Anabases Traditions et réceptions de l’Antiquité

21 | 2015 Varia

Édition électronique URL : http://journals.openedition.org/anabases/5190 DOI : 10.4000/anabases.5190 ISSN : 2256-9421

Éditeur E.R.A.S.M.E.

Édition imprimée Date de publication : 1 avril 2015 ISSN : 1774-4296

Référence électronique Anabases, 21 | 2015 [En ligne], mis en ligne le 01 avril 2018, consulté le 24 septembre 2020. URL : http://journals.openedition.org/anabases/5190 ; DOI : https://doi.org/10.4000/anabases.5190

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SOMMAIRE

Historiographie et identités culturelles

La scultura antica tra Montesquieu e Winckelmann : il De l’usage des statues chez les anciens di Ottaviano Guasco Stefano Ferrari

La poésie didactique dans l’Antiquité : une invention des Modernes Pierre Vesperini

Traditions du patrimoine antique Traductions latines du théâtre grec - XVIe-XVIIIe siècles. Colloque international organisé par Malika Bastin- Hammou, Martine Furno et Raphaël Mouren, 22-23 novembre 2013 - Université Stendhal - Grenoble 3 - ENS-LSH - ENSSIB

Les traductions latines du théâtre grec. Introduction Malika Bastin-Hammou

Le monstrum et la gallina : figures féminines dans l’Agamemnon de Stanley Marie Saint Martin

Trois interpretationes de l’« Antigone » de Sophocle. Gentien Hervet (1541), Georges Rataller (1550) et Jean Lalemant (1557) Michele Mastroianni

Sophocles Sublimis Cressida Ryan

Érasme traducteur Thomas Baier

La traduction d’Alceste par Buchanan, l’imago retrouvée ? Zoé Schweitzer

Peut-on traduire « savamment » tout en faisant des bévues incroyables ? Andreas Divus et son Aristophane Simone Beta

Paroles de Paix en temps de guerre : Florent Chrestien et la première traduction de la Paix d’Aristophane en France (1589) Malika Bastin-Hammou

Archéologie des savoirs

Back to the Archives: Elias Bickerman in the Fonds Louis Robert Albert I. Baumgarten

Le roman historique est-il archéocompatible ? Claude Aziza

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Actualités et débats

Entre ici et ailleurs. Les enjeux des comparatismes Entretien avec Christian Jacob

Fana, templa, delubra : Lieux de culte de l’Italie antique Corpus raisonné, actualités scientifiques et réflexions Despina Chatzivasiliou

Antiquités parallèles (2). Femmes antiques Claude Aziza

Relire les classiques des sciences de l'Antiquité

La paideia à la croisée des humanismes : Marrou lecteur de Jaeger Anthony Andurand

Le siècle de Platon Henri-Irénée Marrou

L'atelier de l'histoire : chantiers historiographiques

Archives de savants

La correspondance d’Émile Espérandieu au Palais du Roure à Avignon Marianne Altit-Morvillez

Atelier des doctorants

La réception des poétesses grecques, ou les affabulations de « l’imagination combleuse » Anne Debrosse

Comptes rendus de lecture

Debbie CHALLIS, From the Harpy Tomb to the Wonders of Ephesus : British Archaeologists in the Ottoman Empire 1840-1880 Olivier Gengler

Frédéric DUVAL, Dire Rome en français. Dictionnaire onomasiologique des institutions Luigi-Alberto Sanchi

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Marie-Claire FERRIÈS, Maria Paola CASTIGLIONI et Françoise LÉTOUBLON, Forgerons, élites et voyageurs d’Homère à nos jours, Hommages en mémoire d’Isabelle Ratinaud- Lachkar Geneviève Hoffmann

Lin FOXHALL, Studying Gender in Classical Antiquity Geneviève Hoffmann

Maria FRAGOULAKI, Kinship in Thucydides. Intercommunal Ties and Historical Narrative Maria Stella Trifirò

Michael GREENHALGH, Constantinople to Córdoba. Dismantling Ancient Architecture in the East, North Africa and Islamic Spain Jorge Elices Ocón

Corinne JOUANNO, Ulysse. Odyssée d’un personnage d’Homère à Joyce Jean Zaganiaris

Diego LANZA, Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento Anne de Cremoux

ENRICO MARINI, Les Aigles de Rome Marianne Beraud

Pascal PAYEN, Évelyne SCHEID-TISSINIER (éd.), Anthropologie de l’Antiquité. Anciens objets, nouvelles approches Carlamaria Lucci

Almut-Barbara RENGER et Jon SOLOMON, Ancient Worlds in Film and Television: Gender and Politics Mathieu Scapin et Matthieu Soler

Anne ROLET (éd.), Allégorie et symbole : voies de dissidence ? De l’Antiquité à la Renaissance Cyrielle Landrea

Francisco DE VITORIA, De la loi Karine Wurtz

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Historiographie et identités culturelles

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La scultura antica tra Montesquieu e Winckelmann : il De l’usage des statues chez les anciens di Ottaviano Guasco

Stefano Ferrari

1 Nel corso della seconda metà del Settecento, dopo un « silenzio » durato più di centocinquant’anni, la scultura ritorna a far sentire la propria voce in modo fragoroso. Si guadagna un nuovo statuto epistemologico, diventando un’arte autonoma, affrancatasi definitivamente dall’annoso abbraccio soffocante della pittura1. Studiosi di varia formazione e di diverso impegno intellettuale si occupano di essa, sottoponendola a differenti spettri teorici : da quello estetico di Frans Hemsterhuis e Johann Gottfried Herder a quello storico-stilistico di Johann Joachim Winckelmann, da quello artistico di Étienne-Maurice Falconet a quello filosofico-morale di Ottaviano Guasco. Si tratta di contributi non alternativi tra loro, ma legati da sottili intrecci metodologici che affondano le loro radici in un’unica grande koinè culturale. Degli autori poc’anzi menzionati Guasco risulta il meno noto a causa della mancanza ancora di una affidabile biografia e di una problematica collocazione storiografica. Di lui si sono interessati soprattutto i principali studiosi di Montesquieu, mentre gli storici dell’arte gli hanno finora dedicato perlopiù ricerche affrettate, fraintendenone spesso le originali posizioni teoretiche2. Chi è dunque questo personaggio ? Ottaviano Guasco nasce nel 1712 a Bricherasio in Piemonte. Figlio di un intendente sabaudo, dopo aver preso gli ordini minori ed essersi addottorato all’università di Torino, nel 1738 si trasferisce a Parigi in cerca di fortuna. Qui, secondo i dettagliati rapporti di polizia, frequenta vari « stranieri » e « ambasciatori », tra cui il principe Antioch DmitrieviČ Kantemir, ministro plenipotenziario russo in Francia. Tra i due nasce un forte legame che si trasforma ben presto in uno stretto sodalizio culturale. Dopo la morte del diplomatico, nel 1749 Guasco cura la pubblicazione in francese delle sue Satyres, precedute da una biografia altamente elogiativa3. Pur conducendo una vita non priva di zone d’ombra, riesce a stringere rapporti con alcuni dei maggiori intellettuali dell’epoca, tra cui

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Montesquieu, Lord Chesterfiel e Helvétius. Soprattutto con il presidente bordolose l’abate italiano costruisce una relazione molto solida ed anche duratura, dimorando spesso al castello di La Brède. Infaticabile viaggiatore, viene ascritto alle più importanti accademie europee, come l’Accademia Etrusca di Cortona, l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, l’Académie Royale des Sciences et Belles-Lettres di Berlino, la Royal Society di Londra e l’Accademia dei Georgofili di Firenze. È autore di varie memorie dedicate alla storia culturale antica, medievale e moderna, presentate nelle accademie di cui era o diventerà membro oppure con le quali collabora temporaneamente. La maggior parte di esse viene radunata in due volumi pubblicati nel 1756 a Tournai con il titolo Dissertations historiques, politiques et littéraires. Nel 1767 Guasco fa stampare a Firenze, in forma anonima, le Lettres familières du président de Montesquieu, raccogliendovi un gruppo di lettere che il presidente bordolese aveva inviato allo stesso abate piemontese e ai suoi principali amici italiani, quali Filippo Venuti, Antonio Niccolini e Gaspare Cerati. Anche per le dispute che quest’opera accende soprattutto all’interno del milieu parigino stretto attorno a Marie-Thérèse Geoffrin, egli è costretto a negare pubblicamente di esserne il curatore4. Nel 1768 acconsente alla pubblicazione sempre in forma adespota – su ripetute pressioni del conte Johann Karl Philipp von Cobenzl, ministro plenipotenziario dei Paesi Bassi austriaci – del manoscritto del De l’usage des statues chez les anciens, affidato allo stampatore di Bruxelles, Jean-Louis de Boubers. Muore nel 1781 a Verona, dopo essersi legato al conte mantovano Giovanni Battista Gherardo d’Arco5.

2 L’incontro dell’abate piemontese con Winckelmann ha luogo nei primissimi giorni del 1768. Era stato il conte Cobenzl, il 15 maggio 1767, a fare per la prima volta allo storico dell’arte tedesco il nome di Guasco, dopo che quest’ultimo aveva provveduto ad inviare al ministro austriaco l’annuncio a stampa della sottoscrizione ai Monumenti antichi inediti6. Il 3 giugno, replicando a Cobenzl, Winckelmann sosteneva però di non conoscerlo « ni de personne ni par lettres, ayant depuis l’automne passé attendu en vain ce Savant à Rome7 ». Dopo averlo finalmente incontrato, il 2 gennaio 1768 egli scrive all’amico svizzero Leonhard Usteri in quella che rimane l’unica testimonianza nota a tutt’oggi del rapporto diretto tra i due8 : Uscirà prossimamente in Olanda un libro in 4° con il titolo : Sur l’usage des Statues. L’autore è un Conte Guasco, canonico di Tournai nelle Fiandre. Ora si trova qui. Ma il brav’uomo non sa nulla, né ha letto niente di mio. Credeva, da quello che aveva letto in generale, di dirci delle cose che nessuno conosceva. Ormai dal momento che ha letto il trattato preliminare [ai Monumenti antichi inediti] è del tutto abbattuto, poiché la stampa del suo libro è in gran parte terminata.

3 È molto difficile credere che Guasco non sapesse assolutamente nulla degli scritti dello storico dell’arte tedesco, così come il secondo non fosse al corrente dell’opera del primo. Alcune parti di essa erano ampiamente note, essendo state edite in anteprima, la prima volta nel 1763 e la seconda nel 1766, sulla prestigiosa rivista di Pierre Rousseau, il Journal encyclopédique9. L’anticipazione del 1766 viene fatta precedere ad esempio dalla seguente nota10 : Il y a quelques années que M. l’Abbé Comte de Guasco de l’Académie des Inscriptions & Belles-Lettres de Paris &c. &c., nous a fait part de l’ouvrage dont on va voir quelques fragemens : des raisons de santé, la mort d’un frère qu’il chérissoit d’autant plus, qu’il s’étoit couvert de gloire dans la dernière guerre, en on [sic !] retardé la publication : dans ces circonstances l’ouvrage de M. Winkelmann a paru : celui de M. le Comte de Guasco qui ne lui cède en rien, verra bientôt le jour, & nous

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fournira une nouvelle occasion de rendre à cet Académicien l’hommage dû à ses rares talens.

4 Comunque sia, la possibilità di un approfondimento delle principali posizioni teoriche di Winckelmann, anche attraverso la lettura del Trattato preliminare dell’arte del disegno, induce Guasco ad aggiungere alla sua opera una doverosa e prudenziale precisazione. Tra la fine della seconda parte e l’inizio della terza, egli fa inserire dallo stampatore un carticino con il seguente Avertissement : Cet Ouvrage étoit achevé, & reposoit depuis quelques années pour se meurir, lorsque j’appris par les Journaux, qu’il en avoit paru un sur les Arts, fait par M. de Winckelmann en langue Allemande, qui avoit des rapports avec la troisieme partie de celui-ci. Par les extraits de cet excellent ouvrage, donnés par le Journal Encyclopédique, & par la Gazette littéraire ; j’ai vu que ma troisieme partie devenoit presque superflue, puisqu’elle roule en grande partie sur des objets sûrement beaucoup mieux vus, & mieux sentis par le profond écrivain Allemand que par moi.

5 Alla fine però Guasco decide di pubblicare ugualmente la sua terza parte : « J’ai mieux aimé de courir le risque de perdre au parallèle, en laissant mon travail distribué comme il est11. »

6 L’unica notizia rinvenuta tra le carte manoscritte dell’abate piemontese relativa al suo rapporto con gli scritti di Winckelmann si trova nella sua autobiografia, ancora inedita. Parlando della struttura del De l’usage des statues chez les anciens, egli così precisa12 : La parte antiquaria che direbbesi a prima gionta il principale oggetto di quest’opera pare non aver messo in vista la parte filosofica. Ella è divisa in tre parti nella prima delle quali trattasi delle statue sacre, nella seconda delle onorifiche, e si raggira la terza sopra la storia, e la filosofia dell’arte trattata più in iscorcio di che abbia fatto contemporaneamente il dotto Winkelman [sic].

7 Nonostante tutto, i due rimangono degli intellettuali molto differenti, animati da un obiettivo comune, ma svolto secondo approcci metodologici e interessi culturali profondamente diversi. Eppure esiste un autore che ha inciso fortemente nella formazione di entrambi. Si tratta di Montesquieu. Guasco non solo lo frequenta a varie riprese presso il castello di La Brède a partire dal 1738, ma diventa anche uno dei suoi consiglieri più ascoltati ed uno dei suoi amici più devoti13. Il 9 aprile 1754, mentre l’abate si trova a Napoli, Montesquieu lo paragona a « une boîte pleine de fleurs d’érudition que vous repandez à pleines mains dans tous les Pays que vous parcourez14 ». Guasco legge la stesura finale dell’Esprit des lois e viene incaricato addirittura di tradurlo in italiano. Anche il rapporto di Winckelmann con il presidente bordolese è altrettanto intenso, sebbene non sia così diretto come accade all’abate italiano15. Legge con passione l’Esprit des lois, consegnando alla sua « biblioteca manoscritta » numerosi estratti relativi alle caratteristiche dei governi tirannici, agli effetti benefici della repubblica sui costumi e al ruolo delle leggi nel preservare le libertà. Inoltre egli s’interessa all’incidenza delle leggi sulle società antiche, con particolare attenzione all’educazione virtuosa, al commercio, fonte allo stesso tempo di floridezza e corruzione, al lusso e alla liberalità, come sintomi della decadenza, e alla frugalità domestica, come condizione della prosperità pubblica. Winckelmann ha trovato nell’ Esprit des lois un articolato studio sul funzionamento dei principali sistemi culturali prodotti dall’uomo nel corso della storia che fa confluire nella sua opera più famosa, la Geschichte der Kunst des Alterthums del 1764.

8 Malgrado la sua vicinanza a Montesquieu, nel De l’usage des statues chez les anciens Guasco assume un atteggiamento ambivalente nei confronti del pensiero dell’amico.

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Egli oscilla continuamente tra espliciti e ammirati richiami alle posizioni teoriche del presidente e nette prese di distanza per affermare una originale identità intellettuale. Lo scopo dell’opera, secondo una prospettiva storiografica chiaramente ispirata dall’ Esprit des lois, è quello di indagare l’importanza che le statue avevano nell’antichità e les rapports que leur origine & leur progrès avoient avec l’établissement, les progrès & les mœurs des sociétés. On se seroit peut-être attendu dans un essai sur l’Histoire des Statues, de trouver plutôt des connoissances profondes, des jugements éclairés sur les productions de la Sculpture, que des vues & des réflexions philosophiques sur les monuments de l’art statuaire, plutôt un détail de ces monuments antiques, que les raisons qui les ont fait élever, en un mot, un Antiquaire plutôt qu’un Moraliste16.

9 Guasco precisa poi che l’« usage des statues chez les Anciens » deve essere messo in relazione con molti più aspetti di quanto si potrebbe forse credere : « Il tenoit à la religion, à la morale, aux principales maximes du gouvernement, aux sentiments les plus tendres de la nature17. » Per non lasciarsi sfuggire « l’influence réciproque des mœurs, des loix & des arts des Anciens » è necessario affidarsi alla sapiente regia della filosofia : « Les statues appartiennent plus à la Philosophie qu’on ne le penseroit18. » Tuttavia, essa non potrebbe fare quasi nulla senza l’apporto dell’erudizione. Come per Montesquieu, lo storico ha bisogno delle « richesses de l’Erudit & de l’Antiquaire », le quali « fournissent souvent aux sciences sublimes & à la poésie, les sujets sur lesquels elles s’exercent19 ». Sulla scorta ancora dell’Esprit des lois, Guasco cerca di sostenere con parecchi fatti la parte morale della sua opera, perché ritiene che sia meglio abbondare in prove piuttosto che azzardare con leggerezza delle congetture basate su elementi appena visti per paura di appesantire troppo l’opera. Egli invita infine i suoi lettori a stare attenti ad evitare di giudicare le statue degli antichi attraverso i costumi e le buone maniere a lui contemporanee. Poi aggiunge20 : ce n’est pas le seul cas, où pour se faire des idées justes, il faille se laisser, pour ainsi dire, entraîner aux mœurs antiques. Vouloir rendre modernes les siecles anciens, transporter dans les siecles reculés les idées du siecle où l’on vit ; c’est, dit l’illustre Montesquieu, des sources de l’erreur, celle qui est la plus féconde. Je dirai encore, c’est faire paroître les Héros Grecs sur notre scene avec nos mœurs & nos habits.

10 Dopo aver onorato il suo tributo nei confronti del capolavoro del presidente bordolese, Guasco non manca allo stesso tempo di prenderne le distanze, cercando di evidenziare i propri specifici orientamenti culturali. La critica più significativa è contenuta in una delle affermazioni metodologiche più interessanti del De l’usage des statues chez les anciens, quella relativa allo studio non solo delle statue antiche, ma anche di quelle appartenenti ai moderni selvaggi per dimostrare che la natura umana è regolata sempre dalle medesime leggi21 : On pourroit demander pourquoi dans un ouvrage où il est question des statues anciennes, j’ai souvent tiré des exemples des pratiques des Barbares ou des Sauvages & des temps modernes ; je répondrai que rien n’est plus propre à nous donner des idées justes sur l’état des arts, sur les mœurs & les usages des anciens, encore peu civilisés, que de présenter les pratiques des nations qui de nos jours vivent encore dans l’état de barbarie. Il est bon de faire remarquer que chez toutes les nations & dans tous les temps le Moral & le Phisique se trouvent, pour ainsi dire, au niveau, un même esprit animant & modifiant l’un & l’autre ; que tous les peuples du monde ont à-peu-près les mêmes chimères dont la source est dans la nature humaine & dans ses affections, puisqu’elles se sont trouvées presque les mêmes dans des pays fort éloignés les uns des autres pour les lieux & pour les temps.

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11 In questo brano Guasco si discosta nettamente dal relativismo storico di Montesquieu e aderisce all’idea sull’unità del genere umano condivisa da molti studiosi antichi e coevi. Inoltre se il barone de La Brède ritiene che lo spirito sia il prodotto dell’interazione delle cause morali e fisiche, l’abate italiano ribalta tale assunto ritenendo che sia l’esprit ad animarle e modificarle. Dunque lo spirito sembra essere una facoltà intellettuale che determina la costituzione della realtà morale e fisica. Tale interpretazione in senso razionalistico dell’esprit trova un preciso riscontro anche nel lavoro di traduzione in lingua italiana del capolavoro di Montesquieu, il cui titolo viene reso dall’abate piemontese dapprima con « Della mente delle leggi » e poi con « Della ragione delle leggi ». Come ha osservato acutamente Robert Shackleton, uno dei più importanti studiosi del presidente bordolese del secolo scorso, « pour Guasco, Montesquieu serait d’avis que les lois ont une inspiration intellectuelle et rationnelle, qui en détermine la nature22 ».

12 Al di là delle posizioni che lo studioso italiano e quello tedesco assumono nei confronti del capolavoro di Montesquieu, i loro testi rimangono più divisi dalle differenze che uniti dalle consonanze. Come noto, l’obiettivo fondamentale della Geschichte der Kunst è lo studio dell’« essenza dell’arte » (Wesen der Kunst) presente nelle « opere dell’antichità » (Werken des Alterthums)23, dalle quali viene però rigorosamente bandita, per usare una famosa espressione di Kant, la rappresentazione del suo « scopo » (Zweck)24. È proprio su questo terreno che la concezione della scultura di Guasco prende nettamente le distanze da quella di Winckelmann. Anziché considerare lo stile e l’iconografia come gli strumenti privilegiati che permettono di isolare la forma e il contenuto di un’opera d’arte, l’abate italiano si concentra invece sull’« usage » per verificare in che modo una statua ha impresso i caratteri « morali » della propria epoca. Così facendo, il suo lavoro si avvicina di più a quello dello storico e del naturalista. Egli scrive25 : Les monuments même grossiers, imparfaits & vils aux yeux de l’artiste, sont précieux pour quiconque veut connoître le progrès des arts. Les médailles ordinaires sont des preuves des faits historiques, les monuments de l’Histoire Naturelle sont, pour ainsi dire, les médailles de la nature, les monuments même informes le sont du progrès des arts & du goût. Les statues sont les médailles des mœurs anciennes.

13 Di fronte al silenzio di Winckelmann sul significato storico delle sculture, Guasco ne precisa invece il senso dapprima nell’epoca a lui contemporanea e poi in quella antica : « Parmi nous, les statues ne sont guere que des objets de luxe civil ou religieux. » Per l’età pagana invece l’histoire des statues est presque l’histoire de l’Idolâtrie, une statue d’un Dieu étoit un Dieu, celle d’un homme illustre fut le suprême honneur, un droit inaliénable de la vertu, un témoignage éternel des belles & grandes actions dont les passions, la politique & la législation s’occuperent également26.

14 Come già rilevato, il rapporto tra Guasco e Winckelmann rimane piuttosto complesso, in cui i punti di divisione si alternano più frequentemente rispetto a quelli d’incontro. Se i primi riflettono indubbiamente i loro personali approcci al tema della scultura, evidenziando scelte metodologiche del tutto originali, i secondi sono invece il frutto di letture di fonti comuni, sia antiche che moderne, e anche dell’utilizzo, da parte dell’abate italiano, di alcune sezioni dell’opera dello storico tedesco. A tale proposito è sufficiente richiamare l’attenzione su un brano riguardante l’Apollo del Belvedere contenuto nel De l’usage des statues chez les anciens. Scrive Guasco : « S’agissant de

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peindre sur le visage d’Apollon vainqueur de Python une indignation mêlée de mépris, l’auteur de la statue du Vatican qui représente ce Dieu dans cette action, a cru qu’il suffisoit d’exprimer l’indignation dans le nez & le mépris dans les lèvres27. » Egli non si limita a riprendere alla lettera la descrizione della scultura elaborata da Winckelmann, seguendo la traduzione francese dell’Histoire de l’Art chez les Anciens del 1766, ma ne accoglie soprattutto l’innovativa interpretazione iconografica28.

15 Uno dei motivi sostanziali dell’opposizione tra l’opera di Guasco e quella di Winckelmann rimane la ricostruzione delle origini remote della statuaria degli antichi. Lo studioso tedesco è troppo impaziente di rintracciare il più rapidamente possibile i caratteri antropomorfi della scultura greca, liquidando le vicende antecedenti in poche e sintetiche frasi : Le notizie più antiche di cui disponiamo ci insegnano che le prime figure rappresentavano l’uomo quale egli è e non come ci appare, il suo ambiente vitale e non il suo aspetto. […] l’invenzione dell’arte differisce a seconda dell’epoca dei vari popoli e in considerazione dell’anteriorità o posteriorità dell’introduzione del culto divino, per cui i Caldei o gli Egizi, molto prima che i Greci, hanno rappresentato in modo sensibile le loro immaginarie forze superiori per venerarle.

16 Quando tra i Greci non era stata ancora modellata una forma umana, si adoravano già apertamente trenta divinità che ci si accontentava di abbozzare con un ceppo di legno non lavorato o con pietre quadrangolari, come facevano gli Arabi e le Amazzoni. Così si diede forma alla Giunone di Tespi e alla Diana di Icaro. Diana Patroa e Giove Milichio a Corinto e l’antichissima Venere di Pafo altro non erano che una specie di colonne. Bacco fu adorato sotto forma di colonna, e persino l’Amore e le Grazie furono raffigurati soltanto con delle pietre29.

17 Di tutt’altra estensione e articolazione è la ricostruzione delle origini della statuaria nell’opera di Guasco, per il quale il primo germe delle sculture si trova dans l’usage où furent les premiers habitants du monde de laisser des monuments visibles & permanents, soit des bienfaits qu’ils croyoient avoir reçus des Dieux, soit des prodiges qu’on leur attribuoit, soit enfin des objets matériels, au moyen desquels on entendoit de fixer l’idée vague & métaphysique de la divinité, & de rallier les hommes à un culte quelconque30.

18 Il testo che incide profondamente su questa parte dell’opera dell’abate italiano è sicuramente il Du Culte des Dieux Fétiches di Charles de Brosses del 1760, il cui utilizzo avviene però all’interno di una serie di referenze culturali di evidente stampo sincretistico31. Rifacendosi alla posizione teorica proprio di quest’ultimo e in contrasto con quella di Bernard de Montfaucon, Guasco ritiene che l’origine della statuaria non sia da ricercare nelle statue, bensì nei betili. Il loro uso sembra essere stato seguito ovunque presso tutti i popoli, anche se distanti tra loro nel tempo e nello spazio. Il principale impulso alla diffusione dei betili va ricercato nell’idolatria che Guasco ricostruisce anche attraverso la classificazione presente nel Libro della Sapienza, il testo sull’argomento più importante della tradizione cristiana32. Al culto di questi primi feticci, oggetti sacri che non rappresentano nulla, fa seguito quello della zoolatria e poi quello del sabeismo. Successivamente compaiono delle divinità che hanno « quelque ressemblance avec l’homme, le plus noble des êtres vivants », in virtù del fatto che esse sono animate e sono « comme le siege de l’esprit divin33 ». In primo luogo si pone la testa umana in cima alle colonne e agli obelischi ; poi si aggiunge qualche altra parte dell’uomo. Con il progresso dell’arte si cerca di avvicinare sempre di più questi simulacri imperfetti al corpo dell’uomo, anche se essi inizialmente non hanno le braccia

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e le gambe separate. Rispondendo quasi polemicamente a Winckelmann, Guasco ritiene che le modalità di sviluppo delle statue in Grecia siano esattamente le stesse del resto di tutte le altre nazioni antiche.

19 Un’altra ragione fondamentale che sta alla base del netto contrasto tra l’opera dei due studiosi concerne le origini dell’arte greca. Le radicate convinzioni diffusioniste di Guasco, condivise con molti altri autori coevi, tra cui il conte de Caylus, contrastano con quelle autarchiche di Winckelmann34. È famosa l’asserzione di quest’ultimo che L’arte presso i Greci, sebbene molto più tardi che in Oriente, ebbe inizio con una tale semplicità che, stando a ciò che loro stessi narrano, essi non hanno raccolto da nessun altro popolo il primo seme della loro arte, ma possono sembrarne i primi inventori35.

20 Invece per l’abate piemontese, come anche per tanti altri studiosi settecenteschi, l’origine dell’arte greca va ricercata in Asia e in Egitto. Solo a partire dalla spedizione di Serse les Grecs commencerent de porter les arts reçus de l’Orient & de l’Égypte, à des degrés de perfection qu’ils n’avoient pu atteindre dans le lieu de leur berceau, recevant sans doute ce poli, & cette élévation des mains de la liberté qui fut toujours étrangère dans ces pays-là. D’ailleurs les génies inventeurs sont plus capables de créer que de polir, & les Grecs imitateurs furent toujours plus propres à perfectionner qu’à créer36.

21 Non mancano, sebbene in misura minore, anche importanti punti di convergenza tra i due studiosi, i quali, come abbiamo già detto, sono frutto più di letture di comuni fonti antiche e moderne che di uno scambio diretto. Una delle cause morali, per impiegare un’espressione cara a Montesquieu, che incide maggiormente nel processo di perfezionamento dell’arte greca riguarda il ruolo fondamentale della libertà. Alla nota affermazione di Winckelmann che « a proposito della costituzione e del governo della Grecia, la libertà è la ragione principale della sua superiorità artistica37 », fa eco Guasco : « La Grèce devint libre & les arts y prirent le plus grand effort, s’éleverent & s’ennoblirent38. » Sia per l’uno che per l’altro il primato dell’arte greca, rispetto a quella di altre nazioni, va cercato innanzitutto nel clima e poi nel governo. Così scrive l’abate italiano39 : le climat de la Grèce, […], étoit le plus propre à favoriser le goût exquis qu’on nourrissoit pour les arts. On diroit que Minerve elle-même l’avoit choisi dans cette intention. Si à la douce température d’un ciel pur & serein propre à faire germer dans les esprits des idées pictoresques, & des belles images, & à présenter aux yeux des artistes des objets qui brillassent par les proportions, & la beauté naturelle, vous ajoutez un gouvernement fait pour donner de l’effort aux esprits & à former le jugement, vous aurez la premiere & la plus puissante raison de cette supériorité.

22 Oltre il clima e il governo, Guasco attribuisce ai costumi e alle buone maniere un’altra ragione della superiorità dell’arte greca, non scostandosi molto dai più profondi convincimenti enunciati da Winckelmann nei Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke del 175540. In relazione ad esse l’abate piemontese afferma41 : Il se présentoit sans cesse des occasions où la nature se montroit sans le voile que la bienséance lui donne parmi nous, & déployoit toute la variété de ses attitudes & de ses attraits. On voyoit sans cesse à Athènes la fleur de la jeunesse danser presque nue sur le théâtre public aux fêtes célébrées en l’honneur de Cérès ; ainsi qu’on voit encore les danseuses dans les différentes cours des Indes.

23 Guasco individua infine un ulteriore motivo della preminenza dell’arte dei Greci in un preciso episodio della loro « police nationnale ». Così egli scrive42 :

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Un écrivain dit que malgré que les Lacédémoniens négligeassent fort leurs figures, ils avoient toutefois une attention extrême à ce que leurs enfants fussent beaux, bienfaits & d’une constitution propre au métier de la guerre auquel ils étoient destinés. Dans cette vue ils avoient soin de placer devant les yeux de leurs femmes pendant leur grossesse les statues de Narcisse, d’Hyacinte, de Castor & de Pollux, d’Apollon & de Bacchus. À Athenes la belle nature fournissoit donc des modeles aux beaux arts ; à Sparte c’étoit les beaux arts qui en fournissoient à la nature.

24 Rifacendosi al famoso episodio narrato da Oppiano di Apamea nell’opera Cinegetica43, l’abate italiano vuole dimostrare il « potere plastico » dell’immaginazione nel processo di modificazione del feto in una donna gravida attraverso la vista delle belle statue delle divinità. La posizione a favore della vis imaginativa, ripresa da molti autori moderni, tra i quali Nicolas Malebranche, era stata invece duramente contestata da Montesquieu44. Anche Winckelmann ritiene che il passo di Oppiano sia da mettere tra le cause che spiegano la superiorità dell’arte greca. Esso viene però accolto solo in due opere molto tarde, le Anmerkungen über die Geschichte der Kunst des Alterthums del 1767 e la riedizione postuma della Geschichte der Kunst del 1776. Delle due referenze quella che ha maggiore rilevanza per questo studio è sicuramente la prima45 : Come attesta Oppiano, la considerazione generale per la bellezza, che da me è indicata anche come una delle cause della superiorità dell’arte greca, è arrivata a tal punto che le donne spartane disponevano nella loro stanza da letto un Apollo o Bacco, o un Nireo, Narciso, Giacinto, o un Castore e Polluce per aver dei bei bambini.

25 Se la citazione dell’autore antico ha una intrinseca coerenza rispetto al concetto d’immaginazione impiegato da Guasco nella sua opera, di tutt’altra coesione esso è invece all’interno dell’intero dispositivo teoretico di Winckelmann. Ad esempio, nell’ Abhandlung von der Fähigkeit der Empfindung des Schönen in der Kunst del 1763 l’immaginazione non viene considerata l’unico organo responsabile della bellezza, ma essa deve essere associata al senso interno, chiamato altrimenti sentimento. A differenza di quello che fa pensare Oppiano, non esiste un rapporto automatico tra senso esterno e quello interno, poiché la sensibilità del secondo non corrisponde sempre all’esattezza del primo. Se il senso esterno agisce meccanicamente, quello interno è piuttosto un’azione spirituale46.

26 L’opera di Guasco non conosce una grande fortuna nel corso del secondo Settecento. La sua accoglienza tra gli amici e i conoscenti più intimi dell’autore piemontese è alquanto deludente. Il 22 aprile 1769, in una lettera a François-de-Paul Latapie, Jean-Baptiste de Secondat, figlio di Montesquieu, si sofferma esclusivamente a considerare le « fautes de style » del libro che hanno il potere « d’écorcher les oreilles des lecteurs français47 ». Alla fine del 1770 viene pubblicata, sempre dal Journal encyclopédique, la sola recensione nota, dedicata all’opera di Guasco48. Il critico anonimo, dopo aver ricordato l’importanza del capolavoro di Winckelmann, sottolinea il merito dell’abate italiano di aver intrapreso un lavoro del tutto nuovo, « sinon sur le même sujet, dumoins sur la partie la plus intéressante & la plus épineuse du même sujet ». Esso non solo ha placato i rimpianti causati dalla morte inattesa e crudele dello studioso tedesco, ma ha sviluppato anche una ricerca che deve essere considerata « le supplément, ou plutôt comme le complément du sçavant ouvrage de Mr. de Winckelmann49 ». In seguito a queste isolate testimonianze cala di fatto sul libro di Guasco una spessa e impenetrabile coltre d’oblio che solo in questi ultimi decenni è stata in parte rimossa. Nonostante le parole del recensore francese, con il passare degli anni tra il De l’usage des statues e la Geschichte der Kunst si è scavato un fossato sempre più ampio e sempre più incolmabile. La complementarietà tra i due testi si è trasformata via via in una irreversibile

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inconciliabilità. Come spiegare questo fatto ? La moderna cultura visuale direbbe che si tratta di una conseguenza inevitabile dell’affermazione della storia dell’arte, la quale, dopo aver fatto propri oggetti nati senza un necessario carattere estetico, li ha sottoposti ad indagini formali e iconologiche spesso indipendenti le une dalle altre50. In alternativa, l’interdisciplinare Bildwissenschaft si pone come obiettivo di studiare tutte le immagini, sia fisiche che mentali, da una rigorosa prospettiva culturale, esaminando « la varietà degli usi sociali di cui sono oggetto, l’efficacia e i valori che vengono loro attribuiti, le condizioni tecniche e mediali che ne consentono la produzione e la circolazione51 ». Dunque l’unica concreta possibilità di riconsiderare oggi l’opera di Guasco è affidata a questo nuovo orizzonte disciplinare, dove la funzione culturale e sociale di una statua diventa prioritaria rispetto alla ricerca esclusiva delle sue intrinseche qualità estetiche o iconologiche.

NOTE

1. P. D’ANGELO, « DAL SETTECENTO AD OGG I », IN L. RUSSO (A CURA DI), ESTETICA DELLA SCULTURA , PALERMO,

AESTHETICA, 2003, P. 91-125 ; J. LICHTENSTEIN, LA TACHE AVEUGLE. ESSAI SUR LES RELATIONS DE LA PEINTURE ET DE LA SCULPTURE À L’ÂGE CLASSIQUE, PARIS, GALLIMARD, 2003.

2. P. BERSELLI AMBRI, L’OPERA DI MONTESQUIEU NEL SETTECENTO ITALIANO, FIRENZE, OLSCHKI, 1960, P. 14-16, 23, 152, 218 ;

S. ROTTA, « MONTESQUIEU NEL SETTECENTO ITALIANO : NOTE E RICERCHE », MATERIALI PER UNA STORIA DELLA CULTURA

GIURIDICA I (1971), P. 55-209, QUI P. 100-108, 186-209 ; R. SHACKLETON, « L’ABBÉ DE GUASCO AMI ET TRADUCTEUR DE

MONTESQUIEU », IN IDEM, ESSAYS ON MONTESQUIEU AND ON THE ENLIGHTENMENT, OXFORD, VOLTAIRE FOUNDATION, 1988,

P. 217-229 ; P. GRIENER, THE FUNCTION OF BEAUTY. THE « PHILOSOPHES » AND THE SOCIAL DIMENSION OF ART IN LATE EIGHTEENTH CENTURY FRANCE, WITH PARTICULAR REGARD TO SCULPTURE, OXFORD, DEPARTMENT OF THE HISTORY OF

ART, 1989, P. 97-106 ; A. SARCHI, « QUATREMÈRE DE QUINCY E OCTAVIEN GUASCO : ABBOZZO PER UNA GENESI DELLO

JUPITER OLYMPIEN », RICERCHE DI STORIA DELL’ARTE 64 (1998), P. 79-88 ; C. PRETI, S.V. « GUASCO, OTTAVIANO (GIOVANNI

BATTISTA OTTAVIANO, OCTAVE) », DBI, LX, 2003, P. 457-460 ; P. GRIENER, « OTTAVIANO DI GUASCO, INTERMÉDIAIRE

ENTRE LA PHILOSOPHIE FRANÇAISE ET LES ANTIQUITÉS DE ROME », IN L. NORCI CAGIANO (A CURA DI), ROMA TRIUMPHANS ?

L’ATTUALITÀ DELL’ANTICO NELLA FRANCIA DEL SETTECENTO, ROMA, EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA, 2007, P. 25-51.

3. Satyres de Monsieur le Prince de Cantemir, Londres, J. Nourse, 1749. Cf. R. J. MORDA EVANS, « ANTIOKH KANTEMIR AND HIS FIRST BIOGRAPHER AND TRANSLATOR », THE SLAVONIC AND EAST EUROPEAN REVIEW XXXVII, 88

(1958), P. 184-195 ; C. G. DE MICHELIS, « STORIE DI SPIONAGGIO DEL XVIII SECOLO (IN MARGINE AL RAPPORTO DI A. KANTEMIR CON I FRATELLI GUASCO) », ANNALI DEL DIPARTIMENTO DI STUDI DELL’EUROPA ORIENTALE (SEZIONE STORICO-

POLITICO-SOCIALE) IV-V (1982-1983), P. 91-115 ; S. LEMMY, LES CANTEMIR : L’AVENTURE EUROPÉENNE D’UNE FAMILLE

PRINCIÈRE AU XVIIIE SIÈCLE, PARIS, COMPLEXE, 2009.

4. G. HAROCHE-BOUZINAC, « LES LETTRES FAMILIÈRES DU PRÉSIDENT DE MONTESQUIEU. AMITIÉ ET FAMILIARITÉ », REVUE

MONTESQUIEU 6 (2002), P. 17-31 ; C. VOLPILHAC-AUGER, UN AUTEUR EN QUÊTE D’ÉDITEURS ? HISTOIRE ÉDITORIALE DE L’ŒUVRE

DE MONTESQUIEU (1748-1964), LYON, ENS, 2011, P. 185-197. 5. F. VENTURI, SETTECENTO RIFORMATORE, TORINO, EINAUDI, 1987, V, 1, P. 654, N. 85. 6. J. J. WINCKELMANN, BRIEFE, BERLIN, DE GRUYTER, 1952-1957, IV, P. 104-105. 7. Ibidem, III, p. 272. 8. Ibidem, III, p. 350.

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9. Journal encyclopédique VI, 2 (1763), p. 77-95 ; I, 1 (1766), p. 57-75. 10. Ibidem, p. 57, n. a. 11. O. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES CHEZ LES ANCIENS. ESSAI HISTORIQUE, BRUXELLES, J.-L. DE BOUBERS, 1768, P. 387. L’AUTORE FA ESPLICITO RIFERIMENTO ALLA RECENSIONE DEL JOURNAL ENCYCLOPÉDIQUE VII, 1 (1764), P. 64-83 ; VII, 2 (1764), P. 39-62 ; VII, 3 (1764), P. 76-91 ; VIII, 1 (1764), P. 54-82 ; VIII, 2 (1764), P. 97-122 E A QUELLA DELLA GAZETTE LITTÉRAIRE DE L’EUROPE VIII (1766), P. 425-428. 12. Verona, Biblioteca Civica, Ms. 280, s.i.p. 13. Per il rapporto tra i due cfr. supra, p. 12. 14. Lettres familières du Président de Montesquieu Baron de la Brède à divers amis d’Italie, s.l., s.e. [ = Firenze, Stecchi e Pagani], 1767, p. 200. 15. É. DÉCULTOT, JOHANN JOACHIM WINCKELMANN. ENQUÊTE SUR LA GENÈSE DE L’HISTOIRE DE L’ART, PARIS, PUF, 2000, P. 153-155.

16. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. V. 17. Ibidem, p. VIII. 18. Ibidem, p. IX. 19. Ibidem, p. X.

20. Ibidem, p. XI. CF. MONTESQUIEU, DE L’ESPRIT DES LOIS, PARIS, GALLIMARD, 1995, XXX, P. 14 : « TRANSPORTER DANS DES SIÈCLES RECULÉS TOUTES LES IDÉES DU SIÈCLE OÙ L’ON VIT, C’EST DES SOURCES DE L’ERREUR CELLE QUI EST LA PLUS FÉCONDE. »

21. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. XIII-XIV. SUL RAPPORTO BARBARI-SELVAGGI NEL PENSIERO SETTECENTESCO

CFR. R. MINUTI, « CIVILE E SELVAGGIO », IN ILLUMINISMO. UN VADEMECUM, TORINO, BOLLATI BORINGHIERI, 2008, P. 59-73.

