Diacronie Studi di Storia Contemporanea

N° 33, 1 | 2018 Guerra e pace Declinazioni politiche, sociali e culturali del conflitto in età contemporanea

Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Alessandro Salvador (dir.)

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/diacronie/7030 DOI: 10.4000/diacronie.7030 ISSN: 2038-0925

Editore Association culturelle Diacronie

Notizia bibliografica digitale Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Alessandro Salvador (dir.), Diacronie, N° 33, 1 | 2018, « Guerra e pace » [Online], Messo online il 29 mars 2018, consultato il 25 septembre 2020. URL : http:// journals.openedition.org/diacronie/7030 ; DOI : https://doi.org/10.4000/diacronie.7030

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INDICE

Nota introduttiva n. 33 – marzo 2018 Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Alessandro Salvador

I. Miscellaneo

Smascherare il soldato simulatore Difesa sociale e istanze disciplinari in ambito militare prima della Grande Guerra Fabio Milazzo

Uscire dalla catastrofe La città di Napoli fra guerra aerea e occupazione alleata Martina Gargiulo

«Per una famiglia felice pace e lavoro» La propaganda al femminile del partito nuovo di Togliatti: simbologie e rituali del secondo dopoguerra Elisabetta Girotto

Architecture des établissements thermaux en Algérie durant le XIXe siècle Reflet ethnocentrique du système colonial Sami Boufassa

II. Il lungo 1917: seconda parte

Introduzione La Rivoluzione d’Ottobre: letture di una cesura Andrea Griffante

Catholicism and anti-communism The reactions of Irish intellectuals to revolutionary changes in Hungary (1918-1939) Lili Zách

Anarchism and the Perversion of the Russian Revolution The Accounts of Emma Goldman and Alexander Berkman Frank

III. Recensioni

Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli Ebrei da Herzl a oggi Elisa Tizzoni

Marco De Paolis, Paolo Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013 Andrea Martini

Nicola De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere Matteo Anastasi

Matteo Loconsole, Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti Sandro Bellassai

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Rolf Petri (a cura di), Balcani, Europa. Violenza, politica, memoria Eric Gobetti

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Nota introduttiva n. 33 – marzo 2018

Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Alessandro Salvador

Guerra e pace

Declinazioni politiche, sociali e culturali del conflitto in età contemporanea

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1 I saggi presentati nel numero 33 di Diacronie sono legati fra loro dal tema della transizione dal tempo di guerra al tempo di pace, che attraversa ricerche molto differenti fra loro per ambito geografico e cronologico.

2 Nel primo di questi contributi, Fabio Milazzo analizza l’internamento dei militari nei manicomi agli inizi del Novecento, soffermandosi in particolar modo sulla figura del simulatore. Trattando la storia delle politiche di trattamento del disagio mentale – vero o presunto – e le strategie di controllo dell’anormalità nei soldati prima della Grande Guerra, non rinuncia a rintracciare un legame fra le forme di disciplinamento manicomiali, il comportamento e il sapere dei medici dell’epoca con alcune pratiche sociali e culture diffuse tra i soldati. La ricerca presentata prende in esame in particolare il caso di un soldato internato nel manicomio di Racconigi, in provincia di Cuneo, nel 1913.

3 Il saggio di Martina Gargiulo mette sotto la lente gli effetti dei bombardamenti alleati sulla città di Napoli. L’articolo prende in considerazione in primo luogo il ruolo strategico che i bombardamenti sulle città avevano nel tentativo di scollare il “fronte interno” per poi focalizzarsi sugli effetti diretti sulla popolazione civile, in particolare il problema degli sfollati e dell’emergenza abitativa e sociale generata dagli attacchi aerei.

4 L’articolo di Elisabetta Girotto si focalizza sulle modalità di comunicazione e di propaganda politica nei confronti dell’universo femminile messe in campo dal Partito comunista italiano e dalle sue organizzazioni di massa come l’Udi nel periodo 1945-49. Attraverso un’analisi che spazia dagli articoli in riviste quali «Noi donne» alle iniziative per l’infanzia, dalle proposte di legge alle attività ricreative sino alla mobilitazione pacifista del movimento dei “Partigiani della pace” in occasione dell’incipiente guerra fredda, emerge una visione spesso contraddittoria, in cui i propositi di emancipazione e parità convivono con la permanenza di stereotipi sulla donna vista soprattutto come madre affettuosa, dedita ai lavori domestici e alla cura della prole.

5 Sami Boufassa si occupa invece degli stabilimenti termali coloniali algerini. Sin dai primi anni di colonizzazione, le terme del paese nordafricano – oltre ai normali usi civili – furono impiegati per la riabilitazione dei militari. In questo contesto Boufassa opera un’attenta disamina degli usi delle stazioni termali e della loro clientela, anche attraverso un’analisi architettonica degli stili, permettendo di disegnare una geografia della convivenza fra autoctoni e algerini.

6 La seconda sezione (II. Il lungo 1917: seconda parte) propone due articoli tematici dedicati al tema del lungo 2017, che fanno seguito agli articoli già pubblicati sui numeri precedenti. La selezione e la curatela di questi articoli è di Andrea Griffante e

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Alessandro Salvador; la presentazione di questi due lavori è affidata proprio ad Andrea Griffante nell’introduzione alla sezione.

7 Chiude questo numero il consueto spazio dedicato alle recensioni (III).

8 Il coordinamento redazionale è stato svolto da Jacopo Bassi, Luca Bufarale, Alessandro Salvador.

9 Buona lettura,

10 Jacopo Bassi, Luca Bufarale, Alessandro Salvador

AUTORI

JACOPO BASSI Jacopo Bassi ha conseguito la Laurea Triennale in «Storia del mondo contemporaneo» presso l’Università di Bologna sostenendo una tesi in Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa dal titolo Tra Costantinopoli e Atene: Il passaggio delle diocesi dell’Epiro all’amministrazione della Chiesa di Grecia e la ‘Praxis’ del 1928; presso lo stesso ateneo, nel 2008, ha discusso la tesi specialistica in Storia della Chiesa dal titolo Epiro crocifisso o liberato? La Chiesa ortodossa in Epiro e in Albania meridionale nel XX secolo (1912-1967). Attualmente collabora con le case editrici Il Mulino e Zanichelli. URL: < http://www.studistorici.com/2009/02/24/jacopo_bassi/ >

LUCA BUFARALE Luca Bufarale ha conseguito nel 2008 la Laurea Specialistica in Storia d’Europa (indirizzo contemporaneo) presso l’Università di Bologna e nel 2012 il Dottorato di Ricerca in Scienze storiche presso l’Università di Padova. Dopo aver condotto i suoi primi studi sulle trasformazioni economiche e i progetti di riforma nell’Unione Sovietica degli anni Sessanta, si è dedicato prevalentemente alla ricostruzione della figura del dirigente socialista italiano Riccardo Lombardi. I suoi interessi spaziano dalla storia dei movimenti politici alla storia delle politiche economiche. È autore del volume Riccardo Lombardi. La giovinezza politica 1919-1949 (Roma, Viella, 2014). Attualmente è docente supplente di storia e filosofia nei licei e segue un progetto di ricerca per l’Associazione Labour “Riccardo Lombardi”. URL: < http://www.studistorici.com/2010/12/02/luca-bufarale/ >

ALESSANDRO SALVADOR Alessandro Salvador si è laureato in Storia Contemporanea all’Università di Trieste nel 2006 e, nel 2010, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Studi Storici presso l’Università di Trento con una tesi dal titolo “Il partito nazionalosocialista e la destra radicale tedesca nelle fasi finali della Repubblica di Weimar: 1925-1933”. Tra le sue pubblicazioni vi sono il volume La guerra in tempo di pace. Gli ex combattenti e la politica nella Repubblica di Weimar (Trento, Università degli Studi di Trento, 2013) e alcuni saggi sul combattentismo e sulla smobilitazione dei soldati ex austro- ungarici in Italia dopo la Grande Guerra. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Trento e collabora col progetto www.lagrandeguerrapiu100.it, col progetto europeo CENDARI (Collaborative European Digital Archival Infrastructure) e col progetto “World War II – Everyday

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Life Under German Occupation” dell’Herder Institut di Marburg. URL: < http://www.studistorici.com/2015/10/16/alessandro_salvador/ >

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I. Miscellaneo

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Smascherare il soldato simulatore Difesa sociale e istanze disciplinari in ambito militare prima della Grande Guerra

Fabio Milazzo

Elenco delle abbreviazioni degli archivi citati APCN= Archivio della Provincia di Cuneo ASONR= Archivio Storico Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi

La costruzione di tipologie mediche è […] uno dei caratteri della medicalizzazione della devianza: la presenza di dati caratteristici riferiti ad una tipologia in un soggetto particolare, conduce il medico ad un processo inferenziale per cui il comportamento è dedotto dall’appartenenza ad una tipologia appunto specifica Renzo Villa, Il deviante e i suoi segni1

1. Introduzione

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1 Tra le maggiori questioni che le Autorità Militari devono affrontare nell’immediatezza della Grande Guerra c’è quella di poter contare su un esercito forte, coeso, basato su soldati che, pur provenendo dall’ambiente civile, siano dotati di quello spirito di corpo e di quelle caratteristiche di coraggio e forza necessarie per essere all’altezza del loro compito. La nazione ha bisogno di «una gioventù fisicamente e moralmente forte. È solo dei forti affrontare le difficoltà che la vita offre, nel campo morale e in quello materiale […] L’uomo robusto e coraggioso sa tutto sopportare»2. Per questo particolarmente presenti tra le autorità militari sono le istanze di bio- profilassi che puntano a liberare l’esercito da quei soggetti che, per costituzione ontologica, rischiano di rappresentare un ostacolo per quel processo di educazione dell’animo, basata su una pedagogia militare preventiva, che deve tendere «essenzialmente a sviluppare le qualità morali, le virtù del cuore e del carattere. Lo spirito militare ed il sentimento patriottico»3. Il fine è quello «di trasformare il cittadino in soldato, e prepararlo alla guerra, all’interno della caserma»4. Per raggiungere questo obiettivo bisogna poter lavorare con soggetti duttili, flessibili e, soprattutto, “normali”. Escludere dunque quelli identificati come “devianti”, secondo istanze da eugenica negativa che molto devono alla metabolizzazione della riflessione lombrosiana da parte dell’alienismo italiano, è una questione di primaria importanza. In particolare dopo la sconfitta di Adua, e le polemiche sull’evidenza di una necessaria opera di rigenerazione degli italiani, il problema sociale e politico diventa centrale nel dibattito e viene percepito come ineludibile da più parti nell’ambiente militare5. Si tratta di individuare preventivamente durante le visite di leva o, al più tardi, durante frequenti e attenti controlli in caserma, quelle figure di potenziali delinquenti che l’antropologia criminale di derivazione lombrosiana permette in una certa misura di riconoscere e quindi identificare. Tra questi «criminali-nati»6 un ruolo particolare viene riconosciuto ai simulatori, figure ritenute particolarmente pericolose perché apparentemente normali ma in realtà ontologicamente predisposte al crimine, bugiardi, inadatti alla vita collettiva e, generalmente, dotati di uno scarso sentimento morale. Queste caratteristiche si fissano tra Otto e Novecento nello stereotipo del soldato delinquente, una figura che, in modo particolare negli ultimi decenni del secolo, raggiunge una rilevante visibilità pubblica a seguito dei tragici fatti di cronaca che vedono dei soldati uccidere e ferire commilitoni e superiori in caserma7. Ciò rafforza il preconcetto nei confronti degli inadatti alla vita militare, ritenuti perlopiù «degenerati»8 e predisposti al crimine, per questo in grado di rappresentare un serio pericolo per l’ordine e la disciplina all’interno delle caserme. Alla luce di ciò la ricerca e l’individuazione di questi soggetti è attenta, continua e si basa sulle tassonomie che la scienza mette a disposizione. Il processo è però vanificato in buona parte dall’assenza di un adeguato servizio psichiatrico dell’Esercito e questo fa dipendere in buona sostanza la riuscita dell’operazione dal lavoro – e dall’eventuale maggiore o minore disponibilità

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– delle direzioni sanitarie dei manicomi civili (o dei meno numerosi istituti criminali), i luoghi presso cui vengono inviati in osservazione i soldati potenzialmente “anormali”. L’atipicità della situazione, di fatto, influisce sul processo generale di individuazione dell’anormale e di questa anomalia sono ben consapevoli gli studiosi che si occupano del tema, come Pietro Grilli9, libero docente in psichiatria e medico alienista presso il Regio Spedale Bonifazio di Firenze per i mentecatti. Egli, nel 1883, pubblica un saggio dal titolo La pazzia nei militari10 in cui afferma che i soldati alienati, una volta evidenziati i sintomi della follia, vengono internati in manicomio e che, per tale ragione, non sono i medici militari a diagnosticare loro il tipo di patologia sofferta, né sono loro a seguire il decorso della malattia, in quanto tale opera viene svolta dai medici presenti nei frenocomi: […] ai medici militari, per quanto peritissimi possano essere nella Psichiatria, manca l’occasione di studiare gli alienati; e ciò perché in Italia, come presso tutte le nazioni civili, allorché un soldato incomincia a presentare fenomeni di alienazione mentale, non si trattiene negli ospedali militari, ma si invia al manicomio, che serve ai bisogni della provincia ove egli si trova11.

2 Ciò che Pietro Grilli sottolinea problematicamente nel suo saggio è che «i medici militari non hanno manicomi»12 e da ciò ne consegue che non sono essi a gestire le dinamiche riguardanti i “matti di caserma” che, di fatto, vengono trattate, portate alla luce, affrontate nei frenocomi civili, con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di attenzione per il problema. Analizzare dunque le politiche di trattamento dell’alienazione nei soldati significa indagare innanzitutto l’ambito dei manicomi civili e criminali in cui i militari vengono internati. Muovendo da questo presupposto, il presente contributo si propone di analizzare la dimensione concreta del rapporto tra il folle e l’istituzione attraverso la ricostruzione di una vicenda specifica, che ha riguardato un giovane soldato recluso presso il manicomio provinciale di Cuneo, sito in Racconigi, nel periodo che precede la Grande Guerra. Il contesto di studio è l’universo asilare compreso innanzitutto a partire dalla documentazione amministrativa e clinica prodotta dall’istituzione stessa13: cartelle, diari clinici, relazioni della direzione sanitaria, consentono di cogliere proprio la dimensione concreta di quelle politiche di trattamento cui si è fatto cenno. Più nello specifico cercheremo di contestualizzare e di rispondere ad alcuni interrogativi: Quali sono le istanze bio-sociali che animano in prevalenza la psichiatria militare tra Otto e Novecento? Perché viene riconosciuta grande importanza ai soldati alienati e in particolare ai simulatori? Quali erano le politiche di gestione loro riservate a Racconigi? È possibile registrare un mutamento in queste politiche con l’approssimarsi del conflitto14?

2. Medicina sociale e psichiatria militare tra Otto e Novecento

3 Tra i problemi che le autorità militari devono affrontare dopo l’Unità, con l’introduzione della leva obbligatoria, c’è quello dell’individuazione dei soggetti anormali. Il timore di mettere a disposizione di individui apparentemente normali, ma in realtà «mentalmente disturbati», delle armi rappresenta una costante preoccupazione per politici e membri delle alte gerarchie militari. D’altra parte che «questi [soggetti] fossero passati per la trafila dell’osservazione»15 durante la visita di leva, non bastava a offrire garanzie, «perché il rilievo di certe anomalie della mente e delle minime aberrazioni morali, si sottrae sovente ad ogni indagine, né si può

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effettuare sempre con i reattivi mentali e morali che si possono avere a disposizione»16. I terribili casi che, alla fine dell’Ottocento, vedono alcuni militari imbracciare le armi e rivolgerle verso sé o verso i commilitoni con esiti tragici scuotono l’opinione pubblica e non fanno che rendere la questione ancora più urgente agli occhi di chi governa17. Tutto ciò contribuisce a plasmare lo statuto conoscitivo dell’alienismo italiano sul nesso militari-follia indirizzandolo verso l’aspetto del controllo, delle politiche disciplinari e della eugenica negativa. I saperi, i concetti e le pratiche attraverso cui si costruisce la concezione del problema – e una determinata fisionomia del soggetto alienato – risentono delle sollecitazioni prodotte dalla congiuntura politico-sociale che, nel caso italiano, riguardano appunto esigenze di difesa sociale. In questo processo l’apporto di Cesare Lombroso è fondamentale perché fornisce una grammatica – basata sui presunti «segni della devianza» – e delle classificazioni in grado di stabilire nuovi modelli di conoscenza e di controllo dell’individuo, nonché inediti significati di crimine. La definizione del soggetto anormale, in questo caso il soldato alienato, è così posta al crocevia di saperi, discorsi e dispositivi influenzati dal reato ipotizzato e dalle caratteristiche che gli sono riconosciute come proprie.

4 Queste istanze conducono alla messa a punto di un programma di ricerca che sfocia nell’antropologia criminale e, più in particolare, nello studio del delitto nei suoi legami con la follia e la biologia. Un’ottica particolare che si propone di analizzare e descrivere in un catalogo della devianza le somiglianze e le differenze che contraddistinguono il soggetto «atavico»18 rispetto all’uomo normale. Ciò viene sviluppato sicuramente sulla base di un riduzionismo che susciterà diverse critiche, ma che è il risvolto dell’intimo convincimento lombrosiano secondo cui la traccia più evidente del crimine sta nella conformazione somatica del reo: messo a capo, giovane e ancora pieno di entusiasmo per i nuovi indirizzi sperimentali, di una clinica psichiatrica e di un carcere, per tre e più anni lavorai per applicare il metodo sperimentale allo studio dei delinquenti e dei pazzi, e per trovarne i caratteri differenziali, senza però riuscirvi completamente; ma però ogni giorno più persuadendomi che alla ricerca aprioristica, fino allora condotta in astratto, doveva preferirsi lo studio analitico diretto dei delinquenti confrontati agli uomini normali e agli alienati19.

5 L’ipotesi di fondo che guida Lombroso è che tanto la follia quanto la propensione al delitto, possano essere identificate nel soggetto grazie a un’adeguata strategia di decifrazione che solo «attraverso le misurazioni del corpo»20 può risultare efficace e certa. Le certezze della matematica antropometrica contrapposte alle vaghezze delle metafisica e della psichiatria che declina in filosofia, questa la svolta che segna una corrente di studi ma anche un orizzonte clinico diagnostico che, in alcuni diversi elementi, sopravvive ancora dopo la sua morte.

6 La misurazione dell’anomalia non ha bisogno di grandi teorie, quanto di mezzi in grado di garantire una quantificazione esatta che attende solo di essere riscontrata con precisione: questa l’ipotesi di fondo dell’impianto lombrosiano che innerva la psichiatria italiana tra Otto e Novecento, soprattutto quella che si occupa dell’ambito militare. Il riconoscimento dell’eredità delle caratteristiche devianti, fondamentale per identificare a priori l’anormale nella massa dei chiamati alla leva, sollecita conseguentemente adeguate politiche di controllo, nonché misure terapeutiche, necessarie per escludere il “degenerato” dalla comunità e impedire così la riproduzione e la diffusione delle “stigmate dell’anormalità”. E in tale ottica l’opera di controllo dell’alienismo militare assume un’importanza fondamentale rispetto al processo

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attraverso cui si costruisce una Nazione libera dalle sue presunte tare psicobiologiche21. Ma in cosa si concretizza questo lombrosianesimo applicato allo studio della devianza militare22? Innanzitutto nelle ripetute misurazioni antropometriche effettuate sui soldati, attraverso le quali raggiungere una convincente e condivisa grammatica della devianza, utile per poter finalmente identificare il militare anomalo23. Soprattutto nel periodo che precede il conflitto questa era ritenuta una questione fondamentale, come indicato da Gaetano Funaioli nel 1911: Sarebbe, d’altra parte, poco decoroso, che i Medici militari italiani si disinteressassero di una tale questione vitale, dappoichè dall’Italia è partita per opera di Lombroso e sua scuola, e per opera di Morselli, Tamburini e Bianchi, la scintilla che ha irraggiato tanta luce di vero in fatto di Scienza psichiatrica e di Psicologia criminale, le cui applicazioni interessano nel modo il più diretto, tra tutti gli ambienti collettivi, quello militare24.

7 Bisogna raggiungere un ottimale utilizzo delle risorse messe a disposizione dalla nazione e le caserme appaiono come l’ambito d’elezione per «formare l’uomo speciale, professionalmente orientato»25. In questo orizzonte la medicina si configura più che come un sapere al servizio della salute individuale, nei termini di una scienza a favore delle esigenze della collettività e in questo senso si afferma il suo ruolo biopolitico26. Esemplificativa di ciò la prospettiva di “medicina sociale” ribadita, in più occasioni, come necessaria da Placido Consiglio, tra i più celebri alienisti militari dell’epoca. La sua non deve essere considerata soltanto come l’ottica di un medico, importante ma non rappresentativa di tendenze più generali, quanto come una strategia programmatica che saldando psichiatria-eugenica e medicina sociale stabilisce un orizzonte biopolitico ben preciso, che non è avventato individuare come punto di partenza delle successive politiche totalitarie. Secondo Consiglio l’ambiente militare è un laboratorio di profilassi sociale unico, che consente di separare le vite “proprie” da quelle “improprie” e di contribuire all’opera di purificazione della razza. Insomma: si tratta di «scalpellare, ripulire e plasmare tutta questa massa disforme e varia»27 che costituisce il “fondo oscuro” della nazione. Il paradosso è che a fronte di una sottolineata esigenza di medicina sociale, che Consiglio avanza ripetutamente almeno fin dal V° Congresso internazionale di psicologia del 1905, lo sviluppo della psichiatria militare come ambito specifico dell’alienismo è ben lungi dall’essere un dato di fatto. Vi erano pochi dubbi sull’importanza sociale dell’«indagine delle anomalie costitutive e delle manifestazioni morbose – episodi che o immanenti – di ciascuna forma di vita collettiva»28, come sosteneva sempre Consiglio, in continuità con Lombroso, ancora nel 1914, ma pochi erano i progressi registrati, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione di uno strutturato servizio psichiatrico dell’esercito e questo nonostante le discussioni, gli interventi e i dibattiti presenti sulle riviste scientifiche. Serve dunque una «medicina sociale» sono parole sempre di Consiglio «che è essenzialmente igiene […] e che oggi trionfa e si sviluppa rigogliosa per l’impulso fecondo, e rinnovatore della scuola positiva italiana di antropologia e sociologia criminale»29. La psichiatria, la sociologia, l’antropologia, concorrono tutte dunque nella definizione di un insieme di pratiche, di discorsi e di categorie che sono essenziali per la particolare definizione della concezione del soldato alienato. Nello specifico il proposito di quello che è uno dei maggiori alienisti con interessi militari dell’epoca – Placido Consiglio30 – è di gettarne le grandi linee per l’esercito, aggregato umano complesso e particolare, per struttura e funzioni, e perché sempre rinnovato nei suoi elementi individui, sempre simile ma non mai uguale a sé stesso, di continuo vivificato dalle correnti

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osmotiche che vengono dalla più grande collettività nazionale e quindi mutabile, benché in minima parte per la sua potenza coesiva, nel rispondere alle esigenze ambientali, alle condizioni di fase storica di civiltà , ed alle correnti di idee che vibrano nell’atmosfera morale della nazione31.

8 Passaggio denso che vuole rendere conto di come le scienze dell’uomo32 possano trovare in questo speciale aggregato fatti interessantissimi da osservare, sia nei tempi ordinari, che nelle fasi critiche di esso (guerre, spedizioni coloniali, grandi manovre, disastri nazionali, ecc.: tutti gli eserciti hanno un substrato organico e psicologico comune, ma hanno anche atteggiamenti particolari e particolari espressioni che riflettono l’anima della stirpe, l’orientamento psichico del popolo, e la fase di civiltà nazionale33.

9 E l’esercito, nella fattispecie dopo Adua e i fallimenti coloniali, assume sempre più il valore strategico di laboratorio per lo studio e la correzione sottrattiva dei caratteri psichici della nazione, in particolare quelli «deviati»34. Questi ultimi erano programmaticamente fatti oggetto di una duplice azione eugenica35 che possiamo definire di tipo negativo e di tipo positivo. Secondo la prima declinazione si trattava di purificare la psiche sociale attraverso un lento ma inesorabile processo di selezione da effettuarsi durante la leva, non soltanto al momento della visita ma anche successivamente, provvedendo a eliminare gli individui “inadatti” e i “degenerati”. Secondo la strategia positiva, invece, bisognava operare ad un livello più profondo, modellando il piano dell’attività educativa da compiersi attraverso regolamenti comuni, condivisione di attività e norme, riti e celebrazioni collettive e, soprattutto, attraverso l’azione pedagogica di ufficiali e sottoufficiali il cui compito era quello di far transitare, anche mentalmente, le reclute dal dominio familiare e dal contesto di provenienza a quello militare. Il fine era la canonizzazione del soldato tipo, prototipo dell’italiano ideale, una costruzione metafisica che ipostatizzava elementi ideologici desunti da un passato mitico e caratteristiche quali la forza di volontà, il coraggio, la disciplina, il senso del dovere, tutti fattori ritenuti in grado di contrassegnare un modello da imitare all’interno di un aggregato razziale sano. Modello che risente inoltre delle trasformazioni che riguardano l’immaginario maschile tra Otto e Novecento e che in diversi ambienti – quello militare è uno di questi – viene percepito come a rischio. L’immagine dell’uomo basata sul coraggio, sull’onore, sulla forza di volontà – come indicato da George L. Mosse in un celebre saggio36 – è una delle architravi della Modernità, in grado di contrassegnare il “vero uomo” e di stabilirne il suo valore nella società. Lo stereotipo che ne deriva, basato sull’ideale delle virilità, funge da norma per la mascolinità e si regge sull’alterità nei confronti di alcune figure: anormali, deviati e donne. Tutte categorie ritenute, anche se in forme e modi diversi, incapaci di esercitare autocontrollo e piena determinazione esistenziale. Questa immagine dell’uomo entra in crisi in particolare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando i primi segnali dell’emancipazione femminile fanno percepire ad alcuni ambienti particolarmente sensibili – come quello militare – la messa in discussione di principi, gerarchie e ordini secolari basati sul principio di virilità37. A ciò si risponde attraverso un irrigidimento delle politiche disciplinari e una più generale politica educativa, volte a salvaguardare l’ideale dell’uomo virile. L’ideologia di fondo prevedeva che una attenta e articolata educazione militare contribuisse all’abbandono delle caratteristiche antropologiche “deviate” e, in ultima istanza, consentisse l’affermazione delle «maschie virtù civili»38 minacciate dall’avvento della società di massa39. «Tutta la vita, infatti, e non solo quella di caserma o di trincea, era milizia,

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ovvero disciplina e sforzo»40. Questo almeno era l’orizzonte ideologico attraverso cui affrontare gli sconvolgimenti ideologici e le sfide di fine secolo e, in tutto ciò, la psichiatria doveva apportare soprattutto un metodo scientifico e positivo attraverso cui operare la profilassi bio-antropologica e identificare l’elemento da escludere. Accanto a questo compito di tipo tradizionale, Consiglio, attraverso la prospettiva di medicina sociale, vagheggiava un’estensione del campo d’azione, più precisamente un rinnovamento nei metodi pedagogici, seriazioni di attività e di rendimenti, selezionamenti opportuni onde adattare ai singoli gruppi metodi educativi differenti e modi di versi di istruzione, per meglio metterne in valore le attitudini psichiche e la capacità fisica, sì che ciascuna personalità dia il miglior rendimento: e questa è opera non solo feconda di vantaggi per l’aggregato militare, ma anche per la società, nella formazione razionale del cittadino-soldato, per cui ciascuno apprenda meglio e viluppi in sé la metodicità del lavoro, la disciplina della volontà, la prontezza delle iniziative, il senso più reale di vita collettiva e di solidarietà umana nel culto della patria41.

10 In ordine a queste esigenze di Stato la psichiatria militare trova modo di ritagliarsi un ruolo e una funzione sociale che va ben al di là delle prerogative disciplinari previste per l’alienismo manicomiale con la legge n.36 del 1904. D’altra parte la consapevolezza di partecipare ad una missione rigenerativa dall’alta valenza sociale rendeva gli psichiatri militari – Placido Consiglio ne è un esempio paradigmatico – fieri e convinti sostenitori del progetto eugenico; depurare l’esercito dagli elementi inutili e, così facendo, contribuire alla realizzazione di una razza con quelle caratteristiche «particolarmente apprezzate nelle classi medie delle popolazioni bianche»42 non poteva non avere un effetto gratificante per le aspirazioni corporative di un sapere che, in particolare dopo il 1904, risultava frustrato sul piano del riconoscimento sociale. Infatti, se tale provvedimento era lungamente atteso e stabiliva in maniera univoca le «procedure di ricovero nel manicomio e statuiva con maggiore precisione il ruolo del medico manicomiale, d’altra parte vincolava quest’ultimo alla funzione di carceriere degli elementi ritenuti «pericolosi a sé e agli altri»43. Lo psichiatra – e in particolare il direttore dell’ospedale psichiatrico – era investito di un ruolo fondamentale nelle procedure di ammissione e, soprattutto, nella gestione dei reparti»44, ma ciò lo legava indissolubilmente all’universo manicomiale, alla sua esistenza separata, e questo di fatto sanciva una separazione dalle altre branche della medicina che operavano nelle cliniche e negli ospedali civili. Alla luce di ciò il riconoscimento sociale garantito dalla funzione di garante della palingenesi fisico-morale della nazione appare a molti alienisti, ancorati all’universo manicomiale, una possibilità di riscatto e un modo per evadere dal ruolo asfittico che la legge del 1904 ha stabilito per loro45. Ma cosa significa rivestire la funzione di guardiano dell’igiene sociale, di scienza garante del consolidamento dell’elemento psichico nazionale? Significa operare per snidare e correggere l’anormale, soprattutto quando questo è presente nella superiore comunità militare46. Come afferma Andrea Scartabellati: «Al liberale principio della difesa delle libertà individuali, […] si contrapponevano ora le necessità di un presunto uomo collettivo, che individuava coerentemente il suo braccio operativo nella superiore collettività militare»47.

11 In questo contesto di trasformazioni che definiscono ruoli, competenze e prerogative nell’ambito del trattamento della malattia mentale, si registra un incremento dell’«andamento delle malattie nervose-mentali, segnalato dalle statistiche dei varii eserciti»48. Il tema è di strategica importanza perché «per quanta diligenza s’impieghi nell’attuazione delle norme rigorose del reclutamento […] entreranno sempre nelle file

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dell’esercito varii candidati alle psicopatie e alla delinquenza, rappresentati soprattutto da individui a fondo mentale debole e a costituzione antropologica non eccessivamente abnorme e quindi difficilmente valutabile»49. Tra questi “deboli di mente” un ruolo tutto particolare viene riconosciuto ai simulatori, soggetti chiaramente degenerati che, attraverso l’elusione dei doveri verso la nazione, evidenziavano tendenze asociali e profili amorali che sul piano criminologico e su quello dell’igiene sociale meritavano particolare attenzione. Funaioli però riteneva la presenza di questi soggetti minoritaria tra le file dell’esercito, soprattutto perché la condizione richiedeva una disciplina d’intenti non facilmente prolungabile nel tempo, in particolare nel caso delle forme morbose gravi50. Nonostante ciò la figura del “degenerato”, di cui il simulatore è perlopiù ritenuto una esemplificazione, è tra quelle che maggiormente preoccupano le politiche di controllo della medicina sociale, così come riassunto efficacemente da Consiglio: i degenerati [sono] la vera piaga dell’esercito, come di ogni collettività umana, di continuo danno per la deficienza etica che li distingue, e per cui commettono ogni sorta di cattive azioni, e si mantengono indisciplinati, insensibili, irrequieti. Turbolenti, ribelli, ineducati, insofferenti della disciplina, insensibili ai rimproveri ed alle punizioni, ché anzi si esasperano ed acuiscono le loro percezioni ostili dell’ambiente e la reattività morbosa: non capaci di sentire il dovere e la subordinazione, sono egoisti ed egocentrici, rozzi e sguaiati nel contegno, pervicaci, spesso simulatori, capaci di odio e rancore, suscettibili e permalosi, dediti frequentemente al vino al giuoco alle donne, e l’esaurimento sessuale e l’intossicamento alcolico li peggiora, li fa violenti ed impulsivi, irruenti e prepotenti , schiamazzatori ribelli e clastomani. I degenerati inferiori, – di cui si compone una buona parte dei delinquenti, e che nelle carceri militari o nelle compagnie di disciplina costituiscono i recidivi, gli incorreggibili, i pessimi – formano una massa di detriti umani che, dalle forme meno pericolose e meno anomale della maleducazione e della rozzezza primitiva del carattere, vanno per gradi sino all’imbecillità morale, (di cui la pazzia etica è il grado estremo), che è uno stato di vera analgesia del sentimento e degli affetti. Ne consegue: uno modo particolare di appercepire le influenze esterne, specie le relazioni interpersonali, e di reagirvi, imperniandosi tutto il mondo attorno al proprio io egoista e brutale, anaffettivo e pretenzioso, volto tutto alla prepotente soddisfazione dei propri istinti e bisogni, senza alcun riguardo alle norme di convivenza ed ai diritti altrui, per cui urtano fatalmente contro l’ambiente sociale e militare, contro le norme giuridiche o le regole disciplinari […]51.

12 Abbiamo riportato questo lungo estratto perché evidenzia come la figura del degenerato – e quindi anche quella del simulatore – sia paradigmaticamente assurta a idealtipo dell’elemento deviato da individuare ed escludere dall’esercito, attraverso il «rigore della selezione morale»52, per evitare la contaminazione della comunità militare.

13 Gli effetti di questa prospettiva sul piano delle politiche di gestione e di trattamento segneranno la specificità della psichiatria italiana militare. Rispetto ad altre realtà europee53 questa risulterà orientata verso l’individuazione e l’esclusione dell’anormale, piuttosto che verso la sua riabilitazione. Non è infatti difficile scorgere nella dura requisitoria di Consiglio nei confronti dei «degenerati», non soltanto la ipostatizzazione della figura del «delinquente nato» in relazione all’ambiente caserma, ma anche l’attenta descrizione delle caratteristiche comportamentali e psicologiche che la contraddistinguono, secondo un metodo che tiene insieme i due versanti della diagnostica clinica-criminale e dell’eugenica negativa. In questa saldatura tra due versanti, non necessariamente coestensivi, viene alla luce l’importanza laboratoriale –

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cui si è già fatto riferimento – dell’esercito per la psichiatria militare come medicina sociale. Ciò si spiega anche alla luce della profonda diffidenza dei politici e delle gerarchie militari nei confronti della “razza italiana” e nel suo esercito, maturata dopo Adua. Alla regressione della stirpe era doveroso opporre un’energica opera di rigenerazione fisica e morale della razza tutta. Da queste esigenze non poteva che uscire rafforzato il classico paradigma organicistico che, se da una parte svalutava oltremodo i contenuti ideativi espressi dalla costellazione patologica, dall’altra rafforzava l’azione biopolitica di controllo che abbiamo detto rappresentare l’indirizzo generale della medicina sociale italiana.

14 Il progetto di fondo volto all’allontanamento di «degenerati», «amorali» e «inadatti» dall’esercito, per quanto condiviso come piano eugenico di rilancio della razza, nei fatti non trovò quell’attuazione massiva prefigurata dai discorsi di personalità come Consiglio. Infatti, al netto dei provvedimenti di riforma preventivi attuati durante le visite mediche e dei casi evidenziati dalle statistiche54, era la mancanza di un adeguato servizio medico-psichiatrico nell’esercito a rendere difficoltoso l’indirizzo eugenico di fondo. Infatti, come riporta sempre il medico Funaioli, una volta venuti alla luce dei problemi mentali degni di osservazione i soldati «sono mandati ai Manicomi provinciali e quindi perduti completamente di vista»55. Tale deficit, aggravato dalle diffidenze istituzionali e dalle problematiche comunicazioni tra le diverse istituzioni dello Stato, da un lato minava alla radice qualunque effettivo risultato in ordine a piani di purificazione collettivi; dall’altra rimetteva al centro di ogni politica di igiene sociale, anche quella basata sul laboratorio militare, proprio i manicomi e le singole direzioni sanitarie che, nei fatti, erano i luoghi di raccolta ultimi per questa umanità da escludere. Il ruolo di collettore finale, d’altra parte, forniva ai medici-direttori un potere diagnostico e sanzionatorio non indifferente proprio in ordine a quel regime di esclusione che l’eugenica per sottrazione ha la necessità di perseguire. Ma non sempre i direttori si adattarono al ruolo ancillare per loro previsto in ordine alle esigenze eugeniche indicate. Infatti, come nel caso di Racconigi, le direzioni sanitarie agirono sovente con molta autonomia, mostrando anzi ripetutamente insofferenza per le intromissioni delle autorità militari nella vita del manicomio56. Non è difficile inoltre scorgere in questo fallimento annunciato delle politiche eugeniche di massa, almeno prima della Grande Guerra, la radice di una contraddizione ontologica che innerva nel profondo la struttura nazionale e, nella fattispecie, le politiche di igiene pubblica che riguardano il trattamento della follia in ambito militare.

3. Individuare il simulatore e rispedirlo in caserma

15 Uno dei compiti della psichiatria italiana che si occupa di ambito militare è dunque quello di preservare l’esercito dagli elementi “inutili”, in questo senso è chiamata a svolgere un’opera di bio-profilassi tesa a preservare la comunità dalle contaminazioni dei «degenerati» e dagli «anormali»57. Parimenti essa è chiamata a individuare i potenziali simulatori, smascherarli e restituirli ai loro doveri verso la nazione. I due elementi non possono essere separati e rappresentano uno il rovescio dell’altro. Allontanare gli elementi dannosi e realizzare un collettivo all’altezza del confronto con le altre potenze coloniali non esaurisce il compito di difesa dell’esercito: bisogna anche avere a disposizione tutti gli uomini utili per realizzare un insieme coeso, efficiente e moderno. L’azione di profilassi si ribalta così in opera disciplinare quando si tratta di

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individuare chi, pur essendo in dovere di servire la collettività, cerca mediante tutti gli stratagemmi, in particolare quello del disagio psichico, di evitare il servizio militare. Generalmente, quando i sintomi del soldato – di solito esasperati e violenti – facevano sorgere il dubbio di stare di fronte a un potenziale simulatore, si procedeva in maniera abbastanza risoluta, sottoponendo il militare a brevi periodi di osservazione in manicomio, basati su una terapia individuale decisa che, nei casi più frequenti di manifestazioni acute, si concretizzavano in periodi di isolamento in cella, legati al letto, alternati a frequenti interrogatori da parte delle autorità mediche e a terapie d’urto58, come la “bastonata d’acqua”59 o l’applicazione di correnti elettriche60 che, nel caso del manicomio di cui ci occupiamo, era praticata di frequente per tranquillizzare gli acuti fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento61. I medici, attraverso ciò, dovevano trasmettere l’idea di essere nella posizione di poter smascherare il simulatore, facendo insorgere nel militare la convinzione che a maggiore resistenza sarebbe corrisposta una più tenace azione disciplinare. Il ritorno in caserma era l’unico orizzonte che doveva profilarsi davanti ai soldati ritenuti impostori; per questa ragione, secondo le indicazioni degli psichiatri militari, in manicomio, il regime di internamento doveva prevedere, oltre a quanto già osservato, un certo insieme di restrizioni compatibile con l’idea che il soldato, fondamentalmente, fosse un potenziale fuggiasco e, per questo, richiedesse particolare attenzione. Attraverso serrati interrogatori, pratiche terapeutiche adeguate e controlli stringenti, si doveva far capire al soldato che «ogni messa in scena era inutile perché senza sintomi obiettivi, non riproducibili con la volontà né con la suggestione, non si era creduti, ma anzi, puniti»62. Queste indicazioni però non vengono messe in pratica a Racconigi, almeno fino al periodo qui preso in esame, durante il quale la direzione di Cesare Rossi cerca di svecchiare l’Istituto e le sue pratiche, anche attraverso un programma di no-restraint, pensato per gli alienati tutti al di là della loro condizione di civili o di militari, con il solo discrimine della maggiore o minore pericolosità sociale63. La situazione cambierà durante il conflitto, quando esigenze di sovraffollamento e di carenza di personale, oltre che difficoltà di approvvigionamento, spingeranno il Direttore ad adottare una politica di rapide dimissioni, per molti versi conforme alle esigenze di reimpiego delle autorità militari, ma in verità originate soprattutto da istanze endogene del manicomio64.

16 Tra i potenziali simulatori destavano particolari sospetti quegli elementi che dai riscontri e dalle note di caserma, dall’osservazione e dall’anamnesi, evidenziavano una inclinazione verso l’alcool65.

17 Sembra essere il caso del soldato Giovanni G., entrato nel manicomio il 5 di agosto del 1913, proveniente dall’Ospedale Militare principale di Savigliano. Qui il soldato risulta «di difficile custodia e pericoloso», per questo «se ne propone il trasferimento d’urgenza al manicomio Provinciale di Racconigi»66. Da qualche tempo, presso il 73° Reggimento Fanteria dove è inquadrato, il militare «ha cominciato a dar segni di disturbi psichici caratterizzati da confusione mentale, insonnia, agitazione e ricorrenti accessi impulsivi con mania di distruzione»67; i sintomi non sono immediatamente ricollegabili a cause fisiologiche obiettive e, per questo, sorge subito il sospetto che la loro origine possa essere artificiosa. La persistenza nell’immaginario medico delle idee di predisposizione e degenerazione non soltanto contribuisce a delineare un clima di diffidenza nei confronti del soggetto, ma sollecita anche il disprezzo nei confronti di quello che viene ritenuto uno strumentale simulatore. Tra le corsie dell’opedale si diffondono preoccupazione e ansia, non soltanto tra medici e infermieri, ma anche tra

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gli altri pazienti tenuti svegli durante la notte dalle grida del soldato e dalla violenza con cui si scaglia contro il mobilio e le pareti, prima di essere contenuto. La condizione di pericolosità sociale del giovane spinge il delegato di P. S. di Savigliano a disporre il ricovero coatto presso la struttura manicomiale provinciale68. Giovanni G. ha 22 anni, è celibe, e appena fa il suo ingresso in manicomio, dopo le procedure di rito con la consegna degli effetti personali, la doccia e la rasatura dei capelli, viene sottoposto ad un primo momento d’osservazione generale che non evidenzia sintomi particolari: «contegno ordinato e nulla a carico del linguaggio parlato»69. Il militare non è soggetto a delirio e «non sembra allucinato»70, «non è compulsivo»71, né agitato, anzi interloquisce e appare «presente a sé»72. Questa apparente normalità spinge la Direzione Sanitaria ad interrogarsi sulla natura dei sintomi emersi in ospedale per poi concentrarsi, in particolare, sulla condizione di abituale bevitore del ricoverato: «Da borghese – viene riportato nell’anamnesi – beveva volentieri e qualche volta si ubriacava»73. L’informazione, in mancanza di altri elementi, contribuisce a indirizzare il quadro diagnostico che identifica nel militare un soggetto dedito al vizio e, per questo, un potenziale inadatto ai doveri della vita sociale. Nonostante la ricostruzione biografica mostri che «da borghese […] non si è infettato di morbi venerei»74 – altro elemento che avrebbe aggravato la fisionomia clinico-delinquenziale – l’abitudine di consumare sostanze alcoliche lo inquadra alla luce di categorie che fanno riferimento all’indisciplina, alla ribellione, all’incapacità di vivere alla luce della morale condivisa. Questi tratti assumevano un ordine e una fisionomia ben precisa in relazione alla teoria dell’atavismo di Cesare Lombroso, secondo cui certi soggetti risultavano essere una sorta di paradosso evolutivo, presentando caratteri che appartenevano alla storia “bestiale” e all’ontogenesi della specie umana ormai trascorsa. Nello specifico il simulatore rappresentava il rifiuto di adattarsi ai bisogni e alle necessità della collettività e ciò era palese proprio in quei casi di rifiuto della vita militare che, a sua volta, rappresentava il momento più alto del servizio reso alla società. Il militare bugiardo, quello che dietro il disagio psichico celava un’intenzione perversa, era dunque da perseguire con durezza, dopo averlo scovato in mezzo alle altre tipologie di inadatti che presentavano caratteristiche di debolezza, anormalità e ritardo psichico. Per questi motivi, fin dal principio del Novecento, si discusse dell’opportunità di costituire negli ospedali militari75 sale per l’osservazione psichiatrica: sorta di gabinetti anatomici in cui il militare che mostrava segni di pazzia veniva osservato e studiato con il fine di catturare i segni della sua diversità, ma soprattutto gli elementi in grado di smascherarlo quale simulatore76. Il preconcetto secondo cui il simulatore era un inadatto a servire la nazione orientava lo sguardo del medico situandone le rilevazioni diagnostiche che, alla luce di ciò, non potevano che confermare l’elemento disfunzionale della personalità ricercato. Più in generale il solo fatto di presentare dei sintomi mentali rendeva il soldato un elemento pericoloso, un soggetto da inscrivere all’interno di quelle «classes dangereuses» che nell’Ottocento vengono poste sotto particolare attenzione in quanto pericolo potenziale per l’ordine costituito. Che il soldato fosse un simulatore o che risultasse un «ammalato di nervi», in entrambi i casi risultava essere un “diverso” che opponeva resistenza al progetto di omologazione e standardizzazione dell’italiano ritenuto indispensabile dalle Forze armate. In quest’ottica, per gli psichiatri, la simulazione non era poi troppo differente dalla pazzia propriamente intesa: entrambe condividevano il seme della degenerazione e come tale dovevano essere disciplinate77.

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18 A Racconigi, almeno inizialmente, la politica terapeutica e gestionale del direttore Rossi verso i soldati alienati non appare diversa da quella riservata agli altri internati ed è ispirata, in una prima fase, a un generico buon senso di stampo paternalistico, del tipo già adottato verso gli internati civili; successivamente a una politica di allontanamenti massicci nei confronti di tutti quei soggetti – militari ma anche frenastenici, cronici, dementi tranquilli – non immediatamente pericolosi, volta più a eliminare il problema del sovraffollamento che a servire una consapevole strategia disciplinare. La soglia tra queste due declinazioni della politica è da collocare proprio nel periodo, tra il 1913 e il 1914, in cui il caso di Giovanni G. si situa. Il paternalismo del Direttore si concretizzava fondamentalmente in una rigida organizzazione degli spazi a disposizione degli ammalati all’interno del manicomio, in una ferrea routine scandita dalle terapie e dal controllo continuo e su qualche incentivo – le porzioni di tabacco giornaliere e qualche attività ricreativa – per i più meritevoli (vale a dire quelli che non davano problemi). Il tutto nella convinzione che l’alienato destinato al manicomio fosse un soggetto a ridottissimi margini di autonomia e quindi da guidare e controllare, piuttosto che da sostenere nel suo percorso di crescita. Le eccezioni sono costituite proprio da quei soggetti che, per la loro condizione di ridotta pericolosità sociale, potevano ambire a situazioni di inserimento familiare al di fuori del manicomio. Tali individui, falliti i tentativi di inserimento78, verranno successivamente destinati in massa alle succursali di Cuneo per pazienti «tranquilli».

19 Per i militari, invece, si delinea sempre più chiaramente una politica basata su rapide dimissioni, come accade anche al soldato Giovanni G.. In questo senso la sua vicenda, con il repentino licenziamento, è indicativa di una politica manicomiale che sta cambiando e che inizia a considerare i soldati come internati diversi, soggetti a una politica di trattamento che, seppur non formalizzata, prevede alcune specificità: periodi di osservazione ristretti, dimissioni rapide79 e diagnosi prudenti 80. Queste ultime, in particolare, sono il segnale più evidente di una prassi che lentamente vuole stabilire una zona di cauta e circospetta sicurezza intorno al riconoscimento della malattia mentale nei militari81. Molto probabilmente82 un tentativo, inespresso e non formalizzato certo, di evitare tensioni con le autorità militari su temi delicati quali il riconoscimento di un nesso tra la vita militare e l’insorgenza della malattia mentale e il conseguente rilascio di pensioni.

20 Così, una volta riscontrata una condizione fisica generale discreta, minacciata soltanto dai momentanei periodi di denutrizione legati ad una strisciante depressione83 e «lievemente turbata dal presente stato confusionale»84 – quello che lo ha condotto in manicomio –, valutato il rapido miglioramento, si decide di dimetterlo dopo solo 12 giorni di ricovero, il 21 agosto 1913. Un periodo di osservazione breve, inferiore a quello solitamente previsto a Racconigi – di almeno due settimane – e per questo emblematico di quella politica di rapide dimissioni che il direttore Cesare Rossi attuerà anche durante la guerra verso gli alienati – o i presunti tali – militari. L’invio al corpo d’appartenenza chiude la cartella clinica e la vicenda del militare, che non farà più ritorno a Racconigi.

21 Al di là di quanto indicato su una vicenda che, insieme ad altre, funge da soglia tra due prassi e, probabilmente, due visioni della medesima direzione sanitaria sulla questione degli alienati militari, nei fatti questa politica locale del trattamento dei soldati affetti da disagio psichico mostra alcune delle sfumature e dei cambiamenti che interessano il tema prima della Grande Guerra. Contrariamente alla poca attenzione dedicata dalla

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storiografia all’argomento, la questione presenta delle specificità degne di essere portate alla luce, dato che, come mostrano i 777 suicidi avvenuti tra il 1874 e il 188385, il disagio mentale tra i militari rappresenta un problema rilevante anche prima della epidemica diffusione delle «nevrosi belliche» durante il Primo Conflitto Mondiale. Tutto ciò, tra l’altro, era ben presente agli osservatori più acuti del tempo, come Augusto Setti che, nel 1886, così scriveva nel suo L’esercito e la sua criminalità: «Le statistiche penali militari finora non sono che allo stato di un inventario arido e imperfetto. Moltissimi dati, che figurano negli originali presso il Ministero, non furono riprodotti nelle copie a stampa»86. Anche oggi questo è un buon motivo per continuare a indagare le dimensioni del fenomeno dal prisma d’osservazione dell’universo manicomiale locale.

