UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI UDINE

DOTTORATO INTERNAZIONALE

STUDI AUDIOVISIVI: CINEMA, MUSICA E COMUNICAZIONE CICLO XXV

TESI DI DOTTORATO DI RICERCA

IL FLICKER NELLE PRATICHE AUDIOVISIVE IMMERSIVE

DOTTORANDA CLAUDIA MARIA D’ALONZO

RELATORE COSETTA G. SABA

ANNO ACCADEMICO 2012/2013

I soli testi contenuti nella tesi sono rilasciati in licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia ad eccezione delle citazioni per le quali si rimanda all’autore e relativi editori.

2 INDICE

Introduzione 7

1| Dalle neuroscienze all'immersività digitale Una ricognizione sull'uso del flicker nella storia plurale dell'audiovisione

1.1| La visone ad occhi chiusi: l’applicazione della luce pulsante nelle neuroscienze 21

1.2| Sulle tracce del flicker: un percorso nella storia delle arti 1.2.1| Il passaggio dalle neuroscienze all'arte attraverso la Dream Machine di Brion Gysin 29 1.2.2| Flicker film: dalla modulazione di impulsi luminosi alla creazione di sequenze percettive 33 1.2.3| Il movimento di Arte Cinetica e Programmata in Italia: le ricerche stroboscopiche del Gruppo T e MID 39 1.2.4| Il flicker nell'audiovisivo espanso 48 1.2.4| Uno sguardo attraverso, appunti da un’analisi diacronica. Ricorrenze tematiche e linee di convergenza 61

2| Il corpo, i sensi, lo spazio L’opera come dispositivo percettivo e ambientale

2.1| Dall’occhio al corpo. La percezione come sistema embodied e l’emanazione soggettiva dello spazio 69 2.1.1| La visione oltre l’occhio e la percezione incarnata 72 2.1.2| Sconfinamenti tra soggetto e ambiente: il meccanismo immersivo 84

3

2. 2 | L'audiovisione 91 2.1| Contaminazione tra linguaggi del suono e della visione: un percorso storico e teorico 92 2.2.2| La musicalità del flicker nelle ricerche di Peter Kubelka, Tony Conrad e Paul Sharits 100

2.3 | L’opera come processo effimero 107 2.3.1| Definire l’esperienza 108 2.3.2| Per un paradigma condiviso tra performance e installazione 116

3 | Il flicker nell’audiovisivo espanso contemporaneo

3.1| Suonare la luce 122 3.1.1| Bruce McClure: Christmas Tree Stand (2005) 125 3.1.2| otolab: Megatsunami (2010-2012) 130

3.2| Micro-strutture temporali nello spazio 137 3.2.1| Granular Synthesis: NoiseGate-M6 (1998) 141 3.2.2| Keiichiro Shibuya e Takashi Ikegami: filmmachine (2006) 147

3.3| Il setting dell’esperienza 153 3.3.1| Ivana Franke: Seeing with the Eyes Closed (2011) 155 3.3.2| Chris Salter, Tez, David Howes: Displace (2011-2012) 161

4| La stroboscopia nelle ricerche di Kurt Hentschläger

4.1| Un percorso nella produzione dell’autore 171 4.1.1| Una ricognizione per temi nell’opera di Granular Synthesis 173 4.1.2| La produzione solista: sulle tracce del corpo disseminato 180

4

4.2| Il sublime luminoso: gli ambienti stroboscopici FEED e ZEE 189 4.2.1| FEED (2005) 192 4.2.2| ZEE (2008) 194 4.2.3| Dallo schermo all’immersività 199

4.3 | La documentazione, dall’oggetto visivo al racconto del pubblico 205 4.3.1| L’intervista al pubblico come prassi documentale 208 4.3.2| Un esempio di racconto dell’esperienza: la video interviste per ZEE 217

Conclusioni 229

Apparati Interviste 237 Immagini 271 Bibliografia 285 Emerografia 299 Résumé Général 305

5

INTRODUZIONE

Il termine flicker è utilizzato ad indicare il trattamento temporale del dato visivo in opere filmiche e time based o l’alternarsi rapido di luce e buio tipico delle lampade stroboscopiche e, insieme, una fenomenologia percettiva conseguente e caratteristica.1 La ricerca intende indagare quali particolari configurazioni nello statuto di opera e di esperienza estetica siano suggerite dalle pratiche audiovisive di flicker puro, nelle quali cioè il ritmo stroboscopico astratto costituisce la sola o predominante componente visiva. Il progetto di interroga sui possibili punti di contatto tra arte e scienza sul piano dell’esperienza percettiva, a partire dalla specifica dimensione sensoriale determinata dalla luce stroboscopica e suono spazializzato. Tali espressioni dell’audiovisivo sperimentale, vengono rintracciate nel frastagliato panorama della produzione estetica a carattere immersivo, termine ampiamente in uso nella scena artistica contemporanea e rispetto al quale la ricerca intende offrire una ricognizione, utile a fissare alcuni aspetti caratteristici. L’interesse per l’applicazione del flicker in ambito artistico nasce originariamente da una prassi curatoriale, in particolare dalla preparazione di un video screening realizzato nel 2009 per DOCVA Documentation Center for Visual Art di Milano, in collaborazione con INVIDEO. 2 Nell’ambito delle ricerche

* Si ringraziano il Prof. Marco Maria Gazzano e il Prof. Enrico Pitozzi che, in qualità di referee, hanno offerto la loro valutazione alla prima stesura della tesi, insieme a suggerimenti indispensabili al suo completamento nella forma attuale. Un grazie anche al Prof. Osvaldo Da Pos e al Dott. Cosimo Urgesi, che hanno supervisionato i passaggi del lavoro più strettamente legati agli aspetti scientifici del discorso sulla stroboscopia e sulla percezione, fornendo spunti di grande interesse. 1 Sia che si tratti di un flusso di immagini sia nel caso della pura luce, il ritmo assunto dallo sfarfallio ha in genere una frequenza tra gli 8 e i 40 Hz. Come vedremo, in particolare il range tra gli 8 e i 14 Hz circa può provocare particolari effetti percettivi. 2 Quando l’occhio trema, rassegna a cura di Claudia D’Alonzo e Mario Gorni, dal 17 al 29 settembre 2009 presso il DOCVA di Careof, Milano –una realtà non profit nata nel 1987 per la promozione della ricerca artistica contemporanea. Il progetto ha visto, inoltre, la partecipazione di

7 preparatorie, il flicker è stato utilizzato come elemento di aggregazione elementare, attraverso il quale osservare diverse forme dell’audiovisivo sperimentale e porre in confronto materiali d’archivio, principalmente film sperimentali e video, con lavori legati al panorama delle pratiche performative e ambientali digitali. Le condizioni di allestimento e presentazione, previste per la rassegna hanno precluso la possibilità di accogliere una serie di esempi significativi sul piano del concept generale ma non riducibili nelle modalità espositive di quell’evento.3 Queste limitazioni di carattere operativo hanno avviato una riflessione che ha permesso una lettura più ampia degli aspetti spaziali delle opere di flicker: Caratteristica comune di questo particolare tipo di opere audiovisive, pur nelle rispettive specificità e differenze, è la tensione a ‘farsi ambiente,’ non in senso architettonico quanto come modo di esperienza dello spazio. Ciascuno secondo la propria poetica, i progetti stroboscopici offrono un passaggio, rispetto alla dimensione dello spazio, da dispositivo spazializzato, inteso come sistema di apparati finalizzati all’espansione dell’immagine, a dispositivo spaziale, basato sulla progettazione di un sistema di funzioni nelle quali coinvolgere il fruitore in senso fenomenico. Il farsi ambiente è, come vedremo, un tratto caratteristico di molto audiovisivo espanso. 4 All’interno di questo ampio panorama i lavori stroboscopici, in particolare quelli contemporanei, definiscono un particolare modo della condizione spaziale che si è scelto di definire ‘immersivo.’ Un termine questo ricorrente, perfino abusato, nel campo della sperimentazione elettronica ma tutt’altro che definito e per il quale la ricerca intende individuare alcuni punti di riferimento. Senza l’intento di creare polarizzazioni di carattere terminologico né temporale tra attivo e passivo, si può notare che anche la definizione del soggetto coinvolto nel momento estetico segna un avvicinarsi sempre maggiore al concetto di fruitore, presente ad esempio in molti scritti e dichiarazioni di poetica dell’arte

INVIDEO, altra importante organizzazione che dal 1990 si occupa di diffusione e promozione della produzione audiovisiva sperimentale in Italia e all’estero. Tra gli autori presenti in mostra: Claudio Ambrosini, ape5+miky ry, Scott Arford, Alessandrà Arnò, Gerard Cairaschi, Paolo Chiasera, Antonin De Bemels, Thorsten Fleisch, Paolo Gioli, Graw & Bockler, Granular Synthesis (Kurt Hentschläger/Ulf Langheinrich), Girts Korps, otolab, Steina e Woody Vasulka. 3 L’allestimento prevedeva una black box con proiezione a parete del un flusso in loop dei lavori, della durata di circa 90’. 4 Duguet A. M., 1998.

8 cinetica e programmata, e che si sostituisce quasi integralmente a quella di spettatore nelle pratiche immersive del contemporaneo. Questo passaggio sembra determinare nel campo delle ricerche estetiche audiovisive un tipo di coinvolgimento paragonabile alla dimensione del soggetto in altre forme dell’immersività medializzata e negli ambienti immateriali, quali principalmente quelle determinate della realtà virtuale: con essa il fruitore degli ambienti immersivi passa attraverso ‘un’appropriazione di autorialità’ e colloca diversamente il suo, o per meglio dire, i suoi punti di vista nell’ambiente/opera, marcando una scissione rispetto alla coincidenza del suo sguardo con quello della camera e, quindi, dell’autore.5 Rispetto al complesso degli autori e delle pratiche stroboscopiche, si può notare come questa caratteristica, più evidente nelle opere installative e performative, sia un’attitudine trasversale, presente cioè in forma germinale anche nelle opere framed, che dichiarano un’eccedenza rispetto alla superficie bidimensionale e al perimetro del quadro, protese come alla riconfigurazione dello spazio fisico intorno al fruitore. Nel passaggio dalla prassi curatoriale alla ricerca, inoltre, il percorso necessario a configurare l’oggetto di studio ha portato a ricollocare le esperienze audiovisive stroboscopiche sul piano più ampio delle relazioni tra arte e scienza sul tema della percezione. Un legame intrinseco all’uso della luce pulsante, che, infatti, trova originariamente applicazione in ambito scientifico, come stimolo in esperimenti sul cervello e sull’epilessia. I flash di luce provocano un particolare tipo di risposta fisiologica nel soggetto: essi agiscono direttamente sui ritmi delle onde cerebrali, sincronizzandoli alle loro stesse frequenze e determinando la produzione di onde alpha e theta, corrispondenti in uno stato normale – cioè non condizionato da particolari stimoli esterni o programmati - a sogno, ipnosi, rilassamento profondo, meditazione e momento creativo.6

5 Diodato R., Lo spettatore virtuale, in A. Somaini, 2005, 269-281. Cfr. anche Estetica del Virtuale, Bruno Mondadori, 2005. 6 Gli studi sulle onde cerebrali hanno giocato un ruolo fondamentale nella comprensione del cervello e delle funzioni mentali. Si tratta di lievi segnali elettrici emessi dal cervello che rispecchiano gli stati e anche i più piccoli cambiamenti nell'attività cerebrale. Le onde vengono scoperte negli anni Venti dal ricercatore HanBerger che nel 1929 mette a punto anche l'EEG, sistema di misurazione delle onde cerebrali tutt'ora in uso e basato su una serie di elettrodi posti sullo scalpo. L'attività delle onde

9

A partire, quindi, dalla sua applicazione sperimentale e diagnostica, è possibile rintracciare una proprietà potenziale del ritmo visivo del flicker che assume senso anche rispetto alla sua collocazione in un’opera audiovisiva, in particolare in termini di esperienza di fruizione: la sincronizzazione diretta del cervello al ritmo della luce o della fonte visiva, ha un risvolto diretto sulla condizione emotiva e cognitiva del fruitore e può, potenzialmente, porlo in una condizione simile, sul piano fisiologico, a stati particolari della relazione tra soggetto e mondo, nei quali cioè il concetto di realtà perde un po’ del suo carattere di verità oggettiva e viene generata a partire dall’interno del soggetto.7 Ad accentuare la natura individuale dell’esperienza provocata dalla stroboscopica, contribuisce un effetto percettivo che la pulsazione può, in condizioni particolari, determinare: l’emersione di visioni fantasmagoriche di forme, più o meno complesse, e colori. Questi effetti, in modo simile a quanto accade nel caso delle allucinazioni e delle illusioni ottiche, sono indicatori significativi del confronto tra i due poli della percezione, cioè il soggetto percepiente e mondo. La fenomenologia del flicker rivela il ruolo attivo del soggetto durante l’attività percettiva, il fatto che la percezione non possa essere considerata un’operazione in cui un recettore nel corpo raccoglie in modo passivo e automatico lo stimolo che giunge dall’esterno. Essa è piuttosto il prodotto di una costante feedback tra soggetto e mondo, tra interno ed esterno dell’individuo. Il flicker nell’opera d’arte permette di comprendere nell’operatività dell’esperienza soggettiva come la percezione sia una rete sistemica di relazioni mute tra sé e mondo, di interscambio molteplice ma sempre situato nel corpo del soggetto e agito attraverso il corpo, in

cerebrali è suddivisa in quattro tipologie di onde – beta, alfa, theta e delta – associate ciascuna a dei range di frequenza e a particolare stati emotivi e mentali. Le onde alfa ( 8-14 Hz) corrispondono allo stato di rilassamento, spesso presente in stati meditativi o negli stati di sonno profondo. Le theta (4-10 Hz) sono associate al rilassamento profondo, all'apprendimento e all'intuizione creativa. Le onde delta (0.5-4 Hz), la più lenta delle onde cerebrali, corrispondono al sono profondo e senza sogni. Le beta (12-30 Hz) sono legate all'attività in uno stato attivo e di veglia, il nostro stato 'normale' è uno 'stato delta'. É bene ricordare che i confini tra i valori delle frequenze attribuiti ad una o all'altra classe di onde e ai corrispettivi stati non sono solo approssimativi. Cfr. György B., 2006, pp. 112-117. 7 Gallese V., Seeing art…beyond vision. Liberated embodied simulation in aesthetic experience, in Franke I., 2011, p. 62.

10 meccanismo retroattivo di andata e ritorno e modificazioni reciproche, nel quale l’io soggetto e il mondo si co-specificano.8 Un oggetto di studio così configurato chiede allo studioso di affinare i propri strumenti di analisi, di costituire uno sguardo che sappia guardare all’opera a partire dalla sua presenza e il suo agire nella sfera del sensibile, in quanto, le opere prese in esame rappresentano dispositivi percettivi, attivatori potenziali di esperienze che coinvolgono il fruitore in modo diretto, fisiologico, somatico. In questo modo il processo artistico non racconta né rappresenta, bensì mette in forma mutazioni possibili del rapporto tra soggetto e ambiente - come quelle particolari determinate dalle tecnologie - o fenomenizza meccanismi atavici di relazione con l’ambiente, attraverso i quali vengono costruiti i confini del sé. Analizzare il processo percettivo come livello primario di senso dell’opera, costruire un’estetica fondata sulla percezione, coerente cioè con la propria radice etimologica, implica aprire le prospettive e gli strumenti di analisi ad altre aree del sapere che tradizionalmente si occupano dei fenomeni sensoriali, prima fra tutte quella scientifica. Quello del sensibile è, infatti, un campo multi-dimensionale che richiede la propensione a muoversi tra diverse aree del sapere, in particolare a confrontarsi con quanto affermato in ambito scientifico sui meccanismi fisiologici che ne regolano operazioni e comportamenti. Sarebbe rischioso guardare alle pratiche estetiche in esame con approccio disciplinare unidirezionale, in quanto, si rischierebbe di non afferrare la complessità dell’opera, intesa sia come esperienza offerta al fruitore che come eterogeneità di fonti e riferimenti accolti dall’artista nella propria ricerca e nelle fasi di progettazione. Da un lato, infatti, il riferimento ai fondamenti fisiologici dei fenomeni percettivi consente di analizzare il momento dell’esperienza, il ‘compimento’ dell’opera nella fruizione, dall’altro permette di avvicinarsi alle fasi che lo precedono, al lavoro dell’artista e di individuare i caratteri specifici delle diverse poetiche sensoriali elaborate dagli autori. Non è un caso quindi che, accanto ad un proliferare di progetti artistici assimilabili a dispositivi sensoriali, alcuni ambiti di studio stiano accogliendo riferimenti tratti da aree della scienza, in particolare dalle neuroscienze, andando ad

8 Casadio L., Per una nuova psicanalisi dell’arte: il ruolo delle emozioni, in De Vincenti G., Carocci E., (a cura di), 2012.

11 approfondire i meccanismi fisiologici alla base delle reazioni percettive messe in atto nel momento dell’opera. Nel quadro generale delle questioni e delle forme di sperimentazione delle quali andremo ad occuparci, si segnalano in particolare le aperture disciplinari in tale senso presenti negli studi sul cinema e nella media art. Nei discorsi sull’arte a carattere mediale, tali sconfinamenti sono individuabili fin dai primi albori dell’estetica elettronica di questo tipo di pratiche e si diffondono come riflessione teorica, in particolare a partire dagli anni Novanta, per trovare piena affermazione nell’ultimo decennio. In quest’area, la questione percettiva è affrontata generalmente a partire dalle mutazioni indotte dalle tecnologie elettroniche nella sfera del sensibile: l’assunzione o la sperimentazione da parte degli artisti di particolari paradigmi percettivi, corrispondenti a specifiche tecnologie, è generalmente letta come capacità del progetto estetico di intercettare e rielaborare i cambiamenti in atto nella società contemporanea.9 Se una tale impostazione interdisciplinare, che stabilisce l’incontro tra arte e scienza a partire dal comune elemento tecnico e tecnologico, consente di sviluppare strumenti di analisi teorica in ‘sintonia’ con molte delle ricerche artistiche e con le complesse strutture percettive delle opere, allo stesso tempo tradisce spesso un mal celato sensazionalismo e forme di tecno-entusiasmo verso new media sempre più nuovi, insieme ad una mancanza di prospettiva storica, che si traduce in disattenzione per le forme del sensibile medializzato precedenti l’era elettronica. 10 Inoltre,

9 Di rilievo, in questo panorama, alcune pubblicazioni dell’Université du Québec, in particolare quelle di Luoise Poissant, che hanno il merito di aver sistematizzato molta della discussione emersa nel corso degli anni Novanta – principalmente a partire da autori come Roy Ascott, Derrik de Kerckhove, David Rockeby. Cfr. Poissant L., PUQ, 2005 e 2003. Il confronto costante tra arte, scienza e media è alla base anche di un autorevole progetto editoriale pubblicato dall’MIT Press, il “Leonardo Journal,” fondato nel 1968 dall’artista cinetico Frank Malina e divenuto uno dei punti di riferimento per questo ambito di ricerca multidisciplinare. Oltre al journal a carattere periodico, si segnalano anche: Harris C., MIT Press, 1993; MacLeod D., Moser M. A., MIT Press, 1995; van Campen C., MIT Press, 2007. Per un’analisi più ampia del fenomeno al di fuori della sola media art, cfr. Jones A. C., MIT Press, 2006. Tra le istituzioni universitarie incentrate sul rapporto arte e scienza si segnala inoltre il corso di laurea ArtScience della KABK, Royal Academy of Art Interfaculty di The Hague, Olanda. 10 Un esempio in tal senso è rappresentato dal già citato catalogo dell’MIT press, nel quale, pur inquadrando storicamente gli sconfinamenti tra arte e scienza sul tema percettivo e recuperando la radice di tali coincidenze a partire dai linguaggi della pittura, passando per le pratiche performative e l’happening, fino a giungere alla moltitudine di pratiche di media art contemporanea, restano esclusi altri importanti momenti pioneristici, quali ad esempio le sperimentazioni nel campo dell’Arte

12 l’insistenza sui cambiamenti che l’avvicendarsi tecnologico produce trascura spesso la possibilità, parimenti interessante, di individuare elementi di costanza trasversali, come pure meccanismi atavici della percezione che persistono al reiterarsi delle innovazioni tecnologiche. Anche nel campo dei film studies, a partire dagli anni Novanta si possono individuare le prime incursioni verso i saperi della scienza, in particolare nella psicologia sperimentale e nelle neuroscienze. Queste aperture coincidono con la progressiva attenzione alla dimensione della ricezione, che vuole il fruitore coinvolto come individuo empirico, riportando in questa visione l’esperienza del film alla concretezza fenomenica del sensibile.11 Al contempo, notevole attenzione è rivolta ai meccanismi d’immedesimazione e coinvolgimento rispetto al processo diegetico, lasciando spesso esclusi fattori strutturanti l’esperienza nel suo complesso, il fatto cioè di essere un processo situato che coinvolge una molteplicità di elementi contestuali e ambientali, che contribuiscono ad attribuire alla fruizione carattere di vissuto embodied e multidimensionale. La ricerca si confronta e posiziona rispetto a questi due scenari di ibridazione con la scienza sul tema della percezione con l’intento di formare un proprio metodo integrato, secondo due diversi piani. In primo luogo rispetto alle neuroscienze, accogliendo nel proprio percorso d’indagine sulle specificità del flicker riferimenti alle radici fisiologiche dei meccanismi percettivi, anche in virtù della discendenza da quest’area delle hard sciences di molte delle ricerche condotte dagli artisti e delle primissime applicazioni della luce pulsante nel corso di esperimenti di laboratorio. L’assunzione di una tale prospettiva interdisciplinare lascia sempre in agguato il rischio di un’ambiguità epistemologica, di assimilare cioè le modalità dello studio sulla percezione nel momento dell’opera a quelle della scienza. Come sottolinea Raymond Bellour, può accadere che si assuma la norma

Cinetica e Programmata tra la seconda metà degli anni ’50 e ’60, come pure molta sperimentazione in ambito cinematografico. Jones A. C., MIT Press, 2006. 11Per una ricognizione in lingua italiana delle intersezioni tra studi cinematografici e neuroscienze cfr. De Vincenti, Carocci E., (a cura di), Ed. Fondazione Ente dello Spettacolo, 2012; per una panoramica del dibattito internazionale sulla dimensione fenomenica e somatica della spettatorialità, cfr. J. Barker M., University of California Press, 2009; Bellour R., P.O.L., 2009; G. Deleuze, Ubulibri, 2004; Elsaesser T., Hagener H., Einaudi, 2009; V. C. Sobchack, Princeton University Press, 1999.

13 scientifica come unica chiave di lettura dell’opera, che si assimili e snaturi l’eccezione rappresentata dall’esperienza estetica alla regolarità dei funzionamenti fisiologici. 12 Questo accade, ad esempio, nelle posizioni espresse da alcuni esponenti della neuroestetica, disciplina recente che si propone di spiegare cosa avviene nel cervello nel momento dell’opera e che cede, in alcuni casi, alla tentazione di ridurre la complessità tutta del momento estetico alla sola meccanica neurale. L’esistenza di tali studi, che pure verranno affrontati nel corso della ricerca, non dovrebbe inibire, come purtroppo spesso accade, il confronto costruttivo tra arte e scienza. Al contrario, il fatto che alcune neurodiscipline13 abbiano preso ad occuparsi della ‘cosa artistica,’ evidenzia in modo ancor più deciso, la necessità per l’umanista di elaborare metodologie e strumenti adatti, ibridi ma pur sempre aderenti alle specificità dell’arte, grazie ai quali i termini di questa integrazione non implichino il rischio di perdere di vista o cancellare il senso proprio dell’oggetto estetico. Come suggerito da Bellour, il metodo integrato di questa ricerca intende “ricevere suggestioni dai modelli d’interpretazione della scienza e allo stesso tempo essere in grado di disgiungersene.”14 Un discernimento tra i due poli necessario, non per rinnovare schematismi e contrapposizioni, quanto per individuare le specificità proprie dell’uno e dell’altro ambito sulla questione percettiva ma attraverso una diversa consapevolezza, uno sguardo più ampio e complesso, una maggiore comprensione delle pratiche e della multidimensionalità del momento sensorio, costruite a partire dal confronto e dallo studio integrato. Nei vari passaggi della ricerca, quindi, i rimandi alle neuroscienze sono inseriti per costruire un quadro delle possibili reazioni fisiologiche nonché a definire il grado di indeterminatezza e soggettività della percezione. A partire da questo piano comune, l’opera è poi considerata nelle proprie particolarità e nello specifico discorso che essa costruisce attraverso la grammatica dei sensi, nelle diverse gradazioni di esperienza e negli interrogativi con i quali interroga ciascun fruitore, ridefinendo i parametri di propriocezione e di costruzione identitaria del sé.

12 Bellour R., Vedute d’insieme, in De Vincenti G., Carocci E., Ed. Fondazione Ente dello Spettacolo, 2012, p. 81. 13 Cfr. Legrenzi P., Umiltà C., 2009. 14 Idem., p. 59.

14 Il secondo livello d’integrazione che s’intende stabilire sul piano metodologico è tra media art e film studies, aree della ricerca umanistica che, pur condividendo l’apertura alle hard science e giungendo a paradigmi di analisi della condizione esperienziale su base percettiva spesso simili, stentano ancora a trovare linee di studio comuni o quantomeno a convergere rispetto ad alcune pratiche specifiche, quali ad esempio, quelle audiovisive a carattere stroboscopico. Un esempio è rappresentato dall’attenzione alla condizione del fruitore, analizzata alla luce del tema percettivo e quindi dell’opera audiovisiva primariamente come esperienza percettiva. Questo discorso offre occasione di introdurre una premessa di carattere generale utile ad inquadrare molti dei discorsi affrontati nel corso della ricerca: qui come altrove si fa riferimento alla media art, termine che, negli studi sull'arte, viene fatto generalmente corrispondere all'impiego nell'opera di tecnologie elettroniche, analogiche o digitali. Non essendo tra i focus del progetto sviscerare l’ambiguità di tale definizione, si è preferito aderire a tale uso convenzione e chiamare mediali solo le opere 'elettrificate'. Si sottolinea al contempo che, in linea con l’approccio storiografico offerto da Oliver Grau, l’origine delle pratiche artistiche a carattere mediale precede di molto l’avvento dei media elettronici e che uno dei primi linguaggi estetici tecnologizzati è rappresentato proprio dal linguaggio cinematografico e dai suoi dispositivi.15 La ricerca assume un’ampia prospettiva storica con l’intenzione di instaurare punti di contatto tra forme dell’arte medializzata differenti, non solo elettroniche, a partire dall’elemento aggregatore della luce stroboscopica e provando a ricongiungere momenti e storie diverse della sperimentazione artistica. Lo sguardo storico permette di non perdere memoria delle pratiche liminali e spurie, quelle che, proprio a causa della non classificabilità in tassonomie e quadri definiti, restano spesso ai margini delle storie ufficiali dell’audiovisivo. In linea con questo pensiero, la ricerca tentare di forzare alcune posizioni interne alle discipline dell’arte per far posto alle pratiche: rintracciare esperienze reputate di particolare interesse nel panorama dell’audiovisivo di ricerca, facendo emergere problematiche teoriche, che accomunano ambiti delle sperimentazioni artistiche spesso considerati distanti.

15 Grau O., 2007.

15

Il progetto è articolato in quattro capitoli tra i quali il primo contiene una rassegna storica e trasversale atta a rintracciare l’impiego della stroboscopia dai laboratori neuroscientifici ad alcuni momenti della storia delle arti. Il capitolo successivo si concentra su caratteristiche proprie delle opere stroboscopiche e le confronta con alcuni argomenti cardine nel dibattito teorico sulla ridefinizione dello statuto di opera d’arte e alla condizione percettiva del fruitore, quali principalmente: il delinearsi di un’idea dell’operare sensibile che riporta al centro il corpo; l’immersività come relazione disseminata tra soggetto e spazio; la sincresi tra modi del suono e della visione e la matrice somatica del concetto di ritmo; la centralità del soggetto esperiente alla luce della coincidenza tra opera e processo esperienziale; la trasversalità del concetto di liveness tra forme installative e performance in tempo reale. Il terzo capitolo costruisce e analizza un corpus selettivo di opere attraverso le quali delineare, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune tendenze in atto nell'eterogeneità della media art audiovisiva contemporanea, accomunate dalla centralità del flicker come elemento visivo e immersivo preponderante. A partire da fonti primarie vengono individuare tre marco aree corrispondenti ad altrettante tendenze rappresentative della scena di media art contemporanea: la ricerca sul dispositivo ottico-luminoso, la fondazione di ambienti infrapecettivi immersivi, il design dell’esperienza come prassi artistica mutuata dalla scienza. Il capitolo quarto è un case study dedicato al lavoro dell'artista austriaco Kurt Hentschläger e, in particolare, a due lavori relativamente della sua produzione 'solista', FEED (2005) e ZEE (2008), considerati come due configurazioni successive dello stesso nucleo di ricerca, frutto di una costante riflessione sull'esperienza del flicker e sull'elaborazione di una personale poetica dello spazio. Si ritiene che tale traiettoria specifica all'interno delle ricerche di Hentschläger, possa ricongiungere molti degli elementi e delle problematiche evidenziate nel corso nella ricerca e fornire occasione di ridiscuterli come aspetti concreti e specifici della prassi artistica dell'autore. Una seconda ragione motiva questo focus, di natura più strettamente storiografica: malgrado Hentschläger rappresenti un nome di riferimento nel campo della media art e possa essere definito, in particolare per il suo lavoro come

16 Granular Synthesis, tra gli iniziatori di molte tendenze attuali dell'audiovisivo espanso, ad eccezione di un numero esiguo di cataloghi e articoli, manca ancora una rassegna esaustiva ed uno studio approfondito e sistematico della sua produzione. Il problema della reperibilità delle fonti e dei documenti è pertanto una sottotraccia dell'intera analisi e rispetto alla quale la ricerca intende fornire un contributo utile. A partire da una ricognizione delle scarse fonti bibliografiche - cataloghi e documenti legati ad eventi espositivi, recensioni e alcune interviste, due edizioni in DVD delle opere dei Granular Synthesis, rare registrazioni o documentazioni fotografiche e sonore, si è proceduto principalmente attraverso la produzione di fonti primarie, in forma di intervista, realizzate grazie al proficuo confronto diretto con l'artista, reiterato in più momenti della ricerca.

17

18

CAPITOLO 1 Dalle neuroscienze all'immersività digitale Una ricognizione dell'uso del flicker nella storia plurale dell'audiovisivo

19

1.1 | La visone ad occhi chiusi: l’applicazione della luce pulsante nelle neuroscienze

Nel 1947, presso il Toposcope Laboratory del Burden Neurological lnstitute di Bristol, il neurofisiologo Walter Grey Walter rivela un effetto collaterale imprevisto nel corso di alcuni test sull'epilessia, basati sull’uso di lampade stroboscopiche. Racconta lo studioso:

In seguito osservammo un effetto singolare che, in verità, avrebbe potuto essere osservato prima; ma col vecchio metodo di creare il lampeggiamento per mezzo del disco rotante la sua genesi non sembrava così oscura. Questo effetto si manifestava con l'illusione di vedere disegni in movimento tutte le volte che si chiudevano gli occhi e si percepiva lo stimolo attraverso le palpebre serrate. L'illusione è più accentuata quando la frequenza di lampeggiamento è tra gli 8 e i 25 lampi al secondo, e si riscontra allora una notevole varietà di forme. […] Le sensazioni di pattern e di movimento dove non c'era né movimento né pattern erano sorprendenti e contraddittorie. Ci veniva il sospetto che, mentre stavamo provando uno strumento per lo studio dell'epilessia, ci fossimo imbattuti per caso in uno di quei paradossi che possono segnalare una verità nascosta.1

Come avremo modo di vedere, non si tratta della prima apparizione di questo strano e affascinante evento nello studio della percezione visiva, osservato in ambito sperimentale a partire da fine Ottocento. Pur non essendo obiettivo di questa ricerca addentrarsi negli aspetti cognitivi e scientifici del flicker, si ritiene pertinente inserire una ricognizione delle tappe più significative nella storia delle ricerche che hanno impiegato la luce stroboscopica come stimolo per lo studio del cervello. Un percorso iniziato più di un secolo fa e non ancora concluso: restano infatti molte le domande inevase e le

1 Grey Walter W., (1957), pp. 85-86.

21 ipotesi aperte, in particolare riguardo all'origine e alle cause delle allucinazioni indotte dalla luce stroboscopica.2 La letteratura dedicata riguarda per lo più ambiti di ricerca e diagnostici e si articola principalmente in: osservazioni relative alla fenomenologia delle visioni; classificazioni delle reazioni alla stimolazione prodotta dalla luce pulsante (stroboscopica); catalogazione e modellizzazione dei pattern visivi generati, a partire dallo stimolo della luce pulsante; messa a punto di ipotesi e teorie atte a spiegare le cause di tale fenomeno e la sua applicazione nella diagnosi e la cura di patologie, quali principalmente l'epilessia. D’interesse, anche le sperimentazioni sui dispositivi e gli strumenti utilizzati in laboratorio che, come vedremo, rivelano alcuni punti di contatto con la storia dei dispositivi del pre-cinema. Utili riferimenti per una ricognizione generale, sia storica che bibliografica, sono i paragrafi introduttivi del saggio a carattere divulgativo The Chapel of Extreme Experience di John Geiger, e l'articolo scientifico The Stroboscopic Patterns as Dissipative Structures di Steven A. Stwertka. A questi si aggiunge l’articolo Seeing with Eyes Closed: the neuroepistemology of perceptual reality di Ida Momennejad, contenuto nel catalogo Seeing with the Eyes Closed.3

Il percorso ha inizio nel 1823, quando il fisiologo di origine Ceca Jan Evangelista Purkinje mette a punto alcuni semplici metodi di stimolazione visiva, tra i quali il rapido movimento delle dita di una mano aperta di fronte al sole, e osserva che, a seconda della velocità e del ritmo del movimento, questa specie di gioco è in grado di generare effetti visivi simili ad allucinazioni. Dobbiamo quindi a Purkinje la prima descrizione degli effetti, prodotta grazie a grafiche e disegni, realizzati dallo studioso o dai soggetti coinvolti negli esperimenti, classificate successivamente in due macrogruppi in base al grado di elaborazione: primarie, forme geometriche (rettangoli, cerchi, esagoni), a scacchiera o a nido d'ape; secondarie, composizioni complesse di forme geometriche.

2 Cfr. Geiger J., 2008, pp. 6-8. 3 Cfr. Geiger J., 2008; Stwertka S. A., 1992; Franke I., Momennejad I., (a cura di), 2011, pp. 15-22.

22 Alcune ipotesi sull’origine fisiologica delle forme visualizzate sono proposte nel 1886 da L. Wolffberg4 e, nel 1919, da Leonard Thompson5. Entrambi concludono che l’effetto è causato da irregolarità nella morfologia dell'occhio, in particolare nella retina. In base alle loro ipotesi molte delle immagini e percezioni visive sono contaminate da 'visualizzazioni intra-ottiche,' dovute ad esempio a riflessi causati dalla superficie non omogenea della cornea oppure ad ombre proiettate dai vasi sanguigni6. Il fenomeno è quasi del tutto dimenticato fino all'invenzione e diffusione della tecnica elettroencefalografica (EEG),7 ad opera di Hans Berger negli anni Venti del secolo scorso, quando lampade stroboscopiche iniziano ad essere impiegate come stimolo cui sottoporre i pazienti per monitorare, via EEG, l’efficienza di risposta del cervello in forma di onde elettromagnetiche.8 Nel 1934 Edgar Douglas Adrian, neurofisiologo vincitore qualche anno prima del premio Nobel per la medicina, e il collega Bryan Harold Cabot Matthews pubblicano sulla rivista scientifica Brain9 i risultati di alcuni esperimenti, condotti presso il Laboratorio di Fisiologia di Cambridge, che prevedono la stimolazione del soggetto seduto, con il capo coperto da velluto nero e gli occhi puntati su una sfera di vetro illuminata: la luce è filtrata da una ruota in movimento, simile al disco di Benham,10 ad un ritmo di otto intervalli di buio e luce. Grazie ad un oscilloscopio ad inchiostro, i due ricercatori rilevano il ritmi del cervello in risposta alla pulsazione e li suddividono in theta e alfa, giungendo a diverse conclusioni: dimostrano anzitutto l'effettiva esistenza delle onde 'alfa', tipologia di onde cerebrali con una frequenza di 8-14 cicli al secondo circa,11 e concludono tale particolare frequenza, nel caso dei soggetti osservati, è indotta diretta dallo stimolo

4 Wolffberg L., 1886, pp. 1-13. 5 Thompson L., 1919. 6 Stwertka S., 1993, p. 69. 7 Cfr. nota 6, Introduzione. 8 La combinazione EEG e luci stroboscopiche è tutt'ora utilizzata per diagnosi e lo studio dell'epilessia. Cfr. Regan D., 1989. Stwertka S., 1993. 9 Adrian, E. D., Matthews, B. H. , 1934. 10 Un gioco percettivo molto in voga in quel periodo in grado di generare colori dal movimento circolare di un disco rotante bianco e nero. Vedremo più avanti che gran parte della storia degli strumenti ottici in grado di produrre l'effetto flicker sono coincidenti con tappe rilevanti della storia dei dispositivi dell'era del pre-cinema. 11 Stwertka S., 1993.

23 luminoso pulsante; ipotizzano inoltre che le ‘onde indotte’ siano generate nell'area di proiezione visiva del cervello e assimilabili al ritmo spontaneo delle onde alfa riscontrabile, in condizioni normali, cioè non legate a stimoli precisi, negli stati di riposo o rilassamento profondo. Rilevano, inoltre, la particolare fenomenologia visiva conseguente lo stimolo, rappresentata dall’emersione di forme illusorie e colori. Il decennio successivo è segnato dalle sperimentazioni del neurofisiologo William Gray Walter, forse il nome più celebre in questo excursus, il quale approfondisce e sviluppa ulteriormente le possibilità offerte dalla combinazione di tecnica elettroencefalografica e stimolazione stroboscopica. Nel corso dei suoi esperimenti utilizza, tra le diverse apparecchiature, anche il Toposcopio, strumento messo a punto dal fisiologo per localizzare in tempo reale le aree del cervello coinvolte nella percezione della luce pulsante. Lo studioso illustra così l’efficienza dello stimolo stroboscopico rispetto alla rilevazione elettroencefalografica:

Nel 1946 scoprimmo che i dati contenuti in un tracciato EEG potevano essere notevolmente aumentati sottoponendo il cervello a ritmiche stimolazioni e in particolar modo facendo lampeggiare una potente sorgente luminosa negli occhi chiusi o aperti del soggetto. I primi esperimenti di questo tipo furono fatti facendo passare la luce tra i raggi distanziati di una ruota in movimento, ma con scarsi risultati. Si trovò, come ci si aspettava, che ogni stimolo luminoso evocava nel cervello, una risposta elettrica caratteristica.12

Da principio si occupa di studio diagnostico su pazienti epilettici, in seguito inizia a progettare apparecchiature e strumenti per migliorare la qualità dello stimolo luminoso, dopo aver rilevato l'inadeguatezza dalle tecniche comunemente in uso in quel periodo, principalmente ruote e dischi ottici, che non permettono di sincronizzare puntualmente il pulsare delle luci con i ritmi cerebrali. Per ovviare a questo inconveniente, Grey Walter utilizza uno stroboscopio elettronico ad alta potenza e mette a punto un sistema di controllo retroattivo che consente di sincronizzare automaticamente l'accezione dei flash con il ritmo cerebrale. Questa apparecchiatura dà modo allo studioso di testare un'ampia

12 Grey Walter W. 1956, p. 78.

24 gamma di rapporti tra diversi stimoli di luce intermittente e qualsiasi ritmo cerebrale spontaneo: dopo aver rilevato con l'EEG la frequenza di base del cervello del soggetto, lo stroboscopio è regolato sulla stessa frequenza, detta frequenza 'specchio'. Oltre alla registrazione delle onde cerebrali tramite EEG, vengono riportati anche fattori e stati emotivi durante la stimolazione, invitando la persona in esame a descrivere eventuali sensazioni o stati insoliti.13 Durante una serie di test effettuati su di sé e sul team di ricerca per la calibratura della strumentazione, Grey Walter rileva casualmente gli effetti anomali determinati da stimoli con frequenza tra gli 8 e i 25 Hz, con una risposta in termini di visione di forme e colori in particolare tra gli 8 e i 14 Hz. Molte delle sue osservazioni sono sintetizzate nel 1949 in un articolo scientifico, primo studio sistematico dedicato,14 che contiene un'ampia descrizione delle esperienze percettive conseguenti lo stimolo stroboscopico: riporta di sensazioni visive, quali colori talmente vivi da apparire iper-reali, 15 figure geometriche e movimenti; sensazioni semplici non visive - cinetiche, tattili, uditive, gustative, olfattive, viscerali; emozioni - fatica, confusione, paura, disgusto, rabbia, piacere, disfunzioni nella percezione temporale; allucinazioni strutturate di vario tipo, come forme antropomorfe, visi o panorami, scene in movimento. Infine, l'articolo descrive una delle reazioni che avranno maggiori conseguenze su questo tipo di studi e cioè che il flicker può indurre stati clinici di psicopatia ed epilessia nel 3-4% di soggetti non patologici, ai quali cioè non sia stata diagnosticata precedentemente alcuna affezione simile.16 I sintomi riportati sono: disturbi transitori della coscienza, picchi emotivi, svenimenti, momenti di assenza e perdita di coscienza di breve durata, durante i quali i soggetti smettono di muoversi, parlare, reagire a qualsiasi stimolo esterno. Una volta rinvenuta, in

13 Ibid., 1956, p. 83, 89. 14 Walter V. J., Walter Gray W., The central effects of rhythmic sensory stimulation, Electroencehalogr. Clin. Neurophysiol, 1949, pp. 57-86. 15 Una descrizione della potenza dei colori sprigionati dal flicker, sul loro essere ‘irreali’ e differenti per qualità dai colori presenti in natura, è presente in un libro della poetessa Margiad Evans del 1950, dedicato al racconto della sua epilessia. Cfr. Evans M., 1996. 16 Studi successivi rilevano che la percentuale di incidenza tra soggetti non epilettici è di 1 su 4.000. Questo tipo di soggetti vengono definiti fotosensibili. La fotosensibilità è frequentemente manifestata durante l'infanzia o l'adolescenza – il 76% dei pazienti fotosensibili manifesta il primo attacco tra gli 8 e i 20 anni).

25 genere dopo qualche minuto, la persona non ha generalmente memoria né cognizione di quanto accaduto.17 In base a tali reazioni relativamente frequenti, Grey Walter ipotizza che gli attacchi epilettici in soggetti non affetti da epilessia diagnosticata non rappresentino manifestazioni patologiche ma che possa trattarsi piuttosto di espressioni meno ricorrenti di reazioni potenziali del cervello ad alcune frequenze, esplicitate da soggetti predisposti o particolarmente sensibili a condizioni contestuali legate all’esperimento. Nel 1953 Grey pubblica il suo celebre saggio scientifico a carattere divulgativo The Living Brain,18 sunto delle conoscenze fino ad allora acquisite sulla natura elettrica del cervello. Contiene un capitolo dedicato agli esperimenti con la luce stroboscopica, introdotto da una ricognizione della storia degli studi principali, compiuti fino a quel momento, sulle onde cerebrali e sull’impiego della tecnica encefalografica.19 In questa sede, lo studioso esclude sia che le immagini possano provenire dalla retina, sia che vengano generate nell'area visiva, 'troppo specializzata e priva di originalità per poter creare da sola immaginazioni così suggestive.'20 La complessità degli effetti spinge lo studioso ad escludere che esse possano essere frutto di un’anomali retinico o oculare, ma che la loro origine debba necessariamente coinvolgere in modo esteso il cervello:

Sappiamo che i disegni non sono prodotti dall'esterno e quindi non possono provenire dalla retina attraverso l'occhio. Sappiamo che non si formano spontaneamente sulla retina; sono suscettibili di cambiamenti secondo lo stato mentale e l'atteggiamento del soggetto e non si può mettere in evidenza alcun effetto anomalo negli elettrogrammi derivati dalla retina. Le immagini provocate dal lampeggiamento, insieme ai ritmi alfa, sono prodotte dal cervello. Il loro movimento è quello di un meccanismo del cervello fin’ora insospettato. Di quale meccanismo si tratta?21

La risposta è rappresentata, secondo Grey Walter, dal meccanismo di scanning effettuato costantemente e ininterrottamente dal cervello: un ritmo di luci

17 Geiger. J. 2003, p. 18 18 Grey Walter W., 1956. 19 Ibid., pp. 73-76. 20 Idem. 21 Ibid., p. 90.

26 stroboscopiche con un range tra 8 e 25 Hz al secondo interferirebbe con la frequenza del meccanismo di scansione cerebrale, dando vita alla fenomenologia del flicker. 22 John R. Smythies, prosegue le ricerche di Grey, inserendole nel quadro più ampio dello studio sulle allucinazioni indotte da sostanze enteogene. Per lo studioso le visioni non rappresentano un disordine nelle funzioni cerebrali, come molti credevano al tempo, quanto piuttosto l’accesso ad un piano del reale precluso dalla percezione ordinaria.23 Nel 1954, presso la University of British Columbia, conduce un primo studio su un gruppo di soggetti, utilizzando luci stroboscopiche ad un droga blandamente allucinogena, il TMA, 24 e rilevando un notevole incremento delle visioni sia in termini quantitativi che qualitativi. Gli studi di Smythies richiamano l’interesse di Aldous Huxley, che descrive i fenomeni visivi indotti dal flicker in Heaven and Hell (1956) e introduce le conoscenze sugli effetti della luce stroboscopica fuori dai contesti scientifici, influenzando come vedremo, alcuni autori vicini alla scena beat. A partire dal 1955, Smythies sottopone a test con luce stroboscopica circa 1000 soggetti. Tra il 1959 e il 1960 pubblica per il British Journal of Phychology tre articoli nei quali presenta osservazioni riguardo alla stimolazione monoculare e binoculare e osserva che, pur nella singolarità dell'esperienza, è possibile riscontrare alcune costanti e ricorrenze nelle visioni tra vari individui o tra più esperienze dello stesso soggetto. In base a questo, classifica le allucinazioni in sette categorie principali, inoltre esplora una serie di ipotesi sperimentali per spiegarne le cause alla base: tra le quali, ad esempio, l’idea che esse siano provocate dalla mancanza di forma iconica dello stimolo luminoso, della sua riduzione a pure luce. 25 Secondo questa interpretazione, la totale assenza di riferimenti che consentano al cervello di attuare abituali processi di pattern recognition,

22 Idem. 23 Geiger J. 2004. pp. 28-29. 24 TMA, Trimethoxyamfetamina, un allucinogeno sintetizzato per la prima volta nel 1947 dalla Imperial Chemicals Ltd. di Manchester. L'effetto abituale del TMA è molto blando e genera rare e poco potenti allucinazioni. In esperimenti successivi vengono invece somministrate sostanze più efficaci in tal senso e più note quali mescalina e LSD. Ibid., p. 32. 25 Smythies JR., 1960, pp. 247-255.

27 spingerebbe il sistema visivo a generare un'ipotesi provvisoria e autogenerata, percepita dal soggetto come immagine o pattern geometrico.26 Tra gli studi più recenti e autorevoli, quelli di Dominic H Ffytche,27 il quale ritiene che le visioni non siano causate da una variazione delle attività di specifiche aree del cervello (spiegazione topologica), quanto piuttosto da un'alterazione nella connettività tra aree cerebrali differenti (spiegazione 'odologica').28 Altri contributi mirano ad individuare una prevedibilità delle allucinazioni, cercando relazioni causali tra specifiche frequenze della luce pulsante e tassonomie dei pattern e colori riportati dai soggetti.29

La ricorrenza di figure geometriche è denominata 'costante di forma' ed è coinvolta anche negli effetti delle droghe allucinogene, nelle immagini ipnagogiche30 o di premorte31. Se questo indirizzo di ricerca rappresenta una delle declinazioni più recenti del percorso di studio sul fenomeno in ambito neurologico, resta invece un aspetto della fenomenologia del flicker poco frequentato e spesso di scarso interesse per gli artisti che includono la luce pulsante nelle loro ricerche o tra le fonti visive dell’opera, interessati maggiormente all'ambiguità e all'incertezza, alla decostruzione e alla singolarità dell'esperienza progettata ed esperita dal singolo spettatore, grazie a questa particolare condizione della luce, all’amplificazione della condizione immersiva dello spazio o alle possibilità di interazione tra eventi ritmici visivi e sonori.

26 Steven A. Stwertka, 1992, p. 72. 27 Dominic H Ffytche, 2008, pp. 1067-1083; Dominic Hffytche, 2009, pp. 28-35. 28 Meulen B. C., Tavy D., B.C. Jacobs. 2009. p. 317. 29 Becker, 2006, 2009; Wackermann, Allefeld, 2008, 2010. 30 Si tratta di visioni determinate dal passaggio dallo stato di sonno a quello di veglia. 31 Klüver H., 1966, Mescal and Mechanisms of Hallucinations, cit. in Meulen B. C., Tavy D., B.C. Jacobs, 2009, p. 317.

28 1.2 | Sulle tracce del flicker: un percorso nella storia delle arti

1.2.1 | Il passaggio dalle neuroscienze all'arte attraverso la Dream Machine di Brion Gysin

Il più noto trait d'union tra la sperimentazione sulla stroboscopia in campo scientifico e ambito artistico è rintracciabile negli anni Sessanta con la realizzazione della Dream Machine, dispositivo ottico-cinetico progettato dall'artista Brion Gysin. Lo strumento è costituito da un cilindro con perforazioni di diversa dimensione e forma, in rotazione su un giradischi alla velocità di 78 giri/secondo. All'interno, una lampadina a 100 watt di potenza costituisce la fonte di luce, che filtra attraverso le feritoie sulla superficie del cilindro ad un ritmo tra 8 e 12 pulsazioni al secondo, corrispondente pressappoco alla frequenza delle onde alfa e in grado di determinare l’emersione di forme semi-allucinatorie. L'idea per la progettazione dell’apparecchio viene da un'esperienza casuale avuta dall’autore nel corso di un viaggio in autobus verso Marsiglia: il passaggio della luce solare attraverso il susseguirsi ritmico degli alberi di un viale è accompagnato da colori e forme evanescenti. L’artista propone quindi a Ian Sommerville di progettare insieme una macchina cinetica per riprodurre il fenomeno esperito da Gysin e riportato in The Living Brain, saggio segnalatogli da William Burroughs. Viene così progettata la Dream Machine, uno strumento meccanico che segna una continuità con gli esperimenti nel campo delle neuroscienze, più di quanto non accada per successivi esempi di pratiche stroboscopiche in ambito estetico. Pur trattandosi di un progetto artistico, la Dream Machine è considerata dai due autori come medium e strumento per indagare nuove configurazioni della percezione visiva, da contestualizzare sia all’interno dei mondi dell’arte che ad una diffusione più ampia presso un pubblico non specialistico. Un oggetto attraverso il quale accedere a modi della visione extra-oculari, una visione dall'interno che sia anche fonte d’ispirazione per la prassi estetica. Come sottolineato nel paragrafo precedente, l'introduzione delle luci stroboscopiche nei set sperimentali segna un notevole passo avanti nelle neuroscienze, permettendo di ampliare la potenza e la gamma delle reazioni del soggetto. Prima delle luci elettriche il dispositivo più

29 utilizzato è il disco di Benham. Si tratta di un disco in bianco e nero in cui la rotazione e il ritmo dato dall'intervallo tra i due monocromi, allo stesso modo della luce pulsante, provocano la visione di anelli e forme geometriche colorati.32 L'induzione di un'anomalia percettiva attraverso la creazione di una struttura ritmica (determinata dall'intervallo tra bianco/nero o luce/buio), lega la Dream Machine anche alla storia dei giochi ottici, utilizzati come intrattenimento nel corso del Diciannovesimo secolo, e dei dispositivi pre-cinematografici. Esperienze, queste, significative per l’affermarsi del cinema perché gettano le basi per la conoscenza dei meccanismi ottici che determinano l'illusione dell'immagine in movimento e al tempo stesso anticipano le pratiche di fruizione che si andranno consolidando e codificando nel secolo successivo.33 Tra questi: il Taumatopio, gioco inventato nel 1824 dal fisico Mark Roget che sfrutta lo sfarfallio di un disco dipinto per integrare due distinte immagini poste sulle facce dello strumento, attraverso il fenomeno della persistenza retinica; il Fenachistoscopio, ideato da Joseph Plateau nel 1831 e formato da due dischi, sovrapposti in modo da ritmare la ripetizione di immagini dipinte e creare l'illusione del movimento; il Kinesiskope, progettato nel 1841 dal neurofisiologo e anatomista Jan Evangelista Purkyn, che produce anch'esso l’illusione del movimento, attraverso la scomposizione in più immagini successive, disposte su un cerchio in rotazione; lo Stroboscopio, del matematico austriaco Simon von Stampfer, che nel 1833, realizza un disco con una sequenza di immagini fisse e luce lampeggiante a frequenza regolabile. Infine, la più nota di queste macchine, lo Zootropio, inventato nel 1834 da William George Horner, del quale la Dream Machine, richiama, oltreché la presenza dell'effetto stroboscopico, anche la struttura e il funzionamento: un cilindro in rotazione la cui superficie è intervallata da feritoie, entro le quali generare la scansione ritmica della sorgente visiva. Pur marcando una continuità con la storia delle tecniche dei dispositivi ottici e del pre-cinema, la Dream Machine, ha come caratteristica originale l’essere

32 Un articolo apparso nel 1894 sulla rivista Nature, a firma di Charles E. Benham, descrive le visioni provocate dal disco e stabilisce che i colori percepiti dai soggetti sono sensazioni 'artificiali', non presenti cioè nello stimolo di partenza. Cfr. Geiger J., 2003, p. 14. 33 Sulla storia dei dispositivi e delle tecniche pre-cinematografiche, cfr. Presenti Compagnoni D., 2007.

30 il primo apparecchio proposto come dispositivo estetico da guardare ad occhi chiusi. I due autori realizzano il 15 febbraio 1960 un primo esemplare, brevettato nella sua versione definitiva il 18 luglio dell’anno seguente. L’invenzione, definita insieme strumento artistico e scientifico,34 è presentata per la prima volta in un numero speciale dedicato dalla rivista parigina “Olympia” del febbraio 1962, che contiene contributi dei due creatori e insieme le istruzioni per la produzione dell'apparecchio. Brion Gysin lo descrive come medium per esperienze sensoriali di tale radicalità da problematizzare il senso stesso della visione e di ciò che concerne l’ambito del visibile. Prima dell’invenzione della Dream Machine, Brion Gysin, poeta, romanziere e pittore, è noto principalmente in relazione a William Burroughs, con il quale intesse un lungo sodalizio personale e artistico. L’autore sviluppa le proprie ricerche intessendo collaborazioni con autori significativi di varie correnti e generi, da quella surrealista al beat, da Fluxus e alla Poesia Sonora e Concreta, lasciandosi influenzare da questi contesti culturali e artistici ma restandone sempre un po’ a margine e rielaborandoli in un suo eterogeneo percorso. Questa rappresenta forse una delle ragioni dello scarso interesse per la sua opera, che ha ricevuto attenzione nell’ambito delle arti visive solo in tempi relativamente recenti.35 Un dato significativo è rappresentato dal fatto che il

34 L'invenzione viene registrata con il brevetto no. P.V. 868,281, il 18 Luglio 1961 e descritta come segue: "This invention, which has artisticx and medicai application, is remarkable in that perceptible results are obtained when one approaches one's eyes, either opened or closed, to the outer cylinder slotted with regularly spaced openings revolving at a determined speed. These sensations may be modified by a change in speed, or by a change in disposition of the slots, or by changing the colors and patterns on the interior of the cylinder..." Geiger J., 2003, p. 66. 35 Tra i contributi recenti dedicati all'opera di Gysin: Hoptman L., 2010; Geiger J., 2003; Kuri J. F., 2003; Fisher J., Hiller S., 2000; Cecil P., 1996. Per la diffusione della Dream Machine, Gysin tenta due strade, quella dell'industria dell'intrattenimento e quella del mercato dell'arte. I tentativi di commercializzazione e produzione in serie, dopo l'iniziale interesse di alcuni potenziali acquirenti, falliscono tutti in breve tempo. Il solo episodio di successo è rappresentato dall'Expo '67 di . Mentre l’autore è in vita, il mondo dell'arte, riserva una contenuta attenzione al progetto. Si segnalano comunque alcuni eventi espositivi personali o collettivi di rilievo nei quali la Dream Machine viene ospitata tra opere pittoriche – il salon Antagonisme e la mostra L'object al Louvre Musee des Arts decoratif, entrambe a Parigi nel 1962. Nello stesso anno la Galleria Trastevere di Roma ospita la personale Eight Units of a Permutative Picture: espone una serie di otto tele di grandi dimensioni realizzate dall’autore e, insieme la Dream Machine, creando un unico ambiente, che ospita anche un reading di poesia dello stesso Gysin e che costituisce quella che l'autore definisce “a chapel of extreme experience. Nel 1976 il Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou di Parigi acquisisce uno dei prototipi della Dream Machine nella propria collezione permanente e tre anni

31 recupero per il suo lavoro coincida con il diffondersi e il consolidarsi di modelli di analisi multidisciplinari, legati allo studio del variegato panorama di opere multimediali, trans-linguistiche del contemporaneo.

Lauren Cornell nota che l'eredità più prolifica lasciata di Gysin sia l’attitudine di questo incessante sperimentatore all’ibridazione linguistica, declinata in una costante esplorazione, traduzione e passaggio tra differenti media, che anticipa la cross-medialità e il rapporto con il medium propri di molti artisti contemporanei, che articolano la ricerca di volta in volta in forme linguistiche molteplici, declinazioni diverse di un più ampio programma creativo. 36 La Dream Machine e le esperienze ad esso, legate costituiscono un immaginario che ricorre spesso nell'opera di Gysin. Molti paesaggi, distorti fino all'astrazione, sono dipinti a partire da allucinazioni ed epifanie visive generate dalla lampada. Nei romanzi The Process (1969) e The Last Museum (1986),37 compaiono accurate descrizioni di scenari legati al flicker. La troviamo anche in The Cut-Ups (1966),38 noto film di cut-up realizzatio da Burroughs e Gysin e diretto da Antony Balch, nel quale i bagliori tipici della Dream Machine sono la base per la costruzione di un montaggio ossessivo e pulsante che riproduce, in pellicola, un processo visivo analogo a quello dell’apparecchio cinetico. 39 Le immagini emerse grazie alla Dream Machine si pongono, secondo Gysin, a metà tra due nature apparentemente antitetiche: marcano la loro completa estraneità al mondo fisico abitualmente percepito e insieme contengono una summa di tutti i simboli e le forme appartenenti alla storia del visibile e prodotte dall'uomo (immagini archetipiche e gestaltiche, simboli religiosi.40 L'accesso e la scoperta di questo vocabolario visivo primordiale, consente di ridurre l'origine dei fenomeni visivi alla sola luce, unica sorgente immateriale del visivo.

dopo, nel 1979, il mercante d'arte Cari Laszlo ne realizza un'edizione limitata, celebrata, a settembre dello stesso anno, da una mostra presso la Galerie von Bartha di Basilea. 36 Cornell L., Contemporary Art/Contemporary Yearning. in Hoptman L., 2010, p. 145. 37 Gysin B., 1989. 38 The Cut-Ups, 1966, 16mm, 18’ 48’’, b/n, suono. Regia: Antony Balch. Autori: William Burroughs e Brion Gysin. Il film è presente nella raccolta in DVD dal titolo W. S. Burroughs. Cut-Ups Films, cura di Stefano Curti, Rarovideo. 39 Sargeant J. 1997, Naked Lens. Beat Cinema, cit. in Geiger J. 2003. p. 72. 40 Gysin Bryon, cit in Hoptman, 2010, p. 121.

32 1.2.2 | Flicker film: dalla modulazione di impulsi luminosi alla creazione di sequenze percettive

Nel cinema su pellicola la pulsazione stroboscopica del dato visivo in forma di luce comporta l'intervento su alcuni parametri fondamentali della materia, agendo sul singolo fotogramma e stabilendo, nel ritmo, l'incontro tra polarità essenziali e antitetiche: luce/buio, bianco/nero, fotogramma impressionato/non impressionato, pieno/vuoto, positivo/negativo. Il flicker prevede quindi l’intervento su una relazione fondamentale del dispositivo cinematografico, quella tra lo spazio modulare del fotogramma e la sua scansione nel tempo. Come ricordato da Malcom Le Grice, l'apparato cinematografico, basato sullo scorrimento dei 24 fotogrammi al secondo si offre come piattaforma ideale per la creazione del movimento illusorio e al tempo stesso per intervenire su tale meccanismo e minare tale consuetudine, spingendo la soglia percettiva verso fenomeni ottici diversi ed esplorare la fenomenologia del flicker come ontologia del visibile altra dalla riproduzione del movimento naturale delle cose; un processo già presente in potenza nel meccanismo cinematografico.41

L’esplorazione dei sintagmi fondamentali di base del cinema - forma, materia, tempo, spazio - è tratto distintivo di pellicole sperimentali definite dagli autori di flicker film, realizzate principalmente da filmmaker attribuibili o affini alla corrente dello structural cinema o structural/material film. Le due definizioni, la prima di provenienza statunitense, inglese la seconda, definiscono la produzione di una costellazione di personalità attive inizialmente in USA negli anni Sessanta, con evoluzioni in Inghilterra, principalmente nel decennio successivo. La definizione più diffusa è quella di structural film, coniata dal critico statunitense Paul Sitney Adams per identificare alcune produzioni relative alla seconda generazione dell'Avant-Garde nordamericana, vale a dire autori di poco successivi a Kennet Anger, Stan Brakhage e Maya Deren.42 Malgrado gli scritti di questo autore costituiscano un punto di partenza e di confronto imprescindibile in riferimento a tale corrente, il suo sguardo sul fenomeno non riesce ad abbracciarne

41 Le Grice M., Tony Conrad. The Flicker, in Gidal P., 1978, p. 135. 42 Sitney Adams P., 1974.

33 l’eterogeneità e la portata internazionale, focalizzata com’è sull'hic et nunc dell'avanguardia americana. Egli, infatti, individua una serie di regole formali che poco raccontano della specificità di ciascun autore e non permettono, inoltre, a partire da una prospettiva di analisi attuale, di individuare caratteristiche germinali per la riformulazione di parametri importanti dell'esperienza audiovisiva, ereditate e fatte proprie da molti autori di media art contemporanea.43 Scopo di questo excursus nella tendenza strutturalista è rintracciare tale fenomeno oltre la rigida delimitazione tracciata da Sintney Adams – per altro ampiamente condivisa – e individuare, pur nelle dovute specificità e differenze, un percorso condiviso tra alcuni autori strutturalisti. In tal senso, il flicker rappresenta una solida traccia da seguire, un minimo comune denominatore grazie al quale instaurare confronti e differenze che partono dalla fenomenologia della visione e fanno emergere questioni di rilievo sulla natura del dispositivo cinematografico, le relazioni tra materia sonora e visiva e l'esperienza di fruizione. Infine, l'analisi di Sitney Adams si sofferma molto brevemente sulle opere e sugli autori attribuiti alla cerchia strutturalista, per rintracciare influenze dalla precedente generazione di filmmaker statunitensi, primo fra tutti Andy Warhol.

Al contrario il contributo alla questione offerto da Peter Gidal nella raccolta di saggi intitolata Structural Film Anthology, espande e approfondisce l'analisi del fenomeno al punto da rendere l'antologia, datata 1978, un contributo ancora estremamente attuale, in una prospettiva storiografica, nel confronto cioè con la produzione artistica dei decenni successivi, non solo cinematografica.44 L’autore conia la definizione di structural/materialist film, laddove con 'materialista' intende sintetizzare non solo l'intervento formale sulla materia filmica ma una pratica del cinema che, a partire dalla prassi aptica sulla materia e sui dispositivi, si pone come riflessione teorica sugli elementi cardine del linguaggio cinematografico. Pratica che si fa teoria o teoria imprescindibile dalla pratica, la sua è una riflessione sugli elementi minimali e fondamentali del cinema su pellicola quali: lo spazio modulare dei fotogrammi, il loro concatenarsi sulla

43 Le caratteristiche individuate sono: l'uso della camera fissa, l'effetto flicker, il loop, la ripresa d’immagini proiettate. 44 Gidal P., (a cura di), 1978.

34 pellicola, la luce come sorgente primaria, il ritmo di proiezione come battito fisiologico. I filmmaker considerati dall’autore si rapportano a questi elementi e, ri- progettandone il funzionamento, formulano una concezione nuova di cinema e di esperienza dell'audiovisione. Un lavoro artigianale che, come affermato da Kubelka, padre putativo di questa 'corrente', si basa sul corpo e produce un sapere del corpo,45 una conoscenza indistricabilmente legata alla fisicità delle materie del film – non solo come pellicola ma anche in forma di luce e tempo, elementi apparentemente immateriali resi oggetti plasmabili dal meccanismo cinematografico.

Pur essendo il flicker diffusamente in uso nella pratica strutturalista, ampiamente utilizzato come modo di scomposizione della fluidità dell'immagine in movimento, ci concentreremo su alcuni specifici autori e sui loro lavori, nei quali il flicker coincide con il contenuto stesso del film, reso attraverso un processo di sottrazione radicale di elementi. Come evidenziato da Gidal46un denominatore comune in tutta la produzione dello structural/materialist film è la rottura dell'illusione determinata dal dispositivo cinematografico, del 'meccanismo mistificatorio dell'immagine' e del suo valore intrinseco, represso a favore dell'illusione e dell'asservimento alla rappresentazione e al racconto. L'annullamento di ogni istanza rappresentativa o narrativa permette, afferma Gidal, di assimilare i due concetti di forma e contenuto e di rendere il concetto di forma non espressione di una composizione bensì di operazione, processo morfologico.47 L’opera filmica strutturalista si basa sulla genesi della forma visibile, di un’immagine che è prodotta e non ri-prodotta: per rendere visibile la materializzazione dell’immagine, le sue trasformazioni e i suoi sviluppi nel tempo, l'aspetto formale è ridotto al più radicale minimalismo, la rappresentazione è sottratta in favore della solidità spaziale del fotogramma, fino a raggiungere, in particolare nei flicker film, l’assoluta corrispondenza tra forma e contenuto.48 La prassi artistica di questi autori passa attraverso lo studio della materia primaria del cinema – la pellicola – e del funzionamento della tecnica cinematografica, analisi

45 Lebrat C., Entretien avec Peter Kubelka, in Lebrat C., (a cura di),1992, p. 33. 46 Gidal P., (a cura di), 1978, p. 2. 47 Ibid., p. 2. 48 Lebrat C., (a cura di), 1992, p. 29.

35 dei meccanismi di creazione della forma visiva che permette di isolare le unità di base del cinema. Tra queste, primariamente la luce, intesa come materia plasmabile, in relazione al tempo. Gidal suddivide le esperienze dello structural materialistic film secondo due tendenze principali: una prima legata alla dimensione materica e strutturale e alla ricerca di corrispondenza tra forma e contenuto, accanto ad un’altra più indirizzata ai risvolti percettivi e sensoriali, che vede la creazione del film come progettazione di sequenze percettive. In questa seconda tendenza, l’attenzione dell’autore e la prassi di creazione non si esaurisce alla sola progettazione del film ma considera anche il momento e la condizione di fruizione in esso determinata, principalmente, nei termini di esperienza percettiva e meditativa. 49 I film di flicker sono esemplari del progressivo passaggio dalla prima alla seconda tendenza, dal cinema aptico a quello meditativo, un percorso reso particolarmente evidente dal confronto tra alcuni lavori di Peter Kubelka, Tony Conrad e Paul Sharits.50

In Arnulf Rainer (1960)51 di Peter Kubelka, capostipite dei film di flicker, l’autore non si occupa delle conseguenze visive e visionarie dell’intermittenza,52 esso è piuttosto conseguenza corollaria di una partitura ritmica della pellicola, basata su relazioni armoniche tra fotogrammi impressionati o non. L’autore, musicista di formazione, si concentra sulla luce, come grado zero del linguaggio filmico, e le sue possibili interazioni con il tempo, indagando la natura stessa del cinema a partire dalla pellicola, sperimentando i margini di malleabilità e riconversione del meccanismo cinematografico. 53 Prende quindi a lavorare sulla natura temporale della pellicola misurando e scomponendo la cadenza dei 24 fotogrammi al secondo in combinazioni metriche di bianchi e neri e generando quella che lui definisce 'musica per gli occhi'.54

49 Gidal P. in A.L. Rees, White D., Ball S., Curtis I. (a cura di), 2011, p. 166. 50 Gidal P., 1978, pp. 135-136. 51 Peter Kubelka, Arnulf Rainer,1960, 35 mm, 6’, b/n, suono. Presentato per la prima volta nel maggio del 1960 presso Filstudio di . 52 In realtà primo isolato esperiemento di flicker film è meno noto Color Sequence (1943) dell'americano Dwinell Grant, cit. in Daniels D., Naumann S., (a cura di), 2010, p. 21. 53 Sitney Adams P., 1969. 54 Lebrat C., (a cura di), 1992, p. 72.

36 The Flicker (1965)55 di Tony Conrad, invece, introduce nella progettazione filmica l’attenzione alla risposta percettiva dello spettatore: dopo aver sperimentato una serie di dispositivi luminosi, il filmmaker e musicista mette a punto un sistema che permette di riprodurre, attraverso il dispositivo cinematografico, lo stesso effetto percettivo della luce stroboscopica. Interviene quindi sulla velocità di scorrimento della pellicola nel proiettore e su quella di apertura dell'otturatore. In seguito conduce una serie di ricerche empiriche sulle frequenze della pulsazione, ottenuta individuando una gamma di frequenze percettivamente efficaci e di corrispettivi effetti visivi, in forme e colori.

Mentre per Kubelka il flicker è prassi analitica nella materia del cinema, che lascia emergere qualità intrinseche e inespresse del dispositivo, per Conrad è metodo d’indagine della fenomenologia percettiva audiovisiva.56 The Flicker segna quindi lo slittamento dalla progettazione della struttura in funzione della dimensione materica e aptica della pellicola, verso l'effetto, lo stimolo che dalla pellicola giunge all'occhio e al corpo dello spettatore, mantenendo però ancora il focus su un livello intermedio tra la relazione spazio-temporale interna al dispositivo e quella dello spazio e tempo reali dell'esperienza del fruitore.

Paul Sharits rende la percezione tema centrale della sua ricerca cinematografica. Il suo è cinema meditativo, 57 reso principalmente attraverso successioni e variazioni della luce pulsante, portata fino all'aggressione violenta del pubblico. Un percorso inaugurato nella seconda metà degli anni Sessanta, con il film Razor Blades (1965/68),58 Piece Mandala/End War (1966)59 e Ray Gun Virus (1966),60 il già citato N:O:T:H:I:N:G (1968)61 e T,O,U,C,H,I,N,G (1968),62 al quale si aggiunge, a partire dal decennio successivo, la produzione di installazioni

55 Tony Conrad, The Flicker, 1965, 16 mm, 30’, b/n, sonoro. 56 Branden W. J., 2008, pp. 284-285. 57 Sharits P., Notes for Film. General Statement: 4th International Film Festival. Knokke Le Zoute, in Gidal P., 1978, p. 91. 58 Paul Sharits, Razor Blades, 1965-1965,16 mm, b/n e col., suono stereo, 25’. 59 Paul Sharits, Piece Mandala/End War, 1966, 16 mm, col., no suono, 5’. 60 Paul Sharits, Ray Gun Virus, 1966, 16 mm, col., sonoro, 14’. 61 Paul Sharits, N:O:T:H:I:N:G, 1968, 16 mm, col., sonoro, 36’. 62 Paul Sharits, T,O,U,C,H,I,N,G, 1968, col., sonoro, 12’.

37 ambientali, tra le quali Shutter Interface (1975)63 o Epileptic Seizure Comparison (1976)64. Oltre al particolare discorso sulla percezione, il lavoro di Sharits espande in molteplici direzioni le ricerche del flicker film, introducendo importanti elementi: da una parte la progettazione di installazioni ambientali determina una maggiore complessità delle relazioni tra opera e spettatore, sia per quanto concerne la dimensione prettamente spaziale che temporale; tratto distintivo dei suoi lavori è inoltre l'uso del colore, reso materia solida e modulabile, soggetta alla metrica e alle variazioni di frequenza del flicker.65 Sharits fa proprio l'intento demistificatorio e anti-illusorio dello structural/materialist film, interviene sugli elementi basilari e materiali del dispositivo ma espande il focus della ricerca dal film come oggetto al film come processo, condizione percettiva offerta allo spettatore. Un’attenzione che si concentra sugli aspetti fisiologici e sulla dimensione del corpo, inteso sia come materialità del cinema e degli elementi che ne compongono l’anatomia – la celluloide, il frame, i fori e l’emulsione, il funzionamento del proiettore, la superficie dello schermo e la luce e il suo potenziale tridimensionale abbandonando qualsiasi imitazione e illusione - , che come corpo percepiente dello spettatore – la superficie della retina, il nervo ottico, le forme di coscienza soggettiva psico-fisica coinvolte. Attraverso questa forma somatica spuria e diretta tra fisicità filmica e corpo del fruitore Sharits elabora i propri film intorno a strutture tematiche, mai sviluppate fino alla narrazione quanto piuttosto in esperienze visionarie e meditative.66

L’arco che attraversa le ricerche dei tre autori appena citati muove i discorsi sull’ontologia del dispositivo cinematografico dall'analisi formale del linguaggio alla prassi di fruizione, delineando una dimensione della fruizione

63 Paul Sharits, Shutter Interface, installazione a 4 schermi e 4 proiettori 16 mm, suono quadrifonico. 64 Paul Sharits, Epileptic Seizure Comparison, 1976, installazione 16 mm a uno o due schermi, col., suono optofonico, 30.’ 65 Prima di Sharits, Oskar Fishinger aveva sperimentato la relazione tra cromia e ritmo del flicker in Radio Dynamics (1942), animazione astratta nella quale la combinazione di forme geometriche, colore e ritmo sono orchestrate per riprodurre sensazioni sonore attraverso una pellicola muta. Un altro esperimento in tal senso, citato dallo stesso Paul Sharits in un intervista del 1983, è Archangel (1966) dello statunitense Victor Grauer, cfr. Lebensztejn J.C., Interview with Paul Sharits, in Beauvais Y., (a cura di), 2008, p.78. 66 Beauvais Y., (a cura di), 2008, p. 90.

38 sempre più diffusa, dalla visione al corpo e al sistema percettivo nel suo complesso.67 In quest’attenzione allo spettatore, Gidal evidenzia come ciascun film non sia solo strutturale ma anche strutturante: è agente che attiva un sistema generativo relativistico che coinvolge e comprende, fin dalla sua progettazione, lo spettatore esperiente. In questo processo, lo spettatore genera la visione secondo modalità eterogenee, simili o dissimili, in ogni caso espressione di una dimensione soggettiva.68 Ciò è reso anche dall’attenzione riservata, in particolare da Sharits, quello che Gidal definisce tempo relativistico, proprio di questo tipo di pratiche. Lo studioso suddivide, infatti, il tempo del cinema in tre categorie: tempo reale, la dimensione sulla quale interviene il filmmaker nelle fasi di realizzazione - ripresa, montaggio, stampa e proiezione di singole riprese o sequenze; tempo illusorio, creato per suggerire una condizione di tempo irreale, ottenuta principalmente tramite il montaggio che simula linearità, comprimendo sezioni temporali simultanee; infine il tempo relativistico, caratteristico per l'appunto dei flicker film, evento e momento nel quale viene a generarsi in modo immateriale la relazione tra temporalità del film e tempo dello spettatore.69

1.2.3 | Il movimento di Arte Cinetica e Programmata in Italia: le ricerche stroboscopiche del Gruppo T e MID

Rispetto alle molteplici definizioni date alla corrente che coinvolge gruppi di artisti europei tra la fine degli anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo, si è scelto di utilizzare quella di Arte Cinetica e Programmata perché essa riassume alcuni aspetti della poetica, delle prassi e dei riferimenti culturali e storici di particolare interesse per il nostro discorso. Se 'cinetico' suggerisce, infatti, il movimento come carattere fondamentale dell'opera e, insieme, lo stretto legame con le avanguardie storiche d’inizio secolo, 70 l'espressione 'programmata' rappresenta l'anima più innovativa e di rottura di questa tendenza: arte

67 Ibid., p. 14. 68 Ibid., p. 6. 69 Ibid., p. 9. 70 Popper F., 1993.

39 programmabile, che quindi si predetermina, si prefigura, al pari di un processo tecnologico o di un fenomeno scientifico, che sostituisce alla prassi dell'interpretazione la tecnica dell'osservazione e dell'accertamento metodico. Il fare estetico viene riformulato come pratica di ricerca interdisciplinare, mutuando procedure, metodologie e argomenti dalla sfera scientifica e tecnologica. Al protagonismo degli autori si sostituisce il lavoro collettivo in gruppi che aggregano gli operatori di questa nuova arte e sono laboratori di creazione. Anche l’opera muta il suo statuto da artefatto a progetto e processo. Le diverse ramificazioni internazionali si aggregano, sia pure in modo non permanente, nella forma di programma e modello culturale, in occasione di eventi espositivi o rassegne, seminari e momenti di studio.71 L'espressione 'arte programmata' proviene da una definizione, attribuita da Gillo Dorfles a Bruno Munari, usata nel 1962 per titolare una mostra nel negozio Olivetti di Milano. 72 Proprio nell'area è utile concentrarsi per rintracciare le sperimentazioni di maggior rilievo legate al flicker. Infatti, nel quadro più ampio dell'attenzione riservata ai fenomeni percettivi, caratteristica di tutta l'Arte Cinetica e Programmata, alcuni autori italiani impiegano in particolare la stroboscopia come modalità di trattamento della materia luminosa all'interno, ma non solo, di opere ambientali. Vengono elaborate sono il ritmo luminoso situazioni percettive, campi entro i quali stabilire modalità altre di esperienza e, insieme, di riformulare concetti quali la dimensione di tempo e spazio nell'opera d'arte. Gli ultimi dieci anni hanno visto sorgere un rinnovato interesse per questo periodo dell'arte italiana,73 grazie anche all'attenzione da parte di alcune istituzioni di rilievo della media art, prima fra tutte lo ZKM di Karlsruhe, che hanno valorizzato alcuni dei principali esponenti, all'interno di eventi retrospettivi dedicati al periodo.

