Tra curiosità e storia: la Provincia di dall’A alla Z

Progetto n° 3 realizzato dagli alunni delle cl. 1^ C, 2^ C, 2^ F e 3^ C , e coordinato dalle Prof.sse Marenghi Annamaria e Cremaschi Maddalena a.s. 2012/13 Scuola Secondaria di 1° grado “F. Crispi di Istituto Comprensivo di Chignolo Dirigente : Dott.ssa Lanati Loredana

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Dopo i progetti: “Progetti per riflettere”, realizzato nell’a.s.2007/08, “Detti dialettali della cultura contadina pievese”, realizzato nell’a.s.2008/09, “Filastrocche contadine” ; realizzato nell’a.s.2009/10, “Leggende pievesi”, realizzato nell’a.s.2010/11,

“Leggende pavesi”, realizzato nell’a.s.2011/12,

quest’anno,

continuando il nostro lavoro di ricerca sulle storie locali,

abbiamo rivolto l’attenzione alle leggende

su tutta la provincia di Pavia,

con “Tra curiosità e storia: la Provincia di Pavia dall’A alla Z”.

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Qualche notizia sui nostri paesi

ALBUZZANO

Dal latino Albutius, considerato il fondatore del borgo, citato nel 969, come appartenente al monastero di S. Salvatore di Pavia; dopo la battaglia di Pavia, subì varie dominazioni: francese, spagnola, austriaca, fino alla nascita del Regno d’Italia. Personaggi illustri Cesare Angelini

Nato ad nel 1886, fu sacerdote, educatore, poeta e scrittore rinomato ed incisivo; fu segretario del vescovo di Cesena, cappellano militare durante la 1^ guerra mondiale, rettore del Collegio Borromeo di Pavia dal 1939 al 1961; morì nel 1976. Fu uno studioso del Manzoni e tra le sue opere ricordiamo Il dono del Manzoni, Invito al Manzoni. I tosati della Madonna Un tempo, nel giorno della festa del patrono, si portavano i bambini dal barbiere perché fossero rapati a zero; gli abitanti pensavano che la rasatura portasse fortuna. Per tradizione religiosa era la Madonna della parrocchia a portare fortuna; quando il vescovo Angelo Peruzzi, nel 1576, si recò in visita nel paese, il parroco gli riferì che nel giorno della Madonna le madri facevano radere i figli e il vescovo, ritenendo ciò una superstizione, ordinò di sospendere quell’abitudine. La tradizione della tosatura risalirebbe ai Longobardi: il taglio dei capelli e della barba erano simboli di alleanza e di sottomissione. Desiderio, ultimo re longobardo inviò un suo figlio alla corte carolingia di Pipino il Breve con la testa rapata, in segno di resa e di pace.

ARENA PO

Il toponimo, in dialetto Réina, è un derivato da arena, ”sabbia,” giustificabile per la vicinanza dell'abitato al fiume Po. Arena: il reperto preistorico! Grazie ad l'Italia vanta, dal 1993, il suo primo reperto di animale preistorico: un pleisosauro, grosso rettile marino. Per Arena Po non si tratta del primo ritrovamento perché, nella zona, è stato portato alla luce di tutto: scheletri di elefanti, di ippopotami e perfino un cranio di femmina di megacero, un enorme cervo.

3 La leggenda del vino Buttafuoco

Si racconta che durante la 2^ Guerra d’Indipendenza (1859), una divisione austriaca di marinai fu inviata nei pressi di Arena Po, con il compito di traghettare i soldati da una riva all'altra del Po. Quando fu deciso di spostarli sotto il comando delle truppe di terra, i marinai, non contenti della nuova destinazione, si nascosero in una cantina tra le colline sopra Stradella e lì si ubriacarono col vino rosso. Pochi mesi dopo, la marina austro-ungarica varò una nave chiamata Buttafuoco; il tipo di vino che i marinai avevano bevuto si chiamò allora Buttafuoco.

BADIA

Fino al 1928 era denominata Caselle Badia, da cui il nome Casè o Casel ancora usato, ma il è citato anche solo come Badia. Possiede origini molto antiche e sono state portate alla luce tombe di età protovillanoviana; il nome del borgo è spesso citato in documenti d'età medioevale, feudale e comunale.

BELGIOIOSO Nel 1377 era Castro Zojoso, indicante un luogo di villeggiatura, un castello, riserva di caccia dei Barbiano e poi dei Belgioioso. Il paese è citato per la prima volta nell'età comunale. Nel XIV sec. Galeazzo II Visconti edificò il castello ( è attribuito a lui) e l'acquedotto; mancano però documenti attestanti l’anno di fondazione. Nel 1431 divenne feudo di Alberico da Barbiano, nel 1475 fu affidato a Ercole d'Este e nel 1524, dopo un breve periodo di governo di Vespasiano Colonna ritornò, nel 1536, alla famiglia Barbiano che prese il nome del paese, Belgioioso. Nel 1769 il feudo divenne principato e nel 1700 furono aggiunti al castello altre costruzioni, ma con stili diversi. Presso il castello furono ospitati il re francese Francesco I nel 1525 (per una notte, quando fu fatto prigioniero dopo la battaglia di Pavia) e nei secoli successivi gli scrittori Giuseppe Parini e Ugo Foscolo. I Brusacrist Belgioioso: il nome del paese fa pensare a cose belle e gioiose, ma il soprannome dei suoi abitanti, al contrario, è spaventoso e terribile: “ i brusa Crist”. Il motivo di questo risale a un fatto accaduto molti anni fa, quando già vi era l'usanza di baciare il volto di Cristo morto in croce, esposto nel giorno del Venerdì Santo. A Belgioioso, prima della processione, nello scurolo ( la cripta sotto l'altare maggiore) la folla era in fila in attesa di baciare il Cristo; vi era un giovanotto dai lunghi e folti capelli, di cui si vantava. Giunto il suo turno, si inginocchiò devotamente, ma s'inchinò troppo e, al momento di rialzarsi, la lunga capigliatura restò impigliata nella croce. Il giovane cercò in ogni modo di liberarla, ma senza riuscirci; sembrava trattenuto come in una morsa tra le dita delle mani di Cristo. Ogni tentativo di liberarsi fu vano, così come inutile fu l’aiuto dei presenti, silenziosi e stupiti per quanto accadeva; i capelli sembravano ingarbugliarsi ancora di più! L'unica soluzione fu quella di tagliarli! Il giovane, disperato per aver perso, come il biblico Sansone, quella che lui considerava la sua ricchezza e la sua bellezza, trasformò subito in ira e odio contro il crocifisso la sua devozione e, come un pazzo, urlando e piangendo, corse fuori dalla chiesa e per tutta la notte diede fuoco ad ogni crocifisso che 4 trovava nelle chiese, nelle piazze, in ogni angolo. Da quel giorno gli abitanti di Belgioioso sono chiamati “Brusacrist”. La Madonnina del Morone A circa duecento metri dal centro di Belgioioso, si trova una piccola chiesa, ora chiusa ai devoti perché pericolante. A essa è legata un'antica tradizione in onore della ”Madonnina del Morone”, che prende origine da un episodio accaduto molti secoli fa. In una calda sera d'agosto, terminati i lavori nei campi, dei contadini stavano ritornando alle loro case, quando furono abbagliati da una luce improvvisa che filtrava attraverso le foglie di un gelso (in dialetto muron). Grande fu il loro stupore quando, al centro della luce videro apparire la figura di Sant'Anna con in braccio sua figlia, la Madonna bambina. Qualche tempo dopo, sul luogo della visione fu costruita la chiesetta dedicata proprio a Maria Nascente. Un precedente primitivo affresco, fatto eseguire dai paesani su un muretto vicino al gelso, per ricordare l'episodio, fu inglobato nell'edificio sacro, diventandone la pala d'altare. Proprio in onore di Maria Nascente, che si festeggia l'8 settembre, fu introdotta l’usanza, rimasta fino agli anni Ottanta del XX sec., di battezzare lì i neonati in questo giorno; la cerimonia che si svolgeva a settembre coincideva con la festa per la Madonna. Nei secoli la chiesetta fu abbellita e restaurata; alla fine del Seicento ciò avvenne per opera dei conti Barbiano e intorno al 1980, a cura della famiglia Melzi d'Eril, che ne è ancora proprietaria. Fino al 2003, prima che l'edificio religioso fosse dichiarato inagibile, vi si svolgeva anche una novena. Personaggi illustri Cristina di Belgioioso Durante il Risorgimento, nel 1859, in Lombardia, anche le donne ebbero parte attiva nella seconda guerra d'Indipendenza: si occuparono dei numerosi soldati feriti nelle varie battaglie. Esse soccorsero ben 125.000 soldati, rimasti feriti e ammalatisi dopo le varie battaglie di Montebello, Magenta, San Martino, Solferino, curandoli a Pavia, Milano, Brescia e Mantova. Molte donne poi morirono, contagiate da malattie infettive, durante il loro lavoro amorevole di cura ed assistenza. Da ricordare è Cristina Trivulzi Principessa di Belgioioso che si prodigò, spinta da ideali umanitari, con altre donne, per aiutare, curare ed alleviare la sofferenza di tanti soldati. Fu amica di Anita Garibaldi ed insieme curarono i feriti di guerra. Il fantasma della principessa Cristina Si racconta che, nel parco del castello, di notte, si aggiri il fantasma della principessa Cristina di Belgioioso, la quale ebbe una vita travagliata e fu invidiata della gente, per la sua bellezza, per la sua libertà. Si innamorò del suo segretario, Gaetano, con il quale andò a vivere nella villa di Locate, ma quando l’uomo morì di tubercolosi, Cristina volle imbalsamarlo e lo nascose in una stanza del castello di Belgioioso. La ragazza morì nel 1871 e fu sepolta a Locate, in una tomba di marmo, riaperta dopo 50 anni, ma essa non conteneva il suo corpo, che fu poi ritrovato in una tomba anonima, poco distante da quella del giovane: il corpo era intatto, ma subito si dissolse. Il fantasma di Cristina e di Gaetano sono stati visti da molti testimoni aggirarsi, mano nella mano, di notte, nel castello.

In dialetto Balguart, richiama Belriguardo, unavilla estense o altri centri; il nome fu dato dai Visconti. Il castello fu edificato da Luchino Visconti (1292-1349) come roccaforte, con una vasta riserva di caccia; fu implicato in numerosi avvenimenti bellici e passò a varie famiglie, poi all’Ospedale di Milano, per divenire infine patrimonio del comune di Bereguardo.

5 Le leggendarie imprese amorose di Isabella

La giovane e colta Isabella Fieschi fu la terza moglie di Luchino Visconti; fu una donna di facili costumi e si diceva che il padre dei gemelli, i suoi primi due figli, fosse Galeazzo II, nipote del marito. Luchino aveva avuto anche lui numerose storie amorose ma, ormai ammalato, era turbato dalle dicerie sulla moglie, in particolare dopo la crociera della donna a Venezia; partita da Bereguardo, ella si era imbarcata a Lodi per assistere alla festa dell’ Ascensione, con altre belle fanciulle e i loro amanti; fece tappa a Mantova da Ugolino Gonzaga e a Venezia dal doge Francesco Dandolo, incontrandosi con diversi nobili. Ritornata a Milano, si accorse dello stato d’animo vendicativo del marito e anticipò le sue intenzioni, avvelenandolo. Luchino, infatti, morì misteriosamente nel 1349.

Secondo la tradizione, da questo luogo transitarono le truppe di Annibale dopo la battaglia del Trebbia (218 a.C.), per proseguire verso la Liguria e l'Umbria. Da questo presunto passaggio sono nate leggende e racconti ricchi di fascino. Una è quella che Annibale si ferì ad una mano e per ricordare l’episodio, il monte dove si era ferito si chiamò Lesima (dal latino “lesa manu”), l'attuale monte Lesima.

Broni nel 1047, Bruna nel 1048 e Bronna nel 1119, dal latino “prunus”; citata anche come Comillomagus o Cameliomagus. Di origine romana, passò a Pavia nel XII sec. Coinvolto nelle lotte tra Guelfi e Ghibellini, tra Pavesi e Milanesi, da feudo dei Beccaria passò poi ai Savoia. Personaggi illustri Nativi di Broni: Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, economista; Alberto Alesina, economista; Tiziano Sclavi, fumettista (Dylan Dog); qui visse il comico dialettale Lasaratt (Mario Salvaneschi); qui risiede l’ex campione russo di ciclismo, Eugenij Berzin (vinse il Giro d’Italia nel 1994). La leggenda di san Contardo

Broni è situato sulla via Emilia, dove transitavano i pellegrini per recarsi a Santiago; il giovane Contardo, che disprezzava la ricchezza e preferiva vivere in povertà, apparteneva alla nobile famiglia degli Estensi di Ferrara; nel 1249 intraprese il lungo cammino insieme con due compagni

6 e fece sosta a Broni e salì su un colle, che oggi porta il suo nome; per la piacevolezza del luogo chiese al Signore di farlo morire lì se il suo destino era quello di morire durante il viaggio e Dio lo esaudì: fu preso da improvvisi e così forti dolori che i suoi compagni lo portarono in un albergo dove l’oste, per paura che i suoi lamenti gli facessero perdere i clienti, lo spostò in una casupola vicina. Abbandonato da tutti per la contagiosità dell’atroce malattia, veniva sfamato da un cane che, quotidianamente, gli portava del pane. Il giovane però morì dopo alcuni giorni. Subito le campane si misero a suonare da sole e sul volto di Contardo i profondi segni della sofferenza lasciarono posto a un aspetto sereno, mentre il corpo emanava un soave profumo. Il suo corpo fu sepolto in una nicchia della chiesa di San Pietro, ma poi, per numerosi prodigi testimoniati dai fedeli che andavano a venerarlo, fu spostato presso l’altare e diventò il patrono di Broni. Si celebrano due feste il 16 aprile, giorno della sua morte e il 28 agosto giorno della traslazione del corpo nel 1249. Il santo è particolarmente invocato contro epilessia e mal di testa. Si usa avvolgere attorno alla testa del malato bende di lino benedette. Ogni anno, il 16 aprile, avviene la distribuzione del pane benedetto di San Contardo, nel santuario. Il colle di S. Contardo Sulla sommità del colle, che domina Broni, è stato costruito un santuario dedicato a San Contardo, patrono della città. La comunità cristiana bronese ha disposto, lungo il percorso, i pannelli, delle stazioni della Via Crucis, in ceramica policroma e, in occasione della festa patronale, la Via Crucis viene illuminata da una suggestiva fiaccolata. E’ stato creato, alla base della cappella, il gruppo statuario dell’Angelo Custode, con i bambini in preghiera.

