Quando Riccione Scopriva Calvino Contributo Critico Di Davide Brullo

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Quando Riccione Scopriva Calvino Contributo Critico Di Davide Brullo Quando Riccione scopriva Calvino Contributo critico di Davide Brullo Preliminari. Non sono un custode del passato, non amo i mausolei né i monumenti di una patetica gloria ancestrale, non sono il tutore del tempo perduto, né mi avventuro nella sua ricerca. Ammetto che non mi manca l’istinto del voyeur che guarda gli archivi dal buco della serratura, sperando di scoprire l’orrore o la lussuria, svergognare i titani, mirare la sirena che si denuda. Solo che poi, per indole, l’innamoramento lo vorrei realizzare, non mi accontento della provocazione, di una coscia vista per sbaglio, voglio tutto. Perciò, perché sono qui? Secondo le mia supposizioni la sola risposta oggettiva è che Simone Bruscia ha ricevuto il “due di picche” da un ospite di lusso, si è rivolto a me all’ultimo minuto, un pollo ben cotto, un bel pollo arrosto, si mangia bene e si fa bella figura spendendo poco, eccomi. Ma questo è l’accidente. Piuttosto, sono qui per riproporre il Premio Riccione per la Letteratura. Sorto nel 1947, con l’intento (parola di Cesare Zavattini) di essere “qualche cosa di duraturo e di eminente”, non andò oltre l’edizione numero zero, una sorta di disastroso prototipo. “Tutto è possibile soltanto a condizione che il primo motivo della sua rinomanza il premio lo trovi nella esattezza, nella onestà della sua organizzazione”, scrive nella stessa lettera Zavattini. Tra defezioni nobili (Eugenio Montale), desiderio di stare ai margini (Elio Vittorini, Corrado Alvaro, Romano Bilenchi), disorganizzazione diffusa, nonostante una giuria di lusso, il Premio Riccione si risolse in un riconoscimento che non allettò nessuno: né gli scrittori (Calvino non mise mai piede nella Perla Verde) né l’azienda turistica. Direi, però, che 66 anni di incubazione sono abbastanza. Il Premio Riccione per il Teatro è un alloro ambito e di sovrana qualità, con una giuria rodata. Benissimo: che la medesima giuria spenda le proprie capacità per scegliere un testo inedito di narrativa. Il Premio Riccione lo “produce”, cioè lo pubblica, con il beneplacito di una agenzia letteraria che farà il possibile per piazzarlo nel mercato editoriale. Una vera e sana opera di scouting, di cui c’è di nuovo bisogno, dacché i premi letterari, oggi come oggi, sono il sigillo dell’ovvio, il valzer dei soliti nomi, tra nepotismo e corruzione editoriale, e tutti gli altri, invece, giocano sporco, peggio, alimentando i sogni di celebrità di una marea di scrivani – i quali, come è altrettanto ovvio, meritano tutti il Nobel. Circostanze. Nel 1947 accadono molte cose rilevanti: Ennio Flaiano vince la prima edizione del Premio Strega (che paradossale analogia con il Premio Riccione), con Tempo di uccidere, un romanzo supremo ed esistenziale, ambientato in Etiopia, durante l’invasione italiana. Cesare Pavese aveva mutato rotta estetica pubblicando i Dialoghi con Leucò; Albert Camus sprofonda nei torbidi dell’animo umano con La peste. Anche i poeti precipitano nella guerra, il tema necessario, ma il campo di battaglia è il loro cuore, le mitraglie i muscoli (Giuseppe Ungaretti stampa Il dolore, Vittorio Sereni Diario d’Algeria, Mario Luzi il Quaderno gotico), sanno, insomma, che sulla guerra tutto è stato scritto, bisogna raccoglierne il succo, fruttificando nuove norme formali. Perfino il cinema, santificato dagli Oscar, coglie un segno di novità: nel 1947 fa massa di premi I migliori anni della nostra vita, di William Wyler, narra del difficile ritorno in patria di tre reduci. Insomma, l’esordio di Calvino è fuori tempo e fuori modo, arretrato in tutto (per quanto atrocemente profetico riguardo alla sua carriera letteraria), troppo facile fare l’elogio della Resistenza, troppo presto parlare di “guerra civile”. Il succo epico della Resistenza italiana – come ogni cosa luminosamente, ferocemente nuova – chiedeva una nuova lingua, il fango angloitaliano di Beppe Fenoglio. Tra l’altro, proprio nel 1947, con Racconto d’autunno, Tommaso Landolfi (autore raro e prezioso con cui Calvino intrecciò una alchemica affinità, testimoniata nella raccolta de Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, Rizzoli, 1982) scrisse uno dei più bei romanzi sulla Seconda guerra, facendone una quinta gotica, nevrotica, nebbiosa. Il sentiero dei nidi di ragno, insomma, «neorealista» e scritto «in uno stile violento, sovraccarico» (così Calvino nel 1966), non piaceva al suo autore (che vi scorgeva, nel 1983, «una specie di nevrosi dentro la quale ad un certo punto non mi riconoscevo più. […] Rileggendolo ho pensato: “ma come ho fatto a scrivere queste cose?”») né ai giurati del Premio Riccione. Non piacque a Bilenchi, non sedusse Zavattini, disse tutto Mario Luzi, lucidissimo, «abbastanza abile approfitta della tecnica oggi diffusa da Vittorini a Pratolini. Non manca qualcosa di buono, di vivace. Ma il racconto risulta un po’ immobile», il passaporto per la vittoria, il telegramma affannato di Elio Vittorini, arrivò troppo tardi, a giochi chiusi. Un Premio modestissimo, tanto che la giuria è