NOTE

1. Cfr. VILLA, Renzo, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 183. 2. Cfr. BOTTINI, Ezio, «La preparazione alla guerra e l’educazione militare della gioventù», in Rivista militare italiana, 2, 16 febbraio 1914, pp. 278-304, p. 278. 3. Cfr. CONTI, Giuseppe, Fare gli italiani. Esercito permanente e “nazione armata” nell’Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 208. 4. Ibidem, p. 209. 5. Cfr. CHIMIENTI, Piero, Dopo Adua. La Camera, l’esercito ed il paese, Roma, Elzeveriana, 1896. 6. Per una problematizzazione recente del processo di costruzione della figura del «criminale nato» vedi i saggi contenuti in: MONTALDO, Silvano, TAPPERO, Paolo (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, Torino, Utet, 2009; MONTALDO, Silvano (a cura di), Cesare Lombroso. Gli scienziati e la nuova Italia, Bologna, Il Mulino, 2011. 7. Su tutti celebre il caso di Salvatore Misdea, il soldato calabrese che fece fuoco uccidendo e ferendo diversi commilitoni. Al processo intentato contro di lui partecipò anche Lombroso in veste di perito: LOMBROSO, Cesare, BIANCHI, Leonardo, Misdea e la nuova scuola penale, Torino, Bocca, 1884. 8. Sul «degenerazionismo» vedi almeno il classico di PICK, Daniel, Faces of Degeneration: A European Disorder, C. 1848-1918, Cambridge, Cambridge University Press, 1993. 9. Pietro Grilli, dopo che nel 1885 Francesco Bini rimise l’incarico di direttore del manicomio in polemica con la Deputazione provinciale, gli subentrò alla guida del R. Spedale Bonifazio per i mentecatti, precedentemente già diretto dal celebre Vincenzo Chiarugi. 10. Cfr. GRILLI, Pietro, La pazzia nei militari, Roma, Voghera Carlo, Tipografia di S.M., 1883. 11. Ibidem, p. 4. 12. Ibidem, p. 6. 13. La documentazione prodotta dall’Ente, sopravvissuta, è quasi tutta divisa tra l’Archivio della Provincia di Cuneo e l’Archivio Storico dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi. Cfr. CAFFARATTO, Daniela (a cura di), Archivio dell’Ospedale neuropsichiatrico di Racconigi, Torino, Hapax, 2010. 14. Sul tema del disagio mentale nei soldati durante la Grande Guerra vedi: Cfr. GIBELLI, Antonio, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati

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Boringhieri, 2007; BIANCHI, Bruna, La follia e la fuga, Roma, Bulzoni, 2000. Sempre della stessa autrice: BIANCHI, Bruna, Il trauma della modernità, in SCARTABELLATI, Andrea (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande guerra, Torino, Marco Valerio, 2008, pp. 9-64; SCARTABELLATI, Andrea, Intellettuali nel conflitto: alienisti e patologie attraverso la grande guerra (1909-1921), Udine, Edizioni Goliardiche, 2003; BINNEVELD, Hans, From Shell Shock to Combat Stress. A comparative History of Military Psychiatry, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1997; SHEPARD, Ben, Soldiers and Psychiatrists in the Twentieth Century, London, Jonathan Cape, 2000; MICALE, Mark, LERNER, Paul (eds.), Traumatic pasts, History, Psychiatry, and Trauma in the Modern Age 1870-1930, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; LEESE, Peter, Shell Shock, Traumatic Neurosis and the British Soldiers of the First World War, New York, Palgrave- Macmillan, 2002; LERNER, Paul, Histerical men. War, Psychiatry and the Politics of Trauma in Germany, 1890-1930, Ithaca (NY), Cornell University Press, 2003. 15. Cfr. TAMBURINI Augusto, FERRARI Giulio Cesare, ANTONINI Giuseppe, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie Nazioni, Torino, UTET, 1918, p. 661. 16. Ibidem. 17. Sul più celebre di questi casi, quello che vede protagonista il soldato Salvatore Misdea, vedi: PATARINI, Giada, «Il processo Misdea», in Modelli, giudizi, pregiudizi: materiali per una storia di fine secolo, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma, a.a. 1999-2000; BERRÉ, Alessio, «Diritto, scienza e letteratura nell’Italia post-unitaria: il caso Misdea», in Between Journal, Rivista dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della letteratura, II, 3/2012, URL: < http://ojs.unica.it/ index.php/between/article/view/430 > [consultato il 27 gennaio 2018]; SCARFOGLIO, Edoardo, Il romanzo di Misdea, Firenze, Polistampa, 2003; LOMBROSO, Cesare, BIANCHI, Leonardo, op. cit. 18. Questa teoria identifica nella sopravvivenza di condizioni di primitivismo negli stadi evolutivi successivi della specie la responsabilità principale del delitto e della follia. 19. Cfr. LOMBROSO, Cesare, Come nacque e come crebbe l’antropologia criminale, in Ricerche e studi di Psichiatria, Nevrologia, Antropologia e Filosofia dedicati al prof. E.Morselli nel XXV anniversario del suo insegnamento, Milano, Vallardi, 1906, p. 3., pp. 3-19 20. Cfr. VILLA, Renzo, op. cit., p. 135. 21. Cfr. SCARPATO, Francesca, SCARTABELLATI, Andrea, «Il discorso eugenico della psichiatria italiana dagli inutili alla vita ad una dannosa sottoumanità? Un’ipotesi di ricerca», in Archivio Trentino, 2, 2003, pp. 75-99, p. 79. 22. Sui rapporti tra soldati, follia e delinquenza vedi: SETTI, Augusto, L’esercito e la sua criminalità: studio, Milano, Tip. A. Colombo e A. Cordani, 1886; RIBAUDO, Brancaleone, Studio antropologico del militare delinquente, Torino, F.lli Bocca, 1893; TORRES, Pasquale, Il delinquente soldato, in BIANCHI, Augusto, SIGHELE, Guido, FERRERO, Guglielmo (a cura di), Il Mondo Criminale italiano, Milano, L. Omodei Zorini Editore, 1893, pp. 175-207; HAMON, Augustin, Psychologie du militaire professionnel, Bruxelles, Charles Rozez, 1894; COGNETTI DE MATIIS, Leonardo, Il marinaio epilettico e la delinquenza militare, Torino, F.lli Bocca, 1896; PUCCI, Paolo, Delle Nevrosi nei militari, considerate precipuamente sotto il rapporto medico-legale, Torino, F.lli Bocca, 1897. 23. Cfr. FAROLFI, Bernardino, Antropometria militare e antropologia della devianza (1876-1908), in DELLA PERUTA, Franco (a cura di), Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1183-1190. 24. Cfr. FUNAIOLI, Gaetano, «Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito», in Rivista sperimentale di freniatria, 38, 1911, pp. 337-368, p. 338. 25. Cfr. POGLIANO, Claudio «La Grande Guerra e l’orologio della psiche», in Belfagor, 41, 4/1986, pp. 381-406, p. 382. 26. Sul nesso medicina-biopolitica vedi: Cfr. FOUCAULT, Michel, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, Paris, Gallimard, 2003; ID., Les anormaux. Cours au Collège de France 1974-1975, Paris, Gallimard, 1999; ID., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979,

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Paris, Gallimard, 2004; vedi inoltre: ENROTH, Henrik, «Governance: The art of governing after governmentality», in European Journal of Social Theory, 17, 1/2014, pp. 60-76. 27. Cfr. CONSIGLIO, Placido, La medicina sociale nell’esercito, Roma, Tipografia Enrico Voghera, 1914, p. 3. 28. Ibidem. 29. Ibidem, p. 4. 30. Su Placido Consiglio vedi: PAOLELLA, Francesco, Un laboratorio di medicina politica. Placido Consiglio e il Centro psichiatrico militare di prima raccolta, in CARRATTIERI, Mirco, FERRABOSCHI, Alberto (a cura di), Piccola patria, Grande guerra. La Prima guerra mondiale a Reggio Emilia, Bologna, Clueb, 2008, pp. 187-204; SCARTABELLATI, Andrea, «Un Wanderer dell’anormalità? Un invito allo studio di Placido Consiglio (1874-1959)», in Rivista sperimentale di Freniatria, 3/2010, pp. 89-98. 31. Cfr. CONSIGLIO, Placido, La medicina sociale nell’esercito, cit., p. 4. 32. Per quanto sia già avviato il processo di differenziazione tra psichiatria e psicologia, all’interno del nostro discorso, con “scienze dell’uomo” si intenderanno indistintamente i saperi che indagano e fanno riferimento tanto ai contenuti della mente quanto al supporto organico – il cervello – che li produce. 33. Cfr. CONSIGLIO, Placido, La medicina sociale nell’esercito, cit., p. 5. 34. Cfr. PIERACCINI, Gaetano, La difesa della Società dalle malattie trasmissibili, Torino, F.lli Bocca, 1895. 35. Sul tema dell’eugenica vedi: MANTOVANI, Claudia, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; CASSATA, Francesco, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. 36. Cfr. MOSSE, George L., The Image of Man: The Creation of Modern Masculinity, New York, Oxford University Press, 1996. 37. Cfr. BELLASSAI, Sandro, L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 2011. 38. Cfr. POGLIANO, Claudio, op. cit., p. 384. 39. Cfr. CAPONE, Alfredo, Corporeità maschile e modernità, in BELLASSAI, Sandro, MALATESTA, Maria (a cura di), Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, Roma, Bulzoni, 2000, p. 201 et seq. 40. Cfr. POGLIANO, Claudio, op. cit., p. 384. 41. Cfr. CONSIGLIO, Placido, La medicina sociale nell’esercito, cit., pp. 5-6. 42. Cfr. MAIOCCHI, Roberto, op. cit., p. 8. 43. Legge 14 febbraio 1904, n. 36, “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”; pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 43, 22 febbraio 1904. 44. Cfr. MORAGLIO, Massimo, Prima e dopo la Grande Guerra. Per un’introduzione al dibattito psichiatrico nell’Italia del ’900, in SCARTABELLATI, Andrea (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra, Torino, Marco Valerio, 2008, pp. 65-90, p. 66. 45. Cfr. MORTARA, Giorgio, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Bari, Laterza, 1925, p. 4 et seq. 46. Cfr. NICOLA, Paola, «Snidare l’anormale”: psichiatria e masse combattenti nella prima guerra mondiale», in Rivista di storia contemporanea, 16, 1/1987, pp. 59-84, pp. 69-70. 47. Cfr. SCARTABELLATI, Andrea, Intellettuali nel conflitto: alienisti e patologie attraverso la grande guerra (1909-1921), Udine, Edizioni Goliardiche, 2003, p. 14. 48. Cfr. FUNAIOLI, Gaetano, op. cit., pp. 337-338. 49. Ibidem, p. 344. 50. Ibidem, pp. 346-347. 51. Cfr. CONSIGLIO, Placido, La medicina sociale nell’esercito, cit., p. 33. 52. Ibidem.

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53. Per la situazione tedesca vedi: LERNER, Paul, Hysterical Men: War, Psychiatry, and the Politics of Trauma in Germany, 1890-1930, Ithaca (NY), Cornell University Press, 2003. 54. Cfr. FUNAIOLI, Gaetano, op. cit., pp. 340-341. 55. Ibidem, p. 342. 56. Tali divergenze sono evidente in particolare durante la guerra, quando in diverse circostanze le relazioni del Direttore alla Deputazione Provinciale mostrano insofferenza e impazienza per gli spazi pretesi, per le servitù dovute e, in generale, per la difficoltà di garantire un adeguato servizio di controllo, visto il personale carente e quello da destinare alle esigenze degli alienati militari. 57. Cfr. CONSIGLIO, Placido, «Studi di psichiatria militare», in Rivista Sperimentale di Freniatria, 38, 1912, pp. 370-407, p. 371 et seq. 58. Vedi per le politiche di trattamento adottate durante la guerra: BIANCHI, Bruna, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001, p. 84 et seq. 59. La “terapia” consisteva in bagni freddi, cui erano costretti solitamente i pazienti agitati, praticati in sedute successive e di durata variabile. 60. La pratica consisteva in violente scariche di corrente faradica – applicata solitamente agli arti – che dovevano provocare shock emotivi in grado di “liberare” il paziente da afasie, paralisi, tremori e stati di esaltazione. 61. Archivio della Provincia di Cuneo [d’ora in avanti APCN], ATTI DEL CONSIGLIO PROVINCIALE, Relazione della Direzione del manicomio della Provincia di Cuneo, sull’andamento amministrativo, economico e sanitario dello stabilimento dal 1 Luglio 1879 al 30 Giugno 1880, Mondovì-Breo, A.Fracchia Tipografo della Provincia, 1882, pp. 138 et seq. 62. Cfr. PELLACANI, Giuseppe, «Le neuropatie e le psiconevrosi nei combattenti», in Rivista Sperimentale di Freniatria, LV, 1/1920, pp. 8-58, p. 19. 63. I tentativi di no-restraint tentati a Racconigi puntarono sulla sperimentazione – in verità con scarsi risultati – dell’inserimento dei malati meno problematici in famiglie idonee, in grado di favorire il recupero al di fuori dell’angusto recinto manicomiale. 64. Tanto per fare un esempio, la flessione nelle presenza del 1916 viene così spiegata dal direttore Rossi: «La diminuzione delle presenze si è verificata malgrado l’elevato numero dei nuovi ammessi, onde essa va posta esclusivamente a carico della forte uscita, vale a dire delle dimissioni e dei decessi». Cfr. APCN, ATTI DEL CONSIGLIO PROVINCIALE, Sessione ordinaria e straordinaria, Dati statistici e funzionamento del Manicomio Provinciale di Cuneo. Relazione all’Onorevole Deputazione, Cuneo, Tipografia Cooperativa, 1916, p. 14. 65. Solo per un inquadramento generale vedi: COTTINO, Amedeo, L’ingannevole sponda. L’alcol fra tradizione e trasgressione, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1991. L’abuso di alcool nelle caserme, invece, risultava essere una delle strategie più semplici per anestetizzare una condizione rifiutata; i medici, anche sulla base dello stigma morale che pesava sull’identità di «bevitore», tendevano a ricollegare l’abitudine a una condizione di «degenerazione» familiare, solitamente verificata in sede di anamnesi. Solo per prendere un’annata come riferimento, il 1912, i soldati ricoverati sono 7, tra loro vi è un caso di «frenosi alcolica», diagnosi che vede il soldato accomunato ad altri 37 internati (28 uomini e 9 donne), indice di una pratica collettiva fortemente radicata negli usi del territorio e, più in generale del mondo contadino. 66. Archivio Storico Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi [d’ora in avanti ASONR], Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Comunicazione Ospedale Mil.Princ.- Savigliano, 4 agosto 1913. 67. Ibidem. 68. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Provvedimento di invio in manicomio, Ufficio di P. S. di Savigliano, 4 Agosto 1913.

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69. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Tabella nosografica, Esame psichico, Fisionomia, contegno, linguaggio. 70. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Tabella nosografica, Esame psichico, Sfera senso-percettiva. 71. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Tabella nosografica, Esame psichico, Estrinsecazione degli atti e delle tendenze. 72. Ibidem. 73. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Tabella nosografica, Anamnesi. 74. Ibidem. 75. Tra le Forze Armate fa soprattutto la Regia Marina ad organizzarsi per tempo, attrezzando durante la guerra di Libia l’ospedale di La Spezia con apposite sale per il ricovero e l’osservazione del personale alienato. 76. Ciò non avvenne a Savigliano, il principale per la provincia di Cuneo, e quello in cui viene ricoverato Giovanni G. 77. Cfr. PENTA, Pasquale, La simulazione della pazzia e il suo significato etnico, antropologico, clinico e medico legale, Napoli, Tocco, 1899. 78. In realtà la sperimentazione non partì neanche, vista la mancanza di strutture di mediazione tra il manicomio e le famiglie e la mancata disponibilità di queste ultime. 79. L’anno dopo, nel 1914, questa prassi è ancora più evidente. Infatti su 5 soldati ricoverati, due vengono riconosciuti «non alienati» e uno «non di competenza manicomiale». Tra questi casi un militare viene dimesso dopo solo 15 giorni d’osservazione «sebbene abbia presentato degli accessi compulsivi di natura probabilmente epilettica». ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 9140, Avviso di Licenziamento provvisorio n. 80, 5 Gennaio 1915. 80. È quanto contrassegnerà la situazione racconigese durante la guerra. Sulla questione è in corso di sviluppo un progetto di ricerca a cura dello scrivente. 81. La storiografia ha perlopiù considerato la genericità delle diagnosi durante il conflitto come un riflesso della situazione emergenziale; eppure questa non può essere l’unica spiegazione e lo evidenzia il confronto con le carte 82. Mancando nella documentazione riguardante l’ente – sia in quella presente nell’Archivio della Provincia di Cuneo, che in quella raccolta nell’Archivio Storico dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi – riferimenti precisi, questa ipotesi allo stato attuale deve essere considerata con il beneficio del dubbio. 83. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Tabella nosografica, Sviluppo e stato generale della personalità. La depressione appare caratterizzata da mutismo, apatia, sguardi vuoti, confusione mentale. 84. ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8745, Tabella nosografica, Sviluppo e stato generale della personalità. 85. Cfr. OLIVA, Gianni, Esercito, paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 all’età giolittiana, Milano, Franco Angeli, 1986, p. 48. 86. Cfr. SETTI, Augusto, op. cit., pp. 40-41.

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RIASSUNTI

Il contributo analizza lo stereotipo del militare delinquente e il suo internamento nei manicomi, agli inizi del Novecento. In particolare si concentra sulla figura del simulatore. Inoltre, tratta la storia delle politiche di trattamento del disagio mentale – vero o presunto – e le strategie di controllo dell’anormalità nei soldati prima della Grande Guerra. E cerca di mettere in relazione le forme di disciplinamento rappresentate dal manicomio, il comportamento e il sapere dei medici d’allora con alcune pratiche sociali e culture diffuse tra i soldati. Questa ricerca in particolare prende in considerazione il caso di un soldato internato nel manicomio di Racconigi, in provincia di Cuneo, nel 1913.

The paper focuses on the stereotype of the delinquent soldier and his internment in asylums at the beginning of the twentieth century. In particular, it focuses on the figure of simulator. Moreover it deals with the history of mental disorder treatment policies – real or alleged – and control strategies of anormality in soldiers before the Great War. It also tries to relate the forms of discipline represented by asylum, the behavior and the knowledge of doctors of the time with some social practices and cultures spread among the soldiers. This research in particular considers the case of a soldier interned in the asylum of Racconigi, in the province of Cuneo, in 1913.

INDICE

Parole chiave : Racconigi, manicomio, militari, Prima guerra mondiale, simulatore Keywords : Racconigi, psychiatric hospital, soldiers, World War I, faker

AUTORE

FABIO MILAZZO Fabio Milazzo è ricercatore e docente di Storia e Filosofia nei licei. È PhD candidate in Storia Contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre ad articoli di storia, filosofia e psicoanalisi è autore di: Senso e godimento. La follisofia di Jacques Lacan (Giulianova, Galaad, 2017). I suoi principali campi di ricerca vertono: sulla storia e la filosofia della psichiatria e della psicoanalisi; sulla storia delle istituzioni disciplinari e manicomiali otto-novecentesche; sulla storia dell’Istruzione in Italia; sull’epistemologia e la critica storiografica. Svolge attività di ricerca presso il “Centro Studi in Psichiatria e Scienze umane del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 1 di Cuneo” e collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Milazzo >

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Uscire dalla catastrofe La città di Napoli fra guerra aerea e occupazione alleata

Martina Gargiulo

Elenco delle abbreviazioni degli archivi citati ACS = Archivio Centrale dello Stato AIL = Archivio Istituto Luce ASNa = Archivio di Stato di Napoli

1. Le campagne di bombardamenti

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1 Il secondo conflitto mondiale apportò un cambiamento radicale nel modo di concepire la guerra, la quale assunse pienamente una dimensione totalizzante. I bombardamenti a tappeto sulle città, per il loro visibile impatto in termini di vite umane e pressione psicologica adoperata, ne costituirono l’esempio meglio noto e concreto1. L’intera nazione nemica costituiva un obiettivo di guerra, compresi i confini interni delle aree abitate, centri urbani o campagne che fossero. La linea del fronte finì così con l’abbracciare l’intera conformazione geografica dello Stato nemico. A segnare il cambio di rotta era stata in primo luogo la rinnovata esigenza di indebolire e disarticolare la rete del fronte interno, e di minarne ogni azione di supporto morale e materiale ai soldati impegnati nei combattimenti. Attraverso la duplice strategia di pianificazione e legittimazione dei bombardamenti aerei nei termini di un lecito strumento di guerra, il secondo conflitto mondiale aprì due fasi di rottura: sia con le recidive ritrosie morali circa l’opportunità di infierire sulla popolazione inerme; sia con il processo di esternalizzazione dai confini europei delle dinamiche belliche e dell’uso indiscriminato dei suoi strumenti distruttivi.

2 L’intenzione di bombardare l’Italia era stata accarezzata dalle forze alleate prima del suo ingresso ufficiale in guerra, il 10 giugno 1940. In previsione della riorganizzazione dei comparti bellici italiani a fianco della Germania, nel mese di maggio inglesi e francesi avevano pianificato una massiccia offensiva aerea, nelle ore diurne e notturne, contro le città più importanti. I punti deboli italiani erano ben noti e dovevano essere colpiti: bisognava trarre il massimo vantaggio sia dalla contraerea scarsamente equipaggiata, sia dall’impreparazione tattico-militare, sia dalla vulnerabilità del tessuto economico e sociale2. La caduta francese non arrestò i propositi inglesi di mettere in ginocchio gli stabilimenti industriali e le infrastrutture nemiche. L’alto rischio per i bombardieri di sorvolare i cieli francesi, strettamente controllati dall’occupante tedesco, condizionò in modo preponderante la decisione di colpire, durante la prima fase del conflitto, i centri urbani dell’Italia meridionale, sfruttando le basi in dotazione a Malta3.

3 I raid sul Meridione colpirono incessantemente già dal 1940. Fra le città più colpite figurò Napoli, seguita da Palermo, Bari, Taranto, Catania, Messina, Trapani, Augusta, Cagliari, Brindisi, Crotone. Il numero di vittime e di danni arrecati in una fase del conflitto al suo stadio iniziale fu notevole, tanto che all’interno del recente dibattito storiografico si comincia a parlare di «questione meridionale dei bombardamenti»4. Nel caso di Napoli, l’intenzione di colpire in questa fase del conflitto “solo” le aree considerate strategiche non risparmiò la stazione e gli stabilimenti industriali della zona est della città, specialmente le raffinerie, dove divamparono di conseguenza spaventosi incendi5. Nel gennaio del 1941 le incursioni si spinsero fin dentro il centro urbano, in quartieri densamente popolati. Furono colpite la sede del Banco di Napoli in via Toledo e gli edifici del Rione Carità; nel mese di luglio venne presa di mira una vasta

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area a est e a ovest di via Roma, che provocò distruzioni alle abitazioni dei Quartieri Spagnoli e a via Medina.

4 Le bombe del 1940-41 mieterono le prime ferite mortali al patrimonio artistico della città, che negli anni successivi sarebbe stato ulteriormente danneggiato. A soffrirne fu la facciata della Chiesa dei Santi Francesco e Matteo sita in vico Lungo San Matteo (Quartieri Spagnoli) e il Teatro dei Fiorentini in via Fiorentini (Rione Carità), che perse l’intera copertura anti-aerea6. Di pari passo allo sgancio di nuovi ordigni gli inglesi sperimentarono la strategia della guerra psicologica, lanciando sui cieli di Napoli i primi volantini che invitavano la popolazione a boicottare il rifornimento delle navi tedesche dirette in Nord Africa. Napoletani! Noi inglesi, che mai fummo in guerra con voi, vi mandiamo questo messaggio […] Noi vogliamo solo la pace con voi. Ma siamo costretti a bombardare la vostra città perché voi permettete ai tedeschi di servirsi del vostro porto. Finché partono da Napoli navi cariche di armi e materiali tedeschi per le forze germaniche in Libia, Napoli sarà ripetutamente bombardata7.

5 Durante l’inverno del 1941 la popolazione napoletana ebbe la chiara percezione che lo scenario di una guerra-lampo, loro promessa, non si sarebbe realizzata e che le difese anti-aeree presenti sul territorio fossero drammaticamente insufficienti. Emergeva dunque in tutta la sua drammaticità il problema dei ricoveri: insufficienti per una città densamente urbanizzata come Napoli, e di conseguenza sovraffollati ed estremamente carenti di aria e di luce. La stessa conformazione geografica della città, stretta fra le colline e la fascia costiera, e il pochissimo spazio disponibile nelle strade-alveare dei suoi quartieri costituirono la maggiore ipoteca per la costruzione di rifugi che potessero definirsi sufficientemente sicuri. Vennero sfruttate le risorse già presenti, come i tunnel delle ferrovie e della metropolitana e le cavità del sottosuolo, meglio note con l’appellativo di “Napoli sotterranea”: un fitto reticolo di gallerie collegate fra loro che percorrevano tutta la città. Alcune erano state utilizzate già dagli antichi cristiani per sfuggire alle persecuzioni, altre si erano formate a seguito delle operazioni di scavo ed estrazione del tufo utilizzato per la costruzione delle abitazioni, altre ancora costituivano una parte dell’acquedotto borbonico8. L’allestimento dei rifugi pubblici rappresentava una forte leva di propaganda del Pnf locale, il cui primario obiettivo era quello di presentare alla popolazione una situazione ben pianificata e a prova di pericolo. Tuttavia il loro definitivo completamento non procedeva nei tempi previsti, tanto che il rischio di sovraffollamento nel centro storico veniva segnalato al podestà Orgera già nel 19409. Non mancarono episodi tragici, dove si contarono innumerevoli morti per soffocamento a seguito del massiccio riversamento nei rifugi delle persone in cerca di una via di fuga dai bombardamenti. Nel quartiere Montecalvario si registrarono violenti scontri fra la popolazione che, in preda al panico, si riversò in gran numero nei pochi ingressi previsti dal ricovero10.

6 Il crescente disagio della popolazione trova numerosi riscontri nella documentazione prefettizia, all’interno della quale non mancano lamentele anonime nei confronti del servizio di protezione antiaerea, giudicato inadeguato e inefficiente. Al centro delle denunce più veementi vi era in primo luogo l’estrema vulnerabilità della frontiera aerea di Napoli. In occasione dei bombardamenti di ottobre gli informatori riportavano che, nonostante la risposta della contraerea, i bombardieri nemici avevano sostato sui cieli della città per cinque ore, sganciando indisturbati centinaia di bombe contro gli stabilimenti industriali e la ferrovia11.

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7 Con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti si aprì una nuova campagna di bombardamenti che avrebbe arrecato a Napoli ulteriori danni e vittime civili: le sorti della città ancora una volta si legarono indissolubilmente a quelle dell’intero conflitto. L’Italia, dopo le sconfitte riportate sul fronte africano, costituiva in modo ancor più lampante l’anello debole da colpire. Fiaccare il morale della popolazione con continui attacchi aerei per costringerla alla resa divenne l’obiettivo essenziale. Il 4 dicembre 1942 gli americani irruppero sui cieli di Napoli, con un primo bombardamento diurno dagli effetti devastanti. I bombardieri presero di mira il porto, per poi ripiegare sui quartieri adiacenti e l’area del centro storico. Il Palazzo delle Poste venne colpito da più ordigni, che causarono al suo interno numerose vittime. Nella adiacente via Monteoliveto furono colpite due vetture tramviarie colme di passeggeri12. Si verificarono numerosi crolli degli edifici affacciati lungo la strada, nelle vicinanze degli uffici postali messi sotto tiro non venne risparmiata la Chiesa di San Diego all’Ospedaletto, che riportò danni consistenti alla facciata e alla navata centrale13. Anche in quell’occasione si registrarono morti per soffocamento nel ricovero di via Porta San Gennaro e feriti in quello vicino di via San Paolo14. Le immagini dei corpi straziati fra cumuli indistinti di macerie e lamiere definirono i comuni contorni delle memorie cittadine di quegli anni, germogliate lungo i solchi di un’anomala temporaneità quotidiana, scandita dalle bombe e dalla successiva raccolta dei suoi tragici frutti15.

8 Con il 1943 si aprì l’annus horribilis per la popolazione napoletana, tenuta ormai sotto scacco dalla recrudescenza delle operazioni belliche. Il quartiere Montecalvario venne nuovamente colpito insieme all’adiacente zona di San Giuseppe durante le incursioni aeree del 1 e 5 marzo, che provocarono danni alla Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli e crolli con vittime degli edifici in via Pasquale Scura, piazzetta Montesanto e via Pignasecca16. Il 28 marzo il misterioso incendio della Caterina Costa e del suo cospicuo carico di munizioni e carburante diretti in Africa paralizzò ulteriormente il porto, che i continui raid avevano ridotto alla stregua di una tomba per navi. La violenta esplosione, avvertita anche oltre città, aggravò il computo delle distruzioni registrate nel centro urbano a seguito della seconda campagna di bombardamenti17. Dall’altra parte, riprendeva con maggiore intensità la parallela guerra psicologica, per incutere maggior timore nella popolazione e privare definitivamente il nemico della necessaria coesione interna. Nel maggio del 1943 la RAF distribuiva fra i cieli di Napoli il seguente monito: Hitler e Mussolini hanno condannato l’Italia a diventare la terra di nessuno. Terra di nessuno: con questo nome gli strateghi definiscono quel settore desolato, che si comprende fra due opposti fronti di combattimento. Con la liquidazione della campagna d’Africa, il posto dell’Italia, nella strategia dell’Asse è quello di un cuscinetto o paravento lungo il quale lo Stato Maggiore tedesco spera di rallentare la marcia delle Nazioni Unite […] Se noi vi diciamo che l’Italia diventerà terra di nessuno, vi parliamo sul serio; il vostro paese sarà esposto al bombardamento, al mitragliamento, alla disorganizzazione più completa; innumerevoli case finiranno in fiamme, per città e campagne si accumuleranno cadaveri. Freddo d’inverno, infezioni d’estate, sgomento, fame si moltiplicheranno18.

9 Il linguaggio crudo ed esplicito mirava a colpire i civili come un pugno nello stomaco, ma l’intenzione di attaccare ovunque e indiscriminatamente fin dentro le loro abitazioni aveva da tempo preso forma. La strategia di moral bombing, laddove continuava a essere nascosta o minimizzata nei discorsi ufficiali, si presentava con estrema chiarezza per la popolazione soggetta ai bombardamenti. Il 25 luglio Mussolini era stato destituito dal Gran Consiglio fascista, tuttavia la volontà del nuovo governo,

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presieduto dal generale Badoglio, di proseguire la guerra sembrava immutata19. La reazione anglo-americana non si fece attendere: nel mese di agosto vennero progettati nuovi, devastanti raid nelle maggiori città italiane. Napoli fu colpita il 4 agosto: nel terribile bombardamento diurno a tappeto bruciò la Chiesa di Santa Chiara, un complesso architettonico dal valore artistico inestimabile nonché di grande importanza sentimentale per i partenopei. L’episodio trovò ampio spazio anche nella propaganda dei cinegiornali di guerra: Ecco gli obiettivi del nemico nelle nostre città: la monumentale Chiesa di Santa Chiara, dal Trecento, il tempo in cui venne edificata, recava in armoniose forme d’arte l’impronta di ogni secolo della storia napoletana. Oggi, dopo il novantaseiesimo bombardamento della città, tanta bellezza, tanta somma di memorie sono distrutte. Aspetti dolorosi e significativi dello scempio nemico20.

10 Con l’ingresso delle truppe anglo-americane in città il 1° ottobre 1943 e l’insediamento del nuovo regime di occupazione, ai raid alleati si sostituirono quelli della Luftwaffe. Le incursioni naziste posero anch’esse nel mirino il centro cittadino, colpendo simbolicamente in vico Carrozzieri il giorno stesso dell’arrivo delle nuove forze occupanti21. Al terrore dei nuovi raid si aggiunse quello delle mine, che i tedeschi avevano disseminato per la città in concomitanza con la loro ritirata. L’esplosione nel Palazzo delle Poste del 7 ottobre, a seguito dell’innesco di un ordigno ritardante, causò oltre cinquanta morti nonché un ulteriore shock per la popolazione stremata dal conflitto22. Il 1° novembre fu la volta dei Quartieri Spagnoli, dove si verificarono crolli in vico Tofa e in via Gesù e Maria, ingenti danni e vittime anche fra militari alleati in vico Canale, gradini San Matteo e vico Lungo Montecalvario23.

11 I bombardamenti tedeschi si susseguirono fino alla notte tra il 14 e 15 marzo 1944 che interessò nuovamente la zona portuale e i quartieri Montecalvario e San Giuseppe, dove venne colpito il complesso conventuale di Monteoliveto, al cui interno alloggiava la caserma dei Carabinieri Pastrengo24. Gravemente danneggiata fu la vicina Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi: l’incursione provocò il crollo dell’intera facciata e la parziale distruzione delle cappelle25. Nel diario del soldato inglese Norman Lewis, testimone d’eccezione dei convulsi eventi in virtù del suo impiego nelle fila della Field Security Police, è possibile rintracciare alcuni cenni ai drammatici effetti dell’incursione: Un brutto bombardamento stanotte. Come sempre, molte vittime fra i civili nella zona densamente popolata del porto. Stamattina mi ci hanno mandato a verificare le notizie pervenute di scene di panico e di folle terrorizzate che correvano per le strade gridando: “Vogliamo la pace!” e “Via tutti i soldati!”. A Santa Lucia […] ho visto una scena straziante. Lungo la strada erano stati distesi uno accanto all’altro alcuni bambini estratti dalle macerie di un edificio bombardato. A quelli non sfigurati avevano scoperto il volto, ed alcuni erano state deposte fra le braccia delle bambole nuove di zecca che li avrebbero accompagnati nell’altro mondo. […] Un uomo si era arrampicato sulle macerie; parlava dentro a un buco, nel punto in cui credeva che il suo bambino fosse rimasto intrappolato sotto centinaia di tonnellate di detriti, e lo implorava di non morire prima che lo liberassero. “Resisti, figlio mio. Ancora un poco. Tra un minuto ti tiriamo fuori. Non morire, ti prego”. I tedeschi, con questi bombardamenti indiscriminati, uccidono solo i poveracci – come abbiamo fatto anche noi, del resto26.

12 Al di là dei dattilografici computi delle perdite umane e materiali che affollano la documentazione d’archivio, le fonti memorialistiche hanno fornito un ulteriore contribuito per l’arricchimento del racconto storico di quegli anni cruciali e rovinosi al tempo stesso. La pioggia di ordigni che squarcia il cielo ne costituisce un topos ricorrente, sia che la rielaborazione del vissuto bellico abbia preso forma nella pietra

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delle edicole votive – una fra queste, quella eretta nel Rione Stella per commemorare le vittime dell’incursione del 4 agosto 1943 –, che nelle filastrocche popolari sulla guerra pervenuteci, la più nota fra queste: «Apparecchio ‘e’mericane volta ‘e bombe e se ‘nne va / se ‘nne va int’a cappuccia / apparecchio ‘e’mericane volta ‘e bombe e se’nne va / e se ‘nne va a ret ‘o pizzo / e se ne fa ‘na bella pizza»27. Di contro, la percezione popolare dominante sulla guerra aerea ha interessato maggiormente il recente dibattito storiografico, senza che siano state fornite a riguardo risposte univoche. Nonostante il dominio dell’uomo sulla tecnica si fosse sviluppato nella direzione di un uso ancor più cinico e spregiudicato degli strumenti di distruzione, l’impersonalità del mezzo, data principalmente dall’impossibilità di scorgere il volto dei piloti nemici, ne facilitò le strategie di legittimazione, anche a guerra ultimata. Il sentimento di impotenza nei confronti dei bombardamenti si sarebbe sviluppato così nella direzione di un generale atteggiamento fatalistico e di un’accettazione passiva della morte. Ciò può in parte spiegare l’involontaria introiezione, da parte degli sconfitti, delle modalità di discorso e dei punti di vista delle potenze vincitrici. Anche l’analisi della corrispondenza censurata dagli uffici militari28 non fornisce prove di una maggiore consapevolezza popolare riguardo la natura terroristica dei bombardamenti a tappeto, che la stessa macchina propagandistica alleata fu costretta ad ammettere, seppur giustificandola nel quadro della superiore necessità bellica: Modern war is cruel in its unicity has been cruel to Naples. Long before the battle on the city itself right to the day of the El Alamin murder allies bombers hammered military objectives in Naples with devasting effects. They bombed the harbour until the piers were shambles and the roads itself where choked with samples’ ships. They bombed the railway station […] They bombed everything to unable the enemy to carry on the war29.

2. Una difficile ricostruzione

From the beach of Salerno the Allies blasted on Naples. The Germans couldn’t do with the city so they did all they could to get it unused. Then they pulled out. When the Nazis were gone, the people of Naples saw what the atrocity of the war had done. They were let with no power, no gas, no transport, no food, no water and ultimately no homes30.

13 Una volta compiuto il loro ingresso in città, agli occhi degli eserciti alleati si materializzò uno scenario desolante e di inaudita gravità che andava necessariamente affrontato. Napoli si presentava come un lugubre campo di battaglia, fatto di edifici scheletriti e pericolanti e privo dei servizi più elementari. Le testimonianze del tempo parlano di gruppi di persone che si aggiravano fameliche e impaurite tra le macerie, all’affannosa ricerca di un qualsiasi oggetto utile ai fini di scambio, nonché di lunghissime e penose file presso le poche fontane integre per attingere acqua31. Secondo il racconto di Lewis, a causa dell’assoluta mancanza di cibo, molti bambini ricorsero all’estrazione delle patelle dal molo di Santa Lucia. Queste ultime potevano essere vendute ai bordi della strada, secondo il primo principio di sopravvivenza dettato dall’esperienza bellica che «nulla, assolutamente nulla di ciò che l’apparato digerente umano è in grado di assimilare va sprecato»32. Gli effetti della guerra dei cieli, che l’occhio della cinepresa all’interno dei bombardieri alleati soleva celare in una microscopica coltre di fumo33, si manifestavano ora sulla terra in tutte le sue fattezze più dure.

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14 I bombardamenti avevano acuito in particolar modo il problema abitativo, riducendo allo stato di senzatetto, sinistrati o sfollati un numero difficilmente quantificabile di abitanti dei quartieri più colpiti, specie nel centro storico, di modeste se non misere condizioni economiche34. La situazione edilizia a Napoli presentava ab origine numerose criticità, in buona parte riconducibili al processo di intensa urbanizzazione che aveva investito a più riprese il capoluogo. Guido Milone, ingegnere e amministratore delegato della Società per il Risanamento di Napoli, nel tentativo di delineare i caratteri di un nuovo modus operandi in materia di riqualificazione urbana, denominò un paragrafo del suo opuscolo divulgativo Per la ricostruzione di Napoli con la formula esemplificativa “Sovraffollamento e disordine edilizio”. La causa principale dell’emergenza abitativa andava in primo luogo ricercata nell’eccessivo sovraffollamento, che avrebbe determinato nel corso dei secoli «un peggioramento della fisionomia della città e delle sue condizioni igieniche». In mancanza di un piano razionale di ampliamento del tessuto urbano, per rispondere ai bisogni della popolazione in continuo aumento «si sopraelevarono per due o tre piani gli edifici esistenti, si costruirono abitazioni persino sulle chiese, e si riempirono con nuove fabbriche i caratteristici cortili e giardini privati che costituivano i polmoni degli antichi quartieri». In aggiunta all’angusta e disordinata rete stradale sorta intorno al nucleo dell’antica città greca, che frustrava ogni possibilità di un coerente sviluppo edilizio, le condizioni generali di depressione delle industrie e dei commerci più tradizionali di Napoli, la mancanza di scuole artigiane e le inadatte sedi delle scuole di istruzione pubblica, per la maggior parte allogate in antichi conventi o in vecchi locali di abitazione, malsani e del tutto insufficienti ai bisogni della gioventù; il difettoso funzionamento delle fognature che inquina giornalmente il litorale urbano e provoca il diffondersi della febbre tifoide; insieme con altri fattori negativi concomitanti, avevano determinato, già prima dell’attuale guerra, uno stato eccezionale che trova conferma nelle condizioni di miseria morale e fisica del popolo35.

15 In un successivo paragrafo, denominato “Case per il popolo”, si affrontava il tema delle «case economiche», definite come «un punto vitale al quale bisognerà provvedere per il miglioramento igienico e sociale del popolo». La necessità di incentivare la costruzione di abitazioni popolari veniva posta in diretta correlazione, non senza un velo di paternalismo, con l’auspicata elevazione morale e materiale della “plebe napoletana”. Il possesso di una casa, il più possibile incasellabile all’interno di riconosciuti parametri di decoro, secondo le intenzioni del pianificatore le sarebbe valso da canale privilegiato per il proprio riscatto e il conseguente reinserimento nella società nelle vesti di umili, ma onesti lavoratori. Lo Stato vedrà nell’abitazione sana e nella scuola le armi migliori per combattere l’alta mortalità e morbilità ed il progressivo aggravarsi dell’indigenza e delle tendenze antisociali che purtroppo si osservano in questa disgraziata metropoli. Anche perché il problema degli alloggi popolari non deve essere limitato alla classe degli operai i quali, attingendo dal lavoro modesti ma pur sicuri mezzi di sussistenza ed abitudini di civile convivenza, possono meglio reagire contro le malefiche influenze di una casa malsana. A Napoli esiste disgraziatamente una plebe assai numerosa, sproporzionata al resto della cittadinanza, che vive miseramente, senza una vera arte o mestiere, ma piuttosto di espedienti, di vagabondaggio o di elemosina. È evidente che il miglioramento dell’abitazione costituisce la condizione pregiudiziale per l’incivilimento delle masse, ed è uno dei cardini per la grande riforma che dovrà trasformare il vagabondo in onesto operaio e dare al popolo la coscienza di una maggiore dignità personale36.

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16 L’esigenza di destinare case minime, ovvero a basso costo, per uso popolare si era presentata già nel 1941. Gli alloggi, destinati alle fasce più indigenti della popolazione, dovevano fornire una prima soluzione ai problemi di migliaia di sinistrati che avevano visto le loro abitazioni gravemente danneggiate o distrutte dalle incursioni aeree. Nel gennaio 1941 venne autorizzata la costruzione, a spese dello Stato, di stabili di tipo popolarissimo per il ricovero delle famiglie senzatetto. Lo schema di convenzione predisposto dall’Amministrazione per i lavori pubblici disciplinava le modalità di gestione di tali alloggi, prevedendo la consegna da parte dello Stato agli Enti Comunali di Assistenza e l’assunzione degli oneri di amministrazione e manutenzione da parte degli Istituti provinciali per le case popolari37.

17 L’allora Consorzio Nazionale degli Istituti fascisti autonomi per le case popolari, con circolare del 15 febbraio 1942, mise a punto la convenzione con i periferici Istituti fascisti provinciali per le case popolari e gli enti assistenziali loro associati. Nel testo si leggeva che era «stata riconosciuta la necessità di una collaborazione permanente fra gli istituti predetti e gli enti comunali di assistenza, per realizzare un adeguato programma di costruzione di case minime, da destinare alle famiglie indigenti». Di conseguenza, «in base alle disposizioni impartite dal Ministero dell’Interno e dal Consorzio, all’attuazione dei programmi delle singole provincie, affidata agli Istituti fascisti, devono concorrere, nella misura di un terzo del costo delle costruzioni, gli ECA interessati, assumendosi gli Istituti gli oneri del finanziamento della residua spesa»38. Tuttavia, man mano che procedeva il conflitto e con esso l’urgenza di ricollocare un numero sempre maggiore di sinistrati, la loro costruzione divenne sempre più frettolosa e disordinata, con ripercussioni visibili per la messa in sicurezza degli abitati. Dalla documentazione prefettizia emergono, infatti, notizie di innumerevoli crolli causati delle pessime condizioni strutturali degli edifici che provocarono un vivo malcontento popolare39.

18 I problemi strutturali delle case minime si protrarranno anche nel dopoguerra. Una nota dell’Istituto per le case popolari della provincia di Napoli (l’organo che sostituì ed ereditò le competenze di materia dell’Istituto fascista provinciale per le case popolari) del luglio 1944 declinava ogni responsabilità inerente i crolli futuri, in quanto gli obblighi di manutenzione degli edifici da parte di quest’ultimo non coprivano il lavoro di rafforzamento dei solai, ormai gravemente dissestati. In mancanza di provvedimenti a riguardo da parte del Genio Civile, le case dovevano essere dichiarate inagibili. Il prefetto, messo al corrente della situazione, nel mese di marzo aveva ordinato l’affissione di un avviso nei rioni in oggetto, dove si allertavano gli inquilini della pericolosità degli abitati40.

19 Nell’ottobre dello stesso anno, il Genio Civile, in una nota rivolta al prefetto di Napoli, dichiarava che da un’ispezione eseguita dal suo ufficio risultava che diciotto alloggi del blocco delle case minime di Miano necessitavano di un sollecito intervento di ristrutturazione. Si aggiungeva inoltre che, «per l’attuale e assoluta mancanza di abitazioni o ricoveri disponibili», si sarebbe proceduto a sgombrare i soli ambienti che necessitavano urgenti lavori di riparazione, richiedendo allo stesso tempo agli inquilini coinvolti da tali misure di trasferirsi momentaneamente «dalla famiglia dell’abitazione adiacente o da altra dello stesso rione»41.

20 Non mancarono tuttavia le difficoltà: nei casi più difficili, il Genio Civile richiese al prefetto l’invio delle autorità di pubblica sicurezza nelle case minime di via Montedonzelli all’Arenella e in quelle di Miano, in quanto due inquilini alloggiati in

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quelle abitazioni si opponevano ai lavori di ristrutturazione dei rispettivi solai42. Ulteriori lamentele per le pessime condizioni delle case minime vennero sollevate dagli stessi abitanti, che denunciavano il più delle volte l’estrema lentezza dei lavori di rifinitura dei soffitti interessati, nonché la fitta presenza di insetti velenosi all’interno degli abitacoli43.

21 Per offrire una risposta unitaria all’emergenza sinistrati, venne messa in moto anche la rete di primo soccorso. L’Ufficio speciale per i danneggiati di guerra dell’ECA garantiva una serie di sussidi, ripartiti in questa misura: per la casa interamente crollata 1500 lire al capofamiglia e 500 lire a ogni componente della famiglia; per la casa parzialmente crollata 1200 lire al capofamiglia e 400 lire a ogni componente; per la casa dichiarata inabitabile 900 lire al capofamiglia e 300 lire a ogni componente. Le principali strutture adibite per il ricovero dei nuclei familiari sinistrati erano il Reale Albergo dei Poveri, il Piccolo Cottolengo – che furono costretti a sospendere per un periodo limitato di tempo il servizio, a causa delle incursioni belliche del settembre 1943 –, e il Vittorio Emanuele III, quest’ultimo con una capacità ricettiva di 500 persone. L’ECA garantiva al contempo la copertura delle rette giornaliere richieste da questi ultimi. Fino alla completa riassunzione del servizio di assistenza sinistrati da parte dell’ente, i disciolti gruppi rionali fascisti gestirono direttamente la somministrazione di vitto e alloggio, previo rimborso spese.

22 Parallelamente all’assegnazione delle 700 case minime nelle zone Arenella, Scudillo a Capodimonte, Miano, Barra e San Giovanni a Teduccio, era previsto un servizio di distribuzione degli indumenti presso i magazzini presenti nei maggiori centri di ricovero, i cui stessi locali non vennero risparmiati dalle incursioni aeree. Nella competenza dell’Ufficio danneggiati di guerra rientrava inoltre l’assistenza agli sfollati, elargita anche essa sotto forma di sussidio, nella cifra di 100, 75 o 50 lire a persona a seconda della distanza del luogo di trasferimento, nonché di fruizione di biglietti gratuiti per la ferrovia. La filiale dell’assistenza copriva infine le vedove e le madri dei caduti in guerra, con un sussidio mensile che si aggirava fra le 75 e le 100 lire; i familiari più indigenti dei richiamati al fronte; i militari in convalescenza per cause di servizio con un sussidio di 100 lire mensili e la somministrazione gratuita di medicinali; e categorie speciali di disoccupati per cause di guerra. Gli edifici scolastici, adibiti a centri di ricovero dalla Federazione provinciale fascista, continuarono a servire per tale scopo anche dopo il suo scioglimento. Le sedi dei soppressi gruppi rionali fascisti vennero utilizzate in seguito come locali decentrati per il pagamento dei sussidi ai sinistrati44.

23 Il riconoscimento dei danni di guerra, con corresponsione del relativo indennizzo agli aventi diritto, richiedeva l’adempimento di un’articolata procedura. Secondo le disposizioni emanate dal Ministero del Tesoro per snellire le procedure di accertamento, le Intendenze di finanza dovevano cooperare, oltre che con la Guardia di finanza, anche con le questure e le forze dell’ordine. Era necessario prendere informazioni su: le condizioni economiche passate e attuali del richiedente; le condizioni sociali, il tenore di vita; sull’attività lavorativa del capofamiglia; la data dell’evento bellico che aveva originato il sinistro e gli eventuali sfollamenti e trasferimenti di mobilio prima e dopo il sinistro. Era inoltre indicato per le autorità competenti un sopralluogo nella località del sinistro, per descrivere i danni riportati dallo stabile, e infine nell’attuale dimora del sinistrato. Bisognava inoltre distinguere i danni accertati, per i quali erano state esibite prove certe, da quelli non accertati ed

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estendere le indagini del caso nelle località dove il richiedente era eventualmente sfollato45.

24 Non mancarono casi in cui la procedura presentava lacune e inadempienze da parte degli esaminatori, e di conseguenza venne rilevato un cospicuo numero di pratiche falsificate, atte ad ottenere un risarcimento non dovuto46. Una nota a firma del questore aggiungeva, inoltre, che la stessa Intendenza di finanza aveva rilevato una notevole mole di risarcimenti per danni di guerra denunciati in case abbandonate prima dell’avvenuto sinistro. Le richieste erano pervenute in particolar modo per le abitazioni site in quartieri quasi del tutto distrutti, come Poggioreale. Le segnalazioni da parte dell’Intendenza inducevano il questore a ritenere che le procedure di accertamento dei danni di guerra non venivano condotte «con quella diligenza necessaria e indispensabile per garantire gli interessi dell’erario». Precisava inoltre che nell’esame delle pratiche occorreva accertare in primo luogo che la casa era occupata dal richiedente all’atto del sinistro, anche con l’ausilio di prove indirette richiedendo l’esibizione delle bollette dell’energia elettrica o del gas, riferibile al mese precedente all’incursione. Era necessario stabilire che gli altri componenti della famiglia non avessero presentato ulteriori domande di risarcimento e, dunque, nei rapporti bisognava indicare anche i nominativi di tutti gli abitanti della casa all’atto del sinistro. Per il computo dei danni, era necessario interrogare nei limiti delle possibilità anche i vicini dei richiedenti. Qualora questi ultimi si fossero trasferiti in un’altra abitazione a seguito dei bombardamenti, occorreva richiedere la collaborazione del commissariato di pubblica sicurezza nella cui giurisdizione si erano stabiliti, per assicurarsi che il trasferimento fosse avvenuto in una fase precedente o successiva al sinistro47.

25 Per poter meglio comprendere l’entità dell’emergenza abitativa, bisogna innanzitutto fare i conti con le stime dei danni arrecati dai bombardamenti. Le cifre sono discordanti: secondo un censimento angloamericano del settembre 1944, si contavano 80147 vani distrutti e Napoli aveva subito danni fra il 5% e il 10% del suo intero patrimonio abitativo48. Su richiesta del prefetto il Genio Civile aveva conteggiato per il solo capoluogo 28900 vani completamente distrutti, 61500 vani danneggiati gravemente, 143000 vani danneggiati lievemente. Per i comuni della provincia le cifre ammontavano a: 3766 vani completamente distrutti, 6765 vani danneggiati gravemente, 19968 vani danneggiati lievemente. Il totale dei danni subiti, fra capoluogo e provincia, era di: 32666 vani completamente distrutti, 68265 vani danneggiati gravemente, 162968 vani danneggiati lievemente. Secondo le ultime stime presenti nel rapporto, il numero delle persone fuggite da Napoli verso i vari comuni della provincia ammontava a 40mila unità49.

26 L’entità del problema degli sfollati procedeva di pari passo con la violenza e l’ampiezza dei bombardamenti sulla città. Nell’aprile del 1943 beneficiarono del fondo speciale ECA per gli sfollati in gravose condizioni di bisogno, elargito dalla Prefettura secondo un tetto massimo di 500 lire a persona e un minimo di 50 lire a persona, novantuno persone residenti nel capoluogo e nella provincia. Nei restanti mesi, il numero dei sussidiati subì un andamento leggermente discendente, attestandosi sulle settantasei unità a maggio; cinquantasei unità a giugno; settantaquattro unità a luglio; sessanta unità a agosto e quarantasei unità a settembre50.

27 Nell’ottobre 1945 il sindaco di Napoli Gennaro Fermariello comunicava alla Prefettura che nella città si registravano circa 200mila persone senza tetto ricoverate presso i familiari o alloggi di fortuna. I vani abbandonati per inagibilità si contavano nel

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numero di 58700 unità, mentre altri, nonostante l’inabitabilità, erano stati occupati per necessità. Si accennava alla parallela questione delle requisizioni alleate, che verrà approfondita in seguito, le quali avrebbero sottratto alla pubblica disponibilità altri 15mila vani. Si sottolineava infine una situazione preoccupante di sovraffollamento all’interno delle abitazioni, con gravi ripercussioni per l’igiene51. L’anno precedente, in un’intervista rilasciata al quotidiano «Il Risorgimento», il Commissario dell’Istituto per le case popolari della provincia di Napoli Alfredo Florio dichiarava che molti quartini a più vani, a causa della caduta dei tramezzi, «si sono trasformati in un unico ambiente, ove vivono promiscuamente intere famiglie, con quale offesa della morale e danno dell’igiene è facile immaginare»52.

28 All’arrivo degli Alleati, un numero imprecisato di persone, fra le 12 e le 20mila unità, alloggiava nei malsani ricoveri, nelle stazioni della metropolitana e della funicolare53. Nel 1944, su pressione dei nuovi occupanti, la Questura di Napoli stabiliva che 11930 persone erano ancora insediate nei ricoveri, e soggette di conseguenza ad un rischio maggiore di epidemie54. Nel marzo 1944, il comune riportava che la Typhus Sub- Commission, alle strette dipendenze della Commissione di Salute Pubblica dell’Allied Control Commission (ACC), aveva censito un numero di 5705 persone distribuite su diciannove rifugi. Pur sostenendo la riduzione del loro numero a 2010 unità, dichiarava l’impossibilità di provvedere ad una sistemazione per i senzatetto, in quanto i dormitori comunali risultavano al completo. La medesima sub-commissione, al contrario, censiva per il mese di settembre un numero di 4932 persone presenti in tali rifugi, cifra che nel mese di dicembre sarebbe scesa a 2171 unità, e declinava ogni responsabilità per l’igienizzazione dei ricoveri stessi55.

29 La mancanza di abitazioni agibili costringeva altre persone a risiedere negli alloggi sinistrati, sebbene il pericolo rappresentato dai possibili crolli fosse elevato. La loro precaria stabilità costituiva un notevole problema per la pubblica incolumità, anche a seguito delle abbondati piogge che potevano provocare ulteriori cedimenti56. Ciononostante, alla scrivania del prefetto giungevano innumerevoli segnalazioni, inerenti le occupazioni di edifici sinistrati da parte di famiglie in difficoltà. Il Genio Civile rilevava una situazione particolarmente critica, sia sul versante dell’inagibilità di detti stabili, che su quello della ricollocazione degli occupanti. Per tale ragione, veniva richiesto un celere intervento da parte dello Stato per la messa in sicurezza delle abitazioni non danneggiate gravemente57.

30 In virtù della legge n. 938 del 9 luglio 1940, concernente gli interventi per le opere pubbliche compromesse da azioni belliche, tali oneri di spesa ricadevano in mano statale58. Tuttavia, in mancanza di un piano di ristrutturazioni edilizie ad ampio raggio, l’Allied Military Government (AMG) si attivò in favore di un programma di riparazioni straordinario. Sull’esempio alleato, il ministro dei Lavori Pubblici Mancini autorizzò il medesimo intervento anche per le altre province che avevano subito ingenti danni di guerra59. Un numero ancora cospicuo di persone rimaneva di contro senza un tetto, tanto che il fenomeno delle occupazioni di edifici abbandonati coinvolse anche appartamenti di proprietà di istituti religiosi, i quali, essendo stati nella maggior parte dei casi gravemente danneggiati dai bombardamenti, venivano resi abitabili nei limiti del possibile dagli stessi occupanti. Come comunicavano al prefetto le Suore Salesiane di San Giovanni Bosco, tenutarie di un orfanotrofio in via Porta di Massa compromesso dalle incursioni aree del giugno 1943, famiglie estranee sono penetrate nel locale sinistrato e si sono alloggiate da proprietari occupandolo e eseguendo provvisori lavori di adattamento. Interpellati,

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si è avuto la risposta di essere sinistrati e che non intendevano abbandonare lo stabile […] Essi si sono violentemente rifiutati di abbandonare l’edificio, rispondendo che vi si trovavano troppo bene per lasciarlo, e anzi invitavano parenti e amici a raggiungerli, aumentando il numero degli invasori. [...] L’Orfanotrofio di orfane di guerra è da preferire all’interesse privato di poche famiglie le quali troveranno modo di alloggiarsi altrove. [...] La evidente utilità dell’opera che deve alloggiarsi nel locale renderebbe anche giustificato un provvedimento di requisizione e di sgombro del locale60.

31 Su sollecito del prefetto, la Questura di Napoli riportava che negli stabili appartenenti all’orfanotrofio alloggiavano tre famiglie e una giovane donna dall’ottobre del 1944, in quanto le loro case erano state distrutte a seguito delle incursioni del 1 marzo e del 4 agosto 1943. Alla diffida di sgombero, gli occupanti dichiaravano che non avevano altro luogo in cui alloggiare61. La vicenda non vede un prosieguo nelle carte d’archivio, ma costituisce di per sé uno fra i tanti episodi riscontrabili nell’indagine del complesso (dis)ordine sociale postbellico, in cui il conflitto stridente fra le ragioni del diritto e quelle del bisogno non trovavano un terreno d’incontro nemmeno attraverso la mediazione delle autorità competenti.

32 Di considerevole entità era anche la questione degli sfratti, tanto da richiedere anch’essa il diretto intervento dell’AMG. Sempre «Il Risorgimento», utilizzato dalle autorità alleate come cassa di risonanza per la diffusione delle proprie iniziative, sosteneva che l’azione degli angloamericani avrebbe costituito un argine alle speculazioni dei proprietari62. L’annuncio di sospensione degli sfratti venne comunicato anche dal Commissario di zona, il colonnello Simson, durante una conferenza stampa in cui poneva come primo problema rilevante della città quello delle abitazioni63. Il provvedimento alleato, di contro, non pose un freno all’ aumento vertiginoso dei prezzi degli immobili, che costringeva moltissime persone a sostenere spese onerose per l’affitto di alloggi spesso inadeguati e fatiscenti. È possibile farsi un’idea delle loro critiche condizioni di vita in primo luogo attraverso le richieste di sussidio indirizzate al prefetto. Le richiedenti erano spesso donne, con mariti o figli dispersi al fronte, con prole a carico e prive dei mezzi di sostentamento. Altre invece erano sinistrate prive di appoggi familiari, come viene testimoniato in una lettera datata 2 agosto 1943, due mesi prima dell’ingresso degli Alleati in città: Residente a San Giovanni a Teduccio, sola, orfana di padre e madre, si è ritrovata povera a causa dei sinistri avvenuti nella sua abitazione. Chiede di essere aiutata perché muore di fame e non ha né il pane per potersi sostenere né i soldi sufficienti per sgombrare e affittare un’altra misera stamberga. Non ha un letto e dorme su un tavolo64.

