Il sistema dei partiti del New Deal (1930-1960)

La presidenza Wilson durò quindi dal 1912 al 1920-21 (due mandati), quando fu battuto dal repubblicano Harding. Abbiamo già visto come l’uscita di scena di Wilson, dopo la battuta d’arresto del suo progetto di pace, della sua visione dei rapporti internazionali, fosse ampiamente prevedibile, anche in considerazione del suo precario stato di salute. I repubblicani nel 1920 non avevano un candidato di spicco, Harding era tutto tranne che un candidato di spicco e tra le altre cose con una vita privata non del tutto irreprensibile, ciò che in America ha sempre la sua importanza. Da non sottovalutare che il ticket prevedeva come vice-presidente Calvin Coolidge, del Massachussets, che in qualità di governatore non aveva avuto remore nel ricorrere alla polizia per sedare uno sciopero a Boston, una scelta che era stata molto apprezzata dai suoi sostenitori. I democratici scelsero Cox e F.D. Roosevelt, che era stato assistente segretario alla marina sotto l’amministrazione Wilson. Cox e Roosevelt cercarono di focalizzare la loro campagna elettorale sulla Lega delle Nazioni, ma gli americani ne avevano abbastanza dei coinvolgimenti in Europa ed erano, al contrario, attratti dagli appelli di Harding per un “ritorno alla normalità” e al “prima l’America”. Le elezioni si risolsero con una vittoria schiacciante per i repubblicani, che ottennero la presidenza con 404 voti contro 127 e la maggioranza nei due rami del Congresso. La presidenza Harding, fedele alle promesse significò l’inizio di una fase di isolazionismo. La storiografia è pressoché concorde nell’affermare che con la presidenza Hardings si apre un ciclo caratterizzato da presidenze deboli, si è scritto di una eclissi della figura del presidente (temporary eclipse of presidency), a vantaggio del congresso, ovviamente. Harold Laski, uno storico inglese di matrice laburista, ha scritto a proposito della presidenza Hardings di «the era of conscious abdication from power».

Nel 1920 indubbiamente il paese era percorso da un grande antiwilsonismo e da un sentimento contrario al partito democratico, a rasentare quasi l’isteria. Harding era, come detto sopra, un personaggio oscuro, come disse un senatore di allora: “una volta eletto avrebbe firmato qualsiasi progetto di legge mandatogli dal Senato e da parte sua non avrebbe mandato in Senato nessun progetto di legge per l’approvazione”. Era eccessivamente retorico, ma di una retorica che aveva il solo obiettivo di non affrontare la realtà, che non conosceva. Uno storico americano, William Leuchtenburg, ha scritto che Harding era pateticamente cosciente della propria “inadeguatezza” -«I am not fit for this office and should never have been here», confessò una volta. Il suo appello per un “ritorno alla normalità” piacque comunque molto alla gente comune, anche se il candidato poteva sembrare poca cosa, ma piacque anche se rapportata alla “sbornia” wilsoninana. La vittoria dei Repubblicani fu sicuramente favorita dalla disillusione di Versailles e anche da una durissima recessione che si era abbattuta sul paese: si trattava di una nazione prostrata dall’intervento bellico, dalla incessante mobilitazione popolare, dal biennio di fuoco delle masse in piazza tra il 1919 e il 1920, dal caso di Sacco e Vanzetti, due operai anarchici italo-americani, accusati di omicidio e giustiziati senza prove certe sulla sedia elettrica.

Harding certamente non capì, inoltre, che il ruolo del Presidente si era enormemente trasformato, essendo ora il fulcro dell’azione politica e ciò a scapito del partito. Harding quindi andò controtendenza, cercando di restaurare l’autorità del partito: il Congresso percepì questa “abdicazione” e sostanzialmente tenne Harding in ostaggio. Questa abdicazione d’altronde era stata paradossalmente annunciata dallo stesso Harding quando nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione aveva affermato che a causa delle necessità generate dagli eventi bellici c’era stata una eccessiva crescita di autorità e concentrazione di potere nelle mani del potere esecutivo, alludendo evidentemente al governo Wilson. Cioè per il Congresso il ritorno alla normalità significò il ritorno al governo congressuale. Se guardiamo per esempio alla politica estera, ci accorgiamo come questa fosse saldamente nelle mani di una commissione senatoriale. Tuttavia, come vedremo, si tratta di un giudizio che deve essere lievemente corretto.

Intanto, non si può fare a meno di sottolineare la scelta degli uomini che Harding portò con sè al governo, che erano tutti di grande valore. Come segretario di stato agli affari esteri chiamò Charles Evans Hughes, che dette prova di grande capacità nella conferenza a nove sul disarmo navale in Estremo Oriente e che negoziò il trattato delle quattro potenze che nel 1902 mise fine all’alleanza anglo-giapponese. Insomma, Hughes era il vero factotum della politica estera di Harding, sebbene si trattasse di una politica estera di raccoglimento. Poi persuase il magnate industriale dell’alluminio Andrew Mellon a diventare segretario di stato al Tesoro. Mellon era un vero conservatore, molto capace, e come segretario all’agricoltura scelse un editore di una rivista del settore molto quotata dell’, Henry Wallace. Infine, e forse si tratta del nome più eclatante, come segretario al commercio volle , un ingegnere minerario di fama mondiale, che si era guadagnata una grande reputazione come membro dell’amministrazione di Woodrow Wilson, scatenando in questo caso le obiezioni del Republican Old Guard. La presenza di questo staff di uomini di valore stava a significare che non tutto era negativo nell’amministrazione Harding e che essa non era poi così ostile all’innovazione. Per esempio, favorì una legislazione contro il linciaggio, misure di aiuto agli agricoltori, cercò di regolare l’industria radiofonica, creò un Ente per i Veterani di guerra, promosse la creazione di un dipartimento per il Welfare e chiese al Congresso di approvare uno Sheppard-Towner Act per la protezione della saluta delle madri e dei bambini. Il provvedimento amministrativo più importante degli anni di Harding fu comunque la creazione nel 1920 del Bureau of Budget (un ufficio del bilancio), collocato nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Il Budget and Accounting Act del 1921 centralizzava il controllo della spesa dei dipartimenti federali nella Casa Bianca. Sino ad allora, il presidente degli Stati Uniti si trovava nella assurda posizione di non avere quasi alcuna autorità per allocare le spese del governo di cui era capo, così che i capi dei dipartimenti consideravano questi come dei loro feudi, con grave danno per il bilancio federale. Il regolamento del nuovo Bureau imponeva al presidente di procedere assieme ai capi di dipartimento nella individuazione delle spese per i differenti rami dell’amministrazione e sottoporre al Congresso tale bilancio con un messaggio di accompagnamento. Probabilmente lo stesso Harding non avrebbe mai immaginato che questo organo sarebbe un domani diventato il nucleo centrale dell’amministrazione federale. E così, quasi paradossalmente, un presidente che aveva inteso dare un così “low-profile” al proprio ruolo, alla fine dava un contributo fondamentale per l’esercizio complessivo del potere esecutivo.