22. SHACKLETON, « L’ABBÉ DE GUASCO », P. 228. 23. J. J. WINCKELMANN, GESCHICHTE DER KUNST DES ALTERTHUMS. ERSTE AUFLAGE DRESDEN 1764. ZWEITE AUFLAGE WIEN

1776, MAINZ AM RHEIN, ZABERN, 2002, P. XVI.

24. I. KANT, CRITICA DEL GIUDIZIO, BARI, LATERZA, 1970, I, P. 81. 25. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. X. 26. Ibidem, p. XI. 27. Ibidem, p. 454. 28. J. WINCKELMANN, HISTOIRE DE L’ART CHEZ LES ANCIENS, PARIS, SAILLANT, 1766 ; AMSTERDAM, HARREVELT, 1766, II, P. 286 : « LE MÉPRIS SIEGE SUR SES LEVRES ; & L’INDIGNATION QU’IL CONCENTRE AU-DEDANS DE LUI-MÊME VIENT ENFLER SES NARINES. » 29. WINCKELMANN, GESCHICHTE DER KUNST, P. 4, 6, 8. 30. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. 4. 31. C. DE BROSSES, DU CULTE DES DIEUX FÉTICHES, OU PARALLÈLE DE L’ANCIENNE RELIGION DE L’ÉGYPTE AVEC LA RELIGION

ACTUELLE DE NIGRITIE, S.L., S.E., 1760. CF. M. DAVID, « HISTOIRE DES RELIGIONS ET PHILOSOPHIE AU XVIIIE SIÈCLE : LE PRÉSIDENT DE BROSSES, DAVID HUME ET DIDEROT », REVUE PHILOSOPHIQUE DE LA FRANCE ET DE L’ÉTRANGER CLXIV (1974), P. 145-160.

32. M.-V. DAVID, « LES IDÉES DU XVIIIE SIÈCLE SUR L’IDOLÂTRIE, ET LES AUDACES DE DAVID HUME ET DU PRÉSIDENT

DE BROSSES », NUMEN 24, 2 (1977), P. 81-94 ; F. SCHMIDT, « LA DISCUSSION SUR L’ORIGINE DE L’IDOLÂTRIE AUX XVIIE ET

XVIIIE SIÈCLES », IN L’IDOLÂTRIE, PARIS, LA DOCUMENTATION FRANÇAISE, 1990, P. 53-67.

33. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. 29.

34. É. DÉCULTOT, « WINCKELMANN E CAYLUS : ALCUNI ASPETTI DI UN DIBATTITO STORIOGRAFICO », IN G. CANTARUTTI E

S. FERRARI (A CURA DI), PAESAGGI EUROPEI DEL NEOCLASSICISMO, BOLOGNA, IL MULINO, 2007, P. 37-60.

35. WINCKELMANN, GESCHICHTE DER KUNST, P. 8. 36. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. 397. 37. WINCKELMANN, GESCHICHTE DER KUNST, P. 218. 38. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. 399.

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39. Ibidem, p. 437. 40. J. J. WINCKELMANN, « GEDANCKEN ÜBER DIE NACHAHMUNG DER GRIECHISCHEN WERKE IN DER MAHLEREY UND

BILDHAUER-KUNST », IN IDEM, KLEINE SCHRIFTEN. VORREDEN - ENTWÜRFE, BERLIN, GRUYTER, 1968, P. 27-59, QUI P. 34.

41. GUASCO, DE L’USAGE DES STATUES, P. 437. 42. Ibidem, p. 443.

43. OPPIANO, CINEGETICA, I, 358-366. SU QUESTO EPISODIO CFR. M. ANGELINI, « IMMAGINAZIONISMO ED EUGENETICA IN ETÀ MODERNA. CONTRIBUTO PER LA STORIA DI UN’IDEA », QUADERNI INTERNAZIONALI DI STORIA DELLA MEDICINA E DELLA SANITÀ III, 2 (1994), P. 3-28. 44. C. BORGHERO, « DAL “GÉNIE” ALL “ESPRIT”. FISICO E MORALE NELLE CONSIDÉRATIONS SUR LES ROMAINS DI

MONTESQUIEU », IN A. POSTIGLIOLA (A CURA DI), STORIA E RAGIONE. LE CONSIDÉRATIONS SUR LES CAUSES DE LA GRANDEUR DES ROMAINS ET DE LEUR DÉCADENCE DI MONTESQUIEU NEL 250° DELLA PUBBLICAZIONE, NAPOLI, LIGUORI,

1987, P. 251-276, QUI P. 254-256. SULL’IMMAGINAZIONISMO NEL PENSIERO MODERNO CF. M. ANGELINI, « IL POTERE

PLASTICO DELL’IMMAGINAZIONE NELLE GESTANTI TRA XVI E XVIII SECOLO. LA FORTUNA DI UN’IDEA », INTERSEZIONI XIV,

1 (1994), P. 53-69. 45. J. J. WINCKELMANN, Anmerkungen über die Geschichte der Kunst des Alterthums. Dresden 1767, Mainz am Rhein, Zabern, 2008, p. 51. Cf. anche WINCKELMANN, Geschichte der Kunst, p. 217. 46. J. J. WINCKELMANN, « ABHANDLUNG VON DER FÄHIGKEIT DER EMPFINDUNG DES SCHÖNEN IN DER KUNST, UND

DEM UNTERRICHTE IN DERSELBEN », IN IDEM, KLEINE SCHRIFTEN, P. 211-233. PER UN APPROFONDIMENTO DEL CONCETTO

D’IMMAGINAZIONE IN WINCKELMANN CFR. É. DÉCULTOT, « ERLEBTE ODER ERTRÄUMTE ANTIKE ? ZU WINCKELMANNS

GEPLANTEN GRIECHENLANDREISEN », IN E. KOCZISZKY (HRSG.), RUINEN IN DER MODERNE. ARCHÄOLOGIE UND DIE KÜNSTE,

BERLIN, REIMER, 2011, P. 125-140, QUI P. 133-137. 47. VOLPILHAC-AUGER, UN AUTEUR EN QUÊTE D’ÉDITEURS ?, P. 191, N. 28. 48. Journal encyclopédique VIII, 2 (1770), p. 167-183 ; VIII, 3 (1770), p. 344-358. 49. Ibidem, p. 168 e 358. 50. H. BELTING, « LA FIN D’UNE TRADITION ? », REVUE DE L’ART 69 (1985), P. 4-12. 51. A. PINOTTI, A. SOMAINI (A CURA DI), TEORIE DELL’IMMAGINE. IL DIBATTITO CONTEMPORANEO, MILANO, RAFFAELLO CORTINA EDITORE, 2009, P. 27-28.

RIASSUNTI

Ottaviano Guasco (1712-1781) è un erudito e storico italiano, noto soprattutto per aver pubblicato l’opera, De l’usage des statues chez les anciens, essai historique (Bruxelles 1768), nella quale affronta lo studio della scultura antica da una prospettiva intellettuale del tutto opposta a quella seguita da Winckelmann nella Geschichte der Kunst des Alterthums (Dresda 1764). Anziché sviluppare un approccio che privilegi la dimensione storica, artistica ed estetica, preferisce indagare i significati « filosofici » che si celano dietro le statue. Guasco è convinto che una scultura sia prima di tutto l’espressione di un bisogno religioso, morale o politico. Questa concezione della statuaria risente del decisivo incontro che egli ha a partire dal 1738 con Montesquieu e la sua opera più famosa, l’Esprit des lois. L’oblio che cala sull’opera di Guasco, immediatamente dopo la sua uscita, è da imputare soprattutto al ruolo egemonico esercitato dalla storia dell’arte in questi ultimi secoli, la quale, dopo aver fatto propri oggetti nati senza un necessario carattere estetico, li ha sottoposti quasi esclusivamente ad indagini formali e iconologiche, tralasciando di approfondire la loro reale funzione culturale e sociale.

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Ottaviano Guasco (1712-1781) is an Italian erudite and historian, known most of all for the publication of the work De l’usage des statues chez les anciens, essai historique (Bruxelles 1768), in which he studies ancient sculpture from an intellectual perspective competely different from Winckelmann’s one exposed in the Geschichte der Kunst des Altertums (Dresden 1764). Rather than developing and approach based on the historical, artistic and aesthetical dimension, he prefers to investigate the “philosophical” meanings hidden behind the statues. Guasco believes that a sculpture is first of all the expression of a religious, moral or political need. Such a conception of statuary is influenced by his decisive meeting from 1738 onwards with Montesquieu and his most famous work, l’Esprit des lois. The oblivion of Guasco’s work immediately after its publication should be ascribed to the hegemonic role of Art History in the last centuries, which, after appropriating objects born without a necessarily aesthetical character, submitted them almost exclusively to formal and iconological inquiries, omitting to further investigate their actual cultural and social function.

INDICE

Parole chiave : Ottaviano Guasco, scultura antica, Johann J. Winckelmann, Montesquieu, storia dell’arte, estetica, cultura visuale Keywords : Ottaviano Guasco, ancient sculpture, Johann J. Winckelmann, Montesquieu, Art History, Aesthetics, visual culture

AUTORE

STEFANO FERRARI Accademia Roveretana degli Agiati [email protected]

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La poésie didactique dans l’Antiquité : une invention des Modernes

Pierre Vesperini

1 La catégorie de « poésie didactique » est une catégorie couramment employée à propos de poèmes tels que Les Travaux et les Jours d’Hésiode, des poèmes présocratiques comme Sur la nature de Parménide ou d’Empédocle, des poèmes hellénistiques comme les Phénomènes d’Aratos ou les Thériaques de Nicandre, ou encore à propos de poèmes latins comme le De rerum natura de Lucrèce, les Géorgiques, ou les Astronomiques de Manilius.

2 Or, comme on l’a remarqué depuis longtemps, cette catégorie n’existait pas dans l’Antiquité1. Elle n’existait pas non plus à la Renaissance, ni dans la poésie de l’âge classique2. La question que je souhaiterais poser dans cet article est donc double : d’où vient que nous parlons de « poésie didactique », et comment les Anciens parlaient-ils des poèmes que nous considérons, nous, comme « didactiques » ?

3 Un lecteur moderne aura facilement l’impression qu’il y a entre Hésiode et Homère, ou entre le De rerum natura et l’Énéide, une différence de genre. Ce que je voudrais essayer de montrer, c’est que cette impression est déterminée par le « sol silencieux », pour le dire avec Foucault, à partir duquel sont produits nos discours. Elle repose en effet sur la distinction moderne entre « description » et « narration ». On aurait d’un côté des poèmes qui racontent des histoires, comme l’Iliade ou l’Énéide, et de l’autre des poèmes qui décrivent : Aratos décrit les constellations, Nicandre les différents types de bêtes venimeuses, etc. Cette première distinction recouvre une autre distinction familière aux modernes : celle entre fiction et science. Les poèmes qui racontent des histoires sont rangés du côté de la fiction, ceux qui décrivent la nature (ou des parties de la nature) sont rangés du côté de la science.

4 C’est ce partage moderne entre une poésie descriptive, scientifique, et une poésie narrative, fictionnelle, qui va fonder la distinction moderne entre poésie didactique et poésie épique. Par « poésie didactique », les savants modernes entendent en effet un genre poétique particulier, dans lequel la poésie sert de moyen à la communication

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d’un savoir. Les exposés qu’on rencontre sur les caractéristiques du genre didactique l’opposent souvent à la « poésie épique », qui n’aurait pas pour fin d’enseigner mais de divertir, en communiquant non pas un savoir, mais des histoires. On oppose ainsi couramment Homère et Hésiode, en disant que l’un est le fondateur de l’épopée et l’autre le fondateur de la poésie didactique. L’un raconterait des histoires, donc serait plutôt du côté de la fiction, l’autre communiquerait des enseignements, donc serait plutôt du côté de la sagesse, voire de la philosophie. L’opposition entre « poésie didactique » et « poésie épique » détermine ainsi une série d’oppositions :

poésie didactique poésie épique

description narration

instruction (et plus généralement philosophie, poésie (et plus généralement art, littérature) science)

savoir, vérité, science, philosophie, sagesse histoires, mythes, fiction, littérature

sérieux, sévérité séduction, plaisir

utilité jeu, donc inutilité

Hésiode Homère

Aratos (Phénomènes), Nicandre (Thériaques, Apollonius de Rhodes, Argonautiques Alexipharmakes)

Virgile (comme auteur de l’Énéide), Lucain, Lucrèce, Géorgiques, Manilius… Stace…

5 Le savoir communiqué n’est pas n’importe quel savoir : il s’agit de « vérités importantes » ou de « quelque art utile à la vie », pour citer une des premières définitions du genre3. Si Nicandre écrit un poème sur les poisons et les serpents vénéneux, c’est parce que la mort par empoisonnement était la première cause de mortalité dans l’Antiquité ; si Virgile écrit les Géorgiques, c’est pour soutenir la politique agricole d’Auguste. Il n’est pas difficile de reconnaître, derrière ce discours savant, une idée des Lumières : les vérités importantes et les arts utiles doivent être communiqués aux hommes. À la poésie de prêter à la communication de ce savoir son charme et sa douceur4.

6 Outre l’absence, dans l’Antiquité, de la notion de « poésie didactique », ce discours moderne sur la poésie didactique antique se heurte à deux problèmes. D’abord, la plupart des œuvres illustrant ce que les Modernes appellent « poésie didactique » sont des poèmes épiques, c’est-à-dire des poèmes en hexamètres. Mais ils ne sont pas considérés comme des épopées, parce que, dans le langage moderne, une épopée est censée être un poème narratif et fictionnel, « racontant les exploits des dieux ou des héros de façon grandiose ». Nous avons vu que l’opposition entre « didactique » et « épique » recouvrait une opposition entre « enseigner » et « raconter ». Or cette dernière opposition n’est pas pertinente pour l’Antiquité. Personne n’y opposait Homère et Hésiode comme nous le faisons. En effet, pour la plupart des Anciens, et

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jusqu’à la fin de l’Antiquité, Homère est le père de tout savoir et de toute sagesse. Si Hésiode lui est parfois associé dans ce rôle, il n’est jamais question de lui contester la primauté : Homère est l’éducateur de la Grèce, dès l’origine, comme le dit Xénophane5. C’est à ce titre que d’autres sages compositeurs de poèmes épiques, comme Parménide ou Empédocle, rivaliseront avec lui. Et c’est à ce titre qu’il sera attaqué par Pythagore ou Héraclite, et bien sûr par Platon.

7 Aucun, cependant, ne réussira à le détrôner, comme le montre le relief hellénistique du sculpteur Archélaos de Priène, au bas duquel les personnifications de muthos, d’historia, de poiesis, de tragodia, de komodia, mais aussi de phusis, d’arètè, de mnèmè, de pistis et enfin de sophia, viennent sacrifier un taureau à Homère, assis sur un trône (comme Zeus en haut du relief), devant Chronos et Oikoumenè6.

8 Cette idée réapparaîtra en Europe avec les humanistes : pour Melanchthon, « Homère enseigne ce qui est juste et utile, mieux que Chrysippe et Crantor ». Après plusieurs exemples, il ajoute qu’il a voulu montrer que la connaissance des bons auteurs ne forme pas seulement la langue, mais aussi le cœur7. Elle est encore défendue au début du XVIIIe siècle par un philosophe libre penseur, Thomas Collins8.

9 En dehors des poèmes d’Homère, les « mythes » en général sont source d’enseignement et de savoir : directement, par leur valeur « sapientielle » et, dirions- nous aujourd’hui, « scientifique » et « philosophique », par leur exemplarité éthique et esthétique ; indirectement, par les explications (scholies, gloses, allégories) auxquels il donnent lieu : à partir de poèmes comme les Argonautiques d’Apollonius de Rhodes ou la Thébaïde de Stace, on pouvait faire le tour encyclopédique de toutes les connaissances. C’est la raison pour laquelle la Bibliothèque d’Apollodore, immense encyclopédie mythographique, s’ouvrait par cette épigramme au lecteur9 : Αἰῶνος σπείρημα ἀφυσσάμενος ἀπ' ἐμεῖο παιδείης, μύθους γνῶθι παλαιγενέας εἰς ἐμὲ δ'ἀθρῶν εὑρησεις ἐν ἐμοὶ πάνθ' ὅσα κοσμος ἔχει. De moi tu tires la semence de l’éternel savoir : la connaissance des légendes antiques. […] Regarde-moi, en moi tu trouveras tout ce que contient l’univers.

10 Pour un Moderne, il peut sembler étonnant qu’un recueil mythographique prétende offrir à son lecteur non pas du plaisir, mais du savoir, et qui plus est le principe même (σπείρημα) de « l’éternel savoir » ainsi que la connaissance de « tout ce que contient l’univers ». Mais c’est que cette culture ignorait les oppositions qui nous sont familières – du « mythe » et de la science, de l’imaginaire et du rationnel, du plaisir et de l’instruction. Les mythes étaient des savoirs : à ce titre, ils enseignaient, exactement comme les savoirs antiques auxquels, contrairement aux mythes, nous reconnaissons encore le titre de savoir : agriculture (nous avons des écoles d’agriculture), astronomie, médecine, philosophie. De ce point de vue, un poème ayant une matière mythique, comme l’Iliade ou les Argonautiques, l’Énéide ou les Métamorphoses, est tout autant « didactique » que Les Travaux et les Jours ou les Phénomènes d’Aratos.

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Fig. I : Le bas relief hellénistique d'Archélaos de Priène, British Museum

11 Au moins en ce qui concerne la poésie grecque préclassique, il serait difficile de trouver des exemples de poètes qui ne soient pas en même temps des sages, des « maîtres de vérité » : Sappho, Archiloque, Alcman (fragment cosmogonique), Tyrtée, Pindare, Simonide, sans parler des poèmes à chanter dans les banquets de Solon ou de Théognis, qui sont eux aussi destinés indissociablement à charmer qu’à enseigner. C’est une autre opposition paradigmatique moderne, celle des lettres et des sciences, qui empêche d’apercevoir ce fait massif qu’en général, les poètes enseignent. Mais ils enseignent des savoirs que les Modernes ne reconnaissent pas comme savoirs : outre les mythes, ils enseignent les savoirs de l’amour, du banquet et du vin, les savoirs éthiques du guerrier, les chants et les danses des chœurs.

12 Ainsi, l’opposition entre une poésie didactique et une poésie épique, c’est-à-dire entre une poésie qui enseigne et une poésie qui raconte, n’est pas tenable, car elle repose sur une conception du savoir dont les définitions, les classements, les hiérarchies, sont étrangers à l’Antiquité, mais aussi au Moyen Âge.

13 La deuxième difficulté à laquelle se heurte le discours moderne sur la poésie didactique, c’est que l’association du savoir et de l’utilité, évidente pour des Modernes, ne l’était pas pour les Anciens, et encore moins lorsqu’il s’agissait de poésie. On lit couramment, nous l’avons dit, que les « poèmes didactiques » hellénistiques cherchaient à faciliter la communication de tel ou tel savoir (astronomie, médecine…) en le rendant plus attrayant, grâce à la poésie.

14 En réalité, les traités en prose suffisaient amplement. On apprenait l’astronomie dans Eudoxe de Cnide. Pourquoi alors le roi Antigone le Borgne a-t-il commandé son poème à Aratos ? La réponse se trouve dans la Vie d’Aratos10 : ὃς παρὰ τῷ βασιλεῖ γενόμενος καὶ εὐδοκιμήσας ἔν τε ἄλλῃ πολυμαθείᾳ καὶ τῇ ποιητικῇ προετράπη ὑπ' αὐτοῦ τὰ Φαινόμενα γράψαι, τοῦ βασιλέως Εὐδόξου

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ἐπιγραφόμενον βιβλίον Κατόπτρον δόντος αὐτῷ καὶ ἀξιώσαντος τὰ ἐν αὐτῷ καταλογάδην λεχθέντα περὶ τῶν φαινοένων μέτρῳ ἐντεῖναι καὶ ἅμα εἰπόντος ὡς εὐδοξότερον ποιεῖς τὸν Εὔδοξον ἐντείνας τὰ παρ ' αὐτῷ κείμενα μέτρῳ. [Aratos], parvenu auprès du roi, se fit connaître par son savoir, mais en particulier par son savoir en matière de poétique. Le roi l’exhorta à écrire les Phénomènes en lui donnant le livre d’Eudoxe. Il jugeait bon que ce qui y était dit en manière de catalogue sur les phénomènes soit mis en vers, ajoutant ceci : « En mettant ses mots en vers, tu rendras Eudoxe plus illustre. »

15 Il s’agissait donc, non pas de mettre la poésie au service de la prose, la littérature au service de la science, la fiction au service du vrai, mais de prendre une certaine matière, en l’occurrence « Eudoxe », et de la travailler de façon à en faire une œuvre d’art. Travailler à en faire une œuvre d’art, c’est lui donner de l’enargeia, et lui donner de l’enargeia, c’est rivaliser avec Homère, le maître de l’enargeia11. C’est pourquoi les Phénomènes se présentent comme une série d’ecphraseis mythologiques des constellations12. Comme le dit Manilius, le ciel d’Aratos est une longue fabula. Rien n’empêche qu’on se serve de ce poème pour enseigner l’astronomie, par exemple en corrigeant ses erreurs13. Mais Aratos n’a pas composé son poème pour enseigner. Il a voulu faire une œuvre d’art. C’est aussi pourquoi Aratos n’a pas à être lui-même un astronome, pas plus que Nicandre ne devait être agriculteur et médecin pour composer ses Géorgiques et ses Thériaques.

16 Le fonctionnement des Phénomènes est donc exactement l’inverse de ce qu’en disent les tenants de la catégorie de « poésie didactique » : il ne vise pas à enseigner à partir de la poésie ou grâce à la poésie ; il vise à faire une œuvre d’art à partir d’un champ du savoir, d’être par son art, en tant que poète, à la hauteur de sa matière. C’est là-dessus que portent tous les jugements sur l’œuvre d’Aratos : il s’agit de savoir s’il réussit ou non à faire une œuvre d’art qui s’élève à la même hauteur que sa matière14.

17 De la même façon, si à Rome Cicéron, Varron d’Atax, Helvius Cinna, Ovide, Germanicus, Aviénus, le père de Stace15, l’empereur Gordien16, sans oublier le poète anonyme de l’ Aratus Latinus et de « nombreux autres », selon saint Jérôme, font chacun à leur tour des « traductions » d’Aratos, ce n’est pas pour « communiquer » le savoir d’Aratos, ce n’est pas dans le but de corriger une traduction précédente pour la rendre plus exacte, mais dans le but de rivaliser avec d’autres poèmes latins dans l’entreprise esthétique consistant à faire une œuvre plus belle que la précédente, et qui soit à Rome une œuvre d’art équivalente aux Phénomènes17.

18 Il en va de même pour Nicandre de Colophon, dont nous avons perdu les Métamorphoses et les Géorgiques, mais dont nous avons encore deux poèmes étonnants : les Thériaques, qui portent sur les serpents venimeux, et les Alexipharmakes, qui portent sur les remèdes aux poisons. Nicandre n’a pas composé ces deux poèmes parce que la mort par poison était la cause de mort la plus fréquente dans l’Antiquité18. Comme Aratos avec la matière astronomique, Nicandre a fabriqué une œuvre d’art en prenant pour matière le savoir médical. Ici aussi, faire une œuvre d’art, c’est faire un poème animé par l’enargeia et bourré d’érudition. Ici aussi, c’est devenir un émule d’Homère, comme en témoigne la sphragis des Thériaques : καί κεν Ὁμηρείοιο καὶ εἰσέτι Νικάνδροιο μνῆστιν ἔχοις, τὸν ἔθρεψε Κλάρου νιφόεσσα πολίχνη. Et de Nicandre l’homérique tu pourras à jamais te souvenir, qui grandit dans la blanche bourgade de Claros.

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19 La pragmatique est donc là encore esthétique : c’est pourquoi, loin de faciliter la communication scientifique, le poème au contraire la suspend. Le texte de Nicandre, conformément à l’esthétique de l’épopée alexandrine, est extrêmement obscur. Dès lors, comme l’ont bien vu les éditeurs anglais de Nicandre, « The victim of snake-bite or poison who turned to Nicander for first-aid would be in sorry plight19 ». Les poèmes de Nicandre ne sont donc pas des manuels toxicologiques versifiés, pour être mieux mémorisés20. Ils ne sont pas destinés à communiquer (les traités des médecins suffisaient) mais à proposer à l’admiration du public une œuvre d’art exceptionnelle.

20 Dès lors, comme pour l’opposition Homère-Hésiode, il n’y a pas non plus d’opposition entre Aratos et Nicandre et les autres poètes épiques hellénistiques. Aratos et Nicandre sont désignés comme des poètes épiques, au même titre qu’Apollonius de Rhodes21. Il y a une distinction de « matière » : l’un chante les constellations, l’autre les poisons, l’autre l’expédition des Argonautes. Mais ils font la même chose : cette distinction de matière ne correspond pas à une distinction pragmatique. C’est pourquoi un même poète pouvait écrire un poème à matière mythologique et un poème à matière agronomique. C’est pourquoi ils n’ont aucun mal à insérer dans leurs poèmes des séquences venues d’une matière différente, pour montrer qu’ils sont capables de composer des poèmes sur des matières différentes22.

21 Il n’y a rien de plus étonnant pour les lecteurs modernes que le succès remporté dans l’Antiquité par ces poèmes hellénistiques à matière « scientifique ». Comment pouvait- on se passionner pour les Phénomènes d’Aratos ou les Alexipharmakes de Nicandre ? Pourquoi les Romains rivalisaient-ils de traductions d’Aratos ou de vers sur les éruptions de l’Etna ? Lucilius, le destinataire de Sénèque, ne pourra pas s’abstenir de chanter l’Etna, « ce lieu de tous les poètes » (Lucrèce, Virgile, Ovide…) : Quid tibi do ne Aetnam describas in tuo carmine, ne hunc sollemnem omnibus poetis locum adtingas ?

22 C’est notre culture esthétique qui nous empêche d’accepter qu’on ait pu trouver « beau » un poème chantant les serpents venimeux et les remèdes contre les poisons, qu’on puisse prendre plaisir et s’amuser au savoir sans chercher à en faire son profit. Le savoir pour les Modernes n’a pas de valeur esthétique en tant que savoir. Et la poésie didactique, en tant que catégorie moderne, repose justement sur l’idée qu’il faudrait « l’habilller » poétiquement pour le rendre attractif. Dans l’Antiquité classique et hellénistique, le savoir en tant que tel est beau, objet d’émerveillement et de plaisir : c’est pour nous un monde étrange où un volcan fait venir l’eau à la bouche (Aut ego te non novi aut Aetna tibi salivam movet, dit Sénèque à Lucilius), où un roi, pour complaire à ses amis, leur offre des herbes comestibles infectées de sucs vénéneux23 ; où les Indiens peuvent offrir à Auguste un jeune homme sans bras, mais capable de tirer à l’arc avec ses pieds24 ; un monde où l’on est prêt à mourir pour posséder le cheval de Diomède, bien qu’il porte la mort à ses possesseurs l’un après l’autre25. Les mirabilia ne sont pas une partie du savoir. Ils sont le savoir.

23 La valeur du savoir réside pour les Modernes moins dans sa beauté que dans son utilité. C’est pourquoi les commentateurs qui veulent « sauver » les poèmes de Nicandre parlent de son utilité. C’était l’inverse dans l’Antiquité. Les savoirs encyclopédiques de la παιδεία sont des savoirs inutiles, au sens où ils fonctionnent dans un espace voué au loisir et à la détente, au jeu et à la beauté. L’idée qu’il faut privilégier l’utilité pratique des savoirs n’était pas absente dans l’Antiquité, mais minoritaire.

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24 C’est cette pragmatique esthétique que nous retrouvons à Rome avec les poèmes dits « didactiques » de Lucrèce, Virgile ou Manilius. Il s’agit à la fois non pas de communiquer un savoir mais, pour répondre à une commande (car on ne se lance pas tout seul dans la composition d’un poème épique de cette ampleur), de faire une œuvre d’art (illustrare) avec une certaine matière relevant des savoirs lettrés (les écrits d’Épicure, les Travaux et les Jours, l’astronomie, l’astrologie…). Il s’agissait de poètes professionnels : Lucrèce n’était pas plus philosophe que Virgile agronome. D’après une petite épopée, la Ciris, dans laquelle un poète invite le noble Valerius Messalla à lui passer commande d’une grande épopée philosophique, il est possible que les poètes aient offert à de riches Romains de petits poèmes pour montrer leur talent et obtenir une commande importante. C’est ainsi que Lucrèce composa son De rerum natura pour C. Memmius, un sénateur qui voulait associer à son nom le prestige d’Épicure (auctoritas Epicuri), ou encore que Virgile composa ses Géorgiques pour Mécène. Le prologue du livre III illustre bien la nécessité, pour le poète épique, de trouver une matière à mettre en lumière26 : Cetera quae vacuas tenuissent carmine mentes, omnia iam volgata : quis aut Eurysthea durum aut inlaudati nescit Busiridis aras ? […] Temptanda via est qua me quoque possim tollere humo victorque virum volitare per ora. Toutes les matières capables de capter les esprits ont déjà été enseignées. Qui ignore le terrible Eurysthée ou les autels de Busiris ? […] Je dois donc tenter une route par laquelle moi aussi je puisse me hisser du sol et, victorieux, voler dans les airs.

25 On voit bien ici que le choix de la matière « géorgique » ne correspond pas à une nécessité intérieure ou à un projet intellectuel, scientifique, politique. Il s’agit de trouver une matière qui permette à l’artiste de montrer ce dont il est capable. Or comme tout a déjà été dit, comme les autres poètes ont déjà chanté la mythologie, il lui faut trouver une matière nouvelle. Il ne s’agit pas de prendre au pied de la lettre ce que dit ici Virgile – il n’était pas le premier à chanter la matière des Géorgiques – mais de repérer et de retrouver ici la pragmatique esthétique de la poésie hellénistique. Le témoignage de Sénèque vient encore le confirmer27 : Vergilius noster […] non quid verissime sed quid decentissime diceretur aspexit, nec agricolas docere voluit sed legentes delectare. Notre Virgile ne visait pas la stricte vérité, et il n’a pas voulu instruire les paysans, mais donner du plaisir à ceux qui lisent.

26 On retrouve ce même dispositif esthétique, où le poème doit se hisser à la hauteur de sa matière, chez Manilius28 : Hunc mihi tu, Caesar, […] das animum viresque facis ad tanta canenda. […]. Bina mihi positis lucent altaria flammis, ad duo templa precor duplici circumdatus aestu carminis et rerum. Certa cum lege canentem mundus et immenso vatem circumstrepit orbe vixque soluta suis immittit verba figuris. Ce courage, c’est toi qui me le donnes, César, et les forces qu’il faut pour chanter des choses si grandes. […] Devant moi les flammes éclairent deux autels, j’adresse mes prières à deux temples, entouré par la double effervescence du poème et de l’univers. Autour du prophète qui chante un chant réglé, l’orbe du cosmos immense résonne, qui même à la prose permet à peine de formuler ses figures.

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27 Cette pragmatique esthétique réapparaît à la Renaissance, avec des poèmes chantant les constellations, l’élevage des vers à soie, le jeu d’échecs, ou encore la syphilis. Le poème que lui consacre Fracastor a un immense succès : là encore, nous avons affaire à une culture très différente de la nôtre ; à la fin du XVIIIe siècle, le passage le plus aimé de Lucrèce est la description de la peste à Athènes29.

28 De même, on retrouve à la Renaissance le même système de commande que nous avons vu plus haut avec la Ciris, avec le passage du petit poème au grand poème : Léon X, ayant approuvé le poème de Vida sur les vers à soie, commande la Christiade.

29 Personne ne parle encore de poésie didactique : ni Du Bellay ni Ronsard ni Le Tasse ni, plus tard, Boileau. Il y a des épopées, qui portent sur la nature ou sur les hauts faits des héros, mais cette distinction de matière, comme dans l’Antiquité, n’est pas une distinction générique, pragmatique : ce sont, avec des matières différentes, les mêmes types d’objets.

30 Il faut cependant distinguer à la Renaissance entre les poèmes qui renouent avec la tradition esthétique des poèmes antiques et ceux qui prétendent agir sur la conscience des lecteurs, et qui se rattachent à la tradition médiévale du poème sacré. C’est là aussi un signe de ce que la catégorie de « poésie didactique » est ancrée dans la culture intellectuelle moderne : jamais ne sont donnés comme exemples tous les poèmes médiévaux qui pourtant voulaient enseigner (Alain de Lille, Bernard Silvestre, Dante, etc.), parce qu’il s’agit d’un savoir religieux, et donc pas d’un savoir véritablement considéré comme tel par les Modernes.

31 Il faut attendre l’époque des Lumières pour que naisse véritablement l’idée que la poésie peut communiquer le savoir plus facilement et plus agréablement. Il n’est alors plus question de pragmatique esthétique. Si le cardinal de Polignac fait un anti-Lucrèce, c’est parce que, dit-il, en discutant avec Pierre Bayle, il s’est rendu compte du danger que l’épicurisme faisait courir aux hommes de son temps30. On n’imagine pas aujourd’hui le succès de poèmes comme l’Essay on man de Pope, les discours en vers de Voltaire (« discours » en vers justement, et non poèmes), ou encore les poèmes de l’abbé Delille31. Mais la tradition de la « poésie didactique », c’est-à-dire, pourrait-on dire en paraphrasant Péguy, de la poésie « de propositions » (philosophiques ou théologiques)32 reçut probablement un coup fatal avec le romantisme et l’idéalisme allemand, autonomisant la poésie comme forme de savoir à part entière, et non pas comme véhicule ou moyen d’un savoir aussi prosaïque que l’art des jardins, le fonctionnement du baromètre, les vertus du cidre ou de l’eau, la circulation du sang, « l’art de préserver sa santé ». Hegel, qui déteste la poésie didactique, cite souvent Schiller ou Goethe. Il est significatif que Flaubert, dans ses notes sur l’Esthétique, relève l’arbitraire qu’il y a à classer ensemble Lucrèce, Virgile et l’abbé Delille : « Il aurait fallu montrer pourquoi les deux premiers sont si au-dessus du troisième33 ! » Désormais, la poésie n’était plus la servante de la science : elle redevenait, en un sens, une part du savoir.

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NOTES

1. J. WARTON, Reflections on Didactic Poetry, Londres, 1753, p. 291 : « The ancients have left us no rules or observations concerning this species of poetry ». On lit parfois qu’Aristote, en disant que le poème d’Empédocle était un « discours versifié », aurait reconnu dans ce poème de la poésie didactique. Cf. Sur les poètes, fr. 1 Ross = Diogène Laërce, VIII, 57 : Ἀριστοτέλης δ'ἐν τῷ περὶ ποιητῶν φησὶν ὅτι καὶ Ὁμηρικὸς ὁ Ἐμπεδοκλὴς καὶ δεινὸς περὶ τὴν φράσιν γέγονε, « Aristote, dans son écrit sur les poètes, dit qu’Empédocle est également homérique et s’est avéré un maître du verbe ». Or, d’une part, cette façon de décrire le poème d’Empédocle est très tendancieuse, caractéristique de l’attitude d’Aristote, qui, comme il l’a fait pour les tragédies, essaie souvent de dégager des œuvres qu’il lit tout ce qui peut rappeler leurs conditions d’énonciation, pour en extraire un contenu : dans les tragédies, c’était l’intrigue, le muthos ; dans le poème d’Empédocle, c’est le logos. Et, d’autre part, Aristote, loin d’appliquer la notion de « poésie didactique », exclut au contraire Empédocle de la poésie, pour le rattacher au discours philosophique. L’idée d’Aristote est d’ailleurs assez isolée dans l’Antiquité, mais on la retrouve chez Plutarque, de audiendis poetis, 16 c : τὰ δ' Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ κεχρήμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν διαφύγωσιν, « Les vers épiques d’Empédocle, de Parménide, les Thériaques de Nicandre et les discours gnomiques de Théognis sont des discours qui ont en quelque sorte emprunté le char de la poésie, c’est-à-dire son mètre et sa grandeur, afin d’éviter la prose. » On retrouve la même attitude à la Renaissance chez Castelvetro, éditeur et commentateur de la Poétique d’Aristote, estimant que, si Virgile n’avait écrit que les Géorgiques, il ne devrait pas être compté au nombre des poètes. On cite également pour justifier l’emploi de la catégorie de « poésie didactique » deux grammairiens tardifs, Diomède et Servius. Servius, dans son prologue du commentaire aux Géorgiques : Et hi libri didascalici sunt, unde necesse est, ut ad aliquem scribantur. Nam praeceptum et doctoris et discipuli personam requirit : unde ad Maecenatem scribit sicut Hesiodus ad Persen, Lucretius ad Memmium. Mais Servius ne dit pas pour autant que la poésie didascalique est un genre à part, c’est-à-dire que le caractère didactique détermine une poétique différente de la poétique de l’ Énéide : tout Virgile est « plein de science » (scientia plenus), comme il le dit au début de son commentaire du livre VI de l’Énéide, en faisant remonter la tradition de cette poésie sapientielle à Homère : Totus quidem Vergilius scientia plenus est, in qua hic liber possidet principatum, cuius ex Homero pars maior est. et dicuntur aliqua simpliciter, multa de historia, multa per altam scientiam philosophorum, theologorum, Aegyptiorum, adeo ut plerique de his singulis huius libri integras scripserint pragmatias. « Dans tout Virgile, on trouve de la science, et dans ce domaine ce livre tient le premier rang, dont la plus grande partie vient d’Homère. Pour le reste, certaines choses sont dites simplement, beaucoup sont tirées de l’Histoire, beaucoup sont tirées de la science sublime des philosophes, des théologiens, des Égyptiens, au point que de nombreux auteurs ont consacré des commentaires entiers sur chacun de ces différents éléments. » Chez Diomède, le qualificatif didascalice est également une étiquette, à l’intérieur d’une taxinomie complexe, véritable « système à tiroirs » pour le dire avec E.R. CURTIUS (La Littérature européenne et le Moyen Âge latin, tr. fr., Paris, 1991 [19532], p. 688-692), qui montre bien comment le classement n’a rien à voir avec les classements qui nous sont familiers. Mais on ne peut en tirer que les Anciens distinguaient une poétique didactique d’une poétique « narrative », comme le fait K. VOLK (The Poetics of Latin Didactic : Lucretius, Vergil, Ovid, Manilius, Oxford, 2002), qui fait un grave contresens sur l’expression « genus enarratiuum », lequel ne signifie pas « genre narratif », mais « genre explicatif, herméneutique ». 2. Elle n’apparaît par exemple ni chez Du Bellay ni chez Ronsard ni chez Boileau.

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3. D. DE MAIRAN, ÉLOGE DU CARDINAL DE POLIGNAC, PARIS, 1747 : « L’ANTI-LUCRÈCE EST UN POÈME LATIN DU NOMBRE DE CEUX QU’ON APPELLE DIDACTIQUES, PARCE QU’ILS ONT POUR BUT D’ENSEIGNER DES VÉRITÉS IMPORTANTES OU QUELQUE ART UTILE À LA VIE. » 4. J. WARTON, Reflections, p. 292 : « To render instruction amiable, to soften the severity of science, and to give virtue and knowledge a captivating and engaging air, is the great privilege of the didactic muse. » 5. Xénophane, fr. 10 Diels-Kranz : ἐξ ἀρχῆς καθ' Ὅμηρον ἐπεὶ μεμαθήκασι πάντες, « Depuis le commencement, tout le monde apprend d’après Homère… ». 6. P. ZANKER, DIE MASKE DES SOKRATES : DAS BILD DES INTELLEKTUELLEN IN DER ANTIKEN KUNST, MUNICH, 1995, P. 154-157. 7. Melanchthon, Declamationes, III, Eloquentiae encomium, p. 36-37 (cité par E.R. CURTIUS, LA LITTÉRATURE, P. 332) : NEC DUBITARIM ADFIRMARE, QUOD HORATIUS CENSUIT, HOMERUM, QUID RECTUM, QUID UTILE SIT, MELIUS CHRYSIPPO ET CRANTORE DOCERE. […] NEQUE ENIM PLURES HOMERI LOCOS HIS ATTINGERE VISUM EST. TANTUM HOS INDICAUI, UT STUDIOSIS ADULESCENTIBUS FIDEM FACEREM BONORUM SCRIPTORUM COGNITIONE NON OS TANTUM AC LINGUAM, SED PECTUS ETIAM FORMARI. 8. R. BENTLEY, Remarks upon a Late Discourse of Free-Thinking, Cambridge, 1713 : Homer’s Iliad he admires, as the epitome of all arts and sciences. […] Be it so. […]. And yet I am apt to fancy, if our author had no better an artist than the old poet for his shoes, he would be as sorry a free-walker as he is now a free-thinker. To prove Homer’s universal knowledge a priori, our author says, He designed his poem for eternity, to please and instruct mankind. Admirable again : eternity and mankind : nothing less than all ages and nations were in the poet’s foresight. Take my word for it, poor Homer, in those circumstances and early times, had never such aspiring thoughts. He wrote a sequel of songs and rhapsodies, to be sung by himself for small earnings and good cheer, at festivals and other days of merriment. [C’est plus de 500 ans après que Pisistrate fit réunir « the loose songs »]. He no more thought, at that time, that his poems would be immortal, than our free- thinkers now believe their souls will. 9. Photius, Bibliothèque, cod. 186, 142 a-b. 10. Arati Vita I, 38-43 Martin. 11. Nicandre de Colophon, Thériaques, 957-958. 12. Cf. encore H.-I. MARROU, HISTOIRE DE L’ÉDUCATION DANS L’ANTIQUITÉ, PARIS, 1948, T. I, P. 275) : « L’ESSENTIEL

EST LA DESCRIPTION, MINUTIEUSE ET “RÉALISTE” [I.E. L’ἜΚΦΡΑΣΙΣ DES FIGURES TRADITIONNELLEMENT PRÊTÉES AUX CONSTELLATIONS : [ARATOS] NOUS MONTRE PERSÉE (248-253), SOUTENANT SUR SES ÉPAULES SON ÉPOUSE ANDROMÈDE, TENDANT LA MAIN DROITE VERS LA COUCHE DE SA BELLE-MÈRE (CASSIOPÉE), S’ÉLANÇANT D’UN PAS RAPIDE EN SOULEVANT UN NUAGE DE POUSSIÈRE (IL S’AGIT EN FAIT D’UN AMAS D’ÉTOILES QUE PRÉSENTE CETTE RÉGION DU CIEL) […] MÊME ANTHROPOMORPHISME DANS LA DESCRIPTION DES LEVERS ET DES COUCHERS DES CONSTELLATIONS (559-732), QUI FAIT SUITE À UNE BRÈVE ÉVOCATION DES PLANÈTES ET DE LA SPHÈRE CÉLESTE (454-558). » POUR UNE ÉTUDE PLUS DÉVELOPPÉE DES PHÉNOMÈNES COMME « ASTRONOMICAL ECPHRASIS », CF. M.