33 A fornire un quadro ulteriore sull’argomento è infine la corrispondenza censurata, che venne commentata dalle stesse autorità censorie nei termini inequivocabili di «triste situazione degli alloggi a Napoli»: A Napoli il problema della casa è quasi di impossibile risoluzione. Noi viviamo in alloggi di fortuna... a nessun prezzo si trovano abitazioni disponibili, a meno che non si abbia la possibilità di pagare delle decine di migliaia di lire per le spese di ceditura [buona uscita] dell’appartamento / Per il fitto della camera la padrona vuole 1500 lire a persona65. Per ora, per mancanza di alloggi, perché vi sono molte case sinistrate, ci tocca arrangiarci in casa di zio Umberto. Se sapessi quello che si sta passando: mamma non lo credeva della crisi e miseria che esiste a Napoli. Io dormo ancora in casa dei Berletta, Vincenzino non può dormire da zio Umberto, in quel bugigattolo, sembra un sotterraneo, senza aria, senza gabinetto, umido, sempre con la luce accesa

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perché non vi passa uno spiraglio di luce. Mamma e Maria sono costrette ad abitarci, perché non si trova nulla. Vincenzino dorme con una coperta allo scoperto sulla terrazza dell’abitato66.

3. I primi effetti dell’occupazione alleata

34 Il regime d’occupazione alleato insediatosi nell’Italia meridionale può essere considerato come il prodotto contradditorio di un difficile compromesso, a cui dovettero necessariamente adattarsi inglesi e americani, circa la forma di controllo più adeguata da approntare per l’amministrazione di quei territori. Il dissidio di fondo, concernente la possibilità di instaurare un controllo diretto o indiretto delle aree sottoposte all’occupazione, divideva i due alleati lungo i solchi di un diverso orizzonte interpretativo degli eventi, dettato in primo luogo dalle specifiche esigenze nazionali. La proposta americana, che propendeva verso una strategia di controllo diretto, mirava di fatto ad un netto ridimensionamento della sovranità italiana per favorire un ampio margine d’azione sul territorio dei locali funzionari alleati67. Tuttavia, nel processo di definizione di un efficace modello di governo militare, gli inglesi fecero valere sull’ago della bilancia il duplice peso dei loro interessi strategici e della maturità raggiunta sul piano tattico-militare. La strategia di controllo indiretto delle retrovie, che presentava innumerevoli vantaggi strategici specie nella garanzia di law and order con il minimo dispendio di uomini, prese così il sopravvento sulle prime intenzioni dell’alleato d’oltreoceano, fornendo allo stesso tempo le linee guida essenziali per le successive politiche condotte nella penisola68.

35 Per la primaria necessità di limitare il proprio coinvolgimento nei territori occupati, si giunse dunque alla tortuosa accettazione di una coesistenza con la monarchia e il governo di Badoglio e infine al riconoscimento per il vecchio nemico dello status di Paese cobelligerante. I convulsi avvenimenti del 1943 avevano aperto tuttavia delle ferite lancinanti in seno al contesto politico-sociale italiano, che misero duramente alla prova la volontà alleata di farsi carico in minima parte delle proprie responsabilità. Le devastazioni comportate da tre anni di guerra totale, l’implosione dell’apparato statale fascista a seguito dell’armistizio, la presenza dell’esercito tedesco nelle aree del centro- nord, l’incompiuto ricambio della classe dirigente e il disorientamento patito dalle masse rappresentavano i maggiori problemi di cui il debole Stato italiano insediatosi nel Meridione non era in grado di provvedere da solo. Disorganizzato al proprio interno, nonché alle prese con una complicata opera di legittimazione delle sue fondamenta istituzionali, quest’ultimo non sarebbe mai riuscito a recuperare le proprie funzioni in breve tempo e con le sue sole forze. Per sopravvivere, non poteva far altro che attendere il sostegno politico e materiale alleato. Andarono così delineandosi i primi sintomi di un rapporto di mutua dipendenza che avrebbe unito controllori e controllato, vincitori e vinto per tutta la durata dell’occupazione, segnandone irrimediabilmente l’ambiguità.

36 La mancanza di un forte interlocutore statale sul territorio finora conquistato condizionò in modo preponderante le strategie altalenanti degli Alleati, che propendevano, a seconda delle eventualità, sia verso la direzione del controllo indiretto che su quella del controllo diretto. In occasione dello sbarco in Sicilia, venne istituito l’ Allied Military Government of Occupied Territory (AMGOT), presieduto dal generale inglese e comandante delle forze d’occupazione in Italia, Harold Rupert Alexander. Le province italiane vennero raggruppate all’interno di Regions centralizzate che seguivano l’ordine

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di avanzata degli eserciti alleati lungo la linea del fronte: la Region I corrispondente alla Sicilia, la Region II alla Calabria, alla Basilicata e alla Puglia, la Region III alla Campania e la Region IV alla Sardegna. Nella giurisdizione della Region III rientravano in particolare le province di Napoli, Avellino e Benevento, quella di Salerno vi avrebbe infine fatto capolino nel febbraio 194469. Ogni provincia era affidata alla vigilanza di un Senior Civil Affairs Officer (SCAO) col compito di monitorare l’attività del prefetto e da cui dipendevano i Civil Affairs Officers (CAO) stanziati nei comuni principali. Ogni SCAO rispondeva a sua volta all’autorità del governatore regionale, il Regional Civil Affairs Officer (RCAO), il quale dirigeva la Region di appartenenza per conto del Governo militare70.

37 Il Governo militare, che avrebbe assunto nell’ottobre 1943 la denominazione di AMG, esercitava la propria influenza nei territori esclusi dall’amministrazione italiana attraverso un sistema di governo parallelo, che accentrava su di sé il disciplinamento di tutti gli aspetti della vita politica, sociale e economica delle realtà locali. Come era stato stabilito ai sensi dell’art. 37 dell’Armistizio lungo, siglato fra le due controparti il 29 settembre 1943, venne istituita nel mese di novembre l’Allied Control Commission (ACC). A quest’ulteriore moloch, nato dalla sinergia burocratico-amministrativa angloamericana, era affidato l’incarico di «supervisionare, consigliare e sorvegliare» l’attività del governo italiano, specie riguardo l’imposizione dei termini d’armistizio, che richiedevano, fra l’altro, un’attiva partecipazione italiana allo sforzo bellico alleato. L’ACC era divisa in quattro sezioni fortemente irreggimentate: Military, Political, Economic and Administrative e Communications, alle quali rispondevano tante Commissions e Sub-Commissions in proporzione al numero dei ministeri italiani da controllare71. Nel suo ruolo di vigile “falco” e protettore degli interessi alleati nei territori restituiti all’autorità italiana, l’ACC esercitava le sue funzioni in virtù dei principi dettati dal controllo indiretto, operando in concerto con il polo del controllo diretto rappresentato dall’AMG.

38 L’insediamento dell’AMG a Napoli seguì il naturale andamento delle operazioni militari: sin dai giorni immediatamente successivi allo sbarco di Salerno, agli ufficiali dei Civil Affairs erano state impartite istruzioni inerenti lo studio delle future iniziative da intraprendere nella città partenopea. La mattina del 1 ottobre 1943, insieme agli eserciti alleati, entrarono in scena anche i quadri dirigenti di spicco dell’AMGOT: il colonnello Hume, allora al comando della Region III, il tenente colonnello Kraege, neo- insignito CAO di Napoli, e il maggiore Knight guidarono in prima persona le operazioni di requisizione del Municipio, che sancirono, oltre il chiaro aspetto simbolico, lo stanziamento con effetto immediato delle nuove forze occupanti72.

39 Dopo lo sbarco in Sicilia, gli Alleati si apprestavano ad amministrare un’altra grande città italiana, afflitta da ogni tipo di problematiche. Alle privazioni materiali, si aggiungevano il caos e la disgregazione di ogni livello – politico, economico e sociale – della realtà cittadina, provocati dalla guerra e dalla successiva caduta del regime fascista. Governare una città come Napoli avrebbe comportato, prima che il necessario ristabilimento dell’ordine, un’azione minuziosa di ricucimento e ristrutturazione di tutti i gangli vitali della società, giunti alla paralisi e al progressivo deperimento. Un modus operandi che richiedeva innanzitutto una visione ad ampio respiro e proiettata necessariamente nel lungo termine, che spesso confliggeva con l’orizzonte strategico degli ambienti militari, proiettato al conseguimento del maggior numero di risultati in un breve arco temporale. Questo può in parte spiegare le preoccupazioni che

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investirono gli alti comandi alleati circa i primi interventi da adottare e le perplessità di alcuni sottoposti, specialmente quelli impiegati nelle operazioni di polizia, nel dover operare in un teatro ormai lontano dal fronte bellico, che non offriva loro alcuno stimolo né gratificazioni future. A prima vista Napoli, col tipo di lavoro che ci riserva, sembra poco attraente, in confronto al Nord Africa. I giorni delle scorribande sulle montagne della Cabilia per incontrare i caid ribelli e i santoni che controllano le tribù, e delle discussioni segrete nel roseto dei Giardini di Palazzo a Tunisi, sono finiti per sempre. La vita qui, in confronto, promette di essere faticosa, a volte prosaica, e oppressa dalla routine73.

40 Al contempo, dopo l’iniziale euforia cominciava a farsi largo la consapevolezza che il nuovo regime di occupazione avrebbe richiesto ulteriori sacrifici alla popolazione, in nome delle inappellabili esigenze militari. La presenza sul territorio di innumerevoli comparti alleati, con le annesse ramificazioni burocratico-amministrative al loro seguito, richiedeva innanzitutto una collocazione stabile, nonostante le difficoltà date da un contesto urbano profondamente deficitario sul piano delle abitazioni disponibili. Accanto alle industrie, innumerevoli furono le abitazioni private requisite nel capoluogo. Secondo quanto dichiarato successivamente dal colonello Pennycuick in una conferenza stampa, furono proprio «le necessità militari» a spingere verso l’impopolare occupazione delle abitazioni «in una città nella quale gli alloggi, in seguito alla distruzione apportata dalla guerra, già scarseggiavano». In molti casi, egli aggiunse, furono oggetto di requisizione le case abbandonate, «e gli abitanti che nel 1942 o 1943 erano sfollati verso il Nord non potevano certo aspettarsi di potervi ritornare presto»74. L’atteggiamento duro e poco incline al dialogo con le autorità italiane e i comitati cittadini condizionava in maniera preponderante i discorsi degli alti ranghi alleati su tale pratica, incentrati principalmente sulla legittimazione della stessa come chiave di un lecito strumento al servizio delle superiori finalità militari. Oltre a costituire un primo segno tangibile dell’occupazione, le requisizioni resero con estrema chiarezza ai civili, e nel modo più spiacevole, che l’agognato processo di pace si attestava ancora in una fase embrionale.

41 Il ricorso smodato a metodi indiscriminati per la requisizione e la diffusione a macchia d’olio di veri e propri atti illeciti e abusivi – come il mancato rilascio delle dovute ricevute, che rendono tuttora estremamente difficile un computo esatto dei vani requisiti dagli angloamericani75 – spinsero le autorità alleate ad emanare, nel maggio 1944, una serie di circolari, concernenti la regolamentazione delle occupazioni dei beni immobili da parte di tutte le agenzie periferiche dell’AMG. Le strutture che non potevano essere requisite senza la prioritaria approvazione dei Comandi generali erano riportate nel seguente ordine: ospedali, scuole, lavanderie, panifici, negozi, depositi di materiale, scorte alimentari o equipaggiamento per l’esercito italiano, teatri, ville dell’area metropolitana di Napoli che non fossero state incluse nelle aree assegnate alle agenzie alleate richiedenti, stadi, parchi pubblici ed edifici di importanza storica e educativa. Le chiese, così come altri luoghi di culto, non potevano essere impiegate per fini non religiosi eccetto che per temporanei ricoveri in casi di emergenza, ma in nessun caso si poteva autorizzare il loro uso per esigenze militari. Secondo accordi con le locali autorità ecclesiastiche veniva ribadito il principio secondo il quale esse rimanevano al servizio degli scopi religiosi di dottrina e fede per le quali erano state consacrati. Le requisizioni dei beni immobili dovevano dunque seguire questo ordine di

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priorità: edifici abbandonati, edifici pubblici, alberghi, sedi di aziende commerciali, scuole e sedi di istituzioni, case private e appartamenti.

42 Veniva puntualizzato che, in caso di disponibilità di soluzioni alternative e in mancanza di un’autorizzazione per iscritto da parte dei Comandi generali, non era consentita l’occupazione di edifici di rilevanza storica, come gli archivi e le gallerie d’arte. Il permesso di requisizione ai fini di alloggiamento di truppe non era garantito per le scuole, gli ospedali e altri edifici pubblici: come regola generale era infatti preferibile che queste ultime dimorassero nelle tende piuttosto che nelle abitazioni. L’occupazione degli edifici pubblici era considerata temporanea, in attesa di approvazione di occupazione permanente da parte delle autorità dell’AMG e dell’ACC. Lo sgombero dei proprietari o degli inquilini poteva avere corso solo nel caso di urgenti necessità militari e solo quando nessun’ altra soluzione per quello scopo specifico poteva essere ottenuta. Lo sfratto compiuto dai comandi militari era autorizzato nel momento in cui le necessità militari richiedevano l’imperativo dell’immediata occupazione, in caso contrario bisognava richiedere l’intervento dei servizi di assistenza dislocati nel territorio dalle locali autorità alleate. Le esigenze militari e non le convenienze personali dovevano muovere le operazioni di sgombero dei civili dalle proprie abitazioni. Si richiedeva discrezione da parte dei comandi responsabili, in quanto si dovevano considerare le difficoltà a cui andavano incontro i civili sgombrati, soprattutto nelle aree massicciamente distrutte. Era fatto obbligo per tutto il personale impiegato fra le fila degli eserciti alleati di esercitare moderazione e tenere conto dei diritti umani76.

43 Le medesime indicazioni erano già state ribadite in una nota del mese di febbraio, che a sua volta rimandava ad una circolare, redatta l’anno precedente, in materia di allontanamento dei civili dai locali requisiti. Anche qui si riportava che il ricorso allo sgombero era legittimo nei casi di urgenti necessità militari e quando nessun altro locale adatto allo scopo poteva essere utilizzato. All’interno dell’aerea metropolitana di Napoli i comandi di zona dovevano presentare preventivamente una richiesta formale di sgombero all’AMG: non erano dunque consentite operazioni di sfratto autonome condotte dai comandi di zona. Fuori l’area metropolitana di Napoli, l’azione di sfratto diretta attuata dai comandi era consentita nei casi in cui le necessità militari richiedessero l’imperativo di immediata occupazione. Le occupazioni degli edifici che esulavano dalle norme prescritte erano proibite, nonostante fosse sempre presente lo spiraglio costituito da una comprovata situazione emergenziale. Allo stesso tempo, veniva enfatizzato che il criterio da seguire per le requisizioni era la necessità e non la convenienza militare. Si segnalava, al contrario, una tendenza, giudicata apparente dagli scriventi, nel ricorrere allo sfratto laddove le strette necessità militari non erano direttamente coinvolte77.

44 Le frequenti requisizioni suscitavano aspre polemiche e insofferenza diffusa fra la popolazione, sentimenti presenti anche nelle relazioni sulla corrispondenza postale redatte dall’Ufficio informazioni dell’Ispettorato censura militare. Le requisizioni erano percepite in primo luogo come arbitrarie e non indispensabili: «Gli inglesi hanno requisito d’autorità le nostre ville... requisiscono tutto quello può far loro comodo, hanno anche requisito uno stabilimento industriale, recando danni al mobilio e ostacolando così anche la ripresa dell’industria»78. A Napoli non mancarono infatti le occupazioni di stabili che travalicarono i dichiarati scopi logistici di governo e controllo del territorio. Accanto agli appartamenti privati dislocati nei quartieri più in vista della

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città, vennero requisiti locali pubblici, aziende, ospedali, alberghi, teatri, musei, scuole e caserme anche per assicurare maggiori comodità ai militari ivi alloggiati. Come ricordava lo stesso Lewis in merito al signorile edificio assegnato alla Field Security Police: La Sezione è caduta in piedi. Appena arrivato ho scoperto che ci hanno installato nel Palazzo dei principi di Satriano in Piazza Vittoria, alla fine della Riviera di Chiaia, lo straordinario lungomare di Napoli. Il palazzo, a quattro piani, è una versione napoletana del barocco spagnolo. Noi ne occupiamo il piano nobile, in cima a uno scalone di marmo, con i suoi alti soffitti modanati, i candelabri scintillanti, gli enormi specchi a muro, e un opulento mobilio dorato in stile vagamente Impero. […] Dalle finestre sulla piazza si vedono gruppi di palme, molte statue e la baia di Napoli. L’FSO [Foreign Service Officer] ci ha sistemato davvero bene79.

45 A partire dal novembre 1943, passarono inoltre in mano alleata siti di straordinaria importanza storico-artistica come il Teatro San Carlo, il Museo Nazionale di San Martino, il Museo Archeologico Nazionale – adibito a deposito di materiali e acquartieramento di truppe –, la Biblioteca Nazionale e quella appartenente all’Istituto Orientale, l’Archivio di Stato a Pizzofalcone, l’Università, il Conservatorio, l’Accademia di Belle Arti, la Reggia di Capodimonte, Castel Nuovo e il Palazzo Reale80; nonché l’Orto botanico, la sede del Banco di Napoli di via Roma, il Palazzo delle Assicurazioni di Piazza Carità, gli uffici della Galleria Umberto I, gli hotel Terminus e Cavour e l’ala ancora integra del Palazzo delle Poste81. Alle requisizioni a tappeto dei luoghi-simbolo della millenaria storia napoletana non seguirono le necessarie operazioni cautelari per la tutela degli stessi, come testimoniavano le innumerevoli denunce, presentate dalle autorità italiane e dalla stessa MFAA (Sub-Commission for Monuments, Fine Arts and Archives), riguardanti atti di vandalismo, furti e saccheggi ad opera delle truppe alleate ivi alloggiate.

46 Il tentativo di ricollocare i soldati in aree prive di oggetti di valore sortì scarsi risultati, anche a causa della bassa considerazione che questi ultimi attribuivano al ruolo degli ufficiali dell’MFAA, etichettati peraltro con l’epiteto dispregiativo di Venus Fixers (“aggiusta-Veneri”)82. I danni arrecati ai locali del Palazzo Reale, ad esempio, furono talmente gravi dal costringere Badoglio ad avanzare, nell’aprile 1944, in prima persona una protesta formale presso gli alti comandi alleati83. Nel riportare la propria testimonianza in merito all’increscioso fenomeno, Lewis non lesinava aspri commenti, spingendosi a puntare il dito su un clima di aperta connivenza, venutosi a creare fra truppe arraffatrici e ufficiali alleati, per la spartizione del “bottino di guerra”: Stanno arrivando reclami per i saccheggi compiuti dalle truppe alleate. In questa guerra, gli ufficiali si sono dimostrati molti più abili della truppa in faccende del genere. Gli ufficiali dei Dragoni della Guardia, cui è toccato l’onore di essere la prima unità britannica a fare il suo ingresso a Napoli, sono stati accusati di aver tagliato le tele dalle cornici nel Palazzo della principessa, e di essersi portati via una raccolta di porcellane di Capodimonte. L’OSS [Office of Strategic Services] ha ripulito la sontuosa dimora di Achille Lauro. Si dice che alcuni dei pezzi più voluminosi siano stati imballati dentro casse per essere spediti in Inghilterra con la connivenza della Marina84.

47 La situazione era, al contempo, particolarmente sofferta nella provincia, dove la penuria di edifici agibili nel capoluogo aveva intensificato, da parte alleata, le operazioni di requisizione di stabili privati. Ecco cosa accadeva a Capua nelle parole del rapporto stilato dai carabinieri nell’aprile 1944:

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Come da ordine dato il 20 corrente del Governatore A.M.G. al sindaco di Capua, gli abitanti dei quattro gruppi di abitazioni civili, delimitati da via Roma, via Francesco Pratillo, via Pomerio e via Santa Maria La Ferrara di detto abitato, sono stati sgombrati nella caserma Pepe. Si ignora quale sia l’esatto motivo dello sgombero, perché tenuto con riserva dalle autorità alleate. Lo sgombero sembra che durerà fino al 10 maggio e è stato effettuato con automezzi e personale alleato. Fra le dette persone regna molto malcontento in vista dei gravi disagi da affrontare85.

48 Nelle campagne del casertano, già duramente provate dalle devastazioni dei tedeschi in ritirata, le requisizioni alleate, che coinvolsero nella maggior parte dei casi terreni adibiti a uso agricolo, provocarono anche ingenti danni al territorio. In un’accorata lettera rivolta al prefetto, il sindaco di Arienzo San Felice si fece interprete della disperazione che attanagliava i cuori e le menti della comunità contadina, a cui era stata inibita la raccolta del grano, alimento indispensabile per il proprio sostentamento86. Ulteriori segnalazioni, contenenti esplicite richieste al prefetto affinché si esponesse in qualità di mediatore fra le autorità alleate e la popolazione, provenivano anche dall’area del medio e alto Volturno. Il proprietario di un vasto appezzamento sito fra i comuni di Ailano e Vairano informava la Prefettura circa la cattiva condotta di una divisione di truppe canadesi, le quali, approfittando della posizione isolata e dello scarso controllo operato dai loro ufficiali, si sarebbero abbandonate a furti e razzie di ogni genere ai danni dei contadini87. Simili criticità erano riscontrate anche a Pomigliano d’Arco. Una lettera anonima, recante firma di “un gruppo di proprietari e agricoltori”, segnalava al prefetto l’intenzione degli inglesi di voler requisire «duemila moggia di fertilissimo terreno coltivato, nella zona estendentisi da Casalnuovo al ponte di Pomigliano d’Arco […] per essere adibito a deposito di autoveicoli delle forze armate britanniche», privando conseguentemente questi ultimi «di ogni fonte di lavoro produttivo»88.

49 A Barra le requisizioni degli appartamenti privati erano state autorizzate ai fini di alloggiamento dei reduci alleati. Come da prassi, i civili colpiti dalle requisizioni si rivolsero al prefetto, arrivando ad elencare nei minimi particolari l’entità del disagio patito: Con provvedimento del 2 dicembre 1944, lo scrivente ebbe a subire la requisizione del suo appartamento in Barra al secondo piano della Villa Letizia, a via Giambattista Vela. Contemporaneamente subivano la stessa requisizione gli inquilini del primo e terzo piano. Gli sfrattati per il difetto assoluto di abitazioni locali erano costretti ad arrangiarsi chi in un modo, chi in un altro, ammassando la mobilia di casa, e riducendosi a vivere in condizioni precarie. Il sacrificio finora sopportato pazientemente è stato assai oneroso, a parte le già tante sofferenze per il passato stato di guerra. Lo scrivente fin dal 7 dicembre 1944 faceva presente il grave danno che ne avrebbe risentito per l’impossibilità di poter esplicare col dovuto decoro la sua professione di avvocato, oltre il grave danno alla mobilia unico suo patrimonio, dopo la distruzione della sua casa a San Giuseppe Vesuviano, bruciata dai tedeschi in ritirata. Lo scrivente, ridotto in due camerette a via Bisignano in Barra, non è in grado neanche di ricevere la sua clientela, ed è anche minacciato di sfratto dall’attuale casetta […] Poiché risulta che i cinque appartamenti requisiti nella detta villa Letizia a via Giambattista Vela sono detenuti da appena sette o otto militari polacchi, ad uso di pochi uffici, che potrebbero sistemarsi in un sol quarto, poiché lo scrivente e altri requisiti sono in condizioni precarie, si rivolge vivissima istanza a V.S. perché voglia far presente al comando militare alleato le difficili nostre condizioni, e premurare quel Comando-Town Mayor di Portici per la derequisizione delle nostre case89.

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50 Sollecitata dalla Prefettura, la Questura di Napoli raccolse le seguenti informazioni: l’appartamento dell’avvocato Doria, requisito dal Comando Town Mayor di Portici, era occupato da militari alleati nel numero di trenta unità, fra ufficiali e soldati90. Lo stato di cose si protrasse tuttavia anche l’anno successivo, senza che le locali autorità italiane potessero intervenire in favore della popolazione91. La risposta alleata, rappresentata nella persona del colonnello e responsabile del Governo militare a Napoli Pennycuick, all’ulteriore richiesta di chiarimenti da parte del prefetto fu perentoria: «La vostra lettera del 5 maggio gab. 6830 è stata inviata al Town Major di Portici, il quale ha comunicato che l’edificio è adibito a mensa ufficiali dalle truppe polacche, e a meno che non si privino altri civili delle loro case, esso non può essere rilasciato. Per il momento non può essere fissata alcuna data circa la disponibilità dell’edificio stesso»92. Lo stesso colonnello fornì a mezzo stampa alcune “precisazioni” riguardo le possibili derequisizioni di locali a uso industriale e abitativo. Dichiarava che le autorità cittadine gli avevano sottoposto una lista di locali il cui rilascio era considerato più urgente, citando per ognuno il numero delle persone che vi potevano essere impiegate. Assicurava infine di aver sottoposto tale lista all’attenzione dei comandi alleati superiori, di modo che, qualora fosse stato permesso dal mutamento della situazione militare, avrebbero potuto essere gradualmente derequisiti93.

51 In un ulteriore incontro, indetto da quest’ultimo con il sindaco di Napoli, il Presidente della Corte d’appello Minervini, il Presidente del Commissariato per gli alloggi Carabona, i rappresentanti del CLN locale, l’Unione Sinistrati e i giornalisti, se da una parte fu costretto ad ammettere la presenza di numerose irregolarità verificatesi durante le operazioni di requisizione degli stabili, dall’altra ribadì fermamente la posizione ufficiale degli Alleati sulla questione: Durante i primi tempi dell’occupazione alleata, le forze armate furono costrette per impellenti necessità militari a requisire molte case occupate da proprietari o inquilini. Ne risultò che molti furono privati del loro alloggio e le forze militari, per venire loro incontro, diedero loro in molti casi altre abitazioni. Questi alloggi dati in cambio non furono reputati di carattere permanente ma solo una misura provvisoria in casi di emergenza. La responsabilità degli alloggi è dell’autorità italiana. Il prefetto ha, per decreto, il potere di sospendere l’esecuzione di una sentenza di sfratto emessa dalla Corte. L’obbiettivo è quello di concedere un tempo ragionevole allo sfrattato per trovare altra abitazione. Molti inquilini che hanno ricevuto alloggi in cambio dalle autorità alleate sono sotto l’impressione che essi non sono soggetti ad essere sfrattati, e in molti casi presentano lettere ricevute da qualche membro delle forze alleate che dichiarano che sono in legale possesso dell’alloggio. Mentre è in potere del Commissario dell’AMG di sospendere sentenze di sfratto, non è nelle abitudini dell’AMG di usare questo potere se non per necessità militari. Da qui scaturisce il principio dell’AMG che dirette richieste di civili per ottenere la sospensione di una sentenza di sfratto non vengano considerate. Un comandante di un’unità militare può, se considera il caso giustificato, chiedere al Commissario dell’AMG di sospendere lo sfratto. Il Commissario dell’AMG non interverrà se non nei casi enunciati qui sopra94.

52 Veniva inoltre ribadito il fermo divieto per i civili di insediarsi negli stabili abbandonati dalle forze alleate, senza che fosse stato emanato a riguardo un ordine di derequisizione. Tutti i trasgressori sarebbero andati incontro a severe condanne95. Il lungo protrarsi delle requisizioni, di cui non si profilava una scadenza nemmeno in tempo di pace, divenne anch’esso oggetto di una crescente insofferenza popolare, la cui esperienza diretta avvertiva maggiormente gli svantaggi e i risvolti oppressivi di una pratica concepita e attuata per l’esclusivo perseguimento degli interessi alleati. La

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prolungata presenza anglo-americana a Napoli e le successive frizioni diplomatiche scaturite nelle fasi di negoziazione di un trattato di pace per l’Italia finirono infine con l’acuire la percezione che i partner alleati volessero liquidare la questione in maniera impari. Tuttavia, i termini stessi della resa incondizionata sanciti dall’armistizio di Cassibile, se da una parte avevano alimentato le ambizioni dei resistenti italiani nel presentare la lotta di liberazione come un atto di ravvedimento e di completa espiazione dal passato fascista, dall’altra lasciavano allo sconfitto ben pochi margini di negoziazione nella ridefinizione dei futuri assetti postbellici. In particolare, la linea strategica britannica aveva premuto fin da subito per il mantenimento di una continuità politico-istituzionale responsabile della fragile permanenza del Regno d’Italia nei territori meridionali96.

53 Non doveva dunque stupire il fatto che, specie nell’epicentro partenopeo, all’insediamento del regime di occupazione alleato nel Mezzogiorno fosse seguita una parallela politica di irrobustimento del blocco dominante di area moderata e filomonarchica, uscito pressoché indenne dai processi di epurazione, il cui crescente protagonismo specie sul fronte dell’emergenza abitativa avrebbe segnato la definitiva esautorazione di ogni rivendicazione concernente un reale mutamento dello status quo prebellico. Il comune desiderio di risollevarsi da un conflitto estremamente duro e sofferto, espresso da ampi strati della popolazione, richiedeva in modo preponderante la tutela dallo spettro della povertà e da un destino incerto. Il perpetrarsi dello stato di insostenibile bisogno, al contrario, acuì i sentimenti di sfiducia e disorientamento da parte di questi ultimi, a cui mancava tutto in tempo di guerra così come in pace.

NOTE

1. La complessità del fenomeno della guerra aerea, specie nei termini di percezione del conflitto stesso e di formazione della memoria collettiva da parte delle popolazioni coinvolte, ha costituito uno stimolo proficuo per numerosi studi che, con diversi tagli e sensibilità, si sono gradualmente approcciati alla questione. Per la Gran Bretagna, si segnalano in particolare: BIDDLE, Tamis Davis, Rhetoric and Reality in Air Warfare: The Evolution of American and British Ideas about Strategic Bombing 1914-1945, Princeton, Princeton University Press, 2002; JONES, Helen, British civilians in the front line: air raids, productivity and wartime culture 1939-1945, Manchester, Manchester University Press, 2006. Ricche disamine in chiave comparativa, specie in rapporto al caso tedesco e francese, sono invece contenute in: BALDOLI, Claudia, KNAPP, Andrew, OVERY, Richard (eds.), Bombing, States and Peoples in Western Europe 1940-1945, London, Continuum, 2011; BALDOLI, Claudia, KNAPP, Andrew, Forgotten Blitzes: France and under Allied Air Attack, 1940-1945, London, Bloomsbury, 2012; OVERY, Richard, The Bombing War. Europe 1939-1945, London, Penguin, 2013. 2. GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea sulla popolazione civile» , in Storia e memoria, 1, 2013, pp. 39-68, p. 39. 3. Ibidem, p. 40. 4. GIOANNINI, Marco, Bombardare l’Italia. Le strategie alleate e le vittime civili, in LABANCA, Nicola (a cura di), I bombardamenti aerei sull’Italia, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 79-100, pp. 84-86. 5. GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea», cit., p. 40.

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6. PANE, Andrea, Danni bellici, restauri e ricostruzioni a Napoli tra Quartieri Spagnoli, Monteoliveto e Rione Carità, in CASIELLO, Stella (a cura di), Offese di guerra. Ricostruzione e restauro nel Mezzogiorno d’Italia, Firenze, Alinea editrice, 2011, pp. 73-101, pp. 75-76. 7. Archivio di Stato di Napoli (d’ora innanzi ASNa), Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1222/1, Disciplina di guerra. Bombardamenti (1941-1942), foglio volante della RAF, luglio 1941. Vedi anche GRIBAUDI, Gabriella, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 53-54; PANE, Andrea, op. cit., p. 78. 8. GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea», cit., p. 58. 9. CHIANESE, Gloria, «Napoli nella seconda guerra mondiale», in Italia contemporanea, 195, 1994, pp. 343-362, p. 354. 10. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1222/1, Disciplina di guerra. Bombardamenti (1941-1942), Comunicato della Prefettura di Napoli, 23 ottobre 1941. Vedi anche PANE, Andrea, op. cit., p. 78 e GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea», cit., p. 61. 11. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1222/1, Disciplina di guerra. Bombardamenti (1941-1942), informativa anonima, 23 ottobre 1941. 12. GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea», cit., p. 42. 13. VILLARI, Sergio, RUSSO, Valentina, VASSALLO, Emanuela, Il regno del cielo non è più venuto. Bombardamenti aerei su Napoli 1940-1944, Napoli, Giannini, 2005, pp. 137-139. 14. GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea», cit., p. 43. 15. STEFANILE, Aldo, I cento bombardamenti di Napoli. I giorni delle AM Lire, Napoli, Marotta, 1968, p. 5. 16. PANE, Andrea, op. cit., p. 79. 17. PAPA, Antonio, Napoli: il trauma della liberazione, in PLACANICA, Augusto (a cura di), 1944 Salerno capitale: istituzioni e società, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1986, p. 410. 18. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1224/1, Disciplina di guerra. Bombardamenti (1942-1943), foglio volante della RAF, maggio 1943. Vedi anche GRIBAUDI, Gabriella, «L’impatto della guerra aerea», cit., pp. 45-46. 19. BALDOLI, Claudia, «I bombardamenti sull’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Strategia anglo-americana e propaganda rivolta alla popolazione civile», in Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, 13-14, 2010, pp. 34-49, p. 46. 20. Archivio Istituto Luce (d’ora innanzi AIL), Giornale Luce C0369/3, L’offesa nemica su Napoli. Aspetti dolorosi e significativi dello scempio nemico, 14 agosto 1943. I materiali audiovisivi impiegati per questo articolo sono consultabili al seguente URL: < http://www.archivioluce.com/archivio/ > [consultato il 30 settembre 2016]. 21. STEFANILE, Aldo, op. cit., p. 170. 22. Ibidem, p. 183. 23. GRIBAUDI, Gabriella, Guerra totale, cit., p. 160. 24. PANE, Andrea, op. cit., p. 83. 25. VILLARI, Sergio, RUSSO, Valentina, VASSALLO, Emanuela, op. cit., pp. 80-81. 26. LEWIS, Norman, Napoli ’44, Milano, Adelphi, 1993, pp. 119-120. 27. «Aereo americano sgancia la bomba e se ne va / ritorna alla base [nota personale dell’autore] / aereo americano sgancia la bomba e se ne va / e se ne va dietro l’angolo / e lo riduce come una bella pizza» [NdT]. Vedi anche CHIANESE, Gloria, Quando uscimmo dai rifugi. Il Mezzogiorno fra guerra e dopoguerra, Roma, Carocci, 2004, p. 48. 28. Il controllo della corrispondenza era di competenza dell’Ispettorato censura militare – Ufficio informazioni, a sua volta dipendente dal Ministero della Guerra. La censura era orientata a scopi militari e doveva rispettare, nei limiti delle possibilità, il principio del segreto epistolare (Premessa delle N.P.C.G., pubblicazione 1333 S.E., agosto 1944). Le lettere censurate impiegate in questo articolo sono contenute in Archivio Centrale dello Stato (d’ora innanzi ACS), Presidenza

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del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, 1944-1947, b. 1.2.2., f. 14884, Censura postale e Ministero dell’Interno, Gabinetto, 1944-1946, b. 15, f. 1119, Censura militare. Relazioni; Censura postale. Varie. 29. AIL, Combat film RW336, Naples is a battlefield. A British Ministry of Information film, The British Army Film Unit and The Royal Air Force Film Production Unit, 1944. 30. Ibidem. 31. STEFANILE, Aldo, op. cit., p. 171. 32. LEWIS, Norman, op. cit., p. 37. 33. AIL, Combat Film RW172, Bombardamenti alleati sull’Italia, 29 agosto 1943. 34. Nel 1948, l’Ufficio Statistica del Comune di Napoli aveva rilevato nei quartieri Mercato, Poggioreale e Pendino una percentuale di vani completamente distrutti o danneggiati pari rispettivamente al 90,24, al 57,49 e al 46,04%. Ancora oggi non è possibile indicare una cifra esatta del numero degli sfollati allontanatisi dal capoluogo a causa dei bombardamenti. In mancanza di un efficace piano di evacuazione dalle grandi città, lo sfollamento da Napoli interessò principalmente coloro che riuscirono, non senza difficoltà, a trovare un punto d’appoggio nelle campagne circostanti. Vedi anche DE MARCO, Paolo, Polvere di piselli. La vita quotidiana a Napoli durante l’occupazione alleata (1943-1944), Napoli, Liguori Editore, 1996, pp. 104, 170. 35. MILONE, Guido, Per la ricostruzione di Napoli, Napoli, Richter, 1944, pp. 11-14, pubblicazione a cura e spesa del Banco di Napoli. 36. Ibidem, pp. 31-34. 37. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1231/1, Disciplina di guerra. Bombardamenti (1943-1946), Ministero del Tesoro – Terza Divisione al Ministero dei Lavori Pubblici e all’Istituto per le case popolari di Napoli, n. prot. 136575/135420, Roma 27 novembre 1945. 38. Ibidem, Consorzio nazionale fra gli Istituti fascisti autonomi per le case popolari a tutti gli Istituti fascisti provinciali per le case popolari e a tutti gli altri enti associati, circ. n. 185, Roma 15 febbraio 1942. 39. Ibidem, Case per i sinistrati dalle incursioni nemiche, Napoli 13 gennaio 1942. 40. Ibidem, Istituto per le case popolari al Comune di Napoli, doc. n. 2414, Napoli 14 luglio 1944. 41. Ibidem, Ufficio del Genio Civile al prefetto di Napoli, doc. n. 17961, Napoli 7 ottobre 1944. 42. Ibidem, Ufficio del Genio Civile al prefetto di Napoli, doc. n. 30961 e n. 30963, Napoli 17 settembre 1945. 43. Ibidem, esposto al ministro dei Lavori Pubblici, al sindaco e al prefetto di Napoli, doc. n. 7279, Napoli 9 maggio 1946. 44. Ibidem, Ente Comunale di Assistenza di Napoli – Ufficio speciale danneggiati di guerra, settembre 1943. Gli edifici scolastici adibiti a centri di ricovero dalla disciolta Federazione provinciale fascista erano: scuola Duse di Porta Posillipo, scuola media in via Campi Flegrei, scuola Oriani in San Pietro a Patierno, scuola in via Duca d’Aosta a Pianura, scuola Aganoor in Corso Napoli a Marianella, asilo in via Vittorio Emanuele a Piscinola, scuola materna a Chiaiano, scuola Toti a Ponticelli (capienza di 300 posti), scuola Corridoni a Barra (capienza di 300 posti), scuola Russo in via Santa Margherita a Fonseca (capienza di 150 posti), scuola Bovio in via San Giovanni a Carbonara, scuola Petrarca alla Salute (capienza di 150 posti), scuola Mastriani in via Ferriera a Poggioreale, scuola Taddei a Miano, asilo Pascoli a Miliano, scuola a Piazza Mondragone, Liceo Umberto I (capienza di 520 posti), scuola media in Santa Maria in Portico (capienza di 520 posti), scuola De Amicis in via Santa Teresa a Chiaia. Le sedi dei disciolti gruppi rionali fascisti, adibite al pagamento dei sussidi per i sinistrati, erano: “Baracca” al rione Santa Croce all’Arenella, “Luporini” in Piazza Torretta e “Aurelio Padovani” in Piazza Padovani. Nel documento si fa cenno alla volontà di ampliare tale servizio, usufruendo dei locali “Buonservizi” in via Vergini, “Nardini” a Secondigliano e “Neri” a San Giovanni a Teduccio. 45. Ibidem, comunicato della Questura di Napoli alle forze di polizia, al prefetto e all’Intendenza di finanza di Napoli, doc. n. 107144, Napoli 1 maggio 1945.

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46. ASNa, Questura, Gabinetto, Massime, b. 126, f. 2768, Danni di guerra, informativa urgente della Decima legione territoriale della Guardia di finanza “Vesuvio” di Napoli all’Intendenza di finanza, alla Questura e al Comando Compagnia interna dei carabinieri di Napoli, n. prot. 1038, Napoli 24 maggio 1946. 47. Ibidem, circolare del questore agli uffici di PS di città e provincia, n. 1017463 gab., Napoli 17 giugno 1946. 48. Commissione Alleata di Controllo – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Censimenti ed indagini per la ricostruzione industriale eseguiti nel settembre 1944, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1945, grafico 5. Vedi anche CHIANESE, Gloria, «Napoli nella seconda guerra mondiale», cit., p. 347. 49. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1231/1, Disciplina di guerra. Bombardamenti (1943-1946), Danni di guerra ai fabbricati privati e numero di persone rimaste senza tetto, doc. n. 35025, 10 dicembre 1945. I comuni di competenza del Genio Civile di Napoli erano: Afragola, Arzano, Bacoli, Caivano, Calvizzano, Cardito, Casalnuovo, Casola, Casoria, Castellammare di Stabia, Cercola, Giugliano, Gragnano, Ischia, Marano, Massalubrense, Monte di Procida, Mugnano, Ottaviano, Poggiomarino, Pollena Trocchia, Pomigliano d’arco, Pompei, Portici, Pozzuoli, Qualiano, Resina, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Giuseppe Vesuviano, Somma Vesuviana, Sorrento, Torre Annunziata, Torre del Greco, Terzigno, Villaricca. 50. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1211/1, Disciplina di guerra. Sinistrati: varie (sussidi, speculazioni a danno dei sinistrati, Movimento sfollati 1943 – 1944), Fondo ECA di 10mila lire per gli sfollati. 51. Ibidem, esposto del sindaco di Napoli alla Prefettura, doc. n. 718, 16 ottobre 1945. 52. «Problemi del giorno. La crisi delle abitazioni e le case popolari», in Il Risorgimento, II, 229, 23 settembre 1944, p. 4. 53. PAPA, Antonio, op. cit., p. 411. 54. GRIBAUDI, Gabriella, Guerra totale, cit., p. 172. 55. ACS, Allied Control Commission (d’ora innanzi ACC), 10260-163/57, Ricoveri, bobina 1001B, scaffale 185. 56. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1211/1, Disciplina di guerra. Sinistrati: varie (sussidi, speculazioni a danno dei sinistrati, Movimento sfollati 1943 – 1944), segnalazione dei carabinieri di Napoli alla Prefettura, n. prot. 319/128, Napoli 4 novembre 1944. 57. Ibidem, Ufficio del Genio Civile al prefetto di Napoli, Danni di guerra. Fabbricati sinistrati e pericolanti nella città di Napoli, doc. n. 16967, Napoli 2 gennaio 1945. 58. Ibidem, Ministero dell’Interno – Direzione generale amministrazione civile ai prefetti delle provincie liberate, doc. n. 1/6121-1-10-F. div. 1, Salerno 15 giugno 1944. 59. Ibidem, Ministero dei Lavori Pubblici ai prefetti dell’Italia libera, ai sindaci delle città capoluogo, agli ispettori generali e agli ingegneri capi del Genio Civile, doc. n. 24592, Salerno 30 giugno 1944. 60. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 502/50, Orfanotrofio San Giovanni Bosco, esposto delle Suore Salesiane di San Giovanni Bosco al prefetto, Napoli 24 gennaio 1945. 61. Ibidem, Questura di Napoli, n. prot. 103154, risposta a nota prefettizia n. 2240 del 12 febbraio 1945, Napoli 22 aprile 1945. 62. «La questione degli sfratti. L’Ufficio per le pratiche fittuarie esaminerà tutte le decisioni», in Il Risorgimento, II, 85, 8 aprile 1944, p. 4. 63. «Saranno emessi provvedimenti per fare in modo che la popolazione non abbia a risentire più a lungo i danni della mancanza di abitazioni. A tal proposito si provvederà perché gli sfratti siano sospesi, perché gli inquilini non siano minacciati dai padroni di casa con pretese che, in questo momento, appariscano più che mai inopportune». «L’interessamento del Col. Simson per i problemi più urgenti», in Il Risorgimento, III, 4, 5 gennaio 1945, p. 4.

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64. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1211/1, Disciplina di guerra. Sinistrati: varie (sussidi, speculazioni a danno dei sinistrati, Movimento sfollati 1943 – 1944), Richieste di sussidio alla Prefettura di Napoli. 65. ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, 1944-1946, b. 15, f. 1119, Censura militare. Relazioni, Relazione mensile maggio 1945, lettere da Napoli. 66. Ibidem, Censura postale. Varie, lettera da Napoli per New York, 28 luglio 1945. Vedi anche PORZIO, Maria, op. cit., p. 72. 67. ATERRANO, Marco Maria, Mediterranean-First? La pianificazione strategica anglo-americana e le origini dell’occupazione alleata in Italia 1939-1943, Napoli, Federico II University Press, 2017, p. 186. 68. Ibidem, pp. 183-185. 69. PORZIO, Maria, op. cit., pp. 36-37. 70. DE MARCO, Paolo, «Il difficile esordio del governo militare e la politica sindacale degli Alleati a Napoli», in Italia contemporanea, 136, 1979, pp. 39-66, p. 41. 71. PORZIO, Maria, op. cit., p. 37. 72. DE MARCO, Paolo, «Il difficile esordio del governo militare», cit., pp. 42-43. 73. LEWIS, Norman, op. cit., p. 33. 74. «Le derequisizioni. Precisazioni del col. Pennycuick», in Il Risorgimento, III, 206, 6 settembre 1945, p. 4. 75. DE MARCO, Paolo, Polvere di piselli, cit., p. 170. 76. ACS, ACC, 10263-115/17, Confidential, Acquisitions of real estate, circular 64, 22th May 1944, bob. 979C, scaf. 189. 77. Ibidem, Civil eviction, circular 27, 10th February 1944. 78. ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, 1944-1946, b. 15, f. 1119, Censura militare. Relazioni, Relazione mensile aprile 1945, lettera da Napoli. 79. LEWIS, Norman, op. cit., p. 33. 80. COLALUCCI, Sergio, La Sub-Commission for Monuments, Fine Arts and Archives Region III. Il Maggiore Paul Gardner a Napoli, in MIDDIONE, Roberto, PORZIO, Annalisa (a cura di), Napoli 1943. I monumenti e la ricostruzione, Napoli, Edizioni Fioranna, 2010, pp. 54-59, p. 55. 81. PORZIO, Maria, op. cit., p. 48. 82. COLALUCCI, Sergio, op. cit., p. 55. 83. DE MARCO, Paolo, Polvere di piselli, cit., p. 171 84. LEWIS, Norman, op. cit., p. 41. 85. ASNa, Prefettura, Gabinetto, secondo versamento, b. 1256/1, Requisizioni e derequisizioni alleate (1943-1946), Sgombero di popolazione civile da alcuni rioni della città di Capua. 86. Ibidem, lettera del sindaco di Arienzo San Felice al prefetto di Napoli, Napoli 14 maggio 1944. 87. Ibidem, lettera del colonnello Nunzio al prefetto di Napoli, Napoli 12 luglio 1944. 88. Ibidem, lettera anonima al prefetto di Napoli, Napoli 6 giugno 1944. 89. Ibidem, lettera dell’avvocato Doria al prefetto di Napoli, Barra 30 giugno 1945. 90. Ibidem, Questura di Napoli, risposta a nota prefettizia n. 12257 dell’8 luglio 1945, n. prot. 1013479, Napoli 5 agosto 1945. 91. Ibidem, lettera di un proprietario al prefetto di Napoli, Napoli 30 aprile 1946. 92. Ibidem, Headquarters Naples Liaison Group Allied Commission Apo. 794 al prefetto di Napoli, ref. NLG/Bldgs/20/505, Napoli 21 maggio 1946. 93. «Le derequisizioni. Precisazioni del col. Pennycuick», in Il Risorgimento, III, 206, 6 settembre 1945, p. 4. 94. «Le derequisizioni. Chiarimenti del col. Pennycuick», in Il Risorgimento, III, 215, 15 settembre 1945, p. 4. 95. Ibidem. 96. PAVONE, Claudio, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 101-103.

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RIASSUNTI

Questo articolo costituisce una prima rilettura, in chiave locale, della congiuntura storica del secondo conflitto mondiale e in particolar modo degli effetti sul piano materiale e morale scaturiti dai bombardamenti su larga scala dei centri abitati. Il processo di sdoganamento dei raid aerei contro la popolazione nei termini di un lecito strumento di guerra affondava le proprie radici dall’esigenza di rompere la “catena di solidarietà” che legava il fronte interno ai soldati impegnati nei combattimenti. Lo scoppio del nuovo conflitto mondiale coincise con una forte saldatura fra la pianificazione degli attacchi aerei su larga scala e il perfezionamento dei dettami della guerra psicologica. Durante la prima fase del conflitto, le città meridionali furono duramente colpite dalle campagne di bombardamento inglesi, a cui sarebbe seguite di lì a poco quelle americane. Per la sua posizione strategica e per il ruolo giocato dal porto, Napoli subì una lunga serie di rovinosi attacchi, con gravi danni inflitti all’intero tessuto urbano e in particolare al patrimonio artistico. Con l’ingresso degli eserciti alleati in città e la fine anticipata delle ostilità belliche si aprì per la popolazione napoletana una nuova fase della sua storia, che non coincise tuttavia con un miglioramento immediato delle sue condizioni di vita. Il problema abitativo rappresentava allo stesso tempo la prima emergenza da affrontare e una sfida contro il tempo aggravata dalle parallele requisizioni a tappeto messe in moto dalle nuove forze occupanti.

This article is a first reading in local key historical conjuncture of World War II and especially of the material and moral effects arising from the bombing of villages on a large scale. The process of customs clearance of air raids against the population in terms of a legitimate weapon of war sank their roots from the need to break the “chain of solidarity” that tied the home front to soldiers involved in the fighting. The outbreak of world war coincided with a strong weld between the planning of air strikes on a large scale and the refinement of principles of psychological warfare. During the first phase of the conflict, southern cities were hard hit by the British bombing campaigns that would follow shortly after the American ones. For its strategic position and the role played by the harbour, Naples suffered a series of devastating attacks, with serious damage to the whole urban building and in particular to the artistic heritage. With the arrival of the Allied armies in the city and the early end of hostilities wartime Neapolitan population opened a new phase in its history, not coincided however with an immediate improvement of their living conditions. The housing problem was at the same time the first emergency to deal with and a challenge exacerbated by parallel requisitions set in motion by the new occupying forces.

INDICE

Keywords : Naples, World War II, aerial warfare, bombing, post-war reconstruction Parole chiave : Napoli, Seconda guerra mondiale, guerra aerea, bombardamento, ricostruzione

AUTORE

MARTINA GARGIULO Martina Gargiulo ha conseguito, nel marzo 2017, la laurea magistrale in Scienze Storiche e Orientalistiche presso l’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla storia sociale alla storia militare, con un accento particolare sulle dinamiche politico-sociali innescate

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dal secondo conflitto mondiale e sui rapporti intercorsi fra lo scenario internazionale e i contesti locali dei paesi belligeranti. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Gargiulo >

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«Per una famiglia felice pace e lavoro» La propaganda al femminile del partito nuovo di Togliatti: simbologie e rituali del secondo dopoguerra

Elisabetta Girotto

1. Introduzione

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1 Nel linguaggio politico del secondo dopoguerra, in un paese che come l’Italia appare caratterizzato dalla mancanza di un sentimento condiviso di appartenenza nazionale, far appello ai valori familiari risulta senza dubbio una formula vincente. Chiamando in causa la famiglia, la sua salvaguardia e il suo consolidamento, si è certi di cogliere nel segno, se si vuol “capitalizzare” a proprio vantaggio un elemento primario dell’universo mentale degli italiani e soprattutto delle italiane. Il momento si prospetta per di più singolarmente propizio. Ad esaltare la dimensione del privato, concepita nella sua accezione solidaristica, avevano contribuito i lunghi anni di guerra e la liberazione dalle invadenze dell’occhiuto tentativo di controllo totalitario del regime, mentre lo straordinario prestigio acquisito sul piano politico dalla Chiesa dopo l’8 settembre, e l’intensificarsi del sentimento religioso, di fronte alla percezione della precarietà dell’esistenza, contribuivano a rafforzarne la tradizionale struttura patriarcale. Tuttavia è anche vero che la partecipazione femminile nella Resistenza (sia quella armata che quella civile) aveva contribuito a mettere in crisi la visione tradizionale della donna consolidatasi durante il regime fascista1.

2 Era più che prevedibile, in altra parole, che l’“uso pubblico” della famiglia finisse col circoscrivere uno dei terreni privilegiati su cui si sarebbe combattuta la battaglia politica dal 1946 in poi. Protagonista incontrastata del linguaggio democristiano2, sarà la dimensione parentale, non quella individualistica, a rappresentare il terreno comune di espressione degli appelli elettorali, a innervare le campagne propagandistiche e la rappresentazione iconografica e simbolica della comunicazione politica del dopoguerra3. Non a caso, nel Messaggio della Democrazia cristiana agli italiani, in occasione delle elezioni dell’Assemblea Costituente4, si sollecita un voto destinato a «salvare la nostra civiltà», cioè i valori «dell’unità e indissolubilità del Matrimonio, della prosperità della famiglia, dell’educazione cristiana dei figli» ancor prima di fare riferimento al «riscatto del lavoro e della proprietà privata»5.

3 Immagini della famiglia d’altra parte imperano ovunque. Chi passava per le strade, soprattutto, ma non solo, in tempo di elezioni, veniva costantemente assalito da manifesti popolati da ritratti di donne e bambini: ora mesti e macilenti, ora paffuti e radiosi.

4 Così la partita destinata a giocarsi con le nuove regole della democrazia sembra tradursi, sotto molti punti di vista, in una gara per il primato nella “difesa” delle famiglie italiane dalle minacce che la assalgono sul fronte nemico: una gara particolarmente serrata sul fronte dell’elettorato femminile, dal quale peraltro sarebbe dipeso in buona parte l’esito delle urne. E qui la Dc partiva con un vantaggio

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incommensurabile. Come se non bastasse l’imprimatur della tradizione cattolica, sacerdoti e attiviste si mobilitano in massa per suggerire adesso un voto «per il Bene contro il Male»6, a salvaguardia del sacramento del Matrimonio insidiato da presunte trame divorziste. Più che di un invito del resto si trattava di una vera e propria imposizione, visto che chi non votava per il partito di Dio – si andava ripetendo – commetteva peccato mortale 7.

5 Insomma l’arma del duello l’aveva scelta la Democrazia cristiana, e uno sfidante che in passato aveva a lungo disquisito sull’estinzione della famiglia arrivava all’appuntamento praticamente disarmato. Solo un concorrente abile quanto duttile e instancabile come Togliatti poteva accettare la sfida, orchestrando un vero e proprio capovolgimento del patrimonio ideologico del “vecchio” Pci incentrato sul concetto sostanzialmente anaffettivo della coppia di «rivoluzionari di professione», per farlo germogliare a beneficio delle elettrici in un’icona della famiglia tradizionale quale cellula primaria del comunismo. Un vero e proprio capolavoro nell’arte della propaganda, il suo, nel quale le nuove istanze staliniane di rivalutazione dell’istituto familiare sarebbero arrivate alle orecchie degli italiani nella traduzione gramsciana8.

6 Poco importava se il prezzo da pagare era quello di cavalcare tutti i clichés più sperimentati in tema di costruzione delle identità di genere, riproponendo puntualmente i vecchi stilemi ai quali si dava per scontato che le italiane restassero ancorate “per natura”. Rivolgendosi a loro il Pci promette «la pace, il lavoro e la ricostruzione delle famiglie sconvolte e distrutte, […] [la salvezza] della gioventù e dell’infanzia dalla depravazione, dal deperimento e da nuove guerre» e solo in seconda istanza la parità di diritti9. Così, per rafforzare l’incisività del messaggio, la parola d’ordine imposta dal partito in occasione dell’organizzazione della Settimana della compagna, indetta dopo la convocazione della I Conferenza delle donne comuniste, nel 1945, era stata: «Per la protezione delle famiglie italiane»10.

