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PIERO DELLA FRANCESCA

URBINO L'importanza della sua opera si riflette: sia sui suoi collaboratori (Benozzo Gozzoli), sia su artisti non direttamente legati a lui (Filippo Lippi); dal suo modo di trattare la luce partiranno Piero della Francesca e Melozzo da Forlì.

Già pochi anni dopo la morte l'Angelico figura come Angelicus pictor [...] Johannes nomine, non Jotto, non Cimabove minor nel De Vita et Obitu B. Mariae del domenicano Domenico da Corella. Poco dopo venne citato con , Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Pesellino e in un famoso poema di . Con l'avvento di Savonarola l'arte venne usata come mezzo di propaganda spirituale e la figura dell'Angelico, artista e frate, venne presa a modello dai seguaci del frate ferrarese. Di questa lettura, che presupponeva la superiorità artistica dell'angelico dovuta alla sua superiorità come uomo religioso si ha eco già nel primo racconto della vita dell'artista, pubblicato in un volume di eulogie domenicane di Leandro Alberti del 1517. Da quest'opera Vasari attinse il materiale per la biografia per Le Vite del 1550, integrata con i racconti dell'ottantenne Fra Eustachio che gli trasmise varie leggende legate agli artisti di San Marco.

Nei commentatori del XIX secolo la vita spirituale dell'Angelico si tinse di un romantico e leggendario, come si trova in vari scrittori. Nel XX secolo la sua figura è stata meglio contestualizzata ponendola tra i padri del Rinascimento fiorentino, coloro che svilupparono il nuovo linguaggio che si diffuse in tutta Europa.

L'Angelico fu beatificato nel 1982 ed è considerato il protettore degli artisti. Piero di Benedetto de' Franceschi, noto come Piero della Francesca (Borgo San sepolcro 1416/17- 1492) personalità emblematica della cultura del pittore-umanista affronta problematiche filosofiche, teologiche, armonizzando sul piano estetico i valori del suo tempo. La sua opera fece da cerniera tra la prospettiva di Brunelleschi, la plasticità di la luce di Beato Angelico e Domenico Veneziano e il descrittivismo fiammingo. Caratteristica fondamentale della sua espressione poetica è la semplificazione geometrica, la volumetria, l’immobilità cerimoniale dei gesti altamente simbolici, l’attenzione alla rappresentazione reale. La sua attività può senz'altro essere caratterizzata come un processo che va dalla pratica pittorica, alla matematica e alla speculazione matematica astratta. La sua produzione artistica, caratterizzata dall'estremo rigore della ricerca prospettica, dalla plastica monumentalità delle figure, dall'uso in funzione espressiva della luce, influenzò nel profondo la pittura rinascimentale dell’Italia settentrionale e, in particolare, le scuole ferrarese e veneta