CANNETO PAVESE

Montù de' Gobbi, diventò Canneto nel 1885 ( dal latino cannetum-canneto); passò dai Gobbi al feudo di Broni, poi ai Candiani nel XVII sec. E’ famoso per i suoi vini, tra i quali il Sangue di Giuda. Il Vino “Sangue di Giuda” Il nome è legato sia al colore rosso rubino del vino, con riflessi violacei, sia a una leggenda. Essa racconta che Giuda, impiccatosi e passato a peggior vita, dopo quella di traditore di Gesù, condotta sulla terra, si fosse pentito del suo gesto e Gesù, per perdonarlo, lo avrebbe fatto resuscitare. Giuda sarebbe ricomparso in carne e ossa in Oltrepò, precisamente a ma gli abitanti, riconoscendolo, decisero di ucciderlo ancora, perché traditore di Gesù; Giuda si salvò grazie a un dono ai viticoltori della zona: risanò le loro viti dalla malattia che le aveva colpite. Essi, per ringraziarlo, gli dedicarono il nome del loro vino rosso, dolce.

CASTEGGIO Clastegium, poi Clastidium (titolo di un dramma del poeta Nevio), modificò più volte il nome, fino all’attuale. Sorse sui resti di un villaggio dei Liguri ed è famoso per la battaglia nella quale i Romani, guidati dai consoli Scipione e Marco Claudio Marcello, sbaragliarono a Clastidium, nel 222 a. C. i Celti condotti da Virdumaro, aprendosi così la via alla conquista dell'Insubria (più o

7 meno l'attuale Lombardia). Appartenne a Tortona, fu saccheggiato dal Barbarossa nel 1175 e passò a varie famiglie, dai Visconti agli Sforza, fino al XVIII sec. Personaggi illustri F. Anselmi, partigiano; G. M. Giulietti, esploratore; M. Baratta, geografo; A. Della Seta, archeologo; F. Coralli, generale dei bersaglieri; C. Riccardi, pittore. La valle buia (Scuropasso) Annibale: numerose sono le leggende che sopravvivono su di lui nella provincia di Pavia. e si contendono il privilegio di aver dissetato il condottiero africano con le acque dei loro torrenti; si vanta di aver ospitato la “pugna ad Ticinum” (la battaglia sul Ticino); , sostiene di avere assistito al passaggio del cartaginese e del suo esercito. Nella vicina Valle Scuropasso, il comandante delle truppe di Cartagine, dopo la battaglia sul fiume Trebbia e la ferita riportata ad una mano sul Monte Lesima, avrebbe definito “passaggio buio” la stretta valle dell’Oltrepò che da Broni porta agli Appennini, verso il confine piacentino, che però non sembra per nulla una valle buia. La fontana di Annibale Casteggio, per la sua posizione strategica sulle prime colline dell’Oltrepò, è stata più volte interessata da episodi bellici. Il più importante è quello riguardante la battaglia avvenuta nel 222 a.C. tra Romani e Celti. Il condottiero che lasciò una traccia a Casteggio fu il cartaginese Annibale che, con i suoi famosi elefanti si sarebbe fermato per riposare ed abbeverarsi a una fontana che tuttora esiste lungo l'attuale via Emilia, poco fuori Casteggio, in direzione di Broni. Quel che ancora si vede oggi sono i resti di una cloaca romana, che sarebbe stata il teatro dell'avvenimento. A un episodio simile la fantasia popolare fa risalire addirittura il nome del fiume , che scorre ai confini tra la provincia di Pavia e quella di . Sul finire del 218 a.C., sconfitti i Romani al Trebbia, Annibale e i suoi soldati sostarono per dissetarsi a una limpida sorgente d'acqua, nei pressi di Romagnese. Era così fresca e buona quell'acqua, che Annibale volle in qualche modo ringraziare e, lanciando il suo anello nell’acqua, esclamò: ”Tibi dono”, (te lo dono). Da quella frase sarebbe derivato il nome Tidone, dato a quel torrente.

CAVA MANARA

Fu Cava (canale scavato per deviare il fiume) fino al 1863, poi fu aggiunto Manara, in memoria di Luciano Manara, bersagliere lombardo, che combatté in questi luoghi, contro gli Austriaci, nel 1849, durante la 1^ guerra d’indipendenza, dopo aver partecipato alle 5 giornate di Milano. Dal 1738 fu possedimento sabaudo. Personaggi illustri G. Albani, ex-calciatore ; G. Golgi, Nobel per la medicina, fu medico a Cava. Antonio Bordoni, matematico. Il passaggio di Sant'Agostino Secondo la tradizione locale, Sant'Agostino passò da , luogo di sosta per i pellegrini diretti in Francia o a Milano ( la Cavea cum taberna ). In questo luogo si fermò Sant'Agostino durante un viaggio, ma anche dopo la sua morte fece però un’apparizione a Cava; da Ippona le sue spoglie mortali furono sottratte da San Fulgenzio agli Ariani e trasportare nel 508 a Cagliari, in Sardegna finché Liutprando, re dei Longobardi, acquistò quelle sante spoglie a peso d'oro e nell'anno 725 le fece trasportare a Pavia, nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro. Si racconta che proprio in quel periodo S. Agostino sia apparso miracolosamente a un gruppo di pellegrini, in cammino verso Roma, nei pressi di Cava, vestito con abiti papali, pronunciando il suo nome e diffondendo una luce incredibile, che lasciò sbigottiti.

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CAVA MANARA – antiche leggende su TORRE DE' TORTI Tra i fiumi Po e Ticino si stende un territorio ricco di insediamenti abitati, legati alla presenza dei cavalieri Templari. In località Torre de' Torti (frazione di Cava Manara) si trova una grande cascina, un tempo convento, dedicato a Santa Maria e dipendente dal monastero di Santa Teodote in Pavia; in questa zona, nell’antichità, pare si celebrassero i riti dei Celti; infatti proprio qui sembra sia stato trovato un pozzo pieno di resti ossei umani e ciò ha portato alla nascita di molte leggende. Una di queste racconta che, a volte, dalle aperture del cascinale esce una palla infuocata che compie ampi giri sui campi lì intorno, quindi raggiunge le rive del fiume, mentre si svolge un combattimento tra i fantasmi di due cavalieri. Si narra anche dell’esistenza di un tunnel sotterraneo, che parte dalle cantine del cascinale ed arriva alla cascina dei Frati e alla cascina Caselle, un tempo luogo di sosta dei cavalieri Templari. Altre leggende raccontano di 4 cripte sotterranee, sovrapposte fra loro, che conducono, attraverso un passaggio segreto, ad un oscuro pozzo.

CHIGNOLO PO Il toponimo, che corrisponde forse a Cugnolum di un documento medioevale, deriva dalla voce lombarda chignòeu (dal latino cuneulus“piccolo cuneo”), nel significato di “punta di terra fra fiumi.” Origine del burattino Guignol La più grande piazza del paese di é intitolata a Guignol. Tra il Cinquecento e il Seicento, ci fu una emigrazione di lavoratori della seta, dall'Italia settentrionale verso la Francia e, in particolare, verso Lione, quando Francesco I, nel XVI sec. invitava e reclutava i tessitori; molti artigiani partirono da Como, Bergamo e anche da Chignolo Po. I Chignolesi conservarono però le loro tradizioni in Francia, dove si divertivano rappresentando commedie, dopo giornate di lavoro. Uno dei personaggi era un pupazzo con la testa di legno, che avevano portato dal loro paese. Qualche tempo dopo, nel 1808, Laurent Mourguet impiantò a Lione un teatrino di burattini in cui il primattore si chiamava proprio Guignol; questa maschera/burattino assomigliava moltissimo a uno dei personaggi dei teatrini dei setaioli chignolesi, chiamati “les chignoles” e il famoso Guignol ha pertanto radici chignolesi. Nel settembre 1981 una delegazione lionese suggellò il rientro in patria del burattino, con una visita ufficiale a Chignolo Po. La piazza principale del paese venne ribattezzata “Guignol”. Nel 2006, per ricordare il 25° anniversario del rientro a Chignolo, è stata organizzata una grande festa, con la sfilata di 5 grandi pupazzi per le vie del paese. Nel municipio è ospitata la Casa Guignol, testimonianza delle tradizioni. Il museo lombardo del vino Da alcuni anni il castello di Chignolo Po, di origini trecentesche, ma rimaneggiato nel secolo XVI e ristrutturato nel XVIII, quando divenne la residenza di campagna dal cardinale Agostino Cusani, vescovo di Pavia, ospita il Museo Lombardo del Vino. Nelle dodici sale, allestite nelle cantine, si possono osservare antichi attrezzi e oggetti riguardanti la vitivinicoltura, notizie sulle zone di produzione lombarda (Oltrepò, Bresciano, Riviera del Garda, Mantovano, Franciacorta …), con ricchezza di materiale documentario e fotografico; in una enoteca sono raccolti i pregiati vini DOC ed un’altra sala, dedicata alla gastronomia, mostra gli abbinamenti tra cibi e vino.

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Bertoldo di Codevilla Da caput (capo), forse l’inizio del borgo e villae (vicus, podere, villaggio). In età longobarda è ambientata una curiosa leggenda: del Bertoldo nostrano. Essa ritiene che lo spiritoso contadino sia di Codevilla o meglio della località Casa Bertuggia, vicina a Mondondone e a . Nella sua casa si sarebbe recato più volte il re Alboino, durante i tre anni d’assedio di Pavia (569-572). La diceria, col tempo, è divenuta leggenda.

COPIANO

Anticamente Cuplano, dal latino Cop(p)ius, con l’errata trasformazione di “pi in pl”. Appartenne al feudo di Corteolona fino al 1622, quindi passò a D. Salerno, ad A. Omodei e infine a G. B. Modignani nel 1717. CORTEOLONA

Fondato dal re longobardo Liutprando nel sec. VIII come Curtis Regia, conservò tale nome con i re carolingi, che spesso vi tennero le assemblee del regno italiano e vi promulgarono i loro capitolari. In dialetto Curtlòna, è un composto di corte (dal latino Curtis,”fattoria rurale”ma anche” beni di un signore e del re”) e di , il fiume che lambisce il paese. Personaggi illustri P. Maffi, cardinale; C. Rossella, giornalista. Gli anodonti La roggia Castellara è un grosso fosso che riceve acqua da un ramo del fiume Olona, in seguito ad uno sbarramento (detto Travacca), a monte di Corteolona. Essa è opera antica di monaci, che la scavarono nel 1471, per bonificare le paludi della valle dell'Olona, in modo da convogliarvi le acque stagnanti e malariche che furono poi distribuite sui terreni circostanti, irrigandoli, fertilizzandoli e permettendo una resa migliore. Grazie a loro, Corteolona ha potuto servirsi in modo intelligente di una preziosa risorsa per risaie, vigneti, marcite e mulini. Nel novembre 1994 l'alluvione del Po, che devastò le province di Alessandria e Pavia, risparmiò Corteolona, ma le acque tumultuose del fiume in piena finirono nella roggia, portandovi gli anodonti, molluschi bivalvi d'acqua d'olce. (I Cinesi da sempre usano le loro conchiglie per i cammei; mettendo un piccolo oggetto tra la conchiglia e il mantello, nel giro di un anno esso viene ricoperto da madreperla.)

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COSTA DE’ NOBILI

I1 cognome Nobili deriva da una famiglia pavese (prima era Costa degli Scanati, dal nome di una famiglia che governò nel Medioevo e poi, fino al 1863 era Costa San Zenone). Il nome Costa dal latino costa ”costa, costola, fianco”, indica geograficamente “le falde e le dorsali dei monti “o in pianura “le leggere ondulazioni lungo il corso dei fiumi”. Il paese sorge in realtà su un’altura. Dal 1475 alla fine del 1700 fece parte del feudo di Belgioioso, appartenente ai Barbiano.

CURA CARPIGNANO

Prima era Carpignano, nel 1863 fu prima Cava Carpignano e poi . Dal lombardo cura (luogo in cui si curano ed imbiancano le tele) e da carpignano (fondo rustico), dal latino Carpinius; nel Medioevo appartenne all’ospedale di S. Lazzaro di Pavia. Un paese diviso in due Prado, frazione di Cura C. è diviso in due da una strada: a sinistra è territorio di Pavia, a destra di Cura. Nel parco di Villa Imbaldi c’è invece un albero enorme, un “ginkgo biloba”, l’albero della vita, di oltre 300 anni; famoso per le sue proprietà benefiche, si ritiene che le sue foglie, messe sotto il cuscino, garantiscano una lunga vita. Il sasso del tesoro Alla frazione Prado - “Prai” di Cura Carpignano, molto tempo fa, lungo la strada proveniente da Pavia c’era un enorme sasso, con una scritta: “Gran tesoro troverà chi mi rivolterà.” Molti provarono a sollevarlo in tutti i modi, con leve e con altri mezzi, ma non ci fu niente da fare, il masso non si spostava. Fu convocata anche un’assemblea di capifamiglia, che decisero di unire gli sforzi, così installarono impalcature e argani e, davanti alla folla, accorsa anche dai paesi vicini, per assistere all’evento, finalmente il sasso si capovolse ma, sotto ad esso fu trovata un’altra scritta: “Grazie per avermi rivoltato!”

FILIGHERA

Da filicaria (dal latino filex o felex-felce), appartenne al vicariato di Belgioioso, passò poi agli Sforza, agli Este e quindi ai Barbiano nel 1536. Ha due elementi caratteristici: l’arco settecentesco, l’purtòn, cioè l’ingresso al paese per chi arriva da Belgioioso e la chiesa dei Santi Giuseppe ed Ambrogio, del 1500, che ha la fronte rivolta a sud e non a ovest, come le altre chiese; sul campanile, costruito nel 1718 c’è un bassorilievo con una curiosa immagine: una graziosa ragazza, sorridente. Per questo è “al pais dla Bèla Ridòn.”

