ITINERARI SENTIMENTALI PER LE CONTRADE DI MILANO

IV TESTO DI P. M EZZAN O TTE

Edizione fuori commercio curata da ALDO GALBiATI con i tipi delle officine d'Arti Grafiche E. Milli per la BANCA POPOLARE DI MILANO

L’atrio di Porta Ticinese (circa 1840). (Raccolta stampe Bertarelli)

L’APOSTOLO BARNABA A PORTA TICINESE

Il cristianesimo, secondo l’antichissima tradizione, entrò in Milano silenziosamente da Porta Ticinese, nell’anno di Cristo 52; e ancora oggi al n. 8 della piazza S. Eustorgio si addita il luogo, dove, in vista della cinta romana e della porta antica al Carrobbio, era il primo fonte battesimale della città; dove, si sosteneva, l’apostolo Barnaba aveva battezzato i primi mi­ lanesi addottrinati nei misteri della fede e aveva celebrato una prima messa. Reliquia preziosa, ancora oggetto di venerazione nel diciottesimo secolo quando a quelle acque si attribuivano virtù miracolose; tenuta in gelosa considerazione presso gli apologisti del rito ambrosiano, che con Barnaba primo vesco­ vo metteva le sue radici nella città. La prima croce inalzata da S. Barnaba sarebbe ricordata nel nome del Borgo di Santa Croce (invece secondo altra leg-

5 In Piazza S. Eustorgio - doveva il sacro fonte. (Fotografia Cardini, Milano) genda sarebbe stata innalzata il 13 marzo 52 presso i bastioni di Porta Orientale dove fu poi la Chiesa di S. Dionigi). Storia o leggenda? « Questa venuta e questo episcopato (dell’apostolo Barnaba) » scrisse Carlo Bascapè « non possia­ mo affermare con argomenti probabili in guisa da non bra­ marne altri più probabili ancora:... ». Se l’origine apostolica della Chiesa milanese può essere contestata, non è però messa in dubbio la remota antichità del rito ambrosiano, che doveva essere anteriore allo stesso Ambrogio, se Sant’Agostino gli fa dire: « Quando sono a Roma digiuno il sabato; a Milano non digiuno ».

6 II sepolcro del cardinale Branda di Castiglione in Castiglione Olona. (Raccolta stampe Bertarelli)

L’OFFICIO DI SANT’AMBROGIO

Ma del rito ambrosiano e dei suoi privilegi i milanesi fu­ rono in ogni tempo gelosi custodi: e ancora nel quindicesimo secolo per poco il cardinale Branda di Castiglione per tanti meriti insigne, accusato, a ragione o a torto, di aver tentato di sopprimerlo, per poco non lasciò la vita in una sedizione popolare.

7 Il fattaccio, oggetto di una dotta epistola latina, zeppa di classiche citazioni, stesa da un testimonio oculare, l’umanista Tobia dal Borgo, è brevemente ricordata dal Corio: « In que­ sto anno medesimo (1440) Brando da Castiglione cardinale di Piacentia volle disperdere l’officio de Sancto Ambrogio. Il modo fu che havendo in comenda l’abadia, cacio li Moniti Am­ brosiani e li misse Monaci Certosini »; i Milanesi, aggiunge, ricorsero al Duca, che senza troppi complimenti licenziò i cer­ tosini con energiche misure per i riottosi: « sotto pena dii foco ». Ma il peggio fu poi, quando il cardinale, trovandosi in cit­ tà coi suoi familiari per le feste natalizie, — nativo di Casti­ glione Olona, discendeva da antica famiglia milanese — si fece prestare dal preposito di S. Tecla un libro (« libellus » se­ condo l’epistola) custodito presso la basilica, ritenuto autogra­ fo di Sant’Ambrogio : e per Natale vi fece celebrare la messa cantata alla romana. Connettendo i due fatti, il popolo ne tras­ se le conseguenze che avvaloravano i sospetti e se ne accese il malumore. Il dì della Epifania (1441) era, come gli altri anni, grande ressa in Sant’Eustorgio, davanti alla vuota arca dei Re Magi. Si sparse la voce che il cardinale stava per partire: il Barba­ rossa, si diceva ad alta voce, ci ha spogliato di queste gloriose reliquie, ma questi fa di peggio; ci porta via anche quelle di Ambrogio. Il preposito di Santa Tecla, vista la mala parata, era passato nel campo dei malcontenti e invece di calmare gli animi gittava olio sul fuoco, eccitando gli esaltati a farsi giu­ stizia. Lasciata la chiesa, la folla si addensa minacciosa, in­ torno alla casa dei Brandi. Impaurito il cardinale gitta da una finestra il conteso libretto: ma i facinorosi non si contentano: il libro, si vocifera, non è quello cercato o gli sono state strap-

8 Ricostruzione elei sacello di S. Barnaba al fonte (prog. di F. M. Ricchino, 16 nov. 1621 - al piede firma di approvazione del card. Federico Borromeo). (A. S. C., Race. Bianconi) paté molte carte; vogliono avere il prelato nelle mani e mi­ nacciano di dare alle fiamme la casa; quando l’accorrere di vo­ lonterosi e risoluti soccorritori riesce a mettere in fuga i rivol­ tosi. Un disgraziato resta in mano alla giustizia e pagherebbe per tutti, impiccato ad una finestra del palazzo, senza l’inter­ vento generoso del Cardinale che lo nasconde nelle sue stanze e di notte gli agevola la fuga. Che poi Branda tendesse realmente alla soppressione del rito Ambrosiano è per lo meno discutibile : e si ricorda che pri­ ma del 1432, a Castiglione, suo luogo natale da lui ricostruito e ornato, a somiglianza di quanto Pio IV aveva fatto per Pien- za, aveva fondato una scuola di canto e rito ambrosiano. Sic­ ché, si dice, al rito ambrosiano non poteva essere avverso. Co­ munque dopo quella movimentata Epifania, secondo il Corio, lasciò Milano e più non vi fece ritorno.

9 San Carlo Borromeo distribuisce ai poveri il frutto della vendita del principato d’Oria - tela di Gio. Batta Crespi il Cerano. (Raccolta stampe Bertarelli)

LA FONTE

L ’antichissima fonte accessibile da una triplice gradinata, chiusa in rustico tempietto, fu ricostruita dal cardinal Fede­ rico Borromeo con eleganza di ornato secondo i disegni che ne rimangono nella raccolta Bianconi; e vi pose la prima pie­ tra nell’ottobre del 1623 « con l’assistenza del governatore (Don Gomez Suarez di Figueroa e Cordova, duca di Feria), tribunali e città, con infinito popolo concorso a quella di­ vina fondazione » (Torre) e il cardinale Borromeo che i con­ temporanei celebravano quale « eccellentissimo oratore » pre­ dicò dalla loggetta o pulpito detto di S. Pietro Martire a lato della facciata della basilica.

10 San Carlo Borromeo in una. stampa del primo Seicento. (Raccolta stampe Bertarelli)

Era appena compiuto il grazioso tempietto, e annuncian­ dosi la peste famosa, il 22 maggio 1630 si vide accorrere folla di popolo e clero secolare alla sacra fonte e genuflettersi e fare voto solenne per la liberazione della città dal flagello; la città si assoggettò a penitenze e quattro giorni di digiuno. Ma pur­ troppo anche queste adunate ad altro non riuscivano che a 11 diffondere maggiormente il contagio. Ancora ai tempi di La- tuada il tempietto era in onore anche per le reliquie che cu­ stodiva, fra l’altre una fiala con sangue di S. Carlo, ivi depo­ sta, crediamo nel 1630, finché vennero i cisalpini a piantare in luogo di croci alberi della libertà: sconsacrata e abbando­ nata la fonte, appena ne restò memoria nei disegni della rac­ colta Bianconi e nel testo delle antiche iscrizioni lette dal- l’Alciato e dal Puccinelli. Ma qualcuno se ne ricordò nel secolo scorso: ne scrisse il sacerdote Don Rota, benemerito rievocatore di antichità mi­ lanesi, e sul muro esterno della casa al N. 8 della piazza fu collocata nel 1881 una lapide che ricorda San Barnaba e il cardinale Federico. Notiamo con soddisfazione che nella nostra città, troppo indaffarata per preoccuparsi di minuzie, la lapide ha finora resistito: forse per dimenticanza, e diremmo, per lodevole eccezione. Perchè a Milano le iscrizioni commemorative perio­ dicamente spariscono. Chi sa, a mo’ d’esempio dove è finita la lapide di marmo del Duomo che, in via Velasca, ne ricordava l’apertura per merito del governatore spagnolo o quella che ricordava Gerolamo Cardano in Via della Chiusa?

IL PIANTO DEL CARDINAL FEDERICO

La fonte di S. Barnaba conferiva un crisma di santità alla Porta Ticinese, sicché i solenni ingressi degli arcivescovi si facevano di preferenza da quel quartiere. Cortei spettacolari, dove il prelato procedeva su bianca chinea, sotto un ricco e pesante baldacchino, che otto gentiluomini della famiglia Confalonieri reggevano per antico privilegio, seguito da im­ menso stuolo di clero, autorità, armigeri e popolo : e dopo una Il Cardinale Federico Borromeo. (Raccolta stampe Bertarelli) sosta alla basilica di Sant’Eustorgio, per il borgo della Cit­ tadella, il Corso di Porta Ticinese, il Carrobbio, le Corsie di San Giorgio e della Palla, le contrade della Lupa, dei Pen- nacchiari e dei Mercanti d’oro, muoveva alla Metropolitana. Così il 23 settembre 1565, di domenica, entrava in Milano in età di ventisei anni Carlo Borromeo, seguito dal clero in pompa magna, dal governatore, Duca d’Albuquerque, dai magistrati, dalla nobiltà, da un numero quasi infinito di po­ polo, anche accorso dalle terre vicine.

13 Spettacolo nuovo per Milano, dove da sessantanni più non risiedeva nessun arcivescovo, dove la sedia episcopale era diventata prebenda della casa d’Este che qui mandava vi­ carii, in tutto indaffarati, fuorché nell’esercizio del sacro mi­ nistero. Tutto concorreva a esaltare l’entusiasmo popolare; si gri­ dava : sarà un altro Sant’Ambrogio. E parevano opporsi le po­ tenze infernali, « Si udivano dall’altra parte lamentevoli stre­ piti e grida di persone spiritate, che muggivano come be­ stie, ululavano e stridevano quasi che fosse loro di tormento estremo la presenza di questo santo Arcivescovo : cose che fu­ rono notate per molto meravigliose ». Così il Giussani, apolo­ gista del Santo. Dell’ingresso di Federico Borromeo è la minuta descri­ zione lasciata dal suo biografo, il Rivola. Movendo da Roma il 23 luglio del 1595, ricevuto durante il percorso con magni­ ficenza dal granduca di Firenze, dal Duca di Parma, poi dal conte di San Secondo, trovò in Milano « solennissimo ap­ parecchio, che superò di gran lunga i trionfi fatti nei passati secoli per l’introito di altri arcivescovi ». Quattro archi trion­ fali, pitture, statue, emblemi, imprese, iscrizioni dettate dal gesuita padre Negroni: da S. Eustorgio al Duomo la strada era ripulita e tappezzata di quadri, coperta da panni a tale al­ tezza da non impedire la veduta dalle finestre; precedeva lo stendardo di S. Ambrogio, seguiva una mula coperta di rosso recante il cappello cardinalizio, poi una schiera di fanciulli con ali d’angelo, palme e ulivi, scuole, compagnie, confraternite, collegiate, conventi, canonici del Duomo, una cavalcata di gen­ tiluomini ingemmati, in vesti sfarzose, il maestro delle cerimo­ nie, con tre sacerdoti recanti la crocetta, la mazza, la mitra; sotto il baldacchino di tela d’argento retto dai soliti otto Con- falonieri appiedati, il Cardinale su bianca mula; i vescovi, il

14 Lo stendardo di Sant’Ambrogio. (Raccolta stampe Bertarelli) senato, gli oratori dei principi, i dottori del Collegio, i sessanta Decurioni, i Dodici di provvisione, la nobiltà... Allo smontare dalla chinea, avanti al Duomo, fu d’uopo salvare con la forza il prelato dalla ressa, e gentiluomini gli furono attorno snudando la spada, poiché non bastavano a proteggerlo gli alabardieri e per poco non corse sangue in tanta festa. Dopo la faticosa cerimonia, attesta il Rivola, pianse inin­ terrottamente tutta la giornata, considerando che, quanto mag­ giore era l’esultanza del popolo festeggiante, tanto maggiore era il peso da sopportare e più stretto il conto che doveva rendere a Dio. Ma nulla gli temperò quel suo pianto interiore, quanto l’incontro di una fanciulletta in abito d’angelo che gli diede con viso ridente e semplicità di parola commossa il ben­ venuto. Gli parve visione di Paradiso. Volle poi, a mezzo del confessore, rintracciare la giovinetta; forse il confessore non credette di doverlo secondare: l’angelica apparizione più non si doveva rinnovare.

DON FILIPPO VISCONTI E GIUSEPPE II

Dopo Federico Borromeo la sedia archiepiscopale, come noto, continuò ad essere appannaggio delle grandi famiglie patrizie della diocesi, sicché si ebbero successivamente un ar­ civescovo Monti, un Litta, un Visconti, un Caccia, un Archinti, un Erba Odescalchi, uno Stampa, un Pozzobonelli, tutti ele­ vati agli onori della porpora. L’ultimo della serie, succedendo al Pozzobonelli, fu Don , rampollo del­ la stirpe ducale (e deH’ultimo duca Visconti portava il nome), beneviso ai concittadini e da questi accolto con soddisfazione, ma destinato a pericolose acrobazie fra la casa d’Austria e i

16 giacobini di Francia alternativamente incensati, i Russi di Su- varoff, Napoleone primo console (« Don Felip, quel gengiva­ rii... ») e morire di apoplessia a Lione, in un festante pranzo diplomatico. Non ci è dato rievocare fastose accoglienze e sfilate so­ lenni, quali ai tempi dei due Borromei, perchè tutto si ridusse ad una visita delle autorità al prelato nel palazzo arcivesco­ vile, per assistere poi alla prima messa pontificale celebrata nella metropolitana (5 settembre 1783). Dimenticata la tradi­ zionale visita al fonte di S. Barnaba e al vecchio Sant’Eu- storgio. Don Filippo era membro dell’Accademia dei Trasforma­ ti; e non doveva mancargli un omaggio di poesia; la canzone che Domenico Nervi, maestro di poetica al Collegio Calchi, aveva composto in suo onore per l’occasione:

No, non andrai Signore Senza Tonor del canto Cinto del sacro ammanto Ch’oggi ti fa Pastore Verran fra i prieghi e i voti Appiè delTara i versi miei devoti

Seguiva una sviolinata sui meriti della casa ducale dei Visconti e un devoto inchino alTlmperatore, che « Principe amico e padre... Vuol che nell’oro antico - Tornar veggia la Fede il tempo antico... ». Se non che l’Imperatore Giuseppe II (e per esso l’arciduca Ferdinando) aveva iniziato il suo severo controllo sulla chiesa e sui beni religiosi e aveva rivendicato a sè l’elezione dei ve­ scovi, e poiché qualche giorno dopo il Comune nella persona del vicario Don Cesare Scaccabarozzi intendeva promuovere

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2 Arcivescovo Filippo Maria Visconti. (Raccolta stampe Bertareili) più appariscenti « dimostrazioni di giubilo » per le elezioni del Visconte, una lettera di governo le approvava sì, ma con riserve che significavano esplicita rivendicazione anche in que­ sta materia dei diritti dello stato :

1783 - 14 settembre

« Volendo S. A. Reale, che si diano le pubbliche dimostra­ zioni di vero giubilo da cui è intimamente penetrata q.sta Città per l’elezione e nomina in Arcivescovo il Monsignore Don Fi-

18 lippo Visconti preposto dalla Metropolitana, ben volentieri conviene nella proposizione di V.ra Ecc.za... (om.). Ad oggetto però di uniformare gli avvisi alle particolari combinazioni de’ tempi V.ra Ecc.za farà rettificare le module che ora, secondo il sistema, devono dipartire dagli ordini del Governo... (om.). Dipendendo per la nomina soltanto dalla Sovrana Podestà, avrà speciale riguardo, che non si faccia menzione del Papa ma unicamente di S. Maestà l’Augustissimo imperatore e Re nostro Signore che ha richiamato a sè questo originario suo di­ ritto, come pure sarà cura di V.ra Ecc.za che sia modificato l’articolo in cui viene prescritto a tutti gli artefici intervenire coi loro confaloni... (om.). ' W lLZ E C K

Il Vicario ha capito, ed ecco la sua grida del 16 settembre, dove non è parola del Sommo Pontefice e l’arrivo dell’Arcive­ scovo è onorato come quello di un alto impiegato di stato: « Degnatasi Sua Maestà l’Augustissimo Imperatore e Re nostro Signore col richiamare a sè uno degli originari diritti di nominare in Arcivescovo di questa Metropoli Mons. Ill.mo e Rev.mo D. Filippo Maria Visconti... (om.) ne risulta un do­ vere a questo pubblico di dare le più vive dimostrazioni di giubbilo per un sì consolante avvenimento... ». Prosegue ordinando l’illuminazione alle finestre dalla una alle tre di notte (gli anziani delle parrocchie daranno i nomi dei disubbidienti); le autorità cittadine, le rappresentanze lai­ che, operai e artigiani da una parte, dall’altra il clero secolare e regolare e le confraternite si danno convegno, a ringraziare f Altissimo, nella Imperiale basilica di Sant’Ambrogio, sempre col permesso e con l’espressa autorizzazione dell’I. R. Governo. Sopra il portale della Chiesa, un ornato cartellone in caratteri cubitali rende onori in pari grado al Signore Iddio (D.O.M.) e all’Imperatore (Josephus II); e, in misura più modesta, al nuovo Pastore. Il Pontefice è del tutto ignorato. E all’Arcivescovo nominato dall’Imperatore S.S. il Papa Braschi non conferì la porpora cardinalizia.

FESTE DINASTICHE

Le cerimonie laiche si svolgevano invece, come ormai sap­ piamo, di preferenza da Porta Romana e qualche volta soltanto da Porta Ticinese, allorché il personaggio festeggiato veniva per via d’acqua, sbarcando al laghetto di Sant’Eustorgio; ma non sempre assumevano l’imponenza degli ingressi da Porta Romana, anche per le grame condizioni del pavimento stra­ dale. Per via d’acqua fu l’ingresso in città di Isabella d’Aragona (1 febbraio 1489) sposa a Giangaleazzo Sforza, scortata da adorni bucintori; e due anni dopo era la volta di Beatrice d Este, attesa dal Moro suo sposo e dalla famiglia ducale nella basilica di Sant’Eustorgio : sicché al gioioso evento non mancò la san­ zione religiosa. Nulla faceva allora presagire la bufera che doveva troncare le fortune della discendenza di Francesco duca e arrestare insieme la crescente prosperità del ducato. Seguiva a segnare il cadere degli Sforza, sempre da Porta Ticinese, il trionfale ingresso di Luigi XII: cerimonia di fasto inaudito, strepito d armi, suonar di trombe, frusciar di sete, scalpitar di cavalli e di mule. Muovevano incontro al Re gli ambasciatori di Venezia, di Firenze, di Siena, di Pisa e di Genova, con seguito di seicento cavalieri; gli facevano scorta il duca di Savoia, il marchese di Monferrato, il cardinale di S. Pietro in Vincoli: poi il clero osannante, trombetti, paggi, armigeri, musicanti. A parte pre-

20 Arco onorario eretto a Porta Ticinese disegno di F. M. Rivellino. cedeva il tristo vincitore al servizio di Francia, Giangiacomo Trivulzio, in arcioni col bastone del Comando sotto il baldac­ chino retto da dottori e fisici colleggiati vestiti di scarlatto: era onore riservato ai sovrani: nè il maresciallo dissimulava le sue ambizioni, che dovevano così presto andar deluse. Il 10 marzo del 1533, apparve alla antica porta Carlo V « Non con gran pompa... et andò al Domo, dal Domo al Ca­ stello et non con gran pompa... el nostro Duca ghe dette el

21 Maria Cristierna di Danimarca. (Raccolta stampe Bertarelli)

Castello e lui andò a logiare a Santa Maria delle Grazie » scri­ veva il Burigozzo merzaro, e, aggiungeva con rapido trapasso sottilmente ironico « comenzò a crescere la victualia ». Per le pestilenze, i disagi delle guerre e le estorsioni, Milano, fiorente sotto Ludovico il Moro, era ridotta alla miseria.

L’ULTIMA DUCHESSA

Fiamme di speranza accendeva l’anno dopo la venuta, dal laghetto di Sant’Eustorgio, di Cristierna (o Cristiana o Cri­ stina) di Danimarca, nipote di Carlo V, la giovine sposa di Francesco II. Brillava il sole d’aprile sulla città assordata dallo

22 Francesco II Sforza. • (Raccolta stampe Bertarelli) sparo delle artiglierie che guarnivano le torri e gli spalti del castello e dall'ininterrotto scampanare a festa. Iustitia et pax osculatae sunt, proclamavano le scritte su­ gli apparati architettonici di tela e gesso. Il popolo giubilava nella vana lusinga di un ritorno dopo tante tribolazioni alla prosperità sforzesca. Pesantemente vestita di broccato d’oro, la principessa con­ quistò subito le simpatie del pubblico: non aveva che quin­ dici anni, e al suo fragile aspetto il cuore delle popolane si accendeva di commozione materna. Era anche graziosa, sic­ ché l’adulazione cortigiana e il favor popolare non potevano faticare a definirla una divina bellezza. « Della bellezza della

23 Sua Excellentia veramente è più gera divina che umana » esclamava il Burigozzo. Dopo la cerimonia in Duomo, fu scortata al Castello. La reggia di Ludovico il Moro, spoglia dello splendore che la corte sforzesca le aveva conferito, rabberciata alla meglio nelle sale interne per ospitare la novella duchessa, forse le sembrò minacciosamente triste. Incontro le muoveva lo sposo: una larva d’uomo che a stento si reggeva, appoggiandosi ad un ba­ stone. Le sventure, l’esilio, i patemi d’animo che avevano op­ presso la sua esistenza ne avevano fatto un vecchio cadente a poco più di quarant’anni. Pareva il simbolo della sua dinastia, prossima ad estinguersi senza gloria. L ’anno dopo il duca Francesco si spegneva di consunzio­ ne : e con lui aveva fine il ramo mascolino degli Sforza. Nella breve convivenza il matrimonio era rimasto sterile. Sul mila­ nese si stendeva l’ombra greve della signoria spagnola. Delle fastose e rumorose cerimonie e dei costosi apparati del 1534 rimase al quartiere il ricordo, e, unico beneficio, il selciato ri­ fatto a nuovo dalla porta medioevale alla metropolitana. E la buona Cristierna? Vedovella ancora adolescente, ri­ tentò l’avventura matrimoniale con Francesco duca di Lorena. Ma anche questo esperimento non doveva essere fortunato, sicché dovette per una seconda volta rivestire le gramaglie vedovili. Allora forse le sorrise nostalgico il ricordo delle festose accoglienze milanesi, nè a distanza di tempo, il suo breve sog­ giorno a fianco dello Sforza infermiccio, doveva avere lasciato troppo ingrati ricordi, se alla fine rivide l’Italia e si stabilì nella piccola Tortona, fra la piana del Po e le prime ondulazioni dell’Appennino; e qui, ospite dei Guasco, terminò serenamen­ te la sua esistenza confortata di onori l’ultima duchessa di Milano.

24 Don Gonzalo Fernandez de Cordova. (Raccolta stampe Bertarelli)

L’EROICA FERMEZZA DI DON GONZALO

Quasi un secolo dopo governando — o sgovernando — gli Spagnoli, il popolo festeggiò a modo suo, con singolare ce­ rimonia, non più un ingresso principesco, ma la ritirata inglo­ riosa di Don Gonzalo da Cordova, che, inviso alla città da lui angariata, la lasciava finalmente imbarcandosi alla Darse­ na di Porta Ticinese: lo salutarono fischi assordanti, suono di trombette, motteggi salaci accompagnati dal gettito di pomi fradici e torsi di cavolo.

25 Era la prima volta che i Milanesi « soliti a patire ed ap­ plaudire » (Cantù) mancavano di rispetto ad un governatore del Re cattolico. Ma si sapeva che il Cordova era in disgrazia a Madrid e forse i fischi non spiacquero troppo in alto luogo. Il grand’uomo, che in altri momenti avrebbe risposto con pa­ tiboli, catene e tratti di corda, si guardò dal reagire e si atteg­ giò, faute de mieux, in dignitoso silenzio: sopportò insomma, dice un suo biografo, la disavventura con « eroica fermezza d’animo ». Si veda un po’ dove va a finire l’eroismo.