L'uso di colori chiarissimi, impregnati di luce, sarà punto di partenza per Piero della Francesca, inoltre da lui partirà la tendenza lineare, di Andrea del Castagno e di Antonio e Piero del Pollaiolo. Piero della Francesca, del parto, affresco (Museo) 1450 - 55c. La è un affresco (260x203 cm) realizzato da databile al 1455-65 circa, e conservato in un museo appositamente predisposto di Monterchi L'affresco era destinato all'antica chiesa di Santa Maria di Momentana, già di Santa Maria in Silvis, località di campagna alle pendici della collina di Monterchi. Non si conoscono le ragioni per cui il pittore, già famoso, avesse dipinto un soggetto così impegnativo in una chiesetta di campagna e se ne ignora il committente. La Madonna del Parto era spesso visitata dalle partorienti per avere protezione durante il travaglio, le quali compivano un breve pellegrinaggio dal paese arroccato fino alla chiesa posta a valle. In To s c a n a già dalla prima metà del Trecento circolava la raffigurazione realistica della Verg ine incinta. Questo soggetto iconografico venne chiamato "Madonna del parto" e rappresenta la Madonna da sola, in piedi, in posizione frontale e visibilmente incinta. Uno tra gli elementi che la distingue da una normale donna incinta è il libro chiuso appoggiato sul ventre, allusione al Verbo Incarnato; il libro infatti rappresenta l’Antico Te s t a m e n t o e dunque la parola di Dio che, attraverso la Verg ine, si incarna e discende tra gli uomini.. l'immagine fu ideata per mostrare la natura umana del Cristo non creata prima nel Paradiso come sostenevano alcuni teologi eretici dei primi secoli e, successivamente, medievali. La Verg ine non possiede attributi regali, non ha alcun libro in mano ed è colta nel gesto di puntare una mano sul fianco per sorreggere il peso del ventre. L'interesse di Piero per le simmetrie è particolarmente evidente in quest'opera, dove i due angeli che tengono i lembi del tendone discosti sono stati dipinti sulla base di un medesimo cartone rovesciato. Nei loro abiti e nelle ali i colori sono alternati: manto verde, ali e calzari bruni per quello di sinistra, viceversa per quello di destra. Gli angeli guardano verso lo spettatore, richiamando la sua attenzione, come se stessero spalancando un sipario proprio per lui. La Madonna è in piedi, leggermente ricurva per il ventre gonfio, che accarezza con una mano, mentre con l'altra si dà sostegno all'altezza dei fianchi, lo sguardo è abbassato, come per dare un tono nobile e austero, e il ritratto incede su una dolce bellezza giovanile, sottolineata dalla postura fiera del collo e la fronte alta e nobile (secondo la moda del tempo che voleva le attaccature dei capelli rasate bruciate con una candela). •L'ambientazione nella tenda ha come parallelo la scena del Sogno di Costantino negli affreschi aretini e compare anche in numerosi esempi prima di Piero. La forma geometrica del tendaggio enfatizza volumetricamente i personaggi e la spazialità del dipinto, inoltre, da un punto di vista teologico, offre riparo e protezione come il ventre di Maria per Gesù: non è casuale che la veste della Verg ine sia slacciata all'altezza del ventre rotondeggiante, come dischiusi sono i lati della tenda. Maurizio Calvesi lesse nella tenda una precisa illustrazione del tabernacolo dell'Arca dell'Alleanza, così come è descritto nell'Esodo in questo modo Maria sarebbe la nuova Arca dell'Alleanza, il cui pegno è Gesù. "collocando la Verg ine all'interno di una tenda formata con i materiali di quella dell'Antico Te s t a m e n t o, alludeva chiaramente alla natura eucaristica del corpo di Cristo contenuto nella Madonna-Ecclesia, che, come la manna, può essere vista solo con gli occhi della fede” rigetta quelle ipotesi che collegano l'affresco di Monterchi ad antichi riti pagani di fertilità .Il motivo della damascatura a melograni, presente anche nella veste di re Salomone nell'affresco della Leggenda della Vera Croce, rimanda simbolicamente alla fertilità, alla nobiltà della Verg ine e alla Passione di Cristo. L'interno è invece foderato con una morbida trapuntatura. Nel 1442 Piero risultava abitante, dopo alcuni viaggi, di nuovo a Borgo , sua città natale, dove era uno dei "consiglieri popolari" nel consiglio comunale. L'11 gennaio 1445 ricevette dalla locale Confraternita della Misericordia la commissione di un polittico per l'altare della loro chiesa. Il Polittico della Misericordia è la prima opera documentata di Piero della Francesca, la sua realizzazione si protrasse con interventi di un allievo, per 15 anni. Il ritardo può essere spiegato sia per i numerosi altri impegni del maestro, sia per la sua fama di artista molto lento, a cui si era cercato di rimediare con l'apposizione della clausola nel contratto che prevedeva 3 anni. Alcuni documenti fanno dedurre che la parte preponderante dell'opera sia stata eseguita dopo il 1459. La presenza di San Bernardino da con l'aureola pone un importante termine post quem, poiché venne proclamato santo solo nel 1450.Si compone di 23 tavole. Nel XVII secolo il polittico fu scomposto, con perdita dell'originaria cornice, riuscendo però ad evitare la dispersione dei pannelli. Sansepolcro era un piccolo centro dove la riflessione artistica non era certo d'avanguardia, per cui la commissione al pittore fu di tipo tradizionale, con un'impaginazione a più scomparti indicati dagli archetti della cornice e con un uso massiccio di colori preziosi, come l'oro sullo sfondo. Nonostante queste limitazioni Piero riuscì a creare un'opera di forte modernità, tramite alcuni espedienti quali la fusione spaziale in un unico pannello principale della Madonna della Misericordia e dei quattro Santi, ai piedi dei quali corre un unico gradino marmoreo e con dettagli, quali le vesti dei fedeli inginocchiati, che sporgono negli attigui scomparti. Forse nell'impaginazione Piero imitò da vicino quella del Polittico di Pisa di Masaccio. È stato osservato come le figure sono investite della solidità delle opere di Masaccio ma immersi nella luce di Domenico Veneziano Il polittico si compone di 23 tavole (cinque maggiori, cinque della cimasa, cinque della predella e quattro scomparti su ciascun pilastrino, di cui quello inferiore occupato semplicemente dallo stemma della confraternita), in parte della mano di assistenti. Al centro si trova la Madonna della Misericordia, una rappresentazione della Verg ine Maria che apre il mantello per dare riparo e protezione alle persone che la venerano, derivata dalla consuetudine medievale della "protezione del mantello", che le nobildonne altolocate potevano concedere a perseguitati e bisognosi d'aiuto. I fedeli sono gerarchicamente più piccoli e sono disposti a semicerchi, quattro per parte (uomini a sinistra e donne a destra), lasciando un ideale posto al centro per l'osservatore. Tra di essi si vede un confratello incappucciato, un ricco notabile vestito di rosso e, secondo una lunga e plausibile tradizione, un uomo voltato verso lo spettatore accanto alla veste di Maria che sarebbe un autoritratto del pittore. La Madonna poggia su una base scura organizzata prospetticamente, che richiama l'attenzione sulla figura centrale. Ben evidente è l'interesse di Piero per la geometria, nell'accumularsi di forme regolari, quali il cilindro del mantello, il tronco di cono dell'aureola e la corona della Verg ine, le forme ovali dei visi. La cintura di Maria è annodata in modo da formare un croce. Madonna della Misericordia o della Mercede (Mercede deriva dallo spagnolo Merced (plur. Mercedes : il nome spagnolo deriva dal latino merces che significa: prezzo, ricompensa inteso come ricompensa gratuita, grazia. Si può quindi dire che Madonna della Mercede significa: Signora della grazia gratuita, ovvero Signora della misericordia). La Vergine è raffigurata in piedi, in grandi dimensioni, mentre allarga il proprio mantello per accogliervi, al di sotto, i fedeli inginocchiati. Si tratta di un retaggio dell'epoca medievale, detto della "protezione del mantello", che le nobildonne altolocate potevano concedere a perseguitati e bisognosi d'aiuto. Ciò consisteva appunto nel dar loro simbolico riparo sotto il proprio mantello, considerato inviolabile. L'iconografia ebbe un particolare successo presso le confraternite medievali e rinascimentali, tra cui soprattutto le confraternite della Misericordia anche dopo la Controriforma Piero della Francesca, Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo, 1451, , La "trasfigurazione" di Cristo come uomo e Dio è uno dei temi centrali del dipinto, come sottolinea l'isolamento sull'asse di Cristo, in posizione frontale, e della colomba, con gli altri personaggi disposti simmetricamente ai lati. Un indizio è la mano sinistra di Giovanni Battista, che non va oltre la sua veste, come bloccata da un impalpabile confine immaginario. La composizione manifesta l'idea di appartenenza dei soggetti al tutto: la colomba dello Spirito santo è accostabile alle nuvole sullo sfondo, Gesù ripete la struttura del tronco in forma di modulo entrambi dello stesso colore definito ‘ polpa di marmo’ (freddezza+ solidità).Il modellato anatomico è saldo e naturalistico sull’esempio di Masaccio La rappresentazione del Battesimo abroga alcune leggi naturali: ad esempio il fiume Giordano si interrompe ai piedi di Cristo. Ciò è probabilmente dovuto alla credenza che Cristo, in quanto essere unico e inimitabile, non potesse essere sdoppiato, nemmeno dal riflesso dell'acqua. I riflessi quasi impercettibili sui malleoli delle figure centrali testimoniano comunque che essi si trovano nell'acqua. Molto originale per la pittura italiana dell'epoca è anche la disposizione del fiume, che sfocia in primo piano, perpendicolare allo sfondo e rivolto allo spettatore.

Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1440-60, Londra, La tavola venne commissionata dall’ abbazia camaldolese di Sansepolcro verso il 1465 come tavola centrale di un polittico terminato nella predella da Matteo di Giovanni, la committenza si deve probabilmente al priore AMBROGIO TRAVERSARI. Il Battesimo di Cristo è una delle opere cronologicamente più controverse della produzione pierfrancescana. Secondo alcuni studiosi i riferimenti al Concilio di -Firenze quindi subito dopo il 1439: si noti la presenza dei dignitari bizantini nel corteo sullo sfondo. I colori tenui sono ancora debitori di Domenico Veneziano (Pala de’ Magnoli 1445 ) con il quale Piero aveva collaborato.Secondo altri, basandosi sulle caratteristiche compositive e stilistiche, l'opera andrebbe invece collocata nella fase matura dell'attività dell'artista, dopo un primo soggiorno urbinate (c. 1450) per affinità con la Flagellazione e con la Resurrezione. Il dipinto è composto secondo una rigorosa costruzione geometrica tramite l'uso di copi platonici dei quali il pittore trattò nel De corporibus regularibus:

un quadrato sormontato da un semicerchio; se dal lato superiore del quadrato si costruisce un triangolo equilatero, il vertice inferiore coincide con il piede di Cristo, mentre nell'incontro delle diagonali del quadrato si trova il suo ombelico. Al centro del triangolo si trovano le mani giunte di Cristo e sull'asse del dipinto si allineano, con esattezza geometrica la colomba, la mano con la coppa di Giovanni Battista e il corpo di Gesù stesso. La colomba si trova sul centro del semicerchio e le sue ali sono disposte lungo il diametro. L'asse mediano, che allude alla rivelazione di Gesù come Figlio di Dio, genera una partizione calibrata, ma non simmetrica in quanto l'albero a sinistra, che divide la tavola in rapporto aureo, ha maggior valore di cesura che non il gruppo centrale. Se nel quadrato si inscrive un pentagono, esso racchiude gran parte delle figure della composizione, con parallelismi tra i suoi lati ed altre linee di forza. Luce e colore La luce ZENITALE annulla le ombre rendendo omogenea tutta la composizione. Le vesti dei dignitari e degli angeli sono delicatamente accordate, con un alternarsi ritmico tra colori caldi e colori tenuemente freddi, come si ritrova anche negli affreschi della Leggenda della vera croce di . Lo sfondo Il paesaggio si intravede tra i gruppi delle figure. Vi si vedono una serie di colline in lontananza, descritte nei minimi dettagli. Esse non sfumano ancora in lontananza per effetto della foschia (come in opere successive di Piero( influenzate dalla pittura fiamminga), ma il cielo è già sfumato con toni più chiari vicino all'orizzonte, un modo di dare profondità e luce al dipinto derivato dalle miniature francesi. Le nuvole tridimensionali, a forma di cilindri distesi e fortemente chiaroscurate, sono uno dei dettagli più tipici della pittura di Piero. I tre angeli, in abiti di differenti colori, derogando dalla tradizione iconografica, non reggono le vesti di Cristo, simbolo di vita nuova dopo i quaranta giorni trascorsi nel deserto, a meno che si vogliano identificare tali vesti col drappo rosa che ricade dalla spalla dell'angelo di destra. Tenendosi per mano in segno di concordia, essi alluderebbero, a giudizio di molti critici, al recente Concilio di Firenze e al tentativo di riunificazione della Chiesa d’Occidente con quella d’Oriente Tale ipotesi sembrerebbe suffragata dalla presenza, dietro il giovane che si accinge a denudarsi per il battesimo, di personaggi vestiti alla maniera orientale. L'angelo di destra, che guarda fuori dal dipinto in direzione dello spettatore, è la figura chiamata "festaiuolo". Ad essa, analogamente al narratore che, nel teatro rinascimentale e commentava le rappresentazioni con il compito di richiamare l’attenzione. Le Storie della Vera Croce

un ciclo di affreschi conservato nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo.

Iniziato da Bicci di Lorenzo, venne dipinto soprattutto da Piero della Francesca, tra il 1452 e il 1466, che ne fece uno dei capolavori di tutta la pittura rinascimentale. Nel 1447 la famiglia aretina Bacci affidò al fiorentino Bicci di Lorenzo l’incarico di decorare la Cappella Maggiore della chiesa, allora sotto il loro patronato. Alla morte del pittore, nel 1452, erano stati dipinti, nella grande volta a crociera, soltanto i quattro "Evangelisti", il prospetto dell’arco trionfale con il "Giudizio Universale" e i due "Dottori della Chiesa" nell’intradosso dell’arco. Si presume che Piero della Francesca abbia subito proseguito i lavori, iniziando dalla parte interrotta. Il tema del ciclo è tratto dalla "Leggenda Aurea" di Jacopo da Varag ine, fonte iconografica sulla quale si basano molte raffigurazioni degli artisti toscani ed italiani a partire dal Trecento.

Come risulta da un documento notarile, i lavori, interrotti negli anni 1458/ 1459, risultano già terminati nel 1466. La vicenda narrata pittoricamente attraverso 12 episodi principali, inseriti nei diversi registri che compongono il ciclo, comincia dalla Morte di Adamo, rappresentata nel lunettone della parete destra e si conclude con l’Esaltazione della Vera Croce, nel lunettone della parete sinistra, e l' Annunciazione, non seguendo tuttavia la sequenza cronologica di esecuzione degli affreschi realizzati dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra, su 7 diverse "pontate" e ripartita in oltre 250 "giornate di lavoro". La Leggenda della Vera Croce è la leggenda che racconta la storia del legno sul quale venne crocifisso Cristo, fa parte della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, opera composta nel XIII secolo.

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La leggenda ha inizio con Adamo che, prossimo a morire, manda il figlio Set in Paradiso per ottenere l'olio della misericordia come viatico di morte serena. L'Arcangelo Michele, invece, gli dona un ramoscello dell'albero della vita per collocarlo nella bocca di Adamo al momento della sua sepoltura (o tre semi secondo un'altra versione). Il ramo cresce e l'albero viene ritrovato da re Salomone che, durante la costruzione del Tempio di Gerusalemme, ordina che l'albero venga abbattuto ed utilizzato. Gli operai non riescono però a trovare una collocazione, (sempre troppo lungo o troppo corto), e quando lo si tagliava a misura giusta in realtà diveniva troppo corto, tanto da non poter essere utilizzato. Gli operai decidono così di gettarlo su un fiume, perché servisse da passerella La regina di Saba, trovandosi a passare per il ponte, riconosce il legno e profetizza il futuro utilizzo della tavola. Salomone, messo al corrente della profezia, decide di farlo sotterrare. Quando Cristo fu condannato, la vecchia trave venne ritrovata dagli israeliti ed utilizzata per la costruzione della Croce A questo punto la leggenda inizia a confondersi con la storia. Nel 312, la notte prima della battaglia contro Massenzio, l'imperatore Costantino I ha la mitica visione che porrà fine, anche, alle persecuzioni dei cristiani: una croce luminosa con la scritta "In hoc signo vinces". L'imperatore decide allora di utilizzare la croce come insegna e il suo esercito vinse la battaglia di Ponte Milvio. Costantino invia la madre Elena a Gerusalemme per cercare la Croce della Crocefissione. Elena trova una persona che conosceva il punto di sepoltura della Vera Croce. Per costringerlo a parlare, lo fa calare in un pozzo, senza pane ed acqua, per sette giorni. Il reticente a rivela il luogo della sepoltura. Elena rinviene quindi le tre diverse croci utilizzate il giorno della morte di Cristo. Per identificare quella sulla quale era morto Gesù, Sant'Elena sfiora con il legno un defunto e questi resuscita. Sant'Elena separa la croce in diverse parti di cui la principale viene lasciata a Gerusalemme. All'inizio del VII secolo l'Impero bizantino visse una profonda crisi e subì attacchi da diversi fronti, in particolare dall’Impero persiano per opera del re Cosroe II. Nel 614 il re Cosroe II, dopo tre settimane di lungo assedio, riuscì ad espugnare Gerusalemme e a trafugare tutti i tesori e le reliquie a Ctesifonte. L'imperatore bizantino Eraclio raccolte tutte le forze decise di partire personalmente alla guida del suo esercito per sconfiggere i persiani e recuperare la Vera Croce. La guerra con i persiani durò diversi anni e solo nel 628 Eraclio sconfisse, decapitò Cosroe II ed ottenne la restituzione della Croce che venne riportata dallo stesso Eraclio (scalzo e vestito da pellegrino) a Gerusalemme il 21 marzo 630 tra l'esultanza del popolo. Questo fu un tema estremamente caro ai frati francescani Esaltazione della Croce Eraclio, dopo la riconquista della Croce, la riporta a Gerusalemme in un pellegrinaggio che fa scalzo come Cristo sulla strada del Golgota. Fedeli accorrono dalla città e si inginocchiano davanti alla sacra reliquia Piero Della Francesca mostra la Battaglia di Ponte Milvio dove Costantino, nel segno e con la protezione della Croce sconfigge Massenzio. Nell'affresco si vede sulla sinistra l'esercito romano, contraddistinto dall'aquila imperiale sulla bandiera gialla, che avanza deciso contro quello in fuga di Massenzio. Siamo nel 312 dopo Cristo. L'anno successivo Costantino emanerà il famoso editto che porta il suo nome secondo il quale il Cristianesimo sarà una religione liberà e non dovrà essere più perseguitata. Piero della Francesca, Resurrezione di Cristo, 1450-63, Sansepolcro, Museo Civico

