GIANPIERO VINCENZO

LA NASCITA DELL’ADVERTISING

STORIA SOCIALE DELLA COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA AMERICANA

1 Premessa: distruggere e ricostruire 3 Parole nuove 6 Patent Medicine 11 Fotografie 19 Terapeutica sociale 23 Nuovi media 29 L’automobile 33 Fermarsi 38 Colpire 43 Guerreggiare 49 Sognare 53 Sedurre 58 Antropologia del consumo 62 Scienza e creatività 67 Ridimensionare 74 Rivaleggiare 82 Beneficare 90 Bibliografia 95

versione 26 gennaio 2020 versione corretta fino a pag. 61

2 PREMESSA: DISTRUGGERE E RICOSTRUIRE

Intorno al dicembre 1910 il carattere umano è cambiato […] Tutte le relazioni umane sono mutate – quelle tra padroni e servi, mariti e mogli, genitori e figli. E quando le relazioni umane cambiano, c’è un contemporaneo cambiamento nella religione, nel comportamento, nella politica, e nella letteratura. […] E così si è iniziato a fracassare e a distruggere. È ciò che sentiamo tutto intorno a noi, nelle poesie e nei romanzi e nelle biografie, perfino negli articoli di giornale e nei saggi, il rumore di cose rotte e cadenti, sfondate e distrutte.

Queste frasi, in seguito pubblicate in un saggio dal titolo Mr Bennet and Mrs Brown, venivano pronunciate da Virginia Woolf il 18 maggio 1924 durante una conferenza all’Heretics Club di Cambridge in occasione di un incontro sul tema Personaggi nella narrativa contemporanea. L’Heretics Club non era un circolo accademico - oggi potrebbe essere definito un centro culturale “alternativo” - ma era comunque frequentato da alcune delle maggiori personalità del tempo come Bertrand Russell, John Maynard Keynes e George Bernard Shaw. Le riflessioni della Woolf permettevano di comprendere la frattura che attraversava non solo differenti generazioni di scrittori, ma un’intera epoca. Prima del 1910 o giù di lì, gli uomini erano visti attraverso la prospettiva del loro ruolo sociale, della loro casa, delle loro famiglie e amicizie. Erano ingranaggi di un meccanismo perfetto: lo Stato nazione. Col volgere del nuovo secolo, però, era sempre più evidente che la Seconda rivoluzione industriale aveva distrutto il vecchio ordine sociale senza ancora essere riuscita a costruirne uno nuovo. Il razionalismo ottocentesco non era riuscito a definire un nuovo carattere umano. Aveva tracciato i lineamenti di un uomo sempre più indipendente e isolato dai suoi coinvolgimenti sociali, concentrato sulla sua dimensione intima, alla ricerca della sorgente della propria vitalità. Ma questo nuovo uomo non era ancora stato trovato. Ciò che si vedeva invece erano le macerie del mondo precedente, quello che era stato “fracassato e distrutto”. I migliori scrittori del XX secolo ancora stavano affilando le armi, ma erano alle prese con una sperimentazione narrativa che non era ancora riuscita a mettere a fuoco questo nuovo tipo di uomo, questo novello Adamo. Per i scrittori si trattava di superare le considerazioni sulla natura sociale dei personaggi, sui trascorsi della loro famiglia, sulle loro condizioni economiche e geografiche. Si pensava che il nuovo uomo potesse essere individuato attraverso la sua profondità interiore, i suoi sentimenti intimi, le tracce emotive che ogni aspetto della vita poteva aver contribuito a depositare sul fondo della sua esistenza (Woolf 1924). Era come se si fosse arrivati alle estreme conseguenze di un lungo processo di individualizzazione e l’uomo fosse percepito nella sua assoluta distinzione e alterità da ogni cosa ed essere circostante. Il nuovo Adamo non poteva essere il superuomo di ispirazione nietzschiana, che comunque aveva ambizioni di potenza sulla storia e sul mondo. Secondo Virginia Wolf anche una semplice Signora Brown poteva essere l’alfiere inconsapevole di questa rivoluzione tanto strisciante quanto in gran parte inespressa. E poteva dar

3 forma a un’idea o, piuttosto, a una mentalità ancora incapace di mostrarsi nella sua interezza, al di fuori di una serie di ipotesi. Insomma, così come la Woolf aveva lasciato quella Signora Brown sulla carrozza di un treno in viaggio da Richmond a Waterloo, anche il nuovo uomo era per il momento abbandonato a se stesso, ai suoi dilemmi, alle sue espressioni enigmatiche, alle incertezze del suo destino. A parte la ferrea convinzione che il futuro sarebbe stato nelle sue mani o quanto meno di coloro che si sarebbero presi cura di lui. Il positivismo persisteva nelle trame della nuova filosofia dominante. La vita moderna aveva provocato la fine del vecchio uomo e aveva innescato la nascita di quello nuovo. Secondo Georg Simmel, uno dei sociologi più “visionari” dell’inizio del XX secolo, era stata la vita metropolitana a cambiare l’uomo moderno e a costringerlo a un vitalismo irriducibile alle vecchie forme e definizioni (Simmel 1903). Molti tra i più attenti intellettuali si sarebbero trovati in difficoltà, condannati a brancolare alla cieca nel tentativo di trovare le ragioni di una realtà sempre nuova e sfuggente. Di questo nuovo uomo e del suo irriducibile vitalismo, però, si sarebbe fatta interprete una nuova forma di comunicazione destinata ad assumere rapidamente un ruolo di primissimo piano sulla scena planetaria: la pubblicità. Era la pubblicità che avrebbe scoperto che questo nuovo uomo anelava nuovi simboli e valori, nuove forme di azioni e relazioni sociali, un nuovo mondo. Il positivismo ottocentesco si preparava ad evolvere nel consumismo novecentesco, nella nuova mitologia del consumo. Negli Stati Uniti, più che in ogni altra nazione, la comunicazione pubblicitaria avrebbe conosciuto una fortuna clamorosa. Presto si sarebbe guadagnata un ruolo sociale del tutto inaspettato, ma di sicuro rilievo, quello di individuare un nuovo uomo, il soggetto della nuova civiltà dei consumi. Non lo avrebbe trovato subito, ma di sicuro si sarebbe messa sulle sue tracce con indomita perseveranza. Gli si sarebbe rivolta direttamente, senza mediazione di strutture sociali, in modo di essere ascoltata senza indugi. Per farlo avrebbe fatto leva sulla capacità metaforica e simbolica della parola e delle immagini. Come quella dello Zio Sam, non un personaggio qualunque, ma la personificazione di un intero paese. Mentre in Europa si sarebbero sperimentate le dittature di massa, la comunicazione pubblicitaria americana avrebbe scoperto la possibilità di creare nuovi simboli e di stimolare nuovi comportamenti sociali in maniera del tutto slegata dal nazionalismo. Per questo questo il XX secolo si annunciava come l”Era della Pubblicità”. Non si trattava solo della capacita di mostrare nuovi prodotti, quindi, ma piuttosto del privilegio di dominare una nuova civiltà, un nuovo ordine sociale destinato a durare più a lungo dello Stato nazione (McLuhan 1953). Se queste pagine riguardano in buona parte l’America, è perché proprio nel Nuovo Mondo il nuovo Adamo indicato da Virginia Woolf è stato individuato, cresciuto ed educato molto prima che nel resto del mondo. Solo a partire dal secondo dopoguerra il verbo della pubblicità si è cominciato a parlare correntemente anche negli altri paesi. La scrittrice inglese non è stata certo l’unica nel Vecchio continente ad avvertire i cambiamenti che erano nell’aria. Pochi anni prima della sua conferenza all’Heretics Club, il sociologo tedesco Georg Simmel nel 1918 pubblicava una conferenza dal titolo Il conflitto nella società moderna (Der Konflikt den modern Kultur, von Duncker & Humblot, Monaco), in cui anticipava quella che un giorno sarebbe stata definita

4 come la società “liquida”. Con il volgere del secolo il carattere informale della vita e del tempo metropolitano avevano preso il sopravvento su idee e forme astratte ottocentesche. Le metropoli erano divenute sedi di uno straordinario laboratorio sociale. In esse la sensibilità dell’uomo moderno si allontanava definitivamente dalla classicità e dal suo portato estetico e ideale. Così l’individualizzazione aveva preso il sopravvento sulla universalizzazione ed era venuto meno il senso dell’utopia sociale e del futuro. L’unicità e l’insostituibilità del singolo erano diventate metro di misura del suo valore. La stessa religione non sembrava in grado di sottrarsi al processo vitalistico ed era progressivamente sostituita dalla “religiosità”.

Nasce l’impressione che questa vita possa procedere assolutamente senza forme che abbiano un proprio significato obbiettivo e il diritto di veder rispettate le proprie esigenze, e possa invece procedere lasciando semplicemente scorrere la sua forza come sprizza su dall’interno (Simmel 1918, 12).

Da qui il carattere di un’epoca in cui la vita si sarebbe manifestata attraverso forme sempre mutevoli, che ogni volta sorgevano per essere distrutte dal processo vitalistico con il quale le forme stesse entravano subito in conflitto. Si apriva una fase storica all’insegna di quella che Simmel definiva come intensificazione della vita nervosa (Simmel 1903). Se il XIX secolo era quello del positivismo dogmatico, il XX secolo sarebbe stato quello del vitalismo e del consumismo. Vi sono state e vi saranno sempre resistenze a voler vedere nella pubblicità qualcosa di più di un semplice strumento per comunicare e vendere beni di consumo. Ma è innegabile che la pubblicità sia diventata nel corso del XX secolo un fattore culturale così rilevante, da non poter più essere analizzata con le sole categorie dell’estetica e dell’economia. Il nostro studio intende mettere in luce l’ambito simbolico nel quale la pubblicità si è mossa col passare del tempo e gli effetti che ne sono derivati, così come il sistema sociale del quale è divenuta un tassello fondamentale e le forme del biopotere che hanno cominciato a scandire i meccanismi di controllo e di mutamento. Per iniziare però occorre fare un passo indietro e vedere le radici ottocentesche della pubblicità americana.

5 PAROLE NUOVE

In principio è stata la parola, o piuttosto l’headline, letteralmente “titolo di testa”, termine più tecnico e meno dichiarato di slogan, anglicizzazione di sluagh ghairm, il grido di guerra degli scozzesi. La pubblicità moderna comincia in sordina, con una semplice frase messa in evidenza. Tuttavia, è già l’inizio della rivoluzione, gli albori di una nuova capacità espressiva. Non è ancora la seconda oralità, quella dell’era dei media, cui farà riferimento lo storico gesuita americano Walter J. Ong nel suo “Oralità e scrittura” (1982), ma ci manca poco. Gli alfieri della nuova forma di comunicazione hanno sempre sottolineato il suo carattere informativo e forse all’inizio è stato veramente così: logica necessità di informare il pubblico sui nuovi prodotti della rivoluzione industriale. Tuttavia, già nel corso del XIX secolo, gli slogan venivano enunciati con sempre maggiore veemenza, con modi che riprendono l’enfasi della parola gridata e si allontanano dalla logica rettilinea di un testo scritto in maniera convenzionale. Ancora prima dell’avvento delle immagini tecniche, la prima rottura alla scrittura “rettilinea” è rappresentata da una “parola” che emerge graficamente dal resto del discorso e dalla forma scritta che ha scandito per secoli i modi dell’ “uomo tipografico” della rivoluzione gutenberghiana. Non è un caso che con il temine “carattere” si possano indicare sia gli aspetti più significativi di una persona, sia la forma che assumono le singole lettere tipografiche. Per molti secoli il carattere è stato l’espressione dei princìpi di un popolo, di una tradizione religiosa, di una cultura, così come dei testi che li veicolavano. La comunicazione pubblicitaria comincia con il mescolare i caratteri, con la stessa forza e disinvoltura con la quale un drammaturgo alterna gli attori sul palcoscenico. Un attore è destinato a emergere su tutti gli altri: lo slogan o headline. Una prima spallata al razionalismo gutenberghiana viene messa a segno da quella semplice frase posta in calce alla comunicazione pubblicitaria, che conquista progressivamente il palcoscenico della comunicazione commerciale. La rivoluzione avviene nel giro di pochi decenni nel corso del XIX secolo. All’inizio secolo successivo l’headline rappresenta ormai tra il 50 e il 75% dell’intera comunicazione pubblicitaria (Caples 1931). L’uso di un corpo più grande per l’headline sembra risalire almeno alla Pennsylvania Gazette di Benjamin Franklin (1706-1790), ma fino alla seconda metà dell’Ottocento gli annunci pubblicitari erano rimasti confinati in parti dedicate delle riviste e all’intero della gabbia tipografica delle notizie, con poche rilevanti eccezioni, come quelle di prodotti medicinali, che vedremo in seguito. Ma il tono sensazionalistico della pubblicità non poteva essere contenuto troppo a lungo. James Gordon Bennet Jr. (1841 - 1918) era solo un simpatico ragazzo quando ereditava dal padre la proprietà del Herald, un quotidiano che nel 1861, forte delle sue 84.000 copie, poteva dichiarare di essere “il più diffuso quotidiano nel mondo” (Sandburg 1939, 87). Ma il giovane Bennet avrebbe imparato in fretta. Nel 1869, il giornale finanziava la spedizione di Henry Morton Stanley (1841 – 1904) in Africa, per trovare David Livingstone

6 (1813 – 1873) . L’incontro sarebbe avvenuto nella città di Ujiji sulle sponde del Lago Tanganika il 10 Novembre del 1871. Assunte le redini del quotidiano, Bennet cambiava anche il modo di fare pubblicità. Si poteva acquistare un modulo pubblicitario a 50 cent per un giorno o a $ 2,50 per due settimane (l’equivalente di due giorni di paga di un operaio). La ripetizione degli annunci, però, veniva limitata al massimo a due settimane, mentre prima le inserzioni potevano durare anche mesi. Successivamente, Bennet avrebbe distribuito la pubblicità su tutte le pagine, mettendola sullo stesso piano delle notizie. E avrebbe fatto anche di più. A quell’epoca, grazie alla pubblicità gli editori erano riusciti ad aderire alla rivoluzione dei penny paper, introducendo il costo di 1 cent per copia, mentre all’inizio del XIX secolo un quotidiano costava in media 5/6 cents e un abbonamento annuo $10. Bennett ridusse ulteriormente la dimensione dei moduli per gli inserzionisti, costringendoli a pubblicare inserzioni solo testo, eliminando in pratica le immagini. Intorno al 1850 le illustrazioni erano quasi del tutto scomparse dai penny paper, e piccoli disegni apparivano occasionalmente sui quotidiani da 6 cent. Mentre le pubblicità visive migravano verso i settimanali, i quotidiani rimanevano una palestra fondamentale per il puro copywriting (Sivulka 2012). Parallelamente nasceva un nuovo ambito professionale: l’advertising. I nuovi prodotti, i nuovi mezzi di trasporto che facilitavano la diffusione delle merci, le nuove esigenze dei consumatori, richiedevano forme di promozione su scala sempre più vasta. In primo luogo si dovevano selezionare i media in base al target. La prima pubblicazione dedicata all’advertising edita in America - George P. Rowell, The Men Who Advertise: An Account of Successful Advertisers, Together with Hints on the Methods of Advertising (1870) - era in pratica una guida per i pubblicitari. Le prime agenzie pubblicitarie agivano in pratica da broker di spazi commerciali che compravano da quotidiani e riviste, e rivendevano agli inserzionisti applicando una commissione media del 25%. Dopo il 1850, un pubblicitario newyorkese per la prima volta offrì anche il servizio di scrivere gli annunci, novità che contribuì ulteriormente allo sviluppo del settore. Intorno al 1861, c’erano almeno una trentina di agenzie attive in America, la metà delle quali a New York. Spesso le agenzie facevano pubblicità a loro stesse. Molte di loro avevano un motto, una frase che esprimeva il carattere dell’agenzia e della pubblicità in genere. Erano frasi emblematiche che talvolta non avevano un senso preciso, se non quello di colpire l’immaginazione del lettore. Erano anche una sorta di firma, il suggello che indica l’importanza che si voleva dare a questa nuova forma di comunicazione. Erano gli antesignani del moderno pay off, con il quale l’azienda esprime il suo posizionamento: come per esempio la recente frase della Nike: Just Do It. Il motto esaltava anche il valore poetico della parola, la sua capacità di seduzione, la sua cifra incantatoria e musicale. E coì la moderna pubblicità del prodotto andava di pari passo con la pubblicità della pubblicità. La Lord & Thomas, fondata nel 1881 a da Daniel Lord e Ambrose Thomas, aveva un motto si presentava sotto forma di vera e propria poesia: Advertising Judiciously Un panico terribile si stava diffondendo rapidamente,

7 Come attraverso una città occidentale è passato Un mercante, che afferrava in mano Uno striscione con questa legenda grande; Pubblicità con giudizio!

La N. W. Ayer & Son, fondata nel 1869, introduceva la novità dell’open contract, che favoriva gli inserzinisti con una commissione fissa del 15% e la possibilità di trarre beneficio dagli ulteriori sconti che l’agenzia riusciva a ottenere sull’acquisto degli spazi. Nel 1886, la Ayer & Son faceva eco alla Lord & Thomas con il motto: Keeping Everlastingly At It Brings Success Tenere duro incessantemente porta al successo.

Analogamente, entro la fine del secolo anche altre agenzie pubblicavano il loro proprio motto come quello di Harlan P. Hubbard, Judiciuous Advertising is the Keystone of Success, “la pubblicità giudiziosa è la pietra miliare del successo”, o quello di T. C. Evans, Systematic and Persistent Advertising The Sure Road to Success in Business, “la sistematica e persistente pubblicità è la strada sicura per il successo commerciale” (Laird 1998, 161). Judicious Advertising sarà anche il titolo di uno dei mensili di settore, pubblicato a New York a partire dal 1902. La prima comunicazione pubblicitaria professionale è quindi quella che riguarda la pubblicità stessa, l’importanza che essa viene ad assumere nel nascente mondo del consumo. Presto le agenzie si occuperanno anche dei contenuti pubblicitari, che all’inizio erano preparati dagli inserzionisti, mantenendo sempre la commissione del 15%. Negli ultimi decenni del XIX secolo la comunicazione pubblicitaria avrebbe progredito a velocità impressionante: già nel 1910, la pubblicità rappresentava il 60% delle entrate dei quotidiani. La rapida crescita era favorita anche dalla istituzione di repertori come l’American Newspaper Directory di George P. Rowell, che dal 1869 forniva i primi dati sulla diffusione dei quotidiani (Eaman 2009). Di conseguenza cambiavano anche le dimensioni degli headlines. Daniel Starch (1883–1979), docente nell’Università del Wisconsin, ad Harvard e uno dei pionieri nel campo dello studio scientifico della pubblicità, ha analizzato la dimensione media dei caratteri delle pubblicità a pagina intera in due riviste di ampia diffusione, Scribner's e Harper’s, ricavandone la seguente tabella (Starch 1919):

anno punti

1870 24

1880 26

1890 30

1900 40

1910 48

All’interno delle agenzie pubblicitarie si aprivano nuovi settori, come i Creative Department, in cui si facevano convergere grafici, scrittori e artisti. Si cominciavano a chiamare a raccolta le migliori menti dell’epoca. La grande stagione del copywriting, la professionalizzazione della scrittura di pubblicità,

8 esplodeva alla fine del XIX secolo e metteva in mostra i pionieri della nuova arte della seduzione, veri e propri artisti della parola: Frank Irving Fletcher (1883-?), George L. Dyer (1869-1921), Bruce Barton (1886-1967), Theodore F. MacManus (1872–1940), Claude C. Hopkins (1866-1932), Richard A. Foley (m 1923), J. George Frederick (1882-?), Joseph H. Appel (1873-1949), per citare solo alcuni dei grandi maestri attivi a cavallo dei due secoli Non era semplice narrativa. Era una nuova stagione del racconto, che prendeva spunto dall’esperienza degli strilloni del mercato per elaborare uno storytelling delle origini, ampiamente studiato e riattualizzato anche alla fine del XX secolo, quando la “scorpacciata” di immagini visive avrebbe riportato alla ribalta la pura arte del racconto. Ma già a quest’epoca la capacità affabulatoria della comunicazione pubblicitaria aveva preso di mira il nuovo consumatore per quanto ancora, però, non si profilasse chiaramente all’orizzonte. In qualche modo la pubblicità precorreva i tempi, cominciava ad andare ben oltre la semplice descrizione delle caratteristiche del prodotto. La dimensione simbolica cominciava a prendere il sopravvento rispetto alla mera funzionalità dell’oggetto in vendita. E la ricerca del nuovo uomo, più che una indagine sui nuovi consumatori, sembrava essere piuttosto una profezia che si autoavverava. Era evidente, però, che ancora la pubblicità non sempre trovava i propri linguaggi narrativi, cosicché doveva anche guardarsi intorno, prendendoli in prestito da altri ambiti. Per pubblicizzare uno sciroppo di radice di romice (efficace contro stitichezza, anemia e ulcera), per esempio, si tirava in ballo la storia, facendo risalirne l’uso della pozione all’epoca dell’imperatore romano Tiberio e il suo apprezzamento ai filosofi del passato. Oppure quando per pubblicizzare Old Nick Whiskey si invitava ad esaminare con attenzione la lista degli estimatori che includeva rappresentativi personaggi dei “vecchi” Stati dell’Ovest. In entrambi i casi era in nuce la scelta di personaggi che fungessero da Testimonial, uno degli elementi chiavi della futura simbolica pubblicitaria. A sottolineare il nuovo modo di comunicare venne inventato anche un nuovo linguaggio. Non si trattava solo dell’inglese semplificato nel quale venivano scritti gli articoli dei giornali a maggiore diffusione. I grandi copywriters crearono un vero e proprio nuovo codice linguistico, che due giornalisti del New York Times in seguito non avrebbero esitato a definire Headlinese (Garst e Bernstein 1933): gli articoli dei giornali all’inizio non avevano titoli, ma sotto la pressione della pubblicità gli headlines si imposero anche alle notizie, arrivando a incarnare l’essenza stessa del racconto. Negli slogan il verbo essere e gli aggettivi erano in genere omessi e i periodi ridotti a frasi nominali. I verbi ,quando c’erano, erano all’indicativo presente così come per esprimere il futuro si usava l’infinto. Le congiunzioni erano sostituite dalla virgola. Termini lunghi vengono sostituiti da altri con meno sillabe, anche se non perfettamente sinonimi. Si preferiva il nome di un Paese alla sua forma aggettivale. Si cominciava a fare largo uso di sineddoche e metonimie (sostituzione di un termine con un altro in base a relazioni di contiguità spaziale, temporale o causale), di contrazioni, di abbreviazioni e soprattutto di iperbole (esagerata descrizione della realtà). • My Life was saved by Bovinine (J. P. Bush Manufacturing Co.,1890). • You press the button, we do the rest (Kodak, 1890).

9 • The Camera to buy (Kodak, 1894). • Do you want a wheel? (Primley Bicycle, 1896). • Perfection in Brewing is reached in America (Pabst Beer, 1897, agenzia J. Walter Thomson). • “Yours for mutual profit” (Pond’s Extract, 1899). • Do you like books? (The Bookman, magazine letterario della Dodd, Mean Publ., 1900) • Merriest Christmas (Kodak, 1900). • Brought happiness to thousands. (National Phonograph, 1901, agenzia J. Walter Thomson). • The Kodak simplicity (Kodak, 1902). • If water would cure (Pond’s Extract, 1903). • When a woman suffers (Pond’s Extract, 1904). • The Most Sensible Xmas Or New Year Gift (Kodak, 1906). Non si trattava di una semplice alternativa al linguaggio comune, ma dell’invenzione di una nuova dimensione della parola, destinata a influenzare in maniera significativa il linguaggio comune. La pubblicità apportava neologismi e giochi di parole, ma soprattutto legittimava deformazioni verbali, semplificazioni e sconnessioni sintattiche in nome della creazione di un nuovo scenario rappresentativo.

10 PATENT MEDICINE

Secondo Walter Benjamin la nascita della fotografia ha mutato lo statuto dell’immagine, facendola passare da rappresentazione d’artista a mero prodotto tecnico. Prima di cedere il posto alla fotografia all’inizio del XX secolo, però, l’illustrazione a stampa ha avuto un forte sussulto, anche questa volta in relazione a una innovazione tecnica, la cromolitografia, con la quale era possibile realizzare immagini con più colori, più sfumature e toni più brillanti rispetto alle precedenti tecniche di stampa. Si trattava di una innovazione ideale per la realizzazione di manifesti, imballaggi e cartoline pubblicitarie. In America il poster era uno dei canali privilegiati di comunicazione pubblica dal tempo della Guerra d’Indipendenza. Ancora a metà del XIX secolo la città di Philadelphia era all’avanguardia anche in ambito artistico e pubblicitario. La grande mostra del 1876 in occasione del centenario della dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 (Centennial Exhibition of Arts, Manufactures and Products of the Soil and Mine) fornì agli stampatori la prima opportunità di mostrare a un vasto pubblico le loro produzioni. La popolarità delle cartoline pubblicitarie crebbe rapidamente e a partire dal 1880 e le cromolitografie cominciarono a essere distribuite su vasta scala, dai semplici negozianti alle grandi aziende. A partire dal 1867 era possibile acquistare spazi per cartelloni pubblicitari da specifiche aziende concessionarie. I grandi spazi americani erano lo scenario ideale per lo sviluppo del cartellone pubblicitario. Nel 1872 venne fondata la International Billboards Poster Association of North America (IBPANA), ancora attiva adesso con il nome di Outdoor Advertising Association of America (OAAA): segno che alla fine del XIX secolo con il termine billboard si esprimeva in un certo senso l’essenza stessa di ciò che sarebbe divenuto l’advertising. A quell’epoca al centro del grande sviluppo pubblicitario americano si muoveva l’industria farmaceutica, le cui nuove specialità avevano letteralmente invaso il mercato interno. Il motivo principale della improvvisa e sconcertante diffusione della Patent medicine, prodotti venduti senza prescrizione, pesantemente pubblicizzati e che promettevano spesso una (improbabile) guarigione da ogni tipo di malattia, risiedeva nella gravissima crisi sanitaria emersa con la Guerra civile (1861-1865). Il conflitto americano, infatti, era stato uno dei più sanguinosi della storia, con un numero elevatissimo di morti - tra i 750.000 e i 620.000 - due terzi dei quali a causa delle malattie. Le cause dei decessi erano state molteplici: il grande raduno di persone provenienti da territori molto distanti, la guerra di trincea, l’acqua contaminata e il cibo avariato avevano decimato gli eserciti più delle pallottole. Ad aggravare la situazione sanitaria vi era la assoluta inadeguatezza del personale medico. In tutto l’esercito dell’Unione si registravano 98 medici, mentre in quello confederale solo 24 (Robertson 1984, 79). La maggior parte di coloro che avevano prestato soccorso alle centinaia di migliaia di feriti erano semplici volontari cui era stata consegnata una copia del manuale di medicina militare del Dott. Samuel D. Gross (1805 – 1884). Per operare si seguivano le immagini: le drammatiche conseguenze sono facilmente immaginabili. La paura delle malattie da una parte avrebbe innescato la profonda revisione della professione medica, dall’altra però rendeva la popolazione facile preda di ciarlatani che percorrevano il paese mettendo in scena

11 veri e propri spettacoli utilizzati per fomentare timori per la salute e vendere prodotti medicamentosi di dubbia utilità se non del tutto dannosi. I modi della comunicazione era già stati sperimentati dal circo e dagli altri spettacoli di Phineas Taylor Barnum (1810-1891). Ma i Medicine Show erano qualcosa di più, erano una forma di spettacolo apertamente creata per sponsorizzare prodotti commerciali. La comunicazione non riguardava la semplice pubblicità di spettacoli o prodotti, ma la creazione di eventi spettacolari utili a predisporre all’acquisto. Il rapporto tra testo, immagini, eventi e prodotti era complesso e accattivante. Le storie che vi venivano raccontate singolari e, in un certo senso, creative. La seduzione e la persuasione messe in atto erano sfacciate e grottesche. Sotto molti aspetti si anticipavano forme di spettacoli sponsorizzati dalla pubblicità come le Soap Opera. I Medicine Show conobbero in America uno sviluppo tale da eclissare le fortune dei ciarlatani europei, loro precursori. Dopo la Guerra Civile gli spettacoli che millantavano le qualità di miracolosi elisir si erano evoluti in moderne rappresentazioni condotte da compagnie teatrali, che anticipavano le loro rappresentazioni con affissione di manifesti e distribuzione di cartoline pubblicitarie. In molte zone dell’America rurale, i Medicine Show rappresentavano una delle forme principali di spettacolo, spesso a cadenza fissa annuale. Una delle più famose compagnie del genere era la Kickapoo Indian Medicine Company. Si trattava di una compagnia di New Haven, nel Connecticut, che nulla aveva a che fare con la tribù indigena dei Kickapoo, che all’epoca vivevano in una riserva in Oklahoma. I suoi fondatori erano John E. “Doc” Healy e Charles H. “Texas Charley” Bigelow che avevano chiamato il loro quartier generale “Il Wigwam principale” e lo utilizzavano sia come luogo di produzione che come foresteria per gli artisti e ufficio per gli impiegati. Vi prendevano parte artisti bianchi e nativi che si esibivano come giocolieri, acrobati, ballerini, musicisti, mangiafuoco, e altro ancora. Quattro o cinque volte all’ora lo spettacolo veniva interrotto e i prodotti venivano presentati da “Texas Charley” Bigelow oppure da sedicenti “dottori” o “professori”, che inscenavano vere e proprie conferenze mediche. Nel 1859 il fatturato delle Patent Medicine era di 3,5 milioni di dollari, nel 1904 saliva a 74,5 milioni (Kelly 2009, 102). Emblema del successo della Patent Medicine era la rivista Comfort, pubblicata da William H. Gannet, un industriale di Augusta, nel Maine, a partire dal 1888. La rivista era stata creata con l’espressa intenzione di promuovere Oxien, preparato con non meglio precisati estratti vegetali e utilizzato come tonico per i nervi. A Gannet l’idea era venuta osservando il successo del Moxie Nerve Food (prodotto a partire dal 1876), a base di radice di genziana, una delle prime bevande gasate prodotte negli Stati Uniti. Il nuovo preparato era prodotto dalla Giant Oxie e venduto sotto forma di compresse e così si prestava ad essere spedita per posta. La Giant Oxie, che occupava gli stessi locali di Comfort, impiegava circa 60 persone, alcune delle quali si occupavano di promozione delle vendite, altre della traduzione del materiale a stampa di diverse lingue, dato che il preparato veniva commercializzato anche all’estero e soprattutto in Germania (Madore 2015, 72). La rivista Comfort avrebbe conosciuto un successo notevole, tanto da diventare il primo periodico statunitense a superare, e abbondantemente, il milione di copie: un primato di vendite che mantenne almeno fino al 1905.

12 Le immagini, bandite dalla maggior parte dei quotidiani, apparivano sempre più numerose su quelle dei periodici. Il progresso della carta stampata aveva dell’impressionante. Nel 1800 si stampavano 13 periodici in tutti gli Stati Uniti. Alla fine del secolo erano diventati 3.500, di cui 1.500 settimanali e 2.000 mensili. La distribuzione era agevolata dalla sterminata rete ferroviaria: alla fine del XIX secolo erano già in funzione 200.000 miglia (oltre 321.000 chilometri) di strada ferrata. In tal modo la diffusione della stampa aveva raggiunto dimensioni impensabili in Europa. Dal 1790 al 1890 il numero dei quotidiani era cresciuto da 106 a 17.616. Nel 1910 gli editori americani erano arrivati a stampare la straordinaria cifra di 7,8 miliardi di copie annuali, una media di 491,8 a famiglia e di 104,7 a persona.(1900 U.S. Census e Dill 1928; 80). Anche le tecniche di stampa avevano subito una rilevante evoluzione. Se all’inizio del secolo un tipografo arrivava a stampare circa 300 fogli all’ora, alla fine dell’Ottocento erano entrate in funzione macchine in grado si stampare 100.000 copie di un quotidiano all’ora, a costi sensibilmente inferiori. Di pari passo la prima tecnica di stampa a retinatura per la resa dei grigi veniva brevettata a Philadelphia nel 1881. A partire dal 1890 la stampa di immagini e fotografie diventava comune sulle riviste americane. Nel 1893 apparve la prima copertina interamente a colori: era il numero speciale dedicato alla World’s Columbian Exposition di Chicago del Youth’s Companion, una rivista per ragazzi completamente illustrata, pubblicata a Boston e venduta al pubblico a 10 cents. La sviluppo della stampa era accompagnato da un parallelo e straordinario incremento demografico. I sedici stati che componevano gli Stati uniti nel 1800 avevano una popolazione di 5,3 milioni di abitanti. Nel 1900 gli Stati erano divenuti 45 con una popolazione complessiva di 76,3 milioni: una volta e mezzo la Germania e il doppio o più dell’Inghilterra o dell’Italia. Anche se gli Stati Uniti erano una meta di immigrazione, questa aveva inciso sull’aumento di popolazione per non più del 20%. La popolazione in grado di leggere era aumentata di 20 volte nel corso del XIX secolo, arrivando a contare più di 52 milioni di alfabetizzati, equivalenti al 68% della popolazione complessiva e al 90% di quella dai 10 anni in su (1900 U.S. Census e Hutchinson 2008, Cap. 3.1) La comunicazione pubblicitaria e la rivoluzione dei consumi statunitense si rivolgevano a una classe “media” di inusitate dimensioni per l’epoca. Nel 1899, Thorstein Veblen (1857-1929), un economista e sociologo statunitense, pubblicava La teoria della classe agiata (The Theory of the Leisure Class), nella quale analizzava alcuni comportamenti sociali alla luce di una sorta di evoluzione antropologica dei consumi. Notava che l’antico ozio aristocratico aveva mutato natura. Già all’inizio dell’epoca moderna, l’ozio non poteva intendersi più solo in senso latino come otium (attività intellettuale) contrapposto a negotium (attività produttiva), ma era divenuto un complesso sistema di privilegi sociali, che ruotava non solo attorno al tempo libero ma anche ai modi del consumo. Con l’avanzare della modernità e dell’era industriale le antiche attività aristocratiche erano cadute in disuso. La nuova classe agiata aveva sostituito all’ozio il consumo vistoso. In nessun altro paese occidentale la transizione era stata più netta come in America. Nel Nuovo mondo l’aristocrazia era ridotta al minimo, se mai era effettivamente esistita, e così le consuetudini sociali ad essa direttamente collegate. Le classi agiate americane avevano adottato il consumo vistoso come simbolo di benessere e di prestigio sociale.