71 Vergine L., 1983, p.12 72 Nel maggio del 1962 Bruno Munari e Giorgio Soavi organizzano a Milano, presso il negozio Olivetti una mostra intitolata Arte Programmata, ospitata, in seguito, anche a Roma e Venezia, e introdotta in catalogo da un testo di Umberto Eco. Vengono esposte opere di: Gruppo T, Gruppo N, Enzo Mari, Bruno Munari, Getullio Alviani, Groupe de recherche d'art visuel. Cfr. Munari B., Soavi G. (a cura di), 1962. 73 Per una rassegna di saggi e cataloghi legati al contesto italiano, si rimanda alle bibliografie presenti in contributi recenti quali: Barrese, A., 2007; Meneguzzo M., 2000.

40 Inoltre, restando in ambito italiano, si riscontra una relazione tra molte delle innovazioni proposte dai gruppi italiani di Arte Cinetica e Programmata rispetto allo statuto di opera e di fruizione estetica e un successivo momento di fermento teorico sui legami tra arte, scienza e tecnologie, significativo per l’affermarsi della scena delle arti mediali contemporanee. Si tratta delle ricerche di estetica della comunicazione, che aggregano, dalla seconda metà degli anni Ottanta, il lavoro comune di una serie di studiosi internazionali sui temi del rinnovamento della cosa artistica, in riferimento ai mutamenti introdotti dalle tecnologie e rispetto a concetti fondanti della relazione tra individuo e mondo, quali la percezione, le modalità relazionali, il rapporto tra informazione e rappresentazione, le dimensioni di spazio, tempo e presenza.74 Pur senza presentare riferimenti espliciti all’Arte Cinetica e Programmata, molte delle linee programmatiche dell’estetica della comunicazione, in particolare quelle proposte da Costa, rappresentano non solo un punto di contatto ma quasi un proseguo del laboratorio di sguardi sull’arte emersi nella seconda metà degli anni Cinquanta, a partire da una diversa considerazione dell’opera, mutata da oggetto ad evento di natura immateriale, e che, in ragione di tale immaterialità, è soprattutto sistema di relazioni, attivazione di circuiti. Lo spostamento dalla dimensione oggettuale a flussi di energie e informazioni è determinato da una permeabilità della ricerca artistica ai mutamenti mediali. Come gli esponenti di Arte Cinetica e Programmata, anche Costa e colleghi affermano la necessità di accogliere e rielaborare nella prassi artistica i cambiamenti di una società i cui barlumi sono preconizzati dagli autori della seconda metà degli anni Cinquanta e celebrati quasi trent’anni dopo, il passaggio cioè dalla società della produzione a quella dell’informazione. Una trasformazione sulla quale gli artisti e i teorici di entrambi i periodi rivolgono uno sguardo acuto che dalla superficie insinua a sondarne le conseguenze più radicali: se, infatti, il dato di superficie della trasformazione è rappresentato dalla presenza sempre più insistente del medium tecnologico, la reale mutazione è nelle

74 La definizione di questa tendenza viene fissata per la prima volta il 29 ottobre 1983 ne Il Manifesto dell’estetica della comunicazione. Linee programmatiche del Nucleo di lavoro sull’estetica della comunicazione e dei sistemi, elaborato da Mario Costa, Fred Forest e Horacio Zabala, in occasione di una manifestazione organizzata da Costa a Mercato San Severino, Salerno, e in seguito pubblicato da “Art Press”, Parigi, nel maggio del 1984. Cfr. anche Costa M.,1999.

41 dimensioni della soggettività, nei modi dell’esperienza e nella transitività dell’evento. Se quindi l’aspetto tecnomorfico delle opere è il portato più evidente, la linea che attraversa, in continuità, i due momenti di riformulazione dei paradigmi estetici è la lucida coscienza di nuovi equilibri sensoriali, della polverizzazione del messaggio a favore di un sistema mediale autosignificante, nel quale cioè, riprendendo Eco, l’opera presenta il proprio discorso a partire dal sistema di funzioni che essa rappresenta e nel quale lo spettatore è reso attante.75 Riavvicinandoci alla ricerca del carattere stroboscopico nelle pratiche, si osserva che tra gli autori di Arte Cinetica e Programmata l’uso dei flash luminosi è metodo ricorrente attraverso il quale innescare nell’opera alcuni tra i modi che inducono la metamorfosi soggettiva nell’evento-opera, metamorfosi che non è presentata né rappresentata ma resa esperibile sul piano fenomenico. Sono principalmente il Gruppo T 76 e il gruppo MID (Movimento, Immagine, Dimensione),77 entrambi attivi a Milano, a fare della stroboscopia una delle chiavi per l’indagine del percettivo. L'acme di queste ricerche è rappresentato dalle opere che presentano una configurazione spaziale, che coincidono cioè con lo spazio che le contiene',78 in quanto evoluzione di una vocazione al ‘farsi spazio’ già presente negli oggetti e nelle opere plastiche, come sottolinea Lucilla Meloni:

L’ambiente è uno spazio visuale (o ‘campo’) perfettamente progettato in cui lo spettatore, estraniato dal mondo ‘esterno’, si trova coinvolto in se stesso e le sue facoltà psicopercettive vengono sottoposte ad esercizi aventi sempre funzioni estetiche. Costruito con stupefacente artificiosità, l’ambiente ‘contiene’ oggettivazioni spaziali essenzialmente proiettive (complesse immaterialità di ordine cine-visuale quantificate) ottenute con

75 Eco U., 1964, p. 6. 76 Fondato a Milano nel 1959 da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gabriele De Vecchi, Ganni Colombo e Grazia Varisco. Cfr. Meloni, L., 2004; Meloni L., 2000. 77 Fondato nel 1964 a Milano da Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni, è presentato pubblicamente nel 1965. Si inserisce quindi nella storia italiana dell'Arte Cinetica e Programmata nel momento in cui questa tendenza segna un progressivo attenuarsi della sua carica propulsiva. Secondo Lucilla Meloni, tale slittamento temporale permette agli autori di MID di porsi di fronte alle esperienze di poco precedenti maturate in questo contesto artistico, di prelevarne alcuni temi di ricerca ed ampliarli in una dimensione più vicina al concetto di multimedialità contemporaneo. Per una ricognizione del lavoro della storia e delle opere MID, cfr. Barrese, A., 2007. 78 Meloni L., 2007, p. 6.

42 luminosità in movimento o fisse, illusionismi ottici-programmati. Fenomeni che ne motivano la trasformazione e modificazione spazio-visuale.79

Evoluzione quindi che, interpretata come momento più alto di un percorso, ci sembra interessante inquadrare, attraverso una rapida rassegna di opere e tematiche. Queste ricerche rappresentano, inoltre, un importante momento di contaminazione con ambiti extra-artistici, in quanto accolgono tra i propri riferimenti studi sui meccanismi percettivi di matrice scientifica, quali, in particolare, quelli legati all'estetica sperimentale e alla psicologia sperimentale. Da quest'ultima in particolare, mutuano il concetto di transazione80 come modalità di concepire la percezione e la conoscenza all'intero dell'evento estetico, concepiti entrambi come processi aperti, 81 non risolve in una mera osservazione e acquisizione degli stimoli provenienti dalla realtà esterna ma che coinvolgono il fruitore in senso attivo e costitutivo, soggetto partecipe del moto e della trasformazione dell'opera e destinatario di un processo di acquisizione di conoscenza. Come descritto da Frank Popper:

In questo quadro gli artisti utilizzano la luce come forma smaterializzata in movimento, come fenomeno che consente di attivare la percezione dello spettatore, coinvolgendo non solo la sfera del visibile, ma l'intero corpo, e di renderlo cosciente dei suoi meccanismi di visione, conoscenza e percezione dell'ambiente esterno.82

All'interno di tali opere viene a crearsi la relazione tra i due poli fondamentali dello spazio e del tempo: “Ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l'aspetto diverso dello SPAZIO- TEMPO o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi tra SPAZIO e TEMPO.”83 Forte è il rimando a Lucio Fontana e ai manifesti spazialisti, tra i momenti più significativi della poetica ambientale del secondo dopoguerra. In

79 Mussa I., in Meloni L., 2004, p. 6. 80 Bonaiuto P., Il transazionalismo. Contributi e ricerche, in Bonaiuto P., (a cura di),1992, pp. 203- 218. 81 Eco U., 1962. 82 Popper F., 1993, p. 133. 83 Dichiarazione di poetica del gruppo T, cit. in Meloni L., 2004, p. 62.

43 questo legame spazio-tempo, la luce pulsante è utilizzata come elemento visivo mutevole in una sequenza temporale ritmata, stimolo in transizione che scardina l'idea di visibile come segno chiuso in favore di una materia effimera e mutevole, che richiede l'esperienza attiva dello spettatore per completarsi, sia pure momentaneamente. Opere, quindi, effimere, basate su una irriproducibile coincidenza tra evento visivo e processo percettivo dello spettatore, che determinano un'esperienza irripetibile e sempre nuova. Il progetto estetico, come ricordato ancora da Lucilla Meloni, ha un carattere d’immanenza, esiste in una forma relativamente compiuta solo nel momento unico dell'esperienza, divenendo prassi che permette al fruitore di scoprirne i comportamenti e ‘vivere un inatteso momento introspettivo.’84 Aspetti fondanti dell’opera, quali irripetibilità, carattere effimero, performatività, esperienza, chiamano in causa la questione della documentazione e della sua impossibilità. Aspetto talvolta considerato dagli artisti stessi, che alla ricerca di forme di valutazione e verificabilità scientifica dell'esperienza estetica, elaborano metodi sperimentali di documentazione quali test e questionari proposti allo spettatore, anticipando pressi caratteristiche, come vedremo, di alcune esperienze recenti di media art basata sul flicker.85 Il primo lavoro ambientale stroboscopico è Ambiente a shock luminosi, progettato da Giovanni Anceschi e presentato nel 1963 al Pavillon de Marsan del Palais du Louvre di Parigi. L'opera mette in atto, attraverso la successione di corridoi percorribili, un’esperienza percettiva e temporale totalizzante, dove il tempo è determinato dal variare di flash luminosi a ritmo sfalsato e dal tempo di percorrenza dello spettatore attraverso il corridoio. Di poco successiva la Strutturazione cinevisuale abitabile di Gianni Colombo, presentata nel 1964 alla mostra Nouvelle Tendence di Parigi, una tra le sue prime topoestesie, ambienti che smuovono il comportamento dello spettatore, i suoi parametri più basilari di presenza del corpo nell'ambiente (equilibrio, bilanciamento del peso, simmetrie e movimento). In questo caso, le pulsazioni luminose descrivono lo spazio, attraverso una suddivisione ritmica e incessante di linee ortogonali e orizzontali.

84 Ibid., p. 90 85 Ibid., p. 80.

44 Tra il 1966 e il 1968 Boriani, talvolta con Anceschi o Colombo, progetta una serie di ambienti immersivi e stranianti, nei quali la luce stroboscopica è inserita in allestimenti site specific fatti interamente di specchi, a determinare la totale e spesso traumatica ‘dispercezione’ del reale. Lo spettatore trova la sua immagine riflessa all'infinito e in movimento pulsante. Tra questi, Ambiente stroboscopico multidimensionale a programmazione aperta (1966), di Boriani e Anceschi, prodotto per lo Stedelijk Van Abbe Museum di Eindhoven: uno spazio interattivo di medie dimensioni, ricoperto internamente di specchi e attivato da sensori posti su 16 pedane che, percorse dal pubblico, attivano altrettanti proiettori a 12 diverse gradazioni di colore. Nel luglio dello stesso anno, la mostra Lo spazio dell'immagine, tenutasi a Palazzo Trinci di Foligno, ospita Camera stroboscopica multidimensionale (chiamata anche Ambiente stroboscopico 2), sempre di Boriani, presentata in anteprima poco tempo prima nella mostra La luce, alla galleria L'Obelisco di Roma. Anche in questo caso si tratta di un ambiente cubico con le facce interne ricoperte di specchi ma, rispetto al precedente, la dinamica spaziale è resa più complessa e spaesante dall'inserimento al centro della 'stanza' di una parete verticale, che suddivide il quadrato in diagonale, creando due spazi, a pianta triangolare, corrispondenti a due colori complementari, rosso e verde. Chiude questo ciclo di lavori di Boriani Ambiente stroboscopico 3, firmato insieme a Colombo, che segna la partecipazione dei due autori alla V Biennale internazionale dei giovani artisti del 1968 al Musée d'Art Moderne di Parigi. Rispetto ai due precedenti, l’ambiente amplifica la frammentazione dello spazio e, alla luce pulsante, si aggiunge il movimento creato dalla rotazione sull'asse verticale di quattro pareti, poste a dividere il padiglione cubico. Il movimento circolare dei quattro divisori è azionata dal gesto dello spettatore e può raggiungere una delle sedici strutturazioni (posizioni reciproche programmate), che corrispondono ad altrettante configurazioni possibili dello spazio. La stroboscopia è un tratto caratteristico anche di gran parte della produzione del collettivo MID, declinata in sistemi visivi basati su una iper- programmazione, sia del funzionamento dell’opera che del momento di fruizione. Mentre nel Gruppo T la 'programmabilità' dell'opera è generalmente risolta in un equilibrio costante tra previsione e caso, MID mira all’esclusione del secondo

45 termine, elabora e campiona una serie di fenomeni percettivi isolati, studiati nel dettaglio, trasformati in fenomeno e quindi verificati attraverso le opere. Rafforzano il rapporto tra arte, scienza e tecnologia e, in questa prospettiva, indagano fin dall’inizio della loro produzione le possibilità offerte dalla luce stroboscopica, assunta nella pratica estetica come modalità di comporre e analizzare la luce, fenomeno complesso e protagonista assoluto dei loro lavori. Il fenomeno e i suoi effetti vengono scoperti lavorando su oggetti a movimento circolare e osservando che la percezione di tale movimento è condizionata dalle qualità della luce:

Immaginiamo di guardare un cilindro sul quale è stato impresso un segno nero. Il cilindro ruota alla velocità di un giro al secondo ed è illuminato da una fonte luminosa che emette un lampo al secondo. In questa condizione il cilindro appare fermo, in quanto, il segno nero si presenta davanti ai nostri occhi sincronicamente al lampo luminoso. Se la velocità di rotazione è superiore, in concomitanza del lampo di luce, il segno si troverà un po' più avanti e il cilindro sembrerà muoversi in avanti.86

A differenza di quanto avviene per il Gruppo T, nelle ricerche MID il riferimento all’estetica sperimentale non si limita ad un'influenza: essi intessono, infatti, uno stretto dialogo, spesso declinato in collaborazione con Paolo Bonaiuto, uno dei principali esponenti in Italia di questa corrente della psicologia sperimentale. La misurazione del gradimento dei contenuti e delle informazioni create e veicolate dall'opera, fulcro di molta parte dell'estetica sperimentale, accompagna come costante tutta la produzione del gruppo. Secondo MID l'esperienza stabilita all'interno del complesso sistema fenomenologico dell'opera, permette allo spettatore di assumere consapevolezza dei propri processi percettivi e cognitivi. Il film stroboscopico Battimenti,87 una delle loro Opere Schermiche,88 è utilizzato ad esempio da Bonaiuto come stimolo all'interno di test in laboratorio,

86 Barrese A., 2007, p. 37. 87 MID, Battimenti, 1966, 16 mm, b/n, 3’. 88 Si tratta di film astratti di breve durata, inizialmente realizzati come documentazione dei lavori cinetici del gruppo, divenuti in seguito film stroboscopici in sé.

46 dedicati alla percezione visiva.89 Internamente al gruppo tali lavori audiovisivi non sono considerati film sperimentali,90 quanto piuttosto pratiche di destrutturazione del linguaggio cinematografico. 91 La stroboscopia è protagonista anche dei Generatori Stroboscopici (1966-67),92 oggetti meccanici manipolabili dal pubblico, che molto devono sia alla lezione di Munari nell'ambito del design, che creano differenti tipi di interazione tra pattern visivi e luce, finalizzati alla creazione dell'effetto stroboscopico. Un momento intermedio, non in senso cronologico ma concettuale, tra la dimensione di oggetto a quella di ambiente è rappresentato dalle Strutture, grandi impianti cinetici, a metà tra opera plastica e meccanica, illuminati da luce stroboscopica, realizzati dal 1964 al 1967.

Ci interessa molto la dimensione ambientale, il fatto che un’opera coinvolga l’intero spazio di una sala – la monumentalità, si potrebbe quasi dire. Vogliamo che il rapporto dello spettatore con le opere non sia puntuale ma spaziale, che non rimanga episodico e percettivamente limitato a una serie di oggetti con i quali in successione rapportarsi. Vogliamo che tra spettatore e opera il rapporto diventi complessivo, avvolgente, polisensoriale. Siamo attratti dall’idea di uno spazio vuoto e buio animato, dal suo centro, con un’opera straordinaria, stupefacente, tale da destare meraviglia per le sue dimensioni e per i suoi effetti… Insomma, delle vere e proprie installazioni ambientali.93

Pur non trattandosi di ambienti, i Generatori Stroboscopici, le Strutture e le Opere Schermiche, sono considerati da MID opere con ‘attitudine’ ambientale,

89 Bonaiuto P., Gruppo Mid Film 1,2,3/1966, in Gruppo MID, catalogo della mostra, Centro di filmologia e cinema sperimentale, Napoli, dicembre 1966. 90 Nel cinema sperimentale e undergound Barrese riscontra eccessiva artigianalità, bassa qualità formale e tecnologica. I film di MID mirano invece all'alta qualità, girando solo con apparecchiature professionali e con costi di produzione talvolta elevati. Anche per queste ragioni i film sono spesso realizzati in copia unica. 91 In occasione di un convegno di neuroscienze a Zurigo viene anche presentato in versione ambientale, proiettando sincronicamente due copie della pellicola su due pareti contrapposte, Barrese A., 2007, p. 85. 92 Generatori Stroboscopici a luce interna (Birullo, Cilindrone, Led e Generatore Stronoscopico da terra): Oggetti illuminati da una fonte stroboscopica posta all'interno. Le immagini generate possono essere modificate dal fruitore tramite interruttori, e si può intervenire anche sulla velocità di rotazione. Luce Ambientale (Monorullo, Girondella, trottola): oggetto la cui attivazione dipende dalla presenza di luce dall'ambiente e della velocità di rotazione scelta dal fruitore. Luce Monitor TV (Scacciapensieri): disco ottico controllato dal fruitore da apporre allo schermo televisivo. Il pattern visivo del disco interferisce con la pulsazione del monitor. 93 Barrese A., 2007, p. 118.

47 in quanto presuppongono una dimensione spaziale da manipolare, fungono da punto di emanazione di una serie di effetti e reazioni che agiscono riconfigurando l'intero spazio circostante. Ciononostante, il loro lavoro segna un’effettiva coincidenza tra opera e spazio è Ambiente Stroboscopico programmato e sonorizzato94, ospitato nel 1966 nella Sala Espressioni95 della Ideal Standard a Milano e progettato in collaborazione con il compositore Pietro Grossi,96 tra i pionieri in Italia della musica elettronica di ricerca. Rispetto alle opere del Gruppo T, di poco precedenti o contemporanee, MID agisce sull'attivazione dell'ambiente non solo dal punto di vista visivo ma in senso sinestetico, cioè facendo interagire la luce stroboscopica con le composizioni sonore realizzate da Grossi. Il progetto si collega alle esperienze dell’Expanded Cinema e, allo stesso tempo, anticipa di diverse decine di anni, alcune delle applicazioni più recenti del flicker in opere audiovisive ambientali.

1.2.4 | Il flicker nell'audiovisivo espanso

La traccia del flicker ci conduce, come ultima tappa del percorso storico, a quel frastagliato intreccio di pratiche che chiameremo audiovisivo espanso contemporaneo. Si è questa espressione di aggregare e dare nome ad alcune espressioni della media art contemporanea e insieme ad altre esperienze del passato, presentare le une e le altre in una visione complessiva. Tale continuità, ci permette di concentrarci su alcuni aspetti costanti come pure sulle evoluzioni e i cambiamenti, in continuum dagli anni Sessanta ad oggi. La definizione scelta a tracciare questa continuità rappresenta al tempo stesso una variazione del nome originariamente dato alle pratiche audiovisive che, in vario modo hanno coinvolto la dimensione ambientale determinata dall’opera audiovisiva, come vedremo, con livelli di senso differenti. Per chiarire le ragioni di questa scelta terminologica è

94 Bonaiuto P., L. Vinca Masini, 1966. 95 Spazio espositivo progettato da Giò Ponti ed utilizzato per eventi culturali organizzati da Ideal Standard. 96 Fondatore dello Studio di Fonologia Musicale di Firenze (S2FM), nel 1965 titolare della prima cattedra di musica elettronica in Italia presso il conservatorio di Firenze. Grazie alla collaborazione con IBM e Olivetti, è stato il primo a comporre musica con calcolatori digitali.

48 utile risalire alle radici di tali forme espanse.

In uno dei saggi contenuti in Expanded Cinema: Art, Performance and Film, recente pubblicazione della Tate Publishing, tra i più autorevoli contributi apparsi negli ultimi anni rispetto alla questione delle pratiche di Expanded Cinema e alla sua declinazione nel contemporaneo, A. L. Rees sottolinea come, fin dalle sue prime apparizioni, tale espressione rappresenti fin da principio una definizione ‘elastica', in grado di includere una molteplicità di forme - proiezioni disseminate in dome o padiglioni, happening, mixed-media events, performance intermediali, spettacoli di live cinema e molti altri – che sfuggono a qualsiasi intento tassonomico. 97 Molte delle esperienze emerse ampliano talmente il campo dell’audiovisivo da dissolvere la solidità del cinema in un amalgama di linguaggi e da distaccare l’assimilazione del ‘cinematografico’ dalla sua radice mediale. Tra gli esempi di contaminazione linguistica troviamo i padiglioni di Stan VanDerBeek o le sue collaborazioni con Merce Cunningham e John Cage, le azioni Fluxus o gli eventi del collettivo USCO. Altre, come le performance Nervous System di Ken Jacobs o gli spettacoli di luci del The Joshua Light Show, recuperano tecniche e apparecchi pre-cinematografici o inventano dispositivi ottici e meccanici originali, mettendo in scena spettacoli 'paracinematografici.' All’eterogeneità di manifestazioni del fenomeno corrispondono molteplicità di punti di vista sull’accezione data a tale definizione, che appare per la prima volta nel 1965, all'interno di Culture Intercome and Expanded Cinema: A Proposal and Manifesto, di VanDerBeek, nel quale l'artista, tra i pionieri della multimedialità, preconizza l'affermarsi di nuove pratiche audiovisive, influenzate da Fluxus e dal cinema d'avanguardia, come pure dalle idee in circolo nel neonato ambito delle ICT (Information and Computing Technologies). Un secondo riferimento è Expanded Cinema: Free Form of Recollections of New York, di Carolee Scheeman,98 nel quale l'artista fissa alcuni momenti essenziali nella scena della performance e dell'happening newyorkese.

97 Rees A.L., Expanded Cinema and Narrative: A Troubled History, in Rees A.L., White D., Ball S., Curtis I., (a cura di), 2011, p. 12. 98 Schneemann C., "Expanded Cinema - Free Form recollections of New York", International Underground Film festival, catalogo, Arts Laborarory/ NFT, London, 1970. Cfr. Rees A.L., White D., Ball S., Curtis I., (a cura di), 2011, pp 91-97.

49 Il saggio di Gene Youngblood Expanded Cinema,99 del 1970, è senza dubbio il contributo più noto sul fenomeno e quello più citato come precursore nella definizione delle pratiche 'tecnologizzate' contemporanee. In una rilettura critica, Sandra Lischi sottolinea come le tracce dell’Expanded Cinema vengano generalmente individuate a partire dalla componente multimediale dell’opera e quindi assimilate con l’intermedialità, affermatasi a partire dai media elettronici. Pur riconoscendo che il dato mediale rappresenti un aspetto determinante in questa varietà di espressioni audiovisive già marcato da Youngblood e contemporanei, Lischi evidenzia come esso sia in realtà per l’autore solo la punta dell’iceberg di una concetto di intermediale molto più complesso, corrispondente più ad un’ibridazione di linguaggi che all’interazione tra differenti forme mediali, una fusione linguistica che è anche mescolanza di modalità estetiche, operatività non solo interne all’opera ma anche e soprattutto ai modi di coinvolgimento dello spettatore, che vengono riformulati a partire da tale eterogeneità.100 Anche per quanto riguarda il processo di espansione nello spazio la studiosa individua due possibili livelli della visione di Youngblood su questo aspetto. L’attenzione alle modalità di espansione dell’immagine nello spazio si identifica, infatti, ad un livello più superficiale, con la moltiplicazione e disseminazione della superficie nello spazio, con un’elaborazione architettonica dell’immagine in senso tridimensionale, quasi un proseguo del mito cinematografico della polivisione.101 Allo stesso tempo, la condizione dello spazio audiovisivo, non riguarda unicamente la qualità e quantità delle superfici di proiezione quanto soprattutto la tensione al superamento del visivo subordinato allo schermo, alla piattezza della superficie, l’istituizione di modi della visione trasparenti, immateriali. Quella preconizzata da Youngblood non è una multivisione ma una mega-visione, una forma di relazione tra lo spettatore, il suo corpo e il dato audiovisivo nello spazio resa sistema organico, concepita come flusso di energia in continuo scambio tra soggetto e ambiente audiovisivo.102 Un’idea di espansione che si realizza sì attraverso diverse forme di allestimento dell’immagine avvolgenti e scenografiche, ma il cui senso va

99 Youngblood G., 1970. 100 Lischi S., 2003, p. 83. 101 Cfr. Kaplan N.,1955. 102 Lischi S., 2003, p. 83.

50 cercato in una particolare condizione del soggetto esperiente che anticipa, come vedremo nel corso della ricerca, i modi dell’immersivo. Quindi, la radice profonda della definizione data negli anni Sessanta, ridefinisce la questione ambientale dal dispositivo spazializzato, come insieme dei sistemi e apparati attraverso i quali amplificare l’immagine nello spazio, a dispositivo spazializzante, insieme di funzioni operanti sullo spettatore e sulle sue condizioni di percezione ed esperienza dello spazio.103 L’eredità più profonda dell’Expanded Cinema, va quindi cercata in un’attitudine alla formulazione dell’esperienza audiovisiva che decostruisce le codifiche del consumo del cinema da sala e che negli anni ha costituito la matrice di esperienze translinguistiche, indipendentemente dalle differenze di linguaggi, supporti o media impiegati dagli autori. Eterogeneità di approcci che, è necessario sottolineare, hanno contribuito senza dubbio con le proprie specificità a determinare una declinazione di modi e metodi attraverso i quali questa comune matrice ha assunto forme differenti, senza al tempo stesso minarle il carattere archetipico. Ciononostante, riconnettendoci alla questione terminologica posta all’inizio di questo excursus, si è preferito nella definizione assunta sostituire il termine ‘cinema’ con quello di audiovisivo. Questa scelta vuole essere tutt’altro che una negazione della discendenza diretta del meticciato delle pratiche contemporanee a carattere ambientale dalle esperienze degli anni Sessanta, legame che anzi questo breve discorso sui tratti distintivi intende ancora una volta confermare. La variazione proposta parte piuttosto dalla costatazione di una consuetudine d’uso, sia tra molti degli autori considerati, i quali quasi mai fanno riferimento alle proprie opere come Expanded Cinema, sia più in generale nel panorama della media art audiovisiva. Una prima ragione del mancato riferimento potrebbe essere legata alla tipologia dei contesti di diffusione delle pratiche espanse rispetto al cinema di sala, individuato da Sandra Lischi: nei decenni successivi alla definizione del fenomeno, la molteplicità di modi linguistici ma anche delle condizioni di fruizione

103 Duguet A.M., Dispositifs, “Communications,” n. 48, 1988, pp. 221-242, cfr. anche Dispositivi, in Valentini V., 2003, pp. 259-283.

51 diversifica tipica dell’Expanded Cinema sembra fuoriuscire dai domini di ciò che viene definito cinematografico. Se da una parte, quindi, la sperimentazione degli anni Sessanta è proseguita in altre forme di sperimentazione (video arte, net art, opere telematiche, performance e installazioni), nel cinema comunemente riconosciuto come tale le istanze di espansione del visivo riemergono come forme di spettacolarizzazione e mimetismo sempre più spiccato, soggetto a trend di mercato e di consumo.104 Nell’ampio limbo tra questi due poli si collocano le modalità proprie del cinema di sala che non cede alla sensazionalismo dello spettacolo ma allo stesso tempo è cristallizzato nella fissità del corpo e la frontalità di visione, lasciando poco o alcuno spazio alla sperimentazione di nuove condizioni di esperienza.105 L’analisi di Lischi è significativa perché rileva la centralità della dimensione del fruitore come determinante nel seguire le influenze dell’Expanded Cinema nelle diverse conformazioni successive dell’audiovisivo. Le consuetudini di ‘consumo’ e le differenze di fruizione dell’audiovisivo, aspetti di carattere non solo artistico ma anche economico e sociale, potrebbero costituire ragioni valide dello scollamento nel contemporaneo tra la definizione di Expanded Cinema e la produzione contemporanea di audiovisivo ambientale: sebbene la definizione ‘storica’ sia più che coerente con tali pratiche, l’assimilazione del cinematografico alla standardizzazione dei modi dell’esperienza audiovisiva potrebbe aver creato un distanziamento terminologico dal meme originario di tali tendenze. Passiamo quindi ad ipotizzare una seconda ragione possibile della scarsa ricorrenza d’uso della nozione di cinematografico all’interno delle sperimentazioni elettroniche, che emerge osservando alcune consuetudini nell’analisi del fenomeno - in particolare rispetto al confronto tra la dimensione storica e quella contemporanea - all’interno dei film studies. Prendendo ad esempio la già citata pubblicazione di Tate Publishing del 2011, si può notare un evidente disequilibrio tra il rilievo dato alle esperienze storiche e l’analisi degli sviluppi contemporanei.

104 In particolare i sistemi spazializzazione o proiezione del cinema tridimensionale. Vedremo nel prossimo capitolo come questa serie di esperienze immersive trovano coincidenza anche in molte tappe rilevanti della storia delle modalità immersive a partire dalla realtà virtuale. Cf. J. Shaw, A. M. Duguet, H. Klotz, P. Weibel, 1997. 105 Lischi S., 2003, p. 85.

52 Se da un lato, infatti, in modo del tutto pertinente, gli autori si prefiggono di individuare le radici storiche e complesse del fenomeno, a partire dagli anni Sessanta e nel decennio immediatamente successivo, sviscerate e analizzate ampiamente e con il supporto di un’esaustiva rassegna di documenti spesso inediti o di difficile reperimento, si riscontra d’altro canto una profonda lacuna nella verifica effettiva delle forme e le modalità attraverso le quali l’eredità degli anni Sessanta ha in effetti attecchito all’interno delle pratiche contemporanee.106 Inoltre, restano quasi totalmente escluse dall’analisi influenze esterne ai codici linguistici audiovisivi, sia filmico che elettronico, che pure hanno contribuito alla costituzione della scena attuale. Al contrario, studi recenti nel campo della media art, stanno contribuendo a ricostruire le relazioni che intercorrono tra queste pratiche e altri momenti della storia delle arti: primo fra tutti il movimento della Musica Visiva e altre esperienze di matrice wagneriana, nate in seno alle avanguardie, specialmente futuriste, infine le pratiche di light art che, sempre a partire dalle avanguardie, passando per le esperienze dell’Arte Cinetica e Programmata della seconda metà degli anni Cinquanta, hanno gettato i semi di una poetica dello spazio espanso e della smaterializzazione del dato visivo che è possibile rintracciare in molta produzione contemporanea.107 Se quelle appena citate rappresentano le origini culturalmente 'alte' del fenomeno, non vanno escluse influenze derivate negli ultimi anni dalla cultura di massa, in particolare dai contesti del clubbing e della musica elettronica.

106 Nell’ultima sezione, per altro esigua come mole, dedicata al contemporaneo, gli autori e le esperienze considerate riguardano nuove versioni delle opere degli anni Sessanta e Settanta, insieme ad autori contemporanei selezionati quasi esclusivamente tra coloro che praticano forme di re- invenzione dei dispositivi del cinema ottico. 107 Tra queste due raccolte dal titolo See This Sound Audiovisuology e Audiovisuology 2, legati alla mostra See This Sound, che, incentrata sulle relazioni tra immagine in movimento e musica, offre una serie di contributi importanti anche in relazione alle origini e alle evoluzioni delle pratiche audiovisive espanse. Infine di estremo interesse il lavoro portato avanti nelle ultime edizioni del festival olandese Sonic Acts: nato come festival di media art e musica elettronica, si è offerto negli anni non solo come momento di presentazione di autori e lavori recenti ma, anche grazie ad un programma ricco di seminari e screenings, ha portato avanti una ricerca in senso storico, accostando proposte provenienti dalla storia della musica, delle arti visive, del design e del cinema sperimentale. Se ciascuna edizione del festival biennale e relativo catalogo, offrono un excursus cronologicamente trasversale di estremo interesse, l'edizione 2008, dal titolo The Cinematic Experience ha offerto una carrellata più pertinente rispetto al nostro discorso sul flicker. Cfr: Daniel D., Naumann S., (a cura di), 2011; Daniel D., Naumann S., (a cura di), 2010; Debackere B., Altena A., 2008.

53 Sintomatica di queste radici è la provenienza di molti autori, più vicini ai mondi dalla IDM (Intelligent Dance Music), della musica techno o industrial di fine anni Novanta che a quelli del cinema sperimentale o, ancor meno, ai circuiti dell'arte contemporanea.108 Lo studio di un fenomeno così complesso, diversificato ed esteso, necessita di un costante confronto tra gli ambiti della storia culturale 'ufficiale' e le storie minori, come quella della musica elettronica indipendente e delle controculture. É indispensabile, inoltre, una lettura che parta dalle pratiche e da loro assorba la propensione allo sconfinamento disciplinare. Se da una parte il progetto editoriale Expanded Cinema: Art, Performance and Film che, si sottolinea ancora, può essere assunto come esemplificativo di una tendenza diffusa, propone la necessità di una riesamina delle esperienze storiche per la comprensione del contemporaneo, allo stesso tempo si sottrae di fatto dal considerarlo nel suo complesso. Inoltre, mentre altrettanto dichiaratamente, sottolinea il legame con altre pratiche espressive e linguistiche risulta rinunciataria, anche in questo caso, di un’effettiva esplorazione di focolai sia storici che contemporanei della relazione tra evento audiovisivo e spazio, al di fuori di traiettorie già storicamente consolidate nell’ambito del cinema di ricerca. La resistenza a spostare lo sguardo dell’analisi fuori dai confini disciplinari del cinematografico, confini che proprio il movimento dell’Expanded Cinema degli anni Sessanta si prefiggevano di oltrepassare, potrebbe costituire un’ulteriore e significativa ragione dell’obsolescenza di questa espressione nei contesti dell’audiovisivo elettronico contemporaneo. Una perdita di attualità della definizione Expanded Cinema determinata non soltanto dalla fissità delle forme codificate del cinema di sala ma anche a partire dal punto di vista di quei contributi che paradossalmente si prefiggono di confermarne la longevità nel presente. Resta difficile stabilire una continuità tra la storia e il contemporaneo se lo sguardo resta rivolto al passato: per cercare il riflesso attuale del Cinema Espanso è necessario rivolgersi alle forme che questa attitudine ha assunto nelle esperienze recentissime della media art o delle forme contaminate interne ai mondi della musica elettronica o al panorama polimorfo delle arti visive, abbandonando la tentazione di fissare le espressioni liminali e instabili all’interno di tassonomie e classificazioni. In questo

108 Dekker A., 2003.

54 scenario, complesso e molto lontano dal dipanarsi, con l’intento di instaurare una continuità non tanto terminologica ma coerente con l’eterogeneità delle pratiche e tentando di non forzare alcuna di queste all’interno di griglie disciplinari pregresse, si è scelto di invertire il punto di vista, osservare il fenomeno a partire dai modi di fruizione che ha determinato. Con audiovisivo, prendendo spunto dalle traiettorie tracciate da Michael Chion,109 s’intende, infatti, richiamare sia la dimensione fenomenologica della fruizione che la contaminazione tra linguaggi del sonoro e del visivo, riassumere ad un tempo i modi della produzione della forma audiovisiva che della sua fruizione, la transitorietà del momento dell’opera e di quello che, nel paragrafo precedente, è stato definito tempo relativistico dello spettatore. Dopo questa digressione sul rapporto tra origini e sviluppi del fenomeno, utile a chiarire le regioni della definizione utilizzata, procederemo ripercorrendo la storia dell’audiovisivo espanso dall’Expanded Cinema degli anni Sessanta al contemporaneo, individuando esempi significativi in base alla presenza, all’interno delle opere, del trattamento stroboscopico del segnale visivo. Una voce autorevole nel corso degli anni Sessanta che molto ha contribuito al nascente panorama dell'Expanded Cinema è Jonas Mekas, che dalle pagine del 'Village Voice', segue i primi esperimenti della scena newyorkese a lui contemporanea, concentrandosi anche su lavori nei quali il flicker o l'uso di luci stroboscopiche è distintivo nella progettazione dell'ambiente e del coinvolgimento del pubblico. Tra queste, il celebre E. P. I. - Exploding Plastic Inevitable, spettacolo progettato da Andy Warhol, in collaborazione con i Velvet Underground, e presentato in diverse città degli Stati Uniti tra il 1966-1967. In E. P. I. l'uso di tre fonti di luce stroboscopica a velocità variabile sono utilizzate come elemento di aggregazione, insieme alla controparte sonora della musica dal vivo, di un meccanismo intermediale talmente complesso e stratificato da essere definita in una recensione del 1966, Fun Machine: una macchina audiovisiva che assorbe e fagocita il pubblico in una frammentazione di elementi sconnessi tale da generare

109 Cfr. Chion M., 1994.

55 un effetto partecipativo inverso, rendendo lo spettatore puro osservatore di un meccanismo percettivo ipertrofico e autoreferenziale.110 L'utilizzo massivo di luci stroboscopiche, insieme a registrazioni sonore su nastro e proiezioni, è caratterizzante nelle opere del collettivo newyorkese USCO - The Company of US, attivo nella seconda metà degli anno Sessanta a New York e formato da artisti, ingegneri e musicisti, tra i quali, Gerd Sten, Stan VanDerbeek, Jud Yalkut, Steve Durkee e Michael Callahn. Nei loro allestimenti la luce stroboscopica è ottenuta attraverso lampade autocostruite dal collettivo o realizzate per loro da Harold Edgerton, docente presso i lavoratori del MIT (Massachusetts Institute of Technology). La stroboscopia è utilizzata per favorire, talvolta in modo traumatico, l'immersione dei partecipanti in un unico organismo pulsante, esperienza meditativa e mistica, influenzata dalle filosofie orientali e dalla psichedelia. 111 Per il collettivo la stroboscopia racchiude inoltre un valore simbolico, quasi magico, in quanto, la costante oscillazione tra accensione e spegnimento, buio e luce, corrisponde ad un dominio liminale tra energia e non energia, equilibrio nella sequenza ritmica tra positivo e negativo, una canalizzazione in forma temporale dell’energia che circonda il soggetto.112 La psichedelia delle loro performance, oltre alla vicinanza con il cinema meditativo di Paul Sharits, segna un legame anche con la serie di Vortex Concerts di Jordan Belson: un ciclo di 62 spettacoli a metà tra Cinema Astratto e Musica Cromatica, realizzati tra il 1957 e il 1959 nel Morrison Planetarium della California Academy of Sciences di San Francisco, in collaborazione con il musicista Henry Jacobs.113 Nel corso di questi live events, considerate tra le tappe pioneristiche del Cinema Espanso e definiti da Youngblood come 'cosmic cinema,' 114 Belson mescola la proiezione di suoi film - Flight (1958),115 Raga (1959),116 Seance (1959)117 - con il ritmo di luci stroboscopiche disposte nel planetario a circondare il

110 Williams M., 1966, p. 62. 111 Stern G., 2001. 112 Mekas J., 1972, p. 244-247. 113Keefe C., Jordan Belson and The Vortex Concerts: Cosmic Illusions, in Altena A., (a cura di), 2010. 114 Youngblood G., 1970, pp. 135-177. 115 Belson J., Flight, 1958, 16 mm, col., 6’. 116 Belson J., Raga, 1959, 16 mm, col., 7’. 117 Belson J., Raga, 1959, 16 mm, col., 4’.

56 pubblico. La frequenza delle 'strobo', la progressione di forme e dei colori dei film e il suono elettronico composto dall’autore avvolgono il pubblico in una dimensione percettiva e mentale prossima a quelli sperimentati nei diversi stati meditativi. Tali lavori citati sono caratteristici di quella che A. L. Rees definisce tendenza utopica e spirituale,' legata all'influenza psichedelica che serpeggia in molta arte e cinema d'avanguardia statunitense degli anni Sessanta e Settanta; affiancata da una seconda, vicina alla corrente strutturalista, focalizzata invece sullo studio analitico dei differenti linguaggi. In questo filone si rintracciano esempi di ricerca sul flicker tra i più interessanti. Il lavoro di Paul Sharits rientra in questa classificazione come pure molti esperimenti di Steina e Woody Vasulka, come ad esempio Noisefields, lavoro in video del 1974, riproposto in tempi recenti in forma di installazione multischermo.118 In Noisefields, realizzato grazie all'uso di uno strumento originale, il Field Flip/Flop Switcher, il flicker è elemento metrico attraverso il quale analizzare le relazioni tra la dimensione temporale del flusso video analogico (ritmo di scansione) e la superficie visiva dello schermo. In precedenza, sul finire degli anni Sessanta, poco prima dell’inizio della sperimentazione sul video, Woody Vasulka aveva condotto una serie di esperimenti stroboscopici modificando una camera e un proiettore 16 mm, con i quali realizza 360 degree camera/scanner (1968) e Hand-held Strobe Projector (1968). Un esempio meno noto è rappresentato da alcune performance di Jòzef Robakowski, membro del collettivo polacco Workshop of the Film Form, ed in particolare la Mirror Performance, realizzata nel 1974, in Belgio, occasione del Knokke festival, e nel quale la proiezione del suo flicker film intitolato Test (1971), è fatta rimbalzare nello spazio attraverso un sistema di specchi che riflette i flash dallo schermo al pubblico. Altri esperimenti si concentrano sulla sincronizzazione tra frequenze luminose e sonore: in alcuni casi il flicker è letteralmente 'suonato', come nella

118 Vasulkas, Noisefields, 1974, video analogico, col., suono, 12’ 05’’. Il video è stato proposto in forma d’installazione multischermo all’interno della mostra MindFrames, curata da Woody Vasulka e Peter Wiebel e ospitata dallo ZKM - Center for Art and Media di Karlsruhe dal dicembre 2006 al marzo 2007. Cfr. Vasulka W., Weibel P., Buffalo Heads Media Study, Media Practice, Media Pioneers, 1973-1990, MIT Press, 2008.

57 performance Bowed Film (1974-2006) di Tony Conrad, nella quale l’artista e compositore controlla la frequenza della luce sullo schermo attraverso il violino elettronico. In questa direzione anche la rielaborazione di Ten Years Alive on the Infinite Plane (1974-2004), nel quale i ritmo stroboscopico di pattern geometrici su pellicola interagisce con i stratificazioni di drones elettronici prodotti dal violino di Conrad e da altri tre musicisti. La sintesi ottica, invece, consente una transitività di tipo inverso tra luce pulsante e audio. Questa tecnica è utilizzata ad esempio da Guy Sherwin nella performance Cycles #3 (1972-2004) o da Lis Rhodes nell'installazione a doppio proiettore Light Music (1975).119 In tempi recenti la sintesi ottica è recuperata dall'artista Bruce McClure che, lavorando in tempo reale su proiettore e sistemi di sintesi audio analogici, realizza film concerts stroboscopici quali Christmas Tree Stand (2004),120 Quarterdraw (2004),121 Se Volessi Fare Un Fuoco Che Seza Dano Infuocherebbe Una Sala, Farai Cosi (2011).122 Questi esempi conducono alla scena contemporanea, che se può essere letta in continuità con la tradizione del Cinema Espanso, allo stesso tempo mantiene alcune specificità rilevanti. Oltre alla già citata riconfigurazione nelle modalità di concepire lo spazio dell'opera e di fruizione, gli ultimi anni segnano una proliferazione di modalità contaminate e rimescolamento tra ambiti, linguaggi, strumenti, 'old' e 'new' media. In questo scenario un tratto unificante è spesso la propensione a connettere linguaggi della musica e quelli del cinema e delle arti visive. Questa relazione è valida anche per lo specifico dei lavori di flicker. Se, come abbiamo visto il rapporto del flicker con il suono è al centro dei lavori di Kubelka, Conrad e Sharits, questa commistione diventa comune a molte

119 L’installazione è stata presentata in una nuova versione nell’ambito del programma di eventi The Tanks: Art in Action di Tate Modern, da luglio 2012 a gennaio 2013. 120 Bruce McClure Christmas Tree Stand, 2004, progetto di live cinema basato su 4 proiettori 16 mm modificati, presentata in anteprima presso l’Anthology Film Archive di New York, nell’ottobre del 2005, all’interno del ciclo Walking Picture Palace, a cura di Mark McElhatten. 121 Bruce McClure, Quarterdraw, 2004, performance basata su 4 proiettori 16 mm, della durata di circa 30’. Presentato per la prima volta nel corso dell’edizione 2004 della Whitney Biennial. 122 Bruce McClure, Se Volessi Fare Un Fuoco Che Seza Dano Infuocherebbe Una Sala, Farai Cosi, 2011, spettacolo di live cinema per 4 proiettori 16 mm modificati, in anteprima nel corso dell’edizione 2011 del festival Netmage di Bologna.

58 sperimentazioni in seno alla media art, a partire grossomodo dagli anni Novanta, in particolare in quelle opere a carattere immersivo. Il trattamento stroboscopico dell'immagine, l'immersività e una perfetta corrispondenza tra episodio sonoro e visivo sono tratti quasi identitari di Granular Synthesis, duo austriaco formato da Kurt Hentschläger e Ulf Langheinrich. Nei prossimi capitoli approfondiremo la storia della loro collaborazione dal 1991 al 2003, ed in particolare alcune opere di Hentschläger realizzate dopo lo scioglimento del gruppo. In installazioni, performance e video - quali Modell 3 (1992-94), Modell 5 (1994-96), We Want God Now (1995), Form (1996), Noisegate (1998), Pol (1998) - il flicker s’inserisce nel piano più ampio di una ricerca sulla percezione e sul corpo, nella sua relazione con uno spazio prodotto e messo in forma a partire dal flusso architettonico di stimoli sonori e visivi. I due lavori di Kurt Hentschlaeger, FEED (2006) e ZEE (2008) al centro dell'ultimo capitolo, case study di questa ricerca, sono una evoluzione di questo studio sul corpo, lo spazio e la percezione audiovisiva. Per altri autori, musicisti e sound designer, il flicker è controparte visiva di studi sulla fisicità e sulla fenomenologia delle relazioni tra corpo e materia sonora particellare. In questi casi, lo stimolo visivo pulsante è spesso ridotto al suo grado zero di sorgente luminosa, genera direttamente il suono, a sua volta spazializzato e frammentato in atomi infinitesimali. Come in UPIC (2003), live elettronico progettato dai musicisti tedeschi Russell Haswell e Florian Hecker,123 nel corso di una residenza presso il CCMIX - Centre de Création Musicale Iannis Xenakis di Parigi.124 Il live è basato su un dispositivo di composizione elettronica multicanale, chiamato appunto UPIC graphic input, dell'architetto e compositore Iannis Xenakis, ricostruito e modificato dai due artisti con l’aggiunta di set di luci stroboscopiche e laser. La combinazione flicker-suono ricorre anche nel lavoro del collettivo milanese otolab. Dal 2001 porta avanti una rivisitazione della tradizione cinetica e programmata in opere di audiovisivo espanso costituite, principalmente ma non

123 Hecker F., Haswell R, Mackay R., (2007), pp. 108-139. 124 CCMIX - Centre de Création Musicale Iannis Xenakis: http://www.iannis-xenakis.org/.

59 esclusivamente, da performance in real time, messe a punto attraverso un'intensa pratica laboratoriale e metodo collaborativo, che ha coinvolto negli anni, differenti membri e competenze (musicisti, visual designer, architetti, sociologi, interaction designer). Il ritmo stroboscopico è spesso presente come matrice della relazione tra suono e dato visivo astratto, punto di sincronia basilare tra i due eventi della partitura audiovisiva. La produzione di otolab può essere letta secondo due tendenze principali: una optical, costituita da opere in cui il suono spazializzato corrisponde a proiezioni multiple o luci, in una originale elaborazione della questione spaziale a carattere immersivo ma non attraverso l'azzeramento dei riferimenti spaziali quanto piuttosto tramite un'ipertrofia spaziale che immerge lo spettatore in architetture impossibili. Questa tipologia di live è eseguita secondo precise partiture scritte ad orchestrare l'intervento puntuale dei diversi performer. A queste, si affiancano lavori progettati a partire da apparecchi e tecnologie autocostruite, analogiche e spesso ispirate da dispositivi ottici meccanici della storia delle arti o del pre- cinema. In questo caso, anche il momento performativo è connaturato da una dimensione aptica che alla materialità dell’apparecchio vede corrispondere l'intervento diretto e manuale del performer. Esempio interessante per quanto riguarda i discorsi sul flicker è Megatsunami (2011), basato sul Lumanoise, un sistema autocostruito di sintesi ottica del suono. Infine, in anni molto recenti, differenti artisti hanno realizzato progetti installativi o performance che citano, più o meno direttamente la Dream Machine. Tra queste PV868 (2008), del videomaker Tez, performance in real time che prende il nome dal codice di registrazione del brevetto della famosa lampada cinetica. Anche questo lavoro è basato sulla coincidenza di due livelli d’interferenza: quella visiva, corrispondente al fenomeno del flicker, e quella sonora, cioè i battimenti, generati attraverso la corrispondenza tra quattro fonti sonore in risonanza, spazializzate da un impianto quadrifonico. La sperimentazione sulla condizione percettiva propria della stroboscopia elaborata dall’autore è inserita nel più ampio progetto di ricerca Mediations of Sensation, condotto insieme a Chris Salter e l’antropologo David Howes, che ha prodotto alla

60 realizzazione di Displace (2011), installazione progettata come percorso percettivo complesso. Il riferimento diretto a Gysin è parte delle ricerche di Matthijs Munnik che, ispirato dalla Dream Machine, ha realizzato un ciclo di lavori sul flicker intitolato Citadels (2009-2012).125 Infine Seeing with the Eyes Closed (2009), installazione di Ivana Franke che rappresenta non solo una citazione ma quasi una rimediazione dell'originale. Progettata dall'artista in collaborazione con la neuroscienziata Ida Momennejad e con il supporto dell'AoN – Association of Neuroesthetics, è stata al centro, nel 2011 di una serie di interessanti seminari dedicati al flicker e alle intersezioni tra arte e neuroscienze presso il museo Peggy Guggenheim di Venezia.126

1.2.5 | Uno sguardo attraverso, appunti da un’analisi diacronica. Ricorrenze tematiche e linee di convergenza.

Al termine di questo excursus sembra possibile osservare, nelle opere e nelle sperimentazioni attraversate in senso cronologico e all’interno di ambiti della ricerca artistica particolari, alcune tematiche ricorrenti e comunanze di approcci. Può essere quindi utile fare un punto sugli elementi emersi per offrire una lettura trasversale della ricognizione storica, senza sottrarre valore alle singole specificità. Procederemo quindi aggregando alcuni lavori secondo nuclei tematici, individuabili a partire dalla loro esame diacronico, introducendo inoltre dei punti cardine che verranno approfonditi nel corso del prossimo capitolo.

Un primo carattere ricorrente riguarda l’aspetto formale ed è rappresentato dall’impiego del trattamento metrico e temporale stroboscopico applicato al dato visivo, liberato da istanze rappresentative e iconiche e ridotto ad elementi minimi

125 "We must storm the citadels of enlightenment. The means are at hand", il titolo del ciclo proviene da queste poche righe scritte da Burroughs all'amico Brion Gysin commentando la messa a punto della Dream Machine, in Geiger J., (2003), p. 11. La serie di lavori prevede la Citadels: Lightscape (2012), il live a/v e installazione ambientale, e Commons Structures, anch’essa presentata nella forma ibrida di live set e installazione, realizzata grazie al supporto della Mondriaan Foundation, Sonic Acts Festival, Stedelijk Museum di Amsterdam. 126 Franke I., Momennejad I., (a cura di), 2011.

61 astratti, fino alla pura materia luminosa. Si nota come la temporalizzazione del visivo sia utilizzata dagli autori secondo due tipologie di approcci nient’affatto antitetici, anzi talvolta compresenti all’interno della stessa opera: uno più vicino ai modi della scienza, all’origine cioè della luce pulsante come stimolo, rispetto al quale il dispositivo stroboscopico assume il ruolo di medium per l’indagine della visione ad occhi chiusi. In questa tipologia di opere c’è attenzione alla relazione diretta tra stroboscopia e il suo particolare effetto di evocazione visiva. Ne sono esempi i lavori che citano più direttamente la Dream Machine di Gysin, quali l’istallazione Seeing with the Eyes Closed di Ivana Franke, The Flicker di Conrad, nel quale la sequenza metrica del film è elaborata per provocare una specifica gamma di reazioni nello spettatore. Vicine a questa tendenza anche le opere di Arte Cinetica e Programmata che dei modi della scienza ricalcano anche il setting esperienziale e i linguaggi, in particolare nelle opere cinetico-luminose del gruppo MID. In una seconda macro-area, la temporalizzazione del dato audiovisivo assume il ruolo di metodo di analisi fenomenica, attraverso la composizione e scomposizione particellare, della materia audiovisiva e della natura ibrida di suono e visione. Antesignano di questa tendenza è il lavoro di Peter Kubelka, che nella manipolazione del tempo individua e inaugura un metodo per attuare la reversibilità tra frame e flusso illusorio del movimento. L’indagine sulle possibilità d’intervento rispetto alla relazione tra micro e macro strutture, tra i passaggi di stato della materia audiovisiva (sia ottica che elettronica) si accompagna spesso, come nel caso del filmmaker austriaco, alla progettazione di dispositivi e tecniche che permettano di controllare tali passaggi. Una ricerca sul dispositivo che può essere di tipo aptico-meccanico o immateriale, a seconda della fonte manipolata. Seguono la scia tracciata da Kubelka in questa direzione i Vasulkas, che conducono in Noisefields, attraverso la destrutturazione permessa dal flicker, uno studio delle caratteristiche proprie del segnale elettronico, della corrispondenza diretta tra sonoro e visivo, della trasformazione dall’immaterialità dell’elettrone alla bidimensionalità della forma visiva, attuato attraverso apparecchi autocostruiti che permettono di controllare la continuità del flusso del segnale elettronico. Un processo non dissimile a quello messo in atto sul continuum audiovisivo dal duo

62 Granular Synthesis, che rendono la frammentazione microscopica del video digitale, permessa dal software, tratto stilistico della loro produzione. La coincidenza diretta nel ritmo tra sonoro e visivo, come due manifestazioni di una stessa materia parcellizzata, è tratto distintivo anche della prassi di manomissione dell’apparato cinematografico condotta da Bruce McClure, che utilizza dal vivo il proiettore come strumento compositivo sia ottico che sonoro, soggetto alla metrica del flicker. In questo quadro si colloca anche il sistema di traduzione optofonica creato da otolab per Megatsunami, progettato a partire dalla comunanza ontologica di luce e suoni in flussi di elettricità.

Un secondo livello di lettura della sequenza cronologica lascia emergere il tema comune dell’esperienza percettiva come processo di relazione tra soggetto e ambiente. Un tema cui il progetto estetico si riferisce talvolta in modo esplicito, soprattutto nei lavori già citati che si rifanno in modo più diretto a modi e linguaggi delle scienze, in altri casi come sottotraccia di esperienze costruite come sequenze meditative, quali in particolare i lavori di Paul Sharits, le performance di USCO e, in una chiave di rilettura più contemporanea delle tendenze psichedeliche presenti in questi esempi, le installazioni FEED e ZEE di Hentschläger. In questo secondo approccio l’attivazione di una serie di meccanismi percettivi e lo studio delle funzioni che le regolano, rappresentano una grammatica di partenza costruita dall’autore e funzionale all’esplorazione di stati interni al soggetto, dimensioni intime e archetipiche della relazione tra il sé e il reale. Inoltre, le caratteristiche specifiche della situazione sensoriale stroboscopica determinano una concezione estesa del visivo e dei modi esperienziali che lo rappresentano. Quella del corpo è una dimensione sempre presente nelle opere toccate perché i modi percettivi propri della stroboscopia oltrepassano la segregazione sensoriale, in particolare la centralità del visivo, per coinvolgere il soggetto in un sistema di relazione con il mondo diffuso e incarnato, inscritto nel corpo. La presenza somatica è in alcuni casi implicita, nel senso che si ritrova nella condizione esperienziale offerta al fruitore, e quindi come corpo percepiente e fenomenico dello spettatore, come nelle opere che azzerano la dimensione iconica, ridotta a pura luce e frequenze invisibili, come le già citate installazioni di Kurt Hentschläger o negli ultimi lavori di

63 Granular Synthesis, o nei live di sintesi ottica di otolab. In altri lavori, il corpo è presentato o rappresentato, a suggerire una dimensione identitaria della soggettività inclusa nell’opera che rispecchia, attraverso la decostruzione della forma, la trasformazione in atto nel corpo esperiente del fruitore, determinata dalla pulsazione dell’ambiente estetico: come in Modell 3 o Modell 5 di Granular Synthesis, o in Epileptic Seizure Comparizon di Paul Sharits, o nel riflesso diretto del singolo spettatore, messo in atto negli ambienti stroboscopici di Boriani. Dal corpo all’ambiente il terzo quadro tematico di questa carrellata riguarda la particolare condizione spaziale delle opere trattate, che si situa nel più ampio scenario delle pratiche di espansione ma permette di individuare, un modo dell’esperienza dello spazio proprio delle pratiche stroboscopiche. Il punto comune e trasversale a tutte le opere considerare è la fuoriuscita dallo schermo, la tensione ad un’azione non mediata del dato audiovisivo sul corpo, incarnata dallo spettatore attraverso lo spazio, a stabilire quella meta-visione che, abbiamo visto, Youngblood individua come carattere proprio e radicale dell’espansione. Una tensione che appunto si afferma e sistematizza a partire dagli anni Sessanta ma che pure affonda le radici, come evidenziato dal contributo di Sandra Lischi, in epoche precedenti della sperimentazione cinematografica. Nello specifico dei modi spaziali dell’esperienza estetica di matrice stroboscopica, l’abbattimento della cornice e della frontalità cinematografica e la riformulazione della condizione del fruitore è elemento cardine delle ricerche di Conrad, Sharits e Jacobs autori che contribuiscono a porre le basi di un’esperienza dello spazio immersiva. Un carattere immersivo che, se nelle condizioni mediali proprie del dispositivo cinematografico, si manifesta dallo schermo e progressivamente assume la configurazione di un campo di forme immateriali che rendono la membrana del limite tra soggetto e ambiente sempre più porosa. Un polo estremo nello sviluppo di questo processo è rappresentato dalle opere ZEE e FEED di Hentschläger, nelle quali viene realizzato uno dei propositi che da sempre hanno caratterizzato le istanze immersive nelle arti visive, nella ricerca mediale e nel cinema, la possibilità cioè di stabilire una totale continuità tra ambiente e soggetto, una continuità simile ai modi percettivi del sonoro, modalità di attraversare in forma di onde

64 elettromagnetiche di luce il corpo esperiente e permettere allo spettatore di vedere dall’interno. Infine, riconnettendo alcuni punti emersi nell’esamina storica e più volte riproposti in questi appunti diacronici, gli aspetti propri di questo tipo di pratiche, quali principalmente la natura procedurale e l’attenzione al vissuto del singolo spettatore, elemento che realizza condizioni potenziali dell’opera, permettono di individuare altri due temi strettamente legati: la dimensione della liveness, cioè della ‘performatività’ del momento estetico, la sua irripetibilità che rende centrale a sua volta il tema del vissuto del singolo fruitore e la coincidenza tra progetto artistico e la costruzione del percorso esperienziale. Una costruzione dell’esperienza che, in stretto legame con quanto detto rispetto al tema della percezione, può rifarsi o meno al setting dell’esperimento scientifico e quindi porsi come struttura organizzata e modulata in distinti passaggi, come ad esempio nella prima versione del progetto Displace, oppure come narrazione sensoriale in crescendo, basata sull’accumulazione in salire del fragore audiovisivo pulsante. Esempi rappresentativi in tal senso sono il live Megatsunami di otolab, Model 3 e 5 di Granular Synthesis e i lavori di Bruce McClure.

65

66

CAPITOLO 2 Il corpo, i sensi, lo spazio L’opera come dispositivo percettivo e ambientale

68 2.1| Dall’occhio al corpo. Dall’occhio al corpo. La percezione come sistema embodied e l’emanazione soggettiva dello spazio

Il panorama di progetti artistici contemporanei è ampiamente costellato di progetti che si presentano come dispositivi percettivi, nei quali cioè il coinvolgimento percettivo dello spettatore non rappresenta un aspetto fenomenico corollario della fruizione ma piuttosto un elemento di senso prioritario del progetto estetico. Il caso delle opere di flicker, in virtù della centralità assunta dal progetto percettivo ed individuale dello spettatore, rappresentano un caso utile ad interrogarsi su alcuni cambiamenti in atto nello statuto di opera d’arte. Cosa ci dice la pulsazione sullo schermo, la sola reiterata sequenza di luce e non luce? Qual è il contenuto di un ambiente in cui solo segno è la frequenza del suono e della luce? In realtà, la domanda andrebbe capovolta: queste particolari pratiche ci chiedono più di quanto non esprimano. Il caso di Ambiente Stroboscopico del Gruppo T, ad esempio, è particolarmente esplicativo - quasi didascalico - nel manifestare un meccanismo che, con funzioni e modalità diverse, accomuna molte opere basate sulla percezione, estendibile quindi oltre il caso specifico dei lavori stroboscopici. L’installazione, infatti, stabilendo una radicale riduzione della forma, esclude qualsiasi interferenza da parte di altro segno ma non rinuncia completamente alla rappresentazione di quello che è il fulcro generatore di senso nell’opera. Anche se l’environment è dominato dalla rigida ritmica di luce, la struttura del dispositivo è una spirale nel quale il fruitore trova al centro il proprio corpo, se stesso in quanto soggetto esperiente, rappresentato o per meglio dire riflesso, in una nuova forma, dovuta alla distorsione percettiva di cui sta facendo esperienza immanente. In un meccanismo di feedback l’ambiente/opera attiva un evento percettivo e insieme rimanda al soggetto il suo effetto. Questa rappresenta una possibile modalità di porre il soggetto, il suo corpo esperiente e il processo percettivo, attivato in vivo, come contenuti stessi dell’opera. In modo antitetico, ZEE, installazione del media artist Kurt Hentschläger, azzera qualsiasi appiglio di

69 rappresentazione e con essa le coordinate ‘naturali’ attraverso le quali il soggetto propriocepisce il sé nella relazione con l’ambiente. La particolare specie di progetti artistici resi oggetto della ricerca, sono tra gli esempi possibili di quello che Carla Subrizi ha definito un rovesciamento di prospettiva: non più oggetto da guardare ma situazione attraverso la quale guardare il mondo e – aggiungeremmo – il soggetto/fruitore che agisce questo sguardo:

Se l’opera non è più un luogo che si offre alla contemplazione, se non resta appartata e anzi si fa sentire nella vita che è etica, politica, coscienza, esperienza, l’opera si rivela come un’entità relazionale, un nodo più che un traguardo visivo, un punto intermedio più che un obiettivo verso il quale si conclude la visione. In essa non viene trasfigurato il reale, in essa non si cercano i simboli o le rappresentazioni della realtà. L’immaginario non resta relegato allo spazio definito di un’opera che con la realtà rimane in un rapporto illusivo, di distanza. L’opera agisce, non è soltanto il risultato di un’azione ma è stimolo di una reazione.1

Il corpo esperiente è spesso il catalizzatore di questa trasformazione e attore della reazione potenziale progettata dall’autore. Rispetto a caratteristiche proprie dei progetti estetici di flicker vengono individuati due aspetti del dispositivo percettivo che sono significativi nel riconfigurare l’identità del progetto estetico su un piano generale, che definiscono cioè i casi particolari in esame e al tempo stesso suggeriscono delle tendenze estendibili alla produzione artistica recente:

- il superamento del predominio dell’occhio nell’esperienza visiva a favore di una concezione del processo percettivo esteso e incarnato; - l’immersività come condizione di sconfinamento nel dualismo soggetto- ambiente.

1 Subrizi C., 2000, pp. 5-20. Si veda anche la nozione di ‘appropriazione di autorialità’ da parte dello spettarore cui si fa riferimento nell’introduzione, nota n. 5. Cfr. Diodato R., Lo spettatore virtuale, in A. Somaini, 2005, 269-281. Cfr. anche Estetica del Virtuale, Bruno Mondadori, 2005.

70 Per affrontare questo percorso l’analisi estetica va ricondotta alla sua radice etimologica – aesthetikòs, ciò che riguarda la percezione – cioè occuparsi di funzioni strettamente connesse alla sfera del sensibile per decifrare i modi attraverso i quali l’opera instaura particolari forme di soggettività, di relazione tra soggetto e realtà fenomenica prodotta dall’opera e non ri-prodotta né rappresentata. Lo studio delle pratiche non può quindi esimersi dal confrontarsi con un più ampio panorama di riflessione sulla percezione, la sensorialità e il corpo, ponendosi in posizione dialogica rispetto aree extra-artistiche del sapere percettivo, in particolare, quelle scientifiche. Un dialogo non indirizzato ad un’assimilazione ma che anzi permetta di individuare convergenze possibili e limiti determinati da specificità sul piano epistemologico di entrambe le aree del sapere. Allo stesso tempo, lo scetticismo spesso radicato nel campo della critica e delle teorie dell’arte nei confronti delle contaminazioni con le ‘scienze esatte’ e il rischio di ‘riduzionismo’ – certamente presente – non sono ragioni sufficienti per non tentare uno sguardo verso l’altra sponda del sapere sul sensibile. Perché, come già ricordato, integrare il fondamento fisiologico di alcuni meccanismi permette di decifrare non il senso dell’opera nel suo complesso ma il modo con il quale l’opera produce senso. Le reazioni percettive e la contingenza sensibile consentono, infatti, di riconoscere una parte della poetica del corpo esperiente e quindi della soggettività coinvolta nella fruizione dell’opera, ricorrente in vari ambiti sia nei film studies che nelle teorie dell’arte e della media art, ma disseminate e raramente poste a confronto sul piano operativo del sensibile. Infine, come dimostra la ricorrenza dell’interesse da parte degli autori nei confronti del flicker e della sua fisiologia, gli artisti hanno intrapreso questo percorso spurio già da diverso tempo oppure, indifferenti alla frammentazione del sapere sul corpo che sia la scienza che l’estetica hanno tracciato a partire dall’epoca moderna, non hanno mai smesso di percorrere.

71 2.1.1 | La visione oltre l’occhio e la percezione incarnata

In un’intervista con Jonas Mekas del 1966, Tony Conrad racconta di aver sperimentato, conducendo ricerche sulla stroboscopia per la preparazione di The Flicker, un’ampia gamma di effetti legati alla visione ad occhi chiusi che delineano, secondo l’autore, un nuovo modo di visione, che permette di agire su una dimensione percettiva diretta e radicale ed eludere le modalità consolidate della visione cinematografica.2 Come nel caso di Brion Gysin, anche per Conrad il flicker è un metodo per instaurare nell’evento dell’opera una nuova forma di esperienza percettiva, uno statuto del visibile e dell’oggetto artistico generalmente attribuito ad un reame percettivo altro da quello determinato dalla centralità dell’occhio che ha condizionato l’estetica e le teorie dell’arte fin dalla loro nascita in età moderna.3 Questo aspetto è tratto comune a gran parte dei lavori basati sulla stroboscopia, si tratta di una tensione alla riformulazione del sensibile nell’esperienza estetica rintracciabile trasversalmente sia in senso cronologico, che rispetto alla tipologia di opere e forme mediali implicate. Elemento ricorrente, quindi caratteristico, del campo percettivo creato nelle opere di flicker è la riduzione del dato audiovisivo a sola luce e metrica temporale. Altra specificità è la visione ad occhi chiusi o una modalità sensoriale simile al visivo ma che prescinde dall’occhio e anche dall’ottica, intesa in quanto dispositivo tecnico, e da qualsiasi forma di supporto interposto tra la sorgente della visione e l’occhio stesso per materializzare la forma visibile. Viene a rompersi nel processo percettivo determinato dal flicker l’assimilazione tra percezione visiva e occhio, che perde il suo primato di canale sensoriale eletto a captare dal reale specifici dati, in questo caso la luce. Viene messo in discussione quindi l’assunto che l'occhio sia l'organo della visione, una ‘verità’ percettiva che ha radici storiche molto profonde nella cultura occidentale, sia in ambito scientifico che nelle teorie dell’arte, con varianti spesso ardite e suggestive a seconda del periodo storico.4

2 Mekas J., An Interview with Tony Conrad, 24 marzo 1966, in Mekas J.,1972, pp. 228-232. 3 Cfr. Howes D., 2006. 4 Cfr. Maffei L., Fiorentini A., 2008; Ronchi V.,1968.

72 Da questo primo punto, messo in crisi dalla condizione percettiva del flicker, è possibile fissare una prima convergenza tra arte e scienza, in particolare rispetto all’ambito delle neuroscienze. Le opere di flicker rendono, infatti, prassi sensibile una serie di conoscenze legate al funzionamento della visione alle quali la scienza è giunta solo da qualche decennio e cioè che la percezione di una forma visiva – o di quel sistema di segnali che comunemente viene definito visione - non sia riducibile ad una trasmissione passiva dello stimolo esterno all'occhio, dall'occhio al nervo ottico e quindi alle parti ritenute sede dell'attività cognitiva del cervello, per essere elaborata come percezione cosciente.5 Negli ultimi anni una disciplina chiamata neuroestetica si sta occupando di indagare e tentare di spiegare, con le leggi della fisiologia del cervello ciò che accade nel soggetto/friutore nel momento specifico della fruizione artistica. Questo dibattito sulle possibili sinergie tra arte e neuroscienze è per buona parte dedicato alla ridefinizione dei meccanismi visivi, in particolare nel caso di oggetti artistici basati su caratteristiche quali immaterialità e astrazione. Tra le voci più autorevoli in tal senso, il neurobiologo Semir Zeki, considerato da molti il fondatore di questa disciplina ibrida, spesso problematica e

5 “L'errore più comune è pensare che l'immagine ottica all'interno del bulbo oculare ecciti i fotorecettori retinici per poi essere trasmessa fedelmente lungo un cavo chiamato nervo ottico e mostrata su uno schermo chiamato corteccia visiva. È un evidente errore logico, perché se un'immagine viene proiettata su uno schermo interno, nel cervello ci dev'essere qualcuno che la guarda e, perché ci sia questo qualcuno, dovrà esserci qualcun altro all’interno del suo cervello; e così ad infinitum. Il primo passo per comprendere la percezione è abbandonare l'idea delle immagini nel cervello e pensare invece in termini di 'trasformati', o rappresentazioni simboliche di oggetti ed eventi del mondo esterno. Come i caratteri a inchiostro chiamati scrittura simboleggiano o rappresentano un oggetto a cui non somigliano, così l'attività dei neuroni cerebrali, i moduli di attività neurale, rappresenta oggetti ed eventi della realtà intorno a noi. Come i crittografi cercano di decifrare un codice ignoto, così i neuroscienziati si sforzano di penetrare il codice usato dal sistema nervoso per rappresentare il mondo esterno. […] Non possediamo solo una, bensì trenta aree visive nella corteccia della parte posteriore del cervello, e sono quelle a farci vedere il mondo. Non è chiaro perché ce ne occorrano trenta anziché una: forse ciascuna presiede un distinto aspetto della visione. All'inizio si potrà rimanere disorientati davanti all'anatomia delle trenta aree visive cerebrali, ma esiste un piano organizzativo generale. Il messaggio ottico proveniente dalla retina raggiunge il cervello e si biforca in due vie, i due principali sistemi visivi del cervello. La prima via, filogeneticamente più arcaica, attraversa il collicolo superiore (una struttura del tronco cerebrale); la seconda, filogeneticamente più recente e più evoluta, va alla corteccia visiva, nella parte posteriore del cervello. La via recente della corteccia presiede alla maggior parte di quella che di solito definiamo visione, come riconoscere gli oggetti. La via arcaica, invece, ci consente di localizzare gli oggetti spazialmente nel campo visivo e di allungare la mano per prenderli o girare i bulbi oculari per guardarli.” Ramachandran S. V., 2006, pp. 29-31.

73 ancora in fase di definizione. I suoi studi si concentrano sulla decostruzione di presunte conoscenze diffuse in ambito scienticio, fin in tempi recenti, che interpretano la visione come processo prettamente oculare. A questa Zeki contrappone ciò che lui ha definito visione interna (inner vision) nome scelto per riassumere e divulgare le conoscente raggiunte negli ultimi decenni dalle scienze in merito, in particolare, al funzionamento e le caratteristiche prioritarie della percezione visiva.6 Fino a pochi decenni fa, si riteneva che l’occhio registrasse un’immagine del mondo trasmessa alla corteccia visiva attraverso la retina e che l’immagine captata fosse compresa da un ‘centro di elaborazione,’ per lungo tempo identificato con la corteccia associativa.7 Questa suddivisione tra aree e tempi della visione ha fatto sì che la corteccia associativa fosse concepita come sede di facoltà superiori legate alla comprensione dello stimolo, determinando così una struttura gerarchia tra esperienza sensibile e pensiero, basata sulla netta separazione tra percezione e processi cognitivi. In questo quadro, inoltre, la visione è concepita come processo passivo, seguito da un momento attivo, corrispondente all'interpretazione nell'area cognitiva.8 In realtà, scrive Zeki, si è scoperto, da qualche decina di anni, che esistono nel cervello differenti aree visive in sinergia tra loro, a formare quello che le neuroscienze attuali definiscono cervello visivo: ad ogni stimolo visivo, si attivano nel cervello una moltitudine di processi paralleli e simultanei che portano a ridefinire la visione come sinergia tra percezione e cognizione, tra sensibilità e

6 “Sono fatti decisivi che hanno condotto in modo inevitabile all'idea, del tutto erronea, che sulla retina venga 'impressa' un'immagine del mondo, la quale, una volta trasferita alla corteccia 'visiva', viene da questa 'ricevuta', decodificata e analizzata. Dopo di che, l'immagine sarebbe interpretata, così pensavano i neurologi, in un'altra parte del cervello, sulla base di impressioni presenti e passate. Si concepiva insomma la visione come un processo in larga misura passivo […] Solo in tempi relativamente recenti ci siamo resi conto che questa descrizione del processo della visione – un'immagine del mondo visivo 'impressa' sulla retina – è ben lontana dal render giustizia alla realtà delle cose: la funzione della retina costituisce uno stadio iniziale vitale di un elaboratissimo meccanismo che da essa si estende alle cosiddette aree superiori del cervello”, Zeki S., 2003, p. 29- 31. 7 Zeki S., 2003, p. 31-34. Cfr. Henschen S. E.,1903, pp. 125-127; Henschen S. E., 1983, 170 180. 8 Tale teoria dell'organizzazione del cervello e della percezione è elaborata dallo psichiatra tedesco Paul Flechsig nel primo decennio del secolo scorso. Cfr. Fechsig P., Some Papers on the Cerebral Cortex (trad. G. von Bonin, a cura di), Thomas,1960, pp. 75-89, cit. in Zeki S., 2003, p. 36.

74 pensiero.9 Come sottolinea Zeki, infatti, la visione è un meccanismo estremamente complesso e basato su un rapporto tutt’altro che deterministico tra stimolo ed effetto percettivo, tanto che uno dei concetti di riferimento del suo discorso è quello di ambiguità: nel tentativo di costruire una conoscenza a partire dagli input provenienti dall'esterno, il cervello si trova spesso a fronteggiare circostanze sensoriali di non facile interpretazione, perché si confronta con una serie di possibili interpretazioni, tutte di uguale validità. Questo il caso, ad esempio, delle figure ambigue, nelle quali la risultante percettiva è tutt’altro che univoca e frutto di un processo costruttivo del singolo soggetto.10 Un altro è rappresentato dalle illusioni ottiche, eventi esperiti quotidianamente che amplificano la discrepanza tra ciò che crediamo di vedere e ciò che sappiamo della realtà come condizione ‘oggettiva’ e ‘misurabile,’ rendendo evidente come la percezione sia in gran parte una forma di interpretazione soggettiva dell’ambiente e non una sua riproduzione.11 Questo excursus nel campo delle neuroscienze e della neuroestetica fornisce strumenti utili a comprendere la radice di alcuni interrogativi posti dalle opere, rispetto alla relazione tra visibile e reale, aggiungere conoscenze sulla natura ambigua del processo visivo, intuita dagli artisti e rispetto alla quale lo sguardo delle hard sciences offrono la possibilità di ricollocare i fenomeni specifici del flicker, nel più ampio quadro di discussione sul potenziale rivelatorio dell’esperienza estetica rispetto a meccanismi profondi della relazione tra individuo e realtà, rappresentati dalla percezione. Sperimentare, infatti, in modo non mediato

9 In esso una parte è costituita dalla corteccia visiva (V1), che ha un compito di 'regia' e smista, in parallelo, lo stimolo ricevuto dalla retina ad una costellazione di altre aree che formano nel cervello “un sistema di elaborazione specializzato,” nel quale cioè ognuna si occupa sia di captare che interpretare, in modo iperselettivo, parti specifiche dello stimolo ricevuto, come un determinato colore, una forma o un movimento. Zeki S., 2003, p. 31. 10 Cfr. Maffei L., Fiorentini A., 2008, pp. 4-11. 11 Il biologo Jacques Ninio ha dedicato ampia parte del suo lavoro alla discrepanza tra sensi e realtà, resa una pratica esperibile nelle illusioni ottiche, tra le quali la più celebre è l’impressione che la terra sia piatta o la dimensione apparente delle forme, in base alla loro posizione in un campo spaziale dato. Ad esempio, se si osserva la luna nel cielo essa apparirà di dimensioni ridotte rispetto a quando viene osservata all’orizzonte, pur avendo coscienza del fatto che la sua reale dimensione resti invariata. Questi studi sono introdotti in La Science des Illusionis (1998) e ripresi nella prima parte di L’empreinte des senses (2011), ricostruendo, in questo secondo contributo, un excursus nella storia delle illusioni ottiche e rispetto ai principali autori che nei secoli hanno elaborato metodi empirici allo scopo di rivelarle rivelarle. Altro punto di interesse del saggio è l’aver proposto una ricostruzione dello sviluppo delle funzioni sensoriali e delle leggi che le regolano non solo nella storia della specie umana ma anche in quella del regno animale. Cfr. Ninio J., 1998; 2011.