In ogni caso, questo diverso “tono” della presidenza Harding era comunque evidente: «Dopo il periodo frenetico di T. Roosevelt e W. Wilson, gli anni di Harding sembravano gioiosamente tranquilli e DC sembrava una piacevole isola remota» (Leuchtenburg, p. 122). Tuttavia non tutte le scelte di Harding furono efficaci come nel caso di Hoover o Hughes, perché la sua amministrazione fu anche caratterizzata dalla presenza di soggetti non molto capaci e anche corrotti. Il più grande scandalo dell’amministrazione Harding riguardò infatti due membri del suo gabinetto: due mesi dopo l’Inauguration Day, il Segretario agli Interni Albert Fall convinse Harding a firmare un ordine esecutivo di trasferimento delle riserve di petrolio delle navi della marina americana dal Dipartimento della Marina a quello degli Interni. La motivazione fu che il Dipartimento degli Interni fosse più capace di proteggere quelle aree dove il petrolio poteva essere estratto solo in caso di emergenza. Una di queste riserve naturali era collocata nel Wyoming, in un posto chiamato Teapot Dome, dal nome delle rocce la cui forma ricordava quello del coperchio di una teiera. Una volta che Fall ebbe il controllo dell’area per lo sfruttamento petrolifero fece degli accordi segreti con due petrolieri, Edward Doheny and Harry Sinclair, due uomini a lui vicini, che gli pagarono una tangente in cambio dei diritti di trivellazione in quelle aree, che secondo la legge potevano essere sfruttate soltanto in caso di emergenza. L’inchiesta del Senato fu aperta sotto pressione di un petroliere, poi governatore democratico del Wyoming, e la commissione alla fine ottenne la confessione di Doheny, il quale ammise di aver pagato la tangente a Fall, dietro il quale, secondo l’accusa di Doheny, vi era il presidente Harding. Fall, accusato di avere ricevuto una enorme tangente, fu il primo funzionario governativo della storia della repubblica a finire in prigione per abuso in atti di ufficio. Si trattò del più grosso scandalo politico della storia americana (The Teapot Dome Scandal) prima del Watergate. Qualche anno dopo, in una commemorazione di Warren Harding in Ohio, Hoover disse che in quel caso il presidente aveva realizzato tardi che era stato tradito da pochi uomini di cui lui si fidava. In seguito, fu accertato che quegli uomini avevano tradito non soltanto un amico leale e fedele, ma anche il loro paese, «questa è stata la tragedia della vita di Warren Harding». Probabilmente pesò il suo legame molto stretto, che era un legame politico, con il mondo degli affari legati al petrolio: tanto è vero che Harding era stato raccomandato ai repubblicani da Harry Dougherty, un affarista dell’Ohio che rappresentava i grandi magnati del petrolio e che curò la sua campagna elettorale. Harding morì nel 1923 al ritorno di un viaggio in Alaska per una embolia cerebrale. Si dice che la morte fosse stata provocata da una somministrazione di veleno da parte della moglie, per la sua compromissione nello scandalo, ma si tratta di voci non provate.

Una breve riflessione di carattere sociale sugli anni Venti in America è doverosa: si trattava di un paese profondamente mutato rispetto agli inizi del secolo. Intanto, un censimento del 1920 rivelava che la maggior parte degli americani viveva ora nelle città o nelle periferie e non nelle fattorie: più di 13 milioni di persone avevano lasciato le campagne e si erano “inurbate”, ad eccezione del sud, che manteneva invece il suo volto tradizionalmente rurale e tra l’altro in una situazione di latente depressione economica. La miseria che caratterizzava le condizioni di vita della popolazione nera, a causa della discriminazione razziale, fu una delle ragioni della massiccia ondata migratoria verso nord alla ricerca di impiego nelle città industriali, caratterizzate invece da un vero boom economico, conseguenza della guerra (industria automobilistica, elettrificazione del paese, elettrodomestici, radiotrasmettitori, aeronautica). Nel 1917 era stato un introdotto un emendamento, ratificato nel 1919, il XVIII, che proibiva la produzione, vendita e trasporto di liquori inebrianti e così con il del 1920, inteso come un adempimento del XVIII emendamento, il proibizionismo ebbe la sua legge, sebbene molti americani continuarono tranquillamente a fare uso di alcolici, affidandosi ai contrabbandieri o addirittura producendoli da soli. Il proibizionismo fu ovviamente un grande affare per la criminalità (fu abolito da un Blaine Act soltanto nel 1933), così come non si può dimenticare che durante gli anni Venti ci fu una reviviscenza del Ku Klux Klan in tutto il Sud – era stato fondato tra il 1865 e il 1866 da alcuni ex ufficiali dell’esercito confederato - e poi anche verso il Nord. Isolazionismo, terrore del comunismo, xenofobia furono tratti salienti dell’America degli anni Venti: un First Immigration Quota Act del 1921, limitava il numero degli immigrati ammessi nel Paese.

E queste restrizioni si accentuarono con l’amministrazione Coolidge, altro repubblicano che successe ad Harding, che fece pressione sul congresso per una rettifica dell’Immigration Act dando vita a vere e proprie discriminazioni nei confronti di alcune nazionalità. Il 26 maggio 1924 venne infatti approvata una nuova legge che diminuiva la quota ammessa per ciascuna nazionalità.

Un’altra considerazione da fare riguardo agli anni Venti è una ulteriore trasformazione dei partiti. I partiti ottocenteschi erano delle confederazioni di forze locali e statali molto radicate, aperte alle spinte popolari, certamente non immuni dai vizi, ma anche dalle virtù. Nel dopoguerra si assiste invece alla comparsa di partiti in cui comparivano boss che erano espressione dei recenti flussi immigratori, con una rappresentanza degli interessi più limitata, una organizzazione più verticistica e più resistenti agli impulsi della base. In questi partiti cominciavano ad avere maggiore influenza i contatti con gli interessi organizzati, i rapporti con determinati settori dell’amministrazione, le dinamiche comunicative dirette candidato-elettore affidate a nuovi mezzi di comunicazione come cinema e radio. Anche le cifre della partecipazione non erano più quelle dei tempi dei vecchi partiti: nel 1924, anche grazie al primo contributo del voto femminile, si toccò la cifra del 49% di affluenza. Per quanto riguarda le primarie, si raggiunse un picco nel 1916, mentre nel 1924 la partecipazione si era ridotta a un terzo e rimase su queste percentuali sino agli anni Sessanta. (Fasce, p. 80). Aprendo una parentesi sulla situazione attuale, le percentuali di voto USA sono sempre molto basse. Nelle elezioni presidenziali si registra l’affluenza massima, superiore alle elezioni di mid-term, che sono soltanto legislative. Per le elezioni di Obama, c’è stata una affluenza al voto del 55% (sulla popolazione in età di voto): 66 milioni di americani votarono per Obama, 61 milioni per Romney (127 milioni di voti come totale).

Il 1924 è anche l’anno della prima elezione di Coolidge, scelto dai repubblicani come candidato, anche se un certo numero di essi era in dissenso con la scelta del partito, e formando quindi per reazione un nuovo Partito progressista che nominò Robert La Follette come candidato alle Presidenziali.

Alla convention democratica emersero nuove divisioni “regionali”: i delegati del nord, che rappresentavano gli ebrei, i cattolici e gli immigrati chiesero la condanna del Ku Klux Klan, una risoluzione alla quale i delegati del Sud si opposero. Emersero inoltre divergenze di posizioni tra i “wet”, gli antiproibizionisti”, e i “dry”, proibizionisti. Dopo un lungo dibattito tra il governatore di Alfred Smith, che era un wet, cattolico, e Mc Adoo, ex segretario del tesoro, che era un “dry”, la convention approvò la nomination di John Davis, un avvocato di New York con forti legami nel settore bancario. Per comprendere lo stato di grande divisione della Convention democratica, basti pensare che ci vollero più di cento votazioni per eleggere il candidato.