13 Era a loro che si rivolgevano i nuovi pubblicitari. Mentre le cartoline invadevano lo spazio dei banconi e delle caselle postali, una comunicazione pubblicitaria di ben altre dimensioni stava letteralmente tappezzando l’America. Manifesti e cartelloni pubblicitari avevano cominciato a occupare gli spazi esterni dell’America già nel 1867, subito dopo la Guerra Civile, quando cominciarono ad affittarsi spazi pubblicitari su vasta scala. A quell’epoca era attive almeno 300 aziende che stampavano a livello professionale cartelloni e insegne pubblicitarie. Così, al consumo vistoso delle classi agiate americane faceva eco la pubblicità vistosa. Senza le remore che vi potevano essere negli antichi spazi del Vecchio continente, in America la pubblicità si esercitava nell’occupare nuovi spazi. In una nazione permeata dello spirito della frontiera, la pubblicità poteva ambire a colonizzare ogni roccia, ogni muro nelle aree urbane e rurali. Emblematico il caso di una Patent Medicine come il St. Jacob’s Oil (olio antireumatico contenente il 2% di aconito, un’efflorescenza particolarmente velenosa), che fece dipingere il proprio nome su di una roccia delle cascate del Niagara. Il servizio era fornito da una azienda di New York, la Bradbury and Houghteling, la prima a operare a livello federale a partire dal 1870. La situazione successiva alla Guerra Civile venne descritta da un anonimo commentatore come animata da un crescente rozzo individualismo che si esprimeva in modo sempre più spettacolare. Non vi era roccia bene in vista che non recasse dipinto il nome di qualcuno o di qualcosa. Non vi era muro o staccionata che si salvasse dalla nuova pandemia pubblicitaria, senza che i proprietari nemmeno venissero avvertiti. Un’azienda di New York arrivò a dipingere i camini lungo la ferrovia sopraelevata della città, utilizzando scale di corda per muoversi di tetto in tetto (Taylor e Chang 1995, 286). L’ironia di John Orlando Perry, che dipingeva una Londra tappezzata di manifesti (A London Street Scene, 1835), in America rappresentava la normalità dello scenario urbano. La ricerca di nuovi spazi sembrava inarrestabile. A partire dal 1890 la Bloch Brothers Tobacco Company cominciò a dipingere sistematicamente col suo marchio i fienili e, dal 1925, anche con quello Mail Pouch. Intorno al 1960, erano stati dipinti più di 20.000 edifici in Ohio e altri 21 stati. La maggior parte erano stati realizzati da Harley Warrick (1924-2000). Altri marchi che avevano intrapreso la stessa strada sono stati Red Man e Hillside Tobacco. Solo una legislazione del 1965, l’Highway Beautification Act, che proibiva i cartelloni pubblicitari a una distanza di 200 metri dalla rete autostradale, avrebbe fatto cadere in disuso a pubblicità sui fienili. La Mail Pouch, comunque, continuò la sua campagna lungo arterie stradali minori almeno fino al ritiro di Harley Warrick dall’attività nel 1991. Il mito della frontiera, dei territori da colonizzare e da “battezzare” con i simboli della nazione e del consumo, avrebbe conosciuto alti e bassi ma non sarebbe mai del tutto tramontato. Verso la metà del XIX secolo cominciarono a definirsi nuovi nomi e loghi aziendali, sempre più spesso associati ad immagini. Molte Patent medicine - come Child’s Catarrh Specific oppure Prof. St. Clay Todd’s Elixir - utilizzavano i ritratti dei loro fondatori: maschi bianchi, che sfoggiavano vestiti eleganti. Una delle prime aziende a mostrare il volto di una donna fu, nel 1879, la Lydia E. Pinkham Medicine Company, che produceva un infuso alcolico utilizzato come “tonico” per i disturbi femminili. Era una soluzione alcolica a

14 18° con erbe come la aletris farinosa, effettivamente impiegata dai nativi americani per i dolori mestruali: era un po’ inebriante ma almeno non era nociva. La fondatrice aveva iniziato nel 1875 la distribuzione del suo tonico, iniziandone l’anno successivo la pubblicizzazione. Il successo del prodotto risiedeva soprattutto nel modo di rivolgersi al pubblico femminile. La Pinkham raccomandava alle donne a scriverle per raccontare dei loro problemi, invitando ad allegare un francobollo per la risposta e assicurando: “Men NEVER see your letters”. Moltissime erano le americane che scrivevano alla Pinkham per conforto e consigli. L’azienda avrebbe continuato a rispondere a nome della Pinkham ancora decenni dopo la morte della fondatrice, avvenuta nel 1883. James Wetherald, un agente pubblicitario si sarebbe della Lydia E. Pinkham Medicine Company a partire dal 1890 e la sua abilità fu soprattutto quella di continuare a sviluppare il personaggio della fondatrice. L’immagine della Pinkham - i capelli raccolti, la fronte alta, lo sguardo sereno, il sorriso accennato, l’elegante colletto vittoriano - divenne un’icona rassicurante, una sorta di angelo protettore dell’universo femminile: la “salvatrice del genere umano” - come cantava una ballata popolare dei primi del Novecento - “e i giornali pubblicano la sua faccia”. Wetherald avrebbe utilizzato alcuni dei migliori disegnatori dell’epoca per realizzare immagini in bianco e nero che si imponevano all’attenzione. In alcune di esse riecheggiavano gli standard vittoriani dell’epoca: la donna madre, la donna casalinga, la donna moglie, ecc., vale a dire tutto il repertorio della True Woman americana. Tuttavia, Wetherald non si limitò a quello. Lydia E. Pinkham proveniva da una antica famiglia di quaccheri, il cui lignaggio si faceva risalire alla Casa d’Este, che incarnavano lo spirito egualitario della congregazione. Lei stessa era stata una fervente abolizionista e anti segregazionista. insomma era una donna che non rientrava troppo negli angusti modelli dell’epoca. Anche quando ormai la fondatrice era morta da anni, Wetherald decise di preparare una serie di réclame che non si limitavano a dare informazioni mediche, ma ritraevano, invece, scene di vita quotidiana in cui una donna si trovava ad affrontare le sue debolezze e l’elisir della Pinkham rappresentava la possibilità del loro superamento. Destinate a essere continuamente riviste e replicate nel corso dei decenni successivi, le cinque pubblicità sono state analizzate da Elisabeth Burt, una storica del giornalismo americano (Burt 2012). In una di esse si vedeva sulla destra una giovane donna vestita elegantemente vestita che si appoggiava a una balaustra esterna. A sinistra c’era un uomo con il soprabito e il cappello sollevato in segno di saluto, il quale offriva il suo aiuto: “Can I assist you, Madame?”. Il testo della pubblicità faceva riferimento ai disagi relativi al ciclo femminile e affermava che “il Lydia E. Pinkham’s Vegetable Compounds è la sola Cura Positiva e Rimedio Legittimo per le debolezze e malattie peculiari della nostra migliore popolazione femminile”. Il prodotto veniva presentato come il modo per uscire dagli stereotipi vittoriani della debolezza femminile: la donna non doveva più ricorrere a un aiuto “esterno” e poteva fare da sola. Ancora più significativa la vignetta in cui era ritratta una giovane impiegata davanti al suo capoufficio. Questa volta la scena era in un interno e la disposizione era invertita. Sulla destra un uomo stempiato con i baffi e il vestito scuro che si stagliava contro la finestra sullo sfondo. L’ambientazione era sottolineata dallo spigolo di una scrivania. Sulla sinistra, invece, una giovane donna vestita con la camicia chiara, gli occhi

15 bassi e il capo chino, in atto di parlare. Le parole erano in caratteri bianchi sul fondo nero: “I am not Well enough to Work”. In questo caso la pubblicità voleva evocare, per contrasto, un nuovo tipo sociale, che poteva a buon diritto essere definito la “New Woman”. Una donna che non doveva abbassare il capo, che non doveva essere seconda a nessun uomo, che poteva e voleva lavorare come gli uomini. Il prodotto Pinkham si legava così alla donna che sceglieva una strada diversa da quella che potrebbe trovare solo tra le mura domestiche. La fine del XIX secolo americano era attraversata movimenti di rivendicazione femminile. Nello stesso anno in cui queste campagne pubblicitarie vedevano la luce, la richiesta del suffragio femminile in America aveva trovato nuova spinta dalla riunione delle precedenti organizzazioni nella National American Woman Suffrage Association (NAWSA). L’idea della New Woman emergeva con sempre maggior vigore soprattutto nelle nuove generazioni. A partire dal 1880, gli stati americani cominciarono a modificare le proprie leggi per permettere alle donne sposate la gestione autonoma dei loro stipendi lavorativi. La donna americana era incoraggiata anche dalle nuove possibilità di movimento, fornite da nuove invenzioni come la bicicletta e poi la macchina, e dal fatto che in un altro paese anglosassone, la Nuova Zelanda, le donne avevano ottenuto il diritto al voto già nel 1893, le prime della storia. La pubblicità della Pinkham cavalcava apertamente il desiderio di indipendenza delle donne. Un’altra delle “pubblicità animate”, come vennero chiamati questi primi esperimenti della Pinkham, merita di essere ricordata. Questa volta la comunicazione si rivolge contro le altre Patent Medicine, definite Quack medicine (medicine fraudolenta), in una sorta di anticipazione delle Advertising Wars di quasi un secolo dopo. Una coppia matura in abito da sera campeggiava al centro dell’immagine. La donna aveva la mano alla fronte nel classico gesto del mal di capo. L’uomo aveva il braccio intorno alla vita come per accompagnarla a sedersi sulla sedia vicina. L’immagine della Pinkham appariva in un cameo allo loro destra, come se fosse un ritratto nella galleria di famiglia. Il titolo della vignetta questa volta era, in senso ironico, a beautiful wreck che può essere tradotto come “un bel relitto”. Vale la pena riportare l’intero testo: A sad scene with which to terminate a brilliant evening. They had returned from a reception. She has felt restless and nervous during the day, but, realizing the demands of society, resorted to an artificial stimulant, one of those Quack Poisons that flood the market under various names. The picture shows the reaction. Women, this is a fearful fact! Avoid the misery that must ensue from the use of Quack medicine. They only increase your suffering and complicate your disease. We extend to you a remedy that never fails, combined with the experience of Mrs. Pinkham. LYDIA E. PINKHAM VEGETABLE COMPOUND is the only positive cure and legitimate remedy for the peculiar weakness and ailment of women.

Wetherald lanciò la campagna nel 1890 e quello stesso anno le vendite salirono del 12%. Alla fine del 1892 erano triplicate. Dal 1890 al 1899, nonostante il non felice andamento dell’economia nazionale, le vendite aumentarono esponenzialmente e il fatturato lordo aumentò del 2.500%. Secondo la rivista specializzata Printer’s Ink, ancora nel 1915 le illustrazioni della Pinkham erano le migliori che si potevano

16 trovare sui quotidiani dell’epoca. Esse colpivano per la vitalità e l’azione che esprimevano: divennero modello dell’uso delle vignette in pubblicità (Burt 2012). Proprio negli anni in cui lo straordinario successo della Pinkham mostrava le nuove possibilità della comunicazione pubblicitaria, l’advertising statunitense raggiungeva un altro traguardo epocale. Come l’anno del primo nichelino di Paperon de Paperoni - un Seated Liberty del 1875 - è quello dell’inizio della fortuna del personaggio disneyano, nel 1898 vedeva la luce anche la prima campagna pubblicitaria da 1 milione di dollari. Era quella della Uneeda Biscuit (National Biscuit Company, Nabisco), la prima confezione di biscotti ad adottare il sistema brevettato In-er-Seal per sigillare in carta oliata biscotti e cracker salvaguardandone durata e freschezza. Lo slogan coniato dalla agenzia Ayer & Son era musicale, come sempre, e voleva evidentemente imprimersi nella memoria: Lest you forget We say it yet Uneeda biscuit

Per non dimenticare Lo diciamo ancora Biscotto Uneeda

Fino a quel momento i biscotti venivano venduti sfusi o in scatole che non erano certo a tenuta ermetica. A partire dalla Guerra Civile si era assistito alla progressiva affermazione dei prodotti in scatola. Per sottolineare la novità del nuovo imballaggio si scelse di rappresentare i biscotti nelle mani di un bambino vestito da pioggia, con un impermeabile giallo di quelli che si usavano in mare. L’immagine esprimeva attenzione, considerazione e cura nei confronti del bambino. Si poneva inoltre in relazione la protezione dalla pioggia dell’impermeabile e la tenuta ermetica del nuovo packaging. Attraverso una sineddoche (da συνεκδέχομαι “comprendere più cose insieme”) si era creata un’immagine simbolica che esprimeva amore, sicurezza e protezione. Il simbolo del bambino in giallo fu un grande successo e doveva accompagnare i biscotti fino al 2009, data in cui Nabisco interruppe la produzione. La sua fase progettuale fu estremamente accurata e, fortunatamente, ne è rimasta traccia. Come modello venne scattata una foto di Gordon Stille, il nipote di cinque anni di uno dei direttori esecuti dell’agenzia. Da qui venne commissionato un ritratto ad olio a Fredric Stanley, un noto illustratore di riviste come il Saturday Evening Post. Il dipinto aveva un comparto a incastro in corrispondenza del pacco di biscotti che venne utilizzato per reclamizzare anche altri prodotti della linea. L’advertising ha imparato presto non solo ad attingere, ma a miscelare arte, fotografia e, in genere, nuove tecnologie. Il ragazzo con l’impermeabile - the slicker boy - ebbe un grande successo commerciale. Dopo solo un anno di campagna la NABISCO vendeva dieci milioni di pacchi di biscotti al mese. Si organizzavano gare di mangiate di biscotti Uneeda. Persino una cittadina della prese quello stesso nome nel 1902 e

17 molte aziende rivali cercarono di introdurre prodotti concorrenti con marchi simili - Uwanta, Iwanta, ecc. - contro i quali ricorse immediatamente la Nabisco (Weinberg 2010). La stessa azienda, comunque, non esitò a copiare un biscotto di successo prodotto a partire dal 1908 dalla Sunshine (oggi entrata a far parte dell’universo Kellog’s). Si trattava di due dischi di wafer al cioccolato separati da uno strato di crema bianca, ma purtroppo per la Sunshine il nome scelto sembrava più appropriato per una linea di prodotti igienici che per dei biscotti: Hidrox. Il prodotto della della Nabisco entrò in produzione dal 1912 e, invece, si sarebbe chiamato Oreo, un nome sulla cui origine vi sono diverse ipotesi tra le quali quella di richiamare direttamente l’Aureo, una moneta d’oro della Roma antica. L’idea si sarebbe rivelata vincente. In effetti, il biscotto aveva un design caratteristico, con fregi e sigrinature che ricordavano proprio quelle di una moneta, sottolineato anche dai primi packaging, che erano scatole o astucci dorati. L’Oreo sarebbe diventato proprio un affare d’ “oro” e sarebbe diventato il dolce più venduto del XX secolo con oltre 450 miliardi di biscotti distribuiti in 100 diversi paesi (Grossman 2012). La Ayer & Son e la Nabisco avevano scoperto la possibilità di creare qualcosa di più di un semplice oggetto di consumo, avevano sperimentato la nascita di un vero e proprio simbolo contemporaneo. I vari elementi della comunicazione pubblicitaria potevano convergere creando un unico punto focale, che li riassumeva ed esaltava. L’headline originario non era rimasto solo parola, ma aveva trovato un corpo, e la parola si era incarnata in un simbolo di consumo. Per i produttori si trattava soprattutto di un modo per aumentare le vendite, ma in realtà si stavano ponendo le premesse per la creazione di nuovi stili di vita. Qualcosa di nuovo stava nascendo, anche se forse non si era ancora ben capito cosa fosse. Un’altra delle intuizioni della Pinkham sarebbe stata foriera di grandi sviluppi comunicativi. Intorno al 1900, Claude Hopkins (1866–1932) avrebbe sviluppato il Direct Mail Advertising tramite il quale ci si rivolgeva tramite lettere e materiale illustrativo direttamente ai clienti in modo da portare l’immagine del prodotto a casa loro. Il primo esperimento di 5.000 lettere inviate avrebbe generato 1.000 ordinativi di vendita del battitappeto Bissell con un tasso di successo del 20%. Era nato quel volantino pubblicitario che avrebbe progressivamente ingolfato le caselle postali di milioni di persone. Nel 1906 il Pure Food and Drug Act avrebbe cominciato a mettere fine all’anarchia delle Patent medecine, ma nel frattempo l’advertising in America aveva fatto passi da gigante.

18 FOTOGRAFIE

Per tutto il XIX secolo le immagini sono ispirate ancora in maniera significativa al mondo dell’illustrazione e l’arte, anche per i prodotti più innovativi, come per esempio le sigarette, che si stavano affermando come uno dei consumi nascenti dell’epoca. Lo stile particolarmente raffinato delle illustrazioni di ispirazione orientalista, che abbondavano in quel periodo, come per esempio i pacchetti di Murad, testimoniava dello stretto legame che c’era ancora all’inizio del ‘900 tra arte e pubblicità. Quest’ultima aveva ancora bisogno di alimentare il gusto per gli oggetti attraverso il fascino di uno stile artistico. In più, il riferimento alla sensualità dell’estetica orientale si contrapponeva in maniera evidente al rigorismo vittoriano della cultura anglosassone. L’Oriente, inoltre, era soprattutto un pretesto per introdurre un sessismo seduttivo che avrebbe avuto notevole fortuna in ambito pubblicitario. Era un altro modo per contrapporsi al rigorismo vittoriano, anche se molto distante dall’emancipazione della donna portata avanti dalla Pinkham. Tuttavia, a cavallo del secolo si sarebbe assistito a un vero e proprio passaggio di consegne, con la fotografia si sarebbe affacciata e imposta nel grande mondo delle immagini a stampa. Con la fotografia interi universi di possibilità simboliche fluivano dall’arte alla comunicazione pubblicitaria e mentre la prima si ritirava progressivamente nei territori riservati alle avanguardie, la seconda prendeva sempre più possesso dei domini dell’immaginario collettivo. Come ha indicato Walter Benjamin (1892-1940) ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), fino alla nascita della fotografia gli artisti avevano avuto il monopolio assoluto della produzione di immagini e del simbolismo ad essa collegato. Con l’avvento di fotografie, immagini riprodotte tramite un dispositivo tecnico, il mondo delle immagini era destinato a cambiare. Le vecchie rappresentazioni perdevano la loro “aura”, così come gli artisti erano chiamati a ridefinire il loro ruolo nella società. Nasceva nel frattempo una nuova estetica, quella fotografica, che presto avrebbe cercato nuovi modi di rappresentazione simbolica e che avrebbe trovato nel mondo della pubblicità ampi territori da esplorare e colonizzare. La nuova estetica permetteva un nuovo simbolismo, “leggero” e reificato, che si prestava a rappresentazioni di carattere “espositivo”. Le fotografie erano qualcosa di diverso dalle immagini d’artista, anche di quelle più realistiche. Erano frutto di invenzioni scientifiche e non di elaborazioni artistiche. Non prevedevano una formazione, ma una programmazione. Ogni foto era il frammento di una sequenza che alludeva a un’azione e non solo a una forma congelata nello spazio. Dentro ogni fotografia si potevano cogliere gli aspetti di un’azione che si svolgevano prima e dopo la temporalità della foto stessa. Il rapporto col tempo cambiava in modo determinante. La nuova estetica non faceva riferimento solo allo spazio e ai simboli che al suo interno si venivano collocando. Le nuove immagini erano tempo cristallizzato: quando si riferivano a simboli - e presto avrebbero imparato a farlo - più che ai simboli stessi facevano riferimento ai rituali in cui i simboli venivano messi in azione. La reazione al nuovo realismo fotografico dell’azione era istintiva, legata alla stessa natura simbolica e rituale dell’uomo, quindi non vi era bisogno di una particolare o sofisticata preparazione. Non

19 era necessaria alcuna preparazione teorica, né consapevolezza critica, anche perché ci sarebbero voluti decenni per prendere coscienza del significato delle nuove immagini. L’impatto delle immagini fotografiche fu immediato, ampio e notevolissimo, anche se prima di Benjamin non si può parlare di una effettiva messa a fuoco teorica del nuovo fenomeno. Le prime fotografie erano semplici ritratti, prevalentemente femminili, ma lasciavano già presagire l’importanza che le immagini fotografiche, ancora una volta prevalentemente muliebri, avrebbero avuto nello sviluppo della comunicazione pubblicitaria. Erano però immagini prese a prestito dagli studi dei fotografi, che a loro volta cercavano di dare una dignità al nuovo mezzo attraverso l’imitazione delle forme espressive degli artisti. Il risultato era del tutto sganciato dal prodotto, ma non per questo privo di capacità comunicativa. In una cartolina pubblicitaria di un negozio di calzature si vede una ragazza con la spalla nuda che annusa un fiore. L’immagine non ha nulla a che vedere con la promozione di scarpe e stivali. Tuttavia, il valore metaforico è indiscutibile. Le caratteristiche del prodotto, le sue potenzialità maleodoranti, svaniscono. L’immagine fotografica indica una strada da percorrere, dalle possibilità simboliche ancora inesplorate, pur senza addentrarsi troppo lungo la via. Diversi ordini di realtà si venivano a sovrapporre, senza che siano evidenti i confini tra realtà, illusione e suggestione. Analogamente i ritratti eleganti delle donne sui pacchetti di sigarette della Duke sono gli anfitrioni del nuovo mondo di immagini. Occorre mettersi nei panni degli uomini alla fine del XIX secolo. Forse non conquistano del tutto, ma catturano sicuramente lo sguardo. Sono immagini nuove, inusitate per la gran massa di cittadini. Non sono solo rappresentazioni, sono frammenti della realtà colti nel suo stesso incessante fluire. E campeggiano per la prima volta su prodotti di largo consumo, alla portata di tutti. In questi anni l’America guadagnava sempre più terreno rispetto all’Europa nel campo dell’innovazione industriale in settori ben determinati. Uno di questi era proprio la fotografia. Nel 1888 George Eastman metteva a punto il primo rullino fotografico in celluloide. Quello stesso anno registrava il nome Kodak e iniziava la produzione delle macchine fotografiche di largo consumo. Fino ad allora, infatti, la produzione fotografica era rimasta confinata negli studi fotografici e limitata dall’uso delle grandi e delicate lastre fotografiche in vetro. A partire da quella data la fotografia si presentava come una nuova e comune attività per il grande pubblico. La prima Kodak era venduta a 25 dollari con in dotazione un rullino da 100 foto, che doveva essere inviato alla casa madre per lo sviluppo. La fotocamera era pubblicizzata con un semplice slogan funzionalista, tutto puntato sull’azione del fotografare: “You press the button - we do the rest” (premi il bottone, noi facciamo il resto). Un anno dopo si sarebbero venute circa 13.000 macchine fotografiche e la Kodak avrebbe cominciato a sviluppare dai 60 ai 70 rullini al giorno. Forte del successo, nel febbraio 1900 la Kodak metteva in produzione al prezzo di 1 dollaro la mitica Brownie, così chiamata sulla falsariga dei famosi personaggi a fumetti inventati dal disegnatore canadese Palmer Cox. Fu un altro successo clamoroso, con oltre 150.000 pezzi prodotti il primo anno. Entro il 1905 saranno oltre 1,2 milioni gli apparecchi Kodak venduti. A partire dal 1892 le campagne della Kodak vennero gestite da Lewis Burnell Jones, cui si deve la prima immagine simbolo dell’azienda, la Kodak Girl. La ragazza ritratta dalla Kodak somiglia alla Mrs. Brown di

20 mezza età di cui aveva ancora romanticamente raccontato Virginia Wolff, ma è la vera rappresentazione della donna moderna come dovrebbe essere: una nuova Eva, indipendente, intraprendente, sganciata da tutto eppure inserita nella vita quotidiana. Non è un caso che una delle prime immagini fotografiche che diventano simbolo pubblicitario sia quella di una donna che rappresenta i nuovi stili di vita, che è pronta ad assumere nuove abitudini, a dare corpo a nuovi rituali sociali. Prima di lei la Kodak l’aveva cercata tra nelle immagini ancora così europee delle donne della Belle Époque. Doveva però trovarla altrove. La nuova Kodak Girl appare sempre vicino a ciò che è iconograficamente moderno e statunitense: l’auto, i paesaggi sconfinati americani, le case monofamiliari più lussuose, le serate più mondane, ma anche quelle più intime e natalizie. La sua libertà sta nella modernità, secondo un binomio che avrà grande successo a partire da quest’epoca. La Kodak Girl è una donna che sa valutare il nuovo ruolo che l’immagine si appresta ad avere nel mondo moderno, a partire naturalmente da quella di se stessa. Una donna che cura la sua immagine sa costruire anche quella della sua famiglia. Un bisogno che forse non si era mai sentito prima, almeno con tale impellenza, ma certamente che a partire da quest’epoca diventa essenziale. La luce della Kodak Girl si riflette anche sulle persone ordinarie. L’album fotografico diventa parte integrante della vita stessa della famiglia americana, e in seguito di quelle del mondo intero, una gioia che non può essere persa e che si scopre di colpo assolutamente necessaria. Se i fantasmi della nuova vita metropolitana si presentano come messaggeri d’oblio, l’immagine fotografia si pone come antidoto alla perdita della memoria e permettono di ricostruirla attraverso i frammenti delle immagini raccolte nella elegante cornice dell’album fotografico. Si costruisce un nuovo rituale dell’immagine. La cerimonia del thè, dei ricevimenti periodici o occasionali, passa adesso anche attraverso la visione del nuovo “libro sacro” della famiglia. La fotografia non è solo una nuova invenzione tecnica, è lo strumento che risponde al bisogno di creare immagini fatte per essere ricordate, laddove lo sono sempre meno quelle vissute direttamente nella realtà, una realtà che diventa sempre meno significativa se non è fotografabile. Lo storico Daniel Boorstin sarebbe stato uno dei primi a parlare della pseudo-realtà delle immagini e degli eventi creati apposta per essere comunicati (Boorstin 1962). La Kodak si muove su questo sentiero. Scandaglia il paesaggio alla ricerca di prospettive dove indirizzare l’obbiettivo per ottenere immagini “da album”. Sceglie di allontanarsi dalle città e di addentrarsi nella sterminata America. A partire dal 1922 Lewis Burnell Jones fece predisporre circa 6.000 segnali pubblicitari lungo le arterie più popolari del paese nei luoghi dove c’era un bel paesaggio. Erano cartelloni con un semplice lettering nero su fondo bianco che recitava: Picture ahead! Kodak as you go: stavano a indicare un luogo “meritevole di fotografia”, disegnavano una nuova topografia visiva. Il luovo uomo era chiamato a fermarsi, a scendere dalla vettura e a immortalare quel particolare paesaggio con la sua Kodak, in modo da poterlo inserire nell’album di famiglia. La fotografia diventava il modo di scoprire un paesaggio altrimenti sfuggente, di creare una realtà simbolica attraverso l’uso dell’immagine. Era una chiara anticipazione della strutturazione di un immaginario fotografico altamente standardizzato che avrebbe popolato gli scenari della cultura digitale.

21 Mentre la Kodak Girl era ritratta a bordo della sua auto mentre andava alla scoperta del paese, le sue sorelle cittadine rimanevano a casa consegnando la nuova camera di cartone nelle mani dei propri figli. Nasceva così il Brownie Boy: sarebbe stato lui ad avvicinare la fotografia, strumento tecnologico all’avanguardia, alle più familiari dinamiche del gioco. Antesignano della gamification del XXI secolo, il Brownie Boy avrebbe acceso nelle menti dei nuovi imprenditori l’idea che la formazione al nascente consumismo poteva andare di pari passo e alla lunga arrivare a sostituire la socializzazione primaria e la formazione primaria. La pubblicità delle origini sondava la nuova società palmo a palmo, investigando nuove possibilità, nuove forme di suggestione e comunicazione, lasciando poco d’intentato. Negli anni successivi gran parte del lavoro sarebbe scaturito da una attenta riflessione su questo fertile periodo d’inventiva. Investire sul Brownie Boy, non significava solo stimolare il sentimento materno delle sorelle minori della Kodak Girl, ma anche credere nelle potenzialità della nuova generazione di nativi fotografici. Il mezzo era nuovo, le sue possibilità di utilizzo intensivo solo in minima parte esplorate. Affidarlo alle nuove generazioni significava anche coinvolgere una pletora di giovani entusiasti sperimentatori nell’allargamento delle frontiere della fotografia domestica e commerciale, e con essa del nascente consumismo, della nuova filosofia del XX secolo. La macchina fotografica assumeva un posto importante insieme ai giochi e ai personaggi dei fumetti. Diventava un partner indispensabile della nuova vita quotidiana metropolitana. Se la memoria sociale si era svuotata, se mancavano grandi avvenimenti che possano in qualche modo rientrare nella categoria dei “memorabili”, la fotografia permetteva di fissare sugli album di famiglia anche i piccoli aspetti di una vita quotidiana altrimenti anonima e insensata. E così gli pseudo-eventi avrebbero cominciato a contendere la realtà alla realtà, ad assicurarsi una strada privilegiata verso l’immaginario. Non spontaneo né ”naturale”, creato per essere comunicato dai nuovi media e sostanzialmente ambiguo, lo pseudo-evento, narrato e fotografato, era destinato ad accelerare e colorire il lento e grigio scorrere della realtà quotidiana (Boorstin 1962). La fotografia, e più in generale tutte le immagini generate dai dispositivi tecnologici, rendevano possibili il nuovo mondo della comunicazione mediatica. Si inaugurava così una stagione in cui verosimiglianza e verità potevano essere distinte solo nel senso che la prima sarebbe divenuta sempre più vera della seconda. Un fenomeno che si sarebbe amplificato a dismisura con l’avvento dei dispositivi digitali. E che all’inizio del XX secolo poneva le basi per il nuovo uomo (o piuttosto la nuova donna) e per la scenografia di immagini che avrebbe fatto da sfondo alle loro vite.

22 TERAPEUTICA SOCIALE

La svolta terapeutica è la prima grande intuizione della comunicazione pubblicitaria del XX secolo. La medicina moderna aveva già compiuto passi da gigante nella lotta contro molte delle malattie che avevano flagellato la storia dell’uomo. Ma la pubblicità non dava solo voce alla medicina, poteva fare molto di più. Poteva disegnare una nuova terapia sociale, una filosofia di via basata sull’utilizzo dei prodotti di consumo per la realizzazione di nuove pratiche di benessere individuale. Anche a costo di lasciare la medicina scientifica sullo sfondo. Se la Patent Medicine basava i suoi intrugli sul recupero delle antiche tradizioni, sulle “ricette della nonna”, nel XX secolo ci si addentrava nei territori del tutto inusitati delle possibilità della scienza moderna. È il caso di rimarcare gli elementi di continuità e le differenze tra i diversi modi dell’advertising che si succedono a cavallo tra XIX e XX secolo. Già abbiamo indicato come le origini della comunicazione pubblicitaria statunitense siano strettamente legate ai particolari sviluppi dell’etica protestante, alle prese con una dimensione sempre più psicologica e terapeutica della religione (Vincenzo 2018). In questa prospettiva si muoveva la pubblicità del 1884 del Pears’ Soap che utilizzava un testimonial d’eccezione, il Reverendo Henry Ward Beecher (1813-1887), un politico e riformatore considerato tra le maggiori personalità statunitensi del suo tempo. Per la Pear’s il reverendo avrebbe interpretato la pubblicità come una forma di predica, che riprendeva un noto adagio metodista, affermando la stretta relazione tra igiene personale e pietà religiosa:

Se la pulizia è davvero vicino al divino, allora sicuramente il sapone è un mezzo di grazia.

La prima anima della pubblicità moderna ha un carattere terapeutico. E di cose da guarire ce n’erano molte. La modernità sembra recare con sé un male profondo e per molti aspetti sconosciuto. Le grandi trasformazioni industriali e il progresso avevano spaventato più che rincuorare buona parte della popolazione occidentale. La modernità disvelava timori prima ignoti, mentre le nuove metropoli si presentavano come scenari inquietanti e opprimenti. Il romanzo dello scrittore e giornalista americano Upton Sinclair, The Jungle (La giungla, 1906) non era ambientato nella foresta, ma nell’inferno della Chicago dei nuovi immigrati e delle industrie alimentari pronte a qualsiasi frode pur di realizzare profitti. I Rudkus, la famiglia protagonista, sono di origine lituana. Tutti devono lavorare per sopravvivere ma ciò nonostante incidenti e difficoltà portano i Rudkus alla catastrofe. Kristoforas, uno dei figli, muore per avvelenamento alimentare; Jonas, l’altro figlio maschio, scompare nel nulla; la moglie, infine, si deve prostituire con il suo boss, Phil Connor, per continuare a mantenere l’impiego. Jurgis Rudkus, il capofamiglia, assale Connor e viene quindi imprigionato. All’uscita dal carcere scopre che la sua famiglia ha perso la casa. La storia si dipana di disgrazia in disgrazia fino a quando Jurgis conosce un oratore socialista e ritrova una speranza altrimenti impossibile.

23 All’interno della giungla dei prodotti americani, la Pure Food and Drug Law (1906) era la prima normativa che cercava di porre ordine nel caos di prodotti adulterati, droghe allucinogene e toccasana miracolosi. Ma proprio la decisa estromissione dal mercato di ciarlatani e truffatori spalancava le porte alla comunicazione pubblicitaria professionale. L’ansia di grazia e guarigione rimaneva radicata nell’immaginario americano. Se Sinclair cercava la speranza nel sindacalismo socialista, alcune confessioni protestanti erano più propense a buttarsi nelle braccia nel nascente consumismo. Non a caso una delle prime agenzie pubblicitarie, la N. W. Ayer & Son, era nata nel 1869 a Philadelphia proprio nell’ambito delle chiese battiste (Vincenzo 2018, 11). Se la grazia salvifica poteva essere associata a una saponetta, a maggior ragione lo poteva essere alle possibilità taumaturgiche di tutta una nuova serie di prodotti che l’industria americana stava elaborando. Non bisognava voltarsi indietro come aveva fatto la moglie di Lot. Bruce Fairchild Barton (1886-1967), co- fondatore della Batten, Barton, Durstine & Osborn (BBDO), era un pastore protestante molto attivo anche come scrittore e pubblicista. Nei suoi testi emergeva la figura del Cristo come prototipo del moderno imprenditore e fondatore della prima corporation (ibid., 12). In fondo al tunnel della Rivoluzione industriale, le menti più visionarie dell’epoca riuscivano a scorgere una nuova luce, quella del consumismo. Ci voleva tempo e speranza. La nuova filosofia del consumo non sarebbe nata in un solo giorno, ma il suo sviluppo si sarebbe fatto sempre più serrato al volgere del secolo, avvolto fin dall’inizio in un’aura salvifica. Nel frattempo la seconda rivoluzione industriale aveva inondato il mercato di nuove produzioni industriali. Le scoperte nel campo della pastorizzazione e gli approfondimenti degli aspetti fisici, chimici e biologici della sterilizzazione, avevano rivoluzionato la conservazione alimentare e permesso la produzione su larga scala prodotti in scatola. La guerra civile americana (1861-1865), per la quale era stato necessario rifornire viveri ed equipaggiamento a 2-3 milioni di soldati, era stata il volano per il rapido sviluppo di settori industriali del tutto inesistenti fino a pochi anni prima. L’utilizzo dell’energia elettrica aveva reso possibile la creazione di elettrodomestici ancora una volta del tutto nuovi. Il XIX secolo aveva rivoluzionato anche la medicina, rendendo disponibili nuovi farmaci e, anche, nuovi disinfettanti per uso domestico. La vicenda del collutorio, uno dei maggiori prodotti di successo dell’epoca, è emblematica, tanto che le stesse date scandiscono la progressione dell’advertising americano nella creazione del nuovo ordine del consumo. La Listerine era un disinfettante a base alcolica creato nel 1881. Prima utilizzato in ambito ospedaliero, a partire dal 1895 venne iniziata la promozione presso i dentisti come potente antisettico orale, ma solo nel 1914 la formula venne utilizzata dalla Lambert Pharmaceutical per produrre il primo collutorio da banco venduto negli USA, un iter comune a molti prodotti dell’epoca. La svolta, però avvenne, quando negli anni Venti venne lanciata una grande campagna pubblicitaria che indicava la Listerine come un efficace rimedio contro un oscuro male sociale che affliggeva l’uomo moderno, in particolare le donne, limitando gravemente la loro capacità di relazione pubblica: l’alitosi. Il termine “medico” indicava l’alito cattivo, in realtà era un neologismo creato dal figlio di Jordan Wheat Lambert. Venne creata anche una agenzia di comunicazione interna, la Lambert & Feasley, con l’obiettivo di sviluppare una serie di campagne della Listerine che ruotavano attorno a un personaggio dai connotati patetici: Gerarldine Proctor, la donna che non

24 si sposerà mai a causa del cattivo alito, l’esatto contrario della Kodak Girl. Era un modo per prendere l’uomo moderno tra due fuochi.