Il lavoro è in genere datato agli anni sessanta del Quattrocento, quando Piero lavorava ad Arezzo con oscillazioni che arrivano però anche agli anni cinquanta. L'affresco si trovava in una sala di quello che era il palazzo del governo cittadino (oggi sede del museo). Con il risveglio dell'interesse per Piero verso la metà del XIX secolo, la Resurrezione venne riscoperta da viaggiatori inglesi e fu ampiamente lodata Layard definì il Cristo di Sansepolcro come "dotato di una maestà terrificante e non terrena nel contegno, nei grandi occhi fissi nel vuoto e nei tratti malgrado ciò distesi". A metà degli anni sessanta dell'Ottocento, gli artisti inglesi, si riversavano a vedere gli affreschi di Piero, del quale apprezzavano la "laicità" della sua nuova scienza prospettica e la sua ispirazione che, secondo loro, derivava dall'arte greca. Lo stesso Degas visitò Arezzo e Sansepolcro, traendo ispirazione per opere come alla costruzione di Babilonia oggi al Museo d’Orsay L'opera venne lodata anche dallo scrittore Aldosus Huzley che nutriva una sconfinata ammirazione per questo affresco, arrivando a definirlo “ la più bella pittura del mondo Piero della Francesca, Resurrezione di Cristo, 1450-63, Sansepolcro, Museo Civico

Piero siede ai piedi del sarcofago e l'asta del vessillo con la croce, lo tiene in diretto contatto con la divinità, Ci sono delle probabilità, che il vessillo delle crociate sia un riferimento al primo regno di Gerusalemme e alla raccolta delle sue leggi che erano note come lettere dal Santo Sepolcro, il riferimento probabilmente è per avere continuo ed una legittimazione delle decisioni che si prendevano nella sala attigua sede del governo cittadino Un altro tema è quello del sonno e della veglia, con il contrasto tra la parte inferiore e terrena dei soldati e quella superiore della divinità, che sempre vigila. La costruzione geometrica della composizione rende le figure astratte e immutabili, quasi appartenenti a un ordine di comprensione superiore. Piero della Francesca, Resurrezione di Cristo, 1450-63, Sansepolcro, Museo Civico

Mentre quattro soldati romani dormono, Cristo si leva dal sepolcro ridestandosi alla vita. La sua figura è al vertice di un triangolo immaginario, che va dalla base del sarcofago alla sua aureola, suggerito anche dalle linee di forza delle pose dei soldati. Nel soldato senza elmo al centro è probabile che sia dipinto un autoritratto di Piero. Dietro di lui si trova la base del vessillo che regge Cristo, quasi a voler indicare un diretto contatto con la divinità, per ispirare il pittore, ma anche l'uomo politico,. poiché egli stesso ricoprì più volte incarichi pubblici per la sua città. Nelle vesti dei soldati ricorrono quelle caratteristiche di alternanza cromatica tipiche delle opere di Piero: il rosso è alternatamente colore dell'elmo e dei calzari di un soldato e dello scudo di un altro; il verde ricorre nella cotta di uno, nel mantello di un altro e nei calzari del terzo, Cristo si erge solenne e ieratico, e la sua figura divide in due parti il paesaggio: quello a sinistra, invernale e morente; quello a destra, estivo e rigoglioso. Si tratta di un richiamo ai cicli vitali, presenti già nella cultura pagana e citati da vari artisti precedenti, come nell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Piero della Francesca, Resurrezione di Cristo, 1450-63, Sansepolcro, Museo Civico