7 Il segretario aveva ben chiaro che era necessario «avere le donne dalla nostra parte». E per avvicinarsi a loro bisognava parlare la loro lingua. L’orditura dello spartito preelettorale del nuovo partito di massa sarebbe stata tessuta così con gli elementi del tipico frasario cattolico.

8 Alla crociata anticomunista indetta da Pio XII si reagisce in altre parole con i toni manierati e zuccherosi della precettistica parrocchiale, ritorcendo contro “il nemico” schierato sul campo di battaglia, la resa delle armi, quell’arrendevolezza della pietas cristiana che dell’armamentario pedagogico del linguaggio cattolico aveva sempre rappresentato l’arma più forte11.

9 Visto che con la religione non si può competere – e questo l’aveva capito anche Mussolini – l’unica possibilità di vittoria stava nell’accaparrare alla propria parte politica il suo enorme potenziale suggestivo, cercando di rivolgere contro “il partito di Cristo” le sue stesse armi. «La messa è in parte un comizio»: i comunisti non dispongono di strumenti altrettanto sperimentati per far centro nelle menti semplici delle donne italiane, osservava Togliatti, ma non per questo dovevano cedere alla Dc il monopolio di un insuperabile apparato propagandistico12.

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2. «Punisci noi peccatori, ma salva i bambini»

10 Chi potrebbe immaginare, a prima vista, di trovarsi di fronte ad uno slogan dell’Udi?13 In realtà proprio il tema della «Salvezza dell’infanzia» costituisce uno degli assi portanti della “catechesi” comunista. E su questo precetto si impernia la campagna di rassicurazione delle italiane delegata alle compagne, il cui primo compito era quello di sfatare le accuse mosse al Pci e «soprattutto alle comuniste: [di essere] contro la famiglia, la proprietà e la religione»14. «Salvare l’infanzia minacciata dalla malnutrizione, la riapertura delle scuole, la creazione di colonie estive, un’equa distribuzione dei soccorsi UNRRA, l’offerta di pacchi dono ai bambini per le feste di fine anno»: questi si prospettavano come gli obiettivi più urgenti che l’organizzazione femminile del Pci doveva prefiggersi – dichiarava Rita Montagnana15. Ed Egle Gualdi le faceva eco ribadendo come il compito fondamentale delle donne comuniste (che così facendo avrebbero anche «fatto un grande passo avanti per l’emancipazione femminile») fosse quello di risolvere «i principali problemi della vita comunale» laddove al primo posto si nominava «l’assistenza ai bambini e alle gestanti» e in seconda istanza «i problemi alimentari, la luce, l’acqua, il gas»16.

11 Se le parole d’ordine del linguaggio femminile del partito erano quindi famiglia, moralità e soprattutto centralità dell’infanzia, d’altra parte la costruzione degli slogan di propaganda era volta a sottolineare le opere che in realtà furono messe in pratica.

12 La premessa, del resto, del progetto di ricostruzione familiare del dopoguerra era già implicita nella stessa costituzione dell’Udi (che in quanto organizzazione di tutte le donne con il Pci non aveva niente a che fare – si continuava a ripetere dalla Segreteria del Pci) e nella definizione della sfera separata di azione delle compagne, tutta incentrata nel campo dell’assistenza, prospettata da Togliatti appena messo piede a Salerno.

13 Come ricorda Maria Casalini: Il compito assegnato al collateralismo femminile nell’ambito della strategia comunista era quindi tutt’altro che secondario, ma anche particolarmente delicato. Fra le donne, il cui orientamento politico avrebbe rappresentato la vera grande incognita delle elezioni dal 1946 in poi, doveva compiersi un’opera di convinzione, imperniata più su segnali subliminali che sull’indottrinamento ideologico17.

14 La strategia di avvicinamento all’elettorato femminile doveva procedere quindi in maniera “trasversale”, articolandosi attorno ad elementari parole d’ordine che andassero incontro alle loro esigenze quotidiane, in modo che il voto a sinistra fosse l’espressione più immediata dall’aspirazione a migliorare la qualità della vita dell’intera famiglia18.

15 Le esigenze cui si cerca di andare incontro risultano così le più varie, ma al primo posto resta sempre e comunque la necessità di alleviare le sofferenze dei più fragili e indifesi: i bimbi, vittime designate del «rachitismo e di tubercolosi» dilaganti19. Già nel 1944 la prima iniziativa dell’Udi era stata interamente dedicata a loro, in occasione della celebrazione del rito del «Natale della liberazione» a Reggio Calabria, Catania, Cagliari, Ancona, dove insieme ai regali si erano distribuiti i grembiulini confezionati con le bandiere e le camicie nere del Fascio20. Ma era stata soprattutto la celebrazione fiorentina, dove si sarebbe addobbato per i bambini l’«Albero di Natale della Libertà», a restare memorabile. Sarà la prima iniziativa di solidarietà di massa per l’infanzia: una sorta di prova generale della serie di riti collettivi che avrebbero costellato il lungo

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dopoguerra, durante la quale si sperimenta per la prima volta la rappresentazione della “società pacificata del futuro”. Così Dina Ermini ricorda l’iniziativa: Nonostante il clima caotico di quel periodo, il lavoro fu organizzato in modo esemplare: attraverso un censimento strada per strada dei bambini da assistere – ben più numerosi del previsto –, al quale seguì una raccolta capillare di tutto: indumenti, giocattoli, libri, generi alimentari, in modo da far fronte alle più diverse necessità, mentre ovunque si organizzavano tombole, lotterie, feste, concerti, film, si raccoglievano prenotazioni per i bambini nei ristoranti della città, e fu organizzata persino, con il concorso del maestro Vuotto, la rappresentazione di un’opera al teatro Comunale a beneficio del Natale popolare. I risultati superarono ogni previsione: invece di 5000 pacchi […] ne furono distribuiti 15.000 […]. Gli aiuti furono dati valutando le esigenze delle famiglie e la condizione dei bambini, non escludendo – dopo animate discussioni per vincere le immaginabili resistenze – degli orfani dei fascisti o i bimbi di gente scappata al nord nella repubblica di Salò: nessun bambino doveva pagare per colpe non sue o sentirsi abbandonato il giorno di Natale21.

16 Da quel momento in poi le iniziative per i bambini si sarebbero susseguite con regolarità22. Per loro ci sarebbe sempre stato spazio nel calendario degli appuntamenti delle compagne, puntualmente corredate dalla programmazione di recite e gare per i piccoli, con distribuzione di libri e giocattoli23. Per il resto, già a partire dal 1944 e durante tutto dell’anno successivo, colonie estive, scuole, asili, aiuti invernali avrebbero rappresentato l’attività primaria delle compagne, in continuità con la tradizione assistenziale dei Fasci femminili24. Tant’è che il manifesto elettorale del 2 giugno 1946 apparso su «Noi donne» recitava «BIMBI: ciò che l’Udi ha fatto per l’infanzia (Alimentazione, asili, doposcuola, colonie, Natale Udi, [e, dulcis in fundo,] accoglienza in regioni salubri e case ospitali per 25.000 bambini)».

17 Proprio la campagna di ospitalità ai bambini poveri del Sud, offerta dalle famiglie dei compagni meno disagiati del Centro Nord appariva in realtà la punta di diamante, a livello propagandistico, della politica assistenziale del Pci25. Avviata nell’autunno del 1945, l’iniziativa a favore della «salvezza dell’infanzia» avrebbe raggiunto il massimo sviluppo tra il 1946 e il 1947, per poi riprendere dopo il voto del 18 aprile del 1948. Si era trattato di un’impresa imponente che aveva subito visto partire ben quattromila bambini di Cassino e diecimila piccoli napoletani; poi sarebbe stata la volta dei bambini lucani. E può risultare interessante osservarla più da vicino, perché al suo interno si intrecciano stili e contenuti propagandistici diversi, la cui mistura appare il frutto di una accurata orchestrazione, destinata ad incassare una risonanza pubblicitaria straordinaria.

18 La ricetta, in perfetto stile nazional popolare, sul piano simbolico vuol soprattutto offrire una testimonianza delle infinite potenzialità implicite nella sostituzione del concetto di solidarietà a quello della tradizionale «carità delle dame»26. Una solidarietà che nasce dal basso e proprio dal cuore di quelle famiglie che la fede comunista ha reso infinitamente più aperte e generose di quella cattolica, a dispetto delle calunnie degli avversari politici, pronti a spargere la voce che i bambini, una volta caricati sui treni, sarebbero stati tutti deportati in Russia27.

19 Ma gli obiettivi del progetto comunista erano ancora più ambiziosi. L’esibizione del ruolo sociale della famiglia (comunista) risultava infatti strettamente legata al tema dell’unità nazionale. Non a caso, in occasione della campagna organizzata dal Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli, rispolverando echi dal sapore risorgimentale, si era lanciato un «appello ai fratelli delle altre regioni d’Italia»28, mentre le bandiere

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rosse cedevano il passo al tricolore e le note dell’Internazionale a quelle dell’inno di Mameli29.

20 L’effetto propagandistico dell’iniziativa, a cui viene data ampia risonanza sulla stampa e alla radio, avrebbe trovato un primo sbocco rituale nello sfoggio delle onorificenze tributate al treno della solidarietà, nel momento in cui il convoglio carico di bambini attraversa le diverse stazioni. Ricorda Dina Ermini: La cosa più commovente fu l’accoglienza della folla che ci attendeva al passaggio: in ogni stazione intermedia erano organizzati posti di ristoro con latte caldo, biscotti, frutta; nella stazione di arrivo ci accoglievano le autorità, il sindaco con la fascia tricolore, la folla plaudente, mentre la banda locale suonava lungo il treno carico di bambini, addobbato a festa con il tricolore e le bandiere dei comuni. A Reggio Emilia avevano addirittura eretto un palco speciale dentro la stazione con tutte le rappresentanze cittadine mentre fuori sul piazzale si allungava la fila dei pullman imbandierati, con le insegne dei comuni ospitanti30.

21 Al rito del viaggio di andata sarebbe corrisposto poi quello del ritorno, fino alla coreografia finale quando il treno della bontà, che carico di striscioni aveva attraversato mezza Italia, avrebbe restituito i bimbi ai genitori: memorabile quella tributata nel luglio del 1947 ai piccoli napoletani, rifocillati e messi letteralmente all’ingrasso dalle famiglie dei compagni del Nord (quelle stesse famiglie settentrionali di cui si continuano a lamentare in altre sedi le difficilissime condizioni di vita). Per celebrare l’evento, alla festa di Piedigrotta, insieme agli altri sarebbe infatti sfilato il carro allegorico Nord-Sud: un simbolico ponte attraversato da un treno in movimento, la cui rotaie erano uscite «dal laminatoio dell’Ilva come le fettuccine dalla macchina della pasta», che univa il Vesuvio alle Due Torri, Napoli a Bologna e alle altre città che avevano ospitato i bambini. E lungo tutto il percorso della sfilata, da piazza Carlo V, per Forìa, il Museo, Toledo, San Ferdinando, via Caracciolo, fino a Mergellina: Fu un applauso senza interruzione – commenta uno dei membri del Comitato organizzativo – per la grandiosità del carro, la bellezza dei bambini, e delle accompagnatrici, lo splendore dei costumi e anche perché della folla facevano parte centinaia di famiglie dei bambini che erano stati ospiti del comitato31.

22 Niente di più evidente dunque di come il tema della festa, l’allegria del riconoscersi come una comunità coesa, rappresenti un elemento ineliminabile della liturgia comunista. Una liturgia senza dubbio confezionata con sapienza fin nei minimi dettagli, ma pur sempre incapace di far breccia nel muro di diffidenza alimentato dalla propaganda cattolica. I bambini – non si sarebbero stancati di ripetere di lì a poco i Comitati civici – i comunisti potevano anche vezzeggiarli, ma alla fine se li sarebbero mangiati comunque!

3. Il socialismo è gioia

23 Per rendersi conto di quanto la propaganda comunista avesse investito sul “logo” della mitezza basta guardare le immagini sui manifesti elettorali: famiglie felici, con padre madre (apparentemente di ceto medio) e figli (generalmente due) che avanzano ottimisti verso il futuro radioso che li attende; contadine spensierate e sorridenti che recano in mano mazzi di fiori rossi, mamme con bambini in braccio che sventolano bandiere tricolori32.

24 Non c’è dubbio che

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L’immagine femminile di sinistra, in altre parole, è sempre depurata di qualsiasi aggressività e in ciò si differenzia completamente da quella delle madri eroiche dei manifesti democristiani, affollati da raffigurazioni di donne ora armate di pugnali recanti la didascalia «voto cristiano», pronte a difendere i figli dagli attacchi di mostri rosso vestiti, ora impegnate ad uccidere serpenti divorzisti inneggianti il libero amore per salvare i propri bambini dal bolscevismo33.

25 A colpo d’occhio, insomma, il contrasto tra la violenza delle immagini dei manifesti democristiani e la pacatezza comunista non potrebbe essere più palese, a testimonianza di come l’esibizione d’immagini rassicuranti apparisse evidentemente al Pci il miglior antidoto contro i veleni con cui gli avversari tentavano di intossicare il clima politico del dopoguerra34. E sulla stessa lunghezza d’onda, nel palinsesto della orchestrazione degli appuntamenti rituali del movimento operaio, oltre al recupero della tradizione socialista della convivialità35, si inseriva un chiaro richiamo ai modelli ricreativi che gli italiani si erano abituati a condividere prima della guerra36. Il comizio era destinato a rimanere il momento culminante di qualsiasi manifestazione politica, ma per trasformare l’iniziativa in un vero e proprio evento era necessario inserire una nota gioiosa e allo stesso tempo ricca di agganci con gli elementi tradizionali della mentalità collettiva. Di questo Giancarlo Pajetta era fermamente convinto, soprattutto se si intendeva riuscire a coinvolgere nelle manifestazioni del partito anche «le donne, i vecchi, i bambini»37. È soprattutto a loro che si rivolge del resto il richiamo delle Feste dell’Unità, inizialmente concepite come una vera e propria «scampagnata»: la più tipica forma di svago delle famiglie proletarie. La stessa che il dopolavoro fascista aveva del resto ampiamente sperimentato in precedenza38.

26 L’assoluta garanzia del successo era poi affidata all’imitazione delle liturgie tipiche delle feste cattoliche, con i cortei che avrebbero visto sfilare i compagni in processione per rendere grazie alla figura «religiosa» del Segretario, mentre le immagini dei padri storici del comunismo sovietico venivano chiamati a surrogare le icone dei santi39. Il tutto condensato in un happening nel quale anche gli elementi del loisir, i sani piaceri della tavola e del ballo, gli spettacoli, lo sport, e persino il momento emozionante della lotteria (sempre a scopo sociale) sembrano assumere un aspetto rituale, destinato a scandire i tempi delle «sagre gioiose» in occasione delle quali i compagni si propongono di accogliere «gli amici di ogni tendenza politica, e anche gli incerti e gli avversari», che sarebbero senza dubbio stati conquistati dall’«invito sincero e dalla mano tesa» dei comunisti40.

27 E gli stessi irresistibili elementi di richiamo della festa annuale, finalizzati ad avvalorare la percezione collettiva del socialismo come sinonimo di serenità e a potenziare allo stesso tempo sia la visibilità delle capacità organizzative dei compagni che la forza di attrazione delle iniziative del partito, dovevano puntualmente ripresentarsi ogni volta che si trattava di mettere in agenda una iniziativa delle donne. Così la prima assise delle compagne, organizzata dal Pci dal 2 al 5 giugno 1945, come le feste parrocchiali, sarebbe stata animata da pesche di beneficenza con capi di abbigliamento, scarpe, stufette elettriche, libri e quaderni, oltre a polli, uova e possibilmente anche un maiale. A seguire naturalmente giostre, baracconi, tiro a segno, in un’aria pervasa dalle note dei canti partigiani, nella quale solo in ultimo sarebbero risuonate le parole dell’oratore di turno del partito (ancor meglio se in coppia con la compagna): Il comizio – osserva Maria Antonietta Macciocchi – era più rassicurante, meno traumatizzante con la donna e l’uomo comunisti insieme, poiché ricostruiva la

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gerarchia familiare e indirettamente riproponeva una tranquillizzante immagine della coppia. Coppia politica, ma pur sempre coppia. La donna per la strofetta iniziale, l’uomo per la sostanza. Se poi i due erano davvero sposati era l’apoteosi41.

28 L’anno successivo, il II Congresso dell’Udi – anch’esso concepito come una vera e propria «sagra di vita femminile» – sarebbe poi stato corredato, oltre che da cortei di compagne nei diversi costumi regionali, da una «mostra di arti femminili», con l’esposizione di «merletti, paglie, ricami, lavorazione di giocattoli», e animato da proiezioni cinematografiche, recite di belle commedie e gite sui laghi. L’organizzazione di scampagnate fuori porta è peraltro destinata a restare un elemento costitutivo di base dei meeting femminili, talvolta declinato in versione di «pellegrinaggio» verso mete simboliche, come la tomba di Maria Margotti: una delle sante laiche, «martire della lotta di classe», che insieme a Irma Bandiera, Anna Maria Enriquez Agnoletti e le sorelle Arduino, Togliatti reputava utile le italiane aggiungessero agli altarini domestici che amavano tanto custodire 42 .

29 A dimostrazione della natura sostanzialmente conciliatoria della linea politica comunista – ancor più evidente sul fronte della propaganda femminile – il rito della messa era già stato incorporato nel programma del I Congresso nazionale dell’Udi e sarebbe stato puntualmente inserito in quello della celebrazione dell’8 marzo romano, corredato dagli immancabili rituali di omaggio alla memoria dei caduti e alle iniziative di beneficenza, ma anche da cene, tombolate, concerti e spettacoli di vario genere43. Se la ricorrenza della giornata internazionale della donna non era una novità, dal momento che già nel 1921 il Pci aveva indetto per l’occasione una serie di comizi, a rinnovarne la fisionomia sarebbe stata dunque ancora una volta la componente ricreativa: quell’“uso politico del loisir” che Togliatti aveva individuato come uno dei «bisogni primari della masse» cui il fascismo, a suo modo, aveva compreso la necessità di andare incontro44.

30 Anche le compagne, la cui presenza si confermava come un elemento essenziale di tutti i palcoscenici di riconoscimento collettivo del partito, avrebbero avuto così “una festa tutta per loro”, nella cornice incantata di un tripudio di fiori e con tanto di «torta dell’8 marzo»45!

4. Un partito di mogli e mamme

31 «Stelline dell’Unità», cuoche, compagne di ballo, propagandiste indefesse, le donne rivelavano i loro tanti volti – tutti funzionali alla causa – ma restavano comunque sempre soprattutto madri, per i comunisti come per i cattolici. Non a caso, ancor prima di diventare uno degli elementi portanti della propaganda di regime, l’esaltazione della maternità aveva rappresentato un tema tutt’altro che secondario della pedagogia sociale del Pci di Gramsci e Bordiga. «Bisogna che la società riconosca il ruolo della Madre […]. Quando verrà abolito lo sfruttamento […] alla maternità sarà riconosciuto il suo valore vero […] sarà perciò circondata da tutte le cure […], perché sacra e degna di religioso rispetto è la madre», si leggeva ad esempio su «L’Ordine nuovo»46. E persino nella Russia rivoluzionaria, dove la Kollontaj si faceva paladina del libero amore, alla maternità era riconosciuto un ruolo sociale essenziale.

32 È dunque sull’onda lunga della continuità con la tradizione terzinternazionalista della prima ora, oltre che in tacito accordo con le linee guida dalla politica sociale del fascismo e in ottemperanza dei dettami della Casti Connubii, che la figura della madre è

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destinata ad assumere un ruolo chiave nel linguaggio del partito nuovo. A testimoniarlo basterebbe l’elenco dei compiti affidati alle donne sedute sui banchi della Sinistra all’Assemblea Costituente: chiamate a «rappresentare le famiglie italiane e le loro difficoltà di sussistenza», e incaricate di rivendicare i diritti della donna come madre, ancor prima che come lavoratrice e cittadina47. Per questo l’appeal dell’immagine della candidate del Pci in sede di campagna elettorale era stato tutto incentrato sul loro ruolo domestico e soprattutto sulla loro funzione materna48. Così recita, ad esempio la scheda biografica di Marisa Rodano apparsa su «L’Unità» È innamoratissima della vita domestica e qualche volta quasi rimpiange di doversene distaccare diverse ore al giorno per il suo lavoro al Comune e all’Udi: ma poi dice a se stessa che, appunto perché è una mamma, il dovere la chiama laddove c’è da fare qualcosa in favore della altre mamme […]. E allora scaccia la tentazione: depone il lavoro che sta sferruzzando, il golfino nuovo di Paoletta, e va a vedere che cosa si può fare per appoggiare le donne di una borgata che sono in agitazione49.

33 Grassa, con i capelli lunghi e diversi figli, rappresentava proprio la candidata ideale del Pci – avrebbe ammesso la stessa Rodano50; e Nella Marcellino, con altrettanta autoironia, ricorda come fosse stata costretta per anni a raccontare una serie di bugie, per tacitare le continue domande sulla sua vita privata da parte dei compagni, che non sapevano farsi una ragione del perché lei e Arturo Colombi non avessero avuto figli51. Anche nella loro libreria, del resto, come in quella di qualsiasi compagno che si rispettasse, troneggiava una copia de La Madre di Gorkij.

34 Non può quindi di certo destare meraviglia il fatto che la proposta di legge sulla quale il Pci di Togliatti pensava di imperniare la propria popolarità fra le masse, fosse destinata a tutelare la maternità. Se il tono della campagna di propaganda si differenzia del resto dalla retorica demografica del regime per assumere toni più vicini a quella cattolica, ne mantiene tuttavia l’ispirazione di fondo, ampliandone l’applicazione in senso universalistico.

35 Con ragione Maria Casalini sostiene che insieme a quella della madre, nel dopoguerra, sarebbe stata la figura della casalinga ad assumere una inedita centralità nell’universo mentale degli italiani, soprattutto, ma non solo, a seguito della martellante esaltazione dei cattolici della missione domestica della donna. Così, la sostanziale novità che la proposta di legge Noce-Di Vittorio finiva col presentare rispetto alla legislazione del 1934 era quella di estendeva l’area dell’assistenza riservata alle operaie, alle contadine e soprattutto alle casalinghe, inserite a pieno titolo all’interno della categoria delle «lavoratrici» nel testo da sottoporre all’approvazione del Parlamento52.

36 Per il resto, a motivare il rafforzamento della prassi “protettiva” delle madri sarebbe stato accampato ancora una volta il tema della «tutela della stirpe». All’interrogativo: «perché le mamme domandano [una più ampia legislazione di tutela]» la risposta – corroborata da una dettagliata sequenza di dati – prospettata dal «Quaderno dell’attivista» è: «perché i bimbi muoiono soprattutto nel primo anno di età? Perché i bimbi muoiono soprattutto quando le mamme non possono allattarli»53. Per questo, insieme al «premio di natalità» Teresa Noce proponeva di inserire il «premio di allattamento», e sul tema dell’“educazione alla maternità” si portava avanti una vasta campagna d’informazione, mentre stampa, comizi e giornali murali riportavano puntualmente la cronaca dell’iter parlamentare della proposta di legge comunista e ne illustravano i dettagli54.

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37 L’impressione, insomma, è che si importino modelli sperimentati di propaganda per adattarli a contenuti nuovi, facendo tesoro della quota di consenso che avevano garantito al regime. Sono del resto le parole stesse di Togliatti, alla ricerca di strumenti di persuasione capaci di ampliare l’area di influenza al partito, soprattutto fra le contadine al Sud, a testimoniare come le organizzazioni di massa del regime avrebbero rappresentato un esempio da seguire. «Bisogna studiare quello che erano le “Massaie rurali” – avrebbe esplicitamente ammesso nel corso di una riunione della Direzione – e prendere quel tanto di positivo che vi era in tale organismo»55. Né meno esplicito, sul fronte della continuità con la pratica della capitalizzazione del consenso garantito dalle pratiche assistenziali sperimentate dal fascismo, appare l’avvio della campagna per i prestiti matrimoniali.

38 Ideata dal nazismo nel 1933, allo scopo dichiarato di disincentivare l’occupazione femminile, a partire dal 1937 l’iniziativa dell’elargizione del prestito di una somma di denaro alle coppie di giovani sposi era stata importata in Italia dal fascismo, in declinazione pronatalista56. E la stessa iniziativa sarebbe stata riesumata da Laura Diaz, prima firmataria con Giuliana Nenni, Gina Fanoli, Nadia Spano, Luciana Viviani, della proposta di legge presentata in Parlamento nel settembre del 194857.

39 A raccogliere la quota più consistente di consenso popolare sarebbe stata poi la vasta campagna di propaganda dell’iniziativa intrapresa, in nome dell’Associazione ragazze italiane (ARI), da Marisa Musu, con un ampio dispendio di retorica rituale.

40 Così, in parallelo con la «Giornata della famiglia e della Pace», sarebbe stata indetta, l’anno successivo, la «Festa del prestito», seguita dalla «Giornata delle delegazioni » di giovani aspiranti sposine che si sarebbero dovute dirigere verso le Prefetture delle diverse città e reclamare il proprio diritto al matrimonio, per culminare infine nella «Giornata del telegramma», fissata il 24 marzo 1949. In quel giorno il partito chiedeva una vera e propria mobilitazione al femminile; le giovani sposine dovevano a spedire un telegramma all’onorevole Gronchi, allora presidente della Camera, per sollecitare la proposta di legge che veniva incontro alle esigenze primarie dei giovani sposi58. Secondo Casalini l’urgenza del provvedimento, era motivata della legittima protesta nei confronti della «condanna al celibato» perpetrata dal governo De Gasperi nei confronti di tanti giovani proletari desiderosi di farsi una famiglia, veniva giustificata dalle allarmanti statistiche riguardo al numero dei matrimoni e soprattutto al declino delle nascite59.

41 La tattica reputata vincente, in altre parole, appare quella della ritorsione delle accuse: non è il Partito comunista, che ha a cuore il benessere delle giovani coppie, oltre che di tutte le “mamme” italiane e dei loro figli, ma la Democrazia cristiana che distrugge le famiglie italiane, sia impedendo a quelle nuove di nascere che gettando le altre nell’abisso della miseria60. E il compito di metterla in pratica, tanto arduo quanto essenziale per gli equilibri politici del paese, il Pci lo delegava, evidentemente, alle donne.

5. Vola colomba

42 In realtà, l’attività femminile si articola su un doppio binario. Da un lato, come abbiamo visto, c’era la necessità di monitorare da vicino le esigenze più immediate della gente; e per essere sicuri di concentrare i propri sforzi sui punti nevralgici del malessere diffuso

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alla base era necessario seguire la strategia del “porta a porta”. Visto che la premessa della buona riuscita di quella che Luciana Viviani ha definito «la politica del quotidiano» era la percezione esatta delle impellenze concrete, caso per caso, delle famiglie italiane, all’interno delle famiglie stesse era necessario aprirsi un varco61. Se qualsiasi estraneo sarebbe stato accolto quanto meno con diffidenza, una chiacchierata con la vicina di casa, che magari invitava le amiche e le conoscenti per un caffè, poteva rappresentare la soluzione migliore per entrare in contatto con le massaie. Per questo si sarebbe pensato di ricorrere alla formula delle «riunioni di caseggiato» gestiti da una compagna dotata di verve e spigliatezza, addestrata a rivestire il ruolo della «comare». A questa vasta opera di monitoraggio avrebbe poi fatto seguito la creazione di un numero inverosimile di comitati rionali e di organizzazioni di tutti i tipi, regionale e locale , come le «Mamme napoletane», le «Mogli degli emigranti», le «Donne della Montagna», le «Mogli dei carcerati» e le «Mogli dei Minatori». Insistentemente la direzione del Pci sottolineava come le donne dovessero avere «un obiettivo concreto», e tutto ciò che era legato ai bisogni della casa e della famiglia risultava centrale 62. Così buona parte degli sforzi dell’Udi, a fine degli anni Quaranta, si sarebbe concentrata nell’ulteriore incremento del numero del «gruppi specifici». Oltre alle donne capofamiglia, nasceranno così il «Gruppo Casalinghe», le «Donne di Campagna», le «Amiche della Scuola», le «Ragazze d’Italia», il «Gruppo di lettrici e diffonditrici di Noi Donne», le «Amiche dell’ infanzia», ma anche più fantasiosi «Gruppi turistici», o «Circoli della Moda» 63.

43 A complemento di tutte queste iniziative di base, a partire dal 1947 prenderà d’altra parte il via una grande battaglia unitaria, che tutte le donne avrebbero dovuto combattere in formazione compatta, sotto le insegne del pacifismo. Com’era avvenuto in occasione della guerra di Libia, la cultura marxista avrebbe assegnato loro l’etichetta di «combattenti per la pace», e l’impegno in tal senso balza immediatamente al primo posto tra le mansioni affidate dal partito alle compagne, ancor prima sia della campagna in favore della legge sulla maternità che della lotta contro il carovita e l’assistenza invernale64. D’altro canto per l’occasione ad essere chiamata in ballo è dunque anche l’eredità delle tradizioni del movimento operaio, generalmente assai poco sensibile alla causa del proletariato femminile, ma altrettanto solerte nel sollecitarne la discesa in campo quando si era trattato di contrastare la politica espansionistica di Giolitti65.

44 In armonia con le stesse direttive della linea staliniana in tema di organizzazioni di massa – anche se in aperta controtendenza rispetto all’acuirsi delle tensioni sul fronte interno – l’ispirazione del collateralismo femminile si conferma ancora una volta aclassista, unanimistica e solidaristica. Rispetto a trent’anni prima il loro impegno organizzativo appare del resto centuplicato. Mentre in passato il Psi si era limitato ad alimentare la stampa e a fomentare moti spontanei di protesta, le «Amiche della Pace» avrebbero dato vita adesso ad una serie di iniziative della più varia natura, dando dimostrazione di una creatività a dir poco esuberante. In occasione delle date di un apposito Calendario della Pace, avrebbero così instancabilmente promosso pellegrinaggi verso i luoghi della memoria, conferenze e manifestazioni di vario genere66. A Torino, ad esempio, avrebbero collocato 12 cassette giganti nelle quali i bambini erano invitati ad imbucare le loro letterine per la pace al Presidente della Repubblica, mentre a Milano si organizza una grande manifestazione al teatro Oberdan, dove sono sempre

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invitati ad intervenire tanti bimbi, tutti con il loro «raccontino per la pace» in una mano e il palloncino della pace nell’altra67. Ovunque le compagne avrebbero naturalmente indetto migliaia di assemblee ispirate all’esaltazione del dolore delle vedove, delle madri, delle vittime della guerra e organizzato «Giornate della famiglia e della Pace». Ma soprattutto sarebbero state impegnate a montare banchetti in tutte le piazze d’Italia per la raccolta delle firme contro l’atomica e a cucire altrettante migliaia di bandiere per la pace: quelle stesse bandiere che in epoca risorgimentale avevano cucito per la patria. Perché dell’appello ad una sorta di “ennesimo Risorgimento” doveva trattarsi, combattuto contro un paese manovrato dai «banchieri e dai mercanti di bombe atomiche americani», e pronto allo stesso tempo a raccogliere il testimone delle spirito patriottico delle guerre d’Indipendenza, di cui la Resistenza era stata la prima erede68. Così l’immagine di Garibaldi come simbolo del Fronte delle sinistre viene sapientemente abbinato al richiamo dell’esperienza resistenziale nella definizione che sarebbe stata scelta per l’intero movimento: quella di Partigiani della Pace69. Uno dei tanti ossimori che dell’identità del partito nuovo riflettono la natura più profonda.

45 Il fine elettorale emerge con immediatezza dalla campagna elettorale del 1948, significativa infatti la copertina del numero di «Noi donne» del primo marzo 1948: un’immagine femminile con in mano una colomba bianca, una futura icona per le prossime elezioni70. Ma nel movimento dei Partigiani della Pace – battezzato come tale nel 1949 ma ampiamente anticipato negli anni precedenti da una fitta serie di iniziative – erano in ballo finalità più ampie. Tanto che la campagna avrebbe subito una prima forte accelerazione proprio dopo la sconfitta del 18 aprile per trarre in seguito nuovo impulso dall’attentato a Togliatti, fino a raggiungere il climax con la formazione della Nato. Poche iniziative di propaganda, in realtà, appaiono più multiformi e complesse. Nel movimento per la pace si intrecciano infatti temi di politica interna e di politica estera, e si racchiudono obiettivi a breve e a lunga scadenza. Così la tematica antiamericana si salda a quelle dell’indipendenza nazionale e della lotta contro il «governo della guerra civile» forte della violenza della polizia di Scelba71, mentre alla «politica guerrafondaia» made in USA si contrappone l’immagine del paese democratico e antimilitarista per eccellenza, dove dominano serenità, benessere, e un «appassionato amore per la pace nel mondo»72. Poco importa, in fondo, se l’immagine che si fornisce dell’URSS si rivela del tutto illusoria; fatto sta che sono i valori della solidarietà universale che si vogliono affermare nella nuova repubblica73. Per questa via, per quanto il movimento sia ben lungi dal riflettere l’ispirazione super partes che si tende ad attribuirgli a livello propagandistico, gli obiettivi della politica estera sovietica finiscono col subire una vera e propria trasmutazione, assumendo la fisionomia di uno strumento di autentica ispirazione umanitaria. Un vero e proprio esempio dell’eterogenesi dei fini! Ed è qui che il contributo delle donne attribuisce alla campagna un essenziale valore aggiunto. La massiccia mobilitazione femminile, sul piano internazionale, fornisce infatti le migliori garanzie di credibilità ad un’iniziativa che altrimenti rischiava di rivelare troppo scopertamente le proprie finalità strumentali. Chi poteva sospettare in altre parole che le donne del mondo si fossero incontrate a Parigi se non per affermare con slancio e sincerità quella volontà di pace che corrispondeva alla loro più intima natura? Poco importa se la storia aveva dimostrato la totale infondatezza dello stereotipo. La donna avrebbe comunque continuato a incarnare nell’immaginario dell’Occidente il simbolo vivente della guerra alla guerra.

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46 D’altro canto con il sovrappiù dell’esibizione dei più bei nomi dell’intellighenzia «democratica» internazionale, da Amado ad Aragon, da Heinrich Mann a Pablo Neruda, sotto la magica insegna della Paloma di Picasso, Togliatti poteva davvero pensare di avere scelto la strada giusta per allargare la propria sfera di consenso nel paese, facendo appello ai sentimenti più radicati dell’animo popolare, condivisibili anche dall’elettorato cattolico74. Dopo aver presentato tali e tante credenziali, come si poteva continuare a credere all’affidabilità dei manifesti democristiani che continuavano a rappresentare i comunisti nelle vesti del «lupo famelico malcelato sotto le spoglie dell’agnello»75?

NOTE

1. GINSBORG, Paul, Famiglia Novecento, Torino, Einaudi, 2013, pp. 250-253, 258-260; DE GRAZIA, Vittoria, Le donne del regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993; GIROTTO, Elisabetta, «Donne in divisa. Donne, politica e famiglia nei cinegiornali Luce degli anni Trenta», in Officina della Storia, 1/2018, URL: < https://www.officinadellastoria.eu/it/2018/01/04/donne-in-divisa-donne- politica-e-famiglia-nei-cinegiornali-luce-degli-anni-trenta/ > [consultato il 14 febbraio 2018]. 2. URSO, Simona, Dalla comunità naturale allo spazio politico: donne democristiane a Torino 1946-1990, in SILVESTRINI, Maria Teresa, SIMIAND, Caterina, URSO, Simona (a cura di), Donne e politica. La presenza femminile nei partiti politici dell’Italia repubblicana, 1945-1990, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 27-128, pp. 29-30, p. 39 e passim. 3. GIROTTO, Elisabetta, «Politics and Media. The audiovisual representation of family made by the Pci and the Dc during the fifties», in Memoria e Ricerca, XXII, 47, 3/2014, pp. 151-182. 4. Sulla visione togliattiana della famiglia nel dibattito all’Assemblea Costituente cfr., fra gli altri, CAPORELLA, Vittorio, «La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente», in Storicamente, VI, 9, 2010, URL: < https://storicamente.org/ famiglia_costituzione_italiana > [consultato il 14 febbraio 2018]; LUSSANA, Fiamma, «Famiglia e indissolubilità del matrimonio nel dibattito all’Assemblea Costituente», in Studi Storici, LV, 2/2014, pp. 495-519. 5. Messaggio della Democrazia cristiana agli italiani, cit. in RIDOLFI, Maurizio, TRANFAGLIA, Nicola, 1946. La nascita della Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 104. 6. SALVI, C., «Una calamità dopo tante altre. Dibattiti sul divorzio», in Il settimanale della donna, 7, 7-10 febbraio 1946; TITTONI, Maria, «La donna e le elezioni. Voteremo per chi garantirà al popolo italiano pane, lavoro, proprietà per tutti e rispetto per la religione», in Il settimanale della donna, 14, 7 aprile 1946. 7. DAU NOVELLI, Cecilia, Il movimento femminile della Democrazia cristiana dal 1944 al 1946, in MALGERI, Francesco (a cura di), Storia della Democrazia cristiana, vol. III, 1955-1968, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1988, p. 340. 8. Sul Pci cfr. VENTRONE, Angelo, «La liturgia politica comunista dal ’44 al ‘46», in Storia contemporanea, XIV, 4/1992, pp. 779-836; si veda inoltre ID., Forme e strumenti della propaganda di massa nella nascita e nel consolidamento della repubblica, in RIDOLFI, Maurizio (a cura di), Propaganda e comunicazione politica, Milano, Mondadori, 2004, pp. 209-232. Interessanti spunti di riflessione provengono dal recente studio di RIDOLFI, Maurizio, Italia a colori. Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Firenze, Le Monnier, 2015, pp. 30-55, dove si riflette sulle varie fasi che

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caratterizzarono la vita politica italiana del secondo dopoguerra attraverso un approccio politico e socio-culturale. 9. Cfr. Le donne italiane devono votare per i comunisti e per la Repubblica, Istituto Gramsci, Archivio Partito Comunista, fasc. Monarchia e repubblica, cit. in RIDOLFI, Maurizio, TRANFAGLIA, Nicola, 1946, cit., p. 205. 10. PASTI, Daniela, I comunisti e l’amore, Milano, Edizioni de L’Espresso, 1979. 11. Cfr. l’articolo di fondo «Salvare la famiglia italiana», in Noi donne, 20 luglio 1946. 12. TOGLIATTI, Palmiro, «È stato giusto dare il voto alle donne?», discorso pronunciato alla riunione delle attiviste di Roma, Roma, 13 maggio 1953, in ID., L’emancipazione femminile, cit., p. 78. Sul rapporto fra il Pci e la famiglia esemplare il lavoro di BELLASSAI, Sandro, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del Pci 1947-1956, Roma, Carocci, 2000. 13. Cfr. «Pietà per tutti i bimbi», in Noi donne, 19 Settembre 1946, interamente dedicato ai bambini, che «possano crescere sani, abbiano nutrimento, vivano in case sane, abbiano assistenza igienica e non siano esposti ai pericoli della strada». Cfr. inoltre «Per la salvezza dell’infanzia e della gioventù», in Noi donne, 1 agosto 1946; MONTAGNANA, Rita, «Tetto, pane, vestirti, scuole per i nostri bimbi», in Noi donne, 25 ottobre 1946. 14. «Le donne italiane hanno lottato ieri per la Liberazione, esse vogliono oggi contribuire alla ricostruzione del paese», in L’Unità, 3 giugno 1945. Non a caso, ancor più della Democrazia Cristiana, il vero avversario del Pci sarebbe stato la Chiesa. Cfr. MICCOLI, Giovanni, Cattolici e comunisti nel secondo dopoguerra. Memoria storica, ideologia e lotta politica, in MICCOLI, Giovanni, NEPPI MODONA, Guido, POMBENI, Paolo (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 31-88, p. 83. 15. MONTAGNANA, Rita, «Una vittoria della democrazia», in L’Unità, 1 novembre 1945. 16. GUALDI, Egle, «La donna italiana e le elezioni amministrative», in L’Unità, 6 giugno 1945. 17. CASALINI, Maria, Le donne della sinistra, Roma, Carocci, 2005, p. 139. 18. Ibidem. 19. «La mozione conclusiva», in Noi donne, 31 ottobre -15 novembre 1945. 20. LUSSANA, Fiamma, 1944-1945: Togliatti, “la via italiana”, le donne, in BONACCHI, Gabriella, DAU NOVELLI, Cecilia (a cura di), Culture politiche e dimensioni del femminile nell’Italia del ‘900, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 137-167, p. 150. Sul “Natale di liberazione” cfr. «Rapporto di Rita Montagnana al I Congresso nazionale dell’Udi», cit. in MICHETTI, Maria, REPETTO, Margherita, VIVIANI, Luciana, Udi: laboratorio di politica delle donne: idee e materiali per una storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, p. 31. 21. MINELLA, Angiola, SPANO, Nadia, TERRANOVA, Ferdinando (a cura di), Cari bambini vi aspettiamo con gioia… Il movimento di solidarietà popolare per la salvezza dell’infanzia negli anni del dopoguerra, Milano, Teti Editore, 1980, p. 29. 22. Sull’ospitalità dei bambini poveri, che l’Udi organizza fra il 1945-46 e negli anni successivi, stimolanti gli studi di RINALDI, Giovanni, I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie, Roma, Ediesse, 2009; PIVATO, Stefano, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 135-145. 23. Cfr. in proposito LUSSANA, Fiamma, 1944-1945: Togliatti, cit., p. 163. 24. Sui partiti assistenziali, cfr. VENTRONE, Angelo, Forme e strumenti della propaganda di massa nella nascita e nel consolidamento della repubblica (1946-1958), in RIDOLFI, Maurizio (a cura di), Propaganda e comunicazione politica, Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Milano, Mondadori, 2004, pp. 209-232, p. 220. 25. Cfr. MAFAI, Miriam, L’apprendistato della politica. Le donne italiane nel dopoguerra, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 137-141. 26. FIORE, M. e JACOVELLO, A., nel loro opuscolo Aiutiamo i bambini di Napoli, (s. l., 1946, p. 3) tengono a precisare che il cardinal Ascalesi, arcivescovo di Napoli, aveva negato la propria collaborazione all’iniziativa «perché la Curia aveva la propria rete assistenziale». Per i temi di

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“assistenza, non beneficenza” cfr. FLOREANINI, Gisella, «Una donna nel governo dell’Ossola», in Rinascita, 4/1955; sul tema interessanti spunti di riflessione provengono da CASALINI, Maria, op. cit., p. 94 27. Ibidem, p. 65. 28. MACCHIAROLI, Angelo, Un’esperienza popolare del dopoguerra per la salvezza dei bambini di Napoli, Napoli, Arte grafica, 1979. 29. Direttamente dalla Direzione del partito era partita la raccomandazione di sostituire il più possibile il tricolore alle bandiere rosse: in proposito cfr. VENTRONE, Angelo, La cittadinanza repubblicana. Forma partito e identità nazionale alle origini della democrazia italiana (1943-1948), Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 181-183. 30. Testimonianza di ERMINI, Diana, in MINELLA, Angiola, SPANO, Nadia, TERRANOVA, Ferdinando (a cura di), op. cit., p. 47. 31. Sulla scia dell’entusiasmo per i successi ottenuti, in linea con la strategia del radicamento capillare della propaganda nel tessuto urbano dal comitato per gli aiuti ai bambini di Napoli sarebbero poi sorti altri sottocomitati, finanziati, oltre che da lotterie rionali e sottoscrizioni, da una straordinaria mostra di quadri – con tele di Craemer, de Pisis e Mafai – i cui introiti erano destinati alla creazione di «mense gratuite per i figli del popolo». 32. Per una analisi della propaganda per immagini si veda GIROTTO, Elisabetta, Politics and media, cit.; per approfondire l’universo dei colori politici si veda RIDOLFI, Maurizio, Italia a colori, cit. 33. CASALINI, Maria, op. cit., p. 238. 34. Sull’effetto indiretto di immagini pacificatrici, come “richiamo all’ordine” nei confronti di possibili atti di violenza in risposta alle provocazioni cattoliche cfr. CAVAZZA, Stefano, Comunicazione di massa e simbologia politica nelle campagne elettorali del secondo dopoguerra, in BALLINI, Pier Luigi, RIDOLFI Maurizio (a cura di), Storia delle campagne elettorali, Milano, Mondadori, 2002, pp. 193-237, p. 212. 35. GIROTTO, Elisabetta, Politics and Media, cit. 36. Sull’imitazione (sempre taciuta) di modelli organizzativi e formule propagandistiche del regime, cfr. VENTRONE, Angelo, Crisi della società e radicamento dei partiti di massa, in MICCOLI, Giovanni, et al. (a cura di), La grande cesura, cit., pp. 465-477; ID., Simboli e liturgie politiche nella propaganda del dopoguerra, in SALVATI, Mariuccia (a cura di), La fondazione della repubblica. Modelli e immaginario repubblicani in Emilia e Romagna negli anni della Costituente, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 159-183. 37. PAJETTA, Gian Carlo, «Considerazioni sulla propaganda», in Quaderno dell’attivista, 10-11/1948, pp. 16-17. 38. Scampanate, merende, giochi popolari, ciclismo, omaggio ai caduti, messa, poi giochi a premi col tiro alla fune e nel pomeriggio danze: questo il programma di una tipica festa dell’Ond: in proposito cfr. CAVAZZA, Stefano, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 107. 39. TONELLI, Anna, Falce e tortello. Storia politica e sociale delle feste dell’Unità (1945-2011), Roma, Laterza, 2012; sulla rappresentazione comunista si veda GIROTTO, Elisabetta, Politics and media, cit., pp. 165 et seq. 40. PAJETTA, Gian Carlo, Considerazioni sulla propaganda, cit. p.16; sul tema si veda CASALINI, Maria, op. cit., p. 244; Sulla propaganda per immagini del Pci si veda: GIROTTO, Elisabetta, Politics and media, cit. 41. MACCIOCCHI, Maria Antonietta, Duemila anni di felicità. Diario di un’eretica, Milano, Il Saggiatore, 2000, p. 200. 42. «Vorrei si facessero a milioni delle immagini a colori di queste donne per distribuirle alle donne del popolo che le conservassero insieme alle immagini dei santi» – avrebbe affermato Togliatti dopo aver rilevato che gli unici modelli femminile forti che le italiane avevano di fronte a loro erano le sante (Caterina e Chiara). Era perciò opportuno ricreare nuove immagini “sacre”

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di donne eroiche, il cui monopolio non poteva essere lasciato alla Chiesa: cfr. TOGLIATTI, Palmiro, «L’emancipazione della donna: un problema centrale del rinnovamento dello Stato italiano e della società italiana, discorso pronunciato alla I Conferenza femminile del Partito comunista italiano», Roma, 2-5 giugno 1945, in ID., L’emancipazione femminile, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 34; in proposito cfr. LUSSANA, Fiamma, 1944-1945, Togliatti, cit., p. 161. 43. Cfr. GISSI, Alessandra, Otto marzo. La giornata internazionale delle donne in Italia, Roma, Viella, 2010, p. 38; GABRIELLI, Patrizia, La pace e la mimosa. L’Unione donne italiane e la costruzione politica della memoria, (1944-1945), Roma, Donzelli, 2005, p. 61 et seq. 44. CASALINI, Maria, op. cit., p. 245. 45. VERGALLI, Teresa, Storie di una staffetta partigiana, Roma, Editori Riuniti, 2004, p. 265. 46. Cfr. L’Ordine nuovo, 3 marzo 1921. 47. «Il programma dei lavori del I Congresso dell’Udi», in Noi donne, 15 ottobre 1945. 48. CASALINI, Maria, op. cit., pp. 194-195. 49. MESSINA, C., «Le vostre candidate», in L’Unità, 14 marzo 1948. Cit. in CASALINI, Maria, op. cit., p. 195. 50. Cfr. MAFAI, Miriam, op. cit., p. 148. 51. LUNADEI, Simona, MOTTI, Luisa, RIGHI, Maria Luisa (a cura di), È brava ma… Donne nella CGIL 1944 1962, Roma, Ediesse, 1999, p. 190. 52. CASALINI, Maria, op. cit., p. 211. 53. «Perché le mamme domandano», in Quaderno dell’attivista, 10/1947, p. 3; «Campagne in corso», in Quaderno dell’attivista, 9-10/1947; «Campagna nazionale per la tutela della maternità», in Quaderno dell’attivista, 8/1948, p. 16. 54. NOCE, Teresa, «La maternità funzione sociale», in Vie nuove, 22 settembre 1946. «Pur non mirando al numero come fattore di potenza, dobbiamo preoccuparci che il bilancio demografico, divenuto in alcune circoscrizioni negativo, si mantenga tale: sarebbe il suicidio della nazione»: cfr. «La lotta contro la mortalità infantile», in Rinascita, 5-6/1946, pp. 27-32. 55. Verbale della riunione della Direzione del 17 gennaio 1945, intervento di Ercoli, p. 2, in FIG, APC, MF 272, Verbali della Direzione, 1945. Sulle massaie rurali cfr. WILLSON, Perry, «Contadine e politica nel Ventennio. Le Sezione massaie rurali», in Italia contemporanea, 218, 2000, pp. 31-47. 56. SALVANTE, Martina, «I prestiti matrimoniali: una misura pronatalista nella Germania nazista e nell’Italia fascista», in Passato e presente, XXI, 60, 3/2003, pp. 39-58. 57. Cfr. la proposta di legge, corredata peraltro di un preciso conteggio delle spese che una giovane coppia avrebbe dovuto sostenere per mettere su casa (affitto, mobili, piatti, pentole posate, lenzuola, trapunta, tovaglie, federe, asciugamani e così via), in ATTI PARLAMENTARI, Camera dei Deputati, Documenti. Disegni di legge e relazioni. Proposta di legge n. 113, 29 settembre 1948, Prestiti matrimoniali. 58. CESARINI, G., «Che cosa sognano i nostri giovani?», in Noi donne, 17 aprile 1949. 59. CASALINI, Maria, op. cit., p.194. 60. «Le mamme romane voteranno per (Nadia Gallico Spano e Marcella Ferrari Lapiccirella)», in L’Unità, 16 maggio 1946. 61. Cfr. ROSSI DORIA, Anna, Le donne sulla scena politica, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, p. 793 et seq. 62. CASALINI, Maria, op. cit., pp. 140-141. 63. Cfr. «Lo Statuto dell’Udi», in Bollettino d’informazione, ottobre 1949. Vedi anche MICHETTI, Maria, REPETTO, Margherita, VIVIANI, Luciana, op. cit., pp. 322-323. 64. Cfr. Circolare n. 11. Orientamenti per il lavoro femminile, in «Istruzioni e direttive di lavoro della Direzione del Pci a tutte le Federazioni», in supplemento al Quaderno dell’attivista, 9-10 settembre 1947, pp. 21-22.

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65. Cfr. CASALINI, Maria, «I socialisti e le donne. Dalla “mobilitazione pacifista” alla smobilitazione postbellica», in Italia contemporanea, 222, 2001, pp. 5-41, in particolare pp. 9-10. 66. «Appello alle donne italiane approvato al II Congresso nazionale delle Donne d’Italia», in Noi donne, 1 novembre 1947 e in Bollettino d’informazione, novembre 1947. 67. In Bollettino d’informazione, 1 gennaio 1949. 68. «Donne, il Pci è il vostro partito», in Propaganda, 20 gennaio-5 febbraio 1948. 69. In proposito cfr., tra gli altri, PETRANGELI, Giulio, «I Partigiani della pace in Italia 1948-1953», in Italia contemporanea, 217, 1999, pp. 667-692; CERRAI, Sandra, I Partigiani della Pace. Tra utopia e sogno egemonico, Padova, Edizioni Libreria universitaria, 2011. 70. Sul rapporto donne e elezioni si veda CASALINI, Maria, Le donne della sinistra, cit., p. 241. 71. «Una nuova lotta per la pace e la libertà», in Propaganda, 20 agosto 1948. 72. MICHELETTI, Rita, «Di ritorno dall’URSS. Le ragazze raccontano», in Noi Donne, 1 settembre 1946. 73. BALLONE, Adriano, Il militante comunista torinese (1945-1955). Fabbrica, società e politica: una prima ricognizione, in AGOSTI, Aldo (a cura di), I muscoli della storia. Militanti e organizzazioni operaie a Torino 1945-1955, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 121-130. 74. CASALINI, Maria, Le donne della sinistra, cit., p. 247. 75. SASSOON, Donald, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964, Torino, Einaudi, 1980, pp. 99, 112.

RIASSUNTI

Attraverso l’analisi dei linguaggi della propaganda politica si individuano simboli e rituali che caratterizzarono la comunicazione politica del partito nuovo di Togliatti. Centrale è il movimento femminile dell’Udi nella sua azione di assistenza e previdenza all’infanzia e alla famiglia. D’altro canto in un paese che come l’Italia appare caratterizzato dalla mancanza di un sentimento condiviso di appartenenza nazionale, far appello ai valori familiari risultò una formula vincente. Essenziale risulta lo studio del linguaggio simbolico che permette di decodificare i dispositivi attraverso i quali si definisce lo spazio pubblico della politica. Pertanto l’analisi dell’uso pubblico della famiglia da parte del Pci è il focus di questo lavoro volto a individuare immagini, gesti ed emblemi che concorrono ad articolare un universo di simboli che condensano funzioni pragmatiche e significati semantici, progetti razionalisti di utopie egualitarie e manifestazioni rituali.

This study intends to identify symbols and rituals that characterized the political communication of the new party of Togliatti through the analysis of the languages of political propaganda. Particular attention is given to the female Udi movement in its childcare and family care provision. On the other hand, in a country like Italy, characterized by the lack of a shared feeling of national belonging, appealing to family values it is always a winning formula. This main argument is supported by the analysis of the symbolic language that allows decoding the devices through which the public space of the politics is defined. In this respect, this work focuses on the analysis of the public use of the family by the Communist Party in order to identify images, gestures and emblems that contribute to articulate a universe of symbols that condense pragmatic functions and semantic meanings, rationalist projects of egalitarians utopias and ritual manifestations.

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INDICE

Parole chiave : donne, Udi, Pci, famiglia, propaganda Keywords : women, Udi, Pci, family, propaganda

AUTORE

ELISABETTA GIROTTO Elisabetta Girotto è ricercatrice all’IHC dell’Università Nova di Lisbona. I suoi principali campi d’interesse sono la storia della famiglia fra il 1930 e il 1970 e la storia delle generazioni e dei mezzi di comunicazione di massa. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Girotto >

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Architecture des établissements thermaux en Algérie durant le XIXe siècle Reflet ethnocentrique du système colonial

Sami Boufassa

1. Introduction

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1 Situé dans des paysages naturels souvent difficilement accessibles, le patrimoine thermal du XIXe siècle fait partie des rares lieux en Algérie qui sont partagés étroitement entre les deux populations européenne et algérienne. Bien avant l’apparition du code de l’indigénat de 1881, la séparation entre Européens et Algériens est d’usage. Cela ne concerne pas seulement les stations thermales, on la trouve aussi bien à l’échelle territoriale qu’urbaine. Les villages coloniaux sont séparés de ceux des algériens tout comme les quartiers urbains dans les différentes cités qui se juxtaposent mais sans aucun mélange1.