Spesso Damigella, ma mai una sposa. Il caso di Gerarldine Proctor era realmente patetico. Molte ragazze della sua comitiva erano sposato o in procinto di esserlo. Tuttavia nessuna di loro aveva più grazia, fascino o grazia di lei. Come si avvicinava il trentesimo compleanno di Miss Proctor, il suo matrimonio sembrava più lontano che mai (pubblicità Listerine del 1922).

Pur se vi era ancora molto da affinare quanto a comunicazione visiva, ma la strada terapeutica tracciata dalla Listerine era ormai chiara. Le paure dell’uomo moderno non vanno cancellate, ma al contrario, incoraggiate e, al momento opportuno, scongiurate tramite l’uso di quei potenti amuleti rappresentati dai prodotti di consumo. Salute e amore sono le grandi pulsioni che spingono verso la reificazione simbolica: lo sanno bene santoni e maghe che hanno continuato a prosperare di pari passo con la modernità (nel 2019 in Italia il Codacons ha stimato che il fatturato del settore sia stato di almeno € 8 miliardi, co almeno 3 milioni di persone coinvolte). La pubblicità della Listerine riusciva a coniugare salute e amore, sia pure in senso negativo, per questo era destinata ad avere grande impatto. Come le altre malattie sociali, anche l’alitosi era invisibile e in un certo senso inconfessabile. L’unico rimedio prospettato era quello di affidarsi al potere taumaturgico dei nuovi prodotti di consumo, come suggeriva un pubblicità della Listerine del 1923.

Quale segreto nasconde il tuo specchio? Notte dopo notte lei ha scrutato il suo specchio cercando vanamente la ragione. È una ragazza bella e talentuosa. È più educata e ben vestita di molte sue coetanee. Ha la cultura e la sicurezza di una persona che ha viaggiato. Ma in una delle ambizioni che maggiormente occupano i pensieri di ogni ragazza e di ogni donna ha fallito: il matrimonio. Molti uomini vanno e vengono nella sua vita. Lei è stata spesso una damigella d’onore, ma mai una sposa. E il segreto che il suo specchio nasconde riguarda una cosa che lei nemmeno sospetta- una cosa che semplicemente la gente non dice in faccia.

La Listerine proporrà le sue donne sconsolate “mai spose” fino agli anni Cinquanta, segno che l’efficacia delle sue campagne era lungi dall’essersi esaurita. Nel dopoguerra, infatti, la terapeutica avrebbe addirittura espresso forme persuasive ancora più capziose, come quella descritta da Marshall McLuhan (1911-1980) in un saggio del 1947:

Una tecnica molto usata è la sequenza formata da quattro o cinque scene separate: Tommy torna a casa da scuola con un occhio pesto e viene interrogato dalla giovane e graziosa mamma. Lui riluttante le rivela che i compagni lo sfottono perché suo padre si dà da fare con altre donne. Egli ha dovuto difendere il prestigio sessuale di sua madre. Lei mortificata si affretta a comprare il dentifricio appropriato. Il mattino dopo la mamma sfolgorante in mutandine e reggiseno, mentre si lava i denti in bagno dice a Tommy “Funziona”!. Più tardi Tommy e i suoi amichetti, dietro un angolo sbirciano nel soggiorno dove papà e mamma ballano un valzer seguendo la musica della radio. “Ehi!” dice uno dei ragazzini, “Mi sa tanto che adesso lui la porta in un’altra stanza e la bacia!. “Già” dice Tommy. “Adesso non puoi più dire che il mio papà fa il cascamorto

25 con le altre ragazze”. Questa pubblicità appare in un inserto domenicale a fumetti: raggiunge il pubblico giovanile (McLuhan 1947, 24).

La scoperta della terapia sociale sembrava un porto sicuro nel quale trovare risposte alla domanda fondamentale: la ragione dell’acquisto dei nuovi prodotti non è tanto la salute, ma è soprattutto la felicità dell’anima. Tanto più che è una scoperta che avviene nell’alveo rassicurante della più autoctona etica protestante. In questo modo però il consumismo veniva modellato nella forma di quesi rituali sociali che la modernità metteva in atto in sostituzione di quelli tradizionali. Dietro questi sviluppi c’era la consapevolezza di trovarsi di fronte a nuove e preoccupanti malattie sociali dovute alla vita metropolitana e alle forme di socializzazione sempre più problematiche. La nuova etica cercava la risposta nel potere degli oggetti di consumo, investiti di un carattere che può essere a buon titolo definito come “magico”. Una pubblicità della Listerine del 1930 mostrava un dentista nel suo studio. L’uomo era girato di schiena e guardava fuori dalla finestra. L’headline richiamava i mormorii dei suoi clienti, fatti cadere negli angoli della stanza prima di abbandonarla per sempre a causa dell’alitosi del medico.

I sussurri che non ha mai udito. “Andavo da lui” “un uomo simpatico, altrimenti” “Nessuna meraviglia che i suoi pazienti lo abbiano lasciato” “non gli farò toccare un altro dente dei miei” “pensa, un dentista che ce l’ha!” “sua moglie dovrebbe dirglielo”.

In un’altra immagine dello stesso periodo si vede un giovani di bell’aspetto ricevere una lettera di dimissioni. Lo slogan recita: Scusa Watkins, ma stiamo riducendo il personale! Nel testo si chiarisce che quella è solo una scusa, ma i reali motivi del licenziamento vanno trovati in quell’alitosi di cui il giovane è inconsapevolmente affetto. La scoperta del potere terapeutico-taumaturgico dell’oggetto di consumo era pari a quella delle grandi innovazioni scientifiche della seconda rivoluzione industriale. In un certo senso fungeva da tramite tra quelle e lo spirito della cultura protestante americana. Quella stessa cultura che, secondo Max Weber, aveva svolto un ruolo fondamentale per la nascita del capitalismo, si vedeva adesso alle prese con una nuova trasformazione: quella della modernità del consumo. Facciamo un piccolo passo indietro per illustrare alcune delle fasi dello sviluppo del capitalismo. Lo spirito del capitalismo si era presentato nel corso del Settecento come una sorta di nuovo credo religioso, una liturgia del lavoro collegata a una messa a punto di nuovi simboli, su tutti il denaro. Molti aspetti della cultura capitalistica sarebbero stati approfonditi nel XIX secolo. Il lavoro aveva perso la sua caratteristica artigianale che ancora lo rendeva vicino all’arte e alle relative vocazioni etica e manuale. Il denaro era diventato l’unità di misura di ogni cosa avviando una sorta di contrattualizzazione dei rapporti sociali

26 individuata da Tönnies come uno dei segnali del predominio della società sulla comunità, dei rapporti economici su quelli umani. La dimensione etica del calvinismo protestante era costantemente alla ricerca di trovare l’infinito nelle cose finite. Lo spirito del capitalismo esprimeva la visibilità della spiritualità, la corrispondenza tra il successo in questo mondo e quello nell’altro. Il denaro non era solo un segno di potenza, ma anche una stigmata di elevatezza morale e di predestinazione spirituale (Vincenzo 2019). In tal senso il capitalismo si era sviluppato su di una forma religiosa che aveva fondato la propria liturgia sulla distruzione del simbolismo cattolico e che si era trovata così in una condizione anomica. Con la modernità il capitalismo americano doveva risolvere anche il problema del vuoto anomico venutosi a creare insieme allo sviluppo sociale. Tuttavia, il capitalismo era necessariamente una professione elitaria, che riguardava solo un ristretto ambito della popolazione. Col tempo era diventato chiaro che se era una religione di salvezza non poteva coinvolgere grandi masse. Gli stessi capitalisti non potevano esporsi più di tanto, per non attirarsi troppe gelosie. Una fotografia della società dell’epoca è quella realizzata da Carl Barks, il disegnatore di Walt Disney ideatore della città di Paperopoli (Duckburg, 1944), che rappresenta una sorta di trasposizione a fumetti del lavoro sociologico di Max Weber. Il riferimento ai fumetti non è casuale. La nuova forma espressiva nasce negli stessi anni che vedono la gestazione della grande trasformazione consumistica della società (la prima striscia di Yellow Kid è pubblicata a partire dal 1895). I personaggi a fumetti sono i figli contemporanei delle grandi favole del passato. Permettono l’espressione metaforica e universale di vizi e virtù della società reale. Al centro di Paperopoli si staglia collina del Deposito (con la maiuscola) di Paperon de Paperoni (Uncle Scroonge McDuck, 1947) attorno al quale ruota tutta l’urbanistica e la vita cittadina. Il vecchio e ricco papero vestiva in modo analogo ai capitalisti d’assalto del XIX secolo, definiti spregiativamente rubber baron (baroni-rapinatori): una lisa finanziera nera (poi blu o rossa), con tuba a cilindro e ghette (blu o rosse di colore inverso alla finanziera). È di un’avarizia leggendaria, ma vive letteralmente nuotando nell’oro, verso il quale riserva un vero e proprio culto. La vita di Paperon de Paperoni ruota infatti attorno al culto del primo nichelino guadagnato, la Numero Uno (Number One Dime oppure Old Number One). Oltre che dalla Banda Bassotti (Beagle Boys), il nichelino verrà insidiato a partire dal 1961 anche dalla strega napoletana Amelia (Magica De Spell), che cercherà di rubarlo per trasformarlo in un amuleto capace di conferire il magico potere del tocco di Re Mida (The Midas Touch, titolo del primo fumetto che la vedrà in azione): magia e capitalismo sono intrecciati tra loro, come le vicende dei personaggi di Paperopoli. Paperon de Paperoni è un personaggio schivo e solitario, che non ama apparire in pubblico, ma piuttosto tramite suo nipote. Il nipote preferito è Paperino (Donald Duck, 1934) un personaggio singolare, simbolo della controversa personalità metropolitana dell’inizio del secolo: irascibile ma con una visione positiva della vita; pasticcione e inconcludente, ma capace di trasformarsi in sagace agente segreto. La vicinanza di Paperino al ricco e avaro zio gli permette talvolta di godere della magica fortuna del denaro. Ma non è l’accumulo che caratterizza il giovane papero, quanto il consumo ed è in quest’ultimo che Paperino riesce a

27 fasi alterne a trovare felicità e serenità. L’elitaria religione del denaro delle prime generazioni di capitalisti era divenuta così la più democratica tumaturgia del consumo della nuova classe media statunitensi. La nuova etica terapeutica prometteva benessere attraverso il consumo, individuava la strada per una nuova emancipazione dalle preoccupazioni che avevano afflitto l’umanità fino a quel momento. Quando la comunicazione pubblicitaria dell’inizio del secolo ha individuato la strada delle terapia sociale non l’abbandonerà più. Il consumo dei moderni prodotti dell’industria sortiva nel duplice risultato di portare giovamento agli alfieri del capitalismo, costantemente alle prese con lo spettro della sovrapproduzione, e di sollevare l’uomo e la donna comuni dalle paure che sempre più attanagliavano la vita metropolitana. Se bastava così poco - un collutorio, un sapone, una nuova cipria, un battitappeto elettrico - per avvicinarsi alla felicità dell’anima, per realizzare uno stato di grazia, in fondo valeva la pena buttarsi a capofitto in quella nuova religione di salvezza che appariva all’orizzonte: il consumismo. Di fronte a un mondo pieno di incognite e di paure, il consumismo si presentava come un nuovo insieme di certezze. Le agenzie pubblicitarie erano diventate sempre più efficienti nel mettere a punto una nuova filosofia di vendita che coniugava ricerche di mercato e produzione di nuovi beni. Nei primi decenni del XX secolo i media si erano ormai perfettamente integrati nel nuovo sistema, collaborando attivamente allo sviluppo della cultura del consumismo. Gli stessi giornali non erano semplici veicoli di pubblicità, ma attori in grado di dialogare concretamente con produttori e agenzie di comunicazione. Fin dall’inizio degli anni Venti la rivista Good Housekeeping, per esempio, cominciò a fornire un nuovo servizio alle aziende inserzioniste, un “marchio di qualità”. Alcuni prodotti venivano testati e alla fine acquisivano il logo Garanteed as Advised (“garantito come nella pubblicità”) che forniva una garanzia del tipo “soddisfatti o rimborsati”. Dato che si trattava per lo più di prodotti di uso comune dal costo modesto, l’impegno non comportava pesanti conseguenze finanziarie per il produttore, ma allo stesso tempo lanciava un messaggio fortemente rassicurante al consumatore. Aveva inizio l’epoca della “fidelizzazione”, non solo del consumatore ma anche dell’inserzionista. Solo nel 1925 Good Housekeeping sarebbe riuscita a vendere circa 1.700 pagine di pubblicità a 723 differenti inserzionisti, 286 dei quali utilizzavano esclusivamente quella rivista come veicolo pubblicitario (Pollay 1994). Alla fine degli anni Venti, in una pubblicità della cipria Armand, il vecchio mondo elegante e aristocratico appare ormai solo come una grigia silhouette sullo sfondo. La nuova donna destinata a prenderne il posto era invece in piena luce, forse meno appariscente, ma poteva contare su oggetti dotati di un potere magico e simbolico allo stesso tempo, in grado di fronteggiare le mutate condizioni della vita moderna, una vita necessariamente più attiva e dinamica.

28 NUOVI MEDIA

Se una terapia era stata trovata, le cause del malessere dell’uomo moderno non erano ancora ben chiare. Perdita di valori, sovraffollamento della vita metropolitana, atteggiamenti individualisti, complessità sociale erano tutti fattori fortemente indiziati di essere all’origine della crisi moderna. Émile Durkheim è stato il primo a condurre uno studio sociologico scientifico su uno dei sintomi evidenti dei mali dell’umanità occidentale: il suicidio (Durkheim 1897). Prima delle rivoluzioni industriali il tasso di suicidio era molto basso in tutte le società del pianeta e continuava a rimanere tale al di fuori dei paesi europei. Durante il XIX secolo, invece, il tasso di suicidio era aumentato in maniera esponenziale soprattutto nelle zone più sviluppate del continente, come in Francia e Germania. In America l’andamento sarebbe stato sostanzialmente analogo, con solo un paio di decenni di ritardo. Durkheim aveva evidenziato che le principali cause suicidogene erano riconducibili ai profondi cambiamenti nelle credenze e nelle pratiche di vita quotidiana che avevano riguardato quei paesi, individuando un fattore che aveva definito anomia, letteralmente mancanza di norme. Era l’anomia a provocare il malessere delle società metropolitane e, di conseguenza, ad aumentare il tasso di suicidi. Durkheim aveva trovato una delle principali cause della malattia delle società sviluppate (Vincenzo 2018). Una norma stabilisce comportamenti che si basano su precisi precetti e testi. La struttura della norma è simbolica e le sue conseguenze, così come le sue violazioni innescano comportamenti rituali. Ancora oggi i procedimenti che avvengono di fronte al giudice si definiscono “riti”: rito civile, rito penale, rito abbreviato, ecc. Durkheim proveniva da una famiglia rabbinica. Per la tradizione ebraica le 613 Mitzvot sono contemporaneamente le norme fondamentali dell’ebraismo e i riti che esse individuano come pratiche essenziali del credente. L’anomia indicata da Durkheim è al tempo stesso mancanza di simboli (o valori) e mancanza di rituali ad esso relativi. Potremmo aggiungere anche mancanza di narrazioni simboliche, ovvero di riferimenti che illustrano i modi in cui il simbolo deve essere interpretato e, di conseguenza, il rituale messo in atto. In società l’uomo pensa in modo simbolico e agisce in forma rituale.

As a social animal, man is a ritual animal (Douglas 1966, 63).

Se i vecchi rituali vengono meno, nuovi rituali devono essere individuati per sopperire alla necessità simboliche e rituali fondamentali dell’uomo. All’inizio del XX secolo l’America era una nazione priva di una chiara tradizione, se non quella di un calvinismo protestante che aveva sposato il capitalismo economico. La sua eredità democratica rendeva difficile se non impossibile lo sviluppo dei simboli di un totalitarismo politico. Vissuta fino ad allora quasi alla periferia del mondo occidentale, l’America era tuttavia una nazione con una popolazione matura, con uno dei tassi di alfabetizzazione più alti del mondo: il 95% dei bianchi e il 60% degli afroamericani. L’introduzione dei nuovi rituali sociali basati sul consumo sarebbe avvenuta quasi

29 in sordina, come uno sviluppo del tutto naturale. A partire dagli anni Venti il consumismo sarebbe diventato un “comportamento compensativo” nei confronti delle vecchie forme di relazione sociale e di soddisfazione personale che erano andate scomparse (Fox e Lears 1983, 125) La diffusione di nuovi simboli e nuovi rituali doveva procedere però in modo capillare. Se le adunate di massa e gli eventi coinvolgenti erano alla base della diffusione dei nuovi rituali politici totalitari, non si prestavano in maniera così efficace alle dinamiche commerciali. Occorreva andare ancora più a fondo, offrendo a ogni singola famiglia nuovi comportamenti sociali. Il ritualismo commerciale aveva bisogno di penetrare nelle case degli americani ancora di più di quanto potevano le riviste a stampa. Per questo la scoperta della radio fu una vera e propria benedizione. La radio è stata la prima forma di comunicazione capace di spingersi fin dentro le case delle persone, a farsi sentire alle orecchie anche delle tante Signore Brown, dimesse e sole, disseminate per il mondo occidentale. Il 1919 vedeva già la nascita della RCA (Radio Corporation of America), al cui sviluppo parteciparono un gruppo di imprese che vanno dalla General Electric, alla At&t, alla Westinghouse e soprattutto alla United Fruit, la futura Chiquita, le quali testimoniano della lungimiranza e della velocità con la quale le aziende americane hanno compreso non solo le possibilità espressive del mezzo tecnico, ma soprattutto la sua capacità di incidere a livello commerciale. La risposta del pubblico fu immediata. Dovunque si aprissero stazioni radio gli apparecchi radiofonici andavano a ruba, tanto che nel 1922 si stimava fossero presenti già 600.000 radio in America (Whitney 1922). Se in Europa la diffusione della radio riceveva incentivi e finanziamenti dagli interventi governativi, in America era legata strettamente alla comunicazione pubblicitaria, che si sarebbe sviluppata anche grazie all’impulso dell’allora segretario del Commercio Herbert Hoover (1874-1964), che sarebbe stato Presidente degli Stati Uniti dal 1929 al 1933. All’inizio le trasmissioni radiofoniche erano soprattutto un ottimo modo per vedere apparecchi radio, ma entro il 1930 nove stazioni radio su dieci vendevano regolarmente spazi pubblicitari. In quello stesso anno risultavano installati 12.048.762 apparecchi radiofonici in America, vale a dire nel 40.3% delle case. Nel 1934 la percentuale sarebbe salita a oltre il 60%. Di conseguenza gli investimenti in campagne pubblicitarie radiofoniche lievitavano, passando dai 4,8 milioni di dollari nel 1927 ai 167 del 1938. Nel 1935 le spese complessive in pubblicità in America assommavano già alla ragguardevole cifra di 1.720 milioni di dollari, circa il 3% del PIL, più di tre volte quelle di un paese europeo come la Gran Bretagna dove si spendevano in pubblicità 89.360.000 sterline pari a 450 milioni di dollari. Anche la comparazione delle diverse tipologie di spesa faceva capire come ormai la strada segnata dagli Stati Uniti era diversa da quella degli altri paesi occidentali. In particolare si può notare come la pubblicità sulla stampa in America in quel periodo era ben 12 punti percentuali in meno di quella inglese, dato che si cominciavano a privilegiare le altre forme di comunicazione, come appunto la radio (Kaldor e Silverman 1948). La stampa aveva portato nelle case degli americani le immagini dei prodotti di consumo, la radio faceva arrivare invece la loro voce e la loro musica, dava a quegli oggetti un’anima: lo sviluppo dei disegni

30 “animati” andava di pari passo. Secondo McLuhan e la sua scuola, la lettura della pagina stampata utilizza prevalentemente l’emisfero sinistro, più razionale e calcolatore. Le immagini e i suoni, invece, richiedono la partecipazione di quello destro, più emotivo e creativo. La rivoluzione gutenberghiana aveva portato all’affermazione del razionalismo, all’idea dell’uomo come animale razionale. I nuovi media, invece, riportavano prepotentemente alla ribalta l’aspetto più sensibile, emotivo, passionale e intuitivo dell’uomo simbolico e rituale: il riscatto dell’emisfero destro (McLuhan, 1988).

Comparazione spese pubblicità nel 1935 UK USA

Stampa 54,1% 42,3%

Outdoor 7,3% 7,4% Radio 0,4% 6,2% Film 0,6% 0,3%

Altri materiali a stampa e Direct mail 30,9% 33,8% Agenzie e dipartimenti comunicazione 6,7% 10,0% 100% 100% La radio, inoltre, permetteva di riorganizzare parte della vita domestica, consentiva alla persone di sentirsi in collegamento con l’esterno, anche se in realtà erano chiuse all’intero del loro ambito domestico. Le foto dell’epoca abbondano di immagini di famiglie riunite intorno alla radio, così come di giovani in riunioni danzanti. Erano i primi grandi rituali del mondo moderno insieme a quelli innescati dal cinematografo. Non a caso il Network radio NBC cominciò a trasmettere Let’s dance (dicembre 1934 - maggio 1935) una trasmissione di cinque ore con tre ore di musica e tre band musicali che suonavano a rotazione, espressamente dedicata ai giovani e alle loro riunioni, che iniziava alle 10:30 del sabato sera ed era sponsorizzata dalla Nabisco (inizialmente per promuovere il nuovo cracker Ritz). Da allora si sarebbe consacrata la swing era, uno dei tratti caratterizzanti la cultura americana almeno fino al dopoguerra. La Grande Depressione del 1929 avrebbe rallentato gli investimenti ma non il processo di consolidamento del consumismo come forma e carattere dei nuovi rituali moderni. Anche la comunicazione sarebbe stata colpita dalla crisi, più che dimezzando le spese in pubblicità tra il 1929 e il 1933, tanto che ci sarebbero voluti ben 15 anni per tornare ai livelli precedenti il ‘29. Ma le minori risorse favorivano un atteggiamento più mirato, che prendeva di mira i punti deboli dell’uomo moderno e allo stesso tempo stimolava la sua ritrovata sensibilità. Scoperto il potere terapeutico dell’oggetto di consumo, le paure venivano coltivate, incentivate, create, se necessario. Dietro ogni immagine positiva, dietro ogni oggetto che andava a riempire le case americane, c’era lo spettro della sua mancanza, delle zone d’ombra che avrebbe proiettato la sua assenza. A volte si ricorreva a metafore apparentemente banali, ma efficaci: una persona nervosa doveva la sua irritazione a una carta igienica ruvida; oppure una dolce scena romantica poteva essere rovinata dal tocco rugoso di una mano rovinata dal detergente per piatti. Per ogni male, per ogni problema, bastava trovare l’oggetto giusto, che recava in sé la soluzione. L’oggetto era dotato di potere. E dopo la nascita della radio anche di una voce. La sola evocazione dell’oggetto poteva bastare a sollevati. Le pubblicità dell’epoca della

31 radio sono, inutile dirlo, “radiose”, letteralmente irradiavano raggi luminosi. Ormai l’oggetto era capace di brillare di luce propria, non aveva più bisogno di dipendere troppo dall’uomo perché era l’uomo che dipendeva da lui. Si utilizzava spesso la tecnica del fumetto, che trasportava gli oggetti in una dimensione fiabesca e meno realistica. Il rapporto con la fiaba era importante, per sottolineare l’aspetto magico dell’oggetto di consumo. Anche i testi sono più simili al linguaggio parlato, più dialogati e musicali, spesso semplici giochi di parole, anch’essi riconducibili a formule magiche. La grafica e il packaging cambiavano di conseguenza, esprimendosi in forme più creative, meno legate alla mera rappresentazione della realtà. Gli anni 1925-1945 sono considerati quelli dell’introduzione della “magia bianca” nella comunicazione pubblicitaria, l’epoca dell’affermazione del potere magico taumaturgico dell’oggetto di consumo in grado ormai di catturare e addomesticare le forze della natura (Lears 1983). Il consumismo manifestava pienamente il suo carattere simbolico, anche se ancora in modo rudimentale e astratto, senza quella capacità di coinvolgimento emotivo di cui si sarà capaci più avanti. L’oggetto di consumo diventava un catalizzatore di forze materiali e immateriali, uno strumento di controllo del potere dell’uomo sul mondo. Anche il copywriting cambiava radicalmente, passando dalla descrizione dell’oggetto, all’evocazione delle sue formule “sacre”, all’indicazione degli effetti magici sul consumatore: suggestioni e metafore, analogie e inferenze, prendevano il sopravvento sulla reason why all’acquisto e la descrizione razionale del prodotto. Le caratteristiche puramente funzionali del prodotto erano tenute sempre in minore considerazione, mentre erano magnificati i riflessi che gli oggetti di consumo potevano indurre sullo status sociale, sulla percezione del glamour e soprattutto, sulla riduzione dell’ansia e dell’anomia. La paura regnava ancora sovrana sull’uomo moderno: il 31 ottobre 1938 sarebbe bastato l’ascolto The War of the Worlds, il dramma radiofonico di Orson Welles in cui si annunciava un’invasione di marziani, per scatenare il panico nei radioascoltatori di mezza America. Nei giorni successivi i quotidiani avrebbero dedicato oltre 12.000 articoli all’evento (Cantril 1940).

32 L’AUTOMOBILE

John Benson, presidente della American Association of Advertising Agencies, durante un meeting della sezione occidentale dell’associazione, teneva un discorso sull’impatto sociale della pubblicità, riportato dalla rivista Editor & Publisher il 2 novembre 1935. Il suo schietto cinismo rispecchiava il ruvido pragmatismo dei pubblicitari dell’epoca:

Non è possibile eliminare l'illusione dalla pubblicità perché non la si può eliminare dalla vita. Senza di essa, la pubblicità sarebbe morta. La religione è un patto d’illusione; così come il matrimonio, l'amore materno e tutto l'idealismo (...) La gente vive un'esistenza grigia. Pochi sono ricchi o intelligenti o avvenenti. Ma essi possono conferire alle cose un significato che non si sentono in grado di creare da soli (cit. In McClung Lee 1937, 336).

La teoria della comunicazione dominante dalla fine degli anni Venti era la bullet theory (teoria ipodermica), secondo la quale la comunicazione si comportava come un proiettile sparato che andava a colpire il pubblico o piuttosto come una sostanza che andava iniettata. L’azione della comunicazione mediatica veniva definita da Lasswell nei termini di un linguaggio stimolo-risposta, di un’azione che moltiplicava le suggestioni mirate a una determinata reazione e che limitava invece gli stimoli che induceva risposte sfavorevoli (Lasswell 1927). Harold Lasswell (1902-1978), sulla linea di personalità che avevano contribuito allo sviluppo delle pubbliche relazioni in America come Edward Bernays (1891-1995), nipote di Freud, credeva che la propaganda fosse necessaria in democrazia per rendere edotte le masse, per lo più ignoranti, riguardo alle scelte lungimiranti condotte dalle élite al potere.

Molto di ciò che in passato si poteva fare con la violenza e l'intimidazione può ora essere fatto con la discussione e la persuasione. La democrazia ha proclamato la dittatura delle chiacchiere, e la tecnica di dettare al dittatore si chiama propaganda (Lasswell 1927, 631).

Le auto della Ford sembravano incarnare pienamente questa prospettiva a cavallo tra spirito demagogico e dittatoriale. Erano solide e durature, senza fronzoli inutili: all’inizio un solo modello per tutti, col tempo al massimo due o tre, in modo da ottimizzare i costi di produzione. (1863-1947) era il rappresentante di quei vecchi capitalisti che avevano costruito l’America e che ritenevano di avere ben chiaro in mente cosa fosse utile per i loro concittadini. A suo avviso il compratore andava ammonito, guidato ed educato. Fino all’epoca della Prima Guerra mondiale il famoso Modello T della Ford si vendeva così bene che non vi era da parte dell’azienda particolare interesse a investire in pubblicità. Tanto più che l’aumento dei costi era contrario ai principi del suo fondatore. Una pubblicità del 1912, sotto l’aquila stilizzata del marchio Ford, recitava:

33 Undici a sette! Un mercante che sa fare il suo mestiere dice che gli costa undici centesimi una consegna con i cavalli —- e sette con un’auto Ford. la differenza? Dovuta in particolare al drastico aumento dei costi di mantenimento dei cavalli — ma soprattutto alla straordinaria efficienza della Ford.

Nel 1917 iniziarono i primi investimenti consistenti in pubblicità sui quotidiani nazionali, ma per una vera e propria strategia comunicativa si sarebbe dovuto attendere gli anni Venti. Il messaggio della Ford continuava a essere paternalistico. Henry Ford “sapeva come fare buone auto” meglio del compratore ed è per questo che dei suoi prodotti ci si doveva fidare. L’headline era molto semplice, un esempio di stretta applicazione della bullet theory:

Taglia i costi, compra una Ford.

Anche quando la comunicazione si fece più sofisticata, come quella rivolta a un pubblico femminile (o piuttosto ai mariti affinché le comprino per le mogli), le auto occupavano sempre il centro del campo visivo, mentre tutto il resto era più o meno sfuocato o ai margini. Le caratteristiche tecniche ed economiche erano sempre chiaramente evidenziate. Veniva sottolineata la giusta scelta del compratore nella misura in cui finalmente comprendeva il valore della Ford:

Un crescente numero di donne che preferisce guidare la propria auto, sta scegliendo la berlina Ford Fordor.

A partire dal 1927 e per più di un decennio la sua agenzia pubblicitaria fu la N. W. Ayer & Son. Durante gli anni Trenta, tuttavia Ford si dedicò direttamente alla comunicazione della sua azienda, senza venire meno a un intento educativo, tanto che nel 1934 investì nella trasmissione del Ford Sunday Evening Hour (in onda la domenica sera fino al 1942 e poi dal 1945 al 1946), un programma radiofonico di musica classica, ballate tradizionali e conversazioni di William John Cameron, un controverso giornalista aderente al British Israelism, un’ideologia per la quale gli inglesi erano i diretti discendenti delle tribù di Israele (Spalding 1959). L’idea di tenere una sorta di sermone invece di un intermezzo pubblicitario era legata a una interpretazione del prodotto come direttamente collegato alle concezioni del suo ideatore, in questo caso quelle anti-, antisemite e massoniche di Ford. Le auto di Ford, in questo senso, erano considerate tra i migliori interpreti del suo pensiero e la sua propaganda avrebbe comportato anche una maggiore diffusione del prodotto. Le prediche di Cameron erano in diretta relazione a quelle di Father Coughlin, il prete cattolico di ispirazione fascista a cui si sarebbe dovuta una netta accelerazione nello sviluppo delle tecniche di propaganda in America (Vincenzo 2020). Si era arrivati a un bivio: da una parte le tecniche di propaganda e di persuasione, dall’altra la “magia”. Certo le due strade si sarebbero spesso intrecciate, come vedremo anche più avanti ma vi era una netta divisione tra le differenti prospettive. Nella propaganda l’attore era ancora “umano”, nella seconda l’oggetto ormai dominava la scena, in modo sempre più autonomo dal

34 suo creatore. La prima sarebbe stata la via intrapresa soprattutto dalla politica, la seconda dalla comunicazione commerciale. In questi anni la pubblicità della Ford cercò di rivolgere una maggiore attenzione al pubblico, ma sostanzialmente sempre con gli stessi toni paternalistici. Il mercato maschile cominciava a essere saturo e ci si indirizzava con maggiore determinazione a un pubblico femminile. L’utilizzo della tecnica fotografica permetteva maggiori dettagli, l’auto veniva presentata come il prolungamento del salotto dell’ambiente domestico. In una pubblicità del 1934, si mescolavano immagini e attributi dell’auto con quelli dell’universo femminile, come in un catalogo di moda.

Cruscotto, Spirito di Bellezza e Buon Gusto per la Donna Automobilista.

La “donna di casa” si trasformava nella “automobilista”, ma sostanzialmente i suoi attributi rimanevano gli stessi. La comunicazione pubblicitaria aveva ormai scoperto che la teoria ipodermica ispirata alla teoria politica dell’epoca era troppo semplicistica per descrivere i comportamenti di consumo. Non bastava “spingere” un prodotto per avere una reazione del pubblico, per persuaderlo all’acquisto. L’oggetto andava opportunamente valorizzato, reso autonomo, caricato di “poteri” e la comunicazione andava indirizzata con maggiore precisione, se voleva diventare un simbolo adatto al mondo del consumo. La pubblicità si sarebbe servita della propaganda ma l’avrebbe sviluppata in modo autonomo. Nel 1933 Henry G. Weaver venne messo a capo del Customer Research Staff, la nuova unità della , diretta concorrente della Ford, e cominciò a usare la tecnica dei sondaggi, allora agli albori, per conoscere i gusti del pubblico. In primo luogo vennero fatte indagini presso i venditori, per capire cosa potessero pensare gli acquirenti in merito all’obsolescenza dei modelli e alle loro caratteristiche non tanto tecniche, quanto stilistiche. Si cominciarono ad analizzare con attenzione dettagli estetici come la calandra grigliata ed altri elementi che contribuivano a rendere caratteristica un’autovettura. L’ossessione dello “stile” cominciò ad imporsi in luogo di quella per le caratteristiche meccaniche (Leiss 2005). La General Motors cominciò a variare considerevolmente e in tempi sempre più rapidi il design, il colore e le caratteristiche dei modelli. I marchi del gruppo, Buick, Caddillac, Pontiac, offrivano prodotti differenti per segmenti sociali diversi. Mentre la Cadillac offriva auto di lusso, anche in concorrenza con i grandi marchi europei, la Buick rappresentava l’auto alla portata della classe media. Anche i rapporti con le agenzie pubblicitarie si orientarono verso la maggiore integrazione possibile. L’accordo stilato nel 1927 con la J. Walter Thompson Co. prevedeva l’apertura di filiali dell’agenzia in ogni paese in cui fosse presente la GM. Negli anni Trenta la J. Walter Thompson Co. aveva uffici in sei continenti e poteva dare un significativo sostegno alla penetrazione dei prodotti della GM. Lo stile comunicativo cominciò ad accentuare gli aspetti simbolici. Non era più necessario parlare della silenziosità della meccanica, bastava mostrare la fotografia di un bambino che dormiva comodamente appoggiato al sedile posteriore dell’auto. Si trattava di una pubblicità del 1934 della Fisher Body, un’azienda che si occupava della realizzazione di carrozzerie automobilistiche e che nel 1919 era stata assorbita dalla

35 GM. L’interno dell’auto è a colori, mentre nel lunotto posteriore si intravedere la strada in bianco e nero. Dal finestrino una luce diagonale illumina un bambino biondo, paffuto e riccioluto. L’ombra proiettata sullo schienale in pelle sembra prolungare il suo sonno. Tra le gambe ben tornite del bimbo è sdraiato un piccolo bulldog francese, anche lui profondamente addormentato: se anche un cane non sente nulla allora è un abitacolo veramente silenzioso. Lo slogan e la body copy sono tracciate con un carattere sottile.

Please do not disturb. … Tutto questo è vostro nelle Carrozzerie della Fisher, in ogni auto General Motors vorrete scegliere.

Invece di sottolineare solo i concetti di convenienza, utilità e durata, come faceva la Ford, la GM cominciò a mettere l’accento sullo stile, il lusso e soprattutto i desideri dei consumatori. Ciò che cambiava era la prospettiva sociale della funzione degli oggetti: non più prolungamenti di un vecchio ordine simbolico e rituale, ma strumenti per la messa in opera di nuovi stili di vita. Come recitava una pubblicità del 1935, adesso non è più solo utile spendere meno, ma:

È divertente risparmiare denaro.