IL NIPOTE DI LUIGI XIV ED EUGENIO DI SAVOIA

Declinando la potenza spagnola, tutta Milano accorse fe­ stante all’arrivo del giovane Filippo V; la curiosità era tanto più viva, dacché dopo Carlo V nessun Re di Spagna aveva mai visitato la capitale dello stato lombardo (18 giugno 1702): incontro al monarca, al suo sbarco al Finale, era stato col Vau- demont il marchese Rosales e gli aveva offerto in omaggio una corona e uno scettro d’oro. Secondo le antiche usanze, lo stradale, dalle mura al pa­ lazzo di Corte era coperto di tele e difeso dai raggi del sole : arazzi, panneggi alle pareti : la milizia urbana in divisa nuova fiammante faceva ala al lungo percorso. Sfilare interminabile di carrozze. Spettacolo non mai visto nè udito dai vecchi. Dopo lunga attesa, gran polverìo e scalpitar di cavalli sullo stradale di Pavia: un reggimento di dragoni spagnoli precedeva il Re a cavallo di un irrequieto corsiero, attorniato da Grandi di Spagna. Il Vicario fra le acclamazioni offerse le chiavi della città: scampanio incessante, rimbombare di arti­ glierie. Alla una e mezza di notte, secondo l’etichetta spa­ gnola uscì per cenare in pubblico; ostentazione di eleganze, stoviglie d’oro: assisteva il duca d’Ossuna assaggiatore uffi­ ciale delle vivande.

26 Principe Eugenio di Savoia (dipinto di J. H. Strupp) (Raccolta stampe Bertarelli)

Venti giorni si fermò in città e durante un temporale lo si vide impassibile sotto il diluvio assistere allo sfilare di equi­ paggi venuti di Spagna. Nulla mancò, perchè il Sovrano, edu­ cato alla Corte di Francia, raccogliesse simpatie: ma già va­ cillava sul trono. Imperversando la guerra di successione, fu poi la volta degli Imperiali. E il 26 settembre del 1706 entravano da Porta Ticinese le truppe austrosarde. Dopo la luminosa vit­ toria di Torino, Eugenio e il duca di Savoia, conquistata No­ vara, avevano marciato su Milano e, piantato a Corsico il lor

27 quartier generale, avevano mandato un ufficiale con 60 corazze a lagnarsi che secondo antica consuetudine, la città non aves­ se inviato una deputazione al vincitore che aveva varcato il Ticino. Brutto quarto d’ora per Milano minacciata dai bom­ bardamenti degli spagnoli, che, sotto il comando dell’ottua­ genario marchese della Florida, tenevano ancor saldamente il Castello: minacciata di violenze dai vincitori di Torino. Buone notizie la sera del 24, allorché una deputazione inviata a Corsico ne ritornava con l’assicurazione che Milano sarebbe stata risparmiata. « La mattina del 26, che era domenica, il signor principe Eugenio fu incontrato a Corsico dal Senato, tribunali, decu­ rioni, da tutta la nobiltà, e da infinità di popolo che han gridato più viva, che se fosse stato il Messia. Egli levatosi dal suo campo accompagnato da tutta la generalità, e seguito da grosso nerbo di cavalleria, comparve entrando da porta Ticinese. Trovò quel lungo corso vagamente addobbato con tutta la nobiltà riccamente vestita, le dame alle finestre con gala verde si facevano sentire in modo che parevano tutte ebbre di gioia; fu accompagnato da continui viva fino alla metropolitana, mostrando il signor principe col proprio cappello in mano sommo aggradimento al cuore di questo popolo: è una cosa che non si può esprimere. Alla porta del Duomo, incontrato dal capitolo, fu con le solite cerimonie accompagnato sino al- l'altar maggiore, e postosi a sedere sotto il baldacchino, il cardinale, fatto il cerimoniale solito coi governatori di questa città, intuonò il Tedeum. S. A. sentì la Santa Messa nella cap­ pella di San Carlo; e rimontato a cavallo portossi a pranzo con tutta la generalità a casa del marchese Cesare Visconti; riportandosi la sera al suo campo di Corsico. » Lo stesso giorno per la prima volta alle armi di Spagna sottentrava l’aquila imperiale con inquartata la biscia viscontea.

28 La lapide a Napoleone vincitore debellatore pacificatore. (Raccolta stampe Bertareili)

LA PORTA MARENGO

Quasi un secolo dopo, il 2 giugno ’800 irrompe nella città il generale B ertier, cavalcando a capo delle truppe di Francia; precede Napoleone vittorioso a Marengo e passa fra lo stupore del pubblico, disorientato dai bruschi e ripetuti colpi di scena. Ma il 14 dello stesso mese in carrozza tratta da sei cavalli con brillante seguito di ufficiali, da gran signore, entra il Primo Console stesso senza troppo apparato militare: i popolani ve­ dono in lui l’aspetto rassicurante del pacificatore e gli copro­ no la carrozza di fiori.

29 La medaglia di Marengo (il recto da dis. di Davy, il verso di Andrea Appiani) (Fotografìa Cardini, Milano)

Alla sera, la cttà è tutta illuminata e festante. A memoria dell'avvenimento porta Ticinese è ribattezzata porta Marengo e una lapide ornata di fasci littorii ne celebra la consacrazione al genio dell’eroe vincitore debellatore paci­ ficatore (lapide che poi il 1815 gli austriaci — o gli austria­ canti — si affretteranno a distruggere). Contemporaneamente la commissione governativa delibera il conio di una medaglia commemorativa — Hostibus prope Marengum fusis — e ne affida il disegno ad Andrea Appia­ ni, l’incisione allo scultore Luigi Manfrèdini. Riuscì di greca perfezione: è, insieme con le medaglie coniate più tardi su disegno di Giuseppe Bossi, fra le più belle della ricchissima medaglistica napoleonica: non reggono al confronto le troppo celebrate contemporanee del francese Denon. Il 5 messidoro a. VIII della Repubblica Francese (24 giu­ gno 1800) la Commissione straordinaria di governo, di recente insediata, « per dare un pubblico testimonio alla sua ricono­ scenza alla Nazione Francese, ed al primo console Bonaparte, e per eternare la memoria della prodigiosa vittoria di Maren- Andrea Appiani. (Raccolta stampe Bertarelli) go » invitava architetti ed artisti a presentare progetti pet­ tina colonna di granito, che da una parte portasse scolpito il discorso tenuto in Milano il 22 brumale dell’anno VI dal Bo­ naparte, dall’altra una epigrafe esaltante la vittoria di Ma­ rengo. Premio una medaglia d’oro di cinque zecchini. Il con­ corso non ebbe esito, sicché con successivo decreto 10 termi­ doro (6 agosto) si ribadiscono i termini del concorso (due de­ cadi per ultimo termine alla presentazione del progetto) e la Commissione aggiudicatrice si dichiara composta da: Andrea Appiani, Giuseppe Levati (professore di prospettiva a Brera) e l’architetto ticinese Simone Cantoni, Soli di Modena, Marti­ netti di Bologna: nomi grossi.

31 Vincenzo Monti, dal busto di Pompeo Marchesi.

Nelle Carte del Cagnola lo scrivente ha trovato diversi disegni di colonne, dedicate a Napoleone, che si dovreb­ bero riferire a questo concorso. Ma la colonna dovette sembrare poca cosa e da un « gruppo di possidenti mila­ nesi « che forse avevano qualche cosa da farsi perdonare dal Còrso vittorioso, o qualche speranza da coltivare, il cittadino, ci-devant marchese, Cagnola ebbe incarico di erigere a Porta Ticinese un atrio maestoso, di viva pietra, che più degnamente celebrasse l’evento. Il Cagnola poneva la sua candidatura ad architetto uffi­ ciale del consolato e poi del regno, per passare, alla caduta di Napoleone, al servizio di Francesco II imperatore. Ma ser­

32 Il marchese Luigi Cagnola (G. Zanolo - dis. dal vero) vizio è parola impropria, perchè il Cagnola, orgoglioso come un pascià, non accettava compensi in denaro per la sua opera di ar­ chitetto. Accettò invece, al ritorno degli Austriaci, la nomina a Ciambellano di S. M. Apostolica. Sul fregio dell’atrio secondo il progetto originario del Cagnola si doveva leggere : Napoleo­ ni Magno Victori. Fu scritto invece : Paci Populorum Sospitae.

LA PACE

Era la pace di Vienna, pace infausta. Eppure la magica parola aveva risonanza nel cuore dei popoli stanchi di sacri­ fìci sull’altare di Bellona. Nè poteva comunque suonare sgra­

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3 dita agli stessi finanziatori del monumento napoleonico, dac­ ché nel Buonaparte di Marengo si ammirava l’eroe ma si fe­ steggiava, si esaltava soprattutto il datore di pace. Era appena riapparso incoronato di vittoria il Primo Con­ sole e già si aprivano le cateratte della poesia e la Musa ispi­ rava al cittadino Pietro Mantegazza un epinicio che la « stam­ peria di San Zeno N. 534 dietro il Palazzo di Giustizia » si affrettava a diffondere in onore dell’eroe del secolo, ante­ posto a Ciro, Scipio, Alessandro, Cesare e Goffredo di Bu­ glione: e chiudeva però nell’ultima terzina col binomio li­ bertà e pace:

Italia, o tu che nell’antica notte Ricaduta piangevi e sposi e figli, Tronca i sospiri e rasserena il viso: Son tue catene nuovamente rotte. E spunta dopo tanti aspri perigli Libertà e Face fra la gioia e il riso.

(29 pratile a. VIII, cioè 18 giugno)

E a « Iride bramato apportator di gioia e di tranquillità » (la Diva Iride era per l’occasione mascolinizzata) inneggia la orazione del cittadino Luigi Rubini, stampata e affissa alle cantonate il 27 pratile (16 giugno). Quando poi l’anno seguente, a. IX della Repubblica Fran­ cese, il 10 fiorile (30 aprile) si celebrò al Foro Bonaparte il trattato di Lunéville, il Monti, che aveva, ahimè, inneggiato alla nefasta pace di Campoformio (« Dolce brama delle genti - Cara pace, alfin scendesti ») intonò una nuova canzone alla Diva : Luigi Cagnola : disegno giovanile.

« Voi che deir armi al suono impaurite Pace invocaste su le patrie arene Tenere madri, ardenti spose, uscite, la Dea già viene.

E alla pace segnata a Lunéville cantavano più o meno fe­ licemente, ma con indubbia sincerità, poeti di minor vena. Adelmo Fugazza (« in lode del Pacificatore d’Europa ») e Gio­

35 vanni Gherardini e il Ceroni e il Per- racchi, e Giovanni Bernasconi (« inno dedicato al capo dei carabinieri della G. N. di Milano ») e Antonio Gasparin et­ ti (« canzone popo­ lare ») e con facile vena una donna, Te­ resa Bandettini, e Carlo Vellani, per tacere delle canzo­ ni, degli inni, dei sonetti che correva­ no anonimi. Voglia­ mo dire che le pa­ role di pace sull’ar­ co di Porta Maren­ go non dovettero suonar male, quan­ do sostituirono le e- pigrafi trionfali; che comunque, dati i tempi, non se ne può far troppo cari­ co al Cagnola, se, dopo avere innalza­ Luigi Cagnola - Colonna commemorativa. to archi e colonne a Napoleone, disegnati palazzi per Giuseppina imperatrice, ideato il grandioso monu­ mento alla fraternità d’armi italo-francese al Moncenisio, as­ sentiva, anzi sollecitava che alla glorificazione dell’eroe suc­ cedesse quella della invocata pace.

36 Sarebbe troppo pretendere coerenza politica dagli artisti di quel tempo; va invece riconosciuta piena coerenza artistica al Cagnola, che fino agli ultimi suoi anni fu rigidamente fedele agli ideali d’arte della sua giovinezza. Questa è forse la sua opera più significativa che meglio si avvicina a quegli espe­ rimenti di architettura razionale di cui è saggio in disegni che trovammo nel suo archivio già alla Rotonda di Inverigo, oggi ricoverati presso l’Accademia di Brera.

STENDHAL A PORTA MARENGO

È un doppio tetrastilo di ordine ionico con pilastri agli angoli e frontoni triangolari sulle facce opposte: composizio­ ne di asciutta semplicità nuda di trofei di simboli di ornati; architettura pura, tradotta nel duro granito di Baveno, stereo- tomia esemplare, profili di assoluta purezza. Ammirata dallo Stendhal che la preferiva alla contemporanea architettura fran­ cese: « Le porte est belle, tandis que la Bourse de Paris ne sera qu’une copie d’un temple grec... ».

IL MARCHESE CAGNOLA E IL SIG. PEDRINO

La devozione del marchese Cagnola alla casa d’Austria che lo aveva reintegrato nei titoli aviti non gli fu per altro tanto fruttifera quanto era presumibilmente nelle sue spe­ ranze e, riconosciamolo, nei suoi meriti. Poiché fu ed è con­ siderato come il maggiore architetto del suo tempo. Fu il membro di maggiore autorità della Commissione di ornato che, lui vivente, diede alla città e conservò a lungo l’impronta neoclassica, resistendo agli allettamenti del romanticismo. Potè ultimare con ricchezza di mezzi l’arco del Sempione, anche questo volto a celebrare la pace di Vienna; ebbe daìlTmpe-

37 Paci popolorum sospitae. Luigi Cagnola : Progetto per il mausoleo del Mettermeli. latore copia di onorificenze, quando i patrizi contemporanei cominciavano ad averne fastidio; fu chiamato alla corte di Vienna, dove però ai suoi progetti per la Hofburg furono pre­ feriti quelli del ticinese Nobile, architetto aulico, mentre quelli per il mausoleo di Metternich, di modulo colossale, furono messi da parte. Nè gli fu risparmiata in quell'occasione l’umi- liazione di lunghe anticamere. Negli scarti dell’archivio di In- verigo trovai la minuta di una sua lettera da Padova, dove sostò in attesa del beneplacito del Metternich per la prosecu­ zione del suo viaggio a Vienna. È diretta al Signor Pedrino non altrimenti cognominato, verosimilmente suo intendente:

Padova « Carissimo Sig. Pedrino

Sabato alle sei siamo gionti in cotesta città, la trovo tutta oribile, puzzolente e inetta.

39 Luigi Cagnola: Arco della Pace (particolare).

Godo ottima salute, spero altrettanto di tutti loro, il nostro viaggio è tutto in dubbio da continuarsi, l’arivo del Principe di Mettermeli ci farà decidere per continuarlo o per retroce­ dere a Milano... ».

Abbiamo trascritta la lettera con la sua ortografia incerta, che ci avverte come la fama di cultura dell’uomo insigne deva intendersi limitata al campo dell’arte sua e non sconfini in quello delle lettere, malgrado la sua indubbia relazione con

40 La sestiga sull’Arco della Pace.

letterati del tempo e poeti; con l’abate Casti in gioventù e nel­ l’età più matura, si crede, col Foscolo. Valga a questo proposito una breve parentesi. Dei suoi rapporti col poeta non ho trovato traccia. Però a Inverigo, Col­ lis Cyparissorum, nel giardino della Rotonda, la celebre villa di misura Palladiana costruita dal marchese, ci additava un ci­ presso detto del Foscolo che si voleva legato alla memoria del poeta. L ’albero alcuni anni or sono rinsecchì, ne restò per qual­ che tempo il tronco rivestito di edera ma la tradizione rimase e il giovine cipresso che lo sostituì ne ereditò il nome.

Quando nel 1833, in un afoso pomeriggio estivo, l’apoplessia fulminava ancor vegeto e in piena attività il marchese Cagnola mentre in carrozza dalla Rotonda d’Inverigo si recava a Como, l’arco del Sempione si stava ultimando con lusso di marmi e ricchezze di sculture, ma il prestigio dell’arte sua nella stessa

41 L’abate Casti. (Raccolta stampe Bertarelli) sua città andava declinando e l’architetto forse non se ne avve­ deva. Nè aveva potuto attuare il suo sogno giovanile, di dotare di ingresso monumentale la Porta Orientale, dove avevano resi­ stito a lungo fino al 1826 i casini disegnati dal Piermarini e per il matrimonio di Eugenio di Beauharnais con Amalia di Baviera (feste spettacolose: « tant frecass e tanta spesa per un mezz sovran e una bavaresa! ») aveva eretto di gesso e tela dipinta quell elegante arco trionfale che poi la città aveva voluto tra­ durre in marmo, pur con molte varianti, ma all’imbocco della stradale del Sempione: poi, dopo avere costruito per festa dinastica, l’ingresso in Milano di Francesco I imperatore con la quarta sua consorte, un triplice arco di cartapesta e

42 Progetto del Cagnola per la Hofburg (Vienna).

averne disegnato un altro da realizzare in vivo marmo con quella monumentale grandiosità che imprimeva ad ogni sua opera, s’era visto preferire i caselli del Vantini (1826). Ma quando giunse a Milano la notizia della sua morte, la Com­ missione d’ornato, che senza ribellione, ma con malumore, ave­ va subito la severa disciplina neoclassica imposta dell’autorita­ rio gentiluomo, dovè tirare un respiro di sollievo e diede via li­ bera alle manifestazioni dell’eclettismo romantico preconiz­ zate dal Cattaneo, da cui l’aspetto della città non ebbe in ve­ rità il vantaggio sperato. La giovane, troppo giovane vedova, di lui minore di ben trentadue anni, donna Francesca D’Adda, sua nipote ex-sorore, cercò distrazione in un viaggio all’estero, che si protrasse varii mesi, e ne tenne un diario che si amerebbe di veder pubblicato. Era dama colta e brillante, intelligente di musica; corteggiata qual’era, lasciò presto i veli vedovili e dopo il rituale anno di lutto andò sposa al conte Ambrogio Nava, che si vantava allievo del Cagnola e fu, come noto, architetto di chiara fama e insieme discreto pittore e scrittore erudito : uomo di merito insomma, se anche avversato quale collezionista di titoli e di onorificenze austriache nel decennio della resistenza nazionale. Donna Francesca apparteneva invece alla famiglia illustre, segnalata nelle cronache del Risorgimento. Arco onorario provvisorio eretto alla Porta Orientale per l’ingresso di Francesco I d’Austria.

Progetto del Cagnola per l’ingresso di Porta Orientale.

4 4 Cagnola : La Rotonda d’inverigo, (Raccolta P. M.)

Vedova una seconda volta, in tarda età volle aver sepol­ tura nel cimitero di Ozzeno, presso il suo primo marito, a cui il conte Nava aveva eretto una edicola funeraria di linee rigi­ damente classiche.

GLI ONORI DEL FAMEDIO Fu nel 1933, che, ricorrendo il centesimo anniversario della morte dell’insigne concittadino, confortati del parere e dell’appoggio del mondo milanese dell’arte e della cultura,

45 L’urna delle ceneri di Luigi Cagnola al Famedio. (Raccolta P. M.)

ne rivendicammo la salma agli onori del Famedio. Il plurale, mi si perdoni, vuol significare la parte che ebbe lo scrivente nelle iniziative e nelle pratiche, che non furono facilissime, nè brevi: sicché soltanto il 22 marzo si poteva procedere alla esumazione dei resti nel cimitero di Ozzeno. Ozzeno, antica terra dei Cagnola. Quella che è indicata co­ me « casa da nobile » di quell’antica famiglia, ma che fu prima dei Visconti Foppa, sorge ancora nella piazza presso alla par­ rocchiale, decaduta a casa colonica, in pieno abbandono. In abbandono il vecchio giardino, malinconico sotto il cielo grigio. Assistono alla ricognizione oltre ai rappresentanti dei due comuni, il protomedico di Milano professor Della Rovere, il dottor Leo Candrini, Giorgio Nicodemi, la stampa, e, prezioso consulente, Piero Parodi, modesto appassionato studioso della plaga.

46 La Darsena (nel fondo l’atrio del Cagnola). (Raccolta P. M.)

Esplorati i locali della cappella, che è passata in proprie­ tà al Comune, aprimmo la cassa nella quale si aveva ragione di ritenere contenesse la salma del Cagnola. Ne furono esa­ minati minutamente i resti, confrontati con disegni e ripro­ duzioni: riapparve nel teschio il caratteristico profilo del marchese. Sconcertante sorpresa: la scatola cranica appariva segata a metà e poi accuratamente ricomposta. Ne davano spiegazione i sanitari presenti: quando si concludeva resi­ stenza dell architetto, erano in onore gli studi di craniologia che prendevano forte sviluppo, quando nel 1832 era istituita a Parigi presso il museo di storia naturale, la prima cattedra di antropologia ed erano oggetto di studio particolarmente i cervelli dei defunti ritenuti di genio: se la vedova diede il suo assenso alla penosa operazione, dovette forse scorgervi un lusinghiero riconoscimento delle alte qualità dell’estinto.

47 La Darsena, (Raccolta P. M.)

Gli avanzi del marchese furono chiusi nell’ornata arca di bronzo dorato che lo scrivente ebbe l’onore di disegnare, affidandone l’esecuzione allo scultore Cibau : e qualche giorno dopo furono consegnati alla città di Milano e collocati con le cerimonie di rito (intervento di autorità, e di rappresen­ tanze, brevi discorsi) in un loculo sottostante il Famedio.

IL LAGHETTO DI SANT’EUSTORGIO

Il laghetto di Sant’Eustorgio, ora Darsena di Porta Tici­ nese: antico scalo all’incontro delle acque fluenti dal Ticino, dall’Adda, dall’Alto Milanese, attraverso i Navigli, orgoglio dei nostri vecchi.

48 La Darsena. (Raccolta P. M.)

Oltre mezzo secolo fa, ai milanesi che si erano beccati i maggiori premi in gare di nuoto e di canottaggio « dove avete preso confidenza con l’acqua? » domandavano sbalorditi i con­ correnti battuti. Passi per il nuoto e per i tuffi; si sapeva che c’erano a Milano, famosi, i bagni di Diana ( acque gelide, om­ bre di ippocastani) ma per i canotti... « Oh bella, sul Navili » era la risposta, piena di sussiego. Ma per i nostri vecchi i na­ vigli erano ben altro che luoghi di esercitazioni sportive; era­ no parte grande del patrimonio cittadino, veicolo necessario, negli scorsi secoli, dei loro commerci; fonte di prosperità e di potenza, ancora al presente in uso continuo nei trasporti grevi, sicché il porto di Milano, si dice, conta fra i maggiori d’Ita­ lia, al decimo o all’ottavo posto per tonnellaggio; i primi a stupirsene, oggi, sono proprio i Milanesi, d’origine o d’impor­ tazione. Il laghetto dell’Ospedale. (Raccolta stampe Bertarelli)

La rivale Pavia comunicava col mare attraverso l’ampio alveo del Ticino e poi del Po, quando Milano doveva limi­ tarsi a barcheggi per l’angusto canale della Vecchiabbia (oggi ridotto a canale di scolo) che affluiva al Lambro presso San­ t’Angelo e da questo al Po : e solo nel XIII secolo provvedeva all’ardita opera del Naviglio Grande, che apriva al Milanese la regione del Lago Maggiore e la via al mare. Opera di gran­ de mole e di aspre difficoltà, dove i tecnici lombardi dettero prova di genialità e di intuizione dei fondamentali principi della idrostatica. « E mentre le opere consimili del mondo antico erano per­ dute per sempre, mentre i canali dei Chinesi di tutte le età non potevano offrire all’Europa alcun lume dal loro inaccessi­ bile impero celeste, si potrà dire a gloria dell’italiana industria,

50 che il Naviglio grande presentò alle successive imprese dello stesso genere un modello superiore alle idee ed ai mezzi dei tempi ». (Bruschetti, La navigazione interna del Milanese).