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Dal romano carus o carrulus, modificato nel Medioevo; nel 981 fu dato dall’imperatore Ottone al monastero di S. Salvatore in Pavia; passò ai Visconti e poi ai Castiglioni nel 1436. Nei pressi del santuario della Madonna delle Bozzole, poco lontano da Garlasco, sorgeva la leggendaria Antona, dove nel 218 a. C. avvenne la battaglia tra Cartaginesi e Romani. Qui esisteva una necropoli gallica e vi sorse poi un accampamento romano; infatti sono stati trovati, in scavi effettuati nel 1938, anfore, urne, monete, oggetti di origine gallica e romana. Si parla anche di una sorgente di acqua miracolosa. Personaggi illustri: Ron, cantante. La Bozzola e i suoi caragnòn La zona in cui sorge il santuario della Madonna della Bozzola era ricoperta di piante di biancospino, in dialetto lomellino bòsla. Dopo il primo concilio di Nicea (365) fu costruita una cappellina con l’immagine della Madonna. Nel 1460 il pittore Agostino da Pavia (chiamato per affrescare la cappella del castello di Garlasco) attraversando il Ticino, si trovò in un mulinello (uno di quei gorghi, tipici del fiume, simile ad un imbuto, che inghiotte lo sfortunato) e si salvò miracolosamente; giunto a riva, si riparò da un improvviso temporale sotto la cappellina e promise un affresco alla Vergine, che ancora oggi è venerata nel santuario. La prima domenica di settembre del 1465, una bambina tredicenne sordomuta, di nome Maria, mentre pascolava il gregge nei pressi della cappella, vide apparire sopra un cespuglio di biancospino la Madonna, che le disse:- Voglio qui un santuario. Saranno tante le grazie! La giovane, col nome di Benedetta, entrò in un ordine di clausura e fu iniziata la costruzione del santuario che nel Seicento, per l’affluenza dei pellegrini, fu ampliato. All’interno del santuario l’immagine della Madonna è circondata dai cärägnòn d’lä Bòslä, statue di legno del secolo XVIII, che rappresentano penitenti e dolenti (piagnucoloni). Il santuario è meta di migliaia di pellegrini, soprattutto il Lunedì dell’Angelo (Pasquetta).

GENZONE

Dal nome germanico Geno poi Genzo (in dialetto Gensòn), o dal latino Gentio. Importante nel Medioevo perché vicino ai confini orientali di Pavia, venne fortificato; appartenne a vari monasteri e nel 1431 passò ai Barbiano di Belgioioso, ad altre casate e tornò a loro nel 1536.

GODIASCO

Era Godiliasco nel XIII, deriva forse dal latino Gaudellius o Gaudius. Edoardo II morì in Oltrepò? A Godiasco c’è un mistero medievale: Re Edoardo II d’Inghilterra è stato davvero ucciso nel

12 castello di Berkley in Inghilterra nel 1327 o si trova nell’eremo di Sant’Alberto di Butrio? Una targa segna l’eremo come primo luogo di sepoltura del re e per gli abitanti della valle è una verità, mentre per il mondo inglese Edoardo II è morto a Berkley. L’associazione culturale “Il mondo di Tels” attraverso l’archivio Malaspina, recentemente acquistato dal Comune di Godiasco, si pone l’obiettivo di trovare una traccia con un pool di storici e scienziati per confermare la tesi italiana. Un romanzo “Towards Auramala” di Ivan Fowler, narra la seconda vita di Edoardo in Valle !

Da groppo, “altura, dosso”, nel 1888 è diventato Gropello Cairoli, per ricordare i fratelli Cairoli, originari del paese e qui sepolti. Appartenne nel X sec. ai , dal 1355 ai Beccaria e poi ai Visconti. I 5 fratelli Cairoli, figli di un chirurgo, parteciparono alle guerre d’indipendenza; 3 morirono per ferite, uno per tifo e Benedetto, ferito durante la spedizione dei Mille, si salvò e divenne deputato del Parlamento e poi 1° ministro nel 1871; in quell’anno salvò anche il re Umberto I dall’attentato di un anarchico, rimanendo ferito. Personaggi illustri I fratelli Cairoli, patrioti; C. Cantoni, filosofo; L. Beccari, vescovo e santo. INVERNO

Pare che il suo primo nome fosse Ivern, indicante persona, di origine germanica, o derivante da castra hiberna, di origine latina. Nel Medioevo appartenne ai Cavalieri di Malta, fino al 1786. La croce dello stemma comunale è proprio quella di Malta. Quando nel 1113 il Papa Pasquale approvò l’ordine religioso-militare di S. Giovanni di Gerusalemme, i frati cavalieri cercarono un luogo dove sistemarsi e lo trovarono qui, ottenendolo dall’abbazia di Chiaravalle, in cambio di un’altra cascina. I frati aiutarono la popolazione locale, i poveri, i pellegrini e solo più tardi il loro ordine diventò quello dei Cavalieri di Malta.

LANDRIANO

Forse da Andriano; nel 1004 l’imperatore Enrico vi tenne una riunione e nel 1061 qui avvenne una battaglia tra Pavesi e Milanesi; i signori locali ne presero il nome e la signoria fu confermata nel 1329. Il fantasma del castello "Il castello di sorge su un isolotto circondato da un torrente; sembra infestato dal

13 fantasma di una donna, Janet, che inizialmente si presenta e si comporta con naturalezza ma poi mostra il suo lato inquietante, in grado di provocare uno stato di trance, finché assume il completo controllo del corpo della persona su cui ha posato gli occhi. E' un fantasma che si muove continuamente per non farsi individuare. Quando si fa buio, a volte, il suo spettro si manifesta; emette un suono simile ed un canto o ad un lamento di donna, poi si materializza, mostrando il suo viso nel portone d’ingresso o una figura confusa nelle finestre della facciata frontale dell’edificio. "Janet era una donna vissuta alla fine del 1500, condannata al rogo per stregoneria e giustiziata proprio nella piazza davanti al castello.

LARDIRAGO

Il castello In dialetto Lardirà dal nome Lardarius. Il castello di , del secolo XIV, subì diversi rifacimenti, intorno alle sue mura dove si sviluppò il borgo. Appartenne a San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia; poi al collegio Ghislieri di Pavia. Il sacrificio di Isabetta Isabetta De Rizzi Trivulzio, vissuta nel 1500, era la giovane e bellissima figlia naturale della contessa Isabetta e del condottiero Gian Giacomo Trivulzio che, impegnato a combattere non conobbe mai la figlia. La madre diede la bambina in adozione ai De Rizzi, facoltosa famiglia che la crebbero come loro figlia ed ella diventò bella, intelligente e generosa. Si innamorò, ma un giorno un soldato francese tentò di violentarla e, sentendo le sue grida di aiuto, il padre accorse, ma il bruto lo uccise. Richiamati dal suono delle campane giunsero degli uomini e il francese fu linciato; la fanciulla, gravemente ferita, morì. La notizia del linciaggio di un suo militare scatenò l’ira di Gian Giacomo il quale inviò i soldati che misero a ferro e fuoco il paese, uccidendo anche l’innamorato di Isabetta. Il condottiero, saputo della morte di quella figlia mai conosciuta, si disperò e lasciò il comando delle truppe del re di Francia (così raccontano). In realtà egli conservò il suo incarico fino alla morte.

In dialetto Linarò, deriva da linum, per le coltivazioni di questa pianta, la cui zona di produzione era detta Linaria, mentre Urticaria, per l’abbondanza di ortiche, era detta la zona a nord; Toxicaria la zona a sud, per le erbe velenose e Porcaria, dove si allevavano i maiali, la località verso Pavia.

14 Sono stati ritrovati reperti romani, a testimonianza della sua antica origine. Nel XIII sec. il castello fu dato ai Cane che, nel 1380 lo donarono all’ospedale di Pavia e poi fu acquistato dai Beccaria nel 1400. Situato sulla Via Francigena, il paese è citato da Gian Galeazzo Visconti che consiglia, agli ammalati in viaggio, il ricovero presso l’ospedale di Ospitaletto di Linarolo. Il Cristo di Vaccarizza Vaccarizza, frazione del comune di Linarolo, non dista molto dal fiume Po, il cui letto, in passato scorreva più vicino all’abitato. Murato all’esterno di una casa privata, vi è un bassorilievo in arenaria che si fa risalire ai secoli XI-XII e rappresenta un Cristo in croce, ai piedi del quale stanno la Vergine e San Giovanni. Secondo una leggenda, in occasione di uno straripamento del fiume, l’acqua giunse a lambire quel bassorilievo e il Cristo piegò le ginocchia per evitare di bagnarsi. In quel momento l’acqua cessò di salire, ritirandosi piano piano.

MAGHERNO

Da maternus o maerno; la sua storia è legata a quella degli altri paesi sorti intorno alla riva destra del fiume Lambro; appartenne al feudo di , possesso del monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro di Pavia. (al centro della guerra) Magherno ha antiche origini: sorse dove esisteva un accampamento romano; la leggenda motiva il nome della “Via Borgo Oleario” con la costante presenza, nella zona, di eserciti e soldataglie di varia origine e provenienza, che facevano largo consumo di olio a scopo alimentare e bellico. Versavano sulla testa dei nemici, dall’alto delle mura, olio bollente; l’olio era usato per la manutenzione delle armi o per il corpo, sia a scopo estetico che per proteggersi dal freddo. La “Via Spadari” deriverebbe dalla partecipazione all’assedio di Pavia (1524-1525) dei feroci lanzichenecchi, soldati tedeschi, abili nell’uso delle spade. La forma di formaggio Un certo Pietro tornava, una sera di tanti anni fa, verso casa, dopo aver trascorso la serata in un’osteria di Villanterio, dove aveva alzato un po’ il gomito e…scorse nelle acque della Colombana, un’intera forma di formaggio, illuminata dalla luna piena; trovata una rete da pesca, tentò di recuperare quel ben di Dio ma, nonostante gli sforzi non riuscì a prenderla. Altri, attirati dal rumore, si unirono a lui per recuperare il formaggio, che all’improvviso sparì, con l’arrivo di una nuvola che coprì la luna. Restarono tutti stupiti, senza capire dove fosse finito il formaggio, per questo i maghernini sono i pescatori di formaggio.

MIRADOLO TERME

E’ citato in un documento nel 1034; era Miradolo fino al 1938 (Miradò), da miratorium, mirare (belvedere), per la bella posizione, sulle colline di S. Colombano e Terme indica il luogo famoso per le sue acque, in grado di curare sinusiti, bronchiti, reumatismi, problemi dermatologici….. Sono stati ritrovati reperti celtici e romani, testimonianza delle antiche origini. Dal 1431 passò ai Barbiano di Belgioioso. Personaggi illustri V. Scotti (Gerry), conduttore televisivo; M. Ardemagni, calciatore; A. Radius, cantante.

15 Un antico mare Un tempo il mare ricopriva questa zona, come testimoniano le conchiglie marine ritrovate in alcuni terreni sabbiosi; (furono probabilmente movimenti tellurici di tipo vulcanico a provocarne la scomparsa) per questo motivo le falde acquifere sono salmastre ed hanno proprietà curative. Le terme erano dette Saline ed anche studiosi di fama, come Andrea Volta analizzarono le acque di Miradolo. MONTEBELLO

Il nome Montebello ricorda un certo Pietro Bello Bisnato, che nel 1194 vi avrebbe fondato una chiesa. Il paese appartenne nell'Alto Medioevo a signori locali, dai quali fu donato al Vescovo di Piacenza e a lui fu tolto nel 1164 da Federico Barbarossa che lo assegnò alla Comunità Pavese. Nel 1172 vi fu sconfitto il marchese del Monferrato dalle forze della Lega Lombarda. Filippo Maria Visconti lo assegnò nel 1412 a Castellino Beccaria, al cui casato rimase fino al 1591. Per tutto il XVII sec. fu un susseguirsi di feudatari spagnoli; dopo il 1700 Montebello seguì le vicende dell'intero Oltrepò. Il luogo è legato a due battaglie, la prima combattuta il 9 giugno 1800 e vinta dai Francesi contro gli Austriaci, la seconda, del 20 maggio 1859, vinta dai Franco-Piemontesi, sempre contro gli Austriaci.

Si chiamava Giovanni, la piccola vedetta lombarda Il monumento ai caduti della battaglia di Montebello, viene commemorato ogni anno; é trascorso più di un secolo e mezzo dall'evento bellico che aprì la Seconda Guerra d'Indipendenza. Montebello fu infatti la prima vittoria dei Franco-Piemontesi sull'armata austriaca. Un episodio, il cui protagonista è un coraggioso ragazzo, è legato alla battaglia di Montebello.

