Il Meglio Del Cinema Italiano Nel 2017,Addio a Paolo Villaggio: Il Re
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Il meglio del cinema italiano nel 2017 Il 2017 per il cinema italiano è stato un anno fruttuoso, importante, che conferma la propensione italiana a fare del Cinema un’arte. Con quasi 500 lavori ufficialmente registrati presso l’ANICA, il nostro cinema si conferma come quantità di prodotti, il primo d’Europa e il secondo del mondo, in ossequio alla sua gloriosa storia. E anche come qualità questo è stato un buon anno, ci confermano questa sensazione i resoconti del festival di Venezia e dei film italiani presentati a Cannes. La figura femminile italiana che spicca in quest’annata è quella di Jasmine Trinca, trionfatrice a Cannes per la splendida e sofferta interpretazione del film di Sergio Castellitto, Fortunata. La giovane Jasmine Trinca si issa così tra le attrici più promettenti del panorama cinematografico nazionale. Proprio dal festival francese provengono quelli che probabilmente sono i tre migliori film italiani dell’annata: Cuori puri, A ciambra, L’intrusa. Tre film di autori diversissimi tra loro, ma che si pongono di fronte alle cose e alle persone, e ai loro rapporti con il contesto italiano, per provare a raccontarlo e a volte a interpretarlo. A ciambra di Jonas Carpignano è un film più di constatazione che di interpretazione. Racconta gli “anni di apprendistato” di un adolescente rom, Pio, in un paese calabrese, un ragazzo che per diventare adulto deve accettare le regole degli adulti che ha intorno: quelle della sua comunità rom (rom e non sinti), marginale da tutti i punti di vista, anche per la legge; quelle della comunità degli immigrati africani, che oggi sono marginali per definizione, ma si spera che le cose possano cambiare; e infine quelle della ‘ndrangheta. Roberto De Paolis in Cuori puri mostra una periferia romana dove le scelte sono ancora possibili, dove la prepotenza della società può essere combattuta dall’amore tra i due protagonisti e, sullo sfondo, dal gruppo a cui la ragazza appartiene. Mentre in L’intrusa, di Leonardo Di Costanzo, ci troviamo tra i cosiddetti “operatori sociali”, dentro un’esperienza educativa nella periferia napoletana dove si impone il confronto tra i “buoni” che si occupano del prossimo, tra cui i bambini – puri o recuperabili di per sé –, ma anche certi adulti che partecipano di una cultura e di una pratica camorriste. Direttamente da Venezia ereditiamo invece Il colore nascosto delle cose, di Silvio Soldini, con Adriano Giannini ed una strepitosa Valeria Golino, che non ha vinto per la terza volta a Venezia solo perché il film era presente alla kermesse fuori concorso. L’attrice rende in maniera impeccabile la complessità di una diversa condizione esistenziale ed interpreta una donna forte, in gamba, tenace che però deve fare i conti con la propria cecità. Fa da contraltare il personaggio interpretato da Adriano Giannini, un creativo che lavora presso un’importante agenzia di pubblicità e che quindi della vista ne fa praticamente il suo lavoro. Lui ci vede, fa un lavoro in cui l’elemento visivo o la sua evocazione sono fondamentali, ma la sua vita sembra avere bisogno di una messa a fuoco sia nel confronti di un passato familiare complesso sia nell’ambito delle relazioni uomo/donna. Il personaggio interpretato dalla Golino, che non è nata priva della vista, non ha dimenticato i volti e i colori che ha conosciuto nel passato così come non nega la propria disabilità ma non la affoga nel auto compatimento ed è in grado di affrontare un rapporto con la maturità che ciò che ha vissuto le ha consentito di sviluppare. I due finiranno per trovarsi, per innamorarsi l’uno dell’altro, rendendo al meglio la sensibilità del regista nei confronti del tema. Nella seconda parte dell’anno, quella commercialmente più rilevante val la pena nominare una serie di film, che si caratterizzano per la capacità tutta italiana di creare pellicole dalla struttura corale ben orchestrata. Così risultano particolarmente riusciti The place, di Paolo Genovese, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Rocco Papaleo; Caccia al tesoro, con Vincenzo Salemme; la saga di Smetto quando voglio, di Sydney Sibilla che sfocia negli ultimi due strepitosi capitoli della serie, Masterclass e Ad Honorem; La casa di famiglia, con Lino Guanciale e Stefano Fresi; Il premio, con Gigi Proietti, Alessandro Gassman e Rocco Papaleo; Come un gatto in tangenziale con Paola Cortellesi e Antonio Albanese; Chi m’ha visto? con la strana coppia composta da Beppe Fiorello e Pierfrancesco Favino, tanto bizzarra da funzionare. Un film niente affatto banale che analizza con tono ironico, i turbamenti provenienti dall’attenzione mediatica e degli effetti collaterali ad esso collegati, come il fatto che la notorietà conta più del talento, in questa società anestetizzata da programmi televisivi in cerca di un facile scoop. A concludere l’anno cinematografico all’italiana va citata