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N. 9 Anno Scolastico 2018-2019 Liceo ginnasio statale Orazio Roma

Quaderni del

Liceo Orazio

N. 9 Anno Scolastico 2018/2019 Liceo ginnasio statale Orazio ROMA

Comitato di redazione: Anna Paola Bottoni Mario Carini (coordinatore) Maurizio Castellan

Copyright degli autori Tutti i diritti riservati Riproduzione vietata

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Avvertenza

Si ricorda che la collaborazione ai “Quaderni del Liceo Orazio” è libera e non soggetta a particolari condizioni. La responsabilità del Comitato di Redazione non s’intende impegnata dalle opinioni, idee e giudizi liberamente espressi dai singoli autori nei loro scritti. Essi, pertanto, rimangono pienamente ed esclusivamente responsabili, ai sensi delle vigenti leggi, di ogni opinione espressa nei propri testi e il Comitato di Redazione non può essere coinvolto in scelte, e nelle conseguenti responsabilità, che pertengono agli autori dei contributi. Anche per quanto riguarda i diritti di utilizzazione delle immagini che appaiono nei singoli testi, la responsabilità ricade interamente sugli autori di essi, ai sensi delle vigenti leggi sulla stampa e delle leggi civili e penali. Il testo dei “Quaderni del Liceo Orazio” n. 9 è leggibile e scaricabile da chiunque. Tuttavia si ricorda che è buona regola, obbligatoria da seguire quando si compiano ricerche e si scrivano opere di saggistica, citare per intero e chiaramente le fonti a cui si attinge per il proprio lavoro. Pretendere di spacciare per proprio un testo scritto da altri configura l’ipotesi di furto intellettuale, ossia di plagio, ed è perseguibile a norma delle vigenti leggi. La proprietà intellettuale dei singoli contributi rimane integralmente agli autori di essi ed è tutelata dalle vigenti leggi civili e penali.

Mario Carini (Coordinatore del Comitato di Redazione)

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INDICE

Presentazione …..……………………………………………………. pag. 7

Introduzione ………………………………………………………….. 9

SEZIONE DOCENTI

MARIO CARINI, Un’interpretazione di Orazio, Carm. 1,37: Nunc est bibendum ………………………………………………….. 13

MARIO CARINI, Forme storiche della prigionia bellica: le latomie siracusane e i Lager degli IMI ……………………...... 39

GIORGIO GIANNINI, Per non dimenticare: le vittime dimenticate della barbarie nazista ……………………. 72

AMITO VACCHIANO, Erminio Vacchiano: uno degli italiani che dissero no a Mussolini! ………………………………………… 79

Immagini storiche dall'archivio del Dott. Aldo d'Ormea ………. 88

ALAN SPINELLI, Women in Shakespeare’s days and Women in Shakespeare’s Plays ……………………………………. 108

MARIA ASSUNTA ROSSI, I will always you… ovvero Lettera semiseria di una bibliotecaria alla “sua” biblioteca …………… 112

MARIA ASSUNTA ROSSI, Recensione al romanzo Da ora in poi di Catia Proietti ……………………………………… 115

ANNA PAOLA BOTTONI, Identità e ruolo della biblioteca scolastica nella scuola del terzo millennio ………………..……… 117

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STEFANIA ZAMBARDINO, Bilanci in ‘rete’ ………………………. 135

ANNA MARIA ROBUSTELLI, Arrivano ancora i nostri ………… 137

MARCO ZICCONI, Il culto di Mitra gravitazionale ………….…. 149

PIERANGELO CRUCITTI, La fauna d’Italia nella politica editoriale italiana …………………………………………………..... 162

SEZIONE DIDATTICA (collaborazioni degli studenti)

Tommaso Parente (classe 1° D), Viaggio al centro di Atene ……………………………………………………. 180

Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan ……………………………………………………………… 183

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PRESENTAZIONE

Con grande piacere e un pizzico di emozione mi accingo a presentare il nono “Quaderno del Liceo Orazio”, il primo in versione completamente digitale.

I “Quaderni del Liceo Orazio” costituiscono un appuntamento fisso per il nostro Liceo, la loro versione digitale rappresenta quindi un’innovazione nel solco di una tradizione a cui guardiamo con rispetto e della quale questa versione è la naturale continuazione. Se è vero che i Quaderni sono costruiti, anno dopo anno, grazie ai contributi dei docenti e degli studenti del Liceo, è altrettanto vero che essi devono la loro esistenza e longevità al lavoro continuo, approfondito e tenace del professor Mario Carini che, anno dopo anno, ne tesse la trama, combinando pazientemente i fili di questa preziosa tela. A lui vanno i miei più sinceri ringraziamenti a nome di tutto l’istituto.

Anche quest’anno i lavori pubblicati rivelano tanti percorsi d’indagine diversi e interessanti, dalla storia antica a quella più vicina a noi, dalla letteratura al cinema, dalla matematica alla storia delle religioni, passando attraverso la storia della propria famiglia e quella personale, intrecciando il rigore della ricerca scientifica con la vicenda umana. Pagina dopo pagina si delinea un percorso variegato, a volte inaspettato, mai noioso. La vivacità intellettuale, il gusto per l’indagine,

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il piacere di studiare nuovi argomenti appartengono al DNA degli insegnanti e questi contributi ne sono il segno tangibile.

Mi auguro che, con lo stesso entusiasmo con cui i collaboratori hanno preparato i loro lavori, i fruitori si accingano alla lettura, ma l’auspicio più grande è che i “Quaderni del Liceo Orazio” diventino una grande piazza virtuale in cui sempre più docenti, studenti, genitori possano condividere interessi, esperienze e ricerche in una felice sintesi tra passione e ricerca scientifica di cui appunto i Quaderni finora pubblicati sono testimonianza.

14 agosto 2019

Prof.ssa Maria Grazia Lancellotti Dirigente Scolastico del Liceo ginnasio statale Orazio

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INTRODUZIONE

Questo nono volume dei “Quaderni del Liceo Orazio” esce per la prima volta in edizione digitale, la nuova forma editoriale auspicata dalla Dirigente Scolastica Prof.ssa Maria Grazia Lancellotti, che in questa sede salutiamo e la cui presidenza è stata segnata da importanti e significative novità, tra cui anche la “dematerializzazione” dei “Quaderni del Liceo Orazio” e l’abbandono della tradizionale e ormai vetusta forma cartacea. In una scuola segnata dal vertiginoso rinnovamento dei modi di trasmissione del sapere e di formazione delle competenze degli alunni (che ormai costituiscono le generazioni dei nativi digitali), basato sulle tecnologie dell’informatica, anche le caratteristiche editoriali dei “Quaderni” si adeguano ai tempi. Ecco, pertanto, la nuova edizione in digitale, “dematerializzata” (in versione PDF), dei “Quaderni del Liceo Orazio”, che sostituisce quella tradizionale a stampa. Una soluzione che, sulle prime, ci ha un po’ sorpresi, ma che poi, riflettendo bene, ci ha mostrato chiaramente gli indubbi vantaggi che presenta una edizione digitale. Il primo dei quali è senza dubbio l’abbattimento dei costi di stampa e l’eliminazione di un onere economico per la nostra scuola. Il secondo vantaggio riguarda il contenuto. Quello che i “Quaderni” hanno perduto (se veramente lo hanno perduto) in “materialità” e in concretezza tattile, lo hanno guadagnato in visibilità, in spazio e in corredo iconografico. In visibilità, perché i “Quaderni” possono essere letti e i suoi testi essere scaricati da tutti, purché si colleghino al sito del Liceo Orazio, ove nella home page troveranno il link di collegamento al testo dei “Quaderni” n. 9. In spazio perché, con l’abbattimento dei costi di stampa, è venuto meno il limite delle pagine, tipograficamente commisurato ai sedicesimi di pagine (con ovvio costo di ogni singolo sedicesimo): ciò significa che teoricamente lo spazio dei “Quaderni” può aumentare fin che si vuole, e senza alcun costo di stampa. In corredo iconografico, perché i singoli testi possono essere arricchiti da foto e illustrazioni, il cui inserimento non costa nulla, mentre nel procedimento a stampa la riproduzione delle immagini faceva lievitare notevolmente i costi. I “Quaderni” in digitale appaiono

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quindi più ricchi e più visivamente attraenti nei contenuti. Auspichiamo che possano essere altrettanto interessanti come i precedenti volumi. Per quanto riguarda i contenuti, inalterata è rimasta la struttura dei “Quaderni”, suddivisa, come da tradizione, in “Sezione docenti” e in “Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)”. Nella “Sezione didattica” appaiono i seguenti contributi, opere di docenti che sono attualmente in servizio o già stati in servizio al Liceo Orazio: Mario Carini, Un’interpretazione di Orazio, Carm. 1,37: Nunc est bibendum; Id., Forme storiche della prigionia bellica: le latomie siracusane e i Lager degli IMI; Giorgio Giannini, Per non dimenticare: le vittime dimenticate della barbarie nazista;1 Amito Vacchiano, Erminio Vacchiano: uno degli italiani che dissero no a Mussolini!; Immagini storiche dall'archivio del Dott. Aldo d'Ormea;2 Alan Spinelli, Women in Shakespeare’s days and Women in Shakespeare’s Plays; Maria Assunta Rossi, I will always you… ovvero Lettera semiseria di una bibliotecaria alla “sua” biblioteca; Id., Recensione al romanzo Da ora in poi di Catia Proietti; Anna Paola Bottoni, Identità e ruolo della biblioteca scolastica nella scuola del terzo millennio; Stefania Zambardino, Bilanci in ‘rete’ ; Anna Maria Robustelli, Arrivano ancora i nostri; Mario Zicconi, Il culto di Mitra gravitazionale; Pierangelo Crucitti, La fauna d’Italia nella politica editoriale italiana. La “Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)” contiene i seguenti lavori: Tommaso Parente (classe 1° D), Viaggio al centro di Atene; Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan. Concludiamo l’introduzione auspicando che la lettura dei “Quaderni” riesca utile e non noiosa e che in futuro la collaborazione a questa serie di volumi si arricchisca di nuovi e interessanti apporti. Da ultimo aggiungiamo una dolorosa notizia: è venuto a mancare nel corso dell’anno scolastico 2018-2019 il nostro caro Collega Prof. Valerio Pochini. In attesa di dedicare al Prof. Pochini un ampio spazio nel n. 3 dell’Annuario Scolastico che al momento è in fase di

1 Il testo del Prof. Giorgio Giannini è quello di un suo intervento svolto durante un incontro con gli studenti al Liceo Orazio il 25 gennaio 2019 sul tema delle “vittime dimenticate” della persecuzione nazista. 2 Il Dott. Aldo d’Ormea è genitore dell’alunna Giulia d’Ormea, classe 3a B.

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lavorazione, rivolgiamo alla memoria del Collega prematuramente scomparso un mesto e reverente saluto. Roma, 30 luglio 2019

Mario Carini

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Sezione docenti

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MARIO CARINI

Un’interpretazione di Orazio, Carm. 1,37: Nunc est bibendum

Avvertenza: il presente lavoro è nato dai miei primi interessi nel campo della filologia classica ed è stato pubblicato nel n. 2 degli “Annali del Liceo Classico A. di Savoia”, Tivoli 1989, alle pp. 47-67. Ero, allora, un giovane insegnante e il Liceo Classico Amedeo di Savoia di Tivoli fu la prima scuola in cui presi servizio dopo aver vinto il concorso a cattedre nel 1987. Ho collaborato con altri miei scritti ai primi numeri degli “Annali”, dei quali è stato festeggiato il trentesimo numero nell’anno 2018. Ho cambiato sede e coltivato altri interessi, ma continuo a ricordare con affettuosa nostalgia il Liceo di Tivoli, luogo della mia formazione professionale e ricco di docenti di grande valore culturale e umano. Ripubblico in questa sede il mio lavoro sul carme 1,37 di Orazio, tal quale apparve allora (con qualche lieve correzione formale), auspicando che, pur necessitando di un doveroso ripensamento nelle osservazioni e di aggiornamenti nelle note, possa ancora riuscire di una qualche utilità al lettore (M. C.).

Tra i vari carmi ai quali il poeta di Venosa ha, per così dire, affidato il compito di illustrare i suoi personali sentimenti politici ed insieme la visione di Roma e della romanità esaltata nella seconda metà del I sec. a. c. dal trionfo di Ottaviano nel bellum civile e della successiva genesi dell’organismo imperiale, spicca il carme 1,37 che, aprendosi con il famoso grido di gioia Nunc est bibendum, nunc pede libero / pulsanda tellus, celebra la vittoria della flotta romana sull’armata di Cleopatra e Antonio ad Azio (31 a. C.). Oggetto fin dall’inizio del secolo delle più accurate attenzioni da parte della critica oraziana, nella quale spiccano i nomi di Pasquali, U. E. Paoli, Colmant, Grummel, Fraenkel, Commager, Pearce, Luce, La Penna, Braccesi, Verdière, Otis, Pöschl, fino ai più recenti Hardie,

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Evrard e Cremona,1 la poesia è stata studiata in ogni minimo particolare, al punto che sarebbe arduo aggiungere qualcosa di nuovo a quanto è già stato messo in luce dai critici. In questa nota, lungi dal tentare ulteriori e rischiose esegesi, cercheremo di riassumere lo stato della ricerca intorno al carme, senza trascurare di analizzare, anche con l’ausilio di nostre osservazioni, quei luoghi che meglio testimoniano l’ideologia oraziana, il suo gusto artistico e la tecnica poetica. Due sono i punti focali attorno ai quali ruota il carme: la raffigurazione di Cleopatra e il ricordo della battaglia di Azio. Cominceremo la nostra analisi dall’esame del primo punto, dopo aver accennato brevemente al contenuto del carme. Il testo è tratto dall’edizione di M. Lenchantin De Gubernatis, Torino 1945, con qualche variante nella punteggiatura.

Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus, nunc Saliaribus ornare pulvinar deorum tempus erat dapibus, sodales.

Antehac nefas depromere Caecubum cellis avitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat. contaminato cum grege turpium morbo virorum, quidlibet impotens sperare fortunaque dulci ebria. Sed minuit furorem vix una sospes navis ab ignibus,

1 Alcuni di questi autori sono citati nel testo. Per gli altri diamo i seguenti riferimenti bibliografici: W. C. GRUMMEL, The Cleopatra Ode, “Classical Journal” 49, 1953- 1954, pp. 359-360; D. PEARCE, Horace and Cleopatra. Thoughts on the entanglements of art and history, “Yale Review” 51, 1961, pp. 236-253; R. VERDIÈRE, Fatale monstrum (Hor. Carm. 1,37,21), “Maia” 20, 1968, pp. 7-9; B. OTIS, A reading of the Cleopatra ode, “Arethusa” 1, 1968, pp. 48-61; A. HARDIE, Horaces odes 1,37 and Pindar Dithyramb 2, in Papers of the Liverpool Latin Seminar 1976, ed. by F. Cairns, Liverpool 1977, pp. 113-140; E. EVRARD, Nunc est bibendum (Hor. c. I 37,1), Horace et Alcèe, “Les études classiques” XLIX, 1981, pp. 47-52. Una recente rassegna bibliografica è quella di N. SCIVOLETTO, Orazio negli studi italiani più recenti, “Cultura e scuola” 36, 1970, pp. 56-65.

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mentemque lymphatam Mareotico redegit in veros timores Caesar ab Italia volantem remis adurgens, accipiter velut mollis columbas aut leporem citus venator in campis nivalis Haemoniae, daret ut catenis fatale monstrum; quae generosius perire quaerens nec muliebriter expavit ensem nec latentis classe cita reparavit oras.

Ausa et iacentem visere regiam voltu sereno, fortis et asperas tractare serpentes, ut atrum corpore combiberet venenum, deliberata morte ferocior: saevis Liburnis scilicet invidens privata deduci superbo 2 non humilis mulier triumpho.

Con il grido festoso che apre la poesia, Nunc est bibendum, ispirato ad Alceo, fr. 39 DIEHL,3 il poeta invita i suoi sodales a bere, danzare,

2 “Questa è l’ora di bere, / battere il suolo senza ceppi al piede, / fratelli; d’onorare nel triclinio / gli Dei con le vivande più sontuose: // prima, versare il cecubo degli avi / fu sacrilegio mentre la Regina / tramava al Campidoglio distruzioni / di brutto sogno e la morte all’impero, // con una mandra contagiata d’uomini / impuri: smisurati / piani, nella lusinga della sorte, / nella follia. Ma spense la demenza // l’unica nave salva tra gl’incendi. / E il Cesare portò nella mente ebra / di vino mareotico realtà / e terrore, spiccandosi d’Italia // ad inseguire il volo dei remeggi, / sparviero dietro morbide colombe, / cacciatore sui campi e sulle nevi / di Tessaglia, per mettere in catene // il prodigio del Fato. E lei cercò / una morte più nobile. Non fu / donna. La spada non la spaventò. // Non riparò con la veloce flotta // tra rive ignote. Osò guardare / serena in viso la reggia abbattuta, / senza timore maneggiò atroci / serpenti, per intridersi di neri // veleni. Scelta la morte, divenne / più fiera. E si rubò alle crudeli / liburne, al più superbo dei trionfi: / non più regina, donna nella gloria.” (in: Orazio, Odi ed epodi, intr. di Alfonso Traina, trad. e note di Enzo Mandruzzato, Rizzoli, Milano 19924, pp. 165-167) 3 Cfr. ALC. fr. 39 Diehl: ῦ ῆ ύ ί  ὸ ί  ώ ἐὶ ὴ

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ornare un lussuoso banchetto: Cleopatra, vinta, si è uccisa! Prima, quando la regina minacciava Roma, non si poteva trarre dalla cantina il Cecubo (vv. 1-11). Ma l’azione vittoriosa di Ottaviano l’ha costretta a rinunciare al suo folle proposito e a fuggire, inseguita come una colomba da uno sparviero (vv. 12.21). Ed essa ha scelto di morire generosamente, bevendo l’arto veleno dei serpenti, per togliere ad Ottaviano il piacere di esser tratta in catene, nel trionfo del vincitore (vv. 21-32). Come si nota, Orazio nel corso dell’ode muta toni e accenti: la raffigurazione di Cleopatra assume, ed in modo inaspettato, il tono di una celebrazione epica.4 Dalla condanna iniziale del folle proposito, l’assoggettamento dello stato romano da parte di una donna orientale, a capo di un turpe gregge di eunuchi, si passa all’esaltazione del virile coraggio della regina, che non arretra di fronte alla morte. Lo scarto tra le due immagini (regina folle e corrotta in principio, donna fiera ed

ά ύ L’ode alcaica celebra la morte del tiranno Mirsilo. Per l’Evrard il Mirsilo di Alceo corrisponde in Orazio non a Cleopatra (che viene esaltata nella seconda parte di 1,37) ma ad Antonio, da Orazio non nominato per non urtare i genitori che erano nel campo di Ottaviano. L’attacco iniziale dell’ode 1,37 sembra così essere la risposta alla domanda iniziale dell’epodo IX: Quando repositum Caecubum ad festas dapes / victore laetus Caesare / tecum sub alta – sic ovi gratum – domo, / betae Maecenas, bibam (…)? (vv. 1-4). L’epodo IX venne scritto subito dopo Azio (sett. 31 a. C.) e riflette l’incertezza per l’esito della lotta tra Ottaviano e Antonio; l’ode 1,37, invece, dopo la presa di Alessandria e il suicidio di Cleopatra (autunno del 30 a. C.), quando ormai la vittoria era sicura. Non sappiamo se tra i sodales con cui Orazio festeggia la notizia vi fosse anche Mecenate, al quale il poeta si rivolge nell’epodo IX. Un profilo degli amici di Orazio è in G. CARPANETO, Gli amici di Orazio, in Aa. Vv., Orazio da Venosa, periegesi di studio (7-10 ottobre 1982), Venosa 1983, pp. 127-141. 4 Riportiamo in proposito il commento di V. Cremona, La poesia civile di Orazio, Milano 1983, p. 95: “Motivi propagandistici sono visibili nella prima parte dell’ode. Ma nella seconda la propaganda tace, anzi, semmai, è rovesciata. La nobile e fiera figura della regina che voltu sereno va incontro alla morte, sovrasta su tutti e su tutto, e cancella il vittorioso antagonista. Una personalità più forte ha preso il sopravvento e funge, per così dire, da correttivo allo zelo encomiastico della prima parte. È questo, con altri, un modulo tipico della poesia civile e celebrativa del poeta venosino, che gli permette di non rinunciare alla propria indipendenza e lo riscatta da qualsiasi compromesso che intacchi la sua dignità e la sua libertà”. Dello stesso autore vd. Due Cleopatre a confronto, “Aevum” 61, 1987, pp. 123-131.

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eroica alla fine) è riflesso nell’aggettivazione impiegata dal poeta. I termini con cui Orazio si riferisce a Cleopatra, sapientemente disposti nella struttura del carme, configurano due precisi momenti, in ciascuno dei quali la regina egiziana assume una diversa connotazione:

A) momento denigratorio – connotazione negativa dementis ruinas, impotens, ebria, mentem lymphatam, fatale monstrum

B) momento laudativo – connotazione positiva generosius /perire quaerens, nec muliebriter /expavit ensem, nec latentis / classe cita reparavit oras, ausa et iacentem visere regiam / voltu sereno, fortis et asperas / tractare serpentes, deliberata morte ferocior, non humilis mulier.

È indubbio che nell’ambito del materiale lessicale utilizzato dal poeta per connotare la personalità e il comportamento della regina sia preva- lente la terminologia che assegna a Cleopatra un ruolo decisamente positivo, recuperandone in qualche modo la figura al di là della condanna ideologica propagandata (e riflessa in modo conformistico da poeti come Properzio)5 ad opera degli intellettuali legati ad Ottaviano. È un materiale che perviene al poeta da un ampio retroterra culturale, in cui spicca in primo luogo la tradizione epica, e riecheggia autori greci e latini: le seguenti note commenteranno i termini salienti, che abbiamo citato supra, e ne spiegheranno la funzione nell’economia strutturale del carme. Iniziamo da quelli segnanti il ruolo negativo di Cleopatra, che abbiamo elencato sub A.6

5 In Properzio, il poeta più incline ad adeguarsi (sia pur con una “integrazione difficile”) alle direttive della propaganda augustea, la figura di Cleopatra è svilita e fatta oggetto dei peggiori insulti (incesti meretrix regina Canopi in 3,11,39) nelle elegie 3,11 e 4,6. Un giudizio non positivo su quest’ultima elegia è in SESTO PROPERZIO, Il libro quarto delle elegie, saggio introd., testo e trad. a c. di E. PASOLI, Bologna 19742, pp. 51-52. Virgilio rappresenta la battaglia di Azio come una spettacolare titanomachia e la regina d’Egitto in fuga con i resti delle sue schiere, pallentem morte futura (VERG. Aen. 8,671-713). Donna corrotta e corruttrice appare Cleopatra in LUC. 10.69: incestam Ptolomeida. 6 Citeremo, nelle nostre note, oltre ai commenti moderni (Nisbet-Hubbard, Kiessling-Heinze), anche il commento oraziano che va sotto il nome di pseudo- Acrone (opera di un ignoto umanista che rielaborò il perduto commento di Eliano

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Al v. 7 l’espressione dementis ruinas è un’ipallage (ypallage, pro ‘ipsa demens’, ACRO Hor. carm. 1,37,7). L’aggettivo demens rappresenta un’invettiva politica per NISBET-HUBBARD: Orazio vuol dire che distruggere Roma sarebbe impresa folle.7 V’è molto probabilmente il ricordo di Cicerone, che attribuisce la follia ai nemici di Roma, come Catilina, vd. CIC. Cat. 1,1 quam diu etiam furor iste tuus nos eludet?, Cat. 1,10 ad hanc te amentiam natura peperit, voluntas exercuit, fortuna servavit, Cat. 2,1 L. Catilinam, furentem audacia, scelus anhelantem, etc. Demens è riferito ad oggetti in HOR. carm. 3,19,23 (dementem strepitum). A dementis ruinas corrispondono ebria e furorem al v. 12 e mentemque lymphatam al v. 14. Ai vv. 10-11 l’espressione quidlibet impotens sperare venne interpretata dagli antichi commentatori come valde potens (scholia codd. φ, ψ)8 e nimium potens, ACRO Hor. carm. 1,37,10. Impotens è calco dal greco ἀή La regina, ebbra della dolce fortuna, non pone freno alla sua ambizione che la porta a sperare l’impossibile, la caduta di Roma. Impotens in ultima sede di verso in carm. 2,1,26 (Afris inulta cesserat impotens) e carm. 3,30,3 (quod non imber edax, non Aquilo impotens / possit diruere). Per quidlibet dipendente da verbi vd. sat. 1,9,12 (cum quidlibet ille garriret). Porfirione interpreta l’ebria del v. 12 come fortunae successu demens et inconsulta, PORPH. Hor. carm. 1,37, 11-12; lo pseudo-Acrone come

Acrone, del III secolo d. C.) e quello di Pomponio Porfirione, grammatico vissuto tra il III e il IV secolo d. C. Edizioni: Pseudacronis scholia in Horatium vestustiora recensuit O. KELLER, vol. I, Lipsiae 1902; Pomponi Porfyrionis commentum in Horatium Flaccum recensuit A. HOLDER, ad Aeni Pontem 1894. Sui codici di Orazio e sulla tradizione manoscritta vd. G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Milano 1974, pp. 373-385, e V. PALADINI-E. CASTORINA, Storia della letteratura latina, vol. II: Problemi critici, Bologna 19842, pp. 35-39. 7 NISBET-HUBBARD, p. 413: “We are in the world of political invective; Cicero often attributes madness to his enemies. The adjective is defensible, if Horace is saying that to destroy Rome would be a mad act”, in A commentary on Horace, Odes book I, by R.M.G. NISBET and M. HUBBARD, Oxford 1970. 8 Il riferimento è all’edizione degli scholia dei codici   e  ( Parisinus Latinus 7972,  Parisinus Latinus 7974,  Parisinus Latinus 7971): Scholia in Horatium codicum Parisinorum Latinorum 7972, 7974, 7971 edidit H.J. BOTSCHUYVER, Amstelodami 1935.

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elusa fortunae successu et ob hoc demens, inconsulta, improvida, sicut ebrii solent, ACRO Hor. carm. 1,37,12. Con ebria per P. COLMANT, Horace, Nunc est bibendum, “Les études classiques” XIII, 1945, p. 116, si rileva “l’ambition en délire, égarée plus encore par l’ivresse”. Ma, come hanno notato altri commentatori,9 il termine è allusione, più che all’inclinazione al bere della regina egiziana, a quella, famosa, di Marco Antonio, il quale peraltro in questa ode non viene mai nominato.10 Cicerone nelle Filippiche aggiunge questo vizio alle tante accuse che rinfaccia al triumviro, vd. CIC. Phil. 3,12 quo enim ille die, populo Romano inspectante, nudus, unctus, ebrius est contionatus.11 PLIN. n.h. 14,148 attesta che Antonio avrebbe scritto una sorta di autodifesa, intitolata De ebrietate sua. Testimonianze sull’inclinazione al bere di Cleopatra si trovano in greci e latini, vd, per esempio, Plutarco, Ant. 29,2:        Properzio, 3-11, 55-56, riecheggia il motivo oraziano: ‘Non hoc, Roma, fui tanto tibi cive verenda’, / dixit ‘et adsiduo lingua sepulta mero’. Riflettendo la propaganda ufficiale, Strabone dice che Ottaviano limitò fortemente il consumo e la produzione di vino in Egitto, in 17,1,11. È interessante ricordare che un epigramma dell’antologia palatina, ANTH. PAL. 9,752, parla di un anello appartenente a Cleopatra, decorato con la figura di

9 P. COLMANT, cit. nel testo, p. 116; V. PÖSCHL, cit. nel testo, p. 94. 10 Antonio non è nominato perché Orazio vuole significare che la guerra è condotta contro un nemico esterno, l’orientale Cleopatra: diversamente la lotta avrebbe assunto il carattere di un bellum civile, carattere che in realtà lo scontro ebbe. E Antonio venne tolto dal ricordo perché Ottaviano potesse fregiarsi del duplice trionfo curule (l’Actiacum e l’Alexandrinum), concesso solo per i bella iusta, non per i civilia. Vd. L. BRACCESI, cit., pp. 180-181; AUG. Anc. 4,1 bis ovans triumphavi. Il Canfora nota che la propaganda imperiale determinò la scomparsa della storiografia filoantoniana e che il livello della tradizione è quello della seconda Filippica di Cicerone: sarebbe come se volessimo farci un’idea di Cesare soltanto sulla base di ciò che ne dice Catullo. Vd. L. CANFORA, Totalità e selezione nella storiografia classica, Bari 1972, pp. 136-140. 11 Vd. anche CIC. Phil. 5,19 Ipse interea XVII dies de me in Tiburtino Scipionis declamitavit, sitim quaerens: haec enim ei causa esse declamandi solet. Sull’ebrietas di Antonio vd. anche SEN. epist. 83,25: M. Antonium, magnum et ingeni nobilis, quae alia res perdidit et in externos mores ac vitia non Romana traiecit quam ebrietas nec minor vino Cleopatrae amor?

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έ, l’Ebrietà (discussione sull’interpretazione in NISBET- HUBBARD, p. 414). Da notare che al v. 14 compare Mareotis, il nome della palude d’Egitto lungo le rive della quale si produceva il famoso vino. È l’unico luogo in cui Orazio allude esplicitamente all’Egitto e tale allusione è connessa al motivo del vino; con ciò si sottolinea l’ebrietas e la conseguente follia della regina.12 Il vino prodotto nella regione della Mareotide, non lontana da Alessandria, era piuttosto leggero e non atto a dare quell’ebbrezza che Orazio attribuisce a Cleopatra, a rendere la sua mente “impazzita per il vino di Mareia” (così A. LA PENNA in Orazio, le opere. Antologia, Firenze 1988, rist., p. 265). KIESSLING- HEINZE13 hanno visto nell’accostamento tra lymphatam e Mareotico un ossimoro, figura che può stabilirsi, a nostro giudizio, anche tra quest’ultimo termine e il Caecubum del v. 5: la contrapposizione tra i due vini potrebbe alludere ad una più generale contrapposizione (questa certamente voluta) tra il mondo romano e quello orientale. Del vino di Mareia fanno cenno STRAB. 17,1,4, VERG. Georg. 2,91 sunt et Mareotides albae e LUC. 10,160-161 gemmaeque capaces / excepere merum, sed non Mareotidos uvae. Un riecheggiamento del luogo oraziano è molto probabilmente in Shakespeare, Antonio e Cleopatra, atto V sc. II vv. 280-281 (“Non più d’ora innanzi il succo dell’uva egiziana bagnerà queste mie labbra”, trad. di G. Baldini, Milano 1982). Il termine lymphatus (= perturbatus, in furorem actus: D. BO, Lexicon Horatianum, Hildesheim 1966) è traduzione dal greco ό, “posseduto dalle ninfe”: gli antichi, infatti, credevano che la follia, il delirio, l’epilessia fossero conseguenze dell’invasamento di demoni e

12 Il luogo mentem lymphatam Mareotico è chiosato nel seguente modo dagli antichi commentatori: PORPH. Hor. carm. 1,37,14-15: Mareotis palus esse dicitur in Aegypto, unde vinum Mareoticum dicitur. Ergo lymphatam mentem Mareotico ex ebrietate vesanam accipe; ACRO Hor. carm. 1,37,14: ebrietate insanam. Mareotis in Aegypto palus est, iuxta quam vinum optimum nascitur, quod ex eius vocabulo Mareoticum appellatur (ex Porph.) ut (Verg. Georg. II 91): Sunt et Mareotides albae, et (Stat. Theb. I 264-265): Mareotica fumat Coptos. 13 KIESSLING-HEINZE, p. 157: “Das Oxymoron lymphatam Mareotico ist also unbeabsichtig”, in Q. Horatius Flaccus Oden und Epoden erklärt von A. KIESSLING, achte Auflage besorgt von R. HEINZE, Berlin 1955.

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ninfe. Lymphatus è costruito per analogia con Cerritus (da cerrus = genius) e larvatus, “infestato dagli spettri” (vd. KIESSLING-HEINZE, p. 157, ad locum). Con fatale monstrum al v. 21 si chiude la serie di espressioni ed epiteti connotanti in senso negativo la figura di Cleopatra. I versi seguenti, infatti, contengono l’inaspettata glorificazione del suicidio della regina e la totale diversità di tono e accenti tra le due sezioni del carme (vv. 12-21 e vv. 21-32) è marcata dalla cesura che, con la pausa dopo la quinta sillaba del verso (pausa fissata nell’endecasillabo alcaico oraziano, ad eccezione del v. 14 proprio di quest’ode), mette in rilievo il nesso f. m. Esso, quindi, fungerebbe da termine divisorio o ‘spartiacque’ tra il momento denigratorio e quello laudativo dell’ode. E si noti che fatale monstrum sembra in qualche modo prefigurare il trapasso tra i due momenti, in quanto non ha una valenza totalmente negativa. Referente di f. m. è sì Cleopatra, ora vista come monstrum, ossia ‘prodigio, donna prodigiosa’, ma anche il fatum, il destino cieco e ineluttabile che l’ha portata a scontrarsi con la potenza di Roma: donde l’immagine grandiosa della donna, vittima del suo stesso destino. Gli antichi commentatori provvidero a connettere all’espressione fatale monstrum, in senso negativo, l’idea di fato, destino, e in ciò sono stati seguiti da taluni dei moderni. Citiamo per prime le esegesi di Porfirione e dello pseudo-Acrone, sostanzialmente analoghe. PORPH. Hor. carm. 1,37,20- 21 fatale monstrum aut a fato sibi servatum aut detestabile. An dictum hoc accipiamus: ‘Quasi decreto fatorum nobis obiectum’? ACRO Hor carm. 1,37,21 ‘fatalem’ dixit aut turpem, unde et prostantes fatales dicuntur, ut est (Lucan. X 60): Romano non casta malo, aut velut monstrum fatis sibi reservatum, aut fato Romanis subiectum. Vd. anche gli scholia dei codd.   fato sibi reservatam Cleopatram, aut detestabilem decreto fatorum nobis obiectam. Dei moderni T. ZIELINSKI, Horace et la societé romaine du temps d’Auguste, Paris 1938, p. 38, traduce f. m. con “le monstre élu du destin”. Per F. ARNALDI, Antologia della poesia latina, vol. I, Napoli 1957, p. 472 il nesso ha il senso di “creatura prodigiosa e fatale”. Il FRAENKEL, Horace, Oxford 1957, p. 160, attribuendo a monstrum il significato di έ, portento, prodigio, traduce “a monstrum brought about by Rome’s fata”. La pregnanza semantica di fatale monstrum è rilevata, con interessanti considerazioni, da J. V. LUCE, Cleopatra as fatale

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monstrum (Horace, Carm. 1,37,21), “Classical Quarterly” XIII, 1963, pp. 251-257. L’autrice, accogliendo l’interpretazione di Fraenkel, riconduce l’uso oraziano del termine monstrum a Cicerone, che lo impegnò spesso, come epiteto, in riferimento a Catilina.14 Il termine, quindi, avrebbe una sua particolare valenza politica, così come ebria al v. 12: valenza, peraltro, confermata da R. SYME, La rivoluzione romana, trad. it. di M. Manfredi, Torino 1962, p. 276, per il quale la trasfigurazione di Cleopatra come fatale monstrum rispondeva alla necessità di raccogliere l’adesione di tutti contro chi minacciava l’esistenza dell’orbe romano: Cleopatra (non Antonio, che sarebbe stato soltanto il suo strumento). Ma altre valenze avrebbe per la Luce il termine monstrum, risultando pertanto straordinariamente ricco e autentica parola-chiave per penetrare il vero significato dell’ode: 1. una valenza religiosa (fatale monstrum = creatura portatrice di sfortuna: si ricordi, del resto, che la regina era il frutto di un’unione incestuosa e che lei stessa era maritata incestuosamente, con il fratello Tolomeo XIV); 2. una valenza mitologica (con daret ut catenis f. m. Orazio evocherebbe i mostri dei miti greci, l’idra, la gorgone, la chimera, e Ottaviano assumerebbe il ruolo di un mitico uccisore di mostri, probabilmente Bellerofonte, sulla base di Hor. carm. 2,27,23-24); 3. una valenza etica (nella descrizione del tiranno in Platone, resp. 9, 588 c, opera che Orazio aveva presente mentre componeva l’ode, monstrum equivale a ί ί ὶ έ “mostro variopinto e dalle molte teste”).15 Infine, il LA PENNA, Orazio, le opere. Antologia, cit., p. 266, connette al significato di “mostro mandato dal destino” anche quello di “essere apportatore di rovina”, con una interpretazione più accentuatamente negativa.16

14 Vd., per esempio, CIC. Cat. 2,1 Nulla iam pernicies a monstro illo atque prodigio moenibus ipsis intra moenia comparabitur, e Cael. 12 Neque ego umquam fuisse tale monstrum (scil. Catilinam) in terris ullum puto. 15 Nello stesso passo platonico i termini ό e ό in riferimento al tiranno corrispondono a ebria e demens del carme oraziano. 16 Citiamo qualche altra interpretazione: “ein vom Schicksal erwecktes Ungetüm” in Q. Horatius Flaccus, Oden und Epoden, ediderunt C. NAUCK-P. HOPPE, Leipzig, 1926; “das furchtbareUngeheuer” in Q. Horatius Flaccus, Oden und Epoden, lateinisch und deutsch, übersetzt von C.F.K. HERZLIEB und J.P. UZ, Zürich- München 1981.

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Passiamo ora ad esaminare le espressioni che attribuiscono a Cleopatra una connotazione positiva. Al v. 21 con quae generosius / perire quaerens inizia il secondo momento del carme (vv. 21-32), ove Orazio “in three magnificent stanzas, which make the poem, describes Cleopatatra’s death” (NISBET-HUBBARD, p. 417). Il tono dell’ode è bruscamente cambiato: la regina, in precedenza svilita e bersagliata da una serie di epiteti tratti dal più violento linguaggio politico (demens, ebria, mens lymphata), ora è esaltata nella sua coraggiosa scelta, degna di un Romano di altri tempi, di morire piuttosto che adattarsi a subire l’umiliazione di seguire in catene il carro del vincitore in trionfo. I due momenti, segnati da toni così diversi, costituiscono pertanto una grandiosa antitesi e non è necessario pensare, come ha fatto lo ZIELINSKI, cit., p. 35, che Orazio avrebbe cambiato la fine originaria dell’ode, in quanto la notizia della morte di Cleopatra sarebbe giunta dopo quella della sconfitta (donde la stridente diversità delle due parti del carme). L’espressione generosius perire quaerens trova il suo primo esegeta nello Pseudo-Acrone: idest maiori, quam sexus exigebat, animositate, ACRO Hor. carm. 1,37,21. In Dione Cassio si legge che l’esser condotta al trionfo di Ottaviano sarebbe stato per Cleopatra peggiore che soffrire mille morti: ῦ  ὖ ὑή (ossia che Ottaviano la riservasse per i suoi ἐί) ὶ ί ά ώ ὐ ί ἶ, etc., DIO 51,13,2. Secondo Plu- tarco Cleopatra si sarebbe decisa al suicidio dopo aver tentato invano di impietosire Ottaviano, PLUT. Ant. 83-84. Orazio si guarda bene dall’accogliere queste dicerie, tipiche del costume di denigrare completamente, soprattutto sul piano morale, l’avversario politico (‘ottentottismo storico’, così P. COLMANT, Horace, Nunc est bibendum, cit., p. 117). La struttura complessa e faticosa del periodo ai vv. 21-24 (Quae generosius / perire quaerens nec muliebriter /expavit ensem nec latentis / classe cita reparavit oras) è ricondotta dal PASQUALI, Orazio lirico, Firenze 1964, rist., p. 62, sia al fatto che il poeta seguiva la teoria demetriana dei ῶ finali lunghi, necessari al έ dello stile, sia “ad un eccesso giovanile di zelo nel poeta, fors’anche al metro difficile, che lo impaccia ancora nel maneggio dei termini tecnici”. Invece per NISBET-HUBBARD, p. 417, proprio

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questo periodo è esempio del virtuosismo oraziano nel costruire con efficacia e precisione strutture elaborate sulla base dell’endecasillabo alcaico. Non possiamo, in effetti, non essere d’accordo con questi ultimi, anche perché costituisce ulteriore prova dell’arte poetica del Nostro il quasi rispetto della cosiddetta lex meineckiana (coincidenza tra strofa tetrastica e periodo, su cui vd. A. GHISELLI, Orazio, Ode 1,1. Saggio di analisi formale, Bologna 19832, pp. 69-72). Orazio condensa in questa strofa e nelle altre due seguenti gli ultimi fatti della vita della regina egiziana: il ritmo della narrazione è sveltito dai numerosi enjambements, ai vv. 21-22, 22-23, 23-24, 26-27, 27-28, 31-32, che abbreviano le pause finali. Si noti anche la disposizione del comparativo avverbiale generosius, in antitesi con muliebriter del verso seguente, posto nella stessa sede di verso: il virile, coraggioso atteggiamento della donna fa da contrasto al timore (nec muliebriter expavit) tipico dell’indole femminile. L’agg. generosus, “nobile”, esprime una tipica qualità del comportamento romano, fondato sulla morale stoico. Specialmente nei più gravi frangenti e, come in questo caso, di fronte alla morte. Era pertanto un ό della letteratura filosofica lodare la generosa mors di uomini illustri e Valerio Massimo nei suoi Dictorum et factorum memorabilium libri X ci presenta un’ampia raccolta di questi casi. Seneca il Vecchio nella suas. 7,8 ricorda la morte di Scipione: P. Scipionem generosa mors a maioribus suis desciscentem in numerum Scipionum reposuit. Per Seneca il filosofo l’uomo generoso è ad virtutem bene a natura compositus.17 Si è notato che vi è un gioco di parole tra l’avv. generosius e il nome della regina, Cleopatra, composto di έ, “gloria”: un ulteriore modo per rilevare viepiù il coraggio e la nobiltà della regina (vd. V. PÖSCHL, Horazische lyrik. Interpre- tationen, Heidelberg 1970, p. 96). Il nesso nec muliebriter / expavit ensem, ai vv. 22-23, è allusione sia al fatto che Cleopatra non ebbe paura di affrontare le armi romane sia al tentativo di suicidio davanti al messo di Ottaviano, Proculeio (PLUT. Ant. 79). Così commenta il luogo Porfirione: Non tamquam ense perierit

17 SEN. epist. 44,5.

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Cleopatra, sed significat eam tam praestantem animi fuisse, ut ensem quoque non timuerit, PORPH. Hor carm. 1,37,22-23.18 Ai vv. 23-24 l’espressione nec latentis /classe cita reparavit oras, non del tutto chiara, ha offerto lo spunto per interpretazioni contrastanti. Il senso generale è che Cleopatra non cercò rifugio dalle armate di Ottaviano in terre lontane, nella regione interna dell’Egitto o sulle rive del Mar Rosso. Così intesero gli antichi commentatori, dando a reparare il senso di fugere, se refugere. Vd. Porfirione: Hoc est, nec fugit in latentis, id est intimas, Aegyptii regiones, unde vires repararet, PORPH. Hor. carm. 1,37,23-24. Secondo lo pseudo-Acrone Cleopatra avrebbe rifiutato i soccorsi che le sarebbero giunti dalle popolazioni interne dell’Egitto, a lei ancora devote, nonostante la sconfitta, vd. ACRO Hor. carm. 1,37,23: fines regni latentes; idest non collegit denuo exercitum ex intimis partibus regni sibi faventibus. Il Bentley accoglieva nel suo commento oraziano19 la lez. penetravit (nec latentes / Classe cita penetravit oras) e così spiegava: hoc est, non aufugit in longinqua terrarum loca, quo Augustus aut non potuisset, aut noluisset eam persequi. Vale la pena di riportare anche il commento di Leopardi al luogo oraziano, nello Zibaldone (f. 1166), ove si intende reparare come ricoverarsi, secondo l’antico italiano; “Non si ricoverò, non rifuggì alle recondite, alle riposte parti d’Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore” (in GIACOMO LEOPARDI, Tutte le opere, a c. di W. Binni ed E. Ghidetti, vol. II, Firenze 1976, p. 339). Originale l’esegesi del Paoli (in Un accenno d’Orazio alla flotta di Cleopatra, “Atene e Roma” 4, 1923, pp. 46-51) che restituisce al passo il suo corretto significato: Cleopatra non cercò di assicurarsi il possesso delle regioni più interne dell’Egitto cedendo, come prezzo, la veloce sua flotta. Reparare, per il Paoli, avrebbe il significato del greco ἀά, “comprare in cambio di ciò che si vende”, e sarebbe termine del linguaggio mercantile

18 Vi è un probabile riecheggiamento del luogo in Shakespeare, Antonio e Cleopatra, atto V sc. II vv. 237-238 (“La mia decisione è presa, e non ho ormai in me più nulla di femmineo”, trad. di G. Baldini, Milano 1982). 19 Q. Horatius Flaccus, ex recentione et cum notis atque emendationibus Richardi BENTLEII, tomus prior, editio tertia, Berolini 1869.