L’immagine dell’automobile può adesso essere messa in secondo piano: una giovane coppia sorridente che si apprestava a scivolare con uno slittino sulle piste innevate riempiva ormai tutto il campo visivo, mentre l’auto restava in secondo piano, parzialmente nascosta. L’auto aveva ormai il potere taumaturgico di rendere felici, di attirare la fortuna e il successo. Si era lentamente passati dal paternalismo della terapeutica sociale alla ritrovata felicità in una vita metropolitana che ha cominciato a trovare un equilibrio anti-anomico nei nuovi rituali del consumo e del tempo libero. Non a caso, forse, il tasso dei suicidi nel Stati Uniti, che aveva raggiunto il picco proprio all’inizio degli anni Trenta, cominciava progressivamente a declinare, per poi stabilizzarsi definitivamente nei decenni successivi (Vincenzo 2018). La GM divenne alfiere anche di una nuova politica del credito, proponendo acquisti rateali, laddove Henry Ford era sempre stato un aperto sostenitore del risparmio. Ai proventi delle auto cominciarono a sommarsi anche quelli del finanziamento delle vendite. La grande stagione del debito, pubblico e privato, non sembrava spaventare l’opinione pubblica. A partire dal 1914 la Du Pont aveva progressivamente aumentato la propria partecipazione nella General Motors e Pierre Samuel du Pont era stato eletto prima direttore poi presidente della azienda automobilistica. Sotto la sua guida la GM sarebbe diventata il primo produttore d’auto al mondo. La famiglia Du Pont era la limpida espressione di un capitalismo dinamico e intraprendente, distante dalla sobria condotta dei Ford. Una contrapposizione ripresa da Carl Barks nei personaggi di Paperon de’ Paperoni e di Rockerduck, che sfoggiava bombetta, giacca con cravatta e fiore all’occhiello e scarpe alla moda. La guerra commerciale tra la Ford e la GM non poteva essere meglio rappresentata.

36 I Du Pont erano anche i maggiori produttori mondiali di dinamite e polvere da sparo, così che la loro immagine non sempre risultava gradita al grande pubblico. In particolare negli Anni Trenta i Du Pont si trovarono in difficoltà nei confronti dell’opinione pubblica. Dopo la Prima Guerra mondiale e la Grande Depressione l’America era diventata la prima potenza del pianeta, ma questo era avvenuto a spese di una classe lavoratrice scarsamente tenuta in considerazione, nonostante le grandi proteste operaie, talvolta finite nel sangue. L’opinione pubblica non vedeva di buon occhio l’arricchimento di una parte della popolazione a danno dei lavoratori. Nel 1934 la Du Pont era stata segnalata nel volume di Helmuth Carol Engelbrecht e Frank Hanighen Merchants of Death in cui si tratteggiava l’ascesa delle aziende che avevano tratto profitti dall’ingresso in guerra degli Stati Uniti nel 1917. Il Senato aveva iniziato una indagine parlamentare che non aveva portato a nulla, ma l’opinione pubblica era rimasta molto sensibile al problema dell’influenza politica dell’industria degli armamenti. Per dare una nuova immagina all’azienda, nel 1935 la BBDO propose alla Du Pont uno slogan destinato a diventare famoso:

Oggetti migliori per una vita migliore…attraverso la chimica.

La campagna permise alla Du Pont di rifarsi un’immagine pubblica, incoraggiando allo stesso tempo l’utilizzo di prodotti sintetici, sui quali si avevano ancora molte remore. La “vita migliore” che la Du Pont prometteva, segnava la fine della comunicazione paternalistica, incentrata sul sobrio e razionale stile di vita dei vecchi capitalisti, mentre il nuovo capitalismo che si stava imponendo aveva scelto la strada di una nuova propaganda, o piuttosto di una nuova “magia”.

37 FERMARSI

Gli anni a cavallo tra ’20 e ’30 abbiamo visto sono quelli dell’affermazione del consumismo, quale nuova ideologia moderna. Vanno ricordati quindi per alcune campagne che avrebbero segnato la pubblicità a venire, e per i comportamenti sociali che si sarebbero consolidati a breve distanza di tempo. Alcune di esse, inoltre, vanno considerate tra le più creative della storia della pubblicità. Se consideriamo l’inizio della Grande Depressione (29 ottobre 1929) e la quasi contemporanea apertura del primo supermercato (4 agosto 1930 a New York) come l’inizio formale dell’era del consumismo, allora il periodo in questione acquistava la valenza di uno spartiacque tra epoche e mondi diversi del consumo.

Puffed rice: shot from Guns (Riso soffiato: sparato da pistole): il metodo di “soffiare” i cereali ad alte temperature era noto da tempo, ma in America si era trovato il modo di arrivare alla produzione industriale fin dal 1904. La Puritan Manufacturing di Omaha in Nebraska, aveva avviato la produzione di cannoni ad aria nel 1927. Una serie di coerenti campagne della Quaker si sarebbero succedute dal quel periodo fino alla seconda guerra mondiale. La confezione dei cereali soffiati era divisa in due triangoli, una metà rossa e l’altra blu, i colori americani. Al centro campeggiava l’immagine del quacchero William Penn, che era il logo dell’azienda sin dal 1877. Con l’avvicinarsi della grande guerra il cannone che sparava riso avrebbe conquistato progressivamente il centro dell’immagine, relegando il logo nell’angolo in alto a sinistra. In tal mondo il cereale bianco svolgeva il ruolo delle stelle della bandiera statunitense, con un forte richiamo nazionalista. Nel retro della confezione si trovava l’immagine, ritagliabile, di armi e aeroplani da guerra dell’epoca. La similitudine tra i proiettili e il cereale soffiato era comunque reale, poiché la produzione dei cereali avveniva attraverso una sorta di cannone ad aria. Il riferimento al modo di produzione non era che un pretesto, però, per richiamare l’idea del gioco, principale forma di ritualizzazione infantile. Armi giocattolo ispirate a quelle moderne venivano prodotte già all’inizio del secolo. La Daysy, per esempio, aveva cominciato la produzione di fucili ad aria compressa su licenza della Winchester, emulando il famoso modello a ricarica manuale a leva. Le pellicole cinematografiche e i fumetti non avrebbero fatto che incentivare questo tipo di rappresentazioni. Nel 1934 veniva venduta la prima Buck Rogers Rocket Pistol, una pistola a “raggi” ispirata al personaggio di Buck Rogers, un eroe della Prima Guerra mondiale che è costretto a un periodo di ibernazione che lo porta a risvegliarsi nel XXV secolo. Durante il ventennio fascista il personaggio verrà riproposto in italia come Elio Fiamma. Seguiranno in quegli stessi anni anche altri modelli di armi del futuro, come la Disintegrator Pistol e la Liquid Helium Pistol, che saranno campioni di vendite e introdurranno anche nel mondo dell’infanzia la fantascienza e il design futurista, di cui si parlerà in seguito. La sinergia tra pubblicità di prodotti alimentari, film, fumetti e giocattoli a partire da quest’epoca contribuirà in maniera significativa alla creazione di nuovi stili di vita, partendo proprio dalla

38 commercializzazione dell’infanzia, anticipando le campagne cross mediali e il product placement del XXI secolo (Shor 2005).

The pause that refreshes (La pausa che rinfresca): nel 1929 la Coca Cola cominciava a utilizzare questo slogan e avrebbe continuato a farlo fino alla Seconda Guerra Mondiale. Una delle immagini della campagna approntata dalla agenzia D’Arcy ritraeva una giovane impiegata davanti alla macchina da scrivere che si apprestava a bere la bibita. Sorrideva evidentemente soddisfatta, distinguendosi dagli altri impiegati. Infatti, sotto il marchio, un’altra veduta rivelava l’interno di un ufficio con molte persone dall’aria indaffarata. Un’altra immagine della campagna chiariva ulteriormente anche l’orario privilegiato della sosta: un giovane impiegato si apprestava a portare due bottiglie di Coca Cola nella stanza del vice Presidente alle 4 del pomeriggio in punto. Si assisteva in questo caso all’istituzione di un nuovo rituale, quello in cui ci si prendeva un momento di “libertà” dal flusso del lavoro, una pausa dedicata al consumo. La pausa del lavoro rappresentava una sorta di ritualizzazione della festa, una festa particolare, però, perché inserita nell’attività lavorativa stessa. Un tempo, infatti, era il lavoro ad essere fortemente ritualizzato, come nella maggior parte delle pratiche artigianali. Successivamente l’industrializzazione del lavoro ha comportato di conseguenza anche la sua de- ritualizzazione. I diversi tentativi di rinnovare la dimensione rituale del lavoro avvenivano attraverso procedure ripetitive, tanto più efficaci sotto il profilo produttivo equanto alienanti per il lavoratore. Alla scarsa o nulla ritualizzazione del lavoro moderno sopperiva in qualche misura la pausa, che diventava così simbolo di libertà individuale di fronte all’alienazione lavorativa. Nel giro di poco più di un decennio si sarebbe passati dalla libera sospensione alla pausa contrattualizzata. Negli Stati Uniti la pausa per prendere il caffè o per piuttosto bere una Coca Cola si sarebbe diffusa in maniera significativa, soprattutto a partire dal 1946, con l’invenzione della prima macchina automatica per caffè. Nel 1952 la Pan-American Coffee Bureau invitava apertamente le aziende a istituire il coffee break aziendale. Nel 1964 il sindacato United Auto Workers indisse uno sciopero proprio per vedere inserito nel contratto il diritto a una pausa quotidiana di 15 minuti per il coffee break: vera e propria consacrazione del nuovo rituale. Anche la famosa pubblicità disegnata da Haddon Hubbard Sundblom nel 1931 faceva riferimento alla “pausa”. Nell’immagine si canonizzava la veste ufficiale di Santa Claus (Babbo Natale), il protagonista del festa per eccellenza dei consumi che veniva ritratto con in mano una Coca Cola, mentre il testo collegava la straordinaria diffusione della nuova bevanda alla pausa per rinfrescarsi:

“My hat’s off to the pause that refresh”. Nine million a day… it had to be good to get where it is. Giù il mio cappello per la pausa che rinfresca. Nove milioni al giorno…doveva essere buona per arrivare dov’è.

39 Una volta formalizzata, la pausa dal lavoro avrebbe fatto da ancoraggio a innumerevoli campagne pubblicitarie negli anni successivi, contribuendo allo sviluppo di immagine simboliche che esaltavano la libertà umana di fronte all’alienazione delle pratiche lavorative sgradite o usuranti.

Reach for a Lucky instead of a sweet (prendi una Lucky invece di un dolce): la campagna del 1928 ideata da Albert Lasker della Lord & Thomas per la Lucky Strike mostrava una giovane donna con le guance rosse in atto di mandare un bacio (o di soffiare fumo dalla bocca?). Lo slogan ammoniva che “per mantenere una figura snella che nessuno può negare” occorreva “prendere una Lucky invece di un dolce”. L’idea era probabilmente derivata da un vecchio slogan del 1891 del Pinkham Vegetable Compoud che recitava: "Reach for a Vegetable Instead of a Sweet” (prendi un’erba invece di un dolce). Il messaggio delle Lucky Strike era anche una risposta alla campagna “Blow some my way" (soffia un po’ dalla mia parte) apparsa nel 1927 della rivale Chesterfield, in cui si vedevano un uomo e una donna seduti su di uno scoglio al tramonto, con l’uomo che si accendeva una sigaretta mentre la donna sussurrava di soffiarne un po’ dalla sua parte. A quell’epoca il fumo era ancora una pratica prevalentemente maschile. La campagna era diretta evidentemente alle donne, le quali non erano ancora grandi consumatrici di tabacco, ma erano senz’altro alla ricerca di una nuova immagine sociale. Avevano raggiunto il voto nel 1920, ma ancora non avevano trovato la loro piena identità nella nuova società americana. La campagna, come nel caso del Listerine, era incentrata sulla insicurezza delle donne ma questa volta con una valenza diversa, positiva. Ancora più dello spirito avventuroso della Kodak Girl, la New Woman statunitense stava abbandonando l’aspetto fragile e delicato delle illustrazioni del passato e si preparava ad rivestire l’immagine più agguerrito e sensuale delle dive del cinema. Non a caso una delle immagini della campagna della Lucky Strike recava il volto di Billie Burke, star di Broadway e poi di Hollywood, famosa all’epoca anche per aver sposato l’impresario Florenz Ziegfeld, cui si devono le Ziegfeld Follies, serie di spettacoli ispirati alle Folies Bergère di Parigi. La Lucky si era rivolta alle donne già con la campagna stampa Torches of Freedom (Fiaccole della Libertà). Si trattava di una iniziativa orchestrata da Edward Bernays durante la parata newyorkese di Pasqua del marzo 1929. In quell’occasione un gruppo di dieci modelle avevano le loro Lucky Strike con fare teatrale davanti gli obbiettivi dei fotografi, che erano stati allertati dallo stesso Bernays. L’iniziativa mirava espressamente a promuovere le nuove “libertà” femminili, una libertà che fin da quell’epoca, partiva a sua volta da una serie di rinunce, a cominciare dal dolce.

I’d walk a mile for a Camel (ho camminato un miglio per una Camel): alla fine degli anni Venti la Lucky Strike aveva scalzato dalla leadership delle vendite negli USA la concorrente Camel, il cui nome faceva riferimento al fatto che si impiegasse tabacco turco. Anche questa aveva sviluppato campagne long-running, vale a dire memorabili, destinate a durare anche decenni. Nel 1921 la Ayer avrebbe sviluppato lo slogan I’d walk a mile for a Camel, impiegato per molti decenni successivi. Lo slogan faceva riferimento a quello

40 spirito di avventura che faceva parte del vecchio sogno americano, dell’epoca delle colonie e della conquista di nuovi orizzonti. Camminare per andare a prendere le sigarette: in un paese che cominciava ormai ad andare solo in macchina, il riferimento all’andare a piedi riportava la mente al modo e allo spirito del viaggio d’altri tempi. Non a caso la campagna tappezzava soprattutto gli spazi aperti e i grandi cartelloni pubblicitari stradali. Lo slogan sarà utilizzato almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando il fumatore di Camel mostrerà in primo piano la suola consumata delle scarpe e sullo sfondo scenari esotici che andavano dalle capitali europee, ai cammelli del deserto de Sahara, alle architetture del Taj Mahal in India. Negli anni successivi altri slogan si sarebbero succeduti. Non poteva fare mancare per esempio anche quello che faceva riferimento a un presunto potere terapeutico delle sigarette: For digestion?s sake - smoke Camels, durato dal 1936 al 1939. Nessuno però sarebbe riuscito a interpretare lo “spirito” del marchio Camel come quello del 1921.

Somewhere West of Laramie (Da qualche parte a Ovest di Laramie): ispirata allo spirito d’avventura è anche una delle più belle campagne automobilistiche di tutti i tempi, quella della Jordan Playboy, auto prodotta da un’azienda che assemblava componenti prodotti da terzi e che smetteva la produzione nel 1931. Apparsa la prima volta nel 1923, era stata ideata dallo stesso Edward Jordan, imprenditore e pubblicitario. Laramie era una città dello Wyoming, oltre il quale si stendevano i territori di quel West un tempo selvaggio. L’immagine sembrava sfuggente ma simbolicamente era chiara. Un cavallo e un’auto sportiva si confrontavano in velocità su di una strada appena tratteggiata. All’antico mezzo di trasporto si sostituiva il nuovo, senza che venisse meno il fascino e l’ebrezza del viaggio e del vento sui volti dei viaggiatori. La bellezza dell’auto è messa in rapporto con quella femminile, ma si tratta di una trama delicata e non banale. L’auto è guidata da un uomo, mentre la cavallerizza lo affianca con il suo animale. La body copy era molto “poetica”, cioé allusiva e di non immediata comprensione, ma sarebbe diventata un classico dell’advertising americano:

Da qualche parte a Ovest di Laramie c'è una cavallerizza da rodeo che sa di cosa sto parlando. Lei può dire quello che un pony impertinente, che è un incrocio tra un fulmine scatenato e il punto in cui colpisce, può fare con mille e cento chili di acciaio in azione che vanno alla grande. La verità è - che la Jordan Playboy è costruita per lei.

Verse by the Side of the Road (Versi lungo la strada): nel 1925 Clinton Odell, un avvocato di Minneapolis, aveva trasformato la pomata inventata dal padre in una crema da barba da stendere sul volto a secco, senza pennello. Si deve al figlio venticinquenne Allan, l’idea di distribuire lungo le strade serie di cartelli stradali con brevi versi rimati che terminavano con il nome del prodotto, Burma Shave. Furono investiti 200 dollari e i primi cartelli vennero installati lungo la statale 61 a Minneapolis. Erano piccoli cartelli di legno, installati ai lati delle strade a una distanza di circa 30 metri l’uno dall’altro. Nel giro di un

41 anno si assistette a un significativo picco di ordini provenienti dai drugstores che si trovavano lungo la strada. In seguito, all’apice della campagna, durante gli anni Cinquanta, si contavano oltre 7.000 gruppi di cartelli lungo le strade di 45 Stati, caratterizzando il paesaggio dell’America rurale. i versi erano di volta in volta geniali, irriverenti, cinici o assurdi, carichi di giochi di parole, e terminavano con un payoff accattivante prima di chiudersi con il nome del prodotto. I primi versi erano scritti dai membri della famiglia Odell, ma dopo i primi tre anni si decideva di tenere un concorso nazionale. I primi 25 ricevevano un premio di 100 dollari. Ad ogni edizione partecipavano circa 50.000 “poeti di strada” (Lyons 1994). Fino al 1963 sarebbero state ideate un totale di 600 rime. All’inizio, erano versi riferiti in particolare al prodotto e alla rasatura, ma nei decessi successivi si sarebbero moltiplicati quelli sulla sicurezza della guida, sulla politica, sul lavoro, fornendo un decalogo prezioso del rapporto tra comunicazione pubblicitaria e società. All’inizio della campagna lo scrittore Jack Kerouac (1922 – 1969) aveva solo 5 anni, ma la via del grande pellegrinaggio americano del suo celeberrimo romanzo On the Road (1951) sembrava essere già tracciata.

42 COLPIRE

Fino al 1930 Michael J. Cullen (1884–1936) era un semplice impiegato della catena di drogherie Kroger Stores con tante nuove idee. Si era nel pieno della Grande Depressione, ma lui era di origini irlandesi e gli irlandesi di crisi e carestie varie se ne intendevano bene, così Cullen scrisse al presidente della Kroger proponendo di aprire un nuovo tipo di negozio, basato su prezzi bassi, grandi metrature dedicate alla vendita, prodotti a vista, personale solo alle casse, largo uso di volantini pubblicitari e ampi parcheggi. In pratica aveva pensato a un supermercato. La Kroger sembra che nemmeno si prese la briga di rispondere, ma Cullen era un irlandese testardo, così decise di tentare da solo l’esperimento. Scelse un locale di circa 600 metri quadri nel Queens a New York e aprì il primo King Kullen. Prima di morire improvvisamente per una appendicite nel 1936, il signor Cullen si sarebbe trovato a capo di una catena di 17 supermercati, mentre un altro migliaio di negozi analoghi era stato aperto da suoi concorrenti e imitatori. In realtà il Self-Serving Store era stato introdotto e brevettato nel 1917 da Clarence Saunders proprietario della catena di drogherie Piggly Wiggly. Il carrello, invece, sarebbe stato inventato, una anno dopo la scomparsa di Cullen, da Sylvan Goldman (1898 -1984), che avrebbe messo a punto anche il carrello dei bagagli utilizzato in aeroporti e stazioni. Michael Cullen aveva avuto il coraggio di mettere insieme tutti gli elementi e la fortuna di aprire a New York nel pieno della Grande Depressione, guadagnandosi una vastissima attenzione e il privilegio di essere ricordato come il costruttore del primo Tempio del Consumo. Nei supermercati gli oggetti erano messi sugli scaffali come se fossero esposti nelle teche di un museo, in tal mondo i prodotti acquisivano un’aura simbolica. Entrare nel supermercato era un po’ come penetrare l’Olimpo degli oggetti di consumo, un magico “mondo delle cose” in un continuo scambio di significati e valori con il “mondo degli uomini”. A differenza del museo, però, nel supermercato si poteva celebrava il rituale fondamentale del consumo, quello del possesso. A tal fine, molto opportunamente, il compratore veniva lasciato solo con gli oggetti, affinché potesse instaurare un muto dialogo con loro, li potesse raccogliere nel carrello come offerte votive, e potesse quindi dirigersi verso l’acquisto. Lo spazio del supermercato rappresentava un vero e proprio spazio liminale, posto ai margini esterni dello spazio convenzionale. Il rito di passaggio che vi era ospitato si fondava sull’attribuzione al compratore di nuovi attributi magico-simbolici rappresentati dagli oggetti. Ancora oggi si può osservare come l’acquirente medio tenda a rimanere in silenzio, anche quando è in compagnia, limitando al massimo i rapporti con gli altri. La sua concentrazione è sull’oggetto di consumo, sulle sue caratteristiche e potenzialità magiche. Se il suo stato è stato definito “trance ipnoide”, era in virtù della dimensione trasformante del rituale stesso, tramite il quale le persone possono identificarsi con gli stessi simboli e modelli del consumo (Packard 1957, Vincenzo 2018). Il consumismo si caratterizza proprio per la centralità del consumo nella definizione rituale dello spazio e del tempo sociali. Non si consuma semplicemente di più e una più vasta gamma di prodotti. Cambia la qualità del consumo, l’impatto che il consumo ha su stili di vita i quali si modellano sempre più sulla forma

43 di “rituali”. Di questo abbiamo scritto diffusamente nelle nostre ultime pubblicazioni (Vincenzo 2018 e 2019). Non erano solo i supermercati, però, a definire la nuova urbanistica del consumismo. La Sears, Roebuck & Company era stata fondata nel 1886 e da allora l’arrivo semestrale del suo catalogo illustrato di prodotti da acquistare via posta era diventato uno degli elementi caratterizzanti la vita dell’America rurale. A partire dal 1920, però, la popolazione insediata nelle città divenne la maggioranza negli Stati Uniti. Nel 1925 la Sears apriva il suo primo negozio a Chicago. Nel 1927 gli store erano diventati 27, per arrivare a 192 nel 1928, che sarebbero diventati 400 all’inizio del decennio successivo, quando, nel 1931, per la prima volta i ricavi dei negozi superarono quelli della vendita per corrispondenza. La Sears cominciò a produrre le proprie linee con i marchi Craftsman, Kenmore e DieHard. Alla fine degli anni Venti i negozi Sears aprivano alla media di uno per ogni giorno lavorativo. Due nuovi negozi aperti contemporaneamente in una città registrarono la cifra record di 120.000 visitatori nelle prime 12 ore di apertura. Tanto che uno dei funzionari dell’azienda arrivò a dichiarare:

I contratti di locazione non possono essere firmati abbastanza velocemente, i negozi non possono essere approntati abbastanza in fretta, il personale non può essere assunto abbastanza velocemente (Rothman 2001).

All’interno del nuovo universo del consumo veniva offerta alle persone la possibilità di creare nuovi legami, di stabilire i contorni di una nuova “comunità del consumismo”, basata su nuovi “standard di vita”. Le persone cominciavano a riconoscersi tra loro anche per i negozi che frequentavano e gli oggetti che acquistavano. Era una anticipazione delle tribù del consumo che sarebbero apparse sempre più chiaramente nell’ultimo quarto del secolo. La capacità di astrazione simbolica permetteva di percepire una “comunità” anche se i rapporti interpersonali erano fondati non sugli antichi vincoli, ma sui nuovi oggetti e luoghi del consumo. I grandi spazi dello spettacolo erano sempre più simili a supermercati e ai futuri centri commerciali che a vecchi teatri. Nel 1932 apriva il Radio City Music Hall nel Rockefeller Center di New York, in collaborazione con la Radio Corporation of America (RCA). Con i suoi 6.000 posti e le lunghe file all’ingresso erano il luogo dove fare l’esperienza della folla, un modo di sentirsi parte di una comunità indistinta ma disciplinata che si ritrovava nel consumo di un nuovo prodotto: la pellicola cinematografica, frutto della nascente e subito fiorente industria dell’intrattenimento. Con il cinema nasceva anche un nuovo luogo della visione, che richiamava l’antica caverna, nella quale poter fare l’esperienza di altri mondi e altre modalità di esistenza (Vincenzo 2019). I nuovi rituali sociali erano caratterizzati dai nuovi oggetti e dallo spazio che questi definivano. Erano rituali reificati, in parte effimeri, ma tuttavia rispondevano al bisogno antianomico di dare forma al flusso indistinto della vita. Se l’anomia è soprattutto mancanza di simboli e rituali, il consumismo sembrava in grado di colmare una delle maggiori lacune delle società avanzate (Vincenzo 2018). Certo, non era facile accettare il passaggio dai grandi ideali religiosi e nazionalistici a quelli del consumo, ma questo passaggio

44 sarebbe stato reso più accettabile e facilmente praticabile dalle nuove narrazioni diffuse della comunicazione pubblicitaria.

I rituali più effimeri si servono di cose materiali e quanto più costosi sono gli addobbi rituali, tanto più forte sarà l’intenzione di fissare il significato per il futuro. In questa prospettiva i beni sono accessori rituali; il consumo è un processo rituale la cui funzione primaria è quella di dare un senso al flusso indistinto degli eventi (Douglas, Isherwood 1979, 73)

Forse era ancora presto per sancire la piena scambiabilità tra oggetto e uomo (o più spesso donna), quest’ultimo considerato nella sua valenza di merce e quindi di valore simbolico di scambio con altri oggetti. Ma ci si sarebbe arrivati presto, già con i primi nudi femminili, come vedremo tra poco. Con l’avvento del supermercato, la pubblicità si aveva cominciato a sondare nuove prospettive della comunicazione simbolica all’interno del mondo reificato che emergeva prepotentemente sulla scena pubblica, in cui si muovevano liberamente i tanti nuovi oggetti creati da una rivoluzione industriale che era diventata permanente. Le agenzie pubblicitarie si mobilitano per dispiegare simboli e narrazioni sui nuovi media, suggerendo nuovi stili di vita e di nuovi rituali. Le nuove narrazioni, visive e testuali, esplicitano il significato simbolico degli oggetti e funzionano come istruzioni per l’uso dei nuovi rituali sociali. Tramite la sovrapposizione di immagini, testi e musiche riesce a ottenere l’effetto di stratificazione di significati proprio dei simboli. Se la natura del simbolo è quella di unire significati terreni e celesti, la congiunzione di diversi e coerenti elementi visivi, testuali e sonori può arrivare a ricreare la magia rappresentativa del simbolo. In comunicazione, la creatività sembra consistere soprattutto nella capacità di istituire nuove rappresentazioni collettive simboliche. Raymond Rubicam era uno dei pubblicitari rampanti dell’epoca. A 27 anni era stato assunto dalla N. W. Ayer & Son, quattro anni dopo gli viene negata la promozione a partner per cui abbandona l’azienda e, nel 1923, fonda la Young & Rubicam insieme al suo amico John Orr Young. Tre anni dopo trasferiscono la sede centrale da Philadelphia a New York, in Madison Avenue dove ormai hanno sede tutte le più grandi agenzie. La Young & Rubicam recluta i migliori creativi presenti sul mercato, facendo della creatività e dell’innovazione il suo cavallo di battaglia. In breve tempo attira clienti di primissimo rilievo, come Gulf Oil, General Electric, Johnson and Johnson, Fortune, Life e molti altri. La campagna Impact del 1930 vuole dimostrare che la loro filosofia è attenta alle esigenze e alle reazioni del pubblico prima ancora che alla comunicazione del prodotto. Il testo recita:

Impatto, secondo Young & Rubicam: la qualità di una pubblicità che scuote immediatamente l’indifferenza del lettore e predispone a ricevere un messaggio promozionale.

45 L’immagine è letteralmente un pugno in faccia, tra l’altro a un uomo di colore senza chi è stato a darlo. Nel caso di un bianco avrebbe un senso razzista, ma comunque non dichiarato o dichiarabile: durante gli anni Trenta le strategie comunicative si fanno sempre più complesse. Nel 1932 la Young & Rubicam assumeva George Gallup (1901-1984) , a quel tempo giovane docente di statistica della Northwestern University, con interessi dalla pubblicità alla cinematografia. Prima di lui, era stato Charles Coolidge Parlin (1872-1942) da manager della casa editrice Curtis Publishing Company, a creare, tra il 1911 e il 1914, la prima area di market research aziendale. Sul suo esempio già all’epoca della Prima Guerra Mondiale erano stati creati Dipartimenti di Commercial Research in molte delle più grande aziende statunitensi. Da buon statistico George Gallup avrebbe ulteriormente sviluppato il connubio tra scienza e comunicazione. Nel 1935 fondava l'American Institute of Public Opinion che avrebbe coordinato le sue indagini demoscopiche fino a quando queste sarebbero confluite, nel 1958, nella Gallup Inc. con sede a Washington e attualmente 30 filiali in 20 paesi. Uno dei suoi primi studi scientifici fu quello di selezionare il personale per un supermercato. Successivamente si sarebbe dedicato a tutto lo spettro delle problematiche relative al marketing. A lui, infatti, si deve l’introduzione di tecniche per il miglioramento della leggibilità e della memorizzazione degli annunci, così come a indicazioni sull’utilizzo di frasi umoristiche, all’uso di differenti caratteri nei testi e all’impiego di immagini rettangolari. A suo avviso gli slogan dovevano essere sintetici, al massimo 11 parole, lasciando spazio alle immagini. Fu Gallup a sentenziare la drastica riduzione delle illustrazioni a vantaggio delle fotografie, le quali tuttavia non dovevano avere un carattere artistico quanto piuttosto essere intriganti e stimolare la curiosità (Doktorov 2011). Nel 1936 appariva anche la prima campagna che utilizzava il nudo femminile. Anche questa era una svolta epocale. Si trattava di una pubblicità per il sapone facciale della Woodbury, creata da Helen Lansdowne Resor (1886-1964), della J. Walter Thompson, la maggiore agenzia dell’epoca. La Resor era a sua volta la prima donna ad avere avuto successo come art director. Le foto delle modelle erano realizzate da Edward Steichen, uno dei primi grandi fotografi di moda. La silohuette classicheggiante delle immagini della campagna Woodbury richiamava la natura originaria dell’uomo, adamitica, una delle più frequenti caratteristiche del genere “nudo d’autore”, contribuendo a rendere meno audace questo primo esperimento comunicativo. La Resor si era fatta conoscere per il suo stile Feature Story (scrittura suggestiva), in cui le immagini e il testo erano impiegati principalmente per stimolare emozioni nei lettori. La Walter Thompson spingeva l’azienda a investire in maniera significativa anche nella pubblicità radiofonica. Nel 1937 la Woodbury promosse per la NBC l’inizio delle trasmissioni radiofoniche di Bob Hope, una movie star dell’epoca, finanziando la Woodbury Soap Hour, per 26-settimane. Il nudo quindi nasceva dall’utilizzo dei media più moderni per stupire e consolidare l’idea dei prodotti di bellezza come elementi indispensabili per mettere in atto un rituale del corpo (bagno, doccia), nuovo e antico allo stesso tempo, da eseguire con grande frequenza. Oggi, ogni americano consuma mediamente 80-100 galloni d’acqua (300-380 litri circa) al giorno (U.S. Department of the Interior/U.S. Geological Survey). La cura del corpo, lo vedremo, sarebbe diventata uno dei rituali più significativi della popolazione americana.

46 Gli anni Trenta e Quaranta sono stati i decenni della radio, così come i Cinquanta saranno quelli della televisione: nuovi media che contendevano il primato ai giornali e permettevano nuovi modi di comunicare. Nel 1938 per la prima volta la radio superava la carta stampata come fonte di ricavi pubblicitari (Northrup 2003, 322). Molti programmi erano sponsorizzati da aziende e agenzie pubblicitarie. Non vi si trovavano rappresentate più solo le immagini degli oggetti di consumo, ma anche i loro suoni, i loro jingle, le emozioni che suscitavano. Secondo David Ogilvy il valore una pubblicità stava soprattutto nella sua durata, nella sua capacità di essere long-running e quelle che riuscivano a essere riproposte per decenni erano le migliori di tutte. Una delle prima campagne radiofoniche che riusciva a riscuotere enorme successo era quella delle zuppe Campbell’s che nel 1931 lanciava il jingle M’M! M’M! Good!:

M'm! M'm! Good! M'm! M'm! Good! That's what Campbell's Soups are M'm! M'm! Good! Quick to heat! Great to eat! That's why Campbell's Soups are Such a treat!

M'm! M’m! Buone M'm! M’m! Buone Ecco cosa sono le zuppe Campbell M'm! M’m! Buone Veloci da amare! Grandi da mangiare! Ecco cosa sono le zuppe Campbell Un vero piacere!

Di fronte ai problemi ereditati dalla Depressione la radio rilanciava l’idea di un nuovo mondo, di un futuro migliore. Quella individuata dalla pubblicità non era la visione di mondo distopico, ma l’immagine un futuro radioso. Quello che Adolf Huxley in Brave New World (1932), ritraeva come dominato dalla religione di Ford/Freud, in una società organizzata secondo i metodi della produzione in serie e i cui fanciulli venivano lasciati liberi di qualunque desiderio sessuale onde evitare lo sviluppo di sentimenti e di forti legami umani. Sesso e droga (che Huxley chiamava in maniera significativa soma) erano gli elementi che permettevano di rendere il mondo più “vivibile”. Ricordiamo che fino agli anni Settanta, l’utilizzo di sostanze stimolanti come le anfetamine era di fatto legalizzato, dietro prescrizione medica, e ampiamente diffuso (Vincenzo 2018). Il mondo nuovo della pubblicità aveva le forme fluide degli oggetti di design creati da Raymond Loewy e gli altri designer attivi fin dall’inizio degli anni Trenta. Loewy era un designer francese che si era trasferito negli Stati Uniti fin dal 1919 e aveva avuto nel 1929 dalla Gestetner la commissione di ridisegnare il suo

47 ciclostile. Il successo sarebbe stato tale da spingere l’azienda a una collaborazione con Loewy fino gli anni Settanta. Successivamente il designer avrebbe reinterpretato le linee della Hupmobile, allora terzo produttore automobilistico statunitense. La proposta di Loewy era molto radicale per l’epoca. Il parabrezza disegnato da lui era “avvolgente”, sagomato in tre parti, i fari integrati nel cofano, la calandra obliqua, le linee dei parafanghi fluide, così come l’intera forma dell’auto che esprimeva i concetti di velocità ed eleganza del futurismo europeo. I principi di Loewy coincidevano con quelli delle migliori agenzie di pubblicità della sua epoca. L’essenza del suo pensiero, il suo credo, era noto come MAYA, acronimo di “Most Advanced Yet Acceptable” (il più avanzato ma accettabile), vale a dire che il pubblico voleva la novità, ma senza soluzioni di continuità con il passato (Leiss 2005). Loewy aveva scoperto le regole delle rappresentazioni sociali, secondo le quali ogni nuova rappresentazione, ogni nuova immagine o pratica simbolica, deve ancorarsi a una rappresentazione precedente e fornire una nuova immagine, uno nuova “oggettivazione”, che esprima allo stesso tempo la novità e la continuità della nuova rappresentazione simbolica (Moscovici 1984, Vincenzo 2018). Dalle rappresentazioni sociali scaturiscono nuovi simboli e nuove forme di ritualizzazione collettiva. Le possibilità del design di aiutare le vendite diventarono evidenti anche nel caso di elettrodomestici di consumo, come il frigorifero, all’epoca costoso quasi quanto un’automobile e particolarmente dispendioso quanto a consumi. Nel 1934, Loewy avrebbe reinterpretato il frigorifero Coldspot della Sears, entrato in produzione nel 1928, con linee arrotondate e l’impiego di alluminio nelle scaffalature. In un solo anno le vendite sarebbero aumentate del 300%. I prodotti i consumo di design avrebbero avuto un impulso notevolissimo. A partire dagli anni Trenta, sarebbero state le stesse agenzie pubblicitarie a spingere i loro clienti ad essere più innovative anche nel packaging. Non solo i prodotti avevano più appeal per la vendita, ma la continua innovazione dei designer introduceva anche una nuova forma di obsolescenza, quella dello stile, contribuendo alla velocizzazione del ciclo del consumo. Se le aziende avevano introdotto la rottura programmata degli oggetti, per esempio le lampadine, adesso si presentava la possibilità di rendere “vecchi” i prodotti non tanto per una perdita di funzionalità, quanto per la carenza di appeal nei confronti del pubblico (Vincenzo 2018).