GLORIA E MARTIRIO DI UN PODESTÀ’

I cronisti non ci hanno lasciato il nome degli « inizinieri » a cui va il maggior merito dell’opera, la quale ebbe anche il suo martire nel podestà che la promosse e le sacrificò vita e sostanze. Sventurato anche in morte: in una genealogia pub­ blicata da un rampollo della illustre famiglia bolognese dei Gozzadini il nome di Beno, podestà di Milano, fu, non si sa come, dimenticato: di più nelle storie del Corio e nelle cro­ nache del Fiamma il suo nome è sostituito da quello di un ine­ sistente Beno da Gozzano. Dell’atroce vicenda di cui fu vittima l’esatta versione è resa nota dalle carte del monastero di Chiaravalle citate dal Padre Fumagalli e pubblicata dal Cantù (A.S.L., a. 1876). Do­ veva essere uomo di singolare energia e spregiudicato difen­ sore dell’interesse pubblico. Quando i Milanesi lo vollero po­ destà, si erano sanate le grosse ferite lasciate dal Barbarossa e intraprese opere pubbliche, si era murato il nuovo Broletto: ma per lo scavo del Naviglio Grande difettavano i mezzi. Già il comune da otto anni portava il peso di grosse imposte fon­ diarie presentate sotto forma di prestiti forzosi (per la verità, si sapeva e si sa come finiscano prestiti di tal genere), alle quali tuttavia il clero, eludendo le leggi cittadine, riusciva a sottrarsi. Beno volle che anche i beni ecclesiastici si caricas­ sero di un’equa parte di oneri, destinati a dar termine ai lavori del canale. Agì, sembra, con autorità e con la necessaria pru­ denza: convocò i maggiorenti, i Mille, nel gran salone di Ol- drado da Tresseno, e avutane l’autorizzazione, trascelse fra questi i ventiquattro saggi, che dovevano determinare le mo­ dalità della difficile esazione, che il clero avaramente ricusava e osteggiava caparbiamente, con ogni mezzo. Il podestà fu accusato di concussione e condannato ad una ammenda di diecimila lire : somma allora enorme che egli non aveva la possibilità di pagare. Contemporaneamente il popolo, che aveva tutto da guadagnare dai provvedimenti del Gozza- dini, aizzato dai mali consiglieri, si levò a tumulto : la canaglia inferocita si impadronì del disgraziato, lo trascinò nella strada, ne fece strazio, ne gettò la povera salma nel Naviglio: [ope­ ra dovuta in gran parte alla sua antiveggente energia (novem­ bre 1257). Il delitto sollevò l’indignazione dei bolognesi, che esercita­ rono rappresaglie sul Comune di Milano, finché, nel 1293, i due figli superstiti di Beno furono da quello reintegrati nelle loro fortune. Eppure poco dopo uno scrittore milanese, Gal- vagno Fiamma, tentò di infamarne la memoria, come a giu­ stificare il misfatto dei concittadini. Soltanto nello scorso secolo gli si rese giustizia e Milano gli dedicò una contrada. Ma anche in quest’atto, che voleva es­ sere di doverosa espiazione, non fu generosa. Era una vecchia contrada, poco più di un vicolo, malinconica fra alte case di povera gente: aveva, come unico ornato, una glieina secolare che affondava le sue radici nel selciato e distendeva di pri­ mavera una lussuosa fioritura profumata su per le ringhiere dei grami abituri soprastanti: festa degli occhi e gioia delle api che vi concorrevano ronzando chissà da quali arnie lon­ tane. La glicina non c’è più, le case sono demolite o in corso di demolizione. Grandi fabbriche ostentano ai margini della con-

52 Naviglio Grande col « Barchett de Boffalora » che faceva servizio di corriera sulla via d’acqua fra Milano ed Abbiate grasso. Il barchetto eli Buffalora (stampa del 1830 circa). (Raccolta stampe Bertarelli) trada, condannata dal piano regolatore, le loro discutibili bel­ lurie. Presto forse di via Gozzadini non rimarrà nemmeno il nome. È anche da ricordare che, di soprammercato, il Comune dedicò a Beno una statua di stucco, fra le molte di grandi uomi­ ni che decoravano la Galleria Vittorio Emanuele. Le statue anni fa furono ritolte, non si sa bene perchè. Vorrà il Comune trovare altro modo per ricordare la vittima innocente della mostruosa ingratitudine dei nostri padri?

I BARCHETTI

Nell’età dei reattori e degli elicotteri e mentre già si pre­ parano le prove di voli interplanetari, siamo pochi ormai a ri­ cordare l’approdo alla Darsena di Porta Ticinese dei preistorici natanti, modestamente chiamati « barchetti », che facevano servizio di passeggeri, se non da Buffalora, da Abbiategrasso

54 Il cavo Ticinello a Porta Ticinese con posteggi di lavanderia. ... veniva a vestirsi a Milano... (Disegno di P. M.) alla metropoli, per ripartire poi a rimontar la corrente, tratti da robusti cavalli percorrenti l’alzaia. All’arrivo tutto un « piccolo mondo antico » : parenti all’attesa lungo le sponde, popolani e piccoli borghesi, donne mature e qualche anziano signore in bombetta, munito di bastone da passeggio : sbarco di agricol­ tori in abito da festa, di donne in toilettes antiquate e di intere famiglie cariche di valigie di canovaccio ricamate di lana a fiorami, di involti e pacchi d’ogni specie, col gatto di casa chiu­ so in una cesta, qualche mocciosetto aggrappato alle ampie sottane della madre o della zia. Più raramente era una ma-

56 Cletto Arrighi. (Raccolta stampe Bertarelli) dame Bovary che veniva a vestirsi a Milano, per recar poi alla bassa un riflesso delle eleganze cittadine. Il percorso da Boffalora al laghetto di Porta Ticinese ri­ chiedeva tre ore, e quattro il ritorno contro corrente. Ma nel- F« Orario delle barche corriere » del 1828 da Milano a Tur- bigo sono previste nientemeno che 13 ore. Spesso la noia del viaggio era alleviata da un suonatore di fisarmonica o da qual­ che buffo cantastorie, che trovava modo di supplire alla spesa del viaggio o di buscarsi qualche soldarello. (Ricordo, cinquant anni fa, finitimo, penso, dei « toroto-

57 Ponte sul Naviglio a Gaggiano (lit. eli G. Elleno). (Raccolta stampe Bertarelli) La chiesa eli Gaggiano. (Raccolta P. M.) tela », un buffo omino che faceva il giro delle bettole nelle campagne, improvvisando rime d’occasione — ritornello : toro- totela, torototà — e si accompagnava grattando una bizzarra chitarra, di sua invenzione, dove la cassa armonica era fatta di una zucca vuota). Quello di Turbigo, più comunemente detto di Buffalora, fu l’ultimo superstite di una piccola rete di servizio fluvia-

59 Il Naviglio ed il Lambro (lit. di G. Ellena). (Raccolta stampe Bertarelli) Ponte di Buffalora (litografia di G. Ellena). (Raccolta stampe Bertarelli) Cassano d’Adda. (Raccolta stampe Bertarelli) ie, che ebbe fortuna nella prima metà del secolo scorso, quan­ do fu reso navigabile il canale di Pavia e il servizio ferroviario era ancora di là di venire. Era di tutti il più noto ed è ancora oggi ricordato perchè offrì a Cletto Arrighi il soggetto al vau­ deville (divertente, imitato però dal francese di Labiche), che fu uno dei cavalli di battaglia del Ferravilla dando esca a po­ lemiche sulle sventure del teatro milanese : faceva sosta a Gag- giano, la patria del Baltramm, la maschera rusticana milanese, dimenticata dopo che, ai tempi di Carlo Maria Maggi, ebbe voga quella del Meneghino; poi ad Abbiategrasso, a Robecco, a Buffalora. Turbigo era stazione di testa. Erano sei corse al giorno. Vera poi il bar eh etto che fruiva del Naviglio della M ar­ tesana, che faceva capo al laghetto di Porta Nuova, il pittore­ sco specchio d’acqua interrato da alcuni anni per dar luogo a una squallida piazza, non ancora sistemata e di scarsa utilità.

62 Il tombone di San Marco (nel fondo il laghetto di Porta Nuova). Da « Milano nell’Arte e nella Storia ». ... nembi di polvere mila provinciale. (Disegno di P. M.)

Si partiva dalla Gabbella del Sale presso l’ancora esistente oste­ ria dell’Isola Bella; fermate a Gorgonzola, Fornaci, Inzago, Cassano, Vaprio : Cancesa capolinea : durata del percorso un­ dici ore e mezza. Infine si avevano tre partenze giornaliere, dalla Conchetta: sei ore. Il traffico non era molto intenso, ma regolare, resistendo sul Naviglio Grande alla concorrenza della provinciale e della ferrovia Milano-Vigevano e ancora teneva duro, quando car­ rozze e tricicli a motore cominciarono a sferragliare sui sel­ ciati della città e a sollevare nembi di polvere sulla provin­ ciale, fra lo stupore non sempre benevolo dei cittadini, l'osti­ lità manifesta dei villici e dei carrettieri, e l’abbaiare di cani da pagliaio. Fu, se non erro, negli anni della prima guerra mondiale

64 ... carrozze e tricicli a motore cominciarono a sferragliare sul selciato. (Disegno di P. M.) che l’ultimo servizio passeggeri sul Naviglio per Abbiategras- so venne a cessare a beneficio di trasporti più proficui di merci pesanti e ingombranti : legna del Lago Maggiore, pietre e mar­ mi, laterizi, sabbia di cava o di fiume; materiali che, per il Na­ viglio interno, si distribuivano nelle « sostre » allineate sulle sue sponde : dal Naviglio di Pavia, gravi carichi di carta giun­ gevano alla tipografia del maggior giornale cittadino, in Via Solferino, nel folto dell’abitato. Chiuso il Naviglio interno, soppresse le sostre, i trasporti si limitarono quasi interamente ai materiali di costruzione, ma andarono sempre più intensifi­ candosi secondo le crescenti esigenze della edilizia; e oggi le benne di potenti gru in febbrile attività attingono senza sosta sabbia e ghiaia dai natanti per riversarle a mezzo di grosse tra­ mogge negli autocarri dei costruttori. Singolare accostamento di antiche attrezzature con le modernissime della Milano nuo­ va: pittoresco spettacolo che l’occhio non si sazia di godere.

65 Aspetti del Naviglio interno durante l’asciutta.

Il Naviglio interno all’Ospedale Maggiore. Il Bucintoro della Serenissima. (Raccolta stampe Bertarelli)

BUCINTORI DUCALI

Ma ben altri barcheggi conobbero i Navigli in altri tempi. Se il barchetto nei suoi ultimi tempi, tempi non ancora tor­ mentati dall’assillo della velocità, rappresentò il veicolo lento ma economico per le borse men fornite, i percorsi per via d’ac­ qua furono in altri tempi privilegio delle famiglie principesche. Da Milano a Pavia ed oltre, fino a Mantova e a Ferrara, la famiglia ducale e l’illustre suo parentado preferivano viag­ giare per via d’acqua, sul ducale « bucintoro ». Chi si meravi­ gliasse di trovare un bucintoro, anziché nelle acque dell’A­ driatico, nei canali solcanti la valle del Po, prenda nota che tal nome (di dubbia origine) si trova applicato alle imbarcazioni destinate al trasporto di persone illustri prima che alla celebre nave, su cui i Dogi della Serenissima celebravano le nozze col mare.

67 Il castello eli Bere guardo. (Raccolta stampe Bertarelli)

A cavallo o anche in « carretta » il percorso era certo più rapido, ma anche più faticoso. A Pavia si arrivava risalendo il Naviglio Grande fino ad Abbiategrasso, dove si imboccava il Naviglio detto di Bereguardo. Così il 19 luglio 1457 Galeazzo Maria Sforza partiva per nave diretto a Ferrara: faceva sosta a Pavia e dal Castello scriveva al padre chiedendogli la chia­ ve della libreria per provvedersi di libri francesi da leggere ai compagni di viaggio. Per suo conto, scriveva, avrebbe prete­ rito libri latini (non sappiamo se il duca Francesco, che del resto non sapeva di lettere, ma voleva i figli istruiti finemente da celebrati umanisti, a questo punto avrà sorriso di compia­ cimento o di incredulità). Da Pavia a Ferrara il viaggio con­ tinuò per le acque del Ticino e poi del Po: in due giorni si fu a Mellara, dove il duca Borso lo incontrava col suo magnifico bucintoro: a Ferrara accoglienze e feste inaudite minutamente descritte da Galeazzo: tornei, giostre, bagni di Diana... Da Ferrara a Mantova il duchino ebbe al suo seguito ben qua­ ranta imbarcazioni: e sulla sua nave, « lectura Dantis ».

68 Il Castello di Pavia. (Raccolta stampe Bertarelli)

Salito al trono ducale, Galeazzo Maria nel 1473 volle ab­ breviare il percorso fra Milano e Pavia, fruendo del canale di Binasco e rendendo navigabile a mezzo dell’ingegnere Bertola da Novate il canale detto Ticinello, o Navigliaccio, fra Bina­ sco e Pavia. Così il 17 settembre di quell’anno Girolamo Bia- rio, sposo a Caterina Sforza appena decenne, poteva imbar­ carsi di mattino nel Castello di Milano, rilegato ai Navigli per la fossa interna, e sbarcare al Castello di Pavia alle 21 : un re­ cord di velocità che non si poteva ripetere troppe volte. Nel ritorno, contro corrente, occorreva far sosta a Binasco. Nel 1490 da Mantova Isabella d’Este sposa a Francesco Gonzaga accompagnava a Milano la sorella Beatrice e la mar­ chesana di Mantova : viaggio per via cl’acqua, risalendo il Po, indi il Ticino, poi il Tesinello e il Naviglio di Binasco. Furono nove giorni di venturosa navigazione e le dame dovettero dormire sul natante, piuttosto sconquassato, per sette giorni consecutivi. « Quando venne l’hora del dormire, recor -

69 ... tornei, giostre...... tornei, giostre... Il castello di Binasco (Ut. di G. Elleno) (Raccolta stampe Bertarelli) Isabella d’Este (P. P. Rubens, exc.). (Raccolta stampe Bertarelli) dandonce di havere cussi trista stantia, come è questo bucin­ toro tutto busato, me fugiva la voglia da andare a lecto ». Si ingannava la noia del viaggio imbarcando cantori e musici che non scarseggiavano nella Corte ducale; e forse era con loro il buffone Deodato, che accompagnò poi in carretta le due nobili e vivacissime sorelle da Milano al Castello di Cu- sago, « et qui cantesimo più de venticinque canzone molto bene, facendo tante pazie, che credo de aver fatto questo gua­ dagno, de esser maggior pazo che Diodà... ». Mutavano i tempi e alla voga dei « bucintori » seguirà quella delle carrette lussuose.

73 Il Castello di Binasco. (Raccolta stampe Bertarelli)

DA MILANO AL MARE PER VIA D’ACQUA

Per altro i barcheggi signorili fra Milano e il Po via Binasco furono pochi e ripetuti solo in via d’eccezione : cessarono prati­ camente con l’estinzione della dinastia degli Sforza. Però i trasporti per via d’acqua dal Lago Maggiore a Milano e da questa all’Adriatico non subirono mai interruzioni e continua­ rono con la diversione del canale di Bereguardo. I marmi di Carrara per la Certosa di Pavia, erano convogliati da natanti, che girato restremo sperone della penisola, fluivano per il Po e il Ticino, mentre la Veneranda Fabbrica del Duomo pen­ sava di far giungere con lo stesso percorso i monoliti per la facciata del Duomo, che le cave di Candoglia e quelle di Ba- veno non potevano dare. Poi nel secolo scorso furono i gra­ niti di Baveno a fluire dal Lago Maggiore all’Adriatico, allo Jonio, al Tirreno, fino al Tevere, a dar colonne alla basilica di San Paolo.

74 Particolare delle cave di Candoglia (Novara). (Fotografia della Fabbrica del Duomo)

IL PONTE DEL TROFEO

Ma la città che voleva essere mediterranea e marittima doveva compiere e perfezionare la sua rete di canali. Gli studi per la sistemazione delle comunicazioni fra Pavia e Milano, trascurati nel primo tribolato secolo della dominazione di Spa­ gna furono attivamente ripresi alla fine del cinquecento. In una bella acquafòrte dell’Aspar il ponte detto del Trofeo an­ cora oggi a cavaliere del Naviglio di Pavia, dove esce dalla Darsena, è fiancheggiato da una lapide monumentale reggente un fastigio monumentale ornato di due statue femminili : il « trofeo » costruito su disegno di Giacomo da Nova, scolpito nei marmi del duomo dati da Lelio Buzzi. Il monumento, de­ molito, chissà perchè, nel 1860, vorrebbe ricordare con una Arrivo del barchetto di Pavia al ponte del Trofeo (Raccolta stampe Bertarelli) scritta ampollosa l’inaugurazione del canale di Pavia rinno­ vato nel 1605 per opera e per merito del governatore Fuentes. Solennissima bugia, perchè in quell’anno ne era stato assestato soltanto un tratto dell’alveo, dalla Darsena a Binasco. Per verità era stato il Magistrato delle acque a volere quel­ la inaugurazione prematura, nella speranza di impegnare lo stato a dar termine ai lavori, rallentati per difetto di numera­ rio. Fu cerimonia solenne di vuota sfarzosità. Per l’occasione era stato rimesso a nuovo il bucintoro di gala ridipinto di rosso, arricchito di fregi e costellato di rosette dorate: il pittore Gio Battista Secco ne aveva decorato l’interno. A bordo salirono il conte di Fuentes, i magistrati, i senatori: c’era il Vicario coi dodici di Provvisione che in quello stesso anno il governatore aveva trattenuto prigionieri in Castello perchè non gli avevano voluto consegnare i registri che gli occorrevano per l’applica­ zione di nuove imposizioni. (Erano stati poi liberati e lo stesso castellano li aveva accompagnati alle lor carrozze). I lavori proseguirono poi stancamente. Era passato di vita nel 1599 il maggior competente che avesse Milano in tali im­ prese, Giuseppe Meda, pittore e architetto valoroso, ma soprat­ tutto idraulico insigne. Gli aveva accorciato la vita l’invidia dei colleglli e come molti anni prima Beno dei Gozzadini, era vittima della incomprensione e della sconoscenza dei concit­ tadini.

LA PASSIONE DI UN GRANDE IDRAULICO

I fatti sono noti. Si voleva risolvere il problema secolare delle comunicazioni per via d’acqua fra il Lago di Como e la città. Già esisteva il canale detto della Martesana, che si stac­ cava dall’Adda con incile sotto il Castello di Trezzo e costeg-

77 Cava madre delle cave del Duomo a Candoglia {Novara). (Fotografia della Fabbrica del Duomo) Il castello di Cassanod Adda. (Raccolta stampe Bertarelli) giava il fiume fino a Cassano, dove risvolta verso Milano. Na­ vigabile da Lecco a Brivio, l’Adda fino all'in cile di Trezzo scorreva rumoreggiando in rapide intransitabili fra pittoreschi dirupi : il paesaggio che Leonardo ricordò nei fondi della Ma­ donna delle Rocce. Il Meda proponeva di rendere navigabile il fiume da Brivio fino alla località di S. Michele, di scavare poi a valle, nella cosiddetta valletta di Paderno, fino all’incile della Martesana un canale di derivazione, atto a superare un dislivello di oltre 27 metri non già con una serie di sostegni di salto modesto, ma con due sostegni soltanto di grande salto arditamente costruiti con particolari strutture e accorgimenti. La peste del 1576 interruppe le trattative, riprese dal Meda con una sua coraggiosa offerta, che era di assumersi ogni

79 Imboccatura del Naviglio della Martesana {Ut. di G. Elleno) (Raccolta stampe Bertarelli) Lo sbocco del Naviglio della Martesana sid laghetto di S. Marco. (Raccolta P. M.) spesa ed ogni rischio con un compenso di 32.000 scudi e i due terzi del frutto delle opere; in due anni il lavoro doveva essere ultimato. Il contratto fra il Comune e il Meda, concluso nel 1580, fu approvato soltanto nel 1590 (le incertezze e le lun­ gaggini burocratiche non sono privilegio dei nostri tempi) un imprenditore spericolato o spronato dalla illusione di grossi guadagni assunse in proprio gli impegni sottoscritti dal Meda, a cui rimase solo la direzione delle opere, che dovevano essere controllate dall’ingegnere Barca, suo dichiarato avversario, a cui si aggiunge, nell’assillante critica dell’operato del Meda, il romano Rinaldi. Iniziate le opere, tutto parve congiurare contro il successo dell’impresa : opere pericolanti perchè fondate su terreno smosso e cavernoso, difficoltà con lo stato Veneziano insediato

81 Abate Paolo Frisi (Appiani). Dom. Cagnoni Sculp. Med. (Raccolta stampe Bertarelli) sulla riva sinistra del fiume: sciopero degli operai addetti alle opere, guerra aperta dei colleghi invidiosi. Nel 1593 i lavori ai grandi sostegni erano appena inco­ minciati. Il Meda e il suo collaboratore Alessandro Bisnato fu­ rono trascinati in processi, da cui non si liberarono che dopo mesi di prigionia, coll’animo depresso e malandati di salute, poi alla meglio si continuarono i lavori fino al 1597; e quando si potè immettere l’acqua nel canale, si produssero nuovi guasti e rotture di argini e querimonie senza fine. La figura del di­

82 rettore dei lavori era fatta segno all’odio comune e invece di correre ai ripari gli ingegneri rivali soffiavano nel fuoco: e un’altra volta il Meda fu alle carceri della Malastalla. Un se­ reno rapporto dell’ingegnere Romussi di Pavia (marzo 1599) parve sfatare le più gravi accuse e riabilitare il Meda: che però, dissestato, infermo e sfiduciato, spirava nell’agosto di quell’anno. L ’opera del Meda trovò poi oneste, se anche tardive, difese e i lavori che dopo lunghe interruzioni e molti incidenti, risolsero il problema della navigazione fra il Lago di Como e la città tennero stretto conto del progetto e dell’opera del Meda (importanti in questo argomento gli studi del Frisi). Soltanto l’l l ottobre del 1777 l’arciduca Ferdinando inaugurava l’opera secolare; non sappiamo se in quell’occasione il Meda fosse ricordato. « Possa almeno la rimembranza della sua avversa sorte annoverare fra quei tanti italiani, che nei passati secoli hanno sacrificato alla pubblica utilità e alla patria e ingegni e beni e vita! » (Bruschetti).

LA MODESTIA DEL FUENTES E UN ORDINE DI NAPOLEONE

E il Naviglio di Pavia? Molt’acqua doveva passare sotto il ponte del Trofeo per­ chè il canale si facesse navigabile da Binasco al Ticino. Non al Fuentes, cervello torbido, autoritario e scanzonato, che al- l’occorrenza dava ascolto alle deliberazioni del Senato o agli ordini del Re di Spagna « come il gran Lama ai brevi del Papa » (Cantò), doveva toccarne la gloria, nonostante le van­ terie in gonfio latino del Trofeo e le carnevalate del Bucintoro. « Questo regio ministro, mentre pensava di navigare verso

83 Pietro Enrico de Azevedo conte di Fuentes. (Raccolta stampe Bertarelli)

Pavia, fece vela per l’altro mondo »; così il Torre, che non sa­ peva però rinunciare a incensature iperboliche: « ... questo Fonte (leggi il Fuentes) navigò a Milano la Quiete, la quale per molt’anni stettesi fuggiasca; nell’onde sue si affogarono i malviventi, irrigò co’ suoi saggi umori il mila­ nese terreno di lodevoli diportamenti, perchè introdussesi in Trionfo la Modestia... ». Ecco, la Modestia doveva fare bel vedere sul natante stemmato, dorato e infronzolito del Gover­ natore. Il ” trofeo ” - stampa eli Domenico Aspar.

Duecent’anni passarono e un asciutto ordine di Napoleone tirava a risolvere il secolare problema:

Da Mantova, 20 giugno 1805 Il canale di Pavia sarà reso navigabile : mi si presenterà il progetto avanti l’ottobre: fra otto anni saranno finiti i lavori. Al Ministro dell’interno l’esecuzione. N a po leo n e

Non proprio alla data prefissata dallo spiccio decreto im­ periale ma già nella primavera del 1806 era definito in ogni sua parte, relatore il valente matematico Brunacci, il progetto dei lavori, e a Parigi il governo nostro lo presentava a Napo­ leone, il quale aveva subito la cattiva idea di rimetterlo in esa­ me al geometra Prony, esperto nell’arte della navigazione flu­ viale e autore di memorie in materia d’idraulica.

85 E qui ricominciarono i guai, perchè monsieur Prony, con la sicumera propria dei francesi, mosse obbiezioni e propose mo­ difiche che i nostri ingegneri eredi di secolari esperienze non potevano gradire. Finché, superato il contradditorio, nel giu­ gno del 1807 il progetto del canale di Pavia fu considerato come definitivo e approvato e il Viceré Eugenio ne ordinò Fimmediata esecuzione sotto la direzione dello stesso Brunacci. Alcune incertezze insorte nella condotta dei lavori e mu­ tar di persone nel collegio dei tecnici preposti alle opere non ne rallentarono sensibilmente il còrso, ma gli avvenimenti del 1813, quando le guerre, nelle quali lo stato era coinvolto, fi­ nirono ad assorbire i fondi destinati alle opere pubbliche, in­ tralciarono il regolare procedere dei lavori. Interrotti non fu­ rono mai e già nel 1814 i barcheggi arrivavano da Milano a Torre del Mangano, a cinque chilometri da Pavia e insieme una barca-corriera per passeggeri e merci leggere, in una pa­ rola il « barchetto » di Pavia cominciava a fare la spola fra i due estremi del tratto navigabile. La caduta del regno, i fattacci del T4 impedirono di ulti­ mare la grande opera o almeno di spingere la navigazione fino alla Porta di San Vito di Pavia, come pareva imminente. La Reggenza provvisoria di Governo in Milano ottenne dap­ prima un dispaccio da Vienna che ordinava la prosecuzione delle opere senza altri indugi; ma contrordini le sospendevano di nuovo. Erano continui tentennamenti da Vienna, come prima da Parigi, anche per interventi di tecnici stranieri che credevano di conoscere e di giudicare meglio dei nostri in materia a que­ sti familiare quale la navigazione fluviale... « I dotti delle altre nazioni, a proposito di canali di navigazione, si permettono ancora ai nostri giorni di essere inesatti nelle loro espressioni al segno di chiamare metodo francese, metodo olandese e me-

86 Naviglio a Pavia (lit. di G. Ellena), (Raccolta stampe Bertarelli) S. A. I. L’Arciduchessa Maria Elisabetta di Savoja Viceregina del Regno Lombardo-Veneto. (Raccolta stampe Bertarelli) todo inglese ciò che in sostanza risulta alla più lieve notizia della storia dell’arte metodo italiano, italianissimo » (Bru­ schetti). Infine l’Aulica Commissione delle finanze di Vienna no­ tificava il 24 giugno 1816 la sovrana determinazione della con­ tinuazione del canale a spese del tesoro dello Stato, da perfe­ zionare in tre anni: e già l’anno dopo la Corte di Vienna per evidenti ragioni politiche e di propaganda, ne domandava l’ac­ celerazione.