PICCOLA VEDETTA TRA VERITA' E FALSO STORICO “Nel 1859, pochi giorni dopo la battaglia di Solferino e San Martino...”.comincia così il racconto di De Amicis, tratto dal libro Cuore, della Piccola vedetta lombarda, che sembra togliere ogni dubbio sulla collocazione dell'episodio, nell'ambito della battaglia di Montebello. Nelle campagne di Montebello gli eserciti Austriaco e Franco-Piemontese erano schierati, il 20 maggio 1859, per la battaglia, che si svolse a colpi di fucili e palle di cannoni; l'armata austriaca, agli ordini del maresciallo Gyulay avanzò verso Casteggio, quasi un mese dopo l'ultimatum di Vienna al Regno di Sardegna e l’aggressione dell’Austria al Piemonte, che portò all’intervento francese. Un bambino di 12 anni, arruolato dai soldati francesi e italiani per segnalare i movimenti dei nemici, che si era arrampicato su una pianta tra Campoferro e Montebello, in Oltrepò Pavese, venne colpito in pieno petto da una palla di fucile sparata da un cecchino austriaco, diventando così il primo eroe della Lombardia libera: la piccola vedetta lombarda, la cui storia è stata raccontata nel libro Cuore, da Edmondo De Amicis; oggi quel ragazzo ha un nome. Secondo due storici, Daniele Salarno e Fabrizio Bernini, il bambino orfano e contadino, sarebbe Giovanni Minoli, nato il 23 luglio del 1847, il cui nome sarebbe stato ritrovato in un archivio a Milano. La famiglia adottiva della piccola vedetta lombarda abitava a poche decine di metri dall’albero su cui era salito. Il bambino, ferito nelle prime ore della battaglia e ricoverato in ospedale, morì nel dicembre del 1859, circondato da soldati francesi e italiani, all'ospedale di . I medici lo

16 curarono per sette mesi per problemi polmonari causati da un colpo di fucile. Della piccola vedetta lombarda, però, non esiste una tomba. È probabile che le sue ossa siano finite in qualche ossario. L'albero della Piccola Vedetta Lombarda è un pioppo (o un frassino) ancora oggi presente a fianco della tangenziale Voghera-Casteggio, che da 150 anni la gente riconosce come l'albero di De Amicis. La battaglia violentissima provocò quasi 2500 vittime, tra morti e feriti; fu combattuta tra Voghera, Casteggio e Montebello tra i Franco-Piemontesi, guidati dall'imperatore Napoleone III e da Vittorio Emanuele II, che si contrapposero ai 30.000 uomini mandati in Oltrepò dall'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Il parroco di Montebello fu costretto a seppellire più di 400 soldati. Gli Austriaci persero tempo prezioso, si ritirarono da Vercelli, facendo saltare il ponte sulla ferrovia e il giorno dopo conversero in tre colonne sull’Oltrepò Pavese, verso il Lombardo-Veneto; una si diresse verso Stradella in direzione Casteggio e si scontrò con la divisione francese del generale Forey, con la cavalleria piemontese, i reggimenti Aosta e Novara e i cavalleggeri del Monferrato; dopo vari assalti, i soldati di Gyulay furono cacciati. Anche Broni e Stradella furono occupate, con l’eccidio di ben 5 membri della famiglia Cignoli. L'episodio della piccola vedetta lombarda venne raccontato a De Amicis, spesso ospite, a Codevilla, di una famiglia nobile. Il monumento ai caduti della battaglia di Montebello viene commemorato ogni anno. L'ossario di Montebello, dove riposano i resti dei 440 caduti (331 Austriaci e 109 Franco- Piemontesi) si trova a un paio di chilometri dall'epicentro della battaglia ed i luoghi non sono cambiati molto da allora; c'è sempre la strada (adesso, ovviamente, asfaltata) che lambisce le colline e c’è la chiesetta di Santa Maria di Loreto.

MONTESCANO

Composto da monte e scagn, scan, (scannon “convalle”), appartenne al territorio della Versa, fu poi del marchese Ugo d’Este nel 1029 e unito al feudo di Broni. In località Villa Fiorita sorge un centro per la riabilitazione cardiologica, pneumologica e per la rieducazione funzionale, intitolato al fondatore, professore Salvatore Maugeri; dispone di 242 posti letto ed è un fiore all’ occhiello dell’ Oltrepò e dell’ intera provincia.

MONTICELLI PAVESE

Il toponimo è un evidente diminutivo di monte. Il paese, un tempo alla destra del Po, dopo le deviazioni artificiali del fiume, realizzate fra il 1466 e il 1476, si ritrovò sulla sponda sinistra. La festa della patata Sulla piazza di Monticelli, dopo le 20,30 di una qualsiasi sera dell'ultima settimana d'agosto, si svolge la festa della patata! Il suo uso è molto diffuso nella zona; coltivata negli orti e cucinata in mille ricette, la patata delizia il palato e riempie la pancia; le fette di patata servono anche come calmante per i rossori e i pruriti cutanei, per gli occhi irritati e per la pulizia dei denti, mentre l'acqua di cottura è ideale per la pulizia degli oggetti d'argento. Nella piazza di Monticelli sono tutti invitati, per l’ultima settimana d’agosto, a gustare le deliziose ricette preparate dai volontari del paese. 17

MONTU’ BECCARIA

In epoca medioevale era Mons Acutus Beccariarum, monte acuto, mentre Beccaria è nome di casato. Montacuto fece parte del feudo di Valle Versa; pervenuto nel XII sec. ai Beccaria, nel 1216 subì la distruzione del castello a opera dei Piacentini. Ai Beccaria rimase fino al 1591, quando passò ai Salimbene.

MORTARA

Centro di origine gallica, fu poi fortificato dai Romani, come Mortaria, stagno. L’oca è l’animale simbolo che da il nome alla sagra del paese. Famoso è il salame d’oca, ma anche il palio dell’oca o il gioco dell’oca con pedine umane o la sfilata in costume per ricordare gli Sforza. L’altare dei morti Durante la dominazione longobarda Mortara era Pulchra Silva (Silvabella) per i boschi ricchi di selvaggina, poi una strage modificò il nome in Mortis Ara “Altare della morte”. Nel secolo VII i Longobardi, guidati dal re Desiderio, erano minacciati dal re franco Carlo Magno. Un attacco franco fermò i longobardi, nella località Pulchra Silva. La battaglia infuriò per l’intera giornata. Si dice che rimasero morti sul terreno 32.000 Franchi e 44.000 Longobardi, oltre a moltissimi feriti. Del combattimento non sono mai state trovate tracce. Si racconta anche che Carlo Magno perse due suoi valorosi paladini, in quella battaglia: Amelio d’Alvernia e Amico di Beyre e che, talmente addolorato, abbia cambiato il nome della città, ordinando di seppellire i due cavalieri in un monastero, che fu poi l’abbazia di Sant’Albino, costruito vicino a Mortara. Ai due martiri fu reso omaggio dai pellegrini che passavano da Mortara nel viaggio verso Roma o Gerusalemme, sulla Via Francigena.

Questo paese nacque nel 1058, nel XII secolo era Pairona dal nome Pario o dal latino Parius, o dal personale Parrona, Parronius.

18 Il dolce tipico: le offelle

L’offella è il dolce lomellino: è un biscotto ovale, messo per la prima volta in forno nel 1849. Pietro Colli e Francesca Panzarasa accolsero nella loro osteria i soldati di Re Carlo Alberto, prima dello sfortunato scontro, vicino a Mortara, durante la 1^ guerra d’indipendenza; si rifocillarono nella loro osteria, con frittata e rane, polenta, vino di San Quirico e i prelibati dolci. La ricetta delle offelle rimase segreta fino alla morte delle figlie, che non avevano rivelato la ricetta del dolce neppure a Pietro Guglielmone, l’industriale dolciario di Mortara, nonostante la fame, la miseria, le difficoltà per un fratello cieco. Inizialmente le offelle venivano prodotte in quantità limitate e vendute a numero, anziché a peso, tanto erano preziose. Il lancio commerciale del dolce arrivò, dal 1969 in occasione della sagra dedicata a questo prodotto. La Pro loco ne tutela il marchio.

PIEVE PORTO MORONE

Centro agricolo e industriale, Pieve Porto Morone, si trova sulla riva sinistra del Po, grande fiume (il più lungo d’Italia: 652 km.) che è sempre stato il protagonista della storia del paese, a una trentina di km a sud-est del capoluogo, Pavia. Il nome di Pieve Porto Morone, di origine fluviale, (indica lo stretto legame che il paese aveva con il fiume), ricorda il Porto o passaggio che fino al 7° o 8° secolo era stato stabilito sul Po (punto di approdo e imbarco per il trasporto delle merci che viaggiavano sulla via Emilia e sul fiume Po), lungo la strada Francigena e sugli itinerari dei traffici commerciali. Il ponte di barche, che ancora oggi compare sulla stemma comunale, collega Pieve a , nel piacentino. Non è improbabile che il distintivo Morone (Moronus, Moronis, Moronius) gli sia stato aggiunto per qualche grosso gelso o morone (morus, in latino; “Muròn”, in dialetto) che sorgeva vicino al porto stesso e serviva come insegna a chi voleva traghettare sull'altra riva o alle navi che dovevano farvi sosta per gli scambi; la pianta di gelso era molto diffusa a quel tempo in zona perché serviva, oltre che a delimitare i confini di proprietà, anche ad alimentare i bachi da seta. Nell’antichità Porto Morone era probabilmente una colonia romana, come attestano i ritrovamenti archeologici del II sec. d.C. Appare con il nome di Plebs Porti Moronus in un documento del 1176, dell'imperatore Federico I. Alla primitiva denominazione di Porto Morone fu quindi unito il titolo di Pieve, Parrocchia Plebana (Plebs). Fu signoria dei Conti Rovescala dal 1228; nel XIV secolo passò ai Visconti e poi agli Sforza; nel XV secolo fu incluso nel Vicariato di Belgioioso. Passò sotto il dominio dei Francesi e degli Austriaci, infine confluì nel 1859 nel Regno d’Italia (1860). Numerose sono state le inondazioni del Po; secondo lo storico Terzo Cerri, dal 1157 al 1830, ben 31; nell’ultimo secolo ricordiamo le alluvioni del 1951, 1994 e 2000. Personaggi illustri Clemente Canepari: ciclista Ambrogio Pelagalli: ex-calciatore

19 La “Crus”- Il Crocifisso – simbolo di Pieve Una volta, nel centro della piazza S.Vittore, sorgeva una croce, retta da una colonna di granito, su una base di mattoni; ad essa i Pievesi erano molto affezionati. Un giorno, un camion, in retromarcia, andò a sbattere contro la Croce; la colonna in mattoni finì a terra, completamente distrutta, mentre la croce e la colonna in granito che la reggeva, parzialmente salvate, furono parcheggiate nel cortile della parrocchia: era il 21 aprile 1964 Dopo quel giorno si incominciò a discutere se rimettere la Croce o no, ma non se ne fece nulla per anni. I Pievesi erano tristi perchè la croce era diventata un monumento importante e spesso la ricordavano, finché qualcuno pensò di ripristinarla, ma in un luogo diverso. Oggi, dopo molti anni, il famoso crocifisso, rimasto per anni abbandonato in un deposito, è tornato alla luce, è stato risistemato dal Comune ed è situato nel piazzale della chiesa, dal maggio 2009, dove tutti lo possono ammirare. La colonna in granito è posta su una base che riporta due scritte: una ricorda l’abbattimento del 1964 e l’altra la benedizione inaugurale del Vescovo, in occasione della Fiera del 17 maggio 2009. La “CRUS” è un simbolo del paese, è un monumento storico e i Pievesi sono contenti di rivederla sistemata. Perché era stata costruita quella croce, proprio sulla piazza del paese? Forse fu innalzata al tempo della famosa peste di S. Carlo o forse era ancora più antica, eretta contro il pericolo delle alluvioni, assai frequenti in zona. Non pare che sia stata sempre al medesimo posto o che sia la stessa del 1181, ma è accertato che una croce è sempre stata sulla piazza, in mezzo al paese, finché è stata abbattuta da un maldestro camionista. Il porto e il gelso o “muron” Il paese deve il suo nome all’esistenza di un porto, di rilevante importanza, per i collegamenti tra Pieve e Castel San Giovanni, nel Piacentino; già i Romani avevano un porto sul Po e un pontone galleggiante, contrassegnato dalla presenza di un grande gelso, in dialetto “mùron”che avrebbe dato il nome al borgo. Ancora oggi, lungo i campi di Pieve esistono i “muron”, non più così abbondanti come un tempo, ma si riconoscono per le loro chiome verdi, rigogliose e tondeggianti; in estate i ragazzi mangiano i loro frutti, rossi e neri, buoni, dolciastri ed appicicaticci. San Vittore Martire La Chiesa Parrocchiale è dedicata a San Vittore Martire; la dedicazione a S. V. è precedente alla stessa venerazione della reliquia conservata a Pieve e già attestata nel 1322 da un documento, conservato nell’Archivio Vaticano. La reliquia del santo arrivò a Pieve probabilmente alla fine del XVII sec. e un documento parrocchiale del 4 maggio 1686 ne indica l’autenticità; si tratta di S. Vittore, martirizzato a Milano durante l’impero di Massimiliano, estratto però dal cimitero Ciriaco a Roma. C’è stata una confusione tra due santi “Vittore”, uno milanese ed uno romano. Molti sacerdoti hanno celebrato la festa di S. Vittore, riferendosi al santo di Milano ma…il S. V. presente a Pieve è un martire di Roma; non c’è identità tra il S. V. a cui è dedicata la chiesa e il S. V. di cui si venera la reliquia: la testa di S. Vittore, conservata nella chiesa di Pieve, è comunque una testimonianza autentica di fede. Il drago …il drago usciva alla sera e l'acqua diventava rosso sangue… Pieve era un paese della vallata del fiume Po, circondato da immense distese di boschi, vere foreste con alberi secolari, percorsi raramente da sentieri, transitabili solo da carri trainati da buoi. Il fiume allagava spesso queste zone lacustri, lasciando poi, quando si ritirava, delle buche piene d’acqua e di pesci, dove giovani ed anziani si recavano per pescare. Uno di questi stagni “fupon” (in dialetto pavese) era: “la buca a d'l'inferan” in pratica lo “stagno dell'inferno”, perchè si colorava di rosso sangue. La leggenda tramandata raccontava che di notte un “drago”, che dormiva nei fondali dello stagno, usciva per divorare le incaute prede che trovavano riparo sulla riva, essendo un luogo naturalmente sicuro, …. ma non era così. Al mattino, la carneficina notturna lasciava lo stagno intriso di un “rosso sangue” impressionante, 20 in modo particolare nelle giornate temporalesche. Quando la pesca era necessità, i ragazzi si recavano a pescare con le canne nei vari stagni della zona, ma mai in quello della “buca a d'l'inferan” perchè la leggenda tramandata incuteva timore. Questo stagno oggi è “lo stagno di Capelli” e si trova ormai in aperta campagna, circondato da campi di riso e granoturco. Per arrivarci, basta prendere dalla Piazza San Vittore, via della Vittoria, proseguire sempre dritto, lasciare la strada asfaltata, prendere quella sterrata costeggiando il fosso “Bedo” e prima di arrivare all'arginella; lo noterete ben tenuto e recintato, a sinistra. Oggi il color rosso sangue non c’è più, ma i ragazzi degli “anni quaranta” lo ricordano benissimo!