48 GUERREGGIARE

La sera del 29 marzo 1937, un gruppo di universitari e giornalisti si incontrò a Boston su richiesta di Edward Filene, imprenditore e filantropo di origine ebraica preoccupato per gli esiti in America del successo dei partiti nazionalistici radicali in Europa. L’idea era di fare qualcosa di contrastare la propaganda fascista e nazista. Un docente della Columbia University, Clyde Miller, prese immediatamente a cuore l’iniziativa e qualche giorno dopo apriva i battenti l’Institute for Propaganda Analysis (IPA) che avrebbe pubblicato regolarmente un bollettino mensile anche dopo la morte di Filene, avvenuta a Parigi nel settembre dello stesso anno, fino al 1941. Scopi dell’IPA erano quelli di sensibilizzare le giovani coscienze dei pericoli inerenti alla propaganda che erano messi in atto e magnificati attraverso i media. Secondo l’IPA era necessario per la democrazia che le persone ricevessero una sorta di formazione che scongiurasse i pericoli di una eccessiva propaganda.

It is essential in a democratic society that young people and adults learn how to think, learn how to make up their minds. They must learn how to think independently, and they must learn how to think together. They must come to conclusions, but at the same time they must recognize the right of other men to come to opposite conclusions. So far as individuals are concerned, the art of democracy is the art of thinking and discussing independently together (McClung Lee 1939).

Già nel primo bollettino del 1937, l’IPA pubblicava una lista delle più comuni strategia messe in atto in quegli anni. Si tratta di sette tecniche su cui farebbe particolarmente leva la propaganda, vale a dire la distorsione artificiale della realtà (Miller 1937). Per quanto l’approccio dell’IPA riguardasse in particolare la propaganda politica, negli studi successivi degli studiosi legati all’IPA emergeva come gli stessi propagandisti, la maggior parte dei quali usavano il mezzo radiofonico, a loro volta mettessero a buon frutto le esperienza maturate proprio nell’ambito della comunicazione commerciale. Il volume The Fine Art of Propaganda dei coniugi Lee (McClung Lee 1939), per esempio, si sarebbe concentrato sull’analisi dei discorsi di Padre Charles Edward Coughlin, una controversa figura di radio-predicatore cattolico che per avrebbe goduto di vastissimo seguito, divenendo la seconda figura pubblica in America per popolarità, dopo il Presidente: nel 1934 riceveva circa 10.000 lettere al giorno e aveva oltre un milione di radioascoltatori, ciò che rese necessario uno staff di cento persone (Brinkley 1982, 119). Sempre più vicino alle posizioni fasciste nel corso degli anni, la sua trasmissione radiofonica e la sua testata giornalistica, Social Justice, sarebbero state chiuse da Roosevelt tra il 1939 e il 1942. Pochi anni dopo sarebbe scoppiata la Seconda Guerra mondiale, e molte agenzie di pubblicità e gli uffici comunicazione delle maggiori aziende avrebbero messo al servizio del governo la loro esperienza per la creazione di campagne pubblicitarie e che sia gli spazi pubblicitari, sia le campagne stesse non sarebbero state pagate dal governo, il quale però poteva esercitare ben poco controllo. Emblematiche campagne come

49 quella in cui cominciava la fase di espansione commerciale della Hoover, in cui si mescolavano immagini del prodotto con quelle della famiglia americana “dietro le linee”, attenta ai consumi per non togliere risorse allo sforzo bellico. Il ruolo della pubblicità in America si sarebbe rafforzato enormemente. Se fino a quell’epoca le associazioni dei consumatori e l’opinione pubblica avevano sollevato ancora dubbi sulle distorsioni introdotte dalla pubblicità, a partire da quest’epoca le agenzie di comunicazione avrebbero avuto un peso sempre più determinante (Stole 2012 e Vincenzo 2020). A dispetto dei tentativi dell’IPA di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, quello della propaganda sarebbe stata un codice sempre più “nascosto” all’interno della comunicazione pubblica.

Name Calling; è la strategia del pregiudizio che fa leva su sentimenti di odio e paura. Basta la storpiatura del nome o l’utilizzo di epiteti tendenziosi o denigratori riferiti a gruppi, etnie, nazioni, razze religioni, ideali per stimolare il risentimento pubblico. Si tratta di una prassi comune nella propaganda politica, ma utile anche in quella commerciale. A volte si impiega semplicemente il sarcasmo o il ridicolo. In contesti diversi sono risultati efficaci termini come “comunista” oppure “sovversivo” o, ancora “irresponsabile”. Durante la guerra erano i nazisti, ovviamente, a rappresentare il nemico. L’insistenza sulla guerra permetteva l’utilizzo di un ordine simbolico di immediata comprensione e di sicura efficacia emotiva. In ambito pubblicitario l’Advertising War o pubblicità comparativa venne progressivamente riconosciuta in America a partire dal Lanham Act del 1946 e soprattutto con il Federal Trade Commission Policy on Comparative Advertising del 1969, che non solo riconosceva come lecita la pubblicità comparativa, permettendo di citare espressamente il competitor e i prodotti concorrenti, ma la incoraggiava apertamente ritenendola utile alla migliore conoscenza dei prodotti e alla possibilità di una scelta razionale tra gli stessi, con conseguenze sull’innovazione industriale e l’abbassamento dei prezzi. Già durante la Seconda Guerra Mondiale, comunque, alcune delle maggiori campagne promozionali si basavano sulla comparazione velata con marchi concorrenti. Come per esempio il jingle “Pepsi Cola hits the Spot” (1940), che fa riferimento al fatto che con lo stesso nichelino da 5 cent si poteva comprare una bottiglia da 12 once di Pepsi, il doppio di quella della Coca Cola: Pepsi-Cola hits the spot, twelve full ounces, that’s a lot, twice as much for a nickel too. Pepsi-Cola is the drink for you.

Card Stacking; la parzialità delle notizie è simboleggiata dall’asso di spade, una carta che tradizionalmente esprimeva slealtà e tradimento. L’utilizzo di notizie positive a proprio favore e di quelle negative nei confronti dei propri avversari è diventata una pratica diffusa. Dare informazioni al di fuori del loro contesto e rigirarle a proprio vantaggio in modo da convincere il pubblico che la propria versione sia quella giusta, è oggi uno degli aspetti fondamentali delle fake news. Al di là delle norme che cercano di limitare la pubblicità fallace, nel corso del XX secolo si è fatto sempre più uso della possibilità offerta dai media di trasmettere messaggi tendenziosi, creando immagini tendenziose che esaltano alcuni aspetti mentre ne nascondono altri.

Transfer; si tratta della tecnica di diffondere a proprio vantaggio formule positive e condivise, ma vaghe e generiche: praticamente il contrario del name calling. Fare riferimento a luoghi comuni può essere molto efficace. In tal senso famiglia, onore, pace, libertà, democrazia sono termini largamente abusati. Negli Stati Uniti, per esempio, si fa spesso riferimento all’American Way of Live, senza ulteriori chiarimenti in merito. Si tratta di espressioni vagamente simboliche i cui contenuti sono accettati e condivisi, anche se non sono approfonditi. Il presidente Roosevelt, per esempio, amava ripetere: “ci vuole sicurezza economica per tutti”, una frase riferita all’ordine sociale che può

50 significare tutto e nulla. Il continuo richiamo alla “sicurezza” è molto utilizzato oggi dai sovranisti europei.

Testimonial; affiancare al proprio partito o prodotto il volto di una persona stimata e conosciuta può essere utile per influenzare il pubblico. Tecnica conosciuta fin dalla fine del XIX secolo, diventerà uno dei canali privilegiati della comunicazione pubblicitaria del XX secolo. L’uso propagandistico del testimonial però sottolinea ancora di più il trasferimento delle proprietà simboliche del prodotto alla persona e viceversa, diventando una delle caratteristiche peculiari del consumismo.

Plain Folks; le idee che si esprimono e la persona che le incarna sono buone perché vengono “dal popolo”. L’esaltazione dell’uomo che si è fatto da sé, e che quindi rappresenta la “massa”, è alla base del moderno populismo. Molti politici cercano di convincere il pubblico delle loro umili origini, a volte risalendo a generazioni addietro, e quindi di essere al livello di tutti e quindi degni di fede. Tipico atteggiamento, per esempio, è quello di indossare gli abiti dei lavoratori e di assumerne gli atteggiamenti. I marchi commerciali associano diffusamente ai prodotti industriali immagini di fattorie immerse nel verde, di famiglie numerose riunite nei cortili delle masserie o di artigiani al lavoro, anche quando la produzione non ha ovviamente alcun carattere “contadino”, “artigianale” o “familiare”.

Glittering generalities; o anche Flag Waving: si tratta soprattutto del conferimento dell’autorità, dell’interesse pubblico, a una persona o a un oggetto. L’utilizzo di simboli e segni relativi al prestigio della nazione è un’altra delle tecniche propagandistiche, come per esempio rivestirsi con la bandiera nazionale o utilizzarne i colori. In America la creazione di personaggi come lo Zio Sam, Smokey Bear (Orso Smokey) e Rosie the Riveter (Rosie la Rivettatrice), simbolo delle donne americane che lavoravano in fabbrica durante la Guerra, rappresentava il trasferimento dell’autorità della nazione ad una icona culturale, la quale poteva eventualmente esprimersi a nome della collettività.

Bandwagon; l’espressione significa letteralmente “salire sul carro della banda”, ma in pratica significa seguire qualcosa che è di moda o popolare.. Questo espediente si basa spesso sulla creazione di eventi spettacolari in cui impiegano simboli comuni, si allestiscono grandi rituali collettivi, si fanno grandi concerti o grandi manifestazioni spingendo le persone a voler far parte di essi. Il desiderio di far parte di una comunità, di una società, viene anche facilmente diretto contro un gruppo sociale, contro un nemico esterno, intrecciando le tecniche del band wagon con quelle del name calling. Spesso si ripete agli elettori di “non sprecare il proprio voto”, invitandoli apertamente a sostenere colui il quale si prospetta come il vincitore. Si stimola in pratica il senso di appartenenza, sottolineando che se si appartiene a un determinato gruppo occorre seguire la massa dei suoi membri e quindi saltare sul carro della banda. Nel 1940 un gruppo di ricercatori guidati dal sociologo di origine austriaca Paul Lazarsfeld studiò l’impatto sugli elettori della campagna presidenziale di quell’anno, mettendo in discussione la bullet theory, che era rimasta fino a quell’epoca il modello di riferimento di teoria della comunicazioni di massa. Secondo l’indagine solo il 5% degli elettori aveva mutato completamento opinione come conseguenza della campagna elettorale (Lazarsfeld e altri 1944). In seguito, Lazarsfeld e Katz suggerirono che vi fosse una sorta di effetto a due tempi del flusso di informazioni (two-step flow): le informazioni e la propaganda venivano recepite in primo luogo da persone di riferimento all’interno dei singoli gruppi sociali e comunità, e solo in una fase successiva si riversavano nel resto della popolazione (Katz e Lazarsfeld 1955).

Tramite le ricerche sociali cominciava a essere messa in evidenza la funzione e la rilevanza degli opinion leader, persone di riferimento in grado di diventare simboli viventi degli ideali e degli stili di vita del resto

51 della società. Erano le basi scientifiche per una migliore comprensione del ruolo dei Testimonials nelle campagne pubblicitarie. In quegli stessi anni un altro sociologo tedesco, Leo Löwenthal, membro della scuola di Francoforte, studiò quel particolare genere letterario rappresentato dalle biografie. A partire dall’inizio del XX secolo le biografie negli Stati Uniti divennero un genere sempre più popolare tanto da quadruplicare tra 1900 e 1941. Parallelamente si assisteva al passaggio dagli “idoli della produzione” agli “idoli del consumo”. Nel primo caso si trattava di personaggi provenienti dal mondo dell’industria e del commercio, che si erano distinti per la loro azione economica e sociale. Gli idoli del consumo invece erano gli eroi che apparivano nella carta stampata, nelle pellicole cinematografiche o emergevano dalle pratiche sportive. Più che esempi del “dare” erano modelli del “prendere” e del dare per scontato determinati standard di vita. La loro stessa vita privata diventava centrale come simbolo del consumo (Löwenthal 1944). Suggestioni, metafore, analogie e inferenze accompagnavano un linguaggio superlativo in cui non si diceva nulla di nuovo, ma venivano solo reiterati i termini dei rituali del consumo. La narrazione concernente i nuovi simboli del consumo aveva ormai preso il posto della descrizione razionale delle qualità dei prodotti. Vinta la guerra, gli idoli che incarnavano i nuovi rituali del consumo avevano il sorriso sul volto, ma dimostravano una crescente aggressività. L’euforia bellica della vittoria sulle potenze dell’Asse nascondeva però un dato preoccupante. La più grande democrazia del pianeta on aveva solo nemici esterni. L’esistenza degli opinion leaders metteva in discussione lo spirito egualitario su cui si fondava la società statunitense. Non tutti erano eguali, non tututti potevano essere considerati allo stesso modo. Le differenze interne potevano mettere in discussione i fattori di coesione. Forse era solo un semplice disturbo di crescita della democrazia, o forse era il primo sintomo dell’inizio della malattia della diseguaglianza sociale (Todd 1998).

52 SOGNARE

L’esperienza della guerra non permise solo la messa a punto di generiche tecniche di propaganda, ma consentì anche di sperimentare nuovi modi nei comportamenti di consumo. Dopo la guerra migliaia di veterani tornavano dal fronte e dovevano cominciare una nuova vita. Il Servicemen's Readjustment Act del 1944 (noto come GI Bill) metteva a disposizione dei reduci di guerra prestiti e mutui a basso interesse per acquistare casa, iniziare nuove attività o continuare gli studi. L’industria americana all’indomani della guerra era la maggiore del pianeta, anche perché Germania e Giappone, le altre due potenze industriali, erano state distrutte. Nel 1945, il prodotto nazionale lordo statunitense rappresentava più della metà del prodotto mondiale lordo, una condizione che faceva presagire l’imperialismo economico e culturale degli USA. La parola d’ordine del sistema produttivo era “riconversione”. Un’obbiettivo che potè dirsi centrato nel giro di pochissimo tempo. La produzione venne adattata alla nuove esigenze della società civile. La ripresa dei consumi fu molto forte e già nel 1948 gli americani dovettero far fronte alla cronica mancanza di nuovi beni di consumo come frigoriferi, vestiti, automobili, ecc. (Sivulka 2012). Non si trattò di una semplice riconversione, ma della vera e propria reinvenzione di una nazione. A cominciare dal suo territorio. William Levitt può essere considerato il padre della nuova urbanizzazione americana, basata sullo sviluppo di una raggiera di sobborghi residenziali intorno ai centri urbani. Durante la Seconda Guerra mondiale aveva militato nel genio militare e si era specializzato nella costruzione di grandi acquartieramenti prefabbricati. Convinto nella possibilità di mettere in pratica anche nella vita civile gli stessi metodi militari, aveva opzionato una vasta area agricola in una delle zone meno sviluppate di Long Island, a una quarantina di chilometri dal centro New York, dove sarebbe sorta Levittown. La tecnica costruttiva prevedeva l’utilizzo di lastre di cemento per le fondamenta e di moduli prefabbricati in legno, montati da una manodopera specializzata che seguiva uno schema di lavoro ottimizzato in 26 fasi, grazie alle quali si potevano completare circa 30 villini mono-familiari al giorno, in media uno ogni 16 minuti. Il primo lotto di 2.000 unità abitative venne terminato nel 1947, metà dei quali erano stati affittati entro 48 ore dalla costruzione. Il secondo lotto di 4.000 abitazioni venne così posto in vendita con un mutuo trentennale a rate non dissimili dai canoni di locazione dell’epoca. La costruzione di Levittown Pennsylvania cominciò nel 1952 e venne completata nel 1958, con la costruzione di 17.311 unità abitative, basate su soli sei modelli di villette. Mancava forse la fantasia, ma non l’efficenza. Il modello sarebbe servito da riferimento per il grande sviluppo urbano dell’epoca, alimentato dai reduci di guerra e dal baby boom, che aveva visto impennarsi il tasso di natalità statunitense. Era dalla Grande Depressione che l’America non conosceva una così radicale trasformazione sociale. Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire) è stato uno dei primi grandi successi cinematografici. Diretto da Elia Kazan e con Vivian Leigh e Marlon Brando come protagonisti, arrivò nelle sale cinematografiche nel 1951, ma era basato su di un omonimo lavoro teatrale di Williams del 1947. La protagonista Blanche DuBois (Leigh) si lasciava alle spalle una cittadina del Mississippi per andare

53 a trovare la sorella che aveva sposato un sergente dell’esercito reduce dalla Seconda Guerra Mondiale. I due vivevano in un sordido appartamento, nella dissoluta, sporca e promiscua periferia della città, molto diverso dalla quiete della cittadina d’origine delle due sorelle. L’idea di metropoli invivibile, con poche eccezioni (New York, Hollywood), rimarrà uno degli stereotipi della cinematografia americana di quegli anni. La nuova America stava sorgendo altrove, lontano dalle città. Insieme alle case venivano consegnati agli acquirenti anche nuovi stili di vita. Il rapporto con le città non veniva interrotto, ma potenziato tramite infrastrutture ferroviarie e autostradali all’avanguardia. La sicurezza era garantita da accordi con polizia e pompieri. Per evitare l’eccessiva frammentazione sociale, venivano istituite aree comuni, con il divieto di recinzione dei rispettivi giardini di pertinenza delle abitazioni. Una piscina olimpica era collocata in posizione facilmente accessibile a tutti e gli edifici delle scuole elementari erano donati dalla Levitt and Sons ai nuovi nuclei urbani. Le case, inoltre, erano vendute completamente arredate, in modo che i nuovi proprietari vi trovassero una dotazione completa di elettrodomestici, come le nuove cucine della General Electric. Levitt interveniva in tutti gli aspetti che potevano in qualche modo rovinare l’immagine delle sue creazioni, come i prati non erano tagliati adeguatamente o il bucato steso troppo in vista. Nella quiete delle villette monofamiliari, il grande sogno americano era però affollato di contraddizioni. I mutui della Federal Housing Association e gli stessi contratti di acquisto stabilivano che le abitazioni non potessero essere utilizzate o cedute a persone di razza diversa da quella caucasica. Il principio di segregazione razziale veniva giustificato dallo stesso Levitt come un modo di salvaguardare il valore delle abitazioni, piuttosto che come una scelta di principio, che lui non condivideva. La segregazione perfetta non era era facile da mantenere. Nel 1957 i coniugi ebrei Bea e Lew Wechsler cedettero la loro abitazione in Levittown, Pennsylvania, a una famiglia di afroamericani, William e Daisy Myers. Ci furono disordini e rivolte degli altri abitanti, così come anche concreti atti di sostegno e incoraggiamento. Anche a seguito dell’intervento delle autorità, che avallarono le ragioni dei Myers, non cambiò la politica della Levitt & Sons, che continuò a inserire clausole “razziste” nei contratti di vendita delle abitazioni dei sobborghi. Ancora nel 2010, secondo i dati del censimento, Levittown aveva l’ 87.7% di bianchi e solo il 3.6% di afroamericani e il 5.1% di latino americani, insieme ad altre esigue minoranze: 0.2% di nativi americani, 1.7% di asiatici, 1.6% di coppie interrazziali. Lo sviluppo dei sobborghi per tutti gli anni Cinquanta, così come nei decenni successivi, sostanzialmente reiterò il modello di Levittown contribuendo a quello sarebbe stato il problema delle minoranze etniche. Alla fine degli anni Cinquanta, la diffusione dei centri commerciali contribuì al decisivo cambiamento dell’ambiente urbano (Vincenzo 2018). Luoghi di socializzazione e mete dei pellegrinaggi del consumo, i nuovi shopping mall definivano nuove mappe del territorio e nuovi stili di vita: gli sterminati parcheggi diventavano i luoghi di ritrovo degli figli del baby boom, mentre per i loro genitori il consumismo tendeva a identificarsi con il tempo libero stesso. Non contava più la distanza dal centro cittadino, quanto quella dal centro commerciale più vicino, attorno al quale tendeva a svilupparsi la vita che si svolgeva al di fuori delle pareti domestiche. Sobborghi, centri commerciali, autostrade, automobili, flussi di persone in continuo movimento, segni distintivi percepibili dai guidatori: l’idea stessa di territorio urbano era ridefinita.

54 La comunicazione pubblicitaria partecipò attivamente al definizione della nuova mappa urbana della nazione. Gli investimenti pubblicitari, infatti, non erano molto variati dagli anni Venti in poi, assestandosi intorno a poco più di 2 miliardi di dollari all’anno, a parte un picco negativo a 1,3 miliardi nel 1933, in piena Depressione. Nel dopoguerra la cifra investita in advertising si sarebbe progressivamente impennata, superando i 4 miliardi nel 1947, i 5 miliardi nel 1949, i 6 miliardi nel 1951, ecc., con un trend in costante crescita che avrebbe portato a superare la soglia dei 100 miliardi nel 1986 e dei 200 miliardi nel 1998 (dati US Census). Tra il 1945 e il 1949 gli americani avrebbero comprato 20 milioni di frigoriferi, 21,4 milioni di automobili, 5,5 milioni di cucine. A partire dal 1949 venivano vendute ogni mese almeno 250.000 apparecchi televisivi. L’industria aveva già da tempo iniziato l’immissione sul mercato di una pletora di nuovi oggetti, diversificando l’offerta commerciale. Dove c’era un solo sapone, si erano immessi sul mercato un’infinità di prodotti destinati all’igiene, spesso con componenti attivi sostanzialmente identici. D’altra parte lo stesso genere, prima radiofonico, poi televisivo, delle soap operas doveva il suo nome ai prodotti delle aziende che ne erano sponsor. Tuttavia, nel dopoguerra si assiste a un vero e proprio dilagare di prodotti del tutto nuovi, che creano nuove prospettive di consumo e nuovi stili di vita. Nel 1948 i fratelli McDonald’s aprivano il loro primo fast food. Un hamburger costava 15 cents, le patatine fritte 10 cents e il frullato 25. Ma non era solo il costo contenuto a permettere il successo della nuova iniziativa commerciale. L’idea dei McDonald’s non riguardava solo l’alimentazione, ma investiva il territorio, il nuovo paesaggio urbano che l’America andava definendo. Richard e Maurice McDonald lavorarono a stretto contatto con l'architetto Stanley Clark Meston per la progettazione di un edificio che si basasse sulle tradizioni dei drive- in della California del Sud e che allo stesso tempo avesse un'estetica moderna e soprattutto accattivante. Meston, elaborò un design che comprendeva due archi paralleli alti circa 7 metri, tagliati in lamiera gialla e attraversati da neon della stesso colore. Fin dall’inizio vennero chiamati Golden Arches, termine col quale sarebbero diventati famosi. Il progetto comprendeva anche un terzo arco sulla strada, più alto ma con una parabola più stretta, sormontato dalla scritta Hamburgers, con sopra un buffo personaggio in neon animato con un cappello da cuoco, chiamato Speedee, che sembrava muoversi a passo veloce verso il fast food che indicava con una mano. L’arco era un simbolo semplice, molto visibile e di significato immediato, vicino a quello dell’arcobaleno e del ponte, che collega due sponde, due mondi, il Cielo e la Terra. In molte culture passare sotto l’arco indica la rinascita, e nel caso dell’arco di trionfo, la vittoria. I romani ne avevano fatto notevole uso. L’arco di McDonald’s era luminoso, visibile di notte, un arcobaleno celeste, una scala d’accesso verso l’altro mondo. Il fast food era rivestito di maioliche a strisce bianche e rosse, una costante americana, sotto i due archi dorati: era un modo di celebrare i fasti dell’America, il trionfo del sogno americano, quasi un segno celeste lasciato in eredità agli uomini. La fortuna dei nuovi prodotti passava anche per la ridefinizione dello spazio urbano intorno ad essi. Nuove costellazioni di oggetti soppiantavano vecchi stili di vita e vecchie immagini di città. I nuovi luoghi di consumo erano disseminati lungo le strade territorio come le edicole buddiste nell’antico Oriente.

55 Nel 1954 i McDonald avevano ancora solo 9 fast food e 21 ristoranti in franchising, ma la loro visibilità era notevolissima. Nel 1955 Raymond Albert “Ray” Kroc apparteneva a una famiglia ceca rovinata dalla crisi del 1929. Cominciò a lavorare per i McDonald’s come responsabile dell’ufficio franchising in quella che allora era ancora una piccola catena di paninerie. In cinque anni l’azienda avrebbe aperto 100 franchising arrivando a vendere oltre 100 milioni di hamburger: era l’inizio della ristorazione di massa. Nel 1961 Kroc rilevava dai McDonald per 2,7 milioni di dollari il marchio della catena di fast food, in modo da garantire un milione per ciascuno dei fratelli pagate le tasse: una delle più redditizie acquisizione della storia. Alla morte di Kroc nel 1984 l’azienda contava 7.500 outlets negli Stati Uniti e in 31 altri paesi, per un fatturato di 8 miliardi di dollari, mentre la fortuna personale del proprietario superava i 600 milioni. La crescita esponenziale di McDonald’s era accompagnata da poderosa attività pubblicitaria. All’inizio degli anni Sessanta, William Scott, un presentatore e attore televisivo, ricevette l’incarico di impersonare il personaggio di Ronnie McDonald, un clown destinato a diventare una delle icone della catena di fast food. Nel 1963 vennero prodotto i primi tre spot televisivi con lo slogan Ronald McDonald, the Hamburger-Happy Clown. Lo strano clown aveva un cappello/vassoio su cui erano poggiati i panini. Accompagnate dalla musica della banda del circo, le sue cadute clamorose facevano volare gli hamburger che erano raccolti da bambini trasformati in occasionali avventori. Al clown riusciva anche la magia di moltiplicare per tre i panini del suo vassoio. Tra giochi e magie da circo, la strategia di far leva sui più giovani per portare intere famiglia da McDonald’s si sarebbe rivelata vincente e long-running. Non vi erano solo fast food lungo le lunghe arterie automobilistiche che collegavano i sobborghi alle città. Nel 1952 apriva a Memphis l’Holiday Inn Hotel Courts, il primo hotel di una rete destinata a estendersi da una costa all’altra del continente e dalle caratteristiche standardizzate, adatte alle famiglie e facilmente raggiungibili dalle arterie stradali principali. Il nome era un omaggio a Holiday Inn (La taverna dell’allegria), un film del 1942 con Fred Astaire e Bing Crosby ambientato in un albergo aperto solo nei giorni festivi, l’Holiday Inn appunto. Nel 1956 c’erano circa 30 Holiday Inn in America, ma l’anno successivo iniziava un piano di franchising che avrebbe portato a 50 hotel nel 1958, 100 nel 1959, 500 nel 1964 su arrivare al millesimo Holiday Inn nel 1968. Il “Great Sign”, la grande insegna pubblicitaria della catena sarebbe diventata uno dei simboli dell’America del turismo di massa. Anche qui il suo simbolismo era immediato per quanto più articolato di quello della McDonald’s. Ideata dalla Cummings Company di Nashville rappresentava un’aiuola su cui sorgeva un edificio moderno stilizzato a strisce rosse e gialle, sormontato da una grande stella in una intelaiatura radiante che ricordava appunto un po’ la radio e un po’ i microfoni dell’epoca. L’edificio era attraversato e quasi abbracciato da una freccia gialla che prima puntava verso l’alto per poi ripiegare in direzione dell’ingresso dell’hotel, mentre nell’area verde sottesa alla curva campeggiava il nome e il pay off: The Nation’s Innkeeper. Un moderno albergo in mezzo al verde, quindi non soffocato dalla città, ma soprattutto attraversato da una freccia gialla. In molte culture la freccia rappresenta il raggio solare, così come colpire il bersaglio è considerata un’azione allo stesso tempo interiore ed esteriore. La popolarità del simbolismo è rappresentata

56 ancora oggi dal numero di produzioni narrative, televisive e cinematografiche dove sono protagonisti gli arcieri (Robin Hood, L’ultimo dei Mohicani, Arrow, Avatar, Trono di Spade, fino a Hunger Games). Il successo di un’azienda passa anche attraverso la sua rappresentazione all’interno di uno schema simbolico. L’America cambiava volto. Nel frattempo Harold Innis (1894-1952), economista e sociologo canadese, pubblicava The Bias of Communication (Le tendenze della comunicazione, 1951), con il quale si stabiliva quella scuola di Toronto che avrebbe annoverato nelle sue fila anche Marshall McLuhan. Secondo Innis ogni civiltà si reggeva sull’equilibrio dei mezzi di comunicazione destinati a perpetrare le forme simboliche nel tempo e nello spazio. In realtà spazio e tempo sono forme simboliche per eccellenza, attorno ad ognuna delle quali si orchestrano i diversi universi simbolici. Da questo punto di vista l’America aveva fretta, sembrava disprezzare i contenuti simbolici destinati a durare nel tempo, mentre privilegiava l’occupazione simbolica dello spazio. Privo di profondità e di durata, il sogno americano si legava indissolubilmente al mito della crescita continua, favorito dalla circostanze eccezionali del secondo dopoguerra. In mancanza di equilibrio, l’imperialismo americano era in primo luogo sancito da una impressionante capacità di diffusione nello spazio, dalla capacità di trasformare continuamente l’immagine stessa del territorio, prima fisico e, decenni dopo, virtuale. Innis sottolineava anche il valore simbolico della parola e della trasmissione orale, arrivando ad auspicare un ritorno all’oralità nelle stesse università, in modo da poter bilanciare la reificazione spaziale della cultura americana. Nonostante gli ammonimenti di pochi intellettuali, l’euforia di quegli anni sembrava non dovesse aver mai fine.

57 SEDURRE

Fino al 1931 Elliott White Springs (1896-1959) era soprattutto un asso dell’aviazione della Prima Guerra Mondiale, arrivato sui campi di battaglia nell’autunno del 1917 e divenuto in breve tempo comandante della Royal Air Force, con all’attivo una quindicina di combattimenti aerei vinti. Dopo il 1931, invece, Springs diventava anche imprenditore, assumendo il controllo del cotonificio di famiglia Springs Cotton Mills nel , un’azienda che pochi anni dopo, durante la Seconda Guerra Mondiale avrebbe fornito tessuti e altri materiali speciali, ignifughi e resistenti, per l’aeronautica: teloni per paracadute, soprattutto. Nel dopoguerra la Springs Cotton Mills affrontò quella che avrebbe potuto essere solo la storia di una delle tante riconversioni industriali dalla produzione bellica a quella civile. Elliott Springs, però, non era solo un asso della cloche, ma anche un radicale innovatore nell’ambito della comunicazione pubblicitaria. Aveva tra le mani un buon prodotto, ma si trattava di definire una veste del tutto nuova che lo avrebbe portato nelle nuove case americane. A quanto pare l’idea originaria a Elliot Springs sarebbe venuta guardando le pin-up in copertina nel numero dell’aprile 1946 della rivista Esquire. Si trattava di una rivista maschile fondata nel 1931 che aveva continuato anche dopo la guerra a cavalcare il favore del pubblico verso le pin-up. Si trattava letteralmente di immagini femminili “da appendere”, fotografate o disegnate da noti illustratori quali Alberto Vargas (1896-1982) e George Petty (1894-1975). Era un genere erotico che si era largamente diffuso durante la guerra quando le riviste si indirizzavano in particolare ai militari impegnati nel conflitto, i quali spesso utilizzavano le immagini per tappezzare le pareti delle camerate o anche decorare le carlinghe degli aerei. Le pin-up non erano semplici bellezze femminili, volevano essere in qualche modo il simbolo stesso dell’America: univano corpi procaci e pose disinibite, a volti adolescenziali, creando una rappresentazione ideale e accattivante non solo dell’immagine della donna, ma della stessa madre terra che le aveva cresciute e soprattutto ben nutrite. Emblematica in tal senso la copertina di Life dell’agosto 1941 con Rita Hayworth in costume sulla spiaggia che sorride mangiando qualcosa, pochi mesi prima dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Milioni di immagini di Rita Hayworth e Betty Grable sarebbero state distribuite durante la guerra, insieme a illustrazioni di donne dalle fattezze e atteggiamenti simili. La prima delle due bombe dell’operazione Crossroads, che avviò nel luglio del 1946 la distruzione nell’atollo del Bikini, era stata ribattezzata, Gilda, in omaggio all’omonimo film di quell’anno diretto da Charles Vidor, con Rita Hayworth, Glenn Ford e George Macready, ed era stata decorata con una immagine della Hayworth. Il termine Bikini venne utilizzato dal sarto francese Louis Réard il 5 luglio 1946, a pochi giorni dall’esplosione atomica per indicare il costume due pezzi di sua invenzione, i cui effetti, presumibilmente, sarebbero stati “dirompenti”. Tornando a Elliott Springs, nel 1946 l’aviatore/imprenditore era rimasto colpito da una copertina di Esquire che ritraeva tre pattinatrici che si riscaldavano davanti a una stufa a petrolio prima di entrare in scena. Era una immagine dell’illustratore e fotografo J. Frederick Smith (1917-2006) ispirata agli spettacoli itineranti Ice Capades, molto in voga a partire dal 1940, in cui esibivano ex campioni americani di

58 pattinaggio su ghiaccio. Le ragazze disegnate da Petty erano girate di schiena, mentre il gonnellino corto lasciava scoperta la biancheria intima davanti la stufa. Springs, che produceva tessuti ignifughi, acquisì i diritti dell’immagine, utilizzandola per una campagna che riuscì ad attirare sia l’interesse morboso, sia lo sdegno puritano del pubblico dell’epoca. Oltre alle immagini a destare scandalo erano anche i testi, ricchi di doppi sensi, scritti dallo stesso Elliott Springs. Il tessuto ignifugo veniva così messo in collegamento con i corpi “bollenti” delle pin-up. Un’immagine del 1949 avrebbe destato particolarmente attenzione. Il layout mostrava un nativo americano disteso in un lenzuolo (che costava circa un dollaro) legato come un’amaca tra le betulle. L’uomo dormiva, in atteggiamento esausto. Di fronte a lui un’avvenente giovane indiana si stava alzando dall’amaca, mostrando un ampio sorriso e con una gamba ancora nascosta nel lenzuolo. La sua didascalia recitava: A buck well spent on Springmaid Sheet (un buck ben speso per un lenzuolo Springmaid). Il doppio senso risiedeva nel fatto che buck poteva significare sia un “dollaro” (il costo del lenzuolo), sia la “sgroppata” conclusa dalla coppia. Nel dopoguerra la pubblicità aveva ulteriormente invaso la scena pubblica. Elliott Springs prendeva parte all’invasione con una comunicazione basata sulla stimolazione sessuale, destinata a diventare una delle rappresentazioni simboliche principali del consumismo. In questo modo si completava un percorso di ritualizzazione del corpo iniziato fin dagli albori della pubblicità moderna. Poche analisi possono essere più incisive e caustiche di quelle espresse da Marshall McLuhan nel 1947, tanto più che il sociologo canadese sottolineava proprio differenze tra lo spazio pubblico americano e quello italiano. Differenze che sarebbe venute meno solo molti decenni dopo.