SEMANOFF, « UNDERMINING AUTHORITY : PEDAGOGY IN ARATUS’ PHAENOMENA », IN M.A. HARDER, R.F. RETGUIT, G.C.

WAKKER (ÉD.), BEYOND THE CANON, LEUVEN, 2006, P. 313-318. 13. De fait, bien que les erreurs contenues dans son poème fussent connues (cf. e.g. Hipparque, in Arati et Eudoxi Phaenomena, I, 2-8 Manitius ; Posidonius, fr. 48 Edelstein-Kidd), il était commenté par des mathématiciens et des astronomes comme Attale de Rhodes et Hipparque lui-même, et servait de manuel d’astronomie (cf. le manuel du Stoïcien Géminos de Rhodes). Cf. H.-I. MARROU, HISTOIRE DE L’ÉDUCATION, T. I, P. 275 : « TEL QU’IL SE PRÉSENTE, LE POÈME D’ARATOS N’A RIEN DE MATHÉMATIQUE ; PAS DE CHIFFRES, QUELQUES INDICATIONS BIEN SOMMAIRES CONCERNANT LA SPHÈRE CÉLESTE, SON AXE, LES PÔLES (V. 19-27) […] [LE] COMMENTAIRE [D’ARATOS] SE BORNAIT À UNE INTRODUCTION TRÈS SOMMAIRE À LA SPHÈRE [MAIS] ÉTAIT AVANT TOUT LITTÉRAIRE ET S’ÉTENDAIT COMPLAISAMMENT SUR LES ÉTYMOLOGIES ET SURTOUT SUR LES LÉGENDES MYTHOLOGIQUES SUGGÉRÉES PAR LA DESCRIPTION D’ARATOS. » CE QUI COMPTAIT N’ÉTAIT PAS LA « VÉRITÉ » (AU SENS SCIENTIFIQUE, MODERNE, DU MOT), MAIS LA BEAUTÉ DU SAVOIR.

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14. Cic., De or. I, 69 ; Quintilien X, 1, 55 : Arati materia motu caret, ut in qua nulla varietas, nullus affectus, nulla persona, nulla cuiusquam sit oratio ; sufficit tamen operi cui se parem credidit. « En ce qui concerne Aratos, sa matière manque d’animation : on n’y trouve aucun chatoiement, aucun affect, aucun personnage, aucun discours ; et pourtant, il arrive à se hisser à la hauteur de son sujet. » 15. Silv. 5, 3, 19-23. 16. SHA, Gord., III, 2. 17. M. PIERRE, « ROME DANS LA BALANCE. LA POÉSIE AUGUSTÉENNE IMITE-T-ELLE LA POÉSIE GRECQUE ? », IN F.

DUPONT, E. VALETTE-CAGNAC (ÉD.), FAÇONS DE PARLER GREC À ROME, PARIS, 2005, P. 229-254. 18. J.-M. JACQUES, AUTEUR D’UNE REMARQUABLE ÉDITION DES DEUX ÉPOPÉES DE NICANDRE DE COLOPHON SUR LES POISONS (THÉRIAQUES ET ALEXIPHARMAQUES), EXPLIQUE QUE LA COMPOSITION DU POÈME PAR LE FAIT QUE LA MORT PAR POISON ÉTAIT LA PLUS GRANDE CAUSE DE MORTALITÉ DANS LE MONDE ANTIQUE (P. 31). 19. A. L. F. GOW & A. F. Shofield, Nicander. The Poems and Poetical Fragments, 1953, p. 18. 20. La plupart des recettes médicales métriques (Galien en cite beaucoup) destinées à la mémorisation ne sont pas en vers épiques, mais souvent en trimètres iambiques, le mètre le plus proche, selon Aristote, du langage parlé (Poet. 1449a24). Cf. C. FABRICIUS, Galens Exzepte aus älteren Pharmakologen, Berlin-New York, 1972, p. 54. Les recettes en hexamètres semblent souvent des poèmes difficiles à interpréter, donc des jeux savants, où nous avons affaire à une pragmatique ludique et/ou esthétique et non médicale. Cf. e. g. la recette du thériaque d’Andromaque. 21. Dans Quintilien (X, 1, 55), Aratos est cité parmi les epici. Chez Athénée (126 b = fr. 68 des Géorgiques), Nicandre est désigné comme « faiseur d’épopées » (ἐποποιός) riches en mots antiques et d’un savoir encyclopédique : λάρχαιον καὶ πολυμαθῆ. 22. Cf. e. g. le long passage sur la crue du Nil dans Lucain. 23. Justin 36, 4, 3 s. ; Plut., Démétr. 20, 3 (voir Nicandre, dans Budé II, n. 24). Son zèle pour la pharmacologie à base de plantes : Galien 12, 251, 3 s. K. 24. Dion Cassius, 54, 9. 25. Aulu-Gelle, III, 9. 26. Virgile, Géorgiques III, 3-9. 27. Sénèque, Lettres à Lucilius 86, 15. 28. Manilius, Astronomiques I, 7-24. 29. J. WARTON, Reflections, p. 420 : « The plague with which the whole poem concludes being more known and perhaps more read than any other part of it, I shall not point out any other particular passages. » 30. MAIRAN, ÉLOGE. 31. Le chant VI de Delille sur les trois règnes est commenté par Cuvier. 32. C. PÉGUY, « L’ÈVE DE PÉGUY », IN ŒUVRES COMPLÈTES, BIBLIOTHÈQUE DE LA PLÉIADE, III, PARIS, 1941, P. 1235 : « IL A ÉTÉ ASSEZ HEUREUX POUR TRANSPORTER DANS SES VERS CETTE INTÈGRE PROBITÉ QUI PARAISSAIT NE PAS POUVOIR QUITTER LA PROSE. […] L’AUTEUR […] A FAIT DES VERS DE POÈTES AVEC UNE SORTE DE MARBRE DE PROSE. AUSSI AVONS-NOUS DANS CE POÈME JUSQU’À DES PROPOSITIONS DE PHILOSOPHIE ET DE THÉOLOGIE RÉDUITES EN DES VERS D’UNE TELLE JUSTESSE TECHNIQUE QU’IL FAUDRAIT PEUT-ÊTRE REMONTER JUSQU’AU DE NATURA RERUM POUR EN TROUVER D’UNE TELLE SÉVÉRITÉ. » ET EN NOTE : « IL NE FAUDRAIT PAS, SI L’ON VEUT ÊTRE JUSTE, OUBLIER LES TRÈS BEAUX VERS PHILOSOPHIQUES DE SULLY-PRUDHOMME, NOTAMMENT DANS LA JUSTICE, QUI SONT EUX AUSSI DES VERS DE PROPOSITIONS ». 33. 33 FLAUBERT, « NOTES SUR L’ESTHÉTIQUE DE HEGEL ». VOICI LE TEXTE COMPLET : « HEGEL PENSE QUE LA POÉSIE DIDACTIQUE NE DOIT PAS ÊTRE COMPTÉE PARMI LES FORMES PROPRES À L’ART. ENFIN LE FOND ET LA FORME SONT ICI COMPLÈTEMENT ISOLÉS. – LA FORME ARTISTIQUE NE PEUT ÊTRE RATTACHÉE AU FOND QUE PAR UN RAPPORT TOUT EXTÉRIEUR PARCE QUE L’IDÉE, L’ENSEIGNEMENT, S’ADRESSE AVANT TOUT À LA RAISON ET À LA RÉFLEXION ET QUE DÈS LORS SA CONDITION ESSENTIELLEMENT PROSAÏQUE NE PEUT ÊTRE POÉTIQUEMENT DÉVELOPPÉE MAIS SIMPLEMENT REVÊTUE D’UNE FORME POÉTIQUE, MALGRÉ L’HABILETÉ DE DÉTAILS. LUCRÈCE, VIRGILE – DELILLE ! IL AURAIT FALLU MONTRER POURQUOI LES DEUX PREMIERS SONT SI AU-DESSUS DU 3E ! » CES NOTES DE FLAUBERT ONT ÉTÉ PUBLIÉES

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DANS DIX ANS DE CRITIQUE. NOTES INÉDITES DE FLAUBERT SUR L’ESTHÉTIQUE DE HEGEL, TEXTES RÉUNIS ET PRÉSENTÉS PAR GISÈLE SÉGINGER, PARIS, LETTRES MODERNES MINARD, « GUSTAVE FLAUBERT, 5 », 2005, P. 247-330.

RÉSUMÉS

Cet exposé propose de voir à quoi correspond, dans l’Antiquité, la catégorie d’« épopée didactique » (ou « poésie didactique »), couramment utilisée par les savants modernes pour rendre compte d’œuvres comme Les Travaux et les Jours, le De rerum natura ou encore les Géorgiques , en opposition avec la catégorie d’« épopée narrative » (ou parfois simplement d’« épopée »), qui comprendrait les poèmes d’Homère, l’Énéide, etc. Une enquête anthropologique et pragmatique montre que la catégorie d’« épopée » ou de « poésie didactique » n’existait pas chez les Anciens. Dans un deuxième temps, on essaie de voir à quel moment on commence à parler de « poésie didactique », et on voit qu’il s’agit d’une catégorie du XVIIIe siècle.

This work proposes to analyse to what corresponds in Antiquity the category of “didactic epos” (or “didactic poetry”), commonly used by modern scholars with reference to works such as the Works and Days, the De rerum natura or the Georgics, in opposition to the category of « narrative epos » (or sometimes only “epos”), which includes Homer’s poems, the Aeneid, etc. An anthropological and pragmatic inquiry reveals that the category of “epos” or “didactic poetry” did not exist among the Ancients. Subsequently, the author attempts to find in which moment the category of “didactic poetry” begins to be used, and he verifies that it is a 18th century category.

INDEX

Keywords : didactic poetry, epos, hellenistic poetry, ancient sciences, modern scholarship categories Mots-clés : poésie didactique, épopée, poésie hellénistique, savoirs antiques, catégories de la critique moderne

AUTEUR

PIERRE VESPERINI

Université Paris 8 [email protected]

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Traditions du patrimoine antique Traductions latines du théâtre grec - XVIe-XVIIIe siècles. Colloque international organisé par Malika Bastin-Hammou, Martine Furno et Raphaël Mouren, 22-23 novembre 2013 - Université Stendhal - Grenoble 3 - ENS-LSH - ENSSIB

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Les traductions latines du théâtre grec. Introduction

Malika Bastin-Hammou

1 Les textes réunis ici résultent d’un colloque sur les Traductions savantes vers le latin qui s’est déroulé en novembre 2013 à Lyon. La première journée, plus spécifiquement tournée vers des questions d’histoire du livre et du latin, fera l’objet d’une publication à part ; la seconde, dont les textes qui suivent sont issus, portait sur les traductions latines du théâtre grec.

2 De leur redécouverte au XVe siècle jusqu’au XIXe siècle, les textes dramatiques grecs ont fait l’objet de traductions latines, alors même que, avec le temps, se multipliaient les traductions en vernaculaires. Or si des travaux ont été consacrés à la tradition de tel ou tel poète dramatique1, englobant certaines traductions latines de leur œuvre, le corpus des traductions en latin du théâtre grec en tant que tel n’a à ce jour jamais fait l’objet de travaux.

3 Or ces textes constituent un corpus spécifique qui mérite qu’on s’y intéresse en propre. Tous sont des textes en vers, et posent la question de la transposition métrique : faut-il traduire en vers ou en prose ? Et si l’on traduit en vers, quel vers latin choisir pour correspondre à tel vers grec, notamment dans la traduction des chœurs ? Faut-il respecter seulement les types de vers de l’original, ou aller jusqu’à en reproduire les pieds ? Selon les lieux, les périodes, et les intentions des traducteurs, la réponse varie. Si Leonardo Bruni, qui traduit vers 1440 le prologue du Ploutos d’Aristophane, semble avoir d’abord choisi de traduire en vers puis abandonné pour passer à la prose, ses successeurs font le plus souvent le choix de traduire en vers et s’en glorifient : leurs pages de titre le mentionnent et leurs préfaces soulignent les efforts que cela leur a coûté. Certains cependant font exception – ceux qui sont davantage soucieux de fournir, avec leur traduction, un outil utile à la compréhension du grec qu’un texte agréable à lire et « à la hauteur » de l’original. En font partie les traductions ad verbum – comme celle, pour Aristophane, d’Andrea Divo. Première traduction complète de l’auteur comique (1538), elle est accueillie avec enthousiasme par les lecteurs, comme en témoignent ses nombreuses réimpressions ; mais elle est également la cible des sarcasmes des érudits qui lui succèdent2. Charles Girard aussi, qui fut professeur de

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grec à l’université de Bourges, se soucie peu de métrique. Il fait paraître à Paris, en 1549, une traduction du Ploutos en prose, agrémentée de nombreux commentaires très utiles à la compréhension du texte : il avait davantage à cœur d’expliquer pas à pas l’original grec que de fournir un texte destiné à une lecture en continu, à preuve la mise en page qu’il a adoptée. Quelques vers grecs sont suivis de leur traduction latine, puis de leur commentaire (voir figure 1), là où les traducteurs faisant le choix de traduire en vers soit ne publient que le texte latin – c’est le cas de la traduction du Ploutos de Miguel Cabedio, parue à Paris en 1547 – soit proposent des éditions bilingues avec une rigoureuse correspondance vers à vers du texte latin et du texte grec3. Ainsi procèdent Nicodemus Frischlinus ou encore Florent Chrestien dans leurs traductions d’Aristophane, et les éditions du XVIIe siècle, qui reprennent les traductions de Divo, Frischlin et Chrestien sont toutes des bilingues. Mais quand Stephanus Bergler, en 1760, fait paraître une nouvelle édition d’Aristophane, il remplace les traductions de Frischlin et Chrestien, considérées comme trop « littéraires », par des traductions en prose. Et dans l’édition de Brunck de 1781, le texte est accompagné d’une nouvelle traduction en prose de l’ensemble des comédies, dont il est le seul auteur. La fidélité métrique n’est plus à l’ordre du jour, du moins chez les savants.

4 De la même manière, les traducteurs vont peu à peu s’émanciper du modèle que constitue pour beaucoup le théâtre latin. Tous abordent en effet le théâtre grec avec en tête leur connaissance du théâtre latin. Mais si certains s’en inspirent, voire s’en réclament, d’autres tentent au contraire de le tenir à distance. Ainsi Érasme, qui est le premier à avoir traduit une tragédie grecque complète, l’Hécube d’Euripide, en latin, s’efforce-t-il de ne pas s’inspirer de Sénèque, dont le style lui semble trop ampoulé pour rendre justice à l’élégance d’Euripide. Mais Florent Chrestien revendique, aussi bien dans ses traductions de comédies que de tragédies, l’influence du modèle latin : sur la première page de sa traduction de la Paix (1589) il annonce en effet que son édition est « Cum Latina Graeci Dramatis Interpretatione Latinorum Comicorum stylum imitata, & eodem genere versuum cum Graecis conscripta. », et sur celle des Sept contre Thèbes d’Eschyle (1585), « Stylo ad veteres tragicos Latinos accedente quam proxime fieri potuit ». Brunck, en 1781, ne fait plus référence au modèle latin, que ce soit pour le revendiquer ou pour s’en distancer. La page de titre n’affiche que « Aristophanis Comœdiæ in latinum sermonem conversæ ». Il n’y a pas d’avis au lecteur, de dédicace ni le moindre paratexte dans lequel Brunck aurait pu exposer ses principes de traduction, et l’utilisation du latin semble ici un choix purement linguistique, délié de toute considération stylistique ou générique. C’est, bel et bien, une traduction savante, au sens où elle ne s’adresse plus qu’aux savants – tandis que se multiplient, en cette fin de XVIIIe siècle, les traductions en vernaculaires de l’auteur comique : la première traduction complète d’Aristophane en français, due à Poinsinet de Sivry, paraît treize ans plus tard, en 1784.

5 De ce point de vue, il convient cependant de distinguer les traductions des tragiques de celles d’Aristophane. La comédie ne connaît pas le même sort que la tragédie, dont les textes sont bien plus rapidement traduits en vernaculaires. Certes, les frères Rositini font paraître dès 1545 une traduction complète d’Aristophane en italien. Mais en France, il faut attendre la fin du XVIIe siècle pour que des comédies d’Aristophane – le Ploutos et les Nuées – soient pour la première fois traduites en français, par les soins de Madame Dacier (1684). En revanche, en ce qui concerne la tragédie, l’Électre de Sophocle est traduite dès 1537 par Lazare de Baïf, l’Hécube d’Euripide en 1544 par Bochetel et Iphigénie à Aulis en 1549 par Sébillet, comme si l’intérêt que représentait pour les

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dramaturges et gens de théâtre l’accès aux tragédies grecques avait entraîné ces traductions précoces en vernaculaires. C’est d’autant plus probable que ces traductions se concentrent, pendant deux siècles, sur quelques tragédies, avec en tête Œdipe-roi, dont la fortune est sans doute à mettre en relation avec l’intérêt porté à la Poétique d’Aristote. Les éditions complètes des poètes tragiques en français, en revanche, sont presqu’aussi tardives que celle d’Aristophane : Sophocle complet paraît en 1762, Eschyle complet en 1770 et Euripide complet en 1782.

6 Pendant ce temps, ce sont donc des traductions complètes en latin qui circulent, et qui continuent de circuler après la parution des vernaculaires complètes. Les deux visent en effet des publics différents. Tandis que les traductions latines vont peu à peu ne plus s’adresser qu’au public savant, les premières traductions en vernaculaires ont pour ambition de toucher un large public, et notamment celui des gens de théâtre – c’est du moins ce qu’affirme Madame Dacier dans sa Préface à son Aristophane français de 1684. L’horizon de ces traductions ne semble pourtant pas être celui de la représentation, du moins pas avant le milieu du XIXe s. Auparavant, s’il arrive que des pièces grecques soient jouées, en grec, en latin ou même en vernaculaires, c’est dans les Collèges. Mais c’est là un autre chapitre de l’histoire de la réception du théâtre grec.

Figure 1

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NOTES

1. E. Borza, Sophocles Redivivus. La survie de Sophocle en Italie au début du XVIe siècle. Éditions grecques, traductions latines et vernaculaires, Bari, Levante editori, 2007 ; M. Mund-Döpchie, La survie d’Eschyle à la Renaissance. Édition, traductions, commentaires et imitations, Louvain, Peeters, 1984. 2. Voir, dans ce volume, la contribution de Simone Beta. 3. Voir par exemple l’avis au lecteur de Thomas Venatorius, auteur d’une traduction latine du Ploutos (1531) : « Traduximus bona fide omnia integre, Ut pene versus versui respondeat, Adeoque ut ipsum saepe iambum expresserit Iambus alter, feceritque pes pedem. »

AUTEUR

MALIKA BASTIN-HAMMOU Maître de conférences en langue et littérature grecques Univ. Grenoble Alpes, LITT&ARTS [email protected]

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Le monstrum et la gallina : figures féminines dans l’Agamemnon de Stanley

Marie Saint Martin

1 Lorsque le philologue londonien Thomas Stanley1 entreprend de rééditer l’œuvre d’Eschyle et d’en donner une traduction latine en 1663, sa démarche s’inscrit dans la continuité du travail de Vettorius, édité chez Estienne en 1557. Les trois éditions précédentes, celle d’Alde Manuce en 15182, de Turnèbe en 15523 et de Robortello 4 la même année, s’appuyaient sur un manuscrit dans lequel la fin d’Agamemnon était tronquée ; la pièce était suivie des Choéphores, dont on ignorait qu’elle en fût indépendante5. Vettorius, le premier, rétablit les derniers vers de l’Agamemnon et, surtout, donne aux Choéphores leur indépendance, en s’appuyant sur un manuscrit plus complet. Une dernière édition, de Gulielmus Canterus, en 1580, apporte peu d’améliorations au texte6. Stanley, en s’appuyant sur le travail de Vettorius, donne ce qui va devenir une édition de référence, qui opère la synthèse encyclopédique du travail de ses prédécesseurs : on y trouve les préfaces et commentaires de Turnèbe, Robortello, Vettorius et Gulielmus Canterus. Surtout, la traduction de Stanley fait date, car elle est d’une fidélité rare à l’époque à l’égard du texte d’Eschyle – et sa valeur se mesure à l’aune des traductions du XVIe siècle, celle de Jean de Saint Ravy7 de Montpellier (1556) en particulier, puisque les autres traducteurs d’Eschyle, Coriolano Martirano (Prométhée, 1556), Mathias Garbitius (Prométhée, 1559) et Florent Chrestien (Les Sept contre Thèbes, 1585), semblent s’être peu intéressés à l’Orestie8.

2 Je me propose ici de mesurer l’originalité de Stanley et de sa version latine à l’aune d’autres traductions d’Eschyle, postérieures, et en français, celles de Lefranc de Pompignan et de Du Theil9, afin de montrer combien l’auteur anglais, peut-être parce qu’il se réfère à un modèle britannique et non français, ou parce qu’il traduit en latin, respecte le texte original, qu’il s’agisse de l’ordre des mots, du choix du vocabulaire ou du nombre très restreint d’ajouts – ou, parfois, l’infléchit dans un sens particulièrement original.

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3 Dans un premier temps, j’essaierai d’évaluer l’importance de la source sénéquienne pour Stanley, afin de montrer comment le modèle latin de Sénèque peut l’aider à lire Eschyle. Puis je soulignerai l’attitude ambiguë qui affleure parfois, malgré tout, à l’égard des horreurs montrées par Eschyle ; enfin, je m’interrogerai sur différents choix de lexique suffisamment révélateurs pour être porteurs d’une vision de la famille un peu différente de celle que développe le texte grec.

4 Dans un premier temps, je voudrais essayer de montrer ce que la traduction de Stanley contient de présupposés poétiques. Le modèle latin auquel le traducteur pouvait le mieux s’identifier est sans aucun doute Sénèque, puisqu’il s’agit du seul tragique qui soit parvenu dans cette langue, et que Sénèque avait écrit lui aussi un Agamemnon ; il utilise cependant également des références transposées d’Aristote, et réalise une synthèse originale sur le plan poétique.

5 La traduction produite par Stanley est d’une fiabilité impressionnante : il n’est que de prendre, par exemple et presque au hasard, les vers prononcés par Cassandre pour prédire sa propre mort. La traduction latine suit mot à mot le texte grec, respectant jusqu’à l’ordre précis des termes dans la phrase : Ὀτοτοῖ, λύκει ' Ἄπολλον· οἲ ἐγὼ, ἐγὼ. Αὕτη δίπους λέαινα συγκοιμωμένη Λύκῳ, λέοντος εὐγενούς ἀπουσίᾳ, Κτενεῖ με τὴν τάλαινα10. Apollon Lykéios, pitié, pitié pour moi ! – C’est elle, la lionne à deux pieds qui dormait avec le loup en l’absence du noble lion, c’est elle qui va me tuer, malheureuse11 ! Ototoi, Lycie Apollo ! heu me, me ! Haec bipes Leaena commista Lupo, Leonis generosi absentia, Me miseram interimet. Ototoi, Apollon Lycien ! malheur à moi, à moi ! Cette femme, la lionne à deux pieds, alliée au loup, en l’absence du noble lion, malheureuse que je suis, elle me tuera12.

6 La seule liberté que se permet Stanley, dans ces quatre vers où le rythme même est respecté, est l’inversion du complément me miseram, rejeté devant un verbe virgilien un peu plus pompeux que le simple κτενεῖ – même si, en grec, c’est justement l’absence de préfixe qui signale le ton poétique du mot. Notons cependant que cette démonstration de fidélité suit immédiatement un vers où Stanley s’éloigne sensiblement de son modèle : Παπαῖ· οἷον τὸ πῦρ· ἐπέρχεται δ' ἐμοί·13, traduit par Proh dii ! qualis calor corpus meum invadit ! Dans ce vers, Stanley fait intervenir une adresse aux dieux pour remplacer l’interjection Papai` (qu’il sait pourtant traduire par papae ailleurs 14), et surtout interprète le feu qui « marche » (pour reprendre la traduction de Paul Mazon) sur Cassandre comme une chaleur qui entre dans son corps. Ces modifications vont dans le sens d’une amplification de la résonance religieuse dans le texte eschyléen, l’image de la chaleur qui envahit le corps pouvant rappeler les images chrétiennes de la foi15 ; par ailleurs, l’appel aux dieux, qui ne se trouve pas dans le grec, et la glose transformant le feu en chaleur intérieure, rendent le vers plus lisible pour un public moderne – plus attendu, et plus faible de ce fait. La dimension pathétique est également amplifiée, notamment parce que l’hallucination de Cassandre est vécue comme une émotion intérieure et non comme un feu venant de l’extérieur. Lorsque Stanley prend quelques libertés avec son modèle, c’est d’ailleurs fréquemment dans le sens d’un pathos accru, au moment de traduire des interjections de ce type : ainsi, au vers 220, Stanley préfère-t-il suivre la leçon de Triclinius, ajoutant un deuxième tiv qu’il traduit,

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d’une manière un peu lourde mais efficace sur le plan dramatique, par la répétition de quodnam16. Dans le même passage, λιπόναυς (celui qui abandonne son vaisseau) est traduit, comme très souvent pour ces mots composés dont Eschyle raffole, par une glose, ici plus nettement péjorative et morale, proditor classis17. Ces redoublements ou amplifications, suffisamment rares pour être notés – la traduction en latin comporte exactement le même nombre de vers que le texte grec édité par Stanley – vont tous dans le sens d’une amplification pathétique.

7 Or ces aménagements conviennent à une définition de la tragédie bien plus propre à Sénèque qu’à Aristote. La traduction de l’argument rend compte de ces oscillations, résolues par un positionnement du côté du spectaculaire : le passage jugé le plus étonnant par l’argument est celui dans lequel Cassandre vaticine – passage qui avait justement disparu des premières éditions : Haec fabulae pars mirabilis est, utpote et ad stuporem et commiserationem permovendam apta. Le verbe θαυμάζεται, utilisé au sujet de ce passage dans le texte grec, est traduit par l’adjectif mirabilis, qui rend bien compte de la portée à la fois étonnante, admirable et peut-être même monstrueuse de la scène dédiée à Cassandre. Il est dit de cette partie étonnante, qu’elle est ad stuporem et commiserationem permovendam apta18, « apte à susciter la stupeur et la commisération ». Le balancement peut sembler reprendre les termes aristotéliciens (φόβος καὶ ἔλεος). Mais en réalité l’argument grec, déjà, propose deux nouveaux termes : ἔκπληξις καὶ οἶκτος. Le sens d’οἶκτος, traduit par commiseratio, convient plutôt bien à une doctrine aristotélicienne de la pitié. Mais ἔκπληξις, « frayeur », fait tomber dans une terreur effectivement plus représentative des tragédies de Sénèque ou d’Eschyle, tel qu’il est compris par le XVIIe siècle ; surtout, sa traduction par stupor, « saisissement », qui induit davantage une notion d’immobilité que la chute impliquée par le coup d’ ἔκπληξις, me semble plus proche d’une dramaturgie sénéquienne statique, dans laquelle le monstrum fait naître le stupor, que d’une poétique aristotélicienne des passions tragiques. La suite de l’argument met d’ailleurs l’accent sur la spécificité d’Eschyle, qui, seul (unus pour traduire ἰδίως), fait tuer Agamemnon sur la scène. Cette originalité du dramaturge grec est ce qui le rend incompatible avec la doctrine aristotélicienne du théâtre, mais qui le rapproche de Sénèque : il s’agit du spectacle horrible de la mort sur scène, ce qui explique, peut-être, qu’un anglais comme Stanley soit bien plus prompt à l’accepter que des français réfractaires au modèle shakespearien.

8 Dans le cours de la pièce, Stanley se laisse très peu aller à des interprétations trop libres du texte d’Eschyle ; il arrive cependant qu’il opère des choix de traduction montrant plus clairement l’influence de Sénèque sur son travail. Le vocabulaire du monstrum et du nefas, identifié par Florence Dupont comme propre à la poétique de Sénèque, affleure de manière parfois surprenante dans la traduction de Stanley. Les vers du premier chœur, consacrés à Iphigénie, soulignent ainsi la naissance du nefas, le crime en horreur aux dieux, qui appelle irrémédiablement le châtiment sur la tête d’Agamemnon : Ἔπει δ'ἀνάγκας ἔδυ λέπαδνον φρενὸς πνέων δυσσεβῆ τροπαίαν ἄναγνον, ἀνίερον, τόθεν τὸ παντότολμον φρονεῖν μετέγνω βροτοῖς.19 Et, sous son front une fois ployé au joug du destin, un revirement se fait, impur, impie, sacrilège : il est prêt à tout oser, sa résolution désormais est prise. Car, à la

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source de tous les maux, la funeste démence aux desseins honteux est là pour souffler l’audace aux mortels20. Exinde necessitatis subiit capistrum Mentis spirans impium ventiversivum, Nefandum, profanum, Unde supra modum Sapere poenituit mortales. À partir de là, il se prête à la muselière de la nécessité, respirant un revirement impie, sacrilège, criminel, dont souvent, au-delà de la mesure, les mortels se sont repentis.

9 La structure du texte fait l’objet d’un calque mot à mot. Mais les adjectifs δυσσεβῆ, ἄναγνον, ἀνίερον, traduits par le trio impium, nefandum, profanum, prennent une tournure très proche de certains textes de Sénèque – impius était, dans l’Agamemnon de ce dernier, réservé par Clytemnestre à la flotte libérée par le sacrifice de sa fille21, ce dernier événement constituant le premier nefas, destiné à être suivi d’un second, le meurtre d’Agamemnon22.

10 Plus loin, Clytemnestre est qualifiée de monstrum : Τοιάδε τολμᾷ θῆλυς· ἄρσενος φονεύς ἐστι. τί νιν καλοῦσα δυσφιλὲς δάκος, Τύχοιμ' ἄν 23 Telle est l’effronterie [de cette femelle] ; tueuse du mal, je vois en elle… de [quelle odieuse bête sauvage] […] devrais-je emprunter le nom […] ?24 Talia audet foemina ; interfectrix est Viri : quod illam monstrum invisum appellans Vere appellaverim ? Voici les audaces de cette femme ; elle est tueuse d’homme : du nom de quel monstre odieux pourrais-je l’appeler pour l’appeler correctement ?

11 Le terme δάκος fait bien référence à une bête qui pourrait mordre, ou à une morsure. Mais le monstrum, lui, plonge le spectateur dans l’univers de l’anormalité et de la perversion, du prodige – et, en l’occurrence, du prodige maléfique d’une femelle tueuse de mâle. Le monstrum vient directement de l’intertexte sénéquien : prodige en horreur aux dieux, Clytemnestre est comparable à Atrée lors du festin qu’il réserve à son frère25.

12 Le dernier indice qui prouve combien Sénèque est présent à l’esprit de Stanley lorsqu’il traduit Eschyle, c’est l’apparition du sentiment non pas de terreur ou de pitié, mais bien d’horreur, suscité par le spectacle du monstrum : Τί τοῦτ' ἔφευξα ; εἴ τι μὴ φρενῶν στύγος26. Pourquoi [as-tu pris la fuite] ? quel monstre [objet d’horreur] se forge donc ton âme27 ? Quid adeo refugis ? nisi aliquis sit mentis horror. Pourquoi fuis-tu donc ? y aurait-il quelque objet d’horreur dans ton âme ?

13 Le terme horror, choisi pour traduire στύγος, est tout à fait bienvenu ; et pris dans l’enchaînement qui mène du nefas au monstrum, puis à l’horror, il confirme les résonances sénéquiennes des autres mots. Notons que le mot est entouré par le φόβος, évoqué dans le vers précédent et dans celui qui suit – mot qui ne peut manquer, pour Stanley comme pour nous, d’évoquer la terreur aristotélicienne. Or, très étonnamment, le choix de maintenir φόβον au vers suivant, selon la leçon de Triclinius, n’est pas suivi en traduction, puisque ce mot est traduit par caedem, comme s’il traduisait le φόνον proposé par les autres manuscrits. Au vers 1315, il est cette fois traduit par metus, là où

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l’on aurait plutôt attendu timor – or metus est le mot utilisé par Sénèque pour traduire les angoisses de Clytemnestre28.

14 Le texte produit par Stanley, tout en demeurant très proche de celui d’Eschyle, transforme le modèle en une œuvre que l’on pourrait qualifier de sénéquienne. Cet infléchissement est révélateur d’une époque dans laquelle Eschyle, comme d’ailleurs Sénèque, se trouvent relégués aux antipodes d’une conception classique, aristotélicienne, de la tragédie, dont les modèles sont Sophocle et Euripide. Un dramaturge britannique pouvait être réceptif à ce théâtre peu classique. Dès lors, les modèles spectaculaires sont Shakespeare et Sénèque ; les passions tragiques sont l’horreur et le monstrueux, et non pas la crainte. Cette manipulation est d’autant plus aisée et naturelle que la langue d’arrivée, le latin, oblige pratiquement Stanley à garder Sénèque sous la main ; surtout, il ne s’agit pas, contrairement à celles de Lefranc de Pompignan ou Du Theil, de traductions destinées au grand public, mais de travaux savants – ce qui explique le caractère scrupuleux avec lequel l’esprit d’Eschyle est préservé, mais aussi sans doute le fait qu’il soit moins difficile à Stanley d’acclimater un auteur jugé trop obscur, trop simple et trop hardi par les Français, du moins dans les ouvrages en langue vernaculaire qui lui sont consacrés (par exemple, les résumés qu’en donne le père Brumoy dans sa première édition29).

15 J’aimerais, dans un deuxième temps, analyser la traduction de ces choix poétiques lorsqu’il s’agit de traiter un sujet spectaculaire mais problématique comme le meurtre entre parents. Certes, le matricide ou le meurtre des enfants est un sujet qui convient bien à une pièce écrite dans l’esprit sénéquien ; mais ils font l’objet d’une certaine retenue qui prouve que, pour un traducteur moderne, ils demeurent inassimilables malgré tout.

16 Stanley ne recule pas devant la traduction des passages les plus « hardis », pour reprendre une expression de Lefèvre cité par Brumoy, du texte eschyléen. J’en veux pour preuve les mots du chœur à l’égard d’Agamemnon, qu’elle accuse d’être un natae mactator, « sacrificateur de sa fille », qui traduit, de manière très exacte, θυτὴρ θυγατρός30, ou les prophéties de Cassandre, qui font partie des moments les plus difficiles de la pièce. La prédiction de l’arrivée d’Oreste, en tueur de mère (μητροκτόνον φίτυμα, « rejeton tueur de mère »), est traduite sans détour par les mots matricida progenies31. Mieux, lorsque Cassandre contemple la maison remplie de meurtres, Stanley amplifie l’horreur en ajoutant des mots à la cascade de termes utilisés par Eschyle : Μισόθεον μὲν οὖν, πολλὰ ξυνίστορα Αὐτόφονα κακὰ κ' ἀρτάναι, ἀνδρὸς σφάγιον καὶ πέδον ῥαντήριον 32. Dis plutôt une maison haïe des dieux, complice de crimes sans nombre, de meurtres qui ont fait couler le sang d’un frère, de têtes coupées [plutôt : de pendaisons]… un abattoir humain au sol trempé de sang33 ! Porro in domum diis invisam, multorum consciam Mutuae caedis malorum, invices scelerum et suspendiorum, Viri macellum et solum respersum sanguine. Bien plus, dans une maison haïe des dieux, complice de maux en nombre, de meurtres réciproques, de crimes et de pendaisons alternatives, un abattoir humain et un sol inondé de sang.

17 Le vers 1100, qui comporte l’idée de crimes dans la même maison et de pendaisons, se trouve – une fois n’est pas coutume – glosé et développé sur trois termes par Stanley, qui insiste, par invices scelerum, sur la chaîne de crimes opérant dans le palais des

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Atrides – c’est le mot utilisé par la Clytemnestre de Sénèque pour parler de la chaîne de meurtres qui se succèdent dans le palais des Atrides, scelera semper sceleribus vincens domus34. La comparaison avec la traduction de Lefranc de Pompignan souligne la précision du travail de Stanley : O palais, que les dieux détestent ! Lieu souillé par tant de forfaits et de morts tragiques ! Maison de carnage et de sang35 !

18 Lefranc de Pompignan abandonne l’image de l’abattoir, et il renonce aux détails du texte grec, au profit d’une expression très générale empruntée au domaine poétique, « morts tragiques ». C’est clairement un affaiblissement du texte, de la part d’un traducteur pourtant renommé pour son honnêteté envers le texte original. Du Theil, s’il retrouve un terme concret grâce à l’expression « réceptacle de sang36 », ne peut non plus conserver l’image trop crue de l’abattoir. Stanley, contrairement à ce que feront les traducteurs français du XVIIIe siècle, ne recule pas devant l’horreur, qu’il amplifie même parfois.

19 Cependant, on peut noter à quelques reprises de légères préventions concernant les meurtres horribles qui déchirent les Atrides. Ainsi, dans la relation que le chœur fait du sacrifice d’Iphigénie, Stanley ajoute l’intervention de Diane et semble dédouaner Agamemnon : Περιοργῶς ἐπιθυμεῖν θέμις devient vehementer cupida est Diana37. Ce n’est plus la justice qui, en Agamemnon, introduit le souhait d’égorger sa fille, mais le désir d’une Diane qui ressemble, pour l’occasion, à une divinité vengeresse. Cette lecture est permise par le rapprochement avec les Métamorphoses, citées dans le commentaire. La déesse y est alors explicitement tenue pour responsable du meurtre d’Iphigénie : sanguine virgineo placandam virginis iram esse dea38, ce qui dédouane le père de toute faute à l’encontre de sa fille.

20 Quelques vers plus loin, une autre interprétation permet d’infléchir très légèrement le sens du texte, dans un sens moral : Τόθεν τὸ παντότολμον φρονεῖν μετέγνω 39, traduit chez Paul Mazon par « il est prêt à tout oser, sa résolution désormais est prise », devient unde supra modum sapere poenituit mortales. L’interprétation du verbe μεταγιγνώσκω comme un verbe impersonnel me semble complètement exclue ; pourtant, en choisissant cette option, Stanley peut non seulement éviter d’insister sur la dureté du choix d’Agamemnon, mais également annoncer de possibles regrets à venir pour cet acte. Le même Agamemnon avait utilisé, quelques vers plus tôt, le terrible verbe laceravero (pour δαΐξω 40, déchirer), insistant sur la difficulté, pour lui, d’accomplir le geste demandé. Son émotion était d’autant plus sensible que Stanley rajoute meae devant domus ornamentum, alors que le possessif était absent du texte grec : l’amour paternel, ici, affleure alors qu’il demeure presque absent du texte grec. L’ensemble de ces légers infléchissements permet de faire d’Agamemnon une figure plus humaine, un père plus acceptable pour les lecteurs modernes.

21 Dans l’ensemble, le thème de la mort d’Iphigénie est traité dans un registre qui n’est pas celui de l’horrible, mais du pathétique : Κρόκου βαφάς δ' ἐς πέδον χέουσα, ἔβαλ' ἕκαστον Θυτήρων ἀπ' ὄμματος βέλει φιλοίκτῳ, Πρέπουσά θ' ὡς ἐν γραφαῖς προσεννέπειν Θέλουσ'... 41 Mais, tandis que sa robe teinte de safran coule sur le sol, le trait de son regard va blesser de pitié chacun de ses bourreaux. Elle semble une image, impuissante à parler…42

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At illa, croci tincturas in solum fundens, feriebat unumquemque Sacrificorum ab oculis (emisso) jaculo misericordiam creante, Decora sicut in picturis (apparet,) alloquique volens… Et elle, laissant tomber au sol les choses teintées de safran [sang ou robe, Stanley conserve l’ambiguïté du texte grec], elle frappait chacun des sacrificateurs d’un trait émis par ses yeux, faisant naître la pitié, elle apparaît belle comme sur un tableau, voulant parler…

22 Stanley attire l’attention sur ces quelques vers déjà très picturaux chez Eschyle, en les ouvrant par le contrastif at illa, qui alourdit l’effet dramatique déjà construit par Eschyle et l’opposition entre la jeune fille et le groupe de ses sacrificateurs. Les gloses explicatives, comme misericordiam creante, pour le simple adjectif φίλοίκτω, soulignent à quel point le spectateur est présent à l’esprit de Stanley, qui amplifie le dispositif de spécularité déjà proposé par Eschyle. L’intervention du verbe apparet, de même, construit la scène sous les yeux du lecteur. Le commentaire souligne, au sujet du vers vestibus involutam43, l’importance du regard : il s’agit de demeurer honestius, respectable, afin de pouvoir susciter la pitié – et non, comme le caractère pictural du passage pourrait le laisser entrevoir, un regard érotisé sur une jeune fille nue, proie de ses bourreaux. Ce souci fait écho au récit de la mort de Polyxène par Ovide, qui tient à expliciter combien la jeune fille a soin de casti decus servare pudoris44 – et la source ovidienne est, en l’occurrence, le gage d’une tonalité éminemment pathétique. La comparaison de ces vers de Stanley avec ceux traduits par Lefranc de Pompignan et Du Theil est frappante. Lefranc ne conserve pas l’image du tableau45 ; quant à Du Theil, il affaiblit le texte en rendant l’image plus abstraite, par l’expression un peu figée : « Belle comme les merveilles de l’art46. » Aucun de ces deux traducteurs ne traduit d’ailleurs correctement le participe θέλουσα, pour lequel on trouve dans les deux textes français « elle semble » : l’image d’une beauté muette parce qu’incapable de parler, luttant contre le destin qui la contraint au silence, est abandonnée, au profit d’une simple illusion de réel donnée par le tableau. De ce point de vue, la traduction de Stanley est à la fois bien plus pathétique et bien plus fidèle à l’original.