Coolidge fu eletto con una maggioranza schiacciante in questa lotta a tre con La Follette e Davis (15 milioni di voti contro gli 8 di Davis – le peggiore performance di sempre per un nominato democratico - e i quasi 5 di La Follette). La vittoria fu così netta che fece temere per la scomparsa del Partito democratico. Coolidge non era un dilettante della politica, era un vero professionista della politica, che aveva già collezionato molte cariche pubbliche. Qualche parola sul profilo di Coolidge deve essere spesa. Molti storici lo dipingono come un presidente affetto da una cronica pigrizia. Walter Lippman, giornalista e uomo politico, scrisse che «il genio per l’inattività di Coolidge era sviluppato ad un livello altissimo». Non si trattava di semplice indolenza, secondo Lippmann, ma di una «severa, determinata, vigile inattività, che teneva Coolidge costantemente occupato» (!). Coolidge è passato inoltre alla storia per il fatto di essere anche un cronico taciturno, quasi un leggendario taciturno. Si racconta che aveva deciso di sposare la sua futura moglie nel 1901, ma che non glielo disse sino al 1905 e un’altra battuta molto in voga al tempo della sua presidenza era che «Coolidge poteva essere silenzioso in cinque lingue». «Silent Cal», fu il suo soprannome. Tuttavia, anche in questo caso, bisogna specificare, perché in realtà Coolidge fu autore di molti “addresses” pubblici, più di quelli di Wilson, e che inoltre tenne più di 500 conferenze stampa. Disse Frank R. Kent, il corrispondente del “Baltimore Sun” per la Casa Bianca che Coolidge fu «comunicativo quasi fino al punto della logorrea». Ed è vero infatti che Coolidge fu il primo presidente a sfruttare al massimo la radio come nuovo medium di comunicazione politica (Il discorso sullo stato dell’Unione del 1923; il suo discorso di accettazione nella convention repubblicana del 1924; il suo discorso inaugurale del 1925 furono trasmesse sulle onde radio). Si può allora più correttamente dire che era uno scarso comunicatore non perché fosse silenzioso, ma perché avesse veramente poco da dispensare. Le sue conferenze stampa erano poca cosa, povere di contenuti, e inoltre Coolidge chiedeva ai giornalisti in anticipo le domande in forma scritta. Leuchtenburg sostiene che egli non avesse niente o virtualmente niente da dire a proposito delle maggiori questioni del tempo, sul Ku Klux Klan, sul caso di Sacco e Vanzetti e su altri temi di stringente attualità che invece avevano di molto interessato l’opinione pubblica. Per creare una immagine amichevole di Coolidge l’amministrazione chiamò a raccolta i più importanti esperti di pubbliche relazioni del paese: il nipote di Sigmun Freud, Edward Bernays e il pubblicitario Bruce Barton, che costruirono una immagine del tutto irreale di Coolidge, che invece era un personaggio oscuro e anche molto severo, così come si evince dal suo comportamento nei confronti della moglie, alla quale impediva di guidare, di tagliarsi i capelli secondo la moda del tempo (bob her hair), di fumare in pubblico, di concedere un’intervista e avere una opinione su un affare pubblico. E si dice che fosse anche molto scontroso con tutto lo staff della Casa Bianca. Il nuovo presidente non ebbe problemi nel farsi accettare dal grande capitale dell’Est, come è stato sottolineato: “Egli era l’alleato naturale del capitale organizzato, di quelle grandi combinazioni di ricchezza che controllavano le banche e si assicuravano così il controllo assoluto di tutti i principali beni del paese” [in Binkley, 472]. È stato scritto che Coolidge tagliasse su misura le sue politiche appositamente in funzione dei businessmen, mostrando poco interesse per tutto il resto. Indicativo quello che fece con le agenzie di controllo fiscale, che depotenziò del tutto, e con la Federal Trade Commission, di wilsoniana memoria, che da “whatchdog” del popolo nei confronti delle corporazioni, si trasformò in “lapdog” delle corporazioni, perdendo del tutto quella funzione di controllo per cui era stata creata. Il “Wall Street Journal” notava che mai prima di allora il governo era stato così completamente «fused with business».

Da questo punto di vista non si può dire che riuscisse a cogliere perfettamente lo spirito del tempo, visto che per esempio si opponeva all’assicurazione contro la disoccupazione adducendo che i lavoratori avrebbero ricevuto una paga che non si erano guadagnata, con una scrupolosità che non manifestava invece nei confronti dei speculatori di borsa. Quando nel 1927 il Mississipi esondò, devastando le comunità che popolavano le sue rive, Coolidge giudicò le proposte di concedere aiuti federali alle popolazioni colpite come «la più radicale e pericolosa legge mai concessa dal Congresso da quando era presidente». Quindi una politica poco rispettosa della questione sociale, così come deve essere sottolineata la sua inesperienza in politica estera: prima di diventare presidente degli USA, Coolidge non era mai stato all’estero, tranne una volta, quando si era recato a Montreal in viaggio di nozze. Era assolutamente indifferente ai problemi europei e l’unica sua proiezione nella politica estera furono gli aiuti militari in Nicaragua a protezione degli interessi americani. E qui bisogna dire che Coolidge si mantiene in linea con l’impostazione che era stata di Harding, cioè poco interesse negli affari europei, distanza dalla Società delle Nazioni, ma “diplomazia del dollaro”: punto di riferimento finanziario nell’economia post- bellica e forte penetrazione commerciale, con la eccezione di quello che successe in Messico, dove l’ambasciatore Dwight Morrow, un vecchio compagno di classe di Coolidge dei tempi del college, che non amava la “diplomazia del dollaro”, fece i primi passi di quella politica che più tardi fu chiamata di “buon vicinato”. La più efficace immagine di Coolidge in rapporto al campo della politica estera la dette Harold Laski, che lo definì come «un sagrestano di una chiesa di campagna» impegnato in affari molto più grandi di lui.

Coolidge in realtà non aveva avuto dei grandi avversari alle elezioni presidenziali, così come un’altra vittoria facile fu quella del repubblicano Herbert Hoover nel 1928, che aveva battuto i democratici rappresentati da Alfred Smith e Joseph Robinson.

A differenza di Coolidge, Hoover godeva di un’ottima reputazione, innanzitutto come ingegnere minerario, ma anche per la sua intenza attività politico-amministrativa, che era iniziata ai tempi della Grande Guerra e poi si era messo in grande evidenza come consigliere del Consiglio Economico ai tempi della Conferenza di Parigi nel 1919. Brandeis lo giudicava come la figura di maggior rilievo giunta a Washington durante la guerra e addirittura John Maynard Keynes dichiarò che si trattava del “solo uomo che era emerso dall’ordalia di Parigi con una reputazione accresciuta”. La sua reputazione continuò a crescere durante le amministrazioni Harding e Coolidge e nello stesso tempo si faceva conoscere come un grande dispensatore di sussidi economici. Nonostante detestasse il bolscevismo, si fece promotore di ingenti aiuti economici nei confronti della popolazione che soffriva la fame nella Russia dei Soviet, un ruolo che gli venne riconosciuto in patria e all’estero.

Appena insediatosi Hoover proclamò l’avvento di una nuova era in cui, nell’ambito di un libero sistema capitalistico, “la miseria [sarebbe stata] bandita dalla nazione americana”, ma in effetti i suoi rapporti con il Congresso peggiorarono progressivamente, sino a giungere al culmine dell’impopolarità nel 1931. Il Partito repubblicano non aveva trovato con Hoover un coordinatore sociale, né uno specialista della diplomazia di gruppo. In generale, è fuori di dubbio che il mondo degli affari, quello della grande industria e della grande finanza, ebbe in mano le redini del potere negli anni Venti e Trenta e non ebbe difficoltà a permeare la linea politica repubblicana. Andrew Mellon fu definito da Coolidge come il più grande segretario del tesoro americano da Hamilton in poi ed infatti il Congresso accettava senza riserve le sue teorie in materia fiscale (Taxation, The People’s Business), in cui si sosteneva una riduzione delle imposte sul reddito, delle imposte di successione per le aliquote più elevate in modo che il denaro destinato a pagare le tasse sarebbe stato dirottato dal Tesoro alle industrie più produttive creando importanti occasioni di lavoro e promuovendo la prosperità nel paese. Buona parte di quel denaro servì invece a gonfiare il mercato azionario e determinò il crollo della borsa del 1929, in conseguenza del quale i repubblicani rimasero per lunghi anni un partito di minoranza.

Nella legislazione degli anni Venti e Trenta non troviamo nessuna delle grandi leggi che regolano l’economia che invece caratterizzano i governi Wilson e poi F. D. Roosevelt. In particolare Hoover, il presidente della crisi, in campagna elettorale aveva promesso di dare sollievo agli agricoltori disperati, una promessa che indubbiamente lo aveva aiutato a vincere. Una volta eletto, il Congresso approvò la Smoot-Hawley Tariff, che prevedeva la tariffa più alta mai deliberata dal congresso e aumentava i dazi di importazione sui beni agricoli del 45%, con una protezione speciale per lo zucchero, il cotone e gli agrumi. Si trattò di aumenti così spropositati che 26 paesi stranieri risposero aumentando le proprie tariffe, ciò che fece scendere in picchiata le esportazioni. Ci furono poi altri provvedimenti in favore del settore agricolo, anche se si trattò di rimedi inutili, visto che il 23 ottobre 1929 il mercato crollò e dando il via alla più disastrosa crisi economica degli Usa, sulla quale ovviamente non possiamo qui soffermarci.