ROMAGNESE

E’ attestato, nei secoli X-XI, come Romanise, forse derivato dalla famiglia Romanius. Appartiene al feudo di , passò all’abbazia di S. Colombano di e poi ai Dal Verme. È famoso il Giardino Botanico Alpino di Pietra Corva. I sassi neri Era l'anno 614, Colombano, un vecchio monaco irlandese, decise di mettersi in viaggio per diffondere il cristianesimo in Europa e arrivò fino a Bobbio. Lungo il sentiero che da Romagnese porta alla Pietra del Corvo, si imbatté nel diavolo: aveva l’aspetto di un ometto magrolino, dai capelli rossi, il naso adunco e un sorriso astuto. Il sant’uomo lo riconobbe subito, ma non riuscì a scacciarlo e il demonio incominciò a tentarlo. “Torna indietro e ti darò la gloria, il potere e l'eternità. Tu sei un uomo, ma sarai come Dio!” Il monaco gli rispose: “Vattene! Non sono solo, Dio è con me e costruirò proprio vicino al fiume Trebbia un luogo santo ed i miei seguaci si moltiplicheranno come le stelle.” Il diavolo non riuscì a convincerlo in nessun modo e dovette desistere dal suo tentativo; quando, dalla Pietra del Corvo, vide le buone opere del Santo, preso dalla rabbia, raccolse le pietre scure lungo la riva del fiume e le lanciò verso la valle, per distruggere il santuario che Colombano stava costruendo. Il monaco, però, accortosi di quanto stava succedendo, alzò la mano destra, per fermare quelle pietre lanciate dal diavolo, che finirono nel luogo che ancora oggi è detto “Pietra del Corvo.” Salendo da Romagnese, si vedono dei grandi massi scuri: sono le “pietre di Satana” che gli abitanti della zona chiamano “sassi neri.” SAN GENESIO

È San Genesio fino al 1929 ed indica il S. patrono; Uniti indica i paesi aggiunti a questo Comune. Il castello fu distrutto da G.G. Visconti per far posto al parco del castello di Pavia, nel 1396.

Il patrono degli attori e dei mimi

Ci sono due santi con il nome di S. Genesio: il primo è il protettore dei notai; il secondo era un attore pagano, il quale inscenava la parodia dei cristiani, ridicolizzando le loro oscure cerimonie e i loro riti, suscitando l’ilarità del pubblico. L’imperatore Diocleziano, persecutore dei primi cristiani, 21 amava assistere alle sue esibizioni. Sembra anche che l’attore, in incognito, assistesse alle riunioni clandestine dei cristiani. Una sera la sua imitazione era perfetta e pregava con tanto impegno. Il pubblico era sbalordito, ma l’attore non stava recitando: pregava e celebrava veramente perché, illuminato dalla Grazia Divina, si era convertito. Al termine lo disse al pubblico, che insorse contro Genesio. L’imperatore Diocleziano, inferocito, lo fece arrestare, lo torturò e lo decapitò. Così il commediante diventò santo e patrono degli attori.

SAN MARTINO SICCOMARIO

Il nome ricorda il culto di S. Martino di Tours, ma patrono è la Madonna della neve; Siccomario richiama un nome germanico (Sichemari o Sigimario) del sec. VIII o IX, dato al territorio circostante. Fondato dai Romani, appartenne al feudo di e nel 1649 ai Beccaria, quindi a F. di Gattinara, ai Menocchio e ai Buglione.

SANNAZZARO DE’ BURGONDI

Deriva dal santo martire Nazario, condannato a morte, insieme con il compagno Celso, dal governatore di Milano per ordine dell’imperatore Nerone. Al martire è dedicata l’antica chiesa. Il secondo nome, Burgondi, risale alla popolazione barbarica dei Goti; Teodorico saccheggiò la facendo dei prigionieri che, portati in Francia e poi liberati grazie al vescovo di Pavia Epifanio, si stabilirono a Sannazzaro, così aggiunsero ”de’ Burgondi” ma, secondo un’altra versione, deriva dalla nobile famiglia pavese dei Sannazzaro, de’Bergonzi o de’Burgondi che, ricevuta l’investitura del feudo vi aggiunsero tale nome per distinguerlo da altre località omonime.

SAN PONZO ()

I miracoli della grotta

San Ponzo, noto come asceta, pare abitasse nelle grotte intorno all'omonimo borgo, in Val Staffora; figlio di un imperatore romano, si convertì al Cristianesimo, rifugiandosi in queste grotte per sfuggire alle persecuzioni. Scoperto dai pagani, fu decapitato e il suo corpo, conservato dai pochi seguaci, fu ritrovato nel Medioevo; fu poi dichiarato santo ed anche oggi è venerato nella zona. Si racconta di numerose guarigioni di malattie renali e di "prodigi" che si verificano dopo un complesso rito che vede l'ammalato passare attraverso uno stretto cunicolo, per poi restare coricato per qualche tempo a terra, in una delle grotte.

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Il paese prende il nome dal patrono, S. Cristina; Bissione o Bissone, dall'anno 1000, forse è un alterato di un nome latino Blassius o semplicemente deriva dal dialettale bissa, ''Biscia'' (o milò - milordo) di cui la zona era piena e spesso d’estate, anche oggi, i contadini ne vedono nelle campagne circostanti. S. Cristina apparteneva al feudo di Chignolo, passò nel 1600 agli Este e poi al Collegio Germanico Ungarico; Bissone era proprietà dei Borromeo/Visconti e poi dei Litta/Visconti/Arese. Una fanciulla virtuosa: Santa Cristina da Bolsena Santa Cristina deve il suo nome a un'abbazia benedettina, in passato potentissima, poiché sulla via Francigena. Si racconta che la bellissima giovinetta fu rinchiusa dal padre in una torre, insieme con dodici sue compagne poiché, convertitasi al cristianesimo, si rifiutò di sposare un pagano. Allora il padre la fece rinchiudere in prigione e flagellare, poi la consegnò ai giudici che la sottoposero a supplizi corporali. Ogni volta però tre angeli accorrevano a rincuorarla e a guarirle le ferite. Infine, con una pietra legata al collo, fu gettata nel lago; gli angeli sorressero la pietra, impedendo che Cristina annegasse. Il carnefice la uccise allora a colpi di lancia. Il museo contadino della “Bassa Pavese” Il museo contadino della Bassa Pavese di Santa Cristina e Bissone ricostruisce la realtà contadina del passato: mille attrezzi e più sono ordinati per tipologia d'attività: da taglio, da stalla, per la mungitura e la lavorazione del latte; per il lavoro dei campi: raccolta del foraggio, mietitura; gioghi, basti e finimenti per gli animali; attrezzi usati dai braccianti delle aree paludose e sono in mostra anche i mezzi agricoli da trasporto, il tutto in ampi spazi.

SANTA GIULETTA

Anticamente fu abitata dai Liguri e dai Galli e poi dai Romani; è’ formata da due nuclei: il castello e la villa, sorti intorno alla chiesa, dedicata a , di origine medioevale, da cui il nome del paese. S. Giuletta è venerata in parrocchia, ma il patrono è S. Colombano. Possesso di Piacenza, dal Barbarossa fu data al monastero di S. Pietro in Ciel d’oro di Pavia, nel 1164; passò al feudo di Broni, poi ai Beccaria, ai Porcara nel 1536, agli Isimbardi nel 1694 e ai Trotti. Il paese era noto per la produzione dei giocattoli e soprattutto delle bambole, alle quali è dedicato un museo. Personaggi illustri Quirino Cristini, creatore di cartoni animati. Le tagliatelle La zuppa alla pavese è una specialità culinaria le cui origini risalgono alla famosa battaglia di Pavia del 1525. Un’altra ricetta è però legata a una battaglia: il 19 maggio 1859 era una bellissima giornata primaverile. Il marchese Lorenzo Isimbardi era preoccupato, perché nella pianura sottostante il castello c’era un gran movimento di soldati: due eserciti, quello austriaco e quello franco- 23 piemontese, si preparavano alla battaglia di Montebello. Il marchese possedeva estese proprietà nella zona e, tornato da un giro a cavallo per rendersi conto della situazione, gli fu annunciata la visita di quattro ufficiali piemontesi, che stavano perlustrando la zona. Mentre il padrone di casa e i quattro ospiti stavano bevendo, giunsero due ufficiali austriaci, anch’essi in perlustrazione; grande fu l’imbarazzo! Il padrone di casa, per risolvere la situazione invitò tutti a colazione. In cucina, presi alla sprovvista, prepararono rapidamente qualche piatto, tra cui le tagliatelle alla Santa Giulietta, a base di lingua e prosciutto crudo, che furono molto apprezzate.

SANT’ALBERTO DI BUTRIO

Nell'abbazia di Sant'Alberto ci sono solo due tombe: in una si trova il corpo di Sant’Alberto e nell'altra c’è una scritta “Qui è la tomba dove fu sepolto Edoardo II re d’Inghilterra, che sposò Isabella di Francia e al quale successe il figlio Edoardo III”. Un re dell’Inghilterra medioevale tra i monti del nostro Appennino? E’strano! E non è citato in nessun testo storico. La storia ufficiale dice che, dopo la sua abdicazione in favore del figlio Edoardo III, Edoardo II fu rinchiuso nel castello di Berkeley, dove venne ucciso il 21 settembre 1327 e sepolto nel sontuoso monumento dell’abbazia di Gloucester, fatta costruire dal figlio. La storia non ufficiale racconta che fu fatto fuggire e, per parecchi anni, visse in abbazie e conventi, facendo vita da penitente, per redimersi dai suoi peccati; sembra che abbia trascorso due anni in un convento presso Acqui Terme, poi nel castello di , nell'Oltrepò ed infine a Sant'Alberto, dove morì e fu sepolto!!!.

SANTA MARGHERITA STAFFORA

Barbablu e il castello dei Malaspina Nel castello dei Malaspina, a Santa Margherita Staffora, la leggenda racconta che uno dei proprietari, emulo di Barbablù, si sia liberato di alcune mogli, buttandole del pozzo.

SANTA MARIA DELLA VERSA

Prima si chiamava Soriasco; nel 1863 ha assunto il nome attuale e Soriasco è rimasto ad una frazione; in dialetto è “la Madona” la zona dove sorge la chiesa parrocchiale, costruita sul luogo di un antico edificio campestre definito miracoloso. Versa è il nome del torrente, citato nel 1216, il cui nome indica “una curva o storta” o “acqua che si riversa”, da cui Versa, (dal latino vertere). Passata nel 1029 agli Este, fu distrutta nel 1216 dai Piacentini che ne rivendicavano il possesso; passò poi a Pavia e in seguito ai Visconti.

24 SAN ZENONE

Il nome, che risale al 1863, ricorda il santo patrono; appartenente a S. Colombano dal 1374, passò al feudo di Belgioioso nel 1475. La forma di formaggio Successe in un tempo lontano. Era una notte d'estate, serena, calda, afosa; la luna piena brillava nel cielo e due sanzenonesi si trovarono a chiacchierare sul ponte vecchio dell'Olona quando, vuoi per la stanchezza, vuoi per la pancia vuota, vuoi per un bicchierino di troppo all'osteria, scambiarono il riflesso della luna piena per una forma di formaggio che galleggiava sulle acque del fiume. I due non credevano ai loro occhi ma ma sì...era proprio una forma di formaggio, tonda, grossa. Che fortuna! Com'era finita in fondo al pozzo? Bisognava recuperarla a tutti i costi; perchè qualcuno l'aveva persa o forse nascosta proprio lì? Sembrava proprio che l'Olona impietosita, per i tempi di magra, volesse offrire la cena. Corsero subito a procurarsi una bilancia da pesca ed una volta ritornati, continuarono per tutta la notte a cercar di tirar su la forma. Ogni volta che tiravano su la bilancia, sembrava che il formaggio cadesse nella rete ma poi, come per magia, fuggiva. Arrivarono le luci dell'alba e la forma continuava a fuggire e lo stomaco brontolava per la fame, quando si accorsero che, con la luce solare che stava nascendo, il riflesso diventava quasi trasparente e la formaggia era solo la tonda immagine della luna piena, che si rifletteva nell'acqua. Ci restarono molto male quei due giovani, che tornarono a casa stanchi morti e, soprattutto, con la pancia vuota. Ancora di più restarono male nei giorni successivi, quando la storia si diffuse per il paese e divennero oggetto di derisione da parte di tutti. Da allora, per prendere in giro i Sanzenonesi, dicono loro di andare a pescare la forma di formaggio e ancora oggi, quando i paesani passano sul ponte, cercano di scorgere fra le acque la formaggia (luna), che per loro è il simbolo del piccolo paese. Il gufo E’ alto quasi due metri, con due occhi enormi, il gufo che non ha voluto, considerandolo portatore di sfortuna e che invece San Zenone ha accolto con buon augurio. L’autore del gufo è Vittorio Francalanza, artista sanzenonese, che ha creato la sua opera utilizzando vecchi vomeri di aratro; la scultura in ferro è rimasta per alcuni mesi in un in una cascina, prima di essere posta al confine tra i due comuni. Gli abitanti di Spessa hanno però chiesto al sindaco del paese di allontanarla ed è stata così collocata al centro di San Zenone, in attesa di trovarle un posto definitivo. I suoi abitanti non hanno certo paura di leggende popolari e vecchie tradizioni. Personaggi illustri

Gianni Brera Il personaggio più famoso, nato a è il giornalista e scrittore Gianni Brera. Di modesta famiglia, il padre era il sarto/barbiere del piccolo paese della “bassa pavese”,

25 trascorse l'infanzia nel paese natale, poi si trasferì adolescente presso una sorella a Pavia; amante del calcio, iniziò a collaborare con vari giornali, scrivendo cronache sportive. Dopo la seconda guerra mondiale, lavorò alla “Gazzetta dello Sport” e ne divenne direttore. Brera possedeva uno stile agguerrito, vivace, critico, arricchito di parole dialettali. Scrisse anche romanzi: II corpo della ragassa, 1974; Naso bugiardo, 1977; Il mio vescovo e le animalesse; molti i testi sportivi e storici. Morì in un incidente automobilistico presso Codogno. La sua tomba è nel cimitero di S. Zenone. Giovanni Alessandro Brambilla Nato a S. Zenone nel 1728 e morto a Padova nel 1800, fu medico chirurgo di grande ingegno e fama; promosse lo sviluppo della chirurgia in Europa centrale; fu chirurgo dell’esercito austriaco e medico personale di Giuseppe II, figlio dell’imperatrice d’Austria, Maria Teresa. Promosse la nascita di una grande Accademia, Josephina, scuola di chirurgia, a Vienna. San Zenone vanta altri personaggi importanti l'attore Ferruccio Garavaglia (1878-1912), che recitò per Gabriele D'Annunzio in alcune sue rappresentazione teatrali; il pittore Antonio Villa (1883-1962), che affrescò la parrocchiale di San Zenone e numerose chiese del pavese, tra cui San Pietro in Ciel d' Oro; l'educatore Marco Rodolfi (1842-1919), che per mezzo secolo insegnò a generazioni di ragazzi i valori civili e morali; il vescovo Monsignor Ferdinando Rodolfi (1876-1943), assistente del Papa Pio XI, che insegnò al seminario vescovile di Pavia e fu vescovo a Vicenza; il deputato Fabrizio Maffi (1868- 1955), scienziato e docente universitario, che fu dirigente comunista a livello internazionale e deputato in sei legislature.

