La Nascita Dell'advertising.61
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GIANPIERO VINCENZO LA NASCITA DELL’ADVERTISING STORIA SOCIALE DELLA COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA AMERICANA 1 Premessa: distruggere e ricostruire 3 Parole nuove 6 Patent Medicine 11 Fotografie 19 Terapeutica sociale 23 Nuovi media 29 L’automobile 33 Fermarsi 38 Colpire 43 Guerreggiare 49 Sognare 53 Sedurre 58 Antropologia del consumo 62 Scienza e creatività 67 Ridimensionare 74 Rivaleggiare 82 Beneficare 90 Bibliografia 95 versione 26 gennaio 2020 versione corretta fino a pag. 61 2 PREMESSA: DISTRUGGERE E RICOSTRUIRE Intorno al dicembre 1910 il carattere umano è cambiato […] Tutte le relazioni umane sono mutate – quelle tra padroni e servi, mariti e mogli, genitori e figli. E quando le relazioni umane cambiano, c’è un contemporaneo cambiamento nella religione, nel comportamento, nella politica, e nella letteratura. […] E così si è iniziato a fracassare e a distruggere. È ciò che sentiamo tutto intorno a noi, nelle poesie e nei romanzi e nelle biografie, perfino negli articoli di giornale e nei saggi, il rumore di cose rotte e cadenti, sfondate e distrutte. Queste frasi, in seguito pubblicate in un saggio dal titolo Mr Bennet and Mrs Brown, venivano pronunciate da Virginia Woolf il 18 maggio 1924 durante una conferenza all’Heretics Club di Cambridge in occasione di un incontro sul tema Personaggi nella narrativa contemporanea. L’Heretics Club non era un circolo accademico - oggi potrebbe essere definito un centro culturale “alternativo” - ma era comunque frequentato da alcune delle maggiori personalità del tempo come Bertrand Russell, John Maynard Keynes e George Bernard Shaw. Le riflessioni della Woolf permettevano di comprendere la frattura che attraversava non solo differenti generazioni di scrittori, ma un’intera epoca. Prima del 1910 o giù di lì, gli uomini erano visti attraverso la prospettiva del loro ruolo sociale, della loro casa, delle loro famiglie e amicizie. Erano ingranaggi di un meccanismo perfetto: lo Stato nazione. Col volgere del nuovo secolo, però, era sempre più evidente che la Seconda rivoluzione industriale aveva distrutto il vecchio ordine sociale senza ancora essere riuscita a costruirne uno nuovo. Il razionalismo ottocentesco non era riuscito a definire un nuovo carattere umano. Aveva tracciato i lineamenti di un uomo sempre più indipendente e isolato dai suoi coinvolgimenti sociali, concentrato sulla sua dimensione intima, alla ricerca della sorgente della propria vitalità. Ma questo nuovo uomo non era ancora stato trovato. Ciò che si vedeva invece erano le macerie del mondo precedente, quello che era stato “fracassato e distrutto”. I migliori scrittori del XX secolo ancora stavano affilando le armi, ma erano alle prese con una sperimentazione narrativa che non era ancora riuscita a mettere a fuoco questo nuovo tipo di uomo, questo novello Adamo. Per i scrittori si trattava di superare le considerazioni sulla natura sociale dei personaggi, sui trascorsi della loro famiglia, sulle loro condizioni economiche e geografiche. Si pensava che il nuovo uomo potesse essere individuato attraverso la sua profondità interiore, i suoi sentimenti intimi, le tracce emotive che ogni aspetto della vita poteva aver contribuito a depositare sul fondo della sua esistenza (Woolf 1924). Era come se si fosse arrivati alle estreme conseguenze di un lungo processo di individualizzazione e l’uomo fosse percepito nella sua assoluta distinzione e alterità da ogni cosa ed essere circostante. Il nuovo Adamo non poteva essere il superuomo di ispirazione nietzschiana, che comunque aveva ambizioni di potenza sulla storia e sul mondo. Secondo Virginia Wolf anche una semplice Signora Brown poteva essere l’alfiere inconsapevole di questa rivoluzione tanto strisciante quanto in gran parte inespressa. E poteva dar 3 forma a un’idea o, piuttosto, a una mentalità ancora incapace di mostrarsi nella sua interezza, al di fuori di una serie di ipotesi. Insomma, così come la Woolf aveva lasciato quella Signora Brown sulla carrozza di un treno in viaggio da Richmond a Waterloo, anche il nuovo uomo era per il momento abbandonato a se stesso, ai suoi dilemmi, alle sue espressioni enigmatiche, alle incertezze del suo destino. A parte la ferrea convinzione che il futuro sarebbe stato nelle sue mani o quanto meno di coloro che si sarebbero presi cura di lui. Il positivismo persisteva nelle trame della nuova filosofia dominante. La vita moderna aveva provocato la fine del vecchio uomo e aveva innescato la nascita di quello nuovo. Secondo Georg Simmel, uno dei sociologi più “visionari” dell’inizio del XX secolo, era stata la vita metropolitana a cambiare l’uomo moderno e a costringerlo a un vitalismo irriducibile alle vecchie forme e definizioni (Simmel 1903). Molti tra i più attenti intellettuali si sarebbero trovati in difficoltà, condannati a brancolare alla cieca nel tentativo di trovare le ragioni di una realtà sempre nuova e sfuggente. Di questo nuovo uomo e del suo irriducibile vitalismo, però, si sarebbe fatta interprete una nuova forma di comunicazione destinata ad assumere rapidamente un ruolo di primissimo piano sulla scena