75 da processi interpretativi alcune delle conoscenze raggiunte solo di recente dalle neuroscienze - che controvertono una concezione della percezione nata in seno alla scienza ma estesa all’ambito culturale e alle teorie dell’arte fin dalla nascita dell’estetica moderna – significa porre il singolo fruitore dell’opera nelle condizioni di ripensare la propria relazione con l’ambiente, il rapporto tra soggetto e realtà, rendendo l’esperienza estetica momento di conoscenza del sé. Ma è proprio rispetto a questo punto – nel passaggio cioè dai fondamenti fisiologici della percezione all’esperienza del singolo fruitore in cui l’operazione artistica si colloca, in cui si realizza il passaggio dall’oggettività della scienza alla soggettività della fruizione come specificità e dominio dell’estetica - che è bene inserire alcune osservazioni utili a comprendere le ragioni dei riferimenti alle neuroscienze e alla neuroestetica, presenti qui ed in altri passaggi della ricerca dedicati alla percezione. Si sottolinea, infatti, che ai fini del nostro discorso, i riferimenti a questo ambito disciplinare, ed in particolare ai lavori di Zeki, si intendono come apertura ad uno sguardo sulla dimensione percettiva che chiarisce alcuni meccanismi coinvolti nella prassi estetica, ma in alcun modo ne rappresentano un protocollo unico di analisi. Se, infatti, un contributo di rilievo di Zeki è l’aver riportato sul piano divulgativo una summa delle conoscenze sulla percezione sviluppate nel campo scientifico negli ultimi decenni, di averle rese strumenti approcciabili anche alle teorie dell’arte e di aver individuato i corrispettivi scientifici delle origini del predominio dell’occhio sulla complessità della percezione, allo stesso tempo le sue ricerche tradiscono una tendenza rischiosa, in quanto cadono spesso nella tentazione di non porsi in senso interlocutorio nei confronti delle teorie dell’arte ma di sostituirsi ad esse proponendo un modello riduzionista, che vede l’esperienza estetica fenomeno secondario dei processi fisiologici in atto nel cervello. Tale tendenza, più volte smentita dallo studioso ma leggibile in filigrana nel complesso del suo discorso, lascia emergere un neurocentrismo che rischia, laddove non criticizzato, di sostituire al predominio culturale dell’occhio quello del cervello, riconducendo ancora una volta la disomogeneità della percezione e dell’esperienza dell’opera d’arte. Al tempo stesso, si è scelto di non seguire lo scetticismo radicale che circonda la neuroestetica in ambito umanistico e in particolare in area italiana perché si ritiene che valga la pena riservare un interesse verso alcune delle

76 conclusioni introdotte da questa disciplina, a patto di ‘maneggiare con cura’ tali strumenti e di circostanziare le loro ‘verità’ ad alcuni specifici aspetti dell’opera e dell’esperienza estetica.12 Come avremo modo di vedere poco più avanti, nelle opere di flicker - come pure in un vasto panorama di opere contemporanee che mettono al centro del momento estetico la sensorialità – è il momento esperienziale del singolo fruitore a configurare e dare senso all’opera, opera che è dispositivo percettivo, basato sì su meccanismi e le leggi che regolano la percezione e che le neuroscienze e la neuroestetica possono contribuire a spiegare, ma che restano al contempo circoscritte ad una parte del progetto artistico. Come nel caso, ad esempio degli ambienti stroboscopici del Gruppo T, gli autori partono da una serie di condizioni percettive ricollocabili all’ambito scientifico ma, di fatto, esse rappresentano un a priori dell’opera che si realizza pienamente, in vivo, nel momento specifico della fruizione, cioè nell’esperienza del singolo soggetto e nell’imponderabilità delle conseguenze percettive, ma anche emotive e culturali che essa determina. Rispetto allo scarto tra l’oggettivizzazione dell’esperienza e la soggettività della fruizione, che è necessario segnalare, pur nei punti di contatto, un distinguo tra la pratica sperimentale nella scienza rispetto all’estetica. Mentre un contributo della neuroestetica alle teorie dell’arte è offrire conoscenza sul funzionamento del cervello in risposta a particolari stimoli prodotti nell’opera, non si dovrebbe cedere alla tentazione di spiegare attraverso questi la complessità e lo specifico dell’esperienza artistica, dato che queste funzioni si attiverebbero in risposta a qualsiasi input simile, ad esempio la luce pulsante, in qualsiasi condizione esperienziale, sia essa un’opera d’arte o un esperimento in laboratorio. 13 Le neuroscienze quindi possono aiutare lo studioso a capire una parte delle modalità di azione dell’opera sul soggetto, ma non lo specifico dell’esperienza soggettiva. Non essendo l’analisi delle questioni generali legate alla neuroestetica oggetto specifico di questa ricerca ci si limita a sottolineare un secondo punto

12 Per uno sguardo critico sul lavoro di Zeki e su alcuni aspetti della neuroestetica, cfr: Cappelletto C., 2009. Vedi anche recensione al saggio di Elio Franzini in “Altre modernità”, n. 4, 10/2010, pp. 303-305. Per un’analisi critica sulle questioni epistemologiche legate al rapporto tra neuroscienze e altre discipline cfr: Legrenzi P., Umiltà C., 2009. 13 Cfr. Legrenzi P., Umiltà C., pp. 53-54.

77 caratteristico delle opere della dimensione percettiva del flicker rispetto al quale la neuroestetica, così come delineata da Zeki, evidenzia la propria portata riduzionista: la dimensione percettiva proposta dallo studioso, seppure efficace nel marcare l’ambiguità come carattere fondante del rapporto tra soggetto e oggetto della percezione, allo stesso tempo lascia eliso dal processo la dimensione somatica, la corporeità che agisce l’esperienza e ricolloca il processo percettivo sul piano della specificità sensoria dell’opera. Se, infatti, la visione diretta stabilita dal flicker permette al dato audiovisivo di parlare direttamente al cervello, questa immediatezza percettiva è stabilita attraverso la totalità sensoria inscritta nel corpo. Infatti, il processo percettivo, che dà fondamento all’opera a partire da funzioni che le scienze possono aiutarci a comprendere, si realizza sul piano particolare del sensibile che è agito da una “corporeità esperiente”, un corpo “effettuale che va alle radici del senso, senza accettare di essere ‘ridotto’ a funzioni operative e fisiologiche.”14 Una concezione, questa, del processo percettivo condivisa da posizioni interne alle stesse neuroscienze, che evidenziano il carattere incarnato, la rilevanza attiva del corpo nell’esperienza attraverso la quale il soggetto dà forma e senso al mondo. Tra queste voci, una delle più note e attente alla definizione dei processi fisiologici coinvolti nella percezione visiva, anche in relazione alla prassi estetica, è quella del neurobiologo Vittorio Gallese, i cui studi sul cervello riportano l’attenzione al corpo e descrivono un sistema di relazioni tra le sensazioni provenienti dalla sfera somatica e la loro risposta in termini neuronali, definito dallo studioso complesso e multimodale.15 Infatti, in collaborazione con Freedberg, ha proposto un modello di interpretazione del portato empatico dell’esperienza, anche estetica, definito embodied simulation, secondo il quale l’empatia tra il sogggetto e altri individui o, nell’opera d’arte, tra il fruitore e riproduzioni, raffigurazioni del corpo o segni e tracce astratte sul suo gesto determinano un’immedesimazione tra corpo esperiente e corpo guardato/rappresentato che è

14 Franzini E.,2010, p. 305. Per una ricognizione delle teorie della corporeità cfr. Cavarero, A. 1995; Fontanille J., 2004; Foucault, M., 1998; Foucault, M., 2001; Pancino, C., 2000. 15 Gallese V., Seeing art….beyond vision. Liberated embodied simulation in aesthetic experience, in Franke I., Momennejad, (a cura di), 2011, p. 62.

78 riflessa in modo diretto sul piano neuronale, con conseguenze empatiche ed affettive.16 In ambito filosofico la più nota teoria della corporeità è senza dubbio quella offerta dal fenomenologo Merlau-Ponty, attraverso una concezione del corpo ‘vissuto’ che fa da cardine alla sua Fenomenologia della percezione (1945), ispirata a sua volta ad alcuni contributi sul corpo come vettore del movimento e del sentire tratti da Edmund Husserl. 17 I presupposti teorici della tradizione fenomenologica sulla corporeità, di matrice sia francese che tedesca, sono al centro di un rinnovato interesse negli ultimi anni: linee di studio moltempli assumono infatti, non senza variazioni e rielaborazioni di rilievo, la prospettiva fenomenologica sullo sfondo delle conoscenze scientifiche sulla corporeità coinvolte nella percezione proposte dalle neuroscienze: come l’approccio neurofenomenologico, che vede tra i maggiori esponenti Francisco Valera, 18 accanto a contributi che ridefiniscono il ruolo del corpo e della sensorialità nella formazione della coscienza del sé, tra i quali di particolare interesse il saggio La mente Fenomenologica di Shaun Gallager e Dan Zahavi (2008), significativo anche per aver ricostruito un ampio scenario di ambiti disciplinari e i paradigmi legati alla percezione, al corpo e alla coscienza, tra neuroscienza, filosofia della mente, fenomenologia e psicologia sperimentale, quali ad esempio la ‘teoria ecologica della percezione’ di James J. Gibson.19 In questa sede e più in generale nel corso della ricerca le sensazioni verranno considerate, alla luce di tali paradigmi incarnati della percezione, non unicamente come sensazioni semplici, corrispondenze degli stimoli esterni, ma come impressioni soggettive e intime. Esse non rappresentano, infatti, il mero risultato di un’immissione passiva di informazioni all’interno del soggetto, rielaborate successivamente in rappresentazioni complete e stabili, quanto piuttosto un livello primario di interazione tra soggetto e ambiente nel quadro complessivo di un processo percettivo che comporta un’attività da parte del soggetto un suo ‘fare’ incorporato. Le sensazioni sono suscettibili e si modificano, a partire dai

16 Cfr. Gallese, V. and Freedberg, D., 2008, pp. 52-59. 17 Cfr. Gallager S., Zahavi D., 2008, pp. 205. 18 Cfr. Varela F.J., Thomson, E., 1992. 19 Cfr. Gibson J., 1999

79 modi e dalle variazioni attraverso le quali il percepiente si relaziona con le possibilità offerte dall’ambiente.20 La continuità tra cervello e corpo, con particolare riferimento all’audiovisivo di flicker è descritta da Gilles Deleuze in Cinema 2 - Immagine- Tempo: l’autore evidenzia come il cinema di flicker sia un cinema di espansione che annulla la dicotomia tra esterno ed interno della percezione, tra corporeità esperiente nella quale si inscrive la sensazione, e cervello, ad indicare il processo simultaneo tra sensazione e cognizione nel processo percettivo, e che caratterizza il ‘cinema del cervello’ così descritto:

[…] Un cinema d'espansione senza cinepresa, ma anche senza schermo né pellicola. Tutto può servire da schermo, il corpo di un protagonista o anche i corpi degli spettatori: tutto può sostituire la pellicola, in un film virtuale che passa solo nella testa, dietro le palpebre, con sorgenti sonore prese all'occorrenza in sala. Morte cerebrale agitata, oppure nuovo cervello che sarebbe contemporaneamente schermo, pellicola e cinepresa, membrana ogni volta del fuori e del dentro.21

L’espansione del soggetto corrisponde al superamento del paradigma oculare alla base del dispositivo cinematografico e l’interconnessione tra dispositivo e corpo nella relazione al sensibile, in virtù della quale i cambiamenti nei protocolli mediali portano dirette ricadute nel rapporto stabilito tra realtà fenomenica e il complesso sistema di corpo e cervello, sensi e interpretazione, dal quale ha atto la percezione. La sinergia tra corpo e cervello e la loro relazione con l’elemento mediale, in opere che si pongono come dispositivi percettivi, è un tratto caratterizzante non solo delle opere di flicker ma di molta media art degli ultimi due decenni, rispetto alla quale una ricognizione sia sincronica che diacronica è offerta da Caroline A. Jones in Sensorium: embodied experience, technology, and contemporary art, catalogo dell’omonima mostra tenutasi tra il 2006 e il 2007 presso il MIT List Visual Arts Center di Cambridge.22

20 Gallager S., Zahavi, 2008, pp. 152-156; Nöe A., 2004. 21 Deleuze G.,1989, p. 238. 22 Cfr. Jones C. A., (a cura di), 2006. Un catalogo il cui approccio rappresenta uno spunto di particolare pertinenza rispetto alla ricerca. I contributi contenuti, infatti, procedono ad ricostruzione

80 Se negli anni Ottanta e Novanta molto si è parlato della fondazione di nuove forme di soggettività a partire dalla contaminazione tra corpo umano e tecnologie, prima in senso protesico (il cyborg), poi incorporeo e virtuale (l’avatar), in tempi recenti i termini della relazione sono virati sul terreno della percezione, per cui la tecnologia non contribuisce alla produzione di nuove conformazioni anatomiche e identità alternative quanto piuttosto ad intervenire sullo stesso piano di quella membrana sensoriale che è il corpo, inteso come dimensione somatica e come sfera cognitiva del cervello.23 Una nuova soggettività emerge da questa serie di relazioni, proveniente da riconfigurazioni - in rapporto alle tecnologie - di quello che Jones ha definito sensorium. Jones recupera un termine latino per indicare le modalità attraverso le quali ciascun individuo coordina la totalità delle sensazioni incarnate, cioè scritte nel corpo, e propriocettive, insieme ai cambiamenti sensibili dell’ambiente che lo circonda.24 Pur abbracciando un’ampia selezione di pratiche artistiche a sfondo mediale e non cedendo alla tentazione di riportare la questione tra medium e corpo nel processo percettivo alla sola media art contemporanea, il contributo di Jones lascia escluso qualsiasi riferimento al linguaggio cinematografico. In linea con questo configurarsi del corpo come centralità dei discorsi su arte, scienza e media sul pian percettivo, andrebbero invece inclusi alcuni contributi in area anglosassone che si stanno occupando di leggere i modi dell'esperienza spettatoriale a partire dal corpo, inteso come complesso sistema percettivo e sensorio, quali The Tactile Eye. Touch and the Cinematic Experience di Jennifer M. Barker,25 significativo non nei termini dell’originalità dei discorsi presentati quanto piuttosto per aver riconnesso storica del fenomeno che, pur non tenendo conto di alcuni ambiti disciplinari di rilievo rispetto al rapporto tra sensi, corpo e tecnologie, non applicando delimitazioni tra arte contemporanea e media art, tra media elettronici e tecniche artistiche non elettrificate. Nella stessa direzione cfr. anche Belting H., 2005. Per prospettiva focalizzata sullo specifico dei media elettronici e digitali e su come la loro evoluzione abbia determinando nuove forme di sensorialità, cfr. Poissant L., 2005; Capucci P. L.,1994; 23 Cfr. Caronia A.,1996. 24 Il sensorium, sottoliena Jones, è un modello di concezione della relazione percettiva tra soggetto e ambiente che permette anche di superare la frammentazione tra i cinque sensi. Quello della segmentazione sensoriale è un altro tema centrale del suo discorso, rispetto al quale ricostruisce un percorso nella storia dell’arte contemporanea in riferimento alla componente mediale. 25 Barker M. J., 2009.

81 istanze interne ai film studies26 con simili dibattiti sviluppati in seno ad altre discipline, quali media studies, 27 filosofia e psicologia. 28 Il saggio guarda all'esperienza cinematografica partendo da ciò che viene definita 'dimensione tattile', ad indicare non un senso specifico legato alla superficie della pelle bensì ad una modalità di percezione embodied, estesa quindi alla totalità del corpo:

Esplorare la dimensione tattile del cinema apre la possibilità di guardare al cinema come esperienza intima e alla nostra esperienza con del cinema come connessione profonda, piuttosto che come una forma di osservazione distante che la nozione di cinema come puro medium visuale presuppone.29

La percezione si compone di una serie di registri che oltrepassano la segregazione in canali percettivi distinti, per abbracciare nozioni quali emotività, movimento, comportamento, tensione e ritmi interni. Più precisamente la sua analisi, suddivisa in tre forme principali di esperienza tattile – epidermica, cinestesica e viscerale – parte dalla superficie della pelle e del tocco, o dimensione aptica, per muoversi in profondità, verso l'esperienza interna al corpo e immersiva. 30 Il corpo e i termini ad esso correlati non sono da intendersi letteralmente né come metafora anatomica. La concezione di corpo è qui mutuata dagli studi di Vivian Sobchack, che a sua volta recupera da Merleau Ponty l'idea di soggettività primordiale che agisce stabilendo con l'ambiente una relazione embodied e materiale.31 Scrive Barker:

26 Cfr. anche De Vincenti, Carocci E., (a cura di), Ed. Fondazione Ente dello Spettacolo, 2012; Bellour R., P.O.L., 2009; G. Deleuze, Ubulibri, 2004; Elsaesser T., Hagener H., Einaudi, 2009; Sobchack V., 2004; S. Shaviro,1993. Stern D.N., Raffaello Cortina, 2011; University of California Press, 2004; V. C. Sobchack, Princeton University Press, 1999. 27 Stoller P., 1997. 28 Cfr. Levin D. M., 1993; Leder D., 1990. 29 “Exploring cinema's tactily thus opens up the possibility of cinema as an intimate esperience and of our relationship with cinema as a close connection, rather than as a distant experience of observation, which the notion of cinema as a purely visual medium presumes. To say that we are touched by cinema indicates that it has significance for us, that it come close to us, and that it literally occupies our sphere. We share things with it: texture, spatial orientation, comportment, rhythm, and vitality”. Barker M. J., 2009, p. 2. (mia traduzione). 30 Come anticipato approfondiremo poco più avanti la questione dell'immersività. 31 Barker M. J., 2009, p. 10.

82 Merleau-Ponty ha incentrato la sua filosofia attorno al corpo, tramite attraverso il quale siamo inseriti nel mondo e mezzo attraverso cui ci relazioniamo con esso e li attribuiamo un senso. Ne La fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty ha sostenuto che la percezione è una percezione incarnata (emobodied), che quindi la visione non esiste e non può avvenire senza che il corpo la renda possibile.32

Per Berker, riprendendo Sobchack, il corpo non è unicamente quello dello spettatore: il processo di incarnazione riguarda colui che guarda quanto il film, delineando quello che entrambe le studiose definiscono 'film body', che non è il solo corpo mediale ma un sistema di funzioni e meccanismi attraverso il quale il progetto potenziale del film prende forma nel mondo reale e fisico. L’azione del corpo cinematografico è in genere trasparente, intuibile solo tramite le sue manifestazioni fenomenologiche..33L'esperienza tattile è data quindi dall'interazione tra il corpo dello spettatore e corpo del film che entrano in una forma di relazione fenomenologica incarnata e materiale.34 In questa prospettiva l'esperienza delle opere di flicker, trova similitudini con l’esperienza del viscerale, terza tra le dimensioni tattili delineate da Berker.35 La studiosa definisce come viscera quelle strutture che rendono possibili le attività consce ma che non sono in genere direttamente controllate, tranne in alcune circostanze particolari. Tra le strutture viscerali che sottendono i processi audiovisivi, pur restando inconsapevoli e celati, in particolare, le strutture ritmiche del dispositivo cinematografico – il ritmo della luce, del proiettore, dello scorrimento della pellicola – sono paragonate al ritmo del flusso sanguigno, del respiro e del battito cardiaco, metriche elementari della nostra fisiologia che sottendono tutti i processi vitali ma in maniera incontrollata e non volontaria, alle quali vanno aggiunte le onde cerebrali, ritmi spontanei e invisibili che possono essere rivelati solo in particolari condizioni: momenti di disvelamento,

32 “In Phenomenology of Perception, Merleau-Ponty maintained that alla perception is embodied perception, so that vision does not and cannot occur apart from the body that enables it.” Barker M. J., 2009, p. 17. (mia traduzione). 33 Barker M. J., 2009, p. 10. 34 Barker M. J., 2009, p. 73. 35 In realtà nella seconda forma, definita cinestetica o muscolare, troviamo la definizione di immersività anch'essa utile a definire l'esperienza determinata dalla opere in esame. Si tornerà poco più avanti su questo punto nel focus dedicato all'immersività.

83 come descritto da Barker, di presa di coscienza di tale matrice invisibile e comune sia all’anatomia umana che a quella cinematografica:

Proprio come non è possibile in genere controllare il ritmo del nostro cuore o della circolazione sanguigna, nel film non c’è accesso a questi aspetti, tranne in poche e speciali circostante, come quando i filmmaker sperimentali rivolgono la loro attenzione verso l’interno, in una meditazione del meccanismo interno al cinema che assomiglia a quella degli yogi che cercano un controllo dello stato cosciente agendo sul battito cardiaco e la temperatura corporea.36

Tra le strutture viscerali le strutture ritmiche sono quelle che più facilmente di altre posso manifestarsi e divenire percepibili alla nostra sfera cosciente. In particolare, il ritmo rappresenta un punto di contatto radicale tra il corpo cinematografico e quello dello spettatore. Entrambi mostrano, infatti, scrive Berker, una struttura intermittente, difficilmente percepibile finché non si risale a ritroso fino alla radice della forma umana e cinematografica37 - cioè alla drastica riduzione della forma a pura pulsazione come il flicker, nel caso del cinema, o in episodi traumatici di aritmia cardiaca o respiratoria, nel caso del corpo e del battito umano.

2.1.2 | Sconfinamenti tra soggetto e ambiente: il meccanismo immersivo

La nozione di immersività è utilizzata frequentemente nella media art per descrivere le circostanze ambientali caratteristiche di alcune declinazioni contemporanee dell’audiovisivo espanso e, insieme, alcuni tratti del coinvolgimento del pubblico. Malgrado la sua ricorrenza d’uso, individuare, sia pure approssimativamente, una definizione del concetto di immersività può

36 “And just as we cannot ordinarily control the rhythm of our heartbeat or circulation, the film doesn't have access to these things except in a few cases and special circumstances, as when experiemental filmmakers turn their attention inward, meditation on the inner mechanism of cinema like yogis who seek conscious control over their heartbeats and body temperature”. Barker M. J., 2009, p. 127. (mia traduzione). 37 Berker M. J., 2009, p. 128.

84 risultare complesso. L'origine del termine è legato agli ambiti della 'realtà virtuale', ma la sua consuetudine non sembra coincidere con il riferimento a mondi virtuali, non solo per quanto riguarda l'audiovisivo e gli ambiti artistici ma anche, ad un ampio spettro di esperienze mediali contemporanee - quali informazione, musica, urbanistica, archiviazione, scienza, rete e video game. 38 Sembra opportuno affrontare l'immersione o immersività non come fenomeno connesso ad una specifico tecnologico o ad un particolare linguaggio, quanto piuttosto come particolare espressione del rapporto tra soggetto e ambiente. Tale prospettiva di analisi permette di guardare al concetto d’immersione come elemento propulsore di evoluzioni comuni a più linguaggi e discipline. Lo storico di media art Oliver Grau ha costruito un excursus che connette varie tappe della storia delle arti visive, del cinema delle scienze e dell'entertainment, dimostrando che modalità immersive del vissuto spaziale hanno preceduto di molto gli esperimenti specifici della realtà virtuale degli anni Ottanta e Novanta, individuando caratteristiche costanti e comuni a più aree d’interesse. Grau ha individuato i momenti di passaggio fondamentali e mappato le varietà che lo sviluppo tecnologico attuale sta generando, grazie anche ad una forte correlazione con le scienze e il media design.39 Lo studioso sottolinea come le manifestazioni artistiche più recenti vadano lette nel contesto della relazione tra essere umano e immagine, rispetto alla tensione ad essere 'dentro l'immagine' comune a molta storia delle arti visive. Una traiettoria la cui origine è da far risalire alla creazione di spazi illusori nelle pitture murarie delle ville pompeiane, passando per le architetture gotiche, gli affreschi rinascimentali e i soffitti delle chiese barocche, fino alla tradizione del panorama. La tecnica cinematografica dà un grande impulso a questo percorso, con lo stereoscopio, il Cinéorama, le televisioni stereoscopiche, i Sensorama e il Cinema Espanso; tappe che conducono, quasi in continuità, al 3-D, Ominimax e IMAX cinema.

Restringendo l’attenzione al campo delle arti visive, non si può esimersi dal fare riferimento, parlando di relazione tra soggetto e spazio, all’analisi condotta

38 D'Orazio F., Immersività, in Abruzzese A., pp. 271-275 39 Grau O., 2004.

85 da Claire Bishop nel celebre saggio Installation Art: A Critical History.40 La studiosa definisce l'opera di installation art a partire dal coinvolgimento diretto richiesto al fruitore, in quanto è sua specificità presupporre la presenza interna di un attante che che non è solo recettore ma dà senso e forma compiuta all’opera installativa.41Altro punto d’interesse è la natura effimera evidenziata dalla studiosa, la transitorietà che rende ciascuna opera un evento a sé, nato da un particolare e spesso irripetibile dialogo con fattori endogeni legati a luoghi e momenti specifici.42 Ad una conformazione dello spazio mutevole ed effimera corrisponde un soggetto che fruisce decentrato e attivo, partecipante: sono questi i due elementi che Bishop individua come costanti nella varietà di conformazioni assunte dalla installation art e che la pongono, fin dalle proprie origini, come esemplificative di una riformulazione nel legame soggetto-spazio. A partire dalla tradizione rinascimentale, infatti, la percezione dello spazio è determinata da un punto di vista 'ideale', che guida la dislocazione del soggetto, il corpo come sistema di misura univoco e proietta nel mondo uno sguardo matematico, che codifica l’esperienza sensibile dell’ambiente in una rappresentazione razionalizzata dello spazio.43 Molti momenti della storia dell’arte del Novecento si sono spinti verso la messa in discussione del paradigma prospettico, ma è tra gli anni Sessanta e Settanta, periodo che corrisponde alla nascita dell’installation art e al consolidarsi della corrente dell’Expaned Cinema, che sorgono le tensioni destrutturanti più radicali, nel mondo delle arti ma anche in seno all’architettura e al design e che, non a caso, coincide con l'emergere delle teorie post-strutturaliste sul decentramento del soggetto. Questa concezione, antitetica all’ordine prospettico, vede un soggetto frammentato, moltiplicato, decentrato appunto, per il quale la relazione con il mondo/spazio dell’opera è fondata sulla compresenza di punti di osservazione. In coincidenza con quanto evidenziato in merito all’Expanded Cinema, Bishop distingue le pratiche ambientali non a partire dalla propria costituzione o struttura mediale, quanto piuttosto attraverso uno sguardo fenomenico, basandosi cioè sulla ricaduta esperienziale e percettiva dell’opera.

40 Bishop C., 2005. 41 Ibid., p. 6. 42 Idem. 43 Palumbo M. L., 2001, pp. 9-19.

86 Individua quattro modi principali di esperienza e altrettante tipologie di soggetto/fruitore che esperisce e quindi si configura come motore dell’opera stessa. 44 Tra queste, l’immersività corrisponde alla categoria del Mimetic Engulfment, meccanismo mimetico tra soggetto e ambiente, l’assimilazione del primo nel secondo. La studiosa definisce il momento immersivo come una perdita delle coordinate spaziali che è anche perdita della consapevolezza del sé come entità disgiunta dall’opera. Viene quindi a crearsi una distruzione dei confini tra il soggetto e ciò che comunemente viene inteso come realtà esterna.45 La studiosa assume una posizione apertamente critica nei confronti di questo tipo di esperienza e delle opere che la determinano, colpevoli, a suo avviso, di attuare una distruzione del soggetto percepiente al punto tale da ridurre la consapevolezza del fruitore e assimilarlo allo spazio circostante.46 Per queste ragioni tale particolare forma dell’esperienza ambientale indurrebbe ad una regressione, in una supposta evoluzione della spettatorialità, ad un soggetto non percettivamente attivo bensì sottomesso all'assimilazione de-soggettivizzante con l’opera. Data l’autorevolezza del contributo della studiosa e l’assiduità che il concetto di immersivo ha assunto nel campo dell’arte contemporanea, non solo mediale, si è ritenuto utile partire da questa posizione radicalmente critica nei confronti di tale fenomeno e confutarne le conclusioni appena riassunte, alla luce di caratteristiche proprie delle opere di flicker. Pur concordando con l’osservazione della Bishop rispetto al livello fenomenologico dell’esperienza, rappresentato dalla permeabilità del confine tra soggetto e spazio come tratto distintivo di queste particolari forme estetiche, due sono i nodi rispetto ai quali l’analisi della studiosa si rivela impropria a descrivere la complessità di relazioni percettive e la dimensione della fruizione determinate da questo tipo di pratiche.

Anzitutto la concezione dello spazio, che, malgrado i presupposti iniziali del suo discorso stabiliscano una decisa frattura tra le pratiche installative e la regolazione dello spazio propria del paradigma prospettico, non tiene conto della

44 La studiosa suddivide le pratiche installative in quattro macro aree di riferimento: The Dream Scene, Heightened Perception, Mimetic Engulfment, Activated Spectatorship, in Bishop C., 2005, rispettivamente: pp. 14-47, 48-81, 82-101, 102-127. 45 Bishop C., 2005, p. 84. 46 Bishop C., 2005, p. 101.

87 natura plasmabile che la nozione di spazio ha assunto nelle pratiche ambientali contemporanee. Come sottolinea Nicolas De Oliveira, altro autore di riferimento rispetto alla questione ‘spaziale’, l’ambiente delle opere immersive differisce dallo spazio oggettivo: esso è piuttosto un 'non luogo', un campo di forze caratterizzato da discontinuità e indeterminatezza, che sommergere di stimoli il soggetto ma è al tempo stesso definito e generato dall'esperienza individuale. Il soggetto frammentato determina, attraverso il proprio vissuto percettivo, una molteplicità di configurazioni spaziali sincroniche e potenziali. 47 Al decentramento post- strutturalista del soggetto corrisponde, in particolare nelle pratiche ambientali contemporanee, un decentramento dello spazio stesso. Ricalcando il processo descritto dal filosofo Paul Virilio, secondo cui l’ordine e la fissità del modello prospettico sono soppiantate da uno spazio accidentale, discontinuo ed eterogeneo.48 In secondo luogo, l’idea di fruitore che si evince dall’analisi di Bishop, rispetto a questa particolare macro area delle pratiche installative, è un soggetto disembodied: non si tiene conto, quindi, della complessità simultanea e ricorsiva di stratificazioni sensorie inscritte nel corpo che, come visto nella parte precedente del paragrafo, l’esperienza percettiva presuppone. L’immersione corrisponde, al contrario, ad un’esperienza basata su un meccanismo di feedback costante tra soggetto incarnato e spazio:

[…] L'immersione consiste nella progettazione di un'esperienza il cui senso viene costantemente rinegoziato attraverso la performatività e quindi la corporeità del soggetto immerso nell'ambiente. “Spazio” e “Corpo” sono il nucleo del concetto di immersione. Non è un caso che essi siano anche il cuore del concetto di esperienza. La radice indoeuropea della parola “esperienza” è per (in greco peira). La stessa radice è comune anche a perao che significa “passo attraverso” e a péras - “limite”. Lo spazio nasce dal limite. […] Ma il limite e lo spazio esistono a loro volta solo a partire dall'esperienza del “corpo” che ne è la matrice.49

47 De Oliveira N., Oxley N., Petry P., (a cura di), 2004. 48 Ibid., p. 49. 49 D'Orazio F., Immersività, in Abruzzese A., 2003, p. 272.

88 Nel corpo e nella sua azione esperiente e attiva lo spazio viene emanato. Ancora una volta il flusso dell’analisi sulle opere di flicker incontra il corpo come sede di relazioni, non solo quindi endogene, relative cioè alla configurazione di tempi e modi dei processi percettivi e cognitivi, ma anche di aperture che rendono il passaggio di dati esperienziali tra soggetto e ambiente retroattivo e sciolgono il confine tra il dominio interno ed esterno al soggetto.50 In antitesi con quanto affermato da Bishop, nelle pratiche audiovisive contemporanee il soggetto esperiente o immersant estende la propria dimensione percettiva incarnata all'ambiente, controllando contemporaneamente il suo punto di vista soggettivo e l’immagine percettiva dello spazio intorno. Il fruitore è quindi, è al tempo stesso, soggetto percepiente e fonte di emanazione dello spazio percepito.51 Molte delle opere incluse nella ricerca, che per coerenze terminologiche con la storia dell’audiovisivo di ricerca e della media art abbiamo definito audiovisivo espanso, saturano lo sconfinamento del limite tra corpo e spazio, tanto da spostare il meccanismo di espansione dal dato audiovisivo al corpo, alla ricerca, nei casi più radicali di sperimentazione sulla fenomenologia del flicker, del collasso dello spazio, ad una tabula rasa entro la quale testare il processo di emissione dello spazio, a partire da quello che Foucault ha definito corpo utopico: ‘punto zero del mondo' che non è luogo ma è in potenza tutti gli altrove del mondo, tutti i luoghi possibili reali o immaginari.52 Mentre il soggetto a cui guarda Bishop corrisponde ad un corpo monade, definito dallo spazio e da esso segregato nella sua interezza a soggetto propriocepiente, il corpo nello spazio immersivo è un corpo che definisce lo spazio e corrispondente ad un soggetto disseminato e a una soggettività transitoria, che estende le proprie funzioni sensorie in reiterati processi di riconfigurazione del sé e dello spazio a partire dagli stimoli ambientali.53

50 Ibid., p. 273. 51 Bay-Cheng S., Kattenbelt C., Lavender A., 2010, p. 46. 52 Foucault M., Utopie. Eterotopie, Cronopio, 2005. 53 Cfr. Caronia A., 1996; Rella, F., 2000.

89

90 2. 2 | L'audiovisione

Un tema che le pratiche audiovisive di flicker, sia storiche che contemporanee, chiama in causa è quello delle relazioni tra suono e sorgente visiva, con una forte ricorrenza sul concetto di ritmo, definito dallo studioso francese Michel Chion, come elemento cardine dei meccanismi di transensorialità. Procederemo, quindi, ad inquadrare questo soggetto nel campo più ampio della storia delle sperimentazioni tra musica e visione, dalle arti visive alla composizione musicale, mettendo in luce quanto il lavoro degli autori abbia progressivamente integrato la ricerca su dispositivi di sintesi audiovisiva nei percorsi artistici, concentrandoci, successivamente, su alcuni contributi di tipo teorico che confrontano la questione anche rispetto alle condizioni sensoriali del sonoro e del visivo, così come sono affrontate dalle scienze contemporanee. Un riferimento rilevante nella prospettiva del nostro discorso è il saggio The Question of Thresholds: Immersion, Absorption, and Dissolution in the Environments of Audio-Vision del sound designer e studioso Chris Salter, in particolare per il fatto di aver stabilito, in linea con l'impostazione generale di ampia parte di questa ricerca, un confronto tra le conclusioni e i contributi di riferimento sul tema, avanzate da artisti e teorici, dell'arte e l'ambito delle neuroscienze, con una particolare apertura alla teoria delle cross-modal perceptions e della multisensory integration. Salter, inoltre, dedica una sezione del suo studio proprio alla fenomenologia audiovisiva generata specificatamente dal flicker, evidenziando la ricorrenza dell'uso di luci pulsanti e flash in opere incentrate sulla mescolanza tra fenomeni sonori e visivi.54 A chiusura del paragrafo, è offerto un

54Salter C., Question of Thresholds: Immersion, Absorption, and Dissolution in the Environments of

91 focus su tre autori – Kubelka, Conrad e Sharits - il cui lavoro può essere considerato una teoria condotta attraverso la prassi dell'operare artistico: in ciascuno di essi l'opera è film ma allo stesso tempo messa in atto e verifica di una ricerca sulle possibilità sonore del flicker, ciascuno con la propria specifica indagine. Sembra interessante, ai fini di questa ricerca, sviluppare l'argomento anche in base agli scritti e le ricerche dei tre autori per due ordini di ragioni: anzitutto essi provengono, secondo percorsi diversi, da una formazione di tipo musicale, hanno quindi spesso affrontato la questione del suono con competenze in grado di produrre posizioni teoriche e critiche di grande interesse. Inoltre, proprio per l'impronta empirica e fenomenologica che caratterizza il flicker, la sperimentazione diretta dell'artista, la sua particolare attenzione alla dimensione della ricezione e la partecipazione all'evento percettivo messo in atto nell'opera, costituiscono una fonte di conoscenza utile anche ai fini di studio e ricerca accademici.

2.1 | Contaminazione tra linguaggi del suono e della visione: un percorso storico e teorico

Il tema della relazione tra le forme visive e la musica ricorre in epoca romantica – in particolare nel Gesamtkunstwerk di Wagner – e all'interno del movimento Simbolista, ad esempio nell'opera di Skrjabin e nelle composizioni di Debussy.55 La produzione di questi autori si situa in panorama che vede il diffuso interesse teorico alla rifondazione delle pratiche artistiche basata sul dialogo tra le forme dell’arte. La musica fa da perno per la progettazione, o ideazione, di opere complesse nelle quali la presenza di quelli che oggi chiameremmo 'i linguaggi dell'arte' si fonda non sui principi della percezione o delle corrispondenze

Audio-Vision, in Dieter D., Naumann S., 2012, pp. 200-235.

55 Per una panoramica storica sul tema nella storia delle arti Cfr : Daniel D., Naumann S., (a cura di), 2012; Dieter D., Naumann S., (a cura di), 2010; Lund C., Holger Lund, 2009; Brougher K., Strick J., 2005; Duplaix, S., 2004; Gazzano M. M., Comporre audio-visioni. Suono e musica sulle due sponde dell’Atlantico alle origini delle arti elettroniche, in Balzola A., Monteverdi A. M., (a cura di), 2004, pp. 146-160; Lischi S., Le avanguardie artistiche e il cinema sperimentale, in ibid., pp. 54-72.

92 sensoriali, come accadrà in epoche successive, bensì sul coinvolgimento emotivo e spirituale.

Questo tipo di ricerche trova ampia proliferazione all'interno delle avanguardie, sono alla base ad esempio degli scritti sul colore di Kandinsky,56 di alcune esperienze del Futurismo italiano e russo. Nella maggioranza di queste esperienze l'intento è di instaurare tra suono e immagine un rapporto di corrispondenza, sul modello delle correspondences di Baudelaire, che consiste nell'associare a specifici note, colori o tonalità e viceversa. In questo quadro la teoria dei colori di Kandinsky rappresenta forse l'esempio più noto legato alle arti visive. In ambito musicale le ricerche legate a rapporti di corrispondenza univoca tra colore e note e la messa a punto di una teoria armonica del colore prendono piede già intorno al XVII secolo e vengono generalmente definite Musica Cromatica.57 Uno dei più noti esempi è costituito dalle ricerche del matematico gesuita Louis-Bertrand Castell che, intorno ai primi decenni del Settecento, mette a punto uno dei primi sistemi musico cromatici basato sulla corrispondenza univoca e dettagliata tra toni del suono e del colore. A differenza degli studi precedenti, egli procede attraverso un approccio analitico: il suo scopo è quello di creare una visualizzazione del suono riconosciuta e accreditata presso la comunità scientifica.58 Per verificare la sua teoria, il matematico realizza nel 1739 un Clavicin Oculaire59 - piano cromatico, uno strumento musicale modificato in grado di emettere estemporaneamente luci colorate e suoni. Questo apparecchio è il primo prototipo di un ricco percorso di sperimentazione sul pianoforte come dispositivo sono-cromatico, condotta principalmente da musicisti e artisti visivi, che prosegue fino agli inizi del Ventesimo secolo. I successivi piani cromatici60 e la storia dei vari prototipi, progettati da musicisti e matematici, introducono un elemento di rilievo nel nostro excursus storico, costituito dallo studio di dispositivi

56 Kandinsky W., 1912, ed. it., 1989. 57 Cfr. Jewanski J., Color-Tone Analogies: A Systematic Presentation of the Principles of Correspondence, in Dietz D., Naumann S., 2009, pp. 239-247. 58 Castell L.B., Optiques des coleurs, 1740. 59 Jewanski J, Color-Tone Analogies: A Systematic Presentation of the Principles of Correspondence, in Dieter D., Naumann S., 2009, pp. 242. 60 Cfr. Jewanski J, Color Organs: from the Clavicin Oculaire to Autonomous Light Kinetics, in Dieter D., Naumann S., 2009, p. 77.

93 specifici - messi a punto e progettati dagli autori – per la sintesi congiunta di forme visive e sonore. L'aspetto tecnico e tecnologico, che nell'arco del tempo prenderà la forma di ricerca mediale, è caratterizzante di molta parte di queste sperimentazioni, non solo quelle sorte in campo musicale.61 Accanto all'esempio dei piani cromatici, è il cinema a costituire la prima arte 'tecnologizzata' entro la quale diversi autori legati principalmente alle correnti di cinema puro e cinema astratto - tra i quali ricordiamo solo i principali: Germaine Dulac, Vicking Eggeling, Hans Richter, Walter Ruttman - instaurano corrispondenze tra forme visiva in movimento e musica.62 Il cinema ha incrementato enormemente le possibilità di organizzazione ritmica dell’immagine, in particolare radicalizzando il legame tra strutture spaziali e temporali alla base del ritmo visivo.63 In seguito, un'area nella quale viene ampiamente approfondita la ricerca sulla musicalità dell'immagine in movimento è quello che lo storico americano William Moritz ha definito Visual Music, legando con questa definizione il lavoro di alcuni autori di riferimento dell'animazione astratta tra gli anni Trenta e Cinquanta - quali Oscar Fishinger,64 Mary Ellen Bute e Norman McLaren65 - e della sperimentazione audiovisiva della seconda metà del secolo, principalmente di area statunitense – con autori quali Len Lye, Stan Brakhage, Jordan Belson e i fratelli John e James Whitney.

Troviamo molti di questi autori impegnati anche sul versante della sperimentazione mediale, in particolare rispetto alla ricerca di originali metodi di sintesi optofonica.66 Questo tipo di tecniche introducono il concetto di sintesi in questo tipo di ricerche, sviluppato nella sintesi elettronica tra gli anni Cinquanta e Settanta, grazie all'affermarsi dei primi sintetizzatori elettronici sia audio che video. In particolare, la realizzazione dei primi sintetizzatori video analogici e i primi

61 Morritz W., The Dream of Color Music, And Machines That Made it Possible, “Animation World Magazine,” n. 2.1, aprile 1997. 62 Cfr. Le Grice M., 1997; Mitry J., 1971; Quaresima L., 1994; Schwierin M., Naumann S., Abstract Film, in Dietz, Naumann, 2011 pp. 19-32. 63 Kepes G., 1990. 64 Moritz W., 2004. 65 Cfr. McWilliams D.,1991. 66 Sulla sintesi optofonica o sintesi ottica del suono vedi la ricerca svolta dall’artista americano Derek Holzer, durante una residenza al Tesla media arts laboratory di Berlino, ottobre dicembre 2007. L’artista ha effettuato uno studio sulla storia di questa tecnica, da lui stesso impiegata nel live Toneweels, ideato in collaborazione con la video artista Sara Kolster, http://www.umatic.nl/tonewheels_historical.html, ultimo accesso 20 aprile 2013.

94 sistemi di processazione dell'immagine è imprescindibile dal lavoro sui dispositivi portato avanti dai primi video artisti statunitensi quali Stephen Beck, Alvin Lucier, Nam June Paik, Dan Sandin, Eric Siegel, Skip Sweeney, Steina e Woody Vasulka. 67 Nello stesso periodo, i contesti dell'happening, della musica sperimentale contemporanea, dell’Expanded Cinema e della video arte sono terreno fertile per la moltiplicazione di nuove e complesse modalità di interazione tra immagini e suoni, aggiungendo a questo connubio, come già ricordato nel primo capitolo, la relazione con lo spazio e la dimensione della liveness.68 Oltre alle esperienze già nominate nel corso del primo capitolo, esempi significativi sono anche i progetti su scala architettonica come Movie-Drome di Stan VanDerBeek (1965) e i padiglioni realizzati nell'ambito di grandi eventi ed expo internazionali come il pioneristico Philips Pavillon di Le Courbusier, Iannis Xenakis e Edgar Varèse (1958) o il Pepsi-Cola Pavilion per l’Expo di Osaka del 1970.69 Questo tipo di eventi sono rilevanti anche perché marcano un progressivo sconfinamento delle pratiche di contaminazione tra i linguaggi acustico-visivi, dalle nicchie della ricerca musicale e artistica a quelle della cultura di massa e dell'intrattenimento. Come già ricordato, un discorso simile riguarda gli spettacoli di Warhol, come pure le messe in scene di luci e proiezioni liquide dei The Joshua Light Show, che tra gli anni Sessanta e Settanta accompagnano i concerti di celebri gruppi rock del periodo, quali Greateful Dead, Jefferson Airplane e The Who. Dal rock psichedelico della seconda metà degli anni Sessanta, l'associazione di immagini, proiezioni ed effetti visivi all'interno di concerti o eventi di aggregazione collettiva, alla fine degli anni Settanta si sposta alla nascente scena della musica dance, soprattutto nella costa est degli Stati Uniti. Questi eventi sono precursori dello sviluppo delle pratiche di vj'ing: si tratta di spettacoli di proiezioni che rappresentano un corrispondente visivo del dj'ing e consistono nel mixing di campioni di immagini in movimento in real time - emerse a partire dalla fine degli anni Novanta e che rappresentano tutt'ora una delle pratiche audiovisive più

67 De Witt T., The Video Synthesizer, in Vasulka W.& S. (a cura di),1992; Tamblyn C., 1991, pp. 303-310; Furlong L., 1983. 68 Calabretto R., La dimensione musicale della videoarte, in Saba Gonzo C., (a cura di), 2007, pp. 144-177. 69 Petit J., (a cura di), 1958; Packer R., The Pepsi Pavilion: Laboratory for Social Experimentation, in Shaw J., Weibel P., (a cura di), 2003.

95 diffuse.70

In questa prospettiva, che segna il passaggio dalle sfere dell'arte a quelle dei media di massa, gli anni Ottanta, accanto ad autori estremamente attenti alla questione sonora e musicale nella video arte, come Robert Cahen, Nam June Paik e Bill Viola, sono segnati dall’affermarsi del fenomeno del videoclip. Determinato dalla combinazione tra musica pop e medium televisivo, il videoclip innesca una messa in discussione delle gerarchie culturali: all'interno di questo panorama troviamo, infatti, sia lavori di puro intrattenimento, soggetti alle leggi di mercato dell'industria musicale, che opere autoriali, come quelli di David Hall, Zbigneiew Rybczynski e Pipillotti Rist.71 Se gli anni Ottanta sono segnati dal fenomeno MTV e dalla televisione, i Novanta vedono nella scena club e nell’elettronica d'ascolto i circuiti che dettano linee guida e tendenze estese anche nel decennio successivo e determinanti, come più volte ricordato, per molte esperienze di media art contemporanea. Si affermano, sia negli ambiti della media art che in quelli più strettamente legati alla musica elettronica e dance, pratiche audiovisive di tipo performativo, nelle quali la relazione tra musica e fonti visive tra le più disparate – proiezioni multischermo, luci, laser, pellicola e dispositivi ottici di sapore pre-cinematografico – torna ad essere, come già nel caso delle sperimentazioni dell’Expanded Cinema, il cardine di eventi spesso effimeri e collettivi.

Uno dei contributi teorici di riferimento sul tema delle commistioni tra sonoro e visivo è il saggio L'audiovisione. Il suono e l'immagine nel cinema di Michael Chion.72 La maggior parte dei discorsi e le conclusioni contenute nel saggio restano interne al perimetro dell'esperienza cinematografica, difficili da applicare alle pratiche di audiovisivo espanso, fatta eccezione per alcune osservazioni delle quali ci occuperemo poco più avanti. Inoltre le sue argomentazioni manifestano la traccia di una tradizione, comune sia alle teorie dell'arte che a teorie scientifiche accreditate fino a qualche decennio fa, che ha analizzato la visione e l'udito come funzioni processate da canali sensori separati.

70 Dekker A., 2003. 71 Amaducci A., Arcagni A., 2007; 72 Chion M., 2009.

96 Chris Salter segnala nelle teorie del fisiologo tedesco Joannes Peter Muller (1826) i discorsi che hanno dato origine alla scienza moderna della divisione tra i due 'canali' percettivi e la differenziazione delle qualità del visivo rispetto al sonoro; d'altro canto, continua Salter, testi quali The Audible Past: The Cultural Origins of Sound Reproduction, di Jonathan Sterne, hanno contribuito a far perdurare questa concezione anche nell'ambito culturale.73 Anche Chion articola una dettagliata differenziazione dei due canali, in particolare rispetto alla dimensione o temporale, ed evidenzia come la visione sia un processo percettivo volontario: è possibile scegliere di non vedere semplicemente chiudendo gli occhi, mentre non abbiamo un corrispettivo auricolare delle palpebre e possiamo quindi isolare i canali uditivi unicamente in maniera artificiosa. Pur essendo molte le differenze sia qualitative che quantitative tra visione e udito, non si può allo stesso tempo escludere, come sottolinea lo studioso e sound designer Gerhard Dauer, che i nostri organi percettivi e le esperienze che ne derivano siano tutt'altro che isolate tra loro: si tratta di domini la cui separazione è più che altro dovuta ad un'astrazione radicata nella cultura e nelle società occidentali, mentre, dalla possibilità della loro interazione è dipesa molta parte dell'evoluzione della specie umana e percezione ordinaria dell'ambiente.74

Tuttavia, Chion riconosce l’esistenza di particolari condizioni di interazione tra le sfere percettive del visivo e del sonoro. Questo rappresenta forse l'elemento della sua teoria dell'audiovisione più coerente in una prospettiva di analisi sulle pratiche di sconfinamento tra linguaggi contemporanei. Inoltre, Chion si sofferma sul ritmo, elemento del funzionamento percettivo ed esperienziale audiovisivo di particolare interesse nelle opere audiovisive di flicker. Quando uno stimolo ritmico raggiunge la nostra percezione, scrive Chion, attraverso la vista o l'udito, il ritmo raggiunge un’area comune del nostro cervello connessa con le aree motorie, ed è solo a questo livello che esso viene decodificato ritmicamente. Questo processo rientra all’interno di quelli che lo studioso definisce fenomeni

73 Sterne J., 2003.

74 Stein B. e coll., “Corssmodal Spatial Interactions in Subcortical and Cortical Circuits,” in Crossmodal Space and Crossmodal Attention, Driver J. e Spence C. (a cura di), 2004, 25-50, cit. in Dauer G., Audiovisual Perception, in Dietz D., Naumann S., (a cura di), 2010, p. 330.

97 transensoriali, fenomeni di ibridazione tra le informazioni, provocate dal fatto che alcuni tipi di percezione, come ad esempio il ritmo, non sono legati ad un'unica facoltà percettiva, la cui decodifica richiede l’uso di aree del cervello condivise da più sensi.75 Questa interpretazione trova una corrispondenza nelle affermazioni più recenti nell'ambito delle neuroscienze rispetto alle commistioni percettive che oltrepassano la separazione tra canali sensori.76 Il flicker è definibile, infatti, come fenomeno cross-modale, cioè una stimolazione che per la sua particolare natura permette di determinare tra pulsazione visiva e suono quelle che Barry Stein, Mark Wallace e Terrence Standford hanno definito multisensory integration:

L’integrazione multisensoriale sta ad indicare che la percezione legata al dominio di un senso influenza la percezione di un altro, a partire da quel momento l’interpretazione delle due componenti viene integrata nel modo più coerente possibile. Il collegamento tra visivo e sonoro non è determinato unicamente – come si a lungo è creduto – da una costruzione di tipo mentale; è stato dimostrato che stimoli sensoriali diversi convergono già a livello neuronale, in quelli che vengono definiti neuroni multisensoriali (multisensory neurons).77

A differenza della sinestesia, fenomeno percettivo di corrispondenza diretta tra stimoli sensoriali alla quale molta della tradizione artistica, dalla Musica Visiva alle correspondénce di Baudelaire hanno fatto riferimento, la multisensory integration è un fenomeno adattivo, dipende cioè dal contesto e si verifica solo in particolari circostanze, come nel caso in cui le informazioni provenienti da un

75 Chion M., 2009, p. 135. 76 Stein B., Mark T. Wallace, Terrence R. Standford, “Merging Sensory Signals in the Brain: The Development of Multisensory Integration in Superior Collicus,” cit. in Salter C., Question of Thresholds: Immersion, Absorption, and Dissolution in the Environments of Audio-Vision, in Dieter D., Naumann S., 2012, pp. 200-235. 77 “Multisensory integration thus means that perception in the realm of one sense is influenced by perception in another, since the two components are integrated into an interpretation which is as consistent as possible. The linkage of visual and auditory stimuli does not result solely – as was long assumed – from mental construction; it has been shown that various sensory stimuli already converge on the neuronal level in so-called multisensory neurons.” Stayn B., Wallace M. T., Stanford T. R., “Merging Sensory Signals in the Brain: The Development of Multisensory Integration in Superior Collicus,” in The New Cognitive Neurosciences, 2nd ed., Gazzaniga M. S., MIT Press, 2000, pp. 55- 71.

98 senso sono poco decifrabili. In tal caso avviene un'attivazione di altri canali percettivi – non necessariamente infatti l'integrazione avviene tra visione e udito – ad integrare o correggere lo stimolo ambiguo. In particolare, per quanto riguarda l'interazione audio-visiva, l'integrazione necessita di poche ma imprescindibili condizioni per potersi attivare, in particolare un una concordanza spazio- temporale.78 Solo particolari tipologie di esperienze quindi sono in grado di indurre la comunicazione a livello neuronale e l'integrazione tra più sensi. Il ritmo è uno degli stimoli cross-modali in grado di provocare questo tipo di fenomeni. Chris Salter riporta ad esempio uno studio, condotto nel 2001 da Ladan Shams, psicologo presso l'UCLA di Los Angeles e Shinsuke Shimojo, neurobiologo della Caltech di Pasadena, dedicato alle alterazioni che il suono è in grado di determinare sugli aspetti temporali della visione e in particolare al fenomeno dell''illusory flash effect,' descritto come segue: quando un flash è accompagnato da un segnale sonoro multiplo, il singolo flash è a sua volta percepito come moltiplicato.'79 Viceversa, la localizzazione spaziale del suono può essere radicalmente alterata dalla stimolazione visiva, secondo un fenomeno definito ventriloquist effect.80 Non è un caso, quindi, che il flicker e il ritmo della luce stroboscopica ricorrano in molte opere che indagano le commistioni di tipo audio-visivo. Come sottolineato da Salter, spesso i lunghi percorsi di sperimentazione artistica, cinematografica e musicale hanno anticipato o intuito di qualche centinaia di anni alcune delle più recenti conclusioni nel campo delle scienze, che a loro volta stanno trovando spazio nelle teorie dell'arte grazie ancora una volta alle ricerche di artisti e compositori, tra le quali senza dubbio vanno incluse quelle dello stesso Salter, studioso, musicista e media artist.

78 Dauer G., Audiovisual Perception, in Dieter D., Naumann S., 2010, pp. 329-338. 79 Shams L., Shimojo S., 2011, pp. 505-509. 80 Howard I.P., Templeton W.B.,1966.

99 2.2.2 | La musicalità del flicker nelle ricerche di Peter Kubelka, Tony Conrad e Paul Sharits

Proseguiamo quindi soffermandoci sul pensiero e sulla pratica artistica di ciascuno dei tre autori nominati ad inizio paragrafo, guardando le loro ricerche attraverso il tema della musica, intesa, come vedremo, non solo e non tanto nel senso di colonna sonora accostata alla fonte visiva del flicker, quanto piuttosto come linguaggio dal quale mutuare sistemi sintattici, strutture compositive e modalità di fruizione.

In un celebre saggio dal titolo The Theory of Metrical Film, proveniente da un ciclo di lezioni tenute dal regista alla New York University nel 1975, Peter Kubelka evidenzia come il ritmo sia una componente primaria sia del dispositivo che della materia del cinema, una struttura spontanea che organizza e da forma alla luce.81 È a partire dal ritmo che l’autore elabora l’essenza sonora e il trattamento musicale alla base di Arnulf Reiner e più in generale di quella parte della sua produzione definita dallo stesso autore stesso 'cinema metrico'. 82 Con questa espressione Kubelka si rifà alla divisione in ottave della metrica musicale occidentale, sistema di misurazione del suono che, spiega l'autore, rappresenta una delle modalità più intuitive, di natura matematica, di ripartizione di un unità elementare, rappresentata dalla progressiva divisione di ogni elemento sonoro, la nota, nel suo mezzo.83

In modo non dissimile, nel cinema metrico Kubelka elabora un sistema nel quale l'unità di base non è l'immagine o il singolo fotogramma, utilizzato come corrispettivo della nota, bensì i gruppi di fotogrammi, blocchi di tempo, sezioni concepite a partire da quello che individua come tempo ritmico 'naturale' del film, i 24 fotogrammi al secondo. Il filmmaker, proveniente da una formazione musicale – la sua è una famiglia di musicisti e lui stesso studia musica classica prima di dedicarsi completamente al cinema – ha appreso le strutture ritmiche del suono e,

81 Kubelka P.,The Theory of Metrical Film, in The Avant-Garde Film: a Reader of Theory Criticism, Sitney A., (a cura di), 1978, pp. 139-159. 82 La trilogia è costituita da Adebar, 1957, 16 mm, col., suono, 1’ 09’’; Schwechater, 1958, 35 mm, col., suono, 2’; Arnulf Reiner, 1960, 35 mm, b/n, suono, 6’. 83 Lebrat C., 1990, p. 67

100 insieme il 'piacere temporale' che la musica è in grado di suscitare.84 Nel cinema, al contrario, l'autore osserva una dimensione temporale senza forma pur avendo una natura intrinsecamente ritmica, a causa dell’omogeneità standardizzata di tale ritmo. L'autore interviene allora manipolando questa natura informe, determinando un 'tempo misurato' per cercare di stimolare lo stesso effetto armonico e ritmico procurato dal suono. Il filmmaker approfondisce, inoltre, la questione del ritmo anche a partire dall’attrazione atavica nell’essere umano per questo fenomeno temporale, ricorrente in varie forme d’arte e in più momenti del vissuto naturale. Tale studio sull'origine del ritmo e delle imitazioni che nella storia dell'umanità hanno condotto alla creazione di strutture metriche basate sulla ripetizione, moltiplicazione o suddivisione di unità di base, è per l’autore il punto di partenza per ideare e progettare la struttura dei suoi film metrici - Adebar (1957), Schwechater, 1958 e Arnulf Reiner (1960). In quest’ultimo Kubelka utilizza unità semplici di luce e suono per condurre il cinema sullo stesso piano della struttura musicale e verificare la possibilità di mescolare, all'interno di una struttura temporale e ritmica, il suono puro e la pura luce e produrre un senso di armonia: generalmente la musica classica permette di percepire, sottolinea il regista, relazioni armoniche a partire dalla ripartizione regolare del tempo. Il dispositivo cinematografico, per sua stessa natura, permette a Kubelka di riprodurre la relazione armonica in termini di tempo e luce, di agire sui valori misurabili di un impulso luminoso per una certa durata, cioè unità di tempo. L’autore procede quindi duplicando o raddoppiando un’unità di tempo, il fotogramma, scelta come tonica della metrica su pellicola, sperimentando in questo modo la possibilità di generare misurazioni armoniche della luce. Malgrado il flusso degli eventi misurabili per ben 24 volte al secondo sia, simultaneamente, sonoro e visivo insieme, Kubelka non cerca alcun effetto di sincronia audiovisiva: considera, infatti, la sincronia di suono ed immagine, la precisa corrispondenza tra eventi visivi e sonori, tema tanto ricorrente in molte teorie e pratiche dell'audiovisione, una proprietà di poco interesse, in quanto presente già in molti eventi e fenomeni naturali, esperita quotidianamente dalla gran parte del mondo animale. La grandezza del cinema, secondo Kubelka, non sta nel produrre la ripetizione di una

84 Idem.

101 luce naturale accompagnata da un suono naturale, quanto piuttosto nella possibilità di separarli o di creare una sensazione sonora agendo sul ritmo visivo.85

Lavorando su The Flicker (1966), Tony Conrad è mosso da un'intuizione non molto diversa: esplorare le possibili relazioni armoniche tra le frequenze della luce. Il film, oltre che frutto di una ricerca delle possibili reazioni percettive e visioni nel fruitore, è quindi in parte una verifica sulle possibili analogie tra le strutture armoniche nel suono e l'ipotesi che esse siano producibili anche nello spettro di frequenze della luce pulsante.

L’esperienza del flicker – quel particolare corto circuito del sistema nervoso centrale, determinato dalla vista – si verifica a un range di frequenze tra i 4 e i 40 lampi al secondo (fps). Io utilizzavo la pellicola (a 24 fps) come una sorta di schema composto da fotogrammi, ben strutturato e “fatto di toni”, che rappresenta una combinazione di frequenze che possono essere mescolate e combinate insieme. Ero interessato a vedere se qualche possibile effetto di combinazione delle frequenze potesse avvenire tramite l’uso del flicker, in modo analogo agli effetti di combinazione dei toni che sono responsabili della consonanza sonora nella musica.86

The Flicker è costituito da frame impressionati e non, suddivisi in sequenze basate sulla rapida accelerazione e decelerazione, mentre il suono, che ricorda quello emesso dal proiettore 16 mm, è prodotto da un sintetizzatore Bucha e ispirato a Kontakte (1960) di Stockhausen e risente di una forte impronta minimalista, corrente musicale della quale Conrad è uno degli esponenti della scena newyorkese. Il film è il risultato di una ricerca sul flicker declinata sia in

85 Il suono del fotogramma bianco, della pura luce, corrisponde al noise, evidenziando una corrispondenza anche in termini di frequenze tra i due ‘moduli’ di base dell’audiovisione di Kubelka: a tutto lo spettro di frequenze del visibile (colore bianco), corrisponde tutta la gamma di frequenze dell’udibile, rumore bianco o white noise. 86 “The experience of flicker - its peculiar entrapment of the central nervous system, by ocular driving - occurs over a frequency range of about 4 to 40 flashes per second (fps). I used film (at 24 fps) as a sort of "tonic," and devised patterns of frames which would represent combinations of frequencies - heterodyned, or rather multiplexed together. I was interested to see whether there might be combination-frequency effects that would occur with flicker, analogous to the combination-tone effects that are responsible for consonance in musical sound.” Tony Conrad in Duguid B., 1996. (mia traduzione).

102 termini di esplorazione della fenomenologia percettiva determinata dalla luce pulsante – aspetto originale e non presente in Kubelka - che di analisi delle caratteristiche basilari del dispositivo cinematografico e delle affinità strutturali con la musica.

Si scoprì che la chiave di tutto era la comprensione del tono musicale in termini di rapporto di frequenze, e l’idea generale di struttura armonica nella musica, che rimanda direttamente ai tempi di Pitagora e che è uno dei principi fondamentali più longevi dell’intero panorama culturale occidentale, è qualcosa di problematico, a volte, per il fatto che la relazione numerica che si ottiene tra il tono e la consonanza non sembra avere alcuna corrispondenza nel campo dell’esperienza. Sembra quindi possibile strutturare la musica secondo una serie di principi aritmetici eventuali. Se si cercano di metodi analoghi di comprensione dell’esperienza sotto forme di strumenti visivi, o tattili o olfattivi sarà molto problematico individuare qualcosa che abbia un senso. Passavo molto tempo su queste ricerche fino a quando compresi che la luce stroboscopica era proprio una di quelle poche frequenze all’interno dell’intero campo sensoriale dell’uomo e la domanda che quindi mi posi fu: ‘potrebbe esistere una struttura armonica da ottenere in quel range di esperienze tipico della luce stroboscopica?’87

Conrad applica strutture complementari tra sonoro e visivo per generare, in modo non dissimile da quanto visto per gli stimoli cross-modali, una 'sincronia fantasma' determinata da fenomeni intrasensoriali. In particolare, gli stati di trance, allucinazione e coinvolgimento percettivo generati dal flicker rientrano tra le ragioni di un progressivo superamento nel complesso delle ricerche di Conrad delle

87 “The key to it turned out to be an understanding of musical pitch in terms of frequency ratios, and the whole idea of harmonic structure in music, which goes directly back to the time of Pythagoras, and is thus one of the most enduring principles of the entire western cultural panorama, is somewhat problematic in that this number relationship that obtains between pitch and consonance, doesn't seem to pop up in other fields of experience. It seems that it's possible to structure music according to some kind of arithmetical principles. If you look for a comparable way of understanding experience in visual terms, or in terms of touch, taste or other modalities, you just have a lot of trouble locating anything that makes sense. I was spending a lot of time on this and it occurred to me along the way that flickering light was one of the very few frequency - dependent modalities in the whole human sensorium, and the question occurred to me was whether there might be harmonic structures that would obtain within a range of experiences which are afforded by flickering light.” Tony Conrad, intervista, in Geiger J., 2003.

103 strutture compositive, a favore di un'esplorazione degli stati percettivi e psicologici.

Una summa del suo pensiero sul suono e l'immagine, declinato ed esperito attraverso gli esempi delle sue opere – in forma di composizioni musicali, film, e performance filmiche o sonore – è contenuta nell'articolo INTEGER: Bulldozing a foundation in the culturescape of sound, media, and performance,88 nel quale si concentra sulle possibilità offerte da suoni e immagini come elementi asignifyin, in grado di agire in modo non mediato e somatico, di coinvolgere, in un unico stimolo complesso e organico, una dimensione della corporeità esperiente che riguardi più sensi e, al contempo, emozioni, pulsioni e desideri. Conrad propone quella che Joseph definisce 'bastard semiology'89 indirizzata a fusioni sensorie integranti, precedenti o del tutto estranee al linguaggio e ad ogni altro sistema di significato. In termini musicali, ad esempio, questa sua idea viene realizzata attraverso il superamento di qualsiasi forma di partitura - anche la più indeterminata o aleatoria come quella di Cage - per giungere alla manipolazione acustica diretta e al lavoro sui suoni come materiali acustici dotati di una propria fisicità. Torna ancora una volta nel nostro discorso il tema del corpo come sistema percettivo incarnato e attraversato nella sua totalità dalle frequenze del suono e da quelle della luce.

Come già sottolineato rispetto al ruolo della percezione nel cinema strutturalista, l'ideale percorso che connette le ricerche di Kubelka con quelle di Conrad e poi Sharits, segna un progressivo passaggio dalle ricerche sull'audiovisione come tentativo di individuare comunanze strutturali nella composizione sonora e visiva, ad una sempre maggiore attenzione al corpo come campo all'interno del quale relazioni percettive organiche tra luce pulsante e suono. Il vertice finale di questo spostamento è il lavoro di Paul Sharits. A partire dagli anni Sessanta, l'autore inizia ad interessarsi non solo di cinema e dei suoi aspetti più radicali e meno soggetti alla narrazione e alla rappresentazione della forma, ma anche alle differenze tra l'esperienza del sonoro e quella del visivo. In tal senso il film sonoro rappresenta per Sharits la tecnica migliore per esplorare le relazioni tra le due modalità percettive. Come evidenziato dallo stesso Sharits, in un saggio

88 Branden W. J., 2008, p. 326. 89 Idem.

104 dedicato all'argomento dal titolo Hearing : Seeing, l'autore non è affatto interessato al tema della sinestesia, non propone alcuna corrispondenza diretta tra specifici aspetti del suono e della visione – come note e colore – ma guarda piuttosto alla possibilità di costruire analogie di funzionamento tra modalità di visione e ascolto e talvolta, proprio attraverso la composizione di comunanze strutturali, determinare esperienze percettive che consentano di sentire in maniera ancor più netta le differenze tra i due sistemi.90 Nei lavori prodotti tra il 1965 e il 1968, l'analisi del funzionamento percettivo e degli aspetti psicologici coinvolti nell'esperienza del film sono parte fondamentale del progetto estetico, in particolare il fatto che la rapida alternanza di fotogrammi colorati possa generare nella visione linee di accordi temporali paragonabili alle linee melodiche nella musica.91 In modo non dissimile da quanto visto nel caso di Kubelka e Conrad, Sharits si pone un quesito centrale rispetto al confronto strutturale tra composizione sonora e visiva: è possibile generare un corrispettivo visivo della complessità tonali del suono, individuare cioè ciò che nel suono è l'unità di base, la tonica, e le sue sfumature secondarie, cioè i suoni armonici ad esse legati? Questo tipo di ricerca, a partire dai primi esperimenti di flicker, accompagna tutto il successivo lavoro di Sharits ed è considerato dallo stesso autore un work in progress più o meno esplicito, talvolta quasi un sotto testo, ma in ogni caso costante in tutta la sua opera.

Secondo Sharits è possibile, a seconda dell'ordine e delle frequenze, comporre delle relazioni armoniche utilizzando serie di singoli frame pulsanti di differenti colori, mentre questa relazione decade nel caso di frame monocromi (b/w) e solo nel caso in cui sia generata una frequenza visiva molto densa, siano presenti numerosi elementi visivi 'compressi' in uno stesso spazio. Per ottenere l'effetto percettivo armonico l'autore mette a punto un suo metodo compositivo. Inizialmente, ipotizza di accrescere la densità visiva del film dividendo

90 Sharits P., Hearing: Seeing, in Beuvais Y., 2008, pp. 121-126. Il colore, slegato dalla referenza al sistema tonale, stabilita in molte ‘cromografie’ delle teorie sulla sinestesia, assume valore in quanto accresce la solidità della luce strutturata attraverso la pulsazione temporale. Per una meditazione sul colore, vibrante energia sensoria e, al tempo stesso emotiva, intimistica e mnemonica, si veda anche la personalissima ‘teoria del colore’ espressa da Derek Jarman nel 1993. Il filmmaker traccia traiettorie comuni sul piano dell’emotività e dei sensi tra arti visive e cinema e, insieme, costella il suo discorso di riferimenti alle implicazioni filosofiche del colore nelle pratiche artistiche, dal Medioevo al contemporaneo. Jarman D., 1995. 91 Sharits P., Hearing: Seeing, in Beuvais Y., 2008, pp. 122.

105 ciascun frame in più parti, procedimento che avrebbe permesso di accrescere notevolmente la complessità visiva di ciascun fotogramma e di generare facilmente effetti armonici, un processo che implicherebbe una mutazione della solidità del fotogramma: il linea con le convenzioni moderniste sull’integralità inscalfibile del frame, l’autore rinuncia ad intervenire su questo livello della forma visiva, in quanto si pone l’obiettivo di generare la complessità a partire dalle condizioni di base ‘naturali’ del medium cinematografico. Un approccio, quello appena presentato, indicativo di come la ricerca sulle proprietà musicali del flicker su pellicola non sia una finalità primaria del lavoro di Sharits, quanto piuttosto un quesito che deriva da un'osservazione dei potenziali intrinseci del dispositivo cinematografico, preso in considerazione e sperimentato nei suoi elementi fondamentali. A partire da questi ‘limiti’ ontologici, il filmmaker concepisce allora un sistema che moltiplichi la complessità della visione non alterando il modulo elementare del fotogramma: progetta la complessità nello spazio di proiezione e di visione, anziché dividere il fotogramma moltiplica l’unità dello schermo. La complessità, quindi, viene resa al di fuori del fotogramma, nell'ambiente, lasciando al fruitore la possibilità di afferrare percettivamente e sentire l'effetto armonico dei colori in quella che non è più intermittenza di un solo quadro visivo, lo schermo, ma relazione stabilita su più livelli, temporale e musicale tra più fonti visive di flicker.92

Un altro metodo, utilizzato ad esempio in T, O, U, C, H, I, N, G, (1968) è quello di creare una sorta di riverbero nell'immagine attraverso linee perimetrali che incorniciano l'interno del fotogramma e che provocano l’impressione che lo schermo collassi su se stesso. Questo metodo è in seguito ripudiato e quindi rimosso dall'autore, che lo valuta come retaggio delle influenze pittoriche nella propria opera. Partendo da interrogativi e intuizioni non dissimili da quanto visto per Kubelka e Conrad, le ricerche di Sharits spostano il confronto strutturale tra musica e visione del flicker dal piano temporale a quello dello spazio, inteso sia come elaborazione architettonica dell’immagine intorno al fruitore che come dispositivo percettivo audiovisivo.

92 Ibid., pp. 124.

106 2.3 | L’opera come processo effimero

Molto dell’audiovisivo espanso di flicker si colloca all'interno di un più ampio panorama di progetti di media art caratterizzate da una natura spiccatamente effimera. Due sono gli aspetti che contribuiscono a qualificare il processo attivato dall’opera in tal senso e che appaiono significativi nel riformulare lo statuto di opera d’arte in molte pratiche recenti:

- lo spostamento di attenzione dall’opera come ‘oggetto’ concluso e portatore di un proprio senso a campo di relazioni potenziali che assumono forma momentanea in relazione all’esperienza di ciascun fruitore; - l’aspetto temporale, basato sulla liveness, per il quale l’opera si pone come produzione e delimitazione di un momento ben specifico.

La prima parte del paragrafo è dedicata alla coincidenza tra opera ed esperienza, un tema emerso in filigrana nell’excursus storico e che la prima parte del paragrafo intende fissare, individuando, sia pure in maniera non esaustiva, alcuni punti di riferimento a partire da una dibattito in corso in numerose discipline finalizzato alla definizione del concetto di esperienza e, successivamente, individuare le particolari declinazioni di questo tema rintracciabile nelle opere di flicker, con particolare riferimento ad un confronto tra i modi dell’arte e quelli della scienza rispetto alla creazione di ‘situazioni percettive’ come processi sperimentali. La seconda sezione approfondisce il tema della liveness, temine con il quale si intendono una serie di modalità attraverso la quali l’opera disegna e circoscrive l’irripetibilità e la specificità di un momento, che essa stessa genera e

107 all’interno del quale trova espressione e compimento. Molte posizioni interne agli studi di media art tracciano una netta distinzione tra le pratiche nelle quali l'opera si produce in real time – Live Media, Audiovisual Performance, Live Cinema, e quelle nelle quali questo elemento non è presente. L’esempio dei lavori basati sul flicker permette di mettere in crisi e ridiscutere i confini tra performance e installazioni. In molta parte delle opere di flicker la distinzione tra le specificità della pratica del vivo rispetto alla performance vengono a confondersi, in particolare se ci si concentra sulla dimensione del fruitore. Come vedremo, infatti, la centralità dell’esperienza individuale di ciascun soggetto esperiente vanifica la distinzione tra performance e altre tipologie di dispositivi percettivi, inquadrando il concetto di liveness a partire dalla condizione di fruizione e non in funzione della presenza reale dell’autore nel momento di realizzazione dell’opera.

2.3.1 | Definire l’esperienza

Un'interessante panoramica sul dibattito in atto di recente sul tema dell’esperienza, declinato in differenti ambiti del sapere contemporaneo, è presentata da Ruggero Eugeni, che definisce la ricorrenza sul tema come experiential turn, in atto negli ultimi vent'anni nelle sfere dell'arte e delle discipline umane ma anche nelle hard sciences, tanto da rendere tale oggetto di studio uno dei potenziali e più fecondi punti di contatto tra le diverse aree del sapere contemporaneo. In particolare, lo studioso individua principalmente quattro aree disciplinari entro le quali si rende particolarmente evidente l’interesse per tale soggetto: nelle discipline che si occupano di mente e percezione, quali neuroscienze e filosofia della mente, nelle scienze sociali, quali principalmente antropologia e sociologia, nella linguistica e nella semiotica, infine, nei film studies, ai quali aggiungeremmo le teorie dell’arte, in particolare in quella di matrice mediale. L'esperienza è definita da Eugeni come iterazione soggettiva e cosciente tra soggetto e mondo:

108 Ci sono tre elementi che definiscono l’esperienza e il suo soggetto. Il primo è che il soggetto dell’esperienza sia incorporato, ben collocato e integrato culturalmente, quindi l’esperienza è trasmessa da un organismo (ad esempio, un complesso intricato di mente e corpo) situato in una situazione contingente e che è il risultato di un complesso training culturale. Il secondo è che il soggetto dell’esperienza sia coinvolto in una costante e continua attività di interpretazione: lui / lei adatta costantemente le sue risorse disponibili (sia percettive che memoniche) in configurazioni significative, per poterle poi riutilizzare in ulteriori interpretazioni. Di conseguenza, l’attività di interpretazione assume la forma di una spirale in cui il soggetto è sempre in grado di utilizzare le configurazioni precedenti per modificarle e connetterle allo scopo di produrne di nuove. Il terzo è che il soggetto dell’esperienza è complesso e dinamico, immerso in un flusso simultaneo di risorse che lui / lei deve maneggiare attraverso la sua attività interpretativa. La stessa identità del soggetto non è concepibile né come un’unità organizzata centralmente che esiste a priori, né come elemento statistico, ma piuttosto come produzione dinamica che emerge da una possibile gestione del processo interpretativo.93

Rispetto a questa definizione complessiva e trasversale del concetto di esperienza è interessante evidenziare come torni ancora una volata la centralità del corpo e della simultaneità del meccanismo di feedback tra soggetto, inteso come totalità di corpo e cognizione, e ambiente, in linea con quanto delineato nel paragrafo precedente in riferimento alla percezione come sistema embodied e immersività. Nel campo delle hard sciences, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, si evidenzia un avvicinamento tra i percorsi delle neuroscienze e quelli della filosofia della mente: l'adozione di un approccio fenomenologico

93 “There are three features that define the experience and its subject. First, the subject of experience is embodied, situated and culturally embedded: the experience is carried out by an organism (i.e. an intricate complex of mind and body) placed in a contingent situation and resulting from a complex cultural training. Second, the subject of experience is engaged in an ongoing, unfolding activity of interpretation: he / she constantly arranges his / her available resources (both perceptual and memorials) into meaningful configurations, and re-uses such configurations as resources for further interpretations. As a consequence, the activity of interpretation takes the form of a spiral: the subject always recovers previous configurations to modify and to connect them to each other in order to produce further configurations. Third, the subject of experience is a complex and dynamic one, dipped into multiple and simultaneous streams of resources that he / she has to manage through its interpretive activity. The subject’s identity itself is not conceivable neither as a central organizing unit existing a priori, nor as a static role, but rather as a dynamic production emerging from the management of the interpretive processes.” Eugeni R., 2011. Cfr. anche R. Eugeni, 2010.