88 S. A. I. L’Arciduca Rainieri Vice Re del Regno Lombardo-Veneto. (Raccolta stampe Bertarelli)

Si voleva che del secolare lavoro raccogliessero gli applau­ si i Sovrani d’Austria che si attendevano nel milanese per ii giugno del 1819. Ma, richiamati i Sovrani a Vienna soltanto il 16 agosto fu celebrata l’apertura della nuova navigazione. Fu accomodato e pavesato il migliore dei natanti: non era il bucintoro degli Sforza, ma nemmeno il barchetto del servi­ zio giornaliero; e a bordo di quello salpò per il Ticino l’Arci­ duca Ranieri, Viceré del Regno Lombardo-Veneto, fra le auto­ rità civili in divisa e le militari in alta uniforme; in secondo Sant'Eustorgio - disegno cinquecentesco di anonimo artista dei Paesi Bassi piano l ing. Parea coi tecnici tutti che avevano per la lor co­ stanza e sperimentata competenza il merito maggiore del suc­ cesso. Folla alla Darsena, folla lungo le sponde, salve di arti­ glierie a Pavia, sparo di mortaretti lungo il percorso, rullare di tamburi e suono di bande. Era aperta e resa agevole la na­ vigazione da Milano al Ticino, al Po, al mare. Milano, come no, porto di mare.

IL SAGRATO DI SANT’EUSTORGIO

Il Sagrato di Sant’Eustorgio : antico luogo su cui sembra che il tempo sia passato invano. Era un tempo cimitero dove si seppelliva la piccola gente; patrizi ed ecclesiastici avevano se­ poltura nella chiesa. Poi furono abbattuti i due muri che lo rac­ chiudevano e il canonico Torre potè descrivere il sagrato om­ broso di olmi. In una delle note piccole incisioni di Marco Antonio Dal Re la piazza appare recintata da paracarri, nel mezzo la colonna di San Pietro Martire e due minori recanti la croce; in primo piano una quarta colonna detta di Sant’Eu­ storgio, una delle molte demolite nel 1787; nel fondo la fac­ ciata della basilica porta quella modesta truccatura barocca, che sparì nei restauri dell’ottooento per lasciar luogo ad una nuova fronte che voleva essere restituzione della antica. Re­ stauri, rifacimenti, demolizioni non hanno potuto distruggere il fascino della antica piazza, sorvegliata dalla mole rosseg­ giante della basilica Eustorgiana, alta sulle case fruste e di­ messe che le fan corona; dove dall’alto della superstite colonna di granito l’immagine gesticolante del Domenicano dalla testa spaccata rievoca un passato di tumultuose contese, alimentate dal fanatismo settario, lontano dalla legge di Cristo. Al N. 8 della Piazza un edificio dall’aspetto modesto riserba nel suo interno una sorpresa: varcato il portale sconnesso, nel cortile in desolato abban­ dono si riconosce l’avanzo di un delizioso chiostro databile a cavaliere del cinquecento. Due ali di portico di cinque arcate ciascuna: svelte colon­ ne a fusto di granito, capitello marmoreo composito di ele­ gante intaglio con targhe aral­ diche; ghiera di cotto fine­ mente modinata e sopra que­ sta, tra due fasce di laterizio, un fregio d’intonaco che sotto immonde ridipinture conserva tracce della coloritura origina­ ria a sviluppi di flora stilizzata e di fauna fantastica. Il piano superiore termina con una cornice a mezza volta lunet- tata, quale in uso nell’acerbo rinascimento : nelle lunette meglio conservate sono raffi­ gurate arpie tra grifi. Nell’a­ raldica dei capitelli è lo stem­ ma dei Dal Verme —- aquila nel capo e fascia nel campo La colonna di S. Pietro Martire. — e una fontana zampillante su due bacini sovrapposti, nel­ la quale si può riconoscere lo stemma della famiglia Fontana oppure una allusione alla vicina fonte di San Barnaba.

92 Avanzi dell’Ospedale di Santa Fede. (Raccolta P. M.)

È questo infatti l’avanzo dell’antico ospedale di San Barnaba, detto anche Ospedale di Santa Fede, fondato dai monaci vallombrosiani di Gratosoglio nel secolo XI e poi rifabbricato. Formava parte della corona di ospedali, che ai margini della città si apriva ai pellegrini di passaggio: ma all’infuori dell’abitato, perchè si temeva che diffondessero epidemie, o peggio il mal seme di eresie. E nel secolo XIII l’ospedale passava alla gestione dei Domenicani, che dove­ vano dare all’edificio un poco delle eleganze rinascimentali profuse nella lor sede a Santa Maria delle Grazie.

93 L’arca dei Re Magi. (Raccolta stampe Bertarelli)

IL BOTTINO DI GUERRA DI RAINALDO VESCOVO

Sant’Eustorgio, basilica « trium Magorum ». Ma quando i creduti resti dei tre misteriosi sapienti accorsi, secondo Matteo, dal lontano oriente ad adorare Gesù nella capanna di Betlemme, abbiano migrato nel grande avello di pietra della basilica non è ben chiaro. Si crede che Eustorgio ve­ scovo li ottenesse a Costantinopoli dall’imperatore Costantino e se li portasse a Milano, dove avrebbe fondato la basilica che ebbe poi il suo nome. Obbiezione: come mai Sant’Ambrogio vescovo a poca distanza d’anni non fa parola di reliquie di tanta importanza? Ed allora si pensò ad Eustorgio vescovo dal 512 al 518, poi a Sant’Arsazio, infine ad una gloriosa conquista di crociati.

94 II Cardinale Alfonso Litta. (Raccolta stampe Bertarelli)

Nell alto Medioevo, i Magi portavano il benedetto frigio, non già la corona e il titolo reale che ebbero invece conferita da un anonimo cronista, forse del secolo X, che li chiama coi nomi di Gaspare, Baldassare e Melchiorre, mentre il popolo milanese, in antecedenza li conosceva coi nominativi di Dio­ nigi, Rustico ed Eleuterio. Secondo il Romussi poi « Papa Benedetto XIV scrisse che furono da alcuni chiamati Appe- lius, Amerus, Damasus: da altri ancora Ator, Sator, Paratoras;

95 anche il numero varia secondo gli scrittori, da tre a quattro, a cinque, perfino a dodici ». Comunque è vuota la grande arca romana nuda d’ornati su cui sta ancora scritto: Sepulchrum Trium Magorum, e scol­ pita una stella cometa. E se nulla sappiamo con certezza circa l’arrivo degli avanzi venerati, sono perfettamente noti i modi e la data infausta della loro dipartita. Fu dunque Rainaldo vescovo di Colonia e gran cancellie­ re del Barbarossa l’autore della rapina. L ’Imperatore, mentre abbandonava alla rovina la città, aveva ordinato il rispetto dei luoghi santi, ma i milanesi poco fidavano nella sua pa­ rola, dacché aveva concesso ai fedeli pavesi di demolire il gigantesco campanile di Santa Maria Maggiore e credettero di salvare le reliquie nascondendole nella canonica di San Giorgio al palazzo. Fu peggio. L ’affannosa cura di occultarle ne rivelò a Rainaldo l’alto pregio e le virtù. Così si aggiun­ sero al bottino del crudele vincitore: sfregio di cui i milanesi si dolsero poco meno che della distruzione delle lor case. Le ossa dei Magi erano miracolose, guarivano il mal caduco, erano di provata efficienza contro le malie ed altri guai; si poteva forse sostituirle con altri talismani, ma la rapina li umiliava. La venerazione per il luogo ove avevano riposato i resti venerati non cessò tuttavia e qualche compenso alla lor per­ dita fu trovata. All’Epifania si esponeva una medaglia, che si diceva coniata con un po’ di quell’oro che i magi avevano offerto insieme con l’argento e la mirra al Divin Infante. Era in effetto niente di più che un aureo di Zenone Imperatore. Il padre Allegranza la rifuse e la riconiò con il monogramma di Cristo sul verso e l’adorazione dei Magi sul recto. Ma a Colonia i sacri resti, prezioso trofeo di guerra che i vincitori di Legnano non avevano potuto rivendicare, eb­

96 bero accoglienze superbe. Una urna d’argento preziosamente lavorata sostituì la ruvida arca della basilica Eustorgiana: ad albergarla fu eretta la cattedrale di Colonia, capolavoro dell’arte gotica matura. I Milanesi non si rassegnavano tanto facilmente alla perdita di quello ch’era considerato quale loro tesoro inalie­ nabile, unico nel mondo cristiano, nè si accontentavano della medaglietta d’oro che lo voleva supplire e più volte tenta­ rono, se non di ricuperarlo per intero, di riaverne almeno qualche frammento. Ci si pose d’impegno il cardinale Litta, arcivescovo di Milano dal 1652 al 1679, che ne interessò la Santa Sede: ma la risposta che ne ebbe dal Nunzio Aposto­ lico, quale riferita dall’abate Sormani, fu scoraggiante:' « Vostra Eminenza ha volto il pensiero alle reliquie dei tre regi, non sapendo la grande stima, che questi (i fedeli di Colonia) ne abbiano. Non può esprimersi se non con una so­ miglianza: saria così facile levarne una particella, come o dalla Santa Casa un mattone, o dai capi de SS. Apostoli nel Laterano, parte. Si custodiscono nella Metropolitana nel luo­ go più degno in casse d’argento coperte di drappi con orna­ menti d’oro massiccio sotto strettissima custodia. Sempre ar- donvi cerei. Ogni cosa è in quella cappella coperta d’oro, o di argento: insomma non può superarsi la ricchezza. Alla guar­ dia viene deputato successivamente un Canonico, senza l’as­ sistenza del quale non si apre mai nemmeno la cappella tutta cancellata, e sempre chiusa, e solo patente alla mattina per la celebrazione delle messe: il qual canonico fa ai pellegrini i bollettini della visita, venendone di sette in sette anni dal Regno solo d’Ungheria insieme da quattro in cinque mila. Da ciò deve l’E. V. conoscere, se la cosa sia arrivabile di poter mettere nel cuore a quella gente di scemarsi un atomo a un tanto lor tesoro ». Non più meta di pellegrinaggi, ma singolare attrattiva

97 turistica rimane la preziosa arca argentea di Colonia. Bersa­ glio alle ironie di Arrigo Heine, che in « Deutschland » im­ magina di malmenare le povere ossa e maledice al Duomo di Colonia, monumento della superstizione, che, lasciata in­ compiuta dai maestri lapicidi del Medioevo, rimarrà tale in eterno.

DALLA CATTEDRALE DI COLONIA AL DUOMO DI MILANO

Fu invece compiuto nel secolo scorso grazie all’opera esperta del vurtemburghese Federico von Schmidt, che in materia di ricostruzione o, se si vuole, di falsi nei modi della architettura gotica, dava dei punti al Viollet-Le-Duc. Quan­ do, dopo quindici anni di lavoro, l’opera dello Schmidt potè dirsi compiuta (1847), il governo austriaco lo chiamò a Milano alla cattedra di architettura presso le scuole di Brera, dov’egii avrebbe riformato i programmi d’insegnamento, assegnando notevole preponderanza al gotico oltremontano, se non fosse stato sorpreso dagli avvenimenti del ’59. Ma per qualche tempo, occupandosi dei restauri di San- t’Ambrogio e con taluni suoi studi di riforma della facciata del Duomo, parve esercitare una sua dittatura sull’architettura lombarda il tedesco che aveva innalzato le ultime guglie sul monumento che celebrava le imprese del Barbarossa. Tant’è vero che anche la storia dell’arte è ricca di spunti ironici. Lo Schmidt, che era anche un’ottima persona, nella sua breve presenza a Milano seppe accaparrarsi amicizie e sim­ patie che poi conservò e coltivò. E quando, molt’anni dopo, si pensò sul serio a rifare la facciata del Duomo, e fu indetto su tal tema un concorso internazionale, fu ancora chiamato a far parte della giuria l’annoso architetto del Duomo di Colonia. L’architetto Schmidt. (Raccolta stampe Bertarelli)

IL PULPITO DI SAN PIETRO MARTIRE Fuori Porta Ticinese, in una casa vicina al fonte di San Barnaba, fu accolto Domenico di Guzman quando a Milano iniziava le sue infiammate predicazioni: e ben presto lordine da lui istituito ottenne dall’arcivescovo Enrico (1227) di eri­ gere con le elemosine dei fedeli la sua casa presso la basilica di Sant’Eustorgio maestosamente rifabbricata e destinata a nuovo splendore dopo che vi ebbe sepoltura San Pietro Mar­ tire, « tribus coronis doctrinae, virginitatis et martyrii donatus ».

99 Il pulpito detto di San Pietro Martire. (Fotografia Cardini, Milano) Ariberto d’Intimiano (dalla Croce in Duomo).

A fianco della facciata di Sant’Eustorgio, in angolo col fabbricato conventuale, è la loggetta o pulpito da cui si voleva avesse predicato S. Pietro Martire; sappiamo invece che fu eretto soltanto nel 1597 per ordine di Don Ferdinando Vela­ sco, Contestabile di Castiglia e Governatore di Milano, in so­ stituzione di altro, forse di legno, da cui il santo avrebbe real­ mente predicato. « In hac area », cioè in questa piazza, non da questo pulpito, il Santo « manichaeos confutavit » precisa prudentemente una scritta dipinta sul parapetto del pulpito: scritta oggi consumata dal tempo, illeggibile. È certo invece

101 che il cardinal Federico Borromeo parlò da quella loggetta, quando fu a inaugurare il sacello della fonte di San Barnaba. Ma nelle aspre lotte contro le eresie, quando era consi­ derato delitto sociale professare dottrine contrarie a quelle definite dalla Chiesa di Roma e lo stesso Federico II nemico del papato, e pagano a metà, eppure intollerante in materia religiosa, ordinava che gli eretici fossero dati alle fiamme o avessero mozzata la lingua, sono in prima fila i domenicani predicatori di Sant’Eustorgio : nel convento di Sant’Eustorgio ebbe sede il tribunale dèll’Inquisizione istituito da Innocenzo IV, finché nel secolo XVI Paolo IV ne ordinò il trasporto al convento delle Grazie. Il Tribunale aveva però origini più re­ mote e il Giulini ne trova indizio nel tragico episodio dei cre­ denti di Monforte, secondo il racconto dei cronisti.

I CREDENTI DI MONFORTE

Fu nei primi del secolo XIII che l’arcivescovo Ariberto scoprì in un remoto castello del Piemonte un covo di eretici professanti dottrine che richiamavano quelle dei Manichei; ne fece una retata e se li portò a Milano insieme con la con­ tessa del luogo. Furono esortati a ripudiare la loro credenza e a riconciliarsi con la Chiesa, ma quelli che consideravano il martirio come il miglior mezzo di salvazione delle anime resistevano: allora i primati della città avocarono a sé la sorte della setta di Monforte e vollero andare per le spicce. I di­ sgraziati vennero portati sulla pubblica piazza, dove da una parte era eretta una croce, dall’opposta era acceso un gran fuoco: e furono posti davanti al dilemma: o gettarsi ai piedi della croce, dichiarando di sconfessare le lor dottrine e di conformarsi, per l’avvenire, nell’opera e nel pensiero, alla fede cattolica, o essere gettati viventi nel rogo, anticipatore delle

102 S. Eustorgio nel 1787 pene dell’inferno. E allora avvenne l’incredibile; mentre qual­ cuno, atterrito dal sinistro apparato, si prostrava gridando ad abbracciare la croce, altri, silenziosamente, si tappavano gli occhi con le mani e risolutamente correvano a gettarsi tra le fiamme...

ERESIE E ROGHI

« Nolente archiepiscopo » dice Landolfo. Dunque il gran­ de arcivescovo non intendeva arrivare a questi estremi, mentre già il Comune sembrava sdegnare la superiorità della curia archiepiscopale. E i primi processi per la repressione di moti eretici furono composti dalla giurisdizione ecclesiastica e laica insieme : poi la sorveglianza contro le eresie fu esercitata dagli arcivescovi soltanto, che si giovarono del braccio secolare con­ cesso nel 1228 dal Consiglio generale (E. Verga), che riuniva in 900 membri i rappresentanti delle sei porte; l’anno stesso Stralcio dalla « Pianta della Città di Milano » pubblicata dall Amministrazione municipale, 2 gennaio 1814 (Raccolta stampe Bertarelli) Il monumento equestre eli Oldrado da Tresseno. (Raccolta stampe Bertarelli) che, essendo podestà Aliprando Fara da Brescia, si deliberava la costruzione del nuovo Broletto. Qualche anno dopo (1233) Oldrado da Tresseno podestà ultimava il palazzo ed accendeva i roghi; la statua equestre, opera forse di Benedetto Antelami sulla parete meridionale dell’edificio ne conserva la svelta immagine giovanile, mentre una scritta ne vanta, in pari grado, i meriti di aver elevato il palazzo e di aver dato alle fiamme gli eretici :

QUI SOLIUM STRUXIT CATHAROS UT DEBUIT UXIT

I rigori non giovavano: Milano, fovea haereticorum.

106 La parte meridionale del « nuovo Broletto ». Il Nuovo Broletto o palazzo della Ragione, nell’ottocento. (Raccolta stampe Bertarelli) Le sette eretiche pullulavano e si moltiplicavano in quel secolo; v’erano i « credenti » di Milano, di Bagnolo, di Con- corezzo. Avevano in comune il proposito di radicali riforme; « taluna voleva giungere, precorrendo i tempi, alla libertà di pensiero » (E. Verga). Dal capo della Chiesa Milanese la giu­ risdizione sulle eresie, passò al sommo Pontefice; Innocenzo IV intorno al 1250 affidava la repressione delle sette ad un ap­ posito tribunale, il Santo Ufficio dell’Inquisizione, « Arma for­ midabile in mano di principi e talvolta a lor danno, non fu in­ trodotta senza opposizione di sovrani e di popolazioni ». I mi­ nacciati talvolta ricorrevano allessassimo, nella illusione che la morte di taluni fra i più zelanti inquisitori potesse portare alla rovina della istituzione. Al contrario l’eccidio di San Pietro Martire le giovò e prestò argomenti alla reazione cat­ tolica.

L’ECCIDIO DI BARLASSINA

Il domenicano Pietro di Verona fu clamorosa vittima del suo zelo. Ammesso in giovane età all’ordine dei frati predi­ catori dallo stesso fondatore San Domenico di Guzman, era stato insignito dal papa dal titolo di Inquisitore generale de­ gli eretici e percorreva l’Italia predicando contro i ribelli alla disciplina cattolica e trascinando le turbe con la sua veemente eloquenza. Venuto a Milano, dove fondò il monastero della Vec- chiabbia, la sua predicazione trovò facile bersaglio nei mila­ nesi incalliti nelle sette, nei miscredenti che appendevano i crocifissi capovolti, e incuranti dei precetti della chiesa trascu­ ravano i sacramenti e, orrore, arrivavano a mangiare di grasso nei giorni proibiti. Seguirono conversioni e pei ribelli proscri­ zioni bandi e condanne. I colpiti preparavano le vendette. S. Domenico. Particolare eli un dipinto del sec. XIII. (Napoli, S. Domenico Maggiore).

Frate Pietro ritornava da Como, dove aveva esercitato con tutta severità il suo ministero, e lo accompagnava tal fra Domenico del suo stesso ordine, quando in un folto bosco nei pressi di Barlassina la mattina di sabato dopo Pasqua fu aggredito da sicari che gli spaccarono la testa con una ron­ cola, gli infìssero un coltello nel dorso e lasciarono per morto il suo accompagnatore. Il quale tuttavia fu raccolto semivivo da alcuni viandanti e fu portato a Meda, dove sopravvisse sei giorni ancora, ma prima di spirare potè raccontare il fatto e

110 giovare al riconoscimento dei colpevoli. Si seppe poi che lo assassinio era stato ordito di lunga mano e vi avevano parte personalità cospicue, fra questi Stefano Confalonieri di Adiate che fu bandito ma per il momento ebbe salva la vita. (I boschi di Barlassina, località che oggi fa comune con Seveso, ebbero triste nomea fino ai tempi di Federico Borro­ meo, quando un intraprendente prevosto di Seveso che, con la complicità di masnadieri a cui dava ricetto, vi si appostava in agguato, e armato di uno scoppietto aggrediva i viandanti, li derubava, li ammazzava e ne nascondeva nel cimitero le salme. Il cardinale dopo averlo con incredibile indulgenza più volte semplicemente ammonito, riuscì a chiuderlo nelle prigioni ar­ civescovili e si limitò a condannarlo al remo: ma il furfante potè scappare e si ridusse nella valle di San Martino, oltre il lago di Brivio, dove, a cavaliere del confine milanese e veneto, convenivano malviventi d’ogni risma. E altro più non ne sap­ piamo. Più tardi Barlassina ebbe nomea più mite per abbondanza d’asini. Ciò seccava al compianto pittore Emilio Longoni, che nato a Barlassina quando il paese formava comune a sè, pre­ feriva dirsi nativo di Seveso).

SANTITÀ DI UN SICABIO

Uno dei sicari, tali Carino potè essere arrestato e fu chiuso in una segreta della Bocchetta di Porta Ticinese, ma potè dopo dieci giorni di prigionia sottrarsi, fuggendo all’atroce fine a cui era riservato; probabilmente con la complicità dei custodi, fos­ sero comperati con denaro o appartenessero, come più proba­ bile, alla stessa setta religiosa. Biuscì poi a mettersi sotto l’egida degli stessi domenicani professandosi pentito, si fece frate entrando egli pure nell’ordine dei predicatori, e morì poi in onore di santità.

111 I domenicani di Sant’Eustorgio, rinunciando a facili ven­ dette, arrivarono dunque ad esercitare il diritto d’asilo a favore dell’assassinio di uno dei loro confratelli, e forse del più auto­ revole. Atto generoso di cristiana pietà, che sorprende nel quadro crudele di lotte religiose senza quartiere; ma tale diritto di cui i domenicani erano gelosi, preteso da tutte le fraterie, se valse talvolta a salvare persone innocenti o degne di per­ dono, significò spesso immunità di malviventi, che nelle ombre dei chiostri trovavano riparo agli atti di giustizia. I conventi erano « un albergo gratuito per quelli che volessero vivere d’accatto senza giustificare di essere bisognosi: un deposito di merci frodate alla gabella : un rifugio per chi avesse mestieri di consiglio, di consolazione, di asilo. » (Cantù).

IL MARCHESE PORRONE - E I DIRITTI DI ASILO

Nel convento di Sant’Eustorgio doveva trovar riparo a mezzo il seicento, quel bizzarro farabutto, che fu il marchese Annibaie Porrone « Con un famoso suo archibugio, che qui diceasi pistone scavezzo, facea tacer la giustizia, stornava avvo­ cati e giudici dal movergli liti, e a un tal dottore Parasacchi che mostrava non averne paura, egli stesso si fè incontro, e dettogli: — Vi dò questo per buona sera — lo stese morto d’un colpo. Si voleva allora coglierlo, ma egli ricoverò in San­ t’Eustorgio, e nel convento e sul sagrato davasi a ogni sorta di passatempi e di furfanterie, e bravava le ricerche della giustizia, che invano facea la ronda intorno a quel luogo. E continuava le ribalderie, ed ammazzò uno de’ Corj, poi al fine se n’andò di città: visse a lungo in Venezia, dove forse fu trucidato. » Uguali diritti erano pretesi dal patriziato come dagli eccle­ siastici, e nei palazzi, nelle ville, nei castelli, persino nelle

112 Don Luigi de Guzman Ponce de Leon. (Raccolta stampe Bertarelli) case dei preti potevano trovare rifugio criminali e prepotenti del peggior conio. Ancora nelle stampe dei vedutisti del set­ tecento davanti ai maggiori palazzi nobiliari si scorgono file di colonnette o di paracarri che, delimitando la proprietà privata, segnavano contemporaneamente un limite invalica­ bile, oltre il quale entrava in gioco il diritto di asilo: dietro quel simbolico riparo un ricercato per delitti, fossero pure de­ litti di sangue, poteva impunemente bravare i birri e infi­ schiarsi del capitano di giustizia: la famiglia o il personaggio a cui aveva chiesto salute, si riteneva impegnato di salvarlo.