È interessante comunque riflettere sul fatto che nonostante la crisi di proporzioni epocali, gli americani non persero fiducia nel sistema capitalistico, a dimostrazione della difficoltà di presa del comunismo e del fascismo, quindi di ideologie totalitarie, repressive della libertà individuale. Anche dopo lo scoppio della crisi l’amministrazione Hoover fece alcuni tentativi per rimediare alla situazione emergenziale: fu creata una Reconstruction Finance Corporation che avrebbe dato vita ad un’agenzia governativa di prestiti con un capitale di 500 milioni di dollari e che poteva prendere a prestito anche somme supplementari, che in sostanza serviva per erogare prestiti alle banche, alle corporation, alle compagnie di assicurazioni sulla vita, ma non dava assistenza alle piccole attività, né tantomeno ai singoli individui che avevano perso il lavoro, attirandosi per questo le critiche delle opposizioni che la ritennero una misura per milionari. Nel 1932 fu poi varata una Emergency Relief and Construction Act che doveva aiutare le associazioni edilizie e agricole e fornire prestiti agli Stati in difficoltà; così come sempre in quell’anno fu varato un Glass- Steagall Bill che permetteva alla Federal Reserve Bank di vendere 750 milioni di dollari della fornitura aurea del governo. Nel complesso però gli sforzi per disporre del denaro federale per aiuti e per lavori pubblici furono osteggiati da Hoover, che invece perseguiva la linea del pareggio del bilancio come rimedio per agevolare la fine della depressione. Quando fu varata da parte del Congresso una misura di sostegno di circa due miliardi di dollari, il presidente pose il suo veto, così come pose il suo veto ad una proposta di legge per la costruzione di un grande stabilimento idroelettrico a Muscle Shoals, in Alabama, perché il presidente lo riteneva una intrusione statale in affari privati, quindi in forte odore di socialismo.

L’età di Roosevelt.

Quando si parla di età di Roosevelt, essa si fa iniziare al 1932, data della sua elezione come candidato presidenziale alla convention di e si fa terminare al 1945, data della sua morte. In realtà, è possibile anche – e forse in maniera più corretta – identificare l’età di Roosevelt con il “new deal”, perché la guerra in effetti cambia i connotati della politica presidenziale.

Per quanto riguarda gli inizi del periodo, la vittoria di un democratico nel 1932 appariva, in quelle condizioni di grave disagio economico, assolutamente scontata. Non era scontato però che la nomination andasse a F.D Roosevelt, che alla fine fu scelto dai democratici su Al Smith grazie ad una abile manovra politica nella Convention, dove aveva realizzato una alleanza dell’Ovest e del Sud contro l’opposizione dell’Est, capeggiata da Smith. Nel caso specifico, Roosevelt riuscì ad avere l’appoggio di un ultraconservatore, il texano , che era il presidente della camera dei rappresentanti, e che in cambio otteneva la nomination a vicepresidente, una posizione più prestigiosa ma meno influente di quella di capo della camera dei rappresentanti, e quindi un obiettivo che i democratici più aperti alle riforme vedevano di buon occhio. Una sorta di quadratura del cerchio operata da Roosevelt. Ancora prima della notifica formale della nomination Roosevelt si recava ad Albany per pronunciare il suo discorso di accettazione, circostanza nella quale dichiarò il suo impegno per un “nuovo corso”, un “New Deal” per il popolo americano. I repubblicani si resero conto soltanto dopo del valore del loro antagonista, che ebbe il vantaggio di aver fatto carriera politica non legandosi ad uno qualsiasi dei gruppi economici predominanti: non era un rappresentante delle classi agricole, né del mondo degli affari, né del sindacato. Binkley scrive che aveva la visione delle cose del gentiluomo di campagna, caratterizzata da un tradizionale disprezzo per i milionari, i mercanti del denaro o i “tiranni dell’economia” [Binkley, 507]. Quando Roosevelt manifestò i suoi intendimenti politici in favore dell’ “uomo dimenticato” suscitò molta indignazione fra i vari gruppi di interesse. In qualche modo, la sua era una sfida nei confronti di quella formula repubblicana che vedeva nel favoreggiamento del mondo degli affari il rimedio per la miseria. In questo modo, Roosevelt trovava un comune denominatore ideologico per attirare i voti dei lavoratori, dei piccoli farmers e dei consumatori e per attirare anche i voti dei repubblicani progressisti. Nel programma del partito c’era l’abolizione del XVIII emendamento, già da noi citato e da cui derivava la legislazione proibizionista, la riduzione delle spese federali per raggiungere il pareggio del bilancio e l’allontanamento del governo federale da tutte le aree di attività private, ad eccezione di quelle attività private necessarie per i lavori pubblici e per le risorse naturali. Nel programma erano inoltre previste misure per inviare denaro agli stati per sostenere la disoccupazione, ridurre le tariffe e riformare il sistema bancario e mantenere una valuta solida. Dal canto loro i repubblicani ripresentarono Hoover, questa volta accompagnato da Charles Curtis come vice-presidente, con un programma che prevedeva il pareggio del bilancio, la limitazione delle spese governative, prestiti agli stati, l’annullamento del XVIII emendamento e la prosecuzione di una tariffa protezionista, quest’ultima misura costituiva il vero elemento differenziale rispetto al programma dei democratici. Alle elezioni parteciparono un alto numero di partiti politici: un partito proibizionista, un partito comunista, uno socialista ed altri partiti minori, con una campagna elettorale in cui i partiti maggiori focalizzarono la loro attenzione sull’abolizione della legislazione proibizionista. Certo, nel confronto Roosevelt/Hoover pesò il fatto che il primo puntò molto di più sull’esigenza di riforme economiche e sociali, tra l’altro coadiuvato da un gruppo di intellettuali della Columbia University (Adolph Berle, Raymond Moley, Rexford Tugwell) i quali sostenevano la necessità di adattare le istituzioni economiche esistenti alle esigenze delle persone, trovando i mezzi per una distribuzione più equa della ricchezza. Al contrario Hoover attaccava i propositi di Roosevelt bollandoli come un radicale distacco dalla tradizione dei principi americani. Hoover chiedeva una decentralizzazione del governo, quindi un governo federale più leggero, in modo da consentire un allargamento delle iniziative imprenditoriali private. Ma il tono di Hoover era quello di una proposta politica ritenuta ormai perdente. Ed in effetti, in occasione delle elezioni del 1932 si trattò del più radicale capovolgimento che la storia dei partiti americani avesse mai registrato nello spazio di 4 anni: Hoover passò dal 58,12% dei suffragi del 1928 al 39,66% nel 1932. Roosevelt ottenne il 57,41%. Nel New England, per esempio, dove si era registrata una alta fedeltà al Partito repubblicano si registrò una buona affermazione del Partito democratico, dando l’impressione che il Partito repubblicano fosse quasi scomparso, proprio negli stati dove esso aveva avuto origine. Come è stato sottolineato, il più importate spostamento di voti in supporto del Partito democratico si registrò nelle città del Nord. In parte, questo spostamento di favori verso il Partito democratico era già stato anticipato nel 1928, quando il candidato democratico Al Smith, irlandese americano di New York e cattolico, era riuscito a conquistare i lavoratori manuali del nord, tradizionalmente vicini ai repubblicani. In quella occasione però giocarono fattori legati alla religione cattolica ed al proibizionismo, essendo Smith un antiproibizionista, mentre ai tempi di Roosevelt il motivo sostanziale di questo spostamento fu il livello di coinvolgimento e di responsabilità del governo nella gestione degli affari economici. Tutto il periodo del New Deal fu caratterizzato da una grande vicinanza tra il Partito democratico ed il movimento organizzato dei lavoratori, molto più che in passato. Non è da dimenticare che nel 1932 entrambi i rami del Congresso andarono ai democratici.

Roosevelt appena eletto fu abilissimo nel chiamare a raccolta un popolo che era nella più totale disperazione. Qualche dato: la produzione industriale era calata da un valore di 949 milioni di dollari a 74 milioni; chiusero qualcosa come 50.000 banche, a causa principalmente del fatto che i correntisti ritiravano i loro risparmi e 14 milioni di persone erano senza lavoro ed anche in America si parlò della possibilità che un dittatore potesse salvare la situazione.