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(cfr., per un uso analogo, HOR. carm. 1,31,12 vina Syra reparata merce). Orazio, in sostanza, rivelerebbe il carattere regale della regina egiziana che, unica fra i monarchi dei regni ellenistici, si rifiutò di venire ad umilianti patti con il vincitore Romano (la conservazione di un piccolo dominio nell’entroterra in cambio della cessione della potente flotta), come invece avevano fatto i sovrani di Siria e di Macedonia. È vero però che il luogo oraziano è in contrasto con la tradizione storica, secondo la quale Cleopatra avrebbe progettato di condurre la flotta per l’istmo di Suez, verso il Mar Rosso (PLUT. Ant. 69,3-6), ma ne sarebbe stata dissuasa dopo che gli Arabi della Petreia incendiarono alcune sue navi. Anche Antonio, per parte sua, avrebbe pensato di fuggire in Spagna. Si può allora ritenere che Orazio non accolga queste notizie che egli reputava alla stregua di dicerie, nell’intento, ovviamente, di esaltare la fermezza della donna (così PASQUALI, cit., p. 59) oppure che il poeta, rifiutando volutamente di accettare la realtà, abbia trasfigurato liricamente la regina dandole i tratti di un personaggio eroico e indulgendo alla sua debolezza (così, ci sembra, V. PÖSCHL, cit., p. 97). Altri recenti commentatori, pur tenendo presente l’interpretazione del Paoli, danno a reparavit il valore di “si rifugiò”. L’Arnaldi, nel suo commento oraziano (Milano-Messina 19605, p.94), dice che Cleopatra “non tentò di rifugiarsi (…) anche a costo di perdere la sua flotta, in terre lontane” (sulla base di TAC. Ann. 3,73 reparatis per intima Africae auxiliis).20 Il v. 25, Ausa et iacentem visere regiam, ci presenta un nuovo aspetto della regina d’Egitto. Dopo aver esaltato la virile fermezza della donna, che sdegna di accettare un vergognoso compromesso con il nemico, Orazio, raffigurando Cleopatra che osa guardare con volto sereno la reggia abbattuta (o umiliata, come intende il LA PENNA, cit., p. 266), le attribuisce i tratti di un filosofo stoico, impassibile di fronte alla sventura e alla morte. Un simile atteggiamento, di cui la storiografia

20 Il TERZAGHI, La lirica di Orazio, Roma 1956, p. 156, commenta: “Cercò di riparare in spiagge nascoste, di ‘procurarsi’ in cambio dell’Egitto, divenuto malsicuro per lei”. Il LA PENNA, cit., p. 266: “Né sulla veloce flotta si procurò (un rifugio) in coste remote”. NISBET-HUBBARD, p. 418: “Literally took in exchange, and hence reached”, sulla base di carm. epigr. 258 (reparare è analogo ad ἀί, “dare in cambio”).

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romana ci offre numerosi esempi, non avrebbe certo mancato di suscitare simpatia nel lettore dell’ode e, in proposito, viene alla mente la raffigurazione di Socrate in Cicerone, Tusc. 3,31 ove il grande oratore delinea il voltus semper idem e la frons tranquilla et serena del filosofo ateniese. Si noti, poi, che questo verso corrisponde ai vv. 6-8 (dum Capitolio / regina dementis ruinas, / funus et imperio parabat) e stabilisce un’antitesi: Cleopatra, prima descritta nell’atto di meditare folli progetti contro Roma, ora, dopo il misero fallimento di questi, richiamata alla triste realtà, osserva con ferma tranquillità la rovina del suo regno. I termini sembrano corrispondersi reciprocamente: a Capitolio e imperio corrisponde la regiam iacentem, a demens (da riferire a Cleopatra, per ipallage) corrisponde voltu sereno. Si noti anche la “rima leonina” in iacentem… regiam,21 che rileva ancor più il motivo della dissoluzione della potenza regale. Con regiam si intende la zona di Alessandria ov’era ubicato il palazzo reale, complesso di costruzioni che si estendeva per un miglio quadrato (STRAB. 17,1,8). Sembra che la reggia non sia stata distrutta dai Romani: con iacentem, allora, si intende più probabilmente l’annichilimento della potenza della regina egiziana (così il PÖSCHL, cit., p. 98). Nell’espressione voltu sereno NISBET- HUBBARD hanno colto un’allusione al fatto che Cleopatra stesse meditando nascostamente il suicidio (vd. p. 419). L’osservazione ci trova concordi. A parte il fatto che nella strofa il motivo del suicidio è quello dominante (vi si accenna esplicitamente nelle parole fortis et asperas /tractare serpentes e ut atrum / corpore combiberet venenum), qualora si accetti questa proposta si potrebbe stabilire una relazione tra i membri sintattici dei vv. 25-29. Lo schema presenta la seguente successione:

1. Ausa et iacentem visere regiam / voltu sereno, (Cleopatra medita il suicidio), 2. fortis et asperas /tractare serpentes, ut atrum / corpore combiberet venenum (scelta del mezzo di morte), 3. deliberata morte ferocior, (determinazione ad attuare la decisione presa).

21 La “rima leonina” si ha quando rimano le ultime due parole di due emistichi. Esempi oraziani in A. GHISELLI, cit. nel testo, pp. 88-91.

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I tre punti nei quali si possono distinguere i membri sintattici della strofa rappresentano tre diversi momenti della vita della regina, condensati in una sorta di efficacissima climax emotiva: la meditazione del suicidio, la scelta del mezzo di morte, il veleno dell’aspide, la determinazione di morire. Gli scholia ad codd.   interpretano iacentem regiam come humiliatum Palatium morte Antonii; lo pseudo- Acrone così regiam: idest regnum suum desperatum et deiectum vultu interrito et veluti laeto, ut (Verg. Aen. I 209): Spem vultu simulat, ACRO Hor. carm. 1,37,25. Con fortis et asperas / tractare serpentes, ai vv. 26-27, Orazio completa il ritratto della nuova Cleopatra, aggiungendo alla generositas (v. 21) e alla serenitas (v. 26) il carattere della fortitudo, il virile coraggio nello scegliere il mezzo di morte, il velenoso aspide. La tradizione storica vuole che la regina si sia fatta uccidere facendosi mordere da un aspide nascosto in un cesto di fichi (vd. PLUT. Ant. 86,1 e FLOR. epit. 2,21,11).22 È da notare che il duplice serpente era un simbolo regale dell’antico Egitto; nel trionfo di Ottaviano venne esibita una pittura raffigurante Cleopatra morsa dall’aspide. Così commentavano il luogo Porfirione e lo pseudo-Acrone, PORPH. Hor. carm. 1,37,26-27: Hoc ideo dicitur quia serpentem sibi obposuit, cuius morsu perit; ACRO Hor. carm. 1,37,26: (Fortis) quae haberet ex desperatione virtutum. Il LA PENNA, cit., p. 267, seguendo il PASQUALI, cit., p. 57, vede una corrispondenza tra questo secondo colon sintattico e il secondo della strofa precedente nec muliebriter expavit ensem. Fortis con l’infinito è costruzione frequente della lingua oraziana; cfr. anche STAT. Silv. 3,2,126 fortis et Eoas iaculo damnare sagittas. Asperas serpentes è stato interpretato come “serpenti inferociti” (NISBET-HUBBARD, p. 419; si noti che Orazio usa asper nel senso di “feroce” in carm. 1,23,9 tigris ut aspera e in carm. 1,35,9 Dacus asper) o “squamosi” (TERZAGHI, cit., p. 157). In effetti, asperas unito a tractare suggerisce l’idea della ruvidezza della pelle dei serpenti. Echi del passo si riscontrano in VERG. Aen. 8,697 (regina)

22 PLUT. Ant. 86,1: έ ὲ ὴ ἀί ῆ ὺ ῖ ύ ἐί-  ὶ ῖ ί ἀ ἐῖ (“Si racconta che l’aspide fosse portato nel paniere, nascosto tra i fichi e le foglie”).

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necdum etiam geminos a tergo respicit angues, e PROP. 3,11,53 Brachia spectavi sacris admorsa colubris. Deliberata morte ferocior (v. 29): con questa solenne espressione (“a monumental attribute”, FRAENKEL, cit., p. 160) Orazio suggella l’ultimo atto di Cleopatra, il suicidio, che è nello stesso tempo ultimo atto di lotta contro il Romano e, stoicamente, definitiva affermazione della propria libertà. È attraverso la morte che la regina diviene immortale, è con il suicidio che essa trionfa sul nemico vincitore, frustrandone l’orgoglio di trascinarla prigioniera a Roma (vd., per analoghe considerazioni, S. COMMAGER, Horace, Carmina 1,37, “Phoenix” XII, 1958, p. 52). In deliberata si è scorta l’idea che la regina abbia lungamente meditato i pro e i contro prima di risolversi a prendere l’estrema decisione. Così interpretavano gli antichi: PORPH. Hor. carm. 1,37,29-30 D e l i b e r a t a utrum pro cogitata positum sit, an vero de qua plerique deliberant, id est dubitant, ut sit hoc perpetuum epitheton mortis. Significat autem ipsius mortis significatione constantissimam fuisse; scholia ad codd.   Ostenditur quia diu praemeditata est qua morte se interficeret. I moderni si sono mossi sulle orme di queste esegesi: citiamo, per esempio, PÖSCHL, cit., p. 98 (“deliberata significa che essa ha ben ponderato e deciso la morte”) e NISBET-HUBBARD, p. 419 (“deliberata suggerisce che la decisione è stata presa dopo aver soppesato i pro e i contro”). Non saremmo però alieni dal pensare che Cleopatra abbia scelto senza indugio questa via estrema, come si conveniva, del resto, al suo carattere fiero e al comportamento stoico, più volte rimarcati da Orazio. Se il poeta avesse voluto significare che la decisione era stata in qualche modo travagliata e sofferta, avrebbe offuscato il ritratto finale della donna dipinto con i toni grandiosi e solenni che concludono la poesia. Ci conforta nella nostra lettura anche l’esegesi di ferocior. Il termine vuole alludere alla prontezza di Cleopatra nell’attuare il suo proposito e così era spiegato dagli antichi commentatori, vd. ACRO Hor. carm. 1,37,29 Promptior saevis Liburnis fuit ad mortem; illi enim libenter moriuntur. Ferox, in effetti, è termine proprio di chi non si dà per vinto anche dopo aver subito la più grave sconfitta ed è connesso con l’inflessibilità, quell’inflessibilità di cui danno prova molti famosi nemici di Roma. Ferocia animi mostra Catilina di fronte alla morte in SALL. Cat. 61,4; Metello decide di riprendere la guerra contro Giugurta, ubi videt etiam tum regis animum

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ferocem esse, in SALL. Jug. 54,5. Ferocissimi sono i più fanatici repubblicani, in TAC. Ann. 1,2,1; feroces i più implacabili nemici di Roma, come i Cartaginesi (VERG. Aen. 1,302), i Parti (HOR. carm. 3,2,3), i Sigambri (HOR. carm. 4,2,34). Roma stessa è ferox, perché non si dà mai per vinta (HOR. carm. 3,3,44). Se ferox indica chi non accetta la sconfitta e non rinunzia mai a sperare nel proprio successo, l’accostamento con deliberata morte rappresenterebbe un ossimoro (così PÖSCHL, cit., p. 100). Ma il senso del passo, a nostro parere, è che Cleopatra appare più forte (ferocior) perché ha liberamente scelto la morte, pur sapendo che Ottaviano aveva deciso di risparmiarla e di concederle anche qualche onore rispettando la sua dignità regale. È da ricordare che con il suicidio Cleopatra non permise ad Ottaviano di succedergli legittimamente sul trono (vd. sulle conseguenze istituzionali della morte di Cleopatra M. A. LEVI, Cleopatra e l’aspide, “La parola del passato” 9, 1954, pp. 293-295). Riecheggiamenti del v. 29 si possono scorgere in LUC. 4,533-534 Stabat devota iuventus /damnata iam luce ferox, e in SEN. Ag. 210 Non melior Aiax morte decreta furens. Non humilis mulier al v. 32 è l’ultima espressione che Orazio rivolge a Cleopatra. La trasformazione si è compiuta: la regina, prima disprezzata con i peggiori epiteti, ora è definitivamente consacrata come un’eroina magnificamente superba, altera e incrollabile, di fronte alla potenza (e prepotenza) del vincitore, una donna il cui ultimo atto diviene una sorta di regale “martirio”. Plutarco, Ant. 85,8 ricorda le ultime parole della schiava Charmion, morente ai piedi della regina suicida: ά ὲ ὖ ὶ έ ῇ ύ ἀόῳ έ (“bellissima azione, conveniente ad una donna di tale stirpe regale”). “Con l’orgoglio di una Lagide” interpretano non humilis NISBET- HUBBARD, p. 420. L’espressione è in antitesi con privata al v. 31 per il TERZAGHI, cit., p. 157: alla donna non più regina si contrappone l’eroina fiera e superba. Per COMMAGER, cit., p. 51, il contrasto si pone tra la fiera regina e il superbo triumpho romano e la frase finale condensa il duplice, antitetico impatto dell’ode: la regina folle diviene superba eroina, il vittorioso romano prepotente sopraffattore. La Cleopatra che lasciamo, alla fine del carme, è dunque molto differente dalla donna introdotta al principio. La sconfitta subita le ha fatto abbandonare le folli speranze, l’ha costretta a guardare la triste realtà, l’ha fatta divenire più umana, ed è proprio in questa recuperata (e

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disperata) umanità che risalta la sua grandezza, il suo virile coraggio, la sua virtus ormai tipicamente romana.23 Le accuse che le venivano mosse per conto della propaganda politica24 sono state puntualmente rovesciate ed il personaggio pienamente recuperato, almeno dal punto di vista etico, sicché, come è stato scritto, l’ode si fa panegirico della regina vinta.25 Al furor, alla impotentia, alla ebrietas, si sostituiscono nel secondo momento del carme la fortitudo, la ferocia animi, l’aequanimitas. Possiamo in proposito ricavare il seguente schema concettuale (sulla base di PÖSCHL, cit., p. 82; vd. anche CREMONA, La poesia civile di Orazio, Milano 1983, pp. 94-95):

condanna sul piano rivalutazione sul piano politico (vv. 5-12): etico (vv. 21-32): epiteti: furor vs. moderatio libido vs. continentia aequanimitas ebrietas vs. temperantia

Fu molto probabilmente il suicidio della donna, suicidio che impressionò non poco l’opinione pubblica, ciò che spinse Orazio, il quale ancora nell’epodo IX, scritto subito dopo Azio, aveva dipinto in modo ostile Antonio e Cleopatra, a presentare diversamente gli ultimi fatti e a rivalutare perciò la regina orientale.26 L’iconografia di Cleopatra, però, non risulta in fondo dissimile da quella delle altre figure, anche femminili, che la tradizione storiografica tratteggia come nemiche di Roma, della res publica e, poi, dell’impero. La condanna degli storici ne investe il progetto eversivo, giudicato folle, assurdo, nefas, ma ne riscatta la personalità, trasfigurata dalla luce eroica,

23 Vd. S. COMMAGER, cit. nel testo, p. 52. 24 Per esempio, che Cleopatra avesse meditato la rovina di Roma, che l’avesse ottenuta da Antonio come prezzo della sua libidine, vd. FLOR. epit. 2,21,2: Hinc mulier Aegyptia ab ebrio imperatore pretium libidinum Romanum imperium petit; et promisit Antonius, quasi facilior esset Partho Romanus. 25 Vd. S. COMMAGER, cit., p. 49; V. CREMONA, cit., p. 95. 26 Così T. Zielinski, cit. nel testo, p. 39, il quale ritiene che Orazio abbia cambiato la parte finale dell’ode. Nell’epodo IX Cleopatra e la corte egiziana sono presentati in modo ostile e sprezzante (interque signa turpe militaria / sol aspicit conopium, vv. 14-16).

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dignitosissima, che rischiara la fine. Un’intera galleria di personaggi ci si presenta innanzi. Si pensi al già citato Catilina e al bellissimo ritratto che di lui ci ha lasciato Sallustio alla fine dell’opera. Il cadavere del rivoluzionario viene trovato nel folto dei nemici, ancora spirante, sul volto il segno dell’antica fierezza: Catilina vero longe a suis inter hostium cadavera repertus est, paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivos, in volut retinens, SALL. Cat. 61,4. Si pensi al magistrale ritratto, nella stessa opera, di Sempronia: Haec mulier genere. Forma, praeterea viro atque liberis satis fortunata fuit: litteris Graecis et Latinis docta, psallere saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret, haud facile discernes; lubido sic accensa, ut saepius peteret viros quam peteretur, SALL. Cat. 25,1-2.27 Si pensi, prima ancora al ritratto di Annibale lasciatoci da Cornelio Nepote: Si verum est, quod nemo dubitat, ut populus Romanus omnes gentes virtute superarit, non est infitiandum Hannibalem tanto praestitisse ceteros imperatores prudentia, quanto populus Romanus antecedat fortitudine cunctas nationes, NEP. Hann. 23,1.28 Anche Mitridate e Giugurta non sono privi di una loro grandezza che li fa rifulgere anche nel male. Tacito ci lascia una serie di personaggi nemici di Roma, rievocati con calda ammirazione: da Arminio, il capo dei Germani che inflisse alle legioni di Augusto la terribile sconfitta di

27 “Questa donna era stata alquanto favorita dalla fortuna per stirpe, bellezza, per il marito e i figli; colta nelle lettere greche e latine, sapeva suonare la cetra e danzare con più grazia di quanta ne occorra ad una donna onesta, e conosceva molti altri incentivi al piacere. Ma a lei tutto fu sempre più caro del decoro e della pudicizia. Non si può dire facilmente se avesse minor riguardo al denaro o alla reputazione; era così accesa di libidine che desiderava gli uomini più di quanto questi la desiderassero”. 28 “Se è vero, cosa di cui nessuno dubita, che il popolo romano abbia superato in valore tutti gli altri popoli, non si deve tuttavia negare che Annibale sia stato superiore agli altri condottieri per abilità, tanto quanto il popolo romano sta davanti a tutte le genti per la sua potenza”.

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Teutoburgo (TAC. Ann. 2,88,2),29 a Floro e Sacroviro, gli eroici capi della rivolta di Gallia sotto Tiberio (TAC. Ann. 3,40-46), a Carataco, il valoroso re dei Siluri (TAC. Ann. 12,33-37). Un ricordo merita anche Budicca, regina degli Iceni, tribù della Britannia: costei, dopo la morte del marito, Prasutago, aveva sofferto l’oltraggio delle armi romane. Il suo regno era stato devastato dai soldati, lei stessa percossa duramente, le sue figlie violentate. Chiedendo vendetta per la perdita del regno e delle ricchezze, per l’offesa arrecata a lei e alle sue figlie, incita alla rivolta il suo popolo con un coraggioso discorso; sconfitta dalle truppe romane, vistasi perduta, si uccide col veleno (TAC. Ann. 14,31-37). Infine, ricordiamo un’ultima grande figura di eroina: Zenobia, la regina di Palmira, avversaria dell’imperatore Aureliano (HIST. Aug. 24 e 26). Alla morte del marito, Settimio Odenato, Zenobia si trova a reggere, in nome dei due figli, il regno orientale di Palmira. Aureliano le muove contro, sconfigge il suo esercito e la cattura, facendole grazia della vita: Zenobia finirà i suoi giorni a Tivoli, in una zona chiamata Concae, non lontano dalla Villa di Adriano, vd. HIST. Aug. 24,30,27. In tutte queste vicende ella tiene un comportamento fermissimo e orgoglioso, tratta da pari a pari con Aureliano, gli ricorda che discende da Cleopatra e pertanto l’imperatore non speri che essa si arrenda.30 Il suo biografo, “Trebellio Pollione”,31 non perde occasione per esaltare la constantia di Zenobia, la prudentia, la gravitas e la sconvolgente bellezza, la incredibilis venustas: la carnagione scura, gli occhi neri, i denti candidi come perle (HIST. Aug. 24,30,14-15). Ella si vanta di discendere dalla

29 La sconfitta di Teutoburgo avvenne nel 9 d. C. Sul tema dei rapporti tra i Germani e Roma vd. E. PARATORE, I Germani e i loro rapporti con Roma dalla Germania agli Annales di Tacito, “Romanobarbarica” 2, 1977, pp. 149-182. 30 HIST. Aug. 26,27,3: Deditionem meam petis, quasi nescias Cleopatram reginam perire maluisse quam in qualibet vivere dignitate (“Chiedi la mia resa, come se ignorassi che la regina Cleopatra preferì morire piuttosto che vivere ricevendo qualunque tipo di onore”). 31 La Historia Augusta redatta da un anonimo scrittore d’ambiente senatorio intorno agli inizi del V secolo d. C., è una raccolta di biografie imperiali da Adriano a Carino e Numeriano (dal 117 al 285 d. C.). Ci è stata tramandata sotto i nomi di sei autori: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco. Vd. in proposito S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, vol. II 2, Bari 1974, pp. 214-247.

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stirpe di Cleopatra e di Tolomeo, ha per modello la regina orientale, Didone e Semiramide, si serve di vasi d’oro ornati di gemme come Cleopatra, veste come Didone, regna dopo la morte del marito diutius, quam femineus sexus patiebatur (HIST. Aug. 24,30,2), come Semiramide, che appuntò regnò dopo la morte del marito Nino.32 In Zenobia sembra quindi rivivere una nuova, ultima Cleopatra. V’è dunque nella storiografia latina un particolare modo di presentare i più importanti nemici di Roma. Il racconto delle loro vicende procede e si svolge secondo definiti momenti narrativi: il progetto eversore dell’autorità romana, la fiducia nella propria fortuna, la sconfitta patita dall’avversario più forte, la determinazione di morire per non cadere nelle mani del nemico, l’ammirazione dello storico per la nobile fine. Con qualche variante è questo tipo di schema narrativo che si presenta quando leggiamo nelle opere degli storici le pagine di Arminio, di Carataco, di Budicca, di Zenobia. Anche dal punto di vista espressivo si presentano analoghi termini e, talora, riecheggiamenti. Prendiamo, per esempio, il punto in cui l’autore esprime la sua ammirazione per il nemico di Roma e notiamo come il lessico usato presenti una certa somiglianza in più casi. Possiamo evidenziare ciò con il seguente schema, che mette in rilievo la particolare aggettivazione laudativa, scelta in riconoscimento del valore dell’avversario, impiegata dagli autori per ciascuno dei famosi nemici di Roma:

CLEOPATRA Saevis Liburnis scilicet invidens / privata deduci superbo / non humilis mulier triumpho (HOR. carm. 1,37,30-32).

32 HIST. Aug. 24,27,1: (Zenobia) parvulos Romani imperatoris habitu praeferens purpuratos eosdemque contionibus, quas illa viriliter frequentavit, Didonem et Semiramidem et Cleopatram sui generis principem inter cetera praedicans (“Zeno- bia ostentava i figlioletti vestiti con la porpora alla maniera degli imperatori romani e li portava alle assemblee, che ella frequentava come fosse un uomo, vantando tra gli altri Didone, Semiramide e Cleopatra come capostipite della sua stirpe”). È interessante notare che Semiramide, Didone e Cleopatra compaiono insieme nell’Inferno di Dante (If. V 52-63), quasi che il grande poeta della Commedia abbia accolto una tradizione che metteva in rapporto le tre regine. È poi possibile che la Cleopatra oraziana abbia influenzato taluni aspetti della Didone in Virgilio: vd. su ciò le osservazioni di E. PARATORE in VIRGILIO, Eneide, libro quarto, a cura di E. Paratore, Roma 1973, rist., pp. XVII-XVIII.

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Espressioni laudative = non humilis mulier.

CATILINA Catilina vero longe a suis inter hostium cadavera repertus est, paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivos, in voltu retinens (SALL. Cat. 61,4). Espressioni laudative = longe a suis inter hostium cadavera repertus est; ferociamque animi in voltu retinens.

CARATACO Ne Romae quidem ignobile Carataci nomen erat; et Caesar, dum suum decus extollit, addidit gloriam victo (TAC. Ann. 12,36,2). Espressioni laudative = Ne quidem ignobile Carataci nomen erat; addidit gloriam victo.

ARMINIO Liberator haud dubie Germaniae et qui non primordia populi Romani, sicut alii reges ducesque, sed florentissimum imperium lacessierit, proeliis ambiguus, bello non victus (TAC. Ann. 2,88,2). Espressioni laudative = Liberator Germaniae; florentissimum imperium lacessierit; bello non victus.

ZENOBIA Ne illi, qui me reprehendunt, satis laudarent, si scirent quae illa sit mulier, quam prudens in consiliis, quam constans in dispositionibus, quam erga milites gravis (HIST. Aug. 24,30,5). Espressioni laudative = prudens in consiliis, constans in dispositionibus, erga milites gravis.

Le espressioni sincere di lode segnano dunque il recupero del personaggio da parte dell’autore, la sua riabilitazione sul piano etico, il suo “apparentamento” operato dalla virtus agli eroi romani, anche se tale glorificazione non esclude la condanna del disegno eversore dell’autorità romana (ma in Tacito sembrano affiorare dubbi anche in questo senso, ossia nella legittimità del popolo romano a comandare su tutto l’orbis, vd. il discorso di Carataco). Per quanto concerne Orazio, la sua raffigurazione di Cleopatra ben si inserisce in questa tipica tradizione e la struttura dell’ode, con il riconoscimento antitetico delle espressioni connotanti Cleopatra, è in funzione della suddetta

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rappresentazione. Quali sono i presupposti di questo modo di effigiare la regina orientale? Si è pensato che Orazio abbia cambiato la parte finale dell’ode dopo aver appreso del suicidio della regina (ZIELINSKI); che, lodando la regina, abbia voluto accrescere la lode di Ottaviano (L. BRACCESI, Orazio e il motivo politico del Bellum Actiacum, “La parola del passato” 22, 1967, p. 183); che abbia voluto ridicolizzare le accuse lanciate a Cleopatra (i termini ebria, impotens, etc., sarebbero usati in senso ironico).Certamente avrà agito sul modo di rappresentare la regina vinta il profondo rispetto della dignità umana, concetto che i Romani avevano mutuato dalla cultura greca. Ma nel rappresentare la donna come una creatura debole, fragile, spaventata e ormai preda del superbo vincitore che la ghermisce tra i suoi artigli spietati (nella bellissima similitudine, ispirata ad Omero, dei vv. 17-20),33 nel rappresentare la donna come una non humilis mulier che tiene testa al baldanzoso Romano e ne frustra il trionfo non concedendogli di vederla trascinata in catene, non potremmo scorgere il desiderio di magnificare la vittoria di Ottaviano. Potremmo invece pensare, anche a costo di azzardare ipotesi, che Orazio abbia voluto in qualche modo “smontare” l’esaltazione della vittoria di Azio, dissentendo, sia pur molto velatamente, dal coro unanime id acclamazioni che segnò a Roma la fine del bellum civile. E, al riguardo, ci permettiamo di fare un’osservazione che sembra confortare quanto veniamo dicendo. Passiamo al secondo punto focale del carme, il cenno alla battaglia di Azio (come avevamo scritto in principio), che tratteremo per necessità sinteticamente. Orazio allude alla battaglia al v. 13: Vix una sospes navis ab ignibus. Ad Azio, com’è noto, le liburne, navi molto agili, ebbero ragione dei pesanti galeoni della flotta egiziana. Le fonti storiografiche assegnano il merito della vittoria all’abilità di Ottaviano e Agrippa e accusano l’incompetenza di Antonio (PLUT. Ant. 65-66). In realtà, sappiamo che la vittoria fu per buona parte resa possibile dall’accortezza

33 HOR. carm. 1,37,17-20: accipiter velut / mollis columbas aut leporem citus / venator in campis nivalis / Haemoniae. Il bellissimo paragone, tratto da Hom. Il. 22,139 ss., sottolinea la tragica situazione di Cleopatra, sola alla mercé del suo inseguitore, Ottaviano. È nell’ambito della similitudine che avviene il ‘rove- sciamento’ della figura di Cleopatra, ora vittima del suo persecutore, come Ettore lo è di Achille (al quale rimanda il medesimo paragone in Omero).

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del praefectus fabrum Cornelio Gallo che ordinò di scatenare la forza di fuoco delle sue navi nel momento in cui Antonio e Cleopatra compivano una pericolosa manovra tentando di rompere il blocco navale, in direzione sud.34 Le fonti tacciono dei meriti di Cornelio Gallo perché questi nel 27 a. Cr. cadde in disgrazia presso Ottaviano a seguito di calunnie quand’era prefetto d’Egitto, oppure tendono a porli in secondo piano rispetto a quelli di Ottaviano (come fa Cassio Dione). Ora, con vix una sospes navis ab ignibus Orazio ricorda l’opera di Cornelio Gallo, i proiettili di fuoco scagliati dalle sue navi: solo una nave egiziana scampò al terribile rogo che distrusse la flotta nemica! È curioso il fatto che Orazio, volendo esaltare la vittoria di Ottaviano, abbia ricordato il solo Cornelio Gallo nell’unico punto in cui accenna proprio ad Azio e che la lode del nipote di Cesare avrebbe dovuto occupare più vistosamente. Invece, il merito di Cornelio Gallo è rilevato dall’iperbole (vix una sospes…) e Ottaviano appare qualche verso più oltre come l’incontrastato vincitore, come l’implacabile persecutore che incalza l’avversario prostrato e ormai inerme (Cleopatra, raffigurata come una piccola, innocente mollis columba). Orazio sembra dunque restituire i suoi meriti a Cornelio Gallo, il quale, poco tempo dopo, sarebbe finito suicida, travolto dalle calunnie e dall’amarezza per le accuse. Una tale rappresentazione dei fatti non ci sembra molto conveniente al proposito di magnificare in Ottaviano il vincitore di Azio. Va da sé che se Orazio avesse realmente voluto comporre un piccolo “panegirico” in versi per Ottaviano, avrebbe molto probabil- mente usato diverso tono e dato maggior spazio alla sua figura. La qual cosa invece non è, come abbiamo notato. Ottaviano ci appare, infatti, come il generale che coglie i frutti di una vittoria preparata e realizzata dai suoi soldati e Cleopatra, la mollis columba ghermita dall’incalzante accipiter, ci ispira un senso di profonda pietà e, quasi, di solidarietà. Tale è l’effetto che riceve il lettore dalla rappresentazione oraziana e il poeta, nella seconda parte dell’ode, sembra scostarsi dalla figura del vittorioso Romano per avvicinarsi umanamente alla donna orientale,

34 La manovra avvenne nel golfo di Ambracia. Sulla battaglia di Azio vd.: W. TARN, The battle of Actium, “Journal of Roman Studies” 21, 1931, pp. 197-198; F. LEON MARCIEN, L’interpretation de la bataille d’Actium par les poètes latins de l’époque augustéenne, “Les études classiques” XXIV, 1956, pp. 330-348.

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vittima del suo stesso destino. Non avrà allora giocato, sarebbe lecito chiedersi, in questo modo di presentare la vicenda un residuo dell’antico spirito repubblicano, di quello spirito e di quegli ideali che avevano portato il giovane Orazio a partecipare a Filippi al fianco di Bruto e a guadagnarsi il titolo di tribunus militum?35 Preferiamo non prendere posizione, lasciando al lettore la risposta. Non possiamo però non ammettere che, in definitiva, l’acquiescenza di Orazio alle direttive politiche di Ottaviano (Augusto, dal 15 gennaio del 27 a. Cr.) non sembra essere, alla luce della lettura che abbiamo fatto (e, ovviamente, riferendoci al tempo in cui l’ode venne composta), così solida come appare e che, per verificarne l’effettiva consistenza, il carme 1,37 si dimostra come una delle più interessanti (ed inquietanti) testimonianze.36

Mario Carini

35 SUETONIO, Vita di Orazio, a cura di G. Brugnoli, Roma 1968, p. 18 par. 2: Bello Philippensi excitus a M. Bruto imperatore tribunus militum meruit. Vd. anche HOR. sat. 1,6,48. 36 Priva di cortigianeria si dimostra dunque la lode di Cleopatra, come ha notato il LA PENNA, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 56. E che Orazio, per altro verso, con il suo profondo senso della solitudine, della caducità delle cose, della morte, con la sua demistificazione del trionfalismo retorico voluto dal regime, sia il poeta “meno augusteo” del suo tempo, è stato acutamente osservato da L. CANALI (Identikit dei padri antichi, Milano 1976, p. 100).

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MARIO CARINI

Forme storiche della prigionia bellica: le latomie siracusane e i Lager degli IMI

Avvertenza: una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata col titolo, I prigionieri ateniesi nelle latomie siracusane e gli Internati Militari Italiani: un confronto possibile?, sul periodico semestrale “Noi dei Lager” (n. 1-2, Gennaio- Giugno 2019, pp. 52-56), organo dell’ANEI. (M.C.)

Un recente saggio del grande studioso di antichità classica, Luciano Canfora, analizza gli eventi del passato per cogliere le dinamiche che caratterizzano le questioni vitali per la società contemporanea, come la giustizia, la libertà la cittadinanza.1 In effetti, in determinati avvenimenti, se confrontati con altri di differenti epoche, non è difficile scorgere sorprendenti similitudini e analogie di situazioni. Un giornalista e commentatore politico dei nostri tempi, Siegmund Ginzberg, ha provato a collegare famosi personaggi ed episodi del mondo antico con le cronache odierne, nella convinzione che “nelle pagine dei grandi libri si possono ritrovare tesori insospettabili di giornalismo, evocazioni, riflessioni, persino anticipazioni insospettate della notizia del giorno.”2 Nel capitolo intitolato Le TV di Nerone Ginzberg vede nella strategia politica dell’imperatore, tendente a ricercare il favore popolare con il programma del panem et circenses, una forma di comunicazione precorritrice della politica-spettacolo dei nostri tempi: l’autore critica le biografie neroniane di Edward Champlin e di Denis Diderot per propugnare un’immagine di Nerone molto meno

1 Luciano Canfora, Il presente come storia, Rizzoli, Milano 20183: il saggio ha il significativo sottotitolo Perché il passato ci chiarisce le idee. 2 Vd. Siegmund Ginzberg, Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano, Rizzoli, Milano 2008, p. 10.

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esagerata e crudele di quella che ci hanno tramandato importanti fonti storiche come Tacito e Svetonio.3 Gli studiosi, naturalmente, obietteranno che gli eventi storici, come frutto dell’agire umano che si sviluppa nelle forme più varie a seconda dei differenti contesti, occasioni, finalità ed epoche in cui si manifesta, non possono essere comparabili gli uni con gli altri, soprattutto quelli verificatisi in epoche diverse e tra di loro assai lontane nel tempo. Eppure determinati fenomeni storici, se confrontati con altri di differenti epoche, lasciano scorgere sorprendenti similitudini e analogie di situazioni. Come è stato rilevato in interventi di eminenti studiosi, la storia non è collezione documentaristica, ma esperienza vissuta del fare umano degno di ricordo, su cui riflettere e progettare il futuro.4 La concatenazione di vicende storiche nel tempo presenta spesso una sorta di reiterazione di determinate vicende e comportamenti. Nel contesto della guerra, per secoli alla vita del nemico arresosi non venne riconosciuto alcun valore, se non quello economico, donde fonte principale della schiavitù nel mondo antico era la prigionia di guerra. I nemici erano ammassati in luoghi circoscritti, controllati spietatamente dai guardiani, ridotti a subire un regime durissimo di privazioni e sofferenze, e infine venduti, se sopravvivevano, come schiavi o spartiti tra i vincitori. Tale esperienza ritorna sorprendentemente e dramma- ticamente in epoca moderna, nel Novecento, nella vicenda dei nostri Internati Militari durante la seconda guerra mondiale. Una pagina di storia antica sembra, da questo punto di vista, precorrere le drammatiche vicende degli Internati Militari Italiani (IMI), gli 810.000 militari che vennero abbandonati al loro destino, in Patria e fuori, dopo la fuga del re e di Badoglio all’indomani dell’8 settembre. A parte i celebri e tragici tentativi di resistenza, come a Cefalonia, la massima parte di essi fu catturata dai Tedeschi e deportata nei treni piombati alla volta dei Lager in Germania e Polonia. Lungi da noi l’idea di stabilire nessi tra il contenuto e la datazione di eventi tutt’affatto lontani nel tempo, andando alla ricerca di quelle “coincidenze significative” sulle quali si basa la teoria della “sincronicità” di Jung.

3 S. Ginzberg, cit., pp. 235-251. 4 Citiamo Evandro Agazzi, Elogio della storia, in “Nuova Secondaria”, n. 4, 15 dicembre 1994, p. 5.

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Però non possiamo non scorgere sorprendenti somiglianze, alcune davvero impressionanti (quasi a conferma dei “ricorsi storici” di Giambattista Vico o, come è stato scritto più recentemente, che “il presente si fa passato”)5, con quanto avvenne in un famoso episodio della storia greca ricordato da Tucidide, nella sua narrazione della guerra del Peloponneso, il trentennale conflitto che oppose Atene e Sparta nella seconda metà del V secolo a. Cr. Ci riferiamo alla vicenda della prigionia dei soldati ateniesi nelle latomie, le cave di pietra, di Siracusa, episodio conclusivo della catastrofica spedizione in Sicilia del 415-413 a. Cr. Non è il caso, almeno qui, di costruire cabalistiche strutture numeriche collegando artificiosamente le datazioni di fatti lontani per collegarne i contenuti e individuare misteriosi disegni finalistici, com’è prassi di coloro che hanno applicato la sincronicità rivisitando gli eventi, soprattutto quelli del Novecento:6 non scorgiamo alcun nesso sotterraneo fra il 1943, anno in cui inizia il dramma degli IMI, e il 413 a. Cr., l’anno in cui gli Ateniesi superstiti furono rinchiusi nelle latomie di Siracusa. Nondimeno possiamo stabilire istruttive analogie tra i due eventi, per illustrare e confermare i perenni meccanismi di violenza, sopraffazione e distruttività che regolano l’agire umano in determinate circostanze critiche, com’è il contesto della guerra. A proposito dell’evento del 413 a. Cr., com’è noto, la spedizione voluta due anni prima da Alcibiade si risolse in una pesantissima sconfitta del contingente ateniese (per l’intervento degli Spartani guidati da Lisandro a sostegno dei Siracusani) e le latomie furono l’ulteriore

5 E. Agazzi, cit., p. 6. 6 Si veda in particolare Giorgio Galli, Le coincidenze significative. Dalla politologia alla sincronicità, Marino Solfanelli Editore, Chieti 1992: l’autore trae numerosi spunti dalla raccolta di articoli di Saverio Tutino, Da Kennedy a Moro. La vera storia degli ultimi vent’anni, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1979 (si veda in particolare l’articolo Coincidenze casuali, alle pp. 78-81). Un caso limite di sincronicità è nel libro di Pierfrancesco Prosperi, La serie maledetta, Armenia Editore, Milano 1980, ove l’autore elenca una serie di straordinarie coincidenze numeriche fra l’assassinio del presidente John Kennedy (1963) e quello del presidente Abraham Lincoln (1865), per avanzare fantasiose e improbabili spiegazioni dei due eventi.

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dramma che dovettero sopportare i superstiti della disfatta in Sicilia.7 Rievochiamo le vicende della prigionia dalle pagine dello storico ateniese Tucidide (460-395 a. Cr.), nella sua narrazione della guerra del Peloponneso (dal libro VII delle Storie, cap. 87, parr. 1-6):

[87,1] Tοὺς δ᾽ἐν ταῖς λιθοτομίαις οἱ Συρακόσιοι χαλεπῶς τοὺς πρώτους χρό- νους μετεχείρισαν. Ἐν γὰρ κοίλῳ χωρίῳ ὄντας καὶ ὀλίγῳ πολλοὺς οἵ τε ἥλιοι τὸ πρῶτον καὶ τὸ πνῖγος ἔτι ἐλύπει διὰ τὸ ἀστέγαστον καὶ αἱ νύκτες ἐπιγιγνόμεναι τοὐναντίον μετοπωριναὶ καὶ ψυχραὶ τῇ μεταβολῇ ἐς ἀσθένειαν ἐνεωτέριζον, [2] πάντα τε ποιούντων αὐτῶν διὰ στενοχωρίαν ἐν τῷ αὐτῷ καὶ προσέτι τῶν νεκρῶν ὁμοῦ ἐπ᾽ἀλλήλοις ξυννενημένων, οἳ ἔκ τε τῶν τραυμάτων καὶ διὰ τὴν μεταβολὴν καὶ τὸ τοιοῦτον ἀπέθνῃσκον, καὶ ὀσμαὶ ἦσαν οὐκ ἀνεκτοί, καὶ λιμῷ ἅμα καὶ δίψῃ ἐπιέζοντο (ἐδίδοσαν γὰρ αὐτῶν ἑκάστῳ ἐπὶ ὀκτὼ μῆνας κοτύλην ὕδατος καὶ δύο κοτύλας σίτου), ἄλλα τε ὅσα εἰκὸς ἐν τῷ τοιούτῳ χωρίῳ ἐμπεπτωκότας κακοπαθῆσαι, οὐδὲν ὅτι οὐκ ἐπεγένετο αὐτοῖς. [3] Kαὶ ἡμέρας μὲν ἑβδομήκοντά τινας οὕτω διῃτήθησαν ἁθρόοι‧ ἔπειτα πλὴν Ἀθηναίων καὶ εἴ τινες Σικελιωτῶν ἢ Ἰταλιωτῶν ξυνεστράτευσαν, τοὺς ἄλλους ἀπέδοντο. [4] Ἐλήφθησαν δὲ οἱ ξύμ- παντες, ἀκριβείᾳ μὲν χαλεπὸν ἐξειπεῖν, ὅμως δὲ οὐκ ἐλάσσους ἑπτακισχιλίων. [5] Ξυνέβη τε ἔργον τοῦτο [Ἑλληνικὸν] τῶν κατὰ τὸν πόλεμον τόνδε μέγιστον γενέσθαι, δοκεῖν δ᾽ ἔμοιγε καὶ ὧν ἀκοῇ Ἑλληνικῶν ἴσμεν, καὶ τοῖς τε κρατήσασι λαμπρότατον καὶ τοῖς διαφθαρεῖσι δυστυχέστατον‧ [6] κατὰ πάντα γὰρ πάντως νικηθέντες καὶ οὐδὲν ὀλίγον ἐς οὐδὲν κακοπαθήσαντες πανωλεθρίᾳ δὴ τὸ λεγό- μενον καὶ πεζὸς καὶ νῆες καὶ οὐδὲν ὅτι οὐκ ἀπώλετο, καὶ ὀλίγοι ἀπὸ πολλῶν 8 ἐπ᾽οἴκου ἀπενόστησαν. Tαῦτα μὲν τὰ περὶ Σικελίαν γενόμενα.

“[87,1] Quanto ai prigionieri che erano nelle latomie, nei primi tempi i Siracusani li trattarono duramente. Erano molti in uno spazio incavato e stretto, e dapprima le giornate piene di sole e il caldo soffocante li facevano soffrire ancora, per il fatto che il luogo non era coperto, e le notti che succedevano ai giorni erano, al contrario, autunnali e fredde, e per il cambiamento di temperatura provocavano malattie; [2] ed

7 Sulla spedizione in Sicilia, episodio capitale della guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene, che si risolse per gli Ateniesi nel disastroso scontro presso il fiume Assinaro, da ricordare il classico Gaetano De Sanctis, Storia greca, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1981 rist. (I ed. 1939), pp. 294-328. Vd. anche: Giulio Giannelli, Trattato di storia greca, Pàtron editore, Bologna 19837, pp. 311-318; Domenico Musti, Storia greca, edizione speciale per il “Corriere della sera” (La Grecia classica, vol. II della collana Storia universale), su lic. Laterza, Milano 2004, pp. 293-301; Victor Davis Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, trad. di Roberto Merlini, Garzanti, Milano 2010 rist., pp. 261-301. 8 Testo da: Thucydides, Historiae, vol. II, Books V-VIII, edited by H. Stuart Jones and J. E. Powell, Oxford University Press, Oxford 1942.

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essi facevano tutto nello stesso posto, per la ristrettezza dello spazio, e per giunta erano accumulati insieme, uno sull’altro, i cadaveri di quelli che morivano per le ferite, per il cambiamento di temperatura e per altre cause di questo genere, e c’erano odori insopportabili; nello stesso tempo erano afflitti dalla fame e dalla sete (a ciascuno di loro diedero per otto mesi una cotile9 d’acqua e due cotile di grano); e di tutte le altre sofferenze che c’era da aspettarsi che persone gettate in un posto come quello avrebbero patito, non ce ne fu nessuna che non capitasse loro. [3] Per circa settanta giorni vissero così tutti insieme: poi i Siracusani li vendettero tutti, meno gli Ateniesi e quei Sicelioti e Italioti che avevano partecipato alla spedizione. [4] Quanto al numero totale di quelli che erano stati catturati, è difficile dichiaralo con esattezza: ad ogni modo non erano meno di settemila. [5] Questa impresa risultò la più grande di quelle della guerra, e, secondo me, delle imprese greche di cui abbiamo conoscenza per tradizione, la più splendida per i vincitori e la più sfortunata per quelli che furono distrutti: [6] furono vinti da tutte le parti e in tutti i modi, e nessuna delle loro disgrazie fu di poco conto sotto nessun aspetto; con uno sfacelo completo, come si dice, furono distrutte la fanteria, le navi, nulla che non fosse distrutto; e pochi, dei molti, tornarono in patria. Questi furono i fatti avvenuti 10 in Sicilia.”

Il brano di Tucidide illustra il miserando destino degli Ateniesi e dei loro alleati scampati al disastro nell’assedio di Siracusa. Ammassati nelle cave di pietra, le latomie, soggetti a privazioni e disagi durissimi, esposti alle intemperie e alle malattie, provvisti dai loro carcerieri di scarsissimo cibo e acqua, languirono tutti insieme, i vivi frammisti ai cadaveri, per otto mesi, mentre alcuni (ma non gli Ateniesi e i loro alleati) dopo settanta giorni furono venduti come schiavi. Questa drammatica pagina della storia antica sembra rivivere nelle vicende degli IMI, i militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943: i nostri soldati, che rifiutarono in massima parte l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana e la collaborazione con il Reich tedesco in nome della fedeltà alla patria e al giuramento prestato al re vittorio Emanuele III, dovettero subire angherie, privazioni e umiliazioni non dissimili da quelle che subirono gli Ateniesi venuti in Sicilia al seguito

9 La cotile corrispondeva a circa un quarto di litro (0,27 litri nel sistema attico di Solone). 10 Tucidide, Le storie, a cura di Guido Donini, vol. II (libri V-VIII), UTET, Torino 1982, pp. 1195-1197.