109 all'esperienza, instaura infatti un fertile dialogo tra neuroscienziati, filosofi e cognitivisti su concetti quali consapevolezza, empatia e percezione. 94 Tra le molteplici analisi del concetto di esperienza tre aspetti sono individuati da Eugeni come condivisi dalla maggioranza degli autori: l'esperienza è plurale, complessa e dinamica, basata su un flusso simultaneo di ‘informazioni’ sensorie non condizionato da un nucleo centrale ma auto-organizzato in differenti reti in sincronia tra loro, infine embodied, ad indicare, come visto nei precedenti paragrafi rispetto alla percezione, un soggetto dell'esperienza che è considerato come soggetto organico e complesso, concezione mutuata dalla teorica ecologica della percezione di James Gibson.95 Una tale idea di individuo esperiente permette di oltrepassare la dicotomia tra corpo e mente, tra momento percettivo e rielaborazione cognitiva dell'esperienza stessa, che ha per decenni determinato una frattura tra i percorsi delle neuroscienze e quelli della fenomenologia, accanto ad una seconda scissione interna all'ambito filosofico, tra l'approccio fenomenologico e quello cognitivista96. L’insistenza sul corpo, inteso non solo nella sua configurazione anatomica quanto come sistema complesso che ridefinisce i modi della spettatorialità e della relazione tra opera e pubblico, caratterizza anche i discorsi sul tema dell’esperienza nell’ambito dei film studies, quarta tra le aree disciplinari delineate da Eugeni, il quale, indicati come precursori di questa tendenza principalmente Henri-Louis Bergson e Gilles Deleuze, 97 per aver inaugurato una concezione del dato audiovisivo come entità dotata di una sua fisicità concreta e complessa, e insieme la fenomenologia di Merleau-Ponty, in particolare attraverso la riscoperta della sua idea di soggetto percepiente in atto nelle neuroscienze. Il ritorno sul corpo, specialmente in ricerche in area anglosassone, ha permesso di ripensare la dimensione fisica del fruitore come elemento creatore di senso, in grado non solo

94 Ibid., p. 3. 95 Cfr. Gibson J., 1999. 96 Per una ricognizione storica dei punti di contatto e divergenze dei principali percorsi in seno alla filosofia della mente, psicologia, neuroscienze e fenomenologia in merito alla percezione Cfr. Gallagher S., Zahavi D., 2009. 97 Farneti P., E. Grossi, 1995.

110 di percepire ma di elaborare l'esperienza in modo 'immanente’, situato cioè nel momento e nella presenza.98 Il primo e probabilmente più noto contributo sul tema dell'esperienza nell'arte è Arte come esperienza di John Dewey, attraverso il quale l’autore tenta di ricollocare l'opera d'arte nel quadro più ampio dell'esperienza quotidiana. Seppur datato, il suo resta un riferimento attraverso il quale rimodellare lo statuto dell’arte come processo esperienziale non solo per aver introdotto l’oggetto di studio nelle teorie dell’arte ma anche per aver fissato alcuni aspetti che rivelano ad oggi la loro portata pioneristica, in particolare alla luce del proliferare di pratiche artistiche che delineano l’opera come spazio di un vissuto, inteso sia in senso culturale e relazionale che percettivo. A guidare il suo discorso è, infatti, l’intento di slegare il concetto di opera dalla sua accezione di oggetto e di cercare una relazione significativa tra atto artistico e corso dell’esperienza quotidiana. L'opera d'arte per Dewey è un vettore che ridefinisce il corso dell'esperienza quotidiana e la qualifica in modo specifico.99 Se il concetto di opera come, esperienza appare fin dal suo nascere come legato al quotidiano, tale accezione potrebbe apparire antitetica alle condizioni di fruizione proprie a gran parte del corpus di opere proposto nella ricerca e alla serie di esempi individuati come rappresentativi delle pratiche di flicker, in quanto essi sembrerebbero aprire una serie di scenari difficilmente riconducibili al vissuto comune. Ad esempio, nell’installazione FEED, dell’artista Kurt Hentschläger, uno dei lavori al centro del case study dedicato all’autore. In essa, il pubblico viene a trovarsi improvvisamente in uno spazio invaso di fumo bianco e saturato dalla pulsazione della luce stroboscopica. Ad una prima lettura, il tipo di scenario proposto non sembra avere alcun legame con l’esperienza percettiva quotidiana, creando piuttosto un senso di alienità, di completa differenza da ciò che definiamo realtà e con la quale quotidianamente i nostri sensi si trovano a confrontarsi. Apparentemente, perché in realtà un primo livello di ‘connessione’, come spesso accade, viene rintracciato nella descrizione dell’artista che racconta come una delle idee iniziali per la progettazione di FEED sia nata dopo essersi imbattuto

98 Si rimanda anche agli studi sulla condizione somatica della fruizione individuati nel paragrafo 1.1 del capitolo. 99 Dewey J., 1951, p. 169.

111 in montagna in una insolita situazione metereologica data dalla compresenza di una fitta nebbia e di intensi bagliori di sole in un bosco. Trovarsi immerso in un fenomeno naturale, per quanto difficilmente sperimentabile, ha portato l’autore ad interrogarsi sul potere materico della luce nel delineare in modo solido una diversa configurazione dello spazio. Un secondo aspetto è rappresentato dalla sua personale reazione: un repentino rimescolamento del senso dello spazio e della percezione del proprio corpo nello spazio. Al di là delle differenze specifiche, il lavoro di Kurt Hentschläger può essere considerato rappresentativo della gran parte dei lavori presi in considerazione per rappresentare le pratiche audiovisive basate sul flicker ed estendibile anche ad altre tipologie di opere, non necessariamente basate su questo fenomeno ma accomunate dalla messa in atto di détournement percettivi. Se si guarda ad esempio a FEED, in particolare al racconto dell’esperienza dal quale l’opera ha origine, si può comprendere come essa rappresenti non la traduzione di un vissuto soggettivo quanto piuttosto un campo possibile e potenziale di sensazioni e percezioni il cui meccanismo e la cui presenza restano in genere celati o difficilmente percettibili. L’autore tenta di trasferire nell’opera il suo vissuto individuale, un reame del reale che gli è apparso momentaneamente o che gli è sembrato di intravedere. Ma non è il racconto né la traccia della sua esperienza quella offerta al fruitore, quanto piuttosto la possibilità di accedere, attraverso l’opera, a quello che lo studioso, filosofo e media artist Fred Forest definisce infrapercezione: nell’opera cioè si rendono percettibili dei sistemi di energie o flussi che appartengono al reale ma ne costituiscono un matrice invisibile, determinando le nostre funzioni biologiche o il modo in cui ci muoviamo od orientiamo in uno spazio in modo inconsapevole.100 Quest’ordine, definito da Forest ‘invisibile’ è tutto ciò che eccede al livello oggettuale del reale, non collocandosi in alcun supporto materiale o fisico: flussi di frequenze elettromagnetiche, di ritmi vitali dell’anatomia umana, flussi di dati e d’informazioni, relazioni tra sistemi culturali, sociali o di comunicazione, flussi di tempo e spazio, onde sonore. Il momento dell’opera è quindi un campo fenomenico entro il quale è offerta al fruitore la possibilità di dare forma – esperire – anche

100 Forest F., 2006, p. 73.

112 solo transitoriamente il flusso di energie che appartengono all’ordine dell’invisibile, cioè di quanto comunemente, dal livello oggettuale dell’esperienza, resta celato alla consapevolezza, al piano cognitivo che, come sottolineato da Eugeni, è uno dei ‘momenti’ caratterizzanti dell’esperienza.101 Le sperimentazioni di flicker e, più in generale, i progetti che si offrono alla fruizione come ‘situazioni percettive’ rendono necessario, sottolinea Forest, un rinnovamento basato sull’estetica del flusso, la tensione verso nuovi paradigmi, principalmente nel delineare l’oggetto di studio: occorre riconcepire I’opera da oggetto concluso dalla e nella materialità del supporto a sistema invisibile, vale a dire un aggregato dinamico e complesso di eventi che condensano in esperienza quanto sfuggirebbe altrimenti alla nostra percezione, in particolare a quella visiva.

Nel caso delle opere di flicker, in particolare, l’opera sistema invisibile manifesta come ciò che definiamo reale non sia altro che uno spazio di ‘frequenze’ che il nostro cervello trasforma in immagini, instaurando altri possibili meccanismi di codifica nell’esperienza dell’opera stessa. La definizione sistema invisibile contiene in sé i due termini fondamentali di questo differente statuto di opera:

- invisibilità: si intende qui non solo l’immaterialità che si contrappone all’estetica dell’oggetto, quanto l’attivazione di un processo che condensa e rende afferrabile, mette in forma anche solo transitoriamente, ciò che sfugge alla percezione cosciente. L’opera rende quindi l’esperienza diretta dei sensi un processo di conoscenza im-mediata. - sistema: si intende qui il porsi dell’opera come insieme di eventi possibili e potenziali, attivati dal fruitore. La singolarità e particolarità di ciascun evento non è però in alcun caso un evento isolato, autosignificante – verrebbe allora a mancare l’unità identitaria dell’opera, la sua identificabilità come progetto. Ciascun processo esperienziale ma è parte di un insieme, di un sistema di relazioni che rende coerente la relazione tra l’uno che l’opera rappresenta e le eventualità molteplici di realizzazioni, la

101 Un livello della realtà definito dall’artista e teorico Roy Ascott nanodominio, ‘rivelato’ sia all’arte che alla scienza dall’evoluzione tecnologica, consentendo di approcciare nuove dimensioni della materia sensibile integrando l’immateriale e il subatomico. Cfr. R. Ascott, Moistmedia et esprit métiatisé: vers une connectivité biophotonique, in Poissant L., Daubner E., 2005, pp. 43-45.

113 moltitudine di momenti attraverso le quali il sistema invisibile si manifesta, prende forma momentanea nella singola esperienza del fruitore.102

Le origini dell’opera come sistema invisibile possono essere individuate nel movimento Dada, in Fluxus o nelle esperienze dell’happening, per il comune intento di porre il progetto come ‘situazione’ e sistema di senso ‘potenziale’ messo in forma del vissuto diretto del pubblico, riferimenti questi utili a delineare un percorso di continuità tra la media art contemporanea e momenti precedenti nella storia dell’arte del Novecento. Ciononostante, l’esempio più efficace citato da Forest è riferito all’ambito scientifico: secondo l’autore è in atto nel campo dell’arte un processo non dissimile da quanto le tecnologie hanno attuato nel campo della fisica quantistica, l’accesso alla dimensione infinitesimale della realtà.

Emerge quindi il ruolo del dispositivo tecnologico come catalizzatore del processo messo in atto dall’opera: è, infatti, attraverso il dispositivo che il sistema opera prende forma – ma non oggettivizza - e rende esperibili fenomeni presenti in filigrana nella realtà oggettiva ma ‘diversamente’ o scarsamente avvertiti, raramente captati e quindi vissuti abitualmente. Le tecnologie sono quindi piuttosto le interfacce dell’esperienza, rappresentano lo strato più manifesto del dispositivo progettato dall’autore e con il quale egli compone un campo di comportamenti possibili e attraverso il quale il fruitore entra in relazione con fenomeni invisibili.103 Il livello ‘tangibile’ dello strumento tecnologico, come ad esempio il supporto, non coincide in alcun modo con l’opera, così come essa non corrisponde all’ambiente nel quale è collocata, o con i dati audiovisivi. Essi sono piuttosto la parte manifesta dell’interfaccia che è invece rappresentata dal dispositivo, inteso come insieme di funzioni che determinano il design dell’esperienza.104 Si tratta di una progettazione non dissimile da quanto avviene nel caso di un esperimento scientifico: l’elemento tecnologico permette di isolare, ponderare e osservare un determinato fenomeno, di renderlo osservabile e quindi

102 Forest F., 2006, p. 72. 103 Ibid., pp. 32-34. 104 Come già ricordato nel paragrafo dedicato ai processi percettivi, le tecnologie giocano un ruolo determinante nell’emersione di nuove forme di relazione tra soggetto e reale. Esso permette, inoltre, di riattualizzarne altre cadute in oblio in precedenti fasi dello sviluppo tecnologico.

114 presente sul piano dell’esperienza, in forma spesso solo transitoria, all’interno di condizioni sperimentali.

Questo conduce ad un altro punto di contatto tra l’opera sistema invisibile e l’ambito scientifico. L’opera si pone, infatti, come situazione sperimentale in vivo nella quale l’esperienza è parte determinante ed empirica in un processo di costruzione di conoscenza, di passaggio da un piano fenomenico ad uno culturale, intercetta, isola e trasporta ad un livello di esperienza cosciente, fenomeni legati alla natura stessa delle cose ma appartenenti ad un livello di infrapercezione e spesso relegati negli studi sull’arte all’aspetto formale del progetto estetico. Se nella percezione e nell’attenzione legata ai modi del sensibile si rintraccia una coincidenza significativa tra scienza e arte, è rispetto alla costruzione del sapere al quale l’esperienza sensibile conduce, che diventa possibile evidenziare le principali differenze tra i due ambiti disciplinari. Nella costruzione delle forme di sapere sensoriale, infatti, il metodo scientifico considera i modi dell’esperienza alla luce di una costante tensione verso l’oggettivo, per cui l’esperienza del singolo assume senso solo se considerata nel quadro di un sistema verificabile – o inficiabile, secondo il metodo deduttivo di Frank Popper - finalizzato alla stabilizzazione di un modello interpretativo e condizioni dell’esperienza codificate e controllate, progettando il vissuto empirico di ciascun individuo come un campo di condizioni il più possibile invariabili; nell’arte, al contrario, la relazione tra soggettività e oggettività del sapere sulla percezione e sul sensibile generano una gamma estremamente ampia di gradazioni: se, infatti, alcuni degli esempi citati nella ricerca ricalcano maggiormente i modi della scienza, nel proporre al fruitore un sapere e una consapevolezza sulla percezione di tipo ‘educativo’, nel quale il processo esperienziale del singolo si realizza all’interno di un setting di condizioni e comportamenti estremamente definito e controllato, in altri casi il design dell’esperienza lascia il fruitore come destinatario potenziale di possibili e molteplici configurazioni, di uno o più sistemi fenomenici stratificati rispetto ai quali la conoscenza del processo percettivo non è necessariamente afferrabile o univoca.

115 2.3.2 | Per un paradigma condiviso tra performance e installazione

Nel campo della media art il concetto di liveness è generalmente fatto coincidere con fattori quali la presenza del performer e la produzione in real time del dato audiovisivo. La presenza del performer e la produzione a/v in tempo reale, sono senza dubbio funzionali a descrivere efficacemente gran parte dei lavori di matrice performativa legati all'estemporaneità e alle relazioni sopra descritte. Ciò che ci interessa discutere in questa sede è il fatto che queste condizioni dell’opera audiovisiva non possano rappresentare le uniche caratteristiche utili all’individuazione del carattere di liveness e che le opere di flicker al centro della ricerca, possano confutare la netta distinzione ricorrente tra pratiche real time e installative. Questa concezione, ampiamente diffusa negli studi attuali sulle pratiche audiovisive effimere, si rivela spesso insufficiente a descrivere la specificità e la complessità delle relazioni tra autore, opera e pubblico.105 Quello della liveness nelle pratiche artistiche contemporanee è un concetto estremamente sfaccettato e complesso, denso di paradossi che si nascondono sotto l'uso più diffuso e metabolizzato che viene fatto ti tale termine nella società medializzata occidentale. Molto del dibattito critico sul concetto di livenss proviene dal teatro e delle arti performative legate al corpo, al quale fanno spesso riferimento anche contributi più recenti interni all'ambito teorico della media art. Come sottolineato da Philip Auslander, in apertura del suo Liveness. Performance in a Mediatized Culture - tra i contributi di riferimento sulle questioni legate alla performatività – il concetto di liveness è spesso utilizzato in senso mistificatorio, associandolo alla 'magia' o 'energia' che si suppone venga ad instaurarsi tra performer e pubblico in un evento dal vivo, un’ipotetica comunanza stabilita tra l’autore e i partecipanti. Questo denota un retaggio del concetto di aura dell’oggetto artistico: l'evento 'reale' nasce in conseguenza, afferma Auslander, dei processi di mediatizzazione determinati dalle tecnologie di registrazione, ne è quasi un diretto prodotto. In tal senso la magia dell'hic et nunc della performance viene socialmente e storicamente prodotta a partire dalla sua antitesi e cioè l'evento

105 Cooke G., 2011, p. 9.

116 mediatizzato.106 L'enfasi posta quindi sulla presenza effettiva e fisica dell'autore, sembrerebbe essere più funzionale alla sua celebrazione che all’identificazione di caratteri e funzioni proprie dell’opera. A partire dagli anni ’50, dagli albori della medializzazione della società occidentale contemporanea, la dicotomia tra la verità della presenza e la sua forma ‘riprodotta’ dal medium ha emanato la propria influenza fino al contemporaneo, non solo internamente al physical theatre ma anche all’interno della media art, messa in crisi solo negli ultimi decenni, da analisi quali quella di Auslander, il cui contributo più rilevante sta proprio nell’aver ricostruito le radici dell’aura della presenza dell’autore in carne e ossa come conseguenza del ‘trauma’ culturale della medializzazione. L’enfasi posta sull'epifania dell'evento in tempo reale, consumato e generato dall'autore dinnanzi al proprio pubblico, è infatti presente in molte analisi legate all’audiovisivo elettronico.107 Andrebbe, al contrario, posto in discussione il senso comune del concetto di liveness ed indagare la stratificazione di significati e fuorvianti. Si tratta di un termine tutt'altro che neutro e che spesso veicola a priori attribuzioni di valore e di veridicità a svantaggio di pratiche mediate, tacciate di una mancanza, quella dell'autore, e con essa di un senso di veridicità nelle opere.108 Auslander esclude in modo forse troppo radicale il valore della presenza e interazione che viene a crearsi tra artista e pubblico. Pur non condividendo a pieno questo presupposto – come detto, non mancano gli esempi nei quali viene ad instaurarsi una diretta relazione tra artista e pubblico come uno dei cardini imprescindibili dell'opera - si registrano al tempo stesso un gran numero di lavori nei quali questa relazione è di influenza del tutto marginale o nei quali il lavoro stabilisce una dimensione totalmente introflessa nel corpo e nella percezione del singolo fruitore, tanto da rendere la presenza effettiva dell'autore elemento totalmente a margine. L'accezione più comune di presenza nelle performance dal vivo descrive la prossimità temporale e spaziale tra performer e audience, una condizione che Peter

106 L'autore riprende il concetto di mediatized da Jean Baudrillard, intendendo con questo termine il processo rispetto al quale ogni specifico oggetto culturale è il prodotto di una tecnologia particolare o di un mass medium specifico, in Auslander P., 2008, p. 5. 107 Ibid., p. 15. 108 Ibid., p. 63.

117 Lehmann definisce co-presenza.109 I media digitali hanno messo in crisi questo presupposto, subordinando la presenza al grado di partecipazione piuttosto che alla condivisione di uno spazio fisico o temporale, focalizzando quindi l’attenzione sulle condizioni e i meccanismi di interazione tra opera e pubblico piuttosto che tra autore e dato audiovisivo. 110 Un cambiamento rispetto al quale un ruolo determinate è giocato della natura medializzata dell’opera. 111 Le tecnologie elettroniche, infatti, modificando i modi di produzione e spazializzazione rompono l’unità tra corpo dell'autore e sorgente del suono: prima delle tecnologie elettroniche la sorgente sonora coincide con il corpo del musicista che, ‘incorporando’ lo strumento suonato, è emanazione localizzata dell'immaterialità sonora. L'affermarsi delle tecnologie elettroniche scompone questo connubio e de- sogettivizza l'autore dalla funzione di fulcro incarnato della sorgente acustica. Un processo non dissimile si verifica anche nella storia delle pratiche audiovisive di flicker, ad esempio confrontando la centralità del gesto fisico del performer sulla materia filmica del live cinema strutturalista con l'assenza di un corpo/autore negli ambienti digitali. Sottraendo la presenza fisica dell'artista come punto di emissione del dato audiovisivo, i confini tra performance e installazione tendono a sfumare. In entrambi i casi, la liveness, l'unicità del momento e l'irripetibilità sono rintracciabili, piuttosto, rispetto alle potenziali relazioni tra corpo audiovisivo e corpo del fruitore. D’altro canto, spesso le opere installative in oggetto, aderiscono ad una serie di caratteristiche proprie, individuate da Claire Bishop nel saggio citato nel primo paragrafo, che contribuiscono a delineare una continuità con i progetti performativi: concepite o rielaborate in funzione degli spazi sempre diversi che, di volta in volta, le ospitano, sono rielaborate costantemente, in rapporto sempre dialettico con l'ambiente, inteso come spazio architettonico ma anche come campo nel quale intervengono altre condizioni esogene, fattori variabili che ne condizionano la ri-progettazione site specific di alcune componenti.112

109 Lehmann H.T., 2006, 141-142 110 Fewster R., Modes of Experience: Precence, in Bay-Cheng S., Kattenbelt C., Lavender A., Nelson R., 2011, p. 47. 111 Croft J., 2007. 112 Bishop C., 2005, p. 10.

118 Infine, un aspetto di carattere mediale, accomuna di frequente performance e installazione: in particolare nei lavori digitali, molti sono i casi in cui il dato sonoro e visivo vengono generati in tempo reale grazie all'impiego di software o sistemi generativi che s’interpongono come elemento intermedio tra la progettazione dell'artista e il momento della creazione. Allo stesso tempo, troviamo progetti performativi nei quali la natura particolare dei dispositivi impiegati non scinde, al contrario rinforza, il legame tra performer e dato audiovisivo, nelle quali l'intervento diretto dell'autore e la sua presenza attivano processi di senso nell'opera: è questo il caso di alcuni lavori performativi anche recenti che includono il mezzo cinematografico, quelli di Bruce McClure nei quali l'azione fisica dell'autore, consumata di fronte al pubblico, attiva processi di costante trasformazione dal sonoro al visivo e vice versa o, in modo simile ma rielaborato dal dispositivo elettronico, il live di sintesi ottica Megatsunami di otolab.

119

CAPITOLO 3 Il flicker nell’audiovisivo espanso contemporaneo

121 3.1 | Suonare la luce

Attraverso l’esempio di due lavori performativi recenti, il paragrafo approfondisce alcune tra le molteplici forme assunte nel contemporaneo dalla ricerca artistica sui dispositivi ottico-sonori. Lo studio sugli aspetti mediali dell'opera audiovisiva, da parte degli artisti, si configura come un panorama di notevole complessità e popolato da approcci disomogenei, che spaziano dalla ri- appropriazione di tecnologie pre-cinematografiche alla messa a punto di sistemi meccanici originali, dal recupero di tecniche analogiche utilizzate per brevi periodi della storia del video all’ideazione di sistemi hardware e software. Queste e altre le possibili traiettorie che, è bene sottolineare, non sono da intendersi come percorsi distinti, quanto piuttosto come tendenze, rispetto alle quali gli artisti si pongono spesso in modo trasversale, a causa anche della sempre maggiore proliferazione di tecnologie differenti e della loro accessibilità. Gli autori contemporanei, infatti, attingono i propri strumenti da uno scenario mediale estremamente ampio, talvolta con costi ridotti, che offre inoltre la possibilità di recuperare, più facilmente di quanto non accadesse in passato, strumenti in disuso, prodotti dall'obsolescenza mediale. Molte delle ricerche in atto stanno ridiscutendo, nel loro complesso, i codici linguistici e i metodi elaborati in precedenza nelle diverse storie dell'audiovisivo, in particolare attraverso la messa a punto di sistemi di sintesi di suono e immagine digitali, analogici, ottici e meccanici. Tra le tendenze recenti che forse più di altre permettono di tracciare una ideale continuità tra le esperienze storiche e il contemporaneo è l’area di

122 sperimentazione su metodi e strumenti di sintesi ottica del suono - o optofonici.1 A partire da inizio Novecento, questa tecnica rappresenta, infatti, una costante nelle opere basate sulla combinazione di immagine e suono, stabilita attraverso dispositivi analogici o ottico-meccanici. Le tappe più recenti di questo percorso sono rappresentate, ad esempio, dai lavori di Derek Holzer, Bruce McClure, Mikomikona, Jurgen Reble, Ben Russel, otolab. Sistemi originali di sintesi optofonica, basilari nella nascita del cinema sonoro, sono messi a punto nel corso del Novecento da fisici, musicisti, matematici, filmmaker e artisti visivi. I sistemi progettati in questi ambiti di ricerca apparentemente distanti, sono accomunati da una proprietà di base: la possibilità, cioè, di attuare una traduzione diretta della luce in suono e di stabilire la coincidenza assoluta tra ritmo visivo e ritmo sonoro. Un secondo aspetto, che emerge da una ricognizione storica, è la ricorrenza del flicker, utilizzato come elemento strutturale di riferimento. Pur essendo difficile stabilire i fondamenti di questa ricorrenza, una delle ragioni potrebbe essere, come visto nel capitolo precedente, rappresentata dalla definizione di ritmo – elemento del linguaggio audiovisivo utile a determinare l'espressione più efficace della sincresi tra suono ed immagine. Essendo la sintesi optofonica basata sulla traduzione diretta tra luce e suono, la struttura ritmica del flicker, nella compressione temporale che lo caratterizza, esplicita efficacemente la stretta relazione metrica e sincronica tra pulsazione luminosa e risposta sonora. Tale metodo ottico-sonoro è inoltre, punto di partenza nelle ricerche di molti autori per la messa a punto di dispositivi originali e autocostruiti. In questa direzione, le due esperienze selezionate offrono elementi utili a fissare, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune caratteristiche di riferimento rispetto all’eterogeneità del contemporaneo. I 'mondi' di riferimento degli esempi presentati sono molto diversi, come pure i risultati delle loro sperimentazioni. Essi sono rappresentativi di due delle possibili anime della media art contemporanea: una

1 Sulla sintesi optofonica o sintesi ottica del suono cfr. la ricerca svolta dall’artista americano Derek Holzer, durante una residenza al Tesla media arts laboratory di Berlino, ottobre-dicembre 2007. L’artista ha effettuato uno studio sulla storia di questa tecnica, da lui stesso recuperata nel live Toneweels, ideato in collaborazione con la video artista Sara Kolster, Holzer D., 2003; cfr. anche Thoben J., Tecnical Sound-Image Transformations, in D. Daniels, S. Naumann, 2010, pp. 424-431.

123 rivolta al cinema su pellicola, l'altra proiettata verso nuovi strumenti di lavoro, al tempo stesso, profondamente radicata nelle esperienze della prima videoarte analogica. Bruce McClure, il primo autore trattato, parte dal dispositivo cinematografico e offre un'originale riformulazione in chiave performativa della genesi della forma visiva e sonora e delle loro proprietà materiche e spaziali. Influenze nelle sue ricerche possono essere considerate le sperimentazioni tardo strutturaliste, ma anche i dispositivi del pre-cinema, le esperienze delle avanguardie, insieme ad alcuni tratti caratteristici della musica minimalista e noise. Pur forte del suo legame con la storia, l'opera di McClure non è spinta quasi mai alla citazione letterale né al remake di tali tradizioni. Il suo approccio al dispositivo cinematografico ricorda piuttosto ciò che Rosalind Krauss ha definito reinvenzione, attuata nei confronti di un medium in via di obsolescenza e del sistema di regole linguistiche ad esso legate. Il collettivo otolab, secondo polo di questa analisi, con uno sguardo sempre rivolto alla tradizione della musica e del video analogici, conduce la messa a punto di prototipi originali, progettati a partire da metodi di condivisione e dall'utilizzo di tecnologie open.2 Il collettivo segue, infatti, una prassi di sperimentazione sul dispositivo che molto deve alla scena del media design contemporaneo definita generalmente DIY - do-it-yourself. Pur restando due punti di vista molto diversi – selezionati proprio in virtù della loro disomogeneità – le ricerche mediali di Bruce McClure e otolab rivelano importanti punti di contatto, in particolare per alcuni approcci condivisi al momento performativo: in primo luogo, entrambi i lavori convergono nei numerosi rimandi ad una liveness tipicamente musicale, espressa attraverso un ampio margine di improvvisazione e di aleatorietà, dovuta alla natura aperta dei dispositivi utilizzati. Inoltre, in entrambe le ricerche, il momento dell'opera non rappresenta una fase conclusiva del percorso di ricerca quanto piuttosto una delle manifestazioni possibili di un più ampio e costante work in progress.

2 Cfr. Niessen B., Biserna B., Barcucci S., D'Alonzo C., Del Fanti A., Mancuso M., (a cura di), 2012.

124

3.1.1 | Bruce McClure: Christmas Tree Stand (2005)

Bruce McClure è stato definito artista para-cinematografico, proto- cinematografico, esponente dell'Expanded Cinema contemporaneo.3 Definizioni queste, sempre respinte dall’autore, che preferisce collocarsi in un ideale punto d’intersezione tra arti visive, cinema sperimentale e musica d'avanguardia. Il suo lavoro è attraversato da alcune costanti, tra le quali l'onnipresenza del flicker, utilizzato come elemento di transizione dalla sfera del visivo a quella del sonoro. Altro tratto ricorrente è rappresentato dallo studio delle possibilità offerte dal proiettore cinematografico, modificato dall'artista e reso protagonista del suo set di strumenti elettrificati, impiegati nella prassi performativa. Le sue film performance rientrano nella scena della sperimentazione audiovisiva degli ultimi quindici anni che vede, accanto alla diffusione dei sistemi digitali, un profondo interesse per le tecnologie ottiche e sonore degli inizi del Novecento e per gli strumenti e le tecniche del cinema su pellicola. Oltre a Bruce McClure, altri autori come Sandra Jibson e Louis Recoder, Jurgen Reble, Ben Russell, il collettivo Metamkine, ciascuno con le proprie specificità, stanno conducendo una rielaborazione dei codici del pre-cinema, delle avanguardie e del cinema sperimentale degli anni Sessanta e Settanta, riletti alla luce di influenze provenienti dalla media art digitale, dalle arti visive e soprattutto dalla musica elettronica, noise in particolar modo. In tutti questi autori, come nello stesso McClure, il cinema è scelto quasi sempre per il suo carattere di sistema aperto e fallibile, impreciso, esposto costantemente all'errore meccanico, al drop e alla deperibilità.4 In una prospettiva storica, l’opera di McClure può essere anche posta in relazione con alcuni lavori basati sulla sintesi ottica realizzati a metà degli anni

3 Picard A. Reading Between the Lines with Bruce McClure, 2009. 4 Walley J., 'Not an Image of the Death of Film': Contemporary Expanded Cinema and Experimental Film, in Rees A. L., White D., Ball S., Curtis D., 2011, p. 244.

125 Settanta da autori dello strutturalismo inglese, in particolare quelli di Guy Sherwin e Lis Rhodes, con i quali, al di là degli aspetti formali e di linguaggio – quali ad esempio la transitività diretta tra luce e suono, la ricorrenza del flicker come elemento cardine dalla traduzione tra segnale luminoso e dato acustico - condivide la propensione per la rielaborazione di ciascuna versione della performance.5 Un altro referente del lavoro di Bruce McClure, citato spesso dallo stesso autore, è Ken Jacobs, in particolare per il suo ciclo di performance stroboscopiche dal titolo The Nervous System, realizzate dall'autore dal 1975 fino agli inizi del 2000.6 La stroboscopia e l'ossessione per il ritmo entrano fin da subito nel percorso artistico di questo autore. A partire dalla prima metà degli anni Novanta, le sue ricerche si concentrano sulla relazione tra forme visive statiche e movimento, con rimandi ai dispositivi e alle forme del pre-cinema, utilizzando unicamente luci stroboscopiche e dischi ottici. McClure intende indagare le possibilità e i limiti di una pratica del cinema condotta senza ricorso agli elementi deputati, quali ad esempio camera, proiettore o pellicola. Traendo ispirazione, in particolare, dal Fenachistoscopio e dai Rotorelief di Duchamp (1926), mette a punto una serie di Roto-Optics, sistemi cinetici stroboscopici formati da dischi con forme astratte, montati su motori. Ciascun disco, in movimento ad una velocità costante di 1200 giri al minuto, è illuminato da una luce stroboscopica a frequenza variabile. Tali strumenti sono messi a punto per analizzare la percezione del movimento. L’autore utilizza però la luce stroboscopica per ottenere una fenomenologia visiva inversa a quella comunemente cercata nei dispositivi pre- cinematografici, per indurre cioè la percezione di una forma statica a partire da un oggetto in rotazione costante: l’effetto è prodotto grazie all'aumento progressivo di velocità della luce stroboscopica che, avvicinandosi sempre di più al ritmo di rotazione del disco, ne determina una fissità apparente. La sua indagine si concentra successivamente sul proiettore, utilizzato nella produzione di eventi performativi stroboscopici violenti, spesso disturbanti, dalla duplice natura aleatoria e al tempo stesso rigidamente strutturata.

5 Frye B., 2006. 6 Pierson M., James D. E., Arthur P., 2010, pp. 15-19, pp. 270-275.

126 Tra questi, Christmas Tree Stand (2005),7 uno dei lavori più interessanti, perché evidenzia lo sconfinamento ricorsivo tra rigidità della struttura scarna e minimalista e la dissoluzione nel noise audiovisivo più furioso ed ipnotico.

La performance si apre, nel buio assoluto dello spazio di proiezione, con una forma circolare pulsante, corrispondente ad una metrica sonora di asciutti battiti metallici in onde quadre, proiettata su uno schermo nero autocostruito. L'intervento di una seconda proiezione sovrapposta trasforma la bidimensionalità del cerchio in sfera. L'interazione tra le due ritmiche fa crescere una consistenza progressivamente più materica, fino a suggerire un effetto di tridimensionalità e di moltiplicazione del movimento. Le forme luminose di espandono e contraggono, anche il suono si intensifica e aumenta di densità, si espande in senso tridimensionale grazie alla sovrapposizione di più livelli ritmici, riverberi e armoniche. Il live evolve con l'inserimento di altri due proiettori, che stratificano ulteriormente la trama visiva, proiettando sulla superficie preparata un pattern geometrico a griglia, in rotazione circolare. L'interferenza tra il movimento della griglia e la pulsazione del flicker genera un effetto detto marquee, dal quale deriva il titolo dell'opera: la forma stroboscopica sembra moltiplicarsi in una costellazione di piccole fonti luminose pulsanti nello spazio buio.8 A partire, quindi, dal rigore del minimalismo geometrico, McClure alimenta la forma visiva nella sua dimensione sia temporale che ambientale fino all'esplosione nello spazio. La dialettica tra la forma come organismo concluso e definito e la sua espansione, è rintracciabile sia sul piano sonoro che visivo non solo in Christmas Tree Stand, ma più in generale nel complesso del suo lavoro. Partendo da questo esempio è possibile, infatti, estendere la riflessione all’interezza delle ricerche di questo autore: perché il suo è un lavoro imperniato su elementi e protocolli costanti, rispetto al quale ciascuna opera rappresenta la tappa di un percorso di ricerca estremante coerente, quasi ossessivo. La dinamica tra bidimensionalità e tridimensionalità, ottenuta attraverso il flicker, essenziale per tradurre la natura temporale e metrica del dispositivo

7 Presentato in anteprima presso l’Anthology Film Archive di New York, nell’ottobre del 2005, all’interno del ciclo Walking Picture Palace, a cura di Mark McElhatten. 8 Frye B.

127 cinematografico, è il debito più forte di Bruce McClure nei confronti del Nervous System di Ken Jacobs. Quello che può essere considerato un work in progress che accompagna buona parte della carriera artistica di Jacobs, è, infatti, una continua ricerca delle possibilità offerte dal flicker nel determinare un volume plastico nell'immagine, a partire dalla bidimensionalità della proiezione, ereditando quella che Nicky Hamplyn definisce ‘oscillazione’ tra l'immagine cinematografica, intesa nella sua accezione di forma, e l'immagine come fenomeno visivo e sonoro amplificato e instabile.9 Ma a differenza di Jacobs, l'intervento di McClure non parte dall'immagine e dalla sua presenza ritmica sullo schermo: il campo sul quale agisce è quello interno al proiettore e che precede la formazione dell’immagine. L'autore racconta, infatti, che il suo lavoro è per la maggior parte dedicato al bagliore della lampada del proiettore, elemento dell'apparato cinematografico generalmente relegato al ruolo d’intermediario tra il fruitore e l'immagine visiva. Secondo McClure, invece, esso non è strumento di traduzione di un immagine contenuta a monte nella pellicola, ma agente attivo di poièsi visiva e sonora.10 Per comprendere a pieno la sua ricerca è necessario guardare all'apparato ottico, meccanico e sonoro messo a punto dall'autore. Il set di strumenti utilizzati nel live è un sistema definito di parametri sonori e visivi, struttura e grammatica di riferimento autocostruita e alla quale l'autore ritorna per ogni lavoro: utilizza sempre una serie di proiettori 16mm caricati con loop, impressionati utilizzando del nastro adesivo, diversificati in base a varie ritmiche del flicker. Inoltre, ciascun proiettore è modificato con filtri e maschere, inseriti direttamente nello sportello di proiezione. L'autore realizza, infatti, delle maschere intagliate con forme geometriche in grado di scolpire e dare forma al fascio luminoso proveniente dalla lampada. Il gruppo di proiettori è collegato ad un metronomo elettronico amplificato, un mixer e una serie di pedaliere elettroniche. Questo set permette di manipolare il suono proveniente dal proiettore, a partire dal segnale emesso dai loop su pellicola. La pulsazione luminosa, che è dialettica visiva sincopata di buio/luce, dal punto di vista sonoro è battito di vuoto e

9 N. Hamlyn, Mutable Screens: The Expanded Films of Guy Sherwin, Lis Rhodes, Steve Farrer and Nicky Hamlyn, in Rees A. L., White D., Ball S., Curtis D., 2011, p. 215. 10 Walley J., 'Not an Image of the Death of Film': Contemporary Expanded Cinema and Experimental Film, in A. L. Rees, D. White, S. Ball, D. Curtis, 2011, p. 247.

128 pieno, assenza di suono e densità di frequenze nel white noise. La metrica sonora è base comune di molte delle ricerche strutturaliste, rispetto alle quali McClure si spinge però oltre nell’indagare la potenzialità musicale intrinsecamente contenuta nella pellicola 16mm: a partire da questa matrice audiovisiva, McClure costruisce un sistema sonoro originale e performabile che agisce sull'amplificazione del segnale proveniente dal proiettore. I segnali generati in modo automatico e costante dalla pellicola, sono la base di un processo di trasformazione in real time incentrato, in gran parte, sull'improvvisazione, nel quale i ritmi di base dei proiettori sono trasformati in un crescendo sempre più potente di ritmi sovrapposti e amplificati. Il sistema di sintesi audiovisiva progettato dall'autore contiene in sé la possibilità di muoversi sul limite tra natura solida e definita del ritmo audiovisivo di partenza e la sua intensificazione fino all'espansione spaziale. Più precisamente, se dal punto di vista sonoro è l'aggiunta del metronomo e delle pedaliere a consentire la ri-processazione audio con effetti di tridimensionalità, la controparte visiva di questo effetto è ottenuta, oltre che dal flicker, dall'aggiunta delle lastre all'interno del proiettore. La modifica apportata al dispositivo ha conseguenze sull'ontologia della visione: la maschera consente, infatti, la fuoriuscita dal rettangolo di riferimento del cinema, contenuto nel fotogramma e di riflesso nello schermo. Inoltre, attraverso la maschera, McClure scinde l'unità tra dimensione temporale e visiva della pellicola, determinate ad esempio nel lavoro degli autori strutturalisti. Nelle sue performance, alla pellicola è lasciato il solo ruolo d’impulso ritmico e temporale, mentre il proiettore diviene il luogo generatore del grado zero della forma visibile. Una seconda possibilità è offerta dalle maschere per lavorare sulla profondità dell’immagine, oscillando tra effetti di evanescenza e solidità geometrica pulsante e amplificando il movimento interno della forma proiettata. L’approccio di McClure alle tecnologie del cinema non è definibile invenziona. La sua è una modifica che parte dalle specificità e potenzialità preesistenti nel dispositivo, rielaborandone alcune funzioni ma lasciando pur sempre intatta la struttura generale. Al tempo stesso si rifà ad una tradizione, in particolare al cinema degli anni Settanta, per cui il suo lavoro potrebbe sembrare aderente all'ortodossia strutturalista. Il superamento dall’integrità del fotogramma conduce le ricerche di McClure oltre le traiettorie tracciate dallo strutturalismo. Le

129 ricerche e gli esperimenti condotti da McClure sul proiettore e sul dispositivo cinematografico, hanno permesso all'artista di intravedere altre possibilità e applicazioni, nuovi usi del cinema su pellicola e in particolare del proiettore. Egli attua quello che Rosalind Krauss ha definito ‘reinvenzione del medium: differente dall'ideazione di un nuovo apparato mediale o dal recupero archeologico di tecnologie in disuso, la reinvenzione è un processo attraverso il quale l'artista riesce a 'vedere’ le specificità proprie di un medium – inteso non tanto nella sua dimensione tecnologica e materiale, quanto piuttosto come sistema di funzioni che genera un linguaggio, a sua volta sostenuto da una sua grammatica – e a rielaborarne l'uso oltre quello convenzionale, intendendo con convenzioni non sono solo quelle del consumo di massa o del mercato, ma anche quelle interne ai mondi dell'arte. Nel lavoro di Bruce McClure, la scomposizione della meccanica del proiettore nelle sue forme più elementari, nonché, la sua ricostruzione in modi nuovi che inaugurino altri possibili usi e funzioni dello strumento, è un processo che afferma le possibilità del medium cinematografico di trovare forme altre nel panorama mediale contemporaneo. Il suo modus operandi riesce a conservare il legame con la storia del cinema e al tempo stesso condurre le evoluzioni del cinema analogico oltre il rischio di obsolescenza, anzi godendo proprio del processo di de-attualizzazione in atto nei confronti del cinema stesso. Riprendendo Benjamin, la Krauss evidenzia, infatti, i vantaggi dell'obsolescenza di un medium: l'eclissarsi della consuetudine d’uso di una tecnologia facilita nell'artista la tensione, così come accade in McClure,ad individuare nel proprio processo artistico un 'oltre' della tecnologia stessa, un ‘al di fuori’ dal determinismo tecnologico a lui contemporaneo o interno a particolari correnti delle arti, sfruttando una riformulazione propria e innovativa del linguaggio generato dal medium.

3.1.2 | otolab: Megatsunami (2010-2012)

otolab è un collettivo attivo a Milano dal 2001 e nato dall'aggregazione di musicisti, dj, vj, videomaker, web designer, grafici e architetti per indagare le forme della percezione audiovisiva medializzata in opere performative e

130 immersive. 11 Il metodo di lavoro condiviso, fondamentale per otolab, è simboleggiato dal laboratorio, luogo fisico che ospita il lavoro e l’incotro tra il collettivo e altre personalità della scena elettronica milanese e, al tempo stesso, spazio simbolico, sia in senso metodologico che etico: ciascun lavoro, proposto da uno dei membri o da esterni, viene infatti discusso collettivamente nelle riunioni settimanali che da più di dieci anni scandiscono la vita del collettivo, momento di confronto e di rielaborazione di idee.12 Il laboratorio ospita anche una delle attività che da sempre caratterizza il percorso artistico del gruppo, rappresentata dalla progettazione di dispositivi elettronici da utilizzare nei diversi lavori o dai quali prendere spunto per l'ideazione di nuovi progetti. Uno dei dispositivi più recenti è il Luminoise, sistema di sintesi ottica basato su circuiti elettronici modulari, ideato nel 2010 da Tonylight.13 Il funzionamento e le peculiarità dello strumento sono punto di partenza per uno dei loro lavori più recenti, Megatsunami (2010-2012), ideato e performato da Tonylight insieme ad uno dei membri fondatori di otolab, Xo00. Nella forma più recente, il progetto è un live media analogico basato sulla produzione diretta di suoni, a partire dalla manipolazione in real time di diverse fonti di luce elettrica e caratterizzato, pur nell'estrema improvvisazione e variabilità, da una potente luce stroboscopica, ossatura ritmica del live, in senso sia sonoro che visivo: puntata verso il pubblico, la lampada definisce lo spazio come ambiente stroboscopico e coincide acusticamente con una potente cassa ad onde quadre sincronizzata con la luce. I due artisti attuano la traduzione di stimoli luminosi pulsanti in una densa modulazione di suoni noise e techno sempre più disturbanti, ‘performando’ in prossimità fisica ma anche percettiva con il pubblico, disposto a semicerchio intorno all'area di lavoro dei due performer e al set di strumenti e luci.

La modulazione luminosa guida e determina l'intero percorso della performance, la cui composizione è modulata in crescendo: l'ingresso nell'esperienza acustico-visiva è costituito da un primo momento di quiete nel

11 Cfr. http://www.otolab.org, ultimo accesso 10 aprile 2013. 12 D'Alonzo C., 2009. 13 Tutti i membri del gruppo sono identificati da nickname, retaggio della discendenza dalla scena hacker e media-attivismta del collettivo. Tonylight, insieme a Peppolasagna, è uno degli autori più strettamente coinvolti nella progettazione di strumenti, principalmente sistemi di sintesi sonora analogici e apparecchiature luminose da porre in relazione in differenti modi con il suono.

131 quale un’unica fonte di luce costante di una lampadina ad incandescenza genera in un unico flusso di un tappeto di suoni a basse frequenze.14 Questa fase, oltre a costituire una soglia, non solo metaforica ma percettiva e fisiologica, perché predispone il pubblico all'impatto delle fasi successive, offre al fruitore la possibilità di intuire il processo di traduzione in atto e la relazione fisica attivata tra l'energia luminosa e quella sonora. L'accensione della lampada stroboscopica apre il nucleo centrale della performance, costituito dal progredire dell'impeto ritmico della strobo principale e della sua conseguenza sonora. Partendo da questa base strutturale, l'evoluzione del live si articola attraverso il variare dell'intensità della lampada e a grazie all’intervento di altre luci, a loro volta pulsanti, che interagiscono, di volta in volta, con la ritmica di base.

Lo sviluppo è pensato come un accumularsi di energia, di potenza, distruttiva e rigenerante al tempo stesso. Da qui il titolo del lavoro che cita il megatsunami, termine non scientifico con il quale i media televisivi hanno definito degli tsunami di straordinaria ampiezza e potenza e, al tempo stesso, un fenomeno naturale generato dal progressivo accumularsi di onde di energia:

Mi è sempre piaciuto il suono della parola e ho pensato di usarla in questo lavoro perché ne descrive bene il funzionamento, in termini di materia audio e video, oltre al tipo di esperienza che intendiamo costruire. In natura, il megatsunami è una grande onda formatasi a partire dalla stratificazione crescente di onde più piccole. L'impatto dell'onda finale ha un effetto di distruzione, violenza, ma al tempo stesso un momento di catarsi, di liberazione.15

La parte finale del live è, infatti, una tabula rasa: l'impatto è un'unica onda di suono stridente e luce fissa accecante. Poi, di colpo, il buio senza suono che, a causa della sovra-stimolazione precedente, permette per qualche minuto di sentire la quiete fluire nel corpo, in forma di vuoto catartico. Il pubblico può scegliere di vivere il momento del live secondo due modalità diverse e cambiare più volte il proprio 'punto di vista': lasciarsi trasportare

14 Questo tipo di suoni sono prodotti dal Drone Generator, un filtro anch'esso autocostruito, inserito nel set in un secondo tempo. 15 Xo00 durante l’intervista realizzata presso il laboratorio del collettivo, vedi apparati.

132 ad occhi chiusi in un crescendo immersivo nel quale l’effetto sonoro è amplificato e distribuito in ritmiche attraverso il corpo e dal quale emergono talvolta visioni di forme e colori; oppure concentrarsi sul lavoro aptico e performativo dei due artisti e dalla loro interazione con il set di strumenti. Questa seconda tipologia di esperienza trova origine nella fisicità del momento performativo, nel quale l'opera si realizza; fisicità intesa sia in termini di relazione tra dato sonoro e visivo,16 sia in relazione alla presenza dell'artista e del suo gesto. In questo caso, per riferirsi alle questioni illustrate nel secondo capitolo rispetto al concetto di liveness, il performer stabilisce con la sua presenza, attraverso l'azione diretta e percepibile sul dispositivo, una relazione con il pubblico che è significativa nei termini in può attivare nel fruitore un livello di comprensione della performance. Questa relazione, raccontano gli artisti, è accentuata anche dall'estrema improvvisazione sulla quale il live si fonda, dall’imprevedibilità delle luci e dalla non completa controllabilità del sistema di sintesi optofonica. Il percorso audiovisivo fin qui descritto corrisponde solo approssimativamente a Megatsunami: il progetto è infatti una struttura aperta, variabile nel tempo e modificata durante le prove che precedono ogni volta le esibizioni dal vivo. La variabilità è caratteristica della relazione tra progetto e momento dal vivo, ma anche delle forme e configurazioni che il set up di dispositivi ha assunto negli ultimi due anni. Osservando le origini e lo sviluppo in senso cronologico di Megatsunami, emerge come il titolo non definisca un sistema concluso quanto piuttosto un work in progress. Infatti, come spesso accade nei lavori di otolab, il live rappresenta un momento di provvisoria verifica, nella prospettiva più ampia di ricerca sulla percezione audiovisiva e sul dispositivo. Per i due autori, l'idea di lavorare su tecniche di sintesi ottica parte dalla collaborazione, nel 2010, con Xname, media artist italiana, di base a Londra, vicina al mondo hacker. Con lei, iniziano a lavorare su un live optofonico, utilizzando una serie di circuiti per la sintesi ottica, basati su panelli solari, che l'artista ha realizzato dopo la partecipazione ad un workshop del collettivo svizzero DIY Make Away, autori di un sistema chiamato Micro_noise.

16 È utile ricordare che quella messa in atto è una reazione fisica tra differenti frequenze elettromagnetiche incanalate e tradotte attraverso il dispositivo.

133 Da questa collaborazione nasce un live dal titolo Phantasmata (2010), un lavoro meno complesso, rispetto a Megatsunami, ma che può essere considerato l'incipit di un percorso di ricerca sui dispositivi di sintesi ottica che hanno condotto alla forma attuale della performance e al set di strumenti utilizzati. In seguito, infatti, Tonylight, studia, riprendendo gli schemi progettuali del Micro_noise e confrontandoli con sistemi realizzati da altri 'inventori' e condivisi liberamente in rete, la produzione di uno strumento simile, basato cioè su delle fotoresistenze per la produzione e trasformazione di suoni, a partire dalla luce e dalle sue possibili variazioni – come intensità luminosa, ritmica, movimento, prossimità. Grazie all'esperienza maturata con Phantasmata, l'artista costruisce il Luminoise avendo ben chiaro quali caratteristiche e funzioni attribuire al proprio strumento e quale resa ottenere dal vivo. Oltre al Luminoise, Megatsunami comprende anche una serie di altri dispositivi. Per quanto riguarda l'audio, sono tre i circuiti utilizzati e autocostruiti, appositamente per questo lavoro o in progetti differenti – il Luminoise, il Micro_noise e il Drone Generator. Il work in progress di Megatsunami raccoglie, infatti, le ricerche dei due autori svolte parallelamente a quelle degli altri membri interni al collettivo, nonché dalle modifiche a una serie di prototipi progettati da altri esponenti del media design contemporaneo e liberamente diffusi in rete. Questo tipo di procedimento nell'ideazione dei dispositivi, che passa attraverso un processo aperto a più interventi autoriali e che attinge da altri prototipi, condivisi online o appresi durante workshop e seminari, è tipico del DIY, acronimo di do-it yourself, una delle tendenze recenti e più innovative del media design e della sperimentazione tecnologica.17 Il termine DIY è utilizzato inizialmente nelle aree suburbane degli Stati Uniti agli inizi del 1950 per definire persone che si occupano da sé della manutenzione e riparazione delle proprie case o mezzi di trasporto, senza ricorrere cioè al lavoro di professionisti. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, il DIY si è allontanato da questa prima accezione di 'craft' e 'home made' per assumere una connotazione socio-politica di pratica anticapitalista, ecologista e anti-corporate, dimensione etica tutt'ora

17 Per una prospettiva storica delle origini del DIY cfr: Knobel M., Lankshear C., DIY Media: A Cotextual Background and Some Contemporary Themes, in Knobel M., Lankshear C., 2010, pp. 1-27.

134 presente in questo tipo di pratiche.18 Altri precedenti sono rintracciabili in ambito musicale – ad esempio nella scena dance hall Giamaicana della fine degli anni Sessanta e in quella punk della fine del decennio successivo – contesti ai quali viene riconosciuto il merito di aver determinato la diffusione di tali approcci in ambito culturale e mediale. 19 A queste andrebbero aggiunte le esperienze pioneristiche statunitensi in seno alla prima video arte e alla musica elettronica analogica, dalla seconda metà degli anni Sessanta. Al pari delle manifestazioni attuali, gli artisti hanno condotto intense attività di ricerca e studio collaborativo basate sulla messa in comune dei primi strumenti elettronici. Al tempo stesso, il DIY applicato alla creazione artistica e alla messa a punto di dispositivi audiovisivi nel contemporaneo, ha le proprie specificità in alcune caratteristiche socio- economiche degli ultimi quindici anni: anzitutto l’utilizzo della rete, che consente di condividere progetti e istruzioni sui dispositivi, attingerne liberamente e allargare in maniera esponenziale il concetto di scena e comunità artistica. Un secondo fattore è legato alla sempre maggiore diffusione di tecnologie a basso costo, divenute sempre più accessibili, in particolare in ambito musicale e audiovisivo. Questo secondo aspetto determina una situazione diametralmente opposta alle ragioni che hanno spinto le dinamiche collaborative negli anni Sessanta, per le quali la condivisione era fortemente condizionata dalla necessità dettata dall'alto costo delle apparecchiature e dalla loro difficile reperibilità.

Per otolab, come per molta scena del DIY contemporaneo, invece, la condivisione è una metodologia stessa della ricerca sui dispositivi, condotta a partire da una relazione ed un confronto costante con ricerche e risultati raggiunti da altri esponenti della comunità. Uno scambio che non si esaurisce nella progettazione dell'opera o della singola apparecchiatura, ma si reinserisce a sua volta nel contesto culturale di riferimento, attraverso la pubblicazione online degli schemi progettuali e delle informazioni raggiunte dal singolo o a momenti di formazione, attivando un processo di condivisione culturale che oltrepassa la sperimentazione tecnica e si pone come modello innovativo di produzione di conoscenza. Ne è un esempio la prossima evoluzione del progetto Megatsunami,

18 Cfr. Benkler, Y., 2006. 19 Cfr. Triggs T., 2006.

135 proposto in forma di workshop all'interno di istituzioni culturali e accademie, come momento di formazione dedicato non solo all'esperienza del live e alla costruzione del Luminoise ma anche, più in generale, alle varie tappe di sperimentazione sulla sintesi ottica nella storia dell'audiovisivo e nel contemporaneo.

136 3.2 | Micro-strutture temporali nello spazio

Malgrado i percorsi dell'audiovisivo espanso permettano di rintracciare l'origine delle relazioni tra immagine in movimento, suono e ambiente risalendo la storia delle arti fino almeno alla fine dell'Ottocento, nel corso degli ultimi vent'anni il rapporto tra audiovisivo e ambiente, nelle opere di media art, ha ricevuto uno sviluppo e una proliferazione senza precedenti, grazie anche alla diffusione di nuovi e più complessi apparati tecnologici. Allo stesso tempo, il segno della continuità con le esperienze del passato resta profondo e radicato, per quanto spesso inconsapevole, nelle ricerche contemporanee e nell'ampia proliferazione di ambienti estetici immersivi. In particolare, alcune esperienze degli anni Cinquanta e Sessanta sembrano aver inoculato nei percorsi dell'arte esempi di una poetica ambientale sbocciata solo di recente. Ricorre, nelle esperienze contemporanee, la tendenza a concepire il flicker come corrispettivo visivo, non necessariamente sincronico, di una materia sonora composta di micro elementi temporali. Una texture frutto di un processo di scomposizione e ricomposizione dell'opera nell'ambiente, inteso non come contenitore di questo processo, spazio architettonico, bensì organismo generato, in modo instabile e affatto definitivo, dal moto di aggregazione e dispersione istantanea delle molecole temporali di luce e suono. Il concetto di spazio e le conseguenti gamme esperienziali e percettive, più o meno immersive, sono riconfigurate a partire da questo processo applicato alla luce e al suono attraverso dispositivi elettronici, più spesso digitali. Nella formulazione di una continuità tra luce e suono stabilita a partire dalla loro natura particellare, le opere immersive realizzano la messa in atto di quelli che abbiamo chiamato, riprendendo la definizione di Fred Forest, sistemi invisibili, campi di forze impalpabili che

137 permettono l’esperienza di una dimensione celata ma presente in matrice nel reale. Una proprietà delle opere connessa indissolubilmente dalla loro natura elettrificata, in quanto è carattere proprio dei media elettronici il mettere in forma la fisica immateriale ed energetica della materia e porla in contatto con il soggetto sul piano fenomenico dell’esperienza.20 Un riferimento storico per la concezione particellare e invisibile del dato audiovisivo può essere fatta risalire ad una delle opere pionieristiche di audiovisivo espanso, il ben noto Philips Pavillon, frutto della collaborazione tra Le Courbusier, Iannis Xenakis ed Edgar Varése e realizzato in occasione dell'Expo del 1958 a Bruxelles.21 Il design della struttura è concepito come un gigantesco dispositivo audiovisivo finalizzato ad articolare, in termini di spazio e fruizione, il Poème Électronique di Varése e il Bohore di Iannis Xenakis, le due composizioni ideate e scritte per l’occasione dai rispetti autori, pionieri della musica elettroacustica e dei successivi sviluppi della musica elettronica di ricerca. Guardando alla concezione della materia sonora e alla sua relazione con la struttura spaziale del padiglione, emergono tratti comuni a molti ambienti di flicker attuali. Una continuità che parte dagli ambiti della sperimentazione sonora e s’innesta nel più ampio e meticcio panorama della media art audiovisiva che, tratto anche questo più volte ricordato, mutua spesso dal campo musicale modi performativi, prassi esperienziali e approcci al dispositivo tecnologico. Nel padiglione, Xenakis e Varése anticipano di diverse decine di anni una concezione della materia sonora e della sua espansione nello spazio - accompagnata a luci e immagini - che giunge ad una piena espressione solo con l'affermarsi dei sistemi di sintesi digitale. Nelle loro ricerche visionarie, il suono è, infatti, costituito da micro strutture indipendenti e particellari:

Nei miei lavori il ritmo proviene dall’interazione simultanea di elementi discreti e calcolati matematicamente ma irregolari, accelerati. Questo corrisponde quasi alla

20 Forest F., 2006, p. 35. 21 Trieb M., 1996

138 definizione di ritmo in fisica o in filosofia, come successione di stati alternati e opposti o correlati.22

Nelle opere di flicker contemporanee, questa tradizione di ricerca e il modello di infrapercezione tipico del suono, si contamina con le esperienza sull'uso della luce nel cinema, nelle arti visive o nell'immagine elettronica,23 dando vita ad ambienti visivo-sonori contemporanei nei quali la luce stroboscopica o il flicker della proiezione sono corrispondenti diretti di una texture sonora parcellizzata. La complessità del dato audiovisivo è ottenuta, infatti, a partire da un processo di dissezione della continuità di suono e immagine (o luce) in molecole di tempo infinitesimali. L’invisibilità delle molecole non equivale alla loro smaterializzazione, nel senso di una loro non corrispondenza nell’ordine fisico e fenomenico delle cose: al contrario, il flusso sono-luminoso che si compone, spesso in tempo reale, nel momento dell'opera, corrisponde all'integrazione di una materia dotata di proprietà incarnate e incarnanti, in grado di stimolare una risposta diretta nel corpo e nel sensorim del fruitore, attraversandolo in forma di onde. Allo stesso tempo, la composizione granulare del flusso viene costantemente svelata, attraverso un processo di disgregazione e ricomposizione di strutture ritmiche complesse, che si insinuano nella dimensione ambientale, intesa come ecosistema invisibile in costante oscillare tra aggregazione ed espansione. Il catalizzatore di questa relazione è ancora una volta il corpo, inteso non solo in senso anatomico, ma come sistema percettivo adattivo. Il corpo immerso stabilisce necessariamente una relazione dinamica con l'opera-ambiente, riconfigurando la morfologia della proprie strutture percettive in relazione al processo di costante divenire dello spazio audiovisivo. Se al suono e alla visione è sottratto lo statuto di forma unitaria a favore di una dimensione diffusa e molecolare, ad essi corrispondono un corpo ed un sistema percettivo parimenti complessi e disseminati che, a partire da questa qualità espansa, determinano il ‘farsi spazio’ dell’opera, come descritto da Enrico Pitozzi:

22 “In my own works rhythm derives form the simultaneous interplay of unrelated elements and calculated, but not regular, time-lapses. This corresponds more nearly to the definition of rhythm in physics and philosophy as a succession of alternate and opposite or correlate states.” Inannis Xenakins in Trieb M., 1996, p. 6. (mia traduzione). 23 Forest F., 2006, p. 72.

139

Il corpo [...] che ne deriva è allora qualcosa che emerge dal corpo reale, ma non è un doppio del corpo, bensì una sua manifestazione, una nuova organizzazione sensoriale della percezione sviluppata a partire da una integrazione di carattere tecnologico. La tecnologia diventa, in questo lavoro, una modalità per interrogare le potenzialità del corpo, per sviluppare una sorta d’approfondimento percettivo della conoscenza corporea al fine di poter agire su di essa in modo da modificarne costantemente la partitura di movimento (e la sua declinazione sonora). É evidente che, in questo caso, siamo al di là di un utilizzo puramente strumentale della tecnologia. Quest’ultima diventa invece una modalità per indagare il corpo ed espanderne le potenzialità.24

Alla disarticolazione del suono e dell'immagine in strutture indipendenti di tempo diffuse nello spazio, corrispondono una sensorialità e un'esperienza altrettanto discontinue, disseminate. Le due opere portate ad esempio di questa tendenza, rispecchiano due diverse modalità di declinare il concetto di corpo e percezione in relazione ad un'ambiente che è emanazione del corpo stesso e della sua relazione con l'audiovisivo.

Il primo, NoiseGate-M6 (1998), del duo Granular Synthesis, è caratterizzato dalla costante oscillazione tra la traccia del corpo e la sua distruzione in elementi particellari. Questo processo pone il fruitore al centro di una struttura instabile, in bilico tra il tentativo di rispecchiamento con il corpo audiovisivo disgregato e il coinvolgimento nell'opera come puro dispositivo percettivo ed esperienziale, dal quale è sottratta qualsiasi forma o rappresentazione.

Il secondo esempio è costituito dall'opera filmachine (2006), installazione realizzata dal compositore Keiichiro Shibuya, in collaborazione con lo studioso Takashi Ikegami. Monumentale dispositivo sonoro, il lavoro è un ambiente percettivo totalmente astratto e prevalentemente musicale; in realtà, esso rivela un'imprevista capacità evocativa e immaginativa. Quasi all'inverso di quanto accade nel lavoro dei Granular Synthesis, nel quale l'ipercinesi della forma svela la sua natura molecolare, filmachine aggrega caoticamente microstrutture di quanta

24 Pitozzi E., 2011.

140 sono-luminosi senza alcuna tensione alla rappresentazione. Ciononostante il momento dell'esperienza determina la comparsa di memorie, oggetti e situazioni sonore, genera fenomeni immaginifici, rimandi sensoriali e traduzioni dal suono alla forma visiva di natura sinestetica.

3.2.1| Granular Synthesis: NoiseGate-M6 (1998)

Il lavoro del duo austriaco Granular Synthesis, attivo tra il 1991 e il 2003 e composto da Kurt Hentschläger e Ulf Langheinrich, è considerato un riferimento per molto audiovisivo espanso contemporaneo. La loro pratica artistica si basa su variazioni di tempo visivo e sonoro infinitesimali, all'interno di opere ambientali che, nell'arco della loro carriera, si sono evolute progressivamente in senso sempre più avvolgente e monumentale.25 Le loro creazioni stabiliscono, per la maggior parte, un'oscillazione tra dimensioni macro – l'ambiente - e micro – nel processo di analisi della materia sonora e visiva digitale. Delineano campi percettivi entro i quali il fruitore è coinvolto nel processo di costante frammentazione e ricomposizione, mentre sperimenta in modo diretto, in quanto incarnato, la natura instabile del flusso a/v. La sintesi granulare, cui si riferisce il nome Granular Synthesis, è alla base delle micro strutture caratteristiche della loro pratica audiovisiva. Si tratta di una tecnica di elaborazione digitale utilizzata comunemente per processare samples di suoni preesistenti, in modo da ricavare sequenze di micro campioni (grains) da ricomporre secondo un flusso nuovo:

Il grain è un’unità di energia sonica posseduta da ogni tipologia di forma d’onda e con una durata caratteristica di pochi millisecondi, molto vicina alla soglia dell’udito umano. Il controllo continuo di questi piccoli eventi sonici (che sono percepiti insieme

25 Vengono qui fornite delle coordinate generali sul lavoro dei due artisti e sui principali aspetti della loro poetica che verranno affrontati in maniera più estesa nel primo paragrafo del capitolo IV.

141 come una grande massa sonora) dà alla sintesi granulare potenza e flessibilità. La durata tipica di un grain è all’incirca tra i 5 e 100 millisecondi.26

In tutta la loro produzione i Granular Synthesis estendono questo costante processo di parcellizzazione e ri-aggregazione, oltre che al suono, all'immagine video, lavorando per microstrutture temporali, corrispondenti a granuli di pochi millisecondi d’immagine in movimento. Partono da samples video e ne vivisezionano il contenuto in campioni millimetrici di tempo, per ricomporre le particelle elementari così ottenute in un unico flusso, attraverso un sistema di sequenze di flicker rapido e di precisione chirurgica. Questo processo definito dal duo re-synthesis, viene reiterato dal software nel momento dell'opera, sia nei lavori in real time che nelle installazioni. A questo, scopo il gruppo mette a punto, negli anni, una gamma di strumenti software e hardware tra i quali il più noto è il VARP 9, sviluppato tra il 1997 e il 1999, in collaborazione con Dirk Langheinrich. Il flicker è quindi il metodo temporale attraverso il quale gli artisti svelano quanto avvenuto nel lavorìo sulla materia audiovisiva, rivelatore della metamorfosi attuata attraverso l'uso del software. Il risultato è uno streaming di suoni e immagini in cui la texture del movimento intermittente rivela il pulviscolo di tempo audio e video sottostante. La grana del flicker è infinitesimale, al punto da non presentare cesure: la pulsazione è modulabile in tempo reale e permette una plasmabilità tattile tale da poter parlare di flicker espanso, accelerato, frattalico.27 I loro progetti, quindici tra installazioni e performance, prodotte dal 1991 al 2003, anno dello scioglimento del duo, possono essere idealmente suddivisi in due fasi.28 Una prima, dal 1991 al 1998 circa, caratterizzata dalla centralità della figura del corpo umano e dalle trasformazioni applicate dal dispositivo tecnologico su alcune sue funzioni quali, principalmente, movimento, gesto, voce. Il duo applica la tecnica di re-synthesis alla rielaborazione cinetico-temporale, concentrandosi in particolare su visi ed

26 “The grain is a unit of sonic energy possessing any waveform, and with a typical duration of a few milliseconds, near the threshold of human hearing. It is the continuous control of these small sonic events (which are discerned as one large sonic mass) that gives granular synthesis its power and flexibility. The typical duration of a grain is somewhere between 5 and 100 milliseconds.” Kuehnel E., 2003 cit. in Deisl H., 2006. 27 E. Schweeger, 2001. 28 Deisl H., 2006.

142 espressioni facciali o su altre parti isolate di anatomie in movimento. La seconda, tra la fine degli anni Novanta e lo scioglimento del gruppo, segnata da una progressiva perdita iconica: l'occhio è privato di forme a favore di un predominio di ritmi luminosi astratti e spazializzati. Si tratta di ambienti stroboscopici sonori e visivi, resi puri momenti esperienziali, privi di qualsiasi appiglio significante. Anche in questa fase, lo streaming audiovisivo conserva la sua natura granulare e la composizione in sequenze millimetriche. Per quanto riguarda la progettazione spaziale e gli allestimenti, per la maggior parte site specific, nella prima fase troviamo la prevalenza di schermi multipli posti frontalmente, che moltiplicano la stessa fonte a/v in più proiezioni disposta in polittici. Nella seconda, la proiezione multipla assume una scala sempre più architettonica o di video wall avvolgenti intorno al pubblico e la fonte visiva viene a sua volta parcellizzata in senso immersivo. Le due fasi non sono segnate da alcuna netta cesura, ma il passaggio può essere identificato con alcuni lavori liminali, quali NoiseGate-M6 e POL, entrambi datati 1998, due momenti dell'opera di Granular Synthesis di particolare interesse, proprio in virtù del loro carattere transitorio. In essi trovano espressione le trasformazioni in atto nella pratica dell'opera e dei suoi elementi, evidenziando una continuità concettuale, processuale e metodologica, in particolare rispetto al tema del corpo, tra la prima e la seconda fase della loro carriera. Il corpo è il campo entro il quale si gioca la mutazione dal trattamento audiovisivo, nel senso della sola manipolazione temporale, verso un sistema-opera che, alla compressione del tempo, fa corrispondere una dilatazione dello spazio e dell'esperienza. NoiseGate-M6 (1998) rappresenta l'incipit di questa nuova direzione, ma anche l'occasione per riconnettere e dare nuova forma ad alcuni progetti precedenti, rispetto ai quali il progetto marca una discendenza diretta. Il suffisso 'M6' sta, infatti, per 'Modell 6', ad esplicitare, fin dal titolo, la filiazione da altre opere identificate come 'modelli', a momenti precedenti della ricerca di Granular Synthesis caratterizzati dal corpo, quali: Modell 3 (1992-93), Modell 5 (1994-96) e Modell X/Sweet Heart (1996), realizzati in collaborazione con performer e danzatori.

143 NoiseGate-M6 è un'installazione immersiva mutischemo, più volte progettata e allestita in differenti versioni site specific, a partire dal 1998 e per i successivi tre anni,29 costituita da sei canali video, corrispondenti ad altrettanti schermi e 24 canali audio spazializzati, distribuiti su entrambi i lati di un ampio spazio buio, percorribile liberamente dal pubblico. Entrambe le tipologie di fonti sono controllate via software, quindi il flusso di suoni e immagini e la loro processazione avviene in real time. Ciascuno schermo rappresenta un atomo audiovisivo, contenente una diversa elaborazione, in termini di tempo e delle sue conseguenze spaziali, dello stesso sample video. La moltiplicazione seriale nello spazio, porta la dimensione del corpo oltre lo schermo, a formare un ambiente dotato di ritmi frattalici, rispetto ai quali il fruitore è invitato, tramite il libero navigare nello spazio installativo, a cercare di costruire percettivamente più relazioni dinamiche. La continuità ideale del 'modello 6' con i precedenti lavori è leggibile anche a partire dal materiale utilizzato: il video mostra infatti alcune riprese in primo piano del performer Michael Krammer, già protagonista del live Modell 3, uno dei primi lavori del duo. A partire da questo riferimento NoiseGate-M6 si costituisce come una struttura temporale e spaziale molto più complessa: mentre in Modell 3 l’inquadratura rispetta la frontalità bidimensionale della proiezione su 4 schermi e la frammentazione del movimento si manifesta in una millimetrica scansione delle espressioni facciali di Krammer, nel caso di NoiseGate la testa del performer assume la solidità di una presenza scultorea e il movimento è modulato, con maggiore tridimensionalità, in uno spazio di ripresa che è già ambiente.30

29 Originariamenre prodotta dal MAK – Österreichisches Museum für angewandte Kunst di Vienna, in collaborazione con altre sei istituzioni culturali europee: Marstall - Bayerisches Staatsschauspiel di Monaco, Germania; Créteil Maison des Arts / Le Manège Scène Nationale de Maubeuge, Francia; Hull Time Based Arts di Hull, Inghilterra; Muziekcentrum De Ijsbreker di Amsterdam, Olanda; Kunstverein di Hannover, Germania. 30 Questo effetto è ottenuto tramite un particolare dispositivo di ripresa messo a punto dai due artisti per filmare Krammer: è costituito da una struttura con una seduta, inclinata all'indietro, posta di fronte alla macchina da presa e posizionata su un carrello. Seduto sulla struttura Krammer governa l'intero movimento a partire dalla testa, lasciando il resto del corpo immobile, imprigionato in una imbragatura ancorata alla sedia, fatta eccezione dei piedi che, spingendo sul carrello determinano lo scorrimento della sedia orizzontalmente o in profondità rispetto alla camera. Lo spazio di ripresa è delimitato da un box fotografico attorno alla sua testa: è questo lo spazio tridimensionale nel quale K. sviluppa una serie di movimenti, grazie all'inclinazione della sedia, molto più ampi di quelli concessi

144 Inoltre, la fonte viene ulteriormente processata con l'aggiunta di un secondo livello ritmico: infatti, a differenza dei lavori precedenti di Granular Synthesis, nei quali il processo attuato dal software si concentra principalmente sul movimento del corpo, in questo caso viene sovrapposto all'immagine un secondo strato pulsante bidimensionale, che anticipa le caratteristiche dei successivi lavori astratti. Questa seconda membrana di flicker è una superficie di proiezione vibrante, di diverse tonalità monocrome, modulata con intensità luminosa e frequenza diverse. In questo modo, ciascun modulo di proiezione assume una sua consistenza materica e un proprio tempo indipendente dalla parte iconica. Viene orchestrato un complesso sistema di relazioni. Un primo livello è interno alla singola proiezione, tra micro-ritmiche motorie del corpo e pulsazione dello schermo, con conseguenze spaziali, sempre interne al frame, oltre che temporali, rappresentate da oscillazioni costanti tra profondità dell'immagine iconica e bidimensionalità, a seconda anche della potenza luminosa del flicker di superficie; un secondo ha luogo fuori dalla proiezione, tra la superficie pulsante di ciascuno schermo e il fruitore che si muove nell'ambiente, invaso dalla materia astratta di sola luce degli schermi stessi. Ciò genera un forte impatto immersivo grazie alla dinamica di contrappunto tra evoluzioni ritmiche diverse. In modo simile a quanto sperimentato da Paul Sharits nelle sue installazioni multischermo, i Granualar Synthesis progettano una relazione potenziale tra monadi di tempo indipendenti che il pubblico è chiamato a costruire percettivamente esperendo l'opera. A differenza di Sharits però, in questo caso la composizione va attuata in uno spazio che non è linearità bidimensionale della multiproiezione, bensì tridimensionalità di un ambiente su scala architettonica. L'esperienza dell’installazione è quindi modulata cercando un proprio percorso percettivo in questo sistema di relazioni potenziali, giocato sul doppio livello di micro elementi temporali ridistribuiti in uno spazio monumentale. A questo, si aggiunge un secondo livello di esperienza, determinato dal contenuto del video. L'ambiente di NoiseGate-M6 non è, infatti, unicamente un dispositivo percettivo audiovisivo astratto, come saranno le opere successive del duo, ma

da una posizione perfettamente verticale. Cfr making of NoiseGate-M6 in Granular Synthesis, ZKM, DVD, 2004.

145 conserva la presenza del corpo espresso nella sua fisionomia e il processo di disgregazione e riaggregazione che caratterizza tutta l'opera precedente del duo. Mettendo in scena quella che Tod Sherman definisce una 'zona astratta di percezione', i Granular Synthesis instillano in essa un livello figurale legato all'anatomia e al corpo, in bilico tra la sua natura umana di carne e movimento e la traccia del suo processo di astrazione attuato ricorsivamente dal software. L'immersione nell'ambiente è guidata dalla costante oscillazione tra astrazione e riconoscimento del corpo nella sua integrità, un limbo nel quale il sistema percettivo organico cerca invano di attuare un processo di rispecchiamento, di ri-trovarsi in una forma umana che è in balìa di un loop di incessante trasformazione.31 Ciascun fruitore è lasciato a sé stesso, dentro un ambiente audiovisivo verso il quale è impossibile non attivare un'identificazione: il viso moltiplicato e scosso da costante convulsione interroga il fruitore, lo scruta attraverso la sua residua parvenza di individuo. Si rintraccia l'apparenza di un volto ma non c'è espressione, non c'è empatia, si riconosce un'aura di corpo ma al tempo stesso si percepisce una scomparsa, quella della forma a noi nota dell'anatomia umana. NoiseGate-M6 è un sistema complesso di risonanze tra le diverse parti, un meta corpo percorribile. Con esso i Granular Synthesis espandono, in forma di ambiente, un processo non dissimile da quanto fatto in opere precedenti sul flusso del video: frammentano, cioè, una sequenza lineare in micro strutture di audiovisivisione, ricomponendole nel dispositivo ambientale e lasciando traccia, nella mancanza di sincronia tra le parti, del processo chirurgico attuato. Il meta- corpo dell'installazione ha, infatti, una natura poliritmica fatta di monadi di tempo indipendenti; in esso chi guarda può afferrare risonanze transitorie, accordi di tempo in forma di suono e immagine del tutto instabili, che permettono a tratti di ritrovarsi in una dimensione organica, di sentire il battito di un grosso organismo, ma anche il disagio, nei momenti di dissonanze temporali, dell'essere intrappolati in un Frankenstein audiovisivo. Quella che il fruitore percepisce come una distruzione è in realtà solo un processo che manifesta la potenziale trasformazione del corpo in altre infinite ed

31 Sherman T., in Granular Synthesis, P. Noever, 1998.

146 indeterminate composizioni morfologiche indotte dalle tecnologie. La riduzione in particelle e il trattamento microscopico attuato sul movimento, stabiliscono quel processo viscerale di relazione tra corpo del fruitore e corpo audiovisivo delineato da Jennifer Barker: ciò che appare come un violento processo di distruzione della forma corporea è in realtà la rivelazione di altre possibili configurazioni, di materia organica e sintetica insieme. Quello messo in atto come disturbo, è in realtà una rivelazione della radice strutturale della materia audiovisiva digitale, composta da millisecondi di dati, di transitività tra i domini della carne e l’invisibilità del digitale.

3.2.2 | Keiichiro Shibuya e Takashi Ikegami: filmachine (2006)

Il sound artist e compositore giapponese Keiichiro Shibuya è figura eclettica e trasversale del panorama musicale contemporaneo. Accanto ad un'intensa attività di performer e musicista, costellata di collaborazioni sia con nomi storici della musica contemporanea che con alcuni esponenti dell'elettronica di ricerca più recente, è fondatore della ATAK, label discografica e insieme collettivo di artisti afferenti a diverse aree disciplinari, dalle arti visive al design. Il suo lavoro affianca lo studio specifico sulla composizione sonora e sulle proprietà dal suono a numerosi sconfinamenti, non solo in aree diverse della ricerca artistica ma anche in ambiti prettamente scientifici e mediali. Egli ha infatti dato vita negli anni ad una serie di opere, realizzate in collaborazione con scienziati e ricercatori, basate su metodi di sintesi e controllo e spazializzazione del dato sonoro.32 Tra le collaborazioni più continuative e interessanti, quella con Takashi Ikegami, docente presso la facoltà di Arte e Scienza dell'Università di , specializzato nel campo dell' Artificial Life e della scienza dei sistemi complessi,

32 Keiichiro Shibuya è diplomato in composizione alla Tokyo National University of Fine Arts and Music. Dopo la fondazione della label ATAK, pubblica nel 2004 il suo primo album, ATAK000 Keiichiro Shibuya, apprezzato per le ricche sonorità e per l'elaborazione delle strutture basate su tono e ritmo. Nel 2008 Shibuya, specialista di elettroacustica, ha cominciato a lavorare ad un segnale sonoro per incroci stradali pedonali componendo musica destinata all’urban design e agli spazi pubblici. Porta avanti, inoltre, un'intensa attività performativa, spesso in collaborazione con autori di riferimento quali Yasunao Tone, Ryoji Ikeda e Pansonic. É inoltre professore associato presso la Tokyo National University of Fine Arts and Music.