Roosevelt, - che prestò giuramento il 4 marzo, ultimo presidente a insediarsi a quattro mesi dalla propria elezione, perché il XX emendamento stabilì nel 1933 che da quale momento i membri del congresso eletti nel novembre precedente avrebbero preso servizio il 3 gennaio mentre il presidente e il vice il 20 gennaio anziché il 4 marzo - fece appello più ai sentimenti che al raziocinio, anche se è vero che la sua lunga esperienza di organizzatore di partito come legislatore e amministratore era fattore che gli fornì gli strumenti adatti per sfruttare l’occasione unica offertagli dalla crisi del 1933. Roosevelt era nato nel 1882 a New York ed aveva studiato ad Harvard e alla Columbia Law School. Sposato con Eleonor Roosevelt, nipote di Theodore Roosevelt, F. D. , come Theodore, di cui era cugino e che ammirava molto, era entrato nella pubblica amministrazione attraverso la politica: già eletto al Senato per New York nel 1920, era stato assistente segretario alla Marina di Wilson. Nell’estate del 1921, all’età di 39 anni, fu colpito da poliomelite, ma non si allontanò dalla politica, tanto che nel 1928 fu nominato governatore di New York. Fu in occasione del suo primo discorso da presidente che pronunciò la famosa frase: “the only thing we have to fear is fear itself”, ecco perché, come dicevamo sopra, si trattò fondamentalmente di un appello ai sentimenti, ciò che in sostanza gli americani volevano che fosse.

Ancora qualche parola in più sulla personalità di Roosevelt. Quello che poi diventerà uno dei più grandi presidenti della storia americana si era formato a Groton, una scuola episcopale del Massachussets fondata dal reverendo Endicott Peabody. Si tratta di una esperienza importante: il collegio era stato fondato sul modello educativo inglese, molto gerarchizzato per classi di età. Un modello di “Muscular Christianity”, un movimento filosofico caratterizzato da senso patriottico, disciplina, dovere e sacrificio personale. L’obiettivo della scuola ea quello di fornire elementi validi per la classe dirigente del Paese, che fossero dei gentiluomini dotati di grande cultura e forte morale. L’esperienza di Groton segnò molto Roosevelt, che tenne molto alla sua riservatezza, ma fu importante anche perché i principi cristiani gli trasmisero una costante attenzione nei confronti degli esclusi. In questo caso, era anche una questione personale: Roosevelt era entrato a Groton con due anni di ritardo e non si integrò mai realmente tra i compagni dell’istituto, una esperienza che pesò molto sulla sua personalità. Nel 1900 entrò ad Harvard, come abbiamo detto, quando va maturando il suo interessamento per la politica: era l’anno in cui il suo lontano cugino T. Roosevelt era stato scelto come candidato repubblicano alla vicepresidenza. Si iscrisse dunque al club repubblicano dell’Università, rimanendo fedele a quello schieramento sino al 1904, quando viene ammesso alla facoltà di legge della Columbia university, ma non arrivò alla laurea, preferendo entrare subito nella carriera legale, in uno studio di Wall Street specializzato nella legislazione antitrust.

Tuttavia rimase sempre molto attratto dalla politica, volendo seguire l’esempio del cugino Teddy, che in effetti non fu un punto di riferimento soltanto per lui, ma per una intera generazione, che vide in lui il modello di gentiluomo che si dedica alla vita pubblica. Quando però FD Roosevelt decide di dedicarsi alla politica ha maturato già una scelta in direzione del Partito Democratico, che inizialmente non lo accoglie positivamente, definendolo uno “snob” arrogante e antipatico. Indubbiamente, la malattia che lo colpì in giovane età, a 39 anni, costituì una svolta nel suo modo di porsi, sebbene quella del distacco nei confronti delle persone con le quali si rapportava rimase una caratteristica del suo modo di essere.

Decise dunque di candidarsi al Senato con il Partito democratico, che vinse nonostante in quel distretto dalla Guerra Civile in poi i democratici avevano sempre perso. Il successo fu indubbiamente dovuto anche a fattori esterni al suo carisma: il cognome altisonante, la scissione sempre più profonda nel Partito repubblicano, quella stessa scissione che poi favorì l’elezione di Wilson, di cui abbiamo parlato e, fattore non di secondaria importanza, l’assenza in quel giorno di molti agricoltori tradizionalmente repubblicani tenuti lontani dal seggio dalla pioggia. FDR fu eletto nella contea di Dutchess, nel sud-est dello stato di New York. All’interno del partito Democratico fece parte di quella componente che guardava più marcatamente alla tendenza progressista, schierandosi anche apertamente contro l’establishment di Tammany Hall e dichiarando guerra a quei settori del partito che erano più collusi con il mondo degli affari.

Per quanto riguarda i suoi interessi politici, dopo essersi dedicato alla protezione delle risorse naturali, a causa anche della influenza della moglie Eleanor, mostrò subito sensibilità nei confronti della questione sociale, divenendo un sostenitore dell’Association for Labor Legislation e interessandosi alla legislazione sindacale. È una fase in cui matura già il concetto che il bene pubblico andasse protetto dagli interessi privati, una convinzione che d’altronde gli derivava anche dall’esperienza politica di Teddy Roosevelt. Già nel 1912, affermava che bisognava lottare per la libertà della comunità piuttosto che per quella del singolo. Cioè la concorrenza non era l’unica logica perseguibile, perché si trattava – secondo FDR – di una logica fallace, che avrebbe potuto danneggiare la stessa collettività. Quindi, dove finiva la concorrenza doveva cominciare la cooperazione.

Di fondamentale importanza fu poi il suo contatto con Wilson, che conobbe nella primavera del 1911, quando Wilson era ancora governatore del New Jersey, così come un altro incontro di grande importanza per la sua carriera fu quello con Louis McHenry Howe, un reporter corrispondente dell’“Herald”, che fu il vero artefice della su rielezione nel 1912. Howe fu per Roosevelt un vero maestro di politica, che riuscì con i suoi consigli a colmare la sua inesperienza. L’esperienza al sottosegretariato alla Marina con Wilson fu importante per FDR per avere un primo contatto con l’amministrazione e anche con il mondo del lavoro e delle organizzazioni sindacali del settore dei cantieri marittimi.

Un altro momento significativo fu quello della Grande Guerra: per FDR, la guerra era un esercizio pratico di protezione della sicurezza della nazione. Era una concezione soprattutto difensiva, che lo vide farsi sostenitore della necessità di essere preparati e quindi molto attivo nella denuncia e nella critica delle carenze della difesa nazionale americana. Più tendente verso l’intervento, sebbene sempre molto cauto, una volta deciso l’ingresso in guerra degli USA, la guerra fu per lui un grande esercizio di amministrazione, facendosi la fama di funzionario deciso e spedito, mettendo bocca su tutto ciò che riguardasse la marina e addirittura facendo domanda di arruolamento, idea che non venne appoggiata da Wilson.

Nel 1920, alla Convention del Partito democratico, accettò la sua nomina a vice- presidente in ticket con James Cox, che era un progressista, governatore dell’Ohio. I temi che da parte democratica prevalsero in quella occasione, come abbiamo avuto modo di vedere, furono una politica estera “positiva”, cioè non isolazionista, e un appoggio al disegno della Società delle Nazioni come mezzo per raggiungere la vera pace; non mancavano poi attenzioni nei confronti dell’esigenza di migliorare le condizioni di lavoro e di riorganizzare il Governo. Come abbiamo visto, quella volta il Partito democratico fu sconfitto, a causa di un prevalente clima anti-wilsoniano e per la maggiore preoccupazione presente nell’opinione pubblica riguardo ai temi della recessione economica.

Colpito da malattia nel 1921, tornò alla politica attiva occupandosi del Partito democratico e sostenendo la necessità di tenere lontano il Partito dal mondo degli affari. Non era una percezione sbagliata, visto che si trattava di una fase di stretta collusione tra amministrazioni repubblicane e mondo della finanza e della grande industria.