2 Dès 1830, l’arrivée massive d’une population européenne dans le cadre du projet de colonisation et les objectifs stratégiques de pacification face à l’hostilité des populations locales, engendrent l’établissement de deux mondes séparés : celui des Indigènes et celui des Européens. Le thermalisme ne fait pas exception et subit, dès les premières réalisations, cette dichotomie.

3 Il est à noter que la séparation entre communauté est d’usage si on se réfère à l’information rapportée par Omar Carlier2. La séparation des espaces en fonction de la confession des usagers est remarquée durant le voyage du Dr Shaw au début du XVIIIe siècle. Les musulmans ne fréquentent pas les mêmes bassins que les juifs. Ce principe est reproduit à l’échelle du pays par le pouvoir colonial quand il s’est approprié les sources. L’utilisation de ces sources par les Algériens s’est poursuivie et des constructions sont apparues progressivement à côté pour recevoir l’armée française et la population européenne civile par la suite. En 1947, d’après Chérif-Zahar Omar3, La paupérisation des Algériens les empêche d’accéder aux quelques stations modernes et médicalisées. Cette exclusion s’est poursuivie jusqu’à l’indépendance du pays.

4 L’objectif du présent travail est de mettre en évidence, à travers l’expérience du thermalisme en Algérie, l’existence ou non de cette séparation , autrement et d’une manière générale, l’analyse architecturale des stations thermales peut-elle nous renseigner sur l’organisation spatiale et sociale de cette époque ? À coté de cela, la santé publique est mise en évidence à travers la réalisation de tout un réseau de centres thermaux. Un autre volet prescrit par l’hygiénisme généralisé durant tout le XIXe siècle. Le souci d’une meilleure prise en charge des populations est constamment palpable dans la littérature médicale consultée.

5 Cette expérience architecturale du XIXe et XXe siècles représente un corpus important pour l’étude historique. La méthode retenue se base essentiellement sur l’analyse des documents graphiques (plans, façades et images anciennes). Les traces archéologiques existantes ou décrites, ainsi que des écrits littéraires, viennent enrichir l’analyse historique. L’absence de documents sur les architectes concepteurs et sur les statistiques de fréquentation par genre (hommes – femmes) explique en partie l’absence d’une analyse sociologique interprétative. Les très rares plans dont nous disposons manquent énormément de données qui peuvent fournir un réel travail quantitatif et descriptif des bâtiments. La modeste architecture de ces établissements n’attire pas les amateurs photographes. Les rares documents iconographiques ne

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présentent que l’aspect extérieur des établissements. L’ensemble bibliographique émanant des écrits et de dessins réalisés majoritairement par des médecins rend la tache difficile quant il s’agit de voir de prés les matériaux de construction et l’organisation fonctionnelle intérieure.

2. Thermalisme et littérature médicale

6 Occupant toute la partie nord de l’Algérie, le grand Sud n’est pas pris en considération car la domination française ne s’y est faite que tardivement (fin XIXe et début XX e siècles). Le nombre des établissements thermaux n’est pas exhaustif car il n’est pas basé sur une étude de terrain mais à partir de données publiées. Avec la colonisation, toute une littérature apparait afin d’établir un inventaire des sources thermales existantes en Algérie, leurs utilisations et donner un aperçu des installations et des bâtiments en rapport avec leurs fonctions. L’hygiénisme régnant au XIXe siècle favorise l’apparition d’un idéal de bien-être. Cela est remarquable à travers les écrits des médecins militaires qui veulent, par leurs réflexions, améliorer la santé des populations autochtones et européennes. On voit apparaitre, dès 1860, un texte de Charles Roucher4. Cet écrit est une description des sources et leurs qualités mais sans aborder l’aspect architectural même si les sources de Bou-Taleb sont aménagées sommairement par les Algériens (piscine et gourbi5). Dans les années 1870, plusieurs ouvrages sont publiés : le texte d’Émile-Louis Bertherand6 est édité en 1875, le livre contient une description générale des sources suivie souvent d’un aperçu des établissements existants. En 1878, trois autres textes sont publiés. Ils sont orientés sur des stations précises existantes ou à créer, on cite les auteurs : Dr Edward Landowski7, Dr Fernand Dubief8 et Dr Maximin Legrand9. L’importance du tourisme balnéaire et thermal britannique est lisible à travers l’ouvrage du Dr Thomas Lander Brunton10, traduit en français par le Dr Longuet dans la même année (1881). La dernière décennie du XIXe siècle est enrichie par une série de travaux dont les thèmes varient entre trois monographies qui concernent Hammam Meskoutine du Dr Anatole-Romualde Piot11, Hammam Bou-Hadjar de Albert Trombert12 et celui des Hammams Biskra et Hélouan de Dr Henri Weisgerber 13 suivie d’une étude générale sur l’ensemble des sources du Dr Thénoz14.

7 Ce corpus s’accroit dès le début du XXe siècle par l’apparition de trois ouvrages : le premier est rédigé par l’architecte Charles Monfort15, c’est est une ébauche d’un avant- projet pour un établissement destiné au tourisme hivernal. Le deuxième est celui du Dr Hanriot16. Cet ouvrage reste une source majeure car l’aspect architectural est fortement abordé. Quant au troisième écrit, il s’agit du livre de Georges Martin17: un nouvel écrit sur la station de Hammam Righa et son importance au XIXe siècle. Cette liste n’est pas exhaustive et probablement d’autres sources littéraires ne sont pas citées dans l’actuel travail.

8 Ignorée par les historiens, cette expérience algérienne est restée méconnue jusqu’à aujourd’hui. Aucun travail ne vient remédier à ce manque. La plupart des recherches s’oriente vers des époques plus anciennes. Les thermes de l’époque antique et ceux qui succèdent allant du Moyen-âge jusqu’à la domination ottomane, représentent l’axe majeur des recherches actuelles en Algérie et à l’étranger. Les travaux historiques sur l’architecture thermale du XIXe siècle tout comme ceux du XXe siècle sont quasiment inexistants.

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3. Aperçu sur les sources thermales et leur usage dans le temps

9 En 1875, on recense 140 sources sur l’ensemble du territoire algérien18. Plus tard, ce nombre passe à 196, dont 145 sources pour l’Est, 35 pour le Centre et 16 sources pour l’Ouest algérien19. Hanriot donne le nombre de 174 en se basant sur une analyse faite par le service des mines à une date antérieure. Si leur nombre devient plus précis et évolutif, en fonction des différents inventaires, les informations sur leur appropriation par les Algériens et les Européens sont moins exhaustives. Ceci est dû à la diversité des installations : une simple chambre contenant une piscine, un abri avec des branches ou des bassins creusés à même la roche ne peut se comparer avec des stations thermales comme celles de Hammam Righa ou de Hammam Salihin. Bertherand comptabilise 38 sources mais les informations données sur les bâtiments restent aléatoires en raison d’une absence totale de renseignements sur leur utilisation : des ruines antiques (16 sources), des bâtiments et installations sommaires réservés aux Algériens (14 sources) et bien sûr les équipements établis dans quelques stations fréquentées par les Européens (8 sources). De son côté, Thénoz cite 17 stations au total dont 10 avec des équipements mixtes, 6 exclusivement pour les Algériens et une sans information. En 1911, d’après Hanriot, sur 63 sources exploitées, 22 sont fréquentées par les européens, alors que les Algériens exploitent la totalité des sites : exploitation ne signifie pas la présence d’un établissement. Les Algériens ont dans cette liste 21 sources qui sont dépourvues d’établissement. Seuls des aménagements rudimentaires sont mentionnés (bassins creusés à même le sol et couverts parfois par des auvents éphémères et des branchages d’arbres). Il existe des sites sur lesquels des ruines antiques sont exploitées, Hanriot en cite 8.

10 En effet, la pratique du thermalisme remonte au moins à l’antiquité. Des traces de cette époque révèlent la présence d’une tradition thermale algérienne assez lointaine20. Au Moyen-âge, l’arrivée de l’islam ne met pas fin à l’existence de cette pratique sociale, mais il y a eu réinvention21. Les hammams citadins des Médinas algériennes différent de ceux de l’antiquité par leur taille, leur organisation spatiale et leur fonctionnement, ainsi que par leur forte relation avec le tissu urbain. Parallèlement, il y a aussi un thermalisme situé au-delà des centres urbains, qui est fréquenté par les populations citadines et rurales. Comme en attestent les nombreuses témoignages écrits et architecturaux, l’utilisation des thermes a été une coutume très suivie aux époques antiques et médiévales.

4. Etat des structures anciennes et arrivée de l’armée coloniale au XIXe siècle

11 Lié souvent à la cité, le hammam garde néanmoins des traces anciennes à travers le monde rural22. A l’arrivée des Français, l’intérêt porté à l’héritage ancien, romain et byzantin, a été réactivé et a conduit à estimer cette pratique sociale comme séculaire. Le nombre exact des installations ne peut être quantifié. Les estimations depuis le XIXe siècle s’appuient, soit sur les sources historiques comme la Table de Peutinger et l’Itinéraire d’Antonin23, soit à partir des explorations scientifiques du XIXe siècle : durant la première moitié du XIXe siècle, les relevés de Delamare24 sur les traces latines

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en Algérie sont suivis d’une activité archéologique et historique durant toute la période de colonisation. Un travail encyclopédique conséquent est réalisé. Une connaissance plus élaborée fait découvrir ainsi la richesse archéologique thermale. Pourtant, d’après les dessins et les commentaires fournis, ces installations antiques ne semblent plus être au XIXe siècle que de simples ruines. Pareillement près de Hammam Righa, seules quelques traces d’une cité antique et de thermes romains sont signalés25. A l’inverse, ‘Aquae Flavianae’ fait exception : cette station thermale située à 6km de Khenchela est connue aujourd’hui sous le nom de Hammam Salahin. Ses bassins antiques sont toujours opérationnels : « Outre les captages des sources, les bains subsistent, qui comprennent deux vastes piscines, rectangulaire et circulaire, entourées de bassins plus petits et de diverses annexes»26. Ce cas est particulier, voire unique comme l’écrit Gsell27, spécialiste de l’histoire antique algérienne, en attestant que les traces anciennes des installations thermales sont modestes. Les relevés de Delamare mentionnent peu de traces, ses dessins des ruines antiques de Hammam Meskhoutine ne donnent aucun signe d’une réelle exploitation durant la première moitié du XIXe siècle. Des travaux d’aménagement sont probablement effectués plus tard sur différents sites. Hanriot en cite quelques exemples. L’état, signalé modeste, de ces équipements historiques se résume à des bassins défrichés, auxquels des abris rudimentaires sont généralement ajoutés à proximité quand l’utilisation est militaire. On peut citer à titre d’exemple : Hammam Reguema à Annaba, ceux de Nbaïls Nador à Guelma, ceux de Khenchela, Hammam Sokhna à El Eulma, Hammam Sidi El Hadji à El Kantara près de Biskra et quelques autres encore.

12 Dès les premières années de la colonisation, apparait une nouvelle fréquentation des établissements, celle de l’armée coloniale. Des installations hospitalières en dur et parfois éphémères sont bâties à proximité de plusieurs sources. L’objectif est la remise en forme des militaires, victimes des guerres et du climat algérien. Cette pratique du thermalisme militaire existe déjà en France, depuis même l’antiquité. En tant que tel, le premier hôpital thermal, sur le territoire français, est créé en 1702, à Bourbonne. Puis s’ensuivent d’autres établissements : -Amand en 1714, Barèges en 1732 et Digne en 1754.28 Ensuite durant le XIXe siècle, le thermalisme militaire en France va connaitre une expansion réelle en raison des différentes guerres européennes et coloniales. Pour Gersende Piernas, la colonisation de l’Algérie et ses conséquences sont parmi les facteurs du point de départ du thermalisme militaire : Cette pratique se poursuit sous la restauration mais la conquête de l’Algérie est en fait le nouveau point de départ de l’essor du thermalisme militaire. la nécessité de soigner tous les colonisants revenant gravement malades ou atteints de paludisme et tous les blessés des campagnes d’Italie, du Mexique, d’Allemagne, engendre cinq nouvelles fondations : deux hôpitaux militaires – Guagno (1840), Amélie-les-Bains (1847), – et trois hôpitaux mixtes – Bourbon-l’Archambault (1843), Vichy (1847), Plombières (1861)29.

13 En Algérie, plusieurs installations militaires sont crées dont le premier hôpital connu est celui de Hammam Righa, de 1841. Il est construit à l’emplacement des anciennes installations antiques de la ville. D’architecture sobre, il est composé « de trois bâtiments rectangulaires et parallèles, exposés au Levant et reliés entre eux, du côté sud, par un quatrième bâtiment perpendiculaire, réservé aux officiers, l’hôpital s’ouvre au nord, sur une belle cour spacieuse. »30.

14 Ainsi d’autres installations voient le jour durant le XIXe siècle en Algérie : comme celui de Guelma, le Hammam Meskhoutin datant de 1843, qui est remplacé par un autre

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édifice plus spacieux en 189031. A Mascara également, la station Bou Hanifia dispose de son hôpital militaire à partir de 1860 tout comme Athmania, avec le Hammam Grous en 1857, ou encore à 7 kms de Biskra, le Hammam Salihin dont l’architecture est simple : une piscine rectangulaire entourée sur ses quatre côtés d’un bâtiment contenant les chambres32.

Figure 1. Hôpital militaire à Hammam Righa.

Source: HANRIOT, Maurice, op. cit.

Figure 2. Hôpital militaire Hammam Meskhoutine.

Source: HANRIOT, Maurice, op. cit.

5. Etablissements thermaux fin XIXe et début XXe siècles

15 Deux ensembles se dégagent, le premier désigne les stations à usage local, alors que le deuxième est fréquenté, en plus de la clientèle locale, des touristes étrangers.

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16 En ce qui concerne le premier groupe, il existe à travers le territoire algérien plusieurs stations. L’importance des bâtiments et les moyens utilisés sont variables d’un bâtiment à un autre. Toutefois deux typologies se dégagent clairement. La première concerne les stations thermales les plus rudimentaires, alors que la deuxième intègre des bâtiments d’une importance remarquable, que ce soit dans le confort fonctionnel (service proposé aux clients), ou dans l’esthétique élaborée.

17 Concernant la première typologie, la littérature du XIXe siècle mentionne l’existence de plusieurs constructions sans aborder leur date de construction. Faut-il croire que c’est le Génie militaire qui a réalisé ces bâtiments ? Seule une étude archéologique peut fournir les dates de construction. 12 modestes établissements sont destinés aux Algériens33 et l’architecture employée y est minimaliste. Des constructions rudimentaires abritent des piscines. Un café est souvent installé à proximité : c’est le cas de Hammam Berouaghia, celui de Hammam Sidi Trad à El Cala ou Hammam El Bibans à Bouira. Parfois, des tentes remplacent les abris en dur comme au Hammam Ould Khaled à Saïda. Il existe même un établissement souterrain, le Hammam Figuig à Beni Ounif. Le style de l’ensemble est caractérisé par son aspect simple et rudimentaire.

18 Les modestes financements accordés à ces équipements restent l’explication de cette simplicité architecturale. L’inégalité budgétaire entre Algériens et Européens est une règle. Kamel Kateb, en étudiant la fiscalité et la redistribution des budgets durant le XIXe siècle, note la différence à l’avantage des Européens qui bénéficient largement de la répartition des finances34.

Figure 3. Hammam Berrouaghia.

Source: HANRIOT, Maurice, op. cit.

19 La deuxième typologie se caractérise par une architecture élaborée. Des tentes sont souvent installées autour des stations mais cette pratique reste exclusivement

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algérienne, les Européens sont hébergés dans de petits hôtels construits à proximité des stations. A l’intérieur des bâtiments, les fonctions se limitent à des bassins et à des espaces de repos. Si les stations sont isolées, souvent de modestes ‘cafés maures’ y remédient en proposant leurs services. La séparation entre Européens et Algériens est palpable au niveau de l’attribution spatiale : les accès sont séparés et à l’intérieur, la différence est perceptible à travers la distribution inégale : l’espace réservé aux Européens est plus vaste que celui réservé aux Algériens. Pour exemple, le hammam Selama est divisé en deux parties distinctes, offrant chacune une buvette et un hammam. Si les buvettes sont de surface égale, la salle des piscines réservée aux Européens est 1.29 fois plus grande que celle réservée aux Algériens. Ceci est lié au fait que la partie européenne contient en plus de la salle des piscines, une autre salle contigüe abritant deux baignoires et deux douches. Le hammam Zaïd, situé à l’extrême Est à côté de Souk Ahras, montre aussi cette inégalité spatiale. Si on exclut le bâtiment d’hébergement destiné exclusivement aux Européens, la station thermale est divisée séparément en deux parties, et la partie européenne est 1.48 fois plus grande que celle réservée aux Algériens35. Cette différence va à l’encontre des statistiques de fréquentation des deux populations : La statistique générale de l’Algérie, publiée par le Gouvernement général, donne les chiffres suivant pour l’année 1874 : celui d’hammam-Rira n’a reçu officiellement que 109 militaires et 19 civils , les Bains de la Reine, 43 militaires et 5 civils , Hammam Meskoutine, 84 militaires et 1 civil, alors que des milliers d’indigènes y sont venus, et de bien loin36.

20 L’esthétique affichée des bâtiments est variable mais on peut dégager clairement deux esthétiques distinctes37 : la première concerne les bâtiments dont le style n’a aucun rapport avec des référents algériens locaux, c’est-à-dire des constructions d’inspiration principalement européenne, c’est le cas de Hammam Selama et Hammam Aïn Nouissy à Mostaganem, celui de Hammam Meskoutine à Guelma.

21 La deuxième esthétique présente un cachet plus local, du moins une partie comme par exemple : Hammam Mélouan à Blida, les Bains de la Reine à Oran, Hammam Ouled Le Ghalia à Chlef. Dans ces derniers exemples, l’esthétique algérienne se manifeste partiellement et concerne généralement la partie du Hammam destinée aux Autochtones.

22 Néanmoins, il existe quelques exemples où le style local s’exprime avec force. Hanriot donne 5 exemples: Hammam Ksennah à Aïn Bessam, Hammam Reguema et Hammam M’Zara à Annaba, Hammam Aïn El Ouarka dans le sud oranais et Hammam Bou Ghrara à Marnia.

23 «Mauresque» ou parfois «arabe», est la terminologie utilisée pour désigner cette esthétique faisant référence à la tradition algérienne comme Hammam Bou Ghrara à Marnia de style mauresque (d’après l’appellation d’Hanriot). L’ensemble est composé d’un établissement thermal, d’un fondouk (hôtel) et d’un café. Une frise à base d’arcs entrecroisés ceinture chaque équipement. Les fenêtres sont en arc tout comme les portes d’accès parfois surmontées d’arcs outrepassés.

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Figure 4. Hammam Bou Ghrara, établissement.

Source: Hanriot-1911

Figure 5. Hammam Bou Ghrara la source.

Source: Hanriot-1911

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24 A Ksennah à Aïn Bessam comme à Mzara à Annaba, les bâtiments sont conçus avec des frises dentelées, arcs outrepassés, coupole centrale entre deux ailes symétriques. La ressemblance entre les deux bâtiments laisse imaginer un plan type réalisé par le Génie militaire mais cela reste à démontrer. Une autre architecture se concrétise au Hammam Bou Hanifia. Si la partie européenne lui donne l’air d’une ferme provençale du sud de la France, le bâtiment destiné aux Algériens présente un style bien particulier : en pierre apparente. L’ensemble est organisé autour d’une entrée principale qui ressemble plus à une fortification.

Figure 6. Hammam Ksennah.

Source: HANRIOT, Maurice, op. cit.

Figure 7. Hammam Mzara.

Source: HANRIOT, Maurice, op. cit.

25 Concernant les stations qui peuvent recevoir une clientèle étrangère, elles sont deux : Hammam Righa et Hammam Salihin. Les établissements de Hammam Righa à Aïn Defla sont plus grands. La partie européenne contient deux bâtiments de style local. L’hôtel Bellevue est construit en 1877 et le Grand hôtel en 188238. La conception d’inspiration algérienne est foncièrement différente dans ces deux bâtiments. Le premier s’organise

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autour d’une cour centrale à la manière des maisons citadines, alors que le deuxième se présente suivant un axe longitudinal concrétisé par un long couloir répété dans les trois étages. L’esthétique affichée au niveau des façades est beaucoup plus riche au Grand hôtel , en effet, à part le rez-de-chaussée dont les ouvertures sont classiques, les deux autres étages affichent un autre traitement allant des arcs outrepassés surbaissés au 1er étage à des arcs légèrement brisés. L’ensemble est couronné par un acrotère dentelé. Cette variation stylistique en hauteur est équilibrée par un rythme horizontal de rigueur. La transparence souhaitée de la façade arrière donnant sur le parc se concrétise par des baies vitrées en ogive. Les espaces réservés aux Algériens sont séparés en bas du parc et l’établissement est organisé autour d’une cour carrée. Trois côtés sont réservés aux chambres et le quatrième contient quatre piscines. Cette dernière aile est surmontée de coupoles épurées, seul signe d’une référence régionale.

Figure 8. Hammam Righa, établissement européen.

Source: MARTIN, Georges, op. cit.

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Figure 9. Hammam Righa, établissement algérien.

Source: MARTIN, Georges, op. cit.

26 Le Hammam Salihin à Biskra est un autre exemple de cette esthétique voulue et imaginée par les autorités coloniales en cette fin de XIXe siècle. Datant de 1900 et d’inspiration algérienne, la station est réservée exclusivement aux Européens. Les cabines (piscines et douches) donnent sur une cour faisant une séparation avec un établissement de conception plus modeste réservé aux Algériens, ces derniers disposent d’un établissement plus ancien et modeste qui se compose d’une cour et de cinq cabines dont chacune est équipée d’une piscine.

27 L’établissement pour Européens contient six chambres en étage. Sur la façade principale, il dispose d’un salon et une salle à manger. Deux volumes se distinguent : une coupole située à la limite gauche de l’établissement et un volume en saillie à l’étage annonçant l’accès principal. Les ouvertures sont en arcs brisés avec une présence modeste en couplet d’une spécificité bien algérienne : l’arc algérien39.

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Figure 10. Hammam Salihin.

Source: HANRIOT, Maurice, op. cit.

28 Ces deux stations sont les exemples typiques des infrastructures touristiques édifiées au XIXe siècle dont l’activité s’est prolongée au siècle suivant. Les touristes qui viennent d’Europe et qui cherchent la douceur du climat algérien en hiver représentent une part de la clientèle qui fréquente ces deux établissements à la fin du XIXe siècle. L’intérêt du Dr Lander Brunton un médecin britannique, à publier son texte sur le Hammam Righa dans le prestigieux journal londonien ‘The Practitioner’ en 1881, n’est que le reflet de l’attrait important de cet établissement.

29 Hammam Righa est proche de la ville d’Alger (capitale déjà de toute l’Algérie), tandis que Hammam Salihin n’est qu’à 7 kms de Biskra, ville hautement touristique en cette fin du XIXe siècle40. Le développement des moyens de transport, l’apparition du chemin de fer ainsi que la pacification du nord algérien, permettent l’apparition de ces deux stations avec des capacités plus importantes et une architecture plus élaborée que dans le reste des stations remarquées à la même époque. Les fonctions sont plus variées et les volumes plus réfléchis. Les matériaux comme le marbre et la céramique sont employés à l’intérieur des deux stations à la différence de celles réservées aux populations locales.

6. Caractéristiques architecturales de l’architecture thermale

30 Il est évident qu’en dehors de Hammam Righa et de Hammam Salihin, l’ensemble des stations étudiées est d’une simplicité marquante. Leur situation, souvent enclavée dans le paysage rural, les éloigne du raffinement, souvent déployé dans les Hammams

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citadins. Le confort n’est que fonctionnel et non destiné à un tourisme thermal comme on peut le voir à Hammam Righa et à Hammam Salihin. Une absence totale de céramique ou de tout autre matériau noble comme le marbre est visible dans les constructions. La chaux, utilisée dans la majorité des établissements, renforce la sobriété déjà palpable dans les volumes. La plupart des établissements sont à la charge des communes. En dehors des constructions réalisées auparavant par le génie militaire, le pouvoir civil peut, à partir de 1870, louer les sources à des concessionnaires41, ou décider d’édifier un bâtiment près d’une source. Cela explique en partie l’état vétuste des équipements et quand un bâtiment était construit, c’était généralement avec des moyens réduits, ce qui donne des lieux exigus et réduits à des bassins aérés avec très peu d’ouvertures42. La forte fréquentation des Algériens et l’absence des Européens est un autre facteur déterminant de l’investissement minimaliste engagée dans ces équipements. Le contexte historique peut être un facteur qui a influencé la simplicité de cette architecture, en 1875, le Dr Bertherand rapporte la logique de M. l’ingénieur en chef ville: «La meilleure manière de tirer parti des sources thermales ou minérales de l’Algérie, paraît être de construire des établissements qui coûtent peu et de ne pas chercher à imiter les grands établissements d’eaux minérales d’Europe»43. Bertherand poursuit ce raisonnement en écrivant : On ne saurait raisonnablement demander davantage pour le moment : nous ne devons pas oublier que l’Algérie en est encore aux tâtonnements, aux premiers pas de la colonisation et de l’implantation, et qu’avant de songer au luxe, au superflu, il faut ici commencer par s’assurer le nécessaire et l’utile44.

31 L’aspect architectural algérien déployé à travers les multiples établissements s’inscrit dans cette mode de la fin du XIXe siècle, celle d’un Orient fantasmé, imaginaire et romantique45. Comme on peut le voir dans certaines stations balnéaires des côtes françaises, avec leurs façades tirées des contes des mille et une nuits. Dans le reste du corpus, la logique de construction est différente. Destinées à la population locale, elles étaient d’un style architectural différent. Plus modeste, les conceptions proposées conséquentes étaient à l’image d’un projet sociétal binaire voulu durant ce XIXe siècle.

32 Hanriot donne des orientations pour une meilleure conception architecturale destinée aux algériens : Pour les Arabes, le traitement thermal est autant d’ordre religieux que d’ordre médical, ils viendront je crois d’autant plus volontiers aux eaux que l’aspect extérieur du bâtiment, semblable aux Koubbas, leur rappellera ce double caractère46.

33 Le côté sacré prend parfois le dessus sur la terminologie proprement architecturale : en 1875, le bâtiment qui couvre une piscine du Hammam Melouan est appelé le marabout par Bertherand47. Plus tard, en 1894, Thénoz48 lui trouve son nom, il s’agit de Sidi Slimane49. Cette perception ethnologique est-elle l’explication des conceptions thermales ? La stratégie de pacification croit à la vertu de cantonner le peuple autochtone dans ce qui lui est familier. Le style algérien, pareillement à l’exploitation du rôle du Caïd et du marabout, est un moyen référentiel culturel et historique utilisé afin d’éviter toute hostilité. Il n’est pas étonnant d’ailleurs que le hammam tout comme la mosquée ne soient jamais conçus en néo-classique.

34 Le tableau suivant résume l’esthétique affichée dans les différents établissements, qu’ils soient destinés aux Algériens ou aux Européens. Les bâtiments dans un état médiocre ne sont pas référencés. En ce qui concerne le nombre d’équipements réservés aux Européens, 5 sur 13 ont un cachet algérien, et 10 sur 13 pour les Algériens. L’esthétique

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affichée pour chaque catégorie de population est révélatrice d’une réalité du terrain, celle de la conception de deux univers bien distincts : une Algérie perçue comme traditionnaliste, orientée vers ses croyances séculaires, se contentant de peu et de l’autre côté, un monde européen qui s’est construit essentiellement vis-à-vis de l’autre50.

Tableau 1. Aspect architectural des différents établissements.

A : aspect algérien, E : aspect européen

Partie réservée aux Partie réservée aux Établissement Ville ou région algériens européens

Salihin Biskra A

Selama Mostaganem E E

Ksennah Aïn Bessam A A

Reguema Annaba A A

Mélouan Blida A E

Bains de la Oran A E Reine

Ouled El Ghalia Chleff A E

Aïn El Ouarka Sud ouest A A

Righa Aïn Defla A A

Meskhoutine Guelma E E

Aïn Bou-Hadjar A E Timouchent

Bou Hanifia Mascara A E

Sidi Djaballah El Taref A E

Tableau réalisé à partir des données bibliographiques.

7. Conclusion

35 Bien avant le gouverneur Jonnart et sa politique de mise en valeur de la culture ‘indigène’ au début du XXe siècle, cette expérience architecturale montre les prémices de ce qui va être le ‘néo mauresque’ dans les centres urbains en Algérie. L’architecture thermale du XIXe siècle tout comme le style des pavillons algériens à travers les expositions internationales de la même époque fait référence à l’architecture locale51. Le style dit ‘néo mauresque’ n’est pas né sur décision du gouverneur Jonnart. Son

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expansion à travers d’importants projets au début du XXe siècle n’est que le fruit d’un processus entamé déjà au XIXe siècle.

36 La sobriété et la simplicité affichée dans les divers exemples ne sont pas une spécificité car ce fut le cas de la majorité des bâtiments construits à la même époque dans les villes algériennes. Le côté sophistiqué ultérieur n’est apparu sur les façades que pour manifester une certaine aisance du projet colonial. Les formes épurées et revêtues de chaux ont rendu les bâtiments plus conformes à l’architecture algérienne de l’époque et proches de la population majoritairement rurale.

37 Cette expérience des hammams ruraux du XIXe siècle représente une chaine supplémentaire de la longue histoire de l’architecture en Algérie. De par son architecture, elle révèle de nouvelles conceptions dont la source d’inspiration demeure encore inconnue : y avaient-ils des bâtiments anciens qui ont servi de modèles ou d’inspiration ? Ni l’héritage romain et ses multiples thermes, ni celui des hammams citadins des villes anciennes, ne sont pourtant pris comme références. La fonctionnalité seule prime. L’hygiénisme architectural, apparu en Europe au XIXe siècle en réaction à l’insalubrité provoquée par la révolution industrielle, est ici aussi manifeste. Il n’est pas étonnant qu’à l’exception de l’architecte Monfort, tous les écrits qui nous sont parvenus et qui témoignent de l’existence de ces établissements thermaux, viennent de médecins. D’ailleurs, quelques médecins hygiénistes n’hésitent pas à réfléchir à des solutions architecturales pour le bon fonctionnement de l’équipement. C’est le cas du Dr Edward Landowski, du Dr Maximin Legrand et du Dr Chérif-Zahar Omar.

38 Abandonnés, démolis, et remplacés aujourd’hui par des bâtiments plus modernes, ces hammams restent un témoignage de toute une époque.

NOTES

1. Voir les deux livres: KATEB, Kamel, STORA, Benjamin, Européens, “indigènes” et juifs en Algérie (1830-1962): représentations et réalités des populations, Alger, El Maarifa, 2010. pp. 257-278; ISNARD, Hildebert, Géographie de la décolonisation, Paris, PUF, 1971, pp. 85-100. 2. CARLIER, Omar, «Les enjeux sociaux du corps. Le hammam maghrébin (XIX e-XXe siècle), lieu pérenne, menacé ou recréé», in Annales. Histoire, Sciences Sociales, LV, 6/2000, pp. 1303-1333, p. 1324, URL : < http://www.persee.fr/doc/ahess_0395-2649_2000_num_55_6_279917 > [consulté le 22 septembre 2017]. 3. CHERIF-ZAHAR, Omar, Projet d’application de thermalisme social à Hammam-Mélouane, Thèse pour le Doctorat en Médecine, Université d’Alger, Alger, 1947, p. 3. 4. ROUCHER, Charles, Eaux minérales de l’Algérie (province de Constantine). Notice sur les eaux chaudes de Hammam Bou-Sellam près Sétif. Une excursion aux termes de Hammam Bou-Taleb, Alger, Imprimerie de A. Bourget, 1860. 5. Terme utilisé à l’époque coloniale pour désigner l’habitat modeste et insalubre des algériens. 6. BERTHERAND, Émile-Louis, Des Sources thermales et minérales de l’Algérie, au point de vue de l’emplacement des centres de population à créer, Alger, Imprimerie de l’association ouvrière V. Aillaud et C, 1875.

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7. LANDOWSKI, Edward, L’Algérie au point de vue climatothérapique dans les affections consomptives. Création d’une station hivernale en Algérie, Paris, G. Masson éditeur, 1878. 8. DUBIEF, Fernand, Note sur la station thermo-minérale d’Hammam-R’irha, Alger, Imprimerie J. Pchauzet, 1878. 9. LEGRAND, Maximin, En Afrique. Recherche d’une station hivernale sur les côtes d’Algérie, Paris, L. Michaud, 1878. 10. LANDER BRUNTON, Thomas, Hammam-R’Irha station d’hiver pour les goutteux et les rhumatisants, Alger, Impr. de P. Fontana, 1881. 11. PIOT, Anatole-Romuald, Trois saisons à Hammam-Meskoutine, 1890-1891-1892: notes et observations, Paris, Société d’éditions scientifiques, 1893. 12. TROMBERT, Albert, L’administration et la Société des eaux thermales de Hammam-bou- Hadjar, Genève, Imprimerie de la “Tribune de Genève”, 1895. 13. WEISGERBER, Henri, Biskra et Hélouan, deux stations hivernales et thermales de l’Afrique du Nord, Paris, Imprimerie Charles Schlaeber, 1896. 14. THENOZ, Joseph, Contribution à l’étude des eaux minérales et des principales stations thermales de l’Algérie, Montpellier, Imprimerie centrale du Midi, 1894. 15. MONFORT, Charles, Étude sur Alger station hivernale et la création d’un casino, Alger, Imprimerie orientale Fontana et Cie, 1910. 16. HANRIOT, Maurice, Les Eaux minérales de l’Algérie, Paris, Dunod et Pinat éditeurs, 1911. 17. MARTIN, Georges, La Station de Hammam-R’Irha (près Alger), son climat, ses eaux chaudes, ses eaux froides, Alger, Imprimerie algérienne, 1913. 18. BERTHERAND, Émile-Louis, op. cit., pp. 6-34. 19. THENOZ, Joseph, op. cit., pp. 25-60. 20. THÉBERT, Yvon, Thermes romains d’Afrique du Nord et leur contexte méditerranéen, , Publications de l’École française de Rome, 2003 (généré le 14 novembre 2017), URL: < http:// books.openedition.org/efr/2147 > [Consulté le 10 aout 2017]. 21. CARLIER, Omar, op. cit., p. 3. 22. L’absence des hammams dans le monde rural n’empêche pas les ruraux de fréquenter les sources chaudes, voir l’article de CARLIER, Omar, op. cit., p. 18. 23. JOUFFROY, Hélène, Les aquae africaines, in Actes du colloque 28-30 septembre 1990, Tours, Les eaux thermales et les cultes des eaux en Gaule et dans les provinces voisines, Tours – Turin, Centre de recherches A. Piganiol – Antropologia Alpina, 1992, pp. 87-99. 24. GSELL, Stéphane, Exploration scientifique de l’Algérie pendant les années 1840-1845, archéologie, texte explicatif des planches de AD.-H.-AL. Delamare, Paris, Ernest Ledoux Editeur, 1912. 25. BERBRUGGER, Adrien, « Hammam Righa –Aquae Calidae-», in Revue Africaine, 8, 1864, pp. 347-353. 26. JOUFFROY, Hélène, op. cit., p. 91. 27. La citation exacte rapportée par Yvon Thebert est: «S’il y a en Algérie beaucoup de restes de thermes romains, peu nombreux sont ceux qui méritent une description détaillée». Voir THEBERT, Yvon, op. cit., p. 212. 28. GERSENDE, Piernas, Introduction à l’histoire des hôpitaux thermaux militaires en France (XVIIIe et XXe siècles), in BELMAS, Elisabeth, NONNIS-VIGILANTE, Serenella (eds.), La santé des populations civiles et militaires, nouvelles approches et nouvelles sources, XVIIe et XVIIIe siècles, Villeneuve-d’Ascq, Presse Universitaire du Septentrion, 2010, pp. 113-129. 29. GERSENDE, Piernas, op. cit., p. 115. 30. DUBIEF, Fernand, op. cit., p. 12. 31. HANRIOT, Maurice, op. cit., p. 301. 32. WEISGERBER, Henri, op. cit., p. 10. 33. HANRIOT, Maurice, op. cit., pp. 122-392.

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34. Kateb fait référence à Mignot qui écrit en 1887: « alors que 16 millions d’impôts direct pèsent sur les indigènes, nous n’accordons à ceux-ci pour leurs écoles que 79.000 francs. Ces écoles sont fréquentées par 7.000 enfants seulement apprenant notre langue ». Une information, certes qui concerne les établissements scolaires mais qui affirme le fonctionnement déséquilibré du budget du Gouvernement Général de l’époque. Voir KATEB, Kamel, op. cit., p. 82. 35. Les rares plans fournis dans les sources bibliographiques ne permettent pas d’établir une comparaison exhaustive mais la séparation remarquée dans les autres établissements suit la même logique de disproportion que ce soit dans la surface ou dans le confort fourni, cela est remarquable dans l’ensemble des bâtiments étudiés. 36. BERTHERAND, Émile-Louis, op. cit., pp. 32-33. 37. Les sources bibliographiques consultées ne donnent aucune explication sur le choix esthétique. Les deux ensembles sont donc dégagés à partir des images et des descriptions disponibles. 38. MARTIN, Georges, op. cit., pp. 7-9. 39. COTEREAU, Jean, «Dar el Djezaïr», in L’Afrique du Nord illustrée, 544, 1931, pp. 1-23. 40. ZYTNICKI, Colette, De la place forte à la capitale des hiverneurs. L’invention de Biskra en ville touristique (1844-1939), in JELIDI, Charlotte (dir.), Villes maghrébines en situations coloniales, Tunis – Paris, IRMC – Karthala, 2014, pp. 137-154. 41. Comme à Hammam Righa qui a été cédé à un concessionaire du nom d’Arlès Dufour pour une durée de 99 ans; voir LANDER BRUNTON, Thomas, op. cit., p. 9. Hammam Salihin a été construit par la Compagnie de l’Oued Rir; voir HANRIOT, Maurice, op. cit., p. 125. En 1887, Trombert est devenu le concessionnaire des sources de Hammam Bou Hadjar, voir: TROMBERT, Albert, op. cit., p. 3. 42. A. H. Djerab à Chlef , afin de construire une pièce contenant une piscine, il a fallu réduire le budget et ce sont des prisonniers algériens qui ont été chargé de la construction, voir HANRIOT, Maurice, op. cit., p. 217. 43. BERTHERAND, Émile-Louis, op. cit., pp. 25-26. 44. Ibidem. 45. Voir les deux livres qui traitent de l’orientalisme d’une manière générale comme c’est le cas de Said et de l’architecture spécifiquement comme c’est le cas de Toulier : SAID, Edward Wadie, L’Orientalisme. L’Orient créé par l’Occident, Seuil, Paris, 1980; TOULIER, Bernard, L’Orientalisme dans l’architecture des villes d’eaux en France, dans BERTRAND, Nathalie (dir.), L’Orient des architectes, Aix- en-Provence, PUP, 2006, pp. 51-68. 46. HANRIOT, Maurice, op. cit., p. 52. 47. BERTHERAND, Émile-Louis, op. cit., p. 16. 48. THENOZ, Joseph, op. cit., p. 54. 49. D’après la littérature coloniale, ces sources thermales, sont tout autant des lieux de guérison que de méditation. On y trouve des marabouts et des amulettes (arbres). On peut en voir un exemple à H Melouan près d’Alger où le marabout et le puisard ne font qu’un seul bâtiment. 50. Lors de la construction de la station H Bou Hadjar à Aïn Timouchent, le cahier des charges prévoit dans l’article 12, la construction d’une piscine réservée aux algériens. Scandalisé, le concessionnaire supprime cet article, obligeant les algériens à se contenter des anciennes piscines construites par le Génie militaire; voir TROMBERT, Albert, op. cit., pp. 7-8. 51. BOUFASSA, Sami, «Le pavillon de l’Algérie à travers les expositions coloniales, internationales et universelles», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, 19, 3/2014, URL: < http:// diacronie.revues.org/1600 > [consulté le 15 janvier 2016].

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RÉSUMÉS

Durant la deuxième moitié du XIXe siècle, des établissements thermaux voient le jour sur la partie nord du territoire algérien, où vivent alors de façon séparée autochtones et colons. Ces bâtiments, d’une architecture spécifique, étaient destinés autant aux Algériens qu’aux Européens. Souvent d’inspiration traditionnelle locale, leur image comportait aussi des caractéristiques liées à leurs activité et fonction, et traduisait les codes culturels variés de la clientèle duelle d’origine algérienne et européenne. Le présent travail vise à analyser le style architectural de ces établissements et à distinguer les spécificités esthétiques locales utilisées dans ce type de bâtiment, cela en considérant leur fonctionnalité et l’origine des usagers (Européens ou Algériens).

Nel corso della seconda metà del XIX secolo, nella parte settentrionale del territorio algerino – dove autoctoni e coloni vivevano separatamente – vennero creati alcuni stabilimenti termali. Questi edifici, realizzati con un’architettura specifica, erano destinati tanto agli algerini quanto agli europei. Spesso ispirati dalla tradizione locale, il loro aspetto esprimeva anche caratteristiche legate alla loro attività e funzione e traduceva i differenti codici culturali delle due clientele, sia quella di origine algerina, sai quella europea. Questo lavoro intende analizzare lo stile architettonico di questi edifici e mettere in rilievo le specificità estetiche locali impiegate in questo tipo di costruzioni, considerando la loro funzionalità e l’origine degli utenti (europei o algerini).

During the second half of the nineteenth century, spas were born on the northern part of the Algerian territory, where aboriginals and settlers were living separately. These architecturally specific buildings were intended for both Algerians and Europeans. Often of local traditional inspiration, their look also included characteristics related to their activity and function, and reflected the varied cultural codes of the dual clientele of Algerian and European origin. The present work aims to analyze the architectural style of these establishments and to distinguish the local aesthetic specificities used in this type of building, by considering their functionality and the origin of the users (Europeans or Algerians).

INDEX

Mots-clés : Hammam, source thermale, XIXe siècle, tourisme thermal colonial, histoire de l’architecture Parole chiave : Hammam, sorgente termale, XIX secolo, turismo termale coloniale, storia dell’architettura Keywords : Hammam, thermal source, XIXth century, colonial thermal tourism, history of architecture

AUTEUR

SAMI BOUFASSA Sami Boufassa est architecte-enseignant au département d’architecture à l’Université A. Mira de Béjaïa en Algérie. Docteur en philosophie sur la prospective urbaine, il se consacre actuellement à des recherches liées à l’histoire de l’architecture en Algérie du XIXe et XXe siècles. Ses derniers

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travaux portent sur les centres de colonisation en Kabylie orientale, sur les transformations architecturales des églises après l’indépendance ainsi que sur des analyses critiques de divers équipements coloniaux et postcoloniaux. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Boufassa >

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II. Il lungo 1917: seconda parte

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Introduzione La Rivoluzione d’Ottobre: letture di una cesura

Andrea Griffante

La Rivoluzione d’Ottobre: letture di una cesura

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1 Il ruolo di cesura giocato dalla Rivoluzione d’Ottobre nella storia del Novecento è un dato difficilmente confutabile. Gli eventi rivoluzionari che caratterizzarono l’Impero zarista al terzo anno di guerra non rappresentarono solo un punto di svolta per le sorti di questo Stato e del conflitto nel complesso, ma divennero un vero e proprio paradigma politico che avrebbe goduto di un’eco globale di lunghissima durata ed enorme portata. Come modello politico e luogo della memoria, tuttavia, la Rivoluzione d’Ottobre ha rivelato fin da subito la sua natura ad alto potenziale conflittuale. E questo non solo o non tanto per questioni di semplice determinismo politico, ma perché il putsch bolscevico rimanda necessariamente alla sua più prossima precondizione storica, gli avvenimenti rivoluzionari del febbraio 1917. Le valutazioni sulla e le interpretazioni della Rivoluzione bolscevica e della dittatura del proletariato da essa instaurata sono quindi nate e cresciute in uno stretto rapporto dialettico contrastivo con il carattere democratico della Rivoluzione di Febbraio, rapporto sul quale si è andato addipanando il confronto tanto tra i sostenitori dell’utopia sociale, quanto tra i suoi oppositori.

2 In questo numero completiamo la pubblicazione dei contenuti dedicati al Centenario della Rivoluzione bolscevica, pubblicati nei numeri 31 e 32 di Diacronie. Questi articoli intendono concorrere all’analisi della Rivoluzione bolscevica come di un evento paradigmatico, concentrandosi sulle due caratteristiche poco sopra menzionate: la sua globalità e la sua natura conflittuale. Fin dai suoi primi giorni, la Rivoluzione bolscevica divenne un elemento di conflittualità per la variegatissima galassia della sinistra che stava assistendo all’evoluzione della situazione in Russia. Gli eventi del 1917, come fa notare nel suo articolo Giovanna Savant (32, 4/2018), furono oggetto di accesi scambi di opinioni all’interno del Partito Socialista Italiano. Le riflessioni apparse sulla stampa socialista coeva non solo evidenziarono un’ampia gamma di interpretazioni degli eventi, ma confermarono quelle divergenze strategiche e culturali tra le anime del partito che avrebbero portato alla scissione del 1921. In altri casi, il lato conflittuale della Rivoluzione è leggibile all’interno dell’esperienza biografica. È questo il caso degli anarchici Emma Goldman e Alexander Berkman su cui si sofferma Frank Jakob. L’iniziale entusiasmo di Goldman e Berkman per i rivolgimenti del 1917 si trasformò in aperta opposizione al regime politico instauratosi solo dopo il loro arrivo nella Russia rivoluzionaria nel tardo 1919. Jakob illustra come l’esperienza diretta sia divenuta la base di una nuova categorizzazione che scorporò gli ideali della Rivoluzione; il regime politico che essa aveva partorito fu considerato un tradimento dello stesso ideale rivoluzionario. Non è stato tuttavia solo il campo della sinistra a essere diviso dagli eventi di Russia. La Rivoluzione bolscevica divenne anche – se non soprattutto – uno spauracchio: attraverso di esso si cercò di creare le condizioni per ottenere il consenso necessario a “sanare” le società ritenute in potenziale o imminente pericolo. L’analisi di Lili Zách rivela come l’eco dei fatti di Russia si sia fatta sentire anche in un contesto che la storiografia ha a lungo considerato isolato come l’Irlanda interbellica. In particolare, Zách si concentra sull’attenzione prestata nel discorso pubblico irlandese al caso dell’Ungheria, considerato dagli intellettuali dell’Isola come un interessante analogo

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del nascente stato irlandese. L’osservazione della breve esperienza della Repubblica dei soviet d’Ungheria e della tensione tra afflato democratico e spinta rivoluzionaria dei primi anni post-bellici sono considerati da Zách come i due elementi basilari per la crescita del discorso anticomunista irlandese. In Italia, dove i moti rivoluzionari scatenarono con un’ondata di dissenso popolare, le autorità guardarono alla Russia come a un modello da combattere. Nella sua analisi, Graziano Mamone (31, 3/2017) spiega come l’introduzione del reato di disfattismo nel 1917 abbia rappresentato uno strumento di dubbia efficacia, la cui adozione fu stimolata da sospetti rivoluzionari talvolta esagerati. Il contributo di Andrea Donofrio e José Carlos Rueda Laffond (31, 3/2017) analizza come in Italia e in Spagna la celebrazione dell’anniversario della Rivoluzione sia andato incontro a mutamenti nel corso del Novecento modulando i motivi internazionalistici su discorsi in cui le peculiarità dei contesti politici nazionali – e finanche i riferimenti alla peculiarità nazionale – sono sempre evidenti. Il conflitto riguarda in questo caso il concetto di internazionalismo, la cui pratica si rivela condizionata (e, alla fine, vinta) da quello stesso particolarismo verso cui l’internazionalismo comunista fu sempre critico. Nella sua riflessione, Valerio Romitelli (31, 3/2017) si sofferma, per finire, sulla frattura della memoria della Rivoluzione in un contesto post-ideologico come quello del Ventunesimo secolo.

AUTORE

ANDREA GRIFFANTE Andrea Griffante (Schio, 1980) è contrattista presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “Vytautas Magnus” di Kaunas (Lituania). Laureatosi in storia presso l’Università di Trieste nel 2004, ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Istituto Lituano di Storia di Vilnius nel 2011. Si occupa di storia dell’Europa centrale con particolare attenzione alla regione del Baltico sudorientale. È autore di svariati contributi sulla storia della Lituania contemporanea apparsi su riviste scientifiche italiane e internazionali e ha curato il volume collettaneo Confini della modernità. Lituani, non-lituani e stato nazionale nella Lituania del XX secolo (Gorizia, 2010). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Griffante >

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Catholicism and anti-communism The reactions of Irish intellectuals to revolutionary changes in Hungary (1918-1939)

Lili Zách

1. Introduction

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1 In the early twentieth century, Ireland was in the process of becoming an independent small state which was inseparable from defining her relationship with the wider world. The successor states of the Austro-Hungarian Empire, balancing between revolutionary turmoil and democracy, attracted considerable attention from Irish revolutionaries, scholars and journalists following the transformation of political order across Europe. This paper focuses on the evolutionary nature of Irish interest in Hungarian revolutionary activities throughout the interwar years in order to shed light on a lesser known impact of the 1917 Bolshevik Revolution, namely, the wider international impact of East-European events that transcended national borders. After providing insights into the theoretical background of Irish anti-Communism, this paper investigates Irish perceptions of the political transformation of post-war Hungary and highlights the central importance of the “red menace” in Irish political discourse. It then proceeds to discuss how the uncompromisingly anti-Communist stance of the Irish intelligentsia remained visible throughout the interwar years, and traces how the references to Hungarian revolutionary changes transformed in the 1930s, mirroring the Irish political context. The discussion also assesses the significance of Catholic ideas and it is emphasised that Catholicism was not merely the subject of Irish investigations.

2. Theoretical framework: Irish anti-Communism

2 As Emmet O’Connor (2014) has argued, the early days of independence have not been thoroughly researched with regards the extent of anti-Communism in Ireland. O’Connor emphasised the significance of the international climate, adding that scares primarily served the interests of the Catholic Church1. Before O’Connor, it was Enda Delaney’s «Anti-Communism in Mid-Twentieth-Century Ireland» (2011) that focused on the history of “red-scares”, concentrating on the campaigns of 1940s-1950s Catholic organisations2. As far as interwar Ireland was concerned, although comments, actions and policies were not associated exclusively with the , admittedly, anti- Communism had an overwhelmingly religious character. Nevertheless, whether it was primarily a religious issue, a political issue, or a social issue, depended on the circumstances as it was associated with a variety of events, groups and parties.

3 Notably, there was a tendency among Irish authors not to differentiate between Socialism, Communism or Bolshevism and Labour. According to cultural historian Bryan Fanning, this may be explained by the fact that in independent Ireland «debates about socialism often remained abstract or theoretical» without touching on the Irish

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conditions3. However, more progressive members of the clergy such as Jesuit scholar and Catholic social thinker Father Lambert McKenna, for instance, deserve attention for distinguishing between extreme and moderate socialists as opposed to the majority of the clergy4. Furthermore, Fathers Finlay, Coffey, and MacCaffrey also stood out because of the impact of their European experience5. Since the policies of the Catholic Church in Ireland, including their stance on socialism and Communism, reflected international trends, Irish anti-Communism should be investigated within a wider the international context6. According to Joseph A. MacMahon (1981), in the early twentieth century, socialism was not perceived as a threat since Irish society was «too conservative and traditional for such change»7. Treating the problem of social inequality and labour issues appeared to be a concern only for the Irish left and initially they had initially no rival in the Catholic Church since the clergy rather focused their efforts in the field of charity8.

4 In independent Ireland, Catholicism came to symbolise more than the everyday religion of the majority of the population; it was a crucial element in the formulation of Irish self-identity. The idea that «Irishness became almost synonymous with catholicity [sic]» also manifested itself in Irish perceptions of revolutionary changes elsewhere in the wider world, including in the successors of Austria-Hungary9. Therefore, Irish commentators considered it to be important to highlight the fate of Catholics, the changes in church-state relations and most importantly, the impact of the Catholic faith on the national spirit of the successor states of Austria-Hungary. Catholicism in Central Europe was not merely the subject of Irish investigations; it was a lens through which Irish authors analysed the controversial questions of ethnicity and nationhood. Within the Irish discourse on nationalism and Catholicism, these were consistently compared with other small states in Central Europe, sharing the same struggles for independence and self-determination. Thus, the role of the Catholic Church in the formulation of «national character and identity» was unquestionable in independent Ireland10.

5 Within the Irish discourse on nationalism, Catholicism, and anti-Communism, questions of nationhood and the threats it faced were consistently compared with other small states in East-Central Europe, sharing the same struggles for independence and self-determination. The articles in the «Irish Independent», the «Irish Press», the «Cork Examiner», and the «Irish Times» did not greatly differ in their choices of topics about the successor states; the only contrast in the daily reports they received from Reuter or the Press Association was mostly the chosen headline for the articles. Given the ethos of the «Freeman’s Journal» and «Irish Independent» (the latter, especially given its founder William Martin Murphy’s attitude during the 1913 Lockout, the 1916 Easter Rising and the Irish War of independence, conservative nationalist Catholic interests were in the forefront of their reports, attacking workers organisations and republican interests alike11. On the other hand, the «Irish Times» (after 1934 under Robert M. Smyllie’s editorship) was characterised by an unequivocally anti-Fascist stance. Consequently, it was the target of anti-communist propaganda, especially during the Spanish Civil War as a result of reporter Lionel Fleming’s “infuriating”, anti- Franco coverage12.

6 Similarly to the «Irish Independent», journals like «Studies» or the «Irish Monthly» presented Catholicism as the champion against both extreme right- and left-wing threats. Other periodicals associated with Catholic populism, such as the «Catholic

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Bulletin» or the «Irish Rosary» were even more extreme; their fears of the conspiracy of Communists, freemasons and Jews became a recurring theme in the 1930s and remained uncritical of their praise for fascism, especially Italian leader Benito Mussolini13. The «Irish Rosary», produced by Irish Dominicans focused on popular Catholic issues and claimed that the destruction of religion was the main aim of communists14. Even though the journal devoted significant attention to the communist threat throughout the 1930s, Hungary did not feature often and only came up in connection with cultural and religious-historical topics without actual political significance15. The “luridly anti-Protestant and anti-Semitic” «Catholic Bulletin», on the other hand, consistently addressed issues related to extreme political changes in Central Europe. Even though this outspoken monthly covered a great variety of topics including literature, history, religion, and social questions, and it declared that it was not primarily concerned with politics, it consistently published editorials and articles on communists, freemasons and Jews, especially in the 1930s16.

7 The Jesuit «Studies: an Irish Quarterly Review», in particular, illustrates accurately the role intellectual politics played in post-Independence and these scholars contributed to the shaping of modern Ireland17. Even though these were clearly directed towards a Catholic readership, their scope was remarkably wide, and their contributors represented a considerable part of the Irish intelligentsia in the interwar era. Without investigating them, it is not possible to gauge the impact of East-Central European events and ideas on Irish intellectual life. Due to the overt Catholic profile of such journals, contributors naturally included and well-known Catholic academics. Most of the articles mentioning the successor states of Austria-Hungary were written by Irish authors, but contributions from foreign authors were also included. We can still consider those important in constructing a unique image of East-Central Europe as seen by Irish intellectuals, as their articles were selected by Irish editors and presented to an Irish audience.

