Ramusio Giovan Battista, 165 Sanfilippo Matteo, 115 Rancanelli Ippolito Sebastiano, 160 Sannazaro Jacopo, 236 Rati Anna Rita, 105, 155, 259, 268 Santagata Marco, 144, 186 Rava Luigi, 18 Santorio Paolo Emilio, 100, 159, 237, 260 Reale Giovanni, 208 Santucci Vincenzo, 142 Repossi Cesare, 162 Sassi Michela Maria, 199 Ricci Bartolomeo, 30 Savelli Silvio, 63, 64, 90, 113, 114, 115, 244, Ricci Giovanni, 195 261 Ricci Laura, 210 Savio Gigliola, 164 Ricci Saverio, 21, 33 Sberlati Francesco, 201, 202 Riccò Laura, 35, 60 Scalabrino Luca, 192 Richardson Brian, 59 Scarpati Claudio, 187, 189 Rijser David, 105 Scève Maurice, 161 Rinaldi Massimo, 21, 35 Schönberger Rolf, 211 Ripa Cesare, 6, 7, 10, 91, 92, 207 Sciumè Alberto, 217 Ripari Edoardo, 222, 223 Scott Dominic, 172 Ritrovato Salvatore, 154 Scotti Lodovico, 200, 241, 243 Rittershausen Konrad, 214 Scozia Bernardino, 62 Romagnoli Sergio, 8 Secchi Tarugi Lucia, 218 Romei Danilo, 156 Sensi Ludovico, 56, 57 Roncetti Mario, 71 Serassi Pierantonio, 121 Rossetti Domenico, 140, 141, 252, 253, 254, Serrai Alfredo, 92, 117 255 Servio Mario Onorato, 165 Rossetti Lucia, 65 Seta Valerio, 177, 245 Rossi Giovanni, 217 Shakespeare William, 156 Rossi Massimiliano, 168 Siekiera Anna, 30 Rossi Raffaele, 78 Signorotto Gianvittorio, 77 Rota Berardino, 161 Simplicio, 199, 209 Rozzo Ugo, 219 Sinisi Lorenzo, 269 Ruozzi Gino, 201 Sirugo Alessandro, 141 Ruscelli Girolamo, 147, 154 Sisto V, papa Felice Peretti, 76, 270 Russo Emilio, 8, 168, 183 Skinner Quentin, 50 Slawinski Maurizio, 182, 183 S Snyder Jon R., 222 Socrate, 65, 106, 209 Sabatini Francesco, 16 Solino Gaio Giulio, 134 Sacchini Lorenzo, 126, 128, 138, 154, 184, Sorbi Luca, 211 249 Sorella Antonio, 30 Salerno Luigi, 110 Soria Francescantonio, 237

332 Sozi Raffaello, 142 Trovato Paolo, 30 Sozzi Bartolomeo T., 102 Tumidei Stefano, 55 Speakman Sutch Susie, 31, 34 Turnaturi Gabriella, 196 Stabile Giampiero, 222 Stopponi Simonetta, 70 U Strada Famiano, 105 Ubaldini Roberto, 88, 178, 243 T Ulvioni Paolo, 20, 35

Tacito Publio Cornelio, 240 V Taddei Paolo M., 74 Taegio Bartolomeo, 201 Vaganay Hugues, 64 Tagliapietra Andrea, 197 Vagnoni Debora, 223 Tansillo Luigi, 169, 178, 179, 180, 181, 185, Valeriani Aurelio, 94, 96 193, 201, 244 Valerio Massimo, 196 Tasso Ercole, 161 Van Dixhoorn Arjan, 31, 34 Tasso Torquato, 55, 119, 121, 144, 154, 161, Vannucci Pietro, 70, 79 169, 173, 178, 181, 182, 183, 185, 187, 188, Varchi Benedetto, 30, 69, 108, 148, 149, 179 189, 190, 191, 192, 193, 194, 215, 230 Varese Ranieri, 201 Tateo Francesco, 181, 202 Vasari Giorgio, 55 Tavoni Mirko, 186 Vasoli Cesare, 20, 213, 217 Telve Stefano, 147 Vecchi Giovan Battista, 248 Teodori Raissa, 269 Vecchietti Francesco, 130 Tesauro Emanuele, 184, 187 Veglia Pietro Dionigio, 157 Testa Simone, 27, 28, 35 Vellutello Alessandro, 144, 145 Teza Laura, 70, 77, 80, 89, 110, 158, 194, 223, Venier Domenico, 154, 233 232 Venturi Ventura, 54, 55, 84, 118, 119, 196, Tezi Girolamo, 77, 80, 91, 100 200, 244, 261 Tinnoli Giovanni, 94, 95, 96, 97, 140, 150, 151, Verga Marcello, 32 236, 237 Vergerio Pier Paolo, 50 Tiraboschi Girolamo, 8, 93 Vermiglioli Giovan Battista, 4, 56, 74, 87, 89, Tissoni Roberto, 207 90, 93, 94, 96, 97, 100, 103, 107, 111, 116, Tolomei Scipione, 81, 82, 122 118, 126, 127, 141, 142, 155, 157, 170, 172, Tomitano Bernardino, 30, 186, 187, 188, 193 238 Tommaseo Niccolò, 17 Verri Alessandro, 8 Tommaso (santo), 164, 176, 199 Verri Pietro, 8, 201 Tongiorgi Tomasi Lucia, 168 Veterano Giulio, 173 Torchio Emilio, 106 Vianello Valerio, 30 Torelli Pomponio, 49, 61, 211 Vibi Orlandino, 100, 101 Torrini Maurizio, 23 Vidoni Girolamo, 113 Tortorelli Gianfranco, 92 Villari Rosario, 223 Toscano Tobia R., 179, 193 Vincioli Giacinto, 4, 84, 85, 87, 93, 94, 95, 96, Toussaint Stéphane, 18 97, 103, 104, 163, 240 Tranquilli Vincenzo, 78, 100, 101 Vincioli Vinciolo, 103, 118, 270

333 Vineis Edoardo, 27 Wiedemann Conrad, 27 Virgilio Marone Publio, 165, 221 Wilson William H., 110 Visceglia Maria Antonietta, 77 Wotton Edward, 134 Visconti Pirro, 63 Visdomini Francesco, 63 Z Vitelli Alessandro, 68 Vives Jean Luis, 149 Zamponi Stefano, 141, 232, 252, 253, 254, 255 Volpato Simone, 141 Zanca Attilio, 168 Volpi Mirko, 127, 128 Zancan Marina, 215 Volpi Roberto, 72 Zenobi Bandino Giacomo, 72 Zolli Paolo, 15 W Zoppio Girolamo, 107 Zoroastro, 106 Waquet Francoise, 27, 28 Zuccari Federico, 49, 55, 84, 88, 266 Weber Christoph, 72 Zuccari Taddeo, 55 Weinberg Bernard, 110, 185, 242 Zucchi Bartolomeo, 81, 111, 112, 113, 262 Widlak Stanislaw, 15

334