147 area di studi interdisciplinare che indaga le proprietà dei sistemi viventi attraverso metodi di simulazione e sintesi di processi di vita artificiale. Dopo un primo incontro nel 2005 presso i Sony Computer Science Laboratories di Tokyo, iniziano a lavorare insieme con l'intento di applicare processi e strumenti utilizzati in genere nella scienza dei sistemi complessi alla composizione sonora, al fine di elaborare un metodo di composizione basato sul superamento dei due concetti di ritmo e tono musicale, elementi cardine della struttura compositiva della musica occidentale. Da questi presupposti, sviluppano una particolare teoria, di riferimento per tutti i loro successivi lavori, chiamata Third Therm Music, caratterizzata dall'estrema dinamicità e non ripetitività del suono e dall’uso di sistemi software basati su algoritmi evolutivi non lineari, comunemente utilizzati nei sistemi di intelligenza artificiale. Tra questi, in particolare Huron: un generatore di suoni virtuali tridimensionali, basati su una 'mappa logistica,' uno strumento matematico impiegato per produrre comportamenti caotici a partire da un'equazione dinamica lineare. In questo caso la mappa è usata come generatore elementare di strutture microscopiche e caotiche di suoni e, insieme, per amplificare le strutture generate, determinando differenti tipologie di comportamenti e movimenti delle particelle acustiche nello spazio.33 In parallelo Shibuya ritiene indispensabile la creazione di un dispositivo ambientale atto a 'suonare' queste particolari strutture complesse, secondo una maggiore dinamicità sia spaziale che temporale, rispetto a quanto consentito dai sistemi audio più diffusi, e organizzando i suoni e il controllo del movimento non solo in senso orizzontale ma anche verticale. I limiti imposti dai sistemi di spazializzazione inducono spesso gli autori interessati alla dimensione audio ambientale a limitare la dinamicità del suono, fin dalla fase compositiva, presupponendo un movimento nello spazio basato principalmente sulla sua diffusione sul piano orizzontale, intorno all'ascoltatore. Gli effetti concessi dalla maggior parte degli impianti di spazializzazione comunemente in uso, quali ad esempio i sistemi 5.1 surround, si 'limitano', infatti, al movimento di ripetizioni cicliche e omogenee di elementi su un ideale piano orizzontale intorno al pubblico. Coerentemente con il comportamento caotico e multidirezionale del suono, reso

33 Broeckmann A., Riekeles S., (a cura di), 2008, p. 38.

148 dal software nella fase di composizione, Shibuya intende superare questi limiti e mettere a punto un dispositivo di ascolto ambientale in grado di riprodurre la complessità e l’imprevedibilità di comportamento dei suoni sintetizzati dal software tridimensionale. Nel corso di una residenza presso l'YCAM Yamaguchi Center for Arts and Media in Giappone, Shibuya e Ikegami realizzano filmachine (2006), installazione immersiva basata sulla produzione e il movimento di suoni tridimensionali, associati a luci stroboscopiche.34 L'opera, presentata per la prima volta all'YCAM, è successivamente esposta in importanti festival di media art, quali Ars Electronica (2007) e Transmediale (2008), si basa sulla coincidenza tra il soundscape sonoro e percettivo dell'opera e il dispositivo tecnologico che lo determina.35 Nello spazio totalmente buio di una black box è posizionata la macchina audiovisiva di flimmachine, composta da 24 canali audio, distribuiti in una struttura emisferica di speakers, suddivisa su tre livelli di punti sonori, sospesa su una pedana praticabile dal pubblico e composta da parallelepipedi neri, di diverse altezze e dimensioni. Questa disomogeneità è studiata per accrescere le possibilità di ascolto nello spazio, lasciando libero ciascun partecipante di trovare il proprio punto di osservazione acustica. Il pubblico attiva il dispositivo infrapercettivo, attraverso un pulsante posto su una delle sommità della pedana. Inizio, fine e durata sono momenti ben definiti e circoscritti del lavoro: dopo l'accensione, ciascuna session dell'installazione ha uno sviluppo di venti minuti, al termine dei quali l’organismo torna silente, fino alla successiva attivazione. Attorno alla pedana sono disposti otto pilastri, ognuno con 14 moduli di lampade LED, modulabili secondo alcuni parametri: la forma tridimensionale della loro composizione, determinata dall'accensione di alcune parti dei moduli LED di ciascuna colonna; l'intensità di ciascuno dei 112 punti luce; i movimenti generativi lineari, sia in senso concentrico/orizzontale che verticale; infine, i pattern ritmici differenti. La totalità di questi parametri può essere determinata dal suono o avere comportamenti e dinamiche indipendenti.

34 Il progetto corrisponde anche ad un album su CD per ascolto in cuffia Shibuya ATAK010 filmachine phonics (2007), premiato, insieme all'installazione con una menzione d’onore per la sezione musica digitale ad Ars Electronica 2007. 35 Broeckmann A., Riekeles S., (a cura di), 2008, p. 55.

149 Il suono millimetrico, generato dal sistema Huron, è messo in circolo e modulato in senso tridimensionale attraverso i 24 canali, secondo pattern di movimento differenti: orbitali - flussi continui e lineari che avvolgono il pubblico in cupole a spirale; verticali - dividono lo spazio in diverse colonne, a loro volta formate da spirali indipendenti di movimento; balistici - singoli suoni con traiettorie indipendenti e ‘randomiche.’ La macchina acustico-visiva di filmachine si costituisce a partire da tre livelli: un piano compositivo, corrispondente alle particolare strutture generative tridimensionali, ottenute via software; un secondo, corrispondente al dispositivo 'visibile' - l'impianto di casse e luci allestito in senso architettonico, ideato e progettato in funzione dell'aspetto compositivo e per massimizzare sia le strutture sintetizzate che i loro comportamenti caotici nello spazio; un terzo, invisibile e infrapercettivo, per il quale l'opera si costituisce come una macchina di osservazione interna al sensorium.36 Tutte le parti del complesso organismo di filmachine hanno una funzione eminentemente sonora: anche gli elementi visivi, come le luci, sono inseriti come interventi temporali in grado di modificare la percezione del suono e del suo movimento, a partire da una relazione non esclusivamente sincronica. Spesso, infatti, la modulazione delle luci, la ritmica e il loro movimento sono indipendenti dal comportamento delle particelle soniche. In accordo con quanto affermato da Kubelka nella sua teoria del cinema metrico, Shibuya e Ikegami non stabiliscono una relazione univoca di stimolo-risposta tra pulsazione luminosa e suono. Sono piuttosto interessati a dimostrare, in antitesi con quanto visto ad esempio nei lavori di sintesi optofonica del paragrafo precedente, che la corrispondenza tra percezione luminosa e strutture sonore complesse si manifesti nella loro installazione soprattutto attraverso forme di percezione caotiche, basate sulla disarmonia e la completa assenza di sincresi. filmmachine destabilizza in questo modo il pubblico con una totale imponderabilità percettiva, determinando ciò che i due autori definiscono 'espansione dell'esperienza sensoria attraverso una forma di percezione astratta,' cioè la produzione di un soundscape audiovisivo in cui nulla somigli ad elementi

36 Ibid., p. 12.

150 acustici percepibili in natura, quindi costruire una fenomenologia del suono di matrice sintetica e imprescindibile dal processo tecnologico. Quello a cui i due autori aspirano è la creazione di una super-complessità, cioè una forma di progettazione di sistemi complessi che simulino la complessità già presente in natura ma che lo statuto artificiale del processo amplifichi esponenzialmente.37 Vanificando qualsiasi tentativo interpretativo delle strutture compositive particellari, attraverso la stratificazione di elementi, filmachine dovrebbe favorire, secondo Shibuya e Ikegami, l'abbandono di qualsiasi istanza interpretativa da parte del pubblico alla luce proprio della dimensione di ipercomplessità innaturale. In realtà, come nota Andreas Broeckmann, trovarsi nello spazio buio, visivamente indeterminato, di filmachine equivale a sentirsi al centro di uno spazio immaginifico, indipendentemente dalla propria posizione, entro il quale la percezione oscilla tra costituzione e dissoluzione, tra suoni mimetici e il loro superamento in suoni senza alcuna referenza con pregresse esperienze uditive sedimentate. Mentre le fasi prettamente astratte situano il fruitore nell'immanenza di un sistema percettivo interamente nuovo, altri momenti transitori stimolano la costruzione di scenari mentali, evocando immagini o ricordi, nel tentativo di riconoscere pattern sonori noti, di ricollocarli in un bagaglio sedimentato di soundscape attraversati in precedenza. Una tensione al riconoscimento evocata e costantemente frustrata dall'irregolarità e imprevedibilità delle strutture caotiche: le particelle soniche assumono costantemente nuove strutture, sembrano assumere una forma conosciuta, ma in poco tempo l'immagine mentale che sembra emergere è sostituita da un'altra conformazione tridimensionale. Ciononostante, il caos delle micro strutture dinamiche viene a tratti ad aggregarsi in una forma che si crede di poter riconoscere e dalla quale si attende di farsi guidare. Il meccanismo mimetico e la sua dissoluzione sono accentuati proprio dall'utilizzo dei flash di luce, che contribuiscono a situare il pubblico in uno spazio altro, senza punti di riferimento, rendendo in questo modo più consapevole la dinamica di costante aggregazione e disgregazione di immagini uditive.

37 Ibid., p. 85.

151

152 3.3 | Il setting dell’esperienza

Nel contemporaneo sono numerosi i centri di ricerca, dipartimenti universitari, laboratori e programmi che fondano la pratica sperimentale sugli sconfinamenti tra arte e scienza.38 La progettazione e modulazione di forme esperienziali ibride, si presenta come una delle manifestazioni più prolifiche dell'attuale contaminazione tra arte e ricerca scientifica: una fascinazione, quella degli artisti nei confronti delle hard sciences, che non si esplicita solo nella messa a punto di progetti collaborativi o al prelevamento di strumenti teorici o tecnologici, ma anche nella progettazione e modulazione dell'esperienza. Esempi significativi sono alcuni lavori recenti di Marina Abramovic e Mariko Mori, molta parte della produzione del duo formato da Evelina Dominitch e Dimitri Gelfand, una parte della produzione di Carsten Höller, Kurt Hentschläger o del sound artist Carsten Nicolai. In alcuni di essi, il richiamo al test di laboratorio come modello dell'esperienza è segnato da pratiche di racconto e verbalizzazione che assumono diverse funzioni: creazione di dati per successive indagini quantitative o qualitative, prassi documentale, costruzione e attribuzione di senso da parte del fruitore al vissuto complessivo dell'opera. Un aspetto che queste opere intendono spesso testare è quello della percezione e in particolare le conseguenze sensoriali legate al flicker. La regolazione dell'esperienza, a partire da parametri definiti, scalabili e riproducibili, il tentativo di oggettivizzare e verificare, in parte, la singolarità del vissuto percettivo, instaurano spesso momenti di intervista e racconto del pubblico secondo metodologie mutuate dalla psicologia sperimentale o delle scienze sociali.39

38 Wilson S., 2002. 39 La questione del racconto del pubblico e del singolo fruitore come prassi di documentazione delle opere effimere verrà analizzato più nel dettaglio nel prossimo capitolo, in particolare nel paragrafo 3 del capitolo.

153

Molti riferimenti diretti della propensione a concepire l'opera come setting parascientifico sono rintracciabili tra le sperimentazioni prodotte in seno ai movimenti dell'Arte Cinetica e Programmata, significativi sia nello specifico delle questioni legate al flicker sia, più in generale, come radice della commistione tra opera ed esperimento attuata da molti degli artisti menzionati. La sistematicità con la quale gli autori di questa corrente indagano i fenomeni percettivi è, infatti, non solo un carattere aprioristico del processo creativo, non coinvolge cioè unicamente la fase di progettazione e realizzazione dell'opera, ma è estesa in maniera significativa anche al momento dell'esperienza del pubblico. Come sottolinea Lea Vergine, gli artisti di questa corrente sostituiscono alla prassi d’interpretazione dell'opera e del suo contenuto, tecniche e metodologie di osservazione e accertamento metodico delle 'reazioni' in atto nel momento della fruizione.40 L'Arte Cinetica e Programmata, pur condividendo metodologie e regole con la scienza, mantiene un margine di autonomia tale da eludere il rischio che il momento estetico coincida con il setting dell'esperimento al punto tale da essere ad esso assimilabile. Questo margine viene determinato principalmente dall'alto grado di imprevedibilità del comportamento del singolo fruitore, aspetto spesso pericolosamente mancante in alcuni degli autori contemporanei. Nelle opere degli anni Cinquanta e Sessanta, il setting regolamentato e predisposto dall'autore, prevede, infatti, un sistema quasi sempre aperto all'eventualità e all'imprevedibilità dell’agire di ciascun fruitore. Confrontando tale approccio con quello di molte produzioni attuali, un aspetto da rintracciare e verificare nello specifico di ciascuna opera, è la modalità attraverso la quale, a partire dal comune oggetto di studio rappresentato dall'esperienza percettiva, venga realizzata la convergenza tra i diversi modelli di ricerca. Un quesito da porsi è se la commistione tra i metodi dell'arte e quelli della scienza, possa offrire un effettivo arricchimento in termini di conoscenza o di nuove procedure per ciascuno degli ambiti disciplinari coinvolti e se l'esperienza dell'opera possa ancora qualificarsi come esperienza estetica o non si traduca

40 Vergine L., 1983, p. 14.

154 invece in uno strumento funzionale o assimilabile agli obiettivi della ricerca scientifica. Con questi presupposti si propongono due possibili esempi. Il primo è Seeing with the Eyes Closed (2011), installazione dell'artista croata Ivana Franke, realizzata in collaborazione con la ricercatrice Ida Momennejad. Il lavoro è legato direttamente agli studi in ambito neurofisiologico sulla percezione del flicker. L'esperienza progettata comprende sia il momento di fruizione più strettamente percettivo, sia una successiva fase di racconto da parte di ciascun fruitore. Questa seconda parte rappresenta un aspetto non completamente risolto del progetto e dell'interazione tra metodologia scientifica e pratica artistica, lasciando una parte consistente del processo progettato privo di una collocazione significante sul piano estetico. Al contrario, il percorso dell’installazione Displace (2011-2012), prodotto nell'ambito di un più ampio programma di ricerca che coinvolge i media artist Chris Salter e Tez e l'antropologo David Howes, si presenta come un esempio di sinergia proficua tra arte e altre aree del sapere dedite allo studio della percezione. A partire da una forma di esperienza progettata e regolata come esperimento di antropologia dei sensi e proprio attraverso gli strumenti di analisi forniti da questa metodologia di ricerca, i due autori individuano contenuti e questioni utili a problematizzare i limiti tra opera ed esperimento e renderli punto di partenza per successive evoluzioni di tipo prettamente estetico.

3.3.1 | Ivana Franke: Seeing with the Eyes Closed (2011)

L'artista croata Ivana Franke utilizza linguaggi e protocolli artistici molto diversi per indagare le relazioni tra percezione e ambiente, visibile e invisibile, forma fisica e smaterializzazione. In opere spesso effimere, quali principalmente installazioni site specific e ambienti, l’autrice pone l’individuo in condizioni interrogatorie rispetto alla veridicità di ciò che osserva, spinge a ridiscutere la standardizzazione di modelli interpretativi tramite i quali si attribuisce un senso alla realtà. Le installazioni di Franke sono spesso piccole detonazioni di dubbio, come nel caso di installazioni collocate in spazi pubblici o del vivere quotidiano, o

155 nell'isolamento di non luoghi bui, definiti da interventi minimali di light art. In questa seconda tendenza del suo lavoro, l'opera e il suo contenuto coincidono, in linea con la tradizione dell'Arte Programmata e Cinetica. Il pubblico è posto in esplorazione del buio, prima che della luce, campo praticabile d’isolamento percettivo entro il quale distillare microgradazioni di fenomeni percettivi in scala architettonica, trompe l'oeil minimali che ridefiniscono l’ambiente dato. La sua è una costante riflessione sul modo in cui guardiamo il mondo o ciò che definiamo tale, sui processi di soggettivizzazione nei quali scovare la mescolanza tra esterno e interno, come brecce che intaccano la membrana tra queste due sfere della nostra esperienza. Tra il 2009 e il 2010, l'interesse per i limiti ambigui tra 'esterno' e ‘interno’ al sistema percettivo è al centro del progetto di ricerca Seeing with the eyes closed, dedicato alla fenomenologia della luce stroboscopica e realizzato insieme alla neuroscienziata Ida Momennejad. Presupposto della collaborazione è costruire un percorso di studio sugli effetti pseudo-allucinatori provocati dalla luce stroboscopica, a partire da due framework disciplinari diversi, quello delle arti e quello neuroscientifico. Vengono realizzati un'installazione omonima e insieme un simposio che coinvolge studiosi di entrambi gli ambiti disciplinari, ospitato presso il museo Peggy Guggenheim di Venezia, nel corso della 54° Biennale d'arte, in collaborazione con l'AoN, Association of Neuresthetics, una piattaforma di lavoro fondata nel 2008 dal Dr. Alexander Abbushi, che supporta la produzione, formazione e ricerca basate sulla collaborazione tra autori e studiosi nel campo delle arti e studiosi di scienze cognitive. Il cuore di Seeing with the eyes closed è un dispositivo cinetico-luminoso installato che, pur non esaurendo in sé il percorso di ricerca precedente e successivo la sua realizzazione, riconnette i quadri teorici di riferimento, il confronto tra competenze e formazioni chiamate a partecipare al percorso condotto da Franke e Momennejad, in un forma concreta di esperienza percettiva, riproducibile e scalabile in contesti espositivi differenti. La macchina ottica è costituita da una matrice di lampade LED, programmate in sequenze ascendenti e discendenti di flash luminosi, in un range di frequenze tra 12 e 50 Hz. La durata complessiva dell'intero ciclo, ripetuto

156 omogeneamente e attivato tramite un pulsante dal fruitore, ha la durata fissa di tre minuti e 18 secondi. La permanenza percettiva di ciascun flash è di sei millisecondi, mentre la pausa tra un lampo luminoso e l'altro è variabile. Il dispositivo così strutturato è posto in uno spazio completamente buio e silenzioso e il pubblico è invitato a sedersi a terra, di fronte alla matrice di LED e alla distanza di circa un metro: tenendo gli occhi chiusi, il suo arco visivo è completamente circondato dallo sfondo luminoso che ha forma semicircolare a 180°. L'accensione via pulsante attiva il ciclo luminoso programmato e insieme possibilità indefinite di visioni potenziali, differenti tra i partecipanti: le risposte percettive vanno da strutture geometriche, colorate o in b/n, dotate di movimenti differenti nello spazio, a sua volta, generato e assolutizzato dal dispositivo, fino a scene più complesse, dotate di una forte valenza iconica. Alla singolarità indeterminabile della visione, corrisponde un setting esperienziale rigidamente prestabilito, come invariabile è anche la sequenza luminosa, il tipo di pulsazioni e la loro intensità. I parametri di riferimento sono quindi stabiliti e ripetuti invariabilmente da un individuo all'altro, isolati da qualsiasi intervento soggettivo altro dell'accensione da parte del fruitore. Il silenzio nella sala e il totale buio sono scelti per favorire un completo assorbimento nell'esperienza visiva determinata dalle frequenze. Ad eccezione di specifiche differenze nel design dell'esperienza, che vedremo meglio tra poco, il fenomeno visivo è raccontato dal pubblico in modo non dissimile da quanto descritto da Brion Gysin rispetto alla Dream Machine. Anche il titolo scelto per il progetto si rifà direttamente alle esperienze di Gysin, quasi citando uno dei claim con i quali l'autore aveva tentato di lanciare commercialmente la propria invenzione: il primo oggetto artistico da 'guardare ad occhi chiusi.' Questa espressione, oltre a tessere la continuità dell'esperimento con il primo episodio di sconfinamento nelle ricerche sul flicker dall'ambito scientifico a quello delle arti, allo stesso tempo concentra il tema dell’opera sulla fenomenologia allucinatoria che la luce pulsante può indurre. Viene eliminato qualsiasi altro tema o questione non strettamente legata all'esperienza percettiva per permettere, a differenza di molti altri lavori considerati in questa ricerca, di

157 avvicinare l'esperienza determinata nel corso dell'installazione all'esperienza in vitro di un esperimento scientifico. Mentre nella gran parte dei progetti fin’ora considerati, gli autori, anche nel caso in cui prendano ispirazione dagli ambiti neuroscientifici, lo fanno reinterpretando e innestando i fondamenti fisiologici della percezione in altri livelli di riflessione, in questo caso, invece, l'opera e l'esperimento percettivo coincidono pienamente. L'esperienza di ciascun partecipante è, infatti, direttamente inquadrata su un doppio livello, quello del momento estetico, unico e soggettivo, e quello del singolo campione di un'analisi quantitativa. Quest’ambiguità che rende il progetto di particolare interesse nel piano generale del nostro discorso, rappresenta allo stesso tempo una criticità e in gran parte irrisolto del lavoro di Franke e Momennejad, come avremo modo di approfondire nelle prossime pagine. Tornando al design dell'esperienza, focalizzare tutta la struttura del progetto attorno alla produzione delle forme allucinatorie è necessario per far emergere una riflessione del singolo su cosa effettivamente sia il contenuto dell'opera, senza altra interferenza di senso o alcun tipo di sotto testo. Se questo rappresenta una prassi negli esperimenti scientifici, tesa a limitare il più possibile la contaminazione del fenomeno che s’intende studiare con altri fattori esogeni, è al tempo stesso un'evoluzione coerente con lo sfondo generale delle ricerche di Franke. Trovarsi immersi nel macchinario stroboscopico senza altro elemento che la luce pulsante e le forme fantasmagoriche, rappresenta quasi una presentazione didascalica del meccanismo percettivo, rende facilmente deducibile per ciascun fruitore che, come sottolinea Brion Gysin, l'autore dell'opera visiva è non può essere che lui stesso: in virtù di qualche bizzarro evento sensoriale ha luogo l'apparizione di forme e colori senza referenze materiali con l'esterno. La condizione progettata dalle due autrici facilita questo processo di conoscenza e consapevolezza, senza lasciare dubbi né altri interrogativi, se non il desiderio di documentarsi rispetto alle radici fisiologiche dell’esperimento. L’isolamento induce il fruitore a confrontarsi direttamente con la propria sfera immaginativa, annullando la distinzione prima sottolineata parlando del lavoro di Franke, tra

158 interno ed esterno, visibile e invisibile, consapevolezza e risposta percettiva incondizionata.41 L'oggetto cinetico luminoso attiva quindi un processo individuale e solipsistico, in cui il singolo si trova immerso in un sistema di feedback tra stimolo luminoso e esternazione della sua sfera endogena, che diventa oggetto e spazio percettivo. I tre minuti della sequenza luminosa rappresentano, a differenza di molte altre opere portate ad esempio dell'applicazione del flicker nell'arte contemporanea, un percorso in una dimensione strettamente soggettiva. “Un’oggettività endogena centrata sul soggetto è sovrapposta alla tradizionale dimensione oggettiva esogena”, osserva Ulrich W. Thomale, ‘il caos microscopico determina nell’osservatore la trama del sogno.’42 A differenza della maggior parte delle opere di Franke, costruite a partire da spazi preesistenti (chiese, padiglioni, cupole, navate), luoghi che annullano e ridefiniscono la percezione e l'esperienza in forme di luce e ombra, in questo caso la luce è non luogo, non collocazione, introflessione o estroflessione assoluta del fruitore e con questa determina in toto l'opera in senso visivo. Il dispositivo che circonda il fruitore, il suo essere uno spazio intimo di comunicazione tra corpo di luce e corpo di carne, contribuisce a creare un’indeterminatezza spaziale simile ad un simulacro dello spazio, come nel caso della realtà virtuale, ma autogenerato dal soggetto. L'isolamento del fenomeno e della conseguente dimensione endogena dell'esperienza sono accentuati dal tipo di dispositivo progettato da Franke: l'oggetto luminoso delimita il campo esperienziale, stabilendo una prossimità assoluta con il corpo del fruitore, catalizzandone completamente l'attenzione. Il momento dell'opera non prevede, infatti, alcun altro condizionamento che lo stimolo luminoso e l'epifania visiva solipsistica. Questo tipo d’immersività instaura una relazione di continuità tra corpo del soggetto e apparato tecnologico che si spinge fino ad incorporare il fruitore e a rendere il suo sistema fisico e percettivo il vero medium di produzione dell'evento visivo. Elena Agudio, studiosa e curatrice dell'evento di presentazione del progetto a Venezia, evidenzia come Seeing with

41 Ulrich W. Thomale, nel corso di una presentazione del progetto presso il Deutsche Guggenheim di Berlino, Marzo 2012. 42 Idem.

159 the eyes closed realizzi, attraverso una pratica ibrida tra set sperimentale ed esperienza estetica, il concetto di forma visiva come accadimento delineato da Hans Belting e dal suo approccio iconologico all'immagine tecnologizzata: il dato visivo non ha alcuna esistenza autonoma di senso, assume significanza di esperienza solo a partire da un processo performativo che coinvolge, in un dualismo inscindibile, corpo e medium tecnologico.43Rispetto alla performance dell'evento visivo, l'installazione determina questa simbiosi e la possibilità che l'evento accada, ma solo in potenza. Infatti, come per la Dream Machine, la macchina non è in realtà l'opera ma un tramite per l'esperienza, vero punto di contatto tra scienziato e artista. A confermare che l'esperienza del pubblico è il punto d’incontro tra Franke e Momennejad vi è la pratica di racconto di ciascun partecipante, invitato, in seguito alla presentazione del progetto e dell'installazione a Venezia, a documentare il vissuto percettivo, anche in forma di disegno. Se l'esperienza percettiva e l'epifania visiva sono punto di partenza e risultante del percorso di studio comune che conduce le autrici alla tappa rappresentata dall'opera, gli sviluppi successivi, legati alle forme di racconto e alle riflessioni fatte a partire da quella esperienza, appare come una non completa realizzazione dei presupposti dichiarati. Il progetto, infatti, viene presentato come momento non solo di confronto tra i due ambiti di riferimento delle due autrici ma anche come percorso comune che, traendo linfa da queste differenze, sia in grado di elaborare una metodologia integrata. Nell'interpretazione dell'esperienza e sulle ragioni della sua centralità, Franke e Momennejad denotano una differenza che riconduce il lavoro al punto d’inizio senza che l’ibridazione abbia permesso di maturare un’effettiva crescita nelle due aree di studio: la raccolta delle singole esperienze è per Momennejad un dato quantitativo da interpretare attraverso strumenti di analisi statistica, allo scopo di individuare ricorrenze e strutture stabili, pur nell'ambiguità e indeterminatezza dell'esperienza individuale. In modo diametralmente opposto, per Franke, Seeing with the Eeyes Closed è un campo entro il quale stabilire forme di esperienza di volta in volta nuove, occasione per guardare, in continuità con la sua produzione, alla singolarità e variabilità di ciascun evento visivo nel vissuto

43 Belting H., 2005, pp. 302-319.

160 percettivo e irrappresentabile di ogni singolo fruitore. Mentre Momennejad cerca conclusioni e risposte a quesiti generali sulla relazione tra cervello, corpo e fenomenologia del flicker, Franke pone interrogativi insoluti. Questa polarità, senza dubbio interlocutoria, non toglie forza al progetto ma spinge a riqualificare l'incontro tra i due ambiti di riferimento come due sguardi distinti su uno stesso fenomeno, in grado di intessere traiettorie comuni e complementari ma senza raggiungere una reale integrazione. Allo stesso tempo la fase di racconto del pubblico rappresenta un aspetto non risolto del progetto e dell'interazione tra metodologia scientifica e pratica artistica, in quanto il materiale ricavato è ritenuto significativo unicamente sul piano scientifico, mentre l’artista non propone alcuna lettura né valenza sul punto di vista sull’opera offerto dal pubblico, né nei termini di pratica documentativa sperimentale né come spunto per evoluzioni successive della propria produzione. In questo modo l'installazione rischia di oltrepassare le specifiche aree di pertinenza, esistenti per quanto sfumate, tra opera e test sperimentale e di caratterizzare l’installazione come momento empirico strumentale ai fini della ricerca scientifica.

3.3.2 | Chris Salter, Tez, David Howes: Displace (2011-2012)

Un ambito di studi relativamente recente che sta aprendosi a possibili contaminazioni con l'arte e il media design, è quello dell'antropologia dei sensi, una branca delle scienze sociali che indaga le modalità attraverso le quali percezioni e sensazioni sono distinte, classificate e messe in relazione in differenti culture e periodi storici.44 In particolare, le ricerche e i contributi di David Howes, docente di Antropologia presso la Concordia University di Montreal e direttore, nella stessa università, del Concordia Sensoria Research Team (CONSERT), conciliano la ricerca mediale e sensoriale alla base di molte opere di media art, con studi recenti nel campo delle neuroscienze. Howes, infatti, attraverso una serie di metodologie interdisciplinari, interpreta i meccanismi della multisensory integration, cui si è fatto riferimento nel capitolo II, in chiave antropologica e sociale: pur riconoscendone la base fisiologica, lo studioso ritiene che una parte delle origini di

44 Howes D., 2006, 2004; 2003; 1996.

161 tali meccanismi, provengano da processi di apprendimento, condizionamento culturale ed educazione ai sensi legati a particolari contesti storici e sociali. Una posizione che deriva da uno studio comparato tra culture occidentali e non, rispetto ai domini del sensoriale. Secondo, Howes in Occidente, a partire dal Settecento, si osserva una progressiva separazione e astrazione dei canali sensori e delle sensazioni ad essi attribuite. Per lo studioso il rinnovato interesse da parte di molta arte mediale per la questione percettiva, la tendenza a concepire l'opera come campo di relazione tra le sensazioni, rappresentano un 'laboratorio' fertile entro il quale stabilire una riflessione sull'esperienza percettiva che coinvolga più ambiti disciplinari. Da queste premesse e dalla collaborazione con Chris Salter, nasce 'Mediations of Sensations: Sensory Anthropology and the Creation/Evaluation of Multimodal Interactive Environments', un programma di ricerca della durata di tre anni, finanziato dal FQRSC – Fondo di ricerca sociale e culturale del governo del Quebéc, finalizzato alla creazione di una serie di progetti artistici, seminari e momenti di confronto tra le pratiche dell'arte e del media design contemporaneo e le metodologie di ricerca avanzata proprie dell'antropologia culturale. Il progetto coinvolge l'Hexagram Concordia's LabXmodal, laboratorio fondato e diretto da Salter e dedicato alla ricerca, lo sviluppo e la creazione di ambienti performativi multimediali e il CONSERT - Concordia Sensory Research Team, diretto da Howes. Chris Salter è un media artist e docente in Media Design e Computational Art presso la Concordia University. Le sue ricerche sono dedicate allo studio delle relazioni percettive, stabilite attraverso sistemi generativi e interattivi, all'interno di opere ambientali audiovisive. 'Mediations of Sensations', accanto ad una prima fase di studio teorico e di ricognizione dello stato dell'arte sulle interazioni percettive in diversi contesti sociali e storici, si concentra sulla progettazione e realizzazione di prototipi sperimentali di ambienti immersivi, basati su diversi meccanismi sensoriali, mappati in tassonomie dal gruppo di ricerca del CONSERT e corrispondenti per la maggior parte a pratiche rituali in culture tradizionali. Il principale risultato di quest'area del programma è Displace (2011), installazione multimediale e insieme progetto di studio, formazione e disseminazione sulla percezione, suddiviso in quattro fasi.45

45 Presentazione del progetto tenuta da Salter presso il MEDEA, centro per la new media

162 La prima, iniziata nel 2010, ha carattere marcatamente teorico e metodologico e coinvolge principalmente Salter, Howes e un gruppo di antropologi e ricercatori in campo etnografico. Da una ricognizione dello stato dell'arte nell'antropologia dei sensi, viene tratta una tassonomia di casi e metodi di stimolazione sensoria, del loro significato all'interno dell'esperienza quotidiana individuale e collettiva e del loro valore simbolico e religioso. Dal punto di vista artistico, questa fase permette di isolare alcuni meccanismi cross-modali, alla base dei riti tradizionali, e di evidenziare il comune e ricorrente carattere comunitario dell'esperienza. A partire dall'individuazione di alcuni elementi fondamentali, il passaggio successivo consiste nello studio di modalità grazie alle quali trasporre alcune delle stimolazioni sensoriali osservate e il senso collettivo dell'esperienza in un'ambiente multimediale e in una pratica estetica, sottraendone il portato simbolico, componente dell'esperienza situata e strettamente connessa con le specificità culturali, storiche e sociali non riproducibili, imprescindibili dalla specificità del luogo, dalla popolazione e dal momento storico. Nella seconda fase, avviene la trasposizione di quanto osservato e isolato in ambito antropologico, in una pratica di sperimentazione su differenti dispositivi e allestimenti, utili ad attivare processi di commistione tra sensi. A condurre il progetto con Salter, anche Maurizio Martinucci, in arte Tez, media artist italiano, di base ad Amsterdam, dove ha fondato nel 2009 l'Optofonica Media lab, laboratorio di sperimentazione su media sinestetici e sound spazialization. Parte della sua ricerca è dedicata in particolare alle proprietà della luce, alla stroboscopia e alle possibili relazioni percettive tra luce pulsante e onde binaurali. Da questi studi proviene, ad esempio, il live audiovisivo in real time PV868 (2008), direttamente ispirato alla Dream Machine di Brion Gysin.46 I due autori coinvolgono, inoltre, una serie di ricercatori, artisti e designer provenienti da campi molto eterogenei 47 – media artist e media designer,

art della Malmo University, Svezia, ottobre 2012, http://medea.mah.se/2012/10/medea-talks presents- chris-salter/, ultimo accesso 4 aprile 2013. Cfr. anche Bertolotti S., 2013. 46 La citazione è esplicita: PV868 è il numero di registrazione del brevetto della Dream Machine. 47 Il gruppo di lavoro comprende: Chris Salter, TeZ, direttori artistici; Harry Smoak light design; Caro Verbeek e Jorg Hempenius, olfactory design; David Szanto, gustatory design; Yolanda van Ede, interviste; Jonathan Reus, sound design; Bram Giebels, direzione tecnica.

163 antropologi, gastronomic designers, storici dell'arte specializzati in relazioni tra arte e sensi. Il team così composto realizza una serie di test su oggetti mediali, allestimenti, sintesi di sostanze edibili e odori, sistemi di luci, di raffreddamento e riscaldamento, indirizzate alla creazione di stimoli afferenti a categorie sensoriali molto al di là della categorizzazione in cinque canali. Vengono prese in considerazione, ad esempio, sensazioni ibride, non localizzabili in alcun specifico canale percettivo, quali: le percezioni dolorose e viscerali, che in parte richiamano una dimensione quasi aptica ma introiettiva; la propriocezione, che regola la consapevolezza della presenza del corpo nello spazio, determinando orientamento o disorientamento; la percezione del tempo, slegata e spesso molto diversa e soggettiva da quanto esperito attraverso strumenti di misurazione. Oltre alla qualità e tipologia di sensazioni viene messa a punto la loro progressione, il percorso esperienziale in forma di narrazione sensoria. Questa della modulazione delle sensazioni, la scrittura del percorso estetico in termini di partitura sensoriale è un modus operandi dei due autori che rimane un tratto costante del progetto, invariato nelle diverse versioni. Un primo esempio di ambiente è Atmosphere (2010), per il quale l'attenzione si concentra principalmente nella messa a punto di sistemi di luci, fumo e suono come dimensione architettonica entro la quale inserire altre commistioni sensorie. A seguito degli esperimenti condotti nel corso dell'anno precedente e dei vari prototipi installati in laboratorio, nel 2011 prende il via la terza fase, costituita dalla messa a punto di un ambiente performativo multisensoriale, intitolato anch'esso Displace, un percorso tra diversi ambienti, corrispondenti ad altrettante situazioni sensorie cross-modali. Una versione prototipale è presentata tra il 16 e il 20 novembre 2011, nel corso del meeting annuale dell'AAA – American Anthropological Association, presso la Concordia University di Montreal. Essa prevede un percorso della durata fissa di 45 minuti, scandito dal passaggio in tre diversi ambienti, basati sul rimescolamento di elementi olfattivi, gustativi, tattili, insieme ai più classici stimoli luminosi e sonori e a sensazioni di calore, propriocezione, equilibrio. L'intera esperienza ha una struttura estremamente controllata e scandita nettamente, costruita come simulazione di un'esperienza rituale: una prima parte presenta ciascuno stimolo in

164 modo isolato e definito, per evolvere progressivamente ad un apice, costituito da una sempre maggiore saturazione di input sensori e di fusione. Il pubblico, suddiviso in gruppi di sei persone, viene guidato per tutto lo svolgimento del percorso, predeterminato e controllato in ogni suo passaggio, da ricercatori del programma 'Mediations of Sensations'. La guida conduce il gruppo negli spazi e fornisce indicazioni sulle azioni da compiere unicamente in forma non verbale, solo attraverso il tocco o il movimento. Prima dell'ingresso, ciascun partecipante è messo al corrente del rischio di crisi epilettiche in soggetti fotosensibili o di reazioni allergiche a cibi o bevande.48 Questa procedura, motivata da ragioni di carattere legale, ha comunque una conseguenza sul setting esperienziale, in quanto, lascia intuire alcuni elementi dell'esperienza che ci sia accinge a sperimentare.

Il percorso inizia con l'ingresso del gruppo in una black box silenziosa, che permette di percepire, in maniera sempre più netta, una serie di odori e profumi, tentando il riconoscimento nel buio di diversi stimoli olfattivi e la loro localizzazione. La fonte è un tavolo circolare sulla cui superficie illuminata sono disposti sei contenitori, con liquidi di diverso colore, odore e sapore. Disposto in cerchio, il gruppo viene invitato all'assaggio: questo momento, oltre alla specifica esperienza sensoriale per ciascun soggetto, è rilevante in quanto spinge i singoli individui a sviluppare una dinamica di gruppo – decidere ad esempio se e come condividere l'assaggio. La configurazione 'collettiva' viene però dispersa poco dopo: l'ambiente successivo è, infatti, uno stretto corridoio, che costringe al passaggio di una sola persona alla volta. Il tunnel conduce in un ampia sala, sempre immersa nel nero, velata di fumo. Al centro, una struttura di tubi luminosi di colore variabile, pendente dal soffitto, disegna a mezz'aria uno spazio esagonale. Al di sotto, una pedana, anch'essa esagonale, con sei postazioni. Quando tutti i componenti raggiungono la sala e trovano posto uno accanto all'altro, prende il via un live di suoni elettronici sincronizzati al movimento delle luci che riconfigurano lo spazio, interrompendo la continuità della forma geometrica e determinando una serie di ritmiche circolari intorno al pubblico. Una breve parte introduttiva è

48 Ogni persona firma una liberatoria in cui solleva gli organizzatori di qualsiasi responsabilità.

165 giocata sulla lenta progressione cromatica, sulla variazione d’intensità luminosa e su microsuoni lasciati decantare in strati di riverberi, a suggerire una dilatazione imponderabile dello spazio intorno al gruppo. L’impressione di ‘implosione spaziale’ e solidità tattile del ritmo è intensificata dal suono, stratificato in profondi tappeti di droni, riverberati dalla superficie della piattaforma. Nel bel mezzo di questa esperienza, al gruppo viene offerto un test gustativo in forma di piccoli esagoni di agar, un materiale edibile gelatinoso utilizzato per la coltura di batteri o altri microelementi organici, con un particolare effetto gustativo che sembra accompagnare la densità audiovisiva circostante: inizialmente dolce, si diffonde pungente in tutta la bocca anestetizzandola. Il continuo stream stroboscopico che pervade l’ambiente sostiene l’esperienza di ciascun senso coinvolto e amplifica l’impatto delle sensazioni, creando una condizione di maggiore apertura e ricettività sensoriale. Il buio scandisce la fine della sessione di flicker, sfumando in una quiete di suoni liquidi e rarefatti; lo spazio intorno all'esagono si 'apre' allo sguardo, scandito da sei colonne dondolanti dal soffitto e illuminate da altrettanti fasci di luce. La guida invita il gruppo a muoversi cercando un equilibrio tra le colonne e lo conduce verso una scalinata, sempre poco illuminata ma decisamente meno satura di stimoli. Di lì, una stanza asettica lascia intuire la fine del percorso: di lì a poco David Howes fa accomodare i partecipanti e offre loro una bevanda acidula che lenisce l'intensità percettiva dell'esperienza e li riporta ad uno stato di lucidità per la fase successiva. Howes chiede infatti di verbalizzare l'esperienza appena vissuta e di discuterla collettivamente. Dalla presentazione durante il meeting dell'AAA sono state ricavate circa 120 ore di registrazioni realizzate da Howes e dall'etnografa Yolanda van Ede, punto di partenza per progetti di disseminazione dei risultati, quarta e ultima fase del programma Displace sia per quanto riguarda gli aspetti antropologici che artistici.49 Nel quadro più ampio delle proprie ricerche, Howes inquadra l'installazione come uno strumento per la simulazione artificiale di un'esperienza antropologica, finalizzato a conseguire, nella fase d’intervista, dati qualitativi sulle reazioni di gruppi di soggetti inseriti in un ambiente immersivo e cross-sensoriale. L'ambiente

49 Essa prevede al momento: l'uscita di un articolo di Howes che intende analizzare le sue teorie sulle sensazioni cross-modali a partire dai dati raccolti in Displace; un saggio di Chris Salter per l'MIT press, in preparazione.

166 progettato è quindi un primo prototipo di dispositivo per la formazione di studenti e ricercatori nel campo dell'antropologia dei sensi: un campo di verifica empirica e in vivo che permette di isolare l'osservazione di particolari fenomeni sensori, complementare all'esperienza sul campo. Per Salter e Tez, questa prima versione e il database d’interviste conseguente, rappresentano invece una fonte dalla quale interrogarsi per progettare un secondo tipo di percorso e una seconda versione degli ambienti, destinato a contesti e pubblici non strettamente connotati in senso accademico e antropologico. Dai racconti contenuti nelle interviste, in particolare, emerge un punto problematico, rappresentato dalla rigida regolazione dell'esperienza, dalla non autonomia di movimento, il sentirsi sottoposti ad un controllo, elementi di disturbo, secondo molti dei partecipanti, per una vera metabolizzazione dell'esperienza. Inoltre, il tempo ravvicinato di fruizione e verbalizzazione collettiva, crea una frattura e determina paradossalmente un effetto inverso: una non completa fissazione dal punto di vista fisico e percettivo di quanto vissuto. Nel 2012 questo nucleo di riflessioni indirizza in parte il lavoro sulla nuova versione, Displace 2.0, considerata anch'essa dagli autori come attività di disseminazione dei risultati artistici del progetto e presentata all'interno del Todaysart Festival di Den Haag, in Olanda. Nella seconda versione, il pubblico è lasciato libero di costruire il proprio percorso e di fruire ciascun ambiente senza alcuna delimitazione temporale né di coordinamento con il gruppo.50 Un secondo aspetto è legato al contesto e al luogo di presentazione del lavoro. La variazione di questi due elementi fondanti, il passaggio da setting esperienziale controllato a processo autonomo di ricerca e costruzione del proprio percorso, nonché la differenziazione della tipologia di pubblico e la riprogettazione del lavoro in base alla realtà ospitante, rendono le due versioni di Displace un modello sperimentale interessante per possibili metodologie di ricerca interdisciplinare, in particolare per la capacità di massimizzare punti e momenti di contatto tra ricerca antropologica e

50 Rispetto al percorso della versione precedente viene mantenuta la sala esagonale e vengono rielaborati gli ambienti di ingresso ed uscita. Ad esempio, viene aggiunto un corridoio stroboscopico nel quale il pubblico è invitato a camminare a piedi nudi su una superficie di cristalli che creano un sistema di riflessione e moltiplicazione dei flash luminosi, influendo sull’equilibrio e sui riferimenti propriocettivi del fruitore.

167 artistica. L'opera si pone quindi l'obbiettivo di sviluppare successivi percorsi autonomi, in grado di garantire un coerenza nella prospettiva generale delle rispettive aree disciplinari.

168

CAPITOLO 4 La stroboscopia nelle ricerche di Kurt Hentschläger

169

170 4.1 | Un percorso nella produzione dell’autore

Il capitolo costituisce un case study sul lavoro dell'artista austriaco Kurt Hentschläger, a partire da una ricognizione storica dei tratti salienti del suo iter artistico e proseguendo con un approfondimento di due progetti FEED (2005)1 e ZEE (2008),2 considerati come due configurazioni successive dello stesso nucleo di ricerca sull'esperienza del flicker e sull'elaborazione di una personale poetica dello spazio. Si tratta, rispettivamente, di un’opera performativa in real time e di un’installazione, che hanno ricevuto ampio riscontro nel mondo della media art e dell’arte contemporanea, riuscendo a collocarsi in contesti differenti di produzione e distribuzione (gallerie, musei, festival di arti elettroniche e arti performative).3

1 Realizzato per la prima volta in occasione del Festival Internazionale del Teatro di Venezia del 2005 e supportata dal fondo per l'arte del Bundeskanzleramt (Cancelleria Federale) del governo austriaco, e dal Dipartimento Cultura del Land Oberoesterreich, Austria. 2 Presentato in anteprima presso l'OK-Center di , Austria, coprodotto dal centro e dalla Wood Street Gallery di Pittsburgh, USA, con il supporto del BMUKK – Ministero dell'Istruzione, l'Arte e la Cultura del governo austriaco. 3 Il duo ha preso parte a festival e manifestazioni internazionali, quali: Exit Festival di Parigi (2004,2000),l’Austrian Cultural Forum di New York (2003, 2002), Elekra Festival di Montreal (2003, 2000,1999), Biennale di Venezia (2001), Ars Electronica a Linz (1998, 1995), DEAF di Rotterdam (1995). I loro lavori sono stati ospitati da musei, gallerie e centri d’arte quali: Kunsthalle di Vienna (2009), Tel Aviv Museum of Art (2009), Museum for Contemporary Arts di Taipei (2006), The Center for Art and Visual Culture di Baltimora (2006), Eyebeam, New York (2005), galleria Lia Rumma di Milano (2003), Wood Street Gallery Pittsburgh (2000), PS1 di New York (2000), Musée d'Art Contemporain di Montreal (1999), ZKM di Karlsruhe, MAK di Vienna (1995, 1998), Stedelijk Museum di Amsterdam (1998), Museum of Contemporary Art di Seul (1998). Hanno ricevuto nel 1993 il Premio Federale del governo austriaco per la media art, e il Grand Prix ARTEC ’95, della IV Biennale Internazionale di , nel 1995. Nonostante la rilevanza dei Granular Synthesis la rassegna bibliografica dei contributi monografici in lingua inglese è purtroppo ancora esigua. Essa comprende alcuni cataloghi - cfr. Granular Synthesis, Noever P.,1998; Granular Synthesis, 2001 – e due edizioni in DVD – cfr. INDEX, 2005; Granular Synthesis/ZKM, 2003. Per quanto riguarda il lavoro solista di Hentschläger, non è stato al momento analizzato edizioni o cataloghi monografici. La rassegna bibliografica si limita quindi ad interviste, recensioni e articoli, insieme ad alcuni contributi all’interno di cataloghi collettivi.

171 Delineare questa traiettoria specifica all'interno della produzione di Hentschläger permette di ricongiungere molti degli elementi e delle problematicheevidenziate nel corso della ricerca e fornisce, inoltre, occasione per ridiscuterli alla luce della loro concretizzazione in forma di progetto e ricerca autoriale. Il case study è sviluppato a partire da un excursus di carattere storico, nel quale si ripercorre la formazione e l'intera carriera di Hentschläger, sia in quanto membro del duo Granular Synthesis – dal 1991 al 2003, sia nel periodo successivo, come singolo autore. Questa ricognizione, oltre a fornire una panoramica estesa di carattere storiografico, lascia emergere alcuni nodi tematici ricorrenti, che permettono di rintracciare una costanza nell'evoluzione della sua produzione. Tra questi, anzitutto, il tema del corpo e dei meccanismi percettivi che si generano da esso e in esso s’inscrivono. Un secondo aspetto è quello della poetica spaziale, strettamente connesso al primo. In linea con il panorama dell’audiovisivo espanso, molta della produzione di Hentschläger è finalizzata all’elaborazione di differenti paradigmi di spazio. Temi che trovano piena espressione attraverso i modi fenomenologici del flicker, matrice comune delle opere FEED e ZEE, analizzate nel paragrafo centrale. L’importanza del momento esperienziale e la centralità del fruitore, conducono il discorso, in chiusura del capitolo, a questioni legate allo statuto di documento e ad ipotesi di possibili pratiche documentali specifiche per questo tipo di pratiche. In virtù del carattere effimero delle opere in esame, alcuni collaboratori, in accordo con l’autore, hanno realizzato un 'prototipo sperimentale' di video documentazione a partire dal racconto dell’esperienza del pubblico in forma di interviste. Questo caso particolare è introdotto da una panoramica, che non ha alcuna pretesa di essere esaustiva, sulla questione dell’esperienza e dell’inclusione del punto di vista dell’audience nella prassi documentale. In questa direzione, vengono considerati alcuni studi che si stanno concentrando sulla problematicità del ruolo del pubblico e su possibili tecniche sperimentali di intervista al fruitore come metodo di incusione nel processo documentale.

172 4.1.1 | Una ricognizione per temi nell’opera di Granular Synthesis

Dopo gli studi in architettura e visual media design, Kurt Hentschläger inizia la sua carriera nel 1983, esponendo in area viennese oggetti meccanici ottico- visivi e dedicandosi, in seguito, a forme time-based, principalmente video e animazione digitale. Sul finire degli anni Ottanta è membro di Pyramedia, un collettivo multidisciplinare, attivo a Vienna dal 1989 al 1992, fondato dall’autore, insieme a: Bruno Klomfar, Ulf Langheirich, Gebhard Sengmüller e Petra Rosa Suess. Il gruppo, che si definisce ‘laboratorio di arte mediale ed elettronica,’ declinata in differenti forme - video analogico, installazione, fotografia, performance multimediali, progetti di telecomunicazione - è attivo anche nella produzione e nell’organizzazione di eventi sperimentali. A partire da questo periodo, la carriera artistica di Hentschläger incontra quella di Ulf Langheinrich, artista visivo, fotografo e musicista originario della Germania Est, di base nella capitale austriaca dal 1988, dove inizia presto ad esporre opere pittoriche e disegni, produrre colonne sonore per cinema e teatro, nonché concerti sperimentali per Kunstradio. La collaborazione tra Hentschläger e Langheirich prosegue nel 1991 con la fondazione del duo Granular Synthesis: un progetto che determina un legame tra i due autori che si protrae ben oltre la durata effettiva del loro connubio, terminato nel 2003, sia perché le esperienze maturate in questi dieci anni costituiscono la matrice per le successive ricerche soliste di entrambi ma anche perché Granular Synthesis rappresenta uno dei nomi di riferimento per la scena del live media. Il trattamento parcellizzato del dato audiovisivo e la produzione di dispositivi spaziali progressivamente sempre più immersivi, sono i principali elementi della loro produzione. Uno stile i cui presupposti sono fissati fin da Piranha, primo lavoro realizzato nel 1991, a cavallo tra la conclusione dell’esperienza di Pyramedia e l’inizio di Granular Synthesis. Si tratta di un breve video presentato lo stesso anno all’interno di una mostra collettiva presso il Kampnagel KX di Amburgo. Gli autori utilizzano immagini di footage tratte dal B-Movie Piranha (1978), nelle quali l’attacco dei piranha è reso attraverso inquadrature subacquee, strette sul corpo della persona divorata. Il

173 climax dell’estratto è rielaborato attraverso la frammentazione e ricomposizione sincopata delle immagini di viso, tronco e arti della vittima, determinando un inasprimento del senso di ansietà già presente nel sample. Allo stesso tempo, l’esplosione del montaggio e la lacerazione del flusso di immagini in pulviscoli di millisecondi, è un processo metaforico del processo di violenta disgregazione del corpo raffigurato attuato sul corpo della materia audiovisiva.4 La tecnica di montaggio stroboscopico, già analizzata e descritta nel corso del capitolo precedente, è definita dal duo come montaggio di re-synthesis, ad indicare come il processo di rielaborazione constante dello stream di materiali video preesistenti rappresenti non solo una tecnica di editing ma un processo ricorsivo di sintesi e quindi attribuzione di nuova natura ai materiali utilizzati. Tale effetto è ottenuto, dal 1997 circa, principalmente grazie al Vcode9 – un sampler software che da due sorgenti video PAL parallele produce un flusso unico e sincopato, permettendo di ri-elaborare lo scorrimento temporale del dato audiovisivo.5 Lo strumento lavora intersecando i due stream – sia audio che video – e interpolando singoli frame bianchi e neri. Come racconta l’artista:

Questo ci ha aperto le porte del paradiso del flicker. Il software che abbiamo sviluppato e programmato rappresenta anche uno strumento audiovisivo real time, che può essere cioè suonato come un dispositivo musicale, in modo performativo, improvvisato. Allo stesso tempo consente di essere controllato attraverso una partitura compositiva estremamente preciso. Lo abbiamo impiegato sia in istallazioni che in live performance. Non avevamo più bisogno di procedere con un meticoloso lavoro di montaggio frame by frame, avevamo un modo molto più intuitivo di accedere al materiale video.6

Il metodo messo a punto permette di lavorare, sia dal vivo che in studio, in modo chirurgico sul materiale preesistente – in genere realizzato appositamente dagli autori – nel quale l’intermittenza è atto di discretizzazione della materia

4 Sherman T., The development and applications of a perpetual moment machine, in Granular Synthesis, (a cura di), 1998, pp. 29-39.

5 McLean B., FEED, Journal Seamus, vol. 19, n.2, 2008, pp. 26-7 6 Cfr. Intervista con l’artista in appendice.

174 fluida del video digitale, ricavare monadi a partire dalla compattezza che caratterizza la forma elettronica, pur nella sua immaterialità. Come per gli autori di flicker film, basti pensare a Kubelka e all'insistenza sul fotogramma come particella elementare del linguaggio cinematografico, anche i Granular Synthesis lavorano su elementi discreti ma in scala microscopica.

L’insistenza sul trattamento temporale e metrico avvicina le loro ricerche a quelle di alcuni filmmaker austriaci con i quali condividono coincidenze cronologiche e geografiche, quali ad esempio Martin Arnold o Peter Tscherkassky.7 Va detto che questi punti di contatto, come pure quelli esistenti con altri momenti della storia dell'audiovisivo, possono essere individuati solo ampliando il punto di vista tanto da includerli in una prospettiva storica e contemporanea più vasta di quanto venga fatto comunemente dagli studi di media art; al tempo stesso questi riferimenti non sono mai evidenziati direttamente dai due autori, né sono sufficienti ad attenuare la portata originale e le specificità della loro prassi estetica, fortemente radicate nella matrice digitale della materia audiovisiva e del processo attuato nella sua trasformazione. Una differenza di base, in particolare rispetto al cinema strutturalista, sta nel ruolo del flicker nel processo di analisi della materia audiovisiva: nel film il flicker è agito per manomettere l'illusione di continuità e rivelare la natura discreta della pellicola e del tempo filmico convenzionale, formato da moduli isolati di per sé e che la differente temporalizzazione rende fenomeno continuo; i Granular Synthesis partono invece da un flusso unico immateriale e continuo, il segnale video digitale, nel quale il flicker genera una discretizzazione. Ciò che il flicker rivela in questo caso non è la struttura intrinseca della materia ma la sua proprietà potenziale, cioè è la mutevolezza della codifica e la possibilità di attuare tale trasformazione in vivo e ricorsivamente. Un precedente storico dell’utilizzo della stroboscopia come organizzazione di un flusso immateriale nel tempo è rintracciabile piuttosto nelle ricerche dei Vasulkas, pionieri nella storia della media art audiovisiva. Come per i Granular Syntesis, anche nel loro caso si evidenzia un lavoro sul dispositivo tecnologico, in questo caso analogico, che permette di

7 Per una ricognizione esaustiva dei principali autori del cinema sperimentale austriaco, sia storici che contemporanei cfr. Tscherkassky P., 2012.

175 intervenire nel dominio dell’immateriale, di scomporlo e ricomporlo in altra forma dalla natura ritmica. Anche i Vasulkas, infatti, elaborano un’apparecchiatura che permette di interpolare due sorgenti video, il Field Flip/Flop Switcher, uno dei primi prototipi di videosequencer8 impiegato in particolare in Noisefield (1974). Malgrado il funzionamento letterale dei due strumenti non sia assimilabile - il Field Flip/Flop permette un passaggio repentino tra due flussi ma non la loro interpolazione in microelementi discreti, caratteristica invece del funzionamento del software Vcode9 – si può osservare una similitudine nei due processi attuati, che vedono entrambi una discretizzazione a partire da una materia che è flusso immateriale e invisibile: flusso di pura energia elettrica nel caso dei Vasulka - gli elettroni del segnale video analogico -, flusso di stringhe di informazioni tradotte in impulsi elettrici, nel caso dei Granular Synthesis.9 In entrambi, la sperimentazione e l’impiego del dispositivo tecnologico, permette di tradurre l’immaterialità e darle forma percettibile.10 Nel paragrafo dedicato all’installazione NoiseGate-M6 (1998) è stata affrontata la distinzione tra i due momenti della produzione del duo austriaco. Procederemo quindi ripercorrendo alcune delle opere rappresentative seguendo tale biforcazione, del tutto artificiosa e a posteriori, ma utile guida per attraversare complessivamente il loro lavoro. La prima fase, ricordiamo, vede protagonista il corpo rappresentato nella sua forma iconica, nella quale s’inscrive l’atto decostruttivo stroboscopico, tendente all’astrazione. A sua volta, questa trasformazione alchemica dalla materia alla non materia, attiva un processo di rispecchiamento e un meccanismo di feedback tra corpo mostrato e corpo del fruitore. Corpo che è espressione e metafora incarnata di una condizione della soggettività, presentato secondo due modi specifici:

8 Progettato nel 1974 da George Brown in collaborazione con i due autori. Cfr. Gazzano M. M., Sulle tracce del fuoco degli dei, in M. M. Gazzano, (a cura di), M. M. Gazzano, (a cura di), Steina e Woody Vasulka. Video, media e nuove immagini nell’arte contemporanea, Edizioni Fahrenheit 451, Roma, 1995. 9 Spiegl A., Frankensteintechnodrug – Mythos Information. Welcome To The Wired World, Gerbel K, Weibel P., (a cura di), 1995, pp. 380-383. 10 Cfr. Forest F., 2006.

176 - sineddotico: nel quale l’individuo è presentato attraverso la sola testa, ad indicare la sede identitaria del soggetto, riferendosi al forte valore simbolico che questa parte riveste nella relazione tra essere umano e mondo, come di nucleo nevralgico della vista e dell’udito, della cognizione e della parola; - de-soggettivizzato: come insieme di arti, tronco acefalo privo di testa e di espressione.

Questi due modalità rispecchiano la storica dicotomia tra mente e corpo, pensiero e sensibilità, presente nelle culture occidentali, storicamente radicata e che la condizione di vita contemporanea spesso estremizza ulteriormente. 11 La riduzione sineddotica è caratteristica ad esempio di Modell 3 (1992- 93),12 perfomance a quattro canali video che inaugura lo stile Granular Synthesis, dopo il meno noto Piranha, e rende la trasformazione del corpo un atto estemporaneo dis-funzionale, in termini di spazio e tempo, sottraendo al fruitore l’esperienza diretta del tempo reale: i quattro schermi posti di fronte al pubblico mostrano la destrutturazione delle riprese video del performer Michael Kramer, effettuare in real time in una stanza attigua. Uno stretto primo piano moltiplicato caratterizza Modell 5 (1994-95),13 nel quale il senso di alienazione è articolato in una gamma amplificata di valori e frequenze di flicker, determinando un crescendo di violenza della pulsazione che è percussione invasiva e precisione chirurgica insieme: il viso della performer Akemi Takeya è trasfigurato, oltre l’umano, maschera in costante mutazione. Il suono è anch’esso carne lacerata, progressiva possessione dell’umano da parte del tecnologico, escrescenza che dall’organico mutato in macchina. Il clima di costrizione del corpo è intensificato da un tempo ricorsivo, basato sulla circolarità ossessiva del loop sonoro. Anche la struttura della

11 Ad esempio, nota l’artista, nella condizione spesso schizofrenica del nostro quotidiano per cui trascorriamo lunga parte delle nostre giornate di fronte ad uno schermo, in uno stato di completa sottrazione della complessità di funzioni del corpo nello spazio, per poi scaricare in tempi compressi sole attività del corpo in quanto involucro, come il culto dell’attività ginnica e della cura estetizzante della forma, alle quali la dimensione mentale resta estranea. Kurt Hentschläger, in Borş S., Sensory Geographies. A Conversation with Kurt Hentschläger, 2013. 12 Prodotto da PYRAMEDIA, con il supporto del Ministero per l’istruzione e l’arte del governo austriaco/ WUK-Werkstätten and Kulturhaus. 13 Commissionato dall’HTBA (Hull Time Based Arts) di Hull, Inghilterra e coprodotto da PYRAMEDIA, Fischer Film, Vienna, e Medienwerkstatt, Vienna.

177 componente audio è basata, infatti, sulla ripetizione martellante e violenta del sample, ridotto a microbattito penetrante, come in Sweetheart (1997),14 in cui gli echi della voce di Takeya rompono per pochi istanti il ronzio, passeggera emersione di una traccia di naturalità. Nella loro prima produzione un solo lavoro presenta il corpo come anatomia acefala. Si tratta di We Want God Now (1996),15 video installazione monoschermo che proietta l’inquadratura fissa sul tronco del performer: il movimento del protagonista senza volto è condizionato dalle limitazioni del quadro, racconta, nella frammentazione del flicker, la costrizione del corpo, che si percuote in un moto quasi involontario contro i confini dello schermo. Il nucleo tematico del lavoro è quindi rappresentato dalla relazione con lo spazio e il riferimento alla bidimensionalità e alla strettezza della cornice. In questo caso è esperita e sofferta dal corpo del performer che sembra tentare fughe irrefrenabili dal margine, tentativi rispetto ai quali la ripetizione del loop amplifica la mancanza di vie d’uscita. Oltre che dall’inquadratura, l’ingabbiamento del corpo - espresso dal soggetto nel video ma metaforico della condizione del fruitore - è reso anche dalla moltiplicazione degli schermi frontali, presente ad esempio nelle opere sopracitate, Modell 3 e Modell 5. La bidimensionalità del polittico e la costrizione del perimetro del quadro intorno a ciascuno schermo, mostra come la ripetizione del singolo modulo non costituisca una liberazione dell’immagine nello spazio ma unicamente la ripetizione ossessiva della stessa ontologica limitatezza. Il multischermo non ha, quindi, funzione illusoria di espansione quanto di verifica empirica di una frustrazione: non è la ripetizione delle superfici a consentire la via d’uscita dalla cornice e il presupposto di uno spazio dell’immagine ampificato e diffuso. Un’osservazione che è possibile desumere da questo corpus di lavori e che è quasi – per sottrazione – una dichiarazione della poetica ambientale caratteristica della fase successiva del lavoro di Granular Synthesis, nella quale lo schermo è trasformato da superficie bidimensionale a una tra le componenti di orchestrazione

14 Prodotto e commissionato da ORF, televisione nazionale austriaca (video PAL, colore, suono, 15’). 15 Progettato originariamente come parte di una performance della compagnia britannica MAN ACT, rielaborato originariamente come installazione monocanale basata su un video loop (video PAL, colore, sound, 60’). Commissionato da MAN ACT, Cardiff, Gran Bretagna, con il supporto di Werkleitzgesellschaft, Werkleitz, Germania. Performer: Michael Ashcroft. Riprese video: Roland Denning.

178 architettonica dell’ambiente.

Questa seconda parte, collocabile tra la fine degli anni Novanta e il 2003, si articola secondo alcune caratteristiche, spesso coincidenti e per nulla sequenziali. Anzitutto la prevalenza dell’astrazione sulla forma umana, che è sempre presente ma non nello schermo: l’attenzione si sposta, infatti, dal corpo nel video al corpo del fruitote nello spazio. Questo processo avviene in modo discontinuo: in molti lavori si trovano, come già visto per NoiseGate (1997-99), dei richiami a progetti della fase precedente, basati sulla forma iconica del corpo. I due autori mettono in atto, infatti, una sorta di costante riscrittura e al contempo analisi della propria produzione. Il riuso di materiali e la creazione di micro-cicli sono aspetti presenti anche nel lavoro di Hentschläger successivo a Granular Synthesis. Se la forma del corpo appare all’interno degli ultimi lavori, in linea con quanto visto nel caso di Noiesegate, lo fa non come presenza incarnata e in mutazione ma come spettrale. Un esempio sono le apparizioni fantasmagoriche del viso della cantante e performer Diamanda Galas nel live POL (1998-2000) 16 o nel caso dell’installazione video FORM (1999),17 che, a partire da campioni del video WWGN – We Want God Now, rielaborati fino a rendere il corpo del performer un perimetro bidimensionale in movimento, costruisce un dialogo pulsante tra forma e sfondo. Estratti dallo stesso video sono utilizzanti in altre opere a carattere immersivo e astratto, quali AREAL (1997) e SINKEN (1999). 18 Accanto alla tensione alla quasi astrazione, appaiono lavori di completo azzeramento della forma, puro flicker infinitesimale, che spesso corrispondono a campiture monocrome e che la pulsazione millimetrica rende texture animate, superfici vibranti amplificate nell’ambiente. Tra queste, l’installazione multicanale FELD (2000),19 prima opera interamente astratta di Granular Synthesis, viaggio

16 Commissionato e prodotto dall’Hull Time Based Arts di Hull, Gran Bretagna, coprodotto da Ars Electronica, Linz e ZKM, Karlsruhe, a cura di Mike Stubbs. Performer: Diamanda Galas. Riprese video: Florian Michel. Direttore della fotografia: Wolfgang Lehner. 17 Commissionato da Robert Lepage per Zulu Time, a cura di Robert Lepage e Richard Castelli (video PAL, colore, sound, 9’). 18 Il progetto prevede proiezioni video su doppio schermo, mentre la partitura musicale è eseguita dal vivo da un’orchestra. Commissionato da Art Zoyd e Orchestre National di Lille nell’ambito del programma Dangerous Visions. Curatori: Richard Castelli, Michel Des Borderies, Gérard Hourbette. 19 L’installazione prevede quattro proiezioni da DVD (video PAL, colore, sound, 35’).

179 percettivo intenso, forse l’esempio di flicker più vicino ai lavori successivi di sola luce di Hentschläger.

Insieme all’astrazione, un secondo aspetto che identifica la seconda fase è la progettazione di dispositivi immersivi, elaborati secondo due modalità: attraverso la riduzione dello spazio a black box, come in FELD e LUX (2003),20 e/o più frequentemente, attraverso l’orchestrazione di schermi surround. Ne è un esempio l’allestimento del live POL, composto da sette schermi disposti a semicerchio e in cui l’effetto d’immersione e attorniamento è accentuato dallo scorrimento sequenziale del flusso visivo tra gli schermi. In questa tendenza rientra anche <360> (2002)21 che, come dichiarato fin dal titolo, è un dispositivo ambientale circolare, costituito interamente di schermi, quasi una variazione dei dome e dei padiglioni elaborati dagli autori di Expanded Cinema. In questa serie di lavori il suono è anch’esso organizzato spazialmente e in senso immersivo, declinato in landscape di basse frequenze persistenti e riverberate, che attraversano la pelle del pubblico e vibrano nei corpi. La spazializzazione è in genere ottenuta attraverso la disseminazione nell’allestimento di discrete quantità di loud e low speaker e, soprattutto subwoofer, come in <360> in cui il perimetro circolare disegnato dagli schermi corrisponde a gruppi audio modulari di tre elementi, formando un impianto che permette di muovere il suono ad anello intorno al pubblico e insieme creare specifici punti di ascolto, allo scopo di diversificare l’effetto a seconda del movimento indipendente del fruitore nello spazio.

4.1.2 | La produzione solista di Hentschläger, sulle tracce del corpo disseminato

Dopo lo scioglimento dei Granular Synthesis, Kurt Hentschläger prosegue la sua ricerca in modo autonomo restando però coerente al dittico tematico di

Commissionato da Woodstreet Galleries Pittsburgh, e OK-Center, Linz. Curatori: Murray Horn, Elisabeth Schweeger. 20 Installazione site specific realizzata per la mostra personale del gruppo presso la galleria Lia Rumma, 5 marzo-30 aprile 2003, Milano. 21 Commissionato e prodotto da Parc de la Villette di per il festival 'Villette Numérique' 2002, a cura di Frédéric Mazelly.

180 spazio e corpo, che, mentre nei lavori del duo rappresentano inizio e fine di un ideale percorso, nel quale all’affermarsi degli spazi immersivi corrisponde una progressiva astrazione morfologica, nel successivo lavoro di Hentschläger essi coesistono: il corpo, recuperato anche nella sua forma iconica, coincide con la monumentalità immersiva dello spazio. Sebbene sia possibile leggere complessivamente in filigrana una coerenza tra le ricerche dell’artista nei Granular Synthesis e i percorsi a seguire, non mancano, come vedremo, sostanziali differenze. La sua produzione da solista ha inizio intorno al 2003, a ridosso dallo scioglimento del gruppo. Per ragioni di ordine analitico, la sua produzione può essere guardata secondo due filoni sincronici, cui corrispondono un numero non particolarmente ampio di lavori. Se per entrambi, le questioni legate allo spazio sono predominanti, l’elemento corpo è declinato secondo accezioni differenti:

- un primo nucleo di lavori, che prenderemo in considerazione nelle pagine che seguono, segna il ritorno alla rappresentazione e al corpo, in forma umanoide; - una seconda è formata dalla coppia di progetti FEED e ZEE, nei quali la presenza del corpo è traslata nella dimensione del fruitore e l’ambiente è prodotto interamente a partire da una condizione endogena del soggetto, determinata dal flicker puro. All’analisi di questi due lavori è dedicato il prossimo paragrafo.

La stroboscopia è quasi totalmente assente nel primo gruppo, nel quale la ritmica millimetrica lascia il posto a costruzioni temporali dilatate e meditative. Rappresentativi di questo filone sono il ciclo di lavori aggregati dal titolo KARMA - Karma Cave (2004),22 Karma/cell (2006),23 Karma/X (2008) 24 – il live generativo Cluster (2009-2012)25 e l’installazione Core (2012).26

22 Realizzato per The Cave, commissionato dall’Ars Electronica Center di Linz e acquisito come parte della collezione permanente. Programmazione Unreal: Friedrich Kirschner. Supervisione 3D design Claudia Hart. Design: Josh Bapst, Richard le Bihan. 23 Commissionato da Le Fresnoy, Studio national des arts contemporains. Programmazione Max Msp e Unreal Scripting: Michael Ferraro. Modellizzazione 3D: Richard Le Bihan.

181 La serie KARMA è inaugurata da Karma Cave, ambiente interattivo stereoscopico 3D che trae il titolo da una fusione delle diverse dimensioni ambientali che caratterizzano l’opera: da un lato Karma, il sistema di sintesi utilizzato per realizzare i corpi e il loro spazio virtuale,27 dall’altro il Cave, dell’Ars Electronica Center di Linz, location che ospita l’installazione e per la quale il progetto è concepito appositamente. L’ambiente è un tableau vivant di corpi galleggianti, attraversato dal pubblico, che può restare in osservazione delle coreografie antropomorfe, condividendo lo spazio con queste entità simulacro, o interagire con loro secondo un set molto limitato di reazioni da imprimere al movimento delle anatomie. Nell’installazione successiva, Karma/cell (2006) il fluttuare dei corpi immateriali è riportato in un dispositivo spaziale più codificato, quello della black box, nella quale l’inconsapevolezza del movimento e la totale assenza di autodeterminazione sono provocati non dal controllo del visitatore ma da una costante corrente che scorre in verticale sullo schermo a parete. I corpi precipitano dall’alto verso il basso ma la loro non è una discesa verso qualcosa quanto piuttosto una condizione di precipizio perpetuo. Questo impianto viene riprodotto nella successiva versione, Karma/X in modo scenografico per attraversare in altezza, come una lunga cascata di corpi, una delle sale del Grand Palais di Parigi. Il live audiovisivo generativo Cluster e il suo corrispettivo in forma d’installazione ambientale, Core, rappresentano la ‘seconda generazione’ di anatomie 3D, nella quale i corpi perdono consistenza, i contorni individuali vengono sfumati a favore di un plancton di forme evanescenti. Come vedremo più avanti, la dissoluzione del confine epidermico dei corpi si accompagna ad una diversa aggregazione tra i personaggi muti: in entrambi i lavori, le coreografie e il

24 Realizzato per l’evento Dans La Nuit Des Images, presso il Grand Palais, Parigi, dicembre 2008. Prodotto e commissionato da Le Fresnoy. Programmazione: Rob Ramirez. Modellizzazione 3D: Chris Day. 25 Una produzione Arcadi, con il contributo di EMPAC/ Rensselaer Polytechnic Institute and the Jaffe Fund for Experimental Media and Performing Arts di New York, con il supporto di: Jaffe Fund for Experimental Media and Performing Arts, National Endowment for the Arts; National Dance Project of the New England Foundation for the Arts. 26 Installazione progettata per la sala motori dell’ Ironbridge, struttura industriale patrimonio mondiale dell’UNESCO, Shropshire, Inghilterra. 27 Verranno affrontati più avanti gli aspetti legati agli strumenti di sintesi dello spazio e del comportamento dei corpi generati.

182 galleggiare trovano compiutezza nell’assimilazione di ogni singola entità ad un metaorganismo, un cloud particellare simile al fluttuare di branchi di pesci. Nel complesso di questi lavori il corpo è presente in una forma ibrida tra organico (la sembianza antropomorfa) e inorganico (la manifesta origine di sintesi che li rende simulacri dell’umano). La forma è resa nella sua completezza e proporzione, senza lasciare dubbio all’identificazione della loro sembianza umana, ma allo stesso tempo denuncia una distanza, a partire dall’assenza del volto e di qualsiasi traccia di espressione, lasciando il solo corpo a dare espressione e senso alla loro esistenza. Hentschläger progetta una dimensione ibrida tra fisicità biologica e immaterialità, elemento cardine, come vedremo, anche nel meccanismo esperienziale e nel processo immersivo propri di questo gruppo di opere. Il ritorno alla rappresentazione del corpo è metafora di una condizione del sé che il setting di fruizione rende esperienza e quindi ricolloca sul piano fenomenologico della singola soggettività coinvolta. Di questo secondo meccanismo ci occuperemo più avanti, in quanto è basato sulla composizione di elementi che è bene prima analizzare nel dettaglio, a partire proprio dal processo metaforico elaborato attraverso la rappresentazione. Nei lavori solisti Hentschläger rinuncia al processo di costante mutazione, caratteristica dei primi lavori Granular Synthesis, riporta la rappresentazione del corpo ad una dimensione stabile ma al tempo stesso marca visibilmente la sua natura ambigua, distante dall’umano, pur nella perfetta riproduzione tridimensionale delle anatomie. Nel tragitto dal corpo mutante dei primi lavori degli anni Novanta agli umanoidi di sintesi della produzione successiva, è presentata la traccia di una trasformazione culturale e sociale nel modo di concepire la corporeità, elemento fortemente simbolico perché sede e rappresentazione dell’identità del soggetto contemporaneo. Un arco descritto e anticipato, nel 1996, da Antonio Caronia ne Il corpo virtuale. Lo studioso, analizzando le trasformazioni in atto storicamente nella nozione di corpo in relazione alle tecnologie, sottolinea che se le tecnologie elettomeccaniche hanno agito in senso intrusivo nel corpo e la carne ha accolto la protesi e la macchina come propria escrescenza, dando vita alla figura del cyborg, a partire dagli anni Novanta – periodo nel quale Hentschläger consolida il proprio percorso artistico –

183 le tecnologie digitali sembrano suggerire una smaterializzazione, una progressiva scomparsa del suo ordine biologico verso una natura evanescente. Qui si colloca la decostruzione figurale del corpo verso l’astrazione, tipica del lavoro di Granular Synthesis. In questo percorso, gli ultimi dieci anni sembrano invece portare verso ciò che Caronia preconizza e che le opere di Hentschläger raccontano nel linguaggio muto degli umanoidi: il corpo biologico non è affatto scomparso a seguito della ‘rivoluzione’ digitale - l’insistenza di molta arte sulle questioni percettive e i processi embodied sembrano confermarlo – non viene meno la sua funzione di campo sia simbolico che fenomenologico dei processi di relazione tra soggetto e mondo, di costruzione identitaria del sé. Ciò che l’immaterialità del digitale sta innescando non è una sottrazione quanto la possibilità di costituire forme del sentire disseminato, di rendere esperibile la mancanza di confine tra l’ordine immateriale e quello materiale, di verificare come entrambi trovino propria sede nel corpo. Si tratta di un processo di sottrazione di autenticità attuata sulla sfera materiale e biologica in favore di quella immateriale, come sottolinea lo studioso:

Ma una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie sono "tecnologie del possibile": nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a "derealizzare", a togliere alla "realtà" tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell'aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita. L'immaginario del corpo non poteva non essere toccato, profondamente, da questa svolta.28

Gli stormi di umanoidi di Hentschläger mettono in scena questa trasformazione che, se il lavoro dei Granular Synthesis degli anni Novanta interpretava come lacerazione, rottura tra i due domini, le opere più recenti presentano come una condizione di co-esistenaza, disvelamento di un carattere già presente in potenza nel vivere contemporaneo. Non si tratta, quindi, di uno statuto di corpo altro ma del rispecchiamento di un nostro essere duplice, condizionato da un’evoluzione tecnologica che ha condotto negli ultimi anni non oltre il corpo ma

28 Caronia A., 1996, p. 64.

184 nel corpo, nelle sue strutture infinitesimali e atomiche.29 Una transitorietà da immateriale a materiale che può essere tradotta anche come permeabilità dell’invisibile nel visibile, seguendo la definizione di Fred Forest.30 La zona interstiziale tra radici archetipiche della relazione tra soggetto e mondo e le modificazioni indotte dalla tecnologia, rappresenta una costante del lavoro dell’autore, che instaura nell’opera dimensioni primordiali e insieme ipertecnologizzate.31 Un secondo aspetto caratterizza questo corpus di opere, la relazione cioè tra micro e marco strutture – già presente nel lavoro di Granular Synthesis – che viene tradotta nelle diverse forme comportamentali dei gruppi di umanoidi: il corpo quasi umano non è presentato nella sua unicità di individuo ma come multiplo, miriade di corpi (dimensione micro), ciascuno con la funzione di singola particella in un più ampio sistema autogenerato (dimensione macro). Il loro è un movimento procedurale a sciame, con alcune differenze tra il ciclo KARMA e il più recente Cluster. Se, infatti, KARMA è càos di monadi il cui movimento segue orbite indipendenti, inconsapevole del loro essere parte di un tutto, Cluster segna la loro aggregazione in un organismo coerente e sincronico: la singola cellula perde il confine della propria singolarità per assimilare la propria presenza al movimento fluttuante e sincronizzato del nugolo di altri simili. Cluster segna, rispetto al ciclo

29 Cfr. Jones C. A., 2006; Ascott R., Moistmedia etesprit médiatisé. Vers une connectivité biophotonique, in Poissant L., 2005. 30 Forest F., 2006. 31 Il lavoro di Hentschläger rappresenta occasione per individuare efficacemente la compresenza di primordialità e modifiche derivate dalle tecnologie nella dimensione corporea contemporanea. In tal senso può essere utile tornare a riferirsi alla nozione di Corpo Utopico tratteggiata da Foucault. Guardando ad essa, è possibile affermare che la proprietà del corpo di sentirsi disseminato senza perdere il proprio potere identificante della soggettiva, è amplificato dalle tecnologie digitali e resto pratica esperibile nel quotidiano, oltre che nel momento artistico ma anche che esso è una capacità in potenza che il corpo e le sue capacità sensorie serbano già a priori. Condizione potenziale definita dal filosofo corpo utopico, diverse decine di anni prima che la ‘rivoluzione digitale’ facesse parlare di immaterialità e dislocazione. Il collocarsi di questa intuizione di Foucault cronologicamente precedente la diffusione non vanifica la specifità né la relazione tra questa dimensione ibrida del corpo tra materialità e immaterialità: è piuttosto che le tecnologie digitali intervengono realizzando una capacità preesistente nel corpo e nella sensibilità. A dire che, come purtroppo troppo spesso accade, nulla è creato dalla tecnologie, esse intervengono piuttosto, nelle loro evoluzioni, su potenziali di volta in volta inespressi già presenti nel corpo e nel sensorium che del corpo è sua espressione funzionale di relazione con il mondo. Per questo ha senso guardare non tanto alla specificità del medium, come purtroppo spesso accade, quanto alla dimensione del soggetto e alla sua mutevolezza.