113 Più d’una volta i governatori spagnoli furono tentati per lor conto di violare i diritti d’asilo. Fu il caso di Don Luigi da Guzman Ponce de Leon, governatore dal 1660 al 1663: lo ri­ feriamo con le parole del Cantù : « ...un sicario uccise presso San Giorgio in palazzo il cavaliere Uberto Dell’Otta; e preso non potè dire da chi fosse incaricato del colpo, perchè il committente che l’aveva menato dal Bergamasco eragli ignoto ed era fuggito : si so­ spettò d’un Landriani, allora in lite col Dell’Otta, il quale inseguito fuggì in chiesa di San Nazaro: ma, per ordine del governatore, fu strappato di là, anzi dall’altare avvinghiato al tabernacolo. Allora il Litta a lamentare della violata im­ munità; non ascoltato, minacciò interdetti e fece intimar un primo monitorio, poi un secondo senza effetto : il terzo fu stracciato dagli alabardieri, e ferito il prete che lo portava. « S’invelenisce dunque la cosa: Ponze de Leon minaccia di far appiccare il Landriani alla porta dell’arcivescovo, s’egli fulmina la scomunica: infine il presidente Arese si mette di mezzo, e mitiga di qua, di là. Ma a poco riusciva, quand’ecco alla corte del governatore, ch’era in casa Durini, si presenta una gran dama, in un tiro a sei, smonta, ascende dal governa­ tore e dichiara aver ella stessa dato la commissione d’uccider il cavaliere per un insulto avutone; e scendendo, risale in car­ rozza, e si ritira in una villa sul lago di Como. Il Ponze de Leon fè allora rilasciare il Landriani. » Ebbe la peggio poi in un caso somigliante il fastoso e vanaglorioso duca d’Ossuna: benché una volta tanto avesse ragioni da vendere. Un suo servo aveva percosso un cagnolino della principessa Trivulzio, che senz’altro per un delitto tanto abbominevole lo fece accoppare dai suoi servi. Il duca indignato mandò il capitano di giustizia ad arre­ stare gli omicidi nella casa della principessa, ma questa, spa-

114 Il duca Gasparo Tellez y Giron Duca d’Ossuna. (nefasto Governatore di Milano dal 1670-74). (Raccolta stampe Bertarelli) gnola di nascita e gonfia di boria quanto l’Ossuna, si querelò a Madrid per la violata immunità: e alla fine fu il Capitano a far le scuse alla offesa dama e a rendere i prigioni. Occorreva il 1796 ad abolire inesorabilmente i privilegi di casta, di cui si era intollerabilmente abusato e con quelli i diritti di asilo senza eccezione.

Dopo che il Carino si fu posto in salvo chi fece le spese della sua fuga, fu il Podestà, Pietro Avvocato, che verosimil­ mente nulla sapeva del fatto e tanto meno vi aveva preso parte; ma era comasco, e vedi, combinazione, frate Pietro era stato

115 Diritti d’asilo.

ucciso nel viaggio di ritorno da Como; ed era sospettato di eresia. Il popolo se colpito nelle sue passioni ha bisogno di dare un nome al suo corruccio, un bersaglio alle sue ire : il Podestà, probabilmente innocente, fu designato quale capro espiatorio e dovè passare un brutto quarto d’ora. La vita a Milano non era facile per i podestà ed era ancora recente il caso di Beno dei Gozzadini, gettato nel Naviglio per troppo zelo. Una mano di forsennati corse alla sua casa, e approfittando dell’ottima occasione, la pose a sacco : Il comasco fu preso e strettamente legato fu portato all’Arcivescovo, che a stento potè salvargli la vita. Portata a Milano, la salma del' inquisitore aveva avuto fu­ nerali superbi, e immenso concorso di popolo la aveva scor­ tata nella basilica di Sant’Eustorgio. Dissenzienti non manca­ vano: erano fra questi il marchese Palavicino, protetto dai Torriani, e Corrado da Venosta, di converso protetto dai Vi­ sconti: ma furono messi a tacere e corse altro sangue. I ca­ stelli di Cortenova e di Mozzanica, nido e rifugio di eretici, furono presi e spianati al suolo. Passò appena un anno e Pietro fu canonizzato e posto sugli altari, essendo pontefice Innocenzo IV.

I CROCESICNATI DI S. PIETRO

E a San Pietro Martire fu intitolata una strana compa­ gnia di volontari, che, astretti da un severo giuramento, militavano a tutela del Tribunale dell'inquisizione e in aiuto degli inquisitori, di cui eseguiva gli ordini, giovandosi alla occasione delle armi che erano autorizzati a portare. Per questo privilegio molti chiedevano di essere ascritti alla com­ pagnia, che, composta dapprima da operai e da mercanti, passò poi al patriziato e non fu più che di cavalieri e gran signori. Prevalse allora, sul titolo primitivo, quello di Crocesi- gnati: portavano al petto una croce, inquartata di bianco e di nero. Avevano gradi gerarchici, un proprio gonfalone; fruivano di mutua assistenza, di privilegi e di vantaggi spi­ rituali, di indulgenze e suffragi. Il giorno di San Pietro martire i Crocesignati si riunivano a messa, dove sguainando le spade, alla lettura del Vangelo,

117 si protestavano pronti a versare il sangue a sostegno della fede.. Negli ultimi cataloghi della compagnia si leggevano tra gli affiliati i maggiori nomi dell’aristocrazia milanese: Tri- vulzio, Taverna, Castiglioni, Carcano, Beigioioso, Settala, Mel- zi, Cagnola, Pusterla, Somaglia, Arese, Arconati, Trotti... La compagnia fu sciolta nel 1769, per ordine del Kaunitz, il Ministro di Maria Teresa, che, seguendo le dottrine degli illuministi sostituiva « al Santo Ufficio la polizia, ai frati i soldati » (Cantù) ed era tempo.

Dopo l’eccidio di Barlassina sulla basilica Eustorgiana e sui domenicani caddero copiosi i frutti del favor popolare: il Comune col pubblico erario si onorò di concorrere alla costru­ zione dell’alto campanile terminato a cono cestile e al rinno­ vamento del convento che fu ampliato notevolmente (in ori­ gine ospitava soltanto dodici predicatori).

RICCHEZZA D’ARTE NELLA BASILICA E NEL CONVENTO

I Torriani e i Visconti, che dovevano disputare con le armi la Signoria cittadina; si misurarono dapprima in gare incruen­ ti, aggiungendo decoro e splendore alla basilica e arricchen­ dola di opere d’arte: Ottone Visconti la ingrandì estendendo le navi allo spazio dianzi occupato dal nartece. Più tardi F i­ lippo Maria Visconti ricostruì a nuovo l’uno dei due chiostri, giovandosi, secondo il Decembrio, di colonne « ritolte alla curia di Barnabò » demolita. Ma che cosa qui intendesse per curia di Barnabò non è chiaro; Barnabò disponeva di due palazzi : l’Arengo poi Corte Ducale e la Cà dei cani presso San Giovanni in Conca: in nessuno dei due edifici sembra si possa riconoscere la curia Il campanile di Sant’Eustorgio. (Foto Cardini, Milano) Il chiostro dei morti a Sant’Eustorgio. (Raccolta P. M.) in parola; sembra invece che il Decembrio alluda al palazzo di Luchino Visconti, di cui non si ha notizie a partire dal 400. (Nella demolizione di un edifìcio sorgente in quell’area lo scrivente trovò il frammento di una coppella di ceramica fregiata dalla biscia viscontea). Aggiunge il Decembrio che il chiostro risultava « struc­ tis bifariam candidis nigrisque lapidibus » ; che il Giulini inter­ preta costruito « in doppio ordine a colonnette bianche e ne­ re », ossia coi colori dell’abito domenicano, come altrove nelle architetture di questo ordine (ma secondo altre interpreta­ zioni la frase potrebbe anche significare alternanze di pietre bianche e nere come in parecchie costruzioni monumentali

120 Il secondo chiostro di Sant’Eustorgio. (Raccolta P. M.)

del medioevo lombardo: facciata della Metropolitana, log­ gia degli Osii, facciata di Santa Maria in Brera, Duomo di ecc.) Ma il convento, quale ci è rimasto, sconquassato dalle bombe del ’43, è ricostruzione del ’600: già nel 1526 soldati francesi e spagnoli, che alternativamente l’occupavano, bave- vano guastato e in parte incendiato e in tali circostanze anda­ rono distrutte numerose sepolture di famiglie nobili distri­ buite nel chiostro detto « dei morti ». Ne rimasero però circa un centinaio fra monumenti funerarii — dei Trivulzi, dei Pu- sterla, dei Brivio, dei Caimi — e lapidi tombali con iscrizioni e stemmi ed epigrafi consunti dal tempo e illeggibili.

121 Poi l’Inquisizione fu tolta ai frati di Sant’Eustorgio e con­ segnata nel 1559 a quelli di Santa Maria delle Grazie, dove il Padre Giovanni Battista da Cremona fu riconosciuto In­ quisitore generale per tutto il Ducato. Infine nel 1798 la campana medioevale del monastero, che recava incisi i versi leonini Ad verbum vitae - cum dan dan dico venite cessò di chiamare i religiosi alla preghiera e il convento fu tramutato in caserma; accolse poi un deposito dell’Archivio di Stato, poi gessi e calchi di statue che altrove non trovava­ no ricetto, infine uffici pubblici. Ma il monastero era stato centro di pietà e di coltura; ricordiamo il cronista Galvagno Fiamma e lo storico Gaspare Bugatti: aggiungiamo, con qualche ripugnanza, Stefanardo Vimercati, primo lettore di teologia di Milano, mal conosciuto per il processo dei Guglielmiti che lo ebbe a giudice e l’inu­ mano loro supplizio. Spogli di segni d’arte, i due chiostri superstiti non sono che l’ombra dell’antico cenobio nè valgono a rievocarne gli splendori. Di contro la basilica di Sant’Eustorgio, nelle me­ morie venerande, nella sua struttura romanica rispettata dai restauratori, nelle pitture distese sulle pareti, nella ricchezza dei sepolcri gentilizi, conta sempre fra i più insigni monu­ menti cittadini.

L’ARCA DI GIOVANNI DI BALDUCCIO

Il martirio di San Pietro da Verona diede origine ad un autentico capolavoro della scultura del trecento, l’arca famosa di Giovanni di Balduccio Alboneto da Pisa. Fu eretto in origine nella nave del vangelo, in rispondenza alla terza e quarta cappella : e soltanto nel 1737 traslocò in più degna sede nella

122 S. Eustorgio - La cappella eli Pigello Portinari. (Raccolta P. M.) cappella che Pi- gello Portinari, questore delle en­ trate ducali, e ad un tempo gestore del banco medi­ ceo, aveva co­ struito quale o- maggio alla pie­ tà della duches­ sa Bianca Maria, particolarmente divota del Santo. Gioiello rinasci­ mentale, dove la grazia toscana si sposa con la gaia policromia lom­ barda (si pensa ad un disegno di Michelozzo inter­ pretato dall’Ama- deo). Nel mezzo del sacello s’innalza, ad un tempo svel­ ta e maestosa, L’arca di San Pietro Martire. l’arca del maestro pisano; la luce piovente dell’alto accende le sobrie dorature, desta nei marmi politi bagliori d’avorio contrastati da ombre calde, morbida­ mente trasparenti.

124 Opera « mirandae pulchritudinis : nec fuit in universis regnis totius Christianitatis tam mirabile sepulcrum de mar­ more! » esclamava dalla sua cella nel cenobio domenicano Galvagno Fiamma; e a secoli di distanza gli faceva eco il canonico Torre: « gareggia in vaghezza con quanti tumuli di marmo trovansi in Europa ». E poche opere di scalpello pos­ sono vantare tanta universalità di consensi e tanta estesa bibliografia; e ancora ai giorni nostri il Vigezzi meravigliava come lo scultore avesse saputo dar vita e forma e forza di commozione, nel complesso architettonico e sculturale, ad una concezione scolastica suggeritagli, è a credere, dagli stessi frati domenicani: concezione che così riassume: « A gloria del Martire, Balduccio esprime e sviluppa artisticamente l’idea teologica che le Virtù naturali (alla base del monumento) sono sublimate dalle Grazie (simboleggiate dai Cori angelici sull’alto del sarcofago) e poi premiate con la gloria paradisiaca (Vergine e Gesù sull’alto della tomba) ».

TORRIANI E VISCONTI

Accanto all’arca del martire e nella serie di cappelle cre­ sciute intorno alle navi si moltiplicarono i sepolcri gentilizi: quali opere insigni di scalpelli campionesi ingentiliti da ri­ flessi toscani, quali raffinate creazioni del primo rinascimento. L ’ottuso fanatismo cisalpino scalpellò le insegne araldiche scolpite sui monumenti e cancellò quelle dipinte sulle pa­ reti, mutilando pagine di storia: restauri del secolo scorso contribuirono a minorare il patrimonio artistico della basilica, che rimane tuttavia cospicuo. La presenza simultanea di tanti sepolcreti privati sembra testimoniare accomunate nella devozione al santo domeni-

125 Arca di S. Pietro in S. Eustorgìo. « Naufraghi salvati dal Santo ». (Fotografia Cardini, Milano) cano anche famiglie irreducibilmente avverse, quali i Torriani e i Visconti. I Torriani tenevano la settima cappella, nel lato dell’epistola dedicata al protettore della casa San Martino. L’ultimo che vi fu sepolto, prima della dispersione della fami­ glia, fu Martino di Cassone, nel 1307, con seguito ed onori quali convengono ad un gran capitano. « Alle esequie non gli fu portato il baldacchino » informa il Corio. La salma vestita di seta verde foderata di vaio: era seguita da un uomo d’arme a cavallo, che portava lo scudo e lo stendardo volto a terra.

126 L’arca di Pietro Torelli (di Jacopino da Tradate). Monumento a Stefano Brivio. Arca di S. Pietro Martire : La Temperanza.

UMANITÀ DI MARTINO DELLA TORRE

I Torriani, pur destinati a soccombere nelle lotte civili e ad avere arse e smantellate le loro splendide dimore, avevano qualità per farsi amare dai concittadini e anche nelle ore di successo avevano dato esempio di saggia moderazione e di generosa umanità: esempio raro in secolo crudele. Martino il vecchio non si riconosceva il diritto di condannare a morte chicchessia. « Io ancora non ho saputo generare nessuno, però persona non voglio consentir che muore ».

129

9 Il mausoleo di Stefano Visconti (Bonino da Campione). La tomba di Agnese Besozzi. Eppure dei Torriani più non resta alcun segno nella basi­ lica: la loro cappella, usurpata dai Visconti, fu dal duca Fi­ lippo Maria donata ad un suo devoto, mentre restano lucenti di marmi con tracce di smalti e dorature le arche dei Visconti.

I VISCONTI E LA SCOMUNICA DI PAPA GIOVANNI

Nella quarta cappella dedicata a S. Tomaso d’Aquino e costruita da Matteo I Visconti il maestoso monumento di Ste­ fano, figlio di Matteo, rievoca storie tenebrose di discordie fa­ miliari: perchè nella stessa arca riposava la consorte Valentina Doria, e nell’archivio del convento si dice fosse conservato il suo testamento, che accusava i figli Barnabò e Galeazzo di avere avvelenato per gelosia di potere il suo primogenito Matteo IL Barnabò e Galeazzo l’avrebbero attossicato in « lomboli di porco » di cui era ghiotto. Sembra invece che si consu­ masse per sfrenata lussuria. « Si volse secondo alcuni in tanta libidine, che delle più famose giovani di Milano non sola­ mente una alla volta gli bastava, ma più ne tenea nel proprio letto, per modo che si consumò in tal forma la persona, che nè forze nè vigore non havea... ». È sepolto nella chiesa di San Gottardo. Del fondatore della cappella, non v’è traccia neH’interno. Ma sulla parete esterna in una edicoletta retta da colon­ nine su mensole, si erge il busto marmoreo di Matteo, che so­ vrasta uno scudo recante il biscione visconteo. « Ha il volto di età matura come appunto egli era in età di 47 anni (nel 1297, quando la cappella fu costruita) con barba al mento non molto diffusa...: è vestito di giaco e tiene un diploma nella mano spiegata » (Vigezzi). A vederlo dal basso sembra di scorgere nella maschera di Matteo un barlume di quella smorfia sar­ donica che contrae il viso di Cangrande della Scala, nel suo monumento di Verona. Il sarcofago di Gaspare Visconti. ... il busto marmoreo di Matteo sopra il biscione Visconteo... (Disegno di P. M.)

« Fu Matteo tanto glorioso, quanto alcun altro fosse a suoi giorni. Havea venti collaterali e ottanta famigliari, i quali due volte all’anno vestiva d’honorevole vestimenti oltre ad al­ tri pagati da lui. Galeazzo, Marco, Lucchino, Stefano e Gio­ vanni dicato all’ordine sacerdotale suoi figliuoli tenea in ma­ gnifico stato... ». Ci informa ancora il Corio che il patriarca riparava i gua­ sti dell’età, coi rimedi un po’ speciali che i sacri libri attribui-

134 San Carlo Borromeo {ritratto di Ambrogio Pigino). (Raccolta stampe Bertarclli) scono al Santo Re Davide: « Et già Matteo pervenuto all’età di sessantasette anni, per non poter supplire al calor naturale, tenea nel letto alcune piccole fanciulle... e alcuna Bada di maggiore età... ». Venuto a morte sotto il peso della scomunica lanciatagli da papa Giovanni, i familiari ebbero la prudenza di celarne la sepoltura, perchè a Matteo in ogni caso fosse risparmiato l’oltraggio, inflitto dalla vendetta pontifìcia a Manfredi. Se­ condo una persistente tradizione la salma sarebbe sepolta nella chiesa di San Cristoforo sul Naviglio: invece il Bugatti li vuole, non sappiamo con quale fondamento, interrati nel

135 sottosuolo di Sant’Eustorgio. In tal caso per ironico destino i resti dello scomunicato Matteo sarebbero rimasti soli fra i tanti nell’antica basilica presso l’arca di San Pietro. Per­ chè, come noto, tutti i depositi gentilizi nelle chiese furono nel secolo XVI riaperti per ordine di San Carlo Borromeo e in ossequio ai severi deliberati del Concilio di Trento, svuotati e convertiti in cenotafì.

LO STRADONE DI SAN SIMONE

La Via Cesare Correnti, dal Carrobbio diretto a quello ch’era la cerchia dei Navigli interni, è, con qualche correzione operata dal Piano Regolatore del 1885, l’antico stradone di San Simone, così denominato dalla chiesa omonima, più pro­ priamente dedicata ai S.S. Apostoli Simone e Giuda; annessa questa ad un convento di Umiliati, detto di Marliano, fondato nel 1276 e soppresso nel 1570, quando l’ordine fu abolito da papa Pio V. Nel convento, di cui più non è traccia, si trasferì un collegio di giovani, che, fondato alcuni anni prima dal conte Taeggi, funzionava in sede prossima al ponte dei Fab­ bri con Ledici allievi. Più tardi cambiò sede un’altra volta passando all’antico monastero di San Bernardo, a Porta Vigentina dove si riunì al collegio Calchi, istituzione che sotto il nome di « Scuola della carità » raccoglieva giovinetti bisognosi d’aiuto, ma dotati di particolari attitudini agli studi. La chiesa di antica costruzione, ad una sola nave con tetto di legno scoperto, conteneva qualche oggetto interes­ sante, quale un dipinto di Bernardino Lumi, che non so dove sia finito. Seguì le sorti del convento e all’ultimo, nel secon­ do secolo scorso, la sua trasformazione in chiesa Evangelica urtava e scandalizzava i devoti della contrada, che si vendi­ cavano, con qualche dispettuzzo, quando potevano, e con Luchino Visconti (Raccolta stampe Bertarelli) motteggi. Poiché sulla porta d’ingresso si leggeva scritta in latino la frase biblica « le mie parole sono spirito e verità » e contiguo era un negozio di vini e liquori, traducevano : « qui si spacciano bevande spiritose ed alcooliche ». (Rota) Pochi amanti delle antichità milanesi erano invece a ri­ cordare che, proprio nella chiesa degli Umiliati di San Simone, per opera dei domenicani di Sant’Eustorgio, nell’agosto del 1300, si era conchiusa tragicamente, con patiboli e roghi, l’ere­ sia di Guglielmina la Boema.

137 GUGLIELMA LA BOEMA

I processi da cui risultò condannata, conservati nella Biblioteca Ambrosiana, studiati e illustrati dagli scrittori mi­ lanesi, non confermarono, anzi smentirono la leggenda di oscenità carnali attribuite alla enigmatica e strana profetessa, che, con lé opere e le parole, aveva saputo accendere fra le masse una gran fiamma di fanatismo religioso e nella quale oggi vedremmo al più una isterica allucinata, una visionaria in buona fede, se vere le predizioni, le pratiche e le dottrine che le furono attribuite. A due secoli della sua morte, il Corio raccolse e avallò con l’autorità sua le favole, che si erano formate intorno alla enigmatica figura di Guglielmina la Boema e ai suoi seguaci, divulgate dal Fiamma e alimentate dalla fantasia popolare « ...Gli era a Milano una femina heretica chiamata Guglielma, la quale molto si mostrava religiosa, e santa, menava la sua vita con un certo Andrea, chiamato Saramita, e sotto una fìnta bontà, haveano una certa Sinagoga sotto terra vicina à Porta Nuova, nella quale usavano una puzzolente heresia. Quivi avanti il matutino ordinavano un consortio, nel quale interve­ nivano molte fanciulle, matrone, vedove e maridate, le quali per impositione di Guglielma erano chiericate à modo de Sacerdoti. Gli interveneano ancora molti giovani, e huomini à modo di religiosi. Et in questa adultera Sinagoga haveano un’Aitar, avanti del quale faceano le sue fraudolente orationi; dopo le quai gridavano; congiungiamosi, congiungiamosi. E il lume ponevano sotto un sestario... ». Risparmiamo al lettore il resto, troppo facile a immaginare date le premesse, e del resto niente affatto divertente. Pro­ segue il Corio raccontando come i monaci di Chiaravalle la seppellissero per santa e per sei anni continuasse « il sacrilego Il cimitero di Chiara-valle, dov'era la sepoltura di Guglielmina. e scelleratissimo modo » finché venne palesato da un mercante, tal Corrado Coppa « il quale havendo la moglie sua, che fre­ quentava nel vituperoso luogo, entrandogli nel capo grande sospicione, si deliberò di veder la verità di tal cosa... » Seguì dunque nottetempo la moglie che si recava al noto convegno, e, poiché le orgiastiche cerimonie avvenivano all’oscuro, rico­ nobbe la moglie da un anello di zaffiro che portava al dito. Convocò poi gli amici e le lor donne, che aveva potuto ravvi­ sare, ad un « convito sontuoso » nelle proprie case: e quei sciolti i capelli alle femmine si trovò che avevano, nascosto la chierica e tutto fece palese. Intervento sdegnato di Matteo Visconti e poi degli inquistori, che « coi tormenti » inducono a confessare i guglielmiti. La verità emerge dalla lettura del « Processo », quando si faccia la debita tara alle ammissioni estorte verosimilmente con mezzi atroci ai miseri inquisiti. Guglielma, straniera di fattezze e di lingua era venuta a Milano intorno al 1270 con un fìglioletto che venne a morte poco dopo la sua venuta. Caritatevole e pia affascinava e con-

139 fortava con le parole chi a lei si rivolgeva: si sussurrava che fosse di grande nascita « Ite non sum Deus! » diceva a chi le chiedeva miracoli. « Diceva parole buone e oneste e religiose » depose, al processo un testimonio. « Ogni qualvolta ero oppres­ so dal dolore andavo da lei e ne partivo consolato » depose un altro. A chi le domandava di volersi rivalere per quel ch’era rispondeva: « sono nata d’uomo, vilis femina et vilis vermis ». Andrea Saramita, il suo maggior fedele, nel suo interro­ gatorio la scagionò in un primo tempo di ogni accusa di eresia, poi, impaurito forse o forse costretto dai tormenti, si lasciò andare ad ammissioni che significavano la condanna postuma della Boema e quella dei suoi seguaci. La Guglielmina dunque si sarebbe spacciata per l’incarna­ zione dello Spirito Santo : si diceva, o la dicevano, nata da Co­ stanza imperatrice, a cui l’Arcangelo Raffaele, come l’Arcan­ gelo Gabriele a Maria, aveva annunciato il divino evento. (Prin- cislao di Boemia sarebbe stato per lei il padre putativo). Era venuta al mondo per condurre a salvazione i Giudei, i pagani e i falsi cristiani, come Cristo aveva redenti i suoi fedeli. Come Cristo, doveva morire per risorgere poi e salire al Cielo alla presenza dei suoi discepoli e devoti. Come Cristo aveva la­ sciato suo vicario in terra l’Apostolo Pietro, così la Gugliel­ mina avrebbe lasciato sua Vicaria l’umiliata Maifreda, desti­ nata a celebrare la messa alla tomba del Divin Verbo incar­ nato; doveva poi sedere a Roma quale papessa, detronizzando il Sommo Pontefice (ch’era Bonifacio VIII) e dalla Cattedra di Pietro predicare il nuovo verbo e battezzare le nazioni che ancora non conoscevano il battesimo. Anche i seguaci di Guglielmina, come i discepoli di Cri­ sto, dovevano subire persecuzioni e torture, dopo di che il genere umano avrebbe formato una sola famiglia governata dall’amore impersonato dalla donna. Per spiegare il moto guglielmita giova ricordare le pre-