La costruzione geometrica della composizione rende le figure astratte e immutabili, quasi appartenenti a un ordine di comprensione superiore. A questo effetto contribuisce la costruzione "atletica" della figura di Cristo, ben eretta e modellata anatomicamente come una statua antica, con un piede appoggiato sul bordo, a sottolineare l'uscita dal sarcofago, e la mano destra che regge il vessillo crociato, emblema del suo trionfo. Egli venne consapevolmente dipinto al di fuori delle regole prospettiche che imporrebbero una veduta dal basso, come avviene per le teste dei soldati. Piero dopotutto aveva piena padronanza di queste tecniche di rotazione dei corpi nello spazio, come ampiamente descritte nel De Perspectiiva Pingendi Cristo appare sottratto alle leggi della gravità La linea dell'orizzonte mette in risalto la spalle e la testa di Cristo. Il cielo sullo sfondo è tipico delle opere di Piero della Francesca, sfumato all'orizzonte come durante l'alba e punteggiato da nuvolette chiaroscurate "a cuscinetto". La composizione è equilibrata: all’ambiente chiuso di sinistra corrisponde a Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo, 1470, , Galleria Nazionale delle Marche destra un ambiente aperto, suddivisi dalla colonna che sostiene il tempio, entro cui si svolge la Flagellazione di Cristo. Le due parti del dipinto sono visivamente unite dal comune impianto prospettico. Lo spettatore può osservare il dipinto solo da un punto di vista situato al centro, poiché lo spazio della composizione è strettamente unitario, e tale unità è raggiunta mediante lo studio rigoroso di un unico punto di fuga. Piero della Francesca riesce a rendere molto ampio lo spazio dipinto grazie alla padronanza della prospettiva lineare. Il senso della profondità è suggerito principalmente dall’architettura classica resa in prospettiva: le linee della pavimentazione, degli edifici e delle cornici corrono tutte verso il punto di fuga, che si trova molto vicino al centro del dipinto. Grazie alla prospettiva, quindi, le figure poste in lontananza assumono dimensioni più piccole, rigorosamente corrette rispetto sia a quelle in primo piano, sia a quelle degli edifici, delle porte e delle colonne con cui sono in stretto rapporto. Ci sono due diverse fonti di luce naturale, fatto impossibile nel mondo reale. La luce cade sulle figure in primo piano da sinistra, ma colpisce la scena della flagellazione da destra, collocandola al di fuori del tempo e dello spazio. La forza straordinaria dell'arte di Piero sta propriamente nell'avere connaturato il colore, che in lui è immediatamente luce, con la forma, fino a fargli assumere valore plastico. Il colore è steso in maniera precisa e minuziosa, nella pavimentazione è dato a campiture omogenee. Olio su tavola (58,4x81,5 cm) di datazione incerta (oscillante tra il 1444-1470) conservata nella Galleria Naz. delle Marche di Urbino Il piccolo dipinto, uno dei più emblematici di Piero della Francesca e del Rinascimento ritrovato nel 1839 nella sagrestia del Duomo di Urbino ad opera del Passavant (pittore e st.dell’arte) in viaggio ad Urbino sulle orme di Giovanni Santi vide la tavola ed annotò diligentemente una descrizione, in cui riportò anche la firma di Piero e la scritta "Convenerunt in unum" (si accordarono o si allearono), che si sarebbe trovata "accanto" al gruppo delle tre figure (sulla cornice?) e che è poi scomparsa. La frase è tratta dal Salmo II parte del servizio del Venerdì santo in riferimento alla Passione: Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius. Niente si sa della commissione o della destinazione originale della tavola, che però all'epoca di Passavant era ricordata tradizionalmente come dono del Duca . Non è citata negli inventari del Palazzo Ducale né nell’eredità della Rovere: è registrata in un inventario settecentesco del Duomo di Urbino Nel 1857 l'inviato di sua Maestà Britannica la regina Vittoria Sir Charles Locl Eastlake in Italia a caccia di dipinti per i musei inglesi di recente istituzione, vide l'opera ma ne rimase deluso per alcuni lineamenti che turbavano il suo gusto classicista (le caviglie "grosse", le narici "larghe", ecc.). Per questo non l’ acquistò. ne informò però il giovane amico e consulente italiano Giovan Battista Calvalcaselle che la vide tra il 1860-61 e ne ordinò il primo restauro lamentandone una eccessiva pulitura. In questa circostanza venne forse rimossa la scritta "Convenerunt in unum", che non si trova più citata nelle fonti dopo il 1863.. L'opera è danneggiata da tre lunghe fenditure orizzontali e da alcune cadute di colore. La scena mostra la Flagellazione un tema inconsueto come opera a sé stante, facente più spesso parte di predelle. Le uniche altre rappresentazioni di una Flagellazione isolata si hanno tra i disegni al di Jacopo Bellini o nella tavola alla Pinacoteca di Brera di (1475-1480), allievo per altro di Piero. Come modelli Piero aveva potuto vedere lo scomparto di predella della pala trecentesca di scuola senese nel Duomo di Sansepolcro (simile posizione dei flagellatori), che aveva a sua volta come prototipi la scena nel retro della Maestà del Duomo di Siena di Duccio di Buoninsegna (1308-11) o un affresco nella basilica inferiore di Assisi di Pietro Lorenzetti. Interpretazione storica Lettura legata agli avvenimenti storici dell'epoca: caduta di Costantinopoli nel 1453; preparativi della crociata anti-ottomana voluta da Pio II (mai partita). Attorno al 1450 l'argomento Bisanzio/Costantinopoli e il suo salvataggio è al centro dei piani politici degli stati italiani èil personaggio barbuto = sapiente greco Lo spazio della flagellazione: riferimento incrociato alle città sante di Gerusalemme-Roma- Costantinopoli, con la statua che rappresenterebbe Costantino, già presente a Bisanzio e a Roma, davanti al Palazzo del Laterano e la scala come la "Scala Pilatii", cioè la Scala Santa del Laterano, che (all'epoca veniva chiamata in quel modo probabilmente per un travisamento dell'originale nome di Scala Palatii (cioè del palazzo). la Flagellazione: trasposizione del messaggio politico del cardinale Giovanni Bessarione il cui ruolo nel concilio fu fondamentale.

Sulla parte bassa destra della cornice (ormai andata distrutta) vi era in latino la scritta UNUM CONVENERUNT, ossia "si riunirono in un luogo" (Mantova) che ci dà la possibilità di definire l'anno di realizzazione: è il 1460-61 circa, qualche anno dopo l'incontro del '59. il personaggio bizantino alluderebbe a colui che aprì il Concilio di Ferrara- Firenze del 1438-39 per la riunificazione delle chiese orientali e occidentali; Cristo flagellato alla lontana Costantinopoli (come testimonia la colonna con la statua dorata del Costantino-Apollo-Heliòs che si trovava nell'antico foro costantinopolitano, che allude anche alla reliquia della colonna della flagellazione già nella capitale bizantina.), che allora era assediata dagli ottomani (il cui sultano sarebbe l'uomo col turbante di spalle, scalzo perché in attesa dei calzari del basileus), quanto in senso più ampio la cristianità intera. In Ponzio Pilato è evidente la rappresentazione dell imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo seduto, con calzature color porpora, che solo gli Imperatori bizantini potevano portare. Quando Piero della Francesca dipinse la tavola erano già passati 20 anni dal concilio e Costantinopoli era stata presa dagli ottomani. Pio II Piccolomini su suggerimento del Bessarione aveva promosso una crociata, al cui appello però risposero ben pochi : la tavola di Piero della Francesca ritrarrebbe esattamente il momento di discussione di questo secondo intervento (parte destra) storicamente avvenuto in occasione di una riunione chiamata Concilio di Mantova (ecco un possibile senso per la frase convenerunt in unum), alla luce della memoria del Concilio di Ferrara- Firenze di vent'anni prima (parte sinistra). La scena della flagellazione è quindi una metafora della sofferenza che la cristianità subì per mano dei turchi nel 1453. La lettura resta incongruente sul piano cronologico. Interpretazione teologica Un filone interpretativo esclude la storicità delle figure rappresentate, da intendersi come figure bibliche, o simboli e allegorie. Per (1979) il giovane biondo sarebbe il "giusto universale” Cristo davanti a Pilato. Oppure le tre figure sul proscenio sarebbero le personificazioni dell’ebraismo, paganesimo, eresia platonica; le tre figure in primo piano starebbero discutendo del rilascio di Barabba e, in quest'ottica, sarebbero, partendo da sinistra, un funzionario romano, rappresentante Pilato ; Barabba stesso (con i piedi nudi) e, a destra, un rappresentante della comunità ebraica, corpulento e riccamente vestito. Interpretazione dinastica La figura cruciale del dipinto è il giovane biondo al centro del gruppo degli astanti, che è girato verso lo spettatore, in posizione preminente, e trasmette un parallelismo con la figura di Cristo retrostante: entrambi sono al centro dei rispettivi gruppi ed hanno pose molto simili, soprattutto di piedi e mani; inoltre sono equidistanti dalla colonna centrale. L'interpretazione classica, suffragata dalla menzione nell'inventario settecentesco del Duomo di Urbino e avvalorata, tra gli altri, da Longhi vede nel dipinto una celebrazione dinastica dei Montefeltro e/o la commemorazione di Oddantonio il fratellastro e predecessore di Federico, ucciso appena diciassettenne in una congiura il 22 luglio1444. Oddantonio è indicato come la figura centrale, il giovane biondo che è posto in parallelo col Cristo flagellato, che simboleggerebbe quindi il suo sacrificio (Venturi 1954- 1965).La morte di Oddantonio, in quanto vittima innocente, verrebbe così assimilata alla Passione di Cristo. JAN VAN EYCK,