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di Alcibiade, Nicia e Demostene, i capi della spedizione del 415 a. Cr.11 Da tempo gli storici hanno identificato l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio con gli Alleati che fu in realtà una ressa senza condizioni, come il giorno più tragico per il nostro Paese dall’Unità d’Italia. Si è parlato al riguardo di “morte della Patria”12 e, in effetti, la dissoluzione della struttura statale e delle nostre Forze Armate, lasciate prive di ordini a seguito della fuga a Brindisi del re e dello Stato Maggiore, significò la cessazione (sia pur temporanea) dell’Italia come Stato unitario e l’inizio di una tragica guerra civile fra Italiani. Effetto immediato della fuga del re Vittorio Emanuele III, del capo del governo il Maresciallo d’Italia Badoglio, del generale Vittorio Ambrosio Capo di Stato Maggiore, fu l’abbandono nelle mani dei Tedeschi delle divisioni italiane nel Paese, nei Balcani e nelle isole dell’Egeo: oltre 800.000 soldati italiani vennero catturati dai Tedeschi e deportati nei Lager nazisti. Di questi, 650.000 rimasero nei campi scontando il loro “NO” alle proposte di arruolamento nella RSI o di collaborazione con i Tedeschi, e 50.000 circa non tornarono più in patria dopo la liberazione, nell’aprile 1945. Le terribili sofferenze che subirono li accomuna, in certo modo, agli sventurati prigionieri ateniesi, circa settemila, che per lunghi mesi languirono, esposti al cielo aperto, nelle cave di pietra, le latomie, a Siracusa. Abbiamo scelto dal brano di Tucidide sopra trascritto alcuni passi e li abbiamo confrontati con le testimonianze tratte dai diari e dai memoriali degli internati, per ricavare analogie e somiglianze di

11 Dei tre condottieri ateniesi, Alcibiade, che fu l’ispiratore della spedizione, non mise piede in Sicilia perché, all’indomani della partenza da Atene, venne richiamato in patria per subire il processo intentatogli in quanto accusato di sacrilegio (la decapitazione delle sacre erme di Dioniso). Alcibiade non affrontò il tribunale e preferì fuggire a Sparta, la nemica di Atene. Gli altri due comandanti, Nicia e Demostene, caduti prigionieri dopo la disfatta, vennero condannati a morte e decapitati. 12 È la famosa e discussa tesi di Ernesto Galli della Loggia, presentata nel suo saggio La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 19962: l’armistizio dell’8 settembre, secondo lo studioso dell’ateneo perugino, avrebbe determinato lo sfaldamento dello Stato ed insieme la scomparsa dell’appartenenza ad una comunità nazionale nella coscienza degli Italiani, giacché la Resistenza non sarebbe riuscita a fondare una nuova idea di Italia libera e democratica, accettabile per tutti.

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situazioni e circostanze. I passi di Tucidide sono stati trascritti in corsivo.

[87,1] Τοὺς δ' ἐν ταῖς λιθοτομίαις οἱ Συρακόσιοι χαλεπῶς τοὺς πρώτους χρόνους μετεχείρισαν. “Quanto ai prigionieri che erano nelle latomie, nei primi tempi i Siracusani li trattarono duramente.” Così scrive Tucidide dei prigionieri ateniesi, e tale era la condizione, nell’antichità, di chi cadeva in guerra nelle mani del nemico. La guerra, del resto, per gli antichi costituiva una forma di acquisizione violenta da parte di un popolo delle terre, delle risorse materiali, dei beni patrimoniali, del patrimonio umano di un altro popolo. Il vincitore, secondo l’antico ius belli, aveva il diritto di acquisire tutto l’acquisibile, compresa la persona e la vita del vinto. Essendo la motivazione della guerra sostanzialmente d’ordine economico, anche la persona del vinto veniva dunque a far parte del bottino di guerra, con la sua riduzione in schiavitù, e quindi la mercificazione dell’individuo ridotto a res, a semplice strumento di cui utilizzare le energie fisiche. I prigionieri maschi diventavano perciò schiavi, le donne (madri, mogli e figlie dei prigionieri) schiave e, se giovani e belle, sue concubine (e questo costume vigeva in Grecia dai tempi più antichi: si pensi alla spartizione delle nobili troiane, Ecuba, Cassandra, Andromaca, da parte dei capi achei, dopo la conquista di Troia). Per quanto riguarda il luogo della detenzione, nel caso specifico della disfatta dell’esercito greco a Siracusa, questa fu costituita dalle latomie, destinate a diventare uno dei siti archeologici più famosi in Italia. Le latomie (da λᾶας, “pietra”, + τομή, “taglio”) erano cave artificiali, scavate nella roccia calcarea fino ad un considerevole profondità, in modo da formare ampie voragini. Vennero utilizzate, per criminali e prigionieri di guerra, come prigioni a cielo aperto, da cui la fuga era pressoché impossibile. In una di queste cave, quella oggi chiamata “Latomia dei Cappuccini”, vennero rinchiusi nel 413 a. Cr. i prigionieri ateniesi sopravvissuti alla disastrosa spedizione contro Siracusa. Una delle origini della schiavitù era, come abbiamo detto poc’anzi, proprio l’essere preda del nemico,13 sorte che toccò, ad esempio, anche

13 I prigionieri erano spartiti come bottino di guerra tra i soldati vincitori, privati della libertà e costretti a servire come schiavi. La guerra, nel mondo antico, era fonte

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ai legionari romani superstiti nella terribile sconfitta di Teutoburgo (9 d. Cr.), come informa lo storico latino Tacito (55-58 circa – 117-120 circa) negli Annales (libro I cap. 61). Simile sorte ebbero anche gli IMI. Le guardie tedesche nei Lager trattavano assai rudemente i nostri compatrioti e per farsi ubbidire, oltre agli ordini urlati e ripetuti in una lingua che ben pochi riuscivano a capire e che sembrava creata apposta per incutere paura e minacciare terribili punizioni, ricorrevano agli spintoni, ai pugni, alle bastonate e alle mazzate con il calcio dei fucili. Il fatto di essere stati denominati IMI (Internati Militari Italiani) poneva i nostri militari al di fuori della condizione prevista per i prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra del 1929 (che anche la Germania aveva firmato). A differenza della sorte degli Ateniesi, che fu dura – secondo la narrazione di Tucidide – soltanto per un certo periodo, quella dei nostri internati rimase tale praticamente fino alla liberazione dalla prigionia, che avvenne nell’aprile del 1945, con il crollo del Terzo Reich ad opera degli Alleati. La condizione dei nostri IMI risultò dunque ben più dura di quella degli Ateniesi, e non solo quanto alla durata, anche perché i Tedeschi, popolo peraltro civilissimo ma che nella seconda guerra mondiale si rese responsabile di disumane e inimmaginabili atrocità (basti pensare alla Shoah), nel trattamento degli IMI retrocessero a parecchi secoli addietro nella storia dell’umana civiltà, dimenticando completamente le garanzie che la Convenzione di Ginevra riconosceva ai prigionieri di guerra dei Paesi firmatari (tra cui v’era anche la Germania). Se è vero, com’è stato affermato da un grande storico dell’antichità, che tutto lo sviluppo storico si è svolto in direzione dell’enuclearsi, chiarificarsi e precisarsi dei diritti dell’uomo,14 allora il regime nazista, che in ogni Paese dominato ha sempre calpestato i diritti della persona umana, è stato la negazione della storia.

primaria della schiavitù, sicché scopo di molte guerre era quello di impadronirsi del maggior numero possibile di schiavi, che nell’economia antica venivano utilizzati in modo pervasivo: vd. al riguardo Jean Andreau – Raymond Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, trad. di Raffaella Biundo, Società Editrice il Mulino, Bologna 2006, in particolare le pp. 73-75. 14 Citiamo da Silvio Accame, Perché la storia, Editrice La Scuola, Brescia 1979, pp. 7-9.

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[87,1] Ἐν γὰρ κοίλῳ χωρίῳ ὄντας καὶ ὀλίγῳ πολλοὺς “Erano molti in uno spazio incavato e ristretto.” L’ammassamento dei prigionieri nelle latomie fa pensare, per analogia, ai viaggi in treno verso i Lager, che per i nostri militari costituirono esperienze molto dolorose, l’inizio della loro via Crucis. Rinchiusi nei vagoni piombati in cinquanta, sessanta e anche settanta individui (mentre la capacità massima era di otto cavalli o quaranta persone), i nostri viaggiarono ammassati gli uni sugli altri, senza aria per respirare, con pochissimo cibo e acqua, e ingegnandosi in ogni modo per compiere i propri bisogni in quello spazio ristretto nel modo meno indecoroso possibile. Il carro bestiame di Giovannino Guareschi, partito da Sandbostel per il campo di Czestochowa, in Polonia, il 23 settembre 1943 (lo scrittore ritornerà a Sandbostel dopo un’odissea nei campi di mezza Europa, il 2 aprile 1944), conteneva “cavalli 8, ufficiali italiani 50, cani 1”.15 I viaggi erano lunghissimi e duravano dieci, quindici giorni e oltre, e al termine del viaggio i prigionieri dovevano percorrere lunghi tragitti a piedi per arrivare al campo vero e proprio. Ricorda Arnaldo Pellizzoni, sergente dell’8° Reggimento Fanteria Cuneo, di stanza sull’isola di Tinos nel Mar Egeo (ove viene catturato dai tedeschi):

“1 Ottobre 1943: vengo caricato su un vagone ferroviario con la scritta “Hommes 40, chevaux 8”; 40 uomini in un carro merci, del tipo usato per il trasporto di cavalli. I trasporti ferroviari venivano effettuati sfruttando lo spazio disponibile sino 16 all’estremo limite delle capacità di carico.”

Come ulteriori emblematici esempi riportiamo, scegliendole da un coro unanime che denuncia le crudeli vessazioni patite in quei convogli ferroviari, le parole del prigioniero Bruno Betta:

“I viaggi preannunciarono subito la realtà che ci attendeva, con la loro crudezza, svolgendosi per linee secondarie, a binario unico, lenti, senza soste. Con

15 Giovannino Guareschi, Il Grande Diario. Giovannino cronista del Lager 1943- 1945, Rizzoli, Milano 2011 rist., p. 231. 16 Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni, Lissone 1995, p. 10, testo leggibile sul sito dell’ANPI di Lissone – Sezione “Emilio Diligenti” all’indirizzo: http://anpi-lissone.over-blog.com/article-35390833.html

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sorveglianza sempre più vigile. Senza cibo, senz’acqua, senza possibilità di appagare 17 gli essenziali bisogni corporali.”

Quelle di Carmelo Cappuccio, deportato da Firenze al Lager di Altengrabow:

“Una lunga tradotta, insaccata di ufficiali e soldati: ogni vagone bestiame è chiuso, 18 stipato di uomini, i rettangoli dei finestrini hanno già dinanzi il filo spinato.”

Quelle del sottotenente Massimo Franch, deportato nel Lager di Stablack (Polonia):

“In tutto il viaggio ho notato pochissimi gesti ostili, eccettuati, naturalmente, gli urli, gli spintoni ed anche i pedatoni (uno l’ho visto dare ad un colonnello che non 19 riusciva ad aggrapparsi abbastanza in fretta sul carro dei nostri guardiani).”

Quelle del sottotenente Antonio Zupo, deportato nel campo di Siedlce (Polonia):

“Siamo in 50, fra soldati ed ufficiali, in ogni carro bestiame. Lo spazio è ristretto, non più di mezzo metro quadrato per ciascuno. Alcuni seduti altri in piedi, chiusi in questo vagone fortunatamente riscaldato, quando ci danno il carbone, da una stufa. Alle sofferenze dello stomaco si aggiungono quelle per dolori dovuti alla posizione sempre eguale degli arti inferiori. Si dorme seduti quando si può e si 20 respira affannosamente per l’acido carbonico della stufa.”

Penosi, in tutti i sensi, erano anche i trasferimenti da campo a campo, come si legge nel diario del tenente Francesco Dal Fior al 3 aprile 1944 (trasferimento in treno dal Lager di Siedlce, in Polonia, a quello di Sandbostel, presso Hannover):

“Siamo partiti da Siedlce dopo una visita personale che arrivò fino allo spogliarci dei calzoni e delle scarpe. Prima di salire in vagone mi tolsero le cinghie e le

17 Bruno Betta, Viaggi che non sembravano aver fine, in Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager, A.N.E.I., Roma 1977, p. 80. 18 Carmelo Cappuccio, Immagini del lungo viaggio, in P. Piasenti, cit., p. 93. 19 Massimo Franch, «La tradotta riparte e ci prepariamo per un’altra nottata d’inferno», in Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009, p. 34. 20 Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e Ricordi di un Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011, p. 24.

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stellette. Eravamo in quaranta: ciascuno portava una coperta ed un sacchetto con asciugamano ed un po’ di pane. Subito fummo rinchiusi con i catenacci. Il vagone aveva parecchi buchi da cui il vento soffiava. Tuttavia avevamo una piccola stufa ed una cassetta dove fare i nostri bisogni. A terra della torba. Una lanterna a petrolio ci fece luce per alcune ore. Di giorno il tempo passava, ma la notte! Non si poteva stare stesi perché in troppi: si dormì mezzo seduti. Rambotti al mio fianco, era steso vicino alla cassetta-gabinetto e quando qualcuno faceva i propri bisogni qualche 21 spruzzo raggiungeva lui e me. Fortunatamente furono solo tre notti.”

[87,1] οἵ τε ἥλιοι τὸ πρῶτον καὶ τὸ πνῖγος ἔτι ἐλύπει διὰ τὸ ἀστέγαστον καί αἱ νύκτες ἐπιγιγνόμεναι τοὐναντίον μετοπωριναὶ καὶ ψυχραὶ τῇ μεταβολῇ ἐς ἀσθένειαν ἐνεωτέριζον, “…e dapprima le giornate piene di sole e il caldo soffocante li facevano soffrire ancora, per il fatto che il luogo non era coperto, e le notti che succedevano ai giorni erano, al contrario, autunnali e fredde, e per il cambiamento di temperatura provocavano malattie.” I prigionieri ateniesi dovettero stare all’aperto, esposti a tutte le intemperie. Di poco migliore la situazione degli IMI, che almeno un tetto l’avevano. Ma gli alloggiamenti dei prigionieri erano costituiti da baracche in legno col tetto di cartone incatramato, che offriva un fragile riparo: il tetto lasciava filtrare la pioggia, sicché per terra si formavano, quando pioveva, pozze di acqua e fango. Il riscaldamento d’inverno era assolutamente insufficiente e all’interno delle baracche regnava il gelo. La temperatura d’inverno raggiungeva –15° e scarsissima era la quantità di carbone distribuita ai prigionieri, come attesta il diario del sottotenente Serafino Clementi, internato a Sandbostel, al 16 dicembre 1944:

“16.12.44 – Notte terribile: freddo e vento intenso [-15°], impossibile dormire. Praticamente nullo il riscaldamento: 80 gr. di carbone a testa: nella settimana una 22 sola distribuzione…!!”

Dopo 750 km di viaggio in treno e una marcia estenuante il tenente Francesco Dal Fior è alloggiato a Siedlce, in Polonia, ma scopre che

21 Francesco Dal Fior, Chiacchiere tra Cesco e Cesco. Per passare il tempo e ricordare. Diario di prigionia 9 settembre 1943 – 3 settembre 1945, Antiga Edizioni, Crocetta del Montello (TV) 2018, p. 44. 22 Mario Carini, Una voce dal lager: il taccuino di Serafino Clementi, in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 5, Liceo Classico Orazio, Roma 2015, p. 101.

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nelle baracche del campo vi piove dentro (annotazione del 16 novembre 1943):

“Il 14 mattino arrivammo a Siedlce, nostra destinazione. Pioveva. Ci fecero portare i bagagli a spalle fino al campo: che tremendo sforzo! Tutti eravamo esausti. Le cassette e gli zaini sulle spalle ammaccavano. E pioveva. Volli gettare la brandina in un fossato ma un soldato. gridando, me la fece riprendere. Non ce la facevo più. Non so come abbia fatto ad arrivare senza cadere sfinito! Un po’ di tiglio caldo e, previa visita ai bagagli, con ritiro della brandina e dell’impermeabile,23 ci assegnarono alla baracca n. 14 interno 40. Ci immatricolarono anche. Io divenni il numero 4024. Nella stanzuccia non trovammo nulla. Andammo a prenderci i castelli biposto in un magazzino, poi i pagliericci (la paglia non c’era; ci fu data il giorno seguente). La 24 baracca con i buchi sopra lasciava e lascia penetrare vento e pioggia.”

I nostri prigionieri conobbero spesso bronchiti, polmoniti (dovute alle lunghe soste all’aperto per l’appello, che si svolgeva al mattino e a sera sotto qualunque clima e tempo) e talvolta anche l’assideramento con la cancrena agli arti inferiori. Così descrive le baracche del campo di Wietzendorf, presso Hannover, il più importante campo per gli ufficiali (Oflag 83) in Germania, il tenente colonnello Pietro Testa, che fu il fiduciario dei prigionieri italiani, nel suo memoriale Wietzendorf:

“Il campo comprendeva quattro settori (I e II A – I e II B) ciascuno con quattro grandi baracche adibite ad alloggio. Ogni baracca – lunga 55 m. e larga 17 – era divisa in 6 camerate (stube) uguali, non intercomunicanti. I muri esterni delle baracche, come i divisori interni, erano costituiti da blocchetti di cemento e agglomerato perforati, in semplice foglio, appena tenuti insieme da un po’ di calce. I tetti, costituiti di tavole ricoperte di cartone catramato, erano costruiti a doppio spiovente ad angolo molto ottuso e poggiavano semplicemente sulla montatura, rimanendo in sito più per peso proprio che per ancoraggio. Naturalmente tutto intorno al tetto l’aria e l’acqua portata dal vento avevano libero passaggio. Dalla copertura stessa, vecchia e sconnessa, l’acqua filtrava abbondante tanto che in molte camerate gli ufficiali avevano costruito all’interno grondaie di circostanza per 25 evitare che l’acqua cadesse sui giacigli.”

23 L’impermeabile gli venne restituito sette mesi dopo, nel giugno 1944, sporco e senza bottoni. 24 F. Dal Fior, cit., p. 27. 25 Pietro Testa, Wietzendorf, a cura del “Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento”, Roma 19883, pp. 16-17.

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Gli interminabili appelli all’aperto, nell’apposita piazza del campo (l’Appellplatz), che i comandanti tedeschi prolungavano ingiustifica- tamente e spietatamente, fiaccavano la resistenza anche dei più forti e causavano una falcidia tra i prigionieri per le polmoniti e le pleuriti. L’appello era una delle pratiche più consuete nella strategia di spersonalizzazione realizzata dalle autorità del Lager: serviva a far crollare la resistenza fisica e morale degli internati e a ricevere una maggiore collaborazione. I prigionieri erano costretti a lunghe soste nel piazzale del campo, all’aperto, sotto qualunque clima, rigidamente inquadrati sull’attenti, in attesa di essere chiamati, non per nome ma per numero di matricola. Se qualcuno non rispondeva, l’appello era ripetuto e se continuava a non rispondere, l’appello era interrotto per dar luogo a immediate ricerche finché l’assente non veniva reperito. Sovente avveniva che i prigionieri, costretti a stare in piedi per lunghe ore, crollassero svenuti per la fatica e l’estrema debolezza: l’appello continuava nella totale indifferenza degli ufficiali del campo e gli altri internati ben poco potevano fare per soccorrere lo sventurato compagno, che talvolta restava giacente a terra. Condotti con inumana durezza erano gli appelli nel campo di Sandbostel, come si riscontra in numerosi diari di internati: unanimi sono i riscontri sulla spietatezza del comandante di Sandbostel, il famigerato capitano Pinkel. Ma gli appelli non erano meno duri negli altri campi. L’appello costituiva dunque una consuetudinaria pratica di controllo sui prigionieri e anche una forma di punizione, la principale, comminata spesso a tutta la camerata per mancanze anche lievi di un solo prigioniero. Ce ne parla il sacerdote salesiano Don Luigi Pasa, che fu cappellano militare e assistette i nostri IMI a Sieldce, Sandbostel e Wietzendorf:

“Solo chi è stato prigioniero sa che cosa si intenda dicendo «appelli». Due volte al giorno venivamo adunati all’appello, e non era un minuto, ma un’ora intera che così passavamo immobili. Poteva piovere, nevicare, tirar vento, poteva soffiare la più gelida tramontana, mai ci risparmiavano quel supplizio. Perché era un vero supplizio. Pensate alla neve, pensate al fango, pensate all’acqua, e pensate che la maggior parte di noi era vestita con abiti d’estate. Per buone che fossero state le nostre scarpe all’8 settembre, si sa come finisce il cuoio quando non è più ingrassato. Poveri i nostri piedi! Povera l’intera nostra persona! Quanti di noi si buscarono così malanni passeggeri e non passeggeri e financo la morte! Figuratevi com’eravamo ridotti per la denutrizione e i disagi, e vedeteci immobili e muti coi

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piedi nel molle, l’acqua che ci grondava addosso, o il nevischio che ci colpiva di traverso: ecco che uno si accasciava svenuto, ecco che un altro cadeva di peso come 26 tramortito.”

Dissenteria, febbri malariche, febbri reumatiche, influenze, polmoniti, tubercolosi, affliggevano i nostri prigionieri quotidianamente. Le cure che potevano prestare gli ospedali e le infermerie dei campi erano assolutamente insufficienti. A Sandbostel, così come in altri campi, nell’estate del 1944 scoppiò una epidemia di tifo petecchiale, e i prigionieri vennero messi in quarantena, come informa Guareschi nel suo Grande Diario al 4 settembre 1944:

27 “Otto casi di tifo petecchiale? Grande impressione.”

E poi, al successivo 5 settembre, annota l'isolamento del campo:

“Siamo isolati: per molti giorni nessun tedesco entrerà in campo né nessuno o niente 28 entrerà o uscirà eccetto la morte, naturalmente. Poi si vedrà.”

[87,2] πάντα τε ποιούντων αὐτῶν διὰ στενοχωρίαν ἐν τῷ αὐτῷ “…ed essi facevano tutto nello stesso posto, per la ristrettezza dello spazio.” Anche per gli IMI le condizioni igieniche erano pessime, per la promiscuità e gli spazi ristretti. I prigionieri erano assaliti da pidocchi e pulci in enorme quantità, ben visibili ad occhio nudo. Di notte scorrazzavano nelle baracche e sui letti a castelli grossi topi a cui veniva data la caccia, perché i prigionieri per la fame si erano ridotti a cibarsi anche di quelli. Miserevole era lo stato delle latrine, veri e propri pozzi neri insopportabilmente maleodoranti e terribilmente sudici. Il capitano Bruno Betta, futuro preside nell’Istituto Magistrale “Antonio Rosmini” di Trento e autore di varie pubblicazioni sugli IMI, così ricorda l’assalto delle pulci quand’era nel Lager di Ivangorod, in Russia:

“In quei cameroni freddi, là dentro, eserciti di pulci si arrampicano su per il corpo e si vanno a collocare come orli nereggianti sotto la cintura dei pantaloni, quasi inerti per la scarsa temperatura e in cerca di caldo più che di cibo. Era uno spettacolo

26 Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966, Tipografia Cafieri, Napoli 19663 (I ed. 1947), p. 77. 27 G. Guareschi, cit., p. 412. 28 G. Guareschi, ibid.

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impressionante; una vicina all’altra formavano in giro alla vita un solo orlo continuo 29 e si lasciavano buttare giù con le mani per poi ritrovarcele su poco dopo.”

Analoga annotazione nel Grande Diario di Guareschi al 26 novembre 1943, relativa al campo di Beniaminowo:

“Le pulci viaggiano a miliardi nella coperta e negli abiti. Piove sui letti. Pidocchi. 30 Topi che rovinano tutta la poca roba negli zaini.”

Le condizioni igieniche del campo di Wietzendorf, pressoché eguali a quelle degli altri campi, sono descritte nella lettera-relazione del tenente colonnello Pietro Testa, scritta per le autorità britanniche il 22 giugno 1945:

“Più di una descrizione delle baracche adibite ad alloggio e degli impianti igienico- sanitari, vale il fatto che due commissioni sanitarie tedesche, presiedute da colonnelli medici, dichiararono il campo inabitabile. Nelle camerate buie e basse, costruite con blocchi di cemento, gli ufficiali vissero per 15 mesi in affollamento da 50 a 90 in ambienti di 50 metri cubi, che non permettevano neanche la vita normale. Spesso da 10 a 20 ufficiali hanno dormito sul pavimento in pietra senza neanche pagliericcio, o su panche e tavoli. La paglia per quelli che sono riusciti ad averla non è stata mai cambiata. Dai tetti sconnessi l'acqua cadeva sui tavoli e sui letti. Durante l'inverno nell'interno delle baracche scendevano ghiaccioli da 20 a 30 cm. mentre qualsiasi riscaldamento veniva negato (quattro distribuzioni di legna in ragione di Kg. 20 per camerata in tutta la stagione). Tutti i canali di scolo delle acque di rifiuto delle latrine correvano allo scoperto ammorbando l'aria. Le latrine erano semplicemente indescrivibili tanto che costituiscono ancora oggi la maggiore preoccupazione delle autorità britanniche, che hanno preferito di ordinare la costruzione di latrine all’aperto. Gli impianti bagno erano rudimentali e senza nessuna garanzia igienica. Il bagno veniva effettuato circa una volta al mese in un affollamento enorme (6, 8, 10 ufficiali per doccia) col sistema tedesco di urti, spinte 31 e di far tutto in un tempo assolutamente insufficiente.”

[87,2] καὶ προσέτι τῶν νεκρῶν ὁμοῦ ἐπ' ἀλλήλοις ξυννενημένων, οἳ ἔκ τε τῶν τραυμάτων καὶ διὰ τὴν μεταβολὴν καὶ τὸ τοιοῦτον ἀπέθνῃσκον, “…e per giunta erano accumulati insieme, uno sull’altro, i

29 Bruno Betta, 3653 giorni tra umano e disumano, Temi Editrice, Trento 1992, p. 164. 30 G. Guareschi, cit., p. 272. 31 Pietro Testa, Lettera-relazione del tenente colonnello Pietro Testa, Comandante del Campo italiano Oflag 83, in G. Guareschi, cit., pp. 114-116.

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cadaveri di quelli che morivano per le ferite, per il cambiamento di temperatura e per altre cause di questo genere.” I mucchi di cadaveri di cui narra Tucidide ricordano le terribili scene di Bergen-Belsen e Auschwitz, che suscitarono il raccapriccio e l’ira degli Alleati e dei Sovietici. Non si videro analoghe scene nei campi degli IMI, ma molti prigionieri italiani morirono durante l’internamento: se ne calcola il numero in circa cinquantamila. La gran parte venne sepolta in fosse comuni e poi riesumata alla fine della guerra. Russi ed ebrei, invece, morivano a migliaia nei campi di prigionia (a parte i campi di annientamento, i Vernichtunglager come Auschwitz e Treblin- ka, che furono il principale teatro della Shoah). Ce ne dà un’agghiac- ciante testimonianza Giovannino Guareschi, prigioniero a Beniaminowo (un campo dove transitarono molti IMI) in Polonia, annotando al 10 novembre 1943:

“Poco prima di arrivare al cancello d’ingresso, su un piccolo colle c’è un cippo elevato dai russi per ricordare i trentamila compagni morti qui in prigionia. La solita epidemia di tifo petecchiale. Appena i tedeschi si accorgevano che il morbo maledetto serpeggiava tra i prigionieri russi, bloccavano il campo. I russi morivano come mosche e i vivi dormivano vicino ai morti. Ogni mattina un po’ di pane veniva buttato dentro nel campo e sopra ogni pagnotta si gettavano urlando cento affamati. Allora, per ristabilire l’ordine, i tedeschi, dal di fuori, sparavano nel mucchio coi mitra. Anche diecimila ebrei polacchi trovarono la morte nel Lager di Beniaminowo: ma qui la cosa era più semplice e non occorreva la complicazione del tifo. Ogni tanto i tedeschi entravano in una baracca e mitragliavano un po’. Poi se ne andavano e i vivi portavano a seppellire i morti.”32

[87,2] καὶ ὀσμαὶ ἦσαν οὐκ ἀνεκτοί, “…e c’erano odori insoppor- tabili.” Così come nelle latomie, a causa delle pessime condizioni igieniche per il campo si spargeva un lezzo insopportabile di marciume, percepibile anche negli ospedali e nelle infermerie. Era il tipico odore che si respirava in tutti i campi di prigionia in Germania. Nel campo di Wietzendorf l’aria era inquinata dai nauseabondi effluvi delle acque di scolo, come attesta la relazione del tenente colonnello Pietro Testa:

32 G. Guareschi, cit., p. 261. Altre testimonianze sulla contiguità degli IMI con lo sterminio degli Ebrei sono nell’antologia di Enrico Meloni, Del nostro caos e della nostra solitudine, Mediascape – Edizioni ANRP, Roma 2017, pp. 80-81.

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“Tutti i canali di scolo delle acque di rifiuto delle latrine scorrevano allo scoperto, 33 ammorbando l’aria.”

Altra analoga testimonianza su Wietzendorf nei ricordi di Bruno Betta:

“In basso il limite del campo seguiva una strada, e di là era posto il campo dei militari tedeschi fatto di belle baracche verdi mentre le nostre erano terribili costruzioni fatte di blocchi di cemento a sei camerate parallele, una finestra in cima 34 e una in fondo, sempre buio e fetore.”

Anche le camerate degli ospedali e le infermerie erano immersi nel fetore, che aggravava le pessime condizioni igieniche. Aggiunti alla cronica carenza di medicinali, erano causa di un’altissima mortalità fra i ricoverati. Ne fu testimone, allo Stammlager di Dortmund, il cappellano don Luigi Tabarelli. Così egli scrive:

“I sieri erano tutti scaduti e roba dell’Esercito francese; mancavano perfino le bende di carta, di modo che per tutta la baracca stava sospeso un puzzo indescrivibile di feci e di piaghe putrescenti; non si potevano nemmeno aprire le finestre per 35 mancanza di riscaldamento.”

[87,2] καὶ λιμῷ ἅμα καὶ δίψῃ ἐπιέζοντο (ἐδίδοσαν γὰρ αὐτῶν ἑκάστῳ ἐπὶ ὀκτὼ μῆνας κοτύλην ὕδατος καὶ δύο κοτύλας σίτου), “e nello stesso tempo erano afflitti dalla fame e dalla sete (a ciascuno di loro diedero per otto mesi una cotile d’acqua e due cotili di grano).” Come per i prigionieri greci, soprattutto la fame fu la grande compagna degli IMI, che cercarono di alleviarla in mille modi, riducendosi a mangiare erbe, cortecce degli alberi, bucce di rape e patate, e perfino i topi che riuscivano a catturare dentro le baracche. Scarsissimo era il cibo dato ai prigionieri, durante il lungo viaggio in treno, dai sorveglianti tedeschi, sicché la fame e la sete per tutti erano un lancinante tormento. Così ricorda il soldato Cosimino Cavallo, artigliere deportato a Wietzendorf:

33 P. Testa, cit., p. 115. 34 Bruno Betta, Il Lager, in P. Piasenti, cit., p. 88. 35 Prima relazione del tenente cappellano don Luigi Tabarelli di Faver (Trento), datata Wietzendorf 6 maggio 1945, in G. Guareschi, cit., pp. 179-180.

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“A Monaco ci dettero, unica volta durante il viaggio,36 una specie di zuppa, un 37 mezzo litro di acqua in cui avevano sciolto della farina di piselli: immangiabile!”

E, per quanto riguarda il vitto del campo, la “sbobba”:

“E quando, finalmente, arrivava il tuo turno, speravi che il mestolo venisse spinto in fondo al pentolone e potesse pescare qualcosa di più denso; la minestra era una sbobba di rape da foraggio tagliate a listarelle, amare e disgustose, a volte accompagnata da piselli secchi con i vermi, oppure, altre volte, ci bollivano delle ossa; mentre il pane, se così si poteva chiamare, era fatto con farina di segale con l'aggiunta di una certa percentuale di segatura di pioppo ed era quasi sempre am- muffito. A volte ci davano delle patate gelate, immangiabili, mentre la domenica c'e- rano cinque fettine di salame di cavallo e un cucchiaio di ricotta con la marmellata di 38 barbabietole.”

Si dava anche la caccia ai topi, la notte, per sfamarsi, come ricorda nel suo memoriale il sottotenente Claudio Tagliasacchi, prigioniero a Siedlce e poi a Sandbostel e in altri Lager:

“Fui più fortunato con un topo (N.B.: il prigioniero aveva tentato poco prima di lessare le cornacchie): era piccolo e lo presi facilmente con la solita coperta. Fra l’interesse e i consigli invidiosi di tutti, riuscii a spellarlo. La carne era bella, di un rosa pallido. Rimaneva il problema della cottura: lesso – secondo il parere unanime – non avrebbe reso; arrosto era impossibile cuocerlo. Mi ricordai allora del cappellano che aveva un po’ di vino che i tedeschi gli passavano per dir messa. Lo commossi e ne ottenni poco più di un cucchiaio: lo mescolai nella gavetta con un po’ di tisana, vi misi il topolino e posi tutto sulla stufa lasciandolo l’intera giornata. Alla sera tra l’invidia generale lo mangiai dividendolo con Dado. Era davvero mica male! Ma i topi non si fecero più vedere e nonostante tutta la baracca gli desse la caccia, 39 unendosi in cooperativa non ci fu più verso di trovarne uno.”

36 Il viaggio di Cosimino Cavallo verso il Lager di Wietzendorf durò quindici giorni. 37 In Lina Cavallo Conversano, Un soldato italiano – Storia di un Internato del Terzo Reich, Sulla rotta del sole – Giordano Editore, Manduria 2013, p. 19. 38 L. Cavallo Conversano, cit., p. 30. 39 Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati, Marsilio Editori, Venezia 1999, p. 51. Anche il sottotenente Ugo d’Ormea, prigioniero a Siedlce, fu costretto a sfamarsi cucinando un topo, come ricorda nel suo memoriale al 26 febbraio 1944 (“26 – Ho mangiato per prima volta una coscetta di… topo. Condita con margarina e cipolle è gustosa. O sarà la fame che la farà gustosa?”, in Ugo d’Ormea, Il mio diario di prigionia. Per far più lieti i tristi giorni 1943-1945, trascrizione e commento di Mario Carini, in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 7, Liceo Classico Orazio, Roma 2016, p. 55).

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Lo stesso autore, ricordando il periodo di Siedlce, in Polonia, così descrive la fame, vero e proprio incubo tormentoso e incessante dei prigionieri:

“Prigionia è freddo e fame, al limite della tolleranza. Non si può descrivere la fame. La vera fame, quella che uccide, è una patologia medica. Un dolore incessante che attanaglia lo stomaco, una mano invisibile che sembra stringerlo e strapparlo in basso artigliandolo crudelmente: ed è sempre lì. Non c’è posizione che dia sollievo neppure per un attimo. La mente è offuscata, ossessionata da immagini di cibo, da fantasie di pietanze ricche, enormi, in cui ci si vorrebbe rotolare soffocando. Non lascia respiro né giorno né notte. Il corpo dimagrisce, le ossa sporgono arrossando la pelle là dove ci si sdraia: un nuovo dolore che si aggiunge agli altri, che impedisce il 40 riposo. Le caviglie e i polsi si gonfiano in edemi che sembrano salsicciotti.”

Nel tormento della fame i ricordi vanno ai lauti pranzi e alle buone pietanze assaporate in tempo di pace. La fame costringe a mangiare tutto, anche le briciole, anche ciò che si reputerebbe immangiabile, lentamente e minuziosamente, e ci si aiuta con i compagni. Si legga l’annotazione di Francesco Dal Fior al 16 ottobre 1943:

“Io e Rambotti, società nata in tradotta, abbiamo stabilito di consumare i viveri in tre volte, per conservare un po’ le antiche abitudini: per pranzo zuppa (chi l’avrebbe mangiata quella roba rossastra con dentro delle barbabietole quasi crude o quell’altra fatta di erbe che scricchiolavano gioiosamente sotto i nostri denti! In altri tempi!), metà delle patate ed una piccolissima parte della razione di burro; per cena metà del burro rimasto e le rimanenti patate; al mattino il resto di burro. È sufficiente? Non so. Alle volte la fame è tanta! Come si ha cura della briciola di pane! Se cade si raccoglie anche se piccolissima. E con quanto amore si taglia dalla pagnotta una piccola fetta e la si spalma di burro e, adagio adagio, un boccone ed una pausa, si mangia! I nostri discorsi? L’Italia ed il mangiare. Ricordi di pranzi signorilmente consumati, di mense dove si credeva mangiar poco, di piccole colazioni consumate per voluttà, che erano molto più sostanziose e fornite del nostro maggior pasto. I miei gusti, credo, sono cambiati totalmente. Trovo buonissimo ciò che non potevo 41 sopportare; trovo passabile ciò che non osavo e non oserò guardare.”

Emblematica l’annotazione di Giovannino Guareschi nel suo Grande Diario, al 22 novembre 1944, un’annotazione sull’incubo della fame che vale per tutti coloro che sostarono nei campi degli IMI:

40 C. Tagliasacchi, cit., p. 43. 41 F. Dal Fior, cit. p. 19.

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“Fame cupa e disperata: penso, sogno la mia fame continuamente, come in un 42 incubo.”

Scarseggiava anche l’acqua potabile e per le necessità quotidiane. Leggiamo ancora dal diario di Francesco Dal Fior, internato a Siedlce, alla data del 23 gennaio 1944:

“Da parecchi giorni manca l’acqua nel nostro lavatoio. C’è ora un solo rubinetto in tutto il campo. Siamo più di 1600. Quando siamo fortunati riusciamo a riempire la 43 brocca dopo un’ora di fila indiana al freddo.”

[87,3] καὶ ἡμέρας μὲν ἑβδομήκοντά τινας οὕτω διῃτήθησαν ἁθρόοι· ἔπειτα πλὴν Ἀθηναίων καὶ εἴ τινες Σικελιωτῶν ἢ Ἰταλιωτῶν ξυνεστράτευσαν, τοὺς ἄλλους ἀπέδοντο. “Per circa settanta giorni vissero così tutti insieme: poi i Siracusani li vendettero tutti, meno gli Ateniesi e quei Sicelioti e Italioti che avevano partecipato alla spedizione.” La vendita dei prigionieri da parte dei Siracusani presuppone la loro riduzione in schiavitù: la guerra, infatti, era la fonte principale dell’approvvigionamento di schiavi, da adibire ai lavori nelle fattorie e negli opifici. Secondo la mentalità antica, prima della diffusione del Cristianesimo e di teorie filosofiche che diffondevano il principio dell’uguaglianza degli uomini,44 gli schiavi non erano considerati persone, ma alla stregua di cose, res, e venivano indicati dai Romani come mancipia, con un termine plurale collettivo di genere neutro. Varrone (116 a. Cr. – 27 a. Cr.) nel suo trattato sull’agricoltura, De re rustica (1,17), definisce gli schiavi instrumenti vocale, specie di strumento (per coltivare i campi) dotato di voce. È una definizione che considera lo schiavo un bene suscettibile di valutazione economica, difatti poteva essere venduto e comprato. Ma gli antichi raccoman- davano anche di trattare bene gli schiavi, perché uno schiavo in salute e ben nutrito poteva rendere di più al proprio padrone. Cosa che invece

42 G. Guareschi, cit., p. 438. 43 F. Dal Fior, cit. p. 39. V’erano anche i “ladri d’acqua”, come quelli che facevano trovare vuota, al mattino, la borraccia a un povero capitano (F. Dal Fior, cit., p. 61). 44 Si ricordi la famosa epistola 47a a Lucilio di Seneca (4 a. Cr. – 65), nella quale il filosofo raccomanda al destinatario di comportarsi umanamente con i suoi schiavi, eguagliati al padrone in quanto soggetti tutti al capriccio della sorte.

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non avveniva per i nostri IMI, ridotti a “schiavi di Hitler”, come intitola il suo saggio lo storico Ricciotti Lazzero.45 Al contrario i nuovi padroni del Terzo Reich, gli aguzzini nazisti, non risparmiarono maltrattamenti e vessazioni agli IMI, in violazione di tutte le convenzioni internazionali e i principi di umanità, per sfruttare fino all’esaurimento le energie di quei miseri, già debilitati per proprio conto, e affrettarne la fine, senza dover ricorrere agli orrendi strumenti utilizzati per lo sterminio degli Ebrei. Essi si proponevano di ottenere dai prigionieri il massimo del rendimento nelle fabbriche, nelle industrie (come la IG-Farben e la Volkswagen) e nelle fattorie con il massimo della brutalità e degli abusi. Eloquenti le parole della studiosa tedesca Gabriele Hammermann, autrice di un accurato e pregevole studio d’insieme sugli Internati Militari Italiani:

“Se relativamente all’alimentazione dei prigionieri poco produttivi molte imprese oscillarono tra l’adozione di rigide misure punitive e il ricorso a sistemi di incentivazione tramite premi, non ci sono dubbi sul fatto che le brutalità e gli abusi vennero considerati appropriati strumenti di pressione per ottenere un aumento del 46 rendimento.”

Ci dà sintetici ma illuminanti ragguagli sull’infernale universo concentrazionario costruito dai nazisti nei territori occupati d’Europa e sulle condizioni di vita degli IMI, assimilabili a quelle degli antichi schiavi, l’allora sottotenente Claudio Sommaruga, nel suo contributo Una storia “affossata”, leggibile sul sito del Centro studi “Schiavi di Hitler”:

“GLI “SCHIAVI DI HITLER” – Nella galassia concentrazionaria nazista, dal 1933 al 1945, vennero deportati in più di 30.000 Lager, dipendenze e comandi di lavoro (AK), ben 24 milioni di “Sklaven” di 28 paesi, con 16 milioni di morti militari e civili! (…) Gli IMI erano trattati come i prigionieri russi senza tutele, ma meglio degli ebrei. Non essendo destinati a morte, per riguardo a Mussolini e per un loro ricupero politico e lavorativo e caso forse unico nella storia dei campi di concentramento, potevano scegliere in ogni istante la ”libertà con disonore” o la ”schiavitù con dolore”: 613.000 (l’86%) scelsero quest’ultima, coerenti con la loro coscienza e coi “valori”, con una scelta continua, sotto minacce e violenze, più assillante della fame

45 Ricciotti Lazzero, Gli schiavi di Hitler, Mondadori, Milano 1998, rist. 46 Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad. di Enzo Morandi, Società editrice il Mulino, Bologna 2004, p. 181.

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e reiterata anche 600 giorni, come dire 50 milioni di secondi e di opportunità di liberazione respinte, cifre presto scritte ma eterne a viverle! MARGINE DI VITA DEGLI SCHIAVI – Nei Lager nazisti, la speranza di vita di uno schiavo, non considerando l’eventualità di morte violenta (criminale o per fatti di guerra) era ridotta a pochi mesi, con 75 ore settimanali di lavoro duro in fabbrica o in miniera, ma di fatto 100 coi servizi al campo e le marce al luogo di lavoro, sempre con la fame, la debilitazione e le malattie conseguenti. I medici e gli economisti nazisti, avevano programmato una razione annonaria base, per i civili tedeschi, i lavoratori liberi stranieri e i prigionieri, di quasi 1736 kcal/giorno, appena sufficienti per una vita vegetativa, contro le 2300/3500 necessarie per un lavoratore. I contadini si arrangiavano, i cittadini integravano la tessera con la borsa nera (ovvia in tutte le guerre) e i lavoratori con integrazioni aziendali. I prigionieri di guerra alleati (POW) integravano abbondantemente la razione coi pacchi da casa e della Croce Rossa. I prigionieri senza tutela (come gli IMI, i deportati civili, gli ebrei, i KGF47 russi, ecc.) avevano una speranza di vita programmata di soli nove mesi, ottimizzato con un calcolo “costi / benefici”, fondato su una dieta base teorica di 1736 kcal/giorno ed un ricambio di schiavi dai territori orientali, possibile quando le armate tedesche avanzavano, ma impossibile dal 1943, con la ritirata, dopo la battaglia di Stalingrado. Con una dieta effettiva di 900/1500 kcal/giorno, per furti delle guardie e cucinieri, scarti di cucina, punizioni e intimidazioni, veniva a crearsi un deficit di 500/2000 kcal/giorno, che i prigionieri cercavano di colmare con rischiosi espedienti ed attingendo in un auto-cannibalismo alle proprie risorse corporee dell’ordine di 80.000 kcal utilizzabili. In queste condizioni, pressione sanguigna, battiti cardiaci e peso si abbassavano fino anche a dimezzarsi e si dimagriva anche di 30/40 kg (grasso, muscoli…) raggiungendo un peso minimo, mortale, di 30/35 kg (ossa, acqua, organi vitali, residuo muscolare…), in stato d’inedia, depressione, debolezza estrema e malattie conseguenti! Gli IMI erano trattati come i prigionieri russi senza tutele e quanti sopravvissero (il 92%), lo devono agli eventuali pacchi da casa, qualche chilo di riso e gallette (ma non a tutti) del SA-IMI (“Servizio Assistenza IMI” dell’Ambasciata di Berlino della RSI) e soprattutto a furti di patate e rifiuti di cucina (vietati), svendite a borsa nera dei pochi effetti personali non rapinati nelle perquisizioni e autodigerendo le proprie riserve energetiche corporee! LA “CIVILIZZAZIONE” DEGLI IMI – Il 20 luglio 1944, subito dopo il fallito attentato a Hitler, Mussolini lo incontrò e gli regalò gli IMI, perché Hitler non avrebbe mai rinunciato agli schiavi italiani e perché Mussolini non avrebbe mai rimpatriato così tanti antifascisti, testimoni per giunta di crimini nazisti! Così, gli IMI furono smilitarizzati e “civilizzati” arbitrariamente e presentati dalla propaganda nazifascista come “lavoratori liberi” volontari dell’industria e

47 Sigla di KriegsGefangene = Prigionieri di Guerra.

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dell’agricoltura. Di fatto, erano però “obbligati” e non più sotto il controllo diretto della Wehrmacht ma, peggio ancora, di quello politico della Gestapo/SS! Dei 510.000 IMI “civilizzati”, dall’agosto 1944 al marzo 1945, due terzi si ingaggiarono volontariamente per fame, disperazione e sotto minaccia o violenza ed un terzo fu precettato d’autorità, rifiutandosi di lavorare volontariamente per la Germania! Gli IMI ancora nei Lager della Wehrmacht al primo gennaio 1945 erano 68.000 e alla liberazione 42.000 dei quali 28.000 in battaglioni di lavoratori (Bau-Btl), a sgombrare macerie e 14.000 ancora nei Lager per ufficiali o nei lazzaretti (anziani, inabili, ospedalizzati, sanitari, cappellani e ordinanze e gli ultimi ufficiali precettati ma non ancora avviati al lavoro per il precipitare degli venti bellici, come i 4000 IMI di Wietzendorf, già depennati dal FAST di Berlino ma ancora nei reticolati alla liberazione. I renitenti irriducibili, vennero illegalmente smilitarizzati ed avviati ai lavori forzati, come deportati civili “nemici dell’Europa”, negli Straf-lager (AEL di punizione e rieducazione col lavoro duro, per 56 giorni rinnovabili se si sopravviveva), controllati dalla Gestapo/SS, sotto custodia politica o militare (SS, Wehrmacht, Luftwaffe, secondo le disponibilità locali) e dipendenti dai campi di sterminio (KZ). Le loro famiglie, in Italia, perdevano in conseguenza il sussidio militare (o l’acconto di un terzo dello stipendio, per gli ufficiali) che la RSI versava ai familiari degli IMI in quanto “soldati di Mussolini in attesa d’impiego” (per la propaganda!).”48

I nostri prigionieri, ridotti alla condizione di civili a seguito degli accordi tra Hitler e Mussolini nell’estate del 1944, erano periodicamente esaminati dagli industriali e imprenditori tedeschi che sceglievano i più sani per le loro fabbriche, come in un grande mercato di schiavi, che chiamavano, senza alcun rispetto per la dignità umana, Stücke, “pezzi”. A questo indecoroso “mercato degli schiavi” fu costretto a partecipare, come “merce” acquistabile a prezzo gratuito, anche il sottotenente di artiglieria e futuro scrittore Armando Ravaglioli:

“Arrivarono purtroppo gli annunci reiterati della prevedibile smobilitazione del lager (e tanto tuonò che piovve: poco alla volta venimmo smistati altrove). Nel frattempo

48 Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier N. 3, 2a ed., Archivio “IMI”, 2007, pp. 7-9, testo leggibile sul sito del Centro studi "Schiavi di Hitler" (via Regina, 5 - 22012 Cernobbio), all’indirizzo: www.schiavidihitler.it/pagine/saggi_sommaruga.html Il medesimo testo si può leggere anche nel sito ufficiale dell’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari, all’indirizzo: http://www.anrp.it/wp-content/uploads/2019/01/Quad.3-Storia-affossata-2-ed.pdf

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cominciarono a mortificarci le visite dei Bauer per il controllo dei candidati al lavoro nelle fattorie. Costoro, volontari o forzati che fossero, venivano fatti salire sul palco della baracca-teatro e lì venivano scrutati come al mercato degli schiavi. Sotto la luce cruda dei riflettori, veniva palpata la muscolatura delle braccia e, aperta la 49 bocca, si constatavano le condizioni della dentatura.”