Pochi mesi fa un ufficiale dell’esercito americano ha scritto un servizio sull’Italia per Printer’s Ink. Egli osservava sconcertato che gli italiani conoscevano i nomi dei loro ministeri ma non i consumi preferiti dalle più note personalità italiane. Inoltre i manifesti per le strade riguardavano più spesso argomenti politici che avvisi commerciali. La conclusione fu che c’era poco da sperare sul raggiungimento di un minimo di benessere economico e di un equilibrio degli italiani finché questi non avessero cominciato ad occuparsi un po’ più della concorrenza fra produttori di corn-flakes o di sigarette, e un po’ meno delle capacità dei loro uomini politici. Sostanzialmente egli giunse ad affermare che la vera democrazia consiste in larga misura proprio nell’occuparsi poco della politica e nel pensare invece a come debellare il cattivo odore delle ascelle, la forfora, i peli superflui, la gracilità del fisico, l’aridità dei capelli, l’anemia mediterranea, il gomito del tennista, l’intestino pigro, per non parlare della carenza di ferro, della depressione, del seno cadente, della piorrea, dei pantaloni lisi, della canizie precoce e dell’eccesso di peso (McLuhan 1947, 15-16).

Tornando alla Springmaid, anche la seconda pubblicità disegnata da Elliott Springs riprendeva un’immagine di Esquire, apparsa sul numero del febbraio 1948, questa volta opera di Elmer Simms Campbell (1906-1971), uno dei primi fumettisti afro-americani. Si trattava ancora di una pattinatrice che piroettava in una pista su ghiaccio all’aperto, davanti a due persone anziane sedute su di una panchina. Il movimento della ragazza lasciava completamente aperte le gambe divaricate, coperte da un indumento

59 intimo. La pubblicità sarebbe apparsa in due versioni, con due slogan distinti, egualmente ammiccanti: “Perfume e and Parabole” e “How to Kill Two Birds”. Il primo riprendeva la body copy in cui si raccontava la storia dello Springmaid Perker, un tessuto derivato da modelli tattici impiegati in guerra e impregnati di sostanze odorose per far confondere gli odori dei soldati con quelli della giungla. Il secondo, invece, evocava il detto di “prendere due piccioni con una fava”, in riferimento ai due nonnetti ammaliati dalle piroette della pattinatrice. In entrambi i casi, le utilizzatrici avrebbero potuto raggiungere il duplice scopo di apparire carine ed evitare i cattivi odori indossando la canottiera Callipygian (letteralmente “che disegna un bel fondo schiena”) della Springmaid. Il testo dimostra che Elliott Springs fosse meno sprovveduto dal punto di vista culturale di quanto si possa in un primo tempo immaginare. Una Venere Callipigia si trova anche nel Museo archeologico nazionale di Napoli: si tratta della copia di marmo di un originale ellenistico in bronzo del III secolo avanti Cristo ed è stata ritrovata nel pressi della Domus Aurea. Come recita la scheda del museo:

La statua raffigura la dea che maliziosamente si volge per ammirare la perfetta linea della parte posteriore del proprio corpo: ella infatti ha il capo girato all'indietro sulla spalla destra, accompagnato da una leggera torsione del busto, mentre il braccio sinistro alzato trattiene i lembi del chitone.

Si tratta dell’antico rituale dell’anasyrma, che poteva avere carattere erotico, propiziatorio o apotropaico. In alcune culture, come in Serbia, Bulgaria, India, e Africa, la danza di una donna nuda propizia la pioggia, mentre in Giappone Ame-no-Uzume-no-Mikoto danza mezza nuda su di un mastello rovesciato, costringendo la dea del sole Amaterasu a uscire, così che gli uomini riottengono la luce. In Africa, l’anasyrma era praticato dalle donne anziane per allontanare i nemici (Dexter e Mair, 2013). La contessa di Forlì, Caterina Sforza (1463-1509), si comportò in maniera analoga, quando, durante l’assedio della città nel 1488, si rifugiò nella Rocca di Ravaldino nonostante il fatto che i suoi figli fossero in ostaggio. Caterina, sporgendosi dalle mura della Rocca, avrebbe gridato a chi minacciava di ucciderli: «Fatelo, se volete: impiccateli pure davanti a me - e, sollevandosi le gonne e mostrando con la mano il pube - qui ho quanto basta per farne altri!» (Graziani e Venturelli, 2001). Una scena analoga si trova in un dipinto olandese del XVI secolo, in cui un gruppo di donne effettua un anasyrma collettivo davanti a cavalieri e soldati nemici (Birkhan1999, figura 513). Altrettanto leggendarie sono le Sheela-na-Gig, figure stilizzate che mostrano una donna che tiene aperte le labbra di una vulva gigantesca. Se ne trovano numerose incassate sopra porte, finestre o al vertice del timpano di chiese rurali medievali in Irlanda e Inghilterra (Freitag 2004). Non sono certo i più antichi nudi di figure femminili che esibiscono fondoschiena e genitali. Una lastra di pietra con la raffigurazione di una donna nuda che danza è stata trovata a Göbekli Tepe, in Turkey, risalente all’8.000 A.C. Raffigurazioni analoghe si trovano durante tutto il Neolitico, fino a risalire alla Grotta Chauvet, del Paleolitico superiore (Aurignaziano, 35.000 A.C.), considerato il più antico sito di arte rupestre del mondo. Qui, nella “Salle du Fond”, si trova l’immagine di una vulva con le gambe, tratteggiata in modo estremamente realistico. In tutti i

60 casi il significato simbolico delle rappresentazioni è quello di protezione e allo stesso tempo di nascita e rigenerazione (Dexter e Mair 2013). L’ampio successo della campagna della Springmaid sottolinea il carattere simbolico della comunicazione pubblicitaria, in cui il prodotto in vendita rappresenta solo un aspetto, talvolta nemmeno prioritario. Elliott Springs ne era talmente consapevole che il testo che affiancava una ragazza con un corpetto succinto e la gonna inevitabilmente sollevata sulle mutandine da un refolo di vento autunnale, recitava:

Elliott Springs, presidente della Spring Cotton Mills, afferma di esser preparato a produrre qualsiasi cosa mostrata nell’immagine.

Il prodotto di consumo era il risultato della integrazione tra testi e immagini evocative, dove l’attenzione veniva condotta all’interno di un mondo di riferimenti simbolici che scorreva parallelo e si sovrapponeva al mondo materiale. Mentre si costruivano i nuovi sobborghi e cambiava lo scenario urbano americano, la scoperta di questi “simboli per il consumo”, era il cavallo di battaglia della comunicazione pubblicitaria del Dopoguerra. Immagini con un forte contenuto simbolico, infatti, innescavano comportamenti rituali, che sfociavano talvolta in attrazioni ossessive, idealizzazioni iconiche, conformismi di massa. A partire dal 1945 la pubblicità entrava infatti in quella fase definita dal gruppo di lavoro di William Leiss come “magia nera”, in cui narcisismo e seduzione giocavano un ruolo determinante, sia pure all’interno di una gamma relativamente ristretta di immagini/modello (Leiss 1985 e 1990). A partire da quest’epoca la circolazione dei modelli simbolici sarà sempre più veloce e pervasiva, rimbalzando dalla pubblicità, al cinema, e presto anche alla televisione. Come nel cosa della famosa scena del film Quando la moglie va in vacanza (The Seven Year Itch, 1955), diretto da Billy Wilder, in cui si vedeva la protagonista, Marilyn Monroe, passare sopra la griglia della ventilazione della metropolitana. Il lembo dell’abito da cocktail avorio, una creazione del costumista William Travilla, si sollevava lasciando scoperte le gambe e le mutandine dell’attrice, come nelle pubblicità della Springmaid. La scena venne prima girata all’aperto, ma la folla di curiosi e fotografi rese necessaria una nuova ripresa in studio per il film. Tuttavia, furono soprattutto le foto scattate durante le riprese e le esibizioni per il lancio del film a far diventare l’immagine della Monroe con la gonna alzata una delle icone del cinema moderno. Il caso di Marilyn Monroe era singolare. Pur non avendo preso parte a un limitato numero di commedie leggere, non del tutto memorabili sotto il profilo cinematografico, avrebbe dato vita a un vero e proprio culto personale, con almeno 600 monografie a lei dedicate nel corso del XX secolo (Victor 2001). La stessa scena delle gambe scoperte sarebbe stata ripresa anche in La Signora in Rosso (The Woman in Red, 1984), diretto da Gene Wilder (nato Jerome Silberman), con protagonista Kelly LeBrock, nonché in altre pellicole più recenti, come per esempio La coniglietta di casa (The House Bunny, 2008), diretto da Fred Wolf con Anna Faris. L’imprenditore/aviatore Elliott Spring ancora una volta aveva centrato l’obbiettivo.

61 ANTROPOLOGIA DEL CONSUMO

Nel 1956, verso la fine del periodo maccartista, Horace Miner pubblicava un singolare articolo sulla rivista scientifica American Antrophologist. Si intitolava Body Ritual of the Nacirema, e faceva riferimento ai rituali del corpo dei moderni americani (nacirema è la scrittura inversa di american, metodo applicato anche con tutti gli altri nomi dell’articolo). La moderna America, però, era vista con gli occhi di un antropologo a digiuno di comportamenti occidentali. La tribù che la popolava risultava così del tutto eccentrica, in particolare per quanto riguardava il culto del corpo e gli oggetti magici ad esso collegati. I Nacirema apparivano come un popolo “oppresso” dalla magia, in balia di una serie di manipolatori del corpo (medici e soprattutto dentisti) e della mente (psicanalisti). Punto di partenza erano i rituali nel “santuario” del bagno.

Le credenze sulla magia e le pratiche dei Nacirema presentano aspetti così inusuali, tali che li si possa descrivere come esempio degli estremi cui può arrivare il comportamento umano (…) Alla base dell’intero sistema sembra esservi la credenza che vede il corpo umano come brutto, e come naturalmente destinato alla debilitazione e alla malattia. Intrappolato in un simile corpo, l’unica speranza dell’uomo è di scongiurare simili eventi attraverso potenti cerimonie e influenze rituali. Ogni famiglia ha uno o più santuari dediti a questo scopo. Gli individui più potenti della società hanno diversi santuari nella loro casa e, in effetti, si guarda spesso alla ricchezza di una casa facendo riferimento alla quantità di santuari posseduti. Le case sono per lo più costruite in paglia e fango, ma le stanze dei santuari dei più facoltosi sono murate con pietre. Le famiglie più povere imitano i ricchi applicando placche di ceramica alle pareti del loro santuario (…) Punto centrale del santuario è una scatola o cassa costruita nel muro. In questa cassa vengono tenuti gli accessori e le pozioni magiche che i nativi ritengono fondamentali per la loro sopravvivenza. Questi preparati sono garantiti da una serie di professionisti specializzati. Il più potente di questi è l’uomo della medicina, la cui assistenza deve essere ricompensata con regali sostanziosi (…) I pacchetti magici sono così numerosi che le persone dimenticano lo scopo per cui sono stati fabbricati, e hanno paura di utilizzarli di nuovo. Anche se i nativi sono molto vaghi a riguardo, possiamo ritenere che alla base del conservare tutti i materiali magici vi sia l’idea che la loro presenza nella scatola degli amuleti, di fronte alla quale vengono eseguiti i rituali corporei, possa in qualche modo proteggere l’adoratore. Al di sotto della scatola degli amuleti vi è una piccola fonte. Ogni giorno ciascun membro della famiglia, in successione, entra nel santuario, china la testa davanti alla scatola degli amuleti, mescola tipi differenti di acque sacre nella fonte, e procede con un breve rito di abluzione. Le acque sacre sono assicurate dal Tempio dell’Acqua della comunità, dove il sacerdote conduce elaborate cerimonie per rendere il liquido ritualmente puro (…) La nostra recensione della vita rituale dei Nacirema ha certamente mostrato come sia un popolo oppresso dalla magia. È difficile capire come essi abbiano potuto esistere così a lungo sotto il peso che si sono autoimposti (Miner 1956).

La consapevolezza del carattere magico della comunicazione pubblicitaria e degli oggetti di consumo si riscontra nelle maggiori campagne del dopoguerra. Come per esempio la campagna “un diamante è per sempre” della De Beers, la multinazionale sudafricana che controllava la produzione mondiale di diamanti. Data la sua posizione di monopolio, secondo la legislazione statunitense non poteva fare pubblicità negli USA, per cui la N. W. Ayer & Son aveva ideato una campagna che si limitava a promuovere i diamanti come

62 elemento essenziale dell’anello di fidanzamento, introducendo in qualche modo un “nuovo” oggetto. L’immagine del prodotto era inserita solo in un piccolo riquadro. La campagna era basata all’inizio su riproduzioni di opere di noti artisti come André Derain, Dalí e Picasso, oppure illustratori, come Herbert Saslow. La costante era l’ambientazione fiabesca, di ispirazione simbolista. Lo scopo era quello di colpire l’immaginazione, soprattutto femminile, creando nuove associazioni tra oggetti, desideri, aspettative, forme simboliche. L’headline scritto dalla copy Frances Gerety era il pezzo forte della campagna, destinato a diventare uno dei più famosi e duraturi della storia dell’advertising (Sullivan 2013). Con esso nasceva l’unione indissolubile tra matrimonio e diamanti:

Un diamante è per sempre.

In tal modo i diamanti De Beers andavano oltre il mero oggetto di consumo. Rappresentavano la porta d’ingresso verso un mondo nuovo, un universo di sogno, parallelo a quello ordinario e altrettanto reale. Dato il carattere del prodotto si trattava di una scelta per certi aspetti obbligata, ma anche di una felice intuizione commerciale. Fino al XIX secolo, infatti, i diamanti erano pietre rarissime, praticamente senza mercato. Nel 1870 la De Beers aveva iniziato la scoperta delle prime grandi miniere di diamanti iniziato una produzione che nel Dopoguerra era arrivata a sfiorare i 5 milioni di carati, all’incirca una tonnellata di pietre preziose. Nel corso del secolo la produzione sarebbe salita fino ad arrivare al picco di 177 milioni di carati nel 2005-2006, corrispondenti a più di 30 tonnellate di diamanti. Mentre il mercato mondiale veniva letteralmente inondato di pietre, uno dei principali obiettivi dei produttori era quello di continuare ad alimentare la percezione della scarsità dei diamanti. La De Beers era entrata in contatto con l’agenzia Ayer & Son nel settembre 1938 per il tramite della Morgan Bank, chiamata a sua volta a fronteggiare il calo mondiale del prezzo dei diamanti. L’anno prima il Giappone aveva invaso la Cina e nel marzo la Germania si era annessa l’Austria, dando vita alla Grande Germania. I venti di guerra che cominciavano a soffiare sempre più forte non favorivano il mercato dei preziosi. Gli Stati Uniti si presentavano come l’unico mercato disponibile per la De Beers, anche se fino a quell’epoca si vendevano in America solo le pietre più piccole, con un valore medio di 80$. I giovani compravano il 90% degli anelli di fidanzamento, ovviamente. La Ayer & Son impostò una campagna diretta a modificare l’idea di come si conquistava una donna. E decise di sperimentare un nuovo approccio al relativamente nuovo mondo delle stelle del cinema. Gli idoli di Hollywood divennero il veicolo di un nuovo romanticismo, che traspariva dalle pellicole cinematografiche e dirompeva nei servizi giornalistici in cui ci si soffermava a discutere delle dimensioni dell’anello di fidanzamento e delle modalità di romantiche richieste di matrimonio. Si trattava di un nuovo tipo di approccio alla comunicazione, in cui il produttore tendeva a sparire e il prodotto si trovava al centro di un nuovo mondo, creando una nuova narrativa di consumo, una nuova forma di incantesimo. Nel 1941, le vendite di diamanti De Beers crescevano del 55% rispetto al 1938, attestandosi ai livelli precedenti la Depressione (Epstein 1982).

63 Di fronte alla decadenza morale di un mondo sempre più reificato, sempre più sottomesso all’imperativo del denaro e della crescita, gli americani avevano bisogno di purezza. Come aveva rilevato Horace Miner non senza ironia, l’avevano trovata in primo luogo nel santuario intimo delle loro abitazioni, attraverso l’uso di centinaia di nuovi prodotti che promettevano la purificazione del corpo. Il diamante spostava il punto focale della purezza dal corpo fisico al corpo sociale. Secondo l’antropologa Mary Douglas (1921-2007), “le donne sono considerate letteralmente come l’apertura attraverso la quale si può adulterare la purezza del contenuto” e viceversa il canale attraverso il quale riportare la purezza perduta (Douglas 1970, 200). Il dono di un anello principesco come impegno nuziale faceva della donna una principessa delle favole e dell’uomo un principe azzurro, sanciva l’ingresso rituale nel mondo delle favole di magia nella vita reale, e apriva una finestra visionaria all’interno della banalità dell’esistenza ordinaria. Nel 1953 arrivava sul grande schermo il musical Gli uomini preferiscono le bionde. Nel film Marilyn Monroe cantava Diamond’s are a girl’s best friend, un’esaltazione del nuovo stile di vita americano. La canzone venne in seguito classificata al dodicesimo posto tra le più importanti di tutti i tempi dall’American Film Institute:

The French are glad to die for love. They delight in fighting duels But I prefer a man who lives And gives expensive jewels. A kiss on the hand May be quite continental, But diamonds are a girl's best friend.

Un decennio dopo l’inizio della campagna “a diamond is forever” il mercato americano era completamente conquistato: ben più della metà delle spose statunitensi sfoggiava un anello di brillanti al dito, un oggetto materiale in grado di rappresentare qualcosa di effimero come il successo nella vita. Conquistata l’America, la De Beers si sarebbe potuta concentrare sull’esportazione dell’idea dell’anello di fidanzamento in altri mercati, a partire dal Giappone. Il sogno introdotto dalla De Beers non si sarebbe interrotto. In quegli stessi anni, nel 1949, un’altra azienda che doveva riconvertire la produzione dopo aver fornito paracadute all’esercito americano, lanciò la campagna di un nuovo reggiseno con l’head line:

I dreamed that I went … in my Maidenform Bra.

Ideatore della campagna era Harry Trenner che anche grazie a questa campagna, destinata a durare oltre un ventennio, sarebbe diventato vice presidente della William Weintrob Advertising di New York. L’immagine prevedeva una pin up in reggiseno che si trovava nelle più diverse situazioni, dallo shopping, al lavoro, vestita da Cleopatra o da Ben Hur, in una sfilata di moda parigina o vincitrice di elezioni politiche.

64 Non era un semplice travestimento, ma la realizzazione di un sogno, un sogno che si manifestava e allo stesso tempo diveniva possibile indossando un capo d’abbigliamento speciale: “quel” capo di intimo femminile. In questo modo l’efficacia dell’oggetto di consumo andava oltre ogni forma di “uso” convenzionale e sviluppava una forma di “magia” che avrebbe avuto grande sviluppo negli anni successivi. La campagna della Maidenfrom, così, consacrava il consumismo come porta d’ingresso per il mondo femminile all’. Molte delle comunicazioni pubblicitarie degli anni successivi avrebbero richiamato fantasie e sogni, sarebbero state cantate e danzate come in un grande musical, una forma di spettacolo che proprio tra gli anni Quaranta e Sessanta avrebbe conosciuto la sua età dell’oro. Era anche l’apoteosi dell’American Dream, sempre più basato su quattro principi fondamentali: la stabilità della coppia all’interno della famiglia protestante; l’allontanamento dalla corruzione delle città nei nuovi sobborghi borghesi; il ruolo di casalinga della donna; il successo dello spirito pionieristico americano e dell’uomo che sapeva farsi strada da solo. Tuttavia, dietro i lustrini degli spettacoli, era sempre più evidente che il Dopoguerra era agitato da paure inconsce e ansie anomiche. Spellbound (1945) di Alfred Hitchcock, con Ingrid Bergman e Gregory Peck, è un thriller psicologico che il produttore David O. Selznick intendeva come tributo alla psicanalisi freudiana, tanto da portare la sua psichiatra sul set per avere consigli tecnici. Divergenze tra quest’ultima e Hitchcock avrebbero causato in particolare il taglio di un lunga scena di sogno girata dal regista con le scenografie di Salvator Dalì: la versione finale conteneva solo qualche minuto, rispetto ai più di venti di quella originale. Quanto bastava, però, per realizzare un significativo passo avanti nello sconfinamento delle immagini dal mondo reale a quello immaginario: un passo in cui l’arte giocava un ruolo decisivo. Erano presenti molti elementi dell’immaginario surrealista di Dalì: occhi, forbici, prospettive in soggettiva con lunghe ombre, giochi di carte, paesaggi e personaggi fantastici. Il film iniziava con il testo seguente:

«La nostra storia si occupa della psicoanalisi, il metodo col quale la scienza moderna tratta i problemi emotivi delle persone sane. L'analista cerca solo di indurre il paziente a parlare dei suoi problemi nascosti, per aprire le porte serrate della sua mente. Una volta che i complessi che disturbano il paziente sono scoperti e interpretati, la malattia e la confusione scompaiono.... e i demoni dell'irragionevolezza sono scacciati dall'anima umana».

Pubblicità e cinema rappresentavano il lato oscuro del conformismo dell’epoca o piuttosto una terapia contro i suoi effetti secondari. Secondo il critico cinematografico Parker Tyler (1904-1974):

La sala cinematografica è la clinica psichiatrica per le fantasticherie del lavoratore medio (Tyler 1944/70, 244).

L’uomo medio sognava i sogni di una vita che non avrebbe potuto permettersi e in tal modo conteneva le sue frustrazioni all’interno di una sfera onirica. Senza le immagini da sogno del consumo e dei divi del cinema, infatti, il Sogno Americano sarebbe apparso grigio e indistinto, frustrante e tedioso, incapace di

65 resistere alle pulsioni “inconsce” di una società che stava crescendo a dismisura. Nei diciotto anni tra il 1946 e il 1964, sarebbero nati 77,3 milioni di nuovi statunitensi, portando il totale della popolazione dai 131,7 milioni del 1940 ai 203,7 del 1970 (dati U.S. Census Bureau). Per la maggior parte di loro sogno e realtà avrebbero cominciato a confondersi. Sarebbe toccato a uno dei più lucidi teorici della comunicazione di evidenziare le dinamiche magiche e oniriche in cui si stava addentrando la pubblicità. Nel 1951 andava in stampa il primo saggio di Marshall McLuhan, La Sposa Meccanica, uno studio pionieristico nel campo della cultura popolare, in cui si sottolineavano, tra l’altro, i rapporti tra pubblicità, cinema e letteratura:

Le agenzie pubblicitarie e Hollywood, ciascuno a suo modo, tentano costantemente di penetrare la mente del pubblico per imporre i loro sogni collettivi su questo palcoscenico interiore. E nel cercare di perseguire questo obbiettivo sia Hollywood che le agenzie pubblicitarie lasciano intravvedere in modo chiaro il comportamento inconscio. Un sogno porta all’altro finché la realtà e la fantasia diventano interscambiabili. Le agenzie pubblicitarie sommergono il mondo diurno, basato su obiettivi consapevoli e sulle capacità di controllo, con immagini erotiche derivate dal mondo notturno allo scopo di affogare, con la suggestione, ogni resistenza all'acquisto. Hollywood in onda il mondo notturno con immagini diurne in cui le idee e gli dei sintetici (le star) sembrano assumere il ruolo della nostra vigile esistenza giornaliera allo scopo di adularci e consolarci per gli insuccessi della nostra vita quotidiana. Le agenzie pubblicitarie hanno in serbo per ciascuno di noi il sogno di un posticino nell'Olimpo Dove possiamo bere e ciondolare all'infinito tra marche di prodotti ben note. Il film capovolgono questo procedimento mostrandoci le stelle (…) che invece scendono al nostro livello (McLuhan 1951, 193).

66 SCIENZA E CREATIVITÀ

Alfiere del connubio tra scienza e creatività sarà uno dei collaboratori di Gallup, l’inglese David Ogilvy, destinato a essere uno dei pubblicitari più celebri del XX secolo. La sua autobiografia Confessioni di un pubblicitario (1963) avrebbero venduto un milione di copie in America e sarebbero state tradotte in 14 lingue: anche lo sceneggiatore e regista statunitense Matthew Weiner si è ispirato a lui nella creazione del personaggio di Donald Draper, il protagonista della fortunata serie televisiva Mad Men, prodotta dalla Lionsgate Television e andata in onda dal 2007 al 2015. Arrivato in America nel 1938 per apprendere i modi della pubblicità statunitense, Ogilvy sarebbe stato considerato un maestro nel catturare l’attenzione del pubblico, nell’infrangere gli schemi dei comportamenti convenzionali per ricostruirli attorno alle qualità del prodotto. Vero uomo di transizione, riusciva a trovare nuovi compromessi tra la classica impostazione product oriented e una visione innovativa del ruolo degli oggetti: in questo modo la creazione di nuovi valori astratti, talvolta irrazionali, più spesso semplicemente con valore simbolico, subentrava con decisione alle caratteristiche utilitarie dei prodotti. Prima di arrivare in America, il suo stile era ancora impregnato di surrealismo europeo. La sua campagna del 1937 per le camicie Arrow, per esempio, giocava sui temi della reincarnazione in cavallo di un uomo finalmente lieto di avere un grande collare comodo, dopo una vita di problemi con il colletto stretto delle camicie: un modo decisamente originale di fare riferimento alla comodità delle camicie Arrow. L’effetto è giocato dall’headline spiazzante, “Il mio amico John Holmes adesso è un cavallo”. E nel testo si racconta di un uomo morto per un colletto di camicia troppo stretto, contento di essere rinato cavallo e di avere finalmente un giogo più confortevole: purtroppo non aveva avuto la fortuna di indossare una camicia col colletto Arrow! L’esperienza americana Di Ogilvy avrebbe completamente modificato il suo approccio all’oggetto di consumo. Ogilvy rappresentava una alternativa “scientifica” a quella che sarebbe stata definita la rivoluzione creativa del dopoguerra. Formato all’interno del gruppo di Gallup e abituato alla elaborazione dei dati statistici, Ogilvy si vantava di rimanere sempre fedele ai fatti, senza aggettivi ridondanti. In realtà il suo approccio comunicativo mostrava sempre un registro spiritoso e arguto, cercando di rendere disinvolti e casual simboli e oggetti di consumo delle classi più agiate. Nel 1958, la sua celebre pubblicità per il lancio della nuova Rolls-Royce Silver Cloud recitava:

A 60 miglia all’ora il rumore più forte in questa nuova Rolls Royce è il ticchettio dell’orologio elettrico.

Meno noto, ma non meno efficace, è l’apporto di Ogilvy alla comunicazione che oggi definiremo publiredazionale. Nel suo primo testo per l’apertura della zona franca di Puerto Rico egli utilizzava 961 parole, un vero e proprio articolo sui benefici per le aziende a investire nella zona. La trovata era quella di

67 farlo firmare a Beardsley Ruml (1894 – 1960), notissimo economista e sociologo, già consulente del presidente Herbert Hoover e direttore della New York Federal Reserve Bank. Il coupon di richiesta informazioni venne ritagliato e spedito da 14.000 lettori e numerose aziende misero in pratica i consigli di Ruml/Ogilvy aprendo propri stabilimenti in Puerto Rico.

Nel tentativo di ridefinire il sogno americano moderno, durante gli anni cinquanta gli Stati Uniti compivano forse una delle più grandi sperimentazioni sociali della storia, la nascita di un nuovo modello di vita, una sorta di “conformismo americano”, e allo stesso tempo ponevano le premesse per le grandi spinte rivoluzionarie del decennio successivo. In un tale contesto, la comunicazione pubblicitaria si trovava allo stesso tempo a promuovere e a combattere tale conformismo. Due romanzi si collocano idealmente agli estremi dello stile di vita dell’epoca, dal quale emergeva prepotentemente il “problema” del ruolo della donna americana. L’uomo vestito di grigio (The Man in the Gray Flannel Suit), scritto nel 1955 da Sloan Wilson (1920-2003), vendeva più di 2 milioni di copie ed veniva portato sul grande schermo l’anno successivo dal regista Nunnally Johnson con protagonisti Gregory Peck (Tom Rath) e Jennifer Jones (Betsy Rath). Era il romanzo del nuovo conformismo. Tom Rath era il tipico reduce della guerra. Partito subito dopo il matrimonio, rimaneva traumatizzato da un conflitto in cui aveva ucciso diciassette nemici e soprattutto, per lui, perso il suo migliore amico (vittima di una bomba a mano sciaguratamente lanciata da lui stesso): Nel frattempo, a Roma, aveva trovato una dolce amante, Maria, che probabilmente aveva messo alla luce un figlio suo. Al ritorno in America si sarebbe dovuto confrontare con due “malattie”: la febbre del denaro e il disagio mentale. Otto anni dopo la fine del conflitto aveva un discreto lavoro, in cui non credeva, una modesta casa in un anonimo sobborgo. Il suo unico scopo era quello di guadagnare più denaro: “qualsiasi cosa concerne un uomo può essere compendiata in cifre”. Solo così potrà “acquistare una casa più costosa e una marca migliore di gin”. Saputo di un posto di lavoro presso una società di comunicazioni radio televisiva, era assunto con il compito di assistere il suo patron, Richard Hopkins, in alcuni progetti speciali, come la costituzione di un comitato per la sensibilizzazione del pubblico americano nei confronti della malattia mentale, ritenuta una dei maggiori mali dell’epoca. Attraverso Hopkins, Tom Rath si confrontava con il modello dell’uomo di successo, che sacrificava la famiglia per i sempre più pressanti impegni di lavoro. Tom si trovava così a passare dalla giungla della guerra contro i giapponesi a quella degli affari, del fascino del denaro, del potere e del successo. Punto di equilibrio della sua vita restava sua moglie Betsy, una casalinga che aveva preso in mano le redini del possibile sviluppo immobiliare della tenuta di famiglia appena ereditata della madre di Tom. Ma Tom non aveva finito di confrontarsi con il suo passato. L’apparizione di un suo vecchio commilitone, di origini italiane, gli faceva tornare alla memoria la condizione dell’antica amante Maria, che aveva effettivamente avuto un figlio da lui e che versava in cattive acque.

68 Tom temeva che Betsy, una volta saputo del suo passato, si sarebbe potuta allontanare da lui, ma la moglie si dimostrerà comprensiva e la coppia si prendeva carico di un assegno di mantenimento del figlio italiano (nulla di più, con i soldi si fa tutto). Nella scena finale Tom e Betsy si rivolgevano a vicenda un sorriso radioso, imitati dal vecchio giudice Bernstein che aveva accettato l’incarico di inviare regolarmente il denaro in Italia. Nel frattempo, tutto lasciava ben sperare per la lottizzazione della tenuta ereditata, che aveva buone probabilità di essere trasformata in un nuovo sobborgo. E di apportare un ottimo guadagno economico. La morale era solare. La nuova America non solo ridefiniva il suo spazio urbano, ha anche ridisegnava gli assetti della famiglia mononucleare, in cui marito e moglie da soli affrontano la vita e sostengono la nazione. Il denaro svolgeva il ruolo centrale nella via dei protagonisti e anche il rapporto con i figli era in massima parte regolato sulla base dei flussi economici: assegni di mantenimento, tasse universitarie, ecc. Era un modo “perfetto” di integrare in un unico ordine morale e rituale consumismo e vita sociale.

Il nuovo assetto sociale veniva seguito con grande interesse dall’industria e dalla comunicazione commerciale. Durante gli anni Cinquanta, molte aziende seguirono l’esempio della General Motors e avevano creato un dipartimento di marketing all’interno delle proprie strutture organizzative, in modo da potersi meglio relazionare con agenzie di pubblicità e società di ricerca. La maggior parte delle campagne dell’epoca mirava a collocare i prodotti all’interno dei rituali quotidiani domestici. Lo sradicamento delle città ai sobborghi era la migliore premessa per la creazione di stili di vita del tutto nuovi. Si metteva a frutto l’esperienza della guerra, quando centinaia di migliaia di soldati erano stati trapiantati in nuovi territori da conquistare. Adesso si trattava di conquistare una nuova dimensione sociale, un nuovo American Dream. Cambiare la casa e l’arredamento, l’utilitaria, gli elettrodomestici, sarebbe diventato una delle attività preferite e in un certo senso obbligate (non sembrava esserci molto altro da fare) delle coppie americane. L’espressione idiomatica Keeping up with the Joneses (stare al passo con gli altri) divenne non solo un comune modo di dire, ma uno stile nello stile di vita, un conformismo all’ennesima potenza. Il sociologo David Riesman per indicare questo nuovo tipo di umanità, stimolata a intraprendere sempre nuovi rituali di consumo e influenzata dai comportamenti degli amici e vicini, definiva i tratti di un nuovo tipo sociale, l’uomo “eterodiretto” (Riesman 1950): un uomo in cui le motivazioni interiori sono del tutto secondarie rispetto ai modelli esterni che ne condizionano il comportamento. Svuotato di contenuti morali, mai come a partire da questo momento il prestigio sociale era sembrato così facile da raggiungere. Ai primi di novembre del 1959 il trentaseienne Italo Calvino partiva per l’America con una borsa della Ford Foundation per giovani scrittori europei. Non era un viaggiatore qualsiasi e infatti il paesaggio e la società dell’epoca emergevano con chiarezza dalle pagine del suo diario di viaggio:

Proviamo a uscire dalla “throughway” a cercare la città. Dov’è. È sparita. Puoi girare (diciamo per esempio a Cleveland) per ore in macchina e non trovi quello che corrisponde a un centro [...] la città residenziale è

69 sparita, si è sparsa su una superficie grande come una nostra provincia. La “middle class” vive nelle villette a due piani, rade nei quartieri sterminati di viali tutti uguali. Non si può fare un passo senz’auto, anche perché non c’è da andare in nessun posto. Non ci sono botteghe di tipo tradizionale [...] per riempire il frigorifero ogni settimana è meglio andare nell’immenso supermarket più vicino. Credevamo che la nostra era fosse caratterizzata da un massimo di concentrazione urbana. Invece non lo è già più. Siamo nella fase della polverizzazione urbana: già la nostra civiltà, i costumi, la mentalità stanno cambiando, il mondo superindustrializzato sta tornando un mondo di piccoli nuclei familiari, stretti attorno al focolare (la televisione) co- me era fino a ieri solo il mondo agricolo (calvino 1960, pp. 2569 sg).

Molte aziende scelsero la strada di una comunicazione pubblicitaria che sottolineasse il conformismo dell’epoca. La Van Heusen era già all’epoca uno dei maggiori produttori di camicie statunitensi. Fondata nel 1881, a partire si legava alla Isaac Phillips. fino ad arrivare nel 1957 alla creazione del gruppo Phillips-Van Heusen (PHV), che attualmente detiene marchi come Tommy Hilfiger, Calvin Klein, IZOD e Arrow. Il contenuto delle pubblicità, che oggi potrebbero essere definite senza mezzi termini “sessiste”, in realtà metteva a fuoco l’immagini di virilità primitiva dell’uomo americano. Che sia vestito da indiano (con la camicia, naturalmente) e seduto in una tinozza mentre una squaw gli versa acqua sul capo, oppure in veste esploratore delle giungla, mentre quattro donne vestite di pelli animali lo portano a spalla su di una portantina, il significato è sempre quello di un vero e proprio Re, contornato da servitori o, piuttosto, da serve. Ancora più esplicita l’immagine dell’uomo seduto a letto (con camicia e cravatta) con la moglie inginocchiata al suo fianco che gli serve in un vassoio il caffè, mentre l’headline recita “mostrale com’è il mondo di un uomo”. Già nel 1949, la Va Heusen aveva invitato i mariti a mostrare: sei un uomo… (l’immagine ritraeva un uomo che trascinava una donna per i capelli), oppure un topo? (questa volta era una donna che tirava un uomo per i capelli). L’immagine finale mostrava un uomo con camicia rosa sgargiante e una donna al braccio, mentre il testo esclamava: Affermati…. La pubblicità del 1950 della Cream of Tomato Soup della Heinz cercava di addolcire i toni, ammettendo: molti mariti oggi hanno smesso di picchiare le mogli. Se un uomo sbadiglia a tavola, infatti, e la tua cucina e non la tua conversazione, è monotona, si può facilmente risolvere con le zuppe della Heinz. Nelle pubblicità conformiste, l’uomo che sbadigliava a tavola e in genere tutti quelli ritratti in casa avevano rigorosamente camicia, cravatta e completo scuro di flanella - la divisa degli impiegati dell’epoca - mentre la donna era in abito da casalinga col grembiule addosso e qualche attrezzo da lavoro in mano. Il marito che appariva nella immagine della birra Schlitz cercava di consolare la moglie che agitava una padella con la cena bruciata:

Don’t worry darling, you didn’t burn the beer! Non ti preoccupare, cara, non hai bruciato la birra!