Sorvolando su altri passaggi della sua articolata carriera politico-amministrativa, si deve ricordare che fu da governatore dello stato di New York, eletto nel 1928, che affrontò la Grande Depressione, mettendo in atto politiche di intervento sociale. Già prima dello scoppio della crisi economica, si era occupato di pensioni di vecchiaia a livello statale e si era fatto promotore, assieme a Frances Perkins, di una Commissione per la stabilizzazione dell’Occupazione, così come durante una conferenza dei governatori a Salt lake City sostenne il principio dell’assicurazione contro la disoccupazione. Nel 1931 si fece invece promotore della costituzione di un Ente Temporaneo per l’Assistenza di Emergenza, che era il simbolo della sua idea di un governo attivo nei confronti del popolo. L’interventismo statale in un momento come quello era un modo per rinsaldare il rapporto intimo con il popolo per tutelare la natura democratica del governo. La sua sfida alla recessione costituisce una novità, perché nessun governatore di quegli anni fu così attivo come Roosevelt.

Vale la pena chiedersi quanto sia stata originale l’esperienza di F.D. Roosevelt rispetto alla storia del sistema politico americano che abbiamo studiato. In questo senso esistono delle interpretazioni differenti, la storiografia europea ha enfatizzato il New Deal come fatto nuovo nella storia americana, un regime in virtù del quale gli USA, la terra del capitalismo più sfrenato, avevano imboccato la strada della democrazia economica e dello stato assistenziale. Anche in America è esistito questo tipo di interpretazione: Hofstadter, ad esempio, autore di una nota storia degli USA, ha sostenuto che il New Deal fu un esperimento di tipo sostanzialmente socialdemocratico, anche se non connotato ideologicamente come in Europa. Hofstadter è però nel suo paese un caso quasi isolato, perché la grande maggioranza degli storici tende a interpretare il New Deal come l’ultimo e più intenso, ed anche più fortunato, capitolo di una vicenda che è cominciata anni prima e cioè la vicenda del progressismo americano. “Nell’età di Roosevelt, si manifesterebbe per questi scrittori lo stesso spirito che anima l’età di Jackson, tace durante l’epoca aurea del grande sviluppo capitalistico seguito alla guerra di secessione, rivive, seppure appesantito da molteplici scorie, nel populismo agrario del 1890, e trova la sua più compiuta espressione nel movimento che tra il 1905 e il 1920 ebbe i suoi alfieri di T. Roosevelt, Robert La Follette e W. Wilson” [F. Mancini, p. 6]. Dove sta la verità tra queste interpretazioni? Se guardiamo agli effettivi sviluppi del progressismo in America, allora possiamo dire che di progressismi ce ne furono due, divisi sul tema del “bigness” in economia: gli uni sostenevano che il male assoluto fosse la concorrenza; alle leggi che assicuravano la concorrenza si dovevano la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro minorile, i bassi salari ecc.. Alla concorrenza bisognava sostituire la cooperazione, cooperazione che però significava anche trusts, cartelli. Certo i trusts garantivano ordine, razionalità del sistema economico, ma nello stesso tempo comportavano anche il rischio per lo stesso funzionamento del sistema democratico, come abbiamo visto. Quindi la necessità di un controllo, di un rafforzamento dell’organo predisposto al controllo: se si ammette l’opportunità di grandi concentrazioni economiche, allora è necessario che lo stato acquisti dimensioni eguali, bisogna cioè fare del “nazionalismo”, nell’accezione americana che noi ora conosciamo, cioè dare più potere alla nation, cioè al governo federale, ai suoi istituti politico-giuridici.

Tutto all’opposto, sta l’altro filone, e cioè quello che Wilson battezzò di “Nuova Libertà”. Per Wilson, l’età dell’oro non stava nel futuro, ma nel passato: nell’America della “littleness”, nel paese degli agricoltori, dei negozianti, dei piccoli imprenditori industriali che la concorrenza rendeva più saldi, più virtuosi. Concorrenza vuol dire “littleness” e “littleness” vuol dire libertà; mentre la ricchezza accentrata vuol dire tirannia e corruzione. Lo stato quindi, come abbiamo visto, doveva combattere il monopolio e i privilegi, ma questa doveva essere la sua unica forma di intervento. Il compito peculiare era garantire a tutti uguali occasioni e facoltà di competere nel rispetto delle regole dl gioco. La “New Freedom” di Wilson fu ritenuta dagli stessi americani la più confacente alla loro tradizione: quando poi Wilson si impose per due volte allora sembrò che fosse lui il vero campione del progressismo. Lo abbiamo detto, nel 1916 c’è un convergere di tutte le tendenze del progressismo sul suo nome, sembrò lui essere il vero “radicale”, ciò che emergeva anche da un intervento legislativo massiccio, come abbiamo visto. È anche vero però che dietro questa incisiva azione, si nascondeva sempre uno spirito conservatore. Ora, per tornare al punto, in che rapporto sta Roosevelt rispetto a tutto ciò? FD Roosevelt in effetti sembra essere più vicino al nuovo-nazionalismo, piuttosto che alla nuova libertà e ciò non solo per il comune ripudio del concetto di stato spettatore, ma anche rispetto al gigantismo economico, alla bigness, nei confronti del quale non c’è alcun atteggiamento punitivo (i neo-nazionalisti pensavano ad un big business congiunto ad un big government).

Certo poi c’erano delle persistenze rispetto a Wilson: si può affermare che F. D. Roosevelt sia stato un allievo di Wilson nel considerarsi un presidente-primo ministro, sia capo del governo, che capo del partito. Durante quelli che poi furono chiamati i “cento giorni”, Roosevelt controllò in modo ferreo il Congresso, in sostanza annullando l’opposizione con quelle che vennero chiamate le “conversazioni accanto al caminetto” (firesides chats), che venivano intrattenute con il pubblico con grande familiarità. D’altro canto, dimostrò di essere anche un grande realista, non disdegnando di servirsi della distribuzione delle cariche e degli emolumenti pubblici come strumento di potere.