planetaria: la pubblicità. Era la pubblicità che avrebbe scoperto che questo nuovo uomo anelava nuovi simboli e valori, nuove forme di azioni e relazioni sociali, un nuovo mondo. Il positivismo ottocentesco si preparava ad evolvere nel consumismo novecentesco, nella nuova mitologia del consumo. Negli Stati Uniti, più che in ogni altra nazione, la comunicazione pubblicitaria avrebbe conosciuto una fortuna clamorosa. Presto si sarebbe guadagnata un ruolo sociale del tutto inaspettato, ma di sicuro rilievo, quello di individuare un nuovo uomo, il soggetto della nuova civiltà dei consumi. Non lo avrebbe trovato subito, ma di sicuro si sarebbe messa sulle sue tracce con indomita perseveranza. Gli si sarebbe rivolta direttamente, senza mediazione di strutture sociali, in modo di essere ascoltata senza indugi. Per farlo avrebbe fatto leva sulla capacità metaforica e simbolica della parola e delle immagini. Come quella dello Zio Sam, non un personaggio qualunque, ma la personificazione di un intero paese. Mentre in Europa si sarebbero sperimentate le dittature di massa, la comunicazione pubblicitaria americana avrebbe scoperto la possibilità di creare nuovi simboli e di stimolare nuovi comportamenti sociali in maniera del tutto slegata dal nazionalismo. Per questo questo il XX secolo si annunciava come l”Era della Pubblicità”. Non si trattava solo della capacita di mostrare nuovi prodotti, quindi, ma piuttosto del privilegio di dominare una nuova civiltà, un nuovo ordine sociale destinato a durare più a lungo dello Stato nazione (McLuhan 1953). Se queste pagine riguardano in buona parte l’America, è perché proprio nel Nuovo Mondo il nuovo Adamo indicato da Virginia Woolf è stato individuato, cresciuto ed educato molto prima che nel resto del mondo. Solo a partire dal secondo dopoguerra il verbo della pubblicità si è cominciato a parlare correntemente anche negli altri paesi. La scrittrice inglese non è stata certo l’unica nel Vecchio continente ad avvertire i cambiamenti che erano nell’aria. Pochi anni prima della sua conferenza all’Heretics Club, il sociologo tedesco Georg Simmel nel 1918 pubblicava una conferenza dal titolo Il conflitto nella società moderna (Der Konflikt den modern Kultur, von Duncker & Humblot, Monaco), in cui anticipava quella che un giorno sarebbe stata definita 4 come la società “liquida”. Con il volgere del secolo il carattere informale della vita e del tempo metropolitano avevano preso il sopravvento su idee e forme astratte ottocentesche. Le metropoli erano divenute sedi di uno straordinario laboratorio sociale. In esse la sensibilità dell’uomo moderno si allontanava definitivamente dalla classicità e dal suo portato estetico e ideale. Così l’individualizzazione aveva preso il sopravvento sulla universalizzazione ed era venuto meno il senso dell’utopia sociale e del futuro. L’unicità e l’insostituibilità del singolo erano diventate metro di misura del suo valore. La stessa religione non sembrava in grado di sottrarsi al processo vitalistico ed era progressivamente sostituita dalla “religiosità”. Nasce l’impressione che questa vita possa procedere assolutamente senza forme che abbiano un proprio significato obbiettivo e il diritto di veder rispettate le proprie esigenze, e possa invece procedere lasciando semplicemente scorrere la sua forza come sprizza su dall’interno (Simmel 1918, 12). Da qui il carattere di un’epoca in cui la vita si sarebbe manifestata attraverso forme sempre mutevoli, che ogni volta sorgevano per essere distrutte dal processo vitalistico con il quale le forme stesse entravano subito in conflitto. Si apriva una fase storica all’insegna di quella che Simmel definiva come intensificazione della vita nervosa (Simmel 1903). Se il XIX secolo era quello del positivismo dogmatico, il XX secolo sarebbe stato quello del vitalismo e del consumismo. Vi sono state e vi saranno sempre resistenze a voler vedere nella pubblicità qualcosa di più di un semplice strumento per comunicare e vendere beni di consumo. Ma è innegabile che la pubblicità sia diventata nel corso del XX secolo un fattore culturale così rilevante, da non poter più essere analizzata con le sole categorie dell’estetica e dell’economia. Il nostro studio intende mettere in luce l’ambito simbolico nel quale la pubblicità si è mossa col passare del tempo e gli effetti che ne sono derivati, così come il sistema sociale del quale è divenuta un tassello fondamentale e le forme del biopotere che hanno cominciato a scandire i meccanismi di controllo e di mutamento. Per iniziare però occorre fare un passo indietro e vedere le radici ottocentesche della pubblicità americana. 5 PAROLE NUOVE In principio è stata la parola, o piuttosto l’headline, letteralmente “titolo di testa”, termine più tecnico e meno dichiarato di slogan, anglicizzazione di sluagh ghairm, il grido di guerra degli scozzesi. La pubblicità moderna comincia in sordina, con una semplice frase messa in evidenza. Tuttavia, è già l’inizio della rivoluzione, gli albori di una nuova capacità espressiva. Non è ancora la seconda oralità, quella dell’era dei media, cui farà riferimento lo storico gesuita americano Walter J. Ong nel suo “Oralità e scrittura” (1982), ma ci manca poco.