I CONIUGI ARNOLFINI

1434

Londra National Gallery Il Doppio ritratto dei duchi di Urbino, 1465-72 Firenze, recto Galleria degli Il doppio ritratto, tra le effigi più celebri del Rinascimento italiano. La data è imprecisata. Già esposto nella sala delle Udienze di palazzo Ducale di Urbino, entrò nelle collezioni dei Della Rovere e, con l'estinzione della casata, pervennero a Firenze nel 1631 con la dote di Vittoria della Rovere, ultima discendente, maritata a Ferdinando II de' Medici. Dalle collezioni granducali confluirono poi naturalmente alle Regie Gallerie (1773), divenute gli Uffizi. La data è imprecisata è probabile che il ritratto di Federico fosse completato già nel 1465 (assenza di insegne onorifiche ) quello di Battista Sforza è probabilmente postumo (iscrizione al passato) databile a dopo il 1 472 anno della sua morte per polmonite a 27 anni.

Le radiografie hanno accertato che Piero dipinse i personaggi dei trionfi nudi, tramite spolvero, che vennero poi rivestiti solo in una seconda fase. L'uso della tecnica a olio è innovativo per il pittore, sebbene in opere precedenti sia usata una tecnica mista, olio e tempera. Ciò può essere derivato dal contatto con i pittori fiamminghi della corte urbinate, quali Giusto di Gand. I trionfi (carri allegorici) erano un tema caro agli umanisti, perché rievocavano il mondo dell'Antica Roma ed erano carichi di suggestioni letterarie derivate dall'opera del Petrarca I trionfi.. ll trionfo di Battista esalta invece le virtù coniugali: essa è colta durante la lettura, con le tre Virtù teologali della Carità (vestita di nero con in grembo il pellicano, simbolo di sacrificio materno che dona le proprie stesse carni per la sopravvivenza dei figli), la Fede (vestita di rosso col calice e l'ostia), la Speranza (di spalle) e una quarta virtù, la Temperanza (frontale). Un amorino guida due liocorni, simbolo di castità. L'iscrizione recita: "QVE MODVM REBVS TENVIT SECVNDIS CONIVGIS MAGNI DECORATA RERVM LAVDE GESTARVM VOLITAT PER ORA CVNCTA VIRORVM" (Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito) Le iscrizioni celebrative sono pienamente autografe di Piero Federico è ritratto sul carro trionfale trainato da due cavalli bianchi, mentre una Vittoria alata lo incorona d'alloro. Nella parte anteriore del carro siedono le quattro Virtù cardinali: Giustizia (frontale, con spada e bilancia), Prudenza (di profilo, con lo specchio), Fortezza (con la colonna spezzata) e Temperanza (di spalle). Un amorino poi guida i cavalli, anche se è chiaro come l'ordine pervenga da Federico stesso, che, vestito dell'armatura, impugna il bastone del comando, evidenziato dal prolungamento della linea orizzontale tramite una strada nello sfondo. L'iscrizione in lettere capitali romane esalta le virtù del sovrano: "CLARVS INSIGNI VEHITVR TRIVMPHO QVEM PAREM SVMMIS DVCIBVS PERHENNIS FAMA VIRTVTVM CELEBRAT DECENTER SCEPTRA TENENTEM (È portato in insigne trionfo quell'illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri. Piero della Francesca, Madonna di , 1470-85, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche La è un dipinto, olio su carta riportata su tavola di noce (61x53,5 cm), realizzato dal pittore Piero della Francesca e conservato nella Galleria Nazionale delle Marche. La datazione è molto incerta, oscillante tra il 1470 e il 1485, e il nome dell'opera deriva dalla collocazione più antica conosciuta, la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Senigallia. La scena mostra una Madonna stante col Bambino tra due angeli, all'interno di un'abitazione. Il taglio del dipinto è insolito e mostra i protagonisti come mezze figure, tagliate dal margine inferiore del dipinto. Il Bambino, in atto di benedire, tiene in mano una rosa bianca, simbolo della purezza della Verg ine, mentre al collo ha una collana di perle rosse con un corallo, un simbolo arcaico di protezione degli infanti, che nel caso delle scene sacre acquistava anche un valore di premonizione della Passione per via del colore rosso-sangue Gli angeli, dalle tenui vesti di colore grigio e rosa salmone, sono fedelmente ripresi dalla Pala di Brera, tanto che alcuni ipotizzano l'intervento di allievi che copiarono le fisionomie dell'opera precedente. Sullo sfondo si vede a destra un armadio a muro con mensole inquadrato da una cornice scolpita con una candelabra, come ne esistevano nel Palazzo Ducale di Urbino (sebbene non ne ritragga nessuna in particolare), mentre a sinistra si apre, alla maniera fiamminga, un altro ambiente da dove proviene un doppio raggio di sole tramite una finestra aperta, rifrangendosi sulla parete ombrosa non prima di aver illuminato il pulviscolo atmosferico lungo la traiettoria. La luce disegna poi riflessi sui rilievi della decorazione della nicchia, sulle piccole nature morte del cestello con il panno di lino e della scatola cilindrica d'avorio nell'armadio, e poi nei capelli, nelle vesti e nei gioielli dei quattro protagonisti. ruolo fondante: la luce, che attraversa il vetro a rondelle senza romperlo, possibile metafora del mistero dell'Incarnazione che attraversa il corpo di Maria, nella concezione e nel parto, senza violarlo.

La mancanza di punti di appoggio tra le figure e lo spazio impedisce di determinare la distanza reciproca, facendo apparire i protagonisti vicinissimi allo spettatore.