Nelle fabbriche e nelle miniere, adibiti ai lavori forzati, i nostri dovettero subire un trattamento particolarmente duro e vessatorio, che non di rado produsse notevoli danni fisici. Frequenti erano poi gli incidenti, anche mortali, per la mancanza di ogni tutela e sicurezza. Anche quando erano impegnati in lavori particolarmente faticosi, veniva dato loro un vitto assolutamente insufficiente. Ricorda il terribile binomio fame-lavori forzati l’artigliere Giuseppe Fedeli:

“Al campo 417 presso Aquisgrana dove lavoravo in una miniera, tra gli altri maltrattamenti e sevizie che erano all’ordine del giorno, ricordo in particolare che un giorno del febbraio 1944 per aver raccolto – spinto dalla fame – una rapa trovata nel campo (e non sottratta da un silos o da altro deposito) fui aggredito e morso gravemente al braccio destro da un cane aizzato da un poliziotto. (…) Ricordo ancora che sempre rinfacciandomi di essere per Badoglio e non per Mussolini, il giorno in cui ebbi in miniera fratturata la spina dorsale, restai abbandonato in una galleria per parecchio tempo così che solo dopo 9 ore dall’incidente giunsi alla 50 superficie.”

[87,6] κατὰ πάντα γὰρ πάντως νικηθέντες καὶ οὐδὲν ὀλίγον ἐς οὐδὲν κακοπαθήσαντες πανωλεθρίᾳ δὴ τὸ λεγόμενον καὶ πεζὸς καὶ νῆες καὶ οὐδὲν ὅτι οὐκ ἀπώλετο, “…furono vinti da tutte le parti e in tutti i modi, e nessuna delle loro disgrazie fu di poco conto sotto nessun aspetto; con uno sfacelo completo, come si dice, furono distrutte la fanteria, le navi, nulla che non fosse distrutto.” Le conseguenze della disastrosa spedizione in Sicilia furono terribili, per le risorse materiali e morali di Atene. Tucidide narra come la città, alla prima notizia del disastro, fu presa da uno sgomento collettivo, che presto si trasformò in un lamento generale, diffuso dal Pireo all’acropoli, quando si ebbero sempre più maggiori conferme.

49 Armando Ravaglioli, Storie di varia prigionia nei lager del Reich millenario, Edizioni A.N.R.P., Roma 2002, p. 53. 50 Giuseppe Fedeli, Lavori forzati nelle miniere, in P. Piasenti, cit., p. 195.

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I nostri non furono però, come invece i soldati ateniesi della sfortunata spedizione in Sicilia, vinti in tutto. Quelli che non optarono per l’arruolamento nella RSI o la collaborazione con il Terzo Reich mantennero intatta la loro dignità e il loro onore e contribuirono con la loro “Resistenza senz’armi” alla rinascita di un’Italia libera e democratica. Preferirono soffrire privazioni, angherie, torture morali e fisiche pur di opporre il loro rifiuto, con un semplice ma fermo “NO” (un “NO” condiviso con altre centinaia di migliaia di prigionieri italiani) alla violenza del potere nazifascista e ai folli sogni di dominio dei suoi capi. Come ha scritto Claudio Sommaruga, gli IMI, “col loro NO individuale e corale, fin dall’8 settembre, scagliarono contro gli invasori tedeschi il primo sasso della Resistenza”.51 Tutti, e soprattutto i lettori delle giovani generazioni, devono conoscere e comprendere il valore di quel gesto etico che ha contribuito a rifondare il Paese nel segno della libertà e della democrazia. E se i giovani possono oggi godere dei beni inestimabili della libertà e della democrazia, il merito è anche dell’umile ma nobile, forte e coraggioso “NO” degli IMI. Ripetiamo qui le parole dell’insigne giurista Leonetto Amadei, che fu Presidente emerito della Corte Costituzionale, tratte dalla sua prefazione all’antologia Resistenza senz’armi:

“Non è affatto azzardato affermare a voce alta che gli internati militari, insieme a quanti ebbero il privilegio di contrastare con le armi il sopruso e la prepotenza, hanno tracciato il cammino del nostro Paese che, sulle ceneri della dittatura, era posto in grado di costruire una nuova società ed un nuovo modo di vivere, 52 democratica la prima, libero il secondo.”

[87,6] καὶ ὀλίγοι ἀπὸ πολλῶν ἐπ’οἴκου ἀπενόστησαν. “…e pochi, dei molti, tornarono in patria.”

51 C. Sommaruga, cit., p. 14. Sulle ragioni del “NO” dei militari italiani internati nei Lager vd. Sopravvivere liberi, Atti del convegno di studi Roma 12 marzo 2002, a cura di Anna Maria Casavola – Nicoletta Sauve – Maria Trionfi, A.N.E.I., Roma 2005. 52 Leonetto Amadei, Perché gli Italiani sappiano, in Associazione Nazionale Ex Internati, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager nazisti, Le Monnier, Firenze 1984, p. X.

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Dei seicentocinquantamila IMI ben cinquantamila non tornarono in patria. I reduci però non furono accolti dal nostro Paese come avrebbero meritato. Le accuse di aver atteso nella “comoda” situazione dell’internamento la fine della guerra, di simpatizzare per la screditata monarchia, di nutrire in certa misura anche simpatie per il fascismo, di pretendere risarcimenti non commisurati alle pene sofferte, li spinsero a voler dimenticare la loro drammatica esperienza e a tacere per decenni della loro sorte di internati militari. Il governo li guardava con diffidenza sia perché la propaganda della RSI li aveva presentati, dopo l’agosto del 1944, come “liberi lavoratori volontari” sia perché pensava che tra loro allignassero simpatie monarchiche o addirittura fasciste, i partigiani, a loro volta, li disprezzavano perché non avevano partecipato alla lotta di Liberazione e avevano atteso la fine della guerra in una “comoda” posizione di attendismo. Da nessuna parte si comprese l’intimo valore morale del loro “NO” alle richieste di aderire alla RSI o di servire nei ranghi della Wehrmacht e nelle organizzazioni del Terzo Reich. Spiega bene il triste ritorno in patria degli IMI Claudio Sommaruga:

“Così il governo non sollecitò il rimpatrio dei suoi prigionieri (o addirittura lo ritardò, come per quelli dalla Romania, sospettati comunisti!), con sorpresa degli Alleati assillati dagli altri paesi per il rimpatrio dei propri concittadini. Il rimpatrio degli IMI si svolse un po’ alla spicciolata, per i meno distanti dalla frontiera e, per gli altri, grazie alla Pontificia Commissione di Assistenza. Poi gli IMI erano troppi, concorrenti privilegiati nel mercato del lavoro in un’Italia collassata, piena di disoccupati e si sommavano agli altrettanti ex prigionieri degli Alleati: erano apolitici e non interessavano i politici, per i media non facevano notizia come i partigiani, l’olocausto e l’ARMIR, la scuola li ignorava perché nessuno gliene parlava e l’insegnamento della storia si fermava alla Grande Guerra, evitando il “ventennio” imbarazzante e infine, la gente, dopo anni di guerra, non voleva confronti e rievocare tristezze! Ma allora gli italiani non avevano capito nulla del perché e del duro prezzo dell’“altra resistenza”! E se quella marea di 700.000 “NO!” fosse stata invece di 700.000 “SI” dando, fin dall’ “8 settembre, il sostegno politico e militare a Hitler e a Mussolini, quanti sarebbero stati i partigiani, con quali armi, addestrati da chi e con quali prospettive? Gli Alleati avrebbero vinto lo stesso la guerra, ma che storia si sarebbe scritta con un’avanzata alleata rallentata, dando per esempio fiato ai tedeschi nella corsa alle armi missilistiche e atomiche? I pregiudizi degli italiani offesero e avvilirono gli IMI che finirono, già traumatizzati dai Lager, a ghettizzarsi tra loro, apolitici ma antifascisti, a rimuovere la memoria del Lager e della loro scelta, buona o meno buona e forse inutile ed a chiudersi in sé stessi, anche in famiglia!”

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Così la storia degli IMI fu psicologicamente, politicamente e colpevolmente 53 affossata da tutti, IMI delusi, non IMI diffidenti e dallo Stato, amalgama di tutti!”

Neppure i sacrifici sofferti dai nostri internati e il lavoro svolto coattivamente, sotto la minaccia di terribili punizioni, ebbero, alla fine di lunghe ed estenuanti procedure di indennizzo presentate dagli ex prigionieri o dai loro eredi, il dovuto riconoscimento. In anni recenti la Germania, per ricordare il sacrificio degli IMI e concertare le opportune iniziative di commemorazione con le autorità italiane, ha lodevolmente istituito la Fondazione “Memoria, Responsabilità e Futuro”. Ma con un comunicato stampa del 3 settembre 2001 il Governo federale tedesco, accogliendo un parere – molto discutibile – del giurista prof. Christian Tomuschat, informava che gli ex IMI erano esclusi dalla possibilità di risarcimento, in quanto i prigionieri di guerra potevano essere obbligati al lavoro.54 Come unico riconoscimento finora concesso, lo Stato italiano dal 2006 ha insignito i propri cittadini internati e deportati nel Lager nazisti e i loro eredi della medaglia d’onore. Un ulteriore particolare, da ultimo, ci viene offerto da un altro storico greco vissuto in età imperiale, Plutarco (45-127), in un brano di una delle sue Vite parallele, la Vita di Nicia (cap. 29, 2-4). Anche il brano attiene alla prigionia degli Ateniesi nelle latomie e rivela un particolare modo che ebbero di salvarsi:

[2] Ἔνιοι δὲ καὶ δι᾽ Εὐριπίδην ἐσώθησαν. [3] Μάλιστα γάρ, ὡς ἔοικε, τῶν ἐκτὸς Ἑλλήνων ἐπόθησαν αὐτοῦ τὴν μοῦσαν οἱ περὶ Σικελίαν, καὶ μικρὰ τῶν ἀφικνου- μένων ἑκάστοτε δείγματα καὶ γεύματα κομιζόντων ἐκμανθάνοντες ἀγαπητῶς μετεδίδοσαν ἀλλήλοις. [4] τότε γοῦν φασι τῶν σωθέντων οἴκαδε συχνοὺς ἀσπά- σασθαι τὸν Εὐριπίδην φιλοφρόνως, καὶ διηγεῖσθαι τοὺς μέν,ὅτι δουλεύοντες ἀφείθησαν, ἐκδιδάξαντες ὅσα τῶν ἐκείνου ποιημάτων ἐμέμνηντο, τοὺς δ᾽ὅτι

53 C. Sommaruga, cit., p. 11. Osserva il Bistarelli che, proprio a causa della delusione sofferta nel ritorno in patria, l’esperienza degli IMI, che si era caricata di un profondo significato ideale, non riuscì a influenzare la sfera pubblica nella fase della ricostruzione morale dell’Italia: vd. Agostino Bistarelli, La storia del ritorno, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 69-73. 54 Rimandiamo, per l’annosa questione dei risarcimenti agli ex IMI, al Libro Bianco dell’ANRP, pp. 155-185, testo leggibile all’indirizzo: http://lnx.anrp.it/wp-content/uploads/2016/04/IL LIBRO BIANCO dellANRP.pdf

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55 πλανώμενοι μετὰ τὴν μάχην τροφῆς καὶ ὕδατος μετέλαβον τῶν μελῶν ᾁσαντες.

“[29,2] Alcuni poi furono liberati in grazia di Euripide. [3] A quanto sembra, infatti, di tutti i Greci abitanti fuori della Grecia, i Siciliani apprezzavano soprattutto la poesia di Euripide; essi imparavano a memoria, e con soddisfazione se li passavano tra loro, piccoli brani di poesia euripidea che gli stranieri che venivano in Sicilia insegnavano loro. [4] Dicono dunque che allora parecchi di quelli che si salvarono, tornati a casa ne ringraziarono affettuosamente Euripide, e raccontavano che, ridotti in schiavitù, erano stati liberati perché avevano insegnato quel che si ricordavano delle sue composizioni, altri perché, sbandati dopo la battaglia, avevano ottenuto acqua e cibo cantando le sue melodie.”

[29,4] καὶ διηγεῖσθαι τοὺς μέν, ὅτι δουλεύοντες ἀφείθησαν, ἐκδι- δάξαντες ὅσα τῶν ἐκείνου ποιημάτων ἐμέμνηντο, τοὺς δ᾽ὅτι πλανώ- μενοι μετὰ τὴν μάχην τροφῆς καὶ ὕδατος μετέλαβον τῶν μελῶν ᾁσαντες. “e raccontavano che, ridotti in schiavitù, erano stati liberati perché avevano insegnato quel che si ricordavano delle sue composizioni, altri perché, sbandati dopo la battaglia, avevano ottenuto acqua e cibo cantando le sue melodie.” In questo passo possiamo trovare una notevole similitudine con la situazione degli IMI. I prigionieri greci che si misero a recitare (dialoghi e monologhi) e cantare (i versi lirici) di Euripide riscossero l’apprezzamento dei loro carcerieri e ottennero di poter migliorare la detenzione o addirittura la liberazione. E ciò fu possibile per il riconoscimento, da parte dei Siracusani, della comune matrice culturale che legava i Greci di Sicilia alla Grecia continentale. Anche in Sicilia i tragediografi greci erano molto apprezzati: Eschilo trascorse nell’isola i suoi ultimi anni e, secondo la tradizione, morì a Gela.56 Una vaga notizia

55 Il testo di Plutarco e la traduzione seguente sono tratti da: Plutarco, Vite parallele, a cura di Domenico Magnino, vol. II (Pericle e Fabio Massimo, Nicia e Crasso, Alcibiade e Gaio Marcio, Demostene e Cicerone), UTET, Torino 2006 rist., pp. 248- 251. 56 L’esilio di Eschilo in Sicilia, a seguito della condanna per empietà, per aver rivelato i misteri eleusini, sarebbe frutto di leggenda. Eschilo era stato invitato nel 474 a. Cr. dal tiranno Ierone di Siracusa e per lui aveva rappresentato I Persiani e composto le Etnee per celebrare la fondazione della città di Aitna. Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium libri, 9, 12, ext. 2) narra che il drammaturgo morì perché, mentre stava seduto su una pietra alle porte di Gela, venne colpito da una tartaruga che un’aquila lasciò cadere sulla sua testa, avendo scambiato la testa calva del poeta per un lucente sasso. La morte di Eschilo data al 456 a. Cr.

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di Aristotele, nel secondo libro della Retorica (1384 b), attesterebbe che Euripide andò a Siracusa, probabilmente come capo di una ambasceria per esortare i Siracusani alla pace e all’amicizia, prima della spedizione ateniese contro Siracusa del 415 a. Cr.57 Fu scelto dagli Ateniesi Euripide evidentemente proprio per la fama di cui godeva in questa città. V’è da dire però che la vita di Euripide scritta da Satiro nulla riporta al riguardo e riferisce soltanto del viaggio in Tessaglia e in Macedonia, a Pella, ove il poeta morì nel 405 a. Cr. È inoltre paradossale che gli Ateniesi, mentre preparavano, istigati da Alcibiade, la spedizione contro Siracusa, inviassero Euripide proprio a Siracusa per parlare di pace e amicizia. Il passo di Plutarco è però importante perché attesta l’unità culturale dei Greci, ossia il fatto che i Greci si riconoscessero, all’interno e fuori del continente greco, come appartenenti ad una medesima comunità non dalla razza, ma dalla cultura e dall’educazione, dalla παιδεία, che era quella ateniese diffusa anche nelle colonie della Magna Grecia e della Sicilia. Così, dopo non molti anni da questo significativo episodio, il grande oratore Isocrate (436-338 a. Cr.) nel suo discorso Panegirico, pubblicato nel 380 a. Cr., può vantare tra i meriti di Atene anche quello di aver fondato il “panellenismo culturale”, la condivisione della medesima cultura ed educazione, quella ateniese, che accomuna tutti i Greci come membri dell’Ellade (Isocrate, Panegirico, 47-50).58

57 Vedi al riguardo la nota di Gianni Bonina, Anche Euripide fu a Siracusa? La vaga notizia di Aristotele, testo leggibile on line sul sito della Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), all’indirizzo: http://www.indafondazione.org/it/anche-euripide-fu-a-siracusa-la-vaga-notizia-di- aristotele/ 58 Il “panellenismo culturale” rende Atene degna di ottenere il primato politico e militare nella guerra contro il nemico storico del mondo greco, ossia i Persiani. Successivamente, com’è noto, Isocrate attribuirà questo grandioso compito a Filippo II di Macedonia. Sulle relazioni tra i concetti di ὁμόνοια (concordia tra le città greche) ed ἡγεμονία (predominio culturale, politico e militare di Atene) in Isocrate, vd. Chiara Ghirga – Roberta Romussi, intr. a Isocrate, Orazioni, trad. di Chiara Ghirga e Roberta Romussi, Rizzoli, Milano 19974, pp. 62-63. Per il rapporto tra cultura unitaria e coscienza nazionale ellenica nel pensiero isocrateo, rimandiamo al classico Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, trad. di Alessandro Setti, vol. III, La Nuova Italia, Firenze 1983 rist., pp. 121-141.

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Come gli Ateniesi che recitavano i versi di Euripide (e cantavano le parti liriche, i cori, delle tragedie) e ottenevano la liberazione dai Siracusani, come riconoscimento di una comunanza culturale, anche gli IMI ebbero la possibilità di alleviare in qualche modo le loro condizioni organizzando le attività culturali, e in particolari concerti ed eventi musicali, che suscitarono l’interesse e talvolta l’ammirazione dei Tedeschi, da sempre cultori della musica. La scelta di palesare la propria passione musicale e l’abilità strumentistica (in particolare nel violino e nel clarino) fu dovuta al desiderio di migliorare, anche in quella maniera, la propria condizione di internato, di limitare, per quanto possibile, le privazioni e le sofferenze. I nostri sapevano o si accorsero ben presto che i Tedeschi erano sensibili al canto e alla musica (spesso un’orchestrina accoglieva i militari prigionieri all’ingresso nei campi, e la musica e il canto rappresentarono sempre per i Tedeschi il necessario completamento delle cerimonie nei Lager, anche dei più orrendi rituali: notissima è la fotografia dell’orchestrina di Auschwitz che accompagna il prigioniero alla forca) e vollero sfruttare le possibilità che offriva la conoscenza dell’educazione musicale, materia ritenuta indispensabile, dai Tedeschi, per la completa Erziehung dell’uomo civile. Ma il ricorso al canto e alla musica fu anche un modo per resistere all’annullamento della propria personalità e all’azione inglobante del regime dei Lager. Fu una forma di resistenza nella resistenza passiva, “senz’armi”, che praticarono gli internati. E fu anche, applicando un concetto del sociologo Erving Goffman (1922-1982) tratto dalla sua analisi dei luoghi istituzionali di detenzione, un adattamento secondario. Gli adattamenti secondari sono stati definiti dal Goffman quell’insieme di pratiche mediante le quali gli individui costretti a vivere entro spazi istituzionali spersonalizzanti, come gli ospedali psichiatrici e le carceri, si procurano un certo grado di soddisfazione, sfuggendo al rigido controllo degli addetti all’organizzazione e/o conseguendo un miglioramento della loro condizione di vita. Nelle latomie quegli Ateniesi che erano in grado di farlo, declamando Euripide, poterono addirittura ottenere la libertà, come premio della loro performance, evidentemente gradita ai carcerieri, e insieme riconoscimento del comune patrimonio culturale della grecità. Allo stesso modo gli internati italiani, mostrando la loro abilità nel suonare uno strumento o nel cantare brani di opere liriche, riscossero la simpatia e anche

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l’ammirazione dei Tedeschi e poterono godere di un miglioramento della loro condizione (non certamente la remissione in libertà, perché comunque gli IMI che avevano rifiutato la collaborazione con i fascisti o con il Terzo Reich, restavano formalmente nemici).59 Giovannino Guareschi annota nel Grande Diario, nell’estate del 1944, i concerti che tennero a Sandbostel, il 2 agosto, i tenenti e futuri musicisti Enrico Cagna Cabbiati e Pietro Maggioli, con coro finale del Nabucco, ripetuti il 7, l’8 e il 12 agosto. A questi concerti non di rado assistevano ufficiali tedeschi. Furono, anzi, i Tedeschi a fornire strumenti e spartiti musicali a quei prigionieri che si mostravano versati in questa disciplina. Particolare è la vicenda del soldato Luigi Manoni che, durante lo sgombero delle macerie di Amburgo, trova un violino e, avendolo studiato in passato, si mette a suonarlo. I Tedeschi lo reclutano nell’orchestrina del Lager e ottiene così di poter godere di un miglior vitto.60 Quel violino che ha salvato la vita di Luigi Manoni è ora conservato presso la sede dell’ANRP, Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Lotta di Liberazione e loro familiari (in via Labicana 15/A, 00185 Roma). Anche la pittura fu coltivata dai nostri internati. Mostre d’arte, apprezzate anche dai Tedeschi, vennero organizzate a Sandbostel il 29 luglio 1944 e a Wietzendorf il 1° aprile 1945, come informa Giovannino Guareschi nel Grande Diario.61 Anche Francesco Dal Fior ricorda una mostra di pittura “bellina” a Sandbostel il 3 agosto 1944 (la stessa, probabilmente, ricordata da Guareschi al 29 luglio). Tra i pittori, da

59 Sugli adattamenti secondari vd. Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, trad. di Franca Basaglia, Einaudi, Torino 2010 rist. (I ed. 1961), pp. 212-229. Goffman incentrò la sua analisi sulle prigioni e sugli ospedali psichiatrici, ma le sue osservazioni si prestano ad essere applicate anche al mondo dell’internamento in guerra. 60 I ricordi di Luigi Manoni sono stati pubblicati dalla figlia Gemma: Luigi Manoni, Memorie di Prigionia di un IMI nei lager nazisti dal 1943 al 1945, a cura di Gemma Manoni, Roma 2017. Di Gemma Manoni vd. l’articolo “Il violino del lager”, in Internati militari italiani, a cura di Maria Immacolata Macioti, “M@gm@”, vol.16 n.1, Gennaio-Aprile 2018, testo leggibile sul sito di “M@gm@”, Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali, all’indirizzo: http://www.magma.analisiqualitativa.com/1601/articolo_06.htm 61 G. Guareschi, cit., pp. 398 e 473.

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ricordare, per la ritrattistica, il triestino Gino Spalmach (1900-1967), che eseguì due affreschi per la cappella di Wietzendorf, il Battesimo di Cristo e l’Annunciazione, e decorò alcune sale dei comandi militari tedeschi.62 A conclusione del nostro lavoro, possiamo trarre qualche osservazione. Comparando le due esperienze di prigionia, pur così lontane nel tempo anche se avvenute nel medesimo contesto della guerra, si evidenzia che la prigionia degli IMI fu più dura e spietata di quella degli opliti ateniesi. A differenza dei Siracusani, i Tedeschi incrudelirono contro i nostri per il “tradimento” (dal loro punto di vista) dell’alleanza, che sul piano etico si traduceva in tradimento della parola data e rinnegamento della Bruderschaft, la cameratesca “fratellanza” consolidata da tre anni di guerra vissuta, fianco a fianco, sui medesimi fronti. A ciò si aggiunse l’organizzazione dei campi di prigionia, concepita con criteri “industriali” per sfruttare il “capitale umano” costituito dai prigionieri in modo intensivo come fattore della produzione anche di armamenti per il Terzo Reich. Potremmo osservare che entrambi i luoghi, le latomie di Siracusa e i Lager degli IMI, ebbero le medesime caratteristiche delle “istituzioni totali” studiate dal sociologo Erving Goffman: luoghi organizzati con regimi propri ove le regole, le punizioni e le mortificazioni sono finalizzate alla spersonalizzazione dell’internato. La cava delle latomie e i recinti col filo spinato elettrificato dei Lager erano mondi a parte, che non permettevano rapporti con l’esterno, ove gli individui convivevano rigidamente suddivisi nei ruoli di vittime e aguzzini, e ne uscivano con profonde ferite fisiche e morali, avendo concepito sentimenti di odio, più o meno profondo, verso i persecutori e la sensazione di un tempo della propria vita andato perduto, da dimenticare (ciò è solo da presumere, ovviamente, per i reduci dalle latomie siracusane). Possiamo però osservare una notevole differenza, sul piano storico-politico. Mentre il fallimento della spedizione a Siracusa e la prigionia degli Ateniesi ebbero un notevole impatto sulle coscienze dei cittadini e concorsero ad accelerare la crisi politica di Atene (il colpo di stato

62 Vd. F. Dal Fior, cit., p. 82 n. 69. Notizie biografiche su Gino Spalmach e riproduzioni delle opere in Paola Cintoli, L’arte nei lager nazisti: memoria, resistenza, sopravvivenza, Palombi Editori, Modena 2018, pp. 384-390.

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oligarchico del 411 a. Cr, seguito dall’effimera restaurazione democratica, i cui capi guidarono la città alla sconfitta finale di Egospotami nel 405 a. Cr. che spianò la strada all’armata spartana e al fosco regime dei Trenta Tiranni), la prigionia degli IMI fu invece un’esperienza che, come forma di “Resistenza senz’armi” concorse ad abbattere il fascismo e il nazismo e a costruire l’Italia libera e democratica, un Paese moralmente e spiritualmente rinnovato da consegnare alle future generazioni.

Mario Carini

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GIORGIO GIANNINI

Per non dimenticare: le vittime dimenticate della barbarie nazista

Nota: Si pubblica in questa sede l’intervento che il Prof. Giorgio Giannini avrebbe dovuto svolgere il 25 gennaio 2019 nell’Aula Lumière, nel corso di un incontro programmato con gli studenti delle classi liceali per la presentazione del suo libro Vittime dimenticate. L’olocausto dei disabili, dei Rom, degli omosessuali e dei Testimoni di Geova (Stampa Alternativa, Roma 2011). Il Prof. Giannini non ha potuto essere presente quel giorno e l’intervento è stato svolto in modalità Skype. Giorgio Giannini, nato a Roma nel 1949, è stato obiettore di coscienza al servizio militare e docente di Discipline Giuridiche ed Economiche nelle Scuole Superiori. È Presidente dal 2006 dell’Associazione pacifista e nonviolenta “Centro Studi Difesa Civile”, di cui è stato cofondatore nel 1988. È membro del Direttivo del Circolo “Giustizia e Libertà” e dell’Associazione “Giuditta Tavani Arquati”. Ha scritto dieci libri sui temi dell’obiezione di coscienza, della resistenza al nazifascismo e del Giorno della Memoria. Ha scritto circa duecento articoli, pubblicati su riviste cartacee e online. Il suo saggio L’inutile strage. Controstoria della Prima guerra mondiale ha vinto nel 2017 il Premio letterario “Città di Castello” nella sezione Saggistica.

Mario Carini

Tutti conoscono la tremenda tragedia della Shoah, cioè lo sterminio da parte dei nazisti di oltre 6 milioni di ebrei, trucidati soprattutto nelle camere a gas dei Campi di sterminio, istituiti nella primavera del 1942, dopo la decisione di avviare la “soluzione finale del problema ebraico”, adottata il 20 gennaio 1942 nella conferenza di Gross Wansee, vicino a Berlino. I nazisti, oltre agli ebrei, hanno perseguitato ed eliminato altre categorie di persone: i Rom, i Testimoni di Geova, gli omosessuali, i malati di mente, i malati incurabili, i disabili. In particolare, i nazisti hanno trucidato nel periodo bellico circa 500.000 Rom, i quali, benché appartenenti al gruppo etnico indoeuropeo, in quanto originari dell'India, erano considerati “ariani

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decaduti” ed appartenenti ad una “razza degenerata” perché avevano assimilato le caratteristiche peggiori delle popolazioni dei numerosi Paesi in cui avevano soggiornato nella loro secolare migrazione all'India. Inoltre, erano anche considerati “pericolosi” in quanto “asociali” e con tendenze criminali. Il genocidio dei Rom (chiamato nella loro lingua Porrajmos- distruzione) è certamente il più rimosso nella coscienza popolare per la secolare diffidenza che le popolazioni europee hanno nutrito verso questo popolo, arrivato in Europa nel Medioevo. Inoltre, le Chiese, sia quella Cattolica che quelle Protestanti, hanno alimentato nella credulità popolare una serie di pregiudizi contro i Rom, in particolare le accuse di aver forgiato i chiodi con cui è stato crocifisso Gesù, di diffondere le epidemie e di essere spie dei Turchi. Pertanto, i Rom sono stati sempre discriminati. Alla fine dell'Ottocento, a Monaco di Baviera fu istituito, per assumere ogni informazione su di loro (registrando le nascite, i matrimoni, i decessi, gli spostamenti, le attività, le condanne penali...), l'Ufficio di polizia per gli zingari, che nel 1926 divenne Ufficio Centrale del Reich per la lotta contro la piaga degli zingari, con sede a Berlino, che nel 1938 fu inquadrato nell'Ufficio di Polizia Criminale del Reich. Subito dopo la “presa del potere” da parte dei nazisti (con la nomina di Adolf Hitler, il 30 gennaio 1933, a Cancelliere da parte del Presidente del Reich Paul Von Hindenburg), molti Rom sono stati internati, per motivi di ordine pubblico, come asociali e per la loro propensione a delinquere, nei Campi di rieducazione, il primo dei quali è stato quello di Dachau, alla periferia di Monaco di Baviera, istituito nella primavera del 1933. Successivamente, nel dicembre 1938, con l'emanazione del Decreto per la lotta contro la piaga degli zingari, la questione dei Rom, da problema di ordine pubblico, in base alla loro presunta tendenza a delinquere, divenne una “questione di razza”, perché i Rom attentavano alla purezza della razza ariana, come gli ebrei. Pertanto, nella Circolare per l'applicazione del Decreto si stabilì la separazione della “stirpe gitana” dalla “stirpe germanica”. Si dispose l'internamento nei lager, senza processo e a tempo indeterminato, per i Rom considerati asociali e che pertanto rappresentavano un pericolo per la società tedesca. In base alla Legge per la sicurezza ed il miglioramento della stirpe, emanata nel novembre 1933, che prevedeva la sterilizzazione per gli

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asociali, si propose la sterilizzazione dei Rom considerati asociali per evitarne la procreazione. In questo modo, si sarebbe risolto, “naturalmente”, il problema della loro presenza nel Reich, che contaminava la “purezza razziale” del popolo tedesco. Alla fine di settembre 1939, dopo l'occupazione della Polonia, si decise il trasferimento di tutti gli ebrei ed i Rom che si trovavano nelle regioni annesse al Terzo Reich, in appositi ghetti istituiti nelle principali città del Governatorato Generale. La deportazione dei Rom (circa 30.000) iniziò nel 1940, ma fu ben presto sospesa per dare la precedenza prima al trasferimento degli ebrei nei ghetti delle città polacche e poi per le necessità belliche sul Fronte Orientale, dopo l'aggressione nazista all'URSS del giugno 1941. Nei territori sovietici occupati, decine di migliaia di Rom furono barbaramente massacrati, insieme a centinaia di migliaia di ebrei, dalle Einsatzgruppen, operanti al seguito delle Armate tedesche. Nell'autunno 1942, Heinrich Himmler, Comandante delle SS, propose di realizzare una enclave per i pochi zingari puri (come i Lalleri, che si riteneva avessero conservato i caratteri ariani), nella quale essi avrebbero potuto vivere, con una certa libertà, secondo i loro usi e costumi e svolgendo le loro attività tradizionali, come in un “museo vivente”. Il progetto però fu accantonato, sia per l'opposizione di altri Gerarchi nazisti, sia perché si era decisa anche per i Rom, come per gli ebrei, la “soluzione finale” (cioè la loro eliminazione). Infatti, il 16 dicembre 1942, fu emanato il cosiddetto Decreto Auschwitz, che disponeva l'internamento di tutti gli “zingari di sangue misto”, sia tedeschi che europei, nel Campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove fu allestito uno specifico settore, il Settore B II E, denominato Zigeunerlager (Campo degli zingari). La notte del 2 agosto 1944, tutti i Rom furono avviati alle camere a gas. Si salvarono solo alcuni uomini addetti ai servizi del Campo di sterminio, che si trovavano in altri Settori del lager, ed una ventina di bambini, utilizzati dal dott. Mengele come cavie per i suoi esperimenti. Ad Auschwitz i Rom avevano un tatuaggio sul braccio con la lettera Z (iniziale di Zigeuner = zingaro) e portavano sull'abito civile (non avevano infatti la casacca da internato e vivevano con i familiari) il triangolo marrone o quello nero dei criminali.

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I nazisti, subito dopo la presa del potere, hanno discriminato e perseguitato anche gli omosessuali, colpevoli solo di essere dei “diversi”, per la loro vita sessuale. Infatti, il 23 febbraio 1933 fu emanato un Decreto che disponeva la chiusura dei locali frequentati da omosessuali e fu proibita l'attività della Lega per i Diritti Umani che sosteneva le battaglie del loro Movimento per l'abrogazione dell'art. 175 del Codice Penale che puniva l'omosessualità. Migliaia di omosessuali furono internati, come asociali, unitamente ai Rom, agli alcolisti ed ai senza fissa dimora, nei Campi di rieducazione, istituiti fin dalla primavera del 1933.Nel giugno 1935, fu introdotto nel Codice Penale l'art. 175 A che puniva con la reclusione di sei mesi anche le semplici “fantasie sessuali”. Il condannato, dopo aver scontato la pena, era inviato in un Campo di rieducazione. Nell'ottobre 1936, Himmler propose l'eliminazione degli omosessuali perché considerati “degenerati”. Istituì in seguito un apposito Dipartimento per combattere l'aborto e l'omosessualità all'interno dell'Ufficio Centrale per la Sicurezza dello Stato. L'omosessualità è stata anche usata dai nazisti come arma politica per la eliminazione degli oppositori e dei dissidenti all'interno del regime. Così, nella notte tra il 29 ed il 30 giugno 1934, la cosiddetta notte dei lunghi coltelli, furono eliminati dalle SS (Schutzstaffeln – Guardie di Sicurezza), di cui Himmler era il Comandante, in un albergo di Bad Wiensee, una località termale vicino a Monaco di Baviera, i dirigenti delle SA (Sturmabteilungen – Squadre di assalto), dirette da Ernst Roehm, un amico di vecchia data di Hitler, con il pretesto che l'omosessualità era tollerata nella Organizzazione e praticata dagli stessi dirigenti. L'omosessualità è stata anche usata dai nazisti come pretesto per scatenare azioni repressive verso le categorie sociali da perseguitare, come gli ebrei. Al riguardo, la morte del Segretario dell'Ambasciata tedesca a Parigi Ernst Von Rath, in seguito all'aggressione da parte di Herschel Grynszpan, un ragazzo ebreo che aveva avuto con lui rapporti omosessuali, fece scatenare il tremendo pogrom contro gli ebrei nella cosiddetta notte dei cristalli, che tra il 9 ed il 10 novembre 1938 portò alla distruzione di circa 250 sinagoghe, di 7.000 negozi ed all'uccisione

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di un centinaio di ebrei ed all'arresto di migliaia di altre persone di fede ebraica. Nell'aprile 1938, Himmler dispose che gli omosessuali arrestati per “atti contrari alla morale” fossero internati nei lager senza processo. La repressione si intensificò, alla fine del 1941 con la previsione della pena di morte per coloro che minavano la “salute del popolo tedesco”. Gli omosessuali internati nei lager portavano un triangolo rosa, con chiaro intento spregiativo, e svolgevano i lavori più ripugnanti, come lo svuotamento delle latrine; spesso erano vessati ed anche stuprati dai compagni di baracca. Molti, peraltro, hanno subito atroci sofferenze in seguito alle cure mediche loro imposte per cercare di “guarirli”. I nazisti hanno perseguitato, fin dall'inizio, anche i malati di mente, i malati incurabili ed i disabili perché ritenuti “vite non degne di essere vissute”, i quali, secondo le teorie eugenetiche utilitaristiche, elaborate alla fine dell'Ottocento, erano considerati elementi “improduttivi” per il Reich e pertanto rappresentavano solo un peso economico per la società. Così, in base alla Legge per la Protezione della prole affetta da malattie genetiche ereditarie del 14 luglio 1933, per evitare la procreazione da parte delle persone con malattie ereditarie, sono state sterilizzate circa 350.000 persone, sulla base della decisione adottata dai Tribunali per la salute della stirpe. Nell'ottobre 1939, poiché si riteneva che il programma di sterilizzazione obbligatoria non fosse più sufficiente a garantire la “purezza della razza ariana”, si organizzò un progetto di eutanasia, denominato Aktion T 4 (Operazione T 4) dall'indirizzo in cui aveva sede l'Ufficio preposto (il n. 4 della Tiergartenstrasse di Berlino), per la eliminazione dei disabili. L'Aktion T 4 fu il primo progetto di elimi- nazione collettiva, nel quale è stata sperimentata la “gassazione”, poi utilizzata su vasta scala nei Campi di sterminio, in cui erano in funzione le camere a gas per l'eliminazione contemporanea di un migliaio di persone. L'Operazione T 4 fu attuata fino all'agosto 1941, quando fu sospesa dallo stesso Hitler, in seguito alle proteste delle Chiese Cristiane, sia quella Cattolica che quelle Protestanti. Fino a quel periodo, nei sei Centri per l'eutanasia, appositamente istituiti in altrettanti ospedali civili e psichiatrici, furono eliminate circa 70.000 persone, di cui 5.000 bambini. Gran parte del personale dell'Aktion T 4 fu impiegato nei Campi di sterminio, istituiti per la “soluzione finale del

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problema ebraico”: sia in quelli dell'Operazione Reinhardt (Belzec, Chelmo, Sobibor, Treblinka), allestiti nel Governatorato Generale ed operanti tra la primavera 1942 e l'autunno 1943, sia in quelli di Auschwitz-Birkenau e di Maidanek, operanti fino all'inizio del 1945. Però, il Programma di eutanasia proseguì fino alla fine della guerra, con la denominazione di Aktion 14 F 13 per i malati considerati incurabili, anche bambini, e per i lavoratori stranieri, soprattutto quelli dei Paesi dell'Est, che non erano più in grado di lavorare, perché occupavano posti letti, già carenti per la popolazione tedesca. Le morti avvenivano in seguito al trattamento speciale della dieta di fame (povera di grassi) o alla somministrazione di particolari medicinali. Questa “eutanasia selvaggia” ha provocato la morte circa 90.000 persone, sopratutto per le malattie derivate dalla scarsa alimentazione conseguente alla dieta di fame. I nazisti hanno anche perseguitato fin dal 1933 i Testimoni di Geova (chiamati in Germania Bibelfoscher cioè “studenti della bibbia”), che erano internati nei lager perché considerati “oppositori” del regime, di cui avevano messo in evidenza, fin dall'inizio, nelle loro riviste, pubblicate anche all'estero, lo spirito liberticida e guerrafondaio. Anche dopo che il loro Movimento fu sciolto nel 1935, continuarono a svolgere attività religiosa, diffondendo le loro pubblicazioni, anche all'interno dei lager, e facendo proselitismo. In particolare, non prestavano il prescritto saluto Heil Hitler!, non onoravano la bandiera nazista e non la esponevano alle finestre delle loro case quando richiesto. Inoltre, rifiutavano di svolgere il servizio militare. Per questi reati, erano condannati a pene severe, compresa la pena di morte, specie per il rifiuto di arruolarsi durante la guerra. Essi però erano considerati dai nazisti “prigionieri volontari” perché potevano essere liberati se abiuravano la propria fede religiosa; invece sono rimasti “saldi” (come essi stessi amano dire) di fronte alle brutalità del regime nazista. Nei lager portavano sulla divisa da internato il triangolo viola. Su circa 20.000 fedeli, oltre 6.000 furono arrestati e almeno 2.000 vennero internati nei lager, dove circa 650 morirono per le malattie e gli stenti. Altri 250 furono condannati a morte, tramite impiccagione o decapitazione, soprattutto per aver rifiutato di prestare il servizio militare durante la guerra.

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I Rom, gli omosessuali, i disabili ed i Testimoni di Geova, furono perseguitati dai nazisti perché, per il loro modo di essere e di vivere, rappresentavano un “pericolo” per il Terzo Reich e quindi dovevano essere “eliminati” dalla società, tramite l'internamento prima nei Campi di rieducazione o poi nei lager (nei quali molti furono sottoposti come cavie ad esperimenti pseudoscientifici), oppure dovevano essere sterilizzati o addirittura dovevano essere eliminati. I DIVERSI, già perseguitati dai nazisti, ancora oggi sono spesso discriminati. Dobbiamo pertanto impegnarci affinché NESSUNO sia più discriminato per la sua religione, la sua vita sessuale, la sua condizione fisica o psichica.

Giorgio Giannini

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AMITO VACCHIANO

Erminio Vacchiano: uno degli italiani che dissero no a Mussolini!