costretta ad ammettere che nella foresta dei manoscritti «non ha potuto riscontrare […] qualità artistiche tali da suscitare il suo deciso consenso» e fa vincere, con beneplacito della pasionaria Sibilla Aleramo, medaglia d’oro spaccata a metà, Morte in piazza di Fabrizio Onofri, più noto come dirigente del Pci che come scrittore, e il romanzo di Calvino, allora di chiara patente comunista. Il lezzo dell’inciucio politico è greve, d’altronde è lo stesso Calvino a ricordare che «ho scritto quel libro contro i borghesi che dicevano con una smorfia di disgusto: “I partigiani? Tutti criminali”» (1960). Però, grazie a quel romanzo Calvino comprende due cose importantissime. Primo: che «la Resistenza mi ha messo al mondo, anche come scrittore. Tutto quel che scrivo e penso parte da quell’esperienza» (1957). Perciò: il narrare come forma del sopravvivere, la creazioni di altri mondi per dar concretezza a questo, il dar credito ai sogni per avanzare nel regno dei giorni. La favola, il piacere della narrazione che seduce e impone insegnamenti, nasce proprio lì, ai limiti della civiltà, nell’insicurezza, nella pozza di quiete, magica, tra una battaglia e l’altra. Secondo: che la Resistenza, per quanto importante, non è la nostra identità (come non lo è il Risorgimento). «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte […] con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso», dice Kim a uno sbigottito Ferriera nel Sentiero. In fondo, insomma, per una tara dell’ideologia si è dal lato giusto o sbagliato della barricata, si è vinti o vincitori, comunque entrambi, fascisti e partigiani, uomini, sconfitti. L’identità dove sta dunque? Nel linguaggio, nella forma, nelle storie, che forgiano un destino. In una lingua “illuminata”, che per Calvino significa «fedeltà a una pulizia mentale, un rifiuto della menzogna e delle parole che non vogliono dire nulla e quindi convogliano sempre conseguenze nefaste» (1979). Queste due cose – lo spirito dell’avventura e l’impresa del linguaggio – coincidono nel «grandissimo scrittore» (1978) su cui Calvino, in quello stesso 1947, il 4 novembre, si laurea, cioè Joseph Conrad. Autore tradotto precocemente in Italia, tra il 1946 e il 1947 vengono pubblicati Cuore di tenebra (Sonzogno, 1947) e per Einaudi, per cui lavorava Calvino, l’importante edizione di Linea d’ombra (proprio nel 1947, con una nota di Cesare Pavese) e i Racconti di mare e di costa (1946, la traduzione è di Piero Jahier). Cosa c’entra il genio combinatorio e ludico di Calvino con le atmosfere esotiche e neoromantiche di Conrad? Intanto: Conrad è autore dalla consapevolezza assoluta, un micidiale innovatore come risulta dalle costanti “note” con cui beatifica i suoi romanzi. Conrad è pervaso dal senso dell’avventura come momento in cui si realizza (nel bene o nel male) il destino dell’uomo (lo stesso senso profondo che Calvino assegna alla Resistenza). Ma questo destino viene esplicitato con un linguaggio lussureggiante, taumaturgico, perché la sola patria di Conrad è, appunto, il linguaggio. Conrad, come si sa, è un polacco che s’industria a scrivere in inglese per necessità pur adorando la prosa francese. Con la lingua ogni gioco è possibile – come la creazione di ogni destino. E tutto questo è piuttosto “calviniano”. Il lasciarsi «cullare sull’acqua placida dell’amena speculazione», lasciandosi guidare, con ragionevolezza, «unicamente dal caso» e il “principio di piacere” che deve ispirare la creazione letteraria («è gradevole l’idea di saper procurare piacere»; così la Nota dell’autore della recente edizione Adelphi di Chance, Milano, 2013) sono evidenze condivise da Calvino, per cui scrivere «è una scommessa» e l’obbiettivo principale, attraverso una lingua persuasiva e subacquea, è farsi leggere, donare un autentico piacere al lettore. Scrittore trincerato in un «esasperato isolamento», dominato da un «pessimismo fatalistico» e dalla «concezione della vita come d’un sogno», inteso a «ruminare intorno al mistero della vita» (Mario Praz), «Conrad è come il Dio terribile della Bibbia» (Giovanni Cianci), dedito a una morale spietata, che schiaccia l’innocente senza che dal suo scempio scaturisca alcuna redenzione futura. Di Conrad, Calvino, irragionevolmente considerato uno scrittore cerebrale e “a sangue freddo”, assume la competenza formale, ma soprattutto la passione smodata per l’uomo, creatura geniale nei propri fallimenti, perché «qualcosa di umano è più caro per me di tutte le ricchezze del mondo» (così Conrad usa a suo modo i fratelli Grimm introducendo il suo libro più grande, Youth and Two Other Stories). Una intuizione che fu, incredibilmente, pure del bocconiano ventenne Fabrizio Saccomanni, che prima di guidare la Banca d’Italia si dilettava in critica letteraria, e in Evoluzione o involuzione di Calvino? (nel secondo numero di “Satori”, marzo 1962, la “Rassegna giovanile di nuovi orientamenti artistico-letterari” diretta da Mario Guaraldi) aveva capito prima di molti patentati prof che il carisma di Calvino è «lo sconfinato amore per gli uomini, per le loro paure, per le loro debolezze come per le loro idee tenacemente asserite e vissute».
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