23 Je voudrais à présent examiner plus précisément le vocabulaire de la famille, tel que l’utilise Stanley : ses choix de traduction peuvent souligner combien sa vision de la famille est orientée par des préoccupations modernes. C’est ainsi que, pour παῖς47, comme plus tôt pour θυγατήρ48, il choisit le même mot très virgilien et relativement peu précis de nata, dans lequel on peut voir la nature, au sens de naissance – et non la notion de petit enfant que comportait παῖς, pour lequel on aurait attendu puer, ni la simple parenté féminine de θυγατήρ, pour laquelle on aurait pu avoir filia. Nata insiste sur le lien de naissance qui unit Agamemnon à sa fille, un lien naturel et non construit comme pourrait l’être celui de θυγατήρ. Il fait aussi de la jeune fille un « petit », comme on pourrait le dire d’un petit d’animal. Avec nata, on entre dans un domaine naturel, qui amplifie la faute d’Agamemnon pour des Modernes : il a osé porter la main contre son propre sang, contre ce qui était sorti de lui – et non pas, seulement, contre la fille qui faisait partie de sa famille pour le reste de la société. Pour traduire les douleurs de l’enfantement, ὠδίς49, Stanley choisit partus, qui oublie la dimension douloureuse de l’acte, au profit d’un mot qui sort l’attachement de la mère pour sa fille du contexte tragique dans lequel elle l’envisage, comme une rétribution pour ses peines, et en fait au contraire un fruit, un petit être à couver comme une plante fragile. Fruit, Iphigénie le devient aussi par l’utilisation du terme germen, pour traduire – de manière très heureuse – le grec ἔρνος50. Le terme latin contemple l’enfant encore en

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graine, encore prometteuse ; le terme grec, lui, voit en elle un rejet de l’arbre que sont ses parents, une jeune pousse destinée à grandir, mais déjà développée. Tuée alors qu’elle n’est qu’à l’état de germen, Iphigénie n’a pas connu le développement que le mot ἔρνος lui accordait malgré tout, faisant d’elle la jeune fille séduisante qu’elle a été. Enfin, dans le mot latin, est contenue une promesse de fruits, l’espoir d’une mère dans sa progéniture : l’espoir que la fille devienne mère à son tour, et assure une descendance à ses parents. Le vocabulaire dédié aux enfants contribue à créer, autour d’Iphigénie, un contexte d’attachement naturel, presque animal, qui n’existe pas, me semble-t-il, dans le texte grec.

24 Or, les enfants, le texte grec le dit, sont garants de la foi entre les parents : Ἐκ τῶνδέ τοι παῖς ἐνθάδ' οὐ παραστατεῖ, ἐμῶν τε καὶ σῶν κύριος πιστευμάτων, ὡς χρῆν, Ὀπέστης51. Et c’est aussi pourquoi ton fils n’est pas ici, comme il eût convenu, Oreste, le garant de [ma fidélité et de la tienne]52. Ob haec quidem filius hic non astat, Meae et tuae fidei pignus, Sicut oportuit, Orestes. C’est à cause de cela, oui, que ton fils n’est pas là, le gage de ma foi et de la tienne, comme il aurait fallu, Oreste. 25 De manière révélatrice, ici, Stanley choisit le terme de filius pour traduire παῖς : lorsqu’il s’agit du fils, c’est la filiation qui est retenue, et non le caractère pathétique du petit enfant. Le contexte invite d’ailleurs à ce choix, puisqu’il s’agit ici d’expliquer combien les enfants sont, presque juridiquement, un garant du mariage de leurs parents (cette idée se trouve également dans les discours juridiques grecs53). Surtout, le terme de κύριος, très marqué sur le plan juridique, cède la place à pignus, un terme également juridique, mais dont les implications sont différentes de celles du mot grec. Chez Eschyle, les enfants, en tant que κύριοι, sont constitués comme des personnes morales exerçant une autorité souveraine sur leurs parents ; chez Stanley, le mot de pignus les réduit à l’état de simples objets déposés en caution pour assurer le succès d’une entreprise – ce qui va dans le sens d’une réification des enfants, dans la traduction latine. Le choix du mot fides, lui, pour traduire le très concret πιστεύματα, pourrait permettre de rétablir l’équilibre entre abstrait et concret ; cependant, il place l’abstraction et donc l’autorité morale dans les parents, dont il s’agit de préserver les vœux, et non plus dans les enfants qui pouvaient constituer un garant de ces actions : le regard sur l’enfant a changé, avec Stanley, et l’on conçoit désormais le fils ou la fille comme le petit être à protéger, non comme l’enjeu juridique d’un mariage qu’il pourra venir sauver s’il le faut54.

26 En lien avec ces modifications dans le vocabulaire utilisé pour parler de l’enfance, est introduite une réflexion sur la femme, qui prend une importance cruciale dans le cadre de la trilogie d’Eschyle. J’en prendrai pour exemple la dernière scène, la confrontation entre Égisthe et le chœur. Là où le texte varie peu ses appellations (la femme, dans ce passage, c’est toujours γυνὴ), Stanley ressent le besoin de faire intervenir deux termes : mulier55 et ses composés muliebre56, muliebris57, ou foemina58 – sans raison apparente, puisqu’il s’agit la première fois de qualifier Égisthe, une femme qui reste à la maison ; puis pour muliebre, de la ruse revenant à la femme ; enfin, pour muliebris, de l’avis d’une femme ; quant à foemina, que l’on aurait plutôt imaginé traduisant θηλεία, en référence au genre, il est utilisé lorsque le chœur s’étonne qu’Égisthe ait laissé une femme

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frapper le héros. En apparence, peu de différence : le mot est toujours utilisé en opposition directe ou sous-jacente à l’homme, qui aurait dû prendre l’action ou n’aurait pas usé de ruse. On peut peut-être établir une différence d’utilisation entre des mots qui font référence aux comportements attendus d’une femme (mulier), et ceux qui évoquent l’action menée par une faible femme (foemina). Notons que le grec utilise, dans la conclusion du coryphée, θηλεία, dans son sens animal de femelle, ici inséparable de son coq : ἀλέκτωρ ὥστε θηλείας πέλας59. Stanley ne traduit pas le mot, mais préfère le remplacer directement par le féminin du Gallus, faisant de Clytemnestre une poule – ce qu’elle n’était pas complètement chez Eschyle : tanquam Gallus prope gallinam. La femme subit alors un traitement encore plus dégradant que dans l’original grec.

27 Lorsqu’il est question des sentiments de la femme pour son amant, Stanley opère un détour étrange et peu naturel, peut-être légèrement pudique, à l’égard de ce que confesse Clytemnestre : la reine grecque avoue ce qu’elle nomme ses φιλάνορας τρόπους60, que Paul Mazon traduit, peut-être excessivement, par « transports amoureux ». Il est évident, malgré tout, que τρόπος fait référence à des attitudes, à un comportement plus qu’à un sentiment. Stanley traduit, lui, en termes de sentiments : Viri amans ingenium meum. L’utilisation du mot vir, par ailleurs, contribue à donner une forme de légitimité à Égisthe, promu quasiment au rang d’époux – ou du moins aux sentiments de Clytemnestre pour celui qu’elle considère, dans cette expression, comme tel. La femme agit alors selon ce que lui demande son devoir, en épouse aimante, et son esprit se soumet moralement à cette règle dictée par la société61.

28 Le travail de Stanley se signale par la probité et le respect avec lesquels il traite le texte source : le traducteur livre une version scrupuleuse, dans laquelle les travaux de ses prédécesseurs permettent de donner du texte un mot à mot respectant l’ordre, le rythme et les nuances de l’original. Ce travail fait date pour l’histoire de la réception d’Eschyle. Pourtant, les quelques libertés que sa pratique scrupuleuse laisse à Stanley permettent de souligner, à la marge, des infléchissements dans deux directions. La première est le modèle spectaculaire de Sénèque, à l’aune duquel on lit Eschyle, fort peu connu au demeurant avant le travail de Stanley, et que l’on juge étranger à toute tentative d’apprivoisement par les règles de dramaturgie classique – il est donc de ce fait immédiatement rejeté du côté de Sénèque, auquel il est d’ailleurs accolé dans l’édition de Brumoy, et de Shakespeare. Le choix du latin comme langue d’arrivée explique aussi, sans doute, cette familiarité de Stanley avec des modèles comme celui de Sénèque, soutenu par des références à Ovide ou Virgile également. Cette première tendance entre en contradiction avec une deuxième influence qui, malgré la liberté dont il fait preuve, pèse sur Stanley : certes, le contexte de traduction savante et en latin lui permet, contrairement à Lefranc de Pompignan, de demeurer très près du texte source ; malgré tout, quelques réticences se font sentir, et surtout quelques infléchissements dans le choix du vocabulaire montrent combien la conception de la famille, à l’époque moderne, se démarque de ce qu’elle peut être pour Eschyle – et combien les modèles grecs sont de ce fait difficiles à transcrire dans l’Europe moderne.

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NOTES

1. Thomas Stanley (1625-1678), issu d’une famille noble et soutien de la cause monarchiste pendant la guerre civile, exerce une activité de poète et de traducteur de textes antiques et modernes (par exemple, de poèmes de Tristan l’Hermite) ; il est surtout l’auteur d’une History of Philosophy (1655-1662) qui lui vaut d’être élu charter member de la Royal Society en 1661 et fellow en 1663. Voir Chiara Tedeschi, Thomas Stanley, editore di Eschilo, Università degli Studi di Trento, 2010, p. 73-108. 2. Alde Manuce, Aischylou tragōdiai hex. Promētheus desmōtēs. Hepta epi Thēbais. Persai. Agamemnōn. Eumenides. Hiketides, Venise, 1518. 3. Adrien Turnèbe, Aeschyli tragediae, Paris, 1552. 4. Francesco Robortello, Aeschyli Tragaediae septem, a Francisco Robortello… nunc primum ex manuscriptis libris ab… erratis expurgatae, ac suis metris restitutae, Venise, G. Scottum, 1552. 5. Le manuscrit sur lequel manque la fin de l’Agamemnon (à partir du vers 1159) et le début des Choéphores (jusqu’au vers 10) est le Mediceus ou Laurentianus XXXII 9. La fin de l’Agamemnon est transcrite sur le Florentinus XXXI 8, le Venetus 663 et le Farnesianus I E 5 ; les premiers vers des Choéphores ont été conservés par Aristophane et les grammairiens. 6. Guillaume Canter, Aeschyli Tragoediae VII, in quibus, praeter infinita menda sublata, carminum omnium ratio, hactenus ignorata, nunc primum proditur, opera Gulielmi Canteri, Anvers, Christophe Plantin, 1580. 7. Jean de Saint Ravy de Montpellier, Aeschyli… Tragoediae sex… e greco in latinum sermonem, pro utriusque linguae tyronibus, ad verbum conversae, per Johannem Sanravium, Bâle, Jean Oporin, 1555. 8. Coriolano Martirano, Coriolani Martirani cosentini episcopi Santi Marei Tragoediae VIII : Medea, Electra, Hippolytus, Bacchae, Phoenissae, Cyclops, Prometheus, Christius – Comoediae II : Plutus, Nubes – Odysseae lib. XII – Batracho-myomachia – Argonautica, Naples, J. M. Simonetta de Crémone, 1556 ; Mathias Garbitius, Aeschyli Prometheus, cum interpretatione Mathiae Garbitii, Bâle, Jean Oporin, 1559 ; Florent Chrestien, Aeschyli tragoedia septem Thebana. Septem thebana tragoedia Aeschulea, stylo ad veteres tragicos latinos acredente quam proxime fieri potuit a G. Septimio Florente Christiano, 1585, Paris, Frédéric Morel. Voir A. WARTELLE, HISTOIRE DU TEXTE D’ESCHYLE, PARIS, LES BELLES LETTRES, 1971, ET M. MUND- DOPCHIE, LA SURVIE D’ESCHYLE À LA RENAISSANCE, EDITIONS, TRADUCTIONS, COMMENTAIRES ET IMITATIONS, LOUVAIN, PEETERS, 1984. 9. C. LECHEVALIER, L’INVENTION D’UNE ORIGINE : TRADUIRE ESCHYLE EN FRANCE DE LEFRANC DE POMPIGNAN À MAZON : LE PROMÉTHÉE ENCHAÎNÉ, PARIS, HONORÉ CHAMPION, 2007. 10. Thomas Stanley, Agamemnon, dans Aeschyli tragoediae septem cum scholiis graecis omnibus, deperditorum dramatum fragmentis, versione et commentario, Londres, Jacobi Flesher, 1664, v. 1266-1269, p. 380-381. 11. Traduction Paul Mazon, Paris, Les Belles Lettres, 1925, v. 1257-1260, p. 55. 12. Je traduis le latin de Stanley. 13. Stanley, Agamemnon, v. 1265 ; v. 1256 de l’édition P. MAZON, IBID., QUI TRADUIT « AH ! AH ! QUEL EST CE FEU ? ET IL MARCHE SUR MOI… » 14. Stanley, Agamemnon, v. 1123, p. 371. 15. Voir Psaumes, XVIII, 7, et saint Augustin, Confessions, V, 1. 16. Stanley, Agamemnon, p. 318-319. 17. Ibid., v. 221. 18. Ibid., p. 302-303. 19. Ibid., v. 226-230, p. 318-319. 20. Traduction MAZON (V. 218-221 DANS CETTE ÉDITION), P. 17.

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21. Sénèque, Agamemnon, édité par Fr.-R. CHAUMARTIN, PARIS, LES BELLES LETTRES, 1999, V. 173. ÉGALEMENT V. 219. 22. Voir F. DUPONT, LES MONSTRES DE SÉNÈQUE, PARIS, BELIN, 1995, COLL. « L’ANTIQUITÉ AU PRÉSENT », P. 175-178. 23. Stanley, Agamemnon., v. 1240-1242, p. 378-379. 24. Traduction MAZON, V. 1231-1232, P. 54, ADAPTÉE PAR MOI (LA PONCTUATION RETENUE EST DIFFÉRENTE). 25. Sénèque, Thyeste, v. 703 ; voir Fl. DUPONT, LES MONSTRES DE SÉNÈQUE, P. 55-90. 26. Stanley, Agamemnon, v. 1317, p. 382-383. 27. Traduction MAZON ARRANGÉE, V. 1308, AGAMEMNON, P. 57 ; MAZON TRADUIT ÉTONNAMMENT ἜΦΕΥΞΑΣ PAR « CE CRI ». 28. Sénèque, Agamemnon, v. 246. 29. Pierre Brumoy, Théâtre des Grecs, Paris, Rollin, 1730, « Discours sur le théâtre », t. I, xvj ; « Agamemnon », t. II, p. 185. 30. Stanley, Agamemnon, v. 233. 31. Ibid., v. 190, p. 380-381. 32. Ibid., v. 1099-1101, p. 368-369. 33. MAZON, Agamemnon, v. 1090-1092, p. 49. 34. Sénèque, Agamemnon, v. 169. 35. Lefranc de Pompignan, Tragédies d’Eschyle, Paris, Saillant et Nyon, 1770, p. 263. 36. Du Theil, Agamemnon, dans Pierre Brumoy, Théâtre des Grecs, Nouvelle édition, tome II, Paris, Cussac, 1785, p. 81. 37. Stanley, Agamemnon, v. 224-225, p. 318-319. 38. Ovide, Métamorphoses, XII, édité par G. LAFAYE, PARIS, LES BELLES LETTRES, 1930, V. 28-29. 39. Stanley, Agamemnon, v. 229-230, p. 318-319 ; v. 220-221 chez MAZON. 40. Ibid., v . 216. 41. Ibid., v. 247-249, p. 320-321. 42. Mazon, Agamemnon, v. 238-243, p. 18. 43. Stanley, Agamemnon, v. 241, p. 318-319. 44. Ovide, Métamorphoses, XIII, v. 480. 45. Lefranc de Pompignan, Tragédies d’Eschyle, p. 218. 46. Du Theil, Agamemnon, p. 46. 47. Stanley, Agamemnon, v. 1426, p. 388. 48. Ibid., v. 233. 49. Ibid., v. 1427. 50. Ibid., v. 1534, p. 394-395. 51. Ibid., v. 886-888, p. 356-357. 52. Traduction Mazon modifiée, v. 877-879, p. 41. 53. Voir par exemple Lysias, Sur le meurtre d’Ératosthène, 6-7, dans Discours, I, éd. L. Gernet et M. BIZOS, PARIS, LES BELLES LETTRES, 1943 [1924]. VOIR ÉGALEMENT ARISTOTE, ÉTHIQUE À NICOMAQUE, VIII, 1161 B 18-19

ET 1162 A 27-29, TRAD. R. BODÉÜS, PARIS, GF FLAMMARION, 2004, P. 442 ET 445.

54. Sur les bouleversements qui affectent le regard sur l’enfance aux XVIIE ET XVIIIE SIÈCLES, VOIR PH.

ARIÈS, L’ENFANT ET LA VIE FAMILIALE SOUS L’ANCIEN RÉGIME, PARIS, SEUIL, 1975 [1960], NOTAMMENT P. 299-307 ; CE

TRAVAIL A ÉTÉ CONTINUÉ PAR J. GÉLIS, « L’INDIVIDUALISATION DE L’ENFANT », DANS HISTOIRE DE LA VIE PRIVÉE, III, DE

LA RENAISSANCE AUX LUMIÈRES, SOUS LA DIRECTION DE PH. ARIÈS ET G. DUBY, PARIS, SEUIL, 1985, P. 303-318 ; A. BURGUIÈRE,

« LES CENT ET UNE FAMILLES DE L’EUROPE », DANS HISTOIRE DE LA FAMILLE, III, LE CHOC DES MODERNITÉS, SOUS LA

DIRECTION DE A. BURGUIÈRE, C. KLAPISCH-ZUBER, M. SEGALEN ET F. ZONABEND, PRÉFACE DE J. GOODY, PARIS, ARMAND-COLIN,

1986, P. 21-122 ; É. BADINTER, L’AMOUR EN PLUS. HISTOIRE DE L’AMOUR MATERNEL (XVIIE-XXE SIÈCLE), PARIS, FLAMMARION,

1980, NOTAMMENT DEUXIÈME PARTIE, CHAPITRE I, P. 141-194 ; E. SCHORTER, NAISSANCE DE LA FAMILLE MODERNE, XVIIIE-XXE

SIÈCLE, TRADUIT PAR SERGE QUADRUPPANI, PARIS, SEUIL, 1977, P. 208-253 ; CL. BERNARD, CH. MASSOL ET J.-M. ROULIN,

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INTRODUCTION À L’OUVRAGE COLLECTIF ADELPHIQUES, 2010, P. 10 ; CL. BERNARD, PENSER LA FAMILLE AU DIX-NEUVIÈME

SIÈCLE (1789-1870), SAINT-ÉTIENNE, PUSE, 2007, P. 32-39. 55. Stanley, Agamemnon, v. 1634, p. 400-401. 56. Ibid., v. 1645, p. 402-403. 57. Ibid., v. 1670. 58. Ibid., v. 1653. 59. Ibid., v. 1680, p. 404-405. 60. V. 865, p. 356-357 ; v. 856 chez MAZON. 61. Réminiscence, peut-être, de Sénèque, Agamemnon, v. 239 : « Amor conjugalis vincit. »

RÉSUMÉS

La traduction latine de l’Agamemnon d’Eschyle par Stanley est profondément marquée par l’influence de Sénèque, qui en constitue la source naturelle par la communauté de langue, mais peut-être également par la meilleure diffusion en Grande-Bretagne de Sénèque, dont elle semble adopter l’esthétique comme le vocabulaire. Pourtant, Stanley réalise une synthèse originale entre la poétique sénéquienne et d’autres éléments empruntés à Aristote. Cette tension entre une poétique violente, encore peu diffusée dans la deuxième moitié du XVIIe siècle, et une poétique plus classique, peut se lire dans certains choix de traduction, en particulier lorsqu’il s’agit de passages qui ont trait à la famille d’Agamemnon.

The Latin translation of Aeschylus’ Agamemnon by Stanley is deeply influenced by Seneca, who is its natural source because of the linguistic community, but maybe also because of the large diffusion of Seneca in Great Britain, whose aesthetics and vocabulary the translation seems to adopt. Hence Stanley produces an original synthesis between Seneca’s poetry and other elements taken from Aristotle. Such a tension between a violent poetry, still not common in the second half of the 17th century, and a more classical one, can be traced in some translation options, in particular in the passages related to Agamenon’s family.

INDEX

Mots-clés : réception de la tragédie grecque, traduction, bienséances, Sénèque, Eschyle, Agamemnon, Stanley Keywords : reception of Greek Tragedy, translation, good manners, Seneca, Aeschylus, Agamemnon, Stanley

AUTEUR

MARIE SAINT MARTIN

Professeur en CPGE, membre rattachée au CRLC [email protected]

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Trois interpretationes de l’« Antigone » de Sophocle. Gentien Hervet (1541), Georges Rataller (1550) et Jean Lalemant (1557)

Michele Mastroianni

I

1 Parmi les genres littéraires classiques que le XVIe siècle entend faire renaître en France (comme en Italie), la tragédie est sans doute considérée comme le genre le plus prestigieux (probablement à cause des jugements d’Horace et Aristote). Toutefois, en même temps, c’est le dernier genre à être reconstitué selon les modèles anciens. En effet, si l’on excepte quelques tentatives au XIVe siècle (telles que l’Ecerinis d’Albertino Mussato1), ou encore quelques essais érudits au XVe siècle2, dans le sillon de l’imitation de Sénèque3, il faut attendre la quatrième décennie du XVIe siècle pour avoir, en Italie comme en France, des tragédies reproduisant fidèlement la structure classique4. C’est le cas de la Tragedia di Antigone de Luigi Alamanni, probablement composée en Italie avant 15225, mais imprimée en France, à Lyon6, en 1533. C’est aussi le cas, pour ce qui concerne la France, de la Tragedie de Sophoclés intitulee Electra7, de Lazare de Baïf, publiée en 1537, ou de l’Antigone de Sophoclés, de Calvy de La Fontaine, datée de 1542, restée inédite jusqu’à nos jours8. Il s’agit de traductions/réélaborations des textes grecs, qui marquent le commencement d’une production qui deviendra de plus en plus fertile.

2 Le retard relatif de cette production, par rapport aux autres genres classiques repris à la Renaissance, est dû surtout à la difficulté présentée par les textes d’origine. Nous en avons un témoignage dans la floraison de traductions en latin et en vernaculaires, surtout dans la première moitié du XVIe siècle, une floraison qui caractérise la culture de la Renaissance, mais dans une perspective très différente par rapport à la tradition des traductions médiévales. En effet, au XVIe siècle, ce sont en particulier la traduction et la réélaboration des tragédies que nous devons considérer comme étant à la base du

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phénomène de la « renaissance » humaniste. Ce phénomène a comme justification la volonté de fournir une aide à la lecture de l’original, dont tous les traducteurs dénoncent l’obscurité.

3 C’est à cause de cette obscuritas que les réélaborateurs en italien et en français se sont souvent servis d’intermédiaires, c’est-à-dire de traductions latines des textes grecs. Le but de ces versions en latin est déclaré par tous les traducteurs. Or, le premier de ces traducteurs en latin est Érasme : quoique néerlandais, il peut être considéré comme un personnage étroitement lié au milieu culturel français par l’influence que ses interpretationes d’Euripide ont exercée en France à l’époque de l’Humanisme. Lorsqu’il traduit, entre 1504 et 1506, l’Hécube et l’Iphigénie en Aulide d’Euripide, dans une lettre- dédicace à William Warham, archevêque de Canterbury, il affirme que son propos en tant que traducteur est celui d’offrir une version fidèle et littérale du texte grec (« Graecanici poematis figuras quasique filum representare, […] verbum pene verbo reddere, […] ubique sententiae vim ac pondus summa cum fide Latinis auribus appendere9 »). En même temps, Érasme souligne la difficulté qu’il y a à traduire les chœurs, qu’il considère si obscurs qu’ils nécessiteraient un interprète, tel qu’Œdipe ou encore Apollon (« Adde nunc choros nescio quanam affectione adeo obscuros, ut Oedipo quopiam aut Delio sit opus magis quam interprete10 »). Par la suite, Érasme énumère encore les obstacles qui rendent difficile la traduction : il s’agit de difficultés métriques, stylistiques et rhétoriques. Mais il faut considérer, comme le souligne Érasme, la corruption des manuscrits, la rareté des exemplaires et le fait qu’à l’époque il n’y avait pas de traductions précédentes pouvant être imitées (« Accedit ad haec codicum depravatio, exemplarium inopia, nulli interpretes ad quos confugiamus11 »).

4 En 1507, le premier traducteur français, François Tissard, nous offre la version latine de trois autres tragédies d’Euripide : Médée, Hippolyte et Alceste. Comme Bruno Garnier l’a justement remarqué, « dans l’intéressante préface en latin on trouve déjà les principes qui dessinent le traducteur humaniste de tragédies, attaché religieusement à la lettre de son original, voué à un labeur sans gloire pour l’utilité de ses lecteurs, sensible aux figures du discours et à la valeur philosophique et morale attribuée à la tragédie et à Euripide12 » : Primum (tamen) illorum post votis morem gerendo ut verbo verbum fideliter unumquodque redderem, nec constructionibus quibuspiam rudibus nimis ac nimis asperis terrerer, quae non multum eleganter nec sine figura dicendi in latinum possunt ad verbum verti. […] Prodest tamen hac tempestate talis tamque severa translatio his qui Graecis insudare decernunt, quandoquidem magis illorum utilitatis esse quibus traducitur quam eorum qui traducunt censeo, quippe qui traducendo nulla prorsus nec voluptate nec delectatione fruuntur, sed labore et molestia ; […] tamen amicis obtemperare et publicae scholasticorum neotericorum quidem utilitati consulere quam mihi ipse malebam. […] Namque originem istarum rerum hisce in tragoediis ab Euripide tam claro nobilique tragico et scientia et doctrina et antiquitate (fuit enim sub Socrate philosophiae moralis inventore Platonis et Aristotelis condiscipulus) in praesentiarum habes13.

5 En 1534, un humaniste allemand, recteur de l’université de Leipzig, Joachim Camerarius, publie une interpretatio latina ad verbum d’une sélection de tragédies d’Eschyle, Sophocle et Euripide, plusieurs fois réimprimée en France au XVIe siècle (et dont l’édition d’Henri Estienne de 1567 fut très répandue) qui a comme but, elle aussi, de faciliter la lecture du texte grec.

6 La perspective change dans les années trente-quarante avec la parution des premières traductions/réélaborations en vernaculaires. Pour ce qui concerne la France il s’agit de

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l’Electra de Lazare de Baïf et de l’Antigone de Calvy de La Fontaine, que nous venons de citer. En effet, dans ces cas, il ne s’agit plus de fournir une simple interpretatio ad litteram pour accompagner la lecture du texte grec, mais plutôt de faire une œuvre littéraire qui puisse transposer dans l’heureuse langue française la beauté de l’original classique. Tel est en effet le programme annoncé par Calvy dans la lettre-préface Au lecteur : En la lecture duquel si cler et eloquent œuvre je me suis plusieurs foys esbahy mais encores plus esmerveillé comment il nous demouroit en tenebres et silence, de sorte que à mon petit jugement, saulve la grandeur et preference d’aultruy, telle taciturnité m’a semblé faire tort et à nous et à ce prince des poetes tragiques digne certes et bien meritant en nostre heureuse langue et avecques nous renommee perpetuelle, luy non moins fameux poetique illustrateur de la Grece que le facond orateur Demosthenés. A cette cause j’ay esté induict et quasi contraint d’employer ma hardiesse et ma force, si temerité et foyblesse doibvent estre ainsi appellees, pour te le traduire en vers françoys. A quoy avec le temps et non sans travail finallement suys parvenu, ne ignorant point qu’il ne meritast meilleure traduction, et que je ne me soys pris trop hault : confessant tres bien sa Minerve tres haultaine, ma Muse tres basse, sa Melpomene tres clere, ma vaine tres obscure14.

7 Dans la même adresse au lecteur Calvy rappelle l’existence d’une traduction en prose de l’Antigone précédant sa réélaboration en vers : Ces jours passés, lecteur est tombee entre mes mains la quatriesme tragedie de Sophoclés traduicte de grec en prose françoyse par ung noble docte et saige personnaige de ce reigne non encores mise en plaine lumiere ne divulguee15.

8 Nous ne connaissons pas ce texte en prose ni l’influence qu’il a pu exercer sur l’ouvrage de Calvy. Il faut bien dire tout de même que Calvy, en suivant fidèlement le texte de Sophocle, amplifie et interprète souvent l’original grec dans une perspective de christianisation16. La traduction en vers français de l’Electra que nous venons de citer, ainsi que d’autres traductions en vers parues avant 155017, sont plus fidèles à l’original que l’interpretatio de Calvy, même si les exigences métriques et de rime contraignent les auteurs à des variations et amplifications.

9 En ce qui concerne, par contre, les traductions latines de tragédies grecques continuant à paraître au fil du XVIe siècle, il n’en va pas ainsi. Il s’agit toujours de fournir des supports à la lecture du texte grec, bien plus que dans le cas des versions françaises. Néanmoins, par rapport aux premières interpretationes (d’Érasme, de Tissard, ou de Camerarius), on remarque toujours davantage un exercice rhétorique et des prétentions stylistiques dans l’utilisation du latin. Toutefois, ces versions latines peuvent aider à la compréhension de certains glissements sémantiques par rapport à l’originel grec.

II

10 Nous nous bornerons ici à trois exemples de traduction de la même tragédie grecque, l’ Antigone de Sophocle : la traduction de Gentien Hervet (1541)18, celle de Georges Rataller (1550)19 et celle de Jehan Lalemant (1557)20.

11 Parmi les trois, Gentien Hervet (1499-1584)21 est le personnage qui a la plus grande envergure. Dans sa longue vie il fréquenta les milieux intellectuels les plus importants, en France et en Angleterre, où il fut au service d’illustres personnalités de la vie politique et religieuse. À la suite du cardinal Pole, qui, à Londres, lui avait confié l’éducation de l’un de ses frères, Hervet alla à Rome, où il devint secrétaire du cardinal Cervini (le futur pape Marcel II) qu’il accompagna à l’ouverture du Concile de Trente,

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en 1545. Rentré en France en 1553, Hervet participa activement à la vie (et à la politique) religieuse du royaume. En 1561 il suivit comme vicaire général l’évêque d’Orléans (ville et université auxquelles il resta toujours attaché) au colloque de Poissy, où Hervet fut remarqué par le cardinal Charles de Lorraine, qui le fit chanoine de Reims. Ce même Charles de Lorraine l’employa pour la réforme du diocèse, l’emmenant aussi aux dernières sessions du concile de Trente, en 1563. Ainsi, Hervet devint l’un des grands promoteurs en France des délibérations du concile et fut polémiste et prédicateur contre les protestants pendant les guerres de religion. D’ailleurs, même son activité de philologue, en tant que traducteur du grec, fut souvent orientée vers des buts apologétiques : c’est le cas de ses traductions en latin des Pères grecs (Basile de Césarée, Jean Chrysostome, Maxime le Confesseur, etc.) qui avaient traité de la présence réelle dans l’Eucharistie – traductions qui devaient fournir des textes à l’appui de la polémique antiprotestante.

12 En effet, à l’intérieur d’une production très vaste (controverses théologiques, interventions sur la discipline ecclésiastique, un catéchisme, etc.), les traductions du grec en latin sont les œuvres qui valurent à Hervet sa grande renommée. La traduction de l’Antigone de Sophocle est sans doute son chef-d’œuvre. Dans la lettre-dédicace22, qui se veut une exaltation de la poésie classique selon les schémas traditionnels (« Quid enim iucundius iis esse potest, qui musarum mysteriis sunt initiati, quam in varia cum Latinorum, tum Graecorum, qui elegantissime scripserunt, autorum lectione versari ? »), Hervet considère le genre tragique comme le plus convenable à une époque pleine d’événements dramatiques : Tragoediae autem, quae est humanarum calamitatum quoddam veluti speculum, est hoc tempore iucundior lectio, quod his iam viginti annis tot tumultus sunt excitati, ut perpetua quaedam tragoedia iure videri possit23.

13 Hervet est fortement conscient du fait que son travail trouve sa raison d’être dans l’aide offerte à ceux qui veulent accéder au texte original sans avoir une parfaite connaissance de la langue grecque. Dans cette perspective, il s’inscrit dans une tradition qui remonte au moins à Érasme. De même que son illustre prédécesseur, Hervet souligne la difficulté de rendre la métrique complexe des chœurs. Il déclare ne vouloir rendre que la pensée (sententia) de l’original, tout en négligeant la variété des mètres, et il demeure fidèle au propos d’exprimere sententiam. Mais c’est là qu’on retrouve une nouveauté foncière par rapport aux traductions littérales précédentes. L’ interpretatio d’Hervet accentue le caractère sentencieux du texte original, transformant la tragédie de Sophocle en un véritable florilège de maximes morales : ce qui influence, au niveau du langage, la lecture chrétienne de la tragédie ancienne.

14 Georges Rataller (1528-1581)24, philologue et poète néolatin, est d’origine flamande : néanmoins ses traductions latines des tragédies de Sophocle, de même que les traductions de Camerarius, ont circulé surtout en France, où elles furent largement consultées et utilisées. Né en 1528 à Leuwarden, en Hollande, et mort à Utrecht en 1581, Rattaler suivit des études de littérature et de philologie à l’école de Macropedius. Il étudia aussi le droit à Louvain, à Bourges, à Dôle et à Padoue. De retour d’Italie, il poursuivit une carrière politique prestigieuse. Référendaire au Conseil d’Artois et, par la suite, au Conseil de Malines entre 1550 et 1566, il fut envoyé entre 1566 et 1569 à la cour du Danemark, en tant que représentant de Marguerite de Parme, la régente des Pays-Bas. Le long de toute sa carrière politique, Rataller s’adonna à une intense activité humaniste, surtout comme traducteur du grec en latin. Tout jeune, en 1546, il publia une traduction en vers latins du poème d’Hésiode, Les Travaux et les Jours. À Louvain il

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commença à traduire Sophocle, dont il diffusa les tragédies, dans son cercle d’amis, au fur et à mesure qu’il les achevait. À son insu furent publiées à Lyon en 1550 trois tragédies (Ajax, Antigone, Électre)25, qui ont joui d’une large fortune en France, servant aussi de modèle aux interpretationes de Jehan Lalemant qui pilla le texte de Rataller. En 1570, Rataller, ayant achevé la version des sept tragédies de Sophocle, publia le corpus complet de ces tragédies, révisant et réécrivant ses premières traductions26. Il s’agit de la seule édition reconnue par l’auteur. Lorsque Rataller mourut, il était en train de travailler à la traduction en vers latins des tragédies d’Euripide : en 1581, les textes déjà achevés (Phoenissae, Hippolytus coronatus, Andromacha) furent publiés à Anvers.

15 Dans sa lettre-dédicace à Frédéric Perrenot, frère du cardinal du Granvelle, lettre liminaire à l’édition officielle de 1570, Rataller commence par évoquer le problème de l’édition pirate de 1550, qui avait diffusé les rédactions non recognitae. La protestation de Rataller est significative, par le fait qu’elle met en évidence le long travail de révision auquel les versions finales ont été soumises, et, par conséquent, le désir de l’auteur de parvenir à une élégance formelle et à une précision philologique particulièrement soignées. En même temps, Rataller met l’accent, comme ses prédécesseurs, sur les difficultés textuelles que pose l’original grec. Lui aussi, comme l’avait déjà fait Hervet, compose un éloge de la tragédie classique, genre littéraire dont il souligne à la fois le but moral et pédagogique et dont il célèbre la supériorité par rapport aux écrits des philosophes : Quae omnia etsi ex philosophorum libris, ubi latius ista uberiusque disputantur, peti possunt, fit tamen ut eadem in tragoediis varietate exemplorum, καὶ δεικτικῶς illustrata magis afficiant, animisque hominum inhaereant tenacius, quae quasi coram geri videntur. Quam egregia passim exempla obvia sunt, quibus princeps vitam meliorem reddere, quibus alteram sortem adversis sperare, secundis discat metuere ? Quis adeo est ferreo vel obstinato ad scelera pectore qui Oedipi aerumnas, aerumnarumque caussas legens, non moveatur, non mutetur ? Cui non meridiana luce clarius appareat, divinitus sic comparatum, ut atrocia flagitia poenae etiam consequantur consimiles ? Quid de Atreo, et Thyeste, quid de miserrima Priami fortuna, quid de aliis dicam ? Quorum etsi veterum alii libri meminere, cum tamen in aures, cum in oculos incurrunt, magis feriunt animos27.

16 Cet éloge de la tragédie devient un éloge de la vie intellectuelle en général, de l’otium, que l’on exerce principalement dans cette activité littéraire, qui a passionné plusieurs grands hommes de l’antiquité : In eiusmodi sane, ut insulsi isti rerum aestimatores putant, ludicris non piguit olim summos viros ocium consumere, uti Sophoclem, quem M. Tullius alicubi inter philosophos recenset, ac doctissimum hominem, poetamque divinum nominat ad extremam pene senectutem, Dionem, Dionysium Siculorum tyrannum, C. Caesarem, Octavium Augustum, et alios, quos longum esset enumerare28.

17 Parmi les trois traducteurs dont il est question ici, Rataller est sûrement le plus « philologue », c’est-à-dire le plus attentif aux aspects techniques du langage tragique grec. En effet, le traducteur met en évidence les problèmes posés par la traduction des parties chorales, dans un petit paragraphe (De ratione versuum ad lectorem) – une espèce d’avertissement au lecteur, conçu comme un avant-propos au texte traduit : De ratione carminum, quibus usus est Sophocles, non puto abs re fore, si paucis admoneam, extra choros vix alio genere, quam iambicis trimetris acatalecticis usum fuisse. Sub finem Oedipi Tyranni aliquot sunt versus trochaici tetrametri, ut etiam in Oedipo Colonaeo, et aliquot exametri in Philoctete, quos ubique etiam nos reddidimus. In choris ob varia, et Latinis inusitata, et multa incognita genera, id praestare non liquit, sed ubi in iis notare atque animadvertere potuimus anapaestica, trochaica, et alia id genus Latinis usitata, ea, pro eo atque in nobis fuit, expressimus. Qui autem περὶ μέτρων, quae usurpat in choris

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Sophocles, plenius erudiri desiderat, is, quae huc pertinebunt, ex Demetrio Triclinio Graeco grammatico petat, qui opusculum ea de re editum reliquit29.

18 Le troisième traducteur latin, Jehan Lalemant, est presque un inconnu. On a sur lui fort peu de renseignements30. Médecin et érudit, il naquit et vécut à Autun, où il mourut dans la deuxième moitié du XVIe siècle. Il acquit une certaine renommée par ses travaux de médecine et d’érudition historique, et notamment Anni Hebraei et omnium fere exterarum et praecipuarum gentium ratio et cum Romano collatio, Genevae, 1571. Ayant fait, comme la plupart des médecins humanistes de son époque, des études classiques solides, il acquit une bonne connaissance du grec et du latin, ce qui lui permit d’accomplir toute une série de traductions du grec en latin et du grec en français. Nous pouvons citer la traduction en français des Philippiques de Démosthène, la traduction en latin de quelques-unes des œuvres de Galien et d’Hippocrate et, surtout, la traduction latine des tragédies de Sophocle, publiée en 155731.

19 Lalemant, on l’a dit, utilise la traduction non recognita de Rataller et dans sa préface souligne lui aussi l’importance du genre littéraire tragique, qu’il considère vitae humanae speculum, tout comme la comédie. En outre, il attribue à son œuvre de traducteur une fonction d’explication du sens « mystérieux » du texte poétique : Quoniam poetae solent involucris, et ambagibus veritati tenebras offundere, et veluti suo velum poemati praetendere, ut inde quasi a mysteriis sacrorum ignarum vulgus et indoctum (cuius tamen instruendi praecipua cura esset habenda) arceant, nihil me alienum a meo instituto facturum existimavi, si velum, quod singulis Sophoclis tragoediis praetensum est, contraherem, et veritatem, quae figmento poetico subest, patefacerem. Sic enim existimavi, fore uti noster hic labor inanis, et frustra susceptus permultis videretur, nisi quae sub aenigmate dicta sunt a Sophocle, ob oculos eorum ponerem, qui vel Oedipum domi non habent, vel Delio egent natatore. […] Et vero cum tragoedia non minus quam comoedia vitae humanae speculum sit, hominumque mores, dicta, facta, fortunae varios incertosque eventus, et vitae calamitates, haec in humilibus, illa in heroum personis repraesentet, non video, quomodo quis sese veluti in speculo possit contemplari, ni apud se perpendat et consideret, quid sib ires velit, et quo tendat operis argumentum : quod et ipsum cum tectum sit et velatum, ab his qui interpretationem poetarum suscipiunt, siquidem docere volunt, est retegendum32.

20 En effet, dans la perspective de Lalemant, la version doit aider non seulement à traduire fidèlement d’une langue à l’autre, mais aussi à éclaircir un texte qui, comme tout ouvrage poétique, cache mysteria sacrorum et voile la vérité figmento poetico.