la classica sfida di Natale, orfana di Leonardo Pieraccioni, che sarà nei cinema il prossimo anno, tutta incentrata sulla sfida tra i due ex compagni cinematografici De Sica e Boldi. Il primo in sala con il sequel di Poveri ma ricchi dal titolo Poveri ma ricchissimi; il secondo con lo squallido Natale da chef. Sfida stra-vinta dal sempre bravo Christian De Sica, che nel periodo natalizio è come sempre campione di incassi, come da trent’anni a questa parte. Infine chiudo l’articolo con quello che vuol’essere un omaggio a due stelle di prima grandezza del cinema italiano, che quest’anno ci hanno lasciato, ovvero Paolo Villaggio e Gastone Moschin. Due Maestri del cinema a cui il nostro Paese deve tantissimo e che ci mancheranno senza dubbio. Addio a Paolo Villaggio: il re del paradosso all’italiana Paolo Villaggio era uno di quei personaggi familiari, eterni, che conoscono anche le pietre. Paolo Villaggio era l’italiano del ‘900, era l’ultima grande Maschera del nostro cinema, era il re del paradosso. Paolo Villaggio ha rappresentato le mille anime dell’Italia post-boom economico, quella che si affacciava agli anni ’80, con convinzione, con coraggio, con determinazione. Fantozzi, Fracchia, il professor Kranz, erano tutte facce della stessa medaglia, tutte sfaccettature di un attore intelligente, che sapeva i gusti del pubblico e ne coglieva alla perfezione i mille tic, così come aveva fatto qualche anno prima il Sordi nazionale. Villaggio lo fa però, esagerando i caratteri grotteschi dell’italiano medio, raccontando l’Italia, in maniera ancora attualissima: è con queste caratteristiche che si afferma e arriva immediatamente nel cuore della gente, la figura del ragionier Ugo Fantozzi, innegabilmente il capolavoro di Paolo Villaggio. Quella di Fantozzi è una maschera che rimarrà indelebilmente appiccicata addosso al Villaggio attore. Così come il principe De Curtis non poteva fare a meno di Totò, cosi Villaggio dal 1975 in poi, non potrà fare a meno di Fantozzi. E’ la sua fortuna, il suo trionfo. Si registrano in 25 anni, dieci film della serie dedicata a Fantozzi, due invece sono quelli incentrati sulla figura del timido Giandomenico Fracchia. Ad un certo punto Villaggio, si divide tra Fantozzi e Fracchia, l’artista (e chi lo mette sotto contratto) comincia a sfruttare sistematicamente la sua comicità in una serie ininterrotta di “pellicole cloni”, dove l’attore ha modo di ribadire mimica e gag dei suoi personaggi. Così come Totò era sempre Totò in ogni personaggio rappresentato, così Villaggio, in tutte le parti indossate, oscilla costantemente, tra Fracchia e Fantozzi: è l’apoteosi della sua Maschera. E da questa serie di film, possiamo dire anche “ripetitivi”, che fuoriesce la sagacia e l’intelligenza di un attore, che a differenza di altri non diventa schiavo della sua maschera, ma la utilizza, ad un certo punto, per diventare attore a tutto tondo. P a o l o V i l l a g g i o i n t e rpreta Fantozzi E lo fa in grande, con il Maestro dei Maestri, ovvero con Federico Fellini, che disegna magistralmente su di lui, un film folle, uno strepitoso elogio alla follia, che è anche una satira della volgarità dilagante di fine secolo. La voce della luna (1990) dà l’occasione a Villaggio di ricevere il primo David di Donatello, come migliore attore, e gli apre le porte del cinema d’autore. La partecipazione al film di Fellini segna per il comico genovese l’inizio di una parallela attività nel cinema d’autore, lavorando con altri importanti registi. Sublime risulta in tal senso, Io speriamo che me la cavo (1992), pellicola diretta dalla cineasta romana Lina Wertmüller. Il film è un affresco sul disagio economico del Sud ed è tratto dall’omonimo bestseller di Marcello D’Orta che raccoglie temi scolastici di una terza elementare di Arzano (Napoli). La figura del maestro, assente nel libro, diviene, sullo schermo, il filtro attraverso il quale i piccoli esprimono la loro visione del mondo, e la realtà di degrado in cui vivono. Il Maestro è ovviamente Paolo Villaggio, che dona al professore tratti di incredibile e straziante comicità amara, sguardi, gestualità e tonalità di voce estremamente diversi dai film a cui eravamo abituati. E’ la rivincita dell’Attore sulla Maschera. L o c a n d i n a “ I o s p e r i a m o c he me la cavo” E questa carriera parallela di attore a tutto tondo, continua con Il segreto del bosco vecchio (1993), di Ermanno Olmi, (tratto dal libro di Dino Buzzati), con cui vince il Nastro d’argento, come migliore attore e Cari fottutissimi amici (1994), di Mario Monicelli, presentato al Festival di Berlino nel 1994 e vincitore di un Orso d’argento, nella sezione menzione speciale. In questi anni anche la critica specializzata si accorge di lui. E’ del 1992 infatti, il premio più prestigioso della sua carriera e avviene per merito del regista Gillo Pontecorvo, allora direttore della Mostra del cinema di Venezia che decide, nel 1992, di premiare l’attore con il prestigioso Leone d’oro alla carriera.