8 Most importantly, «Studies» was involved in discussing a wide range of issues that were inseparable from «nation-building projects in post-independence Ireland»18. Under the editorship of Timothy Corcoran (1912-1914) and then Patrick Connolly (1914-1950), the journal sought to educate readers on issues of the wider world as well. As for its authors, «Studies» «attracted contributors from the pinnacle of Irish Catholic academia», many of whom had connections with the Continent; therefore, they were well-informed regarding matters abroad19. Examining their analysis of revolutionary events in East-Central Europe reveals how complex the Irish perception of other small states was in the first half of the twentieth century.

3. Irish politics and revolutionary changes in Hungary, 1918-1919

9 In the immediate post-war period that was characterised by political changes, independence and the right to self-determination became common points of reference both in East-Central Europe and Ireland. In the light of Sinn Féin’s election campaign for the General Election of December 1918, Irish awareness of the political changes of the wider world and the transformation of Habsburg Europe could not be questioned. Following the meeting of the First Dáil Éireann in January 1919, the leaders of the Irish Republic were in a difficult position since the great powers at Versailles refused to hear

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out Irish claims. Nevertheless, the Irish political leadership had an overall outward- looking attitude, illustrated by the early attempts at making contacts with other states, great and small. The leaders of the Irish Republic recognised the necessity of gaining external recognition of Irish sovereignty which «remained the goal by which true independence would be measured»20. The President of the Executive Council, Éamon de Valera, was reported to seeking help, among others, from Soviet Russia as well, despite the British intelligence campaign to depict Sinn Fein as «bolshevist»21. Therefore, with the outbreak of the Irish War of Independence and the opening of the Fist Dáil Éireann in January 1919, the relationship between Ireland and Britain further deteriorated. When the Anglo-Irish Treaty was signed in December 1921, this marked the birth of the Irish Free State22. Afterwards, a spilt occurred in the Irish republican movement, which also had a far-reaching impact on the Irish left and how they were perceived in Ireland throughout the interwar years23. Republican leader Frank Ryan, later «compared the Church’s stance on the Spanish Civil War with its support for the Treatyites during the Irish Civil War»24. It is noteworthy that certain left-wing personalities such as Peadar O’Donnell «played a central role in forging links between Republicans and the revolutionary left (both in Ireland and internationally)»25. Labour and the Communist Party of Ireland took different stands with regards the Anglo-Irish Treaty that created the Irish Free State; Labour was «de facto backing» it, while the Communist Party openly rejected the Treaty. Therefore, the two left-wing parties became more divided upon political republican issues and not on social questions26.

10 While Sinn Féin politicians put their efforts into gaining recognition for the independent Irish state after 1919, Irish nationalist intellectuals expressed a keen interest in the transformation of political order on the continent from a different angle. Regarding Central Europe, for instance, the main points of concern were the following: the revolutionary turmoil in the newly independent successor states of the Dual Monarchy; the controversial nature of the border settlements and territorial changes; and the impact of Catholicism on Irish perceptions. Importantly, it was the combination of these issues that characterised Catholic Irish nationalist opinion of Central Europe. While inseparable from the border question, the present paper focuses on the perceived communist threat in Hungary in order to illustrate the impact of Catholicism on Irish perceptions.

11 The last few months of 1918 saw the complete transformation of the multi-cultural Habsburg Central Europe, from a Dual Monarchy into a number of independent small states. Stephen Howe has argued that the struggle for Irish independence was comparable to Czechoslovakia and Hungary «attaining independence from alien rule»27. Furthermore, he has claimed that comparing «experiences of conflict, secession and redrawing of boundaries across Europe and beyond» was worth investigating28. From the end of October 1918, the Irish press provided much coverage of how the Austrian empire was broken up. The Irish dailies were aware of the fact that the now powerless Austrian Government could not stand in the way of Polish, Hungarian, Czechoslovak and Yugoslav independence29. By 2 November 1918, the «Irish Independent» announced: «the disintegration of the Austrian Empire [might] be said to be complete» 30. Granting the independence of northern and southern Slavic people was a touchy subject for Irish nationalists, as their pleas for the same goal were rejected by the great powers late 1918/early 1919. The political turmoil in independent Hungary in the aftermath of the Russian Bolshevik Revolution was in the centre of Irish attention at

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the time. Reports, diplomatic accounts and journal articles focused on the revolutionary changes that were associated with events unfolding in the successor states of Austria-Hungary. When it came to socialist and Communist agitation in independent Hungary, in addition to the daily reports of the Irish press, the reflections of confessional Irish journals such as «Studies», the «Irish Monthly», the «Irish Ecclesiastical Record» and the «Catholic Bulletin», provided detailed analyses of political happenings in East-Central Europe.

12 Irish responses to the political transformation of Hungary reveal the complexity of political, ethnic and religious changes in the successor states. Overall, both the democratic Aster Revolution 28-31 October 1918 and the Communist takeover on 21 March 1919 gained the most publicity in Ireland. The reason given for this, in moderate and radical Catholic organs equally, was the increased threat of Communism, in the aftermath of the series of Russian revolutions in 1917. Even though Irish interest in this transformation was not limited to discussing the perceived threat of left-wing revolutionaries, still, Social Democrats and Communists were at the centre of Irish reports. Comparisons between how the Allies betrayed Ireland and Hungary regarding their promises for granting self-determination for all small nations, for instance, was a common point of reference. The aforementioned Lambert McKenna was one of the best-informed about the literature of revolutionary changes in Hungary31. He was a frequent contributor to «Studies» and the «Irish Monthly» (the latter he edited from 1922 until 1931) and an expert on left-wing developments and revolutions in Russia, Hungary, Bavaria and Mexico. When hoping for a fair post-war settlement, he was openly critical of Hungarians’ trust for the Allies: They fancied that, if they organised themselves as a thoroughly democratic state on a basis of universal secret suffrage and gave a due measure of autonomy to the Slav races within their borders, the Entente would believe that they had been dragged into the war by Austria and Germany; they expected that in accordance with Wilson’s Fourteen Points their realm would be saved from mutilation32.

13 In his article entitled «The Bolshevik Revolution in Hungary», published in «Studies», McKenna provided further insights into a Catholic Irish interpretation of left-wing movements in East-Central Europe33. It was visible from McKenna’s remark that after October 1918, independent democratic Hungary’s perception of itself differed greatly from that of the Entente’s. Hungarian revolutionaries led by Mihály Károlyi considered themselves as a formerly oppressed, newly liberated nation, while the internationally accepted image of Hungary was that of the oppressor of non-Magyar nationalities due to the influence of British historian Robert William Seton-Watson34. The new Hungarian administration’s official manifesto, «To the peoples of the world», declared that the pacific and victorious Aster revolution in Hungary broke «the yoke by which it has been oppressed for centuries» and had transformed into a democratic and completely independent State35. The new democratic Hungarian Government ultimately hoped that the territorial integrity of Hungary would be guaranteed by the great powers and later the League of Nations. This remained a central claim of Hungary throughout the interwar years36.

14 Károlyi was a controversial character: progressive in terms of his ideas on land reform and democratic principles, however, at the same time, was also labelled the “Red Count”, interpreting his intentions as downright communist attempts37. In spite of this, the Social Democratic government under his rule between October 1918 and March 1919 was not associated with Bolsheviks until 21 March 1919 when the Social

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Democrats announced on 21 March 1919 that they would unite with the Hungarian Communist Party, forming the United Workers’ Party of Hungary (Magyarországi Szocialista Párt) and to form a new government known as the Revolutionary Governing Council.38 Contemporary Irish commentators did not seem to have paid close attention to the complexity of left-wing politics in Hungary; Károlyi’s government in the end was considered to be a prelude to Béla Kun’s reign of terror.

15 When the Bolsheviks overtook Károlyi’s Hungarian Democratic Republic in March 1919, Irish newspapers and journals had been closely following the events in Budapest and formulated several theories as to why and how Communism managed to gain ground in the country. The rise of Bolshevism in Russia and in Hungary puzzled contemporary scholars across Europe, including McKenna. He noted that the population of Hungary was very conservative and religious in character, stressing that the agitation of the Social-Democrats caused less stir in the country than the nationality question39. McKenna was among the few Irish commentators who made a distinction between the Social Democrats and the Bolsheviks. One of his contemporary Hungarian sources deserves attention in its own right; conservative right-wing Hungarian feminist Cécile Tormay’s An outlaw’s diary (1923), which provided a first-hand account of the Aster Revolution and the Bolshevik takeover in Hungary. Tormay, an acclaimed, Nobel-prize nominated author under Admiral Horthy’s regime after 1920, was known for her liberal activism for women’s rights, and has been an extremely controversial figure since the Second World War due to her openly anti-Semitic and Fascist views. Noticeably, McKenna was more fascinated by the subject of the diary rather than its writer. Possibly her Conservative and Catholic morals did not seem out of place for the Jesuit reviewer; or, McKenna’s information on Tormay may have been limited to these volumes. Ultimately, it was Tormay’s analysis of the “Hundred Days” of red terror that attracted McKenna’s attention since it turned out to be «of the most terrible episodes in history»40. McKenna was most impressed by An Outlaw’s Diary, stressing that it was the «most enthralling form of history, a moving-picture which, without any philosophic explanations or discussions, tells its story and its lesson»41.

16 Irish newspaper editorials and journal articles often compared Kun’s regime to the 1917 Bolshevik Revolution in Russia42. McKenna claimed that «the drama of Budapest Bolshevism, though acted on a smaller stage, [was] darker than that of the Russian revolution»43. Naturally, Catholic Irish commentators focused on the Bolshevik regime’s anti-religious measures. According to the «Irish Independent», by May 1919 Béla Kun had begun a bitter persecution of the Religious Orders; 800 Red Guards are quartered in the Convent of the Sacred Heart. All prayers and religious institutions have been stopped in the schools and the Sisters of Mercy have been expelled from the hospitals. No priests or ministers of any denomination are pencilled to enter hospitals44.

17 In the early 1920s, Irish partition coincided with the birth of new states in East-Central Europe as a result of the Versailles Peace Treaties after 1918. Although the Paris Peace Treaties were theoretically based on the principles of democracy and national self- determination, the transformation of the political system across Europe did not proceed without complications45. After 1918, Irish commentators focused heavily on these newly drawn borders in East-Central Europe, including the redistribution of nationalities, which was considered to be a significant factor in the formulation of identities in the newly independent “nation-states”. The Communist threat and the

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antagonism between nationalities appeared inseparable; in other words, the newly independent and formerly oppressed neighbours of Hungary feared the spread of Bolshevism as well as the restoration of previous Hungarian control over their territories.

18 In Hungary, the insistence of Béla Kun’s Bolshevik Government on defending the borders of the historical Hungarian nation was very uncharacteristic of a Communist regime that was normally associated with internationalism. According to a Reuters telegram from Budapest, the Bolshevik Government declared that they were «determined to resist to the last drop of their blood all attempts by the Czecho-Slovak bourgeois and Rumanian clauses and annexationists to overthrow the Hungarian Workers’ Revolution»46. Months before the Bolshevik takeover in March 1919, a military threat had already been visibly posed by the Czechoslovaks and Romanians. Therefore, explaining their attack with Communist headway in Hungary was not valid. Undoubtedly, both the neighbouring small states and the Entente viewed Kun’s regime with suspicion; in the summer of 1919, all Irish dailies recognised that there was only a faint possibility for fair peace terms.

19 By August 1919, the fall of the Kun administration and the general confusion that followed the pressure of the White Army and the advancement of Romanian troops, often featured in reports from Hungary. McKenna also produced a confused account of the Romanian advance on Budapest in August 1919. He emphasised – without naming his source, which made the validity of his claim look questionable – that Romanians were «welcomed by the populace of the capital with the wildest enthusiasm», despite his remark that, admittedly, «every Magyar, even the simplest peasant, had always conceived his country as an indivisible whole [...]»47. Accounts of this kind of enthusiasm were contradicted by, among others, an anonymous author in the outspoken «Catholic Bulletin», who compared the actions of Romanians in Hungary to those of the communists, denouncing them for the aggression and deportations48.

20 While the Irish press and Catholic intelligentsia tended to emphasise the significance of the “red threat”, the question of borders, was inseparable from these issues, as illustrated above. National boundaries turned out to be extremely controversial, especially after signing the treaties of St Germain and Trianon49. Among Irish intellectuals, again, Lambert McKenna presented the most in-depth opinion of the Treaty of Trianon (although only using the generic term “Peace of Versailles”).

21 On the whole, the Trianon Peace Treaty, signed on 4 June 1920, went almost unnoticed in Irish journals. This reflects the difference in priorities in the transformed Hungarian state and in Ireland, the latter of which was in the middle of the Irish War of Independence at the time. The Irish papers reported that the Hungarian delegation, led by Count Albert Apponyi, turned down the terms handed to them on 15 January 192050. On 10 May, the «Irish Independent» published that the Hungarian Government refused to sign the Treaty. However, when another Hungarian delegation (led by Ágost Bernárd and Alfréd Drasche-Lázár) did eventually sign the final document of the Treaty on 4 June 1920, this was not covered in the Irish daily press51.

22 That being said, in the months running up to the Treaty of Trianon, a couple of reports about Hungarian insistence on restoring the historical borders of Hungary were indeed reported in Irish papers. The Hungarian Minister of War (former Prime Minister) István Friedrich, for instance, was reported to have declared, «I will not yield a single square kilometre of Hungary’s former territory»52. This mind-set remained present in the

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whole spectrum of Hungarian politics in the interwar period and was frequently referenced by Irish politicians, academics and journalists, within the context of the League of Nations and the Irish border question53.

23 In comparison with the “red menace”, the white terror in Hungary aimed to serve justice on the former Bolshevik leaders. Moreover, as Robert Gerwarth pointed out, the white terror also «revealed much of the later chauvinist and racist mood» in Hungary, which was revived in the 1930s with the introduction of anti-Jewish measures54.

24 Contemporary Irish sources differed in their interpretation of the news about the white terror, which received considerably less coverage than the communists. The «Freeman’s Journal» argued, based on the information of Austrian socialists, that «nearly all persons of any importance to the Socialist movement in Hungary are being either murdered or imprisoned by “White” Terrorists»55. However, in comparison with reports on the red scare, these articles were in a significant minority, as noted above. One of the few parallels between Hungary and Ireland in this regard was noticed by «Irish Times» journalist (editor after 1934) Robert M. Smyllie. He highlighted the threat the white terror on the Continent, adding that there was «a white terror nearer home. There is a white terror in Ireland, and I am amazed to find from statistics the enormous number of outrages which have been committed against the Irish people during the past few years», referring to the atrocities during the War of Independence56. In contrast, although McKenna closely investigated the revolutionary years in Hungary, he did not go into details of the white terror, nor did he provide in-depth comparison with the red terror in post-independence Hungary. He was convinced that «the undeniable and indefensible severity» of the white terror was, «of course, wildly exaggerated in the International Jewish press» and claimed that Communists were still occupying prominent positions in Budapest57.

25 Despite historian J. J. Lee’s claim that in interwar Ireland there was no Jewish question, the writings of the Catholic Irish intelligentsia demonstrate that the controversial status of the Jewry on the Continent had featured in political and cultural discussions in Ireland well before anti-Semitism in National Socialist Germany became embedded in the political discourse of the interwar period58. And even though anti-communism was more vital to right-wing politics in Ireland than anti-Semitism, as Terence Brown suggested, the latter still «formed part of a broader xenophobia characteristic of an extreme Irish Ireland mentality»59.

26 As far as anti-Semitism in Central Europe was concerned, historian István Deák emphasised that «the ultimate victims of the dissolution of the Habsburg Monarchy have undoubtedly been the Jews»60. The position of Jews in the successor states of Austria-Hungary was debated more in Irish newspapers and journals after 1918 than during the days of the Dual Monarchy. Among Irish contemporaries, Lambert McKenna provided the most accurate explanation for the changed perception of Jews in the territory of the former Habsburg Central Europe. He highlighted that the situation of Jews in Hungary before 1848 was more favourable than in the surrounding countries. By 1914, McKenna argued, the Hungarian middle class was mostly Jewish61. The increasing Irish interest may be explained with the association of Jews with the emerging “red menace”. Many leaders of the Hungarian Bolsheviks were Jews: for instance, Irish papers also referred to Béla Kun as «Cohen» and «Kuhn»62. The latter was mentioned in the Freeman’s Journal on 26 May 1920, quoting Bilder aus dem

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kommunistischen Ungarn (1920) [Pictures from Communist Hungary] by Dr Hans Eisele, newspaper editor and first-hand witness of Bolshevik rule63.

27 In his aforementioned analysis in «Studies», Lambert McKenna emphasised that after the revolution, Hungarians blamed the Jews for the rise of socialism in the country; nevertheless, the author, in a balanced tone, stressed that actually it was the Jews who «suffered proportionately more than any other race from Béla Kun’s wild experiment» 64. Jesuit writer James MacCaffrey also provided a connection between religion and Communism, attempting to suggest a possible way to stop the spread of extreme left- wing movements. In his forward-looking article, he claimed that the real remedy to ‘cure’ Bolshevism was to unite church and state65. He was convinced that social anarchy was a possible threat to religion, the state and social order66. Moreover, McKenna noted that in Hungary, despite the stabilisation of political power, anti-Jewish feelings deepened. This was also illustrated by, for instance, the establishment of the aggressive nationalist anti-Semitic group called “League of Awakening Hungarians”. The association was banned by the Bethlen Government in 1923; nonetheless, it remained a significant ideological force throughout the interwar years. The «Freeman’s Journal» compared the group to the Fascisti of Italy, hoping to peacefully overthrow the Horthy Government and re-establish Habsburg rule in Hungary67.

28 McKenna found the Jewish problem «acuter than ever» as the proportion of Jews became greater in independent Hungary than in the empire68. He proved aware of the fact that the government introduced the “Numerus Clausus” in September 1920, which, without mentioning Jews per se, sought to ensure that the proportion of Jews in universities, schools, banks, factories, and all state offices did not exceed their proportion in the total population69. McKenna concluded that Hungary owed much to the Jews; «indeed she could hardly do without them. They should, therefore, be given full credit for their services and encouraged to continue them»70. This, he predicted, should be successful due to the Christian and national aspect of the government’s official policy. Furthermore, the change in the successor states’ ethnic composition also resulted in the more visible presence of the Jewry, especially in Hungary. The peculiarity of the situation lay in the fact that the “disappearance” of ethnicities left the Jews as the only significant minority, which had not been particularly visible prior to 1918. But following the lost war, the red terror (often associated with Jewish leadership) and the lost territories, the presence of Jews «as a foreign body [...] provoked irritation»71.

4. Long-term impact: Irish anti-Communism and anti- Semitism in the 1930s

29 During the interwar years, despite the declared commitment of both the Cumann na nGaedheal (1923-1932) and Fianna Fáil (1932-1948) governments to Irish independence and democratic principles, the news of the clashes between Communist, Nazi and Fascist ideologies reached the Irish Free State as well. Overall, the majority of Irish nationalists adopted an uncompromisingly anti-Communist stance rooted in the strong Catholic traditions of the state. Catholic Irish academics used examples from Hungary, among others, in order to support their own agenda and remind their readership of the significance of Catholic values and of the dangers of a possible left-wing conspiracy, especially following the “red scare” after 1931. Nonetheless, as Terence Brown (1985)

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noted, the political crisis in the early 1930s should be considered as the legacy of the Irish Civil War, in addition to being part of the broader international context; the struggle between democracy and fascism, or the one between Catholic faith and “godless” communism, depending on the background and agenda of the commentator72. The contributors of confessional Irish journals who commented on international affairs overwhelmingly sided with whoever they perceived to respect Catholic principles, leading to, as Fearghal McGarry (1999) stressed, a considerably high «degree of anti-democratic sentiment among the Irish clergy» in general73. The pro- Treaty, conservative nationalist William T. Cosgrave’s Cumann na nGaedheal Government expressed similar sentiments; however, coming up to the 1932 elections, their main fear was not necessarily «a “communist IRA”, much less the actual Communists, but defat at the polls by Fianna Fáil»74. The “red scare” culminated late 1931 after Irish bishops issued a pastoral denouncing communist activities, shortly followed by the government passing the Public Safety Act, banning Saor Éire (1931), the small radical socialist organisation seen as a “violent IRA” with links with Moscow, together with seven other left-wing organisations75. Saor Éire was accused of setting out to «impose upon the Catholic soil of Ireland the same materialistic regime, with its fanatical hatred of »76.

30 In response to Cumann na nGaedheal’s tactics, de Valera’s Fianna Fáil (1926) successfully emphasised that the party was built on democratic and Catholic social principles, prioritising good relations with the Vatican throughout the decade.

31 As it may be visible from the attitude of Cumann na nGaedheal and the clergy towards the “communist IRA”, the connection between Bolshevism and the Irish Republican movement caused concern for Irish anti-communists. For instance, as Emmet O’Connor (2014) argued, ever since the Great War, «the Bolsheviks were popular too in the republican movement, for their opposition to the world war and support for national self-determination»77. This principle remained so throughout the interwar years – the line between Republicanism and Socialism, Bolshevism, and Communism, therefore, became blurred in relation to organisations like Saor Éire (1931) and the Republican Congress (1934)78. Both organisations were dismissed by Archbishop of Dublin, Edward J. Byrne; he labelled the latter as an anti-Catholic movement directed against «the foundations of all religion and Christian society»79.

32 In his biography of Eoin O’Duffy, the leader of the proto-fascist Blueshirts, Fearghal McGarry stressed that the outlook of the above-mentioned thinkers was «typical of many right-wing Catholic intellectuals in inter-war Europe»80. The majority of the Blueshirts, however, claimed historian J. J. Lee (1989), were « simply traditional conservatives» and did not concern themselves much with the ideology and rather saw the conflict with republicans/communists as a religious war81. Their short-lived publication, «The Blueshirt», focused on advocating corporatism and did not pay much attention to the left-wing revolutionary turmoil in post-war Hungary82.

33 As for the impact of extreme political changes on the Irish perceptions of interwar Hungary, news was still presented through a Catholic lens, although from multiple sources. From the 1930s it was not only the Ireland-based intelligentsia that expressed interest in the growing communist menace or the advance right-wing ideologies in Central Europe, but so did Irish diplomats based in Geneva, Rome, Berlin or Paris. Furthermore, the strong wave of anti-communism in Ireland, referred to above, also had a major impact on how the “red scare” was presented in relation to the other

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states. Hungary, was still described as the guardian of Christianity more than a decade after Béla Kun’s communist takeover of Budapest, although the nature of articles was different than in the immediate post-war years.

34 Irish commentators did not find the role of religion as a marker of Hungarian identity as articulated as, for instance, in relation to Austria. Nevertheless, the political associations of Protestants and Catholics in Hungary did attract the attention of Irish intellectuals. And even though, Jörg K. Hoensch (1996) argued, Catholicism «was no longer the established religion, the Catholic Church and the clergy […] stood solidly behind the policies of the Horthy regime and had no reservations about supporting its revisionist policies»83. Within the Hungarian context, the term “Christian” would be the most accurate to describe the conservative ruling class. The latter placed a large emphasis on “Christianity”, as it expressed their stance against “godless Bolsheviks” and “atheist Jews” in the post-war revolutionary turmoil, with the purpose of fitting into a wider, Christian European context. Nevertheless, Hungarian Catholicism became less politicised in the 1930s, while the social and public aspects of Catholicism became more prominent, due to the effect of Pius XI’s encyclical Quadragesimo Anno, which was not only the most popular point reference among Irish academics, politicians, and journalists but also «the catalyst for a strong upsurge in Irish Social Catholicism»84. On all accounts, the Irish clergy echoed the Pope, claiming that «no one can be at the same time a sincere Catholic and a true socialist»85. Similarly, the idea of the corporate state gained considerable popularity among the Catholic intelligentsia, for instance, by prominent Irish academics such as James Hogan and Tierney. In addition to being devoted to vocationalism, Hogan «viewed the spread of communism as a serious threat to western constitutional democracies»86. In his Could Ireland become communist? The Facts of the Case (1935) he once again claimed that communism and Catholicism were irreconcilable but he focused on the Irish left instead of looking for lessons beyond Ireland to illustrate his case87.

35 In terms of interwar political ideologies, Reverend Edward J. Coyne, editor of «Studies» and regular contributor to the «Irish Monthly» was known as another expert on corporatism and the corporative organization of society, both in general terms and in the Central European (especially Austrian) context88. First and foremost, in his writings as he was concerned with «offering Catholic alternatives to both socialism and capitalism», as he was a well-known supporter of Catholic vocationalism and corporatism89. Coyne was convinced that Austrian Socialism was «nothing more or less than Russian Bolshevism with the more blood-stained incidents left out»90. Altogether, in his contributions to «Studies», Coyne unequivocally identified social democrats with Austro-marxists; actually, he made no differentiations when it came to left-wing politics in Central Europe. He interpreted the political contest between Christian Socials (led by Ignaz Seipel) and Social Democrats as «a contest between two different civilisations, just as much as was the struggle against the Turk»91. In the Hungarian context, the reporter of the «Irish Independent», “C.J.C.”, identified Ottokár Prohászka, Hungarian Bishop of Székesfehérvár, as filling the same role as Seipel when he stated that had it not for the Communist Béla Kun «and his wrecking of the Parliamentary system, [Prohászka] would have been to Hungary what Monsignor Seipel was to Austria»92. The article, published in 1937, ten years after the death of the Bishop, made no references to the controversy that surrounded Prohászka for his anti-Semitism, showing no Irish concern for (or maybe even awareness of) this matter.

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36 While the 1920s were marked by political consolidation and economic recovery under István Bethlen’s Unity Party (Egységes Párt, 1922-1932), greatly facilitated by Hungary’s admittance to the League in 1922, Irish attention in the interwar years still focused on Hungarian extreme political groups. The legacy of the 1918-1919 revolutionary movements remained visible; the short-lived rule of Bolshevik Béla Kun was a frequent target of Irish anti-Communist authors who aimed to illustrate the long-lasting dangers of the “red threat”. Therefore, reports on post-war communism were brought up more and more often in the 1930s. This anti-Communist propaganda was significantly reinforced especially, as noted above, after the outbreak of the Spanish Civil War in 1936.

37 Apart from actual Communism, Irish anti-Communists targeted all shades of left-wing activities and groups including Social Democrats, Bolsheviks, Labour, Freemasons, the Jewry (especially during the Spanish Civil War), and Social Republicans, which was more to do with the political Nationalism rather than class-conscious Socialism93.

38 Essentially, the «Irish Independent», which was the most avid supporter of General Franco due to his perceived connection with the Catholic Church, used any argument they could to support their case; this included publishing stories like Lia [Cornelia] Clarke’s «When Red Terror Gripped Hungary. Bela Kun’s Five Months’ Dictatorship. A Tale of Tyranny, Disruption and Eventual Collapse»94. Clarke had visited Hungary before the war, and emphasised the survival of feudal socio-economic practices there. And although she called Mihály Károlyi «weak and vain», she added that at least he was «still a Hungarian», unlike Kun, that «Galician Jew»95. Károlyi was mostly blamed for the armistice and the Trianon Treaty as well, as a result of which Hungary was treated by the great powers as «the hunted stag»96. Clarke concluded with the remark «he is now in Spain», even though the rumour surrounding Kun’s presence in Spain during the Civil War turned out to be unfounded97.

39 Undoubtedly, one of the most significant aspects of Irish anti-Communism was that the left threat was generally and persistently associated with the Jewish people. The vociferous «Catholic Bulletin», for instance, published a series of articles in 1931, targeting “Jewish Communist leaders and Freemasonry” across Europe, including Hungary98. Furthermore, when referring to the establishment of «a Socialist Government» in Budapest after the Great War, conservative right-wing Jesuit lecturer Edward Cahill emphasised that destruction was carried out under Béla Kun and other «Jewish Revolutionary leaders»99. Cahill was a Jesuit lecturer, contributor to the «Irish Ecclesiastical Record», the «Irish Monthly», and the «Irish Messenger». Co-founder of An Ríogacht (“League of the Kingship of Christ”) in 1926. Keogh and O’Driscoll have stressed the fact that the «extremism and radical confessionism» of Cahill was not approved by his religious superiors. Nevertheless, he worked closely with Éamon de Valera on the 1937 Constitution100. Cahill was convinced that Socialists had less chance of success in Italy and Spain due to the strength of «the new Fascist and Catholic reactions», which he deemed more favourable in terms of government101. In view of the fact that Cahill was «heavily influenced by right-wing Catholic ideas prevalent in France after the First World War» and that he «devoted himself to the exposure of alleged Jewish-Freemason-Communist conspiracies in Ireland», his reaction fits into the wider context of visibly growing anti-Communist feeling in certain Catholic Irish circles at the time. Jesuit bibliographer Stephen J. Brown also alluded to the fact that Jews played a prominent part in the Bolshevist revolutions of Russia and Hungary102.

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40 The Irish press rarely criticised Hungarian Conservatives openly in relation to the Jewish question; on the contrary. Among others, the «Irish Independent»’s Gertrude Gaffney (who was the paper’s correspondent not only during the Spanish Civil War but also during the Eucharistic Congress of 1938 in Budapest, Hungary) pointed to the strong anti-Semitic feeling in Hungary that had existed strongly before the war. However, the controversial and strongly anti-Zionist correspondent also claimed that at the same time, the Hungarians were «too good-hearted and easy-going a people to emulate Germany’s fanaticism and cruelty»103. On the other hand, the «Catholic Bulletin» spoke rather openly but protectively of Nationalist and Anti-Semitic Secret Societies in Hungary. According to the outspoken journal, these secret societies had suffered unfair treatment in the «Irish Independent»’s article of 5 September 1930, which ignored Bolshevik secret societies and only singled out a right-wing conservative group associated with Gyula Gömbös104. The Hungarian politician had been associated with anti-Semitic tendencies since the early 1920s. Nevertheless, Mária Ormos (2006) pointed out that it is hard to pinpoint Gömbös’ actual stance on anti-Semitism and examine changes in his opinion during his four years in power. It is a fact, though, that between 1932 and 1936 he did not negotiate anti-Semitic propaganda nor did he bring anti-Jewish legislations. Occasionally, in Irish news reports portrayed him in a positive light; for instance, when he removed the Budapest City Council for having shown «a strong anti-Jewish attitude»105. Undeniably, Gömbös’ term as Prime Minister of Hungary (1932-1936) as the head of the Party of National Unity (Nemzeti Egység Pártja) marked the radicalisation of the Hungarian Government both in terms of internal and foreign policy. He aimed to transform Hungary into a fascist, corporate state and focused on the cooperation within the «framework of an “axis of fascist states”» in order to restore the historical unity of St Stephen’s Crown106. Therefore, Irish commentators associated the strength of the Hungarian right, and its links with fascist Italy and in the mid-1930s with the “nationality question”.

41 Consequently, the position of Jews and anti-Semitism in Hungary were rarely viewed outside the context of anti-Communism (readers’ letters were particularly concerned with the alleged part Jews played in left-wing movements)107. Historian Tibor Frank has emphasised that anti-Communism in inter-war Hungary enjoyed priority; this, together with the obsession with revising the Treaty of Trianon, were major factors in Hungary becoming a German satellite and joining the war on the German side later in 1941108. Therefore, interwar Hungarian priorities lay with anti-Communism, providing common ground for Catholic Irish commentators in confessional journals.

42 Characteristically, the indisputable anti-Communist stance of the Catholic Church and Catholic Irish authors was reflected in their references to the “red menace”, present in East-Central Europe well after the revolutionary turmoil of 1918-1919. Curiously, the historical struggle against the Turk symbolised resistance against the Communist threat, as we have seen, in the case of Austria as well as Hungary. In Irish accounts, both small states served as the keeper of the «gate of western civilisation» against the Turks in the seventeenth century and again in the face of bolshevism in the twentieth century109. Similarly, Mary M. Macken, Professor of German at University College Dublin, labelled the story of post-war Hungary «an epic in which heroic figures emerge – it is the drama of the guardians of the European gate»110. Therefore, it was these authors’ Catholic and anti-communist stance that determined their conclusions about

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interwar Hungary. These priorities had a major impact on how Hungarian revolutionary changes were perceived by influential Catholic intellectuals.

5. Conclusion

43 The main aim of this paper was to illustrate that in the first two decades of independence, Ireland had not been as isolated as has been previously argued by highlighting the outward-looking attitude of Irish intellectuals and the significance of the international context when examining Irish anti-Communism. This paper explored Irish reactions to the independence of small states in East-Central Europe, and Hungary in particular, balancing between revolutionary turmoil and democracy. The discussion assessed the significance of Catholic ideas in independent Ireland and it is emphasised that Catholicism was not merely the subject of Irish investigations.

44 Certainly, the images presented by Catholic Irish intellectuals such as Lambert McKenna reflected their own political agendas and were therefore often deliberately idealistic. Nonetheless, investigating Irish anti-Communism in a wider, European context offered insights not only into Irish perceptions of revolutionary East-Central Europe but also on the lesser known long-term consequences of the Bolshevik Revolution. Therefore, this paper concludes that approaching Irish anti-Communism from a transnational perspective may facilitate further interpretations of the spread of ideas across international borders, and more specifically, of the far-reaching impact revolutionary and counter-revolutionary events in East-Central Europe after 1917. Looking beyond Ireland for lessons after independence, therefore, became an inseparable part of Irish political rhetoric.

NOTES

1. O’CONNOR, Emmet, «Anti-Communism in Twentieth-Century Ireland», in Twentieth Century Communism, 6, 1/2014, pp. 59-81, pp. 59-60. 2. DELANEY, Enda, «Anti-Communism in Mid-Twentieth-Century Ireland», in English Historical Review, CXXVI, 521, 4/2011, pp. 878-903. 3. FANNING, Bryan, The Quest for Modern Ireland: The Battle of Ideas 1912-1986, Dublin, Irish Academic Press, 2008, p. 76. 4. MORLEY, Vincent, «McKenna, Lambert (Mac Cionnaith, Laimhbheartach)», in Dictionary of Irish Biography (henceforth: DIB), URL: < http://dib.cambridge.org/viewReadPage.do?articleId=a5725 > [accessed on 10 December 2014]; MACMAHON, Joseph A., «The Catholic Clergy and the Social Question in Ireland, 1891-1916», in Studies: An Irish Quarterly Review, LXX, 280, 4/1981, pp. 263-288, p. 275. 5. MACMAHON, Joseph A., op. cit., p. 282. 6. O’CONNOR, Emmet, «Anti-Communism in Twentieth-Century Ireland», cit., p. 60. 7. MACMAHON, Joseph A., op. cit., p. 284. 8. Ibidem, pp. 264, 277. 9. Ibidem, p. 279.

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10. KEOGH, Dermot, «The Role of the Catholic Church in the Republic of Ireland 1922-1995», in FORUM FOR PEACE AND RECONCILIATION, Building Trust in Ireland, Belfast, Blackstaff, 1996, pp. 105, 118. 11. KEOGH, Dermot, «Clash of Titans: James Larkin and William Martin Murphy», in NEVIN, Donal (ed.), James Larkin: Lion of the Fold, Dublin, Gill and Macmillan, pp. 47-55, p. 55. 12. COONEY, John, John Charles McQuaid: ruler of Catholic Ireland, Dublin, The O’Brien Press, 1999, p. 91. 13. KEOGH, Dermot, «The Role of the Catholic Church in the Republic of Ireland 1922-1995», cit., p. 119; PHELAN, Mark, Irish Responses to Fascist Italy, 1919-1932, PhD Thesis, National University of Ireland, Galway, 2012, p. 76. 14. TREACY, Matt, The Communist Party of Ireland 1921-2011, Vol 1, 1921-1969, Dublin, Brocaire Books, 2012, p. 52. 15. WILLIAMSON, Robert T., «St. Stephen, King of Hungary», in the Irish Rosary, XXXV, 9, 1931, pp. 709-712; CLEARY, Michael P., «Our Lady of Gyor», in Irish Rosary, XXXVII, 3, 1933, pp. 195-197; ANONYM, «Petoefi, National Poet of Hungary» in Irish Rosary, XLII, 5-6, 1938, pp. 459-464; «A Dominicaness in Headington», «The Lost of the Arpads’» in the Irish Rosary, XLIII, 11, 1939, pp. 865-866. 16. MURPHY, Brian, The Catholic Bulletin and Republican Ireland with Special Reference to J. J. O’Kelly (‘Sceilg’), Belfast, Athol Books, 2005, p. 167. 17. FANNING, Bryan, The Quest for Modern Ireland: The Battle of Ideas 1912-1986, Dublin, Irish Academic Press, 2008, p. 1. 18. Ibidem, p. 68. 19. Ibidem, p. 217. 20. WALSH, Maurice, The News from Ireland: Foreign Correspondents and the Irish Revolution, London, I.B. Tauris, 2008, pp. 107-108. 21. O’CONNOR, Emmet, «Reds and the Green: Problems of the History and Historiography of Communism in Ireland», in Science & Society, LXI, 1, 1997, pp. 113-118, p. 116; O’CONNOR, Emmet, «Communists, Russia, and the IRA, 1920-1923», in The Historical Journal, XLVI, 1, 2003, pp. 115-131, p. 116; TREACY, Matt, op. cit., vol. 1, p. 7. 22. The Irish Free State, separate from Northern Ireland (established by the Government of Ireland Act, 1920), became a dominion within the British Empire, with legislative independence. The Treaty only provided a partial achievement and a full Republic was only declared decades later, gaining full formal sovereignty for twenty-six counties in 1949. See HOWE, Stephen, Ireland and Empire: Colonial Legacies in Irish History and Culture, Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 41; LYNCH, Robert, Revolutionary Ireland, 1912-25, London, Bloomsbury Academic, 2015, p. 1. 23. Donal Ó Drisceoil has argued that for instance, in Peadar O’Donnell’s politics, during the years 1918-1921, «the energies and hopes of Irish republicanism and international communism co- existed». See Ó DRISCEOIL, Donal, Peadar O’Donnell, Cork, Cork University Press, 2001, p. 2. 24. MCGARRY, Fearghal, Irish Politics and the Spanish Civil War, Cork, Cork University Press, 1999, p. 94. 25. O’CONNOR, Emmet, A Labour History of Ireland, 1824-1960, Dublin, Gill and Macmillan, 1992, p. 127; MCGARRY, Fearghal, «O’Donnell, Peadar», in DIB, URL: < http://dib.cambridge.org/ viewReadPage.do?articleId=a6700 > [accessed on 9 February 2015]; KEOGH, Dermot, «The Role of the Catholic Church in the Republic of Ireland 1922-1995», cit., p. 101. 26. Ó DRISCEOIL, Donal, Peadar O’Donnell, cit., p. 23; MILOTTE, Mike, Communism in Modern Ireland: The Pursuit of the Workers’ Republic since 1916, Dublin, Gill and Macmillan, 1984. 27. HOWE, Stephen, Ireland and Empire: Colonial Legacies in Irish History and Culture, Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 232. 28. Ibidem, p. 237.

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29. «Austrian Empire Broken Up. Emperor’s Manifesto. Four Separate States Decreed», in Irish Independent, 18 October 1918; «Break-Up of Austria», in Freeman’s Journal, 18 October 1918. 30. «Austria’s Complete Break Up. Vienna-Budapest Revolutions. Count Tisza Killed. Bosnia Joins Serbia: New Austro-German State. Fleet Given to Jugo-Slavs», in Irish Independent, 2 November 1918. 31. McKenna’s sources included Hungarian, German and French authors (Karl Huszár, Hans Eisele, Armand Lebrun, and Tharau). 32. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», in Studies: An Irish Quarterly Review, XI, 44, 4/1922, pp. 541-558, p. 546. 33. MORLEY, Vincent, «McKenna, Lambert (Mac Cionnaith, Laimhbheartach)», in DIB, URL: < http://dib.cambridge.org/viewReadPage.do?articleId=a5725 > [accessed on 10 December 2014]; MCKENNA, Lambert, «Character and Development of Post-War Socialism», in Studies: An Irish Quarterly Review, IX, 34, 2/1920, pp. 177-194; MCKENNA, Lambert, «The Bolsheviks», in Studies: An Irish Quarterly Review, X, 38, 2/1921, pp. 218-238; MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Munich», in Studies: An Irish Quarterly Review, XII, 47, 3/1923, pp. 361-377; MCKENNA, Lambert, «The Mexican Imbroglio», in Studies: An Irish Quarterly Review, XVII, 68, 4/1928, pp. 621-636. 34. In articles published during the war years (1914-1918), there was generally a strong anti- Hungarian sentiment due the Irish writers’ personal experience or the influence of pro-Slav British writers, such as historian Robert William Seton-Watson. Seton-Watson had an international reputation, ‘widely recognised as a champion of the rights of Central and Eastern Europe’s small nations’. Irish readers had access to his ideas and were influenced by his opinion on Habsburg Central Europe, which proved to have a lasting impact in the interwar years as well. See STEED, Henry Wickham, EVANS, R. J. W., «Watson, Robert William Seton (1879–1951)», Oxford Dictionary of National Biography, Oxford University Press, 2004 [henceforth: ODNB], URL: < http:// www.oxforddnb.com/view/article/36024 > [accessed on 4 June 2015]; PÉTER, László, «R. W. Seton-Watson’s Changing Views on the National Question of the Habsburg Monarchy and the European Balance of Power», in Slavonic and East European Review, LXXXII, 3/2004, pp. 655-679, p. 655. 35. «Disintegration of Austria. Hungarian Statement to the World», in Irish Independent, 5 November 1918. 36. WHITE, George W., Nationalism and Territory: Constructing Group Identity in southeastern Europe, Lanham (MD), Rowman & Littlefield Publishers, 2000, p. 77; «Disintegration of Austria. Hungarian Statement to the World», Irish Independent, 5 November 1918. 37. MCKENNA, Lambert, «An Outlaw’s Diary. Part I: The Revolution; Part II: The Commune by Cécile Tormay», in Studies: An Irish Quarterly Review, XII, 48, 4/1923, pp. 673-675. 38. HOENSCH, Jörg K., A History of Modern Hungary 1867-1994, London, Longman, 1996, p. 92. 39. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 541. 40. MCKENNA, Lambert, «An Outlaw’s Diary. Part I: The Revolution; Part II: The Commune by Cécile Tormay, cit. 41. Ibidem, p. 675. 42. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 549; «Doctrinaires’ Schemes», in Freeman’s Journal, 9 August 1919. 43. «Matters of Moment. Situation in Hungary», Irish Independent, 12 December 1922, p. 4; MCKENNA, Lambert, «An Outlaw’s Diary. Part I: The Revolution; Part II: The Commune by Cécile Tormay», cit., p. 675. 44. «Fate of Budapest. Slaughter in Munich», in Irish Independent, 3 May 1919. 45. SHARP, Alan, «Reflections on the Remaking of Europe 1815, 1919, 1945, post-1989: Some Comparative Reflections», in Irish Studies in International Affairs, VIII, 1997, pp. 5-20, p. 18. 46. «Bolshevist Peril Growing. Hungary now in the Throes», in Irish Independent, 25 March 1919. 47. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 553.

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48. «Untitled», in Catholic Bulletin, IX, 1919, p. 635. 49. For in-depth historical analyses of the Hungarian delegation at Trianon, see DEÁK, Ferenc, Hungary at the Paris Peace Conference: The Diplomatic History of the Treaty of Trianon, New York, Columbia University Press, 1942; ROMSICS, Ignác, Dismantling of Hungary: The Peace Treaty of Trianon, 1920, Boulder, Social Science Monographs, 2002. 50. «News in Brief. Terms for Hungary», in Freeman’s Journal, 16 January 1920. 51. «Hungary’s Alternative», in Freeman’s Journal, 21 January 1920, and «Hungary Won’t Sign it», Irish Independent, 10 May 1920. 52. «Hungarian Ministers’ Militant Speech», in Irish Independent, 15 January 1920. 53. ZÁCH, Lili, «Central European border settlements and interwar Ireland: a transnational study of the North-Eastern Boundary Bureau and the Boundary Commission», in Prispevki za novejšo zgodovino [Contributions to Contemporary History], LVII, 3, 2017, pp. 12-25. 54. GERWARTH, Robert, «Fighting the Red Beast: Counter-Revolutionary Violence in the Defeated States of Central Europe», in GERWARTH, Robert, HORNE, John (eds.), War in Peace: Paramilitary Violence in Europe after the Great War, Oxford, Oxford University Press, 2012, p. 68. 55. «“White” Terror’s Work», in Freeman’s Journal, 19 January 1920. 56. «The People’s Will», in Freeman’s Journal, 14 July, 1920. 57. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», in Studies: An Irish Quarterly Review, XI, 44, 4/1922, p. 555. 58. LEE, Joseph J., Ireland 1912-1985: Politics and Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, p. 78. 59. BROWN, Terence, Ireland: A Social and Cultural History, 1922 to the Present, Ithaca – London, Cornell University Press, 1985, p. 252. 60. DEÁK, István, The Habsburg Empire, in BARKEY, Karen and HAGEN, Mark von (eds.), After Empire: Multiethnic Societies and Nation-Building. The Soviet Union and the Russian, Ottoman, and Habsburg Empires, Bolder, Westview Press, 1997, pp. 129-141, p. 137. 61. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 543. 62. «Doctrinaires’ Schemes», in Freeman’s Journal, 9 August 1919; «In Hungary. First Authentic Account», in Freeman’s Journal, 26 May 1920. 63. The Dr Eisele in question here is not identical with the SS concentration camp doctor and war criminal, known for his experiments on internees. 64. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 541. 65. Theologian and historian Monsignor James MacCaffrey was Professor of Ecclesiastical History at St Patrick’s College, Maynooth, and on occasion also contributed to the Irish Ecclesiastical Record. As he received his doctorate from the University of Freiburg, he was familiar with the challenges facing people in Central Europe, including historical, political, and religious matters. See HOURICAN, Bridget, «MacCaffrey, James», in DIB, URL: < http://dib.cambridge.org/ viewReadPage.do?articleId=a5114 > [accessed on 2 November 2014]; MACCAFFREY, Rev. James Canon, «The Catholic Church in 1918», in Irish Ecclesiastical Record, XIII, 1/1919, pp. 89-102, p. 93. 66. MACCAFFREY, Rev. James Canon, «The Catholic Church in 1918», cit., p. 94. 67. «Reported Move to Restore the Habsburgs in Hungary», in Freeman’s Journal, 12 March 1923; MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit. , p. 556. 68. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 557. 69. HOENSCH, Jörg K., op. cit., p. 107; MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 558. 70. MCKENNA, Lambert, «The Bolshevik Revolution in Hungary», cit., p. 558. 71. Ibidem, p. 554. 72. BROWN, Terence, Ireland: A Social and Cultural History, 1922 to the Present, Ithaca – London, Cornell University Press, 1985, p. 268.

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73. MCGARRY, Fearghal, Irish Politics and the Spanish Civil War, Cork, Cork University Press, 1999, p. 137. 74. TREACY, Matt, op. cit., p. 40. 75. O’HALPIN, Eunan, Defending Ireland: The Irish State and its Enemies since 1922, Oxford, Oxford University Press, 1999, p. 78; MORRISSEY, Thomas J., Edward J. Byrne, 1872-1941: the forgotten Archbishop of Dublin, Dublin, Columba Press, 2010, p. 187. 76. KEOGH, Dermot, The Vatican, the Bishops and Irish Politics 1919-39, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, p. 180. 77. O’CONNOR, Emmet, «Anti-Communism in Twentieth-Century Ireland», cit., p. 62. 78. On the establishment and outlawing of Saor Éire, see Ó DRISCEOIL, Donal, The “Irregular and Bolshie situation”: Republicanism and Communism 1921-36, in MCGARRY, Fearghal (Ed.) Republicanism in Modern Ireland, Dublin, UCD Press, 2003, pp. 42-60, pp. 50-52; KEOGH, Dermot, «The Role of the Catholic Church in the Republic of Ireland 1922-1995», cit., p. 117. 79. «Pastoral Letter of the Archbishop of Dublin to the Clergy and Faithful of the Dicocese of Dublin, Lent, 1935, 1st March 1935», cit. in CLARKE, Desmond K. (ed.), Archbishop Edward Byrne: archbishop of Dublin 1921-1940, Dublin, s.n., 2004, p. 5. 80. MCGARRY, Fearghal, Eoin O’Duffy: A Self-Made Hero, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 205-206. 81. LEE, Joseph J., Ireland 1912-1985: Politics and Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, p. 181. 82. BRODERICK, Eugene, Intellectuals and the Ideological Hijacking of Fine Gael, 1932-1938, Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, 2010, p. 75. 83. HOENSCH, Jörg K., op. cit., p. 123. 84. FAZEKAS, Csaba, Collaborating with Horthy: Political Catholicism and Christian Political Organizations in Hungary, in KAISER, Wolfram, WOHNOUT, Helmut (eds.), Political Catholicism in Europe 1918-1945, vol. I, New York, Routledge, 2004, pp. 160-177, p. 172; MURRAY, Peter, FEENY, Maria, Church, State and Social Science in Ireland: Knowledge Institutions and the Rebalancing of Power, 1937-1973, Manchester, Manchester University Press, 2017, p. 18. 85. MORRISSEY, Thomas J., Edward J. Byrne, 1872-1941: the forgotten Archbishop of Dublin, Dublin, Columba Press, 2010, p. 205. 86. KEOGH, Dermot, Hogan, communism, and the challenge of contemporary history, in Ó CORRÁIN, D. (ed.), James Hogan: revolutionary, historian and political scientist, Dublin, Four Courts Press, 2001, pp. 60-79, p. 60. 87. HOGAN, James, Could Ireland become Communist? The Facts of the Case, Dublin, 1935. 88. Notably, Coyne’s articles covered all aspects of Austrian politics, particularly as far as their Christian Social politicians’ merits were concerned; this included Austrian book reviews as well. During the 1920s, Coyne spent time in on the Continent, so he had witnessed Austrian socio- political changes first-hand. He had studied theology at the Franz Ferdinand University, Innsbruck, and had also received education in Münster, Westphalia; the Gregorian University in Rome; the Action Populaire and the Sorbonne in Paris. See DOLAN, Anne «Coyne, Edward Joseph», in DIB, URL: < http://dib.cambridge.org/viewReadPage.do?articleId=a2135 > [accessed on 7 November 2014]; KEOGH, Dermot, O’DRISCOLL, Finín, Ireland, in BUCHANAN, John, CONWAY, Martin (eds.) Political Catholicism in Europe, 1918-1965, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 286-287; COYNE, Edward J., «Die Diktatur in Oesterreich by Franz Winkler», «Dollfuss by Johannes Messner», in Studies: An Irish Quarterly Review, XXV, 100, 4/1936, pp. 696-698. 89. FANNING, Bryan, The Quest for Modern Ireland: The Battle of Ideas 1912-1986, Dublin, Irish Academic Press, 2008, p. 79. For further details on vocationalism in Ireland, see MULLARKEY, Kieren, «Ireland, the Pope and Vocationalism: The Impact of the Encyclical Quadragesimo Anno», in AUGUSTEIJN, Joost (ed.) Ireland in the 1930s: New Perspectives, Dublin, Four Courts Press, 1999, pp. 96-116.

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90. COYNE, Edward J., «The Social Revolution in Austria by C. A. Macartney», in Studies: An Irish Quarterly Review, XVI, 64, 4/1927, p. 724. 91. Ibidem, p. 724. 92. «A Remarkable Bishop. Great Reformer», in Irish Independent, 6 July 1937, p. 4. 93. MCGARRY, Fearghal, Irish Politics and the Spanish Civil War, Cork, Cork University Press, 1999, p. 135. For further details on Irish involvement in the Spanish Civil War, both in political and military terms, see MANNING, Maurice, The Blueshirts, Dublin, Gill & Macmillan, 1987; STRADLING, Robert, The Irish and the Spanish Civil War, 1936-39: Crusades in Conflict, Manchester, Manchester University Press, 1999; KEENE, Judith, Fighting for Franco: International Volunteers in Nationalist Spain during the Spanish Civil War, London, Bloomsbury Academic, 2007; MCGARRY, Fearghal, Eoin O’Duffy: A Self-Made Hero, Oxford, Oxford University Press, 2007; MCGARRY, Fearghal, Frank Ryan, Dundalk, Dundalgan Press, 2002. 94. «When Red Terror Gripped Hungary. Bela Kun’s Five Months’ Dictatorship. A Tale of Tyranny, Disruption and Eventual Collapse», in Irish Independent, 20 August 1936. 95. Kun’s father was from Galicia but the family lived in Lele, which was situated in the “Partium” (County Szatmár), the geographic region between the later post-Trianon Hungary and Transylvania in Romania; hence the most succinct description would be to describe him as ‘of Transylvanian origin’. Neither of his parents was a practising Jew; Kun, for instance, attended a Calvinist secondary school in Kolozsvár/Cluj. 96. «When Red Terror Gripped Hungary. Bela Kun’s Five Months’ Dictatorship. A Tale of Tyranny, Disruption and Eventual Collapse», in Irish Independent, 20 August 1936. 97. «Hungary Backs Gen. Franco», in Irish Independent, 10 November 1937. 98. SACERDOS (pseudo.), «Matters about which the press is silent (Jewish Communist leaders and Freemasonry in Hungary)», in The Catholic Bulletin, XXI, F1931, pp. 144-145. 99. CAHILL, Edward, «Notes on Christian Sociology. The Soviet Form of Government (Continued)», in the Irish Monthly, LVI, 659, 5/1928, p. 274 100. WOODS, Cristopher J., «Cahill, Edward», in DIB, URL: < http://dib.cambridge.org/ viewReadPage.do?articleId=a1364 > [accessed on 31 March 2015]; KEOGH, Dermot, O’DRISCOLL, Finín, op. cit., pp. 281-283. 101. The military dictatorship of Miguel Primo de Rivera in Spain lasted from 1923 until January 1930. In Italy, Benito Mussolini was in power October 1922-1943. CAHILL, Edward, «Notes on Christian Sociology. The Soviet Form of Government (Continued)», in the Irish Monthly, LVI, 659, 5/1928, pp. 274-277, p. 274. 102. BROWNE, Stephen J., «Judaism by A. Vincent», in Studies: An Irish Quarterly Review, XXIII, 92, 4/1934, p. 725. 103. «In Hungary To-Day. The Jewish Problem», in Irish Independent, 7 January 1936. 104. «Matters about which the Press is Silent», in the Catholic Bulletin, February 1931, pp. 144-145. [entire article] 105. ORMOS, Mária, Magyarország a Két Világháború Korában 1914-1945 [Hungary in the Age of the Two World Wars 1914-1945], Debrecen, Csokonai Kiadó, 2006, p. 192; «Jews in Hungary», in Irish Press, 18 January 1934. 106. HOENSCH, Jörg K., op. cit., pp. 127, 134. 107. «Topics of the Day. Readers’ Opinions. Jews and Communism. To the Editor “Irish Independent”», in Irish Independent, 7 April 1934 and 18 April 1934. 108. FRANK, Tibor, Treaty Revision and Doublespeak: Hungarian Neutrality, 1939-1941, in WYLIE, Neville (ed.), European Neutrals and Non-Belligerents during the Second World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 150-173, p. 173. 109. «Across the Balkans. Hungary an Attenuated Nation. Grace and Dignity of its People. (From Our Special Correspondent)», in Irish Independent, 25 April 1930; COYNE, Edward J., «The Social

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Revolution in Austria by C. A. Macartney», in Studies: An Irish Quarterly Review, XVI, 64, 4/1927, p. 724 [entire article]; «Cardinal Told the Tanaiste of Election», in Irish Press, 6 June 1938. 110. MACKEN, Mary M., «Hungary by C. A. Macartney», in Studies: An Irish Quarterly Review, XXIV, 94, 2/1935, pp. 333-335, p. 334.