III

21 Pour qu’on puisse se rendre compte de la portée des trois interpretationes latines et de leurs caractères spécifiques, nous allons analyser brièvement la version d’un des passages les plus célèbres – et en même temps problématiques – de l’Antigone de Sophocle.

22 Il s’agit du premier stasimon de l’Antigone (vv. 332-383) considéré, en général, comme un hymne à la dignitas hominis. Dans le contexte d’une tragédie qui développe une réflexion sur le comportement de l’homme par rapport aux lois divines et aux lois humaines, le chœur évoque les conquêtes de ce même homme, capable de soumettre à son propre pouvoir les forces de la nature, mais capable aussi de créer les institutions sociales33. Nous allons citer la traduction de Paul Mazon34, l’une des versions françaises qui font le

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plus autorité, tout en considérant qu’à cause de la difficulté du texte grec, on est ici face à une hypothèse interprétative plus qu’en présence d’une traduction ad litteram : Il est bien des merveilles en ce monde, il n’en est pas de plus grande que l’homme. Il est l’être qui sait traverser la mer grise, à l’heure où soufflent le vent du Sud et ses orages, et qui va son chemin au milieu des abîmes que lui ouvrent les flots soulevés. Il est l’être qui tourmente la déesse auguste entre toutes, la Terre, la Terre éternelle et infatigable, avec ses charrues qui vont chaque année la sillonnant sans répit, celui qui la fait labourer par les produits de ses cavales. Les oiseaux étourdis, il les enserre et il les prend, tout comme le gibier des champs et les poissons peuplant les mers, dans les mailles de ses filets, l’homme à l’esprit ingénieux (περιφραδὴς ἀνήρ, v. 347 : Hervet, ingeniosus homo ; Rataller, plenus industria homo ; Lalemant, solers homo et industrius). Par ses engins il se rend maître de l’animal sauvage qui va courant les monts, et, le moment venu, il mettra sous le joug et le cheval à l’épaisse crinière et l’infatigable taureau des montagnes. Parole, pensée vite comme le vent, aspirations d’où naissent les cités, tout cela, il se l’est enseigné à lui-même, aussi bien qu’il a su, en se faisant un gîte, se dérober aux traits du gel ou de la pluie, cruels à ceux qui n’ont d’autre toit que le ciel. Bien armé contre tout, il ne se voit désarmé contre rien de ce que lui peut offrir l’avenir. Contre la mort seule, il n’aura jamais de charme permettant de lui échapper, bien qu’il ait déjà su contre les maladies les plus opiniâtres imaginer plus d’un remède. Mais, ainsi maître d’un savoir dont les ingénieuses ressources dépassent toute espérance, il peut prendre ensuite la route du mal tout comme du bien. Qu’il fasse donc dans ce savoir une part aux lois de sa ville et à la justice des dieux, à laquelle il a juré foi ! Il montera alors très haut dans sa cité, tandis qu’il s’exclut de cette cité le jour où il laisse le crime le contaminer par bravade. Ah ! qu’il n’ait plus de part alors à mon foyer ni parmi mes amis, si c’est là comme il se comporte !

23 Ce stasimon pose plusieurs problèmes d’interprétation. D’abord en raison de la signification problématique des vers 332-333 (Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀν- / θρώπου δεινότερον πέλει), ensuite à cause de l’ambiguïté et de l’incertitude concernant le sens de certains passages. Il est donc nécessaire de faire quelques sondages dans cette direction.

24 Avant tout, il nous semble important de relever que l’interprétation de ce stasimon, en tant que célébration de la grandeur humaine, est en contradiction avec le contexte de la tragédie. Un contexte qui est, finalement, le moins indiqué pour une exaltation de la dignitas hominis. Lorsque le chœur entonne son chant, des événements terribles ont été évoqués : le sort maudit d’Œdipe, la lutte fratricide entre Étéocle et Polynice, la profanation du cadavre de Polynice, la rage furieuse (l’ὀργή) de Créon. Guido Paduano a souligné que ce stasimon « a posé à la critique l’un des problèmes les plus compliqués de tout le théâtre sophocléen, à cause justement des difficultés à résoudre, si l’on essaie de comprendre le sens de l’action dramatique qui est en train de se dérouler et son rapport avec la réflexion du chœur35 ». En effet, ce stasimon semble être davantage une méditation sur l’ambiguïté de l’homme qu’une exaltation de sa grandeur. Son interprétation dépend de la signification des termes δεινά, δεινότερον.

25 Voici comment sont employés ces termes dans le texte de Sophocle et leur traduction dans les interpretationes latines qui nous intéressent : SOPHOCLE, Antigone, vv. 332-333 : Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀν- / θρώπου δεινότερον πέλει. (« Bien des choses au monde sont merveilleuses (étonnantes, terribles, effrayantes), mais aucune n’est plus merveilleuse (étonnante, terrible, effrayante) que l’homme »).

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GENTIEN HERVET, Sophoclis Antigone, vv. 354-355 (in CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, édition par M. Mastroianni, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, p. 245) : Ingeniosa multa : sed / nihil acutius viro. GEORGES RATALLER, Sophoclis Antigone, vv. 364-366 (in CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, p. 301) : Plurima ubique stupenda videmus : / sed nihil aeque stupendum, ac hominem / Natura parens protulit unquam. JEHAN LALEMANT, Sophoclis Antigone, vv. 527-532 (in CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, p. 363-364) : Multa passim miracula, / multam ubique solertiam / ostentat natura. At nihil / producit haec ipsa tamen / quicquam aut admirabilius / aut solertius homine.

26 En grec, l’adjectif δεινός se charge de deux significations opposées. En général il est employé pour signifier ce qui suscite la terreur ou l’émerveillement. Dans certains contextes, il exprime la splendeur éblouissante de l’intelligence humaine, dans d’autres la monstruosité du mal ou encore le pouvoir terrible de la Destinée. Τὸ δεινόν signifie ce qui est excessif et nous étonne, en bien comme en mal. C’est pour cette raison que les traductions modernes de Sophocle rendent δεινός tantôt par « admirable, merveilleux », tantôt par « terrible » (et par leurs synonymes). Toutefois, le choix de « terrible » semble plus convaincant.

27 En effet l’interprétation de δεινός comme adjectif qui qualifie positivement remonte aux interpretes du XVIe siècle français. Avant eux, Luigi Alamanni, publiant en 1533 à Lyon sa Tragedia di Antigone, qui devait jouir en France d’une fortune exceptionnelle36, avait traduit δεινός par « noioso e rio », c’est-à-dire « nuisible et méchant » : Tra quanti altri animali Creò natura mai sott’alcun clima, Nessun (se ben s’estima) Si truova più dell’uom noioso e rio37.

28 Il est clair que, pour Alamanni, le texte de Sophocle n’était pas ambigu, et le stasimon proposait une réflexion sur la négativité des pouvoirs de l’homme, sûrement pas une exaltation de la dignitas hominis. D’ailleurs, après cette définition solennelle (« il n’y a personne de plus nuisible ni de plus méchant que l’homme »), Alamanni amplifie le texte grec, en accentuant la violence exercée par l’homme sur la nature. En outre, Alamanni renforce son interprétation pessimiste par une variante introduite dans un passage crucial de ce stasimon. Là où Sophocle se borne à dire que l’homme « peut prendre la route du mal tout comme du bien » (v. 366), Alamanni ajoute que celui qui, tout en commettant le mal, croit être un homme, est en réalité une bête féroce (« chi prezzando poco / il bene, in cure vil gli anni comparte, / […] / deh com’è fera ch’esser uom si crede38 ! »).

29 Par contre, les premières traductions latines en France établissent cette version qu’on pourrait définir comme optimiste, qui va transformer le chœur de Sophocle en une célébration de la dignitas hominis. Ce qui advient à partir de la traduction du πολλὰ τὰ δεινά. Chez Hervet δεινός est traduit par ingeniosus et acutus ; chez Rataller δεινός devient stupendus ; chez Lalemant τὸ δεινόν et δεινός sont rendus par miraculum, solertia, admirabilis, solers. Les deux premières versions-réélaborations en langue française – celle de Calvy de La Fontaine (1542) et celle de Jean-Antoine de Baïf (1573) – sont probablement redevables de la traduction de Hervet. En effet, chez eux aussi, on

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retrouve l’interprétation positive de δεινός. Calvy, pour sa part, traduit δεινός par excellent : Combien qu’au monde y ayt cent mille choses Esquelles sont maintes vertuz encloses, combien qu’au monde y ayt maincte industrie Tres excellente au parfaict accomplye, Rien ne se trouve ainsi excellent comme Est triumphant et plain de gloire l’homme39.

30 Baïf laisse tomber δεινός, escamotant ainsi les difficultés posées par l’interprétation de πολλὰ τὰ δεινά. Toutefois, lorsqu’il exalte l’ esprit humain « inventeur », Baïf pourrait être influencé par l’adjectif ingeniosus dont Hervet se sert en traduisant δεινός : Qu’est-ce que l’esprit humain Pour s’aider n’a inventé ? Et qu’y a-t-il que sa main N’ait hardiment attenté40 ?

31 Il faudra attendre l’époque romantique pour redécouvrir l’interprétation « pessimiste », sans doute la plus correcte, même si parmi les critiques modernes certains préfèrent l’option « optimiste41 ». En effet, en 1804, Hölderlin, dans une traduction d’Antigone qui fera date, pour rendre δεινός42 choisit l’adjectif ungeheuer. Ungeheuer évoque la monstruosité et s’adapte fort bien à la situation d’horreur de la pièce.

32 Ce qu’il y a de sûr, c’est que la version que nous qualifions d’« optimiste » remonte aux interpretes français de la Renaissance, et d’abord aux traducteurs néo-latins, qui ont eux-mêmes été influencés par une traduction latine ad verbum de l’érudit allemand Joachim Camerarius [Kammermeister] (1500-1574), transmetteur de nombreux textes classiques, dont les versions latines littérales d’auteurs grecs avaient été utilisées dans les écoles en Europe, et surtout en France. Camerarius avait traduit δεινός par sagax (« Multa sagacia : at nihil homine sagacius est43 ») et dans un commentaire qui, en 1534, accompagnait sa traduction, il avait noté : Chori carmen ingenium humanum praedicat, neque quicquam homine dicit esse callidius, nec item audacius, perque fas et nephas ruere in omnia. Talis fere est sententia Horatianae Odae, cuius initium, Sic te diva potens44.

33 En réalité, l’adjectif sagax de la traduction de Camerarius, à la lumière de cette note, se charge d’une signification ambiguë, sinon négative, puisqu’il est rapproché des adjectifs callidus et audax. Un rapprochement qui renvoie à la perspective horatienne de la troisième Ode du premier livre, où la race humaine est décriée en tant que capable « de s’élancer, dans son audace à tout endurer, sur la voie interdite de l’impiété45 ». On voit donc comment ces traductions peuvent fonder une interprétation conceptuelle du texte grec qui, parfois, altère le sens de l’original, à cause d’un glissement sémantique, même si à la base de la version il y a, comme dans ce cas, un jeu d’intertextualité avec la poésie latine classique.

34 Dans la partie finale du stasimon les variantes des trois traductions latines attestent la difficulté du texte : Sophocle, Antigone, vv. 365-375 (trad. de P. Mazon, revue par nous) : Σοφόν τι τὸ μηχανόεν / τέχνας ὑπὲρ ἐλπίδ' ἔχων, / τοτὲ μὲν κακόν, ἄλλοτ' ἐπ' ἐσθλὸν ἕρπει, /νόμους παρείρων χθονὸς / θεῶν τ' ἔνορκον δίκαν / ὑψίπολις ἄπολις· ὅτῳ τὸ μὴ καλὸν / ξύνεστι τόλμας χάριν· / μήτ' ἐμοι παρέστιος γέ- / νοιτο μήτ' ἴσον φρονῶν / ὅς τάδ' ἔρδοι. (« Mais, ainsi maître d’un savoir dont les ingénieuses ressources dépassent toute espérance, [l’homme] peut tantôt prendre la route du mal tantôt la route du bien.

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S’il veut accueillir les lois de son pays et la justice des dieux à laquelle il a juré foi, il sera très haut dans sa cité (ὑψίπολις) : il sera exclu de cette cité (ἄπολις), si par orgueil il accueille le mal. Ah ! celui qui se comporte de cette façon, qu’il n’ait plus de part à mon foyer qu’il ne puisse partager mes pensées »). GENTIEN HERVET, Sophoclis Antigone, vv. 382-392 (in CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, p. 245-246) : Vafer is, atque callidus / arteis praeter spem habens, / nunc ad malum, sed nunc ad bonum vergit, / revellens leges patriae, / Deumque iustitiam, nunc patria / superbus, nunc inimicus patriae : / et honestum qui nihili / facit ob audaciam. / Sed mihi nec familiaris, / iure nec aequalis siet, / haec qui facit. GEORGES RATALLER, Sophoclis Antigone, vv. 404-418 (in CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, p. 245-246) : […] artibus, et sapientia, / quam credi posset, maiore / est preditus. Aliquando / ad virtutis studium fertur, / aliquando ad vitium. Cum patrias / servat leges et iustitiam, / tota colitur in urbe. / At quando nullo temerarius / studio movetur honesti / vilior est, quam ut civeis inter / numeretur aut locum habeat. / O utinam neque eodem mecum / tecto unquam contingat vivere, / nec amicus fiat, qui talia / patrare facinora audet. JEHAN LALEMANT, Sophoclis Antigone, vv. 600-625 (in CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, p. 365-366) : Solers inventum est illius, / maioreque, ac credi queat, / excogitandis artibus / praeditus est prudentia. / Et modo in vitium ruit, / modo fertur ad studium / virtutis. Cumque patrias / servat leges, tunc civium / habetur praestantissimus, / et tota in urbe colitur. / At cuicunque studium / nullum honesti est, sed dedecus / sustinet et opprobria, / vivitque in ignominia, / nae ille dignus est qui suae / stultae poenas audaciae / det, et extorris patria / civitateque careat. / Ne mihi sit ille utinam / unquam vicinus, aut vero / sub iisdem sit trabibus / mecum, sed nec unanimis / eadem mecum sentiat, / aut vivat amicus mihi, / haec quicunque facinora / patrare improbus sustinet.

35 L’introduction d’une donnée qui n’existe pas dans le texte grec (Hervet : « honestum qui nihili facit » ; Rataller : « quando nullo […] studio movetur honesti » ; Lalemant : « cuicunque studium nullum honesti est »), mais qui correspond à une addition/ variante de la traduction italienne de Luigi Alamanni (« ma chi prezzando poco il bene46 »), démontre l’influence de la réélaboration italienne sur les versions composées en France (latines et en langue vulgaire). Le renvoi à Alamanni est dû au fait que le stasimon (comme d’habitude toutes les parties chorales des tragédies grecques) est obscur et que la traduction relève d’une tentative d’éclaircissement du texte original, sinon d’une véritable lecture exégétique du texte grec.

36 En guise de conclusion, on peut dire que les traductions signalées ne sont certainement pas des chefs-d’œuvre poétiques. Toutefois, les versions mentionnées nous offrent le témoignage d’un travail inlassable sur les ouvrages grecs pour y découvrir les secrets de la langue et, surtout, pour pénétrer le sens des textes poétiques d’origine. Ainsi, par leur entreprise, les traducteurs s’engagent dans un dialogue intertextuel – se lisant mutuellement – et ils donnent une contribution d’une indéniable valeur pour l’édification du grand laboratoire humaniste.

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NOTES

1. Cf. A. MUSSATO, ÉCÉRINIDE. ÉPÎTRES MÉTRIQUES SUR LA POÉSIE. SONGE, ÉD. ET TRAD. J.-F. CHEVALIER, PARIS, LES

BELLES LETTRES, 2000 ; S. LOCATI, LA RINASCITA DEL GENERE TRAGICO NEL MEDIOEVO : L’« ECERINIS » DI ALBERTINO MUSSATO, ZURICH, UNIVERSITY OF ZURICH, FACULTY OF ARTS, 2006. 2. Trois tragédies latines humanistes : « Achilles » d’Antonio Loschi, « Progne » de Gregorio Correr et « Hiensal » de Leonardo Dati, éd. et trad. J.-F. Chevalier, Paris, Les Belles Lettres, 2010.

3. Cf. M. PASTORE-STOCCHI, « UN CHAPITRE D’HISTOIRE LITTÉRAIRE AUX XIVE ET XVE SIÈCLES : « SENECA POETA

TRAGICUS », IN LES TRAGÉDIES DE SÉNÉQUE ET LE THÉÂTRE DE LA RENAISSANCE, ÉTUDES RÉUNIES PAR J. JACQUOT, PARIS,

CNRS, 1964, P. 11-36 ; HUMANIST TRAGEDIES, TRANSLATED BY GARY R. GRUND, CAMBRIDGE (MASS.), HARVARD

UNIVERSITY PRESS, 2011. CF. AUSSI W. CLOETTA, DIE ANFÄNGE DER RENAISSANCETRAGÖDIE, HALLE, NIEMEYER, 1892. 4. Cf. E. Borza, Sophocles redivivus : la survie de Sophocle en Italie au début du XVIe siècle : éditions grecques, traductions latines et vernaculaires, Bari, Levante, 2007.

5. Cf. H. HAUVETTE, UN EXILÉ FLORENTIN À LA COUR DE FRANCE AU XVIE SIÈCLE. LUIGI ALAMANNI, 1495-1556. SA VIE ET SON

ŒUVRE, PARIS, HACHETTE, 1903, P. 120 ET 239-250 ; F. LONGONI, « L’ANTIGONE DI LUIGI ALAMANNI », IN ANTIGONE, VOLTI

DI UN ENIGMA. DA SOFOCLE ALLE BRIGATE ROSSE, A CURA DI R. ALONGE, BARI, EDIZIONI DI PAGINA, 2008, P. 79-107. 6. Opere Toscane di Luigi Alamanni […], Lugduni, Sebast. Gryphius excudebat, 1533, p. 134-195. 7. L. DE BAÏF, Tragedie de Sophoclés intitulee Electra […], Paris, Estienne Roffet, 1537 ; ID., Tragedie de Sophoclés intitulee Electra, a cura di F. Fassina, Vercelli, Edizioni Mercurio, 2012. 8. CALVY DE LA FONTAINE, L’Antigone de Sophoclés, a cura di M. Mastroianni, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000. 9. Il s’agit de l’épître d’Érasme Guilielmo archiepiscopo Cantuariensi primati Britanniae, « Cum in animo » (188, éd. Allen). Ici nous citons de Euripidis Hecuba et Iphigenia latinae factae Erasmo interprete, éd. J. H. Waszink, in DESIDERII ERASMI ROTERODAMI, Opera omnia (I-1), Amsterdam, North- Holland Publishing Company, 1969, p. 193-359, ici p. 218. 10. Ibid., p. 217. 11. Ibid. 12. Cf. B. GARNIER, POUR UNE POÉTIQUE DE LA TRADUCTION. L’« HÉCUBE » D’EURIPIDE EN FRANCE DE LA TRADUCTION HUMANISTE À LA TRAGÉDIE CLASSIQUE, PARIS, L’HARMATTAN, 1999, P. 39. 13. Cf. F. TISSARD, EURIPIDIS TRAGOEDIAE MEDEA, HIPPOLYTUS ET ALCESTIS, CITÉ PAR B. GARNIER (P. 39-40) QUI TRADUIT : « […] C’EST D’ABORD EN ME CONFORMANT À LEURS RECOMMANDATIONS QUE JE RENDIS FIDÈLEMENT CHAQUE MOT SÉPARÉMENT PAR UN MOT SANS CRAINDRE L’EXCÈS DE RUDESSE ET D’ÂPRETÉ DE CERTAINES CONSTRUCTIONS QUI NE PEUVENT ÊTRE RENDUES EN LATIN QUE PRIVÉES D’ÉLÉGANCE ET DE FIGURES ORATOIRES. […] CEPENDANT, À L’ÉPOQUE OÙ NOUS VIVONS, DES TRADUCTIONS SEMBLABLES, ET Ô COMBIEN SÉVÈRES, SONT UTILES À QUI DESTINE SA SUEUR À L’ÉTUDE DES GRECS, PUISQU’À MON SENS ELLES SERVENT MIEUX L’INTÉRÊT DE CEUX POUR QUI LA TRADUCTION EST FAITE QUE L’INTÉRÊT DE CEUX QUI TRADUISENT, LESQUELS, EN EFFET, NE RETIRENT AUCUN PLAISIR NI DÉLECTATION, MAIS LABEUR ET DÉSAGRÉMENT […] ; POURTANT CE N’EST PAS À MOI-MÊME QUE JE PRÉFÉRAIS OBÉIR, MAIS AUX AMIS ET ASSURÉMENT À L’INTÉRÊT PUBLIC DES SAVANTS MODERNES. […] ET L’ORIGINE DE CES VALEURS, LA VOICI SANS PLUS TARDER : ELLE RÉSIDE DANS LES TRAGÉDIES CI-APRÈS D’EURIPIDE, QUI DOIT SA CÉLÉBRITÉ ET SA NOBLESSE À SON TRAGIQUE, À SON SAVOIR, À SA FORMATION, ET À SON ÂGE ANTIQUE : IL FUT EN EFFET SOUS L’AUTORITÉ DE SOCRATE – INVENTEUR DE LA PHILOSOPHIE MORALE – LE CONDISCIPLE DE PLATON ET D’ARISTOTE ».

14. Cf. CALVY DE LA FONTAINE, L’ANTIGONE DE SOPHOCLÉS, P. 15. 15. Ibid.

16. Cf. notre commentaire (CALVY DE LA FONTAINE, L’ANTIGONE DE SOPHOCLÉS, P. 103-221).

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17. 1542 : J. AMYOT, LES TROADES (IN EURIPIDE, LES TROADES – IPHIGENIE EN AULIS, TRADUCTIONS INÉDITES DE

JACQUES AMYOT, TEXTES ÉTABLIS PAR L. DE NARDIS, NAPOLI BIBLIOPOLIS, 1996) ; 1544 : G. BOCHETEL, HÉCUBE (LA

TRAGEDIE D’EURIPIDE NOMMEE HECUBA, PARIS, ROBERT ESTIENNE, 1544) ; 1545-1547 : J. AMYOT, IPHIGÉNIE EN AULIS (DANS

EURIPIDE, LES TROADES – IPHIGENIE EN AULIS) ; 1549 : TH. SÉBILLET, L’IPHIGÉNIE EN AULIDE (L’IPHIGÉNE D’EURIPIDE, PARIS, GILLES CORROZET, 1549). 18. Sophoclis Antigone, tragoedia a Gentiano Herveto Aurelio traducta e Graeco in Latinum, Lugduni, apud Steph. Doletum, 1541. 19. Sophoclis Antigone : une impression de 1550 est une édition non recognita par l’auteur, qui publia en 1570 une édition définitive profondément corrigée dans Tragoediae Sophoclis quotquot extant, carmine Latino redditae Georgio Ratallero […], Antverpiae, ex officina Gulielmi Silvii, 1570. 20. Sophoclis Antigone, in Sophoclis Tragicorum veterum facile principis Tragoediae, quotquot extant, septem […]. Nunc primum Latinae factae, et in lucem emissae per Ioannem Lalamantium […], Lutetiae, apud Michaelem Vascosanum, via Iacobaea, ad insigne fontis, 1557. 21. Cf. pour un profil bio-bibliographique, La France des Humanistes. Hellénistes I, par J.-Fr. Maillard, J. Kecskeméti, C. Magnien, M. Portalier, Turnhout, Brepols, 1999, p. 185-276 ; C. MAGNIEN, ARTICLE « HERVET (GENTIEN) » IN CENTURIAE LATINAE II. CENT UNE FIGURES HUMANISTES DE LA RENAISSANCE AUX LUMIÈRES, RÉUNIES PAR C. NATIVEL, AVEC LA COLLABORATION DE C. MAGNIEN, M. MAGNIEN, P. MARÉCHAUX ET I. PANTIN, GENÈVE, DROZ, 2006, P. 371-379. 22. « Gentianus Hervetus Ioanni Turnoni decano Nozerensi s. d. », lettre citée in La France des Humanistes, p. 193. 23. Ibid., p. 194. 24. Pour des renseignements au sujet de Rataller, cf. les articles « Rataller » in Nouvelle biographie générale, t. XLI, sous la direction de M. le Dr. Hoefer, Paris, Didot, 1862, p. 686-687, et in Biographie universelle ancienne et moderne. Supplément, t. LXXVIII, Paris, Michaud Éditeur, 1846, p. 344-345. Cf. aussi M. MASTROIANNI, AVANT-PROPOS À G. RATALLER, SOPHOCLIS ANTIGONE, IN CALVY DE LA FONTAINE, L’ANTIGONE DE SOPHOCLÉS, P. 283-286. 25. Ces tragédies sont publiées in Tragoediae selectae a Aeschyli, Sophoclis, Euripidis. Cum duplici interpretatione Latina, una ad verbum, altera carmine. Ennianae interpretationes locorum aliquot Euripidis. […]. (Lugduni) excudebat Henr. Stephanus, illustris viri Huldrichi Fuggeri, 1557. 26. Tragoediae Sophoclis quotquot extant carmine Latino redditae Georgio Ratallero, in supremo apud Belgas regio Senatu Mechliniæ Consiliario, et libellorum supplicum Magistro, interprete, Antverpiae, ex officina Gulielmi Silvii, typographi regii, 1570. 27. Édition d’Anvers citée, ff. *3v – *4r. 28. Ibid., f. *4r. 29. Ibid., f. *5v.

30. Cf. article « Lalemant » in C. MUTEAU, J. GARNIER, GALERIE BOURGUIGNONNE, DIJON, J. PICARD, 1858-1860. CF.

AUSSI M. MASTROIANNI, AVANT-PROPOS À J. LALEMANT, SOPHOCLIS ANTIGONE, IN CALVY DE LA FONTAINE, L’ANTIGONE DE

SOPHOCLÉS, P. 341-343. 31. Cf. Sophoclis Tragicorum veterum facile principis Tragoediae. 32. Ibid., ff. 8v-9r (In Sophoclis tragoedias praefatiuncula per Ioannem Lalamantium). 33. Cf. MASTROIANNI, Le Antigoni sofoclee, p. 203-221 (chap. VI : « Miseria o dignità dell’uomo ? »). 34. Cf. Sophocle, Les Trachiniennes – Antigone, texte établi par A. Dain et traduit par P. Mazon, Paris, Les Belles Lettres, 19622, p. 84-86 et J.C. Kamerbeek, The Plays of Sophocles. Commentaries. Part III. The Antigone, Leiden, E.J. Brill, 1978, p. 13-15 et 82-86. 35. Cf. le commentaire à l’Antigone, in Sofocle, Tragedie e frammenti, vol. I, a cura di G. Paduano, Torino, UTET, 1982, p. 274-275. 36. Cf. LONGONI, « L’Antigone di Luigi Alamanni », in Antigone, volti di un enigma, p. 79-107 ; M. MASTROIANNI, « La Tragedia di Antigone di Luigi Alamanni e L’Antigone de Sophoclés di Calvy de La

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Fontaine. Un caso di intertestualità ? », Le Moyen Français, 66 (2010), p. 69-86. Cf. aussi HAUVETTE, Un exilé florentin à la cour de France au XVIe siècle, p. 120 et 239-250. 37. Cf. L. ALAMANNI, Tragedia di Antigone, vv. 456-459, a cura di F. Spera, Torino, Edizioni Res, 1997, p. 26. 38. Ibid., vv. 512-515, p. 28.

39. CALVY DE LA FONTAINE, L’ANTIGONE DE SOPHOCLÉS, VV. 585-590, P. 35.

40. J.-A. DE BAÏF, ANTIGONE, VV. 395-398, IN LA TRAGÉDIE À L’ÉPOQUE D’HENRI II ET DE CHARLES IX. VOL. V : 1573-1575, DIR.

PAR E. BALMAS ET M. DASSONVILLE, PARIS-FIRENZE, PUF-OLSCHKI, 1993, P. 32. 41. Nous pouvons citer quelques-unes de ces traductions « optimistes », réimprimées jusqu’à présent : « Many wonders there be, but naught more wondrous that man » (de F. Storr, London, The Loeb Classical Library, 1912) ; « Il est bien des merveilles en ce monde, il n’en est pas de plus grande que l’homme » (de P. Mazon, Paris, Les Belles Lettres, 1955) ; « Molti sono i prodigi, e nulla è più prodigioso dell’uomo » (de F. Ferrari, Milano, Rizzoli, 1982). 42. Cf. Antigone di Sofocle nella traduzione di Friedrich Hölderlin, con un saggio di G. Steiner, Torino, Einaudi, 1996, p. 45 : « Ungeheuer ist viel. Doch nichts / ungeheurer, als der Mensch ». 43. Cf. Tragoediae selectae Aeschyli, Sophoclis, Euripidis, cum duplici interpretatione Latina, una ad verbum, altera carmine […], [Genevae,] excudebat Henricus Stephanus, 1567, p. 767 : il s’agit d’un recueil où les traductions de Rataller sont accompagnées de la traduction ad verbum de Camerarius de 1534. 44. Cf. Commentarii interpretationum Argumenti Thebaidos Fabularum Sophoclis, authore Ioachimo Camerario […], Haganoae, ex Officina Seceriana, 1534, p. 72. 45. Cf. Hor., Carm., I, 3, 25-26 : « Audax omnia perpeti / gens humana ruit per uetitum nefas » (éd. F. Villeneuve, Paris, Les Belles Lettres, 19596, p. 11). 46. Cf. ALAMANNI, Tragedia di Antigone, vv. 505-515, p. 28 : « Questo intelletto sprona / talora al male, al ben talora altrui, / ma sol saggio è colui / ch’ama gli Dei, la patria, e l’alma fede, / e quanto altro possiede / come fral possession da sé diparte, / e gir lo lassa alla Fortuna in gioco ; / ma chi prezzando poco / il bene, in cure vil gli anni comparte, / deh come giugne a notte innanzi sera ! / deh com’è fera ch’esser uom si crede ! ».

RÉSUMÉS

Dans ce travail on étudie trois interpretationes latines de l’Antigone de Sophocle : celle de Gentien Hervet (1541), celle de Georges Rataller (1550) et celle de Jehan Lalemant (1557). Il s’agit de traductions ayant pour objectif de venir en aide à ceux qui désiraient accéder au texte original sans avoir une parfaite connaissance de la langue grecque. Dans cette perspective, les traducteurs se reconnaissent dans une filière qui remonte au moins à Érasme. Ces trois interpretationes accentuent le caractère sentencieux du texte original, transformant la tragédie de Sophocle en un véritable florilège de maximes morales, ce qui influence au niveau du langage la lecture chrétienne de la tragédie ancienne. La présente étude analyse les lettres-dédicaces et préfaces, qui soulignent certains problèmes posés aux traducteurs, surtout en ce qui concerne les parties chorales. Afin d’éclaircir les difficultés d’interprétation, on discute la traduction de l’incipit du célèbre chœur consacré à une réflexion sur la dignité de l’homme (Sophocle, Antigone, 332-333).

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This work examines three Latin interpretationes of Sophocles Antigone, those of Gentien Hervet (1541), Georges Rataller (1550) and Jehan Lalemant (1557). Such translations aim at helping those who wanted to approach the original text without having a perfect knowledge of Greek language. In this perspective, the translators place themselves in a traditions that goes back at least to Erasmus. These three interpretationes stress the sententious character of the original text, actually transforming Sophocles tragedy in a real anthology of moral maxims, thus influencing on a linguistic level the Christian reading of ancient tragedy. This study analyses the dedications and the introductions, which underline some of the problems the translators had to deal with, above all in regards to the choral parts. In order to clarify the interpretative difficulties, the author deals with the incipit of the famous choir dedicated to the reflection on man’s dignity (Sophocles, Antigone, 332-333).

INDEX

Mots-clés : tragédie grecque, Sophocle, traduction, interpretatio, Gentien Hervet, Georges Rataller, Jehan Lalement Keywords : Greek tragedy, Sophocles, translations, interpretatio, Gentien Hervet, Georges Rataller, Jehan Lalement

AUTEUR

MICHELE MASTROIANNI Professeur de littérature française à l’université du Piémont Oriental. Dipartimento di Studi Umanistici [email protected]

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Sophocles Sublimis

Cressida Ryan

1 From the publication of the editio princeps in 1502 onwards, the plays of Sophocles have regularly been translated into both Latin and various vernaculars. In this article I discuss a range of sixteenth-century Latin translations, some of the texts on which they drew, and some of the texts which in turn followed on from them. I offer a commentary on some of the features which merit greater attention, in understanding the construction and use of these translations. This is by no means a comprehensive study, but suggests avenues to pursue further. Using eighteenth-century material as a more fully formed example of the developing techniques of textual criticism and interpretation, I trace back some of the intellectual and aesthetic decisions which underpin earlier works, and suggest ways in which the text, paratextual features and translation affect our understanding of the play and reflect the background of the scholar producing them. I focus on the Oedipus at Colonus (henceforth OC), as Sophocles’ last play, and one not often considered so carefully. Focussing on a less popular play allows some of the underlying themes and approaches to be seen more clearly. This article is only an introduction to a topic which merits much greater attention.

2 The texts and translations considered in this paper are a representative sample of what was available. For a list of Latin translations available in the sixteenth century, see BORZA (2007) 116, 120. For 1502-1600 alone he records 30 published Latin translations and 15 in manuscript. I shall discuss the Latin translations of GABIA (Venice, 1543), WINSHEIM (Heidelberg, 1549), LALAMANT (Paris, 1558) and RATALLER (Antwerp, 1570). BORZA (2007) discusses the translations produced in sixteenth-century Italy, with an interest in whether they are ad verbum or literary, how they cope with metrical issues and what Greek text they used. I discuss not only the Italian Latin translations, but also some from further afield, in order to place even the ad verbum translations in a literary (and politico-aesthetic) context.

3 Translation is itself a form of interpretation and commentary, and the translations of Sophocles’ plays inform subsequent readings of them in various ways. The role of translation as a demonstration of scholarly ability has long been recognised.1 Translating into a non-native language such as Latin only increases this sense of alienation and learnedness. Lexical accuracy is not the sole issue under discussion in

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translation studies; nor is it usually sufficient for a fine translation.2 A translation style can reveal the agenda of the translator, and the preconceptions and cultural background of the intended audience, and to this extent is a helpful tool in analysing the role of a text within a culture. In this article I begin to illustrate some of the patterns underlying sixteenth-century Latin translations; a full analysis of that context is beyond the scope of such a short article, but I hope to indicate fruitful areas for further research. Much as the Latin translations are a reception of the Sophoclean texts, they also become a received text as generations of readers encounter them.

4 With this introduction in place, I now turn to consider firstly some formatting issues which affect our reading of the translations, and then thematic concerns to do with the expression of leadership terms and the sublime.

Line attributions

5 Even Sophoclean line attributions reveal something of textual criticism and cultural prejudices. From around OC 1735, for example, the names of speakers have been called into particular question. At OC 1751, someone says to Antigone: παύετε θρῆνον, παῖδες ἒν οἶς γὰρ χάρις ἡ χθονία νύξ, ἀπόκειται, πανθεῖν οὐ χρὴ νέμεσις γάρ. 6 BENJAMIN HEATH first attributed lines 1751-3 to Theseus and not the chorus, as in the manuscripts.3 John Burton’s 1759 Pentalogia brought together the five “Theban” plays for the first time, but was also the first Greek text in England to include an extensive introduction, notes, apparatus criticus and glossary (Greek – Latin). It is not generally highly regarded for its level of scholarship, but as volume with interesting aims and approaches it can give us greater insights into Early Modern scholarship. In the 1779 δεύτεραι φροντίδες Burton wrote simply “procedit in scenam Theseus, alloquitur puellas, consolatur”4 Given that these lines echo lines spoken by Theseus earlier in the play (ἅλις λόγων – Burton line 1010) it matters to our interpretation of his character and the play whether he speaks them or not. Theseus has the greatest number of exits and entrances of any character in Greek tragedy.5 Given the lack of stage directions, a character’s first lines in any given scene are vital in establishing their presence on stage. The direction to the girls is paternal, and comes better from Theseus, who has promised to care for the girls, than from the chorus. The attribution thus has the potential to colour our perception of both the chorus and Theseus, as well as assisting our understanding of the staging of the scene.

7 In the Latin translations, these lines are mainly given to the chorus. The reference is clearly to both sisters. In modern editions, Ismene and Antigone have shared the preceding kommos; this is the case in LALAMANT and RATALLER’S translations, but not GABIA or WINSHEIM, where it is only Antigone and the Chorus.6 This raises the question as to which characters are onstage and interacting at any given time. There is an issue with the OC and Greek tragic conventions, because it is impossible to cast it with the usual three actors. Theseus is variously on stage with both Creon and Antigone, who are also onstage together, alongside Oedipus, and so four actors would be needed. The chorus is also more integrated in the action and dialogue than in some plays. This leads to a variety of opinions as to who says any given line in the scene where Antigone is

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kidnapped onstage (OCT lines 800-886). The eighteenth-century translations of the scene help demonstrate the effect of the different readings.

8 THOMAS FRANCKLIN rearranged the line attributions, printing a note to his line 875: “For I am weak with age, and here alone. This line in the original is, I think, very absurdly put into the mouth of Creon; I have taken the liberty to give it to Oedipus, from whom it certainly comes with more propriety.”

9 The text is shoe-horned into a way of thinking that echoes eighteenth-century characterisations, rather than paying attention to the play itself. The eighteenth- century Greek texts mainly maintain the modern distribution, but all three translations divide up the lines differently. The chorus sometimes sounds forceful, sometimes not, and Oedipus sometimes exclaims his woe, but sometimes it is moved to Antigone. Stereotypical ideas of non-interventionist choruses and strong-willed heroes affect the very setting out of the text. BRUNCK (1786) and ELMSLEY (1823) also differ from the textus receptus, assigning the lines to different speakers. This scene contains the greatest onstage violence of any tragedy; the confusion over how to represent it demonstrates how this very unusual scene continued to be problematic into the nineteenth century, in terms of what could be expected of characters and scenes in a Greek tragedy.

10 Looking back at the sixteenth century editions and translations we see different ways of attributing the lines in this section. LLOYD JONES and WILSON print a range of notes explaining some of the attributions, including: “833 Oedipodi tribuit Wunder, Antigonae codd. 837 : Creonti tribuit Reisig. Oedipodi codd.”

11 Even in the sixteenth-century Latin texts and translations we find a variety of attributions, which do not agree with each other. They are not blindly following a given Greek text, but are beginning to impose their own interpretative framework on the plays, through their choice of line designations, whether ad verbum or literary.

Line markings

12 Another unusual feature in a number of the translations (and texts) is the marking of a number of lines with double dashes.7 Putting in the extra symbols is a deliberate decision, leading to further typographical complexity, so it is worth considering the decision making behind the choice of lines. For this point I again work backwards, starting with JOHN BURTON’S 1759 Pentalogia.

13 Table 1 : lines marked… in BURTON

Play Total no. lines according to BURTON Lines marked… %

OT 1529 26 1.79

OC 1779 41 2.30

Antigone 1353 119 8.80

Phoenissae 1795 94 5.27

Septem 1086 10 0.92

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14 These lines appear to be sententiae, perhaps for transcription into commonplace books. Some of the lines are also marked with footnotes, but many are not. For example, Antigone 181-189 is marked; this has a footnote: “Totum hunc locum, usque ad vers. 196. recitat Demosthenes in Orat. Περὶ Παραπρεσβείας" p. 331. edit. Franc…”. BURTON noted that this passage was quoted by Demosthenes (and then Stobaeus) but does not quote the whole passage himself. His use of quotation marks thus becomes harder to understand. Most are only short passages; the longest continuous quotation is Phoenissae 548-59; the only dialogue is OC 800-2. This passage is marked by BURTON as sententious, providing a good example of Sophocles’ philosophical thinking, going some way towards justifying the play’s inclusion in the volume.8 The didactic function of the text is further expressed in the opening notes, where BURTON gave a list of sources discussing the play, covering Valerius Maximus viii.c.7 §. 12, Cicero Cato Maior de Senectute ch. 7, Macrobius, Apollodorus, Homeric Scholiasts and Pausanias.9

15 Pentalogia was intended as an educational text, and its lexicon, commentary and marking of sententious lines bear witness to this aim. In the context of this particular volume, the lines make sense, but what about texts and translations before 1758?

16 The same approach is seen in the Latin translations and other Greek texts.10 I include just some of the texts under discussion, for the sake of brevity.

17 Table 2: Greek lines marked in other texts and translations

Lalamant Play Greek 8a 169* Art Gabia 8 S 95 (2) Art Greek Lalmant 1557** 1558

Ajax 77 57 79 197 84

Electra 35 15 35 3 32

OT 19 6 20 25 19

Antigone 143 70 143 204 140

OC 40 9 40 0 39

Trachiniae 20 7 14 47 12

Philoctetes 37 11 31 22 25

18 * The two unaccredited Greek texts here are referred to by their Bodleian Library shelfmark.

19 ** E. BORZA, “Sophocles latinus. Étude de quelques traductions latines de Sophocles au XVIe siècle” in Neulateinisches Jahrbuch, 3 (2001) p. 29-45 dates Lalamant’s translation to 1557, but the volume marked 8° S 95(2) Art in the Bodleian Library, Oxford, includes a translated attributed to Lalamant and dated 1557, following on from an unattributed Greek text. The number of lines marked in this text is not an accurate record, however, as a number of pages are duplicated.