Anche per quanto riguarda Roosevelt si può parlare di due fasi, di un primo New Deal in cui è evidente il legame con il neo-nazionalismo e di un secondo New Deal in cui invece l’azione si lega molto di più alla nuova libertà. Ma vediamo con ordine: le prime misure di legge furono indirizzate al sistema bancario: il ministro del tesoro poteva indagare sulla situazione finanziaria di ogni singola banca del paese e permetteva la riapertura solo agli istituti che erano ritenuti solidi; veniva dichiarato illegale il possesso di oro e si dava istruzione al ministero del Tesoro di richiamare tutto l’oro e i certificati aurei, permettendo al sistema bancario di rientrare pienamente in funzione. Tra i provvedimenti che contraddistinsero i famosi “cento giorni” ricordiamo qui: il Civilian Conservation Corps che forniva lavoro a 250.000 cittadini maschi disoccupati tra i 18 e i 25 anni; il Federal Emergency Relief Act, che garantiva sovvenzioni agli stati perché iniziassero i lavori per la ripresa; l’Agricultural Adjustement Act, che creava una agenzia che controllava il surplus dei raccolti e aumentava i prezzi delle fattorie; il Tennesse Valley Autority che istituiva una agenzia governativa indipendente per la costruzione di dighe e impianti di produzione elettrica per l’elettrificazione delle zone rurali ed altri ancora (Federal Security Act; Gold Standard Repeal Act; National Employment System Act; Homeowners Refinancing Act ecc..). Insomma si trattava di una straordinaria serie di riforme economiche che andava ad interessare gli agricoltori, i lavoratori e gli industriali, con un impegno ad assistere i disoccupati, a garantire i depositi bancari, a proteggere i proprietari di case e a intraprendere progetti di grandi opere pubbliche. Come ha scritto Binkley, l’80% di coloro che dipendevano dall’assistenza pubblica non poterono dimenticarsi del Federal Emergency Relief Administration, della Civil Works Administration, della Public Works Administration, cioè degli istituti messi a disposizione per la risoluzione della crisi. Nessun gruppo di età diede a Roosevelt un sostegno maggiore di quello che gli offrirono i giovani al di sotto dei 25 anni di età, di cui ben il 68% esprimeva la sua gratitudine per gli aiuti forniti da altri istituti quali il National Youth Administration o il già ricordato Civilian Conservation Corps e più i repubblicani attaccavano questi istituti, giudicati come inutili proliferazioni del governo federale nell’economia, più si andava cementando il consenso attorno alla figura del presidente. Rispetto a quanto abbiamo detto circa i precedenti, possiamo allora più correttamente dire che il New Deal non fu nient’altro che nuovo- nazionalismo aggiornato. È vero che come il nuovo-nazionalismo, fece suo il binomio big-government/big-business. ;a nel New Deal la bigness aveva anche altri punti di riferimento: lo stato di Roosevelt si fa grande anche sul piano assistenziale (si pensi alla legge sulla sicurezza sociale del 1935), cioè di tutta una serie di problemi di cui i progressisti si erano occupati soltanto quasi come dovere morale, ma senza intervenire incisivamente. In secondo luogo, la vera svolta decisiva nella storia americana fu che lo Stato di Roosevelt nel suo dialogo col business introduceva un terzo attore: il sindacato. E Roosevelt si rende conto dell’importanza di avere al suo fianco il sindacato soltanto quando viene duramente attaccato dalle destre. Roosevelt in precedenza non vedeva nel Labor un possibile alleato. Fino al 1935 d’altronde il sindacato non si era dato un forte movimento: erano rimasti restii – come sappiamo – alle suggestioni del socialismo, sospettosi degli intellettuali – tipico caso è quello di Gompers – delle loro idee, delle loro pretese di leadership, avevano elaborato una concezione originale del sindacato in cui vedevano un organo rivendicativo che perseguisse i suoi scopi mediante uno stretto controllo dei posti di lavoro e la distribuzione di questi posti ai suoi aderenti. Tutto ciò, questa accezione minimalista del sindacato, fece in modo che esso fosse accettato dagli americani, ma ne pregiudicò per molti anni lo sviluppo. Il Wagner- Connery Act del 1935 in questo senso fu una pietra miliare nella storia del sindacato, perché riconosce il diritto dei lavoratori a stipulare contratti collettivi, obbliga i lavoratori a condurre le trattative con lealtà, mette fuori legge le pratiche discriminatorie di cui questi ultimi si valevano normalmente e istituì un nuovo ente il National Labor Relations Board che era destinato a sorvegliare sull’applicazione di queste norme, specie sul terreno della elezione delle rappresentanze sindacali. La legge ebbe conseguenze benefiche: nel 1933 c’erano soltanto tre milioni di lavoratori organizzati; nel 1937 salirono a oltre 7 milioni e nel 1945 salirono addirittura a 14 milioni. Ma riprenderemo questo discorso. Al momento, pensiamo che il sindacato nel resto del mondo era in grande sofferenza: in Inghilterra era totalmente sfiduciato dopo il fallimento delle prime esperienze di governo laburista: in Francia aveva avuto una forte radicalizzazione che lo danneggiò, morto totalmente in Germania e Unione Sovietica a causa dei regimi totalitari, in Italia era stato aggiogato al carro del fascismo con il sistema corporativo. In USA si diffondeva e aveva successo un sindacalismo autentico e ci furono conseguenze politiche. È vero che nel mondo sindacale vale ancora la regola della non-partisanship, nel senso che il sindacato si schierava di volta in volta con il partito che lo aiutava, secondo la massima “aiuta gli amici, punisci i nemici”, ma progressivamente andò instaurandosi un legame privilegiato tra sindacato e partito democratico del nord, che- secondo alcune interpretazioni- negli anni avrebbe rappresentato il iù grande fattore di progresso operante negli Stati Uniti. Quindi alleanza tra un big government e un big labor più, riconoscimento sincero se non anche entusiastico, della legittimità di un big business. Questa è la formula politica del New Deal (Mancini 16).

Nella sua sostanza il New Deal significò una nuova responsabilizzazione del governo federale per sollevare la situazione dal disagio economico, sostenendo e guidando l’economia attraverso una riforma delle istituzioni ad essa preposte, nella convinzione che la scarsa regolamentazione era stata una delle cause del disastro del 1929. Questo rinnovata posizione “federalista” diventò “liberalism” nel significato americano (liberal=democratico) ed in opposizione ad esso si può ora parlare di un “conservatism”, a dispetto di coloro che si opponevano alle politiche del New Deal ritenendosi i veri liberali, difendendo la libertà individuale e di impresa contro l’invadenza del governo. Queste nuove accezioni di “liberalismo” e “conservatorismo” si basavano sulle problematiche riguardanti l’intervento del governo nella vita economica, ed erano anche differenti punti di vista su un piano prettamente morale, non semplicemente dei giudizi di tipo tecnico su una maggiore efficienza dello stato. Ciascuno dei contendenti pensava che l’altro fosse antitetico ai veri principi del repubblicanesimo americano. Nel 1936, nel programma elettorale del Partito repubblicano si poteva leggere che bisognava stare attenti perché “la responsabilità di queste elezioni trascende tutte le esistenti divisioni politiche del paese, perché la libertà politica, le opportunità individuali degli americani, il carattere di liberi cittadini oggi sono per la prima volta minacciati dal governo stesso”; e da parte loro i Democratici parlavano del ristabilimento di un “American way of living”, sostenendo che l’amministrazione repubblicana avrebbe voluto mettere il popolo americano al servizio dei gruppi di potere” (Mc Sweeney, Zvesper 1991). Il New Deal non fu il vero rimedio alla depressione economica, che fu superata soltanto con la seconda guerra mondiale, ma caricò il governo federale di nuove responsabilità, in qualche modo favorendo dei cambiamenti nella cultura politica dominante dal considerare i capitani di industria come degli eroi nazionali al guardare il governo come uno strumento di regolazione del sistema. Il vecchio nazionalismo degli industrialisti fu rimpiazzato dal nuovo nazionalismo degli amministratori pubblici. Il problema non era più quello di scoprire o sfruttare nuove risorse naturali o di produrre necessariamente più beni, ma quello di amministrare quello che già c’era, di cercare nuovi mercati per il prodotto in eccesso, di risolvere il problema dei bassi livelli di consumo, di distribuire benessere e ricchezza in maniera più equa adattando l’organizzazione economica esistente al servizio del popolo. Come disse Roosevelt nel 1932: “è arrivata l’era della amministrazione illuminata”.

Intanto, la dipendenza del Congresso da Roosevelt rimaneva immutata, tanto che qualche osservatore paragonava la situazione americana a quella delle dittature europee, mettendo in risalto l’assoluta dipendenza del deliberativo al potere presidenziale. Alle elezioni di mid terms del 1934, quando tradizionalmente il partito in carica perdeva consensi, i repubblicani persero seggi sia alla camera che al senato. Qualcuno ha sostenuto che si trattò della sconfitta più cocente subita dal partito repubblicano nella sua storia: alla camera c’erano soltanto 103 membri contro 322 democratici e 10 indipendenti. Al senato i democratici erano 69 contro 25 repubblicani e 2 indipendenti.