ABSTRACTS

Although far from the centres of conflict on the Continent, interwar Ireland was also exposed to the influence of extreme left and right-wing political movements. Overall, most Irish nationalists adopted an uncompromisingly anti-Communist stance and used the lack of political stability in East-Central Europe to emphasise the significance of Catholic values following the 1917 Bolshevik revolution. The present paper examines the attitude of Irish intellectuals to extreme political changes in post-war Hungary. It also aims to highlight the complexity of the “red scare” and its legacy in relation to anti-Semitism and even the border question throughout the 1930s.

Nonostante fosse lontana dai luoghi in cui si sviluppava il conflitto, sul continente, l’Irlanda interbellica fu comunque esposta alle influenze dei movimenti politici di estrema sinistra ed estrema destra. In genere molti nazionalisti irlandesi adottarono una posizione anticomunista senza compromessi e utilizzarono la mancanza di stabilità nell’Europa centro-orientale per esaltare il significato dei valori cattolici dopo la rivoluzione bolscevica del 1917. Questo articolo esamina l’atteggiamento degli intellettuali irlandesi nei confronti dei cambiamenti politici estremi avvenuti nell’Ungheria post-bellica. Ambisce inoltre a mettere in luce la complessità del concetto di “paura rossa” e la sua eredità in relazione con l’antisemitismo e perfino con la questione dei confini durante gli anni Trenta.

INDEX

Keywords: anti-communism, transnational history, Bolshevik, Hungary, Ireland Parole chiave: anticomunismo, storia transnazionale, bolscevichi, Ungheria, Irlanda

AUTHOR

LILI ZÁCH Lili Zách has received her Masters Degrees in English (with specialization in Irish Studies) and History at the University of Szeged, Hungary, in 2006. She completed a PhD at the National University of Ireland, Galway, focusing on Irish perceptions of the small successor states of Austria-Hungary, 1914-1945. Her primary research interest lies in the field of Irish and Central European history in a transnational framework, with special attention to Irish links with Continental Europe in the first half of the twentieth century. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Zach >

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Anarchism and the Perversion of the Russian Revolution The Accounts of Emma Goldman and Alexander Berkman

Frank Jacob

I would like to thank the two anonymous reviewers, whose comments helped a lot to improve the present article.

1. Introduction

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1 Emma Goldman (1869-1940) is likely among the most well-known Anarchists in history, and she is also a renowned advocate of feminism in the United States. As New York historian Oz Frankel remarked, she «has assumed a unique position in American politics and culture» 1. While many aspects of Goldman’s life deserve – and have received – more detailed studies2, the present article will closely examine her perception and judgement of the Russian Revolution in 1917 and its consequences, namely the Bolshevist rule in Russia. Like many other left intellectuals, Emma Goldman’s empathetic and hopeful position towards the Bolshevist rule turned into anger and refusal after the October Revolution. She had the possibility to observe the post- revolutionary developments that led to a Bolshevist party regime, and Goldman tended to emphasize in her criticism that she had not only lived in Russia for two years (1920-21), but also the opportunity to discuss the issues with the Russian people, and not only party controlled interpreters, who would usually guide international guests; consequently, she personally witnessed the shocking contemporary political climate, especially the purges against Anarchists and the suppression of the Kronstadt rebellion in 19213. Once she escaped from Russia after two years, Goldman, as well as her companion Alexander Berkman (1870-1936), immediately began to criticize Bolshevism, seeking to unveil to the fellow anarchists and other left intellectuals outside Russia the Communist dictatorship’s reign of terror and crime.

2 The present article will analyze the years between 1919 and 1925 to demonstrate how Berkman and Goldman changed their minds about the Bolsheviks. It will also underscore the problems that faced them when they demanded a critical stance against Bolshevism and simultaneously defended the idea of a future revolution. First, the Anarchists’ situation after the Russian Revolution and during the Bolshevist rule will be summarized. After that, the development of Goldman and Berkman’s opinions towards Bolshevism will be discussed by analyzing their publications, as well as Goldman’s letters to colleagues and friends in which she described not only her experiences in Russia, but also her problems in dealing with pro-Bolshevist forces in England and the United States; as such, the cumulative image formed by all these ideas is one characterized by ambivalence. As a supporter of Bolshevism, Emma Goldman was deported from the United States in late 1919, being one of many victims of the Palmer Raids and the first American «Red Scare» after the First World War4. However, to reference the title of her later work, she was disillusioned in Russia’s post- revolutionary state; while her and Berkman’s re-evaluation of the realities in the aftermath of the October Revolution could be regarded as her own personal perspective, Goldman’s case resembles that of many left-wing intellectuals whose

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hopes for a better world in the aftermath of the revolution were not fulfilled, but rather destroyed5. Consequently, what shall be discussed is a micro-perspective of an event that would determine not only Goldman’s future, but, in a macro-perspective, the entire 20th century – what Eric Hobsbawm would later call the «age of extremes»6.

2. The Anarchists and Bolshevism7

3 The Russian Revolutions in February and October 1917 stimulated the hopes of those who wanted a classless society and sought an end to worker and peasant exploitation at the hands of capitalist oligarchs. However, the Bolshevist rule would quickly show that the revolutions failed to remedy contemporary society’s problems. When the Civil War in Russia began, the Anarchists faced a dilemma; they wanted to refuse Lenin’s dictatorial rule, but if they did not support him, the enemies of the revolution could have been successful in suppressing the revolution and re-establishing the old order. In the end, the Anarchists, as Paul Avrich described it, «adopted a variety of positions, ranging from active resistance to the Bolsheviks through passive neutrality to eager collaboration»8. As a result, many Anarchists would take up arms for the regime and become invaluable defenders of the October Revolution and Bolshevist rule.

4 Some Anarchists even made impressive careers for themselves. One example would be Bill Shatov (originally Vladimir Sergeevich Shatov, 1887-1938), who lived in the United States between 1907 and 1917 and was active in the Industrial Workers of the World. Having fought in the Civil War on the Bolshevist side, he enjoyed professional success, eventually becoming Minister of Transport in the Far Eastern province of Chita. He was one of the Anarchists who met Emma Goldman and Alexander Berkman after their arrival in Russia, attempting to persuade them that cooperation with the Bolshevist rulers was essential. Like Shatov, but perhaps not as successful, many other Anarchists accepted minor positions within the new systems, thereby supporting the rise of Bolshevism in the following years. The anti-Marxist Anarchist, Yuda Grossman- Roshchin (1883-1934), would also change his mind and later hail Lenin «as one of the great figures of the modern age»9.

5 However, not all Anarchists supported the Bolsheviks. The Briansk Federation of Anarchists considered the new rulers to be «‘Social Vampires’ in the Kremlin, who sucked the blood of the people»10. Actions against the Bolshevist government were also taken by these Anarchists, who, joined by other radicals, threw bombs at the Communist Party Committee’s headquarters in Moscow. Others, like the Bakunin Partisans in Ekaterinoslav (Dnipropetrovsk), used violence against Bolsheviks and counter-revolutionaries alike. The Anarchists lacked charismatic leaders, especially since Peter Kropotkin (1842-1921) died in February 1921. Furthermore, the Bolsheviks began to crush possible political enemies and critics after the Kronstadt rebellion a few months later. In September 1921, the Cheka (The All-Russian Emergency Commission for Combating Counter-Revolution and Sabotage) began its crusade against Russian Anarchists, who were captured and executed without trial; this would outrage both Goldman and Berkman, who recognized that Bolshevism had taken over the revolution to establish a new dictatorship. The latter described the situation in melancholic words: «Terror and despotism have crushed the life born in October»11.

6 The conflict between Anarchists and Marxists went back to the dispute between Bakunin’s and Marx’s ideas in the First International. The former had warned of the

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possibility of a dictatorship that would use Marxist ideas to establish a dictatorial government during and after a process of centralization, the bureaucracy of which would steadily increase12. Alice Wexler wrongly explained Goldman’s anti-Bolshevism as a reaction stimulated by her own depressive state of mind, which caused her to channel her anger about her deportation from the United States against the Bolshevist rule in Russia13. As such, Lenin’s Russia might have become «a metaphor for Goldman’s sense of betrayal and loss, a mirror of her own interior landscape of desolation»14. I strongly disagree with this perception of Goldman’s anti-Bolshevism – to purport that her stance was merely an emotionally-charged expression of anger rather than an analytical discussion of Bolshevism would unreasonably devalue her political evaluation of Russia in the early 1920s. Marshall S. Shatz more accurately described the influence of her Americanness in her evaluation process: «Like many exiles, she seems to have become more American once she left America. Some of her criticism of Soviet practices, for example, bespeaks a typically American exasperation with inefficiency and red tape»15. Nevertheless, Goldman had access to a transatlantic network of left intellectuals, and she would discuss the situation in detail with many of its members. These letters, in combination with Goldman’s writings since 1921, are an invaluable resource in explaining her position towards Bolshevism and the perversion of the Russian Revolutions after 1917.

3. Emma Goldman and Bolshevism

7 Like many other left intellectuals, Emma Goldman initially perceived the Russian Revolution as positive: The hated Romanovs were at last hurled from their throne, the Tsar and his cohorts shorn of power. It was not the result of a political coup d’état; the great achievement was accomplished by the rebellion of the entire people. Only yesterday inarticulate, crushed, as they had been for centuries, under the heel of a ruthless absolutism, insulted and degraded, the Russian masses had risen to demand their heritage and to proclaim to the whole world that autocracy and tyranny were for ever at an end in their country. The glorious tidings were the first sign of life in the vast European cemetery of war and destruction. They inspired all liberty-loving people with new hope and enthusiasm, yet no one felt the spirit of the Revolution as did the natives of Russia scattered all over the globe. They saw their beloved Matushka Rossiya now extend to them the promise of manhood and aspiration16.

8 Those who had been imprisoned or exiled to Siberia were now allowed to return, and at the time, their dreams of a classless and non-exploitative society seemed plausible. The revolutionaries returned «from dungeons and banishment»17, willing to help the masses with creating a new and better future for all.

9 There were also exiles who, in contrast to Goldman, immediately returned to Russia after the successful revolution, which had transformed into «the Land of Promise»18. Many Anarchists had decided to leave the United States, and Goldman supported their mission by lecturing about and advertising for their cause since 1917. However, she herself wanted to remain in the U.S. There, she also met Leon Trotsky (1879-1940) during a farewell meeting for those who wanted to go back to Russia to support the revolutionaries. She later described Trotsky and his lecture in her autobiography: After several rather dull speakers Trotsky was introduced. A man of medium height, with haggard cheeks, reddish hair, and straggling red beard stepped briskly forward. His speech, first in Russian and then in German, was powerful and

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electrifying. I did not agree with his political attitude; he was a Menshevik (Social Democrat), and as such far removed from us (the Anarchists, F.J.). But his analysis of the causes of the war was brilliant, his denunciation of the ineffective Provisional Government in Russia scathing, and his presentation of the conditions that led up to the Revolution illuminating. He closed his two hours’ talk with an eloquent tribute to the working masses of his native land. The audience was roused to a high pitch of enthusiasm, and Sasha (Alexander Berkman, F.J.) and I heartily joined in the ovation given the speaker. We fully shared his profound faith in the future of Russia19.

10 Due to the experience, Goldman and Berkman identified with Trotsky’s positions more so than with those of the Anarchist Peter Kropotkin. Kropotkin emphasized the dilemma of the Anarchists in the aftermath of the February Revolution, which has been discussed above in some detail, and Goldman commented on this dilemma: «The war was producing strange bedfellows, and we wondered whether we should still feel near to Trotsky when in the course of time we should reach Russia, for we had only postponed, not given up, our return there»20.

11 Regardless of the political dilemma, «it was Russia to shed the first ray of hope upon an otherwise hopeless world»21, and it was this hope that had to be saved from the attacks of counter-revolutionaries from both within and abroad. Still in the U.S., Goldman tried to counter press reports that described the October Revolution as a German plot executed by the Kaiser’s agents, namely Lenin and Trotsky. She was eager to uncover «fantastic inventions about Bolshevik Russia»22, which is why she defended Lenin and his followers in her publications, such as Mother Earth. It was her deportation from the United States in the aftermath of the Palmer Raids that would change her perception of the Bolsheviks. Like Alexander Berkman, who accompanied Goldman to Russia, she would experience shock and antagonism alike concerning the cruelties of Bolshevist rule.

12 Alongside more than 200 people, Berkman and Goldman were deported after their attempts to fight this decision had failed23. Berkman described his sentiments upon realizing the whereabouts of his deportation: Russia! I was going to the country that had swept Tsardom off the map, I was to behold the land of the Social Revolution! Could there be greater joy to one who in his very childhood had been a rebel against tyranny, whose youth’s unformed dreams had visioned human brotherhood and happiness, whose entire life was devoted to the Social Revolution24!

13 When Berkman eventually arrived there on 19 January, 1920, the experience was seemingly spiritual for him: «A feeling of solemnity, of awe, almost overwhelmed me»25. However, regardless of his initial perception of Russia as a utopian dream, Berkman swiftly concluded that the nation «seemed to reflect the Revolution as a frightful perversion. It was an appalling caricature of the new life, the world’s hope»26. The unrealistic expectations of the arriving anarchists had also been a consequence of the lack of solid information about the recent developments in Russia. Like many others, Berkman and Goldman possessed an image of Russia that could hardly match the realities.

14 Berkman resisted an immediate resignation to consider that the revolution had failed. However, he eventually accepted the cruel reality: «Against my will, against my hopes, against the holy fire of admiration and enthusiasm for Russia which burned within me, I was convinced – convinced that the Russian Revolution had been done to death»27. Berkman had no choice but to admit that «the Russian Revolution [had] failed – failed

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of its ultimate purpose»28. Regardless of this confession, the U.S. Anarchist considered it important to study the Russian Revolutions to learn everything about the revolutionary process and the dangers of perversion, which would invariably be part of every revolutionary movement. The lessons of the «great historic events of 1917»29 were explained to be «most vital to the future progress and wellbeing of the world»30, especially since it seemed unlikely that another revolution would achieve what the events of 1917 did not – namely, a true revolution that could free the masses from every form of state domination. While the Russian Revolution was «the only Revolution which aimed, de facto, at social world revolution [and was] the only one which actually abolished the capitalist system on a country-wide scale, and fundamentally altered all social relationships existing till then»31, it failed to overcome the boundaries set by a government – in Russia’s case, the Bolshevist one.

15 The problem was obvious: while Lenin and his followers had used Anarchist slogans (including terms like «direct action», «free soviets», etc.) during the events in October, «it was not their social philosophy that dictated this attitude»32. They had used these phrases to gain the support of the masses and to gain power within the revolutionary process. Naturally, as Marxists, the Bolsheviks would eventually demand centralization and control in the hands of their representatives, who also symbolized the new state and its government. The peace of Brest-Litovsk, a treaty that allowed imperialist Germany to make peace with Russia at the expense of those who would be conquered and ruled by the government in Berlin, was seen as a fraud against the masses. Many Anarchists had demanded peace without any annexations, which was agreed upon by the masses themselves.33 With the Bolsheviks in power, the fight against any and all voices of criticism began, and the Anarchists became victims of policies and «new Bolshevik tactics [that] encompassed systematic eradication of every sign of dissatisfaction, stifling all criticism and crushing independent opinion or effort»34. With the dissolution of labor unions, the Cheka’s growing influence, and the state’s monopolization of every aspect of life, «a bureaucratic machine [was] created that [was] appalling in its parasitism, inefficiency and corruption»35. What was thought be a dictatorship in the name of workers and peasants was nothing more than a dictatorship run by a few Bolsheviks and Lenin, a group that «in its true essence conspiratory, [had] been controlling the fortunes of Russia and of the Revolution since the Brest-Litovsk peace»36. The dream of a free population, which, in Anarchist tradition, would decide their own fate, was replaced with «a powerfully centralised State, with the Communist Party in absolute control»37, in which any form of mass participation and influence was to be destroyed. For Berkman, it was «the great lesson of the Russian Revolution that every government, whatever its fine name and nice promises, is by its inherent nature, as a government, destructive of the very purposes of the social revolution»38. Berkman’s thoughts and reflections had been discussed in detail, since most of them had likely been discussed with Goldman during their days in Russia. Her own writings and positions will now be taken into closer consideration.

16 Between 1920 and 1921, Emma Goldman had experienced some of the most dramatic events that would pervert the Russian Revolutions, about which she wrote shortly afterwards in her published work, My Disillusionment in Russia (1923)39. The arrests of the Anarchists in the larger cities was especially shocking to her; alongside Berkman, she began to inquire about the Bolsheviks’ attitudes towards Anarchism. Their questions reached Lenin in March 1920, two of which were of specific significance: «What is the present official attitude of the Soviet Government to the Anarchists?» and «What is to

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be the definite attitude of the Soviet Government toward the Anarchists?»40. However, the government’s actions would answer these inquiries. Goldman witnessed the Butyrka, a Romanov prison, «serving its old purpose-even holding some of the revolutionists incarcerated there before»41. The Anarchists could do no more than protest against such actions in a letter, which Goldman quotes in full: The undersigned Anarcho-syndicalist organizations after having carefully considered the situation that has developed lately in connection with the persecution of Anarchists in Moscow, Petrograd, Kharkov, and other cities of Russia and the Ukraine, including the forcible suppression of Anarchist organizations, clubs, publications, etc., hereby express their decisive and energetic protest against this despotic crushing of not only every agitational and propagandistic activity, but even of all purely cultural work by Anarchist organizations42.

17 Lenin had declared the Anarchists as enemies of the Russian Revolution and as representatives of not only the counter-revolution, but the bourgeois elements of Russia’s society43. They were treated without mercy, and the «conditions of their imprisonment [were] exceptionally vile and brutal»44. All efforts to counter the measures with publications or other forms of educational work were answered by the Bolsheviks with arrests, violence, and even executions – without trial, of course. For Goldman, it was obvious that these «unbearably autocratic tactics of the Government towards the Anarchists [were] unquestionably the result of the general policy of the Bolshevik State in the exclusive control of the Communist Party in regard to Anarchism, Syndicalism, and their adherents»45. Those who returned from exile to support the revolution found themselves in an environment as hostile and oppressive towards Anarchism as their previous countries of residence might have been.

18 Regardless of the reality of the situation, Berkman and Goldman did not immediately condemn the Bolsheviks. American historian Harold J. Goldberg emphasized that «although they developed some objections to the course of events, they had maintained their faith in the revolutionary possibilities under the Bolsheviks throughout the first year of their sojourn»46. Only after the Kronstadt Rebellion did the two U.S. Anarchists openly criticize the events in Russia, until the two became «implacable foes of the Bolsheviks»47. The idea that the Bolshevist government was a necessary evil that would help overcome the resistance against the Russian Revolutions and their ideals might have led to Goldman’s positive perception of Lenin and his followers until 1920. For her, Russia was an ideal state in an otherwise dark world: «Faint in body, yet strong in spirit, Russia defies the world of greed and sham, and holds her own against the combined power of the international conspiracy of murder and robbery. Russia, the incarnation of a flaming ideal, the inspiration of the New Day»48. Although Berkman and Goldman had witnessed a tremendously hostile environment in Russia since the beginning of their stay, it took many months before they actively began criticizing the government. It could be that fear played an important role in their initial inaction, but there is also nothing in Goldman’s voluminous correspondence before late 1921 that indicated any critical perspectives of the events49. To an unknown recipient, Goldman claimed that most people who visited Russia arrived «in the grip of the great delusion», which usually faded quickly and left them «heart broken»50 when the visitors would turn their back towards the land of revolutionary utopia again.

19 However, as soon as Berkman and Goldman escaped from Russia, they began their fierce campaign against Bolshevism. It had taken them long to eventually take a stand against Bolshevism, and many letters between the two show that it was not an easy

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decision for Goldman to eventually take up the pen to write against Lenin and his followers, as the revolution per se should be protected at the same time51. In a letter from Sweden, published in Freedom in early 1922, they tried to expose the government’s crimes against the Anarchists in post-revolutionary Russia. There, the letter said that «it is not at all necessary to express your dissension in word or act to become subject to arrest; the mere holding of opposing views makes you the legitimate prey of the de facto supreme power of the land, the Tcheka, that almighty Bolshevik Okhrana, whose will knows neither law nor responsibility»52. With the Tenth Congress of the Russian Communist Party, an organized and ruthless war against Anarchism began when Lenin accused Anarchists of representing the counter-revolution and the bourgeoisie; the first arrests were made the day following this statement53. The active and resistant Anarchists were charged with banditism, which made it impossible to escape police violence in the Russian metropoles. After this, Goldman called for Anarchist solidarity and direct action against the Bolshevist regime: It is high time that the revolutionary Labour movement of the world took cognizance of the blood and murder regime practised by the Bolshevik Government upon all politically differently minded. And it is for the Anarchists and Anarcho Syndicalists, in particular, imperative to take immediate action toward putting a stop to such Asiatic barbarism, and to save, if still possible, our imprisoned Moscow comrades threatened with death54.

20 On 27 March, 1922, The Washington Times stated it was Goldman who claimed that the «Rule of Lenin and His Associates Killed Revolution in Russia»55. They elaborated on their coverage of Goldman’s ideas: «Because of the fact that an arch-Anarchist, a woman who has devoted her life to attacking existing forms of government, turns upon the aegis of Lenin with such fury, The Washington Times thinks it worthwhile to print her views on Bolshevism»56. In the following article, Goldman expresses no doubts about the nature of the contemporary events in Russia: «The Russian revolution, as a radical social and economic change meant to overthrow capitalism and establish communism, must be declared a failure»57. In her view, the hopes and dreams that the revolution was supposed to fulfill were not only crushed by international interventions58, but predominantly by the Bolshevist government.

21 One of her important article series about the Russian crisis – titled The Crushing of the Russian Revolution59 and published in New York World, later published as a pamphlet – provided a full analysis of the events based on her experiences in Russia. She wanted to describe the events she witnessed in depth, although they might have been «misappropriated by the reactionaries, the enemies of the Russian Revolution, as well as excommunicated by its so-called friends, who persist in confusing the governing party of Russia with the Revolution»60. Initially, the Bolshevist regime was strengthened by the «four years’ conspiracy of the imperialists against Russia»61, and these interventions forced the Russian masses to focus on defending the revolution. Meanwhile, Lenin and his followers used this internal lack of surveillance to pervert the movement’s ideals, and the Russian people hoped to garner the government’s support for the revolutions in 1917. Consequently, the Bolshevist-led Communist Party formed a centralized state to destroy the Soviets and eventually crush the revolution62. From an Anarchist point of view, it was proved that «the experience of Russia, more than any theories, has demonstrated that all government, whatever its form or pretences, is a dead weight that paralyses the free spirit and activities of the masses»63. Goldman underscored that «for a brief period after the October Revolution the workers,

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peasants, soldiers, and sailors were indeed the masters of their revolutionary fate. But soon, the invisible iron hand began to manipulate the revolution, to separate it from the people, and to make it subservient to its own ends – the iron hand of the Communist State»64. The Bolsheviks never represented the will of the people; instead, they were «the Jesuit order in the Marxian Church»65, and eventually, «Communism, Socialism, equality, freedom – everything for which the Russian masses have endured such martyrdom – [had] become discredited and besmirched by their tactics, by their Jesuitic motto that the end justifies all means»66. The Bolshevist leaders’ internal purges and pro-imperialist foreign policies, represented by the Peace Treaty of Brest- Litovsk, had divided the people and transformed the revolution’s ideals into the crude realities of Lenin’s post-revolutionary Russia.

22 Nevertheless, as Berkman had outlined before, «It was natural, of course, for the Russian Revolution to arouse bitterest antagonism, on the one hand, and most passionate defense, on the other»67. He also claimed that most reports from Russia were simply lies68. Emma Goldman also provided a detailed description of the euphoric visitors to Russia, whom she divided into three classes: The first category consisted of earnest idealists to whom the Bolsheviki were the symbol of the Revolution. […] The second class were journalists, newspapermen, and some adventurers. They spent from two weeks to two months in Russia, usually in Petrograd or Moscow, as the guests of the Government and in charge of Bolshevik guides. Hardly any of them knew the language and they never got further than the surface of things. Yet many of them have presumed to write and lecture authoritatively about the Russian situation. […] The third category – the majority of the visitors, delegates, and members of various commissions-infested Russia to become the agents of the ruling Party. These people had every opportunity to see things as they were, to get close to the Russian people, and to learn from them the whole terrible truth. But they preferred to side with the Government, to listen to its interpretation of causes and effects69.

23 Many visitors had been blinded by the Bolshevist leaders, who «[knew] how to set the stage to produce an impression»70.

4. The Crusade Against Bolshevism

24 While Emma Goldman began to deconstruct the Bolshevist myth immediately after her return from Russia, it was not easy for the exiled American Anarchist to persuade the public about the reality of Russia: Woe to those who dare to tear the mask from the lying face. In Russia they are put against the wall, exiled to slow death in famine districts, or banished from the country. In Europe and America such heretics are dragged through the mire and morally lynched. Everywhere the unscrupulous tools of the great disintegrator, the Third International, spread distrust and hatred in labour and radical ranks71.

25 After her years in Russia and a short stay in Germany, Goldman lived in the United Kingdom, where many socialists and other left intellectuals enthusiastically supported the Bolshevist regime as a defender of the 1917 revolutions72. The Anarchist groups’ support of the Bolsheviks particularly angered Goldman, who had seen what happened to the representatives of Russian Anarchism before. While several journals supported Bolshevism73, the American Anarchist tried to persuade the British radicals of the evils she had witnessed in person.

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26 During a dinner speech in London on 12 November, 1924, Goldman emphasized the error in believing that the Bolshevist rulers would be defending the aims of the revolution for the sake of the people. She confessed that it took her «two years in Russia to find out [her] grievous mistake in believing that the ruling power was articulate of the Russian Revolution»74. Anarchism also lacked leading figures like Peter Kropotkin to fight against the terror in Russia: «Alas the Grand old man is no longer with us, and there seems to be no one else of his brain and heart, to do what he would most assuredly have done now as he did then, to speak and write against the terror going on in Russia under the new regime»75. Well aware of her status as a critic of Lenin’s dictatorship, Goldman knew that she would «be burned in oil by the followers and friends of Moscow […] [and] denounced as a counter revolutionist, in the employ of the Whites.» She continues: «[Nothing] can stop me from my determination to articulate the dumb misery and suffering of Russia’s politicals»76. In an article titled «What I Saw in Russia» (c. 1925), she also described how Russia had been totally different from everything Goldman anticipated it would be after the revolution. The American Anarchist admitted that although she was «never a Bolshevist, [she] yet sincerely believed that the Bolsheviks were interpreting the ideals of the Russian people, as registered by them in the Great Russian Revolution»77. In a way, she distorted reality when she stated to have «preferred to go to Revolutionary Russia to help in the sublime effort of the people to make the Revolution a living factor in their lives», especially since being deported did not leave her with much of a choice. Her utopian dream disappeared very fast and became a «ghastly dream» that haunted Goldman’s thoughts for the years to come.

27 «What I Saw in Russia» also sums up the nature of the post-revolutionary Bolshevist state that had perverted nearly every socio-political ideal in Russia. Goldman wanted to thwart the Anglo-Saxon image of the Bolsheviks by explaining what she had experienced during her two years in Russia: I found a small political group […] – the Communist Party – in absolute control […] Labour conscripted, driven to work like chattel-slaves, arrested for the slightest infringement […] the peasants a helpless prey to punitive expeditions and forcible food collection […] the Soviets […] made subservient to the Communist State […] a sinister organisation, known as the «Cheka» (Secret service and executioners of Russia), suppressing thought […] the prisons and concentration camps overcrowded with men and women […] Russia in wreck and ruin, presided over by a bureaucratic State, incompetent and inefficient to reconstruct the country and to help the people realise their high hopes and their great ideals78.

28 Regardless of her clear wording, Goldman was unable to persuade her British audience. In a letter from 6 November 1924, she told Roger Baldwin (1884-1981), one of the founding members of the American Civil Liberties Union, of her misery: «The main obstacle will be the confusion and superstition prevalent in England about Russia. In that respect I think it is like America, where Radicals and Liberals alike have been mesmerised by the hypnotic spell of Moscow, or rather by the myth foisted upon the world by Moscow»79. Goldman was also antagonized for her critical view, stating that «all those who refuse to face the facts of Russia are dealing with nothing else but attitudes. Their emotions have blinded them to such an extent, that they are utterly unable to listen to any critical analysis by people who speak, not from hearsay, but from actual experience and knowledge»80. In a letter to her «great love» Alexander Berkman on 22 December, 1924, she confessed that «it is mainly the realization of the terrible power of the Bolshevik lie which so depresses me»81. The left intellectuals in

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the United States – with whom Goldman regularly corresponded – were also ignorant of the reality in Russia, which might have frustrated the American Anarchist even more than her British colleagues did. One could argue, that it did not really matter what exactly happened in Russia, but what could happen there. The dominant idea was consequently a utopian dream, and, to stay in that image, the dreamers were not willing to wake up.

29 In the United States, conservative forces and their press organs did not regard the Russian Revolutions well. One can state without any exaggeration that the reports about post-revolutionary Russia had been one-sided, but the same could be said about the left-wing newspapers and journals, who sympathized with the revolutionaries and the ideals they represented. The historian Dimitri von Mohrenschildt (1902-2002) aptly described this situation when he said that «the demand for authentic information about revolutionary Russia was supplied by two groups of American-English eyewitnesses and observers; one, highly favorable to the Communist Revolution and the newly established regime; the other, uncompromisingly hostile»82. For the pro- Bolshevist observers in the U.S., Lenin «was by far the most popular and excited the greatest admiration»83, which is why reports like those written by Emma Goldman were often refused as anti-revolutionary stories by exiles who were against the Bolsheviks for ideological reasons. Due to the «misleading nature of the early pro-Bolshevik reports»84, whose authors Goldman had so vividly described, it was simply not an easy task to find sympathizers of a different point of view on Bolshevism and Lenin’s dictatorial rule. Furthermore, labor leaders like «Big Bill» Haywood drew the most attracting pictures about life in post-revolutionary Russia, stimulating the utopian dreams related to Bolshevist rule85.

30 Goldman emphasized these misconceptions in her letters to Roger Baldwin, which were sent from Berlin on 3 June, 1924: «[I] know the hypnotism was unavoidable, I was under its spell for many months myself, I can therefore understand everybody who is still in the trance. As I have repeatedly pointed out, Bolshevism is as truly the great superstition holding the world under its sway, as Christianity was and still is»86. In case of the U.S., she thought it was unbearable that there existed the «myth [that] Bolshevism, Leninism and the Russian Revolution are identical. It is this myth that prevents people from seeing that Bolshevism has crushed the Revolution and is now crushing the best there is in Russia»87. Goldman believed that the power should have remained in the hands of the soldiers’ and workers’ councils, where it could have been step by step transformed into a true democracy, in an anarchist form of course, due to which socialism would have provided a totally equal society for all. Lenin’s rule, in contrast, was based on the establishment of a state and characterized by terror and violence, but the left intellectuals in the United States seemed uninterested in this truth; instead, they hailed to utopian misconceptions. Baldwin, however, was not fully persuaded. He only agreed on two points regarding Russia’s internal policies: 1. That the persecution of opponents is not only wholly unnecessary but destructive of revolutionary progress, not only because it kills off those whose contributions are most needed, but because it imposes the temper of tyranny on the ruling classes; 2. That the centralization of power in the hands of a bureaucratic government is having the same effect of killing off those spontaneous experimental growths toward communal production and distribution which alone seem to me an enduring basis of economic stability in which the individual can find his widest freedom88.

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31 Because the left was ideologically supposed to defend what all conservative forces attacked, Baldwin had previously warned Goldman to avoid openly criticizing Bolshevist rule in post-revolutionary Russia. However, Goldman made it clear that she «fail[ed] to see […] how one can discuss the condition of the politicals without discussing the very institution which made political terror inevitable»89.

32 Furthermore, on several occasions – like in a letter to Mrs. J.D. Campbell on 30 January, 1925 – Goldman emphasized her feelings: «While I am opposed to Bolshevism and fight it with all my abilities, I am yet in deep sympathy with the Russian Revolution and the Russian people; it is because I feel that there is an abyss between the Revolution and Bolshevism that I have taken my stand against the latter»90. It was, however, hard to defend the one while attacking the other, especially since many foreign observers associated the revolutions with Bolshevism. Those who pointed out that the Bolsheviks seemed to be the only political force capable of «run[ning] the show» received Goldman’s answer, like Bertrand Russell did on 9 February, 1925: «[…] with all the political factions having been destroyed and with all the foremost men and women of the various political groups in prisons and concentration camps, it is most difficult to say who is or who is not in a position to replace Bolshevism»91. Nevertheless, Goldman changed her mind about the roots of Bolshevist terror. While she had accentuated the role of foreign interventionists in the past, a letter to Baldwin on 20 April, 1925 drew a tremendously different picture: I insist that the terror used by the Bolshevik Government has not been imposed upon them by outside circumstances but is inherent in the Dictatorship. It is that which compelled Lenin and the rest to eliminate every one who could or would not bow to the Dictatorship. I do not deny that counter-revolution from within and intervention from without may not in a measure have been a contributory factor. But they also helped to strengthen the arm of the Dictatorship because they furnished it with ever so many excuses for the terror employed. But over and above that is the idea of the Dictatorship, the obsession that the transformation period must be directed by an iron hand which at the exclusion of all other methods will impose itself upon the whole country92.

33 She repeatedly asserted Bolshevism as an ideology that would rule modern Russia, just as the church ruled during the medieval ages before: «There is no difference […] between the old belief of Divine rights of the King whom God hath put on the throne, and the Divine rights of the Bolsheviki whom Marx hath put on the throne and the Tcheka continued to keep there».93 According to Goldman, Baldwin’s belief that Bolshevism was a dictatorship in the name of workers and peasants was naive and «really childish»94. In 1925, the Bolshevist dictatorship – «like all governments» – ruled «in the interest of a privileged class and that class [was] the Communist Party,» having the «ultimate aim» to establish «State Capitalism» in order to make profits95.

34 Consequently, it was Bolshevist rule in post-revolutionary Russia that perverted the ideals of the Russian Revolutions and established a new exploitative government. In contrast to Russia’s past leaders, they purported to assume a left-wing Marxist ideology. However, in reality, they exploited the interests of workers and peasants as others before them had done.

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5. Conclusion

35 An analysis of Emma Goldman’s perception of the Russian Revolutions and their aftermath, the establishment of Bolshevist rule, and Lenin’s dictatorship fixates on a micro-perspective of the contemporary political circumstances. However, the shift in her views – from being supportive and hopeful about the prospective utopia to being antagonistic towards Lenin’s rule – is typical, even emblematic, of many members of the left intelligentsia in the Western world96. In addition, her correspondence offers insight into the discourse such intellectuals had in the early 1920s, a time when both British and American thinkers were more willing to trust reports about Bolshevism’s supposedly glorious achievements than Goldman and Berkman’s own experiences with the harsh and cruel realities of post-revolutionary Russia.

36 Regardless of her antagonism towards Bolshevist rule, Goldman made it clear that she still believed in the ideals that the Russian Revolutions were initially undertaken to achieve, and, in contrast to many other left intellectuals, who believed that Russia had been, due to its political and social backwardness, the wrong place for the world revolution to begin, she also did not doubt the future potential of the Russian people to achieve a true social change. As a concept, her separation of the revolution from Bolshevism, as it was, however, shared by many other anarchists and social democrats across Europe alike97, contributed to modern-day apolitical discourse about revolution. However, the relationship between the events of 1917 and the rise of dictatorial rule in Russia would not only determine the state’s history throughout the 20th century, but it would be largely responsible for the Western worlds generally negative disposition towards every revolutionary movement since98.

NOTES

1. FRANKEL, Oz, «Whatever Happened to “Red Emma”? Emma Goldman, from Alien Rebel to American Icon», in The Journal of American History, 83, 3/1996, pp. 903-942, p. 903. 2. For some examples see: CHALBERG, John, Emma Goldman. American Individualist, New York, Harper Collins, 1991; HAALAND, Bonnie, Emma Goldman. Sexuality and the Impurity of the State, New York Montreal, Black Rose Books, 1993. 3. AVRICH, Paul, Kronstadt, 1921, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1970; GETZLER, Israel, Kronstadt, 1917-1921. The Fate of a Soviet Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. 4. SHATZ, Marshall S., «Review: Wexler, ‘Emma Goldman in Exile’», in The Jewish Quarterly Review, 83, 3-4/1993, pp. 458-460, p. 458. 5. For a detailed discussion of the Russian Revolution and its perception by international anarchism see: KELLERMANN, Philippe (hrsg. von), Anarchismus und Russische Revolution, Berlin, Dietz, 2017. For a broader discussion of the hopes of left intellectuals related to the Russian events see: CAUTE, , The Fellow-Travellers. Intellectual Friends of Communism, New Haven (CT), Yale University Press, 1988, pp. 215-237. For the perspectives of other Western visitors to post- revolutionary Russia see: FOX, Michael David, Showcasing the Great Experiment. Cultural Diplomacy and Western Visitors to the Soviet Union, 1921-1941, Oxford, Oxford University Press, 2012.

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6. HOBSBAWM, Eric, Age of Extremes. The Short Twentieth Century, 1914-1991, London, Abacus, 1995. 7. For a broader discussion of this topic see: JACOB, Frank, Emma Goldman und die Russische Revolution, in JACOB, Frank, ALTIERI, Riccardo (hrsg von), Die Wahrnehmung der Russischen Revolutionen 1917. Zwischen utopischen Träumen und erschütterter Ablehnung, Berlin, Metropol, 2018, Forthcoming. 8. AVRICH, Paul, «Russian Anarchists and the Civil War», in The Russian Review, 27, 3/1968, pp. 296-306, p. 296. The further discussion of the Anarchist positions follows Averich’s analysis. 9. Ibidem, p. 297. 10. Ibidem, p. 298. 11. BERKMAN, Alexander, The Bolshevik Myth, New York, Boni and Liveright, 1925, p. 319. 12. SHATZ, Marshall S., op. cit., p. 459. For the Bakunin-Marx Schism see: ECKHARDT, Wolfgang, The First Socialist Schism. Bakunin vs. Marx in the International Working Men’s Association, Oakland (CA), PM Press, 2016. 13. WEXLER, Alice, Emma Goldman in Exile. From the Russian Revolution to the Spanish Civil War, Boston, Beacon Press, 1989, p. 58. 14. Ibidem, p. 80. 15. SHATZ, Marshall S., op. cit., p. 460. 16. GOLDMAN, Emma, Living My Life, New York, Knopf, 1931, Ch. 45, URL: < https:// theanarchistlibrary.org/library/emma-goldman-living-my-life > [accessed 8 July 2017]. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ibidem. 20. Ibidem. 21. Ibidem, Ch. 47. 22. Ibidem. 23. BERKMAN, Alexander, The Russian Tragedy. A Review and An Outlook, N. P., The Anarchist Library, 1922, p. 6, URL: < https://ia800808.us.archive.org/27/items/ al_Alexander_Berkman_The_Russian_Tragedy_A_Review_and_An_Outlook_a4/ Alexander_Berkman__The_Russian_Tragedy__A_Review_and_An_Outlook__a4.pdf > [accessed 8 July 2017]. 24. Ibidem, p. 7. 25. Ibidem. 26. Ibidem, p. 8. 27. Ibidem. 28. Ibidem, p. 3. 29. Ibidem, p. 4. 30. Ibidem. 31. Ibidem. 32. Ibidem, p. 10. 33. Ibidem, p. 11. 34. Ibidem, p. 12. 35. Ibidem. 36. Ibidem, p. 14. 37. Ibidem. 38. Ibidem, p. 18. 39. GOLDMAN, Emma, My Disillusionment in Russia, New York, Doubleday, 1923, URL: < https:// www.marxists.org/reference/archive/goldman/works/1920s/disillusionment/index.htm > [accesed 15 July 2017]. 40. GOLDMAN, Emma, BERKMAN, Alexander to Lenin, circa March 1920, RGASPI (Russian State Archive of Social and Political History), URL: < http://www.lib.berkeley.edu/goldman/images/

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eg30%20Goldman%20and%20Berkman%20Pose%20Questions%20to%20Lenin-large.jpg > [accessed 03 February 2018]. 41. GOLDMAN, My Disillusionment in Russia, New York, Doubleday Page & Co., 1923 42. Ibidem. 43. Ibidem. 44. Ibidem. 45. Ibidem. 46. GOLDBERG, Harold J., «Goldman and Berkman View the Bolshevik Regime», in The Slavonic and East European Review, 53, 131/1975, pp. 272-276, p. 272. 47. Ibidem. 48. Goldman to Elizabeth Gurley Flynn, January 10, 1920, Elizabeth Gurley Flynn Papers, Wisconsin State Historical Society, cited in ibidem, p. 273. 49. Ibidem, pp. 237-274. 50. Goldman to ?, Moscow, 23 July, 1921, p. I, Yivo Institute of Jewish Research, New York, cited in ibidem, pp. 275-276. 51. DRINNON, Richard, DRINNON, Anna Maria (eds.), Nowhere at Home. Letters from Exile of Emma Goldman and Alexander Berkman, New York, Schocken Books, 1977, pp. 17-63. 52. BERKMAN, Alexander, GOLDMAN, Emma, «Bolsheviks Shooting Anarchists», in Freedom, 36, 391, 1922, p. 4. 53. Ibidem. 54. Ibidem. 55. «Bolshevik Blunders Bared by Goldman», in The Washington Times, 27 March 1922, pp. 1-2, p. 1. 56. Ibidem. 57. Ibidem. 58. RICHARD, Carl J., When the United States Invaded Russia. Woodrow Wilson’s Siberian Disaster, Lanham (MD), Rowman & Littlefield, 2013. 59. GOLDMAN, Emma, The Crushing of the Russian Revolution, London, Freedom Press, 1922, University of Warwick Library Special Collections, JD 10.P6 PPC 1684. 60. Ibidem, p. 3. 61. Ibidem. 62. Ibidem, p. 5. 63. Ibidem. 64. Ibidem, p. 7. 65. Ibidem. 66. Ibidem. 67. BERKMAN, Alexander, The Russian Tragedy, cit., p. 4. 68. Ibidem, p. 5. 69. GOLDMAN, Emma, My Disillusionment in Russia, Ch. 29, emphasis by the author. 70. Ibidem. 71. Ibidem. 72. DURHAM, Martin, «British Revolutionaries and the Suppression of the Left in Lenin’s Russia, 1918-1924», in Journal of Contemporary History : Working-Class and Left-Wing Politics, 20, 2/1985, pp. 203-219, p. 204. 73. For some examples, see Freedom, March 1918, October 1918, April 1919 and Spur, July 1918, September 1918, February 1919. 74. GOLDMAN, Emma, «Speech at Dinner in London», November 12, 1924, International Insitute of Social History, Amsterdam, Emma Goldman Papers, No. 284, p. 2. 75. Ibidem, p. 3. 76. Ibidem.

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77. GOLDMAN, Emma, «What I saw in Russia», International Insitute of Social History, Amsterdam, Emma Goldman Papers, No. 284. 78. Ibidem. 79. Emma Goldman to Roger Baldwin, London, November 6, 1924, Emma Goldman Papers, International Insitute of Social History, Amsterdam, (EGP-IISH), No. 52, p. 2. 80. Ibidem. 81. Emma Goldman to Alexander Berkman, London, December 22, 1924, (EGP-IISH), No. 23, p. 1. 82. MOHRENSCHILDT, Dimitri von, «The Early American Observers of the Russian Revolution, 1917-1921», in The Russian Review, 3, 1/1943, pp. 64-74, p. 65. 83. Ibidem, p. 67. 84. Ibidem, p. 74. 85. Berkman vehemently criticized such activities. See: BERKMAN, Alexander, The Russian Tragedy, cit., p. 6. 86. Letter to Roger Baldwin, Berlin, June 3, 1924, Emma Goldman Papers, New York Public Library, ZL-386, Reel 1 (EGP-NYPL), p. 1. 87. Ibidem. 88. Roger Baldwin to Emma Goldman, New York, November 24, 1924, EGP-NYPL, p. 2. 89. Emma Goldman to Roger Baldwin, London, January 5, 1925, EGP-NYPL, p. 2. 90. Emma Goldman to Mrs. J.D. Campbell, St. Johns Wood, London, January 30, 1925, EGP-NYPL, p. 3. 91. Emma Goldman to Bertrand Russell, London, February 9, 1925, EGP-NYPL, p. 1. 92. Emma Goldman to Roger Baldwin, Norwich, April 20, 1925, EGP-NYPL, pp. 1-2. 93. Ibidem, p. 2. 94. Ibidem. 95. Ibidem. 96. Nevertheless, the Great Depression in the United States would cause another turn towards the Soviet Union by left intellectuals in the Western world. For a detailed discussion see: CLARK, Katherina, Moscow, the Fourth Rome. Stalinism, Cosmopolitanism, and the Evolution of Soviet Culture, 1931-1941, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2011; STERN, Ludmilla, Western Intellectuals and the Soviet Union, 1920-40. From Red Square to the Left Bank, London – New York, Routledge, 2006. 97. NARDEEN, Bruno, Socialist Europe and Revolutionary Russia. Perception and Prejudice 1848-1923, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 445-514. 98. In Latin America and Asia, the appraisal of revolutionary concepts developed differently.

ABSTRACTS

Since she was one of the most important US anarchists, one might assume that Emma Goldman was in favor of the Bolshevists. However, while she supported the basic idea of the Russian Revolution, she criticized the Bolshevists for establishing a dictatorship based on terror and suppression of those, who criticized them. From her exile in England and France she was writing countless letters to emphasize that the Bolsheviks were not representing the hope for world revolution and the freeing of the international workers, but that they would use and corrupt the revolutionary ideals to establish rule and remain in power. This paper analyzes those writings to

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show how the hopes related to the events of 1917 were disappointed by the political realities and how the events impacted the life of Emma Goldman directly.

In considerazione del fatto che fu una delle più importanti anarchiche degli Stati Uniti, si potrebbe pensare che Emma Goldman vedesse con favore i bolscevichi. Tuttavia, mentre sosteneva i fondamenti della Rivoluzione russa, criticava al contempo i bolscevichi per aver instaurato una dittatura basata sul terrore e sulla repressione di coloro che la criticavano. Dal suo esilio in Inghilterra e in Francia scrisse numerose lettere sottolineando come i bolscevichi non rappresentassero la speranza di una rivoluzione globale e della liberazione dei lavoratori internazionali, ma che avrebbero usato e corrotto gli ideali rivoluzionari per instaurare il loro potere e conservarlo. Questo articolo analizza questi scritti per mostrare come le speranze legate agli eventi del 1917 furono deluse dalla realtà politica e come quegli eventi ebbero un impatto diretto sulla vita di Emma Goldman.

INDEX

Keywords: Russian Revolution, Emma Goldman, Socialism, Anarchism, Feminism Parole chiave: Rivoluzione russa, Emma Goldman, socialismo, anarchismo, femminismo

AUTHOR

FRANK JACOB Frank Jacob is Assistant Professor of World History at the City University of New York. He has published more than 20 books and 90 articles and book chapters. His recent books include The Russo-Japanese War (London – New York, Routledge, 2018) and its Shaping of the 20th Century (London – New York, Routledge, 2018). He is the editor of seven academic series, three academic journals and the recipient of the 2016 CUNY Academy Henry Wasser Award for Outstanding Assistant Professors. His research foci include Modern Japanese History, the History of Socialism, Military History, as well as Revolutions and Nationalism. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Jacob >

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III. Recensioni

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Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli Ebrei da Herzl a oggi

Elisa Tizzoni

NOTIZIA

Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli Ebrei da Herzl a oggi, Roma, Carocci, 2017, 256 pp.

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1 In un momento storico di forte instabilità per lo Stato di Israele, in parte conseguenza di scelte controverse operate dalle sue classi dirigenti, la Storia dei sionismi di Arturo Marzano 1 offre un contributo di grande valore alla comprensione delle fratture che ancora oggi impediscono la convivenza pacifica tra popolazione ebraica ed araba, innescando una serie di reazioni a catena che si estendono ben al di là dello scacchiere mediorientale.

2 La pubblicazione di quest’opera, come sottolineato dallo stesso autore, avviene in un anno, il 2017, nel quale ricorrono gli anniversari di alcuni degli eventi più significativi per la storia del sionismo (tra i quali il centenario della dichiarazione Balfour2), che hanno suscitato interesse per la storia di questo movimento ma anche forti polemiche contro alcune delle iniziative assunte per commemorare queste ricorrenze3.

3 Il testo, che raccoglie i risultati di oltre vent’anni di ricerche da parte dell’autore, affronta l’evoluzione del sionismo padroneggiando concetti elaborati dalla scienza politica, dalla sociologia, dalla filosofia4, mantenendo una costante attenzione alla concretezza delle vicende storiche che, probabilmente, deriva dell’esperienza professionale ed umana maturata da Marzano in Medio Oriente come inviato di una nota associazione internazionale impegnata nella cooperazione internazionale.

4 L’opera, dunque, propone una rilettura complessiva e plurale del movimento che ha condotto alla nascita dello Stato di Israele e ne ha condizionato successivamente le vicende, individuando contenuti ideologici, strumenti di comunicazione e lotta politica, gruppi sociali e aree territoriali di riferimento, personalità di spicco dei diversi sionismi (la scelta della forma plurale nel titolo non è casuale). La scelta di adottare un orizzonte temporale che giunge sino ai giorni nostri definisce ulteriormente l’originalità del volume nei confronti della gran parte delle storie del sionismo pubblicate negli scorsi decenni, che concludono la trattazione con la nascita dello stato di Israele5, ignorando il fatto che «il sionismo […] non solo ha continuato ad esistere dopo di allora, ma è anche profondamente mutato nei decenni successivi»6.

5 I primi capitoli prendono in esame i decenni centrali del XIX secolo, quando si sviluppò un vivace dibattito sul futuro della popolazione ebraica, che contrapponeva “assimilazione” e “nazionalismo ebraico” e, all’interno di questa seconda opzione, si interrogava su un possibile ritorno ad Eretz Israel (la “Terra di Israele”, definizione carica di complessi significati culturali e religiosi)7, in conseguenza dell’ineguale penetrazione degli ideali di fraternità e uguaglianza scaturiti dalla Rivoluzione francese nei diversi paesi di residenza delle comunità ebraiche.

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6 Come ci aspetteremmo, l’autore dedica particolare attenzione alla figura di Theodor Herzl e al suo operato e ricostruisce con chiarezza le intricate vicende che precedettero il Congresso di Basilea (1897) e, con esso, l’affermazione del “sionismo politico”, secondo il quale «il consenso dei governi era prioritario»8, nei confronti di altri movimenti (il più rilevante dei quali fu il Bund9) e correnti interne (in particolare il cosiddetto “sionismo pratico”, a favore di un’immediata ed effettiva occupazione dei territori di Eretz Israel).

7 La trattazione prosegue occupandosi delle conseguenze della seconda aliyah10 (1904-1914), esaminando in che modo il sionismo fu influenzato dal pensiero socialista russo, data la pregressa militanza di numerosi aderenti nelle fila di movimenti operai dell’est europeo, e ricapitolando i termini principali del dibattito storiografico sull’atteggiamento “coloniale” che la comunità ebraica immigrata in Palestina avrebbe assunto nei confronti della popolazione araba11.

8 La prima parte del volume si chiude con due capitoli dedicati, rispettivamente, alla Dichiarazione Balfour e al consolidamento della presenza ebraica in Palestina negli anni del mandato britannico (1920-1948), nei quali l’autore riconduce il sostegno della Gran Bretagna alla costituzione di uno stato ebraico a ragioni di politica estera ed economica12 e rilegge l’epoca della leadership di Ben Gurion e del predominio del sionismo socialista alla luce del “problema arabo”, divenuto centrale a seguito dell’inasprirsi degli scontri tra coloni ebrei e popolazione araba e dell’emarginazione delle correnti del sionismo favorevoli alla creazione di uno stato bi-nazionale in Palestina.

9 La seconda parte del testo prende le mosse dall’approvazione della Risoluzione n. 181 da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni unite (1947) per proporre una rilettura globale della storia dello Stato di Israele dalla prospettiva del confronto e scontro tra le diverse anime del sionismo.

10 Il primo nucleo di riflessioni concerne il «trattamento decisamente discriminatorio»13 riservato alla popolazione araba nei primi decenni di esistenza di Israele, che trovava fondamento nelle norme in vigore (la Dichiarazione di indipendenza e la nota “Legge del ritorno,” che escludeva dall’attribuzione della cittadinanza israeliana coloro che non professassero la religione ebraica) e in provvedimenti che penalizzavano i cittadini arabi, imponendo loro un regime separato di tipo militare, abolito solo nel 1966.

11 Marzano dedica ampio spazio alla controversia storiografica sorta attorno alla “questione araba”, citando, fra gli altri, Ilan Pappe, che ha accusato i governi israeliani di aver condotto una vera e propria “pulizia etnica”14, Benny Morris, secondo il quale l’esodo della popolazione araba dai territori israeliani fu dovuto a numerose concause, tra le quali la condotta delle élite palestinesi15, e Shira Robinson, che ha coniato l’efficace definizione di “stato liberal-coloniale” per descrivere il regime adottato in Israele.

12 L’autore, evitando coerentemente di lasciarsi coinvolgere dalle polemiche scaturite dal confronto tra New Historians e storiografia tradizionale, si sofferma nuovamente sulle “possibilità mancate” da parte del sionismo, attraverso il riferimento alle voci di chi, come Hannah Arendt, si fece promotore della convivenza paritaria e pacifica tra popolazione ebraica ed araba, destinate a rimanere sostanzialmente inascoltate da parte della classe al potere in Israele.

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13 Il volume procede con un capitolo dedicato alla cesura storica determinata dalla vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni, che creò un clima propizio alla diffusione del sionismo religioso, chiuso alle rivendicazioni della popolazione araba, e alla colonizzazione della Cisgiordania, all’interno di «un progetto condiviso da ampi settori della politica, della cultura e della società israeliana», pur se accompagnato da una dura critica di stampo anti-sionista16.

14 Segue un esame di un altro momento chiave della storia di Israele, la vittoria alle elezioni legislative del 1977 da parte del Likud, partito della destra erede del sionismo revisionista, che diede nuovo impulso alla colonizzazione dei Territori palestinesi e al «progressivo sdoganamento di una retorica che non nascondeva più il proprio razzismo nei confronti degli arabi»17.