SIZIANO

Il conte di virtù Gian Galeazzo Visconti per tutta la vita amò Agnese Mantegazza. Agnese era una bella ragazza di , intelligente, colta, che attraeva tanti giovani. Nel 1382, Gian Galeazzo era signore di Pavia; era detto ”Conte di Virtù” per la sua contea di Vertus, dote della moglie Isabella di Francia; amava la caccia e un giorno, mentre inseguiva un cinghiale, l’animale si trovò la strada sbarrata dal Ticinello dove una donna lavava i panni e aveva con sé un bambino in fasce sull’erba. Il cinghiale afferrò il bimbo e scomparve nella boscaglia, ma il conte lo inseguì, salvando la vita al bambino. Ferito al fianco dall’animale, l’uomo fu portato nella villa dei Mantegazza, dove Agnese lo curò e si innamorò di lui, ricambiata. Purtroppo il padre di Agnese, coinvolto in una congiura, fu perseguitato e fu organizzato il rapimento di sua figlia. Un servo fedele avvertì però, Agnese che, pur sapendo se avesse tradito Gian Galeazzo, non sarebbe più stata perseguitata, non volle tradire l’amato e di notte fuggì su un isolotto dell’Olona, ma per la violenza del fiume, Agnese cadde in acqua; aggrappata ad un tronco, finì a Genzone, dove fu salvata dagli uomini di Gian Galeazzo. Dopo questa prova d’amore, il conte volle Agnese con sé a Pavia in un palazzo vicino al castello. Dalla loro relazione nacque Gabriele, che fu legittimato per concessione imperiale. SPESSA

Dal latino spissa (silva) bosco fitto; era un’antica proprietà delle chiese pavesi di S. Giovanni

26 Domnarum e S. Maria Gualtieri, ceduta ai Beccaria di Montebello e poi ai Fiamberti. Nel 1374 passò al distretto di S. Colombano e poi di Belgioioso.

STRADELLA

(Oltrepò) “Il grappolo d’uva” “Il grappolo d’uva” è una curiosa ma azzeccata definizione dello scrittore sportivo, nativo di San Zenone, Gianni Brera, per definire l’Oltrepò che, per le sue ricchezze agro-alimentari e storiche attira pavesi, milanesi, piacentini e genovesi, proprio come il grappolo zuccherino attira le api . L’Oltrepò ha la forma di un triangolo, delimitato a ovest dal torrente Staffora, a est dal Tidone- Bardonezza, a nord della riva destra del Po e a sud dalle montagne dell'Appennino, tra Piemonte ed Emilia. L'originario sviluppo e la distribuzione dei centri abitati dell'Oltrepò sono legati alla conformazione e alle caratteristiche del terreno; molti paesi sono sorti allo sbocco delle valli, cioè al termine delle grandi vie naturali dei commerci, come è avvenuto per Voghera, vicina allo Staffora, per Casteggio al Coppa, per Broni allo Scuropasso e per Stradella alla Versa. Dal punto di vista economico, l'Oltrepò presenta una zona montana poco produttiva, che ha saputo sfruttare in parte l’aspetto turistico, una fascia collinare che ha valorizzato l'agricoltura vitivinicola e la pianura con le colture cerealicole e bieticole, dove è diffusa la media e piccola proprietà terriera.. Negli ultimi decenni, l'Oltrepò ha visto svilupparsi il turismo del fine settimana. Il culto dei morti Molte sono le credenze popolari legate al culto dei morti e radicate nella cultura paesana. C’è ad esempio la tradizione di Ognissanti e del giorno dei Defunti. In alcuni paesi si crede che il 2 novembre i morti tornino nelle case che hanno abitato in vita ed i familiari si alzano all'alba per rendere la casa accogliente, mangiano di magro e recitano le preghiere dei defunti e il rosario, tenendo in mano tre corone, così si fa penitenza per le loro anime. Un tempo i bambini si sbrigavano per partecipare alle funzioni dei morti perché, a conclusione del rito religioso, la perpetua li accoglieva in canonica per riempire di ceci bollenti e profumati il pentolino di rame che avevano portato da casa. Ancora oggi, in tanti paesi della nostra provincia, il giorno dei morti si cucinano questi legumi, “i sisar di mort”, con verdure e cotenna di maiale. Si riteneva un tempo che, nella notte di Ognissanti accadessero stregonerie e incantesimi particolari, perchè era la notte del Grande Sabba, quando spiriti maligni e streghe si radunano intorno a grandi querce e noci. Per questo i viandanti e i pellegrini non attraversavano boschi e luoghi isolati, per evitare di essere attirati da una dolce melodia, in grado di far perdere loro l'anima.

Le campane del Foro Boario Le campane possono essere di aiuto, sia contro le disgrazie sia contro i fulmini del cielo. A Stradella, nel 1859 le cinque campane, costruite dalla ditta Barigozzi di Milano, furono issate sulla torre del campanile. Una leggenda raccontava che l'oro mescolato con il metallo usato per fonderle avrebbe reso perfetto il suono delle campane e tenuto lontano le disgrazie dalla cittadina, così molte donne si recarono in piazza per donare anelli, bracciali, orecchini d'oro. Le note delle campane hanno un significato religioso: il do è il “campanone” che rintocca il mezzogiorno e le varie ore piene; il fa e il sol chiamano la gente alla messa; il re suona l'Ave 27 Maria; il mi batte tre rintocchi per segnalare la morte di qualcuno o suona a distesa per avvertire dell’arrivo di temporale e cercare di allontanarlo, sparpagliando le nuvole minacciose e scacciandole; le campane suonano a festa tutte quante insieme. Tra storia e leggenda: le fisarmoniche Il trentino Mariano Dallapè, dopo un’infanzia e un'adolescenza trascorse in miseria, ventenne abbandonò le montagne per cercare fortuna in Italia, portando come unico bagaglio un vecchio organetto. Giunto a Genova, trovò impiego presso il porto. Un incidente sul lavoro lo rese inabile e claudicante, per cui decise di tornare al paese natale. A Stradella però l'organetto si guastò e Mariano cercò di ripararlo, ma ne nacque uno strumento nuovo: la fisarmonica a cassetta, che fu un successo, usata in tutte le forme e i generi musicali, dalla musica popolare, al jazz. Mariano, nel 1876, fondò a Srtadella la fabbrica di armoniche Mariano Dallapè & figlio, che diresse fino alla morte. Grazie a Mariano Dallapè, Stradella può vantare il titolo di “capitale mondiale della fisarmonica”. La cittadina oltrepadana, ha voluto dedicargli il Museo della fisarmonica, inaugurato nel 1999, dove è presente anche un piccolo laboratorio artigianale ed una esposizione di circa 40 strumenti, con moltissime foto e schede informative. Personaggi illustri Agostino Depretis Nato a Cava M. nel 1813, eletto nel Parlamento subalpino nel 1848 e in quello italiano nel 1862, successe al Rattazzi nella direzione della Sinistra e più volte fu nominato Primo Ministro; si occupò della gestione delle ferrovie, promosse una riforma elettorale, il trasformismo, per avere sempre la maggioranza in Parlamento, portò l’Italia nella Triplice Alleanza; morì a Stradella, suo paese d’adozione, nel 1887. Ulisse Marazzani E’ un altro personaggio illustre di Stradella, dove nacque nel 1867; fu medico chirurgo apprezzato, politico e benefattore; morì a Vigevano nel 1951.

Le leggende della merla Esistono numerose leggende per spiegare la denominazione degli ultimi giorni di gennaio, “i dì d’la mèrla.” I giorni della merla sono considerati i più freddi dell’anno: il 29, 30 e 31 gennaio; per alcuni sono il 30, 31 genn. e il 1° di febbr.; per altri il 31 genn. e il 1° e il 2 di febbr. ( da cui i proverbi: “Dù a gh’io e v’un l’imprestarò; v’un a gl’ò e dù imprestarò”). La protagonista, la merla, in certe zone è una deliziosa ed innamorata fanciulla nel giorno delle nozze, mentre in altre è un uccello, appunto il merlo. In passato questi giorni erano l’occasione per rituali scaramantici e soprattutto per i festeggiamenti che dovevano servire ad allontanare il gelo dell’inverno, ricreando un clima di festosa convivialità. Oggi non rimane che una vaga memoria dei festeggiamenti e rare sono le manifestazioni che sopravvivono. Un inverno particolarmente freddo colpì l’Europa nel 1929 (l’anno della crisi di Wall Street); nei giorni dall’11 al 15 febbraio il gelo raggiunse il culmine e la neve fece la sua comparsa anche sulle coste dell’Africa del Nord; ghiacciarono le rive del Po e dell’Arno, alcuni minori laghi appenninici ed anche il lago di Garda; in Puglia caddero due metri di neve e a Roma nevicò così tanto che molti fili dell’energia elettrica si spezzarono; freddo e nevoso fu anche il 1985; memorabile per il gelo resta anche il 2012: in febbraio le acque dei nostri fossi sono gelate, molte tubature dell’acqua di tante case sono gelate, causando inevitabili problemi.

Già dai tempi di Dante era diffusa la leggenda di un merlo che, visto il buon tempo alla fine di

28 gennaio, credendo che fosse finito l’inverno disse al padrone: ”Or non ti curo, domine,” e se ne volò via. Per questo il poeta scrisse: ”Ormai più non ti temo\come fe' l’ merlo per poca bonaccia.” (Purgatorio cap. 13)

Leggenda di 1) STRADELLA Tanto tempo fa i vescovi di Pavia usavano passare l'autunno in Oltrepò, nella rocca di Montalto che, dalla cima del colle sopra Stradella, domina la pianura del Po. Un anno, il vescovo portò con sé a Pavia, come aiutante, un giovane del luogo. Passati alcuni anni, il giovane fece ritorno al suo paese dove rivide la cugina, che era diventata una graziosa fanciulla, soprannominata “la bella merla”. I due giovani si innamorarono e fissarono la data di nozze: il 29 gennaio, incuranti del fatto che da qualche giorno faceva talmente freddo che il Po era gelato. I festeggiamenti si protrassero per 3 giorni e poi, il 31, i novelli sposi partirono alla volta di Pavia. Occorreva attraversare il Po, passando con il carro sopra lo strato di ghiaccio di cui era ricoperto il fiume. (A quel tempo non esistevano ponti e il Po si attraversava solo in barca). Improvvisamente la crosta di ghiaccio incominciò a scricchiolare e cedette, sotto il peso del carro nuziale, che venne immediatamente inghiottito dalle gelide acque, insieme alla povera sposa, tra gli sguardi attoniti e terrorizzati di parenti ed amici. Lo sposo, illeso, immerse più volte le braccia nelle acque gelide, nel disperato ma vano tentativo di afferrare la sua sposa, trascinata via per sempre dalla corrente. Il suo corpo non fu mai ritrovato. (Sono in molti a credere che ogni inverno, negli ultimi 3 giorni di gennaio, ”i giorni della Merla”, il suo fantasma torni a vagare tra le mura dell’antica rocca). Disperato e pazzo di dolore, il giovane rimase per diverso tempo tra la vita e la morte. Si alzò dal letto solamente in aprile. Fissava la casa che non avrebbe mai abitato e vagava senza meta, cercando disperatamente la sua sposa. Morì alla fine dell'estate; i più vecchi ricordano che, nei giorni più freddi, le ragazze da marito si radunavano sulla riva del Po per cantare questa canzone: E di sera e di mattina /la sua merla poverina,/piange il merlo e piangerà. Leggenda di 2) Un tempo i merli erano bianchi come la neve. Gennaio stava per finire; era stato un mese molto mite, al punto che una candida merla, incontrando gennaio mentre si godeva lo spettacolo delle colline, lo derise, fischiettando allegramente. Gennaio finse indifferenza, ma si precipitò verso un'altissima montagna ricoperta di ghiacci eterni, dove si procurò una buona scorta di freddo, poi tornò a valle e vi scatenò una gelida bufera che durò 3 giorni. La merla, costretta a lasciare il nido per non congelare, trovò riparo nel caldo tepore di uno dei tanti camini del paese (da sola o forse con l’intera famigliola). Arrivato febbraio, l'aria si fece tiepida e la merla riprese a svolazzare contenta, ma le sue piume non erano più bianche: erano diventate nere, come la fuliggine del camino, dove si era riparata dal freddo. Da allora tutti i merli nacquero con il piumaggio nero e gli ultimi giorni di gennaio sono chiamati “i giorni della merla.” (i merli bianchi restano un’eccezione per le favole)

TORRE DE’ NEGRI

Torre de' Negri (Tud di Négar) sorge a breve distanza dal Po, ai margini della valle alluvionale del fiume. Apparteneva alla famiglia degli Scanati ed era detto, per questo, Casa o Torre degli Scanati, poi passò ai Negri di Pavia, nel 1697, da cui il nome del paese; fece parte della Campagna Sottana pavese e dal XV secolo, del Vicariato di Belgioioso, feudo degli Estensi. Nel 1394, Umberto Negri edificò una chiesa, dedicata a S. Antonio Abate, che diventò la Chiesa Parrocchiale. Nel 1697 i

29 Negri della Torre ottennero il feudo e nel 1706 il titolo di Conti. Nel 1929 il comune di Torre de' Negri fu unito a Belgioioso ma, dopo la Liberazione, nel 1947, il comune di Torre de' Negri fu ricostituito. Si celebra la sagra della Madonna della Cintura e si valorizzano i prodotti enogastronomici del luogo. I boschi della Ramazzotta Se dopo una giornata di lavoro o nel pomeriggio di una tranquilla domenica, (mentre il sole tramonta e gli ultimi raggi cadono sul bosco silenzioso, suscitando un'atmosfera di pace, rotto soltanto dal movimento furtivo di qualche uccello) si percorrono i boschi della Ramazzotta, sarà come entrare in un mondo fatato... ricco di enormi alberi che richiamano un mondo antico, con le loro cortecce segnate del tempo, che hanno resistito alle tempeste e che conservano i ricordi di vicende secolari.