È generalmente inusuale per chi si occupa di storia affrontare tematiche che lo riguardino direttamente o che almeno vedano per protagonista un suo parente prossimo. Sono grato, tuttavia, al gentilissimo collega, prof. Mario Carini, il quale, nell’ambito della raccolta di memoriali di guerra che sta progressivamente pubblicando nella nostra bella Rivista d’Istituto, i Quaderni del Liceo Orazio, mi ha invitato a raccogliere in un testo le vicende in cui fu coinvolto mio padre, Erminio Vacchiano, durante il secondo conflitto mondiale. Ho accettato di buon grado tale proposta, perché per me è stato come un tuffo nel passato e, probabilmente, se non avessi avuto la spinta giusta, questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Ho accettato, inoltre, spinto soprattutto dal desiderio di rendere noti fatti inediti, che possono essere di qualche utilità a ricostruire le vicende storiche della seconda guerra mondiale. L’ultima guerra, infatti, e le sofferenze che essa procurò agli italiani hanno molto da insegnare alle nuove generazioni. Non ritengo giusto, pertanto, che questi ricordi, che potrebbero risultare utili a comprendere soprattutto i risvolti umani (o disumani!) della guerra, siano gelosamente custoditi solo nella mia memoria. Ho dovuto quindi richiamare alla mente quanto mio padre raccontava molti anni fa a me e a mio fratello. Da ragazzi, infatti, appassionati come eravamo di tutto ciò che riguardava guerra (soldatini, modellini, fumetti, libri, film e quant’altro), lo pressavamo con domande, insistendo soprattutto che ci raccontasse qualcosa del tempo della guerra. Che lui vi avesse partecipato, lo sapevamo per certo, perché spesso ne parlava sottovoce con i suoi amici. Il più delle volte, però, restavamo delusi, perché si vedeva subito che non aveva nessuna voglia di parlare di quel periodo della sua vita. La sua avversione alla guerra era palese specialmente quando in televisione davano qualche film di guerra: egli

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ci diceva perentoriamente di spegnere la TV, poiché all’epoca, essendoci un solo canale della Rai, non era possibile come oggi cambiare semplicemente canale. Qualche risultato migliore, invece, lo ottenevamo chiedendogli della sua esperienza nel campo di prigionia in Germania: erano vicende che però a noi bambini apparivano per lo più come favole, belle, ma irreali. Purtroppo non ebbi il tempo di crescere per poter costatare che i racconti di mio padre non erano certo frutto di fantasia: avevo solo dodici anni, infatti, quando il 21 dicembre 1973, mio padre moriva per i postumi di un incidente stradale: qualche giorno prima, di sera, mentre a piedi tornava a casa, una macchina guidata da un anziano lo aveva investito in pieno e dopo pochi giorni erano subentrate complicazioni postoperatorie che lo avrebbero portato rapidamente alla morte. È dunque la prima volta che provo a mettere per iscritto le vicende di mio padre durante la seconda guerra mondiale, del suo internamento in un Lager tedesco e della sua attività nella resistenza francese. Purtroppo egli non ha lasciato nulla di scritto: quello che so si basa innanzitutto su quanto mio padre, in momenti e luoghi diversi, ha raccontato a me e a mio fratello o quello che in diverse occasioni gli ho udito raccontare in conversazioni con suoi amici. Si trattava di racconti poco organici, privi di date precise e dei nomi dei luoghi, per di più affidati a quanto può recepire e ricordare la memoria di un bambino di meno di dodici anni. Ho provato a consultare il distretto militare di Cosenza per avere copia del suo foglio matricolare, dove sicuramente avrei potuto trovare notizie più precise, almeno relativamente al suo servizio militare. Con mia grande sorpresa, però, stando a quanto riferitomi dal C.le Magg. Ca. Sc. Q. S. Vincenzo Ionadi, addetto alla Sezione Documentazione Prov. Cosenza, SM - Ufficio documentale del Comando Militare Esercito “Calabria”, il foglio matricolare di mio padre sarebbe misteriosamente “scomparso” e non si è trovata neppure una copia. Il militare, tuttavia, mi consigliava di proseguire le ricerche all’Archivio di Stato: lì avrei potuto trovare dei grandi libroni scritti a mano, dove venivano registrate le informazioni sui militari man mano che pervenivano al Distretto di appartenenza. Purtroppo, a causa dei suoi impegni di lavoro, egli non aveva il tempo per consultarli personalmente: le enormi dimensioni di questi registri li rendono difficili da fotocopiare e possono solo essere trascritti a mano. Si trattava per lui di un lavoro che avrebbe richiesto

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spostamenti da un capo all’altro della città e molto tempo per la ricerca e la trascrizione dei medesimi. In attesa, comunque, di quanto potrà giungermi da Cosenza e riservandomi di consultare personalmente questi registri in futuro, non appena ne avrò la possibilità, per il momento mi sono visto costretto ad affidarmi esclusivamente alla mia memoria. Premetto, pertanto, che quelli che traccerò qui di seguito sono solo i miei ricordi personali, confrontati su qualche punto particolare con quelli di mio fratello, che talvolta presentano lievi discrepanze rispetto ai miei. Conscio di questi limiti, presento i miei ricordi, vagliati però dall’esperienza di un adulto, provando a collocarli in un contesto storico verosimile, evitando, per quanto possibile, di tradire la loro forma originaria, perché, quantunque non sempre ben definiti nei particolari e forse un po’ sbiaditi dal tempo, restano profondamente scolpiti nella mia mente. Mio padre, Erminio Vacchiano, era nato a Santa Domenica Talao, provincia di Cosenza, il 23 maggio 1917. Suo padre Amito, maestro elementare, discendente da una famiglia di piccoli possidenti locali di tradizioni liberali e risorgimentali, era morto improvvisamente per una trombosi il 18 giugno 1936, a soli 51 anni, lasciando orfano mio padre, che allora aveva 19 anni, e le sue tre sorelle minori. Come molti giovani della sua generazione era cresciuto con gli aberranti miti del fascismo: anche lui, infatti, come molti suoi coetanei fu contagiato dallo sfrenato nazionalismo e da un viscerale anticomunismo che allora dominavano. Molti giovani, infatti, in quel periodo guardavano alla guerra come alla sola “igiene del mondo”. Una volta mio padre mi confessò che all’epoca avrebbe voluto partire volontario per la guerra di Spagna, per vendicare le atrocità commesse dai comunisti contro la Chiesa cattolica: ne era stato impedito solo dalla minore età, che, com’è noto, a quell’epoca si raggiungeva al compimento del 21° anno. All’entrata dell’Italia in guerra, nel 1940, era stato costretto interrompere i suoi studi universitari: la guerra e le circostanze drammatiche della sua vita gli impedirono di riprenderli e completarli. Era stato chiamato alle armi come soldato semplice: aveva sì fatto domanda per diventare ufficiale di complemento, ma era stata respinta in quanto la sua statura era di poco inferiore a quella minima richiesta. La sua unità, in un primo tempo di stanza ad Ancona, era stata destinata alla campagna di Russia. Mio padre, però, in modo del tutto inaspettato,

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riuscì ad evitare quel viaggio che per molti risultò di sola andata: fu richiamato, infatti, in Calabria al capezzale della madre vedova ritenuta in fin di vita per una grave malattia. Al ritorno ad Ancona la sua unità era già partita per la Russia: egli pertanto fu aggregato a un’altra unità destinata alla Jugoslavia. Qui, probabilmente, il suo compito fu quello di combattere contro i partigiani comunisti jugoslavi, i celebri “titini”. Queste, tuttavia, sono solo considerazioni mie, perché mio padre sulle vicende di questo periodo era estremamente riservato e non voleva assolutamente parlarne. Alle insistenti domande mie e di mio fratello, se avesse ucciso personalmente qualcuno, rispondeva evasivamente, dicendo ad esempio che quando si è in guerra si spara da lontano nel mucchio e non si può mai sapere con esattezza chi è stato colpito e da chi. La mia impressione, tuttavia, era che su questo argomento fosse estremamente e volutamente reticente: spero comunque che le informazioni che dovranno arrivarmi da Cosenza potranno essere utili a gettare un po’ di luce su questo oscuro periodo della sua vita. Alla data fatidica dell’8 settembre 1943 si trovava ancora in Jugoslavia, la sua unità fu sciolta e, vestiti abiti civili, tentò di rientrare in Italia. Restano per me ignoti, però, i luoghi in cui si svolsero i fatti: non saprei dire neppure da quale porto avvenne la sua partenza per l’Italia. Una volta mi raccontò che di aver visto le Bocche di Cattaro: aveva tutt’intorno montagne e dalla nave su cui si trovava non si riusciva a vedere il mare aperto. Sale, dunque, sulla prima nave che deve salpare alla volta dell’Italia. Improvvisamente sulla stessa nave salgono anche un gruppo di “titini”, partigiani jugoslavi fedeli al maresciallo Tito, riconoscibili per una fascia rossa che portavano legata al braccio. «Uccidevano tutti gli italiani che riuscivano a riconoscere come tali», raccontava mio padre con parole che a distanza di tanti anni esprimevano ancora un indicibile orrore, «li facevano parlare e, se dimostravano di non conoscere il serbocroato, erano portati via». Mio padre si sentì perduto e decise di morire da italiano: si appoggiò quindi alla fiancata della nave in attesa che venisse il suo momento. A un certo punto si avvicina un titino, lo fissa attentamente: mio padre comprende che lo aveva riconosciuto come italiano! A questo punto però avviene un fatto che ha dell’incredibile: senza dire una parola, lo sconosciuto titino si toglie la fascia rossa legata al suo braccio e in fretta, prima che qualcuno possa

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accorgersene, la passa a mio padre, che, ancora incredulo, la annoda velocemente al suo braccio e attende che i titini scendano dalla nave. Per questo gesto di pietà umana, tanto bello quanto inimmaginabile, mio padre riuscì a sopravvivere al di là di ogni aspettativa! A questo punto nelle mie informazioni c’è una grossa lacuna: certamente mio padre giunse in Italia e qui probabilmente – ma questa è solo una deduzione mia – venne catturato dai tedeschi o dalle autorità italiane della Repubblica sociale di Salò, lo Stato fantoccio messo su da Mussolini nell’Italia settentrionale per espressa volontà di Hitler. Restano però oscuri i tempi, le vicende e i luoghi del suo arrivo in Italia e quelle del suo arresto probabilmente come disertore: mi raccontava che, dopo l’arresto, tentarono in tutti i modi di persuaderlo a arruolarsi nell’esercito della Repubblica sociale: arrivarono persino a inscenare delle false fucilazioni! Mio padre mi disse che comunque avrebbe preferito essere fucilato piuttosto che tornare a combattere. Come lui moltissimi altri italiani preferirono essere internati nei Lager nazisti piuttosto che entrare nell’esercito di Mussolini. A mio avviso – si tratta però solo di una mia impressione – ciò che rendeva mio padre così fermo nella sua decisione non era tanto una chiara e netta opposizione ideologica al regime di Mussolini, verso cui comunque doveva nutrire un forte sentimento di disillusione, quanto piuttosto un’avversione profonda e viscerale alla guerra e tutto ciò che essa comportava, all’idea stessa di dover prendere le armi e usarle contro qualcun’altro. Gli anni trascorsi in Jugoslavia lo avevano profondamente cambiato. Inoltre, aveva certamente compreso che non solo la guerra sarebbe proseguita probabilmente ancora per lunghi anni – e questa volta sarebbe stata combattuta sul territorio italiano – ma che di lì a poco si sarebbe scatenata una vera e propria guerra civile fra gli italiani stessi. A questo punto, vista la sua ferma decisione a non aderire alla Repubblica sociale di Salò, mio padre fu incluso fra i cosiddetti “internati militari italiani” (I.M.I.), quegli italiani cioè che non potevano essere lasciati liberi, in quanto avevano deciso di non collaborare con i “repubblichini”, ma, dal momento che l’Italia era ancora formalmente alleata della Germania, non potevano neppure essere considerati prigionieri di guerra. In seguito ad accordi intercorsi fra Hitler e Mussolini, si decise di trasferire questi italiani in campi di lavoro tedeschi (Lager) e si trovò l’escamotage di considerarli non “prigionieri

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di guerra”, ma solo “internati militari”. In quanto prigionieri di guerra stranieri, infatti, sarebbero stati protetti dalle norme della Convenzione di Ginevra e non si sarebbe potuto costringerli a lavorare per la Germania; come “internati militari”, invece, potevano essere impiegati come “schiavi” e sfruttati senza risparmio fino alla loro morte. Questa mostruosità giuridica e morale, insieme a tante altre, ricade unicamente sulla coscienza di Mussolini e dei gerarchi fascisti che lo seguirono nella sciagurata avventura della Repubblica sociale: moltissimi soldati italiani che avevano già dato tanto alla Patria, combattendo su vari fronti in Grecia, Africa, Jugoslavia e Russia per tre lunghi anni, ora venivano abbandonati al proprio destino e costretti a lavorare come schiavi per il disumano dittatore tedesco! Del periodo del suo internamento nel Lager le uniche cose che mio padre raccontava erano che insieme a molti altri era stato costretto a lavorare sottoterra e che era costantemente sottoposto ad un durissimo regime punitivo: riferiva che per coloro che rifiutavano il lavoro, o si macchiavano di qualche violazione delle dure norme che regolavano la vita nel campo, la pena prevista era di essere rinchiusi per periodi di tempo variabili in gabbie talmente piccole da non poter stare né ritti in piedi né sdraiati per lungo. Una volta era capitato anche a lui di dover subire questa punizione: quando uscì, aveva un aspetto così lacero e la barba tanto lunga che un soldato tedesco, dopo averlo osservato attentamente, lo apostrofò dicendogli: «Du Rasputin» (cioè «Tu mi sembri Rasputin»). Ricordo che mio padre disse di essere rimasto sorpreso che un soldato semplice tedesco, dai modi rozzi e brutali, potesse avere una cultura tale che lo rendesse capace di sapere chi fosse Rasputin e addirittura che aspetto avesse! Non sono ancora riuscito a sapere con certezza quale fosse il Lager tedesco in cui era stato richiuso e neppure se fosse rimasto sempre nello stesso campo o se avesse soggiornato anche in altri. L’unico particolare che offrivano i racconti di mio padre era che il suo lavoro si svolgeva sottoterra. Avevo sempre pensato che lavorare sottoterra poteva significare solo il lavoro in una miniera e probabilmente una miniera di carbone. Tuttavia, dopo la visione del bellissimo film documentario Inferno Mittelbau-Dora, prodotto dalla Rai, si è aperta per me una nuova possibilità per identificare il luogo di “internamento” di mio

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padre: forse avrebbe potuto trattarsi del campo di concentramento di Mittelbau-Dora. È noto ai più che il Lager di Mittelbau-Dora fu un campo di concentramento nazista costruito nel 1944 presso Nordhausen in Germania, a sud della catena montuosa dello Harz in Turingia. Il campo venne esplicitamente costruito per la produzione delle Wunderwaffe tedesche, in particolare i missili V21. Alle sue dipendenze lavoravano altri 40 sottocampi. Si calcola che in totale furono 60.000 i prigionieri internati, dei quali 12.000 “ufficialmente” morirono; il totale delle morti, è comunque stimato intorno alle 20.000 persone, comprendenti quelle perite durante i bombardamenti sulle installazioni militari e industriali, e quelle evacuate durante le marce della morte nel 1945. Vi sono delle buone probabilità che il campo di concentramento di mio padre fosse proprio questo: mi raccontava, infatti, che, grazie a un bombardamento degli alleati che aveva distrutto una parte delle mura di recinzione del campo, insieme a molti altri era riuscito a fuggire. Il 3 e il 4 aprile 1945 le Boelcke-Kaserne (baracche Boelcke) a sud- est della città di Nordhaushen, furono bombardate dall’aviazione britannica causando la morte di 1300 prigionieri. Le baracche di Boelcke costituivano un sottocampo di Mittelbau-Dora. Vi venivano reclusi i malati e moribondi e a partire dal gennaio del 1945 il loro numero crebbe da qualche centinaio a oltre seimila, con una mortalità che arrivava a cento persone al giorno. Si sa che i nazisti erano famosi per l’ordine e la sistematicità con cui organizzavano le deportazioni e che prestavano una cura maniacale nel prendere nota di tutto. Se non sono andati distrutti, dunque, i registri di Mittelbau-Dora potrebbero conservare molte informazioni, a cominciare dai nomi di tutti gli ‘internati militari’ che vi sono transitati: com’è

1 Vi lavorava un’equipe di scienziati fra cui spiccava il celebre Wernher von Braun, che dopo essere stato catturato dagli americani, assieme ad altri scienziati del suo gruppo, senza aver fatto un solo giorno di carcere, venne trasferito negli Stati Uniti e naturalizzato americano: gli statunitensi, infatti, comprendendo il suo elevato talento scientifico, lo impiegarono immediatamente nello sviluppo dell’Operazione Paperclip, di natura segreta. Von Braun lavorò con l’esercito statunitense, dove divenne il capostipite del programma spaziale americano e assimilato definitivamente nella NASA.

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ovvio, anche questa è una ricerca che mi riservo di effettuare nel prossimo futuro. Mio padre raccontava che, dopo la sua fuga dal campo di concentramento, riuscì a raggiungere la Francia. Purtroppo non so nulla di questo lungo peregrinare che lo portò dalla Germania alla Francia. Mio fratello ricorda anche un particolare che a me era sfuggito: insieme ad un compagno di prigionia, originario del suo stesso paese della Calabria, avrebbe attraversato a nuoto il Rodano. Giunto in Francia, si unì ai partigiani francesi che combattevano contro i tedeschi. Tempo fa, fra le carte di mio padre, ho trovato la tessera del Partito Comunista Francese! È stata una bella sorpresa per me che conoscevo bene il suo viscerale anticomunismo: da questo ho imparato che talvolta le vicende della vita ci portano in situazioni che non avremmo mai neppure immaginato! Non ho maggiori informazioni sulla permanenza di mio padre in Francia, tranne un piccolo particolare non trascurabile, che una volta mi riferì una mia zia: mio padre per guadagnarsi da vivere dovette adattarsi a fare umili lavori agricoli per i contadini francesi e trasportare sulle sue spalle gerle con pesanti carichi. Non so per quali vie, quando e in che modo mio padre riuscì a tornare in Italia, ma di questo lungo viaggio che lo portò dalla Francia alla Calabria si è conservato un episodio davvero singolare che è rimasto scolpito nel mio ricordo e merita di essere raccontato. Lungo la strada, percorsa evidentemente con mezzi di fortuna, insieme ad altri reduci una volta ottenne un passaggio su un camion. Questo camion trasportava mobili e fra questi vi era un bel pianoforte: uno dei soldati, probabilmente per passare il tempo, aprì il pianoforte, che evidentemente era ancora in buone condizioni, e decise di mettersi suonare. La prima canzone che gli venne in mente fu proprio Giovinezza, il celebre inno del Partito Nazionale Fascista2. Mio padre

2 Questa celeberrima canzone era nata inizialmente come canto goliardico (musica composta nel 1909 da Giuseppe Blanc su versi di Nino Oxilia). Durante la prima guerra mondiale era stata fatta propria dagli Arditi, poi con un testo tutto nuovo era diventato l’inno degli Squadristi (1919, Manni-Blanc) ed infine, come inno trionfale del Partito Nazionale Fascista (1925, Gotta-Blanc), divenne una delle canzoni più diffuse durante il Ventennio fascista, al cui clima politico rimase profondamente legata.

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disse che all’udire quelle note non poté trattenere le lacrime: ovviamente gli affiorarono i ricordi dei primi anni della sua giovinezza, prematuramente spezzata dalla guerra, trasformati in sei anni di un’interminabile “Odissea” che lo aveva portato in giro per l’Europa con indicibili sofferenze, a cui si aggiungeva l’apprensione per la sorte dell’anziana madre malata e delle sue giovani sorelle, che lo aspettavano nel lontano paesino della Calabria. La sua giovinezza era stata breve e ora era finita per sempre: in patria lo attendevano i duri anni della ricostruzione, del sostegno alla sua famiglia assai provata dalla guerra e del dopoguerra, di un lavoro di ripiego (e non quello un tempo sognato), di tante cose da fare certo, ma ormai senza l’entusiasmo, la spensieratezza e la voglia di vivere che lo avevano caratterizzato fin dalla giovinezza.

P.S. Sarei grato a chiunque fosse in grado darmi dei suggerimenti operativi per questa mia ricerca, che del resto, come appare evidente dalle tante lacune, è soltanto ai primi passi.

Amito Vacchiano

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Immagini storiche dall'archivio

del Dott. Aldo d'Ormea

Nota introduttiva

Il Dott. Aldo d’Ormea, padre della studentessa Giulia d’Ormea (classe 2a B), coltiva con passione e impegno le memorie storiche della sua famiglia. Il settimo volume dei “Quaderni del Liceo Orazio” ha pubblicato per cura dello scrivente il memoriale di suo padre, Ugo d’Ormea, che fu sottotenente in Grecia durante la seconda guerra mondiale e dopo l’8 settembre venne catturato dai Tedeschi e internato nei campi di prigionia di Siedlce, Sandbostel e Wietzendorf (vd. Mario Carini, “Per far più lieti i tristi giorni…”: il diario della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea, in “Quaderni del Liceo Orazio”, n.7, Liceo Classico Orazio, Roma 2016, pp.29-93: il testo è leggibile nel sito del Liceo Orazio, sezione Pubblicazioni). Il Dott. D’Ormea ha organizzato sabato 28 gennaio 2017 presso la Sala del Museo del Patrimonium di Sutri (via di Porta Vecchia 79, Sutri, VT), in occasione del Giorno della Memoria, un convegno sul tema “L’internamento dei militari italiani nei lager del Terzo Reich 1943-1945”. Il convegno, che ha avuto il patrocinio del Comune di Sutri – Settore Politiche Culturali, dell’ANRP e dell’Associazione Culturale Irtus e nel corso del quale è stato presentato il memoriale di Ugo d’Ormea, ha visto la partecipazione dei Proff. Enzo Orlanducci (Presidente dell’ANRP), Luciano Zani, ordinario di Storia Contemporanea presso La Sapienza – Università di Roma, e del sottoscritto. L’ultima mostra, in ordine di tempo, organizzata dal Dott. D’Ormea ha avuto luogo dal 31 maggio al 7 giugno 2019 presso la sede dell’Associazione Sinergie Solidali (via Volsinio 21, Roma) sul tema “Italia- Germania: documenti, fotografie, corrispondenza tra le famiglie d’Ormea e Bregger tra il 1890 e il 1940”. La mostra ha avuto il patrocinio del II Municipio – Assessorato alla Cultura e delle Associazioni Europa Nostra, EuLab TEC e Sinergie Solidali. Sono state esposte cartoline, fotografie, documenti, diplomi, medaglie, titoli, francobolli, monete e banconote non solo italiane a testimonianza della relazione tra due famiglie tra loro imparentate: una italiana, d’Ormea, quella dello zio di Ugo d’Ormea, e l’altra tedesca, Bregger. I rapporti familiari che cortesemente ci ha riferito il Dott. Aldo d’Ormea sono i seguenti: Guido d'Ormea, zio di Ugo d’Ormea, padre del Dott. Aldo (e fratello di suo nonno Aldo che andò in Argentina), aveva sposato Elsa Bregger, figlia di Alfred Bregger, Console Onorario di Germania a Roma. Alfred Bregger non era diplomatico di carriera, era dirigente di banca: visse per diversi decenni a Roma, ed è sepolto con altri della sua famiglia nel Cimitero Acattolico di Roma. Per gentile concessione del Dott. Aldo d’Ormea, che in questa sede ringraziamo, pubblichiamo in questo numero dei “Quaderni del Liceo Orazio” alcune cartoline d’epoca e fotografie di notevole importanza storica scelte tra quelle in esposizione alla mostra presso Sinergie Solidali. Mario Carini

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Il dirigibile “Italia” con cui il generale ed esploratore Umberto Nobile (1885-1978) guidò la sfortunata spedizione al Polo Nord nel 1928. Nelle immagini in tondo, in alto a destra il generale Nobile, in basso a sinistra la cagnetta Titina, mascotte di Umberto Nobile.

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Scritta sul retro della cartolina.

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FuhrungsAttest: Attestato, scritto in corsivo tedesco, di aver adempiuto agli obblighi di leva con rettitudine, rilasciato ad Alfred Bregger. Il documento sembra essere datato al 1° ottobre 1869.

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Serie di fotografie sulla visita del Mahatma Gandhi a Roma nel 1931

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Gandhi in visita al Nido e alla Casa dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia.

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Il Mahatma Gandhi e il dott. Guido d’Ormea (a sinistra).

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Il Mahatma Gandhi e il dott. Guido d’Ormea.

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ALAN SPINELLI

Women in Shakespeare’s days and Women in Shakespeare’s Plays

Perché è un enigma senza fine cercare di capire come mai nessuna donna abbia scritto una sola parola di quella straordinaria letteratura mentre un uomo su due, a quanto sembrava, era in grado di comporre una canzone o un sonetto. In quali condizioni vivevano le donne, mi chiedevo; […] Della più grande importanza dal punto di vista della fantasia; del tutto insignificante da quello pratico. […] Nei romanzi domina la vita di re e conquistatori; nella realtà era la schiava di qualunque ragazzo i cui genitori le avessero messo per forza un anello al dito. Dalle sue labbra piovono alcune delle parole più ispirate, alcuni dei pensieri più profondi di tutta la letteratura; nella vita di tutti i giorni era raro che sapesse leggere, a stento sapeva scrivere, ed era di proprietà del marito. […] Consentitemi di immaginare che cosa sarebbe accaduto se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judith, poniamo. […] Ma non venne mandata a scuola. Non ebbe la possibilità di imparare la grammatica e la logica. Molto presto, però, ancora prima che fosse uscita dall’adolescenza, dovette essere promessa in moglie. La ragazza gridò che il matrimonio le era odioso, e per averlo detto venne picchiata con violenza dal padre. […] Una notte d’estate la ragazza preparò un fagottello con le sue cose e prese la strada di Londra. Come suo fratello, aveva una inclinazione per il teatro. Si fermò davanti alla porta degli attori; voleva recitare, disse. Quegli uomini le risero in faccia. […] Così, più o meno, sarebbe andata la storia, io credo, se una donna, ai tempi di Shakespeare, avesse avuto il genio di Shakespeare.1

In Una stanza tutta per sé Virginia Woolf (Londra 1882 – Rodmell 1941) affronta il tema della creatività femminile e quello della rivendicazione dei diritti delle donne, esprimendo il suo forte risentimento per il ruolo secondario e subalterno cui erano relegate le donne del suo tempo, trattando i limiti imposti alla creatività femminile

1 V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Oscar Mondadori, 2013.

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dalla dipendenza economica e morale dell’uomo e dalla mancanza di cultura. Secondo la Woolf, infatti, una donna per poter scrivere romanzi e per potersi permettere di essere una intellettuale avrebbe dovuto disporre di “una stanza tutta per sé”, cioè disporre di una rendita che le potesse consentire di essere indipendente e liberamente creativa, per poter scrivere con la concentrazione necessaria. È nel terzo capitolo di questo saggio che la Woolf crea un’immaginaria sorella di William Shakespeare (Stratford-upon-Avon 1564 – Stratford-upon-Avon 1616), chiamata Judith. La ragazza, però, nonostante sia talentuosa come il fratello, con una grande passione per il teatro e desiderosa di diventare un’attrice, non potrà riscuotere lo stesso successo del fratello in quanto donna. Se da un lato questo saggio divenne, al momento della pubblicazione, un incentivo per le giovani aspiranti scrittrici generando riflessioni e dibattiti riguardo il ruolo della donna nella letteratura, dall’altro può portare il lettore, tramite il personaggio immaginario di Judith, a riflettere sulla condizione delle donne nell’epoca di Shakespeare in contrapposizione a quelli che sono i personaggi femminili creati da Shakespeare. Innanzitutto, Shakespeare non scriveva per le donne: in epoca elisabettiana le donne non potevano recitare perché vietato sia dalla legge che dal senso comune ed erano quindi gli uomini a interpretare i ruoli femminili a teatro. E quali sono, allora, le caratteristiche dei personaggi femminili creati da Shakespeare? Sicuramente si possono considerare portatrici di doti quali forza, potere (politico e morale), capacità dialettica, cultura e doti strategiche che erano tutte caratteristiche riservate solitamente agli uomini. Le donne nelle opere di Shakespeare avevano, quindi, la naturale capacità di essere forti, potenti e ragionevoli. Lady Macbeth, già dalle sue prime battute, viene dipinta come una donna assetata di potere e desiderosa di conquistare una nuova posizione sociale diventando regina. È lei che spinge il marito a macchiarsi le mani e la coscienza pur di ottenere ciò che lo farà diventare re, portando a compimento ciò che era stato predetto dalle streghe all’inizio della tragedia. È lei che pianifica l’omicidio di re Duncan nei minimi particolari prevedendo di dare la colpa ai servi di guardia davanti alla porta del re, facendoli ubriacare e macchiando i loro corpi di sangue. Ed

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è lei che prende il comando degli eventi nel momento in cui Macbeth, sconvolto, mostra segni di cedimento. Un altro grande esempio di forza può essere riscontrato in Giulietta che, a soli quattordici anni, si ribella (perché innamorata di Romeo) alle imposizioni paterne che la vogliono promessa sposa al conte Paride, arrivando a sposarsi in segreto e a fingere la propria morte tramite l’aiuto e la complicità di frate Lorenzo. Vittima del destino già segnato, come anticipato nel prologo, Giulietta può essere considerata il simbolo della straordinaria forza dell’amore che tenta, invano, di sopravvivere in una società che pone i sentimenti all’ultimo posto nella scala degli interessi. Passando alle commedie, Ermia ed Elena di Sogno di una notte di mezza estate (1595) vengono utilizzate per riprendere la tematica dei matrimoni combinati dalle famiglie e che non riscontrano l’approvazione delle figlie. Ermia, infatti, è promessa in sposa a Demetrio ma innamorata di Lisandro e fugge nel bosco insieme al suo innamorato per potersi sposare in segreto ed evitare le conseguenze della sua trasgressione. Elena, invece, è innamorata non ricambiata di Demetrio e nonostante i suoi continui rifiuti continua a corteggiarlo senza perdere la speranza, lanciandosi in un inseguimento nel bosco per correre dietro al suo amato che rincorre Ermia fuggita insieme a Lisandro. Il tutto si complica per colpa degli errori magici del folletto Puck al servizio di Oberon, re degli elfi, che generano situazioni comiche, scambi di coppie e litigi nel bosco. La sottotrama, invece, relativa al teatro nel teatro e messa in luce tramite i personaggi dei commedianti che si incontrano nel bosco per provare il dramma di Piramo e Tisbe, evidenzia l’impossibilità delle donne di recitare costringendo uno dei commedianti a travestirsi da donna per interpretare, suo malgrado, il ruolo di Tisbe. È con La bisbetica domata e con il personaggio di Caterina che vengono nuovamente analizzate le regole sociali dei matrimoni combinati per interesse delle famiglie. La bisbetica Caterina, dal carattere irascibile e scontroso, si oppone a tutto ciò che gli altri le impongono tenendo a distanza potenziali pretendenti che le preferiscono la sorella Bianca, dal carattere più gentile. Sebbene Caterina sia comica quando si infuria come un serpente velenoso nei suoi furiosi contrasti verbali rivolti al protagonista maschile dell’opera, Petruccio, in realtà il

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suo lato bisbetico è solo apparenza e finirà per sposarsi e ammansirsi “tradendo” le aspettative iniziali. Nonostante ciò Caterina, e la commedia che la vede protagonista, resta uno dei personaggi più rappresentati a teatro grazie alla sua carica travolgente. Un altro esempio di donne forti in chiave comica può essere rappresentato dai personaggi della signora Ford e della signora Page nella commedia Le allegre comari di Windsor (1599-1602) in cui le due donne, dopo aver ricevuto due identiche lettere d’amore, decidono di vendicarsi più volte del mittente nel corso della commedia. Sir John Falstaff, infatti, aveva deciso di corteggiarle entrambe perché a corto di soldi nonostante le due fossero sposate e finirà per essere umiliato pubblicamente grazie alla furbizia delle protagoniste. La lista dei personaggi femminili forti, sia comici che tragici, creati da Shakespeare potrebbe sicuramente continuare. Personalmente ho trovato interessante, in classe, partire da una lettura del terzo capitolo di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf per poter introdurre l’argomento e affrontare le opere shakespeariane attraverso l’analisi delle protagoniste e delle loro caratteristiche in contrapposizione, come già detto, alle donne dell’epoca elisabettiana. Dalla visione del film Shakespeare in Love del 1998 (in cui Gwyneth Paltrow interpreta il ruolo di una giovane nobile che per riuscire a far parte di una compagnia teatrale decide di travestirsi da uomo) passando all’analisi delle protagoniste delle opere di Shakespeare ho potuto contestualizzare l’autore e le opere ponendo l’accento su una tematica sempre attuale, quella della discrepanza e della disuguaglianza tra uomini e donne. Ciò ha stimolato l’interesse degli alunni che, per primi, hanno provato a elencare i personaggi femminili da loro conosciuti o già studiati precedentemente per arrivare quindi a Lady Macbeth, a Giulietta, a Ermia ed Elena di Sogno di una notte di mezza estate e a un’analisi più approfondita dei testi tratti dalle opere, con estratti che evidenziano la tematica presa in esame oltre che i temi principali delle opere stesse.

Alan Spinelli

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MARIA ASSUNTA ROSSI

I will always you… ovvero Lettera semiseria di una bibliotecaria alla “sua” biblioteca

Cara biblioteca,

come potrei non volerti bene… In questi undici anni insieme ne abbiamo fatte di cose belle. Ricordi quella volta, quel ragazzo timido timido, che venne a sedersi per terra a guardare i libri di matematica? Poi però mi disse di essere appassionato di fumetti giapponesi e chiese se c’era un libro di letteratura giapponese, e finalmente quel libro cessò di essere “morto” e cominciò a vivere nelle mani di quel ragazzo. E poi quella ragazza, ora laureanda in Giurisprudenza alla LUISS, che al liceo chiedeva a noi due, rispettosamente, se potevamo chiarirle dei dubbi su qualche versione di latino o greco? Ti confesso che per lei lasciavo qualsiasi catalogazione, peer provare la soddisfazione di parlare insieme a lei di cose che da sempre mi appassionano: grammatica, sintassi, come funzionano le lingue antiche e moderne… Ricordi? L’anno scorso è tornata a salutarci. Ci dimentichiamo poi di quell’altro ragazzo che chiedeva, sempre rispettosamente, di essere ascoltato in filosofia, e che dopo aver parlato di Eraclito, Protagora e Gorgia, iniziava con noi riflessioni politiche tutt’altro che banali. Ma non abbiamo sempre lavorato tranquillamente noi due… spesso in questi anni ci siamo dovute difendere da appropriazioni indebite delle nostre sedie e dei nostri tavoli, non solo da parte degli studenti. Ora però le belle sedie azzurre, provenienti da una donazione, che dopo molte richieste ci hanno fornito, le abbiamo tutte numerate e le sorveglieremo “con occhi d’Argo e braccia di Briareo”. Non manca però molto al momento in cui ti dovrò lasciare… come si chiama, “quiescenza”, vero? Ma non avere paura che ti lascio in buone mani e fra poco ti dirò come. Prima vorrei rievocare il periodo più brutto

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della nostra vita insieme. Anno 2011: in piena estate una legge dissennata decide di spostare il personale addetto alle biblioteche scolastiche in altre amministrazioni. Tu ancora stai a chiederti perché, ma loro volevano risparmiare… ma si può risparmiare sulla cultura? Si può cercare di distruggere qualcosa che in uno Stato funziona, come per esempio le biblioteche scolastiche, che, affidate alle cure amorevoli degli insegnanti bibliotecari, non sono “luoghi polverosi dove nessuno entra” (tu pensa cosa mi è toccato sentire da uno che essendo al potere dovrebbe difenderla la cultura, non attaccarla così), ma un locus amoenus dove studiare in santa pace nelle ore libere o dove trovare anche buoni consigli di lettura? Non potevamo, noi che del trasmettere la cultura abbiamo fatto la nostra professione, sopportare questo e allora ci siamo organizzati contro questa insipienza, e dal 2011 al 2015 abbiamo “messo a ferro e fuoco” la città, in cortei e sit in, nei quali, solo con la dialettica e con qualche fischietto, cercavamo di far abrogare la lex iniqua. Ti confesso che è stata dura, non eravamo per niente sicuri che chi stava in alto loco, capisse le nostre sacrosante ragioni. Mentre qui a te “tremavano le vene e i polsi”, noi insegnanti addetti alle biblioteche lasciavamo le nostre creature – scusa il tono epico, ma me la sono veramente vista brutta… – per andare a far ragionare quelle persone. Poi finalmente e lentamente le cose sono cambiate. Sinceramente non ti so dire se i governi che si sono succeduti in questi anni abbiano capito veramente le nostre battaglie, e si siano dati da fare per far abolire la legge, fatto sta che sto ancora qui a prendermi cura di te… Voglio per attimo essere realista, credo che semplicemente, piano piano presi dalle loro beghe, si siano scordati di noi; ma a noi in fondo cosa importa? Volevamo solo essere lasciati in santa pace a lavorare… E a questo proposito ti voglio dire cosa bolle in pentola. Alcuni insegnanti nostri amici hanno presentato in alto loco un progetto che riguarda proprio te, e il cui scopo è renderti sempre migliore e funzionale. Questo progetto nono solo è stato preso in considerazione, ma ha pure ottenuto dei finanziamenti da chi li può erogare. Saranno realizzati i tuoi sogni. Pensa, già ci sono le candidature da parte di alunni di buona volontà, che hanno chiesto di fare proprio qui l’alternanza scuola-lavoro. Dopo un corso di formazione all’Università, verranno qui e ricatalogheranno con un sistema più efficace tutto il materiale librario. E poi saranno organizzati eventi, forse anche la biblioterapia. Certo, ci vorrà un bel po’

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di tempo, ma se mai si comincia… Intanto noi – siamo ora una commissione di addetti ai lavori – stiamo chiedendo a chi di dovere di comprare, con i soldi che ci spettano, tavolinetti piccoli e colorati, al posto dei tavoloni, che ora creano una barriera alla consultazione. Piano piano sarai aperta anche un po’ più nel pomeriggio, e così nel quartiere chi vuole “approfondire” troverà un luogo accogliente dove farlo. Dai dai, sono contenta, sono sicura che quando proprio dovrò andare via, ci saranno altri che ti vogliono bene a prendersi cura di te. E non temere, non me ne andrò per sempre, ma tornerò, come lettrice e visitatrice, a vedere come procedono i lavori. Adesso sto seriamente rischiando la commozione e le lacrime, e allora sulle note della canzone di Whitney Houston, ti dico If I should stay, I would only be in your way… And I will always love you…

Tua Maria Assunta, alunna, insegnante e ora bibliotecaria nel suo liceo

Maria Assunta Rossi

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MARIA ASSUNTA ROSSI

Recensione al romanzo Da ora in poi di Catia Proietti

Avvertenza: la presente recensione è stata pubblicata sul sito daorainpoi.it nella sezione scuole e su FaceBook alla pagina “Da ora in poi” di Catia Proietti.

Due sono i libri che maggiormente hanno suscitato il mio interesse in questi ultimi anni: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery e “Da ora in poi” di Catia Proietti, due romanzi sul cambiamento. Claudio, protagonista del secondo, è un ragazzino di terza media nato e cresciuto a San Basilio, quartiere della periferia romana. Il ragazzo, costretto dal padre, vedovo e invalido, a spacciare droga, ha però una marcia in più rispetto al genitore: ama la Bellezza e si pone delle domande. La Bellezza la riconosce nell’architettura dei palazzi di Talenti, e anche nello sport che pratica, lo skateboard. Per tempo il ragazzino domanda al padre se quelle bustine che lui porta nascoste sotto la tavola possano fare del male, ma il padre lo rassicura: “Non ci si muore con quella roba. Li rende eccitati, gli fa passare la stanchezza, li fa diventare allegri.” Claudio ha solo suo padre, la madre è morta troppo presto e anche il nonno è morto, l’unico ad avergli insegnato qualcosa di buono. Ma il suo cervello continua a lavorare, lui studia, e quando l’insegnante d’italiano, una donna illuminata che vuole solo il bene dei suoi alunni, fa leggere in classe la novella di Verga “Rosso Malpelo”, nella mente di Claudio scatta qualcosa: no, non voglio morire come Rosso Malpelo nella cava di rena, e per lui la cava è la vita da delinquente a cui lo costringe il padre. Non è facile mettersi contro i poteri forti, contro un padre che oltretutto lo riempie di botte se solo fa tardi a fare una consegna, ma Claudio riuscirà a salvarsi grazie all’aiuto degli adulti che per vari motivi a lui ci tengono. Che bel messaggio da dare ai giovani! “Se vuoi puoi cambiare la tua vita, lo puoi fare, chiedi aiuto ai “buoni”

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che fanno rumore.” I ragazzi leggono volentieri il libro, anche perché i personaggi, anche se inventati, hanno il sapore della realtà: Claudio è uno di loro, anche un po’ ribelle come la maggior parte, e anche la prof d’italiano è una donna libera, che non si vergogna di farsi vedere con i capelli corti e grigi. Sono persone che incontriamo nella nostra vita quotidiana. Ma il libro parla anche a noi adulti, con un messaggio sintetizzato nella frase che l’autrice fa dire a Claudio quando ormai il suo calvario di pusher è finito: “Compresi che la felicità in fondo per un ragazzino è questa: sentirsi accolto. Sentirsi riconosciuto. Nulla di più.” Quanto hanno bisogno i giovani della nostra attenzione! E che dire della “forma” del romanzo? Fin dalle prime pagine sono stata conquistata dal linguaggio del verismo (compresi il “che verghiano” e l’Erlebte Rede), dall’alternanza narrativa, da una scrittura che fa commuovere. L’ho letto lentamente, per vedere le scene come in un film, ora sono alla seconda lettura, e lo sto consigliando a tutti gli insegnanti d’italiano del mio liceo, perché lo facciano leggere agli alunni. Grazie, Catia, dalla tua fan Maria Assunta Rossi, ex alunna, insegnante e bibliotecaria del liceo “Orazio”!

Maria Assunta Rossi

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ANNA PAOLA BOTTONI

Identità e ruolo della biblioteca scolastica nella scuola del terzo millennio

Il ruolo e la funzione della biblioteca scolastica hanno seguito e in parte ricalcato, a partire dai primi decenni del Novecento, l’evoluzione della biblioteca pubblica, configurandosi, inizialmente, come luogo di conservazione e soprattutto prestito del patrimonio librario. Si pensi, al riguardo, alle biblioteche itineranti nate per diffondere la pratica della lettura di libri, almanacchi e riviste, nelle contrade e nei paesi sperduti, per promuovere, dunque, e accelerare i processi di alfabetizzazione e acculturazione delle masse rurali. La biblioteca, e non solo quella itinerante, attraverso la funzione del prestito ha sempre cercato di superare il carattere elitario della lettura, nei tempi in cui il libro non era ancora diventato un oggetto di largo consumo. Viene a delinearsi, così, fin dall’inizio, uno dei caratteri peculiari della biblioteca: l’accessibilità. Sarà proprio questa caratteristica che renderà la biblioteca in genere, ma in modo particolare la biblioteca scolastica, nell’ottica della democratizzazione e diffusione dei saperi e nel diritto per tutti all’istruzione, aperta non solo alle innovazioni e ma anche pronta a ripensare i suoi spazi in termini di funzionalità e della più ampia rispondenza alle esigenze dell’utenza, per favorirne la frequen- tazione. Nell’ultimo decennio, poi, la biblioteca scolastica, con l’avvento del digitale, ha subito un’ulteriore trasformazione, dimostrando, ancora una volta, la dimensione dinamica della biblioteca stessa, aperta alle innovazioni tecnologiche e metodologiche come supporto, estensione e integrazione della didattica in aula. I cambiamenti sono stati e sono rilevanti: una vera e propria sfida nello sforzo di conciliare la dimensione della biblioteca reale con quella virtuale, l’aspetto laboratoriale e progettuale con la conservazione del

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patrimonio librario che, formatosi negli anni, è anche espressione della memoria storica della scuola. Cercheremo di prendere in considerazione di seguito le più recenti Linee Guida dell’IFLA e altre indicazioni date dai recenti orientamenti di biblioteconomia sul ruolo della biblioteca scolastica innovativa del terzo millennio. Va sempre tenuto presente, tuttavia, che, sia pure nella modificabilità dell’ambiente fisico e virtuale della biblioteca, la promozione e la diffusione della pratica della lettura, prescindendo dall’utilizzo di supporti digitali, sono sempre state uno degli obiettivi prioritari della biblioteca scolastica stessa. Essa, attraverso la diffusione e l’incentivazione alla lettura, è “luogo di apprendimento”, stimolo alla creatività e allo sviluppo delle capacità critiche di valutazione, creazione e presentazione dell’informazione (Information and media literacy).1 Uno degli aspetti e delle funzioni irrinunciabili della biblioteca scolastica è, infatti, l’aspetto educativo e formativo. Nelle Linee guida dell’IFLA, l’organismo internazionale che, dal 1927, si occupa in generale di tutte le tipologie di biblioteche, viene definito il ruolo della biblioteca scolastica: “La biblioteca scolastica fornisce informazioni e idee fondamentali alla piena realizzazione di ciascun individuo nell'attuale società dell'informazione e conoscenza. La biblioteca scolastica offre agli studenti la possibilità di acquisire le abilità necessarie per l'apprendimento lungo l'arco della vita, di sviluppare l'immaginazione, e li fa diventare cittadini responsabili.”2 (IFLA School Library Guidelines, 2015).

1 Da Rosa Seccia, Biblioteche Innovative: azione #24 del PNSD. Riportiamo di seguito i 10 punti efficacemente sintetizzati dal prof. Venuda sulle Biblioteche Scolatiche Innovative: 1) definire chiaramente le finalità delle B.S.I; 2) effettuare una revisione delle raccolte; 3) allestire l’ambiente bibliotecario; 4) disporre di un bibliotecario professionista; 5) avere locali accoglienti e accessibili; 6) predisporre un progetto stabile e un budget finalizzato; 7) definire un orario di apertura esteso per attività ed eventi; 8) coinvolgere gli studenti per l’apertura, l’organizzazione e la gestione; 9) attivare il Digital Lending; 10) chiedere supporto ai bibliotecari dell’AIB (Associazione Italiana Biblioteche). 2 Barbara Schultz Jones – Dianne Oberg, IFLA School Library Guidelines, Den Haag, Netherland, 2015.

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La biblioteca scolastica è investita, così, della duplicità del suo ruolo di biblioteca, che come tale deve rispondere alle regole biblio- teconomiche che disciplinano “ogni raccolta ordinata di documenti” e della sua funzione scolastica che, in quanto tale, è finalizzata al conseguimento degli obiettivi educativi e formativi dell’apprendimento. La biblioteca scolastica, in questi termini, si configura come “infrastruttura della conoscenza”, un ambiente privilegiato d’appren- dimento, fortemente proattivo per la ricerca e la crescita personale degli alunni, operando in modo integrato e integrante con l’attività scolastica. Non sempre, tuttavia, questo si verifica. La biblioteca scolastica, spesso, non dispone di un vero e proprio spazio all’interno dell’istituto di appartenenza oppure dispone di ambienti che, per motivi strutturali, sono più adatti alla conservazione dei volumi che alla frequentazione della stessa biblioteca. La lettura rischia, così, di essere una pratica svolta ancora, nella maggior parte dei casi, in classe, promossa spesso solo dall’insegnante di lettere che propone o “impone” una scelta di letture, rispondenti a criteri prevalentemente curriculari. L’avvento delle aule digitali ha contribuito, inoltre, per alcuni aspetti, all’abbandono della biblioteca scolastica: si fa ricerca in rete nell’aula multimediale perché nella biblioteca non ci sono postazioni digitali in numero adeguato o per la mancanza di un docente-bibliotecario, mediatore dell’Information Literacy. La diffusione degli strumenti digitali e della cultura digitale ha ampliato, quindi, il divario e la differenziazione fra biblioteche scolastiche attrezzate e innovative e biblioteche “tradizionali”, siano essi luoghi destinati alla conservazione della dotazione libraria dell’istituto o spazi, non sempre strutturati, per la raccolta di libri. Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), predisposto ai sensi del comma 56 della Legge n. 107/2015, per rispondere alla “costruzione di una visione di Educazione nell’era digitale, attraverso un processo che, per la scuola, sia correlato alle sfide che la società tutta affronta nell’interpretare e sostenere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (life-long) e in tutti i contesti della vita, formali e non formali (life- wide)”, si occupa esplicitamente, infatti, nell’ Azione #24, delle “Biblio- teche Scolastiche come ambienti di alfabetizzazione all’uso delle risorse informative digitali”.