15 Il volume si conclude con l’esame delle pagine più recenti della storia di Israele: gli Accordi di Oslo (1993) e l’attività politica di Yitzhak Rabin, che ne fu il promotore, sono pertanto ricondotti ad una declinazione del sionismo che accordava la priorità alla sicurezza dello Stato di Israele, indipendentemente dalle eventuali variazione dei suoi confini, contrapposta ad una corrente che considerava irrinunciabile il mantenimento dei Territori occupati, che sarebbe prevalsa con il ritorno al potere del Likud.

16 Le vicende attraversate da Israele nell’ultimo ventennio, dall’omicidio di Rabin all’approvazione del protocollo di Hebron (1997), fino alla stipula degli accordi di Annapolis (2007), sono rievocate al fine di introdurre un ultimo capitolo, certamente il più “difficile” da un punto di vista storiografico, nel quale l’autore ritrae il sionismo dei nostri giorni. In queste pagine Marzano opera una distinzione tra corrente autoritaria, incarnata dal premier Benjamin Netanyahu, “sionismo critico”, al quale afferiscono coloro che contestano in maniera più o meno radicale diversi aspetti della storia della nazione ebraica, e pensiero post-sionista, secondo il quale il modello di Stato ebraico sinora adottato da Israele dovrebbe evolversi in un ordinamento “alternativo”, per citare il titolo di un noto articolo di Tony Judt, basato sulla piena parità di diritti tra popolazione araba ed ebraica18, evitando di cadere nella trappola di coloro che cercano di mettere a tacere l’opposizione all’attuale condotta politica dei governi israeliani accusandola di antisemitismo.

17 In conclusione del volume Marzano, pur soffermandosi sulla gravità della crisi politica del Medio Oriente e sulle contraddizioni nelle quali si dibatte il sionismo contemporaneo, propone argomenti a favore di una possibile, pur se complessa, normalizzazione dei rapporti tra popolazione ebraica ed araba, attribuendo al suo lavoro storiografico una funzione civile che arricchisce ulteriormente il valore dell’opera.

18 Nell’insieme, dunque, il volume potrà interessare un pubblico che non sia limitato ai soli specialisti ed essere utilizzato a scopi didattici, sebbene non includa un apparato documentario che avrebbe potuto agevolare la lettura da parte di chi non ha una consuetudine di lunga data con i temi trattati (sono presenti, tuttavia, numerosi riferimenti a documenti e fonti disponibili online).

19 In conclusione, la Storia dei sionismi di Arturo Marzano, mettendo a frutto l’ampia conoscenza della letteratura esistente in una trattazione originale e, per certi versi, controcorrente, è destinata a divenire un punto di riferimento nell’attuale panorama di studi, fornendo materiali e suggestioni per future ricerche su questo movimento.

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NOTE

1. MARZANO, Arturo, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Roma, Carocci, 2017. Arturo Marzano è attualmente professore associato nel settore disciplinare Storia e Istituzioni dell’Asia presso il Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa. 2. Nel 2017 ricorrono i 120 anni dal primo congresso sionista di Basilea e i 70 anni dalla Risoluzione n. 181 delle Nazioni Unite con la quale si adottava un piano per la nascita di uno stato ebraico in Palestina, oltre ad altri anniversari citati puntualmente nel volume. 3. Sulle polemiche associate alla commemorazione del Centenario della Dichiarazione Balfour si veda BLACK, Ian, «The Contested Centenary of Britain’s ‘Calamitous Promise’», in The Guardian, 17 ottobre 2017, URL: < http://www.theguardian.com > [consultato il 7 dicembre 2017]. 4. BIDUSSA, David, Il sionismo politico, Milano, Unicopli, 1993; BENSOUSSAN, Georges, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale 1860-1940, Torino, Einaudi, 2007. 5. È il caso di opere note ed ampiamente utilizzate a scopo didattico oltre che di ricerca, tra le quali HERTZBERG, Arthur (edited by), The Zionist Idea: A Historical Analysis and Reader, Philadelphia, The Jewish Publication Society, 1959; LAQUEUR, Walter, A History of Zionism, New York, Schocken Books, 1972; AVINERI, Shlomo, The Making of Modern Zionism: Intellectual Origins of the Jewish State, New York, Basic Books, 1981; DIECKHOFF, Alain, L’invention d’une nation: Israël et la modernité politique, Parigi, Gallimard, 1993; GOLDBERG, David J., Verso la terra promessa. Storia del pensiero sionista, Bologna, il Mulino, 1999 [Ed. originale: Towards the Promised Land. A History of Zionist Thought from its origins to the modern state of Israel, London, Penguin, 1996]; BRENNER, Michael, Breve storia del sionismo, Roma-Bari, Laterza, 2003 [Ed. originale: Geschichte des Zionismus, München, Beck TB, 2002]. 6. MARZANO, Arturo, Storia dei sionismi, cit., p. 11. 7. BENSOUSSAN, Georges, op. cit. 8. MARZANO, Arturo, Storia dei sionismi, cit., p. 4. 9. Con il termine Bund si indica comunemente la Lega generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Russia e Polonia, filiazione del movimento operaio russo di orientamento anti-sionista (per un quadro generale della storiografia in materia si veda WOLFF, Frank, «Historiography on the General Jewish Labor Bund: Traditions, Tendencies and Expectations», in Medaon, 4/2009, URL: < http://www.medaon.de/pdf/M_Wolff-4-2009.pdf > [consultato il 7 dicembre 2017]. 10. Trascrizione del termine ebraico con il quale si indica l’immigrazione in Palestina. 11. PENSLAR, Derek J., «Zionism, colonialism and Postcolonialism», in Journal of Israeli History, 20, 2-3/2001, pp. 84-98. 12. L’autore riprende un’interpretazione proposta in MARZANO, Arturo, «Il ruolo del petrolio nella politica britannica in Mesopotamia (1900-1920)», in Il Politico, 4/1996, pp. 629-650. 13. MARZANO, Arturo, Storia dei sionismi, cit., p. 128. 14. ARENDT, Hannah, Ebraismo e modernità, Milano, Unicopli, 1986 [Ed. originale: The Jew As Pariah. Jewish Identity and Politics in the Modern Age, New York, Grove Press, 1978]. 15. MARZANO, Arturo, Storia dei sionismi, cit., p. 149. 16. Ibidem. 17. Ibidem, p. 164 18. JUDT, Tony, «Israel: The Alternative», in The New York Review of Books, 23 ottobre 2003, URL: < http://www.nybooks.com/articles/2003/10/23/israel-the-alternative/ > [consultato il 7 dicembre 2017].

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AUTORI

ELISA TIZZONI Elisa Tizzoni (La Spezia, 1983), PhD in Storia contemporanea, ha svolto incarichi di ricerca e didattica presso le Università di Pisa, Firenze, Nizza, Salisburgo, e presso diverse istituzioni culturali. Nel 2017 ha ottenuto una borsa di ricerca Postgraduate Vibeke Sørensen Grant presso l’Historical Archives of the European Union a Firenze. Le sue pubblicazioni comprendono oltre una trentina di articoli e saggi in italiano, francese e inglese, principalmente nell’ambito della storia del turismo. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Tizzoni >

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Marco De Paolis, Paolo Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013

Andrea Martini

NOTIZIA

Marco De Paolis, Paolo Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016, 168 pp.

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1 Il libro inaugura una collana di studi curata dagli stessi Marco De Paolis1 e Paolo Pezzino2 e dedicata ai processi per crimini di guerra tedeschi in Italia. Il progetto prevede la pubblicazione di dieci volumi, di cui nove analizzano ciascuno una strage e la corrispettiva vicenda processuale, mentre il primo, oggetto di questa recensione, intende ricostruire l’atteggiamento assunto, dal dopoguerra ad oggi, dalla giustizia italiana al cospetto dei crimini di guerra nazisti.

2 L’opera è suddivisa in tre parti. La prima è scritta da Paolo Pezzino che ha dedicato la maggior parte della sua carriera allo studio delle stragi naziste3 e si concentra sugli anni Quaranta e Cinquanta: l’autore osserva come sin dal 1943 si discusse su chi avrebbe dovuto giudicare i tedeschi macchiatisi di crimini verificatisi in Italia, aprendo una controversia destinata a concludersi soltanto nell’estate del 1947 quando il governo italiano ottenne l’autorizzazione ad istruire i primi processi. Questa stagione giudiziaria, però, si concluse assai presto, secondo l’autore già il 31 ottobre 1951, con la condanna all’ergastolo del maggiore delle SS Walter Reder comminatagli dal Tribunale militare di Bologna, ma con un bilancio progressivo ben più magro: solo tredici procedimenti giunti a sentenza e diciotto archiviati in fase istruttoria4. Da allora sino agli anni Novanta, vennero celebrati solamente due processi, per giunta contro imputati latitanti, e nel frattempo il Procuratore generale militare Enrico Santacroce archiviò in modo illegittimo ben 695 fascicoli giudiziari riguardanti crimini di guerra tedeschi destinandoli ad una stanza della Procura dove rimasero inutilizzati dal 1960 al 1994.

3 È proprio dalla metà degli anni Novanta che prende avvio la narrazione di Marco De Paolis che nella seconda parte del libro ricostruisce le vicende giudiziarie verificatesi sino al 2013. De Paolis sottolinea come la riscoperta dei fascicoli sancì l’inizio di una nuova stagione processuale durata circa otto anni e rivelatasi alquanto inconcludente: i processi celebrati furono soltanto cinque, mentre assai numerosi furono i decreti di archiviazione emessi per la morte del reo o perché gli autori dei fatti erano stati ritenuti ignoti. Poi nel 2002 avvenne la svolta, favorita da alcuni episodi verificatisi nell’arco di pochi giorni: l’11 aprile l’emittente tedesca ARD mandò in onda un servizio giornalistico che mostrava come molti criminali di guerra nazisti vivessero indisturbati in Germania, il programma suscitò scalpore nell’opinione pubblica tedesca e, naturalmente, in quella italiana che ne venne a conoscenza pochi giorni più tardi; il 17 aprile il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi accompagnò il presidente della Repubblica Federale di Germania, Johannes Rau, alla visita del Sacrario di Marzabotto in cui la massima autorità tedesca chiese perdono per i crimini compiuti durante il conflitto mondiale; il 20 aprile, infine, il procuratore capo della Procura di Stato di Monaco di Baviera, Manfred Vick, manifestò l’interesse del governo a collaborare con le autorità giudiziarie italiane. Ma se la giustizia si mise in moto fu

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soprattutto per merito della Procura militare di La Spezia e dell’intraprendenza dello stesso De Paolis che nell’aprile del 2002 vi aveva assunto la carica di procuratore militare. Da quel momento, furono più di settanta i rinviati a giudizio e più di cinquanta le condanne all’ergastolo inflitte, la maggior parte di queste confermate nei successivi gradi di giudizio.

4 Il libro si conclude con un’interessante appendice documentaria che, tra l’altro, fornisce al lettore una scheda riassuntiva di tutti i procedimenti e i processi intentati in Italia per crimini di guerra tra il 2003 e il 2013.

5 Senza dubbio sul tema disponiamo di un’abbondante storiografia – si pensi, ad esempio, allo studio di Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer e alle ricerche di Mimmo Franzinelli e Michele Battini5 – eppure De Paolis e Pezzino confezionano un’opera originale che ha il duplice merito di ricostruire i fatti in modo sintetico e di adoperare alcune interessanti chiavi di lettura. Il libro osserva con particolare attenzione come la ragion di stato e la mentalità della magistratura militare abbiano inciso sull’altalenante e contradditorio percorso della giustizia. Nell’immediato dopoguerra, le autorità italiane furono più interessate a coprire i propri crimini di guerra – impedendo che i responsabili venissero sottoposti al giudizio di corti straniere o di tribunali internazionali – piuttosto che ad invocare la punizione dei criminali nazisti. Negli anni Novanta, fu sempre un atteggiamento di realpolitik ad indurre le istituzioni a non prendere posizione in merito al ritrovamento dei fascicoli processuali archiviati illegittimamente nel 1960, dando l’impressione che il gesto di Santacroce combaciasse con la volontà dello Stato di chiudere definitivamente i conti con un passato che, invece, per i parenti delle vittime delle stragi naziste stentava a “passare”6. Dalla ricostruzione di De Paolis è particolarmente interessante rilevare come la procura militare di La Spezia – fatto salvo per il sostegno di una parte dell’opinione pubblica e dei media locali e nazionali oltre che dei comuni liguri, toscani ed emiliano romagnoli – sia stata a lungo mal supportata dalle istituzioni centrali, costringendola a risolvere personalmente una serie di problemi pratici scaturiti dall’apertura di così tante inchieste in un breve torno di tempo.

6 Per quanto concerne la mentalità della magistratura, Pezzino, analizzando le sentenze emesse da alcuni Tribunali militari nel dopoguerra, ha dedotto come i collegi giudicanti fossero accomunati da una palese difficoltà nel rapportarsi al fenomeno del partigianato e a declinare il concetto di “responsabilità”.

7 Nel caso, ad esempio, della sentenza pronunciata nel luglio 1948 dal Tribunale militare di Roma nei riguardi del tenente colonnello e di altri cinque ufficiali e sottufficiali delle SS in merito all’eccidio delle Fosse Ardeatine7, i giudici non qualificarono l’attentato di via Rasella come il frutto di un’azione partigiana bensì come «un atto illegittimo di guerra» compiuto da un corpo di volontari che non aveva assunto «proporzioni di largo rilievo»8, nonostante la storiografia negli anni successivi sarebbe stata concorde nel considerare quell’operazione come una delle più importanti azioni gappiste della Resistenza italiana9. Per quanto concerne il concetto della responsabilità, i giudici manifestarono altrettanto imbarazzo al punto che optarono per assolvere tutti gli imputati, fatta eccezione per Kappler, condannato all’ergastolo perché colpevole di non aver ottemperato ad alcun criterio di proporzionalità nella rappresaglia scattata nelle ore immediatamente successive all’attentato. Ad avviso del collegio, gli altri accusati erano innocenti poiché, essendo di grado inferiore, non potevano disobbedire agli ordini di Kappler e né immaginare che quest’ultimo stesse

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attuando una rappresaglia indiscriminata. Infine, secondo il Tribunale si doveva considerare che gli accusati appartenevano tutti ad un corpo, quello delle SS, basato sulla rigida disciplina «dove assai facilmente si acquistava un abito mentale portato alla obbedienza pronta»: si tratta di un’argomentazione – commenta Pezzino – che paradossalmente finisce per trasformare in una giustificazione e non in un attestato di colpa l’adesione alle SS10.

8 Lo stesso autore evidenzia come le difficoltà dimostrate dai Collegi derivassero innanzitutto dalla condizione di dover pronunciarsi su situazioni ed avvenimenti «in qualche misura “nuovi”» su cui la giurisprudenza internazionale non aveva ancora fatto chiarezza11, in secondo luogo si deve tener conto della «forte contiguità istituzionale e culturale» che la magistratura militare aveva con le forze armate e con il ventennio fascista12: si trattò di condizionamenti che indussero le Corti a restringere il più possibile il concetto di responsabilità e a sottostimare il fenomeno della Resistenza13. È però necessario precisare come la condotta dei Tribunali militari non sia sempre stata univoca. Nel caso, ad esempio, della sentenza pronunciata dalla Corte di Bologna nell’ottobre del 1951 contro Walter Reder, il collegio fornì una lettura piuttosto raffinata del partigianato definendolo «una realtà storica le cui concrete proporzioni non debbono essere trascurate» e che contraddistingue «la guerra moderna»14. Ad avviso dei giudici, il fatto che il diritto internazionale non lo avesse ancora normato non doveva indurre la giurisprudenza a liquidarlo come un fenomeno privo di legittimità. Anche riguardo il concetto di responsabilità, la Corte sottolineò come le colpe per le stragi di Bardine di San Terenzo, Valla, Vinca e Marzabotto non potessero essere circoscritte al solo Reder, comandante del battaglione ricognizione della 16a Panzer-Grenadier-Division, bensì anche ad una serie di militari di grado inferiore. Ciò nonostante il Tribunale non procedette alla loro incriminazione, sebbene alcuni di essi fossero stati individuati, a riprova di come anche la magistratura più sensibile al tema dei crimini di guerra non fosse ancora pronta ad allargare il raggio dell’indagine a tutti quegli ufficiali superiori e inferiori e quei sottufficiali tedeschi corresponsabili di fatti di sangue verificatisi in Italia. Tale mentalità giuridica venne scardinata soltanto all’inizio del nuovo millennio grazie alla caparbia azione della Procura militare di La Spezia la quale chiese che la responsabilità del massacro di centinaia di persone non rimanesse circoscritta «alla esclusiva (e simbolica) responsabilità del comandante del reparto, ma […] ripartita e condivisa tra tutti i soggetti che parteciparono consapevolmente all’azione»15. Il tribunale militare legittimò tale interpretazione spiccando numerose condanne e sancendo, più in generale, un vero e proprio rovesciamento di paradigma. Lo stesso tribunale avrebbe pure sancito un ulteriore avanzamento della giurisprudenza, riconoscendo l’ammissibilità della chiamata a giudizio di uno Stato estero come responsabile civile in ordine ai danni da crimine di guerra, tuttavia tale principio è stato contrastato dalla Germania e confutato dalla Corte di giustizia dell’Aia che lo ha definito una violazione delle norme del diritto internazionale. A prescindere da quest’ultima controversia, il saggio di De Paolis mostra quanto tempo sia occorso alla magistratura militare affinché adottasse un nuovo modus operandi e rivela quanto decisivo sia stato il ruolo del procuratore della Spezia prima che nel 2008 venisse trasferito a Verona e poi a Roma.

9 Proprio il fatto che uno degli autori del libro sia stato anche protagonista diretto delle vicende narrate costituisce un altro elemento di estremo interesse de La difficile giustizia la quale è al contempo sia un’opera storiografica che di testimonianza oltre che una ricerca che intreccia due approcci diversi, quello dello storico e quello del giurista. Tra

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gli autori si nota, in particolare, una differenza sul compito attribuito alla giustizia: De Paolis affida infatti a questa l’incarico di proteggere come «uno scudo solido e imparziale» la realtà storica dei fatti, difendendola da ogni tentativo negazionista e deformante16, mentre Pezzino sottolinea i limiti del diritto penale di fronte a questioni così controverse e rileva come una nuova stagione – quella della politiche della memoria – debba ora prendere il sopravvento rispetto a quella giudiziaria. Si tratta di una diversità di vedute ben radicata tra studiosi di storia e di diritto, su cui forse gli autori avrebbero potuto accennare in una comune introduzione. In ogni caso tale approccio differente non impoverisce bensì arricchisce il libro il quale, nel complesso, contribuisce in modo significativo all’avanzamento degli studi riguardanti i crimini di guerra tedeschi e la storia della magistratura militare.

NOTE

1. Marco De Paolis ha diretto la Procura militare della Repubblica di La Spezia dal 2002 al 2008, dove ha istruito oltre 450 procedimenti per crimini di guerra durante il secondo conflitto mondiale. È stato pubblico ministero, tra gli altri, nei processi per le stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Monte Sole-Marzabotto, e per l’eccidio di Cefalonia. Attualmente dirige la Procura militare della Repubblica di Roma. 2. Paolo Pezzino ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Pisa ed è stato consulente tecnico della Procura militare di La Spezia nelle indagini sulle stragi nazifasciste. Coordina il Comitato scientifico del progetto per un Atlante delle stragi nazifasciste in Italia. 3. Sia dato di ricordare almeno: BATTINI, Michele, PEZZINO, Paolo, Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; FULVETTI, Gianluca, PEZZINO, Paolo (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue: l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016. 4. DE PAOLIS, Marco, PEZZINO, Paolo, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia: 1943-2013, Roma, Viella, 2016, pp. 53-54. 5. FOCARDI, Filippo, KLINKHAMMER, Lutz, «La questione dei “criminali di guerra” italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata», in Contemporanea, IV, 3/2001, pp. 497-528; FRANZINELLI, Mimmo, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Milano, Mondadori, 2003; BATTINI, Michele, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Roma-Bari, Laterza, 2003. 6. CONAN, Éric, ROUSSO, Henry, Vichy, un passé qui ne passe pas, Paris, Fayard, 2013 [Ed. originale: 1994]. 7. Sull’argomento si rinvia a PORTELLI, Alessandro, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999. 8. DE PAOLIS, Marco, PEZZINO, Paolo, La difficile giustizia, cit., p. 57. Per consultare la sentenza nella sua versione integrale, cfr. ASCARELLI, Attilio, Le Fosse Ardeatine, Roma, Edizioni ANFIM, 1984. 9. Sui Gap, si veda PELI, Santo, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Torino, Einaudi, 2014. 10. DE PAOLIS, Marco, PEZZINO, Paolo, La difficile giustizia, cit., p. 61. 11. Ibidem, p. 53. 12. Ibidem.

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13. Cfr. LABANCA, Nicola, RIVELLO, Pier Paolo (a cura di), Fonti e problemi per la storia della giustizia militare, Torino, Giappichelli, 2004. 14. DE PAOLIS, Marco, PEZZINO, Paolo, La difficile giustizia, cit., p. 66. 15. Ibidem, p. 135. 16. Ibidem, p. 147.

AUTORI

ANDREA MARTINI Andrea Martini ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli con una tesi intitolata «Il diavolo nel cassetto». Collaborazionismi e procedure di giustizia in Italia (1944-1953). Ha pubblicato la monografia Processi alle fasciste (Verona, Scripta, 2015). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Martini >

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Nicola De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere

Matteo Anastasi

NOTIZIA

Nicola De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, 245 pp.

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1 Il volume di Nicola De Ianni, professore associato di Storia economica presso il Dipartimento di Scienze economiche e statistiche dell’Università Federico II di Napoli, intende studiare «il valore e il peso del denaro prima dell’assoluta trasformazione del calcio in settore economico»1. Per adempiere tale intento, prende in esame un arco temporale molto esteso, che conosce i suoi estremi cronologici nel 1898 – anno della nascita della Federazione Italiana del Football (FIF), la futura FIGC – e nel 1981 – anno successivo al primo scandalo calcioscommesse e momento conclusivo della presidenza di Artemio Franchi. La pubblicazione del saggio è stata preceduta da una serie di (propedeutici alla stesura del lavoro) seminari organizzati nell’ambito del corso di Storia dell’industria all’Università Federico II che hanno visto come relatori figure a vario titolo protagoniste del panorama calcistico italiano: dal procuratore Dario Canovi al dirigente Marco Fassone, passando per Corrado Ferlaino, già presidente della Società Sportiva Calcio Napoli, e Marcello Lippi, allenatore della Nazionale campione del mondo nel 2006.

2 Per De Ianni è un esordio nel campo della storia dello sport. La sua ampia produzione scientifica si è concentrata, negli anni precedenti, soprattutto sul ruolo di specifici attori economici della scena pubblica italiana – si pensi, in particolare, ai volumi Il ministro soldato. Vita di Guido Jung e Banca e mercato nell’opera di Antonio Confalonieri – e su studi di storia economica locale, come nel caso di Operai e industriali a Napoli tra Grande Guerra e crisi mondiale (1915-1929), Per la storia dell’industria a Napoli e Banco di Napoli spa (1991-2002). Un decennio difficile2.

3 Il testo in esame si compone di tre parti, precedute da una premessa nella quale è fornito un quadro di riferimento sull’evoluzione organizzativa del governo del calcio e sulla sua periodizzazione. Successivamente, nella prima parte, si passa ad analizzare gli aspetti macroeconomici attraverso la ricostruzione di una serie storica con ricavi, spese e deficit. Lo studio è effettuato separando il primo cinquantennio d’attività del calcio italiano (1898-1948) – la cui tendenza dei ricavi può essere, precisa De Ianni, «con buona approssimazione, soltanto stimata»3 – dal trentennio 1951-1981, in cui il giro d’affari intorno al pallone cresce esponenzialmente con l’introduzione del Totocalcio, la vera innovazione economica del dopoguerra. L’iniziale ripartizione dei ricavi stabilita nel 1946 – 45% delle entrate destinato al montepremi, 20% alla SISAL, 7% al CONI, 11% allo Stato e 5% al Ministero dell’Interno per essere distribuito in beneficienza – è rapidamente rivista in virtù delle crescenti pretese di Stato e CONI. Quest’ultimo, nel 1948, assume in proprio la gestione del gioco, estromettendo la SISAL. In aprile, con un decreto poi trasformato in legge, lo Stato destina a sé il 23% dei ricavi, aumentando al 48% la quota riservata ai vincitori, riducendo al 4% quella delle ricevitorie e garantendo

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il 25% al CONI. È l’inizio di un processo che porta lo Stato, nel 1954, a superare la quota del CONI. La prima parte si chiude con un interessante affresco su nascita ed evoluzione di dinamiche economiche divenute sentire e leggere quotidiano degli appassionati di calcio e non solo: premi, stipendi, ingaggi, contratti pluriennali, diritti alle prestazioni, plusvalenze e minusvalenze.

4 Nella seconda parte dello studio sono presi in considerazione gli aspetti microeconomici mediante l’individuazione di tre figure chiave: presidenti, allenatori e dirigenti. Dopo un’analisi del passaggio dai clubs alle società per azioni (1898-1966) e della nascita delle società senza fine di lucro (1966-1981), necessaria a evitare «alla gestione calcistica le rigidità del codice civile»4, si tracciano i profili economici dei più incisivi presidenti del calcio italiano. Dal confronto piemontese degli anni Venti fra Enrico Marone Cinzano (1895-1968), patron del Torino, ed Eduardo Agnelli (1892-1935), presidente alla Juventus, si passa alle figure di Umberto Lenzini (1912-1987) e Corrado Ferlaino (1931), presidenti dei primi scudetti di, rispettivamente, Lazio e Napoli, per arrivare ai protagonisti del calcio di provincia come Costantino Rozzi (1929-1994) ad Ascoli e Romeo Anconetani (1922-1999) a Pisa e chiudere con l’avvento al Milan di Silvio Berlusconi (1936), maggiore interprete della rivoluzione economica avvenuta nel calcio degli anni Ottanta. La seconda figura chiave individuata da De Ianni è quella dell’allenatore che «può usare le sue relazioni con i calciatori per favorire un ingaggio o addirittura trattare direttamente con procuratori agenti o dirigenti», precisando chiaramente che «tali trasformazioni dell’allenatore, che corrispondono a un aggiornamento della figura nel calcio industria, si sono svolte nel tempo e a fasi»5. Dai pionieri – William Garbutt (1883-1964), per oltre vent’anni in Italia sulle panchine di Genova, Roma e Napoli; Vittorio Pozzo (1886-1968), Commissario Tecnico della Nazionale campione del mondo nel 1934 e nel 1938, e Arpad Weisz (1896-1944), campione d’Italia con l’Ambrosiana di Milano e due volte con il Bologna, poi deportato e tragicamente scomparso ad Auschwitz – a Giovanni Trapattoni (1939), «l’allenatore più rappresentativo e vincente della fase di transizione al calcio industria», capace, con la sua spiccata personalità, di «corrispondere perfettamente alle esigenze di un mondo che stava cambiando velocemente verso forme articolate di spettacolarizzazione»6. In ultimo la figura dei dirigenti e, in particolare, dei procuratori. Su tutti, Antonio Caliendo (1944) che, con la procura ottenuta da Giancarlo Antognoni nel 1972 per lo sfruttamento dell’immagine, vanta «l’indubbia primogenitura temporale»7 sulla professione di procuratore.

5 Nella terza e ultima parte del suo studio De Ianni si concentra sul potere economico dei presidenti federali che si sono susseguiti nell’ampio arco temporale preso in considerazione. Dai pionieri alla presidenza di Leandro Arpinati (1926-1933) – «cui toccò il compito di mettere la camicia nera al calcio»8 – fino ai presidenti al timone della FIGC dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Settanta: Ottorino Barassi (1946-1958), Bruno Zauli (1958-59), Umberto Agnelli (1959-1961), Giuseppe Pasquale (1961-1967), Artemio Franchi (1967-1976 e 1978-1980) e Franco Carraro (1976-1978).

6 Pur disponendo già di diverse analisi sugli aspetti economici del football italiano e sul loro impatto sulla storia contemporanea del Paese – si pensi allo studio di Francesco Maria Varrasi9 – o settoriali, sul rapporto fra calcio e politica – il riferimento è, in particolare, a Simon Martin10 – l’originalità del lavoro di De Ianni sta certamente nel tentativo di considerare il lungo periodo, circa novant’anni di storia, che ha segnato la trasformazione del calcio da mera attività sportiva a vera e propria “industria”. A onor

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del vero un arco temporale ancora più ampio di quello analizzato da De Ianni è stato coperto dalla importante opera sul calcio di Guido Panico e Antonio Papa11, ma essa si è concentrata soprattutto sull’aspetto sociale e sulla capacità del pallone di plasmare usi e costumi di un Paese più che sulla sua rilevanza economico-finanziaria.

7 Per tali ragioni, e pur non avendo né le ambizioni né l’effettiva fattezza di un’opera di completezza assoluta sull’argomento trattato, lo studio di De Ianni apre una prima traiettoria – come scrive l’autore stesso nella prefazione – per «futuri approfondimenti da parte di altri studiosi»12.

NOTE

1. DE IANNI, Nicola, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, p. 7. 2. ID., Operai e industriali a Napoli tra Grande Guerra e crisi mondiale (1915-1929), Genève, Librairie Droz, 1984; ID., Per la storia dell’industria a Napoli, Napoli, Istituto italiano per la storia delle imprese, 1990; ID., Banca e mercato nell’opera di Antonio Confalonieri, Roma, Carocci, 2001; ID., Banco di Napoli spa (1991-2002). Un decennio difficile, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007; ID., Il ministro soldato. Vita di Guido Jung, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 3. ID., Il calcio italiano 1898-1981, cit., p. 15. 4. Ibidem, p. 49. 5. Ibidem, p. 78. 6. Ibidem, p. 92. 7. Ibidem, p. 94. 8. GHIRELLI, Antonio, Storia del calcio in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 73. 9. Cfr. VARRASI, Francesco Maria, Economia, politica e sport in Italia (1925-1935). Spesa pubblica, organizzazioni specializzate, impianti ed espansione delle pratiche agonistiche amatoriali e “professionistiche” in un Paese a regime autoritario, Firenze, Bertelli, 1999. 10. Cfr. MARTIN, Simon, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, Mondadori, 2006 [Ed. originale: Football and Fascism. The national game under Mussolini, Oxford, Berg, 2004]. 11. Lo studio di Panico e Papa si compone di due volumi, l’uno il proseguio dell’altro, pubblicati a distanza di un decennio. Cfr. PANICO, Guido, PAPA, Antonio, Storia sociale del calcio in Italia. Dai club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Bologna, Il Mulino, 1993; IID., Storia sociale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions league (1945-2000), Bologna, Il Mulino, 2000. 12. DE IANNI, Nicola, Il calcio italiano 1898-1981, cit., p. 7.

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AUTORI

MATTEO ANASTASI Matteo Anastasi (1989) è dottorando di ricerca in Scienze dell’Economia Civile presso la Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA) di Roma con un progetto su “Fascismo, sport e identità nazionale. Gli stadi di calcio come veicolo di propaganda e strumento di consenso popolare”. È cultore della materia in Storia Contemporanea presso l’Università Europea di Roma. I suoi interessi di ricerca sono relativi alla storia contemporanea e alla storia delle relazioni internazionali, con particolare riferimento alla storia della politica estera italiana e alla storia dello sport. È socio della SISSCO (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), del CESH (European Committee for Sports History) e della SISS (Società Italiana di Storia dello Sport). Fra le sue recenti pubblicazioni: Salvatore Contarini e la politica estera italiana (1891-1926), Roma, Aracne, 2017. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Anastasi >

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Matteo Loconsole, Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti

Sandro Bellassai

NOTIZIA

Matteo Loconsole, Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti, Bologna, Pendragon, 2017, 153 pp.

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1 Nell’Italia di inizio Novecento, come altrove, il dibattito sulla questione del controllo delle nascite si inquadrò all’interno di una pluridecennale vocazione della scienza e della cultura occidentali alla razionale «gestione del patrimonio biologico della collettività»1. In tale orizzonte biopolitico, che prese forma a partire almeno dalla metà dell’Ottocento, confluirono teorie, linguaggi, posizioni ideologiche e istanze normative molto eterogenee, e si intrecciarono dinamiche di mutamento politiche, sociali e istituzionali diverse ma ugualmente importanti. L’idea della possibilità di una «selezione artificiale» delle future generazioni umane, in particolare, nasceva sulla scia delle ipotesi darwiniane in merito alla «selezione naturale» delle specie; la sua legittimazione politica si fondava sul duplice presupposto di una necessaria “correzione” del cammino biologico dell’umanità alla luce delle sue preoccupanti tendenze alla «degenerazione», da un lato, e di una nuova funzione ieratica della scienza in generale e della classe medica in special modo, dall’altro.

2 Il crescente successo politico dei concetti di Razza e Nazione nella Belle Époque, d’altro canto, spinse molto spesso alla rappresentazione drammatica di una collettività “organica” minacciata da gravi pericoli interni ed esterni, di fronte ai quali si giustificavano non solo un perentorio interventismo pedagogico in nome della Legge e della Verità (incarnata non metafisicamente dal verbo positivista), ma anche un’opera complessiva di disciplinamento, inquadramento autoritario, vero e proprio rimodellamento drastico – al limite – dei corpi e delle anime degli esseri umani moderni. Era questo un paradigma delle relazioni sociali ampiamente trasversale sul piano ideologico: anche coloro i quali non si iscrivevano affatto al fronte dell’ordine e dell’autorità, come socialisti, democratici, progressisti vari, vagheggiavano comunque, non di rado, un intrusivo progetto «rigeneratore» di una società disordinata e sofferente quanto ai suoi assetti sanitari, etici, familiari, in nome di una prevalente ragione dell’interesse collettivo su qualsivoglia diritto individuale.

3 Gli apostoli delle nuove discipline dell’eugenetica, dell’igiene, della medicina sociale guardavano all’insieme dei comportamenti privati, fin nella più intima sfera sessuale, come a fenomeni di grande rilevanza sociale, e quindi più che legittimamente suscettibili di interventi normativi e “correttivi” da parte delle agenzie pubbliche e della scienza in generale. Questa “politicizzazione” delle questioni riproduttive sottintendeva un’idea del «corpo» sociale come organismo da sottoporre a una vera e propria ortopedia autoritaria, ma non va comunque confusa teleologicamente con gli sviluppi più tragici della storia novecentesca; per quanto, è inutile dirlo, diverse familiarità culturali è possibile rintracciare fra un certo darwinismo tardo-ottocentesco

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che teorizzava di lasciare gli “inetti” al loro destino infausto, le leggi statunitensi di sterilizzazione (a partire dal 1906) degli esseri umani più imperfetti, e l’abominio dell’Aktion T-4 operante nel Terzo Reich.

4 Di tutto questo non può certamente essere accusato il pastore inglese Thomas Malthus, fondatore della demografia moderna, che nel 1798 aveva posto energicamente il problema sociale del rapporto fra popolazione e risorse; né possono esserlo i cosiddetti neomalthusiani, che dalla seconda metà dell’Ottocento, in vari paesi occidentali, propagandarono la causa della «generazione cosciente», e dunque caldeggiarono la diffusione di metodi contraccettivi di varia natura. Più che a una Storia della contraccezione in Italia, come suggerirebbe il suo titolo, è a questo scenario specifico che l’opera di Loconsole è dedicata. Nel primo capitolo del volume, l’autore2 tratta delle questioni aperte dalla diffusione nella cultura europea ottocentesca delle teorie di Malthus e di Darwin, dell’eugenetica, di una vera e propria «utopia igienica»: tendenze, queste, che nel loro insieme ponevano tutte al centro i problemi della riproduzione umana e del rafforzamento biologico della popolazione. Il secondo capitolo è in buona parte dedicato a delineare il movimento neomalthusiano italiano, nel primo quindicennio del Novecento, e le reazioni aspramente polemiche che esso si attirò dal campo perbenista. Infine, nell’ultimo capitolo si ricostruiscono alcune vicende e contenuti della rivista neomalthusiana «L’educazione sessuale», certamente un caso interessante e poco conosciuto di divulgazione scientifica laica e progressista in materia di sessualità.

5 Il libro di Loconsole si pone quindi l’obiettivo di dar conto del movimento neomalthusiano nell’Italia di inizio Novecento, evidenziandone opportunamente le radici culturali nella scienza europea ottocentesca nonché documentando con ampiezza la fierissima avversione nei suoi confronti da parte, principalmente, di esponenti autorevoli del moralismo cattolico. Costoro tuonarono costantemente contro la «frode della generazione», com’era facile attendersi, trovando anche ampi consensi nella magistratura (che nel 1912 e nel 1913 precettò in tribunale gli autori dei due testi neomalthusiani più importanti in Italia, quelli di Secondo Giorni e di Ettorina Cecchi, con l’accusa di oltraggio al pudore, ma infine assolvendoli). Promosso da vari democratici, socialisti e anarchici, il neomalthusianesimo incontrò allo stesso tempo una decisa opposizione anche a sinistra, non solo in Italia: contrari o diffidenti si dichiararono infatti negli anni personaggi illustri come Kropotkin, Lenin, Sorel, Salvemini, Prezzolini, Mondolfo e vari altri.

6 Oltre a perseguire la missione tardo-illuministica di sottrarre a medievali tenebre i fatti sessuali, di cui non si stancavano di sottolineare le moderne valenze sociali, i neomalthusiani si prefiggevano l’obiettivo di migliorare – grazie alla possibilità di scegliere razionalmente se e quanti figli avere – le condizioni materiali e morali delle famiglie proletarie, e anche, nello specifico, delle donne del popolo. Se per la dottoressa Cecchi, infatti, la «maternità libera» rappresentava una condizione imprescindibile dell’emancipazione femminile3, per un altro medico neomalthusiano, Luigi Berta, la limitazione del numero delle nascite era necessaria allo scopo di «sollevare il tenore di vita delle classi operaie»4. Ma il movimento per la «procreazione responsabile», in accordo con un più generale orientamento eugenetico (i cui esponenti, tuttavia, non sempre ne approvavano metodi e pratiche), si proponeva anche un miglioramento qualitativo della specie umana: «I poveri sono fecondi, ma la loro fecondità è malsana e inutile, perché la miseria diventa per queste classi prolifiche il substrato di malattie

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essenzialmente popolari: la tubercolosi, la sifilide, l’alcoolismo», argomentava infatti lo stesso Berta5.

7 Al di là e ben prima della effimera popolarità della propaganda neomalthusiana (inquadrabile cronologicamente all’indomani del convegno vociano sulla “questione sessuale” del 1910), tuttavia, la limitazione delle nascite doveva essere in Italia una pratica già abbastanza diffusa, se è vero che il tasso di natalità era sceso nel 1914 al 31 per mille, dal 38 di trent’anni prima6. Molto presto, d’altronde, nel montante clima nazionalista che preannunciava la catastrofe bellica, e sotto l’influenza del dibattito francese sul calo demografico come indebolimento della potenza nazionale, la causa del controllo delle nascite venne sempre più ampiamente stigmatizzata come politicamente deleteria. Fu soprattutto per tale ragione che nel 1915, a solo un anno e mezzo dal suo esordio, sospese le pubblicazioni la testata «L’educazione sessuale. Rivista di neomalthusianismo e di eugenica», la cui nascita era stata simultanea al tardivo coronamento organizzativo del movimento, con la fondazione della Lega italiana neomalthusiana (in Gran Bretagna un’organizzazione analoga era stata creata già nel 1878, in Francia nel 1896). La valorizzazione analitica di questa fonte è uno dei tratti originali della ricerca di Loconsole, che si diffonde efficacemente anche sui rapporti fra la rivista stessa e scienziati di orientamento eugenetico, femministe, studiosi ed educatori progressisti. Poco approfondite, tuttavia, risultano in quest’opera le relazioni fra il neomalthusianesimo italiano e quello internazionale, al punto – ma è solo un esempio – che non vi si trova nemmeno notizia dell’affiliazione della Lega italiana alla Federazione universale della rigenerazione umana, con sede a Parigi. Neppure un cenno l’autore dedica inoltre a coeve esperienze italiane, che pure furono piuttosto attive nel diffondere orientamenti analoghi: basti pensare a un’altra rivista fondata nel 1914, milanese e diretta dal medico Felice Marta, ugualmente intitolata «L’educazione sessuale», o alle attività dell’Istituto “Il Pensiero”, fiorentino, che pubblicava opere della stessa Ettorina Cecchi e addirittura commercializzava direttamente prodotti contraccettivi7.

8 Mentre si dilunga sulle posizioni degli avversari cattolici del movimento, come Rodolfo Bettazzi (infaticabile censore della propaganda neomalthusiana, che il presidente della Lega per la pubblica moralità condannava come attività pornografica, disgregatrice e sommamente immorale), anche a causa della sua brevità l’opera di Loconsole tratta invece sbrigativamente – ma talvolta anche discutibilmente – una serie di importanti questioni interpretative legate al contesto culturale e politico dell’epoca. E da questo punto di vista è purtroppo significativo che autori come George Mosse, che sul rapporto fra nazionalismo e sfera sessuale ha pionieristicamente aperto prospettive critiche ancora oggi imprescindibili8, qui non siano stati neppure presi in considerazione. Ma non è questa l’unica carenza, sempre rimanendo sul piano interpretativo, di una ricerca che, pur dotata di alcuni meriti, forse si sarebbe giovata di una riflessione ulteriormente meditata ed estesa. La necessità analitica di distinguere fra positivismo e positivismo «applicato», per citare un altro esempio, laddove solo al secondo si imputano pregiudizi e vizi ideologici, appare quantomeno dubbia. Così come poco chiara appare l’urgenza di separare “virtuisti” e “studiosi”, i primi volendo a tutti i costi trovare nella scienza conferma a idee preconcette, i secondi invece che, «pur rimanendo inevitabilmente, e forse inconsapevolmente, coinvolti dall’ormai vigente morale sessuale, cercarono di emanciparsi da essa, servendosi della scienza come di uno strumento per debellare antichi pregiudizi senza alcun fondamento reale»9. Mai come nell’età del positivismo, forse, presunzione di oggettività e pregiudizio (di classe,

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di genere, di “razza”) apparvero come due facce della stessa medaglia: quella stessa medaglia che le borghesie occidentali si appuntarono da sé stesse, trionfalmente, sul proprio petto virile.

NOTE

1. MANTOVANI, Claudia, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origine ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 89. 2. Matteo Loconsole, laureato in filosofia all’Università di Bologna, è attualmente dottorando presso l’Università di Roma Tre. 3. LOCONSOLE, Matteo, Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti, Bologna, Pendragon, 2017, p. 66. 4. Ibidem, p. 50. 5. Cit. ibidem, p. 51. 6. RIFELLI, Giorgio, Sessualità: nascita di un concetto e di una disciplina, in RIFELLI, Giorgio, ZIGLIO, Corrado, Per una storia dell’educazione sessuale 1870-1920, Firenze, La Nuova Italia, 1991, pp. 9-105, p. 78. 7. WANROOIJ, Bruno P. F., Storia del pudore. La questione sessuale in Italia 1860-1940, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 77-78. 8. Cfr. MOSSE, George L., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1996 [Ed. originale: Nationalism and sexuality. Respectability and abnormal sexuality in modern Europe, New York, Howard Fertig, 1985]. 9. LOCONSOLE, Matteo, op. cit., pp. 107-108.

AUTORI

SANDRO BELLASSAI Sandro Bellassai insegna Storia contemporanea e Storia di genere presso l’Università di Bologna. Ha condotto ricerche sulle relazioni di genere e sulle culture politiche in età contemporanea. Ha curato, con Maria Malatesta, Genere e mascolinità. Uno sguardo storico (Roma, Bulzoni, 2000). È autore, fra l’altro, di: La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del Pci (1947-1956) (Roma, Carocci, 2000, vincitore del Premio Sissco 2001); L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea (Roma, Carocci, 2011). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Bellassai >

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Rolf Petri (a cura di), Balcani, Europa. Violenza, politica, memoria

Eric Gobetti

NOTIZIA

Rolf Petri (a cura di), Balcani, Europa. Violenza, politica, memoria, Torino, Giappichelli, 2017, 182 pp.

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1 Non è la prima volta che un autore o una serie di autori affrontano il tema complesso dei rapporti fra Balcani, violenza e politica. Il tema è stato però declinato solo da pochi anni in una accezione diversa da quella che ha dominato l’immaginario collettivo dell’Europa nel secolo scorso. Divenuti quasi sinonimo di primitiva attitudine al conflitto nel corso del lungo Ottocento, in una fase di affrancamento dall’Impero Ottomano che è durata di fatto cento anni, i Balcani hanno mantenuto e rafforzato questa identificazione nel corso del secolo successivo. I conflitti che hanno messo uno contro l’altro gli stati nazionali sorti con la caduta degli imperi multinazionali; le guerre mondiali, con il loro corollario di violenze contro i civili; i regimi dittatoriali fra le due guerre e la cappa oppressiva dei paesi d’oltre cortina durante la Guerra Fredda; sono tutti elementi che hanno rafforzato questo stereotipo. Uno stereotipo sostanzialmente razzista, che attribuiva al mondo balcanico una particolare attitudine alla violenza e all’odio etnico o religioso.

2 Ormai da tempo, però, i migliori studiosi dell’area si sono affrancati dall’immaginario “balcanista” che vorrebbe quest’area geografica particolarmente portata al conflitto: una parte d’Europa «non ancora pienamente civile, moderna, democratica, umanista, europeizzata, occidentalizzata, intraprendente, ingegnosa, economicamente sviluppata»1. Il volume curato da Rolf Petri, docente di storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, aggiunge un significativo tassello a questo filone di studi, tra i quali spicca l’importante lavoro di Stefano Petrungaro, Balcani: una storia di violenza? edito nel 20122.

3 I due saggi introduttivi, a firma dello stesso Petri e di Stefano Petrungaro, ne delineano le prospettive essenziali, sottolineando quanto sia necessario assumere una prospettiva che non guardi in maniera teleologica alla storia dei Balcani. In particolare, la puntuale comparazione con il resto d’Europa consente di includere legittimamente i fenomeni storici che hanno attraversato quest’area nel corso del Novecento in un percorso comune a tutto il continente. Il doloroso affrancamento dagli imperi multinazionali, il difficile percorso per la creazione di stati nazionali omogenei, la diffusione di una cultura politica autoritaria fra le due guerre, le violenze ideologiche e nazionaliste nel corso dei conflitti mondiali, sono tutti fenomeni che accomunano gran parte d’Europa. Così anche l’autoidentificazione nella categoria dei popoli civili e la necessità di porre «l’Altro e il nemico su un più basso gradino dello sviluppo umano: loro i barbari, noi i civili»3, sarebbero processi che si riscontrano in tutto il continente europeo nel corso del Novecento. Petrungaro in particolare fa notare come proprio la comparazione con altre realtà europee e mondiali consenta di relativizzare quella supposta “cieca ferocia” che sarebbe tipica dei popoli balcanici, identificando piuttosto nella «situazione etno- demografica, lascito delle precedenti esperienze imperiali»4 e nel ricorso ad una sorta

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di “eugenetica sociale” tipica dei processi di State-building, le ragioni contingenti di alcuni picchi di violenza che hanno caratterizzato i Balcani nel corso del Novecento.

4 La raccolta di saggi che compone il volume riesce a dare un quadro molto ampio dei rapporti fra violenza politica e creazione degli stati nazionali nel Sudest Europa nell’arco di più di un secolo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine del Novecento, offrendo al lettore uno scenario per niente uniforme e molto complesso. Partendo dal triste presupposto che «il XX secolo è stato forse il secolo più violento della storia umana»5, saggi di storici politici, studiosi di storia delle idee ed esperti di politiche della memoria si alternano per offrire differenti punti di vista su fenomeni storici che riguardano diversi paesi dell’area: Grecia, Bulgaria, Romania, Jugoslavia e paesi eredi.

5 Il testo di apertura, a firma di Armando Pitassio, offre un interessante resoconto dell’uso della violenza politica nel contesto bulgaro a cavallo dei due secoli XIX e XX, e del suo rapporto ambiguo con la regione macedone. In questo caso è la complessa costruzione dello Stato-nazione a comportare un uso massiccio del terrorismo e della violenza ai danni delle popolazioni considerate non omologabili (i 150.000 turchi espulsi dopo l’indipendenza) o di quelle non del tutto integrate (macedoni o bulgari fedeli al Patriarcato di Costantinopoli).

6 Il saggio di Francesco Zavatti, quasi consequenziale in termini temporali, mette l’accento sulla violenza come ideologia politica nel legionarismo rumeno fra le due guerre. Per questo movimento, inizialmente «quasi privo di un programma politico vero e proprio […], il culto della morte, della violenza e della guerra erano una rilettura in chiave politica dei vangeli»6.

7 Milovan Pisarri presenta un’attenta analisi di come evolve in un secolo la memoria delle vittime civili dei diversi conflitti che attraversano la Serbia nel corso del Novecento. È interessante dunque notare come ogni nuovo Stato adotti una politica della memoria «differente, contrastante rispetto a quella precedente»7. A proposito della seconda guerra mondiale colpisce il capovolgimento di prospettiva fra l’epoca socialista, quando l’accento era posto sulle vittime della guerra contro gli invasori, e l’attuale Stato indipendente, che ha istituito un “Giorno della memoria delle vittime serbe della seconda guerra mondiale”, in larga parte vittime dei massacri commessi dagli ustascia croati. Si tratta in definitiva di una “nazionalizzazione della memoria” con l’intento di «accorpare astoricamente tutte le vittime serbe del XX secolo in un’unica narrazione nazionale»8 che include anche le guerre degli anni Novanta, dove i serbi possono essere presentati sempre solo come vittime e mai come colpevoli.

8 Polymeris Voglis evidenzia nel suo saggio la militarizzazione dell’intera società greca durante l’occupazione italo-tedesco-bulgara nella seconda guerra mondiale. Coerentemente con il resto d’Europa, anche in Grecia il conflitto è stato caratterizzato dalla progressiva scomparsa di una «netta linea di demarcazione tra soldati e civili»9, connessa a una serie di fenomeni concatenati tra loro: l’occupazione militare, la resistenza, la repressione, la guerra civile. In un contesto del genere, l’autore sottolinea quanto sia sfumato l’elemento della “volontarietà” nell’adesione ad uno dei campi in lotta e quanto la costrizione fisica e le condizioni economiche disperate abbiano giocato un ruolo determinante in tali “scelte”.

9 Partendo dalle emanazioni del diritto umanitario dopo la prima guerra mondiale, Luca Baldissara giunge ad analizzare le implicazioni in termini giuridici e psico-sociali del tribunale ad hoc per i crimini nella ex Jugoslavia. Questo ultimo caso evidenzia in maniera paradigmatica «l’inestinguibile contraddizione» tra la «funzione di deterrenza

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del crimine di guerra» e la «giustizia politica», ovvero «l’attribuzione al vincitore della facoltà di giudicare»10. Questa contraddizione è indiscutibilmente aggravata da due fenomeni che caratterizzano i conflitti del Novecento: il discrimine sempre più sottile fra militare e civile – ad esempio in contesti di guerra partigiana o di conflitto civile – e l’identificazione sempre più esplicita del civile (in quanto appartenente ad una comunità identificata in senso razziale, linguistico, religioso) come target strategico, obiettivo finale del conflitto stesso.

10 Infine l’ultimo saggio, firmato da Maurizio Cermel, mostra come la creazione di stati- nazione dopo l’implosione della Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento abbia messo le minoranze nazionali in una pericolosa condizione di minorità anche giuridica. Sia la costituzione croata del 1990 che la legge approvata dall’Assemblea nazionale della repubblica di Serbia nel 2006 identificano lo stato in senso etnico, distinguendo tra il popolo di riferimento e le minoranze nazionali, alle quali viene «garantita l’uguaglianza» (costituzione croata) e verso le quali è «vietata ogni forma di discriminazione» (legge serba), ma che appartengono indiscutibilmente ad una categoria altra rispetto ai veri e propri cittadini dello stato.

11 Rimane in definitiva, oltre ad una vastissima bibliografia e a molte nuove e utili informazioni, la sensazione generale che i Balcani non possano più essere considerati, nemmeno in senso storico, un corpo estraneo al continente. Al contrario, leggendo questi testi, si direbbe che ne siano la parte più viva, quella che con maggiore virulenza ne ha espresso l’anima profonda, mostrando tutte le ambiguità e i pericoli di logiche esclusiviste, autoritarie, violente che sempre più tornano in auge. I Balcani, in definitiva, sono lo specchio deformante d’Europa, uno specchio nel quale i dettagli possono confondere, ma aiutano anche a comprendere la natura profonda del continente in cui viviamo.

NOTE

1. PETRI, Rolf, Balcani. Teleologia di una regione, in ID. (a cura di), Balcani, Europa. Violenza, politica, memoria, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 1-22, p. 10. 2. PETRUNGARO, Stefano, Balcani. Una storia di violenza?, Roma, Carocci, 2012. 3. PETRI, Rolf, Balcani. Teleologia di una regione, in ID. (a cura di), op. cit., pp. 1-22, p. 21. 4. PETRUNGARO, Stefano, Tra particolare e generale. Sulla violenza nei Balcani, in PETRI, Rolf (a cura di), op. cit., pp. 23-36, p. 27. 5. VOGLIS, Polymeris, Violenza e cambiamento sociale nella Grecia occupata. Riflessioni sulle guerre del Novecento, in PETRI, Rolf (a cura di), op. cit., pp. 95-112, p. 95. 6. ZAVATTI, Francesco, La violenza nell’ideologia del legionarismo romeno (1923-1941), in PETRI, Rolf (a cura di), op. cit., pp. 57-74, pp. 62-63. 7. PISARRI, Milovan, La memoria delle vittime civili in Serbia, in PETRI, Rolf (a cura di), op. cit., pp. 75-94, p. 78. 8. Ibidem, p. 92. 9. VOGLIS, Polymeris, op. cit., in PETRI, Rolf (a cura di), op. cit., pp. 95-112, p. 97.

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10. BALDISSARA, Luca, Dal punto di vista del diritto. Violenza bellica e punizione dei crimini di guerra, in PETRI, Rolf (a cura di), op. cit., pp. 113-130, p. 122.

AUTORI

ERIC GOBETTI Eric Gobetti (Torino, 1973) è uno storico free-lance, studioso di Seconda guerra mondiale e della Jugoslavia nel Novecento. È curatore di diversi volumi e autore di tre monografie: Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista (Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2001), sul movimento croato Ustascia negli anni Trenta; L’occupazione allegra. Italiani in Jugoslavia 1941-1943 (Roma, Carocci, 2007); Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (Roma-Bari, Laterza, 2013). Ha inoltre pubblicato il diario-reportage Nema problema! Jugoslavie, 10 anni di viaggi (Torino, Miraggi edizioni, 2011) e negli ultimi anni organizza viaggi di turismo storico nei paesi della ex Jugoslavia. È apparso più volte sul canale televisivo RaiStoria, realizzando tra l’altro nel 2013 la trasmissione in tre puntate La Divisione Garibaldi. Nel 2015 ha prodotto il suo primo documentario storico: Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro. Nel 2017 ha portato a termine un progetto sul centenario dell’attentato di Sarajevo, con la pubblicazione del libro Sarajevo Rewind. Cent’anni d’Europa (Torino, Miraggi edizioni, 2017) e l’uscita del secondo film Sarajevo Rewind 2014>1914 (con Simone Malavolti). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Gobetti >

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