70 La stessa posa appare in una situazione meno drammatica di una pubblicità della linea di cereali integrali Pep della Kellogg’s. In mano non c’è una padella ma un piumino per la polvere, mentre il testo fa riferimento agli effetti miracolosi delle vitamine contenute nel prodotto: più duramente lavora un donna, più sembra attraente. Altre campagne degli anni Cinquanta potrebbero essere tranquillamente riprese oggi, ma il loro significato traspare in maniera più chiara alla luce dello stile dell’epoca. Ai consigli delle riviste femminili di come si conquistava e si manteneva viva l’attenzione del marito, faceva eco la linea di costumi della Cole of California, un marchio che nel 1936 aveva utilizzato Esther Williams come testimonial e che dal 1950 aveva cominciato a produrre costumi per Christian Dior. La bionda inguainata in una costume leopardato, con il volto semicoperto da una foglia di banano era molto simile alle donne che sostenevano la portantina della Van Heusen. Anche in questo caso l’headline lasciava pochi dubbi: Man Killer, come a dire che ci si trova di fronte a una cacciatrice di uomini. Era la pin-up, opposta e gemella della casalinga, che riguadagnava la scena. Più sfacciata, la Bell & Howell, azienda statunitense di apparecchiature cinematografiche ed elettroniche, nel 1959 faceva presentare il suo proiettore per diapositive a colori a Norma Ann Sykes, in arte Sabrina, una attrice di origine inglese che aveva iniziato la sua carriera come valletta nella televisione britannica e che poi era apparsa in una decina di pellicole minori negli USA. Il suo seno prorompente era diventato una sorta di mito della comunicazione, tanto che anche i paraurti aggettanti di alcuni modelli di MGB e Triumph vennero definiti dalla stampa specializzata Sabrinas, termine che sarebbe divenuto di comune utilizzo. Non tutto il decennio, tuttavia, poteva essere ricondotto al conformismo, e non mancavano esempi di comunicazione creativa e originale. Nel 1951 uno dei clienti di David Ogilvy (1911-1999) era la CF Hathaway, una piccola camiceria del Maine che non aveva mai fatto prima pubblicità e disponeva di un budget di $ 30.000. Ogilvy sapeva di dover fare qualcosa di originale per permettere al marchio di competere con aziende molto più strutturate. Quasi per gioco consegnò al fotografo una benda da mettere sull’occhio del modello, in modo da farlo apparire elegante e piratesco allo stesso tempo. L’immagine dell’uomo Hathaway, ritratto in una elegante sartoria ma con la benda da pirata sull’occhio, sarebbe diventata una icona della pubblicità del XX secolo. Anche i risultati delle vendite furono immediati. L'impatto della pubblicità fu immediato. La prima inserzione su The New Yorker costò solo $ 3.176, ma entro una solo settimana, ogni singola camicia Hathaway nei negozi della città sarebbe stata venduta. Da segnalare anche la campagna della Alka-Seltzer, girata per la televisione con un ancora strepitoso Buster Keaton. Nel primo commerciale della serie, Keaton era un soldato senza più munizioni, ma con un terribile mal di stomaco e di testa che era aiutato a prendere una pastiglia effervescente da Speedy, il genietto dell’Alka-Seltzer. Il consumismo poteva anche far venire il mal di testa. Sotto il velo del nuovo conformismo sociale si agitavano, infatti, forze destinate a metterlo in crisi. Pochi anni dopo L’uomo vestito di grigio, un altro romanzo sembrava tracciare il rovescio della medaglia dell’America. Si trattava di Revolutionary Road (1961) di Richard Yates (1926-1992). Come i due romanzi anche gli autori si collocavano agli antipodi. Mentre Sloan Wilson sarebbe diventato subito uno scrittore di successo, l’opera di Yates rimaneva confinata in un limbo dal quale sarebbe uscita solo dopo la morte

71 dell’autore. Eppure l’esordiodi Revolutionary Road non era del tutto negativo: il libro andava in finale al National Book Award perdendo solo con The Moviegoer dell’esordiente scrittore cattolico Walker Percy (1916-1990). Il romanzo avrebbe comunque attirato l’attenzione di critici e scrittori e sarebbe stato salutato come un avvenimento letterario, ma senza un conseguente successo di pubblico. In realtà tutta la vita di Yates sarebbe stato un continuo saliscendi - alla fine degli anni Sessanta avrebbe assunto anche l’incarico di ghostwriter del senatore Robert Kennedy - senza mai entrare però nell’Olimpo dei maggiori autori americani. Sarebbe morto quasi in miseria nell’ospedale per veterani di Birmingham, circondato da pochi e molto qualificati estimatori, la maggior parte dei quali docenti di scrittura creativa nelle università americane. Solo di recente Yates è stato rivalutato e Revolutionary Road veniva trasposto sul grande schermo nel 2008, con la regia di Sam Mendes (premio Oscar con American Beauty), e con Leonardo DiCaprio (Frank Wheeler) e Kate Winslet (April Wheeler) come protagonisti. L’opera di Yates aveva proprio il difetto di anticipare troppo i tempi, o comunque di avere un approccio al conformismo americano radicalmente differente da quello di Wilson e del tutto controcorrente. Proprio quello che sarebbe emerso nei decenni successivi e che avrebbe messo decisamente in crisi il sogno americano, almeno nella sua declinazione conformista. L’azione di Revolutionary Road si svolgeva nel 1955, appena due anni dopo quella de L’uomo vestito di grigio. Anche i coniugi Wheeler sono una giovane coppia che aveva dovuto affrontare la guerra, ma il loro vero problema era piuttosto l’incapacità di sopportare la vita dei sobborghi, di “vivere tra tutte queste dannate mediocrità suburbane”. Frank Wheeler, che ambirebbe a fare lo scrittore o l’intellettuale in genere, svolgeva una modesta funzione di impiegato che lo occupava soprattutto nel cercare di lavorare il meno possibile, e anche sua moglie April mal digeriva il suo ruolo di casalinga. Si ritrovavano la sera con gli amici a lamentarsi del conformismo americano e a parlare dell’Europa, “l’unica parte del mondo in cui valesse la pena vivere”. Improvvisamente, sotto la spinta di April, i coniugi prendevano la decisione di trasferirsi a Parigi - “lì la gente vive e sente davvero” - dove la donna avrebbe potuto facilmente trovare lavoro, lasciando al marito la possibilità di cercare la sua strada e di godersi la vita che aveva sempre sognato. Si trattava di una prospettiva rivoluzionaria: la moglie che lavora e il marito che può occuparsi di scrivere o altro, sovvertiva l’intero mondo di valori dell’epoca. La decisione di lasciare l’America sembrava rivitalizzare la coppia, che ritrovava l’intesa e la complicità perdute da tempo. Ma Frank Wheeler stentava ad assecondare la moglie e a rimanere fedele ai suoi stessi ideali. Una nuova gravidanza di April era colta dal marito come il pretesto per vanificare ogni progetto di cambiamento, avviando la donna sulla strada di una depressione senza uscita. Si trattava del trionfo di quella che Betty Friedan avrebbe chiamato la “mistica della femminilità”. La volontà di April di andare in Europa e trovare lavoro (la donna parlava molte lingue), era etichettata come “invidia del pene”, un desiderio inconscio di essere maschio. Frank si lasciava risucchiare dalle lusinghe di una carriera in cui non crede, ma che solleticava il suo egocentrismo. Entrambi sembravano ripiombare nel tran tran della vita quotidiana, fatto di rigide divisioni dei ruoli (mariti al lavoro e mogli a casa), di adulterio, di civile insofferenza verso i figli

72 (“credo che non siamo mai stati tagliati a fare i genitori, non siamo neppure dei genitori decenti) e di ricevimenti noiosi con i vicini. Il dramma era dietro l’angolo. April non avrebbe sopportato di rientrare nella “normalità” di una vita che distingueva tra donne/mogli - le casalinghe - e donne/amanti - le pin up - e di nascosto al marito progetterà un aborto clandestino che la porterà alla morte. Nell’ultimo capitolo si veniva a sapere che Frank ha fatto carriera, dopo aver affidato i figli ai parenti, ma che ai suoi vecchi amici sembrava piuttosto “un cadavere che camminava, parlava, sorrideva” e che era diventato “uno di quei tipi che non hanno in testa altro che il loro maledetto psicanalista”. Nelle fasi finali del racconto il ruolo di coscienza critica viene assunto dal John, il figlio “pazzo” di una coppia di anziani vicini: “Cos’è successo? Ha avuto paura? Ha pensato che dopotutto le piace star qui nel vecchio Vuoto Disperato, oppure… Ehi, ho fatto centro! Guardate un po’ che faccia fa! Che c’è Wheeler? Fuochino?”. Anche John finirà per scontare il suo anticonformismo in manicomio, praticamente abbandonato dai suoi stessi genitori. Il tema della pazzia che appare in sottofondo nella trama di L’uomo vestito di grigio, diventa quindi centrale in Revolutionary Road: la follia come reazione alienata a uno stile di vita in cui non ci si riconosce, di cui non si condividono simboli e rituali. Erano in molti a non riuscire ad assimilare i nuovi rituali domestici del conformismo americano e ampie fette della popolazione risultavano alienate. Soprattutto le donne si trovavano a vivere quello che l’attivista dei diritti femminili Betty Friedan (1921-2006) chiamava il “problema senza nome”, che alla lunga avrebbe fatto esplodere l’immagine patinata della felice casalinga americana. Per molte donne il sobborgo non era tanto una via di fuga dal caos multietnico, dalla criminalità e dalla violenza delle metropoli, quanto una vera e propria prigione in cui vivere una sorta di isolamento forzato. Ancora nel 1961 solo il 29% delle donne tra i 25 e i 34 anni lavorava.

Alla fine degli anni Cinquanta l’età media del matrimonio per le donne americane era scesa a vent’anni e continuava ancora ad abbassarsi. Quattordici milioni di ragazze erano fidanzate già a diciassette anni. La proporzione delle donne che frequentavano il college, rispetto agli uomini, si era abbassata dal quarantasette per cento nel 1920 al trentacinque per cento del 1958. Cent’anni prima le donne si erano battute per accedere all’istruzione superiore e adesso le ragazze andavano al college per procurarsi un marito. A metà degli anni Cinquanta, il sessanta per cento di loro abbandonava il college per sposarsi, o perché temeva che un’ istruzione eccessiva avrebbe costituito un ostacolo al matrimonio (Friedan 1963, 25, evidenziazione nostra).

73 RIDIMENSIONARE

Durante gli anni Cinquanta il volume globale dell’economia americana aumentava del 37% e alla fine del decennio il potere d’acquisto medio delle famiglie americane era cresciuto del 30%. Con una popolazione di circa 166 milioni di abitanti, in America nel 1955 circolavano 60 milioni di auto. La prima Diner’s Club Card, una delle carte di credito più diffuse, apparve nel 1950 e nei dieci anni successivi il debito privato crebbe da $ 104,8 a $ 263,3 miliardi. La pubblicità trainava in maniera significativa l’aumento dei consumi, così che gli investimenti raddoppiarono anch’essi. Nel 1950 si investivano circa $ 6 miliardi. Nel 1960, su di un totale di quasi 12 miliardi di dollari di investimenti in pubblicità, più di un terzo andavano a quotidiani e periodici (3,6 e 0,9 miliardi), mentre televisione e radio raccoglievano ormai rispettivamente 1,6 e 0,6 miliardi. Il benessere della classe media americana in realtà era maggiore di quanto le medie statistiche possano far pensare. E i deboli lo erano ancora di più. La prosperità degli anni di presidenza del generale Eisenhower (1953 -1961) lasciava ai margini della società il 25% della popolazione, che viveva in condizioni di povertà (con un reddito inferiore ai $ 3.000 per una famiglia di 4 persone). Dapprima le classi povere sarebbero state relativamente “invisibili”, ma la loro evidenza era destinata a cambiare negli anni successivi. Le rivolte che avrebbero caratterizzato gli anni Sessanta avrebbero avuto infatti sembra una matrice razziale o segregazionista, a cominciare dai disordini avvenuti nella Università del Mississippi del settembre del 1962 quando il governo federale rese obbligatoria l’iscrizione di James Meredith, un afroamericano di ventinove anni veterano della Air Force. I segregazionisti scatenarono una violenza reazione all’interno del campus per sedare la quale il presidente Kennedy dovette ricorrere all’esercito. Due persone persero la vita nella prima notte di disordini, tra cui un giornalista francese, Paul Guihard, corrispondente del giornale britannico Daily Sketch. Per ricordare l’episodio, il famoso cantautore Bod Dylan avrebbe composto Oxford Town.

Lui venne ad Oxford Town Fucili e bastoni lo seguirono Solo perché la sua faccia era scura Meglio andare via da Oxford Town

Altri disordini avvennero ad Harlem nel 1964, a seguito dell’uccisione di un giovane afroamericano da parte della polizia. La rivolta andò avanti per per sei notti, alla fine delle quali si contarono un morto, 118 feriti e 465 arrestati. Tra luglio e agosto di quell’anno si scatenarono rivolte analoghe a Philadelphia, a Rochester, a Chicago e in tre città del New Jersey: Jersey City, Paterson ed Elizabeth. Le rivolte a sfondo razziale furono una costante almeno fino alla morte di Martin Luther King, cui fecero seguito incendi e saccheggi in più di 120 città.

74 Mentre i ceti medi afroamericani portavano avanti la loro campagna per i diritti civili e l’accesso ai livelli di consumo raggiunti dalla classe media bianca, le stesse premesse di un’economica basata sulla crescita e sul consumismo cominciarono a essere messe in discussione. Soprattutto i più giovani cominciarono a protestare nei confronti del conformismo, della guerra in Vietnam, iniziata nel 1963, arrivando a costituire vasti movimenti di contro-cultura. Il 21 ottobre 1967, 100.000 dimostranti si radunarono attorno al Lincoln Memorial di Washington, circa un terzo di loro intraprese una marcia notturna verso il Pentagono. Ci furono violenti scontri e migliaia di dimostranti vennero arrestati. Uno di loro era lo scrittore Norman Mailer, autore tra l’altro dell’articolo The White Negro (1957), su cui torneremo dopo. Nella misura in cui il conformismo aveva varato una società senza opposizione, in cui prevaleva il pensiero unico e l’ “uomo a una dimensione”, richiamato dal titolo di un celebre saggio di Herbert Marcuse uscito nel 1964, i giovani Hippy costituivano in aree urbane e rurali migliaia comuni che sovvertivano i valori consumistici o almeno così speravano. Alcune di queste comuni avevano carattere religioso, variamente ispirato al Cristianesimo, a religioni orientali o alle emergenti religioni New Age. Altre invece avevano un approccio più secolare. Erano esperienze che avevano rapporti anche con la tradizione americana del socialismo radicale, così come un vago richiamo alle comunità protestanti dei primi tempi (Miller 1992). Drop City, per esempio, fondata da un gruppo di studenti d’arte e film maker nel 1965 a Trinidad, Colorado, è stata una delle prime comuni rurali. Su di una superficie di circa tre ettari vennero edificati una serie di strutture abitative composite, simili a igloo colorati. I promotori della comune definivano il loro intervento come dropping, una sorta di dripping tridimensionale disseminato a forma di villaggio. La comune venne chiusa dalle autorità pochi anni dopo (http://www.dropcitydoc.com/). Tolstoy Farm, ispirata alla omonima comune creata nel 1910 da Gandhi in Sud Africa, si è costituita nel 1963 a partire dal terreno di famiglia di Huw Williams nei pressi di Davenport in Eastern Washington. Ancora attiva, la comune è dedita oggi alla coltivazione di prodotti biologici che poi commercializza nei mercati vicini. Anche l’uso delle droghe tipico della cultura hippy ha profonde radici nella tradizione americana. Gli Shakers, infatti, coltivavano oppio. Si tratta di una comunità di puritani eremiti celibatari dedita ritualmente a canti e balli, arrivata ad avere alla metà del XIX secolo 25 villaggi rurali e 4.000 membri. Nel 1963, due professori universitari, Timothy Leary e Richard Alpert, vengono licenziati da Harvard a causa dei ripetuti esperimenti di massa con LSD, una sostanza sintetizzata a partire da un fungo allucinogeno della segale cornuta. Nel settembre 1966 Leary fondò la League For Spiritual Discovery, una sorta di pseudo-religione che aveva nell’LSD il suo sacramento. In tal modo cercava di ottenere la libertà di utilizzo della droga basandosi sulla libertà religiosa. nello stesso anno lanciò lo slogan: turn on tune in drop out (accenditi, sintonizzati, abbandonati), che divenne uno dei preferiti dagli hippy. L’LSD venne comunque bandito dal governo anche se continuò a essere utilizzato negli ambienti giovanili. Ancora nel 1970 circa 2 milioni di americani facevano uso di LSD o lo avevano comunque sperimentato. Anche i comportamenti sessuali di gruppo non erano una novità assoluta nella storia delle comunità americane. Le comunità religiose di Oneida e Wellington sono stata fondate nel 1848 dal predicatore e

75 socialista utopico John Humphrey Noyes (1811-1886), sulle basi del Perfezionismo, una dottrina in base alla quale Cristo sarebbe già tornato e avrebbe reso possibile la perfezione in terra. Al centro della vita comunitaria c’era la proprietà comune e il “matrimonio complesso”, in pratica allargato a tutti gli adepti. Il controllo delle nascite era praticato attraverso la continenza maschile. I primi 87 membri della comunità divennero 172 nel 1850, 208 nel 1852 e 306 nel 1978, allorché il matrimonio complesso venne abolito per evitare l’arresto del fondatore della comunità. Nel 1891 la comunità venne convertita in azienda e la Oneida Limited sarebbe divenuta il maggior produttore mondiale di posate per buona parte del XX secolo. A John Humphrey Noyes si deve anche il primo l’utilizzo del termine free love (Foster 1981). Alcune organizzazioni si erano sviluppate già prima degli anni Sessanta, ma contribuiranno a dare maggiore impulso agli sviluppi comunitari successivi. Come per esempio i Catholic Workers Movement, fondati nel 1933 da Dorothy Day (in seguito insignita dal papa Giovanni Paolo II del titolo di Serva di Dio) e da Peter Maurin, un immigrato francese che si ispirava a San Francesco, al fine di aiutare i senzatetto e i poveri di New York. Col passare del tempo si sarebbe ampliata fino ad avere più di 300 ostelli in America e sedi anche fuori del continente. Alcuni dei suoi membri avrebbero fatto parte anche della Tolstoy Farm. Le diverse forme di contro-cultura non avrebbero avuto subito un effetto significativo sulla cultura che potremmo definire in termini gramsciani “egemone”. Eccetto una, la cultura hipster, destinata piuttosto a divenire un punto di riferimento, un modello culturale, per quanto diverso dal mainstream e soggetto a dibattito e critiche. Gli hipster, da cui deriva lo stesso nome hippy, erano in realtà i giovani delle classi alte che decidevano di differenziarsi dal conformismo imperante assumendo uno stile di “sottoconsumo”, mutuando atteggiamenti dei ceti afroamericani, in particolare dei jazzisti alla Charlie Parker. L’articolo The White Negro: Superficial Reflections on the Hipster, veniva pubblicato per la prima volta nel 1957 da Dissent, una rivista intellettuale di sinistra, fondata nel 1954. La rivista era pubblicata dalla University of Pennsylvania Press per conto della Fondazione per lo Studio delle Idee Sociali Indipendenti di New York.

Un uomo o è Hip o è Square (l’alternativa di fronte a cui comincia a trovarsi ogni nuova generazione che entra nella vita americana), è un ribelle o un conformista, un frontiersman nel Wild West della vita notturna americana oppure una cellula Square, intrappolata nelle maglie totalitarie della società americana, condannata che lo voglia o no ad adeguarsi per avere successo (…) Così comparve una nuova razza di avventurieri, avventurieri urbani che uscivano di notte alla ricerca di azione guardando il mondo con il codice dei neri. Lo hipster aveva assimilato le sinapsi esistenzialiste del Negro, e poteva essere considerato a tutti gli effetti pratici un Negro bianco (Mailer 1957).

Il sottoconsumo dei giovani ricchi era una forma di protesta più sottile di quella degli hippy, che non toccava il sistema sociale dall’esterno, ma dal suo interno. Non vi era l’utopia anarchica della lotta contro il sistema, tipica degli hippy, ma la capacità di ritagliarsi ambiti di libertà all’interno del sistema stesso. Attraverso il suo apparire dimesso, lo hipster in realtà si differenziava ancor più dalla massa, emergeva per la sicurezza del suo stile discreto, ma soprattutto per il valore che a partire da quest’epoca assumeva la cultura, divenuta il grande bene prezioso dell’epoca contemporanea. L’arte e la cultura diventavano così la vera e

76 segreta porta d’accesso a un mondo delle élite che coltivava “una sfiducia altrettanto potente nelle idee socialmente monolitiche del matrimonio, della solidità famigliare, della vita sessuale rispettabile” (ivi). Sull’etica del periodo riuscirà a gettare luce l’opera di uno dei sociologi e filosofi più penetrati del XX secolo, Jean Baudrillard. In particolare nel volume apparso in Francia nel 1970: La società dei consumi, i suoi miti e le sue strutture.

Certo, l’uomo ricco che guida la 2CV non abbaglia più, è più sottile: si superdifferenzia, si sovradistingue per il modo di consumare, per lo stile. Mantiene assolutamente il suo privilegio passando dall’ostentazione alla discrezione (superostentata), all’ostentazione quantitativa alla distinzione, dal denaro alla cultura (Baudrillard 1970, 46).

Nel 1959 l’agenzia Doyle Dane Bernbach di New York riceveva l’incarico di ideare una campagna per la Volkswagen, il noto marchio tedesco di automobili che a quell’epoca vendeva circa 18.000 auto l’anno negli States. Si trattava comunque di una macchina importata su cui c’era scetticismo riguardo l’affidabilità e la rete di assistenza. L’estetica e le dimensioni poi erano del tutto diverse da quelle delle auto americane. Insomma un incarico non facile da portare a termine, anche se risolto attraverso una brillante nuova filosofia:

Think small.

L’headline non era solo uno dei più felici di tutta la pubblicità del XX secolo, ma rappresentava anche un punto di svolta della comunicazione visiva. Costituiva il deciso superamento della concezione del “consumo vistoso” che era stata un punto di riferimento per le classi più elevate analizzate dall’economista e sociologo statunitense Thorsten Veblen (1857-1929) nel suo saggio Teoria della classe agiata (1899), e che dalle classi superiori si era diffuso alle classi medie. Anche la body copy della pubblicità di Bernbach era molto aggressiva e innovativa:

La nostra piccola macchina non è tanto più una novità. Una coppia di ragazzi del college non cercano di ficcarsi al suo interno. Il ragazzo alla stazione di servizio non chiede dove va la benzina. Nessuno guarda la nostra forma. In realtà, alcune persone che guidano il nostro piccolo macinino a 32 miglia al gallone non pensano nemmeno di andare veloci. O di utilizzare cinque pinte di olio invece di cinque quarti (la metà circa). O di non avere mai la necessità di antigelo. O di fare 40.000 miglia con un set di pneumatici. Questo perché una volta che ci si abitua ad alcune delle nostre economie, non ci si pensa più. Tranne quando si ci deve ficcare in un piccolo parcheggio. O rinnovare la vostra piccola assicurazione. O pagare una piccola fattura di riparazione. O al vendita della vostra vecchia VW per una nuova.

77 Pensaci su.

La campagna della VW non fu solo un successo in termini di vendite - le vendite all’anno salirono a una media di 33.000 unità nel corso degli anni Sessanta - fu soprattutto un punto di svolta nel ruolo della pubblicità, che di fatto si emancipava dalle ricerche di mercato avviando quella che sarebbe stata definita come la “rivoluzione creativa” degli anni Sessanta. Bernbach non avrebbe usato solo il ridimensionamento, però, ma anche l’ironia, vale a dire la possibilità di mostrare che un termine o un oggetto possono avere diversi significati, possono rappresentare diverse sfumature simboliche.

Lemon

Un’altro slogan della campagna per la Volkswagen esordiva con un termine che nello slang swtatunitense significava “cosa inutile o difettosa”, letteralmente un “bidone”. Si trattava della palese violazione di una delle regole fondamentali della propaganda che mirava sempre a magnificare i pregi e a nascondere i difetti. Proprio per questa palese originalità Lemon attirava alla lettura più approfondita del testo. E la body copy era un capolavoro di ironia e positività.

Questa Volkswagen è tornata indietro. Il listello cromato sul vano portaoggetti ha un’imperfezione e deve essere sostituito. È probabile che voi non ve ne sareste nemmeno accorti; l'ispettore Kurt Kroner si. Ci sono 3.389 uomini nel nostro stabilimento di Wolfsburg con un solo lavoro: ispezionare le Volkswagen in ogni fase della produzione. (3000 Volkswagen vengono prodotti ogni giorno, ci sono più ispettori che automobili.) Ogni ammortizzatore è collaudato (con il controllo a campione non lo si fa), ogni parabrezza viene ispezionato. VW sono state respinte per graffi superficiali appena visibili ad occhio. L'esame finale è davvero importante! Ispettori VW portano ogni auto fuori dalla linea sul Funktionsprufstand (banco di prova auto), contando fino 189 punti di controllo, pronti a bloccare il collaudo e a dire "no" ad una VW su cinquanta. Questa preoccupazione con dettagli significa la VW dura più a lungo e richiede minore manutenzione, in generale, di altre vetture. (Significa anche una VW usato svaluta meno di qualsiasi altra macchina.) Noi cogliamo il limoni (i difetti); voi ottenete le prugne (i vantaggi).

Il ricorso così sfrontato allo slang era un’altra delle caratteristiche che richiamava direttamente alla cultura hipster. Fino ad allora l’auto ironia era considerata impossibile in pubblicità. Bernbach dimostrava che una dose di anticonformismo, unita alla qualità del prodotto, poteva avere risultati del tutto innovativi. Era il modo di far uscire le agenzie di pubblicità dal vicolo cieco in cui le avevano messe le ricerca di mercato. Ecco cosa pensava Bill Bernbach delle agenzie dell’epoca, nelle parole di un’altra grande pubblicitaria, Mary Wells Lawrence:

78 The big agencies defended themselves; they said they made advertising scientifically, with sophisticated research. But Bill said either they were liars or they were stupid; their pitiful research reduced advertising to, basically, one poor tired ad that was repeated over and over again.

Le grandi agenzie si sono difese; hanno detto di aver fatto pubblicità in modo scientifico, con ricerche sofisticate. Ma Bill diceva che o erano bugiardi o stupidi; la loro pietosa ricerca riduceva la pubblicità a una povera e stanca pubblicità che si ripeteva in continuazione (Lawrence 2002).

L’approccio di Bernbach era del tutto innovativo e irriverente. Lo stile ironico della VW sarebbe stato riproposto anche in altre campagne, come quella, di una piccola distilleria di birra, la Utica Club, che lanciava uno slogan decisamente anti progressista e, in un certo senso, antiamericano:

Our beer il 50 years behind the times (and we’re proud of it). La nostra birra è 50 anni indietro (e ne siamo orgogliosi)

L’arma dell’ironia e dell’auto-denigrazione venne testata da Bernbach anche in relazione a prodotti per un pubblico meno sofisticato, come nel caso dell’autonoleggio, per la campagna della Avis. L’idea era quella di non nascondere il fatto che Avis fosse il n. 2 di un settore come quello delle macchine a noleggio in cui la Herz era leader indiscusso. Lo slogan della copywriter Paula Green, we try harder (ci impegniamo di più), lasciava trasparire come proprio le dimensioni della Herz non permettevano sempre curare la qualità del servizio e delle vetture. E di conseguenza faceva passare come vantaggio quello che poteva essere sembrato fino ad allora un limite. Fu uno straordinario successo. Dopo un lungo periodo di bilanci negativi culminati in una perdita di $ 3,2 milioni, la Avis nel giro di un anno fece registrare profitti per $ 1,2 milioni. Tra il 1963 e il 1966, il gap tra le quote di mercato di Herz e Avis si ridusse di 19 punti percentuali, passando rispettivamente dal 61% e 29%, al 49% e 36%. L’auto ironia fu anche la scelta della Wells, Rich, Greene, un’agenzia fondata nel 1966 da Richard Rich, Stewart Greene e soprattutto Mary Wells Lawrence, che nel 1969 già si distingueva come il più pagato dirigente di agenzia pubblicitaria. La Wells, che avrebbe avuto anche prestigiosi incarichi in commissioni federali, incarnava la rivoluzione creativa del decennio, caratterizzandosi per lo stile delle sue campagne. Come quella della Benson & Hedge che lanciava le 100’s, le sue sigarette lunghe ben 100 millimetri, in cui venivano mostrati gli innumerevoli svantaggi dovuti alla lunghezza delle sigarette: restavano chiuse nelle porte scorrevoli degli ascensori, si piegavano contro le vetrine dei negozi o i vetri delle macchine, oppure non entravano nelle borsette, bruciavano i giornali, ecc. L’immagine della sigaretta spezzata divenne in un certo senso emblematica del prodotto. E le vendite andarono più che bene, visto che almeno fino all’inizio degli anni Novanta, la Benson & Hedge vendeva nel States per più di $ 1,4 miliardi (Elliott 1992), secondo marchio del gruppo Philip Morris dopo la Marlboro.

79 L’esempio di Bernbach e della Lawrence venne seguito anche da altre agenzie che iniziarono la loro attività durante a “rivoluzione creativa”. Come per esempio la Scali, McCabe, Sloves, fondata nel 1967 il cui primo cliente è stato la Volvo, un altro marchio europeo di autovetture. Il loro slogan sembrava richiamare il famoso Live below your means (vivi al di sotto delle tue possibilità) della Volkswagen:

It’ll last longer than the payment book Dura più a lungo del finanziamento

All’epoca per estinguere un mutuo standard per l’acquisto di un’auto ci volevano circa tre anni. La body copy chiariva che ci volevano invece almeno undici anni per “estinguere” una Volvo. Sempre per lo stesso marchio, un headline del 1971 segnava in maniera ancora più evidente il carattere rivoluzionario di quegli anni.

BEAT THE SYSTEM. BUY A VOLVO. Combatti il sistema. Compra una Volvo.

Alla luce di quanto detto finora, può essere interpretato come snob e quindi come diretto a una classe alta che vuole differenziarsi nettamente dal contesto del conformismo sociale, anche la già citata campagna per la Rolls Royce ideata da David Ogilvy nel 1958:

At 60 miles an hour, the loudest noise in this new Rolls-Royce comes from the electric clock. A 60 miglia all’ora il rumore più forte di questa nuova Rolls Royce è il ticchettio dell’orologio elettrico.

Le altre 719 parole del del testo erano in qualche modo sovrabbondanti, eredità di una fase in cui la cultura tipografica resisteva ancora tenacemente. D’altra parte lo stesso Ogilvy aveva chiarito nella sua autobiografia che:

In media l’headline è letto cinque volte di più della body copy. Quando hai scritto il tuo headline hai già speso 80 centesimi del tuo dollaro (Ogilvy 1963).

Ogilvy - e più ancora di lui Rosser Reeves, ideatore della Unique Selling Position (USP) - si ponevano agli antipodi della rivoluzione creativa di Bernbach. Da punto di vista dei rituali e simboli sociali, invece, la tendenza “creativa” tanto quanto quella “scientifica”, rappresentano due aspetti strettamente collegati, vale a dire l’ampiezza del senso simbolico che viene conferito agli oggetti, così come all’interno di una dottrina esiste sempre una interpretazione più letterale e una più metaforica, una tendenza “dogmatica” e una

80 “spirituale”, entrambe però funzionali a garantire la più ampia gamma di senso simbolico nei confronti del “pubblico”.

81 RIVALEGGIARE

Durante gli anni Settanta gli investimenti pubblicitari lievitano ulteriormente, passando dai $ 20 miliardi nel 1970 a circa $ 50 miliardi del 1979. Alla fine del decennio la televisione arrivò a raccogliere da sola più di 1/5 del totale, distinguendosi come il media preferito per la comunicazione pubblicitaria. Le stime sulla effettiva quantità di pubblicità cui veniva esposto giornalmente l’americano medio divergono in maniera significativa. Secondo l’enciclopedia “Advertising Age”, che fa a sua volta riferimento all’American Association of Advertising Agencies, dal 1970 in poi il consumatore medio vedeva circa 1.600 pubblicità al giorno, anche se meno di 80 erano recepite consapevolmente e solo 12 provocavano una qualche reazione. Le cifre si riferiscono a tutti i media anche se una parte importante veniva svolta dai 69 milioni di apparecchi televisivi presenti nelle case americane e che restavano accesi una media di 6 ore al giorno.

La società di ricerche di mercato Media Dynamics è più riduttiva e ha stimato recentemente che in quel periodo le ore medie di ascolto televisivo fossero 3,7 con 68 passaggi pubblicitari di cui solo 44 avevano realmente presa sul pubblico. Si trattava in ogni caso di un impatto senza precedenti sulle vite delle persone. Secondo il futurologo Alvin Toffler, il cui saggio Future Shock (1970) vendette oltre sei milioni di copie, ogni americano era esposto a 560 messaggi pubblicitari al giorno, ma ne notava solo 66 mentre gli altri 484 erano in qualche modo “bloccati” dall’ascoltatore (o lettore) per indirizzare l’attenzione verso altri obiettivi. Gli studi sugli effetti di lunga durata della televisione media cominciarono nel 1967-68 all’interno del Cultural Indicators project, un progetto di ricerca diretto da George Gerbner (1919 – 2005) preside della Annenberg School for Communication, Università di Pennsylvania, a sua volta fondata nel 1958 dal magnate della comunicazione e diplomatico Walter Hubert Annenberg (1908 – 2002). Si trattava all’inizio di una ricerca commissionata dalla National Commission on the Causes and Prevention of Violence che riguardava circa 3.000 programmi televisivi e oltre 35.000 personaggi. La ricerca si componeva di due parti interconnesse: (1) Message System Analysis (Analisi del sistema dei messaggi) per monitorare la fiction televisiva delle rete mondiale e (2) Cultivation Analysis per determinare le concezioni della realtà sociale che la programmazione televisiva tende a coltivare nei diversi gruppi di spettatori. Le analisi fornivano informazioni sulla geografia, demografia, sui profili dei personaggi, e la strutturazione del mondo della televisione, concentrandosi anche su specifici problemi, politiche e argomenti. Il Cultural Indicators project

82 metteva quindi in relazione immagini e messaggi televisivi con concezioni della realtà sociale e relative azioni (Gerbner, Gross e Signorielli 1978). Le analisi rilevarono, tra l’altro, l’esistenza di una stratta connessione tra visione della televisione e rendimento negli studi (Morgan e Gross 1978), così come la correlazione tra ideali lavorativi dei giovani e professioni tratteggiate nei programmi televisivi e, ancora, come la visione della televisione fosse collegata agli atteggiamenti sessisti tra adolescenti (Gross e Jeffries-Fox 1978). In particolare, però, le analisi di Gerbner e del suo gruppo di lavoro, rilevarono come vi fosse un elevato tasso di violenza all’interno dei programmi televisivi, soprattutto nei programmi per l’infanzia e che questo tasso si mantenesse relativamente costante nel tempo (Gerbner 1979). Secondo Gerbner la violenza rappresentata in televisione non era casuale, ma funzionale alla creazione di un senso di perenne pericolo, che conduceva alla sindrome di vivere in un mondo “spietato e spaventoso” (mean world syndrome). Gerbner arrivava a supporre che la violenza televisiva, con la lunga scia di morti che si lasciava alle spalle, non fosse solo una manifestazione di potere e una forma di controllo sociale, ma anche un modo di innescare un terrore irrazionale di morire e quindi una diminuita vitalità e una minore autonomia della vita (Gerbner 1980). La sindrome del mondo malvagio innescata dalla violenza mediatica, ormai del tutto disgiunta e indipendente dal mondo reale, rendeva possibile e necessaria una nuova terapia sociale oppure, a seconda dei punti di vista, una nuova forma di repressione. Le persone spaventate sono più dipendenti, più facilmente manipolabili e controllabili, più suscettibili di misure di controllo ingannevolmente semplici, forti e dure e di atteggiamenti senza compromessi. Possono accettare e anche auspicare forme di repressione se queste promettono di alleviare le loro insicurezze. Questo è il problema più profondo di una televisione gravida di violenza (Gerbner 1986).