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Nell’Avviso pubblico del documento sopra indicato e del relativo bando, le biblioteche scolastiche sono definite “laboratori per coltivare e implementare curiosità, conoscenze, saperi, attitudini e abilità trasver- sali”, ma anche spazi “di promozione della lettura, di apertura degli orizzonti culturali e di integrazione multiculturale” (ivi, commi 4-5), mentre si sottolinea l’importanza dell’adozione del prestito bibliotecario digitale (Digital Lending), al fine di permettere “a studenti e docenti di ottenere in lettura libri e quotidiani (inclusi libri e quotidiani esteri)” (ivi, comma 5, punto 4). Come, quindi, scrive Roncaglia3 facendo proprio il riferimento al PNSD Azione#24 “le biblioteche scolastiche sono ambienti di accesso alle risorse informative e documentali di information literacy, di promozione della lettura e della scrittura, caratterizzati dall’incontro fra informazione tradizionale e informazione digitale”. Sempre Roncaglia osserva, tuttavia, che il PNSD non “può rappresentare l’unica cornice possibile al cui interno si possa parlare di biblioteche scolastiche”; si tratta di una strategia nazionale della valorizzazione delle biblioteche scolastiche che prende in considerazione la necessità dell’apertura al digitale, ma non l’esclusività di tale scelta. La scarsa attenzione, fino a qualche anno fa, da parte del MIUR alle biblioteche scolastiche quale luogo d’apprendimento, ha sicuramente contribuito, sempre secondo Roncaglia, allo “sconfortante piazzamento dell’Italia rispetto a quasi tutti gli indicatori di successo scolastico e formativo”.4 Dall’esame del bando Azione 24# e dei suoi allegati, da tenere presenti come linee programmatiche di una biblioteca innovativa, si dovrebbero considerare almeno tre aspetti: a) l’organizzazione e l’ammodernamento dello spazio biblioteca (si vedrà più avanti, a partire anche dai risultati emersi dal questionario somministrato agli alunni della nostra scuola, l’importanza della disposizione degli ambienti e degli arredi); b) il collegamento con le biblioteche territoriali e l’apertura al territorio, in termini di servizi legati alla formazione e all’alfabetizzazione informativa; c) l’attenzione verso il prestito digitale

3 Gino Roncaglia, L’età della frammentazione. Cultura del libro e scuola digitale, Laterza, Roma-Bari 2018, pag.161. 4 G. Roncaglia, ibidem.

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bibliotecario, uno degli aspetti più connotativi delle biblioteche del futuro, consentendo l’accesso a un numero elevato di risorse liberamente disponibili in rete. Si evidenzia, in tal modo, l’importanza educativa che la biblioteca scolastica assume, nei documenti del MIUR, sul duplice versante dell’educazione alla lettura e alla letteratura, come pure dell’educazione alla ricerca, all’indagine e all’informazione del servizio nella/della biblioteca scolastica, con sempre maggior attenzione rivolta al digitale. È dello stesso avviso Rosa Secci, ritenendo che la componente digitale, opportunamente gestita, possa amplificare le potenzialità insite in una biblioteca scolastica, ponendosi come un anello di congiunzione tra una biblioteca pubblica ed una biblioteca universitaria.5 Anche in uno dei più recenti documenti della Commissione europea, dal titolo Europa 2020 – Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, si ribadisce ancora una volta il legame tra processi d’istruzione, apprendimento, alfabetizzazione, formazione e processi d’acquisizione di competenze informatiche e digitali, evidenziato in tutti i documenti internazionali dell’IFLA.6 Per Rosa Secci l’educazione, nella sua più ampia accezione, deve porre al centro nuovi modelli di interazione didattica che utilizzino la tecnologia, realizzando un’azione culturale e di sistema incentrata sul rinnovamento complessivo della scuola, come “spazio aperto per l'apprendimento”. Ed è proprio il rinnovato modello di scuola, sempre più aperta ed inclusiva, ad avvalersi in modo determinante delle tecnologie informatiche. Credo sia necessario, a questo punto, riflettendo sul ruolo della biblioteca del terzo millennio, distinguere con maggiore chiarezza il mezzo, ossia l’utilizzo del digitale, dal contenuto, l’acquisizione

5 Si fa riferimento, ad esempio, al progetto Bib Up, realizzato in collaborazione con le scuole e l’Università La Sapienza di Roma. 6 La cittadinanza digitale è, nei vari documenti dell’UE, l’esito dell’insieme di requisiti-abilità-competenze di ciascun cittadino europeo che, a partire dall’età scolare, voglia/possa, ossia sia debitamente formato a tenere il passo con le trasformazioni continue del nostro tempo e dei suoi media. Risulta, così, evidente il riconoscimento attribuito a Internet e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, quali strumenti di innovazione e di facilitazione della diffusione della conoscenza e dell’informazione.

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dell’informazione in modo duraturo, ossia la conoscenza. Le tecnologie informatiche, come si è detto, contribuiscono al processo di diffusione in termini di tempo e spazio, ma la loro natura ubiquitaria non consente una lettura più approfondita della notizia, in termini di ripensamento critico e di rielaborazione personale. In altri termini una sicura competenza e alfabetizzazione informatica non è sufficiente a garantire una salda padronanza dell’informazione. Non vogliamo addentrarci nella questione complessa in merito alla cultura digitale o al primato dell’e-book sul libro cartaceo. Ritengo, tuttavia, in considerazione del ruolo formativo della biblioteca scolastica, fra i compiti prioritari della biblioteca scolastica, quello di promuovere l’Information literacy, quale strategia per insegnare l’accesso alle informazioni e alla corretta gestione di esse da parte degli utenti, attraverso attività finalizzate alla ricerca, al recupero e all’uso delle informazioni. La biblioteca da luogo virtuale può diventare ambiente formativo perché in grado di realizzare una learning library, in cui l'informazione non è solo al centro dell’attività di insegnamento, ma diventa anche occasione di condivisione e scambio delle informazioni e delle conoscenze. Non si tratta di un processo semplice: si tratta di accogliere la dimensione enciclopedica dei saperi digitali, per renderli facilmente fruibili, superando l’idea di biblioteca quale luogo di conoscenze elitarie, ma al tempo stesso evitando la dispersione delle informazioni. Il rischio della disorientante diffusione di notizie, di dati non organizzati, genera saperi frammentari. Non possiamo non fare riferimento, al riguardo, ribadendo la necessità di porre l’attenzione sui contenuti digitali piuttosto che sulla possibilità e modalità di acquisirli con immediatezza, al saggio di Gino Roncaglia, L’età della frammentazione. Cultura del libro e scuola digitale (Laterza, Roma-Bari 2018). Uno dei limiti delle risorse digitali è indubbiamente la frammen- tazione dell’informazione, recepita come breve e “granulare”. Tale caratteristica non promuove certo, negli alunni, la capacità di acquisire ed elaborare informazioni strutturate o complesse ma porta solo ad una accumulazione di un complesso di dati sintetici. È tuttavia erroneo ritenere, secondo Roncaglia, che la cultura digitale sia per sua natura granulare. “La prevalenza di risorse informative brevi, granulari e frammentate non rappresenta una caratteristica essenziale

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dell’ecosistema digitale, ma una caratteristica contingente di una sua fase evolutiva.”7 Lo stesso Roncaglia precisa che “la granularizzazione e la frammen- tazione dei contenuti sono le conseguenze inevitabili dell’information overload… la granularità del mondo digitale è rappresentata dalla facilità con la quale l’informazione digitale può essere articolata e scomposta.”8 La rete è paragonabile per certi aspetti, a una sorta di immensa biblioteca. Le biblioteche tradizionali, però, raccolgono risorse abbastanza uniformi per tipologia, catalogabili in maniera razionale e affidabile. Le biblioteche virtuali, pur disponendo di strumenti, presenti in rete, di ricerca e scoperta (i cosiddetti discovery tools) più esaustivi e veloci rispetto alla consultazione di un catalogo tradizionale, si scontrano, però, con un’informazione più varia ed eterogenea, non solo testuale, non tutta accessibile, e soprattutto frammentata e poco organizzata. La sfida del web semantico, sostiene sempre Roncaglia, è connessa al miglioramento dei sistemi di categorizzazione delle informazioni, delle vere e proprie ‘ontologie’ di contenuti, per superare la frammentazione delle conoscenze e costruire una rete di risorse più strutturate e complesse.

7 G. Roncaglia, cit., p.14. 8 G. Roncaglia, ibidem. Nel suo testo l’autore con un’analogia po’ ardita paragona la prima fase della rete (più o meno fra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90) all’età dei cacciatori-raccoglitori: tribù ancora relativamente piccole di utenti si collegavano alla rete via modem, per brevi periodi di tempo, per raccogliere in maniera abbastanza causale le (poche) informazioni disponibili e portarle sul proprio computer. Continuando a usare la stessa analogia Roncaglia individua nella metà degli anni ’90 e l’inizio del XXI secolo l’epoca dei primi insediamenti urbani e dell’agricoltura informativa. La costruzione dei primi ‘siti’ proprio come i primitivi insediamenti urbani erano fatti prevalentemente da edifici a bassa complessità verticale, collegati fra loro da una miriade di scale e stradine (forse non è da ritenersi causale che uno dei primi strumenti per costruire siti web personali si chiamasse Geocities). Con il web 2.0, poi, sempre secondo l’autore, si passa all’artigianato e al commercio. La realtà digitale che oggi viviamo è l’età del cosiddetto user generated content in cui l’informazione comincia a viaggiare sia da sito a sito che sui social network, attraverso i feed, sia accompagnandoci nei nostri spostamenti quotidiani, attraverso smartphone e dispositivi mobili. E’ auspicabile per Roncaglia, quindi, inaugurare l’epoca delle cattedrali, ossia dell’informazione verticalmente complessa e strutturata.

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Obiettivo della biblioteca del terzo millennio è quello di fare della ricerca in rete uno strumento educativo e didattico per costruire, parafrasando un’espressione di Roncaglia, le “cattedrali dell’infor- mazione”, intese come flussi di conoscenza digitale complessa ed elevata, ossia approfondita. Se la finalità delle biblioteche scolastiche innovative è quella di affrontare le modalità con cui veicolare e accostarsi all’informazione digitale, diventa necessaria per arginare il rischio della disorientante dispersione di notizie e dati non organizzati la presenza di una guida, ossia quella di una figura appositamente formata: il bibliotecario scolastico. Il compito del bibliotecario scolastico, indicato in tutti i documenti dell’IFLA, è quello di favorire la crescita personale, sociale e culturale degli allievi, promuovendo la capacità di acquisire informazioni, apprendere e leggere attraverso i supporti tradizionali e digitali. Il bibliotecario scolastico diventa così operatore e mediatore di contenuti didattici, in un ambiente complesso come la biblioteca, in quanto spazio reale e virtuale nello stesso tempo. Egli sa conciliare le abilità documentarie con quelle progettuali, dimostrandosi capace di intervenire in modo trasversale e di integrare gli insegnamenti disciplinari, con l’uso esperto dell’informazione. Tra le numerose qualifiche del bibliotecario scolastico, definite nelle IFLA School Library Guidelines, accanto alle competenze di tipo gestionale, biblioteconomico, educativo, metodologico, didattico (in aggiunta alla conoscenza della letteratura per bambini, ragazzi e giovani adulti e delle disabilità relative alla lettura), sono esplicitamente menzionati , infatti, i compiti di alfabetizzazione all’uso dell'informazione e del digitale, strettamente connessi alla responsabilità etica e sociale del loro impiego (ivi, p. 26). Il ruolo del bibliotecario scolastico, così, esercitando una mediazione tra la lettura, gli strumenti per accedervi e i lettori, non si esaurisce solo nei compiti gestionali e organizzativi delle risorse di una biblioteca. Egli si occupa, dunque, non solo del funzionamento di una biblioteca ma si impegna a rendere fruibili e accessibili agli utenti tutte le potenzialità che una biblioteca scolastica può offrire. Molteplici sono le possibilità insite in una biblioteca scolastica quale ambiente d’apprendimento ma la pratica della lettura resterà sempre

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l’aspetto più pregnante. In tutte le stesure delle Guidelines dell’IFLA viene costantemente promossa la lettura declinata in tutte le sue forme: letteraria e d’intrattenimento, di divulgazione e scientifiche, di quotidiani e periodici, su supporto tradizionale e digitale.9 La lettura è una competenza trasversale in grado di creare un vero e proprio ecosistema di lettura “fondamentale per la formazione integrale della persona ed è funzionale a ogni altro apprendimento”, come si legge non solo nel documento IFLA. Anche fra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile l’importanza educativa della biblioteca scolastica viene sottolineata con evidenza, sia come educazione alla lettura che come educazione alla ricerca, all’indagine e all’informazione. Secondo quanto scrive Donatella Lombello, nel suo articolo Funzione educativa della biblioteca scolastica digitale (in “Bricks”, numero speciale: Azione@28 Animatori Digitali), predisporre l’ambiente- biblioteca per la lettura, nell’era di Internet, significa adottare modalità che favoriscano, tra gli allievi, forme di collaborazione interpretativa dei testi narrativi, nei tempi distesi imposti dalla stessa fruizione letteraria, tali da permettere ai giovani lettori di intrecciare i propri “spazi bianchi” (legati al proprio immaginario, al proprio universo interiore) con le righe scritte dall’autore, come direbbe Umberto Eco (cfr, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi).10 Roncaglia, nel suo saggio L’età della frammentazione dedica un capitolo alla realtà aumentata, alla possibilità da parte del lettore, attraverso il digitale, di intervenire attivamente sul testo narrativo, ricreandone le vicende e diventandone co-autore. Il progetto Living Book fornisce strategie e strumenti online per allargare l’esperienza di lettura, collegando il libro che viene letto, sia esso su carta o digitale, con contenuti prodotti o reperiti online. Si tratta, secondo Roncaglia di percorrere la strada della promozione digitale della lettura, ossia l’integrazione fra la pratica della lettura e la

9 Vd. Donatella Lombello, Funzione educativa della bilioteca scolastica digitale, in “Bricks”, numero speciale: Azione@28 PNSD Animatori Digitali, n. 3, agosto 2018, p. 67, testo leggibile in rete all’indirizzo: www.rivistabricks.it/wp-content/uploads/2018/08/2018_3_11_Lombello.pdf 10 Cfr. D. Lombello, cit., p. 69.

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produzione e l’uso dei contenuti informativi digitali per favorire la crescita della motivazione e dell’interesse verso la lettura, attraverso il coinvolgimento attivo del lettore.11 La lettura aumentata, dunque, è un allargamento dell’orizzonte di fruizione e reinterpretazione personale di un testo (si pensi ad esempio alla possibilità di cercare in rete, mentre si legge, un luogo descritto nel libro; la possibilità di produrre animazioni correlate al testo letto). È anche noto quanto, dal punto di vista educativo-didattico, sia efficace, ad esempio, l’uso di audiolibri o di libri elettronici potenziati (enhanced e-book) per quegli allievi che debbano confermare abilità strumentali, grazie alla simultaneità possibile dell’ascolto del testo e della sua lettura. Facciamo menzione, inoltre, perché rispondenti strettamente a finalità didattica, di una piattaforma di lettura e annotazione online come Livermargin-SocialBook e della piattaforma LightSail, ideata proprio per la promozione della lettura nel contesto scolastico. Quest’ultima, infatti, dispone di strumenti per la creazione di classi e gruppi di lettura e per la valutazione legata a test. Va comunque rilevato che se il “nativo digitale” si lascia entusiasmare dall’utilizzo degli strumenti digitali, può rischiare di seguire il “ritmo etero-trainato della lettura a video, rispetto a quello autotrainato, della lettura tipografica”.12 Secondo Donatella Lombello “al tempo del digitale, dunque, la biblioteca scolastica rappresenta, per l’apprendimento, l’informazione e l’indagine, lo spazio educativo in cui sono offerte risorse, materiali e immateriali, e adeguate metodologie per permettere agli allievi di

11 G. Roncaglia, ibidem. L’autore nel rapporto fra ecosistema digitale e lettura individua due prospettive diverse: la promozione della lettura digitale (nella convinzione l’universo comunicativo delle nuove generazioni è solo l’ambiente digitale) che favorisce il settore dell’editoria elettronica e la promozione digitale della lettura che considera il digitale come l’ambiente comunicativo che avvicina contenuti e lettori. 12 Vd. le osservazioni sulla concezione moderna della lettura, creata dalla diffusione della cultura digitale, in Raffaele Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012, pp. 120-125.

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esercitare il “pensiero paradigmatico”,13 di conquistare la curiosità per la conoscenza e l’informazione, di formarsi il gusto per la ricerca, da esercitare poi lungo tutto l’arco della vita.” Non va, comunque, dimenticato, come sostiene Margaret Merga che “la lettura digitale ha il potenziale per trasformare una esperienza di lettura “immersiva”, nella quale gli studenti sono completamente focalizzati sul compito di leggere, in una attività interattiva”.14 È necessario sempre prestare attenzione alle conseguenze che la lettura interattiva in termini cognitivi e di esperienza ermeneutica della comprensione dei testi può apportare. Le pratiche e gli strumenti in grado di “aumentare” l’esperienza di lettura devono essere concepiti in funzione della lettura e non viceversa. La biblioteca scolastica deve restare l’ambiente privilegiato per la lettura, intesa come “l’immersione nelle storie, l’immedesimazione nei sentimenti dei personaggi e nelle emozioni evocate nelle loro vicende. La frequentazione di trame narrative permette, infatti, agli allievi un’altra forma di conoscenza: quella riferita alla soggettività, all’interiorità, al “pensiero narrativo” (per dirla con Bruner), ai modi spesso complessi, contrastanti, o conflittuali del sentire e dell’agire umano, dei quali la letteratura offre così ricca e significativa esperienza vicariale.”15 La biblioteca del terzo millennio si prospetta, quindi, come un ambiente d’apprendimento versatile, accessibile, flessibile e aggregante. La dimensione di flessibilità è data dall’adeguabilità della biblioteca scolastica a modelli paradigmatici e strumenti di conoscenza, adottati dalla scuola nella trasmissione dei saperi, come l’apertura alla cultura digitale. L’accessibilità della biblioteca scolastica va intesa sotto due aspetti: la fruizione, facilitata dalla presenza del bibliotecario scolastico o dal docente bibliotecario, delle risorse librarie e digitali, che rende l’Information literacy una vera e propria opportunità di ricerca, e l’organizzazione degli spazi. L’architetto Alfredo Giovanni Broletti,

13 VD. Jerome Bruner, La mente a più dimensioni, trad. di R. Rini e M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 20133. 14 In G. Roncaglia, cit., p. 117. 15 D. Lombello, ibidem.

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dottore di ricerca in Scienze Bibliografiche, nel suo articolo L’allestimento dello spazio della biblioteca16 ritiene che nella proget- tazione di una biblioteca si debba tenere presente, fra le esigenze prioritarie, quella di un uso flessibile e molteplice dell’ambiente, in grado di offrire una struttura fisica e virtuale, aperta a recepire aggiornamenti mediatici e rinnovare le collezioni, modificandosi in modo dinamico e adattandosi alla domanda dell’utenza. Sempre Broletti evidenzia come negli ultimi anni la dottrina biblioteconomica abbia guardato con attenzione alla qualità degli spazi, non solo nella creazione di ambienti e di studio confortevoli ma anche nella scelta degli arredi capaci di favorire il benessere, sia nelle aree tradizionali della biblioteca sia in quelle destinate alla comunicazione. Si tratta, dunque, di predisporre locali in grado di offrire sia un momento privilegiato di incontro con il testo che momenti di socializzazione (si pensi ad esempio ai salottini, le lounges, le aree per eventi e di aggregazione). L’apprendimento, per applicare i canoni sopra esposti alla biblioteca scolastica, deve poter avvenire in condizioni differenti per ciascun lettore, nel silenzio assoluto per incontrare e interiorizzare un testo, in uno spazio che consenta la discussione, la socializzazione, l’aggre- gazione (pensiamo ai gruppi di lettura), in un luogo che, tramite apposite postazioni (isole multimediali), permetta e faciliti la navigabilità dell’informazione. Altro elemento importante, oltre le attrezzature informatiche (da una adeguata e veloce connessione a strumenti e programmi digitali aggiornati) è l’elemento cromatico che crea un forte impatto visivo ed emotivo sull’ambiente biblioteca. L’attenzione alla cura dell’ambiente biblioteca, dunque, riveste e ha rivestito a partire dagli anni Settanta un aspetto peculiare nella fisionomia di una biblioteca, specie se scolastica. Harry Faulkner-Brown, nel suo famoso “decalogo” sui criteri progettuali dell’ambiente biblioteca (risalente alla fine degli anni

16 Alfredo Giovanni Broletti, L’allestimento dello spazio della biblioteca, in “Biblioteche oggi”, vol. 33 n. 3, aprile 2015, pp. 9-17, testo leggibile in rete all’indirizzo: www.bibliotecheoggi.it › rivista › article › download

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Settanta e perciò fuori orizzonte del digitale),17 evidenzia, fra i diversi requisiti, la costruzione di una struttura flessibile, accessibile, organizzata, confortevole e sicura. A tali caratteristiche potremmo aggiungere la sostenibilità, la molteplicità e soprattutto l’attenzione al benessere del lettore, ottenuto attraverso l’attenzione a tutti gli elementi (dall’illuminazione alla comodità degli arredi) che contribuiscono a fare della lettura un appuntamento, un incontro personale o condiviso piacevole e confortevole. Nel bando dell’Azione#24, allegato 1, si parla di biblioteche scolastiche “da concepire come spazi aperti e flessibili, adatti a una fruizione sia individuale sia di gruppo, in cui sia possibile lavorare in maniera libera e funzionale, tanto con risorse informative tradizionali, a partire dai libri, quanto con risorse informative digitali, sia attraverso postazioni in loco sia attraverso i dispositivi personali degli utenti”. Roncaglia evidenzia, infatti, il forte impulso che viene dato nel bando, di fatto una sorta di guida contenente le linee programmatiche della progettazione delle biblioteche scolastiche del terzo millennio, alla dimensione fisica e funzionale degli ambienti di apprendimento e di lettura. Al riguardo, sempre Roncaglia suggerisce di coinvolgere, quando possibile, gli stessi studenti nelle attività di co-progettazione degli spazi interni, come alcune soluzioni d’arredo o scelte cromatiche. Punto nodale della biblioteca scolastica, in tutti gli aspetti finora presi in considerazione, è quello della comunicazione: da canali unidirezionali in grado di fornire informazioni senza alcuna possibilità di interazione, favorendo una lettura immersiva, a canali che privilegiano la dimensione interattiva, di ipermedialità e di connettività della lettura. Da spazi che favoriscono, quindi, la dimensione solipsistica della lettura ad ambienti ideati per l’incontro e la condivisione. Se nell’ultima edizione (2015) dell' IFLA School Library Guidelines il riferimento all’utilizzo di Internet e alla Rete si fa ricorrente, essendo la biblioteca definita spazio informativo che “fornisce un accesso equo e aperto a fonti di informazione di qualità su tutti i media”, è altresì posto

17 Citato in Maurizio Vivarelli – Arianna Ascenzi, Lo spazio della biblioteca: una introduzione bibliografica, in “Biblioteche oggi”, vol. 31 n. 9, novembre 2013, p. 8, testo leggibile in rete all’indirizzo: www.bibliotecheoggi.it › rivista › article › download

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l’accento sulla biblioteca come centro di alfabetizzazione “in cui la comunità scolastica promuove lo sviluppo della lettura e dell'alfabe- tizzazione in tutte le sue forme [...], centro per la cittadinanza digitale in cui la comunità di apprendimento impara a utilizzare gli strumenti digitali in modo appropriato, etico e sicuro”. Anche se la biblioteca scolastica innovativa individua l’utilizzo appropriato, consapevole e critico della strumentazione digitale fra gli obiettivi prioritari, la finalità educativa e formativa è quella di promuovere la crescita democratica e il conseguimento di una cittadinanza responsabile. Si profila, quindi, un altro aspetto importante, quello che prevede un apprendimento cooperativo, fatto di scambio e di interazione: i gruppi di lettura sia nella loro dimensione sociale che in quella di accompa- gnamento della realtà aumentata. La biblioteca come spazio sociale e di socializzazione non può prescindere dai gruppi di lettura. “Il gruppo di lettura si trasforma in un possibile strumento di arricchimento dell’esperienza di lettura.”18 Roncaglia osserva come un gruppo di lettura, in modo particolare nel contesto scolastico, riesca a superare i limiti del gruppo classe, quale gruppo “imposto”, dando vita alla costituzione di una comunità che condivide lo stesso interesse per la lettura. I gruppi di lettura possono conoscere la dimensione del “circolo letterario”, conoscere la dimensione virtuale (forum, blog, piattaforme di lettori), discutere le strutture narrative di un’opera o presentare il libro letto con un booktrailer o con una graphic novel. Le modalità sono sicuramente molteplici e devono rispondere alle caratteristiche e alle esigenze dei giovani utenti; peculiare è che si crei, in ambito scolastico, “una comunità trasversale dedicata all’esplorazione collaborativa di un testo e all’insieme di relazioni (sia intertestuali che interpersonali) che possono svilupparsi intorno al testo e alla lettura”.19 Sempre nel PNSD, riguardo ai Contenuti Digitali leggiamo, infatti, che la scuola non solo deve ricercare la qualità dei materiali didattici digitali ma deve promuovere la produzione collaborativa e la condi- visione di contenuti.

18 G. Roncaglia, ibidem. 19 G. Roncaglia, ibidem.

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La biblioteca del terzo millennio continua a configurarsi nella dimensione laboratoriale, in grado di prevedere percorsi formativi diversificati, esperienze motivanti d’apprendimento e condivisibili. L’orientamento didattico dell’imparare a imparare contestualizzato nella biblioteca del terzo millennio crea un ambiente culturale ed educativo ispirato ai principi di interattività, ipermedialità e connettività. Come afferma Eco, “In Internet non siamo in grado di selezionare…Abbiamo bisogno di una nuova forma di competenza critica…serve una nuova forma di educazione”. La biblioteca non è solo il luogo in cui “cercare il sapere” ma diventa l’ambiente fisico e virtuale in cui si rende necessario “saper cercare”.20 È proprio attraverso le biblioteche che le scuole potranno tornare ad essere centri di formazione permanente e luoghi di crescita culturale. Donatella Solda nel suo intervento al seminario del 12 dicembre 2018 al MIUR, facendo riferimento alla portata dell'azione #24 del PNSD, ha sostenuto che le biblioteche scolastiche, nel loro dover essere innovative, si configurano come i think tank del futuro, veri e propri “serbatoi di pensiero”. La lettura, prescindendo da tutte le osservazioni finora esposte, resta la connotazione che definisce l’impegno di una biblioteca scolastica. Promuovere la lettura è un’operazione complessa, soprattutto nella biblioteca del terzo millennio. È complessa perché gli scenari educativi e didattici sono dinamici, alla ricerca di linee guida che troppo velocemente si traducono in riforme scolastiche senza essere ancorate saldamente a un progetto formativo di ampio respiro. Risulta complessa perché il problema della gestione delle fonti, nell’era del digitale, produce saperi granulari e risulta ancora lontana dai saperi strutturati in modo “verticale”, ossia dalle “cattedrali dell’informazioni”, di cui parla Roncaglia. È complessa perché la molteplicità delle possibilità di interazione con il testo, dalla lettura immersiva a quella interattiva, dai gruppi di lettura ai forum di lettura, offre svariate possibilità di

20 Questa la conclusione del testo di Antonio d’Itollo, Modulo 2. La ricerca nella didattica e la didattica della ricerca, Insegnamento di pedagogia dei contesti formativi extrascolastici, Università degli Studi di Foggia, Facoltà di Lettere, a. a. 2007-2008, p. 18, testo leggibile in rete all’indirizzo: http://oldsite.scienzeformazione.unifg.it/dwn/dispense/FOGGIA%201.pdf

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accostarsi alle informazioni, siano esse scientifiche o narrative. È complessa perché le esigenze degli alunni non sono univoche: se da una parte cercano un rapporto profondo con il testo, una pagina da continuare a far vivere, attraverso la capacità immaginifica di narrarsi storie, desiderano altresì vedere che una storia prende vita mentre scorre velocemente su supporti digitali non diversamente da un qualsiasi videogioco. È complessa perché la lettura deve avvenire in ambienti polifunzionali capaci di offrire uno spazio accogliente in cui isolarsi con e nel testo o di fornire un ambiente aggregante, un luogo di incontro. La complessità è anche ricchezza di opportunità, possibilità di restituire alla biblioteca scolastica un ruolo spesso, negli ultimi anni, affidato ad altre strutture o altri momenti della didattica. La lettura è ancora relegata alle attività svolte in classe, ad opera, solitamente, dell’insegnante d’italiano e la stessa lettura poche volte figura come competenza trasversale fra le finalità del Piano Triennale dell’Offerta Formativa. A volte non compare neppure nelle program- mazioni del Dipartimento di Lettere, se non per fare riferimento alla destrutturazione di un testo, come obiettivo da raggiungere nel biennio. Per superare una tale e anacronistica limitazione è stata prevista un’apposita area di indagine riflessiva sulla biblioteca scolastica nel RAV, documento che le scuole debbono redigere, al fine di riqualificare uno spazio privilegiato di accesso al sapere, proprio come la biblioteca scolastica. La rinnovata valorizzazione della biblioteca scolastica è divenuta, fin dal 2014, motivo di intesa tra MIUR e MIBACT (Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo) con un apposito protocollo. Tra i vari intenti comuni figura la volontà di rilanciare il sistema delle biblioteche scolastiche attraverso interventi di sostegno alle strutture e azioni di formazione di specifiche professionalità, con particolare riferimento alle realtà sociali più disagiate, favorendo l'adesione del sistema scolastico nazionale al Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN). Nel piano dell’Azione#24 uno degli aspetti innovativi è dato dalla creazione di una rete di informazioni che, attraverso piattaforme di catalogazione e condivisione di dati, opera interazioni con le biblioteche di zona e le biblioteche universitarie. La lettura, quindi, può davvero ampliare i suoi confini, superare le naturali limitazioni insite nelle dotazioni librarie scolastiche, non sempre, a causa della mancanza di

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finanziamenti, aggiornate o complete. Come è stato più volte ribadito, la possibilità di disporre di un patrimonio smisurato di informazioni può creare disorientamento se manca la figura di un mediatore, di un docente bibliotecario in grado di sollecitare domande di senso. Altro aspetto della biblioteca scolastica innovativa è l’apertura al territorio: affiancare le biblioteche di quartiere nella promozione e diffusione della cultura nel proprio territorio e al tempo stesso proporsi come tramite con le biblioteche universitarie. Concludendo, in ultima analisi, è la concezione di spazio della biblioteca scolastica che è cambiato e che è in via di trasformazione, sia che per spazio si intenda un laboratorio dinamico d’apprendimento, un gruppo di lettura, un luogo di informazione e formazione che interagisce con le agenzie culturali e con il territorio, sia che si intenda un rinnovato concetto flessibile, versatile, poliedrico della biblioteca scolastica, accogliente e confortevole. Come distinguere allora in modo più connotativo la biblioteca scolastica dalle altre biblioteche? Non dovrebbero certo essere le ovvie limitazioni (ristretta dotazione libraria, la ridotta apertura pomeridiana, ristrettezza degli ambienti, mancanza di personale bibliotecario etc…), ma al contrario la ricchezza formativa ed educativa che solo una biblioteca nata nella scuola e per la scuola può avere. La biblioteca scolastica può ritrovare e valorizzare la sua funzione, divenendo operativa e costruttiva per la crescita culturale e personale degli alunni, solo se entra in aula, se diventa parte integrante e a sua volta è integrata dalle programmazioni e dalle altre iniziative didattiche. Ancora una volta la biblioteca scolastica è chiamata a rispondere a un paradigma didattico quello della ricerca-azione: trasmettere saperi facendo ricerca, in un laboratorio d’apprendimento privilegiato, perché fortemente proattivo, quale la biblioteca scolastica. Al tempo stesso, tuttavia, la biblioteca scolastica non può configurarsi solo come aula multimediale di studio, ricerca, condivisione e formazione personale, ma deve anche poter caratterizzare l’identità della propria scuola d’appartenenza, essere un luogo di testimonianza della storia e della tradizione dell’istituto stesso. Lo stesso patrimonio librario, per l'importante ruolo di promozione culturale che ha rivestito e che riveste, mentre necessita di essere preservato, attraverso le risorse digitali, quale strumento prezioso per la salvaguardia di quel patrimonio (si pensi a cataloghi e testi

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digitalizzati), diventa esso stesso la più preziosa testimonianza della scuola, quale luogo di studium, di profondo amore verso la lettura.21

Bibliografia Si forniscono di seguito alcuni titoli utili per un approfondimento delle tematiche trattate. Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (2017) Derrick De Kerckhove, La rete ci renderà stupidi? (2016) Michel Serres, Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2013) Marc Prensky, La mente aumentata. Dai nativi digitali alla saggezza digitale (2013) Andrew Piper, Il libro era lì. La lettura nell’era digitale (2013) Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (2013) Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi (2013) Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello (2011) Adolfo Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0 (2015) Francesco Pira – Vincenzo Marrali, Infanzia, media e nuove tecnologie. Stru- menti, paure e certezze (2007) Andrea Nardi, Lettura digitale vs lettura tradizionale: implicazioni cognitive e stato della ricerca (2015)

Anna Paola Bottoni

21 L’essere le biblioteche un luogo privilegiato di memoria e di cultura è divenuto motivo di cooperazione istituzionale, con un apposito protocollo d’intesa stipulato tra MIUR e MIBACT (Ministero Beni e Attività Culturali e Turismo) fin dal 2014.

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STEFANIA ZAMBARDINO

Bilanci in ‘rete’

Tre anni fa sono stata designata Animatrice digitale del mio Liceo, un titolo solo onorifico per la Scuola, ma ancora oggi poco compreso e apprezzato dall’intera comunità educativa. Mi è stato richiesto di frequentare infinite ore di aggiornamento, tolte anche ad ore scolastiche, che non mi hanno lasciato nulla; spesso sono stati solo i project work che ho svolto, a mo’ di cavia, a riempire e arricchire piattaforme PNSD, prive, o quasi, di risorse didattiche. Nella legge 107 le competenze digitali sono diventate le regine e gli Animatori digitali gli alfieri del feudale organigramma scolastico, innovatori, esperti, leader con una serie di mansioni che neanche un CEO di Microsoft, Apple o Google sarebbero all’altezza di svolgere. Ma ritorniamo alle competenze digitali che io ho acquisito grazie ad una grande passione e con certificazioni, Mooc e corsi che ho seguito a mie spese e senza sottrarre ore all’insegnamento; è arrivato il tempo di fare bilanci, non su statistiche internazionali, ma nazionali. Che ricadute hanno avuto nella didattica tradizionale, l’uso in classe di tablet, la partecipazione a classi virtuali e social come Google Classroom, Edmodo e mille altre? La classe capovolta, ops Flipped classroom ha realmente sgominato la lezione frontale? La tecnologia ha arricchito il concetto di cultura intesa come ricerca, studio e collaborazione? Io sono anche una formatrice e ho tenuto decine di corsi sulle tecnologie didattiche ai miei e alle mie colleghe; ho illustrato, spiegato e proposto programmi, app per Ipad e tablet, tool su classi virtuali, strumenti digitali, social, coding, cloud, video editing, potenzialità di Google education, privacy, sicurezza in internet, motori di ricerca, eppure tutto questo, ho riscontrato, può accelerare e migliorare la nostra ricerca, può rendere più accattivante la veste grafica dei nostri progetti, può alleggerire le nostre compilazioni, può costruire nuove forme di comunicazione con le nostre studentesse e i nostri

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studenti, ma non può competere con l’impatto che hanno le nostre parole, la nostra voce, il nostro sapere, la nostra capacità di cogliere, osservare, valutare, la nostra vitalità di trasmissione e di coinvolgimento. È bello, quando si studia, lavorare con le immagini, con le foto, con i video, è divertente rispondere ad un quiz che, in tempo reale, ti dà già il risultato, è utile inviare un saggio su google drive e vedere le correzioni del docente con note e inviti a modificare il testo in condivisione, ma la lettura, la scrittura, lo studio, il ragionamento sono ineliminabili e insostituibili; non c’è competenza senza conoscenza, non c’è cultura senza studio e non c’è studio senza lettura e potrei andare avanti. Apparirò contraddittoria, ma ho sempre preferito la contraddi- zione al falso rigore della coerenza, credo che la comunità scolastica sia l’unica a poter far fronte all’aRmata innovazione, non cedendo come i consumatori sotto i colpi della pubblicità, ma rivendicando l’originalità e insostituibilità della propria forza culturale e sociale. Insegnando l’amore per i libri e per gli ebook, consultiamo le biblioteche e le medialibrary, esploriamo gli archivi e i repository, interroghiamo i vocabolari e i motori di ricerca, ma non smettiamo mai di studiare.

Stefania Zambardino

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ANNA MARIA ROBUSTELLI1

Arrivano ancora i nostri

Non è forse bella questa mia ascia?

La taglio, la incido, ne splendo.

Quest’ascia è contenta di esistere.

Io sono l’ascia, io sto fabbricando me stesso.

Noi due siamo una cosa.

(Algonkin Blackfeet)

Quando eravamo bambini ci piaceva vedere film western, ci piaceva pure giocare agli indiani, ma stavamo dalla parte dei pellirossa, non dei bianchi. I bambini sono attratti da chi viene trattato male e perde la propria terra? Forse sì, perché essere bambini è una condizione di fragilità. Le vittime appaiono spesso più interessanti dei conquistatori ed è forse più facile immedesimarsi in loro. Immaginare di vivere in ampi spazi verdi, o vicini a montagne a volte riarse come quelle della Monument Valley, immortalate dai film di John Ford, o lungo fiumi spettacolari e terribili come il Colorado. Decorarsi con delle piume, dormire nei tepee, andare a cavallo senza sella, ballare per richiamare la pioggia o per annunciare la guerra: tutti noi che apparteniamo a una certa generazione abbiamo subito il fascino di questi aspetti della vita dei Native Americans dopo averli visti nei film western americani.

1 Per alcune espressioni della traduzione sono grata a Giselda Mantegazza, che fa parte del mio stesso Laboratorio di traduzione di Monteverdelegge a Roma.

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Certo, mutuavamo una mitologia approssimativa da quegli indiani visti dai conquistatori, ma è indubbio che eravamo affascinati da una vita diversa dalla nostra, a contatto della natura, più libera e essenziale. Crescendo, abbiamo visto avvicendarsi western dalla parte degli indiani:

Soldato blu (Soldier Blue), 1970;

Piccolo grande uomo (Little Big Man), 1970;

Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse), 1970;

Uomo bianco va’ col tuo Dio (Man in the Wilderness), 1971;

Balla coi lupi (Dances with Wolves), 1990.

Nel Vietnam infuriava una guerra voluta dagli Stati Uniti, movimenti di ribellione infuocavano le piazze di mezzo mondo, il Sessantotto spargeva i suoi germi anarchici in tutto il pianeta. Alla fine, era rimasta una grande nostalgia di una realtà naturale che era stata sistematicamente distrutta dall’avidità e dalla ristrettezza mentale dell’uomo bianco. Negli anni di quella rivoluzione soprattutto giovanile c’è stata in Italia una fioritura di libri sui nativi americani. Vorrei ricordare per tutti l’antologia Parole nel sangue poesia indiana contemporanea, curata da Franco Meli che, pur se apparsa nel 1991 per gli Oscar Mondadori, faceva il punto nella sua introduzione su parecchi poeti che avevano scritto in quel periodo di rivolgimenti sociali e politici e che godeva anche di una prefazione di R. Mussapi. A distanza di tempo, è interessante notare che l’appartenenza a una nazione, a uno stile di vita, a un rapporto spirituale con il mondo degli antenati, è ancora rivendicato fieramente da poeti nativi americani. Tra questi la poetessa Mohave Natalie Diaz di cui vorrei attirare l’attenzione su una poesia particolarmente significativa per dimostrare che si può vincere non solo in battaglia, ma in tanti altri modi, anche quando il decadimento sembra aver sparso i suoi semi nefasti nel profondo di una cultura.

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Natalie Diaz è una poetessa americana Mohave, nata a Needles in California sul confine tra California, Arizona e Nevada. È stata una giocatrice di basket professionista per anni. Ha studiato all’Old Dominion University e ora insegna all’Arizona State University. Fa parte della Gila Indian Community e, tra le varie sue attività, si occupa di dare nuova vita alla lingua Mohave a Fort Mohave, lavorando con gli ultimi anziani che la parlano.

Opere

• When My Brother Was an Aztec, Copper Canyon Press, Port Townsend, Washington, 2012.

• [IN VIA DI PUBBLICAZIONE] Post Colonial Love Poem.

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Figura 1 Natalie Diaz

L’autrice comincia la poesia, che alla fine riportiamo, rivolgendo uno sguardo all’ambiente (il bar cadente) e menzionando il fiume Colorado, che però non è più quello di una volta - è imprigionato da dighe e il suo azzurro è addomesticato - e completa il quadro di sfacelo della prima strofa introducendo Guy No-Horse, un indiano ubriaco e infatuato di due turiste bianche, che a loro volta sono marcate da un’abbronzatura che ha rovinato loro la pelle, quindi connotate negativamente, perché non in armonia con l’ambiente circostante con cui non hanno familiarità.

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È una serata in cui tutti vogliono divertirsi e dimenticare e Guy balla sulla sedia a rotelle (infatti non ha le gambe), preso dalle ragazze. Nel frattempo si forma un cerchio intorno a loro che schiamazza, incoraggiando i tre “ballerini”. L’atmosfera è già carica quando un’orchestrina comincia a suonare brani popolari e l’indiano immagina il corpo delle ragazze e continua nel suo ballo surreale, mentre loro lo assecondano ridendo di lui fra di loro.

La descrizione dei luoghi e delle persone nella poesia è ricca di particolari realistici e accompagnata da una lingua altrettanto variegata e vivace, mai banale e stereotipata, che trasmette il degrado della scena.

Ma quello che era cominciato quasi come un abbandono irrazionale al piacere della situazione, un delirio frenetico tra fumo (delle Camel), alcool, desiderio di sesso e incoraggiamenti dalla folla, prende impercettibilmente un’altra strada. Sono le “ore del coyote”, è stato detto all’inizio della poesia, e il coyote simboleggia anche “un eroe che si ribella contro le convenzioni sociali con stratagemma ed umorismo”2. Ritornando a Guy che balla, Diaz dice:

Ma in quanto a quelle risa, No-Horse se ne sbatteva.

2 Giulia Cesarini Argiroffo in https://www.lacooltura.com/2018/09/coyote- simbologia-nativi-americani/.

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Stava sul confine della riserva dove si formavano i guerrieri in notti come queste e stasera lui era fuori, a danzare all’Injun That Could. Se avessi visto il lampo del suo sorriso, non lo spazio vuoto che trapelava dalle sue cosce, avresti potuto credere che quell’uomo stava camminando sull’acqua, o almeno che avesse ancora le gambe.

C’è un lampo nel sorriso di Guy che lo fa “volare” in una dimensione trasfigurata. È come se lui si riconnettesse a qualcosa di grande e onorevole che non è mai morto, conoscendo un momento di gloria, di vera dignità umana. Guy prova persino pietà per le due ragazze ubriache, ma in quel momento sente galoppare una cavalleria nelle sue vene – è un momento di appagamento; nella sua gioia lui è andato lontano - e così finisce la poesia.

The Gospel of Guy No-Horse

At the Injun That Could3, a jalopy bar drooping and lopsided on the bank of the Colorado River a once mighty red body now dammed and tamed blue – Guy No-Horse was glistening drunk and dancing fancy with two white gals – both yellow-haired tourists still in bikini tops, freckled skins blistered pink by the savage Mohave Desert sun.

3 Injun significa Indian, ma può darsi che il nome di questo bar si riferisca ironicamente a The Little Engine That Could un libro di storie illustrate per bambini che divenne noto negli Stati Uniti dopo la sua pubblicazione da parte di Platt & Munk. La storia è usata per insegnare ai bambini il valore dell’ottimismo e del duro lavoro.

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Though the Injun, as it was known by locals, had no true dance floor – truths meant little on such a night – card tables covered in drink, ash, and melting ice had been pushed aside, shoved together to make a place for the rhythms that came easy to people in the coyote hours beyond midnight.

In the midst of Camel smoke hanging lower and thicker than a September monsoon, No-Horse rode high, his PIMC4-issued wheelchair transfigured – a magical chariot drawn by two blond, beer-clumsy palominos perfumed with coconut sunscreen and dollar- fifty

Budweisers. He was as careful as any man could be at almost 2 a.m. to avoid their sunburnt toes – in the brown light of The Injun, chips in their toenail polish glinted like diamonds.