140 cedenti predicazioni dell’abate Gioachino di Flora, che « ave­ va annunziato doversi aprire nel 1260 una nuova era, nella quale il Vangelo della lettera succederebbe al Vangelo dello spirito, il clero si spoglierebbe delle male acquistate ricchezze e la legge d amore governerebbe davvero la società umana. Da queste speranze e da questi timori rampollarono varie set­ te; beghini, fraticelli, apostolici e così via. Per quanto diverse fra loro, un nesso comune le congiungeva: la visione di un rinnovamento morale e religioso nell’età futura, questo rinno­ vamento chi lo concepiva in un modo chi in un altro, e la dot­ trina di Guglielmina lo concepiva così: poiché l’incarnazione della seconda persona della Trinità non ha servito a nulla, tan­ to è vero che il mondo va innanzi ancora tale e quale come in passato, si incarnerà la terza; e poiché allora il Verbo si in­ carnò in un uomo, questa volta, per cambiare, lo Spirito San­ to si incarnerà in una donna... » (E. Verga). Il nuovo moto religioso ebbe tuttavia breve durata. La Guglielmina abitava nella parrocchia di S. Pietro all’Orto, dove fu sepolta dopo morte: e già era stata gridata santa, quando si propalò la voce di miracoli avvenuti per sua inter­ cessione; intorno alla sua tomba modesta frammiste a preci e canti si levarono grida di giubilo d’infermi miracolati e di in­ demoniati liberati dal maligno. La salma venerata, ritolta alla sua troppo umile sepoltura, fu portata con solennità al monastero di Chiaravalle; e da quei monaci accolta e sepolta nel loro cimitero; se ne lesse il panegi­ rico, si accesero ininterrottamente ceri a profusione intorno al suo nuovo sepolcro, si proclamarono festivi tre giorni di ciascun anno per onorarne la memoria. Intanto i suoi seguaci e parti­ colarmente Maifreda umiliata e Andrea Saramita ne predica­ vano le dottrine e ne elaboravano gli strani dogmi. Non ci voleva di più per allarmare l’Inquisizione, che iniziò il processo, mentre ancora l’agitazione popolare non era

141 Abbazia di Chiaravalle (da una stampa del 1800 circa). Matteo Visconti. sedata. Matteo Visconti, ancora malsicuro nella carica di Vi­ cario Imperiale, tentò invano di ottenere grazia per Maifreda, che era sua cugina. Eppure qualche anno prima, nel 1295, 1 Inquisitore, come ricordammo, aveva usato indulgenza verso Stefano Confalonieri recidivo nell’eresia catara e complice del- 1 uccisione di Pietro Martire. Qui l’intervento di Matteo non potè impedire che tre vittime fossero immolate nelle persone di Maifreda, del prete Saramita e di Suor Giacoma, arsi vivi sulla Piazza della Vetra; i resti di Guglielmina furono dati alle fiam­ me e le ceneri ne vennero disperse. Poi qualche discepolo dimenticato dall’Inquisizione dovè attendere invano la promessa resurrezione della Boema: e allora sulla memoria della profetessa e dei suoi seguaci i de-

143 lusi e le fantasie popolari ricamarono invenzioni di stranezze inverosimili e di oscenità irriferibili. Ma Fumano atteggiamento del vicario imperiale spiacque a Papa Giovanni XXII che già lo aveva nemico e ne invelenì l’avversione per la famiglia Visconti. Da Roma cadde so Mat­ teo una prima sentenza di scomunica, e quegli citato a com­ parire al tribunale degli inquisitori a Bergoglio, vi mandò in vece sua il figlio Marco che vi apparve con grande seguito di cavalli e fanti e bandiere spiegate. Gli inquisitori sgomenti da­ vanti al minaccioso apparato si squagliano riunendosi a Valen­ za; e di là contro Matteo eretico e reo di delitti contro la chiesa fulminano di nuovo la scomunica e pongono l’interdetto su Mi­ lano; dal pergamo contro i Visconti è pubblicata una crociata. « Fu dunque opposto à Matteo, e a figliuoli che erravano ne gli articoli della fede, massimamente della resurrettione rubbando le cose ecclesiastiche, le vergini sacrate violavano, uccidevano, tormentavano d’ogni generation di Sacerdoti. Se­ condo che erano Fautori gli eretici, impediendo gli Inquisitori di quelli. Terzo che stavano pertinaci nella escomunicatione. Quarto che sovente fiate dimandava il nemico dell’humana na­ tura. Et tra l’altre cose gli opponeva, che haveva conservata una certa meretrice heretica nominata Gulielma della quale habbiamo detto di sopra, e per questi accusatori simile cose erano opposte à Matteo e i figliuoli del che essendone fatto al­ cune prove rimasero dal Pontefice interdetti e dannati con atroce escomunicatione ». Matteo, presso al termine della sua fortunosa esistenza nel­ la quale aveva saputo fronteggiare gli alti e bassi della sorte con animo forte e singolare avvedutezza, resse male a questo colpo e rinunciò la signoria nelle mani del figlio Galeazzo. Mo­ riva poco dopo nella canonica di Crescenzago; i figli per qual­ che tempo ne tacquero la perdita, ma dove ne avessero occul­ tata salma, come già vedemmo, non si seppe mai con certezza.

144 In piazza della Vetra. (Raccolta P. M.)

IN PIAZZA DELLA VETPiA

Piazza della Vetra. Perchè « della Vetra »? Da Platea ve­ tus, secondo i più, o, come vuole il Colombo da un Castrum vetus che sorgesse fra il Terraggio dei Labbri e l’attuale via Giangiacomo Mora? Ma già nel denominativo è l’indizio del- 1 antichità del luogo. E già nel IV secolo o al principio del suc­ cessivo la dominava l’alta mole della basilica Laurenziana, fra le quattro torri che ancora le fan corona con le stesse mura perimetrali che oggi vediamo, ma dissimile dall’attuale nella convessità della cupola maestosa, e nell’interno lucente di mai-mi e mosaici preziosi di colori smaglianti e fondo d’oro. Le invasioni barbariche, le distruzioni d’Attila e di Uraja non dovevano alterare sensibilmente la poderosa compagine

145

10 della basilica imperiale; ma la cupola doveva crollare nel 1071 durante l’incendio detto di Castiglione (o della cicogna; si ri­ cordi la cicogna, che, secondo i cronisti, per vendicare i suoi nati che una serpe stava divorando, gettò un tizzone ardente nel proprio nido: andò in fiamme il nido, arse la serpe, ma il fuoco si estese alle case e la città fu tutta un rogo). Rabber­ ciata alla meglio, si sfasciava nel 1104 per rovinare, vittima di un nuovo incendio, nel 1124; e ricostruita sugli originari piedritti, prendeva nella elevazione aspetto romanico: finché nel 1573, pontificando San Carlo Borromeo, rovinava un’altra volta. Si stava celebrando la messa e il crollo fu provviden­ zialmente preannunciato dalla caduta di un blocco di pietra: i canonici ebbero appena il tempo di portare in salvo le sacre particole, i fedeli sgombrarono a precipizio e se la cavarono con lo spavento. Nessuna vittima, ma la cupola cangiò aspet­ to un’altra volta e quanto vediamo risulta dalla ricostruzione che ne fece Martino Bassi, al cadere del XVI secolo dopo di­ spute e contrasti vivacissimi a stento superati dalla sua tenacia. L ’architetto che in gioventù aveva vivacemente contra­ stato l’ascesa del suo maggior rivale, il Pellegrini, aveva dovuto a sua volta subire il morso dell’invidia e sottostare a critiche temerarie. Vittorioso alla fine, rimossi con qualche compro­ messo gli ultimi ostacoli, non doveva però, a somiglianza di Mosè, toccare la terra promessa: la morte lo sopraggiunse quando la grande opera non era ultimata e ad altri alla fine andarono gli onori del successo. Ebbe gran parte neH’ultima fase dei lavori Tolomeo Rinaldi, architetto romano, dichiarato avversario del Bassi. Era cupola a doppio guscio, secondo i modelli romani con­ temporanei; ma l’involucro esterno, di rame su armatura di le­ gno, bruciò nel fatale 1943 : e i restauratori non si preoccupa­ n e La cupola di Martino Bassi. irono di rinnovarlo, restituendo l’originario profilo alla coper­ tura; si limitarono invece, con un espediente « funzionale », a rendere impermeabile la nuda calotta di muratura. Così, perduta l’eleganza dell’ovoide sotto il lanternino ter­ minale, sostituito all’inviluppo di rame un nereggiante manto bituminoso da pavimento stradale, il monumento che in ogni fase della sua esistenza monumentale strappò grida di ammi­ razione ai riguardanti, oggi pietosamente ingoffito e deforme, attende che la città, prodiga di soccorsi a iniziative di dubbio interesse, ne destini una piccola parte a rialzarne le sorti.

IL PONTE DELLA MORTE

In qualche veduta settecentesca di Piazza della Vetra lun­ go il suo lato di settentrione chiuso da casupole povere si vede scorrere, fiancheggiato da piante annose, uno dei tanti ca­ nali che intersecavano per ogni verso il nucleo abitato e con­ ferivano a vaste zone della città un aspetto lagunare indubbia­ mente pittoresco, fatte le debite riserve nei riguardi dell’igie­ ne. Non par vero che anche in queste fosse, dove ancora non molti anni fa davano talvolta spettacolo « i lari plebei » in atto di versarvi « le spregiate crete », usasse un tempo la pesca (alludo in particolare al tratto del fossato interno del « Mulino delle Armi »). Ma a questa roggia sono legati sinistri ricordi; la attraver­ sava un ponticello, detto « ponte della Morte o dei Sospiri », che portava al patibolo, e in quelle acque male odoranti eran gettate le ceneri di stregoni e di eretici, quali i guglielmiti, con­ dannati alle fiamme del rogo; come vi furono disperse le cene­ ri di quei disgraziati, che secondo le balorde accuse, avevano con unguenti pestiferi e con la complicità di demoni propa­ gato il contagio del 1630. S. Lorenzo (acquafòrte di P. M.). La basilica di S. Lorenzo, disegnata da G. B. Riccardi (a destra la Colonna Infame).

Il palco dei supplizi press’a poco in quel tempo fu re­ cinto da una solida cancellata, che riuscì contigua ad una co­ lonna eretta da una Confraternita della Santa Croce di Porta Ticinese, simile alle tante erette dalla pietà di San Carlo o dei suoi successori nelle piazze e nei crocicchi. Ai confratelli non dovette sembrare gradevole la vicinanza, se nel 1728 ot­ tennero di demolire la colonna per sostituirla a debita distan­ za dal patibolo, con qualcosa che fosse di maggiore impor­ tanza e meglio conforme al gusto del tempo: ne riuscì una singolare catasta di pietre bizzarramente sagomate formanti un basamento in tre ordini sovrapposti reggente in sommità la statua di San Lazzero arcivescovo, in abito prelatizio agitato dal vento. Composizione tipicamente e gustosamente barocca, gioia dei pittori, che ha resistito, non si sa come, alle soppres-

150 sioni giuseppine e alle furie iconoclaste della Cisalpina, quan­ do tutto era in armi contro i « delirii borrominiani » eppoi alle ingiurie del tempo e dei piani regolatori e alle sassate dei mo­ nelli. Era questo dunque il luogo delle esecuzioni dei condan­ nati di popolo : perchè i nobili godevano il privilegio della de­ capitazione in altri luoghi : durante il processo erano esenti da tortura nè le condanne erano inasprite dagli strazi feroci che martoriavano spesso le carni dei plebei sul palco mortale. Ma il popolo accorreva a festa a questi orrendi spettacoli e insultava motteggiando al condannato; e v’era chi spiava con inumana compiacenza i segni dell’angoscia senza speranza nel volto del condannato; e le donne alzavano sulle braccia i lor rampolli perchè imparassero come si castiga chi fa il cattivo.

LA COLONNA INFAME

In altra veduta marginale alla « Iconografìa della città e castello di Milano » disegnata a mano ed acquarellata da G. B. Riccardi nel 1734 si scorge di fronte al maestoso colonnato di San Lorenzo una colonna di mediocre dimensione montata su alto basamento; è, c inségna il lettore, la « colonna infame » in­ nalzata per decreto del senato in un largo dov’era il modesto abituro, spianato al suolo, di Giangiacomo Mora, il barbiere « untore ». Quivi romita una colonna sorge Infra herbe infeconda e i sassi e il lezzo Ov’uom mai non penetra: però ch’indi Genio propizio all’insubre cittade Ognun rimove, alto gridando: Lungi O buoni cittadini, lungi, che il suolo Miserabile, infame, non v’infetti.

151 La Piazza della Vetro nel primo ottocento (lit. di G. Elleno). (Raccolta stampe Bertarelli) È la parafrasi della iscrizione latina che si leggeva su di un muro adiacente alla colonna: Procul hinc procul ergo boni cives - Ne vos infelix infame solum commaculet. Ma di chi sono quei versi crudeli? dobbiamo credere al Balestrieri, e riconoscerne autore il poeta dell’ode al « Biso­ gno », il severo giudice dei costumi e dei metodi giudiziari del suo tempo, in armi sempre contro « la superstizione del ver nemica »? Certo chi li scrisse non era ancora a conoscenza della ve­ rità, quale era emersa dai verbali del processo esaminati da Pietro Verri: e nello stesso errore era caduto il Muratori e l' Argelati e più tardi doveva cadere il Botta. Il Beccaria an­ cora non aveva pubblicato il suo libro famoso. Lo scritto del Verri, grave per il Senato che del processo aveva tutte le responsabilità, rimase a lungo inedito. Ma « la ragione dei tempi incalzava » (Cantù) e a Vienna si stupivano che i milanesi non si decidessero a rimuovere quella tetra co­ lonna: monumento d’infamia per i giudici e per il tempo. Però bisognava agire nel campo della stretta legalità, ed evi­ tare di screditare la giustizia, mentre rifare il processo non era possibile: e si pensò ad un rimedio. Si ricordò che una vecchia disposizione vietava che tutti i monumenti d’infamia si restaurassero se cadenti: e di monumenti infamanti cera dovizia nella città: lapidi, colonne, forche, macabre gabbie con teschi umani: tutti destinati ad essere soppressi dalla Ci­ salpina. Qui bastò incoraggiare di soppiatto il proprietario di una casa contigua, a cui quell’avanzo di barbarie dava noia, perchè ne scalzasse la base senza dar troppo nell’occhio: e quegli che non domandava di meglio si prestò con tanto dili­ gente cautela, che la mattina del 1° settembre 1778 le donnet­ te che andavano alla prima messa di San Lorenzo trovarono a terra quelle pietre maledette. La iscrizione, che non può leg- LA SENTENZA d a t a

A Guglielmo Piazza, e Gio. Giacomo Mora quali con onto peftifero hanno appeftato la città di Milano l'Anno 1630 gere senza raccapriccio chi sa di latino, è conservata ed è al Castello nel cortile della Rocchetta : non ne diamo il testo, ma ci limitiamo a riportare i nomi dei responsabili dell’iniquo pro­ cesso, che la lapide voleva eternare: Capitano di Giustizia G. B. Visconti - Presidente dell’am­ plissimo Senato G. B. Trotto - Presidente della pubblica sa­ nità M. Antonio Monti. Poi nell’ottocento, dopo che il Manzoni ebbe pubblicato le pagine angosciose della « Colonna infame », anche a Gian- giacomo Mora fu dedicata una contrada.

La contrada che nelle vecchie carte si chiamava « la Ve- tra dei Cittadini » della famiglia omonima, che vi aveva le sue case, salita a potenza, quando Carlo Cittadini fu cor­ riere maggiore della Città di Milano e con l’impresa dei Tassi gestiva servizi postali estesi a mezza Europa. « Era la mattina del 21 giugno 1630 verso le ore otto e piovviginava, quando Caterina Trucazzani, Rosa ed altre don- nicciuole abitanti presso la Vedrà de’ Cittadini videro uno che passeggiando strisciava presso il muro (e questo era naturale, se pioveva). Aveva una carta in mano e la fregava di luogo in luogo sopra le muraglia, e faceva certi atti, dice la Rosa nel suo esame, che mi piacevano niente. Era incappato di cappa nera e giù negli occhi un cappello nero. Niuna l’aveva ricono­ sciuto: ma a varii indizii giudicarono che fosse Guglielmo Piazza commissario della sanità... » (Cantù). Dal funesto abba­ glio si doveva svolgere l’atroce vicenda, che costò tante vitti­ me: fra le quali emerse e rimase nella memoria popolare in un alone di orrore prima, di rimorso poi, la figura del Mora.

Beno dei Gozzadini, Giuseppe Meda, Giangiacomo Mora: ombre moleste, che la città ha tentato di placare con uguale rito espiatorio: a buon mercato in verità.

155 Resti di antica torre, in Santa Croce.

CONTRADE E VICOLI FRA S. EUSTORGIO E S. LORENZO

Fra Sant’Eustorgio e il percorso della fossa interna il pia­ no regolatore cittadino prevede ampi spazi a giardino, domi­ nati dalla cupola massiccia di San Lorenzo. Delle case lerce e disfatte dal tempo e dall’usura miracolosamente scampate alle bombe del ’43, così crudeli sulla mole laurenziana, e ancora abbarbicate alle murature romane e addensate ai lati di strette viuzze dagli enigmatici denominativi, poco ancora resta, desti­ nato al piccone non appena lo permettano i tenaci occupanti delle sconnesse abitazioni. Via Sambuco : fra le distruzioni e le ricostruzioni caotiche, parallela al fianco di Sant’Eustorgio, è ormai irriconoscibile, nè più sarebbe possibile trovar traccia di quell’antica osteria, detta della Palazzetta, dove nelle Cinque Giornate del qua- Le colonne di S. Lorenzo, da un quadro di Federico Moja (metà ottocento). Viarenna. (Fotografìa Cardini, Milano) rantotto si insediò un gruppo di soldati croati e dopo essersi rimpinzati di cibo e aver dato fondo alla dispensa e alla can­ tina, si divertirono a legare in un sol fascio l’oste, la moglie e la figlia e insieme li gettarono vivi sul fuoco. Sparite quasi per intero le tracce del passato, resta la toponomastica ad accusare antichità e nobiltà di origini. Viarenna: è spontaneo pensare ad una arena degna della capitale romana, che Ausonio dimenticò di esaltare, ma Pao­ lino nella vita di Ambrogio citò come luogo di martirio dei primi cristiani. E tracce di un anfiteatro romano, furono rico­ nosciute e descritte di recente dalla Commissione per la For-

158 ma Urbis press’a poco dove lo immaginava il De Marchi, fra Via Arena, Porta Ticinese e Via Vetere.

Via Vetere, si sa, prese il nome dall’antico monastero di Santa Maria delle Vetere, che secondo il Torre risale all’età del Barbarossa. Soppresso il convento nel 1799, una parte del fabbricato passò a monache Orsoline, una parte fu rimaneggiato per abi­ tazione. Più tardi assai, sorse sul luogo un teatro o « politeama », con qualche pretesa d’arte : sorte comune a molte chiese clau­ strali, dopo le soppressioni giuseppine e le napoleoniche. Si pensava che potesse sostituire il defunto teatro Re, e lo si vo­ leva battezzare « teatro Re Nuovo », ma invece fu dedicato a Verdi, con l’intenzione di tenervi spettacoli lirici. Dopo qualche stagione buona di platee affollate e plau­ denti, venne prematura la decadenza; il Politeama riprese gli aspetti del cessato « Teatro della Stadera » e si adattò a spet­ tacoli deteriori di prosa e drammoni popolari: il Sardou, il Dumas padre ne facevano le spese, in edizioni pietose; furo­ reggiava « I figli di nessuno ». Messa in scena fantasiosamente buffa; ricordo una « Teo­ dora » in tailleur assisa in trono presso una consolle ornata di una pendola Lonis XV di carta pesta dorata. La recitazione valeva la messa in scena. Ma il Politeama aveva un suo pubblico che voleva essere commosso; prendeva viva parte e si appassionava all’azione, alle avventure dell’at­ tore giovane o alle traversie della prima donna : dava frequen­ te spettacolo in platea qualche donnona dal cuor tenero che durante le scene patetiche sbottava in pianto, mentre dalla gal­ leria improperi e proiettili di varie specie erano lanciati sul guitto che faceva il feroce; e qualcuno arrivava a segno. Poi, sorte comune di tal genere di teatri, fu lo schermo

159 Interno a Porta Ticinese. (Fotografia Cardini, Milano) del cinema a soppiantare le scene di carta dipinte e per un po’ di tempo la sala fu dedicata alla decima musa : ma il pub­ blico preferiva sale meglio attrezzate. Poi, a sconvolgere ogni cosa, furono le bombe del 43. Volonterose « squadre di ricu­ pero » si diedero a spogliare i ruderi di quanto vi si trovava di utilizzabile. Poi sulle ultime macerie prese a prosperare la flora delle ruine.

160 Cortile in via Scalclasole. (Fotografia Cardini, Milano)

La Via Scaldasole: si chiamava, esattamente, vicolo di San Pietro in Scaldasole: poi l’antica chiesetta, che il Torre descrisse in una sola nave, adorna di pitture, scomparve e il vicolo nella nomenclatura dell’ottocento fu promosso a via. Case quali cadenti, quali rabberciate di infima classe; dove vivacchiano, non si sa di che, famiglie tenacemente aggrap­ pate ai brandelli di case superstiti al ’43, dove lavora e soffre un piccolo artigianato. Il luogo, ignorato da chi non è del quar-

161 Brandelli di vecchie case in via Scaldasole. (Fotografia Cardini, Milano) tiere, comparve nelle gazzette e diede materia alle cronache cittadine qualche tempo fa per un turpe episodio della mala­ vita. Incerta, misteriosa l’origine del toponimo. « San Pietro in caldo sole », è un’allegra interpretazione che può sorprendere per un luogo dove il sole entra di rado e quasi di straforo. Me­ glio si avvicinò al vero il Venosta, che pensò ad una famiglia d’antica dipendenza longobarda fondatrice forse della Chie­ setta di San Pietro. La sculdascia, si ricorda, era il tributo do-

162 Ancora in via Scalciamole. (Fotografia Cardini, Milano) vuto ai rettori longobardi di terre o castelli, gli sculdasci o seuldahis, latinamente « centenari ». Si vuole insomma nel mo­ desto e sconquassato vicolo riconoscere un raro ricordo topo­ nomastico delle lontane età longobarde. Via dei Vetraschi: più non esiste, nè traccia nè rimane, altro che nelle vecchie carte, che abbiano almeno trenta o quarantanni di età. Scomparsa che non lascia rimpianti. Con­ tava nei suoi ultimi anni fra le zone più malfamate della città : ma era stata, ai suoi tempi migliori, fiorente contrada di arti-

163 Ancora in via Scaldasole. (Fotografia Cardini, Milano) giani operosi: vi lavoravano, è vero, i conciapelli e il puzzo delle concerie rendevano meno gradevole il soggiorno nella contrada. Dove non mancava qualche segno d’arte: pochi avanzi rinascimentali nei capitelli targati di un cortiletto, qual­ che portale barocco e belle ringhiere di ferro battuto, testi­ moni di attività e di raffinato gusto artigiano d’altri tempi.

Dei Terraggi delle Pioppette, rimane soltanto un tronco destinato a sparire in data prossima, nelle demolizioni che iso­ leranno la mole romana di San Lorenzo. Sul suo lato di mez-

164 Il terraggio delle Pioppette. (Fotografia Cardini, Milano) zogiorno era una serie di sostre (claustra), i tipici magazzini di pietre, marmi, legnami che venivano sbarcati dal Naviglio in­ terno: il materiale convogliato dal Ticino, dal Lago Maggiore, e dall’Adda per la Martesana. Sul lato opposto dovevano alli­ nearsi quelle « pioppette » (pobbiett) che davano nome al ter­ raggio. La contrada aveva dunque una sua funzione nella vita eco­ nomica della città: sopravvivono alcuni muri, abitazioni anti­ quate, botteghe popolaresche, brandelli ormai spaesati della vecchia Milano artigiana...

165 La chiesa di S. Calocero (Disegno di P. M.)

LA PORTA GENOVA

Porta Genova: toponimo che non si trova nelle vecchie guide nè si legge sulle carte topografiche anteriori al 1885. Se non che, ci assicura il Giulini, in un lontano passato la Por­ ta Ticinese fu anche detta « Genuensis », sicché fu una rie­ sumazione di un antico appellativo raramente usato il nome del corso diretto nel secolo scorso alla nuova stazione attra­ verso il varco delle mura gonzaghesche, sul tracciato dell’an­ tico borgo di San Calocero.