TORRE D'ISOLA

E’ un composto di Torre e Isola, indicanti una torre e forse un’isola sul fiume; seguì le vicende di Pavia, passò ai Botta ai Cusani-Visconti e ai Litta-Modignani. La battaglia di Torre d’Isola Qui si svolse, secondo la leggenda, una battaglia tra due imperatrici che ambivano al trono, Adelaide e Teofano, nonna e madre del piccolo Ottone III, che a soli 3 anni era diventato imperatore del Sacro Romano Impero, la notte di Natale del 983, alla morte del padre. Adelaide fu la vincitrice e ordinò di uccidere tutti coloro che, di notte, si aggiravano nel luogo dello scontro. Le sentinelle scorsero una donna che con un lumicino cercava, tra i morti, il corpo del figlio e non ebbero il coraggio di ucciderla. Adelaide, impietosita, ordinò di costruire una torre per ricordare l’eroismo di tutti i soldati caduti in battaglia e da allora il paese è diventato Torre d’Isola.

Il fantasma del marchese Antoniotto La villa di Torre d'Isola fu costruita nel sec. XVIII dai marchesi Botta Adorno. Il fantasma presente nella villa è quello del suo fondatore, il marchese Antoniotto, un ufficiale asburgico, del quale non si conosce il luogo di sepoltura e che ogni tanto, di notte, appare ai suoi eredi: sposta i quadri, fa rumori nella parte più antica della casa. Forse il fantasma cerca di rivelare il luogo in cui nascose il tesoro della Repubblica di Genova, quando il governatore fuggì, sconfitto ed in gran fretta, portando con sé il tesoro. Arrivò a Torre d'Isola, nella sua villa, ricostruita sul palazzotto più antico già esistente. Antoniotto aveva intrapreso la carriera militare, si distinse in battaglia e fu anche ambasciatore, presso la corte di Russia e di Prussia; a Genova, come governatore della città, fu così arrogante (anche per vendicare il padre che, accusato di complottare contro il doge, era stato esiliato dalla città) che provocò l’insurrezione del popolo, il 5 dicembre 1746; dopo un mese gli Austriaci furono cacciati da Genova. Il marchese, dopo la sua fuga, pare abbia nascosto il tesoro, contenuto in una ventina di casse, in uno dei suoi tre castelli (, Branduzzo e Torre d’Isola), ma niente è mai stato trovato. Morì ad 88 anni, senza figli; forse è sepolto a Pavia, nella chiesa dei santi Gervaso e Protasio, dove si trova una lapide che si era fatto scolpire nel 1757, ma il suo fantasma non ha ancora pace e pare che vaghi nell’ala vecchia di questo castello, dove si pensa che sia nascosto il tesoro. Qualcuno volle cercare il tesoro, con l'aiuto di sedute spiritiche, ma senza risultati.

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Leggenda o realtà? Nell'anno 49 a.C.il legionario romano Lucio Mario ricevette in dono, da Caio Giulio Cesare, una centuria nei territori selvaggi della Gallia Cisalpina. Lucio decise di stabilirsi nei territori al di là del fiume Padus, si comprò 4 schiavi e con loro, dopo un lungo viaggio, arrivò in quel territorio ricco di acquitrini e di boschi, dove si fermò. Il terreno era ricco di argilla e gli schiavi la impastarono e modellarono mattoni e tegole che poi cossero nelle fornaci, costruirono una casa, crearono vasi, anfore. Il terreno fu bonificato e altri romani giunsero lì e vi costruirono le loro ville. I secoli passarono e l'impero romano fu poi travolto dai barbari. In un documento del 1181 compare per la prima volta il nome di :” Turre” detta” Vegia”. Pia Pia era una giovane e bella fanciulla aristocratica che visse nel XVI sec. a Torrevecchia; si innamorò di un contadino, Domenico Orsolino. Un giorno però la domestica Rosa, anch'ella innamorata di Domenico, scoprì la storia e per gelosia raccontò tutto al suo signore che ripudiò la figlia, la rinchiuse nella vecchia torre ed esiliò il contadino. La giovane scriveva lettere all'innamorato e le consegnava a Rosa ma la serva bruciava nel camino quelle lettere d'amore. Passarono mesi e Pia si rese conto che Domenico non sarebbe mai più tornato da lei, così decise di chiedere perdono al padre, di entrare in convento e di aiutare i poveri. Solo prima di morire Rosa rivelò il segreto a Pia che la perdonò. La notizia si diffuse e gli abitanti, per ricordare la generosità di Pia vollero aggiungere il suo nome a quello del paese, che diventò Torrevecchia Pia .

VAL DI NIZZA

Nizza è il nome del torrente, affluente della Staffora. Nella valle sorge il castello di Oramala. Il castello di Oramala Le prime fonti sul castello di Oramala risalgono al 976, anno in cui Ugo d'Este donò l’edificio al vescovo di Pavia. Nel 1164 il castello passò ai Malaspina. Anche Dante Alighieri, esule da Firenze, fu ospite nel castello ed immortalò i Malaspina nel Purgatorio. Il castello di Oramala, nel quale non manca una botola sopra la prigione ed un foro per versare l’olio caldo sui nemici, è infestato da spettri e fantasmi. “Ogni 25 dicembre, a mezzanotte, si accende la luce della terza sala della torre, che rimane accesa per alcune ore e poi si spegne. Il fenomeno sarebbe provocato dagli spiriti dell’imperatore Federico Barbarossa, del marchese Obizzo Malaspina (che nel XII secolo era il proprietario del castello) e di sua moglie che, dopo tanto digiuno, si rifocillano la vigilia di Natale, in un cenone preparato per loro in una sala chiusa. I Malaspina ospitarono il Barbarossa nella rocca per una notte, (dopo aver deposto il Papa e messo un Antipapa a Roma) e aiutarono l’imperatore, inseguito dalle truppe del Carroccio, a fuggire dall’Italia. Sembra che nel cortile del maniero, appoggiato al pozzo, il Barbarossa abbia dato lui il nome Oramala al castello, ispirandosi alla sua condizione. Nel castello si sentono strane voci e rumori, 31 soprattutto nei mesi invernali ed autunnali, quando si avverte il rumore di zoccoli di cavalli lanciati al galoppo, di armi e di battaglie, come se si combattesse. Attorno a questo castello sono successe sempre strane cose. Secondo una maledizione, ogni 25 anni si verifica qualche fatto di sangue nei pressi o dentro al maniero: una ragazza che giocava fra i ruderi, precipitò dalla torre e perse la vita; un uomo morì ai piedi del castello!!!

VARZI

Di origine ligure, “var”, fiume, nell’età romana e nell’Alto Medioevo fu stazione di posta nel percorso tra il Mar Ligure e la Pianura padana; i Malaspina governarono a lungo, dal 1164, per decreto del Barbarossa, quando Varzi dipendeva da Oramala; il XII e XIII sec. rappresentano il periodo di massimo splendore; gli Sforza subentrarono nel 1604. Non si conosce la data di costruzione del castello; oggi restano solo ruderi ricoperti di edera. I Malaspina possedevano una casa a Varzi nel 1168; il feudo di Varzi è datato 1275. Il castello sorge al centro del paese e la sua torre è sempre stata adibita a prigione; è detta Torre delle streghe perché nel 1460 vi furono rinchiuse 25 donne ed alcuni uomini, condannati dal tribunale dell’Inquisizione, con l’accusa di stregoneria, che furono poi bruciati sulla pubblica piazza. Il fantasma di Bernabò nel castello Del castello oggi rimangono solo ruderi ricoperti di edera. Nel 1514 il castello di Cella, feudo dei Malaspina, fu assediato e distrutto dai soldati di Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro; Bernabò Malaspina, che aveva favorito la fuga del cardinale Giovanni de’ Medici, il futuro papa Leone X, fu catturato dallo Sforza, portato a Voghera, dove fu squartato vivo. La leggenda racconta che il suo fantasma ritorna periodicamente, di notte, nel castello di famiglia, dove visse i momenti più belli della sua vita.

VIGEVANO

Nell’816 è attestato come Vicongena, nome che cambia varie volte fino a Vigevine nel 1058 e Vegleveno, Veglivino nel sec XI. Forse deriva da vicus-vico- villaggio e dal nome germanico di persona- Gebuin- Di origine forse longobarda, fu a lungo contesa da PV e MI; finì a Torriani, ai Visconti, agli Sforza; qui nacque Ludovico Sforza, il Moro, che abbellì la città con molti edifici. Passò a Carlo V e nel 1700 ai Savoia. Personaggi illustri Lucio Mastronardi:c maestro e scrittore. I fantasmi del castello 32 Si racconta che nel castello vaghino i fantasmi delle dame di Beatrice d'Este, la giovanissima sposa di Ludovico il Moro, che morì di parto, mettendo alla luce il 3° figlio, alla fine del 1400. Gli spiriti apparirebbero nelle logge degli appartamenti riservati alle donne, nelle afose notti estive. Il drago Si narra dell'esistenza di sotterranei che, dal castello di Vigevano portavano al Ticino e fino a Milano. I sotterranei erano la tana di un mostro gigantesco, un serpente con ali ampie come quelle dei pipistrelli, con occhi in grado di incantare chi aveva la sfortuna di incrociare il suo sguardo e che emanava un fetore insopportabile, capace di tramortire anche a distanza. Chi aveva osato entrare nei sotterranei, ne era poi fuggito terrorizzato (se era riuscito a salvarsi). Alcuni prigionieri del castello pare siano scomparsi senza lasciare traccia, forse portati via dal drago. Non si sa che fine abbia fatto il mostro! Il cavallo di Ludovico Dopo la sconfitta di Novara del 1500, Ludovico il Moro era ormai senza regno. Quella notte un cavallo bianco giunse al galoppo nel palazzo, salì le scale del castello, nitrendo e lanciando vampate di fuoco; era il cavallo di Ludovico, che egli non aveva portato in battaglia per salvarlo e che ora cercava il padrone. Il destriero, con gli zoccoli, scavò un buco nel terreno e poi sparì nel buco. Il rogo del diavolo S. Bernardo di Chiaravalle, nel 1135, doveva recarsi a Vigevano per una predica ma il diavolo, per impedirgli di giungere in tempo, gli tolse una ruota dalla carrozza; Bernardo catturò il diavolo e lo sostituì alla ruota mancante, così raggiunse Vigevano. Per tradizione si celebra a Vigevano “Il rogo del diavolo” sulla piazza della chiesa, alla fine di agosto. Il diavolo, legato a una corda, viene calato su una catasta di legno e se brucia velocemente significa che sarà un anno sfortunato. La torcia e il gattino

La sera del 1 novembre, giorno dei Santi, una donna camminava velocemente verso il convento di San Pietro Martire, a Vigevano. Suonavano le campane e faceva freddo. Quel convento, dove san Domenico aveva convertito molti eretici, era illuminato ma, ad un tratto, apparvero tante luci anche lungo la strada: erano le torce di molte persone che si avvicinavano. La donna, impaurita, si nascose; gli uomini camminavano lenti, a due a due, vestivano un saio grezzo, lungo fino ai piedi e calzavano sandali. Uno di loro si avvicinò alla donna e, passandole la torcia, le disse: “Tenetela voi!” “Da dove venite?” riuscì a balbettare la donna, spaventata ma, … senza risponderle, l’uomo rientrò nel gruppo e la processione si allontanò. La donna corse in chiesa, pregò e poi ritornò a casa, con la torcia accesa in mano. La spense e poi la mise in una cassapanca. Il giorno dopo, quando aprì la cassa, trovò al posto della torcia il braccio di una persona e, terrorizzata, la rinchiuse e corse a riferire a un padre del convento la sua terribile esperienza. Egli le disse di tornare quella sera nello stesso punto dove aveva incontrato la processione, portando con lei il braccio del morto e di cercare l’uomo senza la torcia per ridargliela, insieme a un bel gattino bianco, animale sacro alla Madonna che, da bambina, ne aveva sempre uno accanto a sé. La donna ubbidì, ridiede il suo braccio all’uomo, insieme al gattino. Nella chiesa della Madonna della Neve, a Vigevano, c’è l’affresco del 1400 della Madonna con il bambino che gioca con un gattino. Sembra che Leonardo da Vinci si sia ispirato a questo affresco per dipingere la Madonna del gatto.

33 VILLANTERIO

Nel Medioevo era Villa Lanterii (dal latino villa, dimora di campagna e dal nome di persona Lanterio); nel Medioevo appartenne al monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro che la assegnò ad una famiglia locale che prese il nome di Capitani di Villanterio, poi passò agli Schiaffinati, ai Ricci ed ai Vitali.

L’arcone e la galleria segreta Forse deriva dal latino Vestorinus o Vestorius; nel 1181 era autonomo e passò in feudo ai Beccaria nel 1450, poi ai Giorgi e nel 1659 ai Vistarini. Si racconta che accanto alla rocca dei Beccaria sorgesse la casa di un eremita. Sui resti della rocca sorse poi il palazzo dei conti Giorgi ed i resti delle antiche costruzioni furono portati alla luce successivamente. Dove sorgeva l’eremo fu costruita la chiesa parrocchiale, ma resta un arcone che unisce il cortile del palazzo alla chiesa ed accoglie come una grande porta chi entra in Vistarino da Belgioioso. Una piccola galleria, costruita sulla volta, permetteva ai conti di recarsi in chiesa ed assistere alle funzioni religiose, senza essere visti dalla gente, aprendo un lunotto ribaltabile, verso la navata. VOGHERA

Viquerae, come risulta nel 915, da vicus (vico, villaggio) e Iria, antico nome del fiume Staffora, che attraversa la città, o nome dell’antico villaggio, distrutto dai barbari. Fondata dai Liguri e conquistato dai Romani nel 197 a. C., appartenne a Tortona e fu feudo del vescovo di Tortona, al quale fu donato dall’imperatore Ottone nel 979. Quando il Barbarossa distrusse Tortona, la città fu donata da Enrico IV al Comune di Pavia, nel 1191. Passò ai Monferrato, ai Beccaria e ai Visconti nel 1314, quindi dopo varie casate, tornò ai Dal Verme nel 1523 e poi ai Dal Pozzo; nel 1748 fu dei Savoia e nel 1770 ottenne il titolo di città. Le fave e le predizioni

A Voghera e nell’Oltrepò Pavese si cantava e si mimava il gioco de “La bela vilana la pianta la fava...” L'origine della danza era una ritualità contadina per propiziare un buon raccolto. La fava, il primo germoglio primaverile, era il simbolo della resurrezione. Antico ingrediente anche per i filtri delle fattucchiere ha conservato, nei tempi, la sua caratteristica magica, usata dalle donne

34 lombarde per predire fortuna o sfortuna e nozze più o meno felici. Sotto il cuscino delle donne si ponevano tre fave, in un sacchetto: una intera, una semisbucciata, una completamente sbucciata. Se al mattino successivo veniva tolta per prima dal sacchetto la fava sbucciata significava l’arrivo di disgrazie o un marito povero.