Other Indians noticed the awkward trinity and gathered round in a dented circle, clapping, whooping, slinging obscenities from their tongues of fire: Ya-ha! Ya-ha! Jeering their dark horse,

No-Horse, toward the finish line of an obviously rigged race.

No-Horse didn’t hear their rabble, which was soon overpowered as the two men band behind the bar really got after it – a jam

4 Phoenix Indian Medical Center.

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probably about love but maybe about freedom, and definitely about him, as his fair-haired tandem, his denim-skirted pendulums kept time. The time being now –

No-Horse sucked his lips, imagined the taste of the white girls’ thrusting hips. Hey! He sang. Hey! He smiled. Hey! He spun around in the middle of a crowd of his fellow tribesmen, a sparkling centurion moving as fluid as an Indian could be at almost two in the morning, rolling back, forth, popping wheelies that tipped his big head and swung his braids like shiny lassos of lust. The two white gals looked down at him, looked back at each other, raised their plastic

Solo5 cups-runneth-over, laughing loud, hysterical at the very thought of dancing with a broken-down Indian.

But about that laughter, No-Horse didn’t give a damn.

This was an edge of rez6 where warriors were made on nights like these, with music like this, and tonight he was out, dancing at The Injun That Could. If you’d seen the lightening of his smile, not the empty space leaking from his thighs, you might have believed that man was walking on water, or at least that he had legs again.

5 Una bevanda analcolica australiana al limone prodotta da Schweppes Australia. 6 Reservation.

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And as for the white girls slurring around him like two bedraggled angels, one holding on to the handle of his wheelchair, the other spilling her drink all down the front of her shirt, well for them he was sorry, because this was not a John Wayne movie, this was The Injun That Could, and the only cavalry riding this night was in No-Horse veins. Hey! Hey! Hey! he hollered.

(da When My Brother Was an Aztec, Copper Canyon Press, 2012)

Il vangelo dell’uomo che non è cavallo

A The Injun That Could, un baretto cadente e sbilenco sulla riva del fiume Colorado – un corpo rosso potente una volta ora sbarrato da dighe e con l’azzurro addomesticato – Guy No-Horse sfavillava ubriaco e ballava perso dietro due ragazze bianche – ambedue turiste dai capelli gialli ancora coi top del bikini, pelli lentigginose con vesciche rosa per il sole del selvaggio Deserto Mohave.

Sebbene The Injun, come era conosciuto dai locali, non avesse una vera pista da ballo – le verità contavano poco quella notte – tavoli da gioco coperti di bevande, cenere, e ghiaccio in via di scioglimento erano stati messi da parte, ammassati insieme per far posto

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ai ritmi che piacevano alla gente nelle ore del coyote dopo mezzanotte.

Tra il fumo delle Camel sospeso in basso e più fitto di un monsone di settembre, No-Horse cavalcava su di giri, la sedia a rotelle del PIMC trasfigurata – un magico cocchio tirato da due bionde cavalle bruno-dorate rese goffe dalla birra e profumate di crema solare al cocco e Budweiser da poco.

Era cauto nell’evitare le dita dei loro dei piedi bruciate dal sole quanto lo può essere qualsiasi uomo intorno alle due di mattina – nella luce brunita dell’Injun, puntini nello smalto delle dita dei piedi brillavano come diamanti.

Altri indiani notarono la bizzarra trinità e si raccolsero intorno in un circolo irregolare, battendo le mani, schiamazzando, lanciando oscenità dalla loro lingua di fuoco: Ya-ha! Ya-ha! Schernendo il loro cavallo scuro,

No-Horse, verso il traguardo di una gara ovviamente truccata.

No-Horse non sentiva la calca, che fu subito soverchiata quando i due musicisti della banda dietro al bar ci diedero sotto - una jam forse sull’amore, ma può essere sulla libertà, e di certo

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su di lui, mentre il suo tandem biondo, le frange della sua gonna jeans tenevano il tempo. Il tempo che era il presente.

No-Horse si risucchiò le labbra, immaginò il sapore dei fianchi sporgenti delle ragazze bianche. Hey! Cantò. Hey! Sorrise. Hey! Si girò intorno tra la folla dei suoi compagni di tribù, un centurione sfavillante che si muoveva fluido come poteva essere un indiano alle due di mattina, girando avanti e indietro, facendo schioccare impennate che gli facevano chinare la grossa testa e oscillare le trecce come lucenti lazos di piacere. Le due ragazze bianche abbassarono gli occhi su di lui, li rialzarono guardandosi, sollevarono i loro bicchieri di plastica di Solo traboccanti, ridendo forte isteriche al solo pensiero di ballare con un indiano a pezzi.

Ma in quanto a quelle risa, No-Horse se ne sbatteva.

Stava sul confine della riserva dove si formavano i guerrieri in notti come queste e stasera lui era fuori, a ballare all’Injun That Could. Se avessi visto il lampo del suo sorriso, non lo spazio vuoto che trapelava dalle sue cosce, avresti potuto credere

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che quell’uomo stava camminando sull’acqua, o almeno che avesse ancora le gambe.

E in quanto alle ragazze bianche farfuglianti intorno a lui come due angeli infangati, una che si teneva ai manici della sedia a rotelle, l’altra che versava la bibita sul davanti della camicetta, buon per loro che a lui dispiacesse. Perché questo non era un film di John Wayne, ma era The Injun That Could e la sola cavalleria che galoppava stanotte era nelle vene di No-Horse. Hey! Hey! Hey! gridava.

Anna Maria Robustelli

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MARCO ZICCONI

Il Culto di Mitra Gravitazionale

Ricordo, ai tempi dell’università, il mio professore di Relatività Generale discorrere sulla teoria della Gravitazione Universale in termini entusiastici. È passato del tempo ma (forse lo immagino) lo ricordo commuoversi in presenza di determinate equazioni all’interno delle quali, espresse in un’accozzaglia di lettere greche, si palesavano i paradigmi cosmologici più incommensurabili. Ricordo un pensiero che egli condivideva a lezione riguardo alla teoria di Einstein: “ricordatevi! Se la Teoria Quantistica dei Campi è una teoria elegante, la Gravitazione Universale è puramente una INVENZIONE.” Il senso era che tra tutte le teorie che possano descrivere un modello di realtà accettabile, se alcune paiono ineluttabili (la teoria giusta, al momento giusto) altre sembrano rappresentazioni che forse sarebbero potute avvenire anche in modi differenti, ma così come sono oltre ad essere estremamente predittive sono pure originali e… bellissime! Ammetto di adorare il punto di vista di Einstein anche più della sua sontuosa Teoria della Gravitazione Universale: sovvertire il senso logico dell’approccio al mondo fisico, solitamente confinato da mere formulette obbligate ad adattarsi a quanto avviene nella vita di tutti i giorni, non è comune. È un cambiamento di atteggiamento che solo chi può, riesce a compiere. Non ho la minima idea se Einstein, durante la messa a punto della sua Teoria della Gravitazione Universale, abbia mai avuto a che vedere con il culto di Mitra, con le città equinoziali degli etruschi, con il Pentacolo o con l’esagramma della Stella di David. Non immagino se egli, il mio più grande scienziato, si sia mai commisurato con Costantino il Grande, il Sol Invictus, o con le due festività solstiziali intestate a San Giovanni, o con il poligono divino, stilema di edificazione delle chiese cristiane costruite ad solem orientem. Né immagino se sia mai stato a Banzi, città italica sede di un tempio augurale costruito su un reticolo di nove cippi magici, il centrale dei quali ha scolpito al suo vertice la parola SOLEI[1],

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o se mai abbia letto Diodoro Siculo e la sua Biblioteca Historica in cui si recita: “Il dio visita l’isola ogni 19 anni e danza tutta la notte dall’equinozio fino alla levata delle Pleiadi”, descrivendo Callanish, tempio lunare degli Iperborei di 4000 anni fa, perfettamente orientato sulle geodetiche celesti. Non so se Einstein si sia mai occupato di questi fatti. Ma questi fatti, belli quanto le idee, tempestano, come perle una collana, tutta la storia umana, descrivendo in maniera scanzonata l’ineluttabile afflato dell’uomo verso il cosmo e la legge fisica che più di tutte risolve simbolismi atavici, culti e credenze antiche: la Gravitazione Universale. Ognuno di questi fatti ha in qualche modo a che vedere con questa legge universale, responsabile di orbite e dinamiche spazio- temporali. Cerco di dimostrarlo. Andiamo per ordine. Analizziamo la parabola che Mitra ha compiuto nel corso della storia. Troviamo il culto di Mitra in un periodo intorno al II secolo a. C. nell’area del Mediterraneo orientale. L’idea religiosa alla base [10][12][13][15][20] piacque molto ai romani che lo importarono nell’impero dove si diffuse tra legionari, cariche dell’esercito ma anche politici e aristocrazia. Era una religione misterica, che affondava le sue radici nelle antiche iniziazioni primitive; un culto silenzioso e sotterraneo, non per tutti, le cui ritualità venivano svolte in luoghi appartati: caverne o grotte nei contesti suburbani, oppure anditi celati da palazzi e botteghe, nelle metropoli imperiali [14][3]. Nessuno sa con esattezza cosa avvenisse all’interno di questi consessi riservati, i mitrei, ma abbiamo invece chiarissima l’iconografia che accompagnava la ritualità perché, fatto curioso, è assolutamente ripetitiva in qualsiasi sua manifestazione, per tutta l’estensione geografica dell’impero. Secondo alcuni autori, il culto di Mitra attirò l’attenzione del mondo romano soprattutto per le sue concezioni teosofiche, che ruotavano intorno all’idea dell’esistenza dell'anima e della sua possibilità di raggiungere l’aeternitas attraverso le sette sfere planetarie. Dunque, sette gradi iniziatici rappresentati da sette personaggi mistici: Corax (il corvo oppure Mercurio), Cryphius o Nymphus (la crisalide, l’occulto o lo sposo o anche Venere), Miles (il soldato o Marte), Leo (il leone, Giove), Perses (il Persiano, o la Luna), Heliodromus (il corriere del sole), Pater (il Padre o Saturno) [13][12]. Il rito si svolgeva in ambienti sotterranei rettangolari identificati da una entrata separata, o vestibolo, una caverna, lo spelaeum, con due

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panchine lungo le mura laterali per il banchetto rituale, contenenti sei allocazioni per i sei ruoli antecedenti a quello del Pater che, in ultimo, doveva officiare presso il santuario all'estremità della caverna, in una nicchia, prima del quale vi era l'altare. Sul soffitto era dipinto un cielo stellato con la riproduzione dello zodiaco e dei pianeti. Al termine del corridoio: la ierofania! Stiamo parlando dell’aspetto più peculiare di questa religione, la rivelazione vera e propria, sempre rappresentata su pietra, o dipinto, con le medesime caratteristiche: la tauroctonia.

Tauroctonia nel mitreo del Circo Massimo. Foto dell'autore.

La scena è simbolica: Mitra, vestendo un berretto frigio, pugnala un toro, dominandolo dalla groppa. Uno scorpione attacca i genitali dell’animale, mentre un cane beve le gocce di sangue (o i chicchi di grano) che sgorgano dal collo del Toro. Un serpente, partecipa all’attacco. La coda del Toro è una spiga e in alcuni casi compaiono sulla scena una coppa e la testa di un leone. Due figuri, Cautes e Cautopates, partecipano all’azione, accompagnando il loro maestro alla sacra uccisione e illuminando la scena con fiaccole. Ma mentre il primo dei tedofori ha la fiaccola rivolta verso l’alto, l’altro la tiene capovolta. Il Sole e la Luna racchiudono la scena. Non posso soffermarmi in questa sede sui significati dei simbolismi presenti in questa rappresentazione

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ma voglio sottolineare l’incredibile aderenza al modello iconografico riscontrata nei mitrei di Londra, Roma, Budapest, Cesarea, Sidone, Alessandria d’Egitto, Hatra in Jazira, Sofia, Karlsruhe, Martigny, San Juan de la Isla, Bordeaux e in tutte le altre città dell’impero enormemente lontane per quei tempi [3][14]. Mitra rimane sempre lo stesso, immutabile; tanto quanto lo scorpione, il cane e tutti gli altri personaggi della rappresentazione. Cosa ci sarebbe alla base di questa peculiare ierofania ripetuta così pedissequamente nei minimi dettagli? Secondo alcuni studiosi [15][13][12][4][2][20] alla base del culto di Mitra, una divinità decisamente legata al Sole, ci potrebbe essere una esperienza collettiva sapienziale, in cui una conoscenza scientifica ai primordi e riservata a pochi, sia stata in grado di generare il senso di devozione nei confronti di chi del mistero deteneva i segreti. Il mistero in questione poi sarebbe addirittura di ordine cosmologico, con un’aura che per i tempi poteva sembrare risolutiva rispetto ai temi platonici che andavano via via affrancandosi nell’animo umano. Una sorta di innesco teosofico potrebbe aver reso il tutto enormemente accattivante, tant’è che è oramai accettato il sincretismo di questo culto con il cristianesimo dei primordi [15][9]; addirittura molti lo considerano un collante tra culti pagani millenari inestirpabili e nuovi ordini sociali. Detta in parole povere: quale migliore occasione nella confluenza della forza primordiale (contadina, popolare) di Ercole con la potenza cosmica (teocratica, faraonica) del Sole, all’interno della nuova religione imperiale? Inquadriamo la storia. L’editto di Tessalonica, Cunctos Populos, venne emesso il 27 febbraio 380. Sono epoche in cui Giamblico (Calcide, 250 circa – 330 circa) scrive: “senza l’1 nessuna cosa può assolutamente costituirsi, così senza di esso non ci può essere neppure un qualsiasi atto conoscitivo, come fosse la pura luce, in una parola la cosa più potente di tutte, e della stessa natura del Sole e con potere egemonico, tale da apparire in ciascuna di queste proprietà simile a dio (...)” [5]. Parrebbe lecito credere che, se questo era il sentimento, il periodo storico accreditasse maggiormente un pensiero avvalorato di sapienza scientifica (al limite, cosmologica) e che questo possa addirittura essere sembrato risolutivo alla trasmissione di un nuovo credo. Il titolo del lavoro di Giamblico è esemplificativo: Teologia Aritmetica e precede di poco il lavoro sulle geodetiche di Ipazia (Alessandria d'Egitto, 350 circa - 415). In questo

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clima, come è evidente, si respira Platone a pieni polmoni e con il dio Mitra pare addirittura risolversi il mistero cosmogonico del Demiurgo che, in uno dei passi più sconvolgenti del Timeo, laddove l’alito definitivo della rotazione delle orbite appare dal nulla creando un brivido di sconcerto nel lettore, esegue le seguenti insondabili azioni sul suo creato: “Pertanto, divisa in due nel senso della lunghezza tutta questa composizione e adattata l’una parte sull’altra nella loro metà in forma di un X, le piegò in giro nello stesso punto, collegando ciascuna con sé stessa e con l’altra dirimpetto alla loro intersezione, e v’impresse un movimento di rotazione uniforme nel medesimo spazio, e l’uno dei circoli lo fece esteriore e l’altro interiore” [16]. È sempre lui, il filosofo di Atene, che, rendendo i suoi principi cosmologici scrive nel racconto del viaggio delle anime dei defunti e nel mito del fuso di Ananke, del X libro della Repubblica: nel mezzo, laddove si incontrano le anime in transito tra il livello celeste e quello infero, appare “tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta, come una colonna (...) Colà avevano veduto, in mezzo alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere insieme tutta la circon- ferenza” [17]. Il Sole pare già da tempo l’attrattore gravita- zionale per eccellenza che tiene legati mondi umani e non. Il retaggio italico su cui il pensiero si innesta è, inoltre, ‘solare’ già di per sé, se consideriamo valida l’ipotesi archeologica di dare all’urba- nistica delle città pre-romane impianti fondativi in pieno accordo con i canoni della Etrusca Disciplina e dunque regolarità ed assialità

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impostati su cardo a poli axe e decumanus, secundum solis decursum [1]. Sapienze solari si sovrapporrebbero dunque a culti e culture già di per sé solari. In ultimo andrebbe quantomeno accennato un pensiero alle ancestrali simbologie solari e polari presenti nell’antichità ben prima di Platone ed Etruschi. Svastiche, trisceli e spirali rappresentano cicli di costellazioni circumpolari o dello stesso sole, già presenti in epoca neolitica un po’ in tutto il mondo [6]. Cristallizzato in poche esemplificative linee è simboleggiato proprio quel moto cosmico instillato dal Demiurgo gravitazionale. Il quadrato che circoscrive il cerchio è la quadratura del sole sacro: il templum in terris (templum condivide la radice greca del verbo τέμνω che vuol dire tagliare: un ritaglio di cielo in terra, come spiega Varrone). E il poligono che ne consegue, fusione tra le due figure, ha la ‘magia’ di essere contem- poraneamente tangente al cerchio e al quadrato e di potersi orientare nelle otto direzioni principali mantenendo come fulcro la colonna solare centrale: un ottagono magico, forma in seguito acquisita da molti battisteri medievali [18][6]. Battisteri gravitazionali, dunque. D’altronde, come riferisce Giamblico ne La Vita Pitagorica, è tempo di commistione e gli insegnamenti del maestro sono da considerarsi frutto di “una sintesi di divina filosofia e culto degli dèi, avendo appreso alcune cose dagli orfici, altre dai sacerdoti egiziani, altre dai Caldei e dai magi, altre dal rito iniziatico celebrato a Eleusi e a Imbro e a Samotracia e a Lemno, e quanto vi era da imparare dalle associazioni religiose, e alcune cose dai Celti e dagli Iberi” [19]. Non è certo un caso, dunque, che per approfondire Mitra una delle fonti migliori sia il neoplatonico Porfirio (Tiro, 233-234 – Roma, 305 circa): “(…) Pertanto assegnarono come adatta a Mitra la sede degli equinozi; egli porta il pugnale di Ariete, segno di Ares, e cavalca il toro di Afrodite. Poiché Mitra, come il toro, è demiurgo e padrone della generazione, è collocato nel cerchio equinoziale, avendo alla sua destra le regioni settentrionali, alla sua sinistra quelle meridionali, e a sud è

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collocato Cautes perché è caldo, a nord Cautopates per il fatto che il vento del nord è freddo” [2]. Innestare il mistero del Sole con le ultime conoscenze scientifiche poteva solo rafforzarne l’idea. E così fu. Ma si andò a scomodare uno dei fenomeni gravitazionali più difficilmente riscontrabili, poiché presente su scale temporali ben più ampie di quelle esperite dall’uomo in una singola esistenza: la precessione degli equinozi. La precessione degli equinozi è il risultato di un movimento della Terra che fa cambiare l'orientamento del suo asse di rotazione rispetto alla sfera ideale delle stelle fisse. Si produce lo stesso effetto che si riscontra sull’asse di rotazione di una trottola in movimento, cioè un moto di oscillazione dell’asse attorno alla verticale esatta della trottola, ben più lento della stessa rotazione. Tra tutte le implicazioni della Gravitazione Universale, questa era nota già dalla meccanica newtoniana e può essere vista come la conseguenza dell’inte- razione del campo di forze del Sole e della Luna, con la Terra. È un tipico fenomeno astronomico e nessun corpo orbitante può sottrar- visi, in tutto l’universo. Dunque, anche l'asse terrestre ‘precede’, ruota cioè attorno alla perpendicolare di un ipotetico piano, chiamato eclittica. Il risultato finale, quello che ci appare, è un asse che compie un giro completo nello spazio ogni 25.765 anni circa. Pare incredibile, ma è così! Ciò ha delle conseguenze. La più eclatante è che la stella polare… non è sempre stata polare! Ai tempi degli Egizi, ad esempio, l’asse di rotazione della terra

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puntava un luogo diverso di spazio e la stella polare dell’epoca si chiamava Thuban (α Dra/ α Draconis/ Alpha Draconis), una stella della costellazione del Dragone di magnitudine +3,67 che dista 309 anni luce dal sistema solare e che nel 2787 a.C. occupava esattamente il Nord celeste. L’intervallo di tempo in cui l’asse di rotazione terrestre compie un ciclo è chiamato Anno Platonico, e visto quanto detto, nessun nome pare più azzeccato! Durante questo ciclo la posizione delle stelle sulla sfera celeste cambia lentamente, determinando l'avvicendarsi delle ere astrologiche. Tra circa 13.000 anni, ad esempio, sarà Vega (α Lyr / α Lyrae / Alfa Lyrae di magnitudine 0, a circa 25 anni luce) e non l’attuale Polaris (è lei ad essere nota comune- mente col nome di Stella Polare) ad indicare il polo nord sulla sfera celeste. Per effetto della Precessione, anche il cosiddetto Punto Gamma, il punto che segna cioè la posizione del Sole rispetto alle stelle nel giorno dell'Equinozio di Primavera, si sposta lentamente verso Ovest, ovvero verso la costellazione zodiacale precedente dell’eclittica. Il Punto Gamma è anche noto con il nome di punto dell’Ariete perché in corrispondenza dell’equinozio di primavera di circa 2100 anni fa il Sole si trovava nella costellazione dell’Ariete. Oggi a causa della precessione degli equinozi non è più così e in corrispondenza dell’equinozio di primavera il Sole si trova nella costellazione dei Pesci; intorno all’anno 2700 si troverà in quella dell'Aquario e così via fino al completamento dell’intero zodiaco. La permanenza del sole all’interno di una costellazione dura migliaia di anni che dipendono dalla lentezza con cui l’asse scorre, per precessione, lo spazio incluso in una singola costellazione. A proposito di teosofia è molto interessante (ma non ho intenzione di soffermarmici in questa sede) notare che l’epoca del cristianesimo è caratterizzata da un punto Gamma in Pesci. Se qualcuno ha ancora dubbi sulla derivazione dell’enorme valenza simbolica del pesce per la religione cristiana (basti ricordare che il greco ΙΧΘΥΣ, è acronimo di Iησοῦς Χριστός, Θεοῦ Υἱός, Σωτήρ e che il Cristo-Pesce è un simbolo usatissimo nelle numerose catacombe cristiane di Roma [6]), alzi lo sguardo al cielo e

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cerchi il Sole di primavera: la risposta è lì. Che dire poi della New Age, la “Nuova Era”, che indica quel movimento subculturale fatto di correnti psicologiche e spirituali alter- native sorte alla fine del secolo scorso con il secondo nome di ‘Era dell’Acquario’? Già, l’Acquario! Proprio il prossimo Punto Gamma [18]. Non è un caso. Il meccanismo antroposofico di oggi pare figlio di quei lontani tempi in cui scienza, sapienza e reli- gione coesistevano in un nucleo primordiale non ancora scisso. Torniamo al gravitazionale Mitra. In questa ottica la tauroctonia rappresenterebbe il controllo del dio frigio proprio sulla Precessione degli Equinozi. Gli animali raffigurati nella scena cosmogonica, sarebbero le costellazioni che si trovavano all’equatore celeste nell’Era del Toro: il serpente è l’Idra di Lerna, il cane la costellazione del Canis Major; compare il Corvo, lo Scorpione, la Coppa e infine il Leone. Dal Toro sgozzato esce sangue ma, qualche volta, grano in chicchi e, come già detto, la coda del Toro è una spiga, cioè Spica, stella principale della costellazione della Vergine. Così Mitra, è Perseo, costellazione circumpolare dominante proprio quella del Toro, nota sin dall’antichità (in essa c’è la celebre stella variabile Algol o Ra's al Ghul, la stella ‘testa di demone’, considerata magica per la rapidità del suo periodo di massima luce di poco più di 2 giorni). Tutta l’iconografia parrebbe assumere un significato astronomico e Mitra è lì a dominare l’Equinozio di Primavera, decretando (a suon di scienza) il passaggio da una casa celeste ad un’altra. Mitra, come il sapiente, può dominare la conoscenza. Egli inoltre, essendo Sol Invictus, decreta la nascita primigenia della conoscenza e fonda un culto misterico, riservato solo a chi può accedervi. L’ipotesi astronomica per il culto di Mitra fu proposta per primo da David Ulansey che annota come la precessione degli equinozi sia stata misurata per primo da Ipparco di Nicea (circa 130 a. C.) [20]. Le guerre contro i pirati di Pompeo, inizio apparente della penetrazione mitraica nell’impero, risalgono al 67 a. C. Per qualcuno l’intervallo di tempo tra i due eventi sarebbe troppo piccolo e parrebbe impossibile che

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in pochi anni una scoperta così rivoluzionaria possa essere stata digerita e rielaborata da un nuovo culto, ma si suppone anche che gli osservatori Sumeri, Babilonesi e Maya già conoscessero il meccanismo celeste, così come forse lo conoscevano le antiche civiltà mesopotamiche che pregavano proprio il dio Mitra. Ulansey sostiene inoltre che la decodifica della precessione equinoziale abbia generato sconcerto nel mondo filosofico e religioso accendendo una reazione veemente, dando origine ai nuovi culti. L’opera dei grandi sincretici dei primi secoli dopo l’anno zero, avrebbe completato il disegno. Il Monoteismo Solare di Costantino il Grande è all’apice di questo meccanismo e fa decisamente il pieno di caratteri mutuati da altri culti [9]. Se da un lato inizia a consolidarsi l’esegesi delle scritture in chiave decisamente solare (Cristo è Luce), dall’altro si è già delineata una certa convergenza anagrafica delle divinità: il 25 dicembre (giorno prossimo al sol-stitium = sole + fermo, o inizio di rinascita del Sol Invictus) nascono Gesù, Mitra, Horus, Apollo, Ercole e molti altri dai caratteri solari [9]. Lo spiega bene il Card. Ratzinger: “Il 25 dicembre doveva essere commemorato come il giorno natale della luce che si rigenera… alcuni imperatori romani avevano cercato di dare ai loro sudditi una fede nuova con il culto del sole invitto... Molto presto i cristiani rivendicarono per loro il 25 dicembre, il giorno natale della luce invitta, e lo celebrarono come natale di Cristo” [11]. Per quanto riguarda invece il carattere ctonio del culto, troviamo caverne ‘magiche’ già dai tempi di Platone, passando per Mitra ma anche per Gesù, nato in una grotta. Non possiamo inoltre dimenticare l’europea, e ben accertata, ritualità dell’incubatio presso i popoli prima di Cristo, nota anche a Strabone [21]; né infine, la grande importanza che il culto in grotta ha nell’antropologia del sentimento religioso italico. Basti pensare a quanto rappresenti San Michele Arcangelo, l’Archistratega di Dio, venerato principalmente in santuari ipogei e legato ai poteri delle acque e delle pietre (litoterapia, acqua galattofora) [8]. Insomma, gli ingredienti per veicolare il culto gravitazionale ci sono tutti, il Sole entra a illuminare le grotte e Apollo da solare diventa infero. Di questi tempi ci si può anche imbattere in un elaboratissimo Apollo Sorano, divinità laziale, che presenta insieme i caratteri solari dell’Apollo ‘classico’ e quelli ctoni, caratteristici di Sur – il Nero, divinità infera del popolo etrusco [7].

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E poi cosa accadde? Perché oggi nessuno prega più Mitra? Ci fu un periodo a Roma in cui si edificarono più mitrei che chiese! Questo è noto. Eppure mancava qualcosa. Un semplice calcolo matematico fornisce la giusta risposta, la quale certa- mente era ben nota a Costantino il Grande che oltre ad essere il Sole in persona era anche un abile politico e, sebbene all’api- ce del sincretismo religioso e mai avverso ad alcun sentimento cultuale, decretò indirettamente la fine di Mitra. Nel 313 con l'Editto di Milano, il culto cri- stiano fu libero. Fu così stilato dallo stesso imperatore (qual- cuno dice sobillato dalla Augusta Elena, imperatrice, moglie e anche santa) un grandioso programma di costruzione di imponenti edifici basilicali da adibire a luoghi di culto in memoria dei martiri cristiani (basilica è una struttura architettonica greca: αὐλή βασιλική, vuole dire letteralmente "corte reale", il luogo che racchiude la corte del re). La costruzione di queste grandi chiese esalta il nuovo credo. Ora facciamo questo calcolo matematico. Con i suoi 23.000 m2, di cui 15.160 calpestabili, con i suoi 133 m d’altezza e i 218 m di lunghezza, la Basilica di San Pietro s’aggiudica di gran lunga, il primo posto nella classifica delle chiese cattoliche più ampie al mondo. La edificò proprio lui, Costantino il Grande, che tra i vari titoli religiosi deteneva anche quello di Pontifex Maximus, massimo grado religioso al quale un romano poteva aspirare, secondo la tradizione pagana istituita addirittura da Numa Pompilio. Rozze stime mi portano a credere che San Pietro possa contenere circa 60.000 persone. Il mitreo più grande che io immagini, di persone ne conteneva 7. Poche! decisamente molto poche per un imperatore che incarnava addirittura il Sole e al quale erano consone platee ben più ampie. Raggiungere in un sol colpo 60.000

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‘fedeli’, poneva in ombra qualsiasi idea di culto sotterraneo o misterico. Scompaiono così i Tituli o Domus Ecclesiae, i precedenti, ben più modesti, luoghi di culto, per lo più ricavati all'interno di abitazioni private di patrizi convertiti ed escono silenziosamente dalla storia anche mitrei, serapei, isei (per il culto di Serapide e Iside) e tutti quei luoghi religiosi ‘per pochi’.

In conclusione, il Sole stesso incarnato, figlio come tutti della gravitazione universale, ha decretato, per meri fini politici, la fine del culto gravitazionale più bello di tutti. Attenderò paziente insieme con Einstein, nuovi eoni che possano concedere una rinnovata vita spirituale alla teoria fisica più bella che io conosca: Gravitazione Universale.

Bibliografia

[1] Carlo Gottarelli - "Contemplatio.Templum solare e culti di fondazione. 1998- 2013. Sulla regola aritmogeometrica del rito di fondazione della città etrusco-italica tra VI e IV secolo a.C.", Collana di "Archeologia del Rito", n.1, IIa edizione, Te.m.p.l.a., Bologna, 2013.

[2] La demonologia di Porfirio e il culto di Mitra - In: Mediaeval Sophia nr.7 (gennaio-giugno 2010).

[3] Serenella Ensoli - Mitra e la Campania. Per lo studio del Mitreo dell’antica Capua – in INTRA ET EXTRA MOENIA - Sguardi sulla città fra antico e moderno a cura di Rosanna Cioffi e Giuseppe Pignatelli - Giannini editore.

[4] Flavio Barbiero - Mitra e Gesù: due facce di una stessa medaglia - in SCIENTIA, International Review of Scientific Synthesis – ISSN 2282-2119 - Vol. 124 – Section 3 – Article 02 – February 28, 2013.

[5] Giamblico – “Il numero e il Divino. La Scienza matematica comune. L’Introduzione all’aritmetica di Nicomaco. La Teologia dell’aritmetica”, Introduzione greco, traduzione, note, bibliografia e indice a cura di F. Romano, Rusconi, Milano 1995.

.[6] René Guénon - Simboli della Scienza sacra. Traduzione di Francesco Zambon. Adelphi 1990.

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[7] Massimiliano Di Fazio - Gli Hirpi del Soratte in Tra Roma e L’Etruria – Cultura, identità e territorio dei Falisci a cura di Gabriele Cifani - Quasar editore.

[8] Gianluca Ceccarini - Andrea Benassi - Alcune osservazioni storico- antropologiche sul Culto micaelico e sulla sua diffusione nel territorio della Tuscia. Bollettino Società Tarquiniense d'arte e storia, XXXI, 2002.

[9] Pier Tulip - KRST – Gesù un Mito solare - Youcanprint, 2014.

[10] Giuseppe Moscatelli - Il Culto di Mitra nella Tuscia in La Loggetta, semestrale, Inverno 2016/17.

[11] Joseph Ratzinger - Vieni, spirito creatore – Editore Lindau 2006

[12] Hinnels, John. R. (ed.), Mystery, Metaphor and Doctrine in the Mysteries of Mithras. Studies in Mithraism, Rome: L'Erma di Bretschneider, 1994.

[13] Clauss Manfred, The Roman Cult of Mithras: The God and his Mysteries, tr. Richard Gordon. New York: Routledge, 2001.

[14] Pavia C., Guida dei Mitrei di Roma Antica, 1999.

[15] Stefano Arcella, I misteri del sole. Il culto di Mithra nell’Italia antica, Napoli 2002.

[16] Platone, Timeo. Giovanni Reale – Bompiani - 2000.

[17] Platone - La Repubblica – Laterza, 2007.

[18] Alessandro Lantero - Introduzione all’archeoastronomia – studio pubblicato sul sito https://www.academia.edu

[19] Giamblico – Vita Pitagorica - M. Giangiulio - BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1991.

[20] David Ulansey - The Origins of the Mithraic Mysteries: Cosmology and Salvation in the Ancient World – Oxford Press, 1989.

[21] Strabone – Geografia (Libro VI,3,9), - BUR Classici Greci e Latini, 1998.

Marco Zicconi

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PIERANGELO CRUCITTI Società Romana di Scienze Naturali - ente di ricerca pura Campus di Villa Esmeralda, Via Fratelli Maristi 43, 00137 Roma (RM) - Italia

La fauna d’Italia nella politica editoriale italiana

Premessa Questo breve saggio costituisce un rapido excursus storico sulle numerose opere che hanno sinora illustrato (e continuano, almeno in parte, ad illustrare) la straordinaria ricchezza faunistica del nostro paese. Che la fauna italiana meriti la massima attenzione da parte della nostra editoria può sembrare, oggi più che mai, una mera petizione di principio, quasi una banalità. Del Capitale Naturale dell’Italia è parte integrante la biodiversità con la sua componente animale (AA.VV., 2018; Cencini e Corbetta, 2013). Per quanto lo stato delle conoscenze sulla nostra fauna possa essere considerato complessivamente buono e nonostante i continui progressi della scienza, permangono ancora irrisolti numerosi problemi ai fini del completamento delle conoscenze di base.

Di cosa stiamo parlando? Solo alcuni numeri per ricordare le dimensioni del problema. Per quanto riguarda la biodiversità animale, si stima che in Italia vi siano oltre 58.000 specie; il 98% è costituito da invertebrati con 55.000 specie, di cui 1.812 sono Protozoi; il phylum più ricco, con oltre 46.000 specie, è quello degli Artropodi, di cui fa parte anche la classe degli insetti nella quale l’ordine più numeroso, oltre 12.700 specie, è quello dei Coleotteri; la fauna terrestre è costituita da oltre 42.000 specie, di cui circa il 10% sono endemiche; circa 5.500 specie (esclusi i Protozoi), vivono negli habitat d’acqua dolce ovvero quasi il 10% dell’intera fauna italiana; vi sono in Italia più di 9.000 specie di fauna marina e, data la posizione geografica del paese, è probabile che esse rappresentino la gran parte delle specie animali viventi nel Mar Mediterraneo. Allo stato

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attuale delle conoscenze, la fauna terrestre italiana risulta essere la più ricca tra quelle dei paesi europei; siamo peraltro ancora lontani dal possederne un inventario sufficientemente completo. Un solo esempio; nel caso di alcune famiglie di Imenotteri (vespe, api, bombi, calabroni e affini) e Ditteri (mosche, mosconi, callifore, zanzare e affini) è ragionevole attendersi che le scoperte portino quanto meno ad un raddoppio delle liste di specie attuali, pur essendo già state descritte svariate migliaia di specie in ciascuno dei due ordini. Ad esempio, i Sirfidi, famiglia di Ditteri Brachiceri che a livello mondiale conta oltre 6.000 specie, annoverano 536 specie in Italia su 887 in Europa, oltre il 60% delle specie del continente (Burgio et al., 2015). E l’Italia costituisce appena il 20% dell’intero continente europeo! Peraltro i Sirfidi sono insetti relativamente vistosi e, nel panorama dei Ditteri italiani che annoverano molte specie pochissimo appariscenti, considerati di “bell’aspetto”; questo contribuisce a spiegare il livello, piuttosto buono, delle conoscenze su questo gruppo di insetti. Le lacune conoscitive più vistose riguardano soprattutto i piccoli invertebrati della fauna del suolo, ad es. acari, collemboli, nematodi, miriapodi, ragni, lombrichi oltre ad alcuni gruppi di parassiti tra cui gli elminti. In numerosi settori c’è ancora molto da fare, in particolare nel campo dell’araneofauna. Un solo esempio recentissimo; una ricerca sui ragni della Calabria ha permesso di stabilire la presenza, nella regione, di 456 specie di 213 generi e 41 famiglie; nel contesto, una specie è risultata nuova per la Scienza mentre sei specie sono risultate nuove per l’Italia, quindi complessivamente sette specie sono risultate nuove per la fauna italiana (Pantini e Mazzoleni, 2018). Tuttavia, neppure la lista dei vertebrati terrestri italiani può essere considerata definitiva soprattutto a causa dell’evoluzione dei criteri (morfologici, genetici, molecolari) che portano al continuo riconoscimento di specie nuove per la Scienza. Due esempi: negli ultimi 30 anni il numero di specie di geotritoni (Hydromantes), genere di Urodeli della Sardegna e Italia peninsulare, è quasi raddoppiato, oggi conta almeno 8 specie; i serpenti (Serpentes) della fauna italiana sono passati, negli ultimi dieci anni, da 22 a 26 specie. Sono anzitutto più che mai necessarie approfondite indagini sul campo in aree ancora insufficientemente esplorate (Blasi et al. eds., 2005; Minelli, 2005; Crucitti, 2018).

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Precursori ed epigoni La fauna italiana è stata oggetto sia di numerose opere di sintesi sia di alcune collane editoriali, due delle quali attualmente in progress. Una delle prime sintesi del XX secolo è “Fauna Italiana” (1933) a cura dello zoologo evoluzionista fiorentino Giuseppe Colosi (1892-1975). Si tratta di un’opera di grande erudizione a carattere prevalentemente divul- gativo, peraltro piuttosto squilibrata sia dal punto di vista tassonomico - i vertebrati hanno la prevalenza - sia dal punto di vista ecologico - le faune terrestri e delle acque dolci sono, in proporzione, trattate più estesamente. L’esaltazione della ricchezza e della varietà paesaggistica e zoologica dell’Italia sono fortemente influenzate dalle condizioni politiche del momento storico piuttosto che da una analisi obiettiva dei fattori che le determinano. La trattazione rispecchia un filo conduttore marcatamente tassonomico, sequenza quasi obbligata data l’epoca: Mammiferi, Uccelli, vertebrati inferiori, invertebrati. Si tratta di un’opera che testimonia nondimeno la vastissima cultura dell’autore, uno dei maggiori zoologi italiani del suo tempo. Per un approccio moderno bisogna attendere la stampa de “La Fauna” della collana Conosci l’Italia del Touring Club Italiano (1959) il cui filo conduttore è marcatamente ecologico. Dopo un’ampia introduzione sui criteri di classificazione e sulla classificazione degli animali, si passa all’esame delle caratteristiche delle faune alpina, terrestre e acquatica dei monti e delle pianure, degli ambienti umani, degli ambienti sotterranei, dei litorali e infine del mare; gli ultimi due capitoli sono dedicati alla sua origine e relativi problemi di rarefazione e protezione. L’opera, di cui sono compilatori Benedetto Lanza, Paola Manfredi, Giampaolo Moretti, Carlo Piersanti, Sandro Ruffo, Enrico Tortonese, Augusto Toschi, è di elevato livello e può essere ancora consultata con profitto, soprattutto per motivi storici. Nessuno degli autori suddetti, eminenti specialisti, è tuttora in vita; Benedetto Lanza, il più longevo, è scomparso nel 2016. Sulla stessa falsariga ma assai più recente è “La Fauna in Italia” (2002), anch’essa edita dal Touring Club Italiano oltre che dalla Direzione per la Conservazione della Natura del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) e dal Centro di Ecologia Alpina, con testi di numerosi autori e coordinamento scientifico di Roberto Argano, Claudio Chemini, Sandro La Posta, Alessandro Minelli, Sandro Ruffo, tutti ancora in vita ad eccezione di quest’ultimo. La trattazione è molto

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approfondita e particolarmente equilibrata nell’esame delle faune dei principali ambienti che caratterizzano il territorio della nazione. Al passato, presente e futuro della nostra fauna è dedicato un capitolo che affronta i problemi della rarefazione ed estinzione di specie, contestualmente a quelli della conservazione. Quest’opera costituisce una base indispensabile di conoscenze per gli studenti dei corsi di Biologia della Conservazione e, più in generale, per tutte le persone colte amanti della natura che desiderano acquisire una conoscenza sintetica ma non superficiale sui nostri animali.

Checklist e Collane L’Italia è stato il primo paese al mondo a dotarsi di una checklist informatizzata delle specie della propria fauna. Il progetto, a cura del MATTM (all’epoca ancora MATT) e del Comitato per la Fauna d’Italia, coordinato da Sandro Ruffo, Alessandro Minelli e Sandro La Posta, ha richiesto la costituzione di un organigramma di tre coordinatori generali, 14 responsabili di sezione e circa 250 autori: un impegno formidabile che ha permesso di inserire in lista pressoché tutte le specie sino ad allora note della fauna italiana, oltre 58.000 delle quali 47.000 (85%) di ambienti terrestri s.l. La collana, denominata “Checklist delle specie della fauna italiana” (1993-1995), ha avuto una gestazione sorpren- dentemente breve. Il progetto della checklist è articolato in 24 fascicoli suddivisi in 110 lotti o sezioni, da “Protozoa” a “Vertebrata”. Si tratta di un elenco informatizzato di specie univocamente individuate da un codice numerico, con indicazioni aggiuntive costituite da sigle di una o due lettere relative alla distribuzione geografica per grandi aree (Italia settentrionale, Italia continentale, Sicilia e isole circumsiciliane, Sardegna e isole circumsarde) e allo status di specie endemica e/o minacciata. Ne risulta un’opera compatta dalle dimensioni ridotte, l’insieme dei fascicoli può essere contenuto in una borsa capiente. Un database come la checklist perde molto del suo valore se non viene aggiornato nel tempo e se questa informazione non viene resa disponibile il più rapidamente possibile. Sono state quindi definite norme che ne consentono il periodico aggiornamento, iniziativa nella quale si è particolarmente distinta la Società Entomologica Italiana; gli Artropodi ed in particolare gli Insetti costituiscono infatti il gruppo di organismi animali che più di ogni altro contribuisce alla crescita delle

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specie del nostro paese, sia per la scoperta di specie autoctone non ancora descritte e sia per l’afflusso ormai continuo di specie provenienti da territori extranazionali, introdotte, più o meno intenzionalmente, dall’uomo; alcune tra queste, per fortuna ancora relativamente poche, si comportano da specie esotiche invasive rappresentando un serio problema per l’ambiente e per la stessa salute dell’uomo; a titolo d’esempio, il castorino o nutria, la testuggine americana dalla guance rosse, il gambero della Louisiana. Il proseguimento del lavoro di cui sopra ha portato alla realizzazione del progetto “Checklist e distribuzione della fauna italiana - 10.000 specie terrestri e delle acque interne” (di cui esiste versione inglese) a cura della Direzione per la Protezione della Natura (DPN) del MATTM, del Comitato Scientifico per la Fauna d’Italia, del Museo Civico di Storia Naturale di Verona e del Dipartimento di Ecologia dell’Università della Calabria. 538.000 dati di distribuzione georeferenziati relativi ad oltre 10.000 specie terrestri e di acqua dolce ritenute buoni indicatori faunistici e biogeografici, hanno consentito la realizzazione di un GIS faunistico e delle relative carte tematiche. Una seconda serie, limitata alla fauna delle nostre acque interne, è costituita dalle monografie della Collana del progetto finalizzato “Promozione della qualità dell’ambiente” a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche: “Guide per il riconoscimento delle specie animali delle acque interne italiane” (1977-1985). Si tratta di 29 monografie destinate allo specialista, dagli Irudinei (sanguisughe) agli Anfibi. L’Unione Zoologica Italiana ha promosso numerose iniziative, inquadrate nell’ambito del Progetto “Bioitaly”, versione nazionale di “Rete Natura 2000”, ad implementazione della Direttiva 92/43 CEE “Habitat” che ha permesso, dopo quattro anni di intenso lavoro (1994-1997), di consegnare alla UE le schede di oltre 2.200 siti georeferenziati che ospitano specie e/o habitat di importanza comunitaria a rischio. Ben 24 guide pocket della collana “Quaderni Habitat”, completata nel 2009 e di cui esiste anche versione in lingua inglese, rappresentano il frutto della collaborazione tra MATTM e Museo Friulano di Storia Naturale - Comune di Udine; la serie, coordinata da Alessandro Minelli, Sandro Ruffo e Fabio Stoch, è destinata alla illustrazione dei vari habitat italiani (e relative formazioni vegetali, flore e faune) in forma analitica e monografica. Infine, nell’ambito dei Quaderni di Conservazione della Natura, collana che

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non dovrebbe mancare nella biblioteca del faunista moderno, devono essere segnalati gli Atti dello storico convegno sulla sintesi dello stato delle conoscenze (al 2004) botaniche e zoologiche in Italia con una particolare attenzione al passaggio dagli inventari al monitoraggio (a cura di Carlo Blasi e collaboratori, 2004).