185 di Karma, il passaggio dal metacorpo come pura aggregazione di anatomie inerti a metaorganismo, il cui comportamento è generato dalla relazione coreografica tra le parti. A questa differente relazione tra micro e macro corrisponde anche una diversa condizione emotiva: se in KARMA predomina l’isolamento e l’assenza di scopo degli umanoidi, in Cluster la dissoluzione dell’identità soggettiva ritrova senso nell’essere parte funzionale di un organismo armonico. In entrambi i casi si tratta di sistemi generativi il cui comportamento è autoregolato e autoarticolato. Essi fondano la propria natura in quella che l’autore definisce una condizione di vuoto, a descrivere un ordine sia spaziale che temporale. Il tempo è in ogni caso una condizione data, immobile e persistente. Ciascun lavoro è privo d’inizio e fine, non c’è trasformazione né durata, l’indeterminatezza di comportamento e la condizione autonoma del sistema sono riflessi nella produzione del landscape sonoro: la dinamica autodeterminata di ciascun corpo nello spazio compone suoni spettrali con un’ampia dinamica spazializzata. Tale aleatorietà della composizione, intesa sia come dato sonoro che visivo, è elemento interamente originale della ricerca solista di Hentschläger, non presente nel lavoro di Granular Synthesis. I lavori solisti rivelano una differenza anche in termini di qualità dei suoni: l’autore si distacca, infatti, dal regime minimalista dei primi lavori del duo verso una maggiore attenzione per microrelazioni armoniche e disarmoniche, determinate dalla propagazione dei suoni generati nello spazio.32 La dimensione del vuoto che ambienta e determina il comportamento generativo degli sciami affonda le sue radici nella sperimentazione e progettazione di dispositivi software. Gli ambienti del ciclo KARMA e del più recente Cluster sono, infatti, generati grazie a sistemi di sintesi di spazi virtuali. Nel primo caso si tratta di Karma Engine, unità software generalmente impiegata per la simulazione d’interazioni fisiche tra corpi 3D e contenuta nel sistema di sviluppo e simulazione di ambienti tridimensionali Unreal Turnament Engine. Lo strumento permette di controllare un’ampia varietà di movimenti dei corpi basata su leggi gravitazionali preimpostate dall’autore. Quest’ultimo aspetto è sfruttato da Hentschläger per elaborare il grado di irrealtà che caratterizza il fluttuare indipendente e solipsistico

32 Borş S., 2013.

186 dei personaggi sospesi di KARMA.33 Per Cluster, invece, mette a punto un proprio strumento – il Cluster Engine – realizzato in collaborazione dei programmatori Rob Ramirez e Ian Brill. Si tratta di un software molto malleabile che consente di controllare in real time un’ampia gamma di elementi e funzioni: combina, infatti, l’animazione 3D e il rendering di immagini e suoni come due stream paralleli e costanti.34 La fuoriuscita dallo schermo e dalla sua natura perimetrale, avvertita come limite al dato visivo e contrappunto rispetto alla presenza espansa del suono, presupposto di tutta la produzione del duo austriaco, ritorna in quella dell’autore, assumendo nuove forme e protocolli immersivi. Vedremo più avanti come tale ricerca si declini in FEED e ZEE, per quanto riguarda questa parte della sua produzione, lo schermo è parte di un’architettura immateriale proiettata, che oltrepassa lo statuto di superficie e diventa un’apertura trasparente attraverso la quale osservare il landscape immaginario degli umanoidi.35 In particolare in Cluster questo dispositivo spaziale è portato a pieno compimento: simile ad un acquario il quadro delimita la visione di un oltre, di una dimensione naturale altra, regolata da differenti leggi gravitazionali e da altri equilibri biologici. Questo determina una posizione proiettiva del fruitore nel quadro, piuttosto che l’emersione del dato visivo dalla superficie verso l’esterno abitato dal corpo dell’osservatore. Si tratta di un meccanismo immersivo basato sull’assorbimento del fruitore nell’universo creato, inverso all’espansione della forma visiva nello spazio reale. Questo effetto è favorito dal suono, che è invece spazializzato intorno al pubblico. Questa differenza tra spazio interno della visione ed espansione della componente acustica, anziché generare una scissione, stabilisce un meccanismo per il quale il suono è reso un sistema di vettori che indirizzano il fruitore nel lasciarsi assorbire nel quadro, nello scenario di corpi sintetici proiettati: il suono particellare attraversa il corpo di carne del fruitore ed è al tempo stesso

33 Unreal Tournament è una piattaforma per la progettazione di ambienti virtuali sviluppata dalla Epic Games. L’autore inizia ad utilizzare l’unità Karma nel 2004 per la preparazione delle scenografie video di N, progetto che verrà approfondito nel prossimo capitolo, perché risponde alla necessità di visualizzare in real time e legarlo all’audio senza necessità di rendering o montaggio precedente. McLean B., 2008. 34 Paci Dalò R., Pitozzi E., 2011. 35 Borş S., 2013.

187 controllato dal movimento dello sciame, ne è estensione nel piano reale e quindi medium che attira e conduce il soggetto nel meccanismo d’immersione introiettiva. Attraverso questa condizione del soggetto, oscillante tra assorbimento allo scenario virtuale ed esperienza del corpo posto al di là del bordo, pur senza perdere la consapevolezza del sé, Hentschläger instaura in questo percorso di lavori la messa in crisi della soggettività intesa come unità monadica nello spazio per rendere esperibile l’essere qui e altrove del corpo disseminato.

188 4.2 | Il sublime luminoso: gli ambienti stroboscopici FEED e ZEE

Alla fine degli anni Novanta, durante la messa a punto del software Vcode9, Kurt Hentschläger fa esperienza diretta del particolare effetto di morfogenesi prodotto dal flicker e di come possa essere potenziato inserendo tra i samples video microframmenti di puro bianco e nero. Per l’artista questa scoperta rappresenta un’epifania: realizza infatti, pur non avendo ancora alcuna nozione sulle radici fisiologiche di tale effetto, che la stroboscopia consente un’ontologia della visibile altra da quella oggettiva, realizzata a partire dai valori temporali della luce. Come visto, anche le ricerche di Granular Synthesis puntano sul potere morfopoietico del ritmo: il loro caratteristico trattamento microtemporale prevede, di fatto, proprio la trasmutazione dell’aspetto visivo dei samples in favore di flussi di nuove forme. Ciò che colpisce Hentschläger è però la possibilità di creare fantasmagorie di forme sottraendo elementi, riducendo la materia visiva a sola luce o non luce, trattamento di rado incluso nei lavori del duo.36 Allo stesso tempo l’effetto pulsante ricorda all’autore alcune tappe della sua formazione artistica, all’epoca in gran parte rimosse, come la visione di rassegne e proiezioni di cinema sperimentale. Allo stesso tempo, un’influenza menzionata più raramente è la frequentazione dei club e della nascente scena della techno music nord europea. Di questo contesto, al di là degli aspetti più strettamente legati al suono e al rituale collettivo, l’autore ricorda come significativa per la sua ricerca artistica, l’onnipresenza delle luci stroboscopiche che lo affascinano per la possibilità di trasfigurare repentinamente uno spazio conosciuto in una dimensione altra e imponderabile. Un lavoro di Granular Synthesis che può essere considerato antesignano dei successivi due di Hentschlager al centro del case study è N, progetto di danza contemporanea nato dalla collaborazione con il coreografo e danzatore Angelin Preljocaj, nome di riferimento della nouvelle dance francese. Oltre ad ideare con questo autore l’intero impianto della performance, Ulf Langheinrich e Kurt

36 Ad eccezione della prima versione di POL presentata all’edizione 1998 dell’ISEA tenutosti a Liverpool e ad alcune rielaborazioni di AREAL.

189 Hentschläger realizzano rispettivamente le musiche e lo stage design, nel quale le evoluzioni dei danzatori sono poste in muto dialogo con quelle di avatar 3D.37 Il concept del progetto è la messa in scena del corpo sofferente, umiliato, torturato, che accoglie e denuncia forme di psicosi e autodistruzione. L’apice della violenza è reso nella sezione finale del lavoro, attraverso la presenza invasiva del flicker, il cui ritmo è scenografia immateriale e insieme partitura temporale a scandire il movimento dei danzatori. Il processo di progettazione in solo dei due autori, vera anomalia nella storia del modus operandi dei Granular Synthesis, si riflette nella struttura generale dello spettacolo: ciascun momento audiovisivo si configura come modulo distinto, c’è scarsa integrazione tra architetture sonore e ambiente video, le due componenti restano canali indipendenti ad interagire con i danzatori.38N è però un meme per le fasi successive della ricerca di Hentschläger: attraverso l’uso combinato di forme umane in 3D e stroboscopia, in un unico lavoro vengono anticipati i due principali cardini della sua ricerca degli anni successivi.39

La modulazione temporale della luce pura viene ‘celebrata’ dall’artista nelle due opere ambientali dal titolo FEED (2005) e ZEE (2008), rispettivamente performance e installazione. Dopo lo scioglimento del duo, Hentschläger inizia uno studio sulle proprietà visive della luce stroboscopica e sui meccanismi percettivi legati alla visione e all’orientamento nello spazio, procedendo ad uno sconfinamento disciplinare tra arte, scienza. L’artista scandaglia le radici fisiologiche dell’effetto della luce strobo, alternando momenti di sperimentazione in laboratorio, in cui egli stesso è soggetto dei propri esperimenti e durante i quali elabora e mette a punto anche allestimenti e strumenti, accanto a momenti di documentazione bibliografica e di confronto con ricercatori e neurofisiologi. Non aspira ad assimilare la sua prassi artistica a quella scientifica, quanto piuttosto ad avere una conoscenza di base dei processi che regolano l’esperienza della stroboscopia, sufficiente ad agire in profondità sulla percezione del fruitore,

37 Si tratta del primo e unico progetto per il quale lavorano separatamente, dato sintomatico dello scioglimento di lì a poco del duo. 38 Paci Dalò R., Pitozzi E., 2011. 39 Ibid.

190 costruire una propria grammatica sensoriale atta all’articolazione di modi dell’esperienza incentrati sulle relazione tra soggetto e spazio. Un successivo stimolo ad approfondire gli aspetti fisiologici del fenomeno stroboscopico proviene da particolari conseguenze dell’esperienza di FEED e ZEE sui partecipanti: nel corso degli anni, infatti, alcune decine di persone hanno manifestato reazioni epilettiche durante la fruizione delle opere.40 Questi episodi sono dovuti ad un fenomeno descritto in neurofisiologia come PSE – Photosensitive Epilepsy, una delle forme più comuni di epilessia indotta da stimolo, o epilessia di riflesso. Tali reazioni sono causate da una particolare sensibilità di alcuni individui alle frequenze della luce pulsante e si manifestano in una sorta di cortocircuito elettrico nel cervello, che si propaga nel corpo in scariche nei muscoli, caratteristiche della crisi epilettica.41 Tali eventi hanno colpito profondamente l’autore, entrato spesso in dialogo con il proprio pubblico e influenzato i suoi studi sulla luce, stabilendo un processo di feedback tra momento dell'opera e ricerca artistica.42 Assistere al ripetersi di questi episodi ha modificato, inoltre, il punto di vista di Hentschläger sulla natura del coinvolgimento percettivo del flicker; al fatto cioè che i suoi effetti non siano limitati alla reazione sul piano cerebrale, ma che la carica elettrica e le frequenze che accomunano luce, suono, cervello coinvolgono anche il corpo, attraverso i muscoli, rivelando comune la matrice temporale dei meccanismi che regolano l’essere umano nel suo complesso e i ritmi provenienti dall’ambiente. La natura elettrica e la perdita di controllo cosciente di questa energia che ci attraversa è esperita comunemente anche in momenti di passaggio tra particolari stati mentali o psicofisici, come le scariche che percorrono il corpo nelle fasi del pre-sonno, momenti che precedono cioè la perdita di contatto con la dimensione di volontarietà cosciente. Opinione personale dell’autore è che le crisi manifestate dai

40 Il primo episodio è avvenuto nel 2006 a Parigi durante una performance di FEED, nell’ambito dell’Exit Festival e ha coinvolto una ragazza sedicenne. 41 Harding, G. F. A., Jeavons P. M.,1994. 42 L’autore è rimasto in contatto con alcune delle persone che hanno manifestato le crisi. Inoltre queste esperienze hanno convinto l’autore a modificare alcuni momenti della partitura luminosa: in particolare in FEED è stato ridotto radicalmente l’uso del flicker rosso, più efficace di altre cromie nell’attivazione delle crisi.

191 soggetti fotosensibili siano paragonabili a stati di trance indotta, fenomeni alla base di tutte le condizioni di estasi mistica delle principali religioni.

4.2.1 | FEED (2005)

La prima realizzazione di questo percorso di ricerca sulla luce è FEED, performance audiovisiva stroboscopica in real time, commissionata dal Festival Internazionale del Teatro di Venezia 2005.43 Accanto ad N, un secondo meme del progetto è rappresentato dell’ambiente video interattivo KARMA, protagonista della prima parte del live. Il dispositivo spaziale prevede uno spazio fedele alla codifica cinematografica ‘tradizionale,’ adattabile ai diversi ambienti che lo ospitano e nel quale il pubblico – in genere costituito da un centinaio di persone – è posto frontalmente ad uno schermo cinematografico. Tutt’intorno si articola la macchina ottico-sonora, composta da un impianto audio ad otto canali, ciascuno da 400 watt di potenza, e da un’architettura di luci, stroboscopiche e non, costituita da due sezioni indipendenti di strobo Atomic 3000, ciascuna formata da 5 lampade e sospese in senso longitudinale sulla platea, 5 unità cromatiche a tonalità variabile e 36 luci da palco a parabola. Il cuore del sistema luminoso è rappresentato da una doppia linea di strobo dal ‘comportamento’ temporale autonomo, variabile nel corso del live.44 La performance ha la durata di circa quaranta minuti e segue una struttura ben definita e articolata in due distinti quadri, con inizio e fine nettamente scanditi. Il primo è una proiezione, ottenuta a partire dall’ambiente generativo KARMA, della durata di venticinque minuti, caratterizzata, come nelle precedenti opere del ciclo, da forme umanoidi 3D e dal sistema di sintesi sonora generato dai corpi, inseriti nel vuoto antigravitazionale e nel movimento a sciame. Il secondo è

43 Commissionato dalla biennale di teatro e prodotto grazie al contributo della Cancelleria Federale del Governo Austriaco e il Dipartimento Cultura. Hanno collaborato alla realizzazione: Michael Ferraro (Scripting in Max e Unreal), Francisco Narago (Modellazione 3D), Claudia Hart e Friedrich Kirschner. 44 Esse determinano, infatti, una doppia struttura ritmica non sincronizzata che determina un primo livello di interferenza interno al dispositivo percettivo luminoso, a sua volta in rapporto di interferenza con i cicli ritmici del cervello di ciascun fruitore.

192 interamente giocato sulla pulsazione dell’apparato luminoso stroboscopico e da frequenze sonore spazializzate intorno alla platea. Il pubblico entra in quella che appare come una sala di proiezione, perfettamente illuminata e con al centro file di posti a sedere. Il live ha inizio con lo spegnimento delle luci e con la lenta animazione dello schermo, che si popola di avatar. La danza inconsapevole dei corpi celebra ad un tempo la spersonalizzazione della loro forma umana e la preponderanza del vuoto, elemento non connaturato da alcuna altra caratteristica se non l’inversione delle consuetudini gravitazionali. Il suono, generato direttamente dal fluttuare di ogni singolo arto, tronco e testa senza volto, crea un effetto di perfetta sincronia audiovisiva. Il movimento procedurale del magma di corpi, dapprima lento e placido galleggiare, assume progressivamente la forma di pulsazione violenta che li disarticola e li percuote in convulsioni. Questa scarica elettrica rappresenta il climax della prima parte e l’introduzione a quella successiva.45 La soglia tra le due è segnata da qualche secondo di buio e silenzio, un black out, al termine del quale, la nebbia satura la sala nel suo complesso; lo spazio, visibile fino a poco prima, implode e si riassetta rapidamente come campitura assoluta di materia bianca, sottraendo di colpo qualsiasi spiraglio di visione prospettica o profondità. Si è consapevoli di trovarsi ancora in una sala, si conoscono i confini del proprio corpo, la vicinanza agli altri spettatori ma al tempo stesso una sottile inquietudine s’insinua, lentamente emerge il disagio di un paradossale scollamento tra ciò che sappiamo essere il luogo dato e l’esperienza che i nostri sensi e il nostro corpo ne rimandano. Questo gap è sufficiente a condurre in un altro livello attentivo, in un’attesa che è limpido e cristallino ascolto sensorio. Di lì a poco il bianco della materia prende ad essere percosso dalla luce stroboscopica, il cui effetto è amplificato dalla densità e la bianchezza del fumo. Sono azzerati i confini tra esterno e interno e la vista diventa un processo involontario: l’emersione delle

45 Al tempo stesso richiama Epilectic seizure comparizon (1976) di Paul Sharits, film nel quale il filmmaker utilizza immagin da un film medico che documentano una crisi epilettica, per creare uno dei suoi più violenti film stroboscopici, rinunciando alla caratteristica presenza del colore per accrescere l’impatto ad un tempo emotivo e percettivo del film. L’intro di FEED richiama il film di Sharits per il comune impianto di rispecchiamento tra ciò che l’immagine presenta e la condizione percettiva vissuta dal fruitore, nel caso di Epilectic seizure comparizon o nel quale il fruitore sta per entrare, nel caso di FEED.

193 forme quasi allucinatorie è inevitabile e la chiusura delle palpebre non sottrae ma anzi amplifica la visione. Ciascun individuo coinvolto produce un proprio scenario, da forme geometriche a strutture più complesse, immagini realistiche, panorami o volti di persone conosciute. L’intensità delle visioni è direttamente connessa alla potenza delle luci e al costante riconfigurarsi di un duplice e simultaneo meccanismo di interferenza: tra le diverse frequenze delle linee di strobo, e, insieme, tra queste e le onde cerebrali di ciascun fruitore. Tratti ricorrenti sembrano rimandare ad una sorta di fenomenologia dell’iper-visione, quali ad esempio la mancanza di prospettiva e, quindi, l’impossibilità di definire in termini di distanza il confine tra il proprio occhio e l’’oggetto’ percepito, la potente vividezza dei colori, la limpidezza e la definizione dei contorni. Gran parte della sequenza stroboscopica è improvvisata, variabile da un live all’altro, in un range di frequenze tra gli 8 e i 24 Hz circa. Il suono, come nel primo blocco, è ottenuto attraverso un processo di sintesi ottica, in perfetta simbiosi con il ritmo palpitante della luce, e si sviluppa in strati di liquide particelle di droni che accompagnano l’epifania delle forme, processati in real time dall’autore. Questa rielaborazione, pur mantenendo la diretta discendenza del suono dal ritmo del flicker, consente ad Hentschläger di ampliare la gamma acustica dalla pura percussione, corrispondente al suono non filtrato, a strati acustici più atmosferici e diffusi.46

4.2.2 | ZEE (2008)

Il percorso di ricerca dell’autore sulla fenomenologia del flicker procede, qualche anno dopo, con l’installazione ZEE, progettata nel 2008 e presentata per la prima volta presso il Tiefenrausch, spazio sotterraneo dell’OK-Center di Linz.47 Partendo da elementi comuni al lavoro precedente e innestando, come vedremo, alcune significative variazioni, Hentschläger elabora una nuova

46 Paci Dalò R., Pitozzi E., 2011. 47 Comissionata da OK Center di Linz e dalla Wood Street Galleries di Pittsburgh, con il supporto del BMUKK, Ministero per l’Educazione, Arte e Cultura del governo austriaco. Hanno collaborato al progetto: Richard Castelli per Epidemic (management), Shane Mecklenburger (assistente di produzione), Alexander Boehmler (assistenza tecnica), Claudia Hart, Ray Harmon, Lotte Hentschläger, Murray Horne, Martin Sturm e Norbert Schweizer.

194 configurazione del dispositivo percettivo ed esperienziale giocato, anche in questo caso, sull’uso della triade di elementi formata da luci stroboscopiche, suono e fumo. Inizia a lavorare sul progetto in un laboratorio, allestito appositamente in un ex complesso industriale della periferia di Chicago, nel quale conduce lunghe sessioni di prova empirica con stream di luce e frequenze. Progetta un dispositivo ambientale molto più complesso del precedente che prevede la costruzione di uno ‘spazio nello spazio,’ adattabile alle diverse location:48 il vano d’ingresso è dotato di una doppia porta, per evitare dispersioni di fumo e contiene ai lati, due piccoli locali, non accessibili al pubblico - uno di regia, contenente sistemi di controllo e attrezzature, quali le due macchine del fumo, e uno di primo soccorso - ; un corridoio conduce il pubblico direttamente nell’effettivo spazio di fruizione, un parallelepipedo rettangolare composto da un’unica navata, completamente sigillato e sgombro da elementi architettonici, ad eccezione di due corde che fungono da appiglio e guidano il movimento del pubblico, che può seguire il percorso delineato o abbandonarle e addentrarsi nella zona centrale della sala. 49 L’area non percorribile, oltre a costituire un passaggio d’emergenza, contiene le diverse apparecchiature sonore e luminose: al centro della parete diametralmente opposta all’entrata, è posizionata la fonte luminosa, costituita da una matrice di lampade stroboscopiche,50 quattro unità di variazione cromatica,51 dodici lampade da palco, divise in due colonne, che affiancano il set di luci stroboscopiche. Intorno, ciascuno dei quattro angoli contiene un altoparlante. Tale assetto generale rappresenta la struttura di massima dell’installazione, di volta in volta modificata, per adattarsi alle condizioni ambientali dello spazio ospitante e che negli anni ha

48 Inizialmente l’autore intendeva adattare l’installazione agli spazi ospitanti ma si è presto reso conto che le particolari condizioni ambientali prodotte dall’opera richiedono la costruzione di un ambiente apposito. Principalmente, lo spazio di ZEE deve essere perfettamente sigillata per evitare la dispersione del fumo, prodotto in elevate quantità e in grado di diffondersi in tutta l’area intorno alla location. Altri accorgimenti vanno apportati per garantire la sicurezza dei partecipanti: in particolare, la sala deve avere una pavimentazione o copertura in pannelli di Masonite, utili sia per assorbire l’umidità prodotta dal fumo (in questo caso l’autore utilizza una particolare nebbia, non fumo da discoteca, costituita da microparticelle di vapore in sospensione) e quindi la viscosità sia perché garantisce un superficie completamente piana e in grado di attutire eventuali cadute dei fruitori. 49 A seconda delle dimensioni dello spazio ospitante la navata ha lunghezze tra il 15 e i 20 metri. 50 Si tratta nello specifico di quattro MARTIN “Atomic 3000” da 220V. Le lampade sono montate in un box a vetrina dotato di un sistema di raffreddamento ad aria. 51 4 Unità di variazione cromatica MARTIN “Atomic Colors.”

195 subito variazioni significative.52 Il gruppo di partecipanti, composto per ogni sessione da un massimo di cinque, è condotto all’interno da due guide che ne seguono e assistono il percorso e monitorano eventuali situazioni di disagio o malessere, controllando le condizioni di ogni fruitore singolarmente e più volte durante la sua permanenza.53

Varcata la soglia, ci si trova immersi in una spessa nebbia umida, senza alcun tipo di coordinata spaziale, fatta eccezione della corda, unico strumento di orientamento per un percorso del quale non si conoscono lunghezza né direzione. La materia lattea della nebbia è percorsa costantemente dai palpiti di luce e l’umidità del vapore in sospensione ammorbidisce la luminosità e al tempo stesso la riverbera intorno. Si naviga lentamente, al tatto un’architettura, di pura luce nella quale si dispiegano le visioni di consistenza olografica. Repentinamente, appena immerso nella nebbia stroboscopica, il gruppo cessa di esistere e ciascuno trova sé stesso isolato nella propria esperienza solipsistica. Di tanto in tanto, ci s’imbatte a rallentatore in qualche altro ‘compagno di viaggio,’ altre volte sembra d’intravedere visi che emergono nel fumo, ma l’identificazione resta sospesa nell’incapacità di distinguere la visione reale da quell’interna. Il suono, a differenza di FEED, presenta una struttura indipendente, non sincronizzata alla pulsazione luminosa, ma composto da un quieto sovrapporsi di suoni profondi e rarefatti, a formare un tappeto compatto di frequenze dal quale emergono lentissimi interventi di microsuoni riverberati, che non invadono il sensorium, ma guidano il soggetto nell’espansione. Mentre la luce è vibrazione intensa, pura struttura ritmica, il suono è un fluire di particelle atmosferiche. L’esperienza audiovisiva è quindi connaturata dalla netta differenza tra alienità della visione e naturalezza del suono, che

52 L’autore vorrebbe un giorno realizzare una mostra che possa raccogliere la rassegna completa delle diverse versioni. 53 Idealmente il monitoraggio andrebbe effettuato con almeno due videocamere a calore posizionate nella sala in modo da inquadrare il campo percorso dal pubblico. Questo tipo di camere permettono di visualizzare i corpi distintamente eludendo la nebbia. Si tratta però ancora di apparecchiature molto costose, impiegate in genere per scopi militari, e raramente sono state realmente utilizzate nell’allestimento dell’opera.

196 richiama la molteplicità di eventi di rumore bianco nei domini liquidi della natura.54 Intento di Hentschläger è, infatti, accompagnare con il suono il fluire del publbico, produrre un rallentamento fisico ed emotivo che consenta di meglio adattarsi al forte impatto prodotto dallo stimolo luminoso e dalla sottrazione dello spazio euclideo. Allo stesso tempo, l’assenza di sincronia tra palpitazione visiva e suono produce un maggior livello d’irrealtà durante la navigazione del landscape audiovisivo.

I due lavori si pongono come due momenti di un’unica ricerca di Kurt Hentschlager sulla stroboscopia e di sperimentazione sui temi individuati nel corso della ricerca, rispetto ai quali, come già sottolineato, FEED e ZEE si ritiene possano offrire una summa. Allo stesso modo presentano delle differenze che è necessario osservare perché rilevanti non solo sul piano oggettivo e strutturale dell’opera. Vedremo, infatti, come tali variazioni – nella struttura sia compositiva che nel setting dell’esperienza e quindi nei modi operativi dell’opera – offrano in forma di prassi estetica una riflessione propria dell’autore sulle questioni legate allo statuto di opera e di fruizione affrontate nel corso della ricerca. Per quanto riguarda FEED, la struttura compositiva ha una durata definita e una netta divisione tra prima e seconda parte. Al proprio interno, ciascuno dei due moduli è generato dal vivo, con ampio margine d’improvvisazione, sia in termini luminosi che sonori, mantenendo inoltre come costante la stretta rispondenza tra le due componenti. Diversamente, la struttura di ZEE è una partitura sono-luminosa fissa e priva di evoluzione, nella quale luce e soundscape sonoro sono due poli non sincronici.55 Un secondo punto di eterogeneità riguarda l’allestimento: nel caso di FEED si tratta di un comune spazio di proiezione frontale adattato alle varie location e trasfigurato nel corso della performance,

54 Non si tratta di campioni né di field recording bensì di suono di sintesi in grado di evocare qualità naturale del suono, in particolare del white noise o rimore bianco, un suono denso di tutte le frequenze udibili, paragonabile a ciò che il colore bianco rappresenta dal punto di vista ottico. 55 Anche se, per quanto riguarda la frequenza del flicker, il surriscaldamento durante la giornata porta a delle variazioni temporali della pulsazione non prevedibili e non ovviabili, quindi la partitura luminosa subisce degli scarti nel ritmo stroboscopico.

197 mentre ZEE è uno spazio deputato, un dispositivo originale di per sé e molto più articolato del precedente. Differiscono anche i setting dell’esperienza di fruizione. In FEED il pubblico entra in uno spazio ri-conoscibile in termini di protocolli di fruzione e conoscibile, dato che all’ingresso del pubblico la sala è vuota, sgombra di fumo e pienamente illuminata. Questa consapevolezza resta presente nel fruitore anche nel momento di maggiore profondità immersiva nella pulsazione di nebbia e luce, determinando, come vedremo, un minor livello di ‘emergenza’ percettiva e una maggiore stabilità. In ZEE, al contrario, il fruitore entra in un ambiente che è già spazio imploso, immediatamente catapultato nell’azzeramento di qualsiasi coscienza spaziale. Inoltre, in questo secondo lavoro, è più forte la perdita di contatto con l’altro, lo smarrimento solipsistico nell’opera: per quanto in entrambi i casi si tratti di una dimensione introiettiva, il minor livello di indeterminatezza di FEED non riguarda unicamente la dimensione e la qualità dello spazio ma anche la posizione degli altri partecipanti intorno al singolo fruitore, in quanto durante tutta la durata della performance si resta consapevoli di essere parte di una platea. In ZEE, al contrario, non è possibile collocarsi idealmente e quindi commensurare il luogo nel quale si fa ingresso o, dopo pochi minuti, la posizione del resto del gruppo.56 La modulazione dell’esperienza differisce anche per quanto riguarda la posizione del fruitore e il suo movimento: nel primo lavoro il pubblico è seduto e immobile, mentre in ZEE può circolare nello spazio, sia seguendo il percorso della corda che lasciandosi andare al centro della navata. Anche in questo caso, con effetti dissimili in termini di equilibrio e stabilità, e quindi con dirette conseguenze di ordine emotivo. Una condizione comune per entrambi i setting è la presenza della guida da parte di personale incaricato. Non si tratta dell’artista né di addetti alla sicurezza ma di persone appositamente preparate per intervenire in caso di crisi epilettiche o malori. Questo introduce nella prassi di fruizione un elemento anomalo, rappresentato dal prendersi cura dei partecipanti, restituendo in parte identità soggettiva all’indistinzione del pubblico. Il fruitore viene posto in una condizione di disagio ma al tempo stesso è presente una rete relazionale diretta tra

56 Ad accrescere tale effetto c’è da aggiungere che in FEED il pubblico è composto da circa un centinaio di persone, mentre l’ingresso in ZEE è consentito a gruppi di 5 persone al massimo.

198 artista - o la sua emanazione rappresentata dalle guide - e ogni singolo partecipante: un’individualizzazione non programmata ma dettata da una risposta potenziale all’opera, espressa violentemente nel corpo di chi ne fa esperienza. Un prendersi cura che oltrepassa le condizioni di messa in sicurezza ma si fonda su quelle che potremmo definire forme di intuizione sensoriale tra guide e pubblico. 57

4.2.3 | Dallo schermo all’immersività: un percorso tra i paradigmi spaziali della fruizione audiovisiva

La principale ragione che rende il lavoro di Hentschläger un caso di particolare interesse è rappresentata dall’aver abbracciato, nel corso di due sole opere, una molteplicità di temi rilevanti legati alla percezione audiovisiva e di aver proposto nei due lavori un percorso tra due differenti protocolli di fruzione dell’ambiente audiovisivo. Il suo interesse, come vedremo meglio nelle prossime pagine, parte dallo studio dell’ontologia della forma visiva tipica della pulsazione luminosa e la oltrepassa, per concentrarsi sull’elaborazione di una sua personale poetica dello spazio, fondata sulla permeabilità tra interno ed esterno, sensorium e ambiente. La sua indagine, in modo non dissimile da quanto fatto da altri autori considerati nella ricerca, parte dall’analisi delle qualità fisiche della luce e della capacità della pulsazione luminosa di innescare una risposta diretta nel sensorium, a partire dalla comune natura temporale del flusso luminoso e dei ritmi che regolano cervello e corpo in forma di frequenze. Racconta l’autore:

Con il flicker, il contenuto dell’immagine non ha importanza; la luce, nella proiezione o nello schermo, si spinge inequivocabilmente in primo piano. Anche se sembra superfluo, penso sia anche importante ricordare che la luce è un elemento essenziale per la nostra sopravvivenza e questo comporta un forte attaccamento psicologico all’elemento (è semplicemente impossibile immaginare un’esistenza priva di luce). […] le qualità sublimi della pura luce, l’essere immersi in una luce che ti scalda intensamente, l’effetto illuminante, di elevazione e conforto ma che insieme può essere anche cocente, bruciante,

57 Un esempio è rappresentato dal fatto che, malgrado le difficoltà di visione e orientamento nelle sale di entrambi i lavori, lo staff si sia sempre accorto rapidamente di chi ha avuto sintomi epilettici ma anche di chi è stato colto da crisi di panico o claustrofobia.

199 quasi automaticamente ti porta ad essere trasportato altrove, fuori dalle condizioni ambientali del quotidiano. Certo, FEED e ZEE sono entrambe legate anche in modo significativo all’assenza di spazio visivo, all’oscuramento dello spazio attraverso il fumo e quella che io chiamo ‘luce strutturata’, nella quale le pulsazioni, il flicker e le fonti visive pulsanti creano una specie di vortice, riconfigurano interamente la nostra visione del mondo. Spesso descrivo l’esperienza di queste opere come ”entrare in un bagno di luce pura”: il che può avere un effetto avvolgente e insieme calmante, un fenomeno che rappresenta l’aspetto più attraente dei due lavori.58

L’emersione delle forme allucinatorie non è il fine del processo messo in atto nell’opera - come ad esempio nel caso della Dream Machine di Brion Gysin o in Seeing with the Eyes Closed di Ivana Franke. Nei due progetti di Hentschläger lo scenario visivo endogeno prodotto dal soggetto rappresenta unicamente un effetto corollario di una diversa condizione propriocettiva, l’autore indaga i cambiamenti nel sensorium relativi alla coscienza del sé nello spazio e alla navigazione del corpo nel para-reale stroboscopico. Nella forma contingente della sensazione Hentschläger pone al soggetto interrogativi su cosa accade al sé in risposta ad una tabula rasa ambientale.59 Se i cambiamenti e le reazioni del sensorium sono soggetto comune a molte opere immersive, la particolarità dei due lavori sta nell’indagare tali variazioni in una condizione di ‘emergenza percettiva’ per innescare meccanismi archetipici e primordiali del modo in cui ci relazioniamo con l’ambiente. Il vuoto e il collasso dello spazio visibile ottenuto con il flicker quindi, interessa l’artista perché mette in condizione il fruitore di sperimentare empiricamente quanto di relativo ci sia nella

58 ‘The sublime qualities of intense light itself, being immersed in intense, warming light, the literally enlightening, elevating, comforting aspects as well as the scorching, burning, drying out qualities of light trigger, almost by default, a sense of being transported elsewhere, at least out of one's mundane daily functioning. Of course FEED and ZEE rely significantly also on both the absence of spatial vision by obscuring the space with fog, and what I'd like to call "structured light", wherein flicker and pulse sources create a kind of visual vortex, replacing entirely our familiar vision of the world. I often refer to my own impression entering these works as "bathing in pure light", which has an overwhelming and then calming effect, a phenomena creating a big part of the overall pull of the work’ Intervista con l’artista, vedi apparati. 59 Come già ricordato nel corso del II capitolo, con sensazione non si intende una riduzione del complesso meccanismo che l’opera innesca quanto il livello più diretto di relazione organica tra soggetto e ambiente, affatto passiva, anzi riconfigurata costantemente da un essere attivo del soggetto incarnato e mondo, attraverso la quale i due termini si co-specificano.

200 nozione di spazio come struttura ordinata e a priori. Il suo è uno studio sulla fisiologia percettiva tras-formato nell’opera in prassi soggettiva, cioè esperienza. Un vissuto che pone ciascun soggetto esperiente in contatto con i meccanismi di costruzione della nozione di spazio a partire dal suo azzeramento e permette di sperimentarne una diversa genesi di natura interamente endogena. Oltre alla luce, la materia prima particellare che rende possibile tale processo è il fumo, che ha la funzione di azzerare lo spazio e, insieme, ammorbidire la luce, espandere e amplificare la sua consistenza in massa tridimensionale. Una combinazione grazie alla quale superare uno degli aspetti definiti dall’artista ‘frustranti’ del visivo nelle opere basate sulla relazione con il suono: la differenza tra tridimensionalità acustica, intesa come materia ma anche come sistema di reazioni fisiche direttamente incorporate dal soggetto e di comportamenti nello spazio che ne modificano la qualità stessa, e la fissa bidimensionalità della visione framed. 60 L’artista mette in atto un livello d’infrapercezione del visivo assimilabile a quello sperimentato molto più comunemente con il suono, riproduce in forma di luce la fisicità di materia particellare in grado di agire in modo potente nella sfera fisica dell’esperienza, attraverso la frequenza e la vibrazione. Il suono è sistema invisibile naturalmente immersivo, in grado di assumere la forma di spazio intorno al corpo esperiente, e al contempo ‘farsi spazio’ attraverso il corpo. Lo schermo può tentare di simulare questa condizione, moltiplicare l’avvolgimento intorno, far dimenticare per qualche istante il limite della superficie, ma sostanzialmente la proiezione non riesce ad infiltrarsi nella membrana tra interno ed esterno, a radicarsi nel corpo. Rispetto a questa condizione la fruizione dell’opera è la messa in atto di una mutazione del sensorium di ogni singolo fruitore che parte da una sottrazione, dall’implosione del visibile e l’azzeramento delle coordinate spaziali.61 Questo agisce su uno dei meccanismi primordiali alla base dell’orientamento. Infatti, una delle modalità attraverso le quali viene determinto il concetto di spazio è a partire dall’esperienza che ne facciamo. In uno spazio dato, tendiamo, per orientarci, a ‘misurare’ costantemente la distanza tra noi e altri corpi oggetti, elementi

60 Cfr. Intervista all’autore in appendice. 61 Mancuso M., 2007.

201 architettonici. Questo mapping costante e inconsapevole consente di rilevare coordinate e punti di riferimento, rappresenta la nostra modalità abituale di orientamento nello spazio e insieme è parte del meccanismo propriocettivo, ma non è il solo modo di fare esperienza del mondo intorno.62 FEED e ZEE, svelano al fruitore come la nozione di spazio dipenda da un sistema di feedback tra soggetto e ambiente, non esclusivamente legata ad un processo di modellizzazione su base oculare: entrambi i dispositivi ottico sonori azzerano gli automatismi del sensorium e relativizzano il dogma del modello prospettico come unica modalità del soggetto per relazionarsi con l’ambiente. Il collasso del visibile e i modi dello spazio ad esso connessi, pongono in situazione l’esperiente: situazione che richiede di riconfigurare simultaneamente una rete complessa di funzioni del sensorium e attivare un meccanismo di risposta necessaria. Quella proposta è una diversa condizione propriocettiva, generata a partire da un corpo che è disseminato, espanso, come espanse sono le frequenze che lo attraversano, ma che, malgrado questa disseminazione vibrante, non perde consapevolezza del sé in quanto soggetto ma ritrova la propria individualità attraverso la riconfigurazione di meccanismi atavici e metabolizzati del suo essere nell’ambiente. Se questo meccanismo è alla base di entrambe le opere, le differenze di struttura e di setting esperienziale tracciano un arco tra due differenti paradigmi della fruizione audiovisiva, un percorso che parte dallo schermo e l’oltrepassa attraverso forme di immersione sempre più totalizzanti. 63 Tale sconfinamento oltre lo schermo in FEED è trasformazione dinamica da un paradigma all’altro mente in ZEE è condizione data e immutabile.64 Il primo, infatti, presenta un riferimento preciso e rispetto al quale mette in atto una palese rottura: i due momenti rappresentano un passaggio di soglia tra la visione frontale e

62 Palumbo M. L., 2002. 63 Un arco, va detto, non in senso cronologico ma di modi dello spazio esperienziale audiovisivo: come si spera la ricerca abbia evidenziato, la differenza tra esperienza framed e unframed attraverso la parcellizzazione del dato audiovisivo in frequenze di ritmo e materia atmosferica di suono e luce, è nel cinema, o meglio, in alcune specificità del cinema, anzi in pratiche radicali si ricerca sul linguaggio che trova origine, per poi senza dubbio modificarsi ed evolvere sotto altre sembianze grazie alle tecnologie digitali e alle forme spurie che la luce pulsante e il suono come ambiente navigabile hanno assunto. Ma l’operazione di Hentschläger evidenzia nel superamento come la radice sia già presente nei modi del cinema, basta saperla cercare. 64 D’Orazio F., 2006.

202 l’espansione immersiva, dichiarazione di una differenza tra frontalità dell’immagine proiettata e fuoriuscita dal quadro. ZEE è invece effetto di una trasfigurazione dello spazio già avvenuta, non s’intravede alcun profilo di ambiente conosciuto e con esso alcun riferimento a codici pregressi: è immanenza percettiva e immersione, un vacuum che non muta ma chiede piuttosto al soggetto di attuare una mutazione di meccanismi archetipici e di ricalibrare il proprio essere nell’ambiente. Se una rottura c’è, essa è interna alla soggettività e alle proprie funzioni: una messa in crisi repentina che induce a superare il limite di ciò che il corpo conosce, verso capacità inespresse di relazione con l’ambiente, verso le possibilità utopiche del corpo. L’immersione in ZEE è esperienza empirica della disseminazione del corpo, della sua espansione non in termini morfologici ma funzionali e potenziali, di una soggettività che è corpo utopico che si appropria dello spazio e lo genera come propria emanazione. L’indagine sulle dimensioni micro dell’audiovisione e la definizione di una fenomenologia dell’invisibile65 che permetta al fruitore di perdersi e ritrovarsi in un nuovo paradigma della percezione audiovisiva consente di individuare un trait d’union tra FEED e ZEE e gli altri lavori dell’autore, come pure con la produzione di Granular Synthesis.66 Alla luce di questo processo di trasformazione del corpo e nel corpo, inteso come sede e simbolo della soggettività, è possibile guardare agli episodi di epilessia. Non s’intende rintracciare né discuterne in questa sede i fondamenti fisiologici, questo è territorio della scienza, è proprio invece dell’arte, come abbiamo visto, comprendere i ‘come’ della scienza, per guardare quali trasformazioni il piano del sensibile agisca sul sé, attraverso l’analisi del campo di reazioni stabilite nell’opera. In accordo con quanto evidenziato da Forest sulla possibilità, all’interno dell’opera sistema invisibile, di rintracciare e rendere esperibili forme d’infrapercezione, cioè la matrice invisibile di energie che sottendono la materia, l’esperienza del flicker e ancora di più la manifestazione epilettica, possono essere interpretati come emersione di una tra le funzioni potenziali del corpo in genere sopite e inespresse.

65 Pitozzi E.,2006. 66 Borş S., 2013.

203 In questa chiave la reazione epilettica, effetto possibile e indeterminabile di entrambe le opere, sembrerebbe il sintomatico della dimensione utopica del corpo, di un’eccedenza dalle sue funzioni conosciute e controllate, non solo in termini percettivi, radicate nelle frequenze dei muscoli, oltre che del cervello. Nella forma del trauma esse esprimono la continuità energetica del corpo con lo spazio, fino ad incarnare la dimensione infinitesimale e invisibile della frequenza della luce nella convulsione del corpo. Così come la luce stroboscopica agisce disfunzionalmente sulla costruzione dello spazio, allo stesso modo innesca in alcuni soggetti lo sconfinamento del corpo dalle sue funzioni nel complesso, e insieme, dalla loro codifica culturale. Gli episodi epilettici pongono, infatti, in discussione l’assimilazione di dis-funzione con la dimensione patologica, in quanto le crisi riportate dalle varie persone non necessariamente corrispondono ad una condizione di epilessia slegata dalla particolare situazione creata dall’opera, restando spesso episodi isolati. Questa possibile declinazione dell’esperienza permette di intravedere una delle potenzialità forse più interessanti delle opere che si occupano di percezione: ricondurre le questioni percettive e i discorsi sul corpo dal dominio oggettivizzante della scienza a quello soggettivo dell’arte permette, infatti, di guardare sotto una luce differente la nozione di dis-funzione e di interpretarla non come un antitesi alla funzione normalizzata quanto piuttosto come una tra le possibili espressioni della transitività tra sé e ambiente inscritte nel corpo.

204 4.3 | La documentazione, dall’oggetto visivo al racconto del pubblico

Nel corso della ricerca, in particolare nel reperimento di fonti primarie e secondarie legate alle opere a carattere effimero, è stata rilevata la scarsità di documenti, sia in archivi istituzionali che all’interno dei principali circuiti che ospitano questo tipo di pratiche, eventi temporanei come festival di arti elettroniche ma anche centri d’arte e gallerie. Più in generale, questa lacuna è comune alla maggior parte delle pratiche di audiovisivo espanso fondate sulla dimensione della liveness. La sola documentazione talvolta reperibile è limitata a registrazioni video o foto – in qualche caso, anche unicamente sonore – realizzate da festival ed eventi che ospitano nei propri programmi i lavori, realizzate per lo più senza alcun framework scientifico né progettuale di riferimento.67 Le registrazioni, inoltre, mancano spesso di adeguata collocazione all'interno di cataloghi o archivi pubblici, il che ne rende difficoltosa la consultazione e la disseminazione di tali fonti. Le opere di audiovisivo espanso, sia storiche che contemporanee, necessitano di sorpassare la dimensione empirica del momento e di confrontarsi con la questione del documento e dell'archivio, non solo per permettere o tentare di produrre forme di memoria e preservazione. L'eterogeneità e instabilità delle pratiche audiovisive

67 Esempi: attività, in fase del tutto embrionale, rappresentate dal progetto di creazione di archivio del festival Transmediale, uno dei festival di riferimento nel campo dell'arte e cultura digitale, e di alcuni documenti video legati ad edizioni del festival Sonic Acts di Amsterdam. Entrambi conservano registrazioni audio e video di pratiche live ma al momento prive di qualsiasi ricognizione o catalogazione.

205 effimere contemporanee pone un’urgenza nel presente, prima ancora che in una dimensione storiografica. La produzione di documenti legati alle pratiche a/v costituirebbe, infatti, una fonte necessaria e al momento scarsamente reperibile, allo studio e all'analisi delle opere. Sarebbero, quindi, anzitutto gli operatori culturali, i ricercatori e i contesti dell'arte del presente a beneficiare di tali fonti, in quanto permetterebbero la diffusione di una più ampia conoscenza della scena recente della media art e la messa in luce, sia all'interno dei circuiti dell'arte contemporanea che della ricerca accademica, di produzioni spesso considerate ancora liminali.

La documentazione di tali pratiche non può non tener conto di alcuni aspetti di riferimento, già individuati nel corso della ricerca ma che è utile riassumere rispetto a tale questione:

- complessità sensoriale: non riconducibile ad un particolare canale sensorio né tanto meno ad una predominanza del visivo; - temporaneità: natura effimera che caratterizza l’opera come relazione tra potenzialità progettate dall’artista e realizzazione in termini di esperienza nel momento di fruizione; - rilevanza dell’esperienza come coinvolgimento soggettivo e mutevole di ciascun fruitore.

Si potrebbe constatare che, in virtù del loro carattere effimero, le opere stroboscopiche, e più in generale i progetti artistici basati sulla liveness, siano per loro natura indocumentabili e che cioè la difficoltà di riportare entro i limiti del documento la transitorietà e irripetibilità dell’evento artistico non rappresenti un punto da problematizzare e rispetto al quale interrogarsi quanto piuttosto una base ontologica dell’opera di fronte alla quale constatare un’incompatibilità tra documento e opera, tra momento e memoria.68

68 “Performance's only life is in the present. Performance cannot be saved, recorded, documented, or otherwise partecipate in the circulation of representations of representations: once it does so, it becomes something other than perforrmance, To the degree that performance attempts to enter the economy of reproduction it betrays and lessens the promise of its own ontology. Perfomance's being,

206 Una posizione talvolta condivisa dagli stessi artisti ma che può essere oltrepassata, in virtù della posta in gioco, che non riguarda unicamente la proiezione delle pratiche verso una futura storia della media art, né soltanto i processi di conservazione dell’opera in sé, né tanto meno la constatazione di un ricorso storico, in quanto scarse sono le tracce delle pratiche effimere audiovisive prodotte in passato. Il documento è necessario anche e forse soprattutto per lo studio e la conoscenza delle pratiche contemporanee. Documentare in questo caso non rappresenta ‘soltanto’ uno strumento di conoscenza in senso storico, in particolare nel caso delle fonti primarie, un passaggio determinante, sia nel colmare la frequente impossibilità di un'esperienza diretta, che per integrarne la soggettività dell’analisi, qualora possibile. Il documento del momento estetico qualifica l’opera anche nell’attualità, la completa in termini di presenza rispetto ai contesti di riferimento. Va attuato un capovolgimento del punto di vista e non chiedersi come queste pratiche possano essere poste all’interno del processo di documentazione, quanto piuttosto come il concetto di documento debba mutare di fronte all’esistenza di tali pratiche, cosa può cambiare nella prassi di documentazione in funzione del passaggio di statuto dell’opera da oggetto a momento esperienziale, da forma conclusa a situazione percettiva. Come il documento può abbracciare le due sfere temporali dell’opera: il prologo, cioè la progettazione da parte dell’artista di un campo di reazioni in potenza, e il momento, la messa in atto sempre diversa e soggettiva di tali reazioni da parte di ciascun fruitore? Questi interrogativi permettono di fissare alcuni punti utili per orientare la progettazione di nuovi modi di documentazione, rispetto ai quali il focus non riguarda tanto la questione della transitorietà – questione con la quale gli studiosi di preservazione e conservazione si stanno confrontando già da diverso tempo –

like the ontology of subjectivity proposed here, becomes itself through diappearance.” Così Peggy Phelan in Unmarked: the Politics of Performance, riassume il legame quasi causale tra liveness e documentazione: la non documentabilità della performance, la sfida che essa pone alla società medializzata, rappresenta una delle basi ontologiche di tali pratiche. Phelan P., 1993, p. 146.

207 quanto piuttosto come questa dimensione permetta di introdurre un tema, quello del ruolo del pubblico, e di concentrarsi su di esso. In questa sede non s’intende prospettare una soluzione né presentare un protocollo di documentazione: un tale argomento meriterebbe uno studio sperimentale articolato e dovrebbe prevedere il coinvolgimento di competenze molto diversificate. Allo stesso tempo, si ritiene interessante fissare e riconnettere in questa parte alcuni elementi emersi in vari momenti della ricerca e legati alle pratiche di documentazione, in quanto, essi potrebbero costituire i presupposti per una una futura sperimentazione in questo senso, in particolare per la messa a punto di prassi documentali dedicate allo specifico delle pratiche audiovisive espanse a carattere stroboscopico. Rispetto alle questioni individuate nella prima fase del lavoro di ricerca, quelle sulla documentazione sono considerazioni intervenute in un momento successivo, a partire da quanto emerso dall’osservazione di un caso specifico, quello delle interviste legate a ZEE, sono stati articolati una serie di quesiti di carattere generale, per poi tornare a tale esempio e sollevare alcuni interrogativi e formulare delle proposte.

4.3.1 | L’intervista al pubblico come prassi documentale

La maggior parte delle opere incontrate nel corso della ricerca, presenta un’articolazione diversificata di questioni rispetto ai processi di memorizzazione o documentazione, che ci conducono dal particolare delle condizioni proprie e specifiche poste dai progetti a carattere strobosocpico ad un piano più ampio: è possibile cioè riscontrare una serie di questioni estendibili in generale alle pratiche effimere e alle opere basate su una messa in situazione di meccanismi percettivi. Rispetto al piano particolarissimo delle pratiche stroboscopiche un primo dato da segnalare è la difficoltà di documentare attraverso la registrazione con dispositivi ottici (audio o video) sia il dato pulsante in sé sia la complessità ambientale che molti progetti propongono. Questo aspetto di ordine tecnico fa emergere una prima questione, legata alla referenza del documento ad un ordine del visivo che non corrisponde alla complessità dell’opera o comunque rispetto alla quale le caratteristiche che le sono proprie segnano una fuoriuscita dai confini del visibile e

208 delle tecnologie ad esso legate. La consuetudine di effettuare registrazioni del momento audiovisivo live determina un appiattimento ai codici del visivo definibili, nella prospettiva specifica delle prariche di flicker ‘di ritorno:’ il documento, infatti, riconduce alla forma del visibile pratiche che anzi tendono a riconfigurare l’esperienza dell’opera e a spingerla oltre tale ordine. 69 Con la produzione di riprese video si documenta unicamente l’apparato tecnologico o architettonico che fa da medium all’esperienza.70 L’assimilazione frequente tra documentazione e registrazione su supporti derivati dai reami ‘classici’ del visivo (video e foto) genera una successiva conseguenza. Tali prassi, infatti, hanno spesso trasfigurato l’essenza dell’opera e aspetti fondamentali del processo artistico e insieme determino l’obsolescenza di pratiche non incanalabili in tali protocolli di documentazione: questo è forse un aspetto corollario ma il cui impatto si è dimostrato particolarmente deleterio nella storia delle esperienze di media art a carattere spiccatamente effimero o percettivo/esperienziale. Questa lacuna è evidenziabile sul piano storico rispetto alle esperienze degli anni Sessanta e Settanta, ma, dato ancora più problematico, si riscontra anche in molte esperienze contemporanee.71 Quindi, la prassi documentale deve esprimersi attraverso la realizzazione di una collezione di documenti, in grado di adattarsi e abbracciare la complessità dell’opera, intesa non solo nella sua articolazione tecnologica e mediale, quanto come molteplicità semantica e relazionale legata ai modi dell’esperienza e al confronto tra diverse soggettività coinvolte – artista, pubblico, stakeholders (studiosi o professionisti che collaborano in diverse fasi o con funzioni differenti con l’autore nella progettazione o disseminazione del progetto) - nell’opera e alla sua transitorietà. Le opere di flicker ma, più in generale, le opere a carattere effimero, pongono un secondo aspetto critico: se lo statuto dell’opera muta da oggetto a situazione transitoria, campo di eventi irripetibili, se uno dei contenuti dell'opera è rappresentato dall'esperienza, intesa come transitoria messa in forma di condizioni

69 Jones C., 2006, p. 21. 70 Ibid., p. 20. 71 Forest F., 2006, p. 18.

209 potenziali stabilite dall’autore, appartenenti alla sfera dell’invisibile e dell’immateriale, come è possibile ripensare la produzione del documento dal dominio dell’oggetto a quello dell’esperienza? Si tratta di una questione sollevato dal caso specifico delle pratiche contemporanee di flicker ma che può essere estesa, più in generale, a tutte quelle espressioni dell’arte contemporanea che si presentano come situazioni, in cui l’opera è un insieme di reazioni potenziali che trovano realizzazione nella liveness del momento e nell’esperienza del fruitore. A partire dall’esperienza e dalle caratteristiche individuate nel capitolo II, è possibile, se non individuare delle risposte, quantomeno strutturare e fissare delle osservazioni che aggiungono qualcosa al nostro percorso. Anzitutto si evidenzia che, con la perdita della natura oggettuale, l’opera si configura come entità temporale, ‘momento’ estetico. Il documento, per poter abbracciare tale complessità, deve porsi come azione rispetto all’imminenza dell’evento e allo stesso tempo accogliere le altre due dimensioni di tempo contigue, il prima e il dopo del momento, dove il ‘prima’ è rappresentato dalla progettazione, dal lavoro pregresso dell’artista e il ‘dopo' dalla costruzione della memoria dell’opera, che comprenda, dunque, il momento e la sua progettazione. La documentazione, inoltre, dovrebbe costituire una costruzione di memoria perché in grado di trasportare verso il futuro due dimensioni temporali specifiche della prasssi estetica, non le sue componenti oggettuali: da una parte il momento effimero, cioè la soggettività fuggevole dell’esperienza di fruizione, dall’altra ciò che lo precede, cioè l’insieme di processi che permettono il design dell’esperienza, la sua messa in forma a partire dal progetto e la ricerca dell’artista.72 La natura temporale dei lavori considerati, infatti, permette di guardare all’opera come una concatenazione di fasi di tempo interconnesse tra loro. Anche nel caso di opere nelle quali la dimensione oggettuale non venga interamente azzerata, la rilevanza del momento di fruizione e del vissuto percettivo del fruitore, permette di guardare a queste componenti come elementi a priori che rientrano ma non esprimono l’opera nella loro compiutezza.73

72 Carvalho A., 2011. 73 Carvalho A., 2011

210 Alla luce di queste considerazioni è possibile spostare ancora un po’ più avanti il punto di vista nella riflessione: da un lato una tale concezione dell’atto documentale permette di superare un’impasse legata alle pratiche effimere e alla loro documentazione, superando posizioni che vedono come qualità propria dell’opera la sua non documentabilità e quindi la perdita in termini di sistematizzazione, sia contemporanea che storica. Se, infatti, si guarda al momento performativo come uno degli sviluppi temporali del processo artistico, la documentazione ha senso nella complessità dell’arco tracciato da progetto estetico, tra le condizioni a priori della progettazione e i momenti esperienziali di volta in volta prodotti.74 In secondo luogo, anche in considerazione di quanto emerso rispetto all’incapacità del supporto visivo di rendere conto della complessità delle pratiche e del ruolo fondamentale giocato dall’esperienza - espressione soggettiva delle condizioni potenziali e aprioristiche progettate dall’autore -, guardare all’opera come all’interconnessione di due diversi fasi temporali permette anche di evidenziare una mancanza rispetto alla documentazione dell’esperienza e al momento di fruizione, intesa come entità molteplice e collettiva che trasforma e trasporta nel presente le condizioni poste a priori dall’artista. Inoltre, data la relazione tra progettazione dell’autore e configurazioni sempre diverse che l’opera assume nella momentaneità delle fruizioni, il corpus di documenti dovrebbe poter offrire l’opportunità di stabilire questa relazione attraverso il confronto. Guardando al contemporaneo e ai più noti progetti di preservazione delle opere di media art, nei quali una fase di rilievo è rappresentata proprio dalla pratica documentale, se l’a priori dell’opera è accuratamente preso in considerazione (tramite stretta collaborazione tra studiosi e artisti), l’esperienza del pubblico, il momento immanente e sempre nuovo della fruizione rimane una zona d’ombra, un elemento spesso menzionato come rilevante ma privo di espressione in forma di

74 Affrontare la questione della documentazione rispetto alle opere effimere non equivale, infatti, alla negazione della transitorietà e temporaneità dell’opera, al contrario corrisponde ad un riconoscimento delle diverse modularità temporali che essa descrive, tentare la messa a punto di processi documentali che tendano il più possibile ad adattarsi e rendere conto di questa natura intrinseca e propria dell’opera stessa. Cfr.Depocas A., 2002.

211 documento. 75 Se, infatti, il progetto riguarda più direttamente l’artista e gli stakeholders coinvolti nell’ideazione, preparazione e messa in opera del lavoro, il momento chiama in causa questo secondo ‘attore,’ in generale in tutte le opere, ancora di più nel caso dei lavori basati sulla percezione. Sebbene nella media art l’importanza del coinvolgimento del fruitore sia stato diffusamente discusso e affermato,76 il pubblico resta una moltitudine spesso evocata in modo generico e vago. Rari sono i casi di studio approfonditi sull’esperienza estetica che vedano al centro il fruitore – o per meglio dire la complessità di vissuti dell’opera derivati dal coinvolgimento del pubblico, a differenza di quanto non avvenga, ad esempio nei media studies.77 Un contributo verso l’emersione dall’ombra dell’esperienza di fruizione proviene dalle ricerche condotte da alcuni anni da Lizzie Muller e indirizzate alla messa a punto di procedure di documentazione dell'esperienza del pubblico in opere interattive, che mutuano tecniche d’intervista da metodologie di analisi qualitativa e di storia orale, utilizzate nel campo delle scienze sociali, dell'antropologia ed etnografia. Presupposto del suo studio, condotto sperimentalmente nell’ambito del programma DOCAM della Fondation Langloise di Montreal, è la comparazione tra i principali protocolli di documentazione elaborati da progetti quali Inside Installation, Media of Matters e Variable Media e le qualità proprie di molta produzione contemporanea di media art, che rappresenta, sottolinea, una sfida ai protocolli esistenti proprio in virtù dell'enfasi

75 In particolare di fa riferimento a: Archiving the Avant-Garde: Documenting and Preserving Digital/Variable Media Art; Independent Media Arts Preservation, Inc. (IMAP); Inside installation; Matters in Media; Variable Media Initiative. Per una panoramica delle questioni legate alla preservazione della media art, nei quali un ruolo di particolare rilievo è riservato ai processi e metodi di documentazione cfr. Noordegraaf, J., C. Saba G., Le Maitre B., V. Hediger, Preserving and Exhibiting Media Art, Amsterdam University Press, 2013. Un caso particolare è rappresentato dal progetto DOCAM, Documentation and Conservation of the Media Arts Heritage, in particolare dall’istituzione fondatrice, la Daniel Langlois Foundation for Art, Science and Technology (DLF) che ha prodotto dei case studies di documentazione dell’esperienza del pubblico attraverso differenti metodi di intervista al pubblico, condotti principalmente, come vedremo più avanti dalla ricercatrice australiana Lizzie Muller nel corso del 2008 e successivamente applicati anche da Ingrid Spörl e Katja Kwastek nel 2010, cfr. C. Jones, L. Muller, 2008; Muller L., 2008; Cfr. anche Edmonds E.A., Muller L., Turnbull D., 2010. 76 Cfr. Paul C., 2003; Graham B., Cook S., 2009. 77 Cfr. Jenkins H., 2008.

212 posta su fattori quali l'interazione, sistemi e processi generativi e il ruolo determinante giocato dall'esperienza del pubblico. Le sue ricerche propongono di colmare una lacuna sia rispetto alle possibilità di sistematizzazione storica della media art, sia rispetto all’esistenza di fonti che permettano, nel contemporaneo, uno studio esaustivo dei vari aspetti che compongono il sistema complessivo del progetto artistico. La storia orale rappresenta un ambito nel quale individuare metodologie utili in tal senso, in quanto offre strumenti teorici e protocolli per la produzione di fonti primarie tratte dalla relazione diretta con l’entità astratta del pubblico. La creazione di fonti orali permette di lasciare traccia della moltitudine di soggettività delle quali il pubblico si compone. Allo stesso tempo, quest’area disciplinare, consolidatasi intorno agli anni ‘70 permette la legittimazione di fonti legate all’esperienza e la stabilizzazione di prassi di produzione e integrazione con altra tipologia di documenti, nei processi di documentazione e archiviazione, nello studio accademico e nelle prassi curatoriali del contemporaneo. 78 Il principale strumento individuato da Muller è rappresentato dalle interviste video, raccolte su base volontaria tra i partecipanti al momento dell’opera. La preparazione di set di ripresa e ambienti appositi, l’utilizzo di tecniche di video documentazione e di diversi modelli d’intervista, permette la raccolta dei racconti del singolo fruitore e registra l’essenza viva del momento esperienziale. L’obiettivo non è la creazione di tassonomie che raccolgano e categorizzino i modi dell’esperienza: in linea con i principi metodologici della storia orale, questo tipo di documenti ha valore come fonte primaria e non come dato qualitativo. Ciascun racconto aggiunge valore in sé alla conoscenza dell’opera. Tuttavia, avere a disposizione più fonti legate ad uno stesso progetto, permette allo studioso di ampliare e approfondire più aspetti dell’opera a partire dal confronto tra le diverse soggettività che compongono l’entità collettiva del pubblico. È necessario, inoltre, tener presente che essi rappresentano punti di vista

78 In generale la storia orale permette l’emersione di soggetti precedentemente assenti dai record storici., in genere gruppi di individui o minoranze che non hanno mezzi e strumenti per autorappresentarsi o che le tecniche di analisi quantitativa rendono entità indistinguibili (relegando i mondi senza scrittura - le società non occidentali o coloniali e le classi subalterne non alfabetizzate - ai margini della narrazione storica, i mondi senza scrittura). Cfr. Passerini L., (a cura di), 1978; Thompson P.,1973; Joutard P.,1987.

213 sull’opera particolari e parziali, interessanti proprio in virtù della loro natura di testimonianza soggettiva. Una premessa necessaria per la loro realizzazione è che esse vengano accompagnate da informazioni contestuali, vale a dire documenti corollari che rendano conto delle condizioni e delle fasi di realizzazione. Ciò equivale a predisporre i materiali in modo da renderli chiari e intellegibili per consultazioni future, anche cronologicamente distanti. 79 Altro passaggio preliminare è l’individuazione del tipo di esperienza e l’analisi del setting dell’opera aspetto che, come vedremo, solleva un punto determinante nel confronto tra i metodi d’intervista elaborati da Muller e le pratiche strettamente connesse alla sperimentazione sensoriale, tra le quali quelle a matrice stroboscopica. Attraverso una serie di progetti empirici Muller ha realizzato delle linee guida per la produzione di tali fonti, mutuando e adattando tecniche di video intervista dalle scienze social, riassumibili principalmente in:80

- Rievocazione indotta: prevede la registrazione della fruizione di ciascun partecipante, con il successivo commento e racconto dell’esperienza nel corso della visione delle riprese appena effettuate. Questa modalità permette di puntare l’attenzione sugli aspetti temporali e procedurali dell’esperienza e di scendere nel dettaglio dello stato d’animo di ciascun partecipante, seguire lo sviluppo di emozioni, intenzioni e reazioni. Richiede un tempo notevole per realizzazione e permette quindi di coinvolgere una parte esigua dell’audience. Inoltre, alcuni soggetti possono sentirsi inibiti dall’essere ripresi nel corso della fruizione, oppure, la complessità del processo potrebbe creare un’interferenza o una sovrapposizione tra la prassi esperienziale dell’opera e quella documentale; - Intervista semistrutturata: viene realizzata durante la prassi esperienziale e si basa non su un set di domande precostituite bensì sul dialogo tra studioso e fruitore, orientato in base ad alcuni obiettivi e focus precisi. Offre quindi l’opportunità al partecipante di porre domande sul lavoro e di commentare in modo diretto e immanente la sua esperienza, generando un rapporto meno gerarchico tra studioso e intervistato, pur restando il primo

79 Muller L., 2008. 80 Cfr. Kvale S.,1996.

214 non coinvolto nella prassi di fruizione e di relazione con le opere. Oltre alla questione della ripresa, per altro più invasiva rispetto all’esempio precedente, un secondo aspetto problematico è la compresenza di momento documentale e fruizione, che implicano una sovrapposizione tra l’esperienza e la sua rielaborazione verbale. Se la questione della video ripresa può essere ovviata tramite una registrazione del solo sonoro, la richiesta di elaborare istantaneamente un vissuto può creare una distanza tra il dispositivo opera e l’esperiente e porre interferenze in termini attentivi, in particolare nel caso di opere immersive e sensoriali; - Exit Interview: si tratta di una variazione delle interviste semistrutturate, applicata in genere per documentare esperienze articolate come la fruizione di più opere o di intere mostre. Esse sono raccolte all’uscita di un ipotetico percorso e in tale frangente viene chiesto all’intervistato di concentrarsi meno su aspetti descrittivi e dettagliati dell’esperienza e più su una riflessione di carattere generale con domande aperte e flessibili che considerano risvolti quali: intenzioni (perché si è preso parte all’evento o si è scelto di partecipare); aspettative; osservazioni su lavori specifici o sul progetto complessivo di allestimento, sullo spazio o il museo ospitante.

Muller evidenzia in quest’ultima tecnica la mancanza di accuratezza e dettaglio nel processo documentale. Si ritiene, invece, che essa possa rappresentare un possibile format sufficientemente aperto da essere adattabile a differenti tipologie di opere. Inoltre, essa sottrae il rischio d’interferenza tra luoghi e tempi del momento estetico e documentazione, rendendo quest’ultima un evento successivo e isolato. Le tecniche di rievocazione indotta e le interviste semistrutturate sono probabilmente i più congeniali alla documentazione di opere interattive – cui la studiosa fa primariamente riferimento81- e quindi ad una forma di vissuto basata su una partecipazione espressa in termini di gesto e azione, intervento intenzionale sul sistema di condizioni proposte. Al contrario, l’esperienza dell’opera sistema invisibile, al di là delle specificità e declinazioni di

81 Indicando, non a caso in tale particolare tecnica il metodo ideale di video intervista, metodo che si concentra sugli aspetti intenzionali e operativi della fruizione.

215 ciascun dispositivo percettivo, chiama il fruitore alla contemplazione dell’ambiente immersivo per condurlo ad un ascolto introiettato del sé e dei cambiamenti del proprio sensorium. Un processo cui l’opera tende in potenza e rispetto al quale ciascun individuo può cercare una sincronizzazione. Si tratta di un meccanismo labile che verrebbe probabilmente compromesso da fattori quali riprese video o richieste di verbalizzazione nel corso del momento effettivo della fruizione. Questa serie di osservazioni, necessarie ad inquadrare lo studio di Muller rispetto alle particolarità delle opere stroboscopiche sul piano della specifica esperienza prodotta, individuano alcuni punti critici utili nella prospettiva di possibli metodi di interviste al pubblico di pratiche estetiche stroboscopiche. Infatti così come si presentano esigui gli esempi di documentazione di queste particolari opere allo stesso modo risultano esse scarse le fonti legate all’esperienza del suo racconto attraverso la voce del fruitore e accessibili per lo studioso. Per trovare esempi in tal senso è necessario guardare a forme autonome di documentazione prodotte dagli artisti stessi o che in modo diretto li hanno coinvolti. Anche alla luce delle direzioni indicate da Muller, è auspicabile che tali materiali vengano recuperati, laddove possibile, e che questa serie di esperienze siano considerate non come casi isolati, che concludono la loro rilevanza in relazione alla specifica opera e progetto artistico, quanto nel loro valore di fonti primarie, nel piano più ampio di studio delle pratiche che sappia integrare la collettività di voci, soggettività, vissuto e punti di vista sull’opera che l’esperienza del pubblico rappresenta. Ciò implicherebbe un cambiamento di prospettiva verso la formulazione di processi di costruzione di memoria collettivi e condivisi, che corrisponderebbero allo slittamento di soggettività dall'autore al pubblico di cui abbiamo parlato rispetto all’accezione di liveness.

216 4.3.2 | Un esempio di racconto dell’esperienza: la video interviste per ZEE

Tornando allo specifico delle pratiche stroboscopiche, si riscontra un’attenzione da parte degli autori stessi alla documentazione dei propri progetti, tramite lo strumento dell’intervista o del questionario al pubblico, con esempi riscontrabili sia nel campo del cinema sperimentale che tra le pratiche ambientali a carattere multimediale. Pur rivelando un comune interesse all’ascolto del pubblico, queste esperienze sono prodotte spesso con finalità, sguardi o modi diversi di intendere il fruitore e la sua partecipazione attiva al momento esperienziale. I metodi di raccolta del vissuto percettivo fanno spesso riferimento a quelli delle scienze della mente o della ricerca sociale, ma con differenti gradi di attenzione alla dimensione soggettiva piuttosto che alla quantificazione del dato. Possono essere realizzate dall’artista stesso, da stakeholders o da studiosi intervenuti secondariamente ma sempre in collaborazione con l’autore. Insieme all’attenzione per l’esperienza del pubblico, che definisce e motiva comunemente questi sconfinamenti degli autori verso la pratica documentale, un secondo aspetto è la vicinanza metodologica ad altri ambiti disciplinari, in particolare ai modi di rilevamento delle hard sciences e delle scienze sociali, come già visto per i format di intervista elaborati da Lizzie Muller. Per molti di loro, i protocolli provengono direttamente dai modi della scienza piuttosto che da quelli dell’arte e spesso dalla collaborazione con scienziati o gruppi di ricerca nell’ambito della neuroscienza o della psicologia sperimentale. Sottoporre il pubblico a questionari mutuati dalla psicologia sperimentale è una consuetudine presso i collettivi di Arte Cinetica e Programmata, in particolare per i francesi GRAV, per gli italiani Gruppo T e MID, inaugurata nell’aprile del 1964 durante una delle mostre di Nuova Tendenza a Parigi, in occasione della quale vengono proposti al pubblico una serie di quesiti riguardanti le singole opere. 82 Il gruppo MID, colloca invece la prassi dell’intervista in un set sperimentale vero e proprio, nel corso della collaborazione con Paolo Bonaiuto, docente di psicologia dell’Università di Bologna. Il gruppo, infatti, partecipa ad

82 Meloni L., 2005, p. 80.

217 alcune ricerche di estetica sperimentale, per le quali realizza specifiche Opere Schermiche, film stroboscopici di breve durata da sottoporre come stimoli a gruppi di soggetti, per rilevarne in seguito reazioni percettive da analizzare in chiave quantitativa.83 In tali esempi, quindi, la forma del questionario scritto rappresenta uno strumento finalizzato alla costruizione di nuove basi dialogiche nel concepire il rapporto tra opera, artista e fruitore in una chiave di oggettivizzazione: la trasformazione della fruizione artistica in dato percettivo è finalizzata, in questo caso, al superamento dall’arbitrarietà del processo interpretativo come prassi di analisi dell’opera a favore di una ricerca di fondamenti condivisi dell’esperienza artistica, da ricercare nelle sue basi fisiologiche e percettive.84 Anche The Flicker di Tony Conrad è ricontestualizzato, dall’ambito artistico al set sperimentale, dalla sala cinematografica al laboratorio: nel 1969, infatti, Jetta Barnier, una dottoranda del Dipartimento di Psicologia Sperimentale della New York University conduce in accordo con l’artista uno studio clinico intitolato The Flicker Phenomenon e basato sulla proiezione del film. Anche in questo caso lo strumento è un questionario, suddiviso in 24 sezioni e contenente domande aperte legate alla descrizione generale dell’esperienza vissuta, insieme ad altre più dettagliate sul tipo di visioni (colori, forme) e aspetti emotivi. Inoltre, viene chiesta al soggetto una valutazione, approdondendo in particolare se quanto sperimentato possa essere definito o meno come ‘visione di un film.’ Da evidenziare che solo cinque soggetti sul totale di 44 intervistati presentano risposta affermativa: difficile stabilire se un tale feedback sia dovuto alla natura del setting, estremamente connaturato e controllato come esperimento rispetto alla proiezione in una sala, oppure sia dovuto all’inusuale natura del lavoro di Conrad.85 Lo scopo primario della ricerca è individuare i risvolti emotivi della

83 Barrese A., 2007, p. 9. 84 Queste tendenze, così riassumibili, va sottolineato, sono presenti ma non generalizzabili a tutti gli autori del ‘movimento’ e soprattutto in gradi e con modalità differenti, segnano alcuni punti di contatto con gli approcci della recente neuroestetica. 85 La documentazione dello studio è conservata presso l’archivio personale dell’artista. Si hanno in questo caso alcune coordinate generali rispetto al setting dell’esperimento. Il gruppo di partecipanti è formato per lo più da studenti di psicologia sperimentale e composto da 23 donne e 21 uomini. Il film viene sottoposto singolarmente e in versione integrale, fatta eccezione delle titolazioni, in una piccola sala di proiezione nella quale il proiettore viene schermato per evitare che venga esaminata la

218 fenomenologia del flicker in chiave, anche in questo caso, quantitativa e statistica, suddividendo i valori dell’esperienza rispetto a quattro categorie - piacevole, eccitante, rilassante, tesa – e lasciando scarso margine di rappresentazione alla dimensione individuale. Sul limite tra oggettività e soggettività, stanno lavorando gli artisti Tez e Chris Salter, con l’intento di ovviare alla condizione di interferenza tra momento dell’opera e intervista, presente nella prima versione del lavoro, nella quale la forma al racconto è applicazione empirica di tecniche utilizzate in ambito etnografico, portate nel quadro di un progetto che è in parte una ‘palestra per antropologi’ in parte prassi estetica. Le pratiche di documentali condotte dagli artisti o da soggetti direttamente coinvolti nella progettazione o presentazione dell’opera sono esempi significativi ma non assimilabili alle metodologie indicate da Muller, in quanto esse sono derivate da prassi, condizioni e obiettivi disomogenei e non strutturati. Allo stesso tempo, le linee guida tracciate dalla studiosa possono constituire una griglia di riferimento attraverso la quale ridiscutere e analizzare materiali preesistenti, isolarne criticità e aspetti potenziali al fine di rendere tali fonti documenti validi per l’analisi e lo studio dei progetti connessi. Come il caso specifico di alcune video interviste realizzate da collaboratori di Kurt Hentschlager, in accordo il media artist. Con queste premesse e questi obiettivi proseguiamo soffermandoci sul caso particolare di un corpus di videointerviste che raccontano tramite parole, gesti e presenza viva di ciascun fruitore l’esperienza di ZEE. I video sono stati realizzati tra fine ottobre e metà novembre 2009, nel corso della prima newyorkese dell’opera presso il 3LD Art and Technology Center, mostra prodotta dal centro in collaborazione con il Future Perfect Festival ed evento inaugurale della manifestazione. In questa, occasione Piama Habibullah, in collaborazione con Cristian Rossel, entrambi parte dello staff del 3LD, realizza 40 video interviste a 47 partecipanti che, volontariamente, hanno accettato di raccontare in video, all’uscita pellicola da parte dei partecipanti. Al contrario di quanto avviene per la proiezione del film nei contesti strutturalisti, in questo caso viene fatto in modo che l’attenzione sia puntata sullo stimolo della luce pulsante – stimolo - e non al dispositivo percettivo nel suo complesso. Branden W. J., 2008, pp. 340-346.