20 There is not space to assess the differences between the markings in any detail. A few comments must suffice. Antigone has the most lines marked in all cases. Throughout history it has been used to make points about political and religious situations, and this prominence is not exceptional.11 Trachiniae remained unperformed until the eighteenth century, not part of the Byzantine canon, and so it makes sense to find it less flagged

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up. The OC was also not performed until the eighteenth century, but has more lines noted, making it more unusual, particularly as it is the only play to receive no marked lines at all in one translation. The sections most noted include the “Time” Speech (607-628), which remains one of the most famous passages of the play, dealing with the impermanence of life and instability of relationships. It is also perhaps one of the most overtly political references in the play, hinting at the 411 BC conflict between Thebans and Athenians at Colonus, and the crisis assembly meeting held there.12

Kings and leaders

21 This potential for texts and translations to reveal political stances is also evident in the lexical choices in each case. The translation of individual words can again give us a sense not only of how coherent a translation is, but also of any interpretative framework in which it is being read. For this section I look at the nouns and some associated verbs used to designate rulers in the OC, in the translations of GABIA, WINSHEIM, LALAMANT and RATALLER. The words in question are (in alphabetic order) ἄναξ, βασιλεύς, κύριος, κραίνων, ἡγεμών, τύραννος. I refer to 30 relevant examples in the play:

22 Table 3: words for rulers and ruling in the OC

OCT Greek LALAMANT GABIA RATALLER WINSHEIM LINE

60 ἀρχηγόν principe principem praesidem praesidem

phrase : princeps’ne, an 66 ἄρχει reguntur imperat imperij tenet populus regnum habenas

67 βασιλέως regis rege rex rege

288 κύριος dux dominus sceptra dominus

295 ἡγεμών - dux - princeps

296 κραίνων rector imperator rex rex

ἀρχῆς... imperium… de regno & de regno… tyrannidis atque 375 κράτους potentiam potentia potestate regia occupandi regni τυραννικοῦ tyrannicam tyrannica

et sceptra regere et sceptra regere & sceptra duxerunt… et sceptra et 449 τυραννεύειν & imperare terrae imperare terrae regna… occupant regnum

451 ἀρχῆς regni imperij sceptra ? regno

549 ἄναξ rex rex rex rex

ἄναξ 713 rex Neptune rex Neptune Neptune Neptune Ποσειδών

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831 ἄνακτες principes reges principes principes

851 τύραννος praefectus regni dominus rex rex

862 κραίνων princeps imperans sceptra rex

sine certe 926 κραίνοντος principis sine arbitrio nihil absque regis imperante

1014 ὦναξ princeps rex rex -

1130 ὦναξ rex rex rex rex

1177 ὦναξ princeps rex rex rex

regni interim ille sceptra 1338 τύραννος regales tyrannus tyrannide Thebani occupans

1476 ἄνακτα regem regem Theseo -

1499 ὦναξ rex rex rex rex

1505 ἄναξ princeps rex rex rex

1542 ἡγεμών principis dux dux dux

1558 ἄναξ rex rex - rex

1588 ἡγητῆρος - dux duce dux

1630 ἄνακτα regem regem regem regem

dominus 1643 κύριος principem dominus - Theseus

1650 ἄνακτα princeps regem rex regem

1759 ἄναξ princeps rex rex rex

23 In this chart we see that the same Greek words are regularly translated with different Latin terms, such as ἄναξ being translated as princeps or rex, or even being missed out entirely. The same Latin terms are also used for a variety of Greek ones, e.g. rex (and its cognates) is used for ἄναξ, βασιλεύς, κύριος, κραίνων, ἡγεμών, and τύραννος " (and its cognates). ELIA BORZA discusses what a “correct” translation might look like, drawing particularly on the work of Leonardo BRUNI.13 He explains the need for a translator to know both languages perfectly, but does not delve further into what knowing a language perfectly might mean, or how that might be interpretatively applied to an understanding of a text as a unified whole.14 In the comments which follow, therefore, I take up the story with a discussion of the differences between the translations at a literary level. In ad verbum translations such as GABIA and WINSHEIM’S, one might expect consistency in the approaches to the different terms. GABIA in particular claims to be translating mot à mot15, which would suggest even more strongly that concepts of

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kingship and leadership would be translated consistently. Instead, τύραννος is translated as both dominus and tyrannos, the one term carrying a Christian undertone, the other a negative political connotation of despotism. Dominus is used by Creon of himself (851). Tyrannos is used by Polynices of Eteocles ruling supposedly illegitimately at home. The other cognates used are τυραννικοῦ (375) and τυραννεύειν (449) used of Ismene and Oedipus respectively of the situation in Thebes. GABIA translates the first with tyrannicam, but the second with imperare terrae. Τύραννος is only used of Thebes and Thebans. A theme throughout the play is the difference in government between Thebes and , with Theseus as a proto-democratic king. When Creon talks about himself we would be less likely to expect a negative reading of the term; although Creon, in the kidnap scene, knows he is acting harshly, he also claims to be acting within his rights, and the term dominus makes sense. By using dominus, therefore, GABIA has broken the Theban connection, but contributed to the characterisation of Creon. There is not a simple substitution ad verbum translation going on. This does not, however, mean that the translation is not carefully constructed to reflect the character of the Greek.

24 Two contextualised examples help to demonstrate this further. GABIA: “Oedipus: Et ubi est, imperator huius regionis, hospites? Hospes: Paternam civitate terrae habet. Speculator aut ullum Qui & me huc accersivit, abit vocaturus.” LALAMANT: “Oedipus: Ecquid unius reguntur imperio, An vero potestas est penes populum? Hospes: Rebus sane urbanis regis prudentia Moderatur.”

25 In this example, the repetition of the lexeme “reg-” links the two phrases together, demonstrating coherence in the stranger’s reply. Such verbal echoing would be typical of Greek stichomythia, so although it is not evident in the Greek, the translation technique is in keeping with the genre, and imposes coherence on the topic. Theseus is a rex, as Oedipus was a rex in Thebes. What this might mean is not explored further, but the vocabulary is at least consistent. The vocabulary becomes more varied as the Greek does, so that κραίνων in 296 becomes rector. This does not fit a literal ad verbum translation style as the change from participle to agent noun is too great a grammatical shift. It does, however, potentially begin to impose a Christian character on the political terms, not present in the Greek.

26 In the case of WINSHEIM, things are even more interesting. Although an ad verbum translation, in three instances there is no clear representation of the kingship term (713, 1014, 1476), and in a number of others the word is augmented in some way. Around 67 and 1505 /1499 there are extra terms regis and regem put in, which reinforce the theme, but do not represent anything specific in the Greek. At 1542, the translation dux for ἡγεμών is followed up by a description of Hermes as deductor ducit. The repetition consolidates the relationship between Oedipus and the gods, and reinforces the sense of movement in the speech, as Oedipus becomes aware of his impending fate. This is as much a literary interpretation of the theme as it is a literal ad verbum translation. This becomes increasingly important when we consider that, once we reach the seventeenth and particularly the eighteenth centuries, WINSHEIM’S translation becomes the default, used in editions across England, such as TONSON and WATTS 1747

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(London).16 It may have been written as an ad verbum translation particular to its context, but it becomes a universal crib, the Latin shaping the minds of schoolbook readers as much as the Greek does. With the introduction of theatre censorship in England in 1737, Greek tragedy was no longer allowed to be performed on the professional stage. The schools, however, continue to teach it. The Latin and English translations provide boys with their first and often only experience of the plays. For example, Sophocles’ Oedipus Tyrannos was performed 14 times in England before 1800, one of which was Stanmore School’s 1776 inaugural Greek play.17 The Lord Chamberlain may have decided that the OT was not suitable for general consumption (a decision not overturned until 1910), but by learning Latin and (often through Latin) Greek, the students who would go on to be the politicians running England came into close contact with the plays and had their conceptions of leadership shaped by them.

27 Indeed, such a political purpose is explicitly stated by both Lalamant and Rataller. RATALLER: “Neque enim ad ludum iocumque, neque ut multitudinis tantum animos recrearent, aut plausis risusque in theatris excitarent, id genus fabulas sapientissimi hominese scripsisse existimari debent: sed ut maximarum rerum imagines nobis ad oculos proponerent, e quibus cum ad visum recte instituendam, Moresque firmandos, tum ad Republicam bene gubernandam exempla depromant Principes et Magistratus18.” LALAMANT: “[…] permultum autem intersit reipublicae, ut inscripti hoc genere principes et nobiles adulescentes magistris ad excolendum ingenium traditi, sese velut in speculo contemplentur19.”

28 LALAMANT and RATALLER are both noted for writing literary translations. Given their explicit political statements, one might expect a coherent lexical framework to be imposed on the Sophoclean text. This does not, however, seem to be the case. LALAMANT translates almost every example with a form of either princeps or rex. The theme is significantly simplified. There are again a number of points where a clear translation is not in evidence (289, 449, 851 1338, 1588). In this case, the τύραννος words are translated variously as regia (375), imperare (449), praefectus regni (851), and regales (1338). The freedom of the translation has lost the force of the theme. RATALLER only once translated the tyrannical theme with tyrannides (375), and otherwise uses a great range of terms for leaders and power, particularly introducing the sceptra as a metonym for power. The sceptra, however, have a particular function in the OC which is equally not well-carried through, as where here it stands as a symbol of political power, at 848, Creon uses the term to refer to Antigone and Ismene as Oedipus’ source of support. The physical and metaphorical become more overtly conflated than perhaps the Sophoclean text suggests.

29 One shorter example of how a phenomenon akin to calquing between Latin and Greek will suffice to show the interpretative nature of even the ad verbum translations. At line 947, Creon refers to the Ἄρεος...πάγον, as a reference to the Areopagus. Without using the name Ares, such a reference becomes impossible. It combines the religious shrine of the Eumenides, with the contemporary legal connotations of the hill, and a reference to the god of war. Looking at the three eighteenth-century English translations again, three different translations are offered. For POTTER, it is the “mount of Mars” (p. 102). ADAMS (129) translated this as Areopagus and then added a note to explain it as a court, on “the hill of Mars”. For FRANCKLIN (429), there is a passing reference to the “court”. Only ADAMS made any attempt to express the idea of the original. The Latin translations show a similar discrepancy. For LALAMANT (1557) it is the Areopagum (p. 216). Both WINSHEIM (line 1001) and RATALLER (p. 319) translate it as Areopago, changing the case.

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GABIA is the only one to depart from a transliterative approach, and he translates it as Martis…pagum, which maintains the literal sense of the Greek, but still loses the political and religious connotations of the site. Each translator had to decide whether to translate the words or concept, and in each case something is lost, whether it be verbal accuracy or cultural understanding.

Sublime Sophocles

30 Once we reach the eighteenth century in England, new Latin translations of Sophocles stop being produced. It is not that scholars lose interest in Sophocles. On the contrary, as the development of the sublime aesthetic progresses, Sophocles becomes the embodiment of the concept, the most sublime tragedian. The OC is the best play to demonstrate this.

31 I have argued elsewhere that Edmund BURKE’S 1758 treatise on the sublime and the beautiful functions as a close reading and extension of Longinus’ Peri Hupsous, and that both texts benefit from being read in a self-conscious, metaliterary light.20 The Longinian editio princeps was Robortello’s 1554 Basel edition, followed swiftly in 1555 by the Aldine Venetian edition. I suggest that as it becomes better known, the ideas it contains become evident in the way people talk about, and then both translate and use Sophocles’ plays. Sophocles is mentioned by a number of Latin authors, such as Virgil, Cicero and Valerius Maximus, particularly with reference to the OC being a good example of what can be achieved in old age.21 The biography of the author has been conflated with the nature of the work he is writing. This reminds us again to look carefully at the scholars translating these works in the sixteenth centuries. With reference to the translations under consideration, the scholars working on the OC are reading it in the light of the Latin literature also available. The OC, for example, offers two ways of reading Sophocles as a sublime author within the context of its Latin translations. First, at Peri Hupsous XXXIII.5 Longinus cites the merits of the OC as a form of visualisation. He also discusses the nature of older, waning geniuses still producing sublime material. Homer is his main example, but Sophocles is also relevant. The OC was Sophocles’ last play, produced post mortem in 406BC. In the Cicero and Valerius Maximus sources already cited above, it is the OC’s role as an excellent play by an old man which is important. I have argued elsewhere for further reasons why Sophocles is read as sublime, but in this article now want to explore just one theme which comes out of this discussion.22

32 My final case study for this article is a discussion of the Colonus Ode as an example of sublime literature. This stasimon comes just after Theseus has agreed to take in Oedipus, and before Creon arrives. It celebrates the area in real and metaphorical terms. I have argued elsewhere why it is important in the development of the eighteenth-century sublime. In this article I want simply to assess the Latin translations of it, in order to demonstrate not only the variety in interpretations, but some cross-over links with the reception of Latin texts.

33 The different aspects of the grove reflect different themes that are important in the play. One notable feature is the link with religion. Dionysus is invoked in the first strophe, for the sake of the beauty of the place and his revelling in it.23 This may remind the audience that they are in an area sacred to Dionysus, the theatre. Mention of the Muses (691) continues the theme of poetic inspiration through the land. The ivy,

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described as οἰνωπόν evokes another aspect of Dionysus, his association with wine. 24 Dionysus’s affiliation with mystery/death cult is also represented through the natural phenomena mentioned here.25 The nightingale, as the bird of death, marks the grove as sacred to the Eumenides, goddesses associated with death, and also acts as part of the mystery/death cult aetiology for Oedipus established in the play.26 The nightingale’s association with the poet unites Dionysus with the Eumenides, and the different aspects of Dionysus’ divinity.27 The narcissus (683) is also associated with death, maintaining Dionysus and the Eumenides’ presence in this chorus through the first antistrophe.28 The description of the narcissus as καλλίβοτρυς (682) also evokes Dionysus, as an adjective most easily associated with bunches of grapes, the vine.29 One could even interpret the reference to Asia (694) as Dionysiac allusion, strengthened by the presence of the crocus (685), which, through its association with the east, can also be seen as a Dionysiac flower.30 The all-pervasive nature of Dionysus’ power continues to be evoked through words ἄβατον (675), not used elsewhere in Sophocles.31 A similar idea is conveyed by ἀκήρατος, “inviolate, untouched”, used just twice by Sophocles, both in the OC, here at line 690 and earlier at 471 when Oedipus is preparing his purification ritual. The unusual word has parallels in Euripides, where it is used eleven times, four of which are in Hippolytus, another play with a hero cult aetiology.

34 Dionysus is also associated with light, particularly bright beams of light, again reflected in this ode.32 In 670, Colonus is described as ἀργῆτα, “bright, shining,” in contrast to the grove, which remains ἀνήλιον (676), despite Dionysus’ presence.33 This light imagery continues in the antistrophe when the crocus is described as χρυσαυγῆς (685), uniting themes of death and light. In summary, throughout the Colonus ode, there is a focus on gods who evoke horses, the sea, wisdom and love. Place description is used to evoke themes of luxuriant nature, death, mystery-hero cult, metatheatre and Dionysus as the god uniting all these features. These aspects of Dionysus are not unusual, but are in keeping with the depiction in other tragedies, most notably Bacchae. Richard Seaford demonstrates how these representations of Dionysus prefigure Christ, linking pagan and Christian divinities.34 Dionysus, Oedipus and Christ all share attributes and representations.

35 The ways in which these themes are handled in the translations reveals something of how the translators were reading the play, and how the play resonated with contemporary literary and scholarly culture. Here I discuss just GABIA and LALAMANT’S translations as examples of ad verbum and literary translations respectively. The translators could have left Dionysus as the Greek name, with or without the Greek termination. LALAMANT’S literary translation maintains the reference to Bacchiotes Dionysus, while GABIA’S ad verbum one marks the link between the Maenads with Bacchides… Bacchus. Bacchus, of course, maintains the link between Greece and Rome, but it loses the clear reference to the Dionysia.

36 The two ad verbum translations mark the brightness as album Colonum (GABIA) and splendidum ( WINSHEIM), while RATALLER’S literary one uses the far less common albicantibus. The golden colour of the crocus varies also, from Winsheim’s aureo colore to Rataller’s flavi. Great differences can be seen with some of the more unusual words, notably ἄβατον and ἀκῆρατος. For the former, there is no obvious representation in RATALLER, it’s simply expressed as densae by WINSHEIM. The concept is just too hard to explain. The latter is more interesting, given that it only occurs in one other place. In only one of the four translations is there a clear correlation between lines 690 and 471,

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losing the link between the Colonus Ode and the religious place description in Ismene’s scene. For example, WINSHEIM has liquidis undarum imbribus at 690 but quid postquam eas libationes accepero at 471. Gabia reads imbre at 690, but fluxum at 471. In RATALLER’S translation the 690 reference is not clearly expressed, and at 471 we read quid ubi puris sacra erit aqua hausta minibus. Only in LALAMANT is the same term used, with pellucidae lymphae at 690 and sacras lymphas at 471, but even here the adjective has changed. In the overtly religious setting, sacras is used, mirroring RATALLER’S sacra, but in the Colonus Ode, which looks superficially less specifically religious, we move to pellucidae, focusing on the clear beauty of the water rather than its religious significance. This secularisation of the text is also evident in the ivy; οἰνωπόν in Greek, is nigram in LALAMANT and GABIA, but umbrosa and umbrosis in WINSHEIM and RATALLER. In neither case are the Homeric or religious resonances maintained. There is also no clear pattern between the ad verbum and literary translations. Words are being accurately translated, but out of the context of the whole play.

37 A phrase such as καλλίβοτρυς causes issues for Latin as it is not easily translatable, given Greek’s different ways of compounding. For WINSHEIM the narcissus is pulchros floros gigens, for LALAMANT pulcherrimis…uvulis, GABIA pulchros habens racemos (the phrase is not fully discernible in RATALLER). All three use part of pulcher, but vary on the case and number, pairing it in each case with a different noun in an attempt to convey the fecundity of the Greek term. In this case there is no easy Latin equivalent, and rather than coin one they find different ways to express the phrase. The nightingales are translated differently in each translation. LALAMANT’S garrula luget and GABIA’S stridula luget maintain the mournful aspect of the bird, but miss the poetic, although perhaps garrula, with its connotations of being garrulous, does at least suggest the verbal dexterity.35

38 A development of this Latin reading of the Colonus Ode and its use in shaping British political ideology can be seen in the eighteenth-century material. WILLIAM MASON’S 1759 play Caractacus engages with Latin readings of the Colonus Ode. The play is described as “on the model of the antient Greek tragedy”, which turns out to be the OC, and at the end of the 1796 British Library edition there is a list of useful Classical sources for understanding the play. This includes Ammianus Marcellinus, Strabo, Caesar, Pliny, Tacitus, Lucan and Dio Chrysostom. Neither Sophocles nor any other dramatist is cited in support of the play’s prefaratory claim to tragic form, since this is not obviously linked to the druidical nature of the work. A more subtle link demonstrating the Sophoclean spirit behind the druidical aspect of the play may, however, be drawn via links to Lucan.36

39 Lucan’s grove at Pharsalia III.399-438 presents another grove, which is closely echoed in MASON’S play. It is filled with the language of the Gothic sublime, couching Sophoclean ideas in Lucan’s verse with a Longinian spirit.37 The Lucanian grove has been described as in keeping with the tradition of the locus amoenus.38 The Colonus ode has also been described in such terms, but only Seneca’s influence on Lucan is noted by commentators.39 The everlasting shade (402) and lack of winds (411, 413) pick up the adjectives ajnh~lion and ajnh~nemon ( OC 676-677). The feathered songstress (409) recalls the nightingales so prevalent in the OC. The hollow depths (426) suggest both the descent to the underworld implied at OC 1590-1591, and the underground caverns and passages in Caractacus. Explicit references to fear, dread, horror and awe (405, 414, 430, 432, 424, 432, 436, 437) give us immediate access to the sublime in Longinian and

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Burkean terms. “terrible to sight” does not translate anything literally from the Latin, but recalls OC 141: δεινὸς μὲν ὁρᾶν, δεινὸς δὲ κλύειν, while line 420 “Strikes the astonished gazer’s soul with dread” summarises Philosophical Enquiry II.i in just one line. References to lightning (412, 429) confirm this link. The reference to a demon (436) translates deis in the Latin, but may reflect the daimonic undertones of both Gothic literature and the OC.

40 A relationship between Lucan, Sophocles and MASON can be drawn, and it is also telling that Lucan is used in eighteenth-century literature on the sublime. In his notes on Longinus, William SMITH had mentioned Caesar in Pharsalia as an example of the vividness which Longinus attributes to Sophocles in the OC.40 Furthermore, Geoffrey of Monmouth had used Lucan’s description of Caesar fleeing with his back to the Britons in conjunction with his promotion of Caractacus, leading to an established tradition of reading Caractacus with both Lucan and British nationalism in mind.41 Eighteenth- century scholars were reading both Sophocles and Lucan in the light of Longinus, and to find echoes of both in MASON demonstrates his strategy of literary conflation in action. Given this cross-over in vocabulary and themes, it is unsurprising to find that the same words and ideas are used in the Latin translations of Sophocles. Perhaps the translators also had copies of Lucan to hand, and read their Sophocles in this context. This kind of relationship needs a much closer assessment beyond the scope of this article.

Conclusion

41 In this article I hope to have opened up a range of fertile areas for future research. This has been very much an introduction to some of the ways in which textual criticism and translation relate to each other and form part of a continuum with literary criticism. I have also discussed some of the interactions between Latin, Greek and contemporary literature in the hope of exploring the literary culture informing and informed by the Latin translations of Sophocles. This is something which I hope Sophoclean scholars will continue to pursue. Not only does it enrich our understanding of Sophocles’ text, but it provides a model for understanding the processes of the development of human knowledge and thinking, and a way to understand Early Modern Europe in its intellectual, cultural, religious and political context. I have suggested ways in which the translations differ and how those might link to an interpretative framework ; it remains for the next phase of this scholarship to relate these various interpretations to their political, religious and aesthetic contexts more directly.42

NOTES

1. See L. HARDWICK, Translating Words, Translating Cultures, London, 2000, p. 10. 2. Ibid. 9.

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3. B. HEATH, Notae Sive Lectiones ad tragicorum Graecorum veterum Aeschyli, Sophoclis, Euripidis quae supersunt dramata deperditorumque reliquias (Oxonii, e typographeo Claredoniano), 1762, 68 : “Haec Theseo non Choro tribuendo censeo.” 4. J. BURTON, Pentalogia, sive, Tragoediarum graecarum delectus : cum adnotatione Johannis Burton (Oxonii : e typographeo Clarendoniano), 1759, p. 101. 5. Clytemnestra in Agamemnon may also have had five entrances and exits. This depends on whether she remains onstage for any of the choruses. At most, her itinerancy only matches Theseus for frequency. She also only uses the central door, whereas Theseus crosses the stage frequently, making his entrances and exits more notable. They are discussed further in Chapter 5. For entrances and exits in tragedy see O. TAPLIN, The Stagecraft of Aeschylus : the Dramatic Use of Exits and Entrances in Greek Tragedy, Oxford, 1977, and Greek Tragedy in Action [Revised Edition] London, 1985. 6. Although in the Greek accompanying WINSHEIM’S translation Ismene does feature. 7. “vel sim. is printed at the start/end of the lines. In one example, a hand is printed pointing to important lines. 8. See A. LONG, Language and Thought in Sophocles : A Study of Abstract Nouns and Poetic Technique London, 1968 for discussion of how Sophocles’ use of abstract nouns demonstrates his engagement with late fifth-century philosophical thought. J. OPSTELTEN, Sophocles and Greek Pessimism trans. J. A. ROSS, Amsterdam, 1952, provides a detailed discussion of Sophocles as a supposed pessimist. 9. These were common sources for information about the play. See B. KENNETT, The Lives and Characters of the Ancient Grecian Poets. With their heads curiously engraven on copper-plate. 2nd edition, London, Printed for B. Motte and C. Bathurst, at the Middle-Temple-Gate, Fleet-Street ; and sold by Stephen Austen at the Angel and Bible in St. Paul’s Church-Yard, 1735 ; A. SIMM, Miscellaneous Tracts : or, Select Passages, Historical, Moral, &c. Extracted from eminent Authors, ancient and modern. Containing and Abstract of Mr Locke’s Conduct of the Understanding. For the Benefit of younger Scholars, Edinburgh, 1753 ; E. HARWOOD, Biographia Classica : The Lives and Characters of the Greek and Roman Classics. A New Edition, Corrected and Enlarged, with some Additional Lives ; and A List of the Best Editions of Each Author, London, 1778, and J. SEALLY, The lady’s encyclopedia : or, a concise analysis of the belles lettres, the fine arts, and the sciences, in three volumes. Illustrated with Fifty Engraved Heads, and Thirty Four map &c. vol. I, London, 1788. 10. There is also an edition of Euripides published in Rome, 1545, which includes a short life of Sophocles and collected sententiae at the end, with eight pages on Antigone, seven on Ajax, four on the OC and Philoctetes, and three on Electra, OT and Trachiniae. Camerarius’ 1603 edition also includes an index of lines and sentiments which might prove interesting to a reader, including 19 examples for the OC. Excerpting Sophocles is interesting in ways beyond the scope of this article to discuss. 11. See G. STEINER, Antigones (2nd ed.) New Haven, 1996, on the history of Antigone. 12. For a summary of the historical references see A. KELLY, Sophocles : Oedipus at Colonus, London, 2009, ch. 1.

13. E. BORZA, SOPHOCLES REDIVIVUS : LA SURVIE DE SOPHOCLE EN ITALIE EN DÉBUT DU XVIE SIÈCLE. ÉDITIONS GRECQUES,

TRADUCTIONS LATINES ET VERNACULAIRES, BARI, 2007, P. 118. 14. E. BORZA, 2001, 27. 15. E. BORZA, 2007, 121. 16. Anonymous ΣΟΦΟΚΛΕΟΥΣ αἱ ἑπτὰ τραγῳδίαι : Sophoclis Tragoediae septem cum versione Latin & selectis quibusdam variis Lectionibus, Ex Officina J.&R. TONSON, & J. WATTS, LONDON, 1747. 17. For further information on the performance histories of the plays, see http :// www.apgrd.ox.ac.uk/research-collections/performance-database/productions (last accessed 8th June 2014).

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18. Also quoted at BORZA, 2001, 40. See also E. BORZA, 2007, 133. 19. Also quoted at BORZA, 2001, 41. See also E. BORZA, 2007, 134-5.

20. C. RYAN, “BURKE’S CLASSICAL HERITAGE : PLAYING GAMES WITH LONGINUS”, IN K. VERMEIR AND M. FUNK DECKARD (EDD.), THE SCIENCE OF SENSIBILITY : READING BURKE’S PHILOSOPHICAL ENQUIRY, DORDRECHT, LONDON, 2013. 21. See BORZA, 2007, 129 on Cicero Tusculanes II.8.20. 22. C. RYAN, Eighteenth-Century Receptions of Sophocles’ Oedipus at Colonus, PhD thesis, Nottingham, 2010, ch. 1. 23. See A. BIERL, Dionysos und die griechische Tragödie : politische und “metatheatralische” Aspekte im Text, Tübingen, 1991, p. 100-103 for a brief analysis of how Dionysus’ presence is felt throughout this ode, particularly the first strophe. For a metatheatrical reading of this, see A. HARALD, Dionysos und der griechische Tragödie : Politische und “metatheatricalishe” Aspekte im Text, Tübingen, 1991. For the other gods : Poseidon is made a local god by means of Colonus’ fame for horses. Athene is noted for bestowing the olive on Colonus. See T. STINTON, “The Riddle at Colonus”, Grrek, Roman and Byzantine Studies 17 (1976), p. 323-8 on Poseidon and Athene’s gifts in this ode. Aphrodite is also associated with horses, perhaps evoking her role in Hippolytus. See also R. BURTON, The Chorus in Sophocles’ Tragedies, Oxford, 1980, p. 276. The named gods are Dionysus, Aphrodite, Athene and Poseidon, the Muses, Zeus Morios and the Great Goddesses (Demeter and Persephone). 24. Its more common use as an Homeric epithet for the sea perhaps helps to integrate Poseidon and Dionysus into the same vision depicted here. See BIERL (1991) p. 101 on the links between plants and gods. 25. See R. SEAFORD, Dionysos. 26. On the nightingale as a bird of death, see A. MCDEVITT, “The Nightingale and the Olive : Remarks on the First Stasimon of Oedipus Coloneus”, Antidosis : Festschrift für Walther Kraus zum 70. Geburtstag/herausgegeben von Rudolf Hanslik, Albin Lesky, Hans Schwabl Wien, 1972, p. 227-237, p. 231. See also C. CALAME, “Mort héroique et culte à mystère dans l’Œdipe à Colone de Sophocle”, in F. GRAF (ed.) Ansichten griechischer Rituale. Geburtstags-Symposium für Walter Burkert, Stuttgart/ Leipzig, 1998, p. 326-356, p. 338. 27. A. SUKSI, “The Poet at Colonus : Nightingales in Sophocles”, Mnemosyne, vol. LIV Fasc. 6 (2001), p. 246-258, p. 255. CALAME, 1998, p. 338 notes the paradox of this luscious vegetation being linked to death. 28. See MCDEVITT, 1972, p. 234. A. HENRICHS, “Anonymity and polarity : unknown gods and nameless altars at the Areopagos”, Illinois Classical Studies 19 (1994), p. 27-58 notes the links between Demeter and unknown gods, with the presence of a cult to Demeter Erinys (38) for example, and chthonian aspects to both sets of divinities. (KELLY, 2009, 81-82 also discusses the links between the Eumenides and Persephone and Demeter.) 29. This is a Sophoclean hapax. It is otherwise an unusual word, found only in later literature : Nonnus, Chrysippus, Gregory of Antioch, Eustathius and the Suda. 30. N. WALLACE, “Oedipus at Colonus : The Hero in his Collective Context”, Quaderni Urbinati di Cultura Classica 32 (1979), p. 39-52, p. 47-48 interprets this rather differently. For him, Dionysus is linked to wine and the narcissus to grain, which are both community commodities and therefore the Colonus ode refers to the collective life of Athens. Continuing the theme of commodification, he notes that the crocus was economically important as a source of saffron, as was the olive. This adds a further interpretative layer to the ode, but not one on which I focus further. KNOX also notes that the crocus was planted on graves and had an Eleusinian connection : B. KNOX, The Heroic Temper : Studies in Sophoclean tragedy, Berkley and Los Angeles, 1966, 155. For the crocus as a flower also representing death, see MCDEVITT, 1972, 234. See KELLY, 2009, 94 on these flowers’ links to Persephone and Demeter. E. FORSTER, “Trees and Plants in the Greek Tragic Writers”, Greece & Rome 21.62 (June) (1952), p. 57-63 offers a brief discussion of the role of plants in tragedy, noting how the OC is exceptional in its attention to the botanic background.

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31. It is also only rarely used in Euripides ; one instance is Bacchae line 10, where Dionysus praises the land as ἄβατον and says that he has covered it in vines. For further examples of the unusual Sophoclean language in this ode, see BURTON, 1980, 277-278. C. BOWRA Sophoclean Tragedy Oxford, 1944, 347-348 also links the olive wood to war, suggesting links between this ode and the battles at Colonus imagined by the play and fought there in reality. M. PARSONS, “Self-Knowledge refused and Accepted : A Psychoanalytic Perspective on the Bacchae and the Oedipus at Colonus”, Bulletin of the Institute of Classical Studies 35 (1988), p. 1-14, p. 2 suggests that there is a link between Bacchae 10 and the ἀστιβὲς ἄλσος of OC 126. 32. See SEAFORD, 2006, p. 52-53 and 124 for example. 33. On Colonus as ἀργῆτα, see MCDEVITT,1972, p. 232. 34. SEAFORD, 2006, p. 126-129. 35. RATALLER, by contrast, personifies the nightingale as Philomela, moving away from the Sophoclean semiotics to impose Roman resonances on the text. 36. A. AMBÜHL, “Thebanos imitate rogos (BC. 1,552) – Lucans Bellum Civile und die Tragödien aus dem thebanischen Sagenkrei”, in C. WALDE (ed.) Lucan im 21. Jahrhundert München and Leipzig, 2005, provides a discussion of the Theban tragic legend in Lucan, but does not discuss the OC. The links between Lucan and Sophocles deserve closer attention beyond the scope of this thesis and the material presented here is considered only in the context of Caractacus. Sophocles is not mentioned by contemporary or subsequent commentaries on the passage (e.g. Marci Annaei Lucani PHARSALIA cum noto selectis HUG. GROTII, integris et adauctis RICH. BENTLEII, duobus specimen. EZRAE CLERCQUII von I EUER, duobus epist. ined. FRANC. OUDENDORPII, quibus varias lectiones MSS. nunc primum collatarum, dissertionem de spuriis et male suspectis Lacani versibus, scholiastas ineditos, adnotationem suam, nec non indices locupletissimos addidit CAROL. FRED. WEBER. Volumen Primum continens praefationem et Pharsalia Lib. I-III. (Leipzig : apud Gerhardum Fleischer, 1781) and V. HUNINK(ed.), M. Annaeus Lucanus Bellum Civile Book III. A commentary, Amsterdam, 1992). 37. See RYAN, 2010, p. 166-8. 38. HUNINK, 1992, p. 168. 39. On the Colonus ode as a locus amoenus, see BIERL, 1991, p. 100. See also CALAME, 1998, p. 337, with reference to a Theocritus. This idea merits closer discussion in terms of fifth-century Athenian literature, but such a study is beyond the scope of this thesis. On Seneca’s influence on Lucan’s grove, see HUNINK, 1992, p. 169. He also notes (169) the influence of Lucan on Thebaid 2.496-523 and 4.419-442, demonstrating a continued theme of topographical importance in the Theban legend. 40. An 1800 edition of DRYDEN with commentary also describes the Pharsalia in precisely such Longinian terms : “Strong and glowing colours are the just resemblances of bold metaphors ; but both must be judiciously applied ; for there is a difference betwixt daring and fool-hardiness. Lucan and Statius often ventured them too far ; our Virgil never. But the great defect of the PHARSALIA and the T HEBAIS was in the design ; if that had been more perfect, we might have forgiven many of their bold strokes in the colouring, or at least excused them : yet some of them are such as Demosthenes or Cicero could not have defended.” (343). 41. See J. CURRAN (Jr.), Roman Invasions : The British History, Protestant Anti-Romanism, and the Historical Imagination in England, 1530-1660, Newark, 2002, p. 149. 42. A brief discussion which begins to use such an approach is available in M. LURIE, “Facing up to Tragedy : Toward an intellectual history of Sophocles in Europe from Camerarius to Nietzsche”, p. 440-461 in K. ORMAND (ed.), Companion to Sophocles Malden, Mass, 2012. The same volume contains the most recent survey of Sophoclean textual criticism, contextualising this further textual work, see P. FINGLASS, “The Textual Transmission of Sophocles’ Dramas”, p. 9-24 in K. ORMAND, 2012.

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ABSTRACTS

In this article I deal with the 16th century Latin translations of Sophocles. I show how the ad verbum and literary translations can be interpreted in a literary sense. I examine the attribution of replies and line marks in translations, and I show how textual issues influence the interpretation. I compare the words used to translate the political terms in the Oedipus at Colonus, proving how the different translations deal with the political theme in different ways. I also compare the translation of the Ode of Colonus and I suggest its link with the concept of sublime.

Dans cet article, je m’intéresse aux traductions latines de Sophocle au XVIe siècle. Je montre comment les traductions ad verbum et littéraires peuvent être interprétées dans un sens littéraire. J’examine l’attribution des répliques et les marques de lignes dans les traductions, et montre comment les questions textuelles affectent l’interprétation. Je compare les mots utilisés pour traduire les termes politiques dans Œdipe à Colone, démontrant comment les différentes traductions abordent le thème politique de différentes façons. Je compare également les traductions de l’Ode de Colone, et suggère son lien avec le concept de sublime.

INDEX

Keywords: Sophocles, Latin, Greek, translation, sublime, interpretation, kingship, literal, literary Mots-clés: Sophocles, latin, grec, traduction, sublime, interprétation, royauté, littéral, littéraire

AUTHOR

CRESSIDA RYAN Merton College, [email protected]

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Érasme traducteur

Thomas Baier

λάβωμεν δὲ ὡς ὅτιπερ ἂν Ἕλληνες βαρβάρων παραλάβωσι, κάλλιον τοῦτο εἰς τέλος ἀπεργάζονται· « Mais remarquons que les Grecs ont perfectionné tout ce qu’ils ont reçu des Barbares. » (trad. Victor Cousin)

Interpretatio, Imitatio, Aemulatio

1 Cette phrase, extraite de l’Epinomis, un dialogue de Platon dont l’authenticité est contestée (987 E), témoignant d’une certaine fierté, nous fait comprendre que la littérature grecque s’est approprié de nombreuses influences étrangères, mais d’une façon si soigneuse qu’elle les ressentait en fin de compte comme ses propres structures. Ce fait va de pair avec une manière désobligeante de traiter l’étranger de « barbare », ainsi qu’avec l’idée que l’on pourrait présenter pour chaque mérite culturel un propre – donc quelqu’un d’origine grecque – πρῶτος εὑρετῆς. Un tel climat, saturé d’autosuffisance, n’est pas propice aux traductions. Nous ne sommes alors point étonnés qu’il n’y ait – à part de la Septante – aucune traduction remarquable en grec1. En revanche, la littérature grecque représentant une source originale de multiples connaissances a été traduite et adaptée à maintes reprises en d’autres langues, avec en tête évidemment le latin.

2 Les premiers pas de la littérature latine entrepris par Livius Andronicus peuvent être compris cum grano salis comme un travail de traduction. Environ 200 ans plus tard, c’est Cicéron qui devient l’archégète des traductions en prose. Cependant, lui aussi réclame – de la même façon que le bon mot de Platon que nous avons cité au début – la supériorité par rapport à ses modèles (Tusc. 1, 1) : Meum semper iudicium fuit omnia nostros aut invenisse per se sapientius quam Graecos aut accepta ab illis fecisse meliora. Si ces deux citations se ressemblent beaucoup au niveau de l’expression, elles ont pourtant un contenu nettement différent. En effet, on peut constater que Cicéron exige que les

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modèles en tant que tels soient encore visibles, mais que le lecteur apprécie également le mérite de l’adaptateur romain. L’amélioration postulée par Cicéron se fonde donc premièrement sur le fait de se situer dans un nouveau contexte et deuxièmement sur une présentation en langue latine, ce qui était jusqu’à ce point chose inconnue.

3 On pourrait comparer cette demande à celle des poètes néotériques, car eux aussi préféraient la manière de présenter à l’originalité en tant que telle. Le lecteur ne devait pas admirer le contenu, mais le style. Depuis le début, l’imitatio et l’aemulatio sont donc deux principes inhérents à la littérature romaine. Nous comprenons en particulier que la traduction était pratiquée régulièrement par les Romains, et le nombre signifiant de verbes latins désignant cette activité en témoigne : vortere ou vertere, convertere, transvertere, transferre, interpretari, traducere, transponere, tradere, exprimere. Or, la méthode du verbum-de-verbo n’a jamais été appréciée. Nous savons par exemple que Cicéron dit des tragédiens qu’ils ont traduit non verba sed vim, et que Térence polémique contre l’obscura diligentia d’un certain Luscius Lauvinus2, un terme qui décrit probablement l’imitation servile de l’original. Cicéron lui-même aurait présenté des traductions plus ou moins littérales, par exemple le discours de Calchas dans l’Iliade ou la preuve du mouvement autonome de l’âme dans le Phèdre de Platon. Cette dernière figure même deux fois dans des textes différents, une fois dans le Somnium Scipionis3 et une autre dans les Tusculanes4. Mais dans ce cas, la traduction constitue un élément d’un nouveau contexte et peut alors être comprise comme confrontation intellectuelle avec

le modèle. Il est toutefois clair que Cicéron n’a pas de considération pour les indiserti interpretes, ceux qui traduisent les textes littéralement5.

Érasme traducteur

4 Le besoin d’un traducteur qui reproduit et transforme en même temps est aussi adopté par Érasme. Sans créer quelque chose de nouveau, il se met à la recherche de l’expression appropriée tout en restant fidèle au texte original. Dans la préface du Nouveau Testament, dans une Apologia, il se défend auprès du lecteur en ces termes : Itaque te quaeso, lector optime, cum occurret novatum aliquid a nobis, ne protinus ad solitae lectionis gustum ac salivam reicias ac damnes, quasi necesse sit malum esse, quicquid diversum est, simul et me fraudans mea laude et te operis utilitate. Sed primum nostra conferto cum Graecis, quod quo promptius esset, illa e regione adiecimus. Expende, num fidelius, num apertius, num significantius expresserim quam vetus interpres. Nec hic protinus in ius trahant, si minus verbum verbo respondeat, id quod ut maxime coneris, ne fieri quidem potest. […] Quod si licet alicubi a litteris ac syllabis recedere, ut certe licet, si me comperies sententias maiori fide reddidisse quam ille [ = Hieronyme] reddiderit, ne damna, quod novum est, sed amplectere, quod est rectius6.

5 [« Je te prie donc, cher lecteur, si quelque chose, de ce que je fais te semble être nouveau et scandaleux, de ne pas l’évaluer par rapport à ton goût de lecture habituel et de le refuser, comme si toute chose nouvelle était mauvaise. En faisant cela tu me prives de mon mérite et toi-même du bénéfice de la lecture. Compare d’abord ma version avec l’original grec. J’ai apporté ici le contenu issu de cette région lointaine, pour qu’il soit plus accessible. Considère, si c’est moi ou l’ancien traducteur, qui s’est exprimé d’une manière plus exacte, plus souveraine et plus précise. Et qu’on ne m’accuse pas, si la traduction n’est pas littérale, car cela n’est point possible. […] S’il est parfois permis de s’écarter de la traduction littérale, c’est surtout le cas, quand tu constateras, que j’ai, en traduisant, plus éclairé le contexte qu’Hieronyme. Ne

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condamne pas ce qui est nouveau, mais sois reconnaissant et accepte ce qui est mieux. »]

6 Dans cette Apologia, Érasme réussit à spécifier les réserves qu’il devait affronter. Notamment quand il s’agissait de textes saints, on redoutait de donner libre cours à son ingenium. Fondamentalement, Érasme présume deux objections possibles, premièrement que toute chose nouvelle ou inhabituelle était refusée et deuxièmement que le lecteur s’attendait à une traduction littérale. Contrairement à cette petitesse scolastique, Érasme propose d’offrir une traduction interprétative, c’est-à-dire qu’il veut sententias reddere (reproduire le sens) et traduire – par rapport à la traduction d’Hieronyme – rectius, plus correctement. L’objectif de sa transformation est de rendre le texte plus accessible (promptius), donc de placer le lecteur dans un environnement familier. La qualification du texte original de ex illa regione nous indique que l’original apparaissait très étranger aux lecteurs de l’époque.