ZAVATTARELLO

Dal dialetto Zavatteè, ciabattino. Fu donato dall’imperatore al monastero di S. Colombano a Bobbio nel 972; fu feudo dei Dal Verme nel 1387, poi di Federico di Luxembourg nel 1491 e di Galeazzo Sanseverino nel 1520, dopo la morte del quale, in seguito alla battaglia di Pavia, tornò ai Dal Verme. Il fantasma I fantasmi popolano il castello Dal Verme di Zavattarello. Anche la troupe del programma “Mistero” di Italia 1, si è recata nel borgo medievale, nel 2011, per uno speciale dedicato a queste strane e inquietanti presenze. Il fantasma sarebbe, secondo gli abitanti del paese, lo spirito del conte Pietro Dal Verme, feudatario del XV secolo, avvelenato dalla duchessa Chiara Sforza, figlia di Ludovico il Moro, nel 1485, proprio nel castello di Zavattarello. La donna della potente famiglia milanese, era stata rifiutata da giovane, come sposa, (matrimonio di convenienza, per unire due potenti famiglie del Nord Italia) dallo stesso Dal Verme, innamorato di Camilla Del Maino, che sposò ma morì misteriosamente (forse assassinata dal marito o forse dai parenti di Pietro, perché avvenisse il matrimonio con Chiara). Il conte la sposò in seconde nozze, nel castello di Z. e per vendetta, a causa del primo rifiuto, ella lo uccise, avvelenandolo con la cicuta (pare con l’appoggio dello zio Ludovico il Moro). Da allora molte persone giurano di aver visto e sentito aprirsi e chiudersi le porte nelle sale dell'ultimo piano della rocca, dove c’era la camera da letto del conte Pietro. Qualcuno ha visto anche comparire figure in abiti medioevali lungo i corridoi. Nel 2011, durante un concerto nel castello, pare sia sparito inspiegabilmente uno spartito musicale.

Natale con il diavolo In passato, durante una veglia natalizia, si verificò uno strano avvenimento. Al Mulino Nuovo, nel comune di Zeccone, la famiglia dei mugnai era guidata da Pinelu, legatissimo al lavoro e poco amante delle funzioni religiose. Nella notte di Natale, Pinelu era impegnato al mulino, a macinare farina. I suoi familiari invece si recarono in Chiesa per la Santa Messa di Mezzanotte. Rimasto solo, il vecchio mugnaio si recò nel locale macina ed allo scoccare della mezzanotte sentì un forte vento che spense i lumi ad olio e un forte boato che fece tremare i mulini. Spaventato, Pinelu si accovacciò, tese l'orecchio; gli sembrò che il rumore provenisse dalla roggia Carlesca; cauto, 35 l’uomo si mosse per osservare il canale che alimentava le pale del mulino. Mentre si avvicinava alle pale, notò che erano in ordine, ma ferme; avanzò e vide un robusto e villoso caprone, dalla lunga barba nera, che impediva il movimento delle pale, con le sue lunghe corna. Dallo spavento, Pinelu rimase senza fiato, mormorando: “Quello è il diavolo!” Il caprone, che era proprio il demonio, osservava il mugnaio con ghigno beffardo e gli disse di andare a dormire, tanto le pale erano inservibili. Pinelu, spaventatissimo, si avviò verso la sua stanza, non riuscendo tuttavia a prendere sonno. Alle prime luci dell'alba, Pinelu si recò nel locale macina, per verificare il funzionamento delle ruote e notò che sopra le macine vi era un profondo solco che impediva la frantumazione dei cereali. Da quel giorno, Pinelu modificò il suo comportamento; preso dal suo senso di colpa per non aver rispettato la festività natalizia, si dedicò con rispetto alle funzioni del Santo Natale. Una notte di luna A Cascina Bosco, una modesta cascina agricola, in una notte di luna piena, Gianni, barbiere di professione e pescatore per hobby, si recò con il suo cane verso il fossato che costeggia la cascina il “Cavone“, portando con sé la fiocina per pescare qualche luccio. Vide nell’acqua una forma di formaggio, probabilmente caduta dal carretto di qualche casaro, pensò lui. Gianni cercò un attrezzo per afferrare il formaggio, ma non trovando nulla corse verso casa, quando incontrò l’amico Serafino, al quale raccontò del formaggio “ piovuto dal cielo”. L’uomo si offrì di aiutarlo con un rastrello e una rete, ma la forma si frantumò e i due cercarono di recuperare almeno i frammenti di formaggio. Questi però si sparpagliarono, finché la luna sparì, ma anche il formaggio era sparito; tra i due uomini scoppiò un vivace litigio con reciproche accuse e si arrivò alla rissa. Il giorno successivo, i due si ritrovarono entrambi, malconci, nella sala d’attesa del medico. Alla fine i due amici fecero pace e si accordarono per un nuova gara di pesca.

ZERBO

Il toponimo, in dialetto Zèrb, riflette la voce lombarda zerb “terreno incolto,” acerbo, che indica terra incolta e si ripete in altre nomi locali. L'insediamento ebbe forse origine, così come quello della frazione Torre Selvatica, da fortificazioni erette sulla riva sinistra del Po ai tempi delle prime rivalità tra Pavesi e Piacentini, che spesso si scontravano lungo il fiume. Nei più antichi documenti è chiamato Gerbo, Gerbi, villa Gerbidi e risulta possedimento di Corte Olona, sede regale lombarda e del monastero di S. Agata in Pavia, uno dei primi nella Lombardia cristiana, fondato nel 672. Nel 1187 papa Urbano III conferma a S. Agata alcuni beni, tra cui Jerbum. Nel 1374 Zerbo e Torre Selvatica appartengono al vicariato di S. Colombano, poi a quello di Belgioioso. Il castello, nei primi tempi, fu proprietà di una famiglia pavese guelfa, Pavaro o Paveri, nel 1453 passò ai Bracazoli e nel 1683 divennero signori di Zerbo e Torre Selvatica i marchesi Ghislieri e nel 1771 i conti Gallarati-Scotti. Durante le numerose guerre, questa zona, situata sulle rive del Po fu più volte attraversata da eserciti; si ricorda il saccheggio dei Franco-Spagnoli nel 1746. Il castello, del 1600, situato su un’altura, era circondato da un vecchio fossato; è disposto su tre lati, chiusi da un muro di cinta; ai lati si notano ancora antichi edifici, forse fortificati e sul muro di questi è dipinto lo stemma della famiglia Roverselli. Dietro il palazzo vi sono abitazioni dette Colombarone (da colombaie), una torre rimaneggiata e resti di una rocca medioevale. Torre Selvatica ha subito molte trasformazioni; negli anni venti i contadini iniziarono inutili scavi, sperando di trovare un leggendario tesoro.

36 La chiesa di Zerbo divenne parrocchiale nel 1500 e nel 1819 fu completamente ristrutturata. Zerbo leggermente staccato dalla riva del Po non ebbe mai un porto o un attracco sul fiume, a differenza di S. Zenone e Pieve Porto Morone; per questo la sua vita e la sua economia non furono di tipo fluviale, ma agricolo. Personaggi illustri

Diego Marabelli, ciclista; Padre Michele Pio Fasoli, martire in Etiopia, beatificato nel 1998. Zerbo ha onorato il suo martire con la statua lignea nella chiesa, la raffigurazione del martire francescano in un quadro, la composizione di un inno ispirato alla vita Beato, l’intitolazione di una Piazza, la collocazione nell’omonima piazza di una statua in bronzo ed un libro con le testimonianze degli scritti sul Beato Michele Pio ed i suoi due confratelli nei burrascosi viaggi verso l’ Etiopia, la loro terra di missione, dove è avvenuto il loro martirio con un’ atroce lapidazione. Proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1988, il frate possedeva una vasta cultura, temperamento artistico (sapeva dipingere ed eseguire opere in bronzo)e creò il vocabolario e una grammatica della lingua abissina. Al cucù dal Zèrb Le sponde del fiume Po sono popolate da numerosi uccelli, tra cui il cuculo (cuculus canorus-che depone un solo uovo senza covarlo, perchè lo deposita nel nido di altri uccelli, sostituendolo a un uovo presente). E’ un uccello migratore, che vive nei boschi e nella zona lungo il Po, fitta di boschi, adatta alla vita del cuculo, chiamato così per il verso del suo canto, che fa proprio “cucù- cucù”. Comincia a cantare ad aprile, la stagione degli amori e finisce a metà maggio. Si racconta che un abitante del luogo, mentre passeggiava sulle rive del Po, costeggiate dagli ombrosi boschi e pioppeti, in una calda giornata estiva, vide levarsi all'improvviso dai rami degli alberi qualcosa di indefinibile che emanava degli urli, che sembravano quasi richiami. L'uomo, alzando lo sguardo, abbagliato dal sole, intravide un essere alato, luminoso, fosforescente che si librava in alto nel cielo. Stupito ed incredulo, tornato a casa di corsa, raccontò di aver avuto una visione strabiliante; il fatto suscitò perplessità e anche risa. (Probabilmente si trattava del cuculo che, spaventato era volato via emettendo il suo “cu-cu”). La storia si diffuse e da allora gli Zerbesi sono soprannominati “cucù”. Forse il cuculo smetteva di cantare a maggio perché proprio a metà del mese, alla festa del patrono di Zerbo, S. Pietro, gli Zerbesi, per festeggiare mangiavano tutti i cucù del Po. (a San Pedar quei dal Zerb i masan al cucù). Cucù è detto in realtà il gallo che si cucina nel giorno di festa del paese, a S. Pietro; ancora oggi, per prendere in giro uno Zerbese o soltanto qualcuno credulone lo si definisce “cucù”. Perchè gleva Delaide Negli anni passati, a Zerbo abitava una signora di nome Adelaide, che aveva un cane che si chiamava “Perchè”. Quando qualcuno le chiedeva: ”Come si chiama il tuo cane?”, lei diceva: ”Perchè” e l'altra persona: ”Perchè voglio saperlo...”, Adelaide di nuovo: ”Perchè” e la storia continuava per le lunghe. Adesso, quando qualcuno chiede troppi perchè: “perchè questo, perchè quello..., si risponde: ”perchè gleva Delaide!

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ZERBOLO’

Dal lombardo zerb, “terreno incolto” più il diminutivo, da cui zèrbol; fu fondato nel 1259 dai Beccaria, che vi costruirono un castello-residenza e nel 1437 divenne dominio visconteo. La storia di Zerbolò è legata al Ticino, che scorre a poche centinaia di metri; un tempo era un luogo di stagni, paludi e boschi folti, soprattutto per la mancanza di scoli artificiali; fu bonificato nel XIII sec. anche perché nei pressi di Parasacco c’era un ponte di barche di importanza strategica, spesso causa di lotte fra Pavia e Milano, che se ne contendevano il possesso. Subì numerose inondazioni, ma riuscì a svilupparsi per la presenza di canali che favorirono la nascita di molte aziende agricole.

ZINASCO

Zinàsc con il suffisso asco, forse derivato dall’antico Accenna; di probabile origine romana, fece parte del feudo di Sommo, passato ai Gattinara nel 1673 e poi agli Olevano. La 1^ battaglia della 2^ guerra d’indipendenza Il 29 aprile 1859 le truppe austriache, guidate dal generale Gyulai, passarono il Ticino al Gravellone, a Bereguardo e a Vigevano e proprio vicino a avvenne la 1^ battaglia. L’armata nemica si diresse verso Sairano, dove si scontrò con uno squadrone di cavalleggeri del “Saluzzo Cavalleria”; gli Austriaci lasciarono sul campo tre soldati ma, verso sera, tornarono verso Zinasco Vecchio, dove si era accampato parte del Saluzzo. I Piemontesi avevano però mandato in esplorazione un sergente e un soldato a cavallo, che furono attaccati e mentre il primo, caduto da cavallo, riuscì a ritornare all’accampamento, il soldato fu ferito mortalmente

Bibliografia La provincia di Pavia - Quaderno di documentazione - Ottobre 2003 - Provincia di Pavia Leggende e storie - Quaderno di documentazione - Ottobre 2004 - Provincia di Pavia Leggende pavesi – Comune di Chignolo Po Storie e leggende pavesi - G. Falzone – La Spiga 2001 Associazione culturale Varzi Viva Enciclopedia Wikipedia

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INDICE Presentazione pag.2 Albuzzano, Arena Po pag.3 , Belgioioso pag.4 Bereguardo pag.5 Brallo, Broni pag.6 Canneto, Casteggio pag.7 CavaManara pag.8 Chignolo Po pag.9 Codevilla, , Corteolona pag.10 Costa De’ Nobili, Cura Carpignano, Filighera pag.11 Garlasco, Genzone, Godiasco pag.12 Gropello Cairoli, Inverno, Landriano pag.13 Lardirago, Linarolo pag.14 Magherno, pag.15 Montebello della Battaglia pag.16 , pag.17 Montù Beccaria, Mortara, Parona pag.18 Pieve Porto Morone pag.19 Romagnese , San Genesio pag.21 , Sannazzaro De’ B., San Ponzo pag.22 Santa Cristina e Bissone, Santa Giuletta pag.23 Sant’ Alberto di B., Santa Margerita S., pag.24 San Zenone al Po pag.25 Sizano, Spessa Po pag.26 Stradella pag.27 Torrazza Coste, Torre de’ Negri pag.29 Torre d’Isola pag.30 Torrevecchia Pia, Val di Nizza pag.31 Varzi, Vigevano pag.32 Villanterio, Vistarino, Voghera pag.34 Zavattarello, Zeccone pag.35 Zerbo pag.36 Zerbolò, Zinasco pag.38

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