219 dell’installazione, l’esperienza appena vissuta. Habibullah è coinvolta in molteplici fasi della progettazione e realizzazione dell’evento, Rossel è invece una delle guide che accompagnano il pubblico all’interno di ZEE. La pratica documentale nasce con l’intento di lasciare traccia della ricchezza ed eterogeneità di reazioni, commenti e stati d’animo osservati nel pubblico e risponde, inoltre, all’impossibilità di registrare visivamente la complessità fenomenologica dell’opera al suo interno. Habibullah, autrice di documentari e di videoproduzioni in ambito teatrale ed etnografico, è motivata anche dalla personale esperienza avuta di ZEE: tra le prime persone a testare il funzionamento dell’installazione prima dell’opening, ha manifestato una reazione fotosensibile e relativa crisi epilettica. Questo episodio ha suscitato un sempre maggiore coinvolgimento e un crescente interesse nei confronti del progetto e della forma di partecipazione involontaria e totalizzante determinata. La produzione dei video ha inizio senza particolari obiettivi se non quello di produrre dei materiali documentali per la galleria e un trailer per l’artista che permettesse di promuovere l’opera attraverso le parole del pubblico. L’intero processo è quindi non strutturato né indirizzato secondo presupposti scientifici ma, attraverso l’intervista ad Habibullah, è stato possibile individuare alcuni elementi generali utili come informazioni contestuali, che permettono di analizzare la prassi e in parte alcuni aspetti dei risultati ottenuti. Tenendo presente gli elementi di riferimento individuati da Muller, la metodologia utilizzata nel caso specifico di queste interviste è simile ma non assimilabile ad una exit interview:

- Set e modalità di ripresa: le interviste sono effettuate in una piccola stanza dedicata, non distante dall’uscita dell’installazione ma in uno spazio e con un ingresso indipendenti. La registrazione avviene tramite una videocamera posizionata su un cavalletto e posta di fronte a ciascun intervistato. Il set è molto essenziale: oltre alle sedie per intervistatore ed intervistato sono presenti un microfono, una videocamera e una lampada. Ogni persona, seduta frontalmente alla camera e all’intervistatore, è inquadrata in genere a mezzo busto. - Collocazione temporale rispetto al processo dell’opera e modalità di

220 richiesta: l’intervista si presenta come un momento separato e distinto, mentre l’invito a partecipare proveniva direttamente da Habibullah all’uscita dell’installazione.86 Viene proposta una breve intervista per un video destinato all’artista, senza informazioni aggiuntive. - Composizione degli intervistati e stile dell’intervista: vengono coinvolte persone singole o gruppi di due, nel caso abbiano condiviso la fruizione. In questo secondo caso, Habibullah osserva che l’interazione venutasi a creare ha permesso di ampliare inaspettatamente lo spettro di argomenti trattati, in quanto, i partecipanti hanno frequentemente preso ad intervistarsi reciprocamente, confrontando le esperienze individuali e i punti di vista su quanto vissuto. Il colloquio ha quindi un forma dialogica e una struttura aperta, pur presentando un corpus di domande comuni. - Domande: Poche e semplici domande, scelte tra un set fisso ma variabili in base alle risposte o all’interazione con ciascun partecipante. In ogni video l’intervista si apre con la stessa domanda: “So, tell me. How do you feel? What was it like?” Semplicità ed estrema sintesi sono state scelte per evitare di sovraccaricare l’intervistato, in genere provato dall’esperienza, sia in termini sensoriali che emotivi. Viene anche chiesto di raccontare l’effetto, concentrandosi anche su sensazioni e percezioni non visive e di confrontare l’esperienza con altre simili, vissute precedentemente.

Sebbene l’impianto dell’intervista resti aperto e dialogico, emerge chiaramente lo sguardo dell’autrice e un’impostazione generale che genera la costruzione del racconto a partire da un commento dell’esperienza generale e un

86 L’autrice sottolinea che particolare attenzione è stata riservata nel cercare di mantenere questo primo contatto il meno invasivo possibile, evitando di approcciare troppo repentinamente ciascun fruitore e lasciando alcuni minuti tra il momento dell’uscita e l’invito a partecipare. A questo proposito Habibullah sostiene che la quasi continuità tra momento dell’opera e successiva intervista è stata ideata per tentare di ‘catturare’ l’effetto immanente dell’opera sul pubblico e trasportare il più possibile l’immediatezza dell’esperienza nel video documento. Ciononostante tale modalità di invito problematizza la trasparenza del processo e pone rischi di interferenza e sovrapposizione tra momento esperienziale e racconto. Altro dato interessante per una valutazione complessiva della struttura e le modalità utilizzate in questo caso specifico riguarda il tipo di reazioni: generalmente molto disponibili a commentare l’esperienza, alcuni componenti del pubblico, stando alle loro risposte, hanno declinato principalmente a causa della video ripresa, altri hanno preferito restare soli o con persone arrivate con loro alla mostra.

221 confronto tra quanto esperito nell’opera a partire dal vissuto pregresso di ciascun fruitore. Ciò potrebbe aver determinato l’ampia eterogeneità delle risposte. Malgrado questo, la rielaborazione dei materiali, funzionale principalmente alla successiva fase di editing, funzionale alla realizzazione di in una clip della durata di circa tre minuti,87 è stato effettuata da Habibullah a partire dalla ricerca di ricorrenze. L’autrice ha raggruppato i video in otto gruppi di categorie di esperienze culturalmente codificate, legate a dimensioni spesso metafisiche, di distacco dalla ‘realtà’ intesa come spazio del vissuto abituale e quotidiano o a particolari stati emotivi.88 La ricognizione dei documenti e la successiva narrazione, costruita a partire da essi, probabilmente in virtù delle finalità e della destinazione del prodotto finale, ben lontana da scopi di studio e analisi, lascia inespresso molto del loro potenziale. Se sembra inadatto far corrispondere la definizione di documento al montaggio video realizzato a conclusione del lavoro effettuato, il processo nella sua interezza può essere letto come esempio di prassi documentale. Anzitutto per la presenza di una struttura che ha guidato la produzione dei video e che le interviste ad Habibullah - quindi la produzione di informazioni contestuali attuata nel corso della ricerca da integrare alle fonti preesistenti – ha permesso di far emergere, isolare e analizzare. In secondo luogo il corpus d’interviste denota una polisemia oltrepassa la singolarità interpretativa data dall’autrice e le finalità originarie che hanno dato vita al progetto.89 In particolare, nel registrare la molteplicità di sguardi e vissuti, le interviste non editate lasciano emergere un punto di vista del pubblico sull’opera molto più articolato, da confrontare con quello progettuale all’artista. Inoltre, l’analisi di Habibullah ha preso in considerazione unicamente le ricorrenze, cioè gli elementi generalizzabili del racconto, mentre si ritiene siano parimenti significativi gli esempi di outlayer, cioè di quei soggetti che, pur

87 Il video è il solo materiale disseminato dell’intero progetto di video documentazione, disponibile sul sito dell’artista, insieme ad un estratto del soundscape dell’installazione. http://www.kurthentschlager.com/portfolio/zee/zee.html, ultimo accesso 20 aprile. 88 Paradiso, Premorte, Immaginazione, Infanzia, Paura, Eccitazione, Droghe, Psichedelia. 89 Malgrado il video sia utilizzato dall’autore per promuovere il proprio lavoro, l’attenzione nei confronti del punto di vista del fruitore sull’opera è un’operazione poco frequente e significativa nella prospettiva più ampia di rielaborazione del concetto di documentazione che sottragga la centralità autoriale a favore di un coinvolgimento del pubblico.

222 partendo da domande omologhe, discostano il loro racconto da qaunto espresso dagli altri partecipanti alle interviste. Si è quindi osservato il corpus di interviste tentando di individuare una linea di maggioranza e ‘casi anomali’ (outlayers), al fine di rendere la singola particolarità significativa. Forse in conseguenza dell’impostazione data alla domanda iniziale, la stragrande maggioranza dei partecipanti concentra le proprie osservazioni e la categorizzazione dell’esperienza in funzione delle visioni (descrive le forme nel dettaglio, le confronta con altre esperienze visionarie e in generale con dimensione di alterità codificate dall’immaginario culturale). Questi risulati marcano una profonda differenza tra la visione dell’artista sull’opera e quella del pubblico: infatti, come sottolineato nel corso dell’analisi, per Hentschläger la questione delle visioni è aspetto corollario rispetto alla centralità della mutazione nei paradigmi di esperienza dell’ambiente indotta dalla stroboscopia e del collasso dello spazio visibile. Elementi che compaiono come riflessioni tra le interviste che abbiamo definito outlayers, casi che esulano dal confronto tra quanto esperito e altre dimensioni allucinatorie e presentano una maggiore accuratezza nell’osservazione delle specificità dell’opera, dei modi attraverso i quali la luce e il suono costruiscono lo spazio di esperienza e agiscono sul piano sensoriale ed emotivo. Nel complesso, quindi, dette interviste evidenziano un superamento del primo livello fenomenologico di ZEE e rivelano uno sguardo analitico sia rispetto all’opera che al vissuto personale. Non è nostro scopo stabilire le ragioni di questa differenza, che è a sua volta divergenza e vicinanza alla progettualità autoriale; allo stesso tempo è possibile sottolineare alcuni elementi legati alla modalità di intervista, attuata non tanto per indagare le ragioni, quanto per evidenziare come alcuni aspetti e mancanze possano aver determinato condizionamenti nella produzione delle fonti. Tra queste si segnala ad esempio una lacuna di rilievo: non sono disponibili informazioni relative alle persone intervistate che possano dirci di più su background, provenienza geografica o professione, un complesso questo di dati che, qualora presenti, avrebbero permesso di sollevare ipotesi su possibili ragioni rispetto alle osservazioni contenute nei racconti (principalmente, tentare di definire condizioni a priori che possano aver condizionato le differenze tra maggioranza e

223 anomalie). Oltre al confronto tra sguardo dell’autore e sguardi del pubblico, le interviste sembrano far emergere un secondo aspetto che si ritiene di interesse nella prospettiva di possibili elaborazioni future di protocolli di intervista al pubblico, significativa nel caso specifico di opere stroboscopiche o a carattere sensoriale. Le interviste evidenziano un’insufficienza espressiva del linguaggio, uno scarto della parola che determina un’escrescenza del racconto trasposta nel corpo, attraverso il gesto. Talvolta gli intervistati letteralmente disegnano e occupano l’inquadratura con il proprio corpo, descrivendo l’emersione delle forme, il loro movimento: l’immersione del momento dell’opera è riprodotta e riscritta dai gesti articolati nello spazio del video documento. L’esempio specifico considerato conferma, quindi, la necessità di elaborare processi di documentazione dell’esperienza del pubblico, in quanto tali documenti dischiudono le possibilità di analisi e sguardi sull’opera, permettendo di confrontare non solo le eterogeneità e le similitudini endogene (cioè interne al soggetto collettivo del pubblico) ma anche il punto di vista del pubblico e quello dell’artista, arrichendo così notenvolmente la gamma di fonti relative alle due dimensioni temporali dell’opera effimera, quella del progetto e quella del momento. Inoltre, il caso analizzato evidenzia come questi materiali possano serbare una validità documentale anche nel caso esse siano preesistenti e provenienti da processi non relativi a fini di studio o ricerca: essi raccontano infatti aspetti dell’opera e dell’esperienza che oltrepassano finalità e destinazioni originarie. Affinché essi assumano pienamente valore in senso storico o in termini di memoria delle pratiche è necessario rilevare inevitabili lacune, legate principalmente all’assenza di informazioni contestuali o recuperare i materiali originali e non modificati. L’esperienza rispetto alle interviste di ZEE può rappresentare un esempio possibile di integrazione di elementi assenti o non presenti in modo sufficientemente strutturato a loro a corredare le fonti. Rispetto alla progettazione di modelli di intervista specifici per le prariche stroboscopiche immersive, la condizione esperienziale di ZEE, caso estremo ma esemplare rispetto al panorama contemporaneo, suggerisce la necessità di particolari accortezze nella ‘somministrazione’ delle interviste, nel delicato passaggio cioè dalla situazione

224 dell’opera alla documentazione, uno slittamento di contesto che richiede necessarie distinzioni di spazi e tempi. Coerentemente con quanto evidenziato in vari punti della ricerca, il carattere immersivo di questo tipo di pratiche si rintraccia anche nel caso del tentativo di documentazione attraverso la parola orale: l’esperienza vissuta in ZEE fuoriesce dalle possibilità del linguaggio o del suo uso più comune. Tale escrescenza è visibile nel corpo degli intervistati, nella profusione di gesti e movimenti. Un aspetto questo che non va inteso come limite ma piuttosto come criticità e che l’uso del video risolve solo in parte: esso rappresenta al contempo un specificità propria dell’opera sistema invisibile, tipologia di prassi estetica che richie una sintonizzazione sui ritmi del corpo e del sensorio prima ancora che su attività cognitive e sul linguaggio. A differenza delle opere interattive, sulle quali si concentra Muller, le opere immersive, tra le quali ZEE rappresenta un caso limite, non prevedono un’attivazione del soggetto/fruitore in termini di gesto quanto un esperire il sistema ambiente che corrisponde al rallentamento dell’agire a favore del sentire, due aspetti differenti e sempre compresenti nell’esperienza percettiva dell’essere nel mondo che si co-specificano ma secondo modalità ed equilibri diversi tra le due situazioni estetiche considerate. Da questa serie di osservazioni è possibile elaborare alcune ipotesi di carattere operativo che, si sottolinea, non hanno alcuna pretesa di porsi come linee guida o indicazioni, quanto come possibili spunti, la cui validità andrebbe verificata sul campo e nel quadro più ampio di programmi sperimentali di documentazione. Anzitutto, rispetto alla modalità di registrazione dell’intervista: lo strumento video, pur presentando problematicità in quanto non neutro e inibente per alcune persone, si presenta al tempo stesso il più adatto a catturare la traccia del non verbale, del racconto del corpo attraverso i suoi linguaggi. Potrebbero essere ipotizzate modalità attraverso le quali rendere meno invasiva la presenza del dispositivo di ripresa, ad esempio evitando l’inquadratura frontale. Un’altra criticità riguarda il modello d’intervista. Tenendo come riferimento le tecniche individuate da Lizzi Muller, i video di ZEE si avvicinano al modello delle exit interviews, focalizzate però su un unico lavoro. Tale modello, nel caso di opere esperienziali, senza dubbio rispetta la specificità dell’esperienza, per due aspetti: il primo, legato alla necessità di predisporre un momento di decompressione nel

225 passaggio dall’opera al momento documentale, necessario per permettere al fruitore di decantare l’impatto sensorio ed emotivo ma anche di tornare ad una modalità di relazione al reale più mediata, rientrare in contatto con la parola, utile non solo per rispetto dell’intervistato ma anche funzionale alla migliore riuscita dell’intervista; il secondo, relativo alla struttura della domanda aperta e alla forma dialogica, che sembra ben corrispondere alla varietà e ricchezza di feedback che l’opera determina. Il caso di ZEE, come pure l’esempio delle interviste realizzate per Displace, rendono ipotizzabile la progettazione di set di intervista collettivi, formati da gruppi di due o più persone, in quanto il confronto e il dialogo tra i partecipanti potrebbero permettere l’emersione di una maggiore eterogeneità, tracciare aspetti inaspettati, includere nel documento sia l’identità individuale che composita del pubblico. Allo stesso tempo un tale impianto pone il rischio di minor naturalezza in alcune persone, penalizzando la dimensione intima ed introspettiva, aspetto questo forse ovviabile lasciando libera la scelta di partecipazione in collettiva o individuale. Infine, potrebbe essere utile modulare il passaggio dall’opera all’intervista per evitare interferenze della documentazione con l’eco del vissuto dell’opera, pur non perdendo la contiguità con il vissuto in vivo: a tal proposito si ipotizza la creazione di ambienti di passaggio, spazi intermedi tra momento artistico e intervista, privati di stimolazioni, zone bianche opposte alla condizione percettiva dell’opera ma necessarie ad accompagnare un passaggio alla pratica di documentazione, restando però all’interno di un perimetro connotato e dalle condizioni controllabili.90

90 Tale ipotesi proviene da una serie di riflessioni emerse nel corso della parte finale della ricerca e dal confronto con alcuni autori rispetto a possibili strategie di documentazione, in particolare con Tez. Cfr. intervista all’autore in appendice.

226

227

228 Conclusioni

Ripensare al punto di partenza di una ricerca un appena conclusa permette di trovare la traccia del percorso intrapreso, localizzare la posizione presente e valutare trasformazioni intercorse, anche se in modo parziale e forse poco oggettivo. Nel caso specifico, l’incipit per questa ricerca è rappresentato da un aspetto ricorrente tra prassi artistiche eterogenee, cronologicamente distanti o attribuite generalmente a differenti aree disciplinari nelle quali la variabilità della pratica estetica è frammentata e ordinata. Tale aspetto ricorrente è rappresentato dal flicker, che è stato impiegato come elemento di aggregazione elementare, 1 con più gradazioni funzionali. Si è partiti da un livello di ‘superficie’ dei progetti, rispetto al quale il carattere stroboscopico è stato inteso come trattamento formale, una caratteristica che ha permesso di connettere pratiche eterogenee e considerarle, pur nelle diversità, come un unico fenomeno. Dalle prime osservazioni, si è passato a circoscrivere le caratteristiche emerse rispetto alle pratiche stroboscopiche che presentano una condizione di esperienza dello spazio definita immersiva, segnata cioè da una continuità tra l’interno della dimensione soggettiva del pubblico e l’esterno generato dal dispositivo, e a connetterle in una progressione storica. Ci si è chiesto, successivamente, se il valore ‘aggregante’ del flicker ci avrebbe permesso di rintracciare, guardando attraverso il discorso disarticolato e multiforme dei lavori analizzati, alcuni protocolli indicativi delle mutazioni assunte dalla nozione di opera, se per alcune delle pratiche si potesse ancora parlare di opera e non, piuttosto, di esperimento scientifico o test percettivo, se in questi casi specifici ancora restasse immutata l’identificabilità della pratica estetica rispetto ad

1 L’espressione proviene da un seminario dottorale tenuto dal Prof. Leonardo Quaresima dal titolo Una questione di stile. La nozione di stile cinematografico, alla luce di due studi di caso.

229 altre forme assunte dall’esperienza soggettiva, codificata o analizzata da altre aree del sapere. Sul piano storiografico l’arco temporale costruito ha consentito di collegare ambiti di studi e approcci dissimili e di ridiscutere, in modo trasversale, alcuni elementi di criticità nel riconoscimento dei legami tra prassi estetiche storiche ed espressioni del contemporaneo, quali principalmente quelle tra l’Expanded Cinema e quello che è stato definito audiovisivo espanso, le lacune presenti in molti contributi di carattere storico sulla media art rispetto a momenti germinali dell’ibridazione tra arte e tecnologie quali le tendenze di Arte Cinetica e Programmata. Un ulteriore livello di ‘aggregazione,’ permesso dal flicker, è quello tra arte e scienza, accomunate dal filo conduttore del tema percettivo. L’assunzione di una metodologia di studio integrata che, analizzando le trasformazioni relative allo statuto di opera e suggerite dal fenomeno estetico stroboscopico, accogliesse saperi provenienti da altre aree disciplinari, quali principalmente le hard sciences contemporanee ma anche le scienze sociali e i media studies, ha reso possibile la strutturazione di una conoscenza del processo percettivo ibrida, pertinente alle opere in esame ma estendibile più in generale alle specifiche pratiche definibili come dispositivi percettivi, nelle quali cioè l’autore elabora come fine primario della creazione estetica una partitura sensoriale e un sistema di funzioni, interazioni e meccanismi atti a destrutturare le consuetudini percettive metabolizzate nell’esperienza ordinaria. A partire da considerazioni nate in seno alla psicologia sperimentale e alle neuroscienze, è possibile riconoscere e decifrare alcuni di questi meccanismi, che hanno radici fisiologiche ma che non esauriscono in questa sfera la loro valenza, in quanto costituiscono i lessemi di un linguaggio percettivo elaborato dagli artisti e messo in forma di esperienza soggettiva nell’opera: la natura duplice e sincretica della percezione che, oltrepassando le dicotomie cognitiviste tra sensazione e cognizione, permette di leggere una continuità tra soggetto percepiente e ambiente attraverso il corpo, è risultata significativa per l’analisi delle particolari variazioni del concetto di opera suggerite dal fenomeno artistico a carattere stroboscopico. Il tema del corpo è una presenza inscritta in gran parte della prassi estetiche di flicker

230 ma non sempre in modo esplicito. Tale rilevanza è riconoscibile come un fil rouge, connettore ideale di tutte le trasformazioni in atto - nel presente del panorama analizzato o verificatesi nella microstoria delle opere di flicker tratteggiata dalla ricerca – relative alle nozioni di opera e fruizione estetica, rispetto alle quali la ricerca ha individuato alcune tendenze principali, senza dubbio parziali e perfezionabili, quali principalmente: il superamento del predominio dell’occhio nelle gerarchie sensoriali dell’arte occidentale, a favore di una dinamica percettiva multimodale e somatica; la produzione di una dimensione spaziale immersiva che dall’espansione dell’immagine si tramuta in emanazione di un soggetto che genera e, insieme, percepisce l’ambiente in un meccanismo di feedback costante; la continuità, non solo percettiva, tra musica e luce pulsante, fondata sulla comune natura temporale ritmica; la progettazione dell’opera come sistema invisibile, campo esperienziale entro il quale si fenomenizzano processi infrapercettivi, legati cioè ad un ordine fisico particellare, determinando nel vissuto estetico la messa in forma di fenomeni presenti ad un livello matriciale dell’esperienza consueta del mondo e che il dispositivo opera fa emergere, ponendola alla consapevolezza del soggetto; infine, una diversa caratterizzazione della nozione di liveness nel momento estetico, individuata a partire da un concetto di presenza che non corrisponde (o non unicamente) a quella del performer ma che si problematizza e ridiscute indistintamente in pratiche installative o performative in funzione della relazione tra opera e condizionata dal dispositivo mediale. La selezione del corpus di opere incluso nel capitolo terzo, è stata condotta a partire da queste linee e le ha ridiscusse alla luce degli esempi e delle specificità dei lavori: ciascuna delle tre macro-aree ha aggregato due esempi apparentemente opposti, la cui comparazione ha permesso di rintracciare similitudini e discordanze, non con l’intenzione di proporre un compendio della miriade di variazioni che le prassi artistiche offrono rispetto ai protocolli individuati – non era tra gli intenti della ricerca produrre categorizzazioni o tassonomie – quanto piuttosto circoscrivere delle tendenze ricorrenti proprio a partire da punti di contatto e differenze, quali la coincidenza tra liveness e le ricerche autoriali sul dispositivo, la progettazione di ambienti spazializzanti infrapercettivi, la progettazione di processi esperienziali e il loro confronto con altri paradigmi extra-artistici dell’esperienza.

231 L’analisi delle pratiche, declinata secondo questi nuclei di riflessione, ha confermato la rilevanza del corpo come termine determinante di tali modi di comportamento delle opere, condizione incarnata della soggettività e membrana di relazione tra interno ed esterno dell’individuo che non è privato della sua realtà materiale o assorbito dalle pratiche mediali e immersive, tantomeno da quelle stroboscopiche. Il confronto con i domini della scienza, anziché sottrarre soggettività e individualità all’analisi dei processi estetici, permette piuttosto di riconfigurare una condizione della fruizione che supera molti discorsi sulla smaterializzazione della dimensione organica del corpo interni alla media art e di guardare oltre la polarizzazione tra interno ed esterno, materiale e immateriale a favore di un corpo che è in grado di slittare tra queste due dimensioni apparentemente dicotomiche. Alla luce di quanto proposto, addentrarsi negli ambiti delle neuroscienze, non sembra condurre ad un’interpretazione dell’opera come momento di pura verifica empirica del fondamento scientifico della percezione – accomunabile quindi alla prassi sperimentale – quanto piuttosto acquisire un minimo grado di strumenti utili a comprendere parte dei ‘modi’ dell’esperienza che il momento estetico instaura. Troppo spesso la tendenza a riportare i discorsi sulle prassi in un panorama limitatamente interno alle questioni dell’arte rischia di oscurare la continuità tra l’esperienza estetica e quella del quotidiano, che invece è un aspetto fondante in forme d’arte che rinunciano al linguaggio, alla linearità del meccanismo cognitivo per inscriversi direttamente nel corpo, nei meccanismi più primitivi e radicali del nostro essere nel mondo. L’indagine sulle interazioni tra soggetto e ambiente attraverso il détournement degli automatismi percettivi, è sottotraccia costante nel lavoro di Kurt Hentschläger, analizzato nel case study a chiusura del progetto. In FEED (2005) e ZEE (2008), due lavori basati sulle qualità della luce stroboscopica, l’autore stabilisce una serie di mutazioni e trasformazioni delle condizioni esperienziali del soggetto che relativizzano i modi ordinari di orientarsi ed esperire l’ambiente, attraverso una messa in crisi della nozione di spazio come entità a priori dall’esperienza del soggetto e la riformulano come risultato di un processo endogeno. Una riflessione, quella dell’artista che, a partire da livelli radicali e

232 primordiali dei meccanismi percettivi e della condizione somatica dell’individuo, esprime una valenza anche rispetto ai discorsi sulla nozione di fruitore/spettatore in seno alla media art e ai film studies contemporanei, in quanto il percorso delle due opere disegna un arco tra due paradigmi dell’audiovisione che conduce dalla frontalità dello schermo all’immersività. Tale confronto, tra i due poli antitetici della fruizione, è attuato attraverso una mutazione delle condizioni ambientali ma anche (e soprattutto) a partire da mutazioni interne al soggetto. In questo senso i due lavori confermano quanto rilevato nel corso della ricerca sulla nozione di dispositivo ambientale che, a partire dall’Expanded Cinema fino alle sue derivazioni contemporanee dell’audiovisivo espanso, è da intendersi non tanto come articolazione architettonica e amplificata della superficie visiva nello spazio intorno al soggetto, quanto come una differente condizione di esperienza dell’environment. L’esempio dei due lavori di Hentschläger e delle specifiche modalità attraverso le quali viene attuata la mutazione del soggetto da spettatore a fruitore, mostra inoltre come tale condizione non sia condizionata esclusivamente da elementi qualificabili in base ai soli domini del sonoro e del visivo: il corpo esperiente del fruitore connette e rielabora una varietà di elementi che oltrepassano la distinzione tra canali sensoriali e si collocano in zone interstiziali, complesse e multimodali ma che nondimeno contribuiscono a costruire un ‘senso’ dello spazio, quali ad esempio le sensazioni viscerali, il movimento del corpo, la prossimità ad altri individui o lo stato di isolamento. Il caso di Hentschläger ha permesso anche di ridiscutere la prassi documentale in funzione della rilevanza attribuita al soggetto esperiente presente in generale nelle pratiche immersive, in quelle stroboscopiche in particolare, e in massima misura nello specifico delle due opere dell’autore. Una riflessione sull’operazione documentale avanzata cioè a partire da quella che abbiamo indicato in Introduzione come ‘assunzione di autorialità’ del fruitore, citando una definizione di Roberto Diodato. 2 Pratiche estetiche che, come quella di Hentschläger, spingono ad interrogarsi sulle possibilità e limiti della documentazione, su come lasciare traccia della molteplicità e singolarità delle esperienze, come il documento possa aderire alla dimensione collettiva del

2 Diodato R., Lo spettatore virtuale, in Somaini A., 2005, pp. 269-281.

233 racconto e del punto di vista del singolo fruitore. Una criticità che al tempo stesso non dissolve la valenza del documento in relazione a tali pratiche, al contrario: la trasversalità e la difficile collocabilità dei progetti ambientali stroboscopici, estendibile più in generale a molta parte delle pratiche audiovisive espanse, pone il rischio di una perdita della loro memoria, sia in senso storico che nel contemporaneo. Infatti, la documentazione di queste prassi estetiche, variabili, transitorie, liminali e situate favorirebbe la loro ricollocazione nella storia dell’audiovisivo in una prospettiva futura ma anche una loro disseminazione nel contemporaneo, intesa come maggiore conoscenza dei progetti artistici tra studiosi, curatori e altre tipologie di operatori culturali. In chiusura del case study, viene prosentata, come possibile elemento utile alla questione, la strategia documentale basata su tecniche di intervista al pubblico elaborata da Lizzie Muller, in collaborazione con altre studiose di media art. Si è proceduto ad un confronto tra le linee guida individuate in questo ambito e alcune video interviste ai fruitori di una delle mostre di ZEE – condotte da componenti dello staff dell’istituzione ospitante in accordo con l’autore, dal quale è emersa la mancanza di informazioni contestuali che permettessero di inquadrare, sia pure sommariamente, le modalità di realizzazione, il set di domande e l’impianto dell’intervista. Allo scopo di qualificare, seppure nel quadro circoscritto della ricerca, tali materiali come documenti, utili ad un’analisi dei loro contenuti che permettesse di leggere il punto di vista multiforme dell’audience, sono stati quindi integrati dati contestuali prodotti attraverso interviste ad uno degli autori dei video, focalizzando l’attenzione sugli aspetti strutturali del processo di realizzazione indicati da Muller. Sono state, inoltre, recuperate le riprese originali non editate, rimaste senza alcuna destinazione da diversi anni. A partire dal caso specifico si può notare come materiali derivati da prassi di autodocumentazione da parte degli artisti che includano il punto di vista del fruitore, nel caso vengano individuati aspetti potenziali e si proceda ad integrate, laddove possibile e nella misura concessa da ciascun caso particolare, eventuali informazioni di rilievo assenti, possano presentare una polisemia che oltrepassa il condizionamento del punto di vista autoriale e la mancanza di metodologie precise nella loro realizzazione e

234 permette di considerarle possibili forme documentali dell’esperienza del pubblico all’interno di studi e di progetti di ricerca sulle opere. Lo studio e la messa a punto di protocolli sperimentali di documentazione, anche alla luce della serie di interrogativi, dubbi e ipotesi formulate a chiusura del case study, consente di intravedere in questo ambito possibili sviluppi della ricerca intrapresa: in particolare la messa a punto di metodi di documentazione di varie tipologie esperienziali, stroboscopiche e non, nell’ambito di uno studio che coinvolga figure e competenze diversificate.

235

236 INTERVISTA | otolab3 Membri: Xo00, Tonylight Opera: Megatsunami (2011)

Claudia D’Alonzo: Mi raccontate com’è nato il progetto? A partire dalla collaborazione con Xname e le successive tappe che hanno condotto alla forma attuale? Xo00: In effetti, la prima versione del live era legata ad una collaborazione con Xname, che aveva dei circuiti che funzionavano a pannelli solari e un'alimentazione a batteria. Tonylight: Lei aveva partecipato ad un workshop dedicato alla costruzione di un apparecchio a circuiti e aveva realizzato una sua rielaborazione. Poi mi ha passato gli schemi. A partire da quelli, ho costruito anch’io una mia versione, il Luminoise lo strumento che usiamo in Megatsunami, che è simile concettualmente ma ha altri suoni e un’altra struttura. Ad esempio, riceve la luce da fotoresistenze e non da pannelli solari e captando la luce modifica il suono che stai ascoltando in tempo reale.

CD: Hai reso disponibile a tua volta gli schemi progettuali della tua versione dello strumento? T: Certo, sono in download sul mio sito. Chiunque può scaricarli, riprodurli o modificarlo ancora. Anzi, mi capita spesso di essere contattato da persone che hanno costruito dei filtri utilizzando i miei materiali. X: Vorremmo anche progettare un workshop dedicato a modi e strumenti per suonare la luce, che includa sia una parte storica e teorica, insieme ad altre di esercitazione pratica e di costruzione.

CD: Per quanto riguarda i suoni, preparando la tua versione, avevi già in

3 Intervista realizzata in forma orale (registrazione audio) presso il laboratorio del collettivo otolab, a Milano.

237 mente qualità specifiche che volevi ottenere, una gamma di suoni con alcune caratteristiche definite o hai lavorato sulle caratteristiche del suono successivamente? T: Avevo già piuttosto chiaro che tipo di suono ottenere, perché avevo già provato le versioni precedenti e, a partire da quelle, mi ero fatto un idea di cosa modificare. Ad esempio: io ho voluto fare in modo che lo strumento producesse due diversi tipi di onda (quadra e a dente di sega) mentre i circuiti di questo tipo, che trovi più comunemente in giro sono solo ad onde quadre. E poi ho aggiunto un filtro che avevo creato precedentemente con Peppo, quindi il risultato è uno strumento ben più complesso di quello di partenza.

CD: Potreste descrivermi in generale il set audiovisivo, il suo funzionamento e poi nel dettaglio il Luminoise e come lavora nella produzione del suono a partire dalla luce? T: La base di tutto il live è costituita da queste schede (o circuiti) che reagiscono alla luce emettendo suoni. Nel set noi utilizziamo tre di queste schede - una prima che si avvicina di più a quella originale del progetto (del collettivo svizzero) e suona all’incirca allo stesso modo; una è il Lumanoise, e una terza, il Drone Generator, usate contemporaneamente, collegate al mixer, in modo da avere tre tipologie di suoni, da utilizzare anche a seconda dei vari momenti del live. X: Sì, ad esempio tutti i suoni a basse frequenze della prima parte sono prodotti con il Drone Generator, che ha un equalizzatore interno e che quindi ti permette di modulare molto di più il suono rispetto agli altri due circuiti. T: Il Drone Generator ha sei tipologie di suoni differenti, tutti basati su frequenze molto basse, ti permette di creare e sovrapporre tappeti di droni. Per progettarlo ho preso spunto da un circuito che fa parte della 808, la batteria elettronica anni ‘80 ed electro per eccellenza, un classico di tutta la musica elettronica, molto conosciuto nel mondo dei synth. In generale poi, va considerato, che per ognuna delle tre schede la fotoresistenza - e quindi la luce - agisce su dei parametri diversi: ad esempio nel Drone Generator agisce sul cut off del filtro e quindi ti permette di modulare molto il suono, nel caso del Lumanoise, agisce sui pitch dell’oscillatore e quindi hai degli effetti molto più dinamici. Nell’altro hai

238 l’effetto di un filtro che si apre o chiude, quindi un suono che progressivamente diventa più cupo. X: Il set prevede poi l’uso di queste macchine per l’audio e di diversi tipi di sorgenti luminose.

CD: La scelta del tipo di lampade utilizzate è pensata anche in termini di resa sonora, oltre che visiva? X: Si, soprattutto in termini audio. Ad esempio con il Drone Generator, usiamo la lampadina a incandescenza perché, essendo una fonte di luce constante e a bassa intensità, permette, avvicinando o allontanandola dalla fotoresistenza, di controllare quel tipo di suoni, come dicevamo prima, molto modulabili e fatti di microprogressioni. Tieni conto, però, che anche nelle fasi stroboscopiche successive continua a ricevere gli impulsi e quindi modifica in senso ritmico i droni. Quindi, in generale, i circuiti hanno caratteristiche date ma sono poi le luci che determinano il risultato nel live.

CD: Xo00, mi descriveresti più nel dettaglio il set di luci, almeno quello utilizzato più di recente. So che nel tempo hai continuato a modificarlo… X: Di solito usiamo: la lampadina a incandescenza; una ministrobo con delle fibre ottiche che spennellate sulla foto resistenza danno un suono che segue il ritmo della pulsazione, ma molto sottile; poi un laser, che produce un suono molto stridente, per cui in genere è associato al Lumanoise, che lavora su frequenze molto alte; delle lucine ad intermittenza. E poi c’è una lampada stroboscopica da 1500 watt modulabile che costituisce la cassa ritmica più potente e sulla quale è incentrata tutta la parte finale del live. Nel tempo abbiamo aggiunto o cambiato queste fonti, questo assetto è al momento piuttosto stabile ma può potenzialmente includere qualsiasi tipo di luce ed essere modificato di continuo. T: L’unico tratto costante è la presenza della strobo principale e comunque l’uso di fonti di luce ad intermittenza, con ritmo stroboscopico diverso. E il fatto di poter modificare i suoni, agire sulla loro potenza, avvicinando o allontanando a mano queste fonti di luce, mantenendo sempre costante una struttura ritmica.

239 CD: Quindi è possibile dire che i due elementi strutturali di riferimento nella composizione del live sono la lampada ad incandescenza e la luce stroboscopica principale e le loro conseguenze in termini sonori e che, a partire da questa griglia di base, inserite altri interventi? X: Nella struttura attuale sì, ma è inutile darsi dei limiti. Il live cambia ogni volta perché c’è molta improvvisazione. Abbiamo una struttura di base ma in costante rielaborazione.

CD: Avendo assistito a diverse esibizioni del live, ho notato sempre una profonda differenza da una versione all’altra. Sembra però che in quelle più recenti si intraveda un assetto più riconoscibile, una stabilizzazione in una forma - quasi - lineare dei vari momenti del live. Non propriamente definita, ma quantomeno ricorrente o riconoscibile rispetto alle primissime versioni. Allo stesso tempo la dimensione del work in progress e della ri- processazione mi sembra essere un elemento determinante di Megatsunami, sia in senso cronologico, dalla prima versione alle più recenti, sia nel passaggio dal live alle prove che preparano alla performance successiva. Potreste parlarmi di questo aspetto? X: In realtà lo sviluppo del live non è cambiato molto, tranne forse per la parte introduttiva nella quale abbiamo aggiunto il Drone Generator, che quindi corrisponde ad un inizio molto ‘dronico’ e dilatato che nelle prime versioni non c’era. Le altre fasi e la struttura generale in crescendo in realtà non sono molto variate. Ciò che cambia di volta in volta è lo sviluppo di ciascuna fase, di ciascun quadro, perché è totalmente improvvisata, dipende da linee ritmiche che troviamo sul momento e che lasciamo andare, sia durante le prove (cercando quindi poi di riprodurle) o direttamente nel live. L’improvvisazione è così essenziale anche perché il controllo delle luci non è affatto preciso, non puoi prepararti dei pre-set come su un software o una macchina. Lo fai letteralmente a mano e quindi abbiamo un canovaccio, una struttura di massima, ma poi tutto viene fatto dal vivo, qualche volta viene meglio, altre peggio…. T: Si c’è questa variabile del momento che è fondamentale.

240

CD: Questa dimensione d’improvvisazione e aleatorietà, che conseguenze ha in termini di performatività, rispetto ad altri lavori di otolab basati, come in questo caso, su dispositivi autocostruiti e non digitali, quindi non programmabili? Penso ad esempio al Pepposcopio in Circo Ipnotico… X: Megatsunami è molto meno determinabile, in quanto, coinvolge sia l’audio che la parte visiva. Mentre in genere negli altri lavori di otolab magari la parte visiva è improvvisata, ma il corrispettivo sonoro è molto più regolare. T: Mentre performiamo siamo molto attenti al suono che viene prodotto. La luce è una conseguenza del suono… X: Su questo non sono per niente d’accordo, è vero esattamente il contrario.

CD: Capisco che abbiate due punti di vista diversi, che vi concentriate su due aspetti differenti del live, dovuti alla vostra formazione di musicista e visual designer… T: Quando controllo la lampadina, regolo il mio movimento quando mi sembra di aver trovato il suono che cerco. Per me la luce è un tramite tra le mie mani e il suono che viene prodotto in tempo reale. X: Questo è vero, ma devi essere sempre attento ai risultati in termini di suoni che produci: è importante che anche un bell’effetto luminoso abbia una risposta audio che abbia un senso però quello che riceve il pubblico, non c’è prevalenza di una o dell’altra componente.

CD: Si tratta di un meccanismo sincronico anche in termini di resa estetica… X: Esatto. La cosa che trovo interessante è avere una reattività e una sincronia precisissima tra luce e suono. Cosa che spesso si perde nel digitale perché c’è sempre una piccola latenza. E poi è un live che ci divertiamo molto a fare e ci siamo accorti che la reattività del pubblico è molto trasversale. Crea un tipo di coinvolgimento molto diretto e sinestetico, non si presta attenzione alla qualità sonora. La gente non partecipa al live per ascoltare un pezzo o un concerto: è un

241 vero e proprio spettacolo e quindi coinvolge indipendentemente dal tuo background musicale. Una delle componenti di base dello sviluppo del progetto è stata proprio la creazione di una poetica noise, non ci interessava trovare delle ritmiche precise o dei loop, quanto piuttosto sviluppare delle evoluzioni imprecise, rumorose.

CD: Vi è capitato che il pubblico venisse a raccontarvi o a commentare la loro esperienza, terminato il live? Avete dettagli su percezioni o effetti visivi particolari da parte dei partecipanti? X: Tutte le volte. T: Sì, scatta sempre quello che noi chiamiamo effetto FEED. X: …citando Kurt, che per noi è un profeta. T: La condizione di sinestesia potente e strettissima che viene a crearsi fa emergere soprattutto la visione di colori e forme, simili ad allucinazioni, che si avvicinano molto a quello che succede nel corso di FEED. X: Quindi capita spesso che il pubblico ci racconti di aver chiuso gli occhi, soprattutto nella parte finale, in cui il crescendo di strobo è più violento, e di aver percepito forme e colori in accordo con suono. Però finora, a differenza di FEED, non abbiamo avuto episodi di manifestazioni epilettiche. A volte è capitato che alcuni lasciassero il live, che si non si sentissero a proprio agio ma mai episodi propriamente epilettici.

CD: Immagino dipenda dal fatto che le condizioni ambientali e il set up dei due lavori è molto diverso, in termini di immersività e spazializzazione, in particolare per l’assenza di fumo che è determinante nell’amplificare il coinvolgimento percettivo e di azzeramento di altri fattori visivi altri dalla luce stroboscopica. Nel vostro caso, l’allestimento richiede delle condizioni ambientali particolari? X: A parte uno spazio che sia il più possibile buio, un impianto stereo e il nostro set di strumenti direi di no. Abbiamo anche provato ad associare il video ma i risultati non ci convincevano perché introdurre altri elementi risulta deviante. Preferiamo che l’attenzione si concentri sul nostro tavolo di lavoro, su quello che

242 viene fatto manualmente e che ha dirette conseguenze in forma di luce e suono. Inoltre di solito preferiamo suonare senza palco, circondati dal pubblico, in modo che ognuno possa scegliere il grado di vicinanza alla strobo, scegliere come guardare e su cosa concentrarsi. Fa eccezione il live a Timisoara, nel 2011, durante il Simultan Festival. Eravamo in una chiesa sconsacrata, sull’altare e la strobo principale non era rivolta verso il pubblico ma verso di noi, proiettando quindi le nostre figure sulla parete in fondo, che era completamente bianca. Quindi si otteneva un effetto molto diverso ma ugualmente interessante. Anche se non abbiamo mai pensato di modificare l’assetto del live in questo modo perché il nostro obiettivo è includere il pubblico nello spazio di lavoro, stabilire un contatto il più possibile diretto tra loro e la nostra azione sugli strumenti, i suoni e le luci.

CD: Tony, nel 2011 a partire dal funzionamento di base e dagli strumenti di Megatsunami, hai realizzato una versione installativa, intitolata PhotoNoise. Me ne parleresti, segnalando in particolare quali le differenze rispetto al live e quali invece gli aspetti invariati? T: Si, è un progetto nato per Contemporary Lighting Context di Como. L’installazione utilizza gli stessi circuiti ma un set di luci con funzionamento automatico e programmato, con ritmiche e qualità diverse allestite a terra in un unico ambiente. L’obiettivo è produrre la stessa condizione sinestetica e di stretta relazione optofonica, simulare la performance ma introducendo un elemento d’interattività, di due tipi. Volendo, il visitatore può intervenire interrompendo il funzionamento programmato, variando i parametri. Inoltre, essendo le luci posizionate a terra, creano ombre da ogni visitatore, sagome di buio che agiscono sulle resistenze e quindi sul suono.

CD: Chiuderei parlando del titolo Megatsunami. Da cosa deriva e che tipo di riferimenti ha con la natura e le caratteristiche del live, in che modo lo identifica? X: È un nome che avevo in mente già da un po’ come possibile titolo, semplicemente perché mi piaceva il suono della parola e il fatto che evocasse immagini anche molto diverse, diversi significati. Mi è sembrato adatto per questo lavoro perché rispecchia il modo in cui, negli anni, ha preso forma, il tipo di

243 sviluppo tra le varie fasi del live, che si costruisce per accumulazione, in crescendo. Rispecchia secondo me la natura del megatsunami, che è una sovrapposizione di onde di dimensioni sempre maggiori, che man mano generano una grande onda finale. Anche il live è una stratificazione con un apice finale, che distrugge, azzera e insieme è un atto liberatorio, perché dal suono molto potente si passa al silenzio, quindi ad un rilascio emotivo e di energia.

244 INTERVISTA | Tez4 Opera: Displace (2011-2012)

Claudia D’Alonzo: Quali sono dal tuo punto di vista le principali differenze tra il primo prototipo di Displace proposto a Montreal e la versione 2.0 presentata al Todaysart 2012 di Den Haag, anche in funzione dei due diversi contesti nei quali sono stati presentati? TeZ: La prima differenza sta nel fatto che mentre a Montreal si trattava di un prototipo, quello di Den Haag, invece, si può considerare un lavoro che, pur rimanendo in essenza un esperimento, ha già raggiunto la maturità per essere presentato ad un pubblico meno ‘selezionato.’ Del prototipo di Montreal abbiamo tenuto l'ambiente con la piattaforma esagonale, gli altri sono stati modificati. Displace è, infatti, un'installazione site-specific e quindi ogni volta con Chris (Salter) esaminiamo tutti i parametri, a cominciare dall’architettura, le dimensioni e la divisibilità degli spazi, le caratteristiche acustiche, il potenziale percorso esperienziale, sensoriale, propriocettivo e sinestetico, per finire con il flusso e il tipo di visitatori previsti. Poi ragioniamo sulle eventuali corrispondenze antropologiche caratteristiche della cultura e dell'atmosfera del luogo in cui viene collocata. Decidiamo che tipo di sequenza di sensazioni desideriamo evocare senza un vero rigore logico. Si tratta di un lavoro difficile e time-consuming ma Chris e io ci troviamo sempre ben sintonizzati e riusciamo a compensarci perfettamente.

CD: In che modo le figure che hanno collaborato al progetto, provenienti da ambiti molto diversi– come artisti, ricercatori di differenti discipline e media

4 Intervista preceduta da una serie di confronti preliminari via email, successivamente realizzata in forma scritta, seguita da altri scambi e commenti con l’artista.

245 designer - si sono integrate nelle varie fasi di progettazione e sviluppo dell'installazione? Quale metodologia di lavoro avete adottato?

T: Chris e io definiamo in genere le prime specifiche dell'installazione. Entrambi abbiamo un solido background su suono e acustica, quindi quello sonoro è un aspetto che seguiamo noi direttamente. Poi, immaginando un vero e proprio percorso multi-sensoriale, mappiamo lo spazio e il tempo, con i vari elementi che immaginiamo debbano interagire, e cerchiamo di prevedere le sensazioni affinché siano allineate su tale percorso. Con questa mappa possiamo facilmente interagire con gli esperti dei vari sensi e, poco a poco, scendere nei dettagli di ognuno. In genere, io e Chris produciamo un primo documento, con disegno 3D e descrizione del percorso sensoriale, e lo facciamo girare nel circolo dei nostri esperti, incluso David Howse, che intanto riflette sugli aspetti più propriamente antropologici. Poi facciamo dei meetings, reali, se possibile, o a distanza, dove si fa un vero e proprio brainstorming, cercando di immaginare il maggior numero possibile di idee, individuando man mano le tecnologie e le risorse da usare per ognuna. In genere, dopo due o tre incontri di questo tipo, si arriva a stabilire la soluzione ottimale e la mappa diventa sempre più dettagliata.

CD: Come avete progettato il processo di 'de-familiarizzazione' dei fenomeni percettivi nelle varie tappe dell'installazione? Mi faresti degli esempi di come avete operato la destrutturazione di associazioni sensoriali metabolizzate, penso ad esempio al binomio tra sonoro e visivo e ai due poli in cui in genere si articola questa relazione, sincronia/non sincronia . Esistono delle gradazioni o delle aree ‘interstiziali’ tra i due estremi entro le quali lavorate?

T: Un aspetto fondamentale di questo progetto è la dimensione antropologica e sociale. Per quanto si possano manipolare gli elementi piscofisici dell'esperienza e agire in maniera diretta sui sensi, non si può prescindere dai fattori legati all’educazione e all’abitudine che moduleranno le sensazioni del visitatore in maniera determinante e, spesso, impredicibile.

246 Quando tu parli di associazioni sensoriali metabolizzate e di ‘de-familia- rizzazione’, stai già elencando dei parametri su cui dovremmo intervenire per - potenzialmente - destrutturare l'esperienza. Questi parametri appartengono proprio a quell'insieme di qualità che ogni individuo sviluppa, a seconda dell'ambiente in cui cresce, dell'educazione che riceve e delle influenze a cui è sottoposto abitualmente. Qui, in verità, noi miriamo a creare uno ‘spostamento’ (displacement) che possa far interpretare da un nuovo punto di vista le proprie esperienze, in questo percorso sensoriale inusuale. Forse un punto più interiore e, paradossalmente, anche più universale.

CD: In che modo è utilizzata nel percorso la luce stroboscopica, con quale finalità? In che modo la stroboscopia può influire, a tuo avviso, sui processi di propriocezione e sulla relazione tra corpo e spazio all'interno dell'installazione? T: La luce stroboscopica ha una gamma di applicazioni molto ampia. Creare delle allucinazioni ottiche con l'alternanza vigorosa di luce e buio è, a mio avviso, un aspetto interessante ma anche molto limitativo e spesso fine a sé stesso. Molto dipende, infatti, da come l’effetto è combinato con altri stimoli e come può potenzialmente provocare un effetto sinestetico. Nella stanza con la piattaforma esagonale, per la versione presentata a Den Haag, ho deciso di programmare un effetto stroboscopico molto sottile e continuo, una specie di vibrazione che servisse più a sostenere l'esperienza che a rovesciarla. La combinazione qui con gli odori, i gusti e la sensazione tattile e spaziale del suono ha richiesto un lavoro di composizione molto articolato.

CD: Mi parleresti del racconto dei partecipanti alla fine del percorso, previsto nella prima versione di Displace a Montreal? Su quali aspetti è stato chiesto al pubblico di focalizzare l’attenzione e cosa è emerso dai materiali raccolti? Hanno avuto una ricaduta sulla progettazione della seconda versione? Vi ha suggerito in come indirizzare il lavoro sulla nuova versione Displace 2.0? T: I partecipanti a Montreal sono stati intervistati in gruppi di sei persone, appena usciti dall'esperienza e in un ambiente a parte. David Howes e una sua assistente hanno condotto le interviste. Le domande erano abbastanza generiche e

247 riguardavano l'esperienza, come progressione e picco. Risulta difficile condensare le varie interpretazioni, specie considerando che molti erano antropologi. Comunque tutti mi sembravano d'accordo sul fatto che l'esperienza fosse un po' troppo ‘controllata’ e avrebbero desiderato più libertà di muoversi tra i diversi ambienti. L'esperienza della piattaforma esagonale con le strobo e il suono ambisonico e tattile è stato il ‘picco’ per tutti, perfino troppo intenso per alcuni. Senza dubbio, queste sono state considerazioni che hanno influito sulla progettazione della versione 2.0.

CD: Uno degli obiettivi di Mediation of Sensation è cercare intersezione nella ricerca sui sensi tra metodologia scientifica e arte. Dopo l'esperienza di Displace, quali sono, a tuo avviso, i territori comuni entro i quali instaurare la combinazione di queste due aree della conoscenza sui sensi? Che tipo di spunti ha suggerito rispetto ad una possibile ‘metodologia integrata’ il percorso fatto fin'ora dal progetto di ricerca? T: Secondo me il successo di tale interazione si potrà misurare davvero solo quando e se nuove modalità di preparazione e ricerca verranno adottate dagli antropologi per le loro investigazioni. Mi è piaciuto moltissimo il commento di David Howse che ha definito Displace 1.0 come una ‘palestra per i sensi.’ Io la leggo come un'indicazione precisa nei confronti del antropologi, uno stimolo ad usare queste nuove metodologie e tecniche per prepararsi al loro lavoro sul campo.

CD: Più in generale, in base al tuo lavoro sulla percezione e sulle ibridazioni tra arte e scienza, perché reputi interessante la costruzione di percorsi di sperimentazione comuni? In che modo e su quali basi epistemologiche pensi che le conoscenze provenienti dall'area scientifica possano arricchire la ricerca artistica e le teorie dell'arte e viceversa? T: Questo è un discorso complesso…Comunque posso dirti che non mi stancherò mai di dire che la distinzione tra arte e scienza è un artificio sfortunato e recente. Se fossimo educati all'idea che tutto ciò che ci aiuta a vivere meglio dovrebbe far parte del bagaglio di conoscenza dell'umanità, adottato e usato in quanto tale, a prescindere dal fatto che possa essere convalidato o meno dal metodo

248 scientifico, potremmo allora immaginare un mondo in cui creatività e rigore logico evolverebbero insieme, a formare paradigmi molto più aperti e vasti di quelli odierni. Il problema è che siamo educati ad interpretare la realtà, e agire in essa, attraverso strumenti intellettuali complicati e abbiamo perso quella sensibilità immediata che ci mette in comunicazione con il mondo, senza bisogno di equazioni differenziali. La scoperta e il lavoro sui sensi, perciò, diventa vitale. Se si imparasse davvero la differenza tra immaginazione e visualizzazione, tante domande e discorsi sarebbero futili. C'è bisogno di una nuova ondata di scienziati, artisti e ricercatori ibridi che riformino il sistema dell'educazione con coraggio e intelligenza. Non è un'utopia, dalla mia esperienza personale, posso dire che rispetto a noi artisti gli scienziati sono molto più preparati a questo.

CD: In base alla tua esperienza e alle tue ricerche sul flicker, come definiresti l'esperienza immersiva? Ovviamente si tratta di una generalizzazione che esula dalle specificità di ciascun progetto, ma pensi sia possibile individuare dei tratti comuni o meccanismi dei percettivi ricorrenti? T: É una domanda interessante, visto che il termine ‘immersivo’ è molto abusato. Io considererei il termine dalla sua etimologia. Se ci immergiamo in qualcosa, probabilmente ci sono uno spazio e un medium in cui siamo immersi. Per esempio, in una piscina ci immergiamo in un rettangolo di ‘x’ metri quadrati e profondo ‘z’ e il medium è l'acqua. Quello che ci fa sentire ‘immersi’ è in verità la sensazione della pressione dell'acqua sulla nostra pelle, su tutto il corpo, la temperatura, e forse anche l'odore e il sapore dell'acqua stessa. Si tratta di una sensazione specifica e complessa che potremmo riconoscere tranquillamente anche ad occhi chiusi. C'è sicuramente una serie di elementi che accomunano tutte le esperienze di questo tipo: il buio, la mancanza di luce, o la distorsione della percezione visiva. Nel momento stesso in cui la sensazione visiva perde potere, gli altri sensi si estendono e s’interconnettono. Quando galleggiamo in piscina ad occhi chiusi, il suono dell'acqua che tocca i nostri timpani si estende profondamente, un senso di unità del corpo appare, ogni piccolo movimento provoca sensazioni di equilibrio (o meno) generale. Se però apriamo gli occhi, cominciamo ad essere distratti da ciò che vediamo e progressivamente perdiamo il

249 ‘senso delle sensazioni’ che abbiamo descritto prima. Il senso della visione è dominante, specie nelle culture come la nostra. Sentire le sensazioni è un processo interiore. Possiamo quindi immergerci dentro di noi e lasciare che i sensi, come canali aperti a 360 gradi, lascino passare segnali che ci fanno vibrare e che risuonano di colori, odori, sapori e... altre cose a cui non sappiamo dare un nome... emozioni forse. Se creiamo un ambiente dove facilitiamo questo processo di percezione interiore, per esempio al buio, e iniettiamo degli stimoli diversi, a volte sottilissimi, altre volte fortissimi, a volte singoli e a volte combinati, ecco che abbiamo una condizione immersiva.

CD: Una delle problematiche cui spesso si fa riferimento nelle teorie dell'arte rispetto al qualificarsi di un'opera come percorso sensoriale o esperienza è il sottile confine tra esperienza estetica e intrattenimento, in particolare nel caso di opere tecnologizzate o nelle quali il forte impatto emotivo favorisce una riduzione del senso critico nel fruitore, assorbito in modo quasi mimetico dal sistema opera. Pensi sia un aspetto o un rischio effettivo delle opere sensoriali, in particolare rispetto a Displace? T: Penso che gli autori di opere ‘sensoriali’ sappiano benissimo e in partenza se la loro opera è finalizzata all'intrattenimento o altro. Il rischio che venga poi interpretata diversamente c'è sempre e, anzi, sono convinto che nel panorama artistico contemporaneo ci sia un continuo mistificare e confondere attraverso il definire, con etichette o giudizi soggettivi, il tipo di arte a cui assistiamo. Mi piace pensare che un lavoro come Displace sia considerato come laboratorio invece che installazione d'arte. In Displace il sottile confine non è tra esperienza estetica e intrattenimento, quanto piuttosto tra esperienza sensoriale e interpretazione culturale.

CD: Ritieni che le pratiche che costruiscono una relazione diretta - come l'intervista - tra i partecipanti e l'artista o altre persone coinvolte nel progetto possano offrire uno spazio e un tempo di riflessione, una maggiore consapevolezza nell'audience rispetto all'esperienza dell'opera oppure che la costruzione di questi

250 momenti ponga in rischio di snaturare la soggettività dell'esperienza di ciascuno, la relazione non mediata e diretta con il processo percettivo attivato? T: Ottima domanda. Chris e io ci abbiamo pensato molto e siamo giunti alla conclusione che la soluzione migliore per creare una situazione di interazione tra noi, creatori, ed il pubblico, sarebbe quella di costruire un altro ambiente, separato dall'installazione, a cui accedere subito dopo l'esperienza. Qui, un certo livello di sensazioni potrebbero essere mantenute e dissipate lentamente. In questo ambiente comodo ci potrebbe essere del cibo e del suono ‘delicato,’ una specie di chill-out room, dove autori e pubblico posso scambiarsi impressioni in maniera assolutamente informale.

251

252 INTERVISTA | KURT HENTSCHLÄGER5 Opere: FEED (2005), ZEE (2008)

Claudia D’Alonzo: Mi parleresti della scena viennese della prima metà degli anni Novanta, dei contesti nei quali tu ed Ulf (Langheinrich) avete iniziato il lavoro come Granular Synthesis? Kurt Hentschläger: Era un periodo molto dinamico e creativo, nell’arte e nella musica. Eravamo in contatto con persone che esploravano e facevano ricerca su nuovi territori creativi, al di fuori dei format ufficiali. Alla fine degli anni Ottanta c’erano tantissimi gruppi interessati alle nuove forme mediali in città: le attrezzature (computer, mixer, videocamere) erano molto costose, per cui si tendeva a condividerle e questo portava alla naturale formazione di collettivi. Ho conosciuto Ulf all’interno di uno di essi, un collettivo chiamato Pyramedia: a quei tempi chiedevamo di essere pagati tantissimo per i nostri lavori, anche in ambito commerciale. Eravamo considerati molto arroganti in città. Una volta venne da noi una compagnia di data system, con un giovane architetto che ci chiese di realizzare un video per un loro evento, lavorando con delle strutture in vetro: realizzammo il lavoro con un computer Amiga con uscita video analogica, per il quale creammo una sorta di video feedback molto organico, pulsante, come una matrice di luce. Fu un grande successo e io mi resi conto di aver aperto territori completamente nuovi. Quando iniziammo, eravamo piuttosto disperati, ci dicevamo ‘siamo quasi trentenni e non abbiamo ancora lasciato un segno nella storia dell’arte’. Non ho mai avuto la percezione di fare qualcosa di realmente radicale, per me erano cose normali rispetto ad altre che rispettavo maggiormente. L’azionismo viennese ad esempio, al suo tempo, era qualcosa di realmente radicale, perseguitato dalla

5 La forma d’intervista qui presentata è un compendio di un confronto con l’artista reiterato in vari momenti del percorso di ricerca. In particolare, la struttura generale delle domande e risposte si compone di una prima intervista, condotta in forma scritta, e insieme a registrazioni audio di successive interviste e conversazioni avute di persona.

253 cultura ufficiale: in confronto, consideravamo quello che facevamo del tutto banale.

CD: Eravate in contatto con filmmaker sperimentali austriaci che iniziavano la loro carriera artistica, più o meno nello stesso periodo, come Peter Tscherkassky? Con alcuni di essi mi sembra condividiate anche alcuni aspetti del lavoro, come ad esempio la ri-processazione ossessiva e ritmica del dato visivo, la tendenza ad oltrepassare la cornice di proiezione… KH: L’unico punto di contatto è stato lo studio che avevamo a Vienna come Granular Synthesis, vicino al Filmmaker Cooperative. Conoscevamo molti di loro ma noi eravamo ‘quelli che usavano i computer’ e loro i filmmaker.

CD: Il flicker è un tratto distintivo della tua produzione, fin dal lavoro come Granular Synthesis. In che modo si è evoluta nel corso della tua storia artistica la ricerca sulle proprietà e le caratteristiche proprie del flicker? KH: La tecnica di montaggio discontinuo sul singolo fotogramma definisce la maggior parte del lavoro di Granular Synthesis, presente fin dal primo lavoro Piranha, del 1991, che presenta alcune qualità stroboscopiche, anche se con un basso livello di contrasto e quindi molto smorzato rispetto alle opere successive. Penso che ciò che mi ha attirato, in quella che abbiamo definito tecnica di resynthesis, sia la possibilità di saltare in un range dinamico tra fotogramma e fotogramma, di perturbare una fonte preesistente – sia video registrati appositamente che materiali di footage. Ciò che ora viene visto come il periodo ‘flicker’ del Granular Synthesis è successivo alla messa a punto dal sampler software, creato da me e Ulf, che permette di intersecare due stream di materiali audiovisivi e di aggiungere tra loro fotogrammi bianchi o neri. Questo ci ha aperto le porte del paradiso del flicker. Il software che abbiamo sviluppato e programmato, rappresenta anche uno strumento audiovisivo real time, che può essere cioè suonato come un apparecchio musicale, in modo performativo, improvvisato. Allo stesso tempo può essere controllato attraverso una partitura compositiva estremamente fissa e precisa: quindi lo abbiamo utilizzato sia in istallazioni che live performance. Non avevamo più bisogno di procedere con un

254 meticoloso lavoro di montaggio frame by frame, avevamo un modo molto più intuitivo di accedere al materiale video. A quel tempo questo ha rappresentato per me quasi una rivelazione estetica. Come spesso accade nella mia ricerca, nella quale col senno di poi posso rintracciare collegamenti e rimandi che sul momento non riesco a realizzare, questo processo di montaggio mi ha fatto tornare in mente rassegne di cinema sperimentale di molti anni prima: cose viste durante la tarda adolescenza, che mi erano rimaste indifferenti e che ho apprezzato un po’ di più per il loro carattere di gestalt radicale, solo dopo aver iniziato ad usare io per primo il flicker come forma di sperimentazione percettiva. A partire da quel periodo, il flicker è diventato progressivamente il mio obiettivo principale, i contenuti video realistici sono spariti e la ‘luce strutturata’ è diventata la mia nuova ossessione. Arrivando velocemente fino al presente, sento forse di averla quasi superata…quasi…

CD: In più occasioni hai dichiarato di aver iniziato a lavorare con le luci stroboscopiche nella progettazione di FEED per superare i limiti della proiezione e della visione frontale. Questo è un tratto caratterizzante di molto cinema di ricerca o della corrente dell’Expanded Cinema. Mi parleresti di questo aspetto. Pensi ci sia nel tuo lavoro un legame con queste esperienze? Le consideri un riferimento nelle tue ricerche? KH: Beh, ovviamente nella nostra vita al di fuori dello schermo (computer, TV, cellulari) - una condizione che esisteva ormai nel passato, in una vita maggiormente legata allo stato naturale, anziché sintetico – eravamo ancora in grado di apprezzare il fatto di sentirci immersi in un ambiente. In una sala cinematografica, di fronte alla televisione, al computer, siamo invece abituati ad occultare l’ambiente circostante, come quando tendiamo ad assecondare l’illusione, generalmente poco convincente, della simulazione prodotta da una proiezione bidimensionale. Francamente, penso che i recenti tentativi di produrre una simulazione più soddisfacente, quali ad esempio la stereoscopia 3D, in realtà rendano la condizione visiva ancor più statica e contenuta (ad esempio quando si muove la testa indossando gli occhiali 3D e si ottengono riflessi o altri spiacevoli artefatti visivi). Per me è molto più gratificante essere dentro uno spettacolo che

255 guardarlo dall’esterno: se penso alle origini del mio lavoro, devo dire che solo dopo aver iniziato a lavorare con Ulf nei Granular Synthesis, mi sono reso conto di quante cose avevo dimenticato dopo essere andato a molti festival di film sperimentali. Alcuni lavori che ho visto sono rimasti sicuramente nella mia memoria, anche se è stato altrettanto importante frequentare la scena dei club, dei quali ricordo in particolare l’uso emozionale delle luci stroboscopiche e la modalità che avevano di modificare lo spazio circostante.

CD: Come hai iniziato a lavorare sul flicker puro per FEED e poi ZEE, sulla sola luce strobosocopica, intesa sia in termini percettivi, sia come materia dotata di qualità fisiche e strutturali proprie? Che differenze ha introdotto la riduzione della componente visiva alla sola luce, rispetto a lavori precedenti, nei quali in qualche modo essa aveva ancora il valore di medium, la funzione di veicolare e dare forma all’immagine? KH: Penso che per un artista sia normale sentire spesso il bisogno di avventurarsi in territori inesplorati, senza capire inizialmente le conseguenze e senza pensare al risultato finale di quello che si sta facendo ti condurrà. Chiamali pure viaggi esplorativi o ricerca estetica. Ad ogni modo non lo definisco un processo di tipo scientifico, per me si tratta di seguire un’intuizione. Per questo corpus di opere il mio interesse inziale è stato per un’idea piuttosto oscura, che mi girava in testa da troppo tempo. Ho sentito che era tempo di rompere con il mio modus operandi, dopo aver lavorato con il video e il suono per oltre 15 anni. FEED e ZEE sono allo stesso tempo legati con i precedenti lavori video, in particolare con i landscape di flicker di Granular Synthesis. In questi panorami artificiali, la luce diventa un elemento prominente, con i suoi cambiamenti di intensità, diffusione spaziale e colore, ‘emancipandosi’ dal video narrativo o da contenuti iconici, forme nelle quali la luce agisce, come dicevi, come vettore, rimanendo quindi sullo sfondo della nostra percezione. Con il flicker, il contenuto dell’immagine non ha importanza; la luce, nella proiezione o nello schermo, si spinge inequivocabilmente in primo piano. Anche se sembra superfluo, penso sia anche importante ricordare che la luce è un elemento essenziale per la nostra sopravvivenza e questo comporta un forte attaccamento psicologico all’elemento (è semplicemente impossibile

256 immaginare un’esistenza priva di luce). Per tornare al mio percorso, le qualità sublimi della pura luce, l’essere immersi in una luce che ti scalda intensamente, l’effetto - illuminante, di elevazione e conforto ma che, insieme, può essere anche cocente, bruciante - della luce stessa, ti conduce quasi automaticamente ad essere trasportato altrove, fuori almeno dalle condizioni ambientali del quotidiano. Certo, FEED e ZEE sono entrambe legate anche in modo significativo all’assenza di spazio visivo, all’oscuramento dello spazio attraverso il fumo e quella che io chiamo ‘luce strutturata’, nella quale le pulsazioni, il flicker e le fonti visive pulsanti creano una specie di vortice visivo, riconfigurano interamente la nostra visione del mondo. Spesso descrivo l’esperienza di queste opere come ‘entrare in un bagno di luce pura’: il che può avere un effetto avvolgente e insieme calmante, un fenomeno che rappresenta l’aspetto più attraente delle dei due lavori.

CD: Pur rappresentando due momenti della tua ricerca sul flicker, FEED e ZEE declinano questo studio ognuna attraverso una differente dimensione. Quali sono dal tuo punto di vista gli aspetti di maggiore disomogeneità tra i due progetti? KH: Si tratta di due opere molto diverse, sia per set-up generale che per la condizione nella quale viene posto il pubblico. In FEED le persone entrano in uno spazio conosciuto e ‘nudo’, sgombro cioè di nebbia o altro, e vengono invitate ad accomodarsi - sedute - in quello che è inizialmente presentato come una situazione cinematografica classica, frontale. Solo a metà dello show la sala viene totalmente saturata di fumo e quindi il collasso dello spazio dato diventa parte essenziale del dramma. Inoltre, la performance è in genere molto forte dal punto di vista sonoro, con tonnellate di vibrazioni di suoni bassi. Al contrario, in ZEE si entra direttamente nel vuoto della nebbia percossa dalla luce stroboscopica, mentre lo spazio reale, le sue dimensioni o distanze, non sono mai rivelati. Questo cambia completamente il senso dello spazio. Non è possibile sedersi perché le persone non ti vedrebbero e potresti causare degli incidenti, anche se in realtà non c’è alcun bisogno di esporre avvisi prima in ingresso perché comunque le persone sono terrorizzate e a nessuno è mai venuto in mente di accovacciarsi a terra. Inoltre in ZEE, finché non sei realmente vicino a una persona, non hai modo di vedere nessuno. L’isolamento di ZEE è parte del concept del lavoro;

257 idealmente sei solo tu e lo spazio circostante. Una volta entrato in ZEE, il cervello effettua uno switch verso una modalità percettiva differente: se capita di vedere il viso di qualcuno, questa visione lavora come un’ancora che ti riporta ad una normale percezione del mondo. E questo è un elemento interessante che sperimentano le persone. I due lavori sono diversi anche in termini di suono: ZEE ha una natura più diffusa e ambientale, in termini di volumi e di estetica, un suono molto più lento e morbido. Inoltre in Zee, a differenza di FEED, è possibile camminare, muoversi.

CD: Quali sono invece le differenze di composizione, di struttura? KH: In FEED improvviso sempre tutta la seconda parte stroboscopica, amo ancora viverlo come una sfida. ZEE invece ha una struttura fissa, modificata negli anni e tra le varie versioni; però una volta installato il lavoro e predisposta l’installazione, la composizione resta quella. Sarebbe bello presentare un’iterazione nella quale esporre tutte le diverse versioni create come site specific di ZEE, una per ogni giorno di durata della mostra.

CD: Rispetto alla componente sonora dei due lavori e più in generale su possibili associazioni tra luce pulsante e suono: Ken Jacobs ha detto che il flicker ha una natura intrinsecamente sonora, anche quando il suono non è presente. Qual è il tuo punto di vista sulle qualità musicali del flicker? KH: Sono d’accordo. La relazione è ovviamente data a partire dalla frequenza, ampiezza e riflesso spaziale all’interno di uno spazio dato. Mentre FEED traduce le frequenze delle luce strobo in suono e insieme registra le emissioni sonore della lampade stroboscopiche e quindi le processa, in ZEE, pur venendosi a creare una minima relazione, entrambe le componenti – luce e suono – si sovrappongono in una forma delicata di sicronizzazione. Ho intenzione di focalizzarmi su questo tipo di rapporto nel mio prossimo lavoro con le strobo e la nebbia, a partire da SOL. C'è poi una differenza fondamentale, anche per quanto riguarda il modo in cui percepiamo e quindi elaboriamo l’elemento sonoro e visivo. Se suonate in modo continuato in uno spazio, le onde sonore mono-

258 frequenza iniziano a muoversi al suo interno al punto da consentire la percezione di cambiamenti costanti e graduali di fase e di risonanza nella relazione fisica con il suono. Quindi, il suono è presente nello spazio ma in movimento perenne, e le sue riflessioni modificano il suono stesso e insieme il suo effetto percettivo sulle persone. Come accade ad esempio nel soundscape dell’installazione Dream House di La Monte Young: non ho mai sperimentato di niente di simile… Anche la percezione del suono stereo processato dalle nostre orecchie è qualcosa di piuttosto drammatico, tanto da decostruire lo spazio che ci circonda, compreso quello dietro di noi, molto più di ciò che potrebbero mai fare i nostri occhi al massimo della loro potenza con una visione periferica a 180°. Quindi penso che i fenomeni di interferenza delle onde siano in generale molto più pronunciati nel caso del suono, piuttosto che del flicker. Ad ogni modo, tutte queste considerazioni alimentano sicuramente il mio desiderio di sperimentare con le luci stroboscopiche di prossima generazione.

CD: L’idea delle video interviste per ZEE è di Piama e Christian o risponde ad una tua richiesta iniziale? KH: L’idea nasce originariamente dall’impossibilità di documentare questo tipo di esperienze. Forse si potrebbero usare due telecamere steroscopiche ma questo tipo di documentazione è molto complessa e non è detto che funzioni. Ciò che amo di ZEE e FEED è proprio il fatto che rendano arduo documentare qualcosa che richiede la tua presenza fisica nello spazio, che non si può testimoniare solo guardando delle immagini. Quindi, quello che abbiamo pensato, con Piama e Christian, è stato di chiedere alle persone di descrivere le loro esperienze, proprio nell’ambito dell’evento di New York: il materiale è una parte del progetto e ora è disponibile online sulle pagine di ZEE.

CD: Hai mai avuto un qualche tipo di contatto o scambio con il pubblico dopo la loro esperienza in FEED o ZEE? KH: Beh sì, ho ricevuto molti feedback, agli opening e anche nei giorni precedenti alle performance, in genere durante l’allestimento (che richiede quasi una settimana). La mia impressione, che ho da ciò che ho sentito nel corso degli

259 anni, è che il mio lavoro sia uno strumento per elevare lo stato d’animo dei visitatori. Ricordo ad esempio a New York, dopo una settimana circa dall’opening, una persona nota per essere una depressa cronica, chiamò il direttore dell’organizzazione che ospitava ZEE ringraziandolo per averle regalato sette giorni senza depressione. Penso che tutto ciò sia dovuto al fatto di aver sperimentato un’esperienza sconosciuta, sorprendente, e si sa quanto amiamo le sorprese, ma anche dall’essere profondamente esposta a una vera dissociazione dal vissuto normale, quotidiano. È come avere una piccola pausa dalla nostra quotidianità, per entrare in un ambiente astratto ed estatico. Non è un ambiente statico, ma un flusso, che cambia costantemente, a volte in modo impercettibile e a volte in modo drastico, ma sul quale io opero in modo minimo dato che le persone sono già fin troppo occupate a fare esperienza con l’habitat che incontrano.

CD: In realtà mi riferivo in modo particolare alle persone fotosensibili che hanno avuto delle crisi… KH: Sono rimasto in contatto con alcune di loro, come ad esempio Sara Tirelli, una delle mie prime ‘vittime’ con FEED al Netmage di Bologna. Lei ad esempio non aveva idea di essere fotosensibile. E anch’io sapevo molto poco, qualcosa sulla fotosensitività e sui rischi del flicker, ma non avevo conoscenza nel dettaglio: appena ho iniziato a leggere libri, ad attivare la mia ricerca, nell’ambito delle sperimentazioni neurologiche, sono rimasto totalmente affascinato.

CD: Pensi che l’effetto percettivo possa essere in qualche modo accentuato dagli avvisi che vengono presentati al pubblico prima di entrare negli ambienti? Non pensi che gli avvertimenti creino una sorta di allarme nelle persone e che quindi il pubblico si approcci con un livello di emotività più alto del normale? Che non si sia, in qualche modo, neutro di fronte all’opera… KH: Questa è un’ottima domanda. Quando ZEE è stato presentato a New York, per caso, un amico di amici, direttore del Centro per l’Epilessia della Midwestern University, venne alla mostra. A cena, quella sera mi disse: ‘C’è un elemento che devi considerare. Gli avvertimenti preparano le persone mentalmente predisposte ad avere una crisi’.

260 Mi raccontò poi di un’animazione trasmessa dalla TV in Giappone circa 15 o 20 anni fa, che aveva al suo interno una frequenza video flicker che mandò all’ospedale circa 20.000 bambini con attacchi epilettici. Ma ciò che la gente non sa è che, prima che l’emittente televisiva si accorgesse del danno, il programma venne ripetuto una seconda volta, i bambini che non avevano avuto attacchi prima li ebbero in questo secondo caso, come una sorta di mimesi del comportamento di coloro che erano stati male la prima volta, un atteggiamento di replica di ciò che era successo prima. Lui stesso mi raccontò poi di un suo paziente che soffriva di attacchi epilettici, con tutte le manifestazioni del caso da un punto di vista fisico, nonostante gli strumenti EEG non registrassero alcun segnale anomalo delle frequenze neurali del cervello durante gli attacchi. Ti racconto questa mia esperienza diretta: Piama, una delle persone che mi hanno aiutato per le interviste realizzate su ZEE, è stata male durante il set up dell’installazione. Bene, un’altra persona, uscita da ZEE e saputo di Piama, si è sentita immediatamente male, fuori dall’installazione con una serie di convulsioni durate per un paio di minuti e che hanno richiesto l’intervento degli infermieri.

CD: Cosa ti hanno raccontato le persone degli attacchi epilettici, delle sensazioni o del tipo di esperienza? Dal tuo punto di vista si tratta sempre di un vissuto traumatico o doloroso? KH: Ne hanno parlato non come di qualcosa di doloroso ma come una sorta di crampo enorme che impedisce i movimenti, pur rimanendo in una sorta di stato di coscienza. Per Piama, ad esempio, si è trattato di questo e di uno stress muscolare che è rimasto poi per circa una settimana. Si tratta di una sorta di stato di trance indotto, presente in tutte le culture tradizionali e negli stati estatici di quasi tutte le religioni. Del resto, quando ti muovi in ZEE, hai in ogni caso una sorta di inizio di stato di questo tipo, che magari non si manifesta e non esplode in crisi epilettiche. Il corpo visualizza la catastrofe che accade a livello cerebrale: le sue normali funzioni s’interrompono. Penso che questo sia come una sorta di reset, così intenso, così incontrollabile, una sorta di piccola morte. É così per le persone che ‘tornano’ dall’essere svenute: non hanno memoria, non sanno chi sono, ri-

261 iniziano piano piano a riconfigurare il mondo come lo conoscono. Sono come zombie per un certo periodo di tempo, più o meno lungo.