Nonostante la ricchezza di analogie con la Pala di Brera, la Madonna di Senigallia ha un carattere molto diverso, più intimo, con l'allusione alla camera dal letto dell'Incarnazione (presente tradizionalmente nelle raffigurazioni dell'annunciazione). N.B. Di derivazione fiamminga del legno di noce al posto del consueto pioppo, la tecnica pittorica con un largo uso di leganti oleosi, nonché i delicati effetti materici nella pittura, come il velo sulla testa della Madonna, le luccicanti rotondità dei gioielli degli angeli e le pieghe plastiche e luminose dei panneggi. Lo studiolo del Duca- Urbino Galleria Nazionale delle Marche Affacciato sull’ultima e più decorata loggia tra i due torricini, lo studiolo è l’ambiente più intimo del Palazzo e raffigura il ritratto Ll studiolo viene riferito al 1476, anno che appare nell’iscrizione che glorifica il Duca al di sotto del sontuoso soffitto a lacunari. Quest’ultimo, opera di GIULIANO e BENEDETTO DA MAIANO, riporta emblemi e onorificenze di Federico, le stesse che ricorrono nelle sottostanti decorazioni.Nella parte più alta dello studiolo si incontrano i 28 ritratti (oggi solo 14) degli Uomini Illustri attribuiti al fiammingo Giusto di Gand e a “Pietro Spagnolo”, riconosciuto da parte della critica in Pedro Berruguete. La loro presenza ha la funzione esemplare di ispirare il padrone di casa a imitarli nelle loro virtù. Originariamente erano inseriti in una doppia tribuna di bifore e accoppiati grazie al loro ambito di ricerca o professionale in un tacito dialogo di gesti. Nella tribuna inferiore si raffigurano personalità ecclesiastiche (dove appaiono anche i poeti cristiani Dante e Petrarca), in quella superiore le personalità laiche. L’ambivalenza tra sacro e profano o cristiano e pagano ricorre in tutta la decorazione dello studiolo e riappare nei due sacelli sottostanti (il Tempietto delle Muse e la Cappellina del Perdono) e poi in Vaticano nella Stanza della Segnatura di Raffaello.Nel 1631, con la morte di Francesco Maria II Della Rovere, ultimo Duca di Urbino, i territori del Ducato tornano alla Chiesa e il Legato Cardinale Antonio Barberini, nipote di Urbano VIII, preleva malamente i dipinti, mutilandoli in singoli ritratti e privandoli di gran parte delle iscrizioni. Le tavole passano nella collezione romana dei Barberini e rimangono insieme fino al 1812, quando 14 di esse passano alla famiglia Colonna di Sciarra che le vende al Marchese Campana. Nel 1861 vengono acquistate da Napoleone III per approdare nel 1863 al Louvre. I 14 dipinti rimasti in Italia ritornano a Urbino nel 1934. Al di sotto dei dipinti tutto è rappresentato nella perfezione illusionistica della prospettiva intarsiata dei da Maiano. Sono raffigurate le tre Virtù Te o l o g a l i , negli armadi e sui sedili sono simulate le serie degli oggetti che arredano solitamente gli studioli e che qui simboleggiano le virtù cardinali, le discipline del Tr ivium e soprattutto del Quadrivium, in sintonia con la cultura matematico- scientifica di Federico. Vi è ritratto anche il principe con veste da casa e lancia puntata a terra. Deposta l’armatura, simbolo della sua vita attiva, il Duca può dedicarsi nello studiolo all’otium, allo studio, alla contemplazione. Grande importanza è data alla musica con la presenza degli strumenti musicali, i più rappresentati tra gli oggetti, che rimandano alla tradizione pitagorica e platonica. Nella parete nord compare in un cartiglio la citazione dal libro IX dell’Eneide, “virtutibus itur ad astra” (per le virtù si giunge al cielo): il programma iconografico dello studiolo è simbolo di un processo di perfezionamento interiore, che si raggiunge con la mediazione delle virtù e l’uso dell’intelletto. Piero della Francesca, Pala di Brera, 1469-74, Milano, Pinacoteca di Brera

La Pala di Brera, o Pala Montefeltro ( con la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il donatore Federico da Montefeltro) tempera e olio su tavola (248x170 cm), databile a 1472 circa. parti della pala (in particolare le mani del duca) sono da attribuire ad un intervento di completamento o modifica da parte di Pedro Berruguete, pittore di corte a Urbino, databile a dopo il 1474 circa. La pala di Brera è un delle ricerche prospettiche compiute dagli artisti del centro Italia nel secondo Quattrocento. Si tratta di un'opera monumentale, con un trattamento magnifico della luce, astratta e immobile, e un repertorio iconografico di straordinaria ricchezza. Inconsuete le dimensioni sia l'assenza di scomparti laterali (cfr.tradizionali polittici), risulta pertanto la prima Sacra Conversazione sviluppata prevalentemente in verticale: numerose tavole da altare, in tutta l'Italia centrosettentrionale, vi si ispirano. L'opera presenta al centro la Madonna in trono in posizione di adorazione, con le mani giunte verso Gesù Bambino addormentato sul suo grembo.

La particolare disposizione del gruppo sacro centrale è rara ma documentata già nella bottega muranese dei Vivarini o in un polittico di Antonio da Ferrara presente nella chiesa urbinate di San Donato dal 1439. Probabilmente la posizione venne scelta dal committente in segno di devozione filiale. Luciano Laurana, il palazzo ducale di Urbino, dal 1472 Il progetto più ambizioso di Federico da Montefeltro, uomo coltissimo e raffinato, fu la costruzione di Palazzo Ducale e di pari passo, la sistemazione urbanistica di Urbino, facendone la città "del principe" Prima degli interventi di Federico, la residenza ducale era un semplice palazzo sul colle meridionale, al quale si aggiungeva un vicino castellare, sull'orlo del dirupo verso la Porta Valbona. Le origini del palazzo risalgono a quando il conte Antonio da Montefeltro, nonno di Federico, nel 1444 Federico da Montefeltro prese il potere e, dopo un decennio circa di assestamento finanziario, nel 1454 circa fece innanzitutto congiungere i due edifici ducali antichi, chiamando architetti fiorentini di formazione brunelleschiana) che edificassero un palazzo intermedio. Il risultato, nel corso di dieci anni, fu il Palazzetto della Jole , a tre piani, in stile austero, semplice e tipicamente toscano. A ciò si aggiunse l'appartamento dei Melaranci e un abbozzo del cortile. L'interno venne decorato con alcuni sobri accenti antichizzanti negli arredi, come nei fregi e nei camini, incentrati sulla celebrazione di Ercole e delle virtù belliche. La seconda fase: Luciano Laurana (1464-1472) Dopo il 1462, la sconfitta di Sigismondo Malatesta nella battaglia di Cesano e l'acquisizione di Fano e Senigallia 1463 aumentarono le entrate di Federico, che divenne anche capitano generale e arbiter della lega italiana. In quel periodo il progetto del palazzo venne mutato, "con l'intenzione di superare tutte le residenze principesche d'Italia", dal 1464 il dalmata Luciano Laurana- forse dietro indicazione di L.B.Alberti- diviene “"ingegnero" del duca. Fulcro del nuovo assetto fu il vasto cortile porticato :forme armoniose e classiche, portico con archi a tutto sesto, oculi e colonne corinzie al pian terreno, mentre il piano nobile è scandito da lesene e finestre architravate. Lungo i primi due marcapiano corrono iscrizioni in capitali romane , il carattere epigrafico classico, così come classici, per la precisione copiati da esemplari flavi sono i capitelli. Inoltre Laurana fortificò il palazzo e la città . Francesco Laurana, Battista Sforza, Firenze, Museo del Bargello TERZA FASE: FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI « Federico edificò un Il palazzo venne poi dilatato verso la città e in direzione opposta. La facciata verso la città ebbe una forma "a libro aperto" (a "L") su piazzale palazzo, secondo la opinione Duca Federico: il Palazzo diviene fulcro del tessuto urbano e ingloba con la sua presenza anche l’autorità religiosa di molti, il più bello che in Il fronte a strapiombo su Valbona venne invece completato con la cosiddetta "facciata dei Torricini", leggermente ruotata verso ovest rispetto tutta Italia si ritrovi; e d'ogni agli assi ortogonali del palazzo. Deve il suo nome alle due torri che affiancano la facciata alta e stretta, ma ingentilita al centro dal ritmo ascensionale di tre logge sovrapposte, che ripetono ciascuna lo schema opportuna cosa sì ben lo dell'arco di trionfo, ispirato probabilmente all'arco di Castel Nuovo a Napoli di Don Ferrante d'Aragona, del quale Federico era comandante generale. fornì, che non un palazzo, La facciata dei Torricini non guarda verso l'abitato ma verso l'esterno, per questo fu possibile una maggiore libertà stilistica, senza doversi curare ma una città in forma di dell'integrazione con edifici antecedenti, inoltre la sua presenza imponente è ben visibile anche da lontano, come simbolo del prestigio ducale. Interessante è anche il colore del materiale laterizio impiegato, che segue palazzo esser pareva. » la tradizione marchigiana, da Marina Foschi definita "luminosa e levigata", diversa sia da quella emiliana "ferrigna e chiaroscurata" sia dal particolare rosso forlivese ("color cotto chiaro, intenso e pur così trasparente”) tipico della, territorialmente più vicina, città romagnola Baldassarre Castiglione