166 L’esterno della Basilica di S. Vincenzo durante i primi restauri, 1885-1889 (da Bai, La basilica di S. Vincenzo in Prato) Quartiere senza bellezza e senza pretese, nato sotto il se­ gno della mediocrità. Rompe la monotonia delle case grigie, uniformemente allineate sulla rete viaria rigidamente geome­ trica e porta una nota di gradevole modernità balta casa-torre di recente costruzione, a dominio della contrada: raro caso di un edifìcio modernissimo che rialza gli aspetti di un quartiere, che, sorto frettolosamente nel secolo scorso, appare invecchia­ to precocemente. In una serie di case, nelle contrade laterali, le impalca­ ture dovettero essere più che riparate, rifatte, quando una pe­ rizia dell’ing. Mazzocchi dimostrò che le impalcature erano state messe in opera con legname inadatto: più tardi alcuni edifici si trovarono pericolanti, perchè fondati in terreno « ca­ vato « su palafitte che in seguito all’abbassarsi della falda ac­ quifera si trovavano in parte scoperte. Qui l’uragano di fuoco del ’43 pose fine a penosi problemi: si è rifabbricato e si ri- fabbrica. Si è anche abbattuto quanto si poteva, e si doveva, con­ servare. Così fu della chiesa di San Calocero: luogo antico, benché non se ne trovi precisa menzione fino al 1519, quando, imperversando la guerra fra imperiali e francesi, fu gridato mi­ racoloso il simulacro della Vergine, detta Madonna del Pian­ to, allora esposta all’aperto, e fu vista stillar lagrime che, rac­ colte in pannolini, vi si trovarono convertite in sangue. Poi la sacra immagine fu collocata sull’altar maggiore e la chiesa fu del tutto ricostruita nel 1718. Aveva una facciata rimasta incompiuta di nudo mattone e di elegante disegno. Ma l’impostazione inconsueta della fac­ ciata, ad un livello più basso del piano stradale, sicché all’in­ gresso si accedeva per una breve scalea in discesa, faceva pensare ad una origine ben più remota. I pochi benemeriti difensori di vecchie cose destinati a far collezione di insuc-

168 cessi cercarono di ottenerne la conservazione, ciò che signifi­ cò provocarne la frettolosa demolizione : nè sappiamo che del­ l’edificio (di qualche importanza anche nella storia del baroc­ chetto milanese) si siano fatti rilievi o fotografìe e tanto meno se si siano compiuti assaggi nella fondazione ad esplorare la antichità dell’origine. La vecchia chiesa, secondo la descrizione che ne diede il Torre, a soffitti di legno scoperto, poteva essere non dissimile dalla vicina San Vincenzo in Prato, la basilica frammentaria di nobili antiche origini e di bibliografia eccezionalmente ricca.

LA CASA DEL MAGO

Già ricordammo come la tradizione la volesse costruita da re Desiderio : ma nel sottosuolo circostante la scoperta di olle cinerarie, di marmi con iscrizioni parte pagane, parte cristia­ ne anteriori al IV e V secolo parve rivelare l’esistenza in luogo di una necropoli pagana, poi fatta cristiana; sarebbe, secon­ do qualche studioso, il Cimitero di Cajo. Alla chiesa, sperduta ancora nel settecento fra ortaglie e giardini, il governo austriaco tolse nel 1787 la giurisdizione parrocchiale, mentre nell’annesso cenobio, d’ordine di Giusep­ pe II, veniva istituita una casa di ricovero e di lavoro volon­ tario per accattoni e disoccupati; più tardi un tetro ricovero di alienati (i matt de San Vincenz). Depredato e convertito in magazzino di foraggi, poi de­ stinato ad alloggio militare della Cìslapina, il tempio potè es­ sere salvato, quando nel nuovo quartiere assiepato di case occorreva una chiesa. Era stata adattata a laboratorio di prodotti chimici e par­ ticolarmente di acidi su cui fumava un camino industriale

169 Alcuni capitelli del colonnato di destra della Basilica di S. Vincenzo che appestava il quartiere. L ’interno fornì lo spunto di una ben nota acquafòrte, la « Casa del Mago » del Conconi, che lo ritrasse cupo di ombre misteriose, folto di otri, di storte co­ lossali, di strane attrezzature; l’antro di un satanico alchimi­ sta. Ma non abbiamo elementi per una ricostruzione ideale della decorazione interna a -colori. Quanto se ne vede è rifa­ cimento moderno: ma vi collaborarono insigni intenditori, an­ che stranieri, quali il Dartein e il Kohte ed è da augurare che zelo di restauratori non voglia sopprimerlo, conferendo anche a questo interno, come ad altri, un artificiale squallore che è in contrasto con le tradizioni e i caratteri della nostra archi­ tettura religiosa di ogni tempo. Il battistero è anche costruzione moderna: è, diciamo pure, un errore di gioventù dello scrivente, che ottenne però di elevarlo distinto e staccato dalle antiche strutture, sicché almeno vuol essere assolto da ogni accusa di falso.

170 Veduta della facciata di S. Vincenzo

LA FIERA E L’ARCHITETTO SOMMARUGA

La fiera di Porta Genova, accolta pittoresca quanto rumo­ rosa di baracche d’ogni genere, e d’ogni sorta di divertimenti popolari, si svolgeva annualmente nelle ultime settimane di carnevale sui bastioni di Porta Genova, estendendo le sue propaggini in costante crescenza sugli spazi liberi contigui: era una festosa attrattiva del quartiere, ma, quando crebbero

171 ]e case a ridosso della cinta spagnola, il fragore delle orche­ stre meccaniche, che si accompagnavano allo stridore dell’otto volante o delle montagne russe, al vociare dei ciarlatani e de­ gli imbonitori, prese a infastidire gli abitanti di quelle con­ trade. Una iniziativa dell’architetto Sommaruga, che proponeva di far piazza pulita di ogni ingombro e di costruire in luogo una gigantesca arena per spettacoli popolari, non ebbe seguito per lo scoppio della prima guerra mondiale e la morte prema­ tura dell’autore del progetto. Il bastione fu poi spianato (1920) ma la fiera alla fine non ne ebbe vantaggio prevalendo le proteste: sfrattata di là per trovar luogo mediocremente adatto nei viali del Parco: non sappiamo, nè ci auguriamo, che sia l’ultimo suo San Michele. Eppure anche la fiera di Porta Genova ebbe la sua glo­ riola: a Porta Genova apparvero alla fine del secolo scorso i primi saggi di cinematografia italiana.

UN PRECURSORE DEL CINEMATOGRAFO

Al numero 20 del corso, due vetrinette appese nell’anelito d ingresso di una casa modesta annunciava la presenza di un fotografo dotato di qualità e di gusto non volgare. Italo Pac­ chioni aveva il suo « studio » al primo piano, dove alle pareti accanto a poche, ma ottime, riproduzioni di opere d’arte, si trovavano bozzetti e tele di autori moderni, fra cui troneggia­ va un autentico Ranzoni e insieme qualche pezzo antico. Co­ noscitore di cose d’arte, era amico di artisti, che si davano convegno nelle sue salette e gli rilasciavano volentieri in cam­ bio di suoi lavori qualche gustoso saggio: il resto aveva rac-

172 Il casino di Meneghino e Cecca, anno 1896. colto da sè, guidato da un ottimo fiuto. Milanese di educazio­ ne e di adozione (nato a Mirandola, era venuto a Milano an­ cora giovinetto nel 1881) autodidatta di sorprendente versati­ lità, studioso appassionato dei segreti della tecnica fotografica, aveva al suo attivo ben altri numeri, all’infuori di quelli stret­ tamente attinenti alla sua professione : perchè può essere con­ siderato insieme con Luca Comerio fra i precursori della cine-

173 matografia italiana. Delusioni e difficoltà finanziarie erano sta­ ti il risultato dei suoi esperimenti, sicché poco e malvolentieri ne parlava nei suoi ultimi anni, quando rinunciando rassegna­ to ai suoi sogni era ritornato al limitato campo dell’arte sua. Fu il primo, crediamo, in Italia a costruire una macchina ci­ nematografica e di proiezione sia pure primordiale. Il nostro museo storico del Cinema, nella villa Reale, ha nella sua ci­ netica un cimelio storico : il meccanismo di movimento ideato dal Pacchioni per la sua prima macchina di presa e di proie­ zione. Bisogna risalire al 1896, quando nel suo numero di gen­ naio una nostra rivista in gran voga, la « Illustrazione Italia­ na », dava notizia dell’apparire in Parigi di « qualcosa che sot­ to il nome barbaro e indigesto di cinematografo » appariva senz’altro veramente meraviglioso: sono, si disse, quadri ani­ mati, riproduzioni di scene vive : la fotografìa che si sostituisce albocchio umano, ripetendone le percezioni successive e por­ gendogliele poi nuovamente su una tela bianca mediante la proiezione... Era in fondo il perfezionamento del Kinetoscopio di Edison, di cui al liceo Manzoni il professor Alessandro Volta, nipote del grande omonimo, ci aveva spiegato gli ar­ cani con chiarezza e con qualche esperimento. Prestissimo, nel mese di marzo dello stesso anno, uno dei fratelli Lumière (sunt nomina omina) fu a Milano in giro di propaganda della nuova invenzione: e il circolo fotografico (che aveva sede in Via Principe Umberto al numero 30) ebbe il privilegio delle prime proiezioni; lo spettacolo venne poi ripetuto con crescente interesse del pubblico. Al Teatro Mi­ lanese un successone: la stampa ne disse meraviglie, benché si notasse « il rullo incomodo della macchina, una trepida­ zione della luce che fa un po’ male agli occhi... » e già « Illu­ strazione Italiana » profetava: « Il giorno in cui le figure sa­

174 ranno colorate e che il fonografo le farà parlare con tutte le vere inflessioni della voce, il miracolo sarà fatto ». Insomma, già dai primi esperimenti si prevedeva, si preconizzava, nel 1896, il cinema colorato e parlato. Il Pacchioni, al circolo fotografico, ebbe da quelle prime proiezioni un’impressione profonda e gli parve di non poter restare estraneo a esperienze che intuiva ricche di avvenire. Tentò invano di acquistarne uno in proprio (i Lumière volevano conservarne il monopolio) ma a perfetta conoscenza dei semplici principi d’ottica e di meccanica a base della nuo­ va invenzione, gli riuscì di fabbricarsene uno funzionante non diversamente dall'esemplare francese e girò qualche film. A- prendosi nel carnevale dell’anno successivo la fiera di Porta Genova, prese in affitto in Via Cesare Correnti, presso il suo studio, una bottega con il suo retro : fu la prima sala cinema­ tografica di Milano. Il pubblico disertando i baracconi del tea­ tro delle pulci, della donna barbuta, del museo di cera, la gio­ stra, l’altalena, e le altre meraviglie allineate lungo i bastioni, accorreva e si stipava nella sala male odorante. Ricordo, con vivezza di particolari, lo spettacolo che mi parve stupefacente. Era dapprima l’officina di un fabbro, che sullo schermo si muoveva a scatti, tra frequenti lampeggia­ menti e interruzioni di luce; ma quando lo si vedeva immer­ gere il ferro incandescente in un secchio d’acqua e da questo si vedevano svolgersi globi di fumo, l’illusione era perfetta e dalla platea erano esclamazioni di stupore e battimani. Nel se­ condo film era un treno che pareva avanzare dallo schermo verso gli spettatori, che, quali per istintiva paura, quali per burla, balzavano in piedi dalle seggiole incomode. Infine uno spettacolo di tuffi ai Bagni di Diana, che concludeva col film girato a rovescio, sicché si vedevano dal tranquillo specchio del­ la piscina, balzare rapidi i nuotatori, testa all’ingiù, girare per I bagni di Diana. aria, accomodarsi sul trampolino e abbandonarlo retrocedendo a lunghi passi : ilarità senza fine. Ciascun film aveva la durata di pochi minuti, ma lo spettacolo si rinnovava e la sala si riem­ piva di continuo, sicché, sebbene l’ingresso non fosse più caro di quello degli infimi spettacoli della vicina fiera, i proventi parevano discreti. Incoraggiato di tanto, e ottenuto il concorso di un orto­ lano danaroso del quartiere, il Pacchioni volle un suo padi­ glione d’aspetto semistabile sull’area riservata alla fiera an­ nuale e ne fece disegnare il prospetto dal Songa, scenografo alla Scala. Chissà perchè, forse per conciliare le meraviglie del nuovo con la tradizione popolaresca, il padiglione ebbe un aspetto folcloristico di maniera e prese il nome di « Casin de Meneghin e Cecca ». Come ci si potessero stipare trecento- cinquanta persone, come si disse, è altro problema insoluto. Poi le cose volsero maluccio, l’ortolano ritornò alle sue verze, il buon Pacchioni rinunciò alle sue ambizioni e si ridusse al suo studio fotografico. La fortuna raramente assiste i precur-

176 sori. Ma chi prevedeva allora, chi immaginava quel che an­ nunciava, curioso gingillo, la macchina di proiezione, gli enor­ mi sviluppi dell’industria cinematografica, i suoi riflessi e il suo significato nel campo economico e sociale?

I COCCI ROTTI DI UN PROFESSORE

All’antico stradone di San Simone, corretto nel suo per­ corso e rifabbricato quasi per intero, ribattezzato Via Cesare Correnti, manca ormai ogni attrattiva d’arte e ogni ricordo di storia dopo la inconsulta demolizione della Pusterla dei Fab­ bri, che ne segnava il termine all’imbocco del borgo di San Calocero, ora pomposamente detto Corso di Porta Genova: fu uno dei tanti vandalismi che si ripetono, a intervalli, nella nostra città già impoverita di segni d’arte, vittima designata delle insidie degli speculatori, della colpevole complicità dei responsabili, della indifferenza e della insensibilità del pub­ blico ignaro. Quando era allo studio il piano regolatore del quartiere compreso tra la Porta Ticinese e la Vercellina (1877) la Giunta comunale, dubbiosa di un tracciato che fosse di pregiudizio alla conservazione della Pusterla, onestamente chiedeva il pa­ rere in argomento alla Consulta Archeologica, che non esitò a dichiarare l’importanza del cimelio e a invocarne la conserva­ zione. Un’equa soluzione fu trovata, con un lieve ritocco del tracciato, sicché il raccordo fra la contrada di San Simone e il corso di Porta Genova passava al fianco della Pusterla, che sembrava così al riparo da ogni minaccia movente da ragioni di viabilità. Formava col ponte che la precedeva, inarcantesi sulla fossa interna, con le vecchie case che le erano cresciute a ridosso, un gruppo pittoresco caro agli artisti: Emilio De Marchi ne aveva fatto il fondale di alcune scene del suo « De-

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12 La Pusterla dei Fabbri (ine. di M. A. Dal Re). (Raccolta stampe Bertarelli) metrio Pianelli ». Gli studiosi d’arte apprezzavano nel lato ver­ so la campagna la nitida bellezza dell’arco marmoreo sotto la ghiera a sesto rialzato, e sull’opposto lato l’archivolto di razio­ nale semplicità e di esecuzione finemente accurata. La Pusterla pareva salva e non era. Fu nel 1896 che, com­ pletando la sistemazione del quartiere con la copertura del Naviglio nel tratto detto di San Gerolamo (dove è ora la via De Amicis e poi la Carducci) il Comune acquistava la Pusterla coi vecchi edifìci raggruppati attorno agli archi, allo scopo, si diceva, di formare un passaggio di qualche metro fra questi e i fabbricati che si dovevano costruire sui residuati risultanti

178 dalle demolizioni. Purtroppo il Comune, dimenticando i saggi deliberati del '77, si dimostrò una volta di più cattivo conser­ vatore delle cose d’arte venute a sue mani. L ’impresa che ave­ va assunto la lucrosa costruzione e ne aveva acquistato a buon mercato l’area del nuovo edificio, pensò di aumentare i pro­ pri utili, guadagnando un po’ d’area dall’abbattimento della Pusterla : a questo scopo affidò prima il progetto del costruen­ do edifìcio ad un architetto di riconosciuto valore, assumen­ dosi così un appoggio autorevole, e promosse un’artificiale agi­ tazione nel quartiere, racimolando firme di ingenui e di illu­ stri ignoti, tutti invocanti la rimozione di « quell’inutile in­ gombro ». Al Comune per quel servizio l’impresa offriva qual compenso in tutto 10.000 lire diconsi diecimila lire; magro con­ tributo, anche tenendo conto del valore della lira in quel tem­ po prossima alla pari. La proposta degli speculatori fu portata davanti al Consi­ glio Comunale, di cui facevano parte, autorevoli difensori del­ le cose d’arte, il pittore Conconi, Cesare Nava e su tutti gli al­ tri autorevole e ascoltato, Luca Beltrami. Ma della triste causa, dove era facile gabellare per pubblico interesse il tornaconto privato, si fece inaspettamente patrono il professor Sinigaglia da poco entrato a far parte del Consiglio. Insegnava belle let­ tere al Liceo Manzoni, dove trovavamo divertenti le sue lezio­ ni, ricche d’imprevisti e condite di politica : nelle quali il Man­ zoni non esisteva, perchè bigotto e quietista, nè di converso trovava posto il Carducci, detestabile dopo il suo passaggio del credo repubblicano alla monarchia. Per verità gli voleva­ mo bene, ma non lo prendaivamo troppo sul serio. Divertivano il suo aspetto e i suoi atteggiamenti tribunizi, l’immenso mantello a ruota in cui si avvolgeva d’inverno, il cappello a larghe falde e il pizzo, che lo rassomigliava a En­ rico Ferri.

179 Il busto eli Cesare Correnti.

Facevamo consumo fra una lezione e l’altra di castagne arrosto, rifornendoci da un’ortolana di Via Cappuccio che le dava accartocciate in giornali o in fogli stampati, scarti di ti­ pografìa: fra questi riconoscemmo un giorno alcune pagine di un poema in ottave sulle « Repubbliche marinare », infortu­ nio di gioventù del Sinigaglia che era riuscito a darlo alle stam­ pe, ma non a smerciarne copia. In un momento l’ortolana tro­ vò venduta tutta la sua merce, avvolta in tanta veste di poesia. Ci fu chi portò qualche foglio al Sinigaglia, chiedendogli ipocritamente notizie sull’autore di rime tanto ispirate (scor­ revoli, in verità) chi ne leggeva qualche verso ad alta voce du­ rante le lezioni o ne infiorava un componimento, suscitando alla lettura in classe un uragano di battimani... Il suo poeta preferito, dopo Dante e Shakespeare, era Carlo Porta, che tentava qualche volta di leggere ad alta voce con la sua pronuncia fra romagnola e toscana, ch’era uno spasso. Fece ridere poi tutta la città, quando pretese di ricono­ scere e di esumare nel cimitero di S. Gregorio i resti del poeta milanese, ma il professor Mangiagalli trovò che si trattava sen­ za possibilità di equivoco di uno scheletro di donna riconosci­ bile dal bacino... Ma allora, purtroppo, il professor Sinigaglia fu preso sul serio, benché molti si meravigliassero che, appassionato repub­ blicano e per autodefìnizione « fanatico conservatore di cose antiche » disprezzasse quei cimeli di Milano comunale: e in­ vocasse la distruzione « di quell’ammasso di cocci rotti e di quel cumulo di macerie, per fare opera utile all’arte e alla fi­ nanza ». Ebbe il suo quarto d’ora di celebrità fra i bottegai, i commessi di negozio e le portinaie di Porta Genova, e la sua facondia ebbe la meglio sulle opposizioni, purtroppo tardive, della stampa e dei preposti alla conservazione dei monumenti. Risultato: la formazione di un informe crocicchio, occu­ pato in parte da un giardinetto-salvagente in piano rialzato, nobilitato dal busto colossale di Cesare Correnti (scultore Sec­ chi) : giardino e monumento occuparono press’a poco lo stesso spazio d’ingombro rappresentato prima dell’arco dei Fabbri, tanto eran fondate le ragioni della viabilità invocate dal Sini­ gaglia. Anni passarono, e sull’edificio sorto a spese della Pusterla dei Fabbri, si abbattè, vindice l’uragano di fuoco del ’43...

VERE O QUASI VERE

IL TERNO DEL « CONTE MARINO »

Il ritratto di Tomaso Marino.

Non è una storiella surrealista, nè vuol essere un capitolo di romanzo giallo; è, nè più nè meno, quale me la confidava molti, moltissimi anni fa la povera zia Carolina, che, orsolina al secolo, rifuggiva dal peccato della bugia, e come la ripe­ tevano con qualche variante di fantasia la vecchia Carolina donna (idest domestica), due volte premio Predabissi, depo­ sitaria dei segreti di famiglia; ma sottovoce, che non sentisse papà, che nella sua qualità di pubblico notaro teneva basso conto della tradizione orale e disprezzava, come chiacchiere

185 di credule comari, le notizie fuor del comune, che non fossero rigorosamente documentate. Mio nonno paterno era uomo probo e dabbene, dedito alla famiglia e agli affari onesti, godeva credito in banca e si era fatta una discreta fortuna con l’industria della stagionatura del grana classico; e ne aveva avviata con felice ardimento lesportazione, avendo come rappresentante in Inghilterra Ni­ cola Fabrizi esule politico; il quale si giovava per la corri­ spondenza di un promettente giovane siciliano, esule lui pure, nominato Francesco Crispi. Aveva le sue ricolme casere in borgo di San Gottardo, dove ancora sono riconoscibili al nu­ mero civico 18, decadute e trasformate in volgari magazzini: perchè in questo secolo frettoloso la stagionatura, che una vol­ ta richiedeva giacenza di capitali e fino a tre anni di cure e di vigile attesa, si fa con metodi spicci e i surrogati della chi­ mica; e il nostro palato dopo due guerre non è più così deli­ cato da risentirsene. Abitava però all’altro estremo della città, nella contrada dei Fiori Oscuri, dove al 1909 -della numerazione teresiana ave­ va anche negozio: e per le sue virtù e la sua nota generosità l’avevano fatto fabbriciere della parrocchia di San Marco. Non gli si conoscevano vizi di sorta, se vizio non si vuol chiamare la consuetudine di qualche partita a scopone, che si concede­ va nel dopocena due o tre volte per settimana, con vecchi amici nel caffè al Ponte Beatrice; dov’era di posta una botti­ glia di Montarobbio, il frizzante e sapido vinello, apprezzato dai professori della vicina Accademia e anche da quel matto geniale ch’era il « professor Rovani », quando non si lasciava andare al veleno dell’assenzio. Anche il Montarobbio sui colli di Brianza non si fa più e del resto all’uso moderato del succo della vite si preferiscono oggi certi intrugli forestieri o nostra­ ni, che Dio ne guardi.

186 ... quando non si lasciava, andare al veleno dell’assenzio... (Raccolta stampe Bertarelli)

Ora avvenne che una sera, alla solita partita a quattro, nonno Gaetano che nell’arte dello spariglio si riteneva imbat­ tibile, apparve insolitamente distratto e come assente, sicché si lasciò soffiare due volte il settebello dalla mediocre coppia avversaria, con mal celata indignazione del compagno di giuo­ co, un ex militare di Eugenio viceré, reduce della campagna di Russia. « Ma sor Gaetano, cosa ci combina? Deve sentirsi poco bene, questa sera ». Dopo qualche esitazione, si sbottonò. Gli era apparso in uno strano sogno suo padre buon’anima, come non gli capi­ tava da anni, e se l’era visto davanti come vivo; ne era rima­ sto sconcertato, come da un cattivo presagio, non sapeva perchè. La Brera del Guercio e la pusterla Beatrice (prima del 183S).

« Sconcertato? Ma vada là, quando riappaiono i nostri poveri vecchi è magari un bel terno. Cosa vuole che facciano in paradiso se non aiutare i figliuoli? Lei non ne ha bisogno, ma non si deve essere ingrati e dare un calcio alla fortuna. Dunque morto che parla... Quanto fa morto che parla? Ma parlava poi il suo povero papà? Qui ci vuole il Fabio che se ne intende ». E, malgrado le proteste del nonno, chiamò il vecchio cameriere dai piedi dolci e dal cranio spelacchiato. « Per i so­ gni, nei casi difficili, non c’è di meglio che la « Nuova Smor­ fia ». Del Benincasa e delle sue tavole dei numeri simpatici non mi fido. Sarà buono per i Napoletani, ma non fa per noi. Morto che parla fa 37. Paura, lo san tutti, fa 90 ». Il nonno taceva; non aveva detto tutto; i numeri buoni li aveva, in tasca, scritti a matita sul margine dell’ultimo numero

188 della « Gazzetta privilegiata di Milano ». Era andata così : suo padre gli era apparso in sogno, spettrale in volto e con gli oc­ chi spenti, e a cenni l’aveva guidato per un dedalo di stanze vuote e disabitate, finché si era trovato nella basilica di San Marco, paurosamente deserta e squallida; poi, per una porta ben nota al fabbriciere, l’aveva introdotto nella sacrestia per fermarsi davanti a una vecchia tela appesa alla parete. Qui la visione aveva posto mano al lembo inferiore della cornice e l’a­ veva sollevata : sull’intonaco scoperto, sotto una larga macchia rossastra, come di ruggine, erano apparsi, confusamente, tre numeri; pareva al nonno di cercarsi affannosamente nelle ta­ sche gli occhiali per decifrarli, quando di soprassalto si era svegliato.