CD: Sara (Tirelli) mi ha raccontato di ricordare solo la sensazione di perdita del controllo degli occhi, di un tremolio anzitutto della vista… KH: Sì, è quello che voglio dire: spesso le persone non mi raccontano delle loro esperienze, semplicemente perché non le ricordano. Ciò che è successo a Piama è strano, non accade normalmente, proprio perché accaduto in modo piuttosto graduale: lei parla di una sorta di ‘oscuramento’, mentre invece le persone che sono fotosensibili collassano nel giro di pochissimi secondi. Come se raggiungessero una sorta di ‘massa critica’ che una volta superata li fa collassare…

CD: Io ho avuto delle vere e proprie visioni durante l’esperienza, immagini tridimensionali molto realistiche, spesso astratte. Hai avuto modo di parlare di questo con parte del tuo pubblico, con persone cioè che non fossero quelle colpite da episodi epilettici? KH: In genere no. Le persone escono con un mood positivo e non hanno molta voglia di raccontare. Hanno bisogno di tempo, di un po’ di relax, prima di iniziare a raccontare la loro esperienza. Questo è risultato evidente nelle esperienze raccolte da Piama per i video di ZEE. Solo alcune persone, non la maggioranza, hanno visioni complesse. Le persone spesso mi raccontano di vedere letteralmente altre persone, che ovviamente non sono lì e che scompaiono poi velocemente: mi ricordo di un ragazzo in particolare che vide nel fumo un suo amico che non vedeva da moltissimo tempo. Questo è ciò che accade alcune volte. Lo stimolo attiva alcune parti della nostra memoria… Ciò che è importante per me è che tutto il sistema sia una sorta di organismo che consenta alle persone di vivere esperienze diverse. Io sono ovviamente curioso e vanitoso, come ogni artista, e quindi voglio sapere cosa pensano le persone del mio lavoro: ma non è il focus concettuale. Lo scopo è quello di consentire un collasso dello spazio visibile, della comunicazione, di accentuare il senso di isolamento e di espandere il proprio essere, abituato ad una

262 sorta di compressione dovuta alla gravità, contro la quale è possibile attivare un senso di fluttuazione…

CD: Potresti quasi pensare a un prossimo progetto in assenza di gravità… KH: Sì, potrei pensare a una specie di ZEE ambientato in un sistema di deprivazione sensoriale, attraverso l’immersione in acqua, acqua lattiginosa, ovviamente, per poter comunque utilizzare il sistema di luci stroboscopiche. Forse però prima dovrei sottoscrivere un’assicurazione per qualche milione di dollari…

263

264 INTERVISTA | PIAMA HABIBULLAH6 Oggetto: Ciclo di videointerviste Opera: ZEE (2008), Kurt Kurt Hentschläger

Claudia D’Alonzo: Qual è stato in generale il tuo coinvolgimento nella preparazione della mostra? Piama Habibullah: Ero molto coinvolta perché facevo parte dello staff del 3LD Art + Technology Center, lo spazio di New York che ospitava l’evento, e nel corso del lavoro con Kurt il confronto e lo scambio sono diventati progressivamente più intensi. Ho partecipato sia alla costruzione e messa in opera dell’allestimento e degli spazi specifici dell’installazione sia ad altre attività, più legate al management, la gestione dell’accoglienza, la comunicazione, ma anche la richiesta di permessi, norme di sicurezza etc. Come spesso accade nelle piccole organizzazioni si lavora in gruppi ristretti e lo staff è coinvolto molto direttamente e su più livelli del lavoro. Sono stata anche tra le prime persone che hanno testato l’ambiente, una volta terminato il set-up. In quell’occasione ho avuto una reazione epilettica, un malore che mi ha spinto ad approfondire la mia conoscenza sull’opera e più in generale sul potere che un lavoro come ZEE ha di coinvolgerti interamente, corpo e menta, oltre il tuo controllo.

CD: Come nasce il progetto delle video interviste al pubblico? Avevi già maturato esperienze precedenti di questo tipo o più in generale di video documentazione? PH: L’idea nasce dopo aver osservato le reazioni delle persone, subito dopo l’uscita da ZEE, insieme con Cristian Rossel, uno dei miei collaboratori, anche lui molto coinvolto nell’esperienza perché era parte delle ‘guide’ che conducevano il pubblico all’interno. Abbiamo visto persone uscire negli stati più

6 L’intervista è stata preceduta da conversazioni preliminari e successivamente sistematizzata per punti e domande definite in forma scritta. (mia traduzione).

265 diversi: shock, paura, calma, concentrazione. Alcuni erano totalmente frastornati, incapaci di parlare, altri invece esaltati, raccontavano tutto ciò che avevano visto all’interno. Insieme a Kurt (Hentschläger), decidemmo che dovevamo documentare tutta questa varietà di reazioni, emozioni e racconti. Avendo avuto la crisi, per regioni di salute, non potevo tornare all’interno dello spazio quindi decisi di raccogliere quante più impressioni possibili dalle altre persone. Prima di questa esperienza avevo alle spalle una serie diversa di produzioni audiovisive, dal documentario alla video arte, oltre ad alcuni progetti di visual design per spettacoli teatrali e di ricerca etnografica con il video. Le interviste per ZEE sono capitate in modo abbastanza spontaneo. Penso comunque che la struttura creata fosse semplice ma efficace.

CD: Avevate un focus o un obiettivo preciso in mente fin dall’inizio? Ad esempio, il video promo o una documentazione per il 3LD? PH: In partenza non avevamo una progettualità precisa, se non raccogliere aneddoti sulle varie esperienze da utilizzare in seguito in un video promo sul lavoro di Kurt o un documentario che raccontasse questo tipo di pratiche artistiche.

CD: Quanto approfonditamente conoscevi il suo lavoro, prima della vostra collaborazione? Avevi qualche nozione sulle caratteristiche percettive del flicker o sugli effetti, anche in termini di epilessia fotosensibile? PH: Sapevo molto poco di lui e delle sue ricerche. Avevo qualche conoscenza sulle luci stroboscopiche, ma nulla di paragonabile a tutti gli aspetti che ho avuto modo di approfondire grazie a ZEE, sia attraverso l’esperienza della crisi epilettica che lavorando alla costruzione dell’installazione. Grazie a questa parte di allestimento ho imparato anche molto rispetto alle condizioni ambientali dell’opera (temperatura, nebbia, luce ect…). CD: Mi piacerebbe approfondire il processo che ha condotto alla realizzazione delle videointerviste e alla loro progettazione concentrandoci su alcuni aspetti specifici, iniziando dalla costruzione dell’intervista e delle domande. Se non sbaglio, avevate una domanda principale o di partenza, mi

266 confermi? Avevate anche predisposto un set di domande specifiche e standardizzato o c’era un’impostazione più dialogica e aperta? PH: In generale le domande erano poche e molto semplici, perché abbiamo preferito non sopraffare la persona subito dopo aver avuto un’esperienza così ricca e intensa. Sostanzialmente la serie di domande era in variata da persona a persona e qualche volta abbiamo intervistato più partecipanti in coppia, nel caso ad esempio fossero venuti insieme alla mostra. In particolare in questo caso, abbiamo lasciato aperto il dialogo, anche perché le persone avevano esperienze eterogenee e a volte contrastanti (alcuni parlavano di paradiso e di Dio, altri di aver visto delle immagini della loro infanzia, altri ancora frattali o pattern di luci).

Avevamo una domanda di partenza molto semplice: “Allora, dimmi. Come ti senti? Com’è stato?” Consentivamo, inoltre, alle persone di prendere tempo e raccontarci la loro esperienza, con i propri tempi. Avevamo anche domande sulle impressioni rispetto a sensi specifici – vista, olfatto, tatto, udito – altre sull’assenza di gravità o sullla vista ad occhi chiusi, ect… Inoltre chiedevamo alle persone di confrontare quella appena vissuta con altre esperienze sperimentate nella loro vita o di storie che il vissuto nell’installazione aveva fatto venire in mente. Ciascuno aveva la propria storia e la propria esperienza, quindi le nostre domande di partenza si trasformavano in modo diverso ogni volta.

CD: Quanto tempo dopo l’uscita dall’installazione avvenivano le interviste? In che modo erano concordate? Era previsto uno specifico tempo o un luogo intermedio tra l’installazione e il set di ripresa? PH: In genere aspettavo fuori dall’installazione e con molto tatto, mi avvicinavo alle persone solo quando mi sembrava fosse il momento adatto e che si sentissero a proprio agio. I partecipanti avevano reazioni molto forti uscendo, quindi ovviamente avevano bisogno di sfogare queste emozioni. Ma allo stesso tempo non volevo perdere l’effetto di immediatezza della loro partecipazione, quindi mi avvicinavo ai gruppi chiedendo se volevano partecipare a delle interviste informali, solo per avere le loro reazioni e commenti. Non è stato fatto nessun tipo di pressione, non volevamo bombardarli o farli sentire troppo esposti. Abbiamo

267 chiesto i consensi, chiesto di firmare delle liberatorie e spiegato brevemente il processo: brevi interviste con tre o quattro domande attraverso le quali avremmo raccolto i commenti e realizzato un video per Kurt. Lo spazio di passaggio era quello proprio fuori dall’installazione, nel quale c’era un ampio studio che ospitava la struttura di ZEE (una stanza nella stanza, in pratica). Le interviste sono state fatte invece in uno studio attiguo.

CD: In che modo era strutturato il set di ripresa? PH: Era molto semplice: una videocamera, un microfono e due sedie. Nulla di più perché non volevamo sopraffare i partecipanti, né farli sentire sotto osservazione.

CD: Prima ti riferivi al fatto che alcune volte avete intervistato singoli soggetti, altre coppie di persone. Che tipo di interazioni ha creato l’intervista in coppia, quali differenze hai notato in termini di racconto e contenuto? H: È stato molto interessante perché le persone si sono relazionate non solo con noi ma anche tra di loro, facendosi domande a vicenda, esprimendo accordo o disaccordo con quanto diceva l’altro, confrontando storie molto diverse anche se si trovavano nella stessa installazione, nello stesso momento. Questo rivelava ancora di più quanto ZEE fosse un’esperienza individuale e soggettiva. CD: In genere il pubblico era disponibile a partecipare? Hai ricevuto qualche commento particolare, prima o dopo l’intervista rispetto, all’intervista stessa? PH: Le persone erano per la maggior parte disposte a partecipare, in particolare dopo che raccontavo loro della mia esperienza con ZEE, della crisi che ho avuto. Non ricordo di particolari commenti. Però possono dirti che anche dopo più di quattro anni le persone che hanno partecipato e che mi è capitato di ricontrare hanno un ricordo vivido di quello che è successo, di avermi incontrato e di aver condiviso con me un’esperienza memorabile.

268 CD: Per quanto riguarda invece le persone che non hanno accettato di prendere parte alle interviste, hanno espresso particolari motivi o dubbi come ragione del loro rifiuto? PH: Molte persone semplicemente non si sentivano a proprio agio di fronte alla videocamera. Altri preferivano, invece, all’uscita dell’installazione, restare da soli o con i propri amici, discutere con loro ciò che avevano appena vissuto.

CD: In che modo avete lavorato sui materiali ottenuti? Mi parleresti della selezione e del montaggio per il trailer finale utilizzato da Kurt come video promo del lavoro? PH: Iniziando ad esaminare i materiali, abbiamo realizzato che le persone avevano esperienze molto diverse ma sembravano comunque emergere alcuni temi. Abbiamo quindi classificato brevi estratti di frasi in soggetti come Paradiso/Dio, Vita dopo la morte, Immaginazione, Infanzia, Paura, Eccitazione, Droghe, Psichedelia. Questo è stato il punto di partenza per il montaggio. E abbiamo deciso con Kurt di creare un video da pubblicare sul suo sito. Era impossibile pensare di filmare l’installazione dall’interno, non c’era modo di descrivere accuratamente l’esperienza fisica e visiva che si ha nello spazio. Anche se ci avessimo provato, il risultato non avrebbe avuto nessun tipo di legame con l’esperienza dal vivo. Non volevamo creare un video che tentasse di spiegare l’esperienza nel suo complesso. Volevamo produrre un trailer che mostrasse quanto le persone restino profondamente toccate da ZEE. Abbiamo costruito la narrazione del video utilizzando frasi brevi, concatenandole e mescolandole per creare frasi di senso compiuto. Ciascuna frase è composta quindi dalla voce di più persone e descrive sia esperienze simili che diverse avute dai partecipanti. È montato in modo da avere una narrazione breve e interessante da guardare, ma lasciandoti con tante domande su cosa ZEE sia realmente.

269

270

fig. 1

fig. 2 1 | Bruce McClure, Christmas Tree Stand, particolare della forma proiettata, 2005. Foto di Byrony McIntyre. 2 | Bruce McClure, set di proiettori a bobina aperta, 16mm, EKI/ELF. Foto di Silvia Boschiero.

271

fig. 3

fig. 4

3 | Bruce McClure, esempio dei loop di pellicola. Foto di mediateletipos (CC BY-NC-SA 2.0). 4 | Bruce McClure, setup dispositivi audio. Foto di mediateletipos (CC BY-NC-SA 2.0).

272

fig. 5

fig. 6

5 | Tonilight (otolab), Lumanoise, 2010. Foto di otolab. 6 | otolab, Megatsunami, 2010-2012, fase introduttiva del live. Foto di Simultan Festival.

273

fig. 7

fig. 8

7 | otolab, Megatsunami, 2010-2012, lampada stroboscopica. Foto di Simultan Festival. 8 | otolab, Megatsunami, 2010-2012, lampada incandescente e laser con fibre ottiche. Foto di Simultan Festival.

274

fig. 9

fig. 10 9 | Granular Synthesis, Modell 5, 1994-1996, particolare della proiezione. Foto di HC Gilje. 10 | Granular Synthesis, NoiseGate-M6, 1998, MAK – Österreichisches Museum für angewandte Kunst, Vienna. Foto di Granular Synthesis.

275

fig. 11

fig. 12 fig. 13 11| Granular Synthesis, NoiseGate-M6, 1998, sequenze video del performer Michael Krammer. Foto di Granular Synthesis. 12 | Granular Synthesis, NoiseGate-M6, 1998, dispositivo di ripresa. Foto di Bruno Klomfar, Gebhard Sengmueller. 13 | Granular Synthesis, NoiseGate-M6, dettaglio video post-prodotto. Foto di Bruno Klomfar, Gebhard Sengmueller.

276

fig. 14

fig. 15

14 | Keiichiro Shibuya e Takashi Ikegami, filmachine, 2006, installazione. Foto di Michael Sauer. 15 | Keiichiro Shibuya e Takashi Ikegami, filmachine, 2006, impianto audio. Foto di jardins des pilotes.

277

fig. 16

fig. 17 16 | Keiichiro Shibuya e Takashi Ikegami, filmachine, 2006, dettaglio dei moduli di luci LED. Foto di jardins des pilotes. 17 | Huron, sistema software, esempio di mapping grafico degli oggetti sonori nello spazio. Foto di jardins des pilotes.

278

fig. 18

fig. 19

18 | Ivana Franke, Seeing with the eyes closed, 2011, matrice di luci LED. Foto di Collezione Peggy Guggenheim Venezia. 19 | Ivana Franke, Seeing with the eyes closed, 2011, installazione. Foto di Collezione Peggy Guggenheim Venezia.

279

fig. 20

fig. 21 20 | Chris Salter, Tez, Displace, 2011-2012, interazione tra guida e gruppo di partecipanti. Foto di Chris Salter, Tez. 21 | Chris Salter, Tez, Displace, 2011-2012, prima sala, test gustativo e olfattivo. Foto di Chris Salter, Tez.

280

fig. 22

fig. 23

22 | Chris Salter, Tez, Displace, 2011-2012, ambiente esagonale. Foto di Chris Salter, Tez. 21 | Chris Salter, Tez, Displace, 2011-2012, colonne. Foto di Chris Salter, Tez.

281

fig. 24

fig. 25

24 | Kurt Hentschläger, FEED, 2005. Foto di Anna Madeleine. 25 | Kurt Hentschläger, ZEE, 2008. Foto di Kurt Hentschläger.

282

fig. 26

fig. 27

26 | Kurt Hentschläger, FEED, 2005. Foto di ELEKTRA festival. 27 | Kurt Hentschläger, ZEE, 2008. Foto di Kurt Hentschläger.

283 284 Bibliografia

A. Amaducci, S. Arcani, Music Video, Kaplan, 2007.

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, (I ed. 1959), Dorfles G., Leardi M., (a cura di), Feltrinelli, 2008.

P. Auslander, Liveness: Performance in a Mediatized Culture, Taylor & Francis, 2008.

A. Autelitano, V. Innocenti, V. Re, I cinque sensi del cinema : XI Convegno internazionale di studi sul cinema, Forum, 2005.

A. Balzola, A. M. Monteverdi, (a cura di), Le arti multimediali digitali, Garzanti, 2004.

J. M. Barker, The Tactile Eye: Touch and the Cinematic Experience, University of California Press, 2009.

A. Barrese, A. Marangoni, MID: alle origini della multimedialità : dall’arte programmata all’arte interattiva, Silvana, 2007.

S. Bay-Cheng, C. Kattenbelt, A. Lavender, R. Nelson, (a cura di), Mapping Intermediality in Performance, Amsterdam University Press, 2011.

H. S. Becker , I mondi dell’arte, Il Mulino, 2004.

R. Bellour, Le corps du cinéma : hypnoses, émotions, animalités, P. O. L., 2009.

H. Bergoson, Laughter, 1900, in W. Sipher, John Hopkins University Press, 1980.

Y. Beuvais, (a cura di), Pauls Sharits, Les presses du réel, 2008.

C. Bishop, Installation Art: a Critical History, Routledge, 2005.

285

G. Bohme, Atmosfere, estasi, percezione, C. Marinotti, 2010.

J. D. Bolter, Grusin R., Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Angelo Guerini e Associati, 2003.

P. Bonaiuto, (a cura di), Riferimenti di psicologia generale, Edizioni Psicologia Università Sapienza Roma, 1992.

P. Bonaiuto, V. L. Masini, Ambiente stroboscopico programmato e sonorizzato, catalogo, Sala Esposizioni Ideal Standard di Milano, 1966.

S. Bordini, Storia del Panorama: La visione totale nella pittura del XIX secolo, Officina, 1984.

Y.A. Boys, R. Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, 2003.

W. J. Branden, Beyond the Dream Syndicate: Tony Conrad and the Arts After Cage, Zone Books, 2008.

A. Broeckmann, S. Riekeles, A Very Sonic Membrane. Filmachine by Keiichiro Shibuya and Takashi Ikegami, jardines des pilotes, 2008.

W. S. Burroughs, Brion Gysin: il demone della letteratura, Shake, 2008.

R. Calabretto, La dimensione musicale della videoarte, in Arte in videotape, C. Saba G., (a cura di), Silvana Editoriale, 2007, pp. 144-177.

C. Cappelletto, Neuroestetica. L’arte del cervello, Laterza, 2009.

P. L. Capucci, Il corpo tecnologico. L'influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, Baskerville, 1994.

A. Caronia, Il corpo virtuale: dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Muzzio, 1996.

A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Feltrinelli, 1995.

286 P. Cecil, Flickers of the Dream Machine, Codex, 1996.

M. Chion, Il cinema. Un'arte sonora, Kaplan, 2010

M. Chion, L’audiovisione suono e immagine nel cinema, Lindau, 1994.

M. Costa, L' estetica della comunicazione. Come il medium ha polverizzato il messaggio, Castelvecchi, 1999.

J. Crary, Techniques of the Observer: On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT Press, 1990.

S. Cubbit, The Cinema Effect, MIT Press, 2005.

A. D’Aloia, Rudolf Arnheim, I baffi di Charlot. Scritti italiani sul cinema 1932-1938, Kaplan, 2009.

G. De Vincenti, E. Carocci, (a cura di), Il cinema e le emozioni, Ente dello spettacolo, 2012.

B. Debackere, A. Altena, (a cura di), Sonic Acts XII. The Cinematic Experience, Sonic Acts Press, 2008.

G. Deleuze, Cinema. Vol. 2: L’Immagine-tempo, Ubulibri, 2004.

A. Dekker, Synaesthetic Performance in the Club Scene, Cosign 2003: Computational Semiotics, NIMk, 2003, non pubblicato.

A. Depocas, J. Ippolito, C. Jones, Permanence through Change. The Variable Media Approach, Guggenheim Museum Publications, 2003.

A. Depocas, Digital preservation: recording the recoding - the documentary strategy, Daniel Langlois Foundation for Art, Science, and Technology, Montréal, 2002, http://www.fondation langlois.org/html/e/page.php?NumPage=152, ultimo accesso 17 aprile 2013.

J. Dewey, Arte come esperienza, (I ed. 1932), Aesthetica, 2010.

D. Dietz, S. Naumann, Audiovisuology 2: Essays. Histories and Theories of Audiovisual Media and Art, Ludwing Boltzmann Institute, 2011.

287

D. Dietz, S. Naumann, Audiovisuology 1: Compendium. An interdisciplinary Survey of Audiovisual Culture, Ludwing Boltzmann Institute, 2010.

P. Dubois, F. Monvoisin, E. Biserna, EXTENDED CINEMA - Le cinéma gagne du terrain, Campanotto, 2010.

N. De Oliveira, N. Oxley, M. Petry, Installation Art in the New Millennium: The Empire of the Senses, Thames & Hudson, 2004.

N. De Oliveira, N. Oxley, M. P. Künstler, M. Archer, Installation Art, Smithsonian Institution Press, 1994.

R. Diodato, Estetica del Virtuale, Bruno Mondadori, 2005.

A. M. Duguet, Dispositifs, “Communications,” n. 48, Seuil, 1988.

U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 1964.

E. A. Edmonds, L. Muller, D. Turnbull, (a cura di) Engage: Interaction, Art and Audience Experience, atti dell’omonimo convegno, (Sydney 2006), Creativity and Cognition Press, 2010.

T. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino, 2009.

R. Eugeni, Semiotica dei media: le forme dell’esperienza, Carocci, 2010.

F. Evers, The Academy of the Senses. Synesthetics in Science, Art and Education, ArtScience Interfaculty Press, 2012.

V. Fagone, (a cura di), I Colombo: Joe Colombo (1930-1971), Gianni Colombo (1937-1993), Mazzotta, 1995.

J. H. Falk, L. D. Dierking, The museum experience, Howells House, 1992.

P. Farneti, E. Grossi, Per un approccio ecologico alla percezione visiva, F. Angeli, 1995.

288

P. Fechsig, Some Papers on the Cerebral Cortex, Thomas,1960.

J. Fisher, S. Hiller, Dream Machines. Hayward Gallery Publishing, 2000.

J. Fontanille, Figure del corpo, Meltemi, 2004.

F. Forest, L’œuvre-système invisible, L’Harmattan, 2006.

M. Foucault, Utopie. Eterotopie, Cronopio, 2005.

M. Foucault, Storia della sessualità. Vol 1. La volontà di sapere, Feltrinelli, 2001.

M. Foucault, Nascita della clinica, Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, 1998.

I. Franke, I. Momennejad, (a cura di), Seeing with the Eyes Closed, catalogue, AoN, 2011.

S. Gallagher, S. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, Cortina Editore, 2009.

M. S. Gazzaniga, The New Cognitive Neurosciences, MIT Press, 2000.

M. M. Gazzano, Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno, Exorma, 2012.

M. M. Gazzano, (a cura di), Steina e Woody Vasulka. Video, media e nuove immagini nell’arte contemporanea, Fahrenheit 451, 1995.

J. Geiger, Chapel of Extreme Experience: A Short History of Stroboscopic Light and the Dream Machine, Soft Skull Press, 2003.

P. Gidal, (a cura di), Structural Film Anthology, British Film Anthology, 1978.

J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, 1999.

289 B. Graham, S. Cook, Rethinking Curating: Art After New Media, MIT Press, 2009.

F. A. H. Graham, Jeavons P. M., Photosensitive Epilepsy, Cambridge University Press, 1994.

Granular Synthesis, ZKM/Zentrum für Kunst und Medientechnologie, Granular Synthesis. Immersive Works, booklet e DVD, Hatje Cantz, 2003.

Granular Synthesis, Granular Synthesis/Gelatine, La Biennale di Venezia, 49. Esposizione internazionale d’arte, Padiglione Austria, catalogo, Hatje Cantz, 2001.

Granular Synthesis, P. Noever, Granular Synthesis: NoiseGate-M6, Hatje Cantz, 1998.

O. Grau, (a cura di), MediaArtHistories, MIT Press, 2010.

O. Grau, Virtual Art: From Illusion To Immersion, MIT Press, 2003.

W. Grey Walter, The Living Brain, Feltrinelli, 1957.

W. Grey Walter, Cervello vivente, Feltrinelli, 1957.

B. György, Rhythms of the Brain, Oxford University Press, 2006.

G. F. A. Harding, P. M. Jeavons, Photosensitive Epilepsy, Cambridge University Press, 1994.

S. E. Henschen, “On the visual path and centre”, Brain, n. 16, 1983, 170- 180.

K. Hentschläger, U. Langheinrich, Remixes for single screen, DVD, INDEX, 2004.

D. Holzer, A Brief History of Optical Synthesis, 2003, http://www.umatic.nl/tonewheels_historical.html, ultimo accesso 20 aprile 2013.

L. Hoptman, Brion Gysin: Dream Machine, New Museum/Merrell Publishers, 2010.

290

I. P. Howard, W.B. Templeton, Human Spatial Orientation, Wiley, 1966.

D. Howes, The Aesthetics of Mixing the Senses. Cross Modal Aesthetics, Concordia University Press, 2006.

D. Jarman, Chroma. Un libro sui colori, Ubulibri, 1995.

H. Jenkins, Fan, blogger e videogamers: l'emergere delle culture partecipative nell'era digitale, F. Angeli, 2008.

C. Jones, L. Muller, Between Real and Ideal: Documenting New Media Art, Leonardo, MIT Press, 2008.

C. A. Jones, (a cura di), Sensorium. Embodied Experience, Technology, And Contemporary Art, MIT Press, 2006.

P. Joutard, Le voci del passato, Sei, 1987.

W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, (1910, I e.) E. Pontigggia, (a cura di), SE, 1989.

N. Kaplan, Manifeste d’un art nouveau: la Polyvision, Caractères, 1955.

M. Knobel, C. Lankshear, (a cura di), DIY Media: Creating, Sharing and Learning with New Technologies, Peter Lang Publishing, 2010.

G. Kepes, Il linguaggio della visione, Dedalo, 1990.

R. Krauss, Optical Unconsciouss, MIT Press, 1997.

J. F. Kuri, Brion Gysin: Tuning in Multimedia Age, The Edmonton Art Gallery/Thames & Hudson, 2003.

S. Kvale, Interviews: an introduction to qualitative research interviewing, Sage, 1996.

M. Le Grice, Abstract Film and Beyond, MIT Press, 1981.

B. Le Maître, L’impronta. Tra cinema e fotografia, Kaplan, 2010.

291

B. Le Maître, L’intuition analytique, in J. Nacache, (a cura di), L’analyse de film en question, Regards, champs, lectures, L’Harmattan, 2006, pp. 39-50.

C. Lebrat, Peter Kubelka, Paris expérimental, 1990.

D. Leder, The Absent Body, University of Chicago Press, 1990.

P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuromania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, 2009.

H. T. Lehmann, Postdramatic Theatre, Routledge, 2006.

T. Leighton, Art and the Moving Image: A Critical Reader, Harry N. Abrams, 2008.

D. M. Levin, Modernity & the Hegemony of Vision, University of California Press, 1993.

S. Lischi, Il linguaggio del video, Roma, Carocci, 2007.

S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Marsilio, 2001.

F. Lyotard, Discorso, figura, Milano, Unicopli, 1988.

L. Lumer, S. Zeki, La bella e la bestia: arte e neuroscienze, Laterza, 2011.

C. Lund, H. Lund, Audio.Visual - On Visual Music and Related Media, Arnoldsche, 2009.

M. Kemp, Visualisations: The Nature Book of Art and Science, California University Press, 2000.

J. F. Kuri, Brion Gysin: Tuning in to the Multimedia Age, Thames & Hudson, 2003.

D. MacLeod, M. A. Moser, (a cura di), Immersed in technology: art and virtual environments, MIT Press, 1996.

292 L. Maffei, A. Fiorentini, Arte e Cervello, Zanichelli, 2008,

J. Mekas, Movie Journal, The Macmillian Company, 1972.

L. Meloni Gruppo N: oltre la pittura, oltre la scultura, l’arte programmata, VAF Fondazione, 2009.

L. Meloni, Gli ambienti del Gruppo T: Arte immersiva e interattiva, Silvana, 2004.

L. Meloni, L’opera partecipta. L’osservatore tra contemplazione e azione, Rubettino, 2000.

M. Meneguzzo , Arte Programmata e Cinetica in Italia 1958-1968, La Galleria, 2000.

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, (1945, I ed.), Bompiani, 2003.

W. Morritz, Optical Poetry: The Life and Work of Oskar Fischinger, John Libbey & Co Ltd, 2004.

B. Munari, G. Soavi. (a cura di), Arte programmata, Olivetti, 1992.

J. Ninio, L’empreinte des senses, Odile Jacob, 2011.

J. Ninio, La Science des Illusionis, Odile Jacob, 1998.

A. Nöe, Action of Perception, MIT Press, 2008.

J. Noordegraaf, C. Saba G., B. Le Maitre, V. Hediger, Preserving and Exhibiting Media Art, Amsterdam University Press, 2013.

M. L. Palumbo, Nuovi ventri. Corpi elettronici e disordini architettonici, Testo&Immagine, 2001.

C. Pancino, Corpi. Storia, metafore, rappresentazioni fra Medioevo ed età contemporanea, Marsilio, 2000.

L. Passerini, (a cura di), Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Rosenberg & Sellier, 1978.

293 Christiane Paul, Digital Art, Thames & Hudson, 2003.

A. Picard Reading Between the Lines with Bruce McClure, “Cinema Scope,” n. 52, 2009, http://cinemascope.com/columns/columns-filmart- reading-between-the lines-with-bruce-mcclure/, ultimo accesso 20 aprile 2013.

M. Pierson, James D. E., Arthur P., (a cura di), Optic Antics: The Cinema of Ken Jacobs, Oxford University Press, 2011.

R. Pierantoni, L’occhio e l’idea. Fisiologia della visione, Bollati Boringhieri, 1981.

L. Poissant, Interfaces et sensorialité, PUQ, 2005.

L. Poissant, E. Daubner, Art et Biotecnologies, PUQ, 2005.

F. Popper, From Technological to Virtual Art, The MIT Press, 2006.

F. Popper, L’arte cinetica, Einaudi, 1993.

D. Presenti Compagnoni, Quando il cinema non c'era, UTET, 2007.

L. Quaresima, Il cinema e le altre arti, La Biennale di Venezia, Marsilio, 1996.

L. Quaresima, Walter Ruttmann: cinema, pittura, ars acustica, Manfrini, 1994.

V.S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, 2012.

A. L. Rees, D. Curtis, D. White, S. Ball, Expanded Cinema: Art, Performance and Film,Tate Publishing, 2011.

D. Regan, Human Brain Electrophysiology. Evoked Potentials and Evoked Magnetic Fields in Science and Medicine, Elsevier, 1989.

F. Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, 2000.

A. Richard, Projecting Illusion: Film Spectatorship and the Impression of Reality, Cambridge University Press, 1995.

294 B. Richard, Granular Synthesis. Immersive Works, ZKM, Hatje Cantz, 2004.

V. Ronchi, La storia della luce. Scritti di ottica, Il Polifilo, 1968.

C. G. Saba, (a cura di), Arte in videotape, Silvana Editoriale, 2007.

C. G. Saba; C. Poian, Unstable cinema: film and contemporary visual arts, Campanotto, 2007.

C. G. Saba, Cinema video Internet: tecnologie e avanguardia in Italia dal futurismo alla Net.art, CLUEB, 2006.

E. Schweeger, Granular Synthesis/Gelatine, catalogo Padiglione Austriaco, Biennale di Venezia, Hatje Cantz, 2001.

P. Sharits, Paul Sharits, “Film Culture,” numero speciale, n. 65-66, 1978.

S. Shaviro, The Cinematic Body, University of Minnesota Press, 1993.

J. Shaw, P. Weibel , Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, ZKM/MIT Press, 2003.

J. Shaw, A. M. Duguet, H. Klotz, P. Weibel, Jeffrey Shaw: A User's Manual, from Expanded Cinema to Virtual Reality, Hatje Cantz, 1997.

C. Schneemann, Expanded Cinema - Free Form Recollections of New York, International Underground Film festival, catalogo, Arts Laborarory/ NFT, 1970.

P. Sitney Adams, Visionary Film: The American Avant-Garde, 1943- 2000, Oxford University Press, 2002.

P. Sitney, Adams. Visionary Film: The American Avant-Garde 1943- 1978, Oxford University Press, 1978.

D. W. Smith, A. L. Thomasson, Phenomenology And Philosophy of Mind, Oxford University Press, 2005.

295 J. R. Smythies, Hallucinogenic Drugs, cap.XXVIII, in Modern Trends in Neurology, Butterworth, 1962.

V. Sobchack, Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, University of California Press, 2004.

V. C. Sobchack, The Address of the Eye: A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, 1999.

A. Somaini, Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, 2005.

D. N. Stern, Le forme vitali. L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo, Raffaello Cortina, 2011.

J. Sterne, The Audible Past: The Cultural Origins of Sound Reproduction, Duke University Press, 2003.

M. Stubbs, Granular_Synthesis, in G. Stocker, C. Schöpf, Infowar, 1998, pp. 252-257.

C. Subrizi, Il corpo disperso dell’arte, Lithos, 2000.

P. Thompson, The Edwardians. The Remaking of British Society, Routledge, 1973.

M. Trieb, Space Calculated in Second: The Philips Pavillon, Le Corbusier, Edgard Varèse, Princeton University Press, 1996.

V. Turner, E. M. Bruner, The Anthropology of Experience, University of Illinois Press, 1986.

P. Tscherkassky, Film Unframed. A History of Austrian Avant- Garde Cinema, FilmmuseumSynemaPublikation, 2012.

C. van Campen, Hidden Sense, MIT Press, 2007.

V. Valentini, Le storie del video, Bulzoni, 2003.

V. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza: le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, 1992.

296 W. Vasulka, P. Weibel, Buffalo Heads Media Study, Media Practice, Media Pioneers, 1973-1990, MIT Press, 2008.

W.&S. Vasulka, (a cura di), Eigenwelt der Apparatewelt: Pioneers of Electronic Art, catalogo, Ars Electronica, 1992.

L. Vergine, Arte programmata e cinetica, 1953 - 1963: l’ultima avanguardia, Mazzotta, 1983.

Vj Theory Network, (a cura di), VJam Theory: Collective Writings on Realtime Visual Performance, Vj Theory publishing, 2008.

W. Wees, Light Moving in Time, University of California Press, 1992.

Wilson S., Information Arts: Intersections of Art, Science, and Technology, MIT Press, 2002.

G. Youngblood, Expanded Cinema, Dutton, New York,1970.

S. Zeki, Con gli occhi del cervello: immagini, luci, colori, Di Renzo, 2011.

S. Zeki, Splendors and Miseries of the Brain: Love, Creativity, and the Quest for Human Happiness, Wiley-Blackwell, 2008.

S. Zeki, La visione dall’interno: arte e cervello, Bollati Boringhieri, 2007.

S. Zeki, Lamb M., The Neurology of Kinetic Art, Brain, n. 117, 1994.

297

298 Emerografia

AA.VV., Live a/v. Performances audiovisuelles, numero speciale di “MCD - Musiques et cultures digitales,” n. 4, 2010.

E. D. Adrian, B. H. Matthews, Potential changes in the isolated nervous system of Dytiscus marginalis, “Journal Physiology,” n. 67, 1931, pp. 132-151.

C. Allefeld, P. Putz, K. Kastner, J. Wackermann, Flicker-light induced visual phenomena: Frequency dependence and specificity of whole percepts and percept features, “Consciousness and Cognition,” v. 20, n. 4, 2011, pp. 1344-1362.

H. Belting, Image, Medium, Body: A New Approach to Iconology, “Critical Inquiry”, n. 2, University of Chicago, 2005, pp. 302-319.

S. Bertolotti, Displace 2.0: Mediazione delle Sensazioni. Un dialogo con Chris Salter, in “Digicult,” gennaio 2013, http://www.digicult.it/it/news/a conversation-with-chris-salter-on-displace-2-0/, ultimo accesso 4 aprile 2013.

S. Borş, Sensory Geographies. A Conversation with Kurt Hentschläger, “Antiutopias,” marzo 2013, http://www.anti-utopias.com/sensory- geographies-a-conversation-with-kurt- hentschlager/, ultimo accesso 20 aprile 2013.

R. T. Bruckner, Travels in Flicker-Time (Madre!), “Spectator,” v. 28, n. 2, 2008.

A. Carvalho, The Ephemeral in Audiovisual Realtime Practices: An Analysis into the Possibilities for its Documentation, ISEA 2011 Istambul, 17th International Symphosium on Electronoic Art, Istanbul, 14- 21 settembre 2011, isea2011.sabanciuniv.edu/paper/ephemeral-audiovisual realtime-practices-analysis-possibilities-its-documentation, ultimo accesso 20 aprile 2012.

299 L.B. Castell, Optiques des coleurs, 1740, http://visualiseur.bnf.fr/Visualiseur?Destination=Gallica&O=NUMM- 107986, ultimo accesso 20 aprile 2013.

G. Cooke, Liveness and the Machine, Improvisation in Live Audio- Visual Performance, “Screen Sound,” n. 2, 2011, pp. 9-26.

M. Costantini, C. Urgesi, G. Galati, G. L. Romani, S. M. Aglioti, Haptic perception and body representation in lateral and medial occipito-temporal cortices, “Neuropsychologia”, n. 49, 2011, pp. 821-9.

J. Croft, Theses of Liveness, “Organised Sound,” v. 12, n. 1, Cambridge University Press, 2007, pp. 59-66.

C. D'Alonzo, Metodo otolab, “Digimag,” n. 41, febbraio 2009, http://www.digicult.it/digimag/issue 041/otolab-method/,ultimo accesso 10 aprile 2013.

H. Deisl, Off-key Continuities: Audiovisual Interventions by the Video Bands Metamkine and Granular Synthesis, “VJTheory”, 2 febbraio 2006, http://www.vjtheory.net/art/friend_metamkine_and_granular.htm, ultimo accesso 20 aprile 2013.

B. Duguid, Conrad Interview, 1996, “Media Hyperreal Magazine,” http://media.hyperreal.org/zines/est/intervs/conrad.html, ultimo accesso 20 aprile 2012.

F. D’Orazio, FEED. An ob-scene performance, NIM XXVI, 2006, http://www.nimmagazine.it/node/54, ultimo accesso 17 marzo 2013.

R. Eugeni, Media Experiences and Practices of Analysis. For a Critical Pragmatics of Media, intervento presso l'Amsterdam School for Cultural Analysis (ASCA) International Workshop Practicing Theory, University of Amsterdam, 2-4 Marzo 2011, http://www.academia.edu/399281/A_Semiotic_Theory_of_Media_Experie nce, ultimo accesso 20 aprile 2012.

D. H. ffytche, “Visual hallucinations in eye disease'.Current Opinion in Neurology, n. 22, 2009, pp. 28-35.

300 D. H. ffytche, The hodology of hallucinations, “Cortex”, n. 44, 2008, pp. 1067-1083.

E. Franzini, Neuroestetica. L’arte del cervello di Chiara Cappelletto, in “Altre modernità”, n. 4, 2010, pp. 302-305.

Frye B., In Conversation: Bruce McClure, Brooklyn Rail, luglio- agosto 2006, http://www.brooklynrail.org/2006/07/film/bruce-mcclure- with-brian-frye, ultimo accesso 12 aprile 2013.

L. Furlong, Notes Toward a History of Image-Processed Video: Eric Siegel, Stephen Beck, Dan Sandin, Steve Rutt, Bill and Louise Etra, “Afterimage”, 1983.

V. Gallese, Mirror Neurons and Art, in Bacci F., Melcher D., (a cura di) Art and the Senses, University Press, 2010, pp. 441-449.

V. Gallese, D. Freedberg, Motion, Emotion and Empathy in Esthetic Experience, in “Trends Cognitive Science,” n.11, 2007.

E. Gehr, Program Notes by Enrie Gehr for a Film Showing at the Museum of Modern Art,” Film Culture”, 1972, pp. 36-37.

J. Geiger, Interview with Tony Conrad, 2003, inedita, http://tonyconrad.net/geiger.htm, ultimo accesso 20 aprile 2013.

O. Grau, Immersion and Interaction. From Circular Frescoes to Interactive Image Space, http://www.medienkunstnetz.de/themes/overview_of_media_art/im mersion, ultimo accesso 17 aprile 2013.

C. Hart, Granular Synthesis. Interview with Kurt Hentschläger, “Artbyte,” vol. 1, n. 5, 1999, pp. 33-34.

S. E. Henschen, “La projection de la rétine sur la corticalité calcarine,” La semaine Médicale, n. 23, 1903, pp. 125-127;

U. Hentschläger, Interview mit Kurt Hentschläger und Ulf Langheinrich, “Medien Kunst Passagen,” n. 1, 1993, pp. 51-54.

C. Jones, L. Muller, The Giver of Names, by David Rokeby: Documentary Collection, Daniel Langlois Foundation, 2008,

301 http://www.fondationlanglois.org/html/e/page.php?NumPage=212 , ultimo accesso 20 aprile 2013.

S. Lischi, In Search of Expanded Cinema, in “Cinema & Cie,” n. 2, 2003, Il Castoro, pp. 82-95.

G. Maciunas, Some Comments on Structural Film by P. Adams Sitney, “Film Culture”, n. 47, 1969.

B. McLean, FEED by Kurt Hentschläger, in “Journal Seamus,” v. 19, n. 2, 2008, pp. 26-7.

M. Mancuso, Kaiichiro Shibuya: Order And Chaos, “Digimag,” n. 34, 2008, http://www.digicult.it/en/digimag/issue-034/kaiichiro-shibuya-order- and-chaos/, ultimo accesso 20 aprile 2013.

M. Mancuso, Kurt Hentschlager. Feed: il collasso dello spazio visibile, “Digimag,” n. 26, 2007, http://www.digicult.it/it/digimag/issue-026/feed- visible-space-collapse/, ultimo accesso 20 aprile 2013.

B. C. Meulen, D.Tavy, B.C. Jacobs, From Stroboscope to Dream Machine: A History of Flicker-Induced Hallucinations, “European Neurology,” v. 62, n. 5 2009, pp. 316-320, http://content.karger.com/produktedb/produkte.asptyp=fulltext&fi e=000235945, ultimo accesso 17 aprile 2013.

P. A. Michaud, Flicker, le ruban instable, in “Les Cahiers du Musée National d’Art Moderne,” n. 94, 2006, p. 88-95.

W. Morritz, The Dream of Color Music, And Machines That Made it Possible, “Animation World Magazine,” n. 2.1, aprile, 1997.

B. Niessen, B. Biserna, S. Barcucci, C. D'Alonzo, A. Del Fanti, M. Mancuso, (a curadi), The Open Future, “MCD – Musiques & Cultures Digitales”, n. 68, 2012.

L. Muller, Towards an Oral History of New Media Art, The Daniel Langlois Foundation for Art, Science, and Technology, 2008, http://www.fondationlanglois.org/html/e/page.php?NumPage=209 ultimo accesso 17 aprile 2013.

302 E. Pitozzi, Corpo sonoro collettivo. Verso una tattilità uditiva, “Digimag,” n. 51, febbraio 2011, http://www.digicult.it/digimag/issue-051/a-collective-resounding- body-aiming-towards-an-auditory-tactility/, ultimo accesso 8 aprile 2013.

E. Pitozzi, Note per una fenomenologia dell'invisible, “ARTo’,” n. 20, Bologna, 2006.

E. Pitozzi, R. P. Dalò, Electro Scene. Interview with Kurt Hentschlager, 2012, inedito, http://www.kurthentschlager.com/portfolio/cluster/pdf/ElectroScen e_QuestionsKH.pdf, ultimo accesso 20 aprile 2013.

F. Platz, R. Kopiez, When the Eye Listens: A Meta-analysis of How Audio-visual Presentation Enhances the Appreciation of Music Performance, “Music Perception: An Interdisciplinary Journal,” v. 30, n. 1, University of California Press, 2012, pp. 71-83.

J.A. Quirk, D.R. Fish, S. J. M. Smith, J.W. Sander, S.D. Shorvon , P.J. Allen, Incidence of Photosensitive Epilepsy: A Prospective National Study, “Electroencephalography and Clinical Neurophysiology”, n. 4, ottobre 1995, pp. 260–267.

V.S. Ramshaw S., Deconstructin(g) Jazz Improvisation: Derrida and the Law of the Singular Event, “Critical Studies in Improvisation / études critiques en improvisation”, v. 2, n. 1, 2006.

L. Shams, S. Shimojo, Sensory Modalities Are Not Separate Modalities: Elasticity and Interactions, “Current Opinion in Neurobiology”, n. 1, 2011, pp. 505-509, http://neuro.caltech.edu/publications/nbb408.pdf, ultimo accesso 10 aprile 2013.

JR. Smythies, The Stroboscopic Patterns. III. Further Experiments and Discussion, “Br J Psychol,” n. 5, 1960, pp. 247-255.

Spiegl, Frankensteintechnodrug, in K. Gerbel, P. Weibel, (a cura di), Mythos Information. Welcome To The Wired World, Ars Electronica 1995, catalogo, 1995, pp. 380-383.

303 S. A. Stwertka, The Stroboscopic Patterns as Dissipative Structures, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, v. 17, pp. 69-78, 1993.

C. Tamblyn, Image Processing in Chicago Video Art, 1970-1980, “Leonardo Journal”, v. 24, n. 3, 1991, p 303-310.

A. K. Tirovolas, D. J. Levitin, Music Perception and Cognition Research from 1983 to 2010: A Categorical and Bibliometric Analysis of Empirical Articles in Music Perception, “Music Perception: An Interdisciplinary J ournal,” v. 29, n. 1, University of California Press, Settembre 2011, pp. 23- 36.

T. Triggs, Scissors and Glue: Punk Fanzines and the Creation of a DIY Aesthetic, “Journal of Design History”, v. 19, n. 1, Oxford University Press, 2006, pp. 69-83.

L. Thompson, Uber Johannes Evangelista Purkinje und seine Werke, “Skandinavisches Archiv für Physiologie,” n. 37, Walter De Gruyter & Co, 1919, pp. 1-116.

C. Urgesi, A. Avenanti, Functional and Epiphenomenal Modulation of Neural Activity in Body-Selective Visual Areas, “Cognitive Neuroscience,” v. 2, n. 3-4, 2011, pp. 212-214.

V. J. Walter, W. Grey Walter, The Central Effects of Rhythmic Sensory Stimulation, “Electroencephalography and Clinical Neurophysiology,” 1949, pp. 57-86.

H. Willis, Real Time Live: Cinema as a Performance, in “Afterimage,” n. 37, 2008, pp. 11-15.

304 Le flicker dans l’audiovisuel immersif Résumé Général

Le terme flicker est utilisé pour indiquer le traitement temporel d’un fait visuel dans des œuvres filmiques et time based (basé sur le temps). Il indique également l’alternance rapide de la lumière et de l’obscurité typique des lampes stroboscopiques et en même temps une série de phénomènes perceptifs consécutifs et caractéristiques. 1 Cette recherche tente d’établir quelles reconfigurations particulières dans le statut d’œuvre et d’expérience esthétique sont suggérées par les pratiques audiovisuelles de flicker pur, au sein desquelles le rythme stroboscopique abstrait constitue la seule composante visuelle, ou du moins la composante prédominante. Dans cette perspective sont identifiées des caractéristiques propres aux expressions de l’audiovisuel de recherche, provenant, à leur tour, du panorama accidenté de la production artistique contemporaine à caractère immersif. Cet intérêt pour l’application du flicker dans le domaine artistique est né de mon expérience en tant que commissaire d’exposition, et tout particulièrement grâce aux recherches effectuées pour la préparation d’un video screening réalisé en 2009 pour le DOCVA Documentation Center for Visual Arts de Milan, en collaboration avec INVIDEO2.

1 Qu’il soit question d’un flux d’images et/ou de lumière pure, le rythme – défini en tant que tel – atteint par le papillotement se situe dans un intervalle approximatif de fréquences contenues entre 8 et 25 Hertz. Les fréquences contenues entre 8 et 14 Hertz peuvent provoquer des effets perceptifs particuliers. 2 Quando l’occhio trema (Quand l’œil tremble), exposition organisée par Claudia D’Alonzo et Mario Gorni, fondateur du DOCVA, Documentation Center for Visual Arts de Milan et de Careof organisation à but non lucratif pour la promotion de la recherche artistique contemporaine, fondée en 1987. En outre, notons la participation de INVIDEO, autre organisation importante qui, depuis 1990, travaille à la diffusion et à la promotion de la production vidéo expérimentale en Italie et à l’étranger. Parmi les auteurs présents dans cette exposition : Claudio Ambrosini, ape5+milky ry, Scott Arford, Alessandrà Arnò, Gerard Cairaschi, Paolo Chiasera, Antonin De Bemels, Thorsten Fleisch, Paolo

305 Dans le cadre de ce projet, le flicker a été utilisé comme élément de rassemblement élémentaire, à travers lequel observer différentes formes de l’audiovisuel expérimental et confronter des matériels d’archives, principalement de films expérimentaux et de vidéos, avec des travaux liés au panorama des pratiques performatives et environnementales numériques. Les conditions particulières d’organisation et de présentation, ont exclu la possibilité d’accueillir une série d’exemples significatifs sur le plan du concept général mais néanmoins irréductibles aux modalités d’installation de l’exposition vidéo3. De telles limitations du caractère opératif ont permis d’inaugurer une réflexion qui a permis une lecture plus ample des aspects spatiaux des œuvres de flicker. En effet, la tension commune à se constituer en environnement, non dans une acception architecturale mais comme mode d’expérience de l’espace, est une caractéristique partagée par ce type particulier d’œuvres audiovisuelles, notamment dans leurs spécificités et différences respectives. Chacun selon la poétique qui lui est propre, les projets stroboscopiques – en ce qui concerne la dimension de l’espace – ouvrent un passage partant du dispositif spatialisé, entendu comme système d’appareils visant à l’expansion de l’image, et arrivant au dispositif spatial, basé sur l’élaboration d’un système de fonctions dans lesquelles impliquer le spectateur. Ils génèrent ainsi une condition particulière de perception et de réception. La création d’un environnement est un trait caractéristique de bon nombre de productions de cinéma expanded. A l’intérieur de ce large panorama les travaux stroboscopiques, notamment contemporains, définissent un moyen particulier de la condition spatiale, que nous avons choisi de qualifier d’immersif. Il s’agit d’une expression récurrente et éculée dans le domaine de l’expérimentation électronique, et par rapport à laquelle la recherche entend identifier certains points de référence. Le passage de ma pratique de commissaire d’exposition vers la recherche – parcours qui, en outre, fut nécessaire pour configurer mon objet d’étude - m’a

Gioli, Graw & Bockler, Granular Synthesis (Kurt Hentschläger/Ulf Langheinrich), Girts Korps, otolab, Steina et Woody Vasulka. 3 La mise en place prévoyait une black box (boîte noire) avec projection en loop (boucle) sur les parois des travaux sélectionnés d’une durée approximative de 90min.

306 amené à replacer les expériences audiovisuelles stroboscopiques sur le plan plus large des relations entre art et science traitant du thème de la perception. Un lien intrinsèque à l’utilisation de la lumière palpitante, qui trouve initialement, en effet, une application dans le domaine scientifique comme stimulus en expérimentation sur le cerveau et sur l’épilepsie. Les flashs de lumière provoquent chez le sujet une réponse physiologique particulière : ceux-ci agissent directement sur les rythmes des ondes cérébrales, les synchronisant aux mêmes fréquences elles en déterminent la production des ondes alpha et thêta correspondant à un état normal – c’est-à-dire non conditionné par des stimuli externes ou programmés particuliers – de rêve, d’hypnose, de relâchement profond, de méditation et de moment créatif.4 A partir, donc, de son application expérimentale et diagnostique, il est possible de retrouver la trace d’une propriété potentielle du rythme visuel du flicker qui prend sens même par rapport à sa présence dans une œuvre audiovisuelle, en particulier en ce qui concerne l’expérience du spectateur. La synchronisation directe du cerveau sur le rythme de la lumière ou de la source visuelle a une incidence directe sur la condition émotive et cognitive du spectateur actif. Elle peut, potentiellement, l’amener à une condition similaire, sur le plan physiologique, à des états particuliers de la relation entre sujet et monde extérieur, c’est-à-dire dans lesquels le concept de réalité externe perd un peu de son caractère de vérité objective, et se génère alors à partir de dimensions internes au sujet. Un effet perceptif que la pulsation peut déterminer dans certaines conditions, et qui contribue à accentuer la nature individuelle de l’expérience provoquée par l’effet stroboscopique, notamment dans l’apparition de visions fantasmagoriques de formes et de couleurs plus ou moins complexes. Ces effets, d’une manière similaire à ce qui se passe dans le cas d’hallucinations et d’illusions d’optiques, sont des indicateurs significatifs de la confrontation entre deux pôles de la perception, c’est- à-dire entre le sujet qui perçoit et le monde extérieur.5 La phénoménologie du flicker révèle le rôle actif du sujet durant l’activité perceptive, car le fait est que la perception ne peut être considérée comme une opération dans laquelle un récepteur

4 Cf. Györgi B., 2006, pp. 112-117 5 Sur l'importance des illusions optiques, voir J. Ninio, 2011 et 1998.

307 dans le corps recueille d’une manière passive et automatique le stimulus qui lui parvient de l’extérieur.6 Un objet d’étude ainsi configuré demande au chercheur d’affiner ses propres instruments d’analyse, de se constituer un regard qui sache appréhender l’œuvre à partir de sa présence et de son action dans la sphère du sensible, puisque les caractéristiques particulières des œuvres examinées sont avant tout d’être des dispositifs perceptifs, des activateurs potentiels d’expériences qui impliquent le spectateur actif d’une manière directe, physiologique, somatique. Analyser le processus perceptif comme niveau primordial du sens de l’œuvre, construire une esthétique fondée sur la perception, c’est-à-dire cohérente avec sa propre racine étymologique, implique d’ouvrir les perspectives et les instruments d’analyse à d’autres champs du savoir qui s’occupent traditionnellement de la perception, notamment dans le domaine scientifique. Le champ de la perception est, en effet, un champ multidimensionnel qui nécessite une propension à se glisser entre différents domaines du savoir, et en particulier à se confronter avec ce qui est affirmé dans le domaine scientifique sur les mécanismes qui régulent la perception. D’un côté, la référence aux fondements physiologiques des phénomènes perceptifs permet d’analyser le moment de l’expérience, « l’accomplissement » de l’œuvre dans la jouissance, de l’autre elle permet de se rapprocher des phases qui précèdent ce moment, de se rapprocher du travail de l’artiste, et permet ainsi d’identifier les caractères spécifiques des différentes poétiques sensorielles élaborées par leurs auteurs. Ce n’est donc pas un hasard si, à côté d’une prolifération de projets artistiques prenant la forme d’un dispositif perceptif, certains domaines d’étude empruntent des références tirées d’autres disciplines scientifiques, notamment dans les neurosciences, pour en approfondir les mécanismes physiologiques à la base des réactions sensorielles en acte au moment de la rencontre entre l’œuvre et son public. Les ouvertures disciplinaires, présentes en un sens depuis tout récemment dans les études sur le cinéma et l’art médiatique (media art), sont intéressantes dans le cadre général des questions et des formes d’expérimentation parties

6 Cf. Gallese V., Seeing art…beyond vision. Liberated embodied simulation in aesthetic experience, in Franke I., 2011, p. 62.

308 prenantes de cette recherche. Dans les discours sur l’art à caractère médiatique, la contamination avec des thèmes et des approches de type scientifique est présente depuis les premières lueurs électroniques de ce type de pratiques et se diffuse comme objet de réflexion théorique, en particulier à partir des années 1990, pour trouver sa pleine affirmation dans la dernière décennie. Dans ce domaine, la question perceptive est abordée généralement à partir des mutations induites par les technologies électroniques dans la sphère du sensible et la prise en charge ou l’expérimentation de la part des artistes de paradigmes perceptifs particuliers, correspondant à des technologies spécifiques. Cette question perceptive est lue généralement comme capacité du projet esthétique d’intercepter, de s’interroger et de réélaborer les changements en acte dans la société qui lui est contemporaine7. Une telle position interdisciplinaire permet de développer des éléments d’analyse théorique en « syntonie » avec bon nombre de recherches artistiques et avec les structures perceptives complexes des œuvres, en établissant la rencontre entre art et science sur le thème de la perception, à partir de l’élément commun technique et technologique. Cependant, elle trahit souvent en même temps un sensationnalisme mal dissimulé, ainsi que des formes de techno-enthousiasme pour ces nouveaux médias toujours plus originaux, et un manque de perspective historique, d’attention aux formes du sensible médiatique qui précèdent l’ère électronique. 8 De plus, l’insistance sur les changements produits par le

7 Il est important de citer dans ce panorama quelques publications de l’Université du Québec, provenant en particulier des études de Louise Poissant, qui ont rapproché et systématisé une grande partie de la discussion qui a émergé au cours des années 1990 – principalement à partir d’auteurs comme Roy Ascott, Derrick de Kerckhove, David Rockeby, Poissant Louise, PUQ, 2005, 2003. Pour un examen plus approfondi sur le rapport entre art, science et technologies concernant la perception et qui ne se concentre pas uniquement sur la nature médiatique électronique des dispositifs impliqués cf. Jones A. C., MIT Press, 2006. La confrontation constante entre art et science sur le plan technologique est aussi à la base d’un influent projet éditorial publié par la MIT Press, le Leonardo Journal, fondé en 1968 par l’artiste cinétique Frank Malina et qui est devenu un des points de référence dans ce domaine de recherche multidisciplinaire. Outre le Journal à caractère périodique, se distinguent en particulier pour les questions liées à la dimension sensorielle et perceptive : Harris C., MIT Press, 1993; MacLeod D., Moser M. A., MIT Press, 1995; van Campen C., MIT Press, 2007. L’on distingue, en outre, parmi les institutions universitaires centrées sur le rapport entre art et science, le cours de maîtrise ArtScience de la KABK, Royal Academy of Art Interfaculty de La Haye, Pays-Bas. 8 Un exemple qui va dans ce sens est représenté par le catalogue du MIT Press (cité plus haut), dans lequel - bien que situant historiquement les empiétements entre art et science sur le thème de la perception, et bien que récupérant la racine de ces correspondances à partir des langages de la

309 renouvellement technologique, néglige souvent la possibilité, également intéressante, d’identifier des éléments constants transversaux, comme notamment les mécanismes ataviques de la perception qui demeurent inchangés malgré le renouvellement des innovations technologiques. De même dans le champ des études filmiques, ce n’est qu’à partir des années 1990 que l’on peut identifier les premières incursions vers le domaine de la science, et en particulier dans la psychologie expérimentale et dans les neurosciences. Ces ouvertures coïncident avec l’attention progressive donnée à la dimension de « l’être spectateur », qui veut que ce spectateur actif soit impliqué en tant qu’individu empirique, ramenant ainsi dans cette vision l’expérience du film au caractère concret phénoménal du sensible9. Au même moment, une attention importante est accordée aux mécanismes d’identification et d’implication vis-à-vis du processus diégétique, laissant souvent exclus des facteurs structurant l’expérience dans son ensemble, c’est-à-dire le fait d’être un processus situé qui implique une multiplicité d’éléments contextuels et environnementaux. 10 Ces éléments contribuent à attribuer à l’expérience audiovisuelle un caractère de vécu incarné et multidimensionnel. La recherche se confronte et se positionne par rapport à deux scénarios d’hybridation avec la science sur le thème de la perception avec l’intention de former sa propre méthode intégrée, selon deux niveaux différents. Dans un premier temps avec les neurosciences, en accueillant - dans son propre parcours d’enquête sur les spécificités du flicker - des références aux racines physiologiques des mécanismes perceptifs, mais également en vertu de la descendance de ce champ peinture, tout en passant par les pratiques performatives et le happening jusqu’à rejoindre la multitude de pratiques d’art média contemporain - d’autres moments pionniers importants demeurent néanmoins exclus, parmi lesquels, par exemple, les expérimentations dans le champ de l’Art Cinétique et Programmé entre la seconde moitié des années 1950 et 1960, ainsi dans l’ensemble du domaine cinématographique. Ibid. 9 Pour un examen plus approfondi en langue originale du thème des intersections entre études cinématographiques et neurosciences, Cf. De Vincenti, Carocci E., Ed. Fondazione Ente dello Spettacolo, 2012; per una panoramica del dibattito internazionale sulla dimensione empirica della spettatorialità (pour un panoramique du débat international sur la dimension empirique de «l’être spectateur ») cf. J. Barker M., University of California Press, 2009; Bellour R., P.O.L., 2009; G. Deleuze, Ubulibri, 2004; Elsaesser T., Hagener H., Einaudi, 2009; Stern D.N., Raffaello Cortina, 2011, Sobchack V., University of California Press, 2004; V. C. Sobchack, Princeton University Press, 1999. 10 Cf. Gallagher S., Zahavi D., 2009.

310 des sciences dures de bon nombre des recherches conduites par les artistes et des toutes premières applications de cette lumière palpitante au cours des expériences en laboratoire. L’apport d’une telle perspective interdisciplinaire cache toujours le risque d’une ambigüité épistémologique, c’est-à-dire d’assimiler les modalités d’étude sur la perception au moment de la rencontre de l’œuvre et de son public aux modalités d’étude de la science. Comme le souligne Raymond Bellour, il peut arriver que l’on prenne la norme scientifique comme unique clé de lecture de l’œuvre, qu’elle s’assimile et qu’elle dénature cette exception représentée par l’expérience esthétique à la régularité des fonctionnements physiologiques11. Cela se produit, par exemple, chez quelques représentants de la neuro-esthétique, discipline récente qui se propose d’expliquer ce qu’il se passe dans le cerveau au moment où l’œuvre rencontre son public et qui cède, dans certains cas, à la tentation de réduire toute la complexité du moment esthétique à la seule mécanique neurale. 12 L’existence de telles études, abordées au cours de la recherche, ne devrait pas inhiber, comme cela arrive souvent malheureusement, la confrontation fructueuse et l’échange entre art et science. Au contraire, le fait que certaines disciplines neurologiques aient commencé à s’occuper de la « chose artistique » met en évidence d’une manière encore plus résolue la nécessité pour le chercheur en sciences humaines d’élaborer des méthodologies et des instruments adaptés, hybrides, mais toujours bien ajustés aux spécificités de l’art et grâce auxquels les termes de cette intégration ne prennent pas le risque de perdre de vue ou d’annuler le sens propre de l’objet esthétique. Comme le suggère Bellour, la méthode intégrée de cette recherche entend « recevoir des suggestions des modèles d’interprétations de la science et dans le même temps être capable de s’en séparer13. » Un discernement entre ces deux pôles est nécessaire, pas tant pour renouveler des schématismes et des oppositions, que pour identifier les spécificités propres de chaque domaine sur la question perceptive.

11 Bellour R., Vedute d’insieme (Vues d’ensemble), in De Vincenti G., Carocci E., Ed. Fondazione Ente dello Spettacolo, 2012, p. 81. 12 Cf. Zeki S., 2008, 2007, 1994. Pour une analyse critique des nouveaux domaines influencés par les neurosciences voir Legrenzi P., Umiltà C., 2009. 13 Ibid. p. 59.

311 Donc, au cours des différents moments de cette recherche, les renvois aux neurosciences sont insérés afin de construire un cadre des réactions physiologiques possibles, ainsi que définir le degré d’indétermination et de subjectivité de la perception. A partir de ce niveau commun, l’œuvre est ensuite considérée dans ses particularités propres et dans le discours spécifique que celle-ci construit à travers la grammaire des sens, à travers les différents degrés d’expérience et à travers les interrogations avec lesquelles elle intervient sur chaque spectateur d’une manière différente, redéfinissant les paramètres de proprioception et de construction identitaire du soi. Le second niveau d’intégration qui entend s’établir sur le plan méthodologique se situe entre les théories de l’art médiatique et des études cinématographiques, champs de la recherche en sciences humaines qui, bien que partageant cette ouverture vers les sciences dures et rejoignant souvent les paradigmes d’analyse de la condition expérientielle sur une base perceptive souvent similaire, peinent encore à trouver des lignes d’étude communes ou du moins à converger, par rapport à certaines pratiques spécifiques, comme par exemple, les pratiques audiovisuelles à caractère stroboscopique. L’attention portée à la condition du spectateur actif en est vraiment un exemple. Elle est analysée à la lumière du thème perceptif, et donc de l’œuvre audiovisuelle, comme expérience sensorielle. Ce discours nous donne l’occasion d’introduire des prémices de caractères généraux, utiles pour situer bon nombre des discours abordés au cours de notre recherche : ici comme ailleurs nous faisons référence à l’art médiatique, terme qui, dans les études sur l’art et l’audiovisuel, l’on fait généralement correspondre à son emploi dans une œuvre composée de technologies électroniques, analogiques ou digitales. Ce projet n’ayant pas comme objectif d’approfondir l’ambigüité d’une telle définition, nous avons préféré adhérer à cet usage conventionnel et nommer « médiatiques » seulement les œuvres « électrifiées ». Nous soulignons au même moment que, dans la droite ligne de l’approche historiographique offerte par Olivier Grau, l’origine des pratiques artistiques à caractère médiatique précède de beaucoup l’avènement des médias électroniques, et que l’un des premiers langages médiés est vraiment représenté par

312 le langage cinématographique et par ses dispositifs14. Notre recherche embrasse une perspective historique ample avec l’intention d’instaurer des points de contact entre différentes formes de l’art médiatique - pas uniquement électronique - à partir de cet élément unificateur qu’est la lumière stroboscopique, et en essayant de réunir différents moments et différentes histoires de l’expérimentation artistique. Ce regard d’historien permet de garder en mémoire des pratiques liminales et illégitimes ; de celles qui, à cause de l’absence véritable de classification taxinomiques et de cadres définis, restent souvent aux marges des histoires officielles de l’audiovisuel. Suivant cette idée, ce travail de thèse a préféré affronter et tenter de forcer certaines positions internes aux disciplines de l’art pour faire place aux pratiques : découvrir des expériences considérées avec un intérêt tout particulier dans le panorama de l’audiovisuel de recherche, en faisant émerger des problématiques théoriques, qui rapprochent des domaines souvent éloignés des expérimentations artistiques. Le parcours de ce projet s’articule en quatre chapitres. Le premier construit un parcours chronologique apte à identifier les origines des phénomènes artistiques récents. Tout d’abord dans le domaine des neurosciences, à travers la revue des principales étapes de l’utilisation de la stroboscopie dans des ensembles expérimentaux,15 puis ensuite, en en suivant l’acquisition progressive dans les champs des arts visuels et du cinéma expérimental - en particulier dans des domaines comme le cinéma structuraliste, l’art cinétique et programmé italien, les pratiques de cinéma expanded et l’audiovisuel immersif contemporain, caractérisé par des installations et des performances en temps réel. L’implantation historiographique de la recherche, outre le fait de découvrir des exemples significatifs par rapport à l’utilisation du flicker dans la pratique esthétique, entend contribuer à souligner une continuité nécessaire entre les différentes histoires de l’audiovisuel et profite de l’occasion pour faire un point sur la confrontation entre héritage historique et expressions contemporaines de la condition d’expansion du

14 Grau O., 2007. 15 Cf. Geiger J., 2003; Stwrtka S. A., 1992; Franke I., Momennejad I., (sous la direction de), 2011, pp. 15-22.

313 fait audiovisuel et de ses retombées sur le spectateur.16 Pour clore ce chapitre, une série d’observations, réalisées à partir d’un regard diachronique sur les pratiques identifiées, tend à fixer des caractéristiques propres et récurrentes des œuvres stroboscopiques et introduire la section suivante. Dans le second chapitre, sont identifiées certaines questions de caractère théorique vis-à-vis desquelles l’on retient que ces pratiques posent des interrogations et des idées importantes, que ce soit dans une perspective historique d’évolutions du statut d’œuvre et de l’expérience de jouissance, que dans le débat contemporain. Parmi celles-ci, une première partie est dédiée aux thématiques liées au thème charnière de la perception et au rôle opératif du corps, que ce soit dans la relation entre sujet et monde, que dans l’identification du soi. S’affrontent donc des questions liées à la spécificité de la perception visuelle et à la redéfinition de l’acte de voir comme processus.17 Un processus qui n’est pas exclusivement oculaire mais systémique, avec une référence particulière à certaines contributions relatives, soit au domaine des neurosciences, qui permettent l’émergence du concept de perception incarnée.18 Concept confronté ensuite à certaines positions liées au corps et à la perception dans l’art médiatique 19 et dans les études cinématographiques.20 La condition immersive est directement liée à la dimension somatique, propre des œuvres de flicker. Le concept d’immersion est difficile à définir même si il est utilisé de manière récurrente dans la description des œuvres environnementales contemporaines. A partir des contributions extraites du domaine des études médiatiques,21 des théories du corps et du domaine des arts visuels et médiatiques,22 nous procédons en mettant en évidence des nœuds qui s’avèrent

16 Lischi S., In Search of Expanded Cinema, in, 2003, pp. 82-95. Voire aussi Rees A. L., D. Curtis, White D., Ball S., (sous la direction de), 2011. D. Dietz, S., Naumann S., (sous la direction de), 2011, 2010. 17 Cf. Zeki S., 2007. 18 Cf. Gallese V., Mirror Neurons and Art, in Bacci F., Melcher D., (sous la direction de), Art and the Senses, 2010, pp. 441-449 ; V. Gallese, D. Freedberg, Movimento, emozione, empatia, in “Prometeo,” n.26, 2008, pp. 52-59. 19 Cf. Jones C. A., (sous la direction de), 2006. 20 Cf. Barker J. M., 2009; Sobchack V. C., 1999. 21 Cf. Grau O., 2003. 22 Bay-Cheng S., Kattenbelt C., Lavender A., Nelson R., (sous la direction de), 2001 ; Belting H., 2005 ; Bishop C., 2005 ; De Olivera N., 2004, 1996 ; Jones C. A., (sous la direction de), 2006 ; Palumbo M. L., 2001 ; Rella F., 200 ; Subrizi C., 2000;

314 problématiques dans la conception des relations entre corps, perception et espace.23 Le second champ de ce chapitre est dédié aux relations entre son et image établies à l’intérieur d’installations audiovisuelle ou de performance en temps réel. A partir de la reconstruction du panorama d’expérimentation transversale entre langages visuels et sonores, une digression historique est en effet tracée pour délimiter un domaine d’expérimentation artistique délicieusement interdisciplinaire qui implique les arts visuels, la musique et le media design.24 Par la suite, nous nous arrêtons sur le rythme et sur sa fonction dans la construction de liens entre les deux langages, élément charnière des œuvres de flicker, avec une référence à certaines contributions notables dans les études cinématographiques. 25 Contributions confrontées à des études récentes d’artistes et de chercheurs dans le champ de l’art médiatique et de la musique électronique de recherche, élaborées à partir de la définition de mécanismes d’intégration multi-sensorielle dans les neurosciences.26 Nous procédons avec trois exemples d’étude sur les possibilités musicales offertes de la nature rythmique du flicker, et de sa relation avec les structures musicales qui la composent, à travers les recherches et les réflexions théoriques relatives de trois auteurs de référence : Peter Kubelka, Tony Conrad et Paul Sharits. Enfin, un troisième paragraphe approfondit deux questions consécutives de la nature éphémère et transitoire des œuvres de flicker et, d’une manière plus générale, du caractère expérientiel d’un grand nombre de productions d’art médiatique à caractère perceptif, dans laquelle l’expérience coïncide avec le contenu même du projet esthétique. En ce sens, le dispositif œuvre système invisible que les travaux de flicker représentent, permet d’intercepter au niveau phénoménologique de l’expérience des formes d’infra-perception, c’est-à-dire d’empiétement de l’immatériel dans le domaine de la physicité.27 Pour clore ce chapitre, nous rediscutons le concept de liveness (direct), que l’on fait souvent

23 Caronia A.,1996 ; Poissant L., 2005 ; Foucault M., 2005. 24 Cf. Calabretto R., La dimensione musicale della videoarte, in Saba G. C., (sous la direction de), 2007, pp. 144-177; Dietz D., Naumann S., 2011, 2010 ; Duplaix, S., 2004 ; Gazzano M. M., 2004 ; Lund C., Holger Lund, 2009 ; Brougher K., Strick J., 2005; 25 Cf. Chion M., 2010, 1994. 26 Cf. Salter C., Question of Thresholds: Immersion, Absorption, and Dissolution in the Environments of Audio-Vision, in Dieter D., Naumann S., 2012, pp. 200-235 ; Dauer G., Audiovisual Perception, in Dietz D., Naumann S., (sous la direction de), 2010, p. 329-338. 27 Cf. Foster F., 2006.

315 correspondre avec celui de présence de l’artiste et de temps réel.28 Au contraire, on retient que la condition perceptive particulière et la condition du spectateur, les méthodes de production du fait visuel et du son à travers des systèmes génératifs et des dispositifs technologiques caractéristiques de nombreuses œuvres - objet de notre recherche - tendent à contredire cette acception répandue, en faveur d’un paradigme partagé entre pratiques performatives et installation. Le troisième chapitre définit un corpus sélectif d’œuvres à travers lesquelles nous exposons, sans aucune prétention à l’exhaustivité, quelques tendances en acte dans l’hétérogénéité de l’art médiatique audiovisuel contemporain réunies par la place centrale qu’occupe le flicker en tant qu’élément visuel et environnemental prépondérant. A partir de sources premières – interviews d’artistes et de chercheurs impliqués dans différents projets, enregistrements audio et vidéo des œuvres, réalisés pour la majeure partie par les artistes eux-mêmes – puis à partir de sources secondaires - catalogues, documents textuels conçus par des festivals ou des galeries d’expositions - sont identifiés trois grands champs correspondants à autant de tendances représentatives de la scène de l’art médiatique contemporain.

- recherche conduite par l’auteur sur le dispositif : l’étude des aspects médiatiques de l’œuvre audiovisuelle, de la part des artistes, se présente comme un panorama extrêmement complexe et peuplé d’approches hétérogènes. Les deux exemples, représentés par une performance de Bruce McClure (par. 1.1) et une autre performance du collectif otolab (par. 1.2), réunis grâce à l’utilisation du flicker à l’intérieur de systèmes de synthèse optophonique originaux ou fruit d’une réinterprétation du dispositif, sont lus comme deux âmes possibles de l’art médiatique contemporain. - relation sono-visuelle infra-perceptive : Le rapport entre audiovisuel et espace constitue un panorama extrêmement articulé vis-à-vis duquel certaines caractéristiques de référence sont isolées. Parmi celles-ci, la

28 Auslander P., 2008 ; Cooke G., 2011 ; Croft J., 2007 ; Fewster R., Modes of Experience: Precence, in Bay-Cheng S., Kattenbelt C., Lavender A., Nelson R., 2011;

316 tendance à concevoir le flicker comme équivalent visuel, pas nécessairement synchronique, d’une matière sonore composée de micros éléments temporels. Dans ce décor deux exemples sont identifiés, ils sont représentés par une installation de Granular Synthesis (par. 2.1) et par une œuvre de art sonore du compositeur Keiichiro Shibuya et du chercheur Takashi Ikegami (par. 2.2). - Projet de l’œuvre comme ensemble expérientiel : dans l’art médiatique et plus généralement dans les arts visuels contemporains, l’attention générale pour la correspondance entre contenu de l’œuvre et expérience du spectateur se traduit dans certains cas par la finalisation de modes expérientiels inspirés ou tirés du champ de la recherche scientifique. Dans ces cas précis, la frontière entre l’usage du flicker dans des ensembles expérimentaux et son usage dans les contextes de la pratique artistique tendent à se dissoudre. Les deux exemples sélectionnés, à savoir une œuvre de l’artiste Ivana Franke et un projet des artistes médiatiques et musiciens électroniques Tez et Chris Salter – qui, tout en signalant une correspondance entre leurs recherches respectives à l’œuvre dans le domaine des études scientifiques sur la perception - semblent poser des questions problématiques quant à l’interprétation des expériences induites par l’œuvre. Expériences que l’on peut déduire à partir de différentes modalités d’enregistrement et de documentation élaborées par ces deux projets.

Le quatrième chapitre est une étude de cas consacrée au travail de l’artiste autrichien Kurt Hentschläger et, tout particulièrement, à deux de ses travaux récents, conçus en solo, FEED (2005) et ZEE (2008), considérés comme deux configurations successives d’un même noyau de recherche, fruit d’une réflexion constante sur l’expérience du flicker et sur une élaboration poétique personnelle de l’espace. Nous retenons que l’analyse de cette trajectoire spécifique dans les recherches de Hentschläger est en mesure de réunir de nombreux éléments et problématiques mis en évidence au cours de notre recherche, et nous fournir l’occasion de les remettre en discussion à la lumière de leur concrétisation à

317 l’intérieur de la praxis artistique de l’auteur. Une seconde raison motive ce focus, de nature plus strictement historiographique. Même si Hentschläger est un point de référence dans le champ de l’art médiatique (media art) et qu’il peut être défini - notamment pour un travail comme Granular Synthesis - comme l’un des initiateurs de bon nombre de tendances actuelles de l’audiovisuel expanded, il manque encore, à l’exception d’un nombre restreint de catalogues et d’articles, une revue exhaustive et une étude approfondie et systématique de sa production. 29 Le problème de repérage des sources et des documents sous-tend par conséquent l’analyse toute entière et vis-à-vis de laquelle on espère que la recherche puisse apporter une contribution utile. L’analyse de la recherche artistique de Hentschläger sur le flicker, déclinée dans la pratique des deux œuvres citées plus haut, ouvre en outre une série d’interrogations par rapport à la possibilité de documenter les expériences esthétiques stroboscopiques et, plus généralement, les œuvres basées sur l’expérimentation de mécanismes perceptifs particuliers.30 Les observations élaborées en clôture de l’étude de cas pourraient constituer un point de départ dans la structuration de praxis documentaires - à vérifier de manière empirique – afin de mettre au point des prototypes possibles d’interview du public à appliquer à un nombre circonscrit de travaux stroboscopiques. A la lumière des caractéristiques propres aux expériences de flicker, un fait - ayant émergé de la recherche et dont il faut tenir compte dans la conception de l’ensemble (set) et des modalités de documentation – est représenté par le passage d’une condition introjective, c’est-à-dire qui correspond au moment de la rencontre entre l’œuvre et son public, vers une objectivation progressive à travers le langage et le récit de cette dimension endogène.

29 Malgré l’importance du travail opéré par Granular Synthesis, le corpus bibliographique des contributions monographiques en langue anglaise est malheureusement encore trop restreint. Celui-ci comprend quelques catalogues - cfr. Granular Synthesis, Noever P.,1998; Granular Synthesis, 2001 – et deux éditions en DVD – cfr. INDEX, 2005; Granular Synthesis/ZKM. En ce qui concerne le travail en « solo » de Hentschläger, aucunes éditions ou catalogues monographiques n’ont pour le moment été analysés. Le corpus bibliographique se limite donc à des interviews, des critiques et des articles, avec quelques contributions à l’intérieur des catalogues collectifs. 30 Carvalho A., 2012 ; Edmonds E.A., Muller L., Turnbull D., 2010 ; C. Jones, L. Muller, 2008 ; Muller L., 2008.

318