Progressivamente però andò montando una opposizione a Roosevelt e ciò sia negli ambienti più conservatori legati al mondo degli affari, che accusavano il presidente di mandare il paese alla bancarotta, sia negli ambienti più di sinistra e radicali, che pretendevano misure più aggressive e addirittura accusando Roosevelt di essere un uomo al servizio di Wall Street: un certo senatore Long, della Louisiana, proponeva di suddividere la ricchezza del paese e di dare a ciascuna famiglia un salario annuale garantito di 2500 dollari. Da citare è la opposizione dell’establishment che si realizza verso la fine del primo mandato presidenziale, quando la Corte suprema giudica incostituzionali le misure del NIRA (National Industrial Recovery Act), ritendendo che il Congresso avesse delegato impropriamente dei poteri all’industria privata, aveva inoltre interferito negli affari interstatali e aveva delegato poteri legislativi all’esecutivo. Poi giudicò incostituzionale l’Agricultural Adjustement Act, che autorizzava i pagamenti agli agricoltori per tenere i terreni a riposo, ancora perché era ritenuta una legge che si intrometteva negli affari statali. Poi invalidò il Coal Conservation Act, perché le miniere di carbone erano ritenute attività locali sulle quali il governo federale aveva ingiustamente legiferato. Si trattava di decisioni prese a maggioranza, ma che in ogni modo bloccavano le misure presidenziali di tamponamento della crisi. Le elezioni del 1936 diedero una nuova netta vittoria a Roosevelt contro il repubblicano Landon, repubblicani che durante la campagna elettorale avevano soprattutto accusato Roosevelt di usurpare i poteri del congresso e, appunto, di andare contro il dettato costituzionale. La vittoria però fu schiacciante: 333 seggi contro 89 repubblicani alla Camera dei rappresentanti e 76 contro 16 al Senato. Questa maggioranza convinse Roosevelt di mettere mano al sistema di nomina dei giudici della Corte suprema in modo da potere avere sempre la maggioranza. Cercò di farlo per decisione autonoma, senza consultare la leadership del Partito democratico, nella convinzione che la Corte fosse un elemento di conservazione, ciò che però provocò molti malumori nel Partito democratico e per reazione la formazione di una nuova coalizione conservatrice tra democratici del sud e repubblicani del nord. La corte poi approvò alcune importanti riforme di New Deal, quindi lo scontro si era attenuato; la legge di addomesticamento della Corte suprema non passò, ma fu varato un Judicial Procedure Reform Act nel 1937 che permetteva ai giudici di ritirarsi con una retribuzione piena a 70 anni. Siccome molti giudici erano anziani, questo permise a Roosevelt di sostituirli con dei “new dealers” e quindi di avere una corte favorevole. Il 1937 è anche l’anno di emanazione di un National Housing Act, considerato inizialmente come una legge di stampo socialista, ma che quando cominciò a funzionare fu molto utile per la concessione di case a basso costo.

Come dicevo sopra, fu soltanto la guerra a risolvere la situazione economica, perché ancora al 1938 si registrò una forte recessione economica, con diminuzione della produzione industriale, nuovo aumento della disoccupazione e ribasso del mercato azionario, ciò che portò al varo di nuove misure di New Deal. Tornando al movimento sindacale, a seguito dello sviluppo di cui sopra, all’AFL di Gompers si accompagnò un nuovo sindacato, un Committee for Industrial Organization, una organizzazione indipendente che sindacalizzò i lavoratori dell’industria ancora non garantiti: settori dell’acciaio, automobili. Ribadisco che in questa seconda fase Roosevelt avverte l’importanza del sindacato, tanto che in tutte le agitazioni che si svolgono in concomitanza con le contrattazioni aziendali Roosevelt si rifiuta di ricorrere alla forza pubblica (il Cio e l’Afl si fondono nel 1955). E certo parlano di Roosevelt non si può fare a meno di un cenno sulla politica estera: quando l’Europa è già in fibrillazione per l’escalation della Germania di Hitler, gli Usa sono ancora attestati su una posizione di isolazionismo. L’anticomunismo, soprattutto, convince della necessità di difendersi da possibili infiltrazioni che provengono dall’Europa. Nasce una Commissione per indagare sui nemici interni, contro la propaganda anti- americana, che fu presieduta da un democratico, Martin Dies jr, un acceso xenofobo, che non esitava ad accusare Roosevelt di essere circondato da comunisti e socialisti.

Quando scoppia la guerra in Europa, Roosevelt è su posizioni isolazioniste ma provvede a riarmare ed a predisporre un budget economico per un probabile intervento. Intanto, rompendo una tradizione iniziata con G. Washington, FDR si candidò una terza volta nel 1940, come candidato dei democratici alla convention di Chicago del 18 luglio 1940. Bisogna ricordare che fu l’unico presidente a godere di questa possibilità, perché nel 1952, con il XII emendamento i mandati vengono ufficialmente limitati a due. All’interno del Partito democratico la nominaton di Roosevelt fu combattuta, non tutti condividevano il fatto che si stesse rompendo la regola dei due mandati e in più i democratici del sud erano contro la scelta di Henry Agard Wallace come candidato alla vice-presidenza, perché ex repubblicano progressista. Per quanto riguarda i repubblicani, esso era diviso tra una componente di ultraisolazionisti, che volevano candidare Taft o Vanderberg e una maggioranza che invece era spaventata dalla Germania hitleriana, che scelse Wendell Willkie, un ex democratico di New York che sollecitava appunto di dare sostegno al Regno Unito. Anche la scelta di Willkie era “anticonvenzionale” perché si trattava di un ex wilsoniano che nelle elezioni del 1932 aveva votato per Roosevelt e aveva apertamente manifestato le sue idee in favore della libertà e della democrazia nel mondo, quindi con un riferimento ai sistemi totalitari europei. Quella di Willkie fu una campagna elettorale molto energica, riuscendo a risollevare il Partito repubblicano in molte aree rurali del Midwest e del Nord-est. Una campagna elettorale che ebbe anche dei momenti di acceso dibattito, che in qualche occasione degenerò. Roosevelt ottenne una nuova, netta vittoria, ma i Repubblicani si sollevarono rispetto alla debacle del 1936: FDR ottenne 38 stati contro i 10 dei repubblicani.

Nella campagna elettorale Roosevelt aveva continuato a rassicurare gli americani che non avrebbe fatto entrare gli Usa in guerra. Da ricordare è senz’altro la legge Lend- Lease del 1941 che permetteva di cedere armi, munizioni e altro tramite vendita, scambio, prestito a qualsiasi nazione la cui difesa fosse ritenuta vitale per gli interessi nazionali degli Usa. Durante la neutralità e dopo l’entrata in guerra degli USA, furono accordati aiuti a 41 stati: gli Usa ricevettero nello stesso periodo beni e servizi per 7,8 miliardi di dollari a titolo di reverse lend-lease, che quindi rivestì una importanza cruciale, non solo come sostegno all’impegno bellico, ma anche, particolarmente nei mesi in cui gli USA non erano coinvolti nel conflitto, perché permise uno sviluppo massiccio dell’industria pesante americana e di conseguenza la creazione di nuovi posti di lavoro. È una fase in cui Roosevelt esplicita le sue intenzioni di dare sostegno a quelle nazioni che lottano per le quattro libertà fondamentali: di parola, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura.

Quando, in seguito all’attacco di Pearl Harbour, gli Usa dichiarano guerra al Giappone, questo atto ha un consenso unanime sia alla Camera che al Senato, con la sola eccezione, alla camera, di Jeannette Rankin, che d’altronde era stata contraria anche alla partecipazione americana nel 1917. Come dicevo, fu la guerra a rimettere definitivamente in moto la macchina industriale americana. Qualche dato: furono prodotti 75000 carri armati; 27500 aerei; 650000 pezzi di artiglieria; 55,24 milioni di tonnellate di navi mercantili e tutto ciò grazie anche al credito governativo illimitato. La guerra ovviamente cambia i connotati dell’amministrazione Rossevelt e stravolge il New Deal.

Roosevelt conquista ancora un quarto mandato nel 1944, quindi ancora durante in conflitto, assieme al vice Truman. La nominaton fu appoggiata da una grande maggioranza di democratici: su 1057 delegati, soltanto 87 non votarono per FDR. La necessità di tenere insieme il partito fu causa del rifiuto di Roosevelt di candidare nuovamente Wallace, considerato troppo “liberal” e quindi temendo uno scontro tra l’anima “liberal” e quella “conservative” del partito. Henry Truman, governatore del Missouri, godeva invece del sostegno del profondo sud, delle grandi città democratiche e, ovviamente, dello stesso Roosevelt.

Da parte repubblicana, alla convention di Chicago ottenne la nomination Thomas Dewey, con un solo voto a sfavore. Dewey era un repubblicano moderato, che si presentò addirittura con un programma in continuità con FDR, sostenendo di non voler annullare, cancellare le riforme di New Deal, ma di volerle semmai migliorare. Durante la campagna elettorale, fece leva sull’età avanzata del suo rivale, definendolo un “old tired man”, così come stanca e depotenziata appariva la sua politica. Tuttavia, nonostante il brande impegno di Dewey, Roosevelt conseguì una nuova vittoria: 432 voti elettorali contro 99 e vincendo in 36 stati su 48. Come è noto, morì poco dopo, il 12 aprile 1945.