La collana “Fauna d’Italia” L’Italia non è certo l’unica nazione europea ad essersi dotata di una collana editoriale esclusivamente dedicata alla propria fauna, nel caso specifico la “Fauna d’Italia” (d’ora in avanti FI). Dalla fine del XIX secolo sono numerosi i paesi ad essersi dotati di inventari faunistici organizzati in collane omogenee: Francia, Spagna, Germania, Danimarca, Gran Bretagna, Ungheria, Polonia. La Francia ha edito la serie “Faune de France” (Francia e regioni limitrofe) a partire dal 1921 sotto il patrocinio della Fédération Française des Sociétés de Sciences Naturelles; al suo attivo 97 monografie stampate; dal volume 90 l’opera è bilingue (francese-inglese). L’obiettivo prioritario di quest’opera è chiaramente definito: “destinés à permettre l’identification des Animaux Vertébrés et Invertébrés que l’on rencontre en France ou, suivant les volumes, dans une aire géographique plus vaste englobant notre pays: région gallo-rhénane, Europe occidentale, région euro-méditerra- néenne“. Analogamente alla nostra FI, la serie non è caratterizzata dalla stampa di sequenze univoche dal punto di vista tassonomiche, ad esempio, solo volumi sui Coleotteri sino a completamento del gruppo e, a seguire, solo sui Lepidotteri, solo sui Pesci ecc.; gli ultimi quattro volumi sono dedicati, rispettivamente, ai Coleotteri Carabidi (94, 95), Emitteri Pentatomidi euro-Mediterranei. 2 (96), Ortotteri Celiferi (97); al volume 89 (Cétacés de France) segue il volume 90 (Hémiptères Pentatomoidea Euro-Méditerranéennes. 1). Ciò rispecchia soprattutto lo stato di conoscenze variabile da gruppo a gruppo, la disponibilità degli specialisti a compilare monografie di propria competenza oltre a più o meno rilevanti problemi di natura editoriale. Un’altra serie analoga, relativa ad un territorio altrettanto esteso e ricco di biodiversità, è “Fauna Iberica” derivante da un progetto del 1988 con obiettivo “to carry out a well-documented inventory of the biodiversity in the Iberian-Balearic region”. Secondo Ramos e coll. al 2001, circa 1/3 della Fauna della Regione Iberico-Balearica era stato dettagliato, si stimano

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almeno 75 anni necessari per completarne la revisione tassonomica. Ad oggi sono stati editi 42 volumi per complessivi 44 tomi. Quali che siano le caratteristiche dell’opera - ogni “fauna” rappre- senta un caso a sé, data l’unicità del gruppo tassonomico e del territorio al quale si riferisce - gli obiettivi generali di una collana destinata ad illustrare analiticamente le specie di una fauna nazionale sono: raccogliere, discutere e illustrare sinteticamente, le informazioni esistenti sino a un dato momento (un riferimento è l’anno di stampa del volume dedicato) relative a posizione tassonomica, morfologia, biologia funzionale e comportamentale, ecologia e distribuzione geografica, delle specie di un gruppo omogeneo utilizzando a tal fine chiavi analitiche ad hoc (Crucitti et al., 2016; Crucitti, 2018). La parte speciale è, di norma, preceduta da una sezione generale in cui sono dettagliati la storia delle ricerche sul gruppo di specie animali in oggetto unitamente alle sue caratteristiche biologiche generali; costituiscono pure elemento di discussione i metodi di raccolta e di studio, nonché la diversità (= ricchezza) di specie sia a scala regionale s.l. (ad es. Italia) sia a scala globale (ad es. Europa), se nota. Risulta infine quanto mai utile sottolineare le lacune ancora esistenti in merito al completamento delle conoscenze di base: queste ultime sono costituite da ragionate previsioni sul numero complessivo di specie/sottospecie (note, ovvero descritte, più sconosciute ovvero non ancora descritte ma di cui è possibile prevedere, sulla base di opportune estrapolazioni, il numero, ancorché approssimato); specie/sottospecie il cui livello delle conoscenze risulti ancora imperfetto; aree ed ambienti insufficientemente esplorati. Nei volumi più recenti, la trattazione include i fattori di minaccia di origine antropica in funzione delle preferenze dell’habitat; i gruppi tassonomici maggiormente a rischio sono quelli il cui habitat è costituito dalle acque interne. I 51 volumi sinora editi di “Fauna d’Italia”, collana tuttora “in progress”, dal primo del 1956 (Odonata) al più recente del 2017 (Ascidiacea) (Tab. 1) non sono “guide di campo” o “field guides”, libri maneggevoli il cui contenuto consente la rapida determinazione di specie in natura, e neppure semplici checklist o cataloghi annotati di specie; da questi ultimi si può dedurre la presenza di una specie in un dato territorio (ad es. un monte, un’isola, una provincia, una regione) e poco altro essendo, di norma, escluse le informazioni relative ai molteplici aspetti della biologia delle singole entità. La Tab. 1

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costituisce il prospetto analitico della serie di volumi della FI. Abbiamo fatto riferimento ai tempi presunti di completamento della serie relativa alla fauna della Spagna. E per l’Italia? È impossibile qualsiasi previsione puntuale, di certo saranno necessari molti decenni per completare l’opera; anche perché i primi volumi richiedono un aggiornamento ormai improcrastinabile. Consideriamo ad esempio due casi, l’uno relativo agli Odonata (libellule), trattati nel Vol. I, l’altro relativo ai Chiroptera (pipistrelli) trattati nei Voll. IV e XLVII. In entrambi i casi si tratta di gruppi di specie poco numerosi. Si deduce anzitutto che le conoscenze riportate sul Vol. IV del 1959 sono state aggiornate al 2012 (anno di stampa del Vol. XLVII); in questo lasso di tempo le specie italiane sono passate da 29 a 39 con un incremento del 34,5%. Nel caso del Vol. I del 1956 (lo stato delle conoscenze sulle libellule italiane era stato definito “buono” dagli AA. (Cesare Conci e Cesare Nielsen), l’aggiornamento non esiste ancora; si consideri che nel frattempo il numero di specie di libellule della fauna italiana è passato da 80 a 93 con un incremento del 16,3%. Da quest’ultimo esempio si deduce che altre opere di sintesi sono state recentemente dedicate agli Odonati italiani (Riservato et al., 2014). In generale, non è necessario attendere la pubblicazione di volumi dedicati della FI per conoscere il numero complessivo delle specie attualmente presenti nel nostro paese. Ad esempio, pur non essendo stato pubblicato alcun volume sui ragni (Araneae) sappiamo che questi Aracnidi assommano a 1.620 specie attuali sinora descritte di 54 famiglie (Pantini e Isaia, 2016; ma si consideri il contributo di Pantini e Mazzoleni, 2018, precedentemente citato); saranno prevedibilmente necessari numerosi volumi della collana per illustrarne compiutamente la diversità. Non v’è peraltro alcun dubbio che per livello di informazioni e ricchezza iconografica la collana FI rappresenti attualmente un’opera assolutamente unica nel suo genere. La sua naturale collocazione è nella biblioteca dello specialista e in quelle di dipartimenti universitari, musei zoologici ed istituzioni scientifiche equipollenti.

Dati statistici Dalla lista della collana FI possono essere estrapolati alcuni dati interessanti. Il numero di specie considerate in ciascun singolo volume è quanto mai variabile, da un minimo di 9 (Vol. XXXVI) ad un massimo

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di 2.163 (Vol. IX); da 9 a 380 (Vol. XL) se si escludono i cataloghi sinonimici e topografici, semplici elenchi di specie. I volumi dedicati ai vertebrati sono 12 (23,5%), un valore piuttosto elevato dato il numero relativamente modesto di specie di Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli e Mammiferi sul totale delle specie italiane.

Vol. I - 1956 - Odonata - C. Conci, C. Nielsen - 308 pp. (80) Vol. II - 1956 - Leptocardia - Cyclostomata - Selachii - E. Tortonese - 334 pp. (1 + 3 + 60, tot. 64) Vol. III - 1960 - Ephemeroidea - M. Grandi - 474 pp. (75) Vol. IV - 1959 - Mammalia - Generalità, Insectivora, Chiroptera - A. Toschi & B. Lanza - 488 pp. (13 + 29, tot. 42) Vol. V - 1964 - Mutillidae - Myrmosidae - F. Invrea - 302 pp. (55 + 6, tot. 61) Vol. VI - 1965 - Echinodermata - E. Tortonese - 422 pp. (102) Vol. VII - 1965 – Mammalia - Lagomorpha, Rodentia, Carnivora, Ungulata, Cetacea - A. Toschi - 648 pp. (6 + 28 + 14 + 9 + 12, tot. 69) Vol. VIII - 1965 - Coleoptera - Cicindelidae, Carabidae (Catalogo topografico) - M. Magistretti - 512 pp. (1.218) Vol. IX - 1967 - Rhynchota - Heteroptera, Homoptera, Auchenorrhyncha (Catalogo topografico e sinonimico) - A. Servadei - 851 pp. (1.375 + 788, tot. 2.163) Vol. X - 1970 - Osteichthyes - Pesci ossei - parte prima - E. Tortonese - 566 pp. (165) Vol. XI - 1975 - Osteichthyes - Pesci ossei - parte seconda - E. Tortonese - 636 pp. (271) Vol. XII - 1976 - Coleoptera - Dryopidae, Elminthidae - M. Olmi - 280 pp. (17 + 27, tot. 44) Vol. XIII - 1978 - Diptera Nematocera - Simuliidae - L. Rivosecchi - 536 pp. (80) Vol. XIV - 1979 - Coleoptera - Haliplidae, Hygrobiidae, Gyrinidae, Dytiscidae - M. E. Franciscolo - 804 pp. (22 + 1 + 14 + 187, tot. 224) Vol. XV - 1979 - Hirudinea - A. Minelli - 152 pp. (28) Vol. XVI - 1980 - Coleoptera - Histeridae - P. Vienna - 386 pp. (164) Vol. XVII - 1980 - Coleoptera - Anthicidae - I. Bucciarelli - 240 pp. (92)

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Vol. XVIII - 1982 - Coleoptera - Carabidae. I - Introduzione, Paussinae, Carabinae - A. Casale, M. Sturani, A. Vigna Taglianti - 500 pp. (69) Vol. XIX - 1982 - Coleoptera - Staphylinidae - Generalità - Xantholininae - A. Bordoni - 434 pp. (80) Vol. XX - 1983 - Ephydridae - Canaceidae - S. Canzoneri, D. Meneghini - 338 pp. (160 + 2, tot. 162) Vol. XXI - 1984 - Crustacea - Copepoda: Calanoida (d'acqua dolce) - E. Stella - 102 pp. (21) Vol. XXII - 1985 - - . I - Generalità, , Cucullinae - E. Berio - 972 pp., 32 tavole (110 + 178, tot. 288) Vol. XXIII - 1985 - Cladocera - F. G. Margaritora - 400 pp. (109) Vol. XXIV - 1986 - Tardigrada - W. Maucci - 388 pp. (204) Vol. XXV - 1987 - Coleoptera - Staphylinidae - Omaliinae - A. Zanetti - 472 pp. (200 ca.) Vol. XXVI - 1988 - Coleoptera - Cerambycidae (Catalogo topografico e sinonimico) - G. Sama - 216 pp. (267) Vol. XXVII - 1991 - Lepidoptera - Noctuidae. II - Sezione Quadrifide - E. Berio - 710 pp., 16 tavole (181) Vol. XXVIII - 1991 - Coleoptera - Meloidae - M.A. Bologna - 542 pp. (61) Vol. XXIX - 1992 - Aves. I - Gaviidae - Phasianidae - P. Brichetti, P. De Franceschi, N. Baccetti (eds) - 964 pp. (151) Vol. XXX - 1992 - Diptera Sciomyzidae - L. Rivosecchi - 270 pp. (80) Vol. XXXI - 1993 - Crustacea - Amphipoda di acqua dolce - G. S. Karaman - 338 pp. (89) Vol. XXXII - 1993 - Coleoptera - Nitidulidae - Kateretidae - P. A. Audisio - 972 pp. (168) Vol. XXXIII - 1994 - Coleoptera - Elateridae - G. Platia - 430 pp. (243) Vol. XXXIV - 1996 - Coleoptera - Staphylinidae - Leptotyphlinae - R. Pace - 328 pp. (157) Vol. XXXV - 1997 - Coleoptera - Lucanidae - M. E. Franciscolo - 228 pp. (9) Vol. XXXVI - 1998 - Acari - Ixodida - G. Manilla - 280 pp. (36) Vol. XXXVII - 1999 - Hymenoptera - Dryinidae - Embolemidae - M.

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Olmi - 426 pp. (133 + 3, tot. 136) Vol. XXXVIII - 2003 - Mammalia. III - Carnivora - Artiodactyla - L. Boitani, S. Lovari, A. Vigna Taglianti (eds) - 434 pp. (17 + 9, tot. 26) Vol. XXXIX - 2004 - Chaetognata - E. Ghirardelli, T. Gamulin - 158 pp. (30) Vol. XL - 2005 - Hymenoptera - Sphecidae - G. Pagliano, E. Negrisolo - 560 pp. (380) Vol. XLI - 2006 - Coleoptera - Aphodiidae - Aphodiinae - G. Dellacasa & M. Dellacasa - 484 pp. (128) Vol. XLII - 2007 - Amphibia - B. Lanza, F. Andreone, M. A. Bologna, C. Corti, E. Razzetti (eds) - 538 pp. (44) Vol. XLIII - 2008 - Plecoptera - R. Fochetti, J. M. Tierno de Figueroa - 340 pp. (160) Vol. XLIV - 2008 - Mammalia. II. Erinaceomorpha - Soricomorpha - Lagomorpha - Rodentia - G. Amori, L. Contoli, A. Nappi (eds) - 736 pp. (2 + 15 + 6 + 31, tot. 54) Vol. XLV - 2011 - Reptilia - C. Corti, M. Capula, L. Luiselli, E. Razzetti, R. Sindaco (eds) – 800 pp., 58 tavole (58) Vol. XLVI - 2011 - Porifera I - Calcarea, Demospongiae (partim), Hexactinellida, Homoscleromorpha – M. Pansini, R. Manconi, R. Pronzato (eds) – 554 pp., 16 tavole (185) Vol. XLVII - 2012 - Mammalia V. Chiroptera - B. Lanza – 786 pp., 47 tavole (39) Vol. XLVIII - 2012 - Orthoptera - B. Massa, P. Fontana, F.M. Buzzetti, R. Kleukers, B. Odé (eds) – 563 pp., 185 tavole, 1 CD Rom (349) Vol. XLIX - 2015 - Mammalia IV. Cetacea - L. Cagnolaro, B. Cozzi, G. Notarbartolo di Sciara, M. Podestà (eds) – 390 pp. + 105 tavole (23) Vol. L - 2015 - Marine Rotifera - W.H. de Smet, G. Melone, D. Fontaneto, F. Leasi – 254 pp. + 166 figs. (118) Vol. LI - 2017 - Ascidiacea of the European Waters - R. Brunetti, F. Mastrototaro – 447 pp. + 133 tavole in b/n e XIII tavole a colori (381)

Tab. 1. La Collana “Fauna d’Italia” - Volumi pubblicati (il titolo è in grassetto; tra parentesi il numero delle specie trattate in ciascun volume; è indicato, ove possibile, il numero delle specie riferite a ciascuna sezione (ad es., famiglia ordine), dalla cui somma è possibile dedurre il totale delle specie trattate in ciascun singolo volume).

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Per molteplici motivi, le informazioni disponibili sui vertebrati sono, dal punto di vista quali/quantitativo, ben superiori a quelle disponibili attualmente per moltissimi invertebrati per i quali il livello delle conoscenze (ciclo biologico, regime alimentare e più in generale rapporti con l’ambiente fisico e biotico) è pressoché nullo (Minelli, 2005). I volumi dedicati a faune marine sono in lingua inglese in quanto potenzialmente utili a tutti gli zoologi che si occupano di faune del Mar Mediterraneo; testimoniano altresì il respiro ormai internazionale acquisito dalla nostra FI. Collaboratori prolifici della collana sono stati gli eclettici naturalisti Enrico Tortonese (1911-1987), biologo marino ed ittiologo, e Benedetto Lanza (1924-2016), erpetologo e teriologo, autori o coordinatori di ben otto volumi della FI (il 15,7% del totale). Sette volumi (13,7%) sono dedicati a gruppi prevalentemente o esclusivamente marini, in particolare gli ultimi tre volumi della serie, a dimostrazione dei progressi significativi del livello delle conoscenze sulle faune dei mari italiani, in particolare negli ultimi decenni. Tre volumi (5,9%) sono dedicati a gruppi strettamente legati all’ambiente delle nostre acque interne. L’ordine rappresentato dal numero più elevato di monografie, ben 12 (23,5%), è quello dei Coleoptera a conferma di quanto precedentemente sostenuto in merito alla ricchezza di specie del gruppo; oltretutto, molte famiglie di Coleoptera non sono state ancora trattate o lo sono state solo parzialmente (ad es. nel caso dei cataloghi topografici e sinonimici). Nel corso di oltre 60 anni, la veste editoriale dei volumi della collana, tutti in coperta hdk, non è cambiata in modo sostanziale (Fig. 1).

Le Liste Rosse La seconda serie attualmente in progress dedicata esclusivamente alla nostra fauna è quella delle Liste Rosse IUCN. Le Liste Rosse (LR) IUCN costituiscono elenchi di specie, riferiti ad un determinato territorio, per le quali viene indicato il livello di rischio emerso a valle di un procedimento di valutazione noto come Risk Assessment, basato sulle conoscenze dell’ecologia della specie e sulla identificazione delle principali minacce in corso unitamente alla pianificazione di opportune azioni necessarie per contrastarle (Crucitti, 2016). Le LR costituiscono strumenti di lavoro essenziali ai fini della gestione delle aree protette e,

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più in generale, per impostare adeguate politiche di conservazione. In tale contesto, la mission è costituita dalla conoscenza dello status del maggior numero possibile di specie. A livello mondiale è la International Union for the Conservation of Nature (IUCN), fondata oltre 60 anni or sono con la missione di “influenzare, incoraggiare e assistere le società in tutto il mondo a conservare l’integrità e diversità della natura e di assicurare che ogni utilizzo delle risorse naturali sia equo ed ecologicamente sostenibile”, a redigere e diffondere Liste Rosse di specie animali e vegetali minacciate. La IUCN è considerata la massima autorità al mondo sullo stato di conservazione della natura. Gli esperti della IUCN, oltre 10.000 tra botanici, zoologi e specialisti in discipline affini, sono volontari provenienti da ogni parte del mondo; molti afferiscono alla Commissione per la Salvaguardia delle Specie o SSC (IUCN Species Survival Commission Specialist Groups) di cui fanno parte anche numerosi scienziati italiani. Fra i principali species assessors a livello mondiale, vi sono rappresentanti di NGOs e di enti di ricerca internazionali; BirdLife International, Zoological Society of London, World Conservation Monitoring Centre. L’autorità nazionale della IUCN è il Ministero dell’Ambiente; Federparchi è uno dei componenti del Comitato IUCN Italia e ne gestisce per statuto la segreteria. Dal 1963 la IUCN redige e aggiorna periodicamente la Red List of Threatened Species o Liste Rosse delle specie minacciate. All’inizio del 2013, la Red List ha valutato oltre 65.000 specie di cui oltre 20.000 minacciate di estinzione. Le Liste Rosse IUCN italiane non sono le uniche liste rosse sinora proposte per la fauna italiana, peraltro uno dei pregi di questa collana è la sua omogeneità, in particolare iconografica. Nel prospetto di Tab. 2 viene riassunta la situazione delle Liste Rosse IUCN d’Italia aggiornata al 2017 unitamente ad altri esempi di liste rosse italiane.

La fauna marina Alla fauna dei mari italiani (nove settori biogeografici del Mediterraneo che circondano la penisola e i gruppi di isole; otto aree principali più il “microsettore” costituito dallo Stretto di Messina) abbiamo appena accennato. La Società Italiana di Biologia Marina (S.I.B.M.) ha edito la “Checklist della Flora e della Fauna dei mari italiani” (Parte I - 2008; Parte II – 2010; Relini ed., 2008 e 2010)

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indispensabile aggiornamento della checklist della Calderini 1993-1995. In quest’ultima, lo ricordiamo, erano state elencate 57.000 specie raccolte in 110 sezioni di cui 32 sono dedicate totalmente, o in parte, alle 9.309 specie marine di cui 1.047 sono Protozoi. I capitoli relativi a specifici gruppi tassonomici sono curati da specialisti ad eccezione di pochi gruppi compilati dalla redazione. Nella Parte I sono presi in considerazione una ventina circa di phyla tra cui molti “minori” (costituiti al più da poche decine di specie), da Protozoa a Oligochaeta, per complessive 6.565 specie; nella Parte II sono presi in considerazione soprattutto Arthropoda, Bryozoa e Deuterostoma (Vertebrati inclusi) oltre a gruppi “minori” per complessive 3.257 specie; il totale di 9.822 specie costituisce un incremento significativo (+ 513 specie) rispetto alla Checklist del 1993-1995 (per inciso, le specie di piante, comprensive di Fungi, Phytoplankton, Microphytobenthos e Macrophytobenthos, am- montano a 2.772 specie di rango specifico e intraspecifico). Dalla fondamentale opera della S.I.B.M. ci separano tuttavia nove anni ed è pertanto evidente la necessità di un aggiornamento a breve scadenza (Fig. 2). Per concludere, la crescente attenzione verso la crisi della biodiversità a livello mondiale richiede, come base conoscitiva iniziale e irri- nunciabile, la realizzazione di inventari floristici e faunistici costantemente aggiornati per ogni singolo paese.

Liste Rosse IUCN della fauna italiana Autori / Anno

Lista Rossa dei Vertebrati Italiani Rondinini et al., 2013 Pesci Cartilaginei - Pesci d’acqua dolce -Anfibi - Rettili - Mammiferi Lista Rossa dei Coralli Italiani Salvati et al., 2014 Lista Rossa della Flora Italiana Rossi et al., 2013 1. Policy species e altre specie minacciate Lista Rossa delle Libellule Italiane Riservato et al., 2014

Lista Rossa dei Coleotteri Saproxilici Italiani Audisio et al., 2014

Lista Rossa delle Farfalle Italiane – Ropaloceri Balletto et al., 2015

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Lista Rossa dei Pesci Ossei Marini Italiani Relini et al., 2017

Altre Liste Rosse della fauna italiana Autori / Anno

Lista Rossa 2011 degli Uccelli Nidificanti in Italia Peronace et al., 2012

A Red List of Italian Saproxylic Beetles: taxonomic Carpaneto et al., 2015 overview, ecological features and conservation issues (Coleoptera) Proposta di una Lista Rossa dei Molluschi terrestri Maio et al., 2017 della Campania (Mollusca: Gastropoda)

Tab. 2. Alcune delle più recenti liste rosse della fauna italiana; le prime sette sono quelle incluse nella serie curata da MATTM, Federparchi e IUCN Comitato Italiano.

Fig. 1. Vol. I (1956) e Vol. LI (2017), rispettivamente il primo ed il più recente volume della collana Fauna d'Italia.

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Fig. 2. I due tomi della Checklist della flora e della fauna dei mari italiani (Parte I e Parte II) a cura di G. Relini, editi dal MATTM – Direzione Generale per la Protezione della Natura) e dalla Società Italiana di Biologia Marina (S.I.B.M.).

Bibliografia

AA.VV., 2018. Il Capitale Naturale in Italia. Aria, suolo, acqua, foreste. Un patrimonio da difendere e arricchire. Edizioni Ambiente, Milano.

Blasi C. (ed. in chief), Boitani L., La Posta S., Manes F. e Marchetti M. (a cura di), 2005. Stato della Biodiversità in Italia. Contributo alla strategia nazionale per la biodiversità. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare - Direzione per la Protezione della Natura - Società Botanica Italiana. Palombi & Partner S.r.l. , Roma.

Burgio G., Sommaggio D., Birtele D., 2015. I Sirfidi (Ditteri): biodiversità e conservazione. ISPRA, Manuali e Linee Guida 128/2015, 182 pp.

Cencini C. e Corbetta F. (a cura di), 2013. Il manuale del bravo conservatore. Saggi di Ecologia applicata. “Edagricole” – Edizioni Agricole de il Sole 24 ORE Spa, Bologna.

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Crucitti P., 2016. Strategie per la conservazione della biodiversità - Liste Rosse e Citizen Science. Europa Edizioni s.r.l. Roma, 161 pp.

Crucitti P., 2018. Principi e metodi della ricerca faunistica - La progettazione nelle ricerche sulla biodiversità animale. Edizioni Accademiche Italiane, 316 pp.

Crucitti P., Bubbico F., Di Russo E., Tringali L., Veltri Gomes L., 2016. La Collana “Fauna d’Italia”. Sessanta anni di politica editoriale per la fauna italiana. Scienze e Ricerche, suppl. al n. 35, agosto 2016: 3-46.

Minelli A., 2005. Fauna terrestre, stato delle conoscenze. In: Blasi C. (ed. in chief), Boitani L., La Posta S., Manes F. e Marchetti M. (a cura di), 2005. Contributo alla strategia nazionale per la biodiversità. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare - Direzione per la Protezione della Natura - Società Botanica Italiana. Palombi & Partner S.r.l. , Roma.

Pantini P., Isaia M., 2016. Checklist of Italian spiders. Version April 2016. http://www.museoscienzebergamo.it/web/index.php?

Pantini P., Mazzoleni F., 2018. I Ragni di Calabria (Arachnida Araneae). Riv. Mus. Civ. Sc. Nat. “E. Caffi” Bergamo, 31: 11-70.

Riservato E., Festi A., Fabbri R., Grieco C., Hardensen S., La Porta G., Landi F., Siesa M. E., Utzeri C., 2014. Atlante delle libellule italiane, preliminare. Socoetà Italiana per lo Studio e la Conservazione delle Libellule. Edizioni Belvedere, Latina, “Le Scienze” (17), 224 pp.

Pierangelo Crucitti

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Sezione didattica

(collaborazioni degli studenti)

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TOMMASO PARENTE (classe 1° D)

Viaggio al centro di Atene

Presentazione

Nell’ambito delle attività svolte durante l’anno nella classe 1° D, è stato dato ampio spazio alla lettura ed alla scrittura, proponendo, accanto alle consuete tipologie di testi, stimoli creativi che consentissero di dare libero spazio alla fantasia; dall’intenzione di coniugare il più possibile argomenti di studio e narrazione fantastica è scaturita la proposta, durante una prova scritta, di immaginare e ricreare il clima nella città di Atene all’indomani del primo conflitto contro i Persiani. L’alunno Tommaso Parente ha scelto di cimentarsi in tale prova ed in poco meno di due ore, il tempo disponibile per il compito in classe, ha ideato questo breve racconto che potremmo definire di “fantastoria”, semplice ma ricco di riferimenti e - perché no - anche di ironia. Mi è sembrato opportuno “salvarlo” dall’anonimato del foglio protocollo cui era destinato, per proporlo alla pubblicazione nell’Annuario del nostro Liceo come esempio di una competenza fresca e vivace che stimoli al riuso ed alla valorizzazione delle conoscenze acquisite.

Prof.ssa Maria Grazia Frabotta

La macchina del tempo finalmente si fermò. Indossai il chitone che era dietro il sedile, aprii lo sportello del veicolo per uscire e... solo allora la vidi! Quella davanti a me era la città di Atene, l’antica polis greca! Il mio esperimento era riuscito. Il cronometro della macchina segnava il 489 a. C. ed io era appena atterrato nel bel mezzo del Pireo. La prima guerra persiana si era da poco conclusa... Inghiottii la brezza proveniente dal mare intorno a me: l’aria mi sembrò molto più respirabile di quella del mio tempo. Le acque di quel mare così limpido, libere da alcun tipo di rifiuto galleggiante, rilucevano e scintillavano sotto un torrido sole estivo. Non vedevo l’ora di incontrare gli antichi Greci. Prima, però, mangiai del moly per comprendere il greco ed attivai il dispositivo di occultamento della macchina, per nasconderla da sguardi indiscreti.

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Risalii il porto del Pireo verso l’acropoli, fra gli splendidi riflessi del mare che si infrangeva sulla spiaggia. Ad un tratto, vidi un pescatore e lo salutai: “Buongiorno!”; quello mi guardò torvo e mi rispose: “Non è affatto un buon giorno, ragazzo!”. Preso dall’entusiasmo e dalla curiosità chiesi: “Come mai? È una bellissima giornata di sole!”. L’uomo sospirò: “Pare che i Persiani ci attaccheranno di nuovo ed a me è sembrato che la vittoria a Maratona sia stata solo merito degli dei, ma non so se potrà ripetersi...”. Sorpreso ed incuriosito, lo salutai e mi diressi in città. Mi sembrava una festa in costume, desideravo raggiungere l’agorà, per sentire il vero cuore pulsante di Atene. Nei paraggi, però, notai solo uomini, per lo più pensierosi e preoccupati. Finalmente la raggiunsi. Era gremita di bancarelle su cui i mercanti esponevano le loro merci. Notai un gruppetto di uomini che discutevano e decisi di aggregarmi. Uno di loro disse ad un altro: “Sei uno sciocco Androgeo, come si può sostenere Aristide?”. L’altro, molto irritato, gli rispose: “Preferisci per caso Temistocle, mio caro Filostrato? Vuoi che ci mandi a morire tutti? Ci siamo salvati una volta a Maratona, ma non penso che succederà ancora...Aristide, invece, vuole scendere a patti con i Persiani...”. “Qui ti sbagli, mio caro Androgeo” disse Filostrato con un sorriso di sfida. “Ti ricordo che Aristide è un aristocratico e questo è il momento migliore per mettere le mani su Atene...non posso dimenticare Ippia, i miei antenati uccisi e perseguitati, il regno del terrore! Temistocle, invece, vuole condurre tutto il popolo, dai teti ai pentacosiomedimni, verso la vittoria”. Androgeo rise: “Ne riparleremo quando sarai sulle triremi, a remare ogni giorno!”. Mi allontanai, la discussione stava diventando troppo vivace. Decisi allora di entrare nel mercato vero e proprio. Ascoltavo intorno a me il turbinio delle voci degli Ateniesi: “Devo raccogliere molte provviste, voglio portare via da Atene la mia famiglia...” diceva un uomo intento ad acquistare olive e fichi secchi; “Chissà se questa lancia mi potrà difendere dai Persiani...” diceva un altro, mentre osservava e toccava delle armi. Ad un tratto, si mossero tutti verso un punto della piazza. Mi diressi anch’io lì e, facendomi largo tra la folla, finalmente li vidi: Temistocle ed Aristide. Tutti fecero silenzio. “Aristide, come puoi pensare di scendere a patti con chi vuole privarci della libertà?” “E tu, Temistocle, come puoi voler continuare la guerra dopo Maratona? Sicuramente, i Persiani torneranno ancora più potenti e ci renderanno schiavi”. Tra i presenti, c’era chi

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tifava per l’uno e chi per l’altro, lo scontro si infiammò sempre più. “Vogliamo vedere chi Atena preferisce” disse Temistocle “facciamole un sacrificio e vediamo chi di noi due sarà il prediletto”. Aristide fece no con il capo e rispose: “Non è una faccenda per gli dei...”. “Avete sentito tutti!” disse Temistocle “Aristide, dunque, non crede agli dei...”. La folla sussultò, ondeggiò, scaldandosi come il bronzo sotto il sole. Ad un tratto, si udì “la cavalcata delle Valchirie”, la suoneria del mio cellulare! Impallidii. Gli Ateniesi rimasero sbalorditi: “Cos’è questa musica?” “Viene da quel ragazzo!” disse uno, indicandomi. Temistocle allora mi puntò contro un pugnale: “È sicuramente un mago, una spia dei Persiani, prendiamolo!”. Mi misi a correre più veloce che potevo… Ad Atene era tale la paura del nemico che si era scatenata una vera e propria caccia alle streghe ed io stavo per esserne vittima. Ritornai al Pireo e con il mio cellulare feci riapparire la macchina. Come il fulmine di Zeus, salii e l’accesi: gli Ateniesi, da fuori, battevano sul portellone, ma, grazie agli dei, riuscii a partire, allontanandomi da quel luogo tanto formidabile...

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MAURIZIO CASTELLAN

Miscellanea di matematica

Introduzione

Ricordiamo ai lettori che da diversi anni opera all’interno del nostro istituto un laboratorio di matematica pomeridiano per attività di ricerca e sperimentazione, con uno specifico ruolo attivo degli studenti. Lo scopo del progetto è guidare gli allievi nella ricerca di risultati matematici originali da raccogliere e illustrare in forma compiuta. Dall’anno scolastico 2009-2010 tale attività ha trovato ospitalità nel piano lauree scientifiche in collaborazione con l’Università di Tor Vergata (referente la prof.ssa Francesca Tovena). Nell’a.s. 2017-2018 le attività si sono concentrate nella progettazione e nella realizzazione di una mostra interattiva che coniugasse la matematica e la cioccolata: il “Choco Math”. La mostra è stata presentata il 22 ottobre 2018 all’”Eurochocolate 2018” a Perugia, ed è stata riconosciuta agli allievi come Alternanza Scuola Lavoro. Di seguito illustriamo le varie sezioni della mostra con le attività rivolte ai visitatori.

Maurizio Castellan ([email protected])

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Adriano Pecere Flavio Petrucci Agnese Cursi Lavinia Mileto Chiara Germano Giovanni Bacchetti Cristina Grani Lorenzo Buompane Francesco Mastidoro Lorenzo Cori Federica Taglia Luca Cianetti Paolo Alushi Pietro Pignalosa Ilaria Stortini

______Choco-Math è un piccolo laboratorio interattivo che utilizzando la cioccolata illustra in modo leggero e accattivante alcuni argomenti di matematica noti e meno noti. Il laboratorio introduce ai vari temi attraverso specifiche attività. Choco-Math è rivolto un pubblico vasto che va dal bambino all’adulto. Unici requisiti richiesti sono la curiosità scientifica e l’amore per la cioccolata. L’installazione utilizza in maniera preferenziale cioccolata proveniente dalla filiera del commercio equo e solidale. Elenco delle attività 1. Il Chomp e la teoria dei giochi. 2. Il paradosso dell'area scomparsa: come creare cioccolata dal nulla. 3. Terne pitagoriche. 4. La serie armonica: la torre sporgente. 5. Il teorema di Pick. 6. Il problema della scacchiera mutilata. 7. I numeri figurati

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Descrizione delle attività 1. Il Chomp e la teoria dei giochi Il Chomp [1] è la sfida tra due contendenti che devono, ad ogni mossa, mangiare almeno un quadratino di cioccolato. Chi mangia il quadratino avvelenato in basso a sinistra perde; vince quindi chi obbliga l’avversario a mangiare il veleno. La regola è che i giocatori hanno una bocca rettangolare: volendo mangiare un certo quadratino, il giocatore mangerà anche tutti quelli che si trovano più a destra e più in alto di esso. Per chiarire bene come funziona, proviamo a seguire una partita di Chomp.

Il primo giocatore sceglie il quadratino che si trova nella terza colonna da destra e nella seconda riga dall’alto e mangia 6 quadratini. Il rettangolo del suo morso è quindi determinato dalla scelta del quadratino in basso a sinistra. Il secondo giocatore risponde con una mossa in cui mangia due soli quadratini:

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infatti sceglie il quadratino nella seconda riga dal basso e nella seconda colonna da destra, determinando così il “morso” rettangolare che è tratteggiato nella figura. Questo morso ha l’effetto pratico di togliere i due quadratini marcati in grigio perché il resto era già stato mangiato nella prima mossa. Il giocatore che aveva cominciato sceglie il quadratino appena sopra quello avvelenato, e si fa una scorpacciata di ben 7 quadratini:

ma egli si accorge di avere in pratica regalato la vittoria all’avversario; e infatti,

mangiando tutta la cioccolata “sana” dell’ultima riga, il secondo giocatore costringe l’avversario alla sconfitta.

Il gioco del Chomp si presta ad interessanti analisi nell’ambito della teoria dei giochi [1] [2] [3]. Si dimostra ad esempio che esiste una strategia vincente per il primo giocatore ma solo in alcuni casi particolari è possibile descriverla.

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Il Chomp 1×n. Se la configurazione di partenza è una tavoletta 1×n come in figura è banale notare che il primo giocatore vince alla prima mossa

Il Chomp 2×n. Se la configurazione di partenza è una tavoletta 2×n come in figura:

la strategia del primo giocatore è togliere il quadretto in alto a destra

raggiungendo una configurazione a “scalino”; ora, qualsiasi sia la risposta del secondo giocatore, alla terza mossa chi ha cominciato può sempre ricreare per il secondo giocatore la configurazione a “scalino”, per un Chomp più piccolo e così via, fino alla configurazione e a quella perdente:

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Il Chomp n×n. Se la configurazione di partenza è una tavoletta quadrata n×n, la strategia del primo giocatore consiste nel togliere il quadretto immediatamente sopra e a destra rispetto quello avvelenato:

/

e poi proseguire “copiando” ogni volta la mossa del secondo giocatore (questa strategia prende il nome di “strategia simmetrica”).

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2. IL PARADOSSO DELL'AREA SCOMPARSA: COME CREARE CIOCCOLATA DAL NULLA Il paradosso dell'area scomparsa è un paradosso geometrico in cui la ridisposizione di una serie di tessere per semplice traslazione e rotazione sembra modificare la superficie totale delle tessere. Esistono diverse varianti di questo paradosso. Un esempio classico è il paradosso del cuneo.

Le due figure sono composte dalle stesse tessere di uguale superficie, come si può constatare contando i quadrati della griglia. Due triangoli con base ed altezza identiche hanno la stessa area. Ci si trova nella situazione paradossale in cui la somma di quantità uguali dà risultati differenti. In realtà, le due figure non sono davvero triangoli, ma sembrano tali per un effetto ottico; la prima è, di fatto, un quadrilatero, e similmente la seconda (oltre al quadratino "vuoto"). Secondo Martin Gardner il rompicapo espresso in questa forma fu inventato nel 1953 da Paul Curry, un prestigiatore di New York City, universalmente noto per essere l'autore di uno dei più semplici e straordinari giochi di prestigio con le carte, il celebre Out of this world. Nonostante questo, il principio delle evanescenze geometriche è da tempo conosciuto. Il primo esempio di area che sparisce risale al 1566 e compare nel Libro d’Architettura Primo di Sebastiano Serlio (1475- 1554), un architetto del Rinascimento.

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Mariano Tomatis ha utilizzato il paradosso dell’area scomparsa per creare l’illusione della creazione del cioccolato dal nulla [5] Si parte da una tavoletta di cioccolato, chiamiamola T, formata da 6 righe da 4 quadretti l’una. L’area totale è quindi di 24.

Ora tagliamo la tavoletta,

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eliminiamo il quadretto e riassembliamo la tavoletta come indicato

Otteniamo una nuova tavoletta che chiamiamo T’.

Quello che ci si aspetta è che l’area di T’ sia diminuita di 1 e valga quindi 23, in realtà, guardandola, sembra che l’area sia rimasta ancora 24. Ma questo non è vero! Se si osserva con attenzione, l’altezza di T’ è leggermente inferiore a quella di T.

Questo accade perché la terza riga dal basso ha perso una superficie pari all’area del quadretto che abbiamo eliminato, e quindi ha area 3 e non più 4. Questa perdita si nota poco perché la superficie persa viene spalmata orizzontalmente.

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L’altezza della riga in questione è diminuita ma la larghezza è rimasta identica.

Se chiamiamo h l’altezza della riga normale, e h’ quella della riga rimpicciolita in T’, vale la seguente relazione:

La riga “dimagrita” di T’ è alta il 25% in meno rispetto a prima. La nuova tavoletta T’ è larga come T, ha area 23, e la sua altezza vale 5 h + 3/4 h = 5,75 h, ovvero il 4% in meno.

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3. TERNE PITAGORICHE ll teorema di Pitagora Il teorema di Pitagora afferma che: In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.

In Algebra, il teorema di Pitagora si può esprimere così: Se a e b sono le lunghezze dei cateti di un triangolo rettangolo e c è la lunghezza dell'ipotenusa, si ha che:

Terne pitagoriche. Se tre numeri interi a, b e c verificano la relazione a2 + b2 = c2, si dice che formano una terna pitagorica. Ad esempio (3, 4, 5) e (5, 12, 13) sono due notissime terne pitagoriche, mentre non lo è (1, 1, 2) perché l'ultimo numero non è intero. Anche (6, 8, 10) è una terna pitagorica, ottenuta raddoppiando i termini della (3, 4, 5).

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Terne pitagoriche primitive e terne derivate.

Le terne come la (3, 4, 5) sono dette terne primitive e quelle come la (6, 8, 10) sono dette derivate. Infatti, se (a, b, c) è una terna pitagorica, lo è anche (ka, kb, kc), con k numero intero positivo. Come si distinguono le terne primitive da quelle derivate? Semplice: se a e b sono primi fra loro allora la terna è primitiva, altrimenti è derivata. Alcune osservazioni, in ordine sparso

In tutte le terne pitagoriche: - uno dei tre "lati" a, b, c è divisibile per 3 e un altro per 5 - il prodotto dei due "cateti" a×b è divisibile per 12 - il prodotto dei tre "lati" a×b×c è divisibile per 60 Nelle terne pitagoriche primitive: - uno dei due "cateti" a oppure b è pari e l'altro dispari, mentre l'"ipotenusa" c è sempre dispari - a, b sono primi fra loro Formula delle terne pitagoriche primitive Utilizzando le seguenti formule si possono ottenere tutte le terne pitagoriche primitive:

con m e n primi tra loro e uno pari e l’altro dispari

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4. La serie armonica: la torre sporgente. All’inizio del suo libro “L’ossessione dei numeri primi” il matematico John Derbyshire presenta il seguente problema [7]. Dato un mazzo di 52 carte di lunghezza L facciamo scorrere la carta in cima senza muovere le altre. Quanto possiamo sporgerla prima che essa cada? Ovviamente fino a:

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Ripetiamo ora l’operazione muovendo insieme la prima e la seconda carta. Quanto possiamo sporgerle prima che esse cadano? Il trucco è quello di pensare le due carte come una singola unità. Il baricentro si trova ora a metà del complesso delle due carte e quindi queste possono sporgere di

Si può provare che per le prime tre carte la sporgenza massima è

E in generale per le prime n carte si arriva all’espressione

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Quest’ultima può essere riscritta così:

Il termine tra parentesi è la somma dei primi n della successione armonica

Per il teorema di divergenza della “serie armonica” si ha:

Ne segue che la sporgenza del mazzo può essere grande a piacere (a patto di avere un numero sufficiente di carte)

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5. Il teorema di Pick. Nel suo lavoro del 1899 Geometriches zur Zahlenlehre (La geometria per la teoria dei numeri) il matematico austriaco Georg Alexander Pick (1859, 1942) nel “... tentativo di porre le basi della teoria dei numeri in modo nuovo e, fin dal principio, su basi geometriche…” dimostra un elegante e sorprendente teorema [8]. Dato un poligono P con i vertici a coordinate intere, indicati con:

• I: il numero di punti a coordinate intere interni al poligono

• F: il numero di punti a coordinate intere appartenenti alla frontiera di P

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l’area di P vale:

Esempio:

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6. IL PROBLEMA DELLA SCACCHIERA MUTILATA. Il problema di matematica ricreativa soprannominato ‘il problema della scacchiera mutilata’ nasce dalla domanda: “se si eliminano le due caselle bianche poste ai vertici di una scacchiera 8×8 è possibile ricoprire esattamente senza sovrapposizioni la superficie restante con 31 tessere del domino di dimensioni 1 e 2 volte il lato di una casella?”

La risposta è no e lo si può provare con il seguente ragionamento [9]. Si parte dalla considerazione ovvia che ogni tessera posta sulla scacchiera copre sempre una casella nera e una casella bianca; ne segue che dopo aver utilizzato le prime 30 tessere sono state coperte 30 caselle nere e 30 caselle bianche: restano scoperte due caselle entrambe di colore nero (e quindi non adiacenti) che l’ultima tesserina non potrà mai ricoprire! Il ragionamento può essere applicato anche a scacchiere di forma rettangolare.

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7. NUMERI FIGURATI.

Numeri triangolari

Consideriamo le seguenti figure formate da punti disposti in una struttura triangolare:

Possiamo valutare la quantità dei punti contandoli (i numeri ottenuti si dicono “numeri triangolari”), tuttavia tale metodo risulta poco efficiente quando i punti sono numerosi. Cerchiamo allora un metodo alternativo ad esempio mediante l’uso di una formula.

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A tale scopo vediamo cosa succede quando si sommano due triangoli uguali:

come si vede si ottiene una struttura rettangolare nel quale il numero delle colonne e delle righe differiscono per una unità. Cioè:

(dove Tn indica un numero triangolare che ha sull’ultima riga n oggetti e Rn,n+1 una figura rettangolare di oggetti con n righe e n+1 colonne) Il numero di punti del rettangolo si ottiene moltiplicando tra loro il numero di righe e quello delle colonne, quindi:

ma allora: da cui:

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Numeri quadrati

Nella figura è rappresentato il numero quadrato 36. Si vede chiaramente che il quadrato può essere scomposto in figure come quelle che seguono (chiamate “gnomoni”):

e siccome il numero di punti di tali figure non sono altro che i numeri dispari, si ottiene l’interessante proprietà:

Si può in effetti affermare che ogni numero quadrato è la somma dei primi numeri dispari.

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RISORSE

Il Chomp e la teoria dei giochi. Martin Gardner, Mathematical Games. Scientific American, Jan. 1973, pp.110-111. Emanuele Delucchi, Giovanni Gaiffi, Ludovico Pernazza, Giochi e percorsi matematici, Springer http://crf.uniroma2.it/wp-content/uploads/2010/04/Spunti-e-ricerche- intorno-al-gioco-del-chomp.pdf

Il paradosso dell'area scomparsa: come creare cioccolata dal nulla. http://www.marianotomatis.it/blog.php?post=blog/20110728

Terne pitagoriche. http://utenti.quipo.it/base5/pitagora/ternepit.htm

La serie armonica: la torre sporgente. John Derbyshire, L'ossessione dei numeri primi, Bollati Boringhieri

Il teorema di Pick. http://crf.uniroma2.it/wp-content/uploads/2010/04/Geometria-e-teoria- dei-numeri-aggiornato.pdf

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Il problema della scacchiera mutilata. http://crf.uniroma2.it/wp-content/uploads/2010/04/Geometria-e-teoria- dei-numeri-aggiornato.pdf

I numeri figurati php.math.unifi.it/convegnostoria/materiali/GiacardiNumeriFigurati.pdf http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/argoment/ParoleMate/ Mag_09/ Aritmogeometria.htm

Maurizio Castellan

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I “Quaderni del Liceo Orazio” n. 9 sono stati pubblicati e inseriti nel sito del Liceo Orazio nel mese di settembre 2019.

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