7 Érasme est tout à fait conscient du problème qu’il y a parfois plusieurs variantes du texte. Des variantes (lectiones) sont selon sa définition des significations différentes 7. Pour assurer une lecture fluide du texte, il ne choisit qu’une seule variante, mais il fait référence aux commentaires (les scholies) pour indiquer qu’il y en a d’autres. Il conçoit aussi son intervention contre les traductions mesquines verbum de verbo comme une purification (libros reddere purgatiores)8. On retrouve ici mutatis mutandis des attitudes concernant le maniement de la langue, que nous avons déjà rencontrées dans le Ciceronianus9. Le partenaire de dialogue Boulephorus exige que l’on s’adapte aux circonstances de l’époque et insiste sur le fait que Cicéron aussi a créé de nouveaux mots : Quam multa reperies apud Ciceronem nova […]10.

8 Érasme nous présente le début d’une nouvelle conception de la façon de traiter les textes anciens. Mais avant d’oser traduire le Nouveau Testament, il testa sa méthode sur deux tragédies anciennes. Comme travail préparatoire pour ses recherches sur le Nouveau Testament, il transposa deux tragédies d’Euripide, l’Hécube, puis l’Iphigénie à Aulis en vers latins. Il n’avait guère de modèles – certes, il a eu connaissance de la traduction fournie par Filelfo du prologue de l’Hécube, mais seulement après avoir travaillé sur ces vers lui-même11. Au cours de l’année où fut publiée la traduction d’Érasme, en 1506, parut aussi une version latine de Nipote. Comme les deux versions sont contemporaines, elles ont dû être élaborées indépendamment l’une de l’autre.

9 Dans ses lettres, Érasme nous informe quelque peu sur les conditions, les objectifs et les intentions de son travail. Il avait achevé l’œuvre intra pauculos menses Musis bene iuvantibus. Quanto cum sudore, id ii demum experientur quicunque in eandem palaestram descenderint12. C’était la traduction en vers, tout en conservant le style élaboré d’Euripide, qui lui avait coûté le plus d’efforts13. Et effectivement, Érasme s’efforça de reproduire le plus fidèlement possible les mètres grecs de l’Hécube en latin. Il souligne explicitement avoir fait de son mieux pour respecter le texte initial. Les libertés que Cicéron s’était permises lors de ses traductions vont trop loin pour Érasme : mihi non perinde probatur illa in vertendis authoribus libertas, quam Marcus Tullius ut aliis permittit, ita ipse (pene dixerim immodice) usurpavit14. Cependant, il avoue que son imitation anxieuse de l’original résulte aussi en partie de la prudence du traducteur novice : novus interpres in hanc malui peccare partem, ut superstitiosior viderer alicui potius quam licentior, id est ut littoralibus in harenis nonnumquam haerere viderer potius quam fracta nave mediis natare fluctibus ; maluique committere ut eruditi candorem et concinnitatem carminis in me forsitan desyderarent quam fidem15.

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10 Ce qu’Érasme nous dit sur Cicéron témoigne d’une nouvelle conception de la traduction. Tandis que les anciens avaient compris le interpretari avant tout comme adaptation créatrice ou comme non verba sed vim exprimere16, on perçoit ici un vif besoin de vim et verba exprimere. Le respect pour les œuvres grecques est trop grand pour qu’on puisse penser avoir le droit de les adapter librement. En même temps apparaît une grande confiance des traducteurs par rapport à leurs prédécesseurs antiques romains, auxquels on se croit, sinon supérieur, du moins égal. Les remarques d’Érasme à propos du choix de l’expression nous montrent qu’il ne voulait pas du tout que la vis, le pouvoir du langage, ni la particularité stylistique de l’original soient sacrifiés à la littéralité. Il se différencie clairement du style des tragédiens romains, qui ne serait pas approprié à Euripide : Iam vero quod Latinae tragoediae grandiloquentiam, ampullas et sesquipedalia, ut Flaccus ait, verba hic nusquam audient, mihi non debent imputare, si interpretis officio fungens eius quem verti pressam sanitatem elegantiamque referre malui quam alienum tumorem, qui me nec alias magnopere delectat17.

11 Évidemment, ce qui était une attitude habituelle à son époque18, il voit les tragédiens romains non comme des poètes autonomes, mais comme traducteurs, auxquels il veut être supérieur en faisant preuve d’une plus grande fidélité au texte et au style.

12 Il modifia sa position dans la préface de sa deuxième traduction, l’Iphigénie en Tauride. Il se permet désormais plus de libertés avec les questions de métrique et s’en justifie en faisant référence à Sénèque. Pourtant, cet auteur néronien ne lui sert de modèle que dans le traitement libre des vers. Il s’oppose expressément aux canorae nugae19 qu’il entendait probablement derrière les artifices rhétoriques de Sénèque20. Au fur et à mesure, Érasme, de traducteur mimétique, se mue en traducteur analogue21. La libération – quoique très prudente – des contraintes formelles va de pair avec une prise de confiance en son style22.

13 Érasme affirme qu’il est le premier à avoir osé cette entreprise avec succès23. Il énumère des essais de traductions métriques qu’il connaît pour démontrer que son projet est jusqu’alors sans égal sur le plan de la qualité et par sa dimension24. Nous pouvons présumer qu’Érasme avait une idée de la production littéraire de son époque et qu’il avait réellement présenté de nouvelles voies sur le plan de la traduction des drames grecs. Même par la suite nous ne connaissons que peu de traductions de drames métriques qui soient remarquables25. Il n’y a que trois auteurs qui méritent d’être mentionnés, dont Leonzio Pilato est le premier et – peut-être à cause de cette priorité – le moins subtil :

14 1. Joseph Justus Scaliger traduisit l’Aias de Sophocle et avait présenté sous le titre Dirae une version des Eumenides d’Eschyle, qui pourtant avait été perdue. Scaliger lui-même y fait brièvement référence dans la lettre dédicatoire, datée de 1564, des Coniectanea in M. Terentium Varronem (Paris 1565) et aborde quelques problèmes stylistiques dans la langue cible, notamment le choix d’un modèle approprié26.

15 2. Leonardo Bruni fit une traduction des vers 1 à 269 du Ploutos d’Aristophane27. Il s’agissait plus d’un exercice de style que d’une traduction sérieuse.

16 3. Leonzio Pilato, tristement célèbre par sa traduction d’Homère et dont la version de l’ Iliade faillit pousser au désespoir Pétrarque, s’attaqua aussi aux vers 1 à 466 de l’Hécube d’Euripide. Néanmoins, nous pouvons sans remords laisser de côté son ouvrage28. Waszink constate : « Bref, avec nos connaissances actuelles, il est permis de conclure qu’Érasme était le premier humaniste à réaliser une traduction en vers d’une tragédie

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entière29. » L’Hécube fut traduite entre 1502 et 1504, l’Iphigénie entre 1505 et 1506. Les deux pièces sont dédiées à l’archevêque de Canterbury, William Warham30. Pendant cette période, il traduisit aussi Libanios et Lucien, s’intéressa aux annotations de Valla au Nouveau Testament, écrivit l’Enchiridon militis Christiani et poursuivit les Adages31.

17 Les différences entre les traductions des deux tragédies sont significatives : tandis qu’Érasme, dans l’Hécube, tente d’être fidèle au texte initial et d’imiter les mètres, il veut, dans l’Iphigénie, souligner le caractère rhétorique en utilisant des moyens analogues mais différents de ceux du poète grec. Quand il compare les deux tragédies, Érasme dit à propos de l’Iphigénie : plusculum habet candoris et fusior est dictio32. Apparemment, il identifie « la clarté » et « le style prolixe » au brillant rhétorique. Et effectivement, nous pouvons remarquer dans l’Iphigénie un élan rhétorique influencé par le rhéteur et sophiste Gorgias. En raison de cette particularité, Érasme pense qu’il a aussi le droit de traduire paulo tum fusius tum copiosius et avoue qu’il l’a fait avec un certain degré d’audacia33.

Pourquoi le sujet aurait-il pu intéresser Érasme ?

18 Les deux tragédies traitent de jeunes filles, Polyxène et Iphigénie, qui s’apprêtent à mourir la tête haute. Dans les deux cas, la victime surpasse ses assassins par sa dignité. Nous pourrions donc comprendre le message de ces deux pièces comme une sorte de victoire sur la mort, remportée par le sacrifice de la vie. Il serait possible d’y repérer des pensées chrétiennes. Pendant l’ère moderne, Hécube est vue comme miserrima mortalium. Ainsi, elle ressemble à Notre-Dame des Douleurs, mais ce qui les distingue clairement à la fin de la pièce est sa soif de vengeance envers Polymestor. Il est toutefois vrai que les personnages des deux tragédies ne sont pas des inconnues pour les lecteurs contemporains. Par exemple, Hécube, Polyxène et Iphigénie apparaissent dans les Canterbury Tales de Geoffrey Chaucer34.

19 Dans les deux tragédies – notamment dans l’Iphigénie – un autre aspect traité dans d’autres écrits d’Érasme joue un rôle important : l’exercice du pouvoir. Nous y reviendrons lors de l’analyse de traduction.

20 Érasme est surtout motivé par l’espoir de devenir un poète célèbre : la première impression des deux traductions fut publiée par Badius (Josse Bade), mais le résultat ne pouvait pas satisfaire les exigences d’Érasme qui considérait l’édition indigne, car pleine de fautes : Verum non satis consultum est famae meae, usque adeo mendis scatent omnia35. Alors, le 28 octobre 1507, à Bologne, il écrit une lettre à Aldus Manutius pour lui demander de rédiger une nouvelle édition : il espérait que ses efforts seraient récompensés en le rendant immortel si Aldus Manutius prenait soin de l’ouvrage : Existimarim lucubrationes meas immortalitate donatas, si tuis excusae formulis in lucem exierint, maxime minutioribus illis omnium nitidissimis. Les Minutiores sont les Cursives connues d’Aldus, inspirées par l’écriture et le graphisme de Musurus36. Dans cette lettre, Érasme n’est pas avare de flatteries : Dubium non est quin in omnem usque posteriatatem Aldus Manutius volitaturus sit per omnium ora. « Il n’y a aucun doute qu’Aldus M., l’immortel, sera sur toutes les lèvres pour l’éternité. » L’objet de ses louanges a dû saisir l’allusion aux mots célèbres d’Ennius, volito vivus per ora virum (fr. 18V.)37. Le reste de la lettre nous rappelle des négociations qui ont encore lieu de la même manière aujourd’hui dans les maisons d’éditions. Il s’agit d’argent, d’exemplaires gratuits (d’exemplaires d’hommage) et du choix des correcteurs d’épreuves. À l’aide du

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ton de la lettre, nous pouvons reconnaître qu’Érasme était encore un auteur relativement inconnu qui avait besoin de faire des demandes à Aldus.

Caractérisation de la traduction

21 Les observations qui suivent ne se référeront qu’à quelques extraits choisis de l’ Iphigénie. Dès le premier regard nous remarquons qu’Érasme a rallongé l’œuvre, car les 1629 vers d’Euripide sont devenus 2346 dans sa version. Dans l’Hécube, en revanche, le nombre de vers (1377) correspond à peu près à l’original (1295), cette différence d’environ 80 vers étant due à la disposition des chœurs. Sans exagérer, nous pouvons donc considérer l’Hécube comme une traduction vers à vers qui vise à imiter l’original d’une façon mimétique. Il est clair qu’Érasme a abandonné ce principe de mimésis plus tard en traduisant l’Iphigénie. Érasme fait la même expérience que la plupart des traducteurs : la traduction devient beaucoup plus longue que le texte initial. Cela s’explique par le fait que le traducteur utilise la paraphrase lorsqu’il veut fournir des explications supplémentaires38. Par des périphrases, il « encercle » quasiment tout ce qu’il ne peut pas exprimer exactement dans la langue cible. Nous nous rappelons qu’Érasme a avoué dans sa préface de l’Iphigénie qu’il a traduit fusius. En nous servant d’un terme introduit par Holmes, on pourrait dénommer « analogical form39 » cette tentative de vouloir atteindre les objectifs de l’original par des moyens de la langue cible.

22 Le drame commence par une réflexion sur le destin du souverain. En pleine nuit, Agamemnon fait venir un vieux domestique (presbytes) pour l’envoyer comme messager chez son épouse Clytemnestre. Auparavant, il avait – également par une lettre – envoyé à Aulis Iphigénie et sa mère en prétextant qu’il voulait la marier à Achille. En réalité, elle est destinée à être sacrifiée à Artémis pour que la flotte grecque puisse quitter le port sous un vent favorable. Au début du drame, il veut annuler ce subterfuge et envoie son domestique avec un deuxième courrier à contenu contraire. Ces faits sont expliqués lors d’un dialogue entre Agamemnon et le vieux domestique avant que ce dernier parte. Par sa simplicité et par sa franchise, il tend involontairement le miroir à Agamemnon.

23 Le roi Agamemnon se trouve devant sa tente – au lieu de la scène normale avec des maisons nous devons donc imaginer des tentes – et il appelle son domestique qui est en train de dormir : VV.1-5 : Αγ. Ὦ πρέσβυ, δόμων τῶνδε πάροιθεν στεῖχε. Πρ. στείχω. τί δὲ καινουργεῖς, Ἀγάμεμνον ἄναξ; Αγ. σπεύσεις. Πρ. σπεύδω. μάλα τοι γῆρας τοὐμὸν ἄυπνον καὶ ἐπ' ὀφθαλμοῖς ὀξὺ πάρεστιν 24 Ag : « Sors de ton refuge, mon vieux, allez, viens ! » Serv. : « C’est bon, j’arrive. Quel est donc ton nouveau projet, roi Agamemnon ? » Ag. : « Te dépêcheras-tu ? » Serv. : « Je me dépêche. Pardieu, ma vieillesse insomnieuse pèse grièvement sur mes yeux ( = de toute façon, à mon âge, je n’arrive pas à bien dormir) ! »

25 Érasme traduit : AG : Horsum, senior, prodi tectis. SE. Prodeo. Sed quid molire novi, Rex Agamamnon ? AG. Mox cognoris.

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SE. Ocyus appropero ; me nanque est Multum impigra vigilque senecta, Sic ut et ipsis constet et adsit Vigor atque acies sua luminibus.

26 Par le choix du premier mot horsum, Érasme trouve le ton adéquat à la scène. Cet impératif (composé de huc et vorsum) est souvent utilisé dans la comédie romaine et sert à donner des ordres aux esclaves. La répétition du verbe stevicein en grec est minutieusement imitée par le prodire d’Érasme. Lors du deuxième échange verbal, l’Agamemnon grec ne répond pas à la question du domestique (τί δὲ καινουργεῖς), mais lui lance juste brusquement : « Dépêche-toi ! », à quoi le domestique répond : « Je me dépêche. » Nous constatons donc qu’Érasme continue le jeu avec les répétitions de mots qu’il a commencé au premier vers. En utilisant deux fois cette figure de style, Euripide crée une ambiance qui nous fait penser à la comédie. S’ajoute à cela le fait que le polyptote verbal figure juste au moment où le locuteur change : στείχε / στείχω - σπεύσεις / σπεύδω. Lors du premier jeu de mots, Érasme renonce à placer les formes prodeo et prodi en juxtaposition bien que les mètres le permettent. Au deuxième passage, il traduit librement – au lieu de σπεύσεις son Agamemnon dit mox cognoris, il donne donc une vraie réponse à la question. Si bien que le domestique devient chez Érasme plutôt un partenaire équivalent de dialogue. Cette observation se confirme surtout dans les trois prochains vers : en effet, Érasme y commet une erreur quand il traduit ὀξύ (v. 5), utilisé comme adverbe, par acies ( = acuité de vue). Tandis que le domestique chez Euripide, quand il est réveillé, répond avec un sarcasme – qui se trouve parfois chez les serviteurs – et informe son maître que ce n’est pas grave parce que de toute façon, il n’arrive pas à dormir, son équivalent chez Érasme est présenté comme un assistant vigilant (vigil) et toujours disponible. Dans ce cadre s’insère bien la traduction de τί δὲ καινουργεῖς par l’expression neutre et sans jugement de valeur quid molire novi. Ainsi, Érasme fait disparaître la connotation péjorative du καινουργεῖς en grec. Euripide emploie le même verbe encore une fois au vers 838, quand Clytemnestre aborde le sujet du mariage prévu auprès d’Achille qui manifeste son ignorance. Cette situation est également typique de la comédie. Clytemnestre embrasse Achille qu’elle prend pour son futur gendre et il répond : ποίους γάμους φήσεις; ἀφασία μ' ἔχει, γύναι, / εἰ μή τι παρανοοῦσα καινουργεῖς λόγον « Mais femme, de quel mariage parles-tu ? Je ne sais que dire, à moins que tu ne délires en utilisant ces étranges paroles (καινουργεῖς λόγον). »

27 En décrivant le comportement d’Agamemnon, le domestique comprend très vite que celui-ci présente tous les symptômes d’un furieux (vv. 41-42, κἀκ τῶν ἀπόρων / οὐδενὸς ἐνδεῖς μὴ οὐ μαίνεσθαι). Érasme atténue un peu cette déclaration du domestique car il ne parle que d’une impression de fureur : Ut nil desit, / quo minus insanire puteris (vv. 49-50).

28 Cependant, nous pouvons voir que la teneur du dialogue est semblable chez les deux auteurs : Agamemnon déplore son sort de souverain, le domestique lui reproche ses lamentations indignes. Agamemnon décrit son sort de la façon suivante : « Certes, l’ambition est douce, mais lorsqu’elle est satisfaite, elle nous porte malheur. Tantôt ce sont les dieux qui perturbent notre vie, tantôt ce sont les opinions multiples et malignes des hommes40. » Érasme transforme ces vers de la manière qui suit (vv. 29-35) : Etenim votis dulce enim ipsus Est honos, ast ubi contingit idem,

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Tum discruciat : modo relligio Divum non sat rite peracta Labefactam subvertit vitam Modo rursum hominum mentes variae Ac difficiles prorsus acerbant.

29 Érasme traduit philotimon habilement par votis et souligne ainsi le fait que l’ambition est caduque : il remplace le participe prosistamenon par une proposition subordonnée, en raison du manque de participes en latin. Agamemnon chez Euripide nous indique deux raisons au malheur : le destin que les dieux nous imposent et l’inconstance humaine. La première cause a une teinte différente chez Érasme : il parle plutôt d’une sanction de la religio neglecta et pense probablement aussi à la colère d’Artémis provoquée par les fautes des hommes. L’Agamemnon grec l’impute plutôt à un destin non-influençable. Il est clair qu’Érasme traduit ce passage d’une façon interprétative. Alors que l’Agamemnon grec utilise des arguments archaïques et distingue clairement sa personne et son aveuglement, se définissant donc comme victime de puissances extérieures, Érasme traite le souverain lui-même de coupable, ce qui explique sa traduction des vers 136f. : (οἴμοι, γνώμας ἐξέσταν, αἰαῖ, πίπτω δ' εἰς ἄταν) « Je me suis éloigné de mon raisonnement, et je me perds dans mon aveuglement » par Heu misero mihi, mente errabam / Eheu tristem trahor in luctum. L’allitération produit aussi un effet que nous ne trouvons pas dans l’original. En revanche, la traduction de ate par luctus change le sens. Il serait pourtant injuste d’insister sur cet aspect car la conception des puissances divines dans l’épopée et dans la tragédie a été bien éclairée par des recherches entreprises, et qu’Érasme ne pouvait pas connaître.

30 C’est aussi le cas pour les mètres des chœurs qui n’ont été véritablement analysés qu’au XXe siècle. Érasme ne tente même pas d’imiter l’original de manière exacte. Il justifie son droit à la simplification en se référant aux œuvres de Sénèque et d’Horace qui, selon lui, auraient renoncé à la libertas illa in variandis pedibus41 : stultum existimavi me id conari in tantis versantem angustiis42. Cependant, dans les vers des parties dialoguées, Érasme respecte les mètres du modèle.

31 Or, son entreprise se révèle très difficile ce qui explique la fierté que nous observons dans la lettre qu’il adresse à William Warham et dans laquelle il écrit qu’il n’est point étonné qu’aucun des Italiens n’ait encore osé traduire une tragédie ou une comédie : Quo minus admiror si ne hoc quidem felicissimo saeculo quisquam Italorum ausus fuit hoc muneris aggredi, ut tragoediam aliquam aut comoediam verteret43.

32 Sans aucun doute, Érasme est un traducteur brillant. Ce qui le lie à l’antiquité, c’est l’idée qu’en principe chaque texte est traduisible. Nietzsche constate dans Le Gai Savoir, § 83 : « Ils ne connaissaient pas la jouissance du sens historique, le passé et l’étranger leur étaient pénibles, et pour eux, en tant que Romains, c’était là une incitation à une conquête romaine » (trad. Henri Albert). Georges Mounin remarque à propos de ce phénomène : « Un postulat sous-tend tous les raisonnements des Anciens sur la traduction : le postulat qu’on peut toujours et tout communiquer tout de suite, le postulat de l’unité de l’expérience humaine, de l’identité de l’esprit humain, de l’universalité des formes de la connaissance44. »

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NOTES

1. Dans ce contexte cf. H. FLASHAR, « FORMEN DER ANEIGNUNG GRIECHISCHER LITERATUR DURCH ÜBERSETZUNG », ARCADIA 3 (1968), P. 133-156, ICI : P. 133-135. 2. Cicéron, Ac. 1, 10 ; Térence, Andr. 21. Cf. aussi Schol. ad Pers. 1, 4 (p. 248 Jahn) : Labeo transtulit Iliadem et Odysseam verbum ex verbo ridicule satis, quod verba potius quam sensum secutus est. 3. Cicéron, Rep. 4, 27. 4. Cicéron, Tusc. 1, 53 et 1, 54. 5. Cicéron, fin. 3, 4, 15. Cf. FLASHAR, ARCADIA, P. 136 (NOTE 1). 6. ERASMUS VON ROTTERDAM, IN NOVUM TESTAMENTUM PRAEFATIONES, APOLOGIA, ÜBERS. EINGELEITET UND MIT ANMERKUNGEN VERSEHEN VON GERHARD B. WINKLER, DARMSTADT, 1967, P. 103-104. 7. Apologia, p. 104 (note 6). 8. Apologia, p. 110 (note 6). 9. ERASMUS VON ROTTERDAM, DIALOGUS CUI TITULUS CICERONIANUS SIVE DE OPTIMO GENERE, P. 134. 10. Ciceronianus, p. 158 (note 6). 11. Ep. 188 (adressée à William Warham), 40-41, citée d’après : P.S. ALLEN, OPUS EPISTOLARUM DES. ERASMI ROTERODAMI, I. 1484-1514, OXONII, 1906. 12. Ep. 188, 17-18 (note 11). 13. Ep. 188, 25-26 (note 11). 14. Ep. 188, 56-57 (note 11). 15. Ep. 188, 58-59 (note 11). 16. Cf. Cicéron, ac.post. 1, 10. 17. Ep. 188, 65 (note 11). 18. Cf. K. LENNARTZ, Non verba sed vim. Kritisch-exegetische Untersuchungen zu den Fragmenten archaischer römischer Tragiker (BzA 54), Stuttgart / Leipzig, 1994, p. 29-32. 19. Ep. 208, 24 (note 11). 20. In hac tragoedia vertenda nonnihil de pristina illa religione remisimus, pauloque maiorem habuimus rationem candoris et perspicuitatis. Praeterea in choris immodicam metrorum variationem temperavimus […], quod intellegeremus et Senecam tragicum ab eius rei imitatione abstinuisse ; Ep. 198 ( = préface au mois de juillet 1506 Ad Lectorem), 2-3 (note 11). Pour d’autres traductions de tragédies possibles, qui n’étaient plus réalisées, il formule le principe : Quod si mihi per graviora studia liceret alias aliquot vertere tragoedias, non modo me non poeniteret huius audaciae, quin etiam non vererer chororum et stilum et argumenta commutare ; Ep. 208, 19-20 (note 11). 21. Quant à la différence entre la forme mimétique et la forme analogue cf. J.S. HOLMES, « FORMS OF

VERSE TRANSLATION AND THE TRANSLATION OF VERSE FORM », IN J.S. HOLMES (ED.), THE NATURE OF TRANSLATION,

MOUTON / THE HAGUE / PARIS, 1970, P. 91-105, ICI : P. 95-96. 22. HOLMES, NATURE OF TRANSLATION, P. 97-98 (NOTE 21) : L’EFFET D’UNE TRADUCTION ANALOGUE EST DE «

NATURALISER » LE POÈME INITIAL. ELLE A ÉTÉ LA FORME PRÉDOMINANTE DU XVIIIE SIÈCLE NÉOCLASSIQUE. LA FORME

MIMÉTIQUE A ÉTÉ CULTIVÉE AU XIXE SIÈCLE, QUAND ON A REMIS EN CAUSE LES STRUCTURES PROPRES À LA LANGUE CIBLE ET QU’ON S’EST OUVERT AUX INFLUENCES ÉTRANGÈRES. 23. Etenim quum illud ipsum ex bene Graecis bene Latina facere sit eiusmodi ut singularem aliquem requirat artificem, neque solum sermonis utriusque copiosa parataque supellectile ditissimum, verum etiam oculatissimum vigilantissimumque, adeo ut saeculis iam aliquot nullus exstiterit qui in hoc munere omnibus eruditorum calculis probaretur ; Ep. 188, 20-21. 24. Quo minus admiror si ne hoc quidem felicissimo saeculo quisquam Italorum ausus fuit hoc muneris aggredi, ut tragoediam aliquam aut comoediam verteret, quum plures Homero manus sint admoliti, inter quos etiam Politianus ipse sibi non satisfecit ; quidam Hesiodum [Nicholas de Valle, Bonninus

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Mombritius] tentarit, neque id satis feliciter ; alius Theocritum [Martin Phileticus] sit aggressus, sed multo etiam infelicius ; denique quum Franciscus Philephus (id quod post institutam interpretationem cognovimus) primam Hecubae scaenam in oratione quadam funebri traduxerit, sed ita ut nobis alioqui putidulis vir tantus animi non parum adderet ; Ep. 188, 34-35. 25. Selon le Catalogus Translationum et Commentariorum : Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries. Annotated Lists and Guides, VII, Washington, 1992, p. 293 Coriolanus Martiranus (1503-1557), l’évêque de Cosenza, a écrit – en plus de quelques imitations libres d’Eschyle et d’Euripide – deux comédies, Plutus et Nubes qui remontent apparemment à Aristophane. Cf. L. BRADNER, « THE LATIN DRAMA OF THE RENAISSANCE (1314-1650) », STUDIES IN THE

RENAISSANCE 4 (1957), P. 31-70 ; M. MUND-DOPCHIE, « UN TRAVAIL PEU CONNU SUR ESCHYLE : LE PROMÉTHÉE LATIN DE

CORIOLANO MARTIRANO (1556) », HUMANISTICA LOVANIENSIA 27 (1978), P. 160-177. 26. […] illam vero Aeschyli fabulam totam nos vertimus, veteri stylo Pacuviano. In quo maxime sunt reprehendendi isti, qui in veteribus poetis vertendis, eos tam dissimiles sui reddunt, ut pudeat me legere Homerum Sili Italici, Sophoclem Senecae verbis loquentem, cité d’après Catalogus (o. ** II, 1971), p. 12. 27. M. CECCHINI / E. CECCHINI (Edd.), Leonardo Bruni, Versione del Pluto di Aristofane (vv. 1-269). Introduzione e testo critico, Firenze, 1965. 28. J.H. WASZINK, « Einige Betrachtungen über die Euripidesübersetzungen des Erasmus und ihre historische Situation », Antike & Abendland 17 (1971), p. 70-90, ici : p. 79. 29. J.H. WASZINK, Antike & Abendland, p. 83 (note 28). 30. Cf. W. SCHMITT, « Erasmus als Euripidesübersetzer », in J. HARMATTA, W. SCHMITT (edd.) : Übersetzungsprobleme antiker Tragödien Görlitzer Eirene-Tagung 10.-14.10.1967 veranstaltet vom Eirene- Komitee zur Förderung der klassischen Studien in den sozialistischen Ländern, Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Schriften der Sektion für Altertumswissenschaft 55, 3, Berlin, 1969, p. 129-166, ici : p. 130. 31. Cf. SCHMITT, Übersetzungsprobleme, p. 131 (note 30). 32. Ep. 208, 3-4. 33. Ep. 208, 11. 34. Cf. J.H. WASZINK (ed.), Opera omnia Desiderii Erasmi Roterdami recognita et adnotatione critica instructa notisque illustrata, I 1, Leiden, 1969, p. 207. 35. Ep. 207, 28-29. 36. J.H. WASZINK (ed.), Opera omnia, I 1, p. 197, note. 8 (note 34). Cf. A. GUDEMANN, Grundriß der Geschichte der klassischen Philologie, Leipzig / Berlin2, 1909, ND 1967, p. 185, note 1. 37. Érasme utilise la même citation dans Ep. 177, 10 en faisant référence à Nicholas Ruistre. 38. Cette pratique est présentée schématiquement par J. LEVY, DE LITERARISCHE ÜBERSETZUNG, FRANKFURT AM MAIN, 1969 DANS LES « TROIS PHASES DE LA TRADUCTION ». 39. Terminologie d’après HOLMES, NATURE OF TRANSLATION, P. 91-105 (NOTE 21). 40. 21-27 : τοῦτο δέ γ' ἐστὶν τὸ καλὸν σφαλερόν, καὶ τὸ πρότιμον (texte d'Érasme : φιλότιμον) γλυκὺ μέν, λυπεῖ δὲ προσιστάμενον. τοτὲ μὲν τὰ θεῶν οὐκ ὀρθωθέντ' ἀνέτρεψε βίον, τοτὲ δ' ἀνθρώπων γνῶμαι πολλαὶ καὶ δυσάρεστοι διέκναισαν. 41. Ep. 209, 28. 42. Ep. 209, 30-31. 43. Ep. 188. 44. G. MOUNIN, LES PROBLÈMES THÉORIQUES DE LA TRADUCTION, PARIS, 1963, P. 169.

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RÉSUMÉS

Érasme est le premier à traduire des tragédies grecques entières en latin. Les versions d’Euripide étaient pour lui des exercices propédeutiques pour son grand projet, la traduction du Nouveau Testament. Dans les lettres à William Warham, il nous informe sur sa méthode : dans l’Hécube, il fournit une traduction vers à vers qui vise à imiter l’original d’une façon mimétique. Dans l’Iphigénie, Érasme a abandonné ce principe de mimésis, et traduit de manière plus détaillée. Il essaie d’atteindre les objectifs de l’original par des moyens de la langue cible et se sert d’une forme que l’on pourrait dénommer d’une notion de J.S. Holmes « analogical form ». Il est ainsi l’instigateur non seulement de la traduction littérale, mais aussi de celle littéraire.

Erasmus has been the first translator of complete Greek tragedies into Latin. The translations from Euripides, although, were preparatory exercises for his main project, the translation of the New Testament. Along his correspondence with Willialm Warham, he exposes his method : in the Hecuba he opted for a line-to-line translation, reproducing each line mimetically. In the Iphigenia he abandoned the idea of mimesis and translated in a more detailed way. He tried to reproduce the original purposes into the translating language, forestalling the notion of “analogical form” by J.S. Holmes. He is thus the instigator not only of the literal translation, but also of the literary one.

INDEX

Mots-clés : Érasme, Euripide, tragédie, forme mimétique, forme analogique, William Warham, Nouveau Testament, verbum de verbo, vortere, vertere, convertere, transvertere, transferre, interpretari, traducere, transponere, tradere, exprimere, imitatio, aemulatio Keywords : Erasmus, Euripides, tragedy, mimetic form, analogical form, William Warham, Nouveau Testament

AUTEUR

THOMAS BAIER Lehrstuhl für Klassische Philologie II (Latinistik) der Universität Würzburg [email protected]

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La traduction d’Alceste par Buchanan, l’imago retrouvée ?

Zoé Schweitzer

1 Réfléchir sur les traductions latines de textes grecs à la Renaissance soulève d’emblée trois questions. Pourquoi traduire, plutôt que lire l’original ? Pourquoi traduire en latin, plutôt que dans une langue vernaculaire ? Pourquoi enfin traduire telle œuvre, plutôt que telle autre ? Se pose, en outre, la question très concrète de la pratique du traducteur, des arbitrages et des choix effectués à la faveur du transfert linguistique. Lorsqu’il s’agit d’une tragédie, le traducteur peut privilégier trois approches différentes qui sont révélatrices d’un intérêt variable pour le genre même de l’œuvre. Quand le but premier est didactique, la traduction privilégie la langue à la littérarité ; si l’œuvre est définie comme poème tragique, dès lors la traduction s’attache en particulier aux effets induits par la métrique ou aux images ; la dimension théâtrale, avec ses implications textuelles, peut aussi intéresser le traducteur, ce qui apparaît notamment dans l’intérêt porté aux répliques. Cet enjeu générique s’avère d’autant plus intéressant pour l’exégète moderne qu’il n’est souvent pas explicité et parfois ne semble pas même pensé, mais se révèle dans la comparaison des traductions à la version originale.

2 Les traductions latines que donne Buchanan1 de deux tragédies d’Euripide sont à cet égard particulièrement intéressantes. Elles sont écrites dans un cadre scolaire, mais il serait erroné de les envisager seulement sous cet angle car Buchanan n’est pas qu’un enseignant du collège de Boncourt, il est aussi le « prince des poètes » et l’auteur de deux tragédies originales latines à sujet biblique qui ont un important retentissement auprès des dramaturges de la Renaissance, si l’on se fie aux nombreuses traductions qui en sont données. En outre, chaque traduction est précédée d’une dédicace à valeur de préface, l’une est consacrée aux qualités de la tragédie, l’autre à la pratique de la traduction. Elles montrent combien Buchanan est conscient des questions soulevées par son geste de traducteur et désireux de tenir un discours critique.

3 Il me paraît nécessaire de ne pas les réduire à des travaux d’helléniste ou à des exercices scolaires, ce qu’invite à faire le contexte lui-même. Le geste de Buchanan n’est, en effet, pas isolé et se comprend mieux au regard de celui d’Érasme quelques décennies plus tôt. Érasme traduit Hécube et Iphigénie en Aulis d’Euripide2, Buchanan

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Médée3 et Alceste4 du même poète grec. Il est frappant que ces deux figures majeures pour la connaissance et la diffusion du théâtre grec aient choisi chacune de livrer une traduction latine de deux tragédies très sensiblement différentes, comme s’il s’agissait de mettre en perspective deux poétiques tragiques, d’offrir aux lecteurs la possibilité de comparer, de confronter deux modèles tragiques. Avec Hécube et Médée, ce sont deux tragédies sanglantes qui montrent la vengeance d’une femme dévastée par le chagrin, avec Iphigénie et Alceste, le dénouement heureux permet de restaurer la famille un temps menacée. Buchanan ne se contente cependant pas, bien sûr, de reproduire le geste d’Érasme car ce qui sépare Médée d’Hécube et Alceste d’Iphigénie peut être interprété comme un positionnement critique et théorique. Au dénouement heureux accompli grâce à un deus ex machina, Buchanan oppose un dénouement heureux obtenu grâce à l’intervention d’un personnage, qui vient contrarier la volonté cruelle des dieux sans le secours d’aucune machinerie ou créature merveilleuse. Certes Héraclès est un demi-dieu et revenir des Enfers relève de l’extraordinaire, néanmoins ce deus ex machina est intégré à l’intrigue et humanisé et la volonté des dieux ne fléchit pas. Il ne s’agit pas ici de proposer une interprétation théologique à ces différences, qui pourrait être étayée par les textes et les prises de position d’Érasme et de Buchanan dans le cadre de la Réforme mais, plus modestement, de réfléchir aux enjeux dramatiques et poétiques mis en œuvre dans ces traductions, c’est-à-dire de s’interroger sur la poétique qu’elles mettent en œuvre et l’éventuel modèle qu’elles offrent aux dramaturges de leurs temps.

4 La question des conditions nécessaires à la réussite du dénouement tragique est posée dès les premières traductions du grec à la Renaissance. Ces textes invitent à se demander si le débat des années 1630 sur la qualité tragique du dénouement heureux, et notamment son efficacité, qui se poursuit tout au long du XVIIe siècle et connaît des réponses différentes5, n’est pas posé dès les premières traductions du grec. De manière concrète se trouve ainsi interrogé le statut même d’Alceste : œuvre atypique ou paradigme tragique ? Cette hypothèse souligne le rôle des traductions latines du grec pour l’élaboration d’une poétique tragique moderne qui apparaît d’emblée comme réflexive et critique. En d’autres termes, la référence pour les tragiques modernes ce sont les œuvres elles-mêmes, non les théoriciens. Cela signifie, en outre, que l’Antiquité n’est pas construite comme un modèle, ce qu’elle deviendra avec le classicisme, et que ce corpus antique, loin d’être perçu comme un ensemble homogène et unifié, est appréhendé dans son hétérogénéité et sa diversité. Il est notable, en effet, qu’il n’y ait pas de référence à Alceste dans la Poétique, alors que les références à Iphigénie sont nombreuses, en particulier lorsqu’il est question de l’hamartia et de ses modalités. On peut dès lors se demander si choisir Alceste ne recouvre pas aussi un enjeu critique, et non seulement méthodologique : Buchanan livre la version latine d’une tragédie en marge de la théorie, d’une œuvre qui n’est pas évaluée par le Stagirite ni évoquée par Horace. Le plaisir du lecteur et son interprétation deviennent ainsi les premiers critères d’évaluation de la qualité de l’œuvre ; Buchanan minore, sinon écarte, une valeur qui serait liée au patrimoine, pour faire le choix d’une inscription de l’œuvre dans le présent de sa réception.

5 Pourquoi traduire Alceste, tragédie apparemment marginale dans le corpus antique par son dénouement heureux et son absence d’action spectaculaire ? Pourquoi renouer avec la tragédie antique au moyen d’une pièce qui semble si peu représentative du genre ?

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6 Il semble que ce soit justement cette absence de crime et de spectacularité qui motive l’intérêt de Buchanan pour cette tragédie qu’il traduit pour ses élèves et dont la dimension philosophique apparaît ainsi très nettement. Ce qui rend Alceste atypique est justement ce qui en fait l’intérêt : Est enim orationis genere leni et aequabili, et, quod Euripidis proprium est, suavi ; parricidii vero et veneficii et reliquorum quibus aliae tragoediae plenae sunt scelerum nulla prorsus hic mentio, nullum omnino vestigium. Contra vero conjugalis amoris, pietatis, humanitatis et aliorum officiorum adeo plena sunt omnia ut non verear hanc fabulam comparare cum libris eorum philosophorum qui ex professo virtutis praecepta tradiderunt ; ac nescio an etiam praeferre debam. Actio enim rerum sermone et spiritu paene animata acrius quam nuda praecepta sensus impellit, et facilius in animos influit et illabitur ; atque ubi illapsa fuerit, firmius haeret et quasi radices agit6.

7 On perçoit bien tout le bénéfice d’une tragédie dont la valeur didactique est éclatante dans le contexte d’une production scolaire. Buchanan n’offre pas seulement à ses élèves la connaissance d’une tragédie grecque ou un apprentissage de l’art oratoire, il considère Alceste pour son contenu moral et philosophique et met en concurrence l’ouvrage théorique avec l’art dramatique. La traduction est mise au service d’une pédagogie qui privilégie un enseignement concret et illustré à des préceptes théoriques. La fiction se trouve ainsi justifiée sur le terrain même du savoir et l’accusation d’immoralité, dont la tragédie a pu faire l’objet, ou plus modestement de divertissement, est évacuée. Par ailleurs, en évoquant « la parole et le souffle », il est frappant que Buchanan insiste sur la dimension scénique concrète de l’œuvre tragique : ce n’est pas seulement le poème qui est porteur d’un contenu, mais le genre même qui permet de le transmettre. Il existe une efficacité pédagogique propre au poème dramatique. On peut estimer que le risque d’une instrumentalisation morale de la tragédie se trouve évité par l’importance accordée à la dimension fictionnelle de l’œuvre et que l’essentialisation des personnages et des situations est empêchée par l’intérêt pour la dimension scénique.

8 En Alceste, Buchanan trouve une pièce parfaite pour l’enseignement. C’est non seulement une pièce sans violence, immoralité, gestes sanglants contre nature qui eussent pu être choquants pour ses élèves, mais c’est, mieux encore, la mise en drame des vertus célébrées par les grands philosophes grecs et latins (le démonstratif « illlorum » n’indique pas uniquement l’éloignement dans le temps, mais suggère une distance respectueuse, implique une révérence). En ce sens, Buchanan propose une pièce qui correspond à son projet de pédagogie morale, à son idée que le théâtre tragique, loin des accusations dont il est déjà l’objet, loin de l’idée même d’un simple spectacle de divertissement, est une école de vertus. C’est dans une œuvre existante, d’un grand tragique grec, et par sa traduction dans la langue scolaire par excellence, le latin, que le professeur poète Buchanan trouve un instrument pédagogique à plusieurs niveaux : littéraire et humaniste, linguistique et moral.