Non aveva mai giocato al lotto e non era spulciatore di sogni. Il sogno, che per sé non aveva nulla di straordinario, l’aveva stranamente disturbato; qualcosa lo attirava verso la sacrestia della parrocchia, dove la visione s’era conclusa. Re­ sistè per un paio di giorni, il terzo cedette all’ossessione; e nelle prime ore di un pomeriggio afoso, quando nelle chiese non si trova che qualche vecchierella a sgranare il rosario e a godersi un po’ di fresco, le gambe lo portarono quasi suo mal­ grado davanti alla basilica di San Marco; entrò, percorse la nave del vangelo a quell’ora muta e deserta e scantonò nella sacrestia, ch’era aperta. Nessuno lì dentro; fuori il sacrestano era intorno all’altar maggiore a far pulizia e il fabbriciere non aveva bisógno di pretesti per giustificare la sua presenza nel luogo sacro. È da sapere che nella sacrestia di San Marco esisteva, e credo esista ancora, appesa alla parete una tela ottenebrata del tardo cinquecento, dalla quale guarda accigliato un vec­ chio gentiluomo vestito di nero, con collettone inamidato alla spagnuola e una gran croce ricamata sul petto : la croce del- La basilica di San Marco. (Raccolta stampe Bertarelli) lordine di San Giacomo della Spada. È l’immagine, la sola che ci sia rimasta, del cavaliere Tommaso Marino, marchese di Casalmaggiore e duca di Terranova, il nonno della Signora di Monza; il famigerato fermiere genovese, delle cui imprese sono piene le cronache e le leggende del tempo; e nelle vec­ chie case (poche) autenticamente milanesi, il suo oro malefi- ziato, raccolto con 1 aiuto del diavolo e andato poi disperso fra rovine e delitti, « l’or del fin del cônt Marin » è ancora ricordato nelle filastrocche dei bambini e nelle fa­ vole delle balie. Il signor Gaetano riconobbe nel quadro quello del suo so­ gno; gli dava soggezione lo sguardo di quel vecchio caparbio, che sembrava fissarlo e inseguirlo in ogni angolo della sacre­ stia. Ma dopo qualche istante di titubanza, sfoderò e si acco­ modò sul naso i suoi occhiali d’oro a stanghetta; tese le mani al lembo inferiore della cornice, la sollevò cautamente; sul rettangolo dell’intonaco un poco screpolato, che, difeso dal quadro, spiccava chiaro nella parete impolverata, era una gran inocchia rossastra, come rugginosa, e sopra questa si leg­ gevano, ben distinti, tre numeri: 62 ... 44 ... 56

Nella nostra età miscredente e scettica nonno Gaetano avrebbe ragionato così: quei numeri, caduti nel suo angolo visuale chissà quando, senza ch’egli vi facesse caso, erano stati raccolti dal suo subcosciente e racchiusi in una casella del suo cervello, da cui il sogno rivelatore li aveva poi snidati. Ma Freud e la psicanalisi erano ancora da nascere e il nonno non ragionava tanto sottile, nè escludeva a priori il soprannatu­ rale, quando si trovava davanti ad un fatto così sorprendente

191 Il portico dei Figini. e cinto di mistero. Lo strano messaggio onirico, più che un invito, era per lui un imperativo categorico dal mondo di là, e gli pareva doveroso giocare quel terno, non foss’altro per non far torto ai poveri morti. E qui cominciavano le difficoltà. Non pare, ma non è poi cosa tanto semplice per una persona seria, che ha una grossa azienda sulle spalle, un figlio all’Università di Pavia, Faltro dai barnabiti di Rho e tre ragazze prossime all’età da marito, e mai si è impicciato di cabale e di sogni, non è facile, dice­ vamo, a un’onest’uomo di tal fatta, entrare con disinvoltura e senza dar nell’occhio in una ricevitoria del lotto, gettare sul banco un mezzo sovrano e dichiarare con franchezza: 62, 44, 56, terno secco, ruota Milano. Chiedere parere alla Carolina donna, che si giuocava re­ golarmente metà della sua mesata, neanche da pensarci; era lo stesso che gridare alla Brera del Guercio i fatti suoi: incari­ carne un fattorino delle Casere equivaleva farne partecipe tutto il Borgo, dove era conosciuto come l’erba betonica, e mezzi i Corpi Santi. E ne andava di mezzo il prestigio della pre­ miata ditta Mezzanotte Gaetano - grana classico - Milano. Bisognava dunque far da sè, in una ricevitoria fuori mano. Ce n’era una proprio in contrada dei Fiori Chiari, da scartare senz’altro; ne ricordava un’altra in Cittadella, troppo vicina al borgo di San Gottardo; ma facendo la spola quotidianamente fra l’abitazione e le sue casere, gli pareva di averne vista una equidistante fra i due estremi del lungo percorso, in contrada della Palla, dove nessuno l’avrebbe notato. E così il giorno che seguì la partita a scopone, calan­ do di buon’ora al centro con la sua solita « cittadina » a nolo, percorsa la contrada di Santa Margherita e quella di San Salvatore lungo il teatro Re, rimandò il calesse allo sbocco dei Borsinari, e, attraversata la piazza del Duomo, proseguì a

193 piedi per la contrada dei Mercanti d’oro e dei Pennacchiari fino alla corsia della Palla, dove all’altezza di San Sebastiano, ma sull’opposto lato, riconobbe il botteghino che altre volte aveva intravisto. Stava per enti-are, dopo qualche titubanza, ma non osò, perchè davanti all’ingresso due monelli lo guardavano curiosa­ mente, e, gli pareva, con piglio canzonatorio. Proseguì allora in attesa che quelli se n’andassero per la corsia della Palla, fino al Carrobbio; qui girò sui tacchi e ritornò sul luogo; ma questa volta era un poliziotto in borghese, riconoscibile dal suo ceffo burbero e dai baffi di capecchio « che sapevan di sego » ad osservare insospettito quel suo andirivieni. Intimidito come un colpevole colto in fallo, cercò di darsi un’aria disinvolta e via di nuovo, a ritroso, per la contrada della Lupa — dei Pen­ nacchiari — dei Mercanti d’oro; indugiò un poco, fìngendo interesse alle gioie esposte nella vetrina dell’orefice Samuele Bigatti sotto l’insegna di S. Gaetano; poi quando pensò che monelli e poliziotto se ne fossero andati pei fatti loro, tornò alla ricevitoria; via libera, stavolta; i passanti frettolosi non gli badavano più che tanto ed entrò sicuro. Ma prima che potesse aprir bocca, dal fondo dello stam­ bugio lercio e tenebroso, lo salutò un festoso e stridulo : « buon giorno, signor Mezzanotte! ». « Accidenti, anche qui mi cono­ scono », pensò seccato, e fattosi animo, poiché ormai era fatta, reso il saluto, recitò in fretta: « 62, 44, 56, terno secco per fa­ vore ». Sul banco gettò un lucente marengo con l’effigie di Napoleone imperatore, apprezzatissimo in quel metallo anche dalli. R. lotto. Un po’ stupito della giocata insolitamente ele­ vata, il gestore, il signor Angelo Pozzi, un omino grassoccio dalla rada barba rossastra, con una papalina ricamata sulla zucca pelata, gli tese premurosamente la polizza, mormoran­ do: « terno secco, fanno 86.000 lire austriache; una fortuna.

194 Sa, bisognerà forse giuocarli tre volte. Auguri, signor Mez­ zanotte, tanti e tanti ». La mattina dopo, ch’era di sabato, il signor Gaetano poco si trattenne alle casere e meno al mercato dei latticini, che si tiene da tempo immemorabile nella piazza di Porta Ticinese. All’ora di colazione, traversato il borgo Cittadella, fu alla trat­ toria dei Tre Scanni (di tri Scagn) dove lo attendevano due me­ diatori a trattare una grossa partita di grana fino. Ma anche qui concluse poco, il suo pensiero vagava lontano, fra la vecchia casa di Melzo dove suo papà si era spento d’improvviso tanti anni prima e il cortilone del Broletto, dove in quegli istanti la mano innocente di un martinetto distribuiva fortune e disper­ deva speranze. Ma quando uscì e ripassò davanti alla ricevito­ ria della Palla, vide scritti a mano sopra un cartello a fianco dell’ingresso i numeri appena estratti: a farlo apposta non un numero dei suoi vi figurava. Si rassegnò e non ci pensò più fino a metà settimana, quando si ricordò del monito dell’omino dalla papalina a ri­ cami (« i numeri buoni son da giuocare tre volte »); e, questa volta con tutta disinvoltura, fu di nuovo in Corsia della Palla a rinnovare la puntata: 62, 44, 56, un marengo, terno secco. Al sabato, nuova delusione, per altro già scontata in ante­ cedenza. Ma Tornino aveva detto : tre volte, e nonno Gaetano, che aveva quella settimana grossi affari per la testa, se ne ri­ cordò soltanto in fin di settimana. Era di sabato, stava per scoccare mezzogiorno, ma fino alla una, quando si faceva l’e­ strazione, le ricevitorie erano abitualmente aperte. Fu al solito botteghino della Palla, ma, inaspettatamente, lo trovò chiuso. Era ordine dalla I. R. Direzione del lotto di chiudere alle dodici in punto, dopo che sera scoperta una grossa truffa organizzata da una banda di geniali bricconi, che riuscivano con un ingegnoso sistema di telegrafìa ottica a

195 trasmettere a Bergamo i numeri che si estraevano al Broletto, prima che si chiudesse la ricevitoria di Bergamo; e tutto era andato liscio, finché sera trattato di somme modeste; ma poi si era tentato il giuoco grosso, e il trucco era stato scoperto e sventato. Il nonno non se n’ebbe a male; ottimista di natura « tanto meglio » disse fra sé, fregandosi le mani, « un marengo rispar­ miato e non ho rimorsi ». Si trattenne al centro a spendere in piccoli acquisti la moneta d’oro che gli era rimasta in tasca: un regaluccio per la moglie, dolci per le figliole e per sé una provvista di sigari Virginia. Bighellonò un poco col pacchetto dei regali sotto il co­ perto del Figini, dove trovò un vecchio amico, che gli portava notizie di Piemonte; sedettero insieme ai tavolini del caffè Mazza, dove il gagliardo prete Giani aveva preso a schiaffi il figlio di Radetzky; ordinarono due costumé e scambiarono chiacchiere poco ortodosse, sui fatti del giorno. Rincasava, quando alla svolta dei Fiori Chiari vide un piccolo assembramento raccolto davanti alla ricevitoria del lotto prossima a casa sua; due donnette, un prete, tre o quat­ tro popolani e qualche ragazzo attorno all’ortolano della con­ trada, che gesticolava irritato, in farsetto e senza cappello in testa. Come per un oscuro presentimento si accostò e chiese cosa fosse successo. « C’è, caro sor Gaetano », fece l’ortolano, « che il governo, sia detto con rispetto e che nessuno ci senta, imbroglia la po­ vera gente. Lei è un signore, però è un galantuomo lo stesso, e le porcherie fanno male anche a lei. Senta qua: una setti­ mana bellissima. Alla Montagnetta un cavallo che scappa e tira sotto una vecchia zoppa; dunque 69, 17, 49. Al Guasto i' parrucchiere accoltella l’amorosa, e poi s’impicca; dunque 61, 57, 80, non ci si scappa. Due terni sicuri: o l’uno o l’altro

196 doveva sortir fuori. E invece neanche un ambo. Qui c’è truc­ co. Cosa vuol dire quel 62, cioè oro fino, quando oro non ce n’è più in giro un’oncia, dei sovrani si è perduto lo stampo e un onest’uomo sul banco non trova che qualche svanzica, e parpagliole e sesini frusti di quelli con la biscia. E quel 44, dico quel 44... ». Il nonno trasalisce, inforca gli occhiali e sull’uscio del bot­ teghino legge esterrefatto:

62 ... 44 ... 56

Si rassegnò rapidamente e dei casi suoi non fece parola nemmeno alla nonna e nulla se ne seppe nel vicinato; finché una sera al caffè di Ponte Beatrice, nella euforia di due diffi­ cili partite consecutive stravinte, si lasciò andare a confidenze, confidando come un caso ameno la sua disavventura, racco­ mandando il silenzio, perchè i vicini non gli dessero la baia. Ma le sue confidenze trovarono una reazione affatto impre­ vista. Dopo un attimo di silenzio imbarazzato, prese la parola il reduce dalla Beresina: « Signor Gaetano, lei è un uomo di garbo, una cara per­ sona; e noi non apriremo bocca su questa faccenda, muti come pesci. Però mi permetta di dirle con tutta sincerità, lei in questa occasione si è portato male, vorrei dire, mi perdoni, come un ragazzo. Capo primo : un uomo d affari come lei non poteva ignorare che al lotto chi ha i numeri buoni e li vuol giuocare in proprio, li perde. Lei ha degli amici; tre amici di tutta fiducia come noi; ci doveva dare i numeri, prestandoci magari, lei che è ricco, i quattrini della puntata, e noi le avremmo riservato la sua giusta parte. Una fortuna per tutti ». E mentre continuava accigliato su questo tono, il terzo giuocatore, un impiegato all’Amministrazione generale del Censo e delle Imposizioni dirette, se la godeva un mondo e ri-

197 ... elavanti alla, chiesa di San Marco... dacchiava sotto sotto, pregustando il successo che avrebbe avuto presso i colleghi e il direttore generale, raccontando il fatto, per disteso, magari con qualche frangia; ma l’ultimo, ne­ goziante di stoffe all’insegna del pozzo, che, scontroso di na­ tura, nutriva un segreto rancore contro l’amico danaroso e for­ tunato, gettava in giro guardatacce dubbiose, finché sbottò d’un tratto: « Ma chi crede a queste fanfaluche? Questa non la beviamo; il signor Gaetano le sballa grosse e ci vuol pigliare in giro; non avete capito? ». Il nonno ora non ne poteva più; aveva sopportato con fi­ losofìa la requisitoria del reduce, ma le insolenze dell’atrabi- liare negoziante di stoffe eran di troppo. « Basta, porca mi­ seria; prima mi trattate da ragazzo, ora da cialtrone. Chi non crede, venga a vedere ». Scattò in piedi indignato, si calcò la tuba sul capo e via seguito dai tre. Il sacrestano di San Marco, che stava montando il cata­ falco per un funerale di prima classe, vide con stupore entrare concitato nella chiesa il fabbriciere anziano, seguito da tre in­ vasati; e tutti e quattro, senza nemmeno farsi il segno della croce, avviarsi a grandi passi alla sacrestia. Dove entrato, il signor Gaetano accennò col gesto al quadro del conte Mari­ no, tese risoluto le mani al lembo inferiore della cornice, e traendola a sè, scoperse la parete. Sul rettangolo dell’intonaco, un poco screpolato, che, difeso dal quadro, spiccava chiaro nella parete impolverata, era una gran macchia rossastra, come rugginosa; ma sopra questa, nulla. I tre numeri malefìziati che il finanziere genovese aveva custodito per quasi tre secoli, come erano misteriosamnte riap­ parsi agli occhi del nonno, altrettanto misteriosamente erano spariti.

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INDICI

INDICE DEI CAPITOLI

L’apostolo Barnaba a Porta Ticinese .... ■ Pag- 5 L’Officio di Sant’Ambrogio ...... )) 7 La fonte ...... ))10 Il pianto del Cardinal F e d e r ic o ...... » 12 Don Filippo Visconti e Giuseppe II . . )) 16 Feste dinastiche ...... ))20 L’ultima D u ch essa...... » 22 L’eroica fermezza di Don Gonzalo .... . )> 25 La Porta M aren g o ...... » 29 La p a c e ...... )> 33

Stendhal a Porta M a r e n g o ...... M 37 Il Marchese Cagnola e il Signor Pedrino . » 37 Gli onori del fa m e d io ...... » 45 Il laghetto di Sant’E ù storg io...... )) 48 Gloria e martirio di un p o d e s tà ...... » SI I b a r c h e t t i ...... )) 54

Bucintori d u c a l i ...... M 67 Da Milano1 al mare per via d’acqua .... . )) 74 Il Ponte del T r o f e o ...... )> 75 La passione di un grande idraulico .... »77 La modestia del Fuentes e un ordine di Napoleone . » 83 Il sagrato di Sant’E u sto rg io ...... )) 91 Il bottino di guerra di Rainaldo Vescovo . . » 94 Dalla Cattedrale di Colonia al Duomo di Milano . . )) 98 Il pulpito di San Pietro M a r tir e ...... » 99

203 I credenti di Monforte ...... Pag- 102 Eresie e roghi ....•••••” 103 L’eccidio di Barlassina . . . . • • - » 109 Santità di un s i c a r i o ...... ” 111 II Marchese Porrone - e i diritti di asilo...... » 112 I crocesignati di S. Pietro ...••••” 117 Ricchezza d’arte nella Basilica e nel Convento . . . » 118 L’Arca di Giovanni di Balduccio ...... 122 Torriani e V i s c o n t i ...... ” 125 Umanità di Martino della T o r r e ...... » 129 I Visconti e la scomunica di Papa Giovanni .... » 132 Lo stradone di San Simone 136 Guglielma la B o e m a ...... ” 138 In Piazza della V e t r a ...... ” 145 II Ponte della Morte . . • • • • • ■ ” 148 La Colonna I n f a m e ...... ” 151 Contrade e Vicoli fra Sant’Eustorgio e San Lorenzo . . » 156 La Porta G e n o v a ...... ” 166 La casa del m a g o ...... , ” 169 La fiera e l’architetto Sommaruga...... » 171 Un precursore del cinematografo . . . • • • » 172 I cocci rotti di un p r o f e s s o r e ...... ” 177 Vere o quasi vere - I numeri del Conte Marino...» 183 INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

L’atrio di Porta Ticinese...... pag. 5 In Piazza S. E u sto rg io ...... » 6 Il sepolcro del Cardinal Branda di Castiglione ...» 7 Ricostruzione del Sacello di S. Barnaba alFonte ...» 9 S. Carlo Borromeo distribuisce ai poveri . ...» 10 S. Carlo B o r r o m e o ...... » 11 Il Cardinal Federico B o r r o m e o ...... » 13 Lo stendardo di Sant’A m b ro g io ...... » 15 L ’Arcivescovo Filippo Maria V is c o n ti...... » 18 Arco onorario eretto a Porta T ic in e s e ...... » 21 Maria Cristierna di D a n im a rc a ...... » 22 Francesco II S f o r z a ...... » 23 Don Gonzalo Fernandez de C o rd o v a ...... » 25 Principe Eugenio di S a v o ia ...... » 27 La lapide a Napoleone vincitore, debellatore, pacificatore . » 29 La medaglia di M a r e n g o ...... » 30 Andrea A p p i a n i ...... » 31 Vincenzo M o n t i ...... » 32 Il Marchese Luigi Cagnola ...... » 33 Luigi Cagnola: Disegno g io v a n ile ...... » 35 Luigi Cagnola: Colonna commemorativa ...» 36 Paci popolorum s o s p i t a e ...... » 38 Luigi Cagnola: Progetto per il mausoleo del Mettermeli . » 39 Luigi Cagnola: Arco della P a c e ...... » 40 La sestiga sull’Arco della P a c e ...... » 41 L’Abate C a s ti...... » 42

205 Progetto del Cagnola per la H o fb u rg ...... pag. 43 Arco onorario a Porta Orientale ...... 44 Progetto del Cagnola per l’ingresso di Porta Orientale . . » 44 Luigi Cagnola: La Rotonda di Inverigo .... » 45 L’urna delle ceneri di Luigi Cagnola al Famedio ...» 46 La Darsena - nel fondo l’atrio del Cagnola ...» 47 La D a r s e n a ...... » 48-49 Il laghetto dell’ospedale...... » 50 Naviglio Grande col « Barchett de Boffalora » . . . » 53 Il Barchetto di Buffalora ...... » 54 Il cavo Ticinello a Porta Ticinese ...... » 5o ... veniva a vestirsi a Milano... » 56 d etto A rrighi...... » 56 Ponte sul Naviglio a G a g g ia n o ...... » 58 La chiesa di Gaggiano ...... » 59 Il Naviglio ed il L a m b r o ...... » 60 Ponte di B u ffa lo ra ...... » 61 Cassano d’Adda ...... » 62 Il tombone di S. Marco...... » 63 ... nembi di polvere sulla p ro v in cia le...... » 64 ... carrozze e tricicli a motore...... » 65 Aspetti del Naviglio interno durante l’asciutta . . . » 66 Il Naviglio interno all’Ospedale Maggiore . ...» 66 Il Bucintoro della S e r e n is s im a ...... » 67 Il Castello di B e r e g u a r d o ...... » 68 Il Castello di P a v i a ...... » 69 ... tornei e giostre...... 70-71 Il Castello di B i n a s c o ...... » 72 Isabella d’E s t e ...... » 73 Il Castello di B i n a s c o ...... » 74 Particolare delle Cave di C a n d o g lia ...... » 75 Arrivo del barchetto di Pavia al Ponte del Trofeo . . . » 76 Cava madre delle cave del Duomo a Candoglia ...» 78 Il Castello di Cassano d’A d d a ...... » 79 Imboccatura del Naviglio della Martesana ...» 80 Lo sbocco del Naviglio della Martesana sul laghetto di San M a r c o ...... » 81 Abate Paolo F r i s i ...... Pag. 82 Pietro Enrico de Azevedo Conte di Fuentes . 84 Il trofeo ...... 85 Naviglio a Pavia ...... 87 S.A.I. l’Arciduchessa Maria Elisabetta di Savoia . 88 S.A.I. l’Arciduca R a i n i e r i ...... 89 Sant’E u s t o r g i o ...... 90 La colonna di S. Pietro M a r tir e ...... 92 Avanzi dell’Ospedale di Santa Fede .... 93 L’arca dei Re M a g i ...... 94 Il Cardinale Alfonso L i t t a ...... 95 L’architetto Schmidt ...... 99 Il pulpito detto di S. Pietro Martire .... 100 Ariberto d’I n t i m i a n o ...... 101 Sant’Eustorgio ...... 103 Pianta della città di M ila n o ...... » 104-5 Il monumento equestre di Oldrado da Tresseno . 106 La parte meridionale del « nuovo Rroletto » . 107 Il nuovo Broletto o Palazzo della Ragione . 108 S. Domenico ...... 110 Don Luigi Gusman Ponce de Leon .... 113 Il Duca Gasparo Tellez y Giron Duca d’Ossuna . 115 Diritti d’a s i l o ...... 116 Il campanile di S. E u sto rg io ...... 119 Il chiostro dei morti a S. Eustorgio...... 120 Il secondo chiostro di S. Eustorgio .... 121 S. Eustorgio - La cappella di Pigello Portinari 123 L’arca di S. Pietro M a r tir e ...... 124 Arca di S. Pietro in S. Eustorgio - Naufraghi salvati dal Santo 126 L’arca di Pietro T o r e lli...... 127 Monumento a Stefano B r i v i o ...... 128 Arca di S. Pietro Martire - La temperanza . 129 Il mausoleo di Stefano V is c o n ti...... 130 La tomba di Agnese B e so z z i...... 131 Il sarcofago di Gaspare V is c o n ti...... 133 Il busto marmoreo di Matteo sopra il Biscione Visconteo 134 S. Carlo B o r r o m e o ...... 135

207 Luchino V isconti...... Pag- 137 Il cimitero di Chiaravalle ...... )) 139 Abbazia di C h iarav alle...... 142 Matteo V i s c o n t i ...... 143 In Piazza della V e t r a ...... 145 La cupola di Martino B a s s i ...... 147 San L o r e n z o ...... 149 La Basilica di S. L o re n z o ...... 150 La Piazza della Vetra nel primo ’800 . 152 La sentenza data a Guglielmo Piazza . 154 Resti di antica torre in S. Croce .... 156 Le colonne di S. Lorenzo ..... 157 V iarenna...... 158 Interno a Porta T icin ese...... 160 Cortile in Via Scaldasole ...... 161 Brandelli di vecchie case in Via Scaldasole . 162 Ancora in Via Scaldasole ..... 163-164 Il terraggio delle P io p p e tte ...... 165 La Chiesa di San Calocero . . . . 166 L’esterno della Basilica di San Vincenzo 167 Alcuni capitelli del colonnato di San Vincenzo 170 Veduta della facciata di San Vincenzo . 171 Il casino di Meneghino e Cecca .... 173 I bagni di Diana ...... 176 La Pusterla dei Fabbri ...... )) 178 Monumento a Cesare Correnti ...... )) 180 Il ritratto di Tomaso M arin i...... )) 185 ... quando non si lasciava andare...... )) 187 La Brera del Guercio e la Pusterla Beatrice )) 188 La Basilica di San M a r c o ...... )) 190 Il portico dei F i g i n i ...... » 192 ... davanti alla Chiesa di San Marco...... )) 198

» 208 Le illustrazioni riprodotte da stampe della Raccolta Bertarelli al Castello e dell'Archivio Storico Civico sono state concesse per gentile intercessione del dott. Paolo Arrigoni.