Il Cortegiano 1, 2, Il Tr ittico Portinar i di Hugo van der Goes ha ispirato molti artisti fiorentini del Rinascimento che ne hanno ripreso alcuni dettagli nelle loro opere. Hugo van der Goes, Tr ittico Portinar i, pannello centrale con l’Adorazione dei pastori, 1476 -1478,

Trittico Portinari di Hugo van der Goes olio su tavola, cm 253 X 304. Firenze, Galleria degli Uffizi Hugo van der Goes, Trittico Portinari olio su tavola (253x141 cm i pannelli laterali, 253x304 quelle centrale) 1477 /78 ,Firenze, Uffizi Il trittico, dedicato all’Adorazione dei pastori venne dipinto a dal pittore fiammingo Hugo van der Goes su commissione del banchiere fiorentino To m m a s o Portinari capo della filiale locale del Banco mediceo che visse per più di quarant'anni con la sua famiglia nella città oggi in Belgio. Le tavole vennero poi trasportate per nave fino a Pisa su una nave che fece prima scalo in Sicilia e successivamente risalirono l’Arno su imbarcazioni fino a Firenze, dove l'opera giunse il 28 maggio 1483, trasportata con un corteo alla chiesa di sant’Egidio nell’Ospedale di Santa Maria Nuova antico patronato dei Portinari. Sebbene a Firenze si conoscessero già opere fiamminghe ed avessero nel tempo ispirato a più riprese gli artisti locali, il Tr ittico era l'opera di maggiori dimensioni fino ad allora trasportata in città, ed ebbe un effetto di folgorante scalpore sulla scuola artistica locale.

La natura morta in primo piano, con i due vasi di fiori ed il covone di frumento (che richiamano Betlemme in ebraico "la casa del pane"), sono delle allegorie dell’ Eucarestia e della Passione Il frumento ricorda l’Ultima cena dove Cristo spezzò il pane. I gigli rossi simboleggiano il sangue della Passione e gli iris bianchi la purezza, mentre gli iris purpurei e l'impettita aquilegia rappresentano i sette dolori dellaVerg ine; i garofani alludono invece alla Tr inità La scena della nascita di Gesù prefigura la sua morte di resurrezione. Lo zoccolo in terra indica che qualcuno è scalzo: in quel tempo si credeva che pestare il suolo scalzi fosse garanzia della sacralità, come il terreno su cui camminò Mosè quando Dio gli comandò: "Togliti i sandali dai piedi, poiché il luogo sul quale tu stai è una terra santa" (Esodo). L'Adorazione del Bambino, basata su una delle visioni di s.Brigida di Svezia , ha luogo in uno scenario grandioso, in cui figure celesti e terrene sono rappresentate a fianco, come se si incontrassero. Nel pannello centrale la stalla è dipinta come una loggia con colonne posta al margine di una città della quale si intravedono alcuni edifici: si tratta dell'allusione al palazzo abbandonato di Re Davide , lontano progenitore di Cristo, riconoscibile per il simbolo dell'arpa scolpito sulla lunetta del portale e per l'iscrizione con la sua profezia di un bambino che nascerà da una vergine. Al centro campeggia la figura di Maria, tutt'altro che stilizzata, bensì vibrantemente umana e luminosa, inginocchiata e con le mani giunte e rivolte in basso, al Bambino poggiato in terra tra raggi che ne rivelano la santità: si tratta della rappresentazione di Gesù come "Luce del mondo", infatti la sua figura rischiara alcuni degli astanti, come si vede bene ad esempio nell'angelo sopra di esso. Tutt'i ntor no sono disposti a semicerchio gli altri astanti: a sinistra san Giuseppe, con la veste rossa, il bue e l'asinello e due angeli che volano in alto; in prima fila due gruppi di angeli in posizione simmetrica, due vestiti di bianco a sinistra e cinque con vesti più elaborate a destra; dietro di essi si trovano i tre pastori che vennero copiati anche dal Ghirlandaio, Ante del trittico chiuso chiuso

I pannelli laterali sono chiudibili, come tipico nelle pale d'altare nordiche, e sono dipinti con un'Annunciazione a monocromo. Rispetto ai modelli a sua disposizione, l'artista ritrasse Maria e l'angelo in nicchie particolarmente profonde, creando un effetto spaziale mai così accentuato. La figura della Verg ine è abbastanza convenzionale, con la colomba dello Spirito Santo che le sta per discendere sul capo, mentre quella dell'angelo è assai più originale, presa in una posa vacillante con tutti gli arti piegati, come se stesse per cadere in ginocchio Hugo van der Goes, Trittico Portinari olio su tavola (253x141 cm i pannelli laterali, 253x304 quelle centrale) 1477 /78 ,Firenze, Uffizi

Lodata daVasar i (che chiamò l'autore "Hugo di Anversa") e Guicciardini nel XVI secolo. Nell'anno XX secolo pervenne agli Uffizi assieme a un gruppo di opere importantissime, che costituivano la donazione di Santa Maria Nuova. La studiosa Hatfield Strens ha poi rintracciato e pubblicato una serie di documenti sull'arrivo del dipinto a Firenze, ipotizzando una conclusione nel 1478 essendo inverosimile che il dipinto fosse stato lasciato fermo per tre anni.