9 Affirmer que les « règles de la morale » comme l’« amour conjugal », la « piété », l’« humanité et [l]es autres devoirs » sont aussi bien enseignés dans Alceste qu’« ouvertement » dans les « livres », c’est tenir simultanément un discours sur la pédagogie et le théâtre. À un recueil de « règles » abstraites, Buchanan préfère une illustration concrète qui a le mérite de prouver la nécessité même de respecter ces « devoirs ». Alceste ne montre pas des passions exceptionnelles ou la représentation de vices abominables mais des qualités à la fois banales et nécessaires à la vie commune,

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elle est représentation de l’humanité. L’enseignement tire son efficacité de la preuve faite à l’élève de la valeur de son contenu.

10 Buchanan motive soigneusement l’adresse de la pièce à Marguerite de France, sœur du roi Henri II. En évoquant les qualités communes qui unissent la dédicataire à l’héroïne tragique, le traducteur fait un éloge appuyé de la patronne des arts sous l’autorité de laquelle il se place : Quod si quis minus ad te pertinere credit ista, quod eo jam in omni virtutis genere sis progressa ut non sis alienis exemplis confirmanda sed alios tuo exemplo ad virtutem provoces, fallitur vehementer meo quidem judicio ; praecepta enim officiorum et rerum praeclare gestarum memoria aliis fortasse utiliora erunt qui ea legunt, ut velut ad normam suos mores eo dirigant ; illis certe jucundissima esse debent qui jam perfuncti discendi et imitandi laboribus sub aliena persona suas laudes citra omnem supspicionem adulationis legunt. Habet enim haec fabula, quantum ego quidem judicare possum, earum virtutum quas in te non minus libenter agnoscimus quam in Alcestide legentes miramur adeo expressam imaginem, ut quoties eam in manus sumas toties tuarum tibi virtutum in mentem veniat necesse sit7.

11 Ces quelques lignes appellent plusieurs remarques. La comparaison n’est pas justifiée seulement par l’exercice convenu de la dédicace qui impose la louange de la dédicataire, elle est développée afin de construire une relation subtile entre l’exemplarité du personnage de fiction et celle de la personne réelle. Elle soulève la question de l’identification d’un individu réel à un personnage de fiction. Buchanan suggère très explicitement que se noue un échange entre réalité et fiction, c’est-à-dire que l’interprétation du réel s’enrichit de la fiction et vice-versa. Le personnage théâtral n’est donc pas uniquement un modèle digne d’imitation, comme l’est traditionnellement la figure historique, et il n’existe pas de solution de continuité entre personne et personnage. On comprend le choix d’Alceste pour proposer pareil rapport, de type éthique, à la fiction car l’héroïne constitue un rare modèle tragique sans crime qui autorise assez aisément la comparaison avec une personne réelle. Il ne s’agit peut- être pas, en revanche, de porter la comparaison sur un terrain plus idéologique, tant en effet la docilité conjugale de l’épouse d’Admète paraît peu pertinente pour caractériser l’indépendante et brillante Marguerite de France. Ce à quoi Buchanan invite son lecteur, ce n’est pas seulement à traiter les personnages antiques en exemples, ni à ériger l’œuvre dramatique en manuel de conduite, mais à entretenir une relation subtile avec ces figures dramatiques complexes qui frappent par leur humanité. Que Buchanan ait choisi de traduire Médée et Alceste pourrait conforter cette hypothèse : il a délaissé les aventures aux résonances épiques et les figures canoniques de la mythologie pour deux épouses dont le sort singulier est érigé en matériau dramatique par le poète tragique.

12 La locution « expressam imaginem » est employée pour décrire la manière dont Marguerite se reconnaît en Alceste et dont les lecteurs reconnaissent la vertu dans ces figures exceptionnelles que sont les deux femmes, l’une fictive et lointaine, l’autre réelle et contemporaine. Par-delà la personne, aux deux sens de persona utilisé quelques lignes auparavant8, c’est l’exemplarité qui s’impose et le triomphe des vertus. Cette notion d’imago, qui signifie à la fois « effigie » et « aspect », trouve en outre une résonance particulière dans Alceste. La pièce a pour sujet la mort d’une épouse qui accepte de se substituer à son mari pour le sauver, si bien qu’Alceste peut être envisagée comme une image d’Admète, mais une image suffisamment ressemblante pour contenter Thanatos. Cette mort exemplaire a deux conséquences pour le mari. Il promet de ne jamais prendre une nouvelle épouse car aucune femme ne saurait se

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substituer à la première auprès d’Admète et de ses enfants : elle peut le remplacer dans la mort, mais il ne peut la remplacer dans l’amour, parce que dans ce couple idéal l’un ne peut être que l’image de l’autre, mais nul autre ne peut représenter aucun des deux protagonistes ; c’est pourquoi Admète envisage de faire construire une représentation de la malheureuse et la placer dans son lit, froid et pâle substitut de sa femme défunte, tant une image inanimée sera plus fidèle qu’un substitut vivant. La pièce s’achève de manière heureuse et inattendue par le retour d’Alceste sauvée des Enfers par Héraclès, son mari croit d’abord à un fantôme. Définir le rapport de la dédicataire à l’héroïne et du lecteur à la tragédie comme « expressam imaginem » peut ainsi apparaître comme une mise en abyme de la relation que montre l’œuvre entre Alceste et Admète, qui conserve comme vivante la personne grâce à sa représentation, de même que la vertu perce sous la représentation théâtrale. À travers le jeu de miroir posé par la préface entre Marguerite et Alceste, Buchanan justifie la tragédie comme imago de la vertu. Si la métaphore opère aussi à un niveau réflexif pour caractériser la relation de la traduction à l’œuvre originale, elle peut être l’une des explications possibles de la méthode de Buchanan, qui fait le choix de la littéralité et de la méticulosité, à la différence de nombreux contemporains. La fidélité dont Alceste est le parangon dans le domaine conjugal caractérise aussi bien l’œuvre traduite, et Buchanan de montrer ainsi que la conscience philologique du traducteur est en elle-même indissociable, dans le geste humaniste, de l’exemple moral.

13 La question de la représentation et des figurations de l’absence se trouve explorée par le texte tragique, non seulement grâce aux divers épisodes de l’intrigue et du parcours accompli par Alceste, mais aussi des choix lexicaux des deux poètes. La thèse avancée par Buchanan dans la préface trouve explicitement son prolongement car le terme d’ imago est aussi utilisé dans la traduction, à deux reprises. Dans le premier cas, au vers 360, il traduit devma"9 ; dans le second, au vers 987 il est un ajout. Cette seconde occurrence manifeste un écart sensible avec la version originale. Le chœur s’étonne de l’intensité du deuil d’Admète et lui rappelle qu’il n’est pas le premier à perdre une épouse aimée : tiv nevon tovde ;10. Le propos est une critique discrète du personnage qui oublie à la fois qu’il a ainsi échappé à la mort et que le veuvage est fréquent. Or Buchanan traduit : « Quae nova mentem turbat imago11 ? » Il est peu crédible qu’un helléniste aussi compétent n’ait pas compris cette tournure sans difficulté linguistique. Il faut alors faire l’hypothèse que le sens du propos latin est suffisamment important pour motiver un écart avec la version originale, assez rare dans cette traduction d’ Alceste. En décrivant un esprit troublé, le chœur latin décrit une image, mentale, qui n’est pas reproduction ou figuration d’une réalité mais pure création d’un esprit sous le coup de l’émotion et souligne sa capacité à perturber la perception. L’imago se trouve ainsi dotée d’une véritable efficacité qui n’est pas sans rappeler celle du théâtre lui- même, capable grâce à des imagines expressae de susciter les émotions des spectateurs. Avec la préface puis la traduction se trouvent ainsi déclinées deux formes d’imago, l’une abstraite, l’autre concrète, mais toutes deux capables de modifier la perception sensible de celui qui l’éprouve.

14 Revenons maintenant à la première occurrence du terme imago. Au moment des adieux déchirants avec Alceste, Admète déclare qu’il placera dans son lit une figuration de son épouse réalisée par des artistes et trouvera dans l’étreinte de celle-ci une consolation12 ; or Buchanan traduit par « imago ficta » δέμας τὸ σόν / εἰκασθὲν 13, et remplace le pluriel τεκτόνων par le singulier « artificis ». Par l’emploi de δέμας, et non de σῶμα Euripide évoque une apparence corporelle qui n’est pas le corps même, n’en a pas la

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matière. La traduction latine par imago semble renforcer l’abstraction car elle renvoie à une effigie, une apparence dépourvue de volume. L’épithète accolée souligne à la fois la force de l’illusion et le leurre que veut créer Admète. Le choix du traducteur semble d’autant plus signifiant qu’une autre occurrence du même terme grec est rendue différemment : Αδ. – Ὦ φιλτάτης γυναικὸς ὄμμα καὶ δέμας14 Ad. – O corpus, ocule, o conjugis carissimae15 !

15 Traduire δέμας par corpus c’est ici souligner la dimension charnelle d’Alceste retrouvée, qui n’est pas ce fantôme redouté d’abord par Admète incrédule devant la femme que lui présente Héraclès16. Buchanan renforce discrètement l’opposition entre l’impression faite d’abord par Alceste et la réalité de sa présence. Admète craint un φάσμα νερτέρων 17 et se réjouit de retrouver son épouse, avec son δέμας et son ὄμμα18. L’écart entre les deux identités d’Alceste semble creusé par le choix du traducteur qui rend le premier par « larva ab umbris19 » et le second par « corpus20 ». Ni l’image maléfique ni la présence réelle ne relèvent de l’imago qui apparaît réservée à une construction, volontaire par l’artiste ou involontaire par l’esprit. D’une certaine façon, le φάσμα serait le contraire de l’imago car il est une image sans substance et dépourvue d’effet.

16 Quelle est la cohérence et la signification de ces choix de traduction ? En traduisant par deux mots latins différents un même terme grec, Buchanan ne manque pas de rigueur méthodologique mais propose une interprétation qui vise à clarifier le texte original en évitant l’ambiguïté du δέμας, qui se trouve désormais précisé en étant tantôt du côté de l’imago, tantôt du corpus. Deux hypothèses peuvent être proposées. La première hypothèse est de l’ordre de la conception théâtrale. Buchanan fait de l’imago, terme utilisé dans le texte théorique ainsi que dans la tragédie, le ressort de l’efficacité didactique de l’œuvre dramatique, qui ne le cède en rien à l’ouvrage de philosophie. Cette idée se trouve illustrée par Alceste qui en expose à la fois la puissance et les avantages sur les personnages. Une seconde hypothèse consisterait à poser une analogie entre théâtre et théologie et à voir dans l’imago, l’umbra ou la larva, et le corpus des expressions métaphoriques et déplacées des différentes conceptions de l’eucharistie (symbole, consusbstantiation, transsubstantiation) dont débattent les théologiens contemporains. Les variations sémantiques sur les régimes de la figuration de l’absence retrouvée permettent d’éprouver la pertinence et l’efficacité des différents régimes et d’explorer dans un champ analogique les enjeux du débat sur l’eucharistie. Comme Alceste revenue d’entre les morts est la vraie Alceste, inchangée, il n’y a pas modification de la nature du corps, ni superposition de deux états, et l’on peut se demander si cela n’illustre pas, très discrètement, une critique de la transsubstantiation.

17 Buchanan fait le choix de traduire au plus près le texte original. Sa version est à peine plus longue que l’œuvre grecque21 ; cette pratique le distingue nettement d’Érasme qui propose une traduction amplifiée d’Iphigénie22. Ces divergences de pratiques éclairent peut-être le statut du texte pour son traducteur. De l’amplification proposée par Érasme, la critique déduit qu’il privilégie la qualité poétique du texte traduit et la restitution des images23 ; inversement, on peut faire l’hypothèse que Buchanan conserve le rythme des échanges et la durée de l’action ; l’un privilégierait le poème, l’autre la tragédie. L’helléniste écossais accomplit le travail herculéen de ramener Alceste au monde des vivants et livre une version la plus fidèle possible, en accord avec

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l’éthique illustrée par l’œuvre, c’est-à-dire une imago, et non une umbra de la tragédie d’Euripide.

18 Le traitement des interjections lyriques, dans ce contexte, attire l’attention. Érasme les traduit minutieusement par des équivalents latins24. Ce respect de la lettre grecque paraît résulter du souci de livrer au lecteur une Iphigénie dont la poéticité n’ait pas été atténuée. Il apparaît plus surprenant que Buchanan supprime beaucoup d’entre elles, d’autant plus que ces formes de déploration ont pu être considérées comme l’un des traits caractéristiques d’Alceste25. La conception de la tragédie exposée dans la préface offre une première explication. Louer une tragédie pour son contenu philosophique et didactique revient à en valoriser le contenu intellectuel. Inversement, ces signifiants qui paraissent dépourvus de signifiés n’apportent rien, voire dégradent la tragédie conçue comme concurrente du manuel en délayant ses significations. Justifier la tragédie par son contenu intellectuel et moral conduirait à une censure de ses ressorts émotionnels. Pour Buchanan l’exposé philosophique, qui requiert la lisibilité, primerait sur l’expression des passions. On peut cependant proposer une hypothèse d’un autre ordre et considérer que la suppression de ces onomatopées lyriques sert l’efficacité scénique de la tragédie qui n’est pas une élégie, mais un drame, la représentation d’une action et non l’énoncé répété d’une douleur, si intense fût-elle. Ce serait au nom du genre tragique lui-même, c’est-à-dire de sa compréhension moderne comme spectacle et non plus comme lyrisme, qu’il faudrait éviter ces propos qui nuisent à la progression de l’action, ainsi des cris d’Admète qui ponctuent les vers du chœur. En outre, il n’est pas certain que la déploration apprenne la vertu, elle peut au contraire passer pour une forme de complaisance dans les passions qui ne peut être prônée sans risque devant des élèves. C’est donc la convergence d’une certaine compréhension de la tragédie et d’une certaine conception de l’éducation qui conduit à rogner le lyrisme de la pièce26. L’économie de la scène ne serait pas propice aux épanchements de la lyre. Une troisième hypothèse germe à partir des travaux de Nicole Loraux sur le deuil. Pour l’helléniste, la tragédie grecque ferait entendre avec les voix endeuillées ce qui n’est pas admis dans la cité. Cette analyse la conduit à l’idée que la tragédie est profondément « antipolitique27 ». Cette thèse invite à s’interroger sur une éventuelle signification politique de l’édulcoration des marques de la déploration dans Alceste. Buchanan ôterait ce qui éloigne la tragédie de la cité et laisse entendre une critique des devoirs qu’elle exige. Est-ce qu’il n’y a plus de place pour cette voix marginale dans les années 1550 ? La différence de contexte historique, notamment l’essor des conflits religieux, contribuerait à expliquer que la pratique d’Érasme ne convienne plus à Buchanan. En gommant ce qui peut être considéré comme l’indice même du tragique, Buchanan ferait de son Alceste une imago de celle d’Euripide.

19 C’est donc une entreprise paradoxale qui aurait été menée sous couvert d’une fidélité du traducteur à l’illustre poète grec ; la version traduite est le vecteur de la connaissance d’une œuvre antique écrite dans une langue ignorée de beaucoup et la diffusion d’un enseignement en prise avec le monde contemporain qui érige en modèle le sacrifice d’Alceste et laisse penser que la mort n’est qu’une absence temporaire. Traduire comme le fait Buchanan en désignant le monde grec comme l’origine de la morale et de l’émotion s’apparente à une profession de foi humaniste et ce geste qui est à la fois transmission et transposition au monde contemporain peut être compris comme une métaphore de l’éthique humaniste.

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20 Quelle que soit l’hypothèse pour expliquer cette diminution des indices de la déploration, il est frappant d’observer combien la traduction d’Alceste est un geste nourri, réfléchi, qui excite la sagacité du lecteur moderne et invite à spéculer. Le geste scolaire mobilise un savoir et une éthique qui traduisent combien l’enseignement est tenu en haute estime, imago et non φάσμα de la pensée. 21 La littéralité globale de la traduction masque certains changements qui affectent la signification de la tragédie. Ces quelques observations sur des faits de traduction apparemment mineurs mettent en lumière la richesse et la complexité de cette version latine d’Alceste et la question complexe des enjeux politiques de la tragédie, dans sa signification comme dans ses usages. Buchanan invente et illustre une méthode de traduction, en même temps qu’il éprouve sa conception de la tragédie, à la fois conçue comme genre théâtral et acte politique au sens propre d’intervention dans la cité.

22 La préface et la tragédie offrent une représentation complexe et subtile de l’exemplarité pensée à l’aide de la notion d’imago, et non comme un simple modèle à décalquer. L’importance de l’enjeu est l’une des preuves de l’ambition de l’humaniste écossais avec ce projet qui associe la traduction, l’éducation, le théâtre, la poésie. Comme Hercule, Buchanan ramène d’entre les morts ce qui est irremplaçable, ce compagnon le plus fidèle, et il invite ses contemporains non à en déplorer la disparition à travers le fantôme laissé, mais à en admirer la valeur par l’imago restituée.

NOTES

1. George Buchanan (1506-1582) est un humaniste polygraphe écossais connu dans l’Europe de son temps. Historien, philologue et enseignant, il est considéré par ses contemporains comme un excellent helléniste et latiniste. Il prend part au débat politique et religieux contemporain et épouse les idées de la Réforme. Outre un commentaire des psaumes, il écrit des poésies et des tragédies inspirées de sujets bibliques. 2. Les deux pièces sont publiées en 1506 (Euripidis tragici poete nobilissimi Hecuba et Iphigenia, latine facte, Erasmo interprete, Paris, Josse Bade, 1506), mais écrites à deux ans de distance, Hecuba en 1503-1504 et Iphigenia en 1506. Pour les traductions d’Érasme, mon travail s’appuie très largement sur l’ouvrage d’Erika Rummel qui y consacre un chapitre (Erasmus as a Translator of the Classics, Toronto-Buffalo-Londres, University of Toronto Press, 1985, en particulier le chapitre 2 « The Years of Apprenticeship : Erasmus’ Translations from Libanius and Euripides », p. 21-47). 3. Buchanan, Medea Euripidis poetae tragici Georgio Buchanan Scoto interprete, Paris, Vascosan, 1544. 4. Buchanan, Euripidis Alcestis, Georgio Buchanan interprete, Paris, Vascosan, 1556. Les deux traductions ont été rééditées : Buchanan, George Buchanan Tragedies, éd. P. SHARRATT et P. G. WALSH, Edimbourg, Scottish Academic Press, 1983. C’est cette édition, plus accessible, qui sera utilisée dans l’article. 5. Je renvoie à la conférence de Bénédicte Louvat lors du séminaire « La tragédie et ses marges. Penser le genre sérieux en Europe » proposé par Florence d’Artois et Anne Teulade (5 avril 2014). 6. Buchanan, « Ad illustrissimam principem dominam Margaritam Henrici secundi Francorum Regis sororem », éd. cit., p. 211 : « C’est en effet le propre de ce discours d’être modéré et égal, et, ce qui est le propre d’Euripide, doux ; mais du parricide, du poison et des autres crimes dont les

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autres tragédies sont pleines, absolument aucune mention ici, pas la moindre trace. Au contraire toutes [ces tragédies] sont pleines d’amour conjugal, de piété, d’humanité et des autres devoirs, au point que je ne crains pas de comparer cette fable avec les livres de ces philosophes qui enseignent les règles de la morale ouvertement, et je ne sais si je ne dois pas même les préférer. En cette occasion, l’action naît à la vie avec la parole et le souffle, cela fait une impression plus forte sur les sens que de traditionnelles leçons morales, et impressionne plus facilement l’esprit. Et là où cela a pénétré, cela s’arrime plus fermement, et s’ancre potentiellement. » (Je traduis.) 7. Ibid., p. 211-212 : « Et si quelqu’un croit que ces choses te concernent moins, sous prétexte que tu sois déjà tellement avancée en toutes espèces de vertu que tu ne doives pas être affermie par l’exemple d’autrui mais que tu incites à la vertu les autres par ton exemple, il se trompe lourdement à mon avis du moins ; en effet les leçons tirées des devoirs accomplis et la mémoire des exploits illustres seront peut-être plus utiles à d’autres qui les liront, de manière à ce qu’ils dirigent leur conduite comme selon une règle ; ces choses devront être très agréables assurément à ceux qui, s’étant déjà acquittés des travaux à apprendre et à imiter, liront leurs propres louanges sous un masque étranger par-delà tout soupçon de flatterie. La fable que voici possède en effet, pour autant que je puisse en juger, l’image représentée de vertus que nous ne reconnaissons pas moins volontiers en toi qu’en les lisant en Alceste, à tel point que toutes les fois que tu l’abordes, il est nécessaire que te vienne à l’esprit l’image de tes propres vertus. » (Je traduis.) 8. Buchanan, Alceste, éd. cit., préface, p. 211. 9. Euripide, Alceste, dans Tragédies, Paris, Les Belles Lettres, t. I, éd. et trad. L. Méridier, 2001 [1926], v. 348. 10. Euripide, Alceste, éd. cit., v. 931. 11. Buchanan, Alceste, éd. cit., v. 987, p. 237. 12. Euripide, Alceste, éd. cit., v. 348-354. 13. L’expression grecque des vers 348 et 349 se trouve au vers 360 de la traduction latine de Buchanan (p. 222). 14. Euripide, Alceste, éd. cit., v. 1133. 15. Buchanan, Alceste, éd. cit., v. 1211, p. 243. 16. Euripide, Alceste, éd. cit., v. 1123-1125. 17. Euripide, Alceste, éd. cit., v. 1127. 18. Ibid., v. 1133. 19. Buchanan, Alceste, éd. cit., v. 1205, p. 243. 20. Ibid., v. 1211, p. 243. 21. L’Alceste grecque fait 1163 vers, sa traduction latine 1245. 22. L’Iphigénie grecque fait 1629 vers, sa traduction latine 2346. Erika Rummel décrit ce travail comme une « expanded translation » (op. cit., p. 46-47). Le traducteur ajoute quelques sept cents vers, Buchanan moins de cent. 23. RUMMEL, op. cit., p. 45-47. 24. Ibid., p. 39-40. 25. Par exemple, les interjections lyriques des vers 194, 233 ou 380 ne sont pas traduites, parfois elles le sont partiellement comme au vers 861. 26. Ce procédé est utilisé à deux reprises par Euripide (v. 872-876, v. 889-894) et est supprimé par Buchanan (v. 919-924 et v. 939-945, p. 236). 27. N. LORAUX, LA VOIX ENDEUILLÉE, PARIS, GALLIMARD, 1999.

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RÉSUMÉS

Pourquoi traduire Alceste, tragédie apparemment marginale dans le corpus antique par son dénouement heureux et son absence d’action spectaculaire ? La notion d’imago, déployée dans le paratexte critique et la tragédie, décrit à la fois l’intrigue tragique comprise comme une affaire de substitution qui se dénoue par le retour de l’originale, et le geste humaniste accompli par Buchanan, fidèle traducteur comme Admète est fidèle époux, et passeur entre les mondes et leurs valeurs comme Hercule entre les morts et les vivants. La traduction d’Alceste apparaît comme un manifeste théâtral et éthique.

Why translating Alcestis, an apparently marginal tragedy within the ancient corpus due to its happy ending and its lack of spectacular actions ? The idea of imago, deployed all along the critic paratext and the tragedy, describes both its tragic plot, understood as a substitution that ends with the return of the original, and the humanistic deed accomplished by Buchanan, faithful translator as much as Admetus is a faithful husband, and bridge between two different worlds and their values as much as Heracles between the living and the dead. Translating Alcestis becomes thus a sort of theatrical and ethic manifesto.

INDEX

Mots-clés : Euripide, Buchanan, Alceste, traduction, tragédie, imago, représentation, humanisme, fidélité, exemplarité Keywords : Euripides, Buchanan, Alcestis, translation, tragedy, imago, representation, humanism, faithfulness, exemplarity

AUTEUR

ZOÉ SCHWEITZER

MCF en littérature comparée, Université Jean Monnet, [email protected]

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Peut-on traduire « savamment » tout en faisant des bévues incroyables ? Andreas Divus et son Aristophane

Simone Beta

1 On sait que, à la Renaissance, les comédies d’Aristophane faisaient partie des textes qu’il fallait absolument lire et connaître parce que le poète athénien était considéré un modèle parfait du dialecte attique. Dans une lettre envoyée à John Claymond, le premier président du collège Corpus Christi d’Oxford, Érasme de Rotterdam fait d’Aristophane un exemple de pureté stylistique à égalité avec Démosthène et Lucien ; dans son traité sur la méthode pour étudier, lire et interpréter les auteurs, il inclut Aristophane dans son canon des meilleurs poètes, avec Homère et Euripide1.

2 C’est pour cette raison que, au début du XVe siècle, bien avant que la première édition du texte grec d’Aristophane fût publié à Venise par l’imprimeur Aldo Manuzio, les premiers humanistes choisirent de traduire, à coté d’auteurs comme Platon et Aristote, Aristophane. Leonardo Bruni, l’humaniste arétin qui, après avoir suivi les leçons de Manuele Crisolora, traduisit les trois cent premiers vers du Ploutos, déclare dans la préface de sa traduction qu’il avait voulu montrer à ses contemporains quel était le genre de drames du poète comique : Ego igitur volens latinis ostendere quale genus erat illarum comediarum, primum actum huius comediae Aristophanis in latinum contuli2.

3 Et c’est également pour cette raison que, après les premières éditions du texte grec d’Aristophane, c’est-à-dire les neuf comédies publiées par Manuzio en 1498, les deux autres comédies publiées par Bernardo Giunta à Florence en 1516, la première édition vraiment intégrale des onze comédies due à Symon Grynaeus et publiée à Bâle chez l’éditeur Andreas Cratander en 1532, un professeur de Capodistrie, Andreas Divus, publia à Venise, chez l’éditeur Giacomo Pocatela, la première traduction complète d’Aristophane3.

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4 Bien que cette version, qui parut en 1538, ne soit pas parfaite (et nous verrons bientôt pourquoi), le rôle qu’elle a joué dans la connaissance de l’œuvre d’Aristophane a été extrêmement important : cette traduction remporta un vif succès et fut réimprimée six fois entre 1539 et 1597 par plusieurs imprimeurs4.

5 Dans sa préface, l’épître dédicatoire à Alvise Pisani, évêque de Padoue, Divus déclare n’avoir pas essayé de reproduire l’élégance, la beauté et le charme des mots : il s’est contenté de tracer les contours des mots (lineamenta) de la façon la plus fidèle possible, pour exprimer les figures poétiques du style d’Aristophane5. Or c’est précisément dans ce choix de traduire seulement les lineamenta des mots que se trouvent les mérites et les défauts de son entreprise : on peut parler de mérites, parce que sa traduction mot à mot a permis à qui possédait une connaissance très limitée de la langue grecque de comprendre une bonne partie du texte d’Aristophane ; mais on peut aussi parler de défauts, parce que le désir d’être toujours fidèle au texte original a produit une traduction qui est souvent incompréhensible, et très souvent incorrecte.

6 Les « savants » qui se sont intéressés à cette traduction « savante » ont toujours négligé ses mérites et souligné ses défauts. Célèbre est le jugement tranchant de Tanneguy Le Fèvre, qui en 1674 traduisit en latin l’Assemblée des femmes : après avoir accusé Divus d’être imperitissimus et infantissimus, Tanneguy écrivit que le traducteur avait peiné à comprendre deux vers consécutifs (vix alternos versus Comici nostri intellexit) parce que la sensibilité pour la langue grecque lui faisait complètement défaut (qui nullum Hellenismi sensum haberet)6.

7 Dans un article paru en 2012 je me suis intéressée à sa traduction de la Lysistrata en soulignant, à côté de ses défauts, ses mérites de traducteur ; dans cette contribution je tenterai d’en faire autant au sujet d’une autre comédie, qui permet d’analyser le langage particulier de la politique7. Il s’agit des Cavaliers, la comédie qu’Aristophane écrivit en 424 dans le but de convaincre ses concitoyens de ne pas voter pour Cléon, le démagogue qui avait pris la place de Périclès à la tête du parti démocratique.

8 Au début de la pièce, on voit deux esclaves, deux serviteurs de Démos Pyknites, la personnification du peuple athénien, qui se réunissait sur la Pnyx ; ils se plaignent de leur malheureuse condition depuis qu’un nouvel esclave, le Paphlagonien (la caricature de Cléon), est entré dans la maison de Démos.

9 Le premier esclave, qui avait sur le visage un masque avec les traits du stratège Démosthène, sort de la maison de Démos en s’écriant : Ἰατταταιὰξ τῶν κακῶν, ἰατταταί. Κακῶς Παφλαγόνα τὸν νεώνητον κακὸν αὐταῖσι βουλαῖς ἀπολέσειαν οἱ θεοί. Ἐξ οὗ γὰρ εἰσήρρησεν εἰς τὴν οἰκίαν πληγὰς ἀεὶ προστρίβεται τοῖς οἰκέταις8 ; 10 le deuxième esclave, qui avait sur le visage une masque représentant les traits du stratège Nicias, est d’accord avec les mots de son collègue : Κάκιστα δῆθ' οὗτός γε πρῶτος Παγλαγόνων αὐταῖς διαβολαῖς9. 11 On peut voir très aisément comment la traduction de Divus, en suivant servilement la disposition du texte grec, vers à vers, mot à mot, pose parfois des problèmes : Démosthène : Heu malis heu. Male Paphlagona nuper emptum malum, ipsis consiliis perdant Dei.

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Ex quo enim ingressus est in domum, plagas semper intulit famulis. Nicias : Pessime certe, hic primus Paphlagonum ipsis consiliis.

12 Si la traduction des paroles de Démosthène en latin est à peu près compréhensible, celle des paroles de Nicias nous laisse perplexes, parce que la phrase Pessime certe, hic primus Paphlagonum ipsis consiliis ne signifie pas que l’esclave a voulu maudire le Paphlagonien. En sus, il faut souligner que Divus a traduit par le même mot (consilia) deux réalités tout à fait différentes (βουλαί et διαβολαί), même si elles partagent la même racine, témoignant ainsi qu’il n’avait pas vraiment compris le sens du texte d’Aristophane – et confirmant par conséquent la critique sévère de Tanneguy Le Fèvre.

13 La recherche d’un moyen d’échapper au Paphlagonien emmène les deux esclaves à recourir aux vers d’Euripide : Nicias cite un vers du poète tragique (Πῶς ἂν σύ μοι λέξειας ἁμὲ χρὴ λέγειν) ; qui signifie « Ah ! Que ne me dis-tu ce qu’il faut que je dise ? » ; Démosthène gronde son collègue, en disant : Μή μοί γε, μή μοι, μὴ διασκανδικίσῃς ἀλλ' εὑρέ τιν' ἀπόκινον ἀπὸ τοῦ δεσπότου10. 14 On peut aisément imaginer l’embarras de Divus devant cette réplique, puisque le verbe διασκανδικίζειν et le nom ἀπόκινος ne sont pas très communs en grec. Mais le texte qu’il avait utilisé avait un atout : le volume d’Aldo Manuzio, édité par le philologue crétois Marcus Musurus, était pourvu de scholies. Et les commentaires anciens nous donnent deux explications très importantes à ce sujet : d’abord, il disent que dans διασκανδικίζειν il y avait le mot σκάνδιξ (« une herbe sauvage », c’est-à-dire une allusion méchante au métier de la mère d’Euripide, qui, pour les poète comiques, était une marchande de légumes) ; ensuite, il disent que l’ ἀπόκινος était une danse très vive.

15 Devant ces difficultés réelles, il faut avouer que la traduction de Divus est assez créative : Non mihi, non mihi ne olorizes. Sed inveni aliquam abitionem a domino.

16 Le verb olorizere, qui n’est pas attesté dans la langue latine, est une invention géniale du traducteur à partir du substantif olus / holus (« légumes ») ; tout aussi ingénieuse est l’utilisation du nom abitio (« départ »), qui était très rare, pour le grec ἀπόκινος, que les scholies expliquent par le mot « fugue11 ».

17 Dans le prologue de la comédie il y a d’autres escamotages qui ne peuvent que susciter notre approbation. À partir du vers 40, après son dialogue avec son comparse Nicias, l’esclave Démosthène expose au public la situation en décrivant ainsi son maître : Νῷν γάρ ἐστι δεσπότης ἄγροικος ὀργήν, κυαμοτρώξ, ἀκράχολος, Δῆμος Πυκνίτης, δύσκολον γερόντιον ὑπόκωφον 12. 18 Si nous lisons la traduction de Divus, nous voyons qu’il n’a pas compris que Δῆμος Πυκνίτης était le nom propre du personnage, car il a utilisé des lettres minuscules : Nobis enim est dominus rusticus ira, fabarum comestor, promptus in ira, populus concionarius, difficilis vetulus, surdulus.

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19 Mais grâce aux scholies il a pu comprendre que Πυκνίτης avait un sens métaphorique, et c’est pour cette raison qu’il l’a traduit avec concionarius, qui est un néologisme très efficace.

20 L’adjective surdulus est aussi une création ingénieuse, car le suffixe -ulus traduit avec succès le préfixe grec ὑπο-.

21 À cet égard, il faut dire que la fréquence des diminutifs dans la langue flamboyante d’Aristophane a forcé Divus à créer continûment des néologismes. Nous pouvons voir de nombreux cas similaires dans le texte de la comédie : les diminutifs consiliunculis et sententiunculis et cogitatiunculis (on est toujours dans le prologue) traduisent efficacement Βουλευμάτια καὶ γνωμίδια καὶ νοίδια, les « petits conseils, petites sentences, petites idées » que le vin a suggérés aux deux esclaves13 ; les diminutifs urnulis et vulturulis et turriculis (dans les scène iambiques qui suivent la parabase) traduisent aussi efficacement les créations verbales πιθάκναι καὶ γυπάρια καὶ πυρυίδια, que van Daele n’a pas essayé de rendre (« misérables tonneaux, nids de vautours et tourelles »)14.

22 Si l’on revient au monologue de Démosthène dans le prologue, on remarque une autre création courageuse de Divus : le verbe sybillizare, qui correspond au grec σιβυλλιᾶν et décrit la passion du Peuple pour les faux oracles que le Paphlagonien utilise souvent pour tromper son maître15.

23 Or, après avoir volé les oracles du Paphlagonien, les esclaves apprennent qu’il y a une prophétie qui annonce la venue d’un esclave qui prendra la place du Paphlagonien – c’est-à-dire une prophétie annonçant la venue d’un homme politique qui prendra la place de Cléon. Divus s’efforce de traduire tous les noms composés de ces personnages : στυππειοπώλης (« marchand d’étoupes ») devient stupevenditor, προβατοπώλης (« marchand des moutons ») devient oviumvenditor et pecudivenditor, βυρσοπώλης (« marchand de cuir », c’est-à-dire Cléon, qui avait hérité de la tannerie de son père) devient pelliumvenditor16. Le seul métier que Divus ne traduit pas, c’est le métier de l’esclave qui viendra prendre la place du Paphlagonien : dans la version de Divus, le mot grec ἀλλαντοπώλης (« charcutier », « marchand de boudin ») reste toujours allantopoles17.

24 Quand ce charcutier arrive vraiment, les esclaves lui expliquent pourquoi il va devenir un excellent homme politique : Δι ' αὐτὸ γάρ τοι τοῦτο καὶ γίγνει μέγας, ὁτιὴ πονηρὸς κἀξ ἀγορᾶς εἶ καὶ θρασύς18. 25 Comme la scholie n’explique pas l’acception particulière du mot ajgorav dans ce contexte, Divus ne saisit pas son sens dépréciatif, interprété correctement par van Daele (« Parce que tu es un gueux, un voyou, un audacieux ») ; par suite, la traduction du deuxième vers (Quod malus, et ex foro es et audax) est incorrecte.

26 Ce même sens particulier revient dans la liste des qualités du bon démagogue que Démosthène dresse peu après : Τάραττε καὶ χόρδεύ ὁμοῦ τὰ πράγματα ἅπαντα, καὶ τὸν δῆμον ἀεὶ προσποιοῦ ὑπογλυκαίνων ῥηματίοις μαγειρικοῖς. Τὰ δ' ἄλλα σοι πρόσεστι δημαγωγικά, φωνὴ μιαρά, γέγονας κακῶς, ἀγοραῖος εἶ· ἔχεις ἅπαντα πρὸς πολιτείαν ἃ δεῖ 19.

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27 Voici la traduction de Divus : Turba, et inchorda simul res omnes, et populum semper vendica, subdulce capiens verbulis coquinariis. Haec autem alia tibi adsunt populi ductiva, vox scelesta, genitus es malus, forensis es. Habes omnia illa ad civilitatem quae oportent.

28 Son forensis n’a pas le sens correct que lui donne van Daele (« façons de voyou »). Ce malentendu n’est pas la seule erreur ici : l’impératif τὸν δῆμον προσποιοῦ signifie « gagne toujours pour toi la faveur du peuple » ; le dernier vers signifie « tu as tout ce qu’il faut pour gouverner ». Mais il y a aussi des solutions intéressantes : avec subdulce capiens, Divus renonce pour une fois à la coutume qui l’emmène toujours vers une traduction littéraire, en paraphrasant correctement le verbe composé ὑπογλυκαίνων, car la suite verbulis coquinariis (encore un diminutif !) montre qu’il a compris et respecté la métaphore culinaire d’Aristophane.

29 Les esclaves encouragent le charcutier à lutter contre le Paphlagonien en l’assurant de l’aide des Cavaliers ; le Paphlagonien arrive furieux et menaçant ; Démosthène appelle les Cavaliers, qui frappent le démagogue. Dans la dernière section de la parodos, nous trouvons une première altercation entre le Charcutier, qui est enhardi par la présence du chœur des Cavaliers, et son adversaire. Divus essaie de reproduire les figures étymologiques du texte grec : par declamabo te clamans, il reproduit καταβοήσομαι βοῶν σε ; par invociferabor te vociferans, il reproduit κατακεκράξομαί σε κράζων 20. C’est une tentative louable, qui n’est pas fréquente chez les traducteurs. Van Daele, par exemple, ne le fait pas, car il traduit : « Je couvrirai ta voix par mes cris » et « Moi la tienne par mes beuglements ».

30 Pendant le débat, le Paphlagonien est battu soit en paroles soit en action. Il compte prendre sa revanche devant le Conseil, mais après la parabase le Charcutier annonce qu’il a été vainqueur devant le Conseil aussi. Dans son compte-rendu du discours du Paphlagonien, il décrit ainsi l’éloquence de son rival : Ὁ δ' ἄρ ' ἔνδον ἐλασίβροντ' ἀναρρηγνὺς ἔπη τερατευόμενος ἤρειδε κατὰ τῶν ἱππέων, κρημνοὺς ἐρείδων καὶ ξυνωμότας λέγων πιθανώτατ'· ἡ βουλὴ δ' ἅπασ' ἀκροωμένη ἐγένεθ' ὑπ' αὐτοῦ ψευδατραφάξυος πλέα, κἄβλεψε νᾶπυ καὶ τὰ μέτωπ' ἀνέσπασεν. Κἄγωγ' ὅτε δὴ ' γνων ἐνδεχομένην τοὺς λόγους καὶ τοῖς φενακισποῖσιν ἐξαπατωμένην... 21. 31 La densité métaphorique du premier vers est trop difficile pour Divus : la traduction correcte de la phrase ἐλασίβροντ' ἀναρρηγνὺς ἔπη (« éclatant en termes tonitruants », selon van Daele) devient scindens impellentia tonitrua verba ; mais les mots impellentia tonitrua, bien qu’ils traduisent le verbe ἐλαύνειν et le nom βροντάς, ne signifient pas grand chose.

32 Le participe qui suit, mentiens, est toutefois correct : le verbe utilisé par Divus est la vraie traduction du grec τερατευόμενος, parce que τέρας ne signifie pas seulement « prodige », mais aussi « mensonge » – et Divus, qui avait lu la scholie, qui explique que le verbe est un synonyme de ψευδόμενος, a choisi le participe latin correct.

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33 Et c’est toujours grâce aux anciens commentateurs que Divus a pu comprendre le sens précis du mot ψευδατραφάξις· la scholie exlique qu’il s’agit d’une herbe qui pousse rapidement ; Divus ne prête pas attention à l’image végétale mais, s’appuyant sur le premier élément du composé, traduit correctement le mot par levia mendacia.

34 Tout à fait original est enfin le mot que Divus utilise pour le grec φενακισμοί, un terme qui dérive du mot φέναξ (« perruque ») : hallucinationes est une traduction singulièrement métaphorique pour un traducteur qui est d’ordinaire assez fidèle.

35 Mais le Paphlagonien ne se tient pas pour définitivement battu. Il veut soutenir maintenant un débat devant Peuple ; le Charcutier y consent.

36 Peuple arrive. Le Charcutier l’appelle avec le vocatif ὦ Δημίδιον, rendu par le diminutif popellus, un terme que Divus a emprunté à une épître d’Horace – une autre preuve qui démontre qu’il connaissait bien les auteurs latins22. Ensuite, les deux démagogues font assaut de flatteries, de complaisances et de cadeaux.

37 Regardons le passage où le chœur des Cavaliers blâme l’ignorance et la corruption du Paphlagonien, ici appelé par son vrai nom pour la première fois : Ἀλλὰ καὶ τόδ' ἔγωγε θαυ- μάζω τῆς ὑομουσίας αὐτοῦ· φασὶ γὰρ αὐτὸν οἱ παῖδες οἳ ξυνεφοίτων, τὴν Δωριστὶ μόνην <ἂν> ἀρ- μόττεσθαι θαμὰ τὴν λύραν, ἄλλην δ' οὐκ ἐθέλειν μαθεῖν· κᾆτα τὸν κιθαριστὴν ὀργισθέντ' ἀπάγειν κελεύ- ειν, ὡς ἁρμονίαν ὁ παῖς οὗτος οὐ δύναται μαθεῖν ἢν μὴ Δωροδοκιστί23. 38 