83 Con il pieno dispiegarsi dell’era della televisione, la comunicazione pubblicitaria sembrava tornare alle sue origini, alla sua funzione di terapia sociale. Tuttavia le possibilità comunicative erano del tutto diverse da quelle dell’inizio del secolo. Per la prima volta nella storia dell’uomo, infatti, buona parte dei simboli, dei rituali e delle narrazioni a cui venivano educati i cittadini fin dalla prima infanzia non erano più trasmessi direttamente da parenti, vicini, amici o strutture comunitarie, scolastiche e religiose, ma da “un remoto gruppo di società che hanno qualcosa da vendere” (Gerbner 1993). Si trattava di un cambiamento radicale, che andava a modificare ruoli e punti di vista sociali, non più ispirati da famiglie e comunità, ma da complicati processi di produzione e relative strategie di marketing. Oggi, le pubblicità sono le storie più importanti che ci dicono quello che dobbiamo essere e ciò che dobbiamo comprare (ibidem). Gli studi di Gerbner scoprivano che la televisione aveva portato un nuovo mondo di paure nelle case degli americani. Non si trattava solo di vendere prodotti, si trattava di tratteggiare un intero universo di pseudo-realtà - come Daniel Boorstin aveva chiamato già nel 1962 gli eventi creati per la comunicazione - con le sue regole, i suoi simboli e rituali. Si portava così a compimento lo sviluppo di un consumismo che non voleva essere solo un modo per vendere più prodotti, ma un sistema per creare un mondo all’interno del quale i prodotti avessero un diverso “significato”: non semplice oggetti ma icone di consumo. La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, di trasformare l'acquisto e l'uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. [...] Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore. Abbiamo bisogno di gente che mangi, beva, vesta, cavalchi, viva, in un consumismo sempre più complicato e, di conseguenza, sempre più costoso. Gli utensili elettrici domestici e l'intera linea del fai-da-te sono ottimi esempi di consumo costoso (…) Mi sembra che il fattore determinante vada ricercato in un elemento che è l’essenza dei desideri del consumatore e, allo stesso tempo, è il metro di misura della comunicazione. Questo fattore è il significato (…) Particolarmente degna di nota è la cura con la quale le automobili sono state simboleggiate e il simbolo si conserva anche attraverso cambiamenti formali e altre alterazioni (…) La televisione vende l’idea generale di consumismo. Promuove l’obiettivo di standard di vita più elevati. (Lebow 1955). Alla metà degli anni Cinquanta, gli spot televisivi erano ancora considerati in qualche modo degli “intrusi” all’’interno del palinsesto. Un decennio dopo erano diventati l’essenza stessa della programmazione televisiva, lo spirito dei suoi principali programmi, molti dei quali sponsorizzati da aziende. Con la televisione il carattere definitivo del consumo, la sua chiave rituale di lettura diventava la lotta, lo scontro, la competizione. E i riferimenti alla lotta emergevano in maniera eclatante attraverso lo sviluppo del comparative advertising, chiamato anche, senza particolari eufemismi, advertising war. In tal modo si definiva uno dei punti fondamentali dei rituali antropologici delle società moderne. A partire dal 1971-72 la Federal Trade Commission (FTC) cominciò a pronunciarsi apertamente in favore della pubblicità comparativa, vista come uno strumento di tutela del consumatore, attraverso la possibilità di una maggiore e più approfondita informazione sui prodotti di consumo. Nel 1972 le tre maggiori reti televisive accettarono di trasmettere pubblicità comparativa e la stessa American Association of Advertising

84 Agencies (AAAA), che fino ad allora aveva osteggiato la possibilità, dovette riconoscere che le campagne comparative erano un dato di fatto (Slater 1999). La consacrazione della “guerra pubblicitaria” rivestiva un grande valore simbolico. Da punto di vista antropologico, infatti, l’azione violenta e organizzata di gruppi sociali, è un fattore relativamente recente nella storia umana. Le più antiche evidenze di guerre combattute non risalgono a prima del 10.000-10.000 a. C. e sono circoscritte alla Nubia. I più recenti dati archeologici tendono a confermare che le società di cacciatori-raccoglitori - caratteristiche di circa il 99% della vita della razza umana - sono in genere pacifiche e prive di rituali militari (Kelly 2000). Per quanto oggi possa essere difficile immaginare società e periodi storici prive di guerre, delle circa 7.000 civiltà presenti attualmente sulla terra, ce ne sono diverse centinaia che possono essere definite come “pacifiche” e altrettante che conoscono forme di conflitto ritualizzate o comunque estremamente limitate (Dennen 1995). Il diverso comportamento delle società sedentarie e maggiormente segmentate è documentato dalla stessa Bibbia, nella quale si fa riferimento al pacifico Abele, un raccoglitore-cacciatore, che viene ucciso dall’aggressivo fratello Caino, un agricoltore e “costruttore di città” (Genesi, 4, 1-17). Se, a differenza della caccia, la guerra è apparsa solo in epoca tarda, l’idea che l’uomo abbia sempre vissuto in un endemico stato di guerra e pericolo è quindi erronea. Solo le società più recenti hanno conosciuto la guerra ed hanno adattato in senso militare simboli e rituali che avevano una significato cosmologico e metafisico talvolta del tutto diverso. Il caso della svastica utilizzata dai nazisti è uno di quelli. Allo stesso tempo vi erano in passato “armi” che avevano un significato simbolico e non pratico, come per esempio le asce votive. In quella rinvenuta nel 1846 nei pressi del Santuario della Madonna del Pettoruto di San Sosti, in Calabria, e conservata dal 1884 al British Museum di Londra e si legge infatti: Sono proprietà sacra di Hera (sorella e moglie di Zeus) della pianura: donata da Kiniskos, il macellaio, come decima delle sue opere. Dal punto di vista tradizionale la guerra appare come la soluzione estrema diretta contro coloro che turbano l’ordine ed ha il solo scopo di ripristinarlo, presentandosi quindi come uno degli aspetti della “giustizia” a cui lo stesso simbolo della spada fa riferimento (Guènon 1962, 165 sgg.). Anche nella Bibbia il primo significato simbolico riferito alla spada è quello di strumento di custodia della conoscenza: Così Egli scacciò l'uomo e pose a Oriente del giardino d'Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell'albero della vita (Genesi 3,24). Nel momento in cui le società hanno conosciuto un grado sempre maggiore di disordine e di violenza si è palesata la necessita rituale di un ritorno all’ordine attraverso la guerra. Per questo la stessa guerra era ritualizzata e per questo la rappresentazione della violenza sociale cui si assiste oggi nelle società mediatizzate implica la necessità di un riequilibrio. Nelle società pacifiche, infatti, la guerra è in genere sostituita da azioni simboliche equivalenti. I Moriori, per esempio, sono un popolo della Polinesia che si è stabilito nelle isole Chatham intorno al 1500 d. C. A seguito di un conflitto intertribale, il loro antenato Nunuku-whenua avrebbe stabilito l’abolizione della guerra, del cannibalismo e di ogni altra forma di uccisione. L’unica forma permessa era un combattimento rituale con sottili bastoni, che doveva terminare

85 alla prima ferita (Endicott 2013). I Moriori hanno rischiato di scomparire a seguito dell’invasione di popoli Maori nel 1835, cui non hanno reagito con la forza, e recentemente hanno rinnovato il loro impegno in favore di una cultura pacifica (Berry 2005). L’avvento di una società della violenza mediatizzata implica quindi la necessità di un continuo richiamo all’ordine attraverso la guerra verso l’esterno, la repressione interna o quanto meno lo spostamento del conflitto sul piano del gioco rituale. La guerra in una certo senso può essere presentata come la soluzione alla violenza. Questo spiega in parte lo stato endemico di guerra endemica in cui versa il mondo attuale. La guerra pubblicitaria riveste una significativa importanza simbolica poiché colloca il consumo all’interno dell’ordine rituale complessivo. Attraverso la guerra commerciale il consumismo diventa un modo per contrastare la violenza mediatica, una sorta di estrema terapia ai mali sociali. Il primo marchio a “scendere in guerra” negli anni Settanta sarebbe stata la American Motors Corporation (AMC) che lanciava una campagna in favore della sua Javelin (che forse non a caso significa “Giavellotto”), contro la Mustang (tipico “Cavallo” americano) della Ford arrivando a comparare direttamente i due modelli. Ma in realtà altre campagne precedenti avevano in qualche modo fatto riferimento a un linguaggio “militare”. Come per esempio la Pepsi, che nel 1964 aveva lanciato un headline che riecheggiava gli slogan propagandistici della grande guerra: Svegliati! Sei nella generazione Pepsi! Lo spirito competitivo era nell’aria ed emergeva all’interno dello stesso linguaggio pubblicitario. Come nel caso della campagna What becomes a legend most? (Chi diventa più leggenda?), iniziata dalla Blackglama nel 1968, azienda che allevava i visoni omonimi della zona dei Grandi Laghi americani, con il caratteristico manto nero lucido quasi rasato. I testimonial erano attori e personaggi famosi dello spettacolo e tra loro e le pellicce veniva così inscenata una sorta di gara leggendaria: Rita Hayworth, Lauren Bacall, Judy Garland, Rudolph Nureyev, Maria Callas, Barbara Stanwyck, Joan Crawford, Marlene Dietrich, Pearl Bailey, Lena Horne, Ethel Merman, Carol Channing, Leontyne Price, Ray Charles, ecc. Alla campagna generazione Pepsi, la Coca Cola rispondeva solo nel 1969, con uno slogan che faceva riferimento alla concorrente in modo sottile- It's the real thing (È la cosa reale) - come a dire “noi facciamo fatti e non parole”. Quanto bastava per spingere la Pepsi a intraprendere una delle più grandi campagne pubblicitarie “militari” di sempre nei confronti del diretto concorrente, la Coca Cola. In questa guerra un ruolo di primo piano sarebbe stato giocato da una delle figure di riferimento dell’imprenditoria del XX secolo, John Sculley, diventato nel 1970 vicepresidente della Pepsi appena tre anni dopo essere entrato in azienda come tirocinante. La Pepsi allora era diffusa a macchia di leopardo sul territorio americano. Se voleva espandersi ulteriormente doveva intaccare la posizione dominante della Coca Cola. Mentre il presidente dell’azienda, Donald M. Kendall, portava avanti un piano aggressivo di innovazione industriale basato sull’introduzione di nuove bevande, sul packaging e sull’espansione in America ma anche all’estero, John Sculley metteva a punto una delle maggiori e più dure campagne comparative di tutti i tempi: Pepsi Challenge.

86 La campagna verteva su di Table III.1 un blind test realizzato in National Carbonated Soft Drink Consumption and Shares of Big 5 Brand Groups centri commerciali e YEAR VOLUME/ COKE % PEPSI % 7UP % RC % DP % SHARE of college americani in cui il BIG 5

1900 39 n.a. n.a. n.a. pubblico veniva invitato a 1930 253 40-60% n.a. n.a. n.a. n.a. scegliere la bevanda 1940 550 53.0% 10.8% 10.6% n.a. n.a. gassata preferita sulla base 1950 990 48.0% 12.8% 11.6% n.a. n.a.

1960 1477 37.2% 18.1% 12.1% 5-8% n.a. di un sorso. La Pepsi,

1970 2971/ 35.0% 23.6% 7.1% 5.8% 3.1% leggermente più dolce della 74.6% Coca Cola di norma 1975 3633/ 35.4% 24.5% 7.7% 5.1% 4.5% 77.2% risultava vincitrice. La 1980 4930/ 35.9% 27.7% 6.4% 4.0% 6.0% 80.0% campagna venne collaudata 1985 6385/ 39.5% 30.3% 5.8% 3.1% 4.5% 83.2% prima in Texas, dove la 1990 7780/ 41.1% 32.4% 3.9% 2.6% 5.2% Pepsi risultava indietro 85.2%

1995 8970/ 42.3% 30.9% 3.3% 2.0% 6.8% nelle vendite anche rispetto 85.3% alla Dr Pepper, quindi in 1998 (Est.) 9880/ 44.5% 31.4% 2.9% 1.3% 7.1% 87.2% Michigan e a New York, Notes: Entries for 1900 through 1960 are from Greer (1968 Chapter 5). Entries for 1970 through 1980 are from Maxwell (1994). Entries for 1985 through 1998 are from the 1999 Beverage Digest Fact Book pp. 90-97. dove veniva accompagnata “n.a.” here and in subsequent tables means the data were not available. Industry volume is always in millions of cases. While the 1985 through 1998 figures are based on 192 oz cases and cover all distribution channels, it is da sei spot televisivi girati not clear how the earlier figures were calculated. dalla BBDO con la tecnica dellaconcentrate telecamera level with nascosta. shares as La high tagline as 60%. era Following una chiara the war, sfida the concentratelanciata ai industry consumatori di Coca-Cola.

evolvedCoca-Cola into a near-duopoly, drinker let with your PepsiCo taste brandsdecide. gaining Take share the Pepsiwhile Coca-Cola’s challenge. share

declined.Nel 1970 During l’americano the 1980s and medio 1990s, consumavaCoca-Cola regained circa part23 ofgalloni its earlier (87 lead, litri) but di not bevande at the gassate all’anno, che a loro voltaexpense rappresentavano of PepsiCo. Since le World bevande War II, più Seven-Up diffuse and dell’epoca, Royal Crown più generally della lostbirra share, di cuiwhile si consumavano “solo” 70 litri pro capite (Smith e Skalnik 1995), del latte dei succhi di frutta, ecc. A loro volta cinque marchi dominavano 34 il mercato delle bevande gassate con il 77,2% nel 1975. La Coca Cola era il marchio dominante con il 35,4%, seguita dalla Pepsi con il 24,5%, dalla 7up con il 7,7%, dalla Royal Cola con il 5,1% e dalla Dr Pepper con il 4,5%. Le quote delle aziende non contendenti si sono progressivamente assottigliate. La Coca Cola e la Pepsi, insieme, rappresentavano il 58,6%% del mercato delle bevande gasate nel 1970, ma crescevano al 63,6% nel 1980 e addirittura al 73,5% nel 1990, quando il consumo pro capite annuo di bevande gassate arrivava a circa 48 galloni l’anno (più di 180 litri, in pratica una media di mezzo litro al giorno). Nello steso anno, per fare un esempio, il consumo di acqua minerale annuo pro capite non arrivava ai 10 galloni, meno di 38 litri (Accuval 2010). La campagna Pepsi Challenge permise alla Pepsi di erodere, almeno momentaneamente, anche le quote di mercato della Coca, in particolare per quanto riguarda le vendite nei food store, i negozi alimentari, dove fece segnare per la prima volta un vantaggio dell’1,4% sulla diretta concorrente (Yoffie e Wang 2009).

87 La guerra della Cola avrebbe avuto anche altre conseguenze sul piano commerciale. Le aziende sarebbero state particolarmente sensibili anche ai minimi cambiamenti nei gusti del pubblico, al punto di introdurre nuove bevande e un numero incredibilmente elevato di nuovi packaging. Nel corso degli anni Ottanta la Coca Cola avrebbe introdotto 11 nuovi prodotti, come la Coca senza caffeina (1983) e la Cherry Cola (1985), cui avrebbe risposto la Pepsi con 13 prodotti, come Lemon-Lime Slice (1984) e la Pepsi-Cola senza caffeina (1987). La battaglia si sarebbe spostata anche nei supermercati, per la conquista degli spazi, anche attraverso continue politiche di sconti. Coca e Pepsi non erano le sole aziende a scontrarsi. Nel 1977 la Procter & Gamble lanciava una campagna a favore del proprio Scope contro il collutorio Listerine prodotto dalla Warner-Lambert. In questo caso l’accusa, non del tutto ingiustificata, era che la Listerine sapeva di medicina. Lo stesso anno la McNeil, del gruppo Johnson & Johnson, avrebbe lanciato una campagna a favore del suo Tylenol, contro l’Aspirina, portando la Bayer a replicare con una contro-campagna dall’headline altrettanto aggressivo: Makers of Tylenol, shame on you! Tylenol ads could fool people! Produttori del Tylenol vergognatevi! La pubblicità del Tylenol può ingannare la gente! Nel 1983 John Sculley diventava amministratore delegato della Apple, carica che avrebbe conservato per un decennio, portandovi le stesse tecniche aggressive elaborate dalla Pepsi. Nel frattempo Steve Jobs aveva messo a punto il Macintosh, che venne presentato nel 1984 con uno spot trasmesso durante il Super Bowl. La pubblicità si basava sulle immagini del film 1984, tratto dal romanzo omonimo di George Orwell e alludeva alla IBM come al Grande Fratello. La Apple, invece, era rappresentata da una giovane atleta “rivoluzionaria” che, inseguita dai reparti antisommossa della polizia, faceva irruzione nella sala cinematografica dove si trasmettevano le immagini del Grande Fratello, lanciando un martello contro lo schermo. La tagline era la seguente: On January 24, Apple Computer will introduce Macintosh. And you'll see why 1984 won't be like “1984”. Il 24 gennaio Apple Computer presenterà il Macintosh. E vedrete perché il 1984 non sarà come “1984”. La rivoluzione alludeva all’interfaccia grafica (GUI) introdotta dal Macintosh e che avrebbe permesso anche agli utenti meno esperti di utilizzare il computer. La campagna segnava un decennio di enorme espansione dell’azienda: con John Sculley la Apple sarebbe passata da $ 800 milioni a $ 8 miliardi di vendite all’anno. La guerra pubblicitaria non poteva lasciar fuori anche il lucrativo settore alimentare. Wendy’s era una catena di fast food fondata nel 1969, conosciuta per i suoi hamburger quadrati. Nel 1984 lanciò una vasta campagna contro i suoi maggiori competitori, McDonald’s e Burger Kings, che comprendeva la presentazione del nuovo Light Menu e del Salad Bar, prima catena di fast food a dotarsene. Uno degli spot televisivi, invece, era incentrato su tre vecchiette alle prese con un panino. Dopo averne vantato le grandi dimensioni si accingevano ad aprirlo scoprendo che conteneva un piccolo hamburger rotondo. A quel punto una vecchietta pronunciava la frase che sarebbe diventata uno degli headline più famosi d’America, un vero e proprio tormentone: Where is the beef? Dov’è la carne?

88 L‘idea vincente dello spot era quello di avere delle anziane signore come protagoniste, le quali rappresentavano così la buona, vecchia saggezza popolare che smascherava e sbeffeggiava le astuzie del consumismo moderno. Lo spot, scritto da Cliff Freeman, era girato da Joe Sedelmaier, uno dei migliori registi commerciali, per conto dell’agenzia Dancer Fitzgerald Sample, avrebbe giocato un ruolo anche nelle primarie politiche della primavera di quell’anno, quando il candidato democratico Walter Mondale, usò il tormentone per indicare che gli argomenti del suo rivale, il senatore repubblicano Gary Hart, erano “senza carne”, del tutto inconsistenti. Talvolta le campagne comparative portavano a effetti collaterali e vertenze legali, come nel caso del rasoio Flexmatic della Schick affrontato dal National Advertising Review Board (NARB). La campagna televisiva del 1974 portava a ritenere che il Flexmatic fosse migliori ai rasoi di ditte concorrenti con le Remington e la Sunbim. Quantunque il prodotto avesse in realtà prestazioni superiori, la NARB ritenne la campagna per certi aspetti fuorviante. I problemi giuridici, comunque, non avrebbero frenato la tendenza alla competizione, anche alla luce di una progressiva deregolamentazione del settore, tanto che all’inizio degli anni Novanta si stimava che dal 30% al 40% di tutte le pubblicità in America fossero presenti elementi di comparative advertising (Donthu 1998).

89 BENEFICARE

Come la maggior parte dei popoli nel pieno dell’industrialismo gli americani non avevano molto senso della tutela dell’ambiente. In una puntata della serie Mad Men si vede distintamente la moglie del protagonista scuotere la tovaglia per rovesciare sul prato i resti di un pic nic in un parco per il resto immacolato (secondo anno, A Night to Remember, Una serata indimenticabile). Doveva essere un comportamento abbastanza frequente, che si era ulteriormente evidenziato da quando nel 1956 era iniziata la costruzione dell’Interstate Highway System, il sistema autostradale americano, completato in 35 anni per un totale di più di 46.000 miglia, (quasi 75.000 chilometri). Interminabili nastri d’asfalto sventravano lo spazio urbano e rurale americano, accompagnati da un pattume istigato dal consumismo dei vuoti a perdere e del packaging usa e getta. Ce n’era abbastanza per smuovere le coscienze e stimolare una reazione ambientalista e anticonsumista. Il settore non profit americano è sempre stato molto importante. Oltre alle molte chiese e organizzazioni caritatevoli, ne fanno parte anche ospedali, istituzioni scolastiche e università. Il loro sviluppo però è stato notevolissimo a partire dagli anni Sessanta, quando si è passati velocemente dalle poco più di 200.000 organizzazioni a circa 400.000 nel 1969, fino a superare le 800.000 nel 1980, e 1,2 milioni vent’anni dopo, alle soglie del nuovo secolo (Burke 2001). Anche se l’ispirazione sociale poteva non sembrare congruente con le moderne strategie di comunicazione, in realtà il muro tra organizzazioni non profit e multinazionali era destinato a rompersi molto presto e in modo decisamente originali. Senza considerare le campagne sviluppate durante la guerra, una delle prime grandi campagne pubblicitarie di portata nazionale e di ispirazione sociale e ambientalista risale al 1971. Curiosamente non aveva il solito volto dell’americano “bianco” medio, ma quello di Iron Eyes Cody, al secolo Espera Oscar de Corti (1904 -1999), attore di origini siciliane destinato a interpretare per sessant’anni le parti dell’indiano in oltre 200 pellicole cinematografiche. Le immagini lo mostrano mentre pagaia tranquillamente in un piroga sul fiume. Sembra una scena di un film western, fino a quando, però, si vedono rifiuti galleggiare sull’acqua. Il campo si allarga e così si capisce che la piroga è nel mezzo di un porto industriale. La piroga arriva finalmente a riva, ma lo scenario non cambia e i rifiuti sono ovunque. Nel frattempo la voce fuori campo ricorda che ci sono persone che hanno rispetto per le bellezze della natura del loro paese, ma che altre non ce l’hanno. Improvvisamente le immagini inquadrano il nastro di asfalto dell’autostrada con gli automobilisti che gettano rifiuti dalle macchine in corsa. L’immondizia arriva fino ai piedi dell’indiano mentre sul volto dell’uomo, in primissimo piano, si vede scendere una lacrima. Da allora Iron Cody sarà ricordato come Crying Indian. Sulle immagini dell’”Indiano piangente”, la voce recita: People Start Pollution. People can stop it La gente ha iniziato a inquinare, la gente può smettere. Creato dalla agenzia Marstellar per conto della Keep America Beautiful e diffuso per la prima volta nell’Earth Day, il Giorno della Terra del 22 aprile 1971, lo spot sarebbe diventato famosissimo entrando

90 nell’elenco delle 100 campagne più famose stilato da Advertising Age, nota anche col nome abbreviato in Ad Age, una delle più autorevoli riviste dedicate al mondo della pubblicità. Fin tutto semplice: una associazione ambientalista committente, una agenzia pubblicitaria benefattrice e un famoso attore siciliano che fa l’indiano. Ad un’analisi più approfondita, però, emergono aspetti che complicano il quadro iniziale. In primo luogo, l’associazione Keep America Beautiful (KAB) merita una approfondimento. Fondata nel 1953, ha presto raggiunto dimensioni così ragguardevoli che la pongono come maggiore associazione senza fine di lucro americana, con 589 organizzazioni affiliate e più di 1.000 comunità che partecipano ai suoi programmi. snodo di partnership pubblico/privati, si occupa di verde pubblico, controllo dei rifiuti e riciclo. Tuttavia, tra i suoi fondatori si ritrovano una serie di multinazionali che non rappresentano ciò che potrebbe essere definita l’essenza “verde” del pianeta: Pepsi Cola, Coca-Cola, Philip Morris, Waste Management, Anheuser-Busch, Georgia-Pacific, Home Depot, McDonald's. Il responsabile delle pubbliche reazione della KAB era Howard Chase (1910-2003) cui si deve il termine issue management (gestione dei problemi) e che sarebbe stato fondatore dell’Issue Management Association (attualmente Issue Management Council). Le ragioni della fondazione della KAB sono un esempio delle insondabili complessità delle moderne strategie di comunicazione. Tutto parte dalla grandi corporations alle prese con la sempre più concreta possibilità di una legislazione a favore dei contenitori “vuoti a rendere”. Preoccupate dalla nascita dei movimenti ambientalisti e dalla possibilità di legislazioni che ponessero un limite all’utilizzo dei “vuoti a perdere”, le aziende di birra e bevande gassate hanno deciso di creare una associazione dedita alla sensibilizzazione contro il littering (il malcostume di gettare i rifiuti nelle aree pubbliche invece che negli appositi bidoni o cestini dell’immondizia) e a favore della raccolta dei rifiuti. In questo modo riuscivano a prendere due piccioni con una fava: favorivano il business di bottiglie e lattine, le quali inequivocabilmente riempivano il mondo di scorie, e parallelamente promuovevano quello dei rifiuti. Secondo gli stessi dati della KAB, in America all’inizio del XXI secolo si producono 251,3 milioni di tonnellate di spazzatura all’anno, il triplo che negli anni Sessanta, comprese 60 milioni di bottiglie di plastica al giorno. In alcuni Stati, tuttavia, si sono varate legislazioni per contenere il littering e stimolare una rete di bottiglie a rendere, dietro un modico deposito di 5 cent, come The Beverage Container Act ratificato dall’Oregon nel 1971. Le bottiglie di birra e di bevande gassate erano così sottoposte a un servizio di rimborso del deposito, diffuso per tutto il territorio e sempre più efficiente e specializzato, in grado di evitare la dispersione di oltre il 70% del metallo e del vetro e di più del 50% della plastica. Un anno dopo, una commissione verificò che la legislazione era stata un successo, riducendo del 35% il littering e il consumo di bottiglie di 385 milioni. La reazione della KAB fu di inviare il proprio presidente, Roger Powers, a Sacramento, in California, per impedire che una legislazione analoga fosse approvata in quel popoloso stato (Heather 2006). Le stessa campagne della KAB rappresentano un modo alternativo e meno evidente di opporsi a legislazioni restrittive dell’azione delle corporations, per le quali, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, vi è stata una grande mobilitazione. Per questo Greenpace inserisce la KAB nel suo archivio dell’anti-ambientalismo.

91 Gli anni Settanta corrispondevano anche il rilancio dell’azione organizzata delle corporations. La National Association of Manifactures fu rinnovata e rilanciata. Nel 1972 venne creata anche la Business Roundtable, della quale facevano parte gli amministratori delegati di circa 200 primarie aziende e che risultò particolarmente attiva nell’opporsi a legislazioni ambientaliste e a tutela dei consumatori. Lobbisti aziendali cominciarono a popolare Washington: le loro rappresentanze nella capitale erano 175 nel 1971, sarebbero divenute 2.445 nel 1982 (Beder 1997). Tornando alle “lacrime dell’indiano”, va notato anche che KAB lavorava sin dal 1961 con Advertising Council sul progetto di una campagna che scongiurasse le norme per il riutilizzo dei contenitori di bevande. L’Ad Council rappresenta quella che è stata definita dai suoi stessi rappresentanti come la rivoluzione silenziosa nel pensiero commerciale americano. Le premesse sono da ritrovarsi nel difficile rapporto tra industria dell’advertising da una parte e governo e cittadini americani dall’altro alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. La lunga depressione aveva diminuito gli investimenti pubblicitari e aveva reso la popolazione sospettosa verso i profitti degli industriali, che il New Deal aveva teso a limitare e controllare. Le difficoltà sortirono l’effetto di compattare il mondo dell’industria e della comunicazione come mai prima dall’ora era probabilmente successo. Nel novembre del 1941 si riunirono a Hot Springs, Virginia, 700 dirigenti industriali su invito del National Advertisers e della American Association of Advertising Agencies. Fu un incontro utile per elaborare strategie di lungo raggio, a cui parteciparono tutti i sostenitori della “Libera impresa”. L’intervento di James W. Young, della J. Walter Thompson, fu particolarmente significativo. We have within our hands the greatest aggregate means of mass education and persuasion the world has ever seen - namely, the channels of advertising communication. We have the masters of the techniques of using these channels. We have power. Why do we not use it? (Griffith 1983, 390). La mossa dei professionisti della comunicazione fu quella di tendere la mano al governo creando una struttura per promuovere gratuitamente o quasi le campagne governative, che a quell’epoca mirano soprattutto alla vendita di bond di guerra. Nasceva così, nel marzo 1942, il War Advertising Council. Ne fanno parte sei organizzazioni nazionali, in pratica tutto il sistema della comunicazione pubblicitaria statunitense: Association of National Advertisers, American Association of Advertising Agencies, National Publishers Association, Bureau of Advertising of the American Newspaper Publishers Association, National Association of Broadcasters, Outdoor Advertising Association of America. Altre 19 organizzazioni di carattere regionale contribuiscono a formare il consiglio di amministrazione di 52 membri, che riunisce i rappresentanti di agenzie di pubblicità, giornali, radio e circuiti di affissioni (Pimlott 1948). Dopo la guerra, con la benedizione di Roosevelt, il War Advertising Council cambiava il nome in Adverstising Council, continuando ad avere il monopolio della comunicazione sociale governativa. Il meccanismo interno è chiaro: possono essere comunicate le campagne approvate da atti del Congresso o che siano ratificate dai tre-quarti del Public Policy Committee, un organismo dell’Ad Council nel quale sedevano personalità di alto profilo come: James B. Conant (1893-1978) presidente di Harvard, George Gallup, di cui si è già detto, Alan Gregg (1890-1957) della immancabile Rockfeller Foundation, Clarence Francis (1888

92 -1985) presidente General Foods Corporation, Helen Hall direttrice delle case popolari Henry Street Settlement, Chester C. Davis, governatore della Federal Reserve dal 1936 al 1941, Kermit Eby del Congresso delle Organizzazioni Industriali, Paul Hoffmann della società automobilistica Studebaker, Herbert Lehman, Eugene Isaac Meyer (1875-1959), editore del Washington Post, Karl Paul Reinhold Niebuhr (1892-1971) teologo protestante, Olive Clapper, moglie di Raymond Clapper (1892-1944), uno dei più importanti corrispondenti da Washington e infine George Nauman Shuster (1894-1977), presidente dell’Hunter College. Presidente del Comitato era Evans Clark del think tank Twentieth Century Fund, (oggi The Century Foundation (Stole 2012, 244). Tra febbraio 1946 e lo stesso periodo del 1947, l’Ad Council mise a disposizione del governo federale l’equivalente di 80 milioni di dollari spazi e tempi pubblicitari, mentre altri 20 milioni erano destinati a campagne sociali non governative: 135 inserzionisti nazionali e in pratica ogni emittente radio aveva aderito agli inviti dell’Ad Council. Nello stesso periodo le campagne maggiormente diffuse erano state, nell’ordine, Stop Accidents (sulla sicurezza nelle strade), Savings Bonds (acquisto obbligazioni governative), Student Nurses (reclutamento di nuove infermiere), Crisis in Schools (costruzione nuove scuole) e Croce Rossa Americana (Pimlott 1948). Da notare che alcune delle campagne sembrano essere direttamente collegate anche alle attività dell’Hunter College, nel quale si trovano la Roosevelt House (oggi Roosevelt House Public Policy Institute), una scuola per infermiere (Hunter-Bellevue School of Nursing) e una scuola per il lavoro sociale. L’azione dell’Ad Council permise così ai fautori americani del consumismo di ribaltare una situazione che all’inizio della guerra li vedeva decisamente favoriti, conquistando la fiducia del governo e mettendo le premesse per un rapporto diverso anche con il pubblico. Come abbiamo già visto, gli anni Sessanta furono un periodo turbolento. La guerra in Vietnam, le tensioni razziali, i movimenti giovanili avevano innescato una forte pressione verso il governo richiedendo nuove libertà e nuove tutele da parte dei cittadini. Già erano state varate le prime leggi ambientaliste ed erano stati mossi i primi passi verso un rafforzamento delle politiche sociali. Piuttosto che contrastare con decisione queste tendenze, come avrebbe voluto l’ala più radicale delle corporations, le campagne dell’Advertising Council erano un modo per incanalare queste energie in una direzione che non potesse nuocere al mondo economico. Le campagne più significative iniziate negli anni Settanta dirette dall’Ad Council sono di grande richiamo comunicativo, ma alcune di esse sono di poco o a volte nulla utilità pratica o quanto meno svianti. Loro caratteristica è anche quella di essere di lunga durata, a volte trentennale. La campagna United Negro College Fund, creata nel 1972 dalla Young & Rubicam, con lo slogan A Mind is a Terrible Thing To Waste, per esempio, era destinata a raccogliere fondi per la scolarizzazione dei minori afroamericani senza possibilità economiche. Si trattava di un’azione che tendeva a stemperare le tensioni razziali che erano diventate laceranti. In molti stati, anche quelli più popolosi, vigeva il doppio sistema scolastico, con scuole per bianchi e per neri separate. La prima decisione della Corte Suprema per l’abolizione della segregazione risale al 1954, ma nella pratica il doppio regime scolastico sarebbe continuato fino a un nuovo e definitivo intervento della magistratura nel 1968 (Green v. County School Board of New Kent County, 391 US 430). Di fatto però, il processo di desegregazione fu

93 estremamente lento e controverso. Alcuni stati si opposero, per esempio, alla diffusione del servizio di autobus per portare i neri nelle scuole di bianchi e viceversa, dato che ormai, con la creazione dei sobborghi, una segregazione urbanistica si era realizzata di fatto. La situazione non migliorò molto con la presidenza di Ronal Reagan, iniziata nel 1980. Durante il suo mandato, secondo il Center on Budget and Policy Properties di Washington, un terzo degli afroamericani - e 45,6% dei bambini neri, viveva sotto la soglia di povertà. L’idea di un programma che salvava le “menti” migliori era in linea con la politica dei conservatori, ma era del tutto irrilevante a livello sociale dato che il programma coinvolgeva una media di 6.500 studenti all’anno, su di una popolazione di afro americani cresciuta dai 22 milioni del 1970 ai 34 del 2000. D’altra parte, lo slogan sollevava problemi etici non indifferenti. Chi sceglieva le menti migliori? E poi migliori in cosa? Mentre che ne si faceva delle menti “peggiori”? Poteva essere giusta la loro esclusione? Se United Negro College Fund potrebbe essere definita una campagna forse utile ma fuorviante, ancora meno concrete e fuorvianti sono state, invece, campagne come Child Abuse Prevention (1976 - 2003) e Crime Prevention - McGruff the Crime Dog (1979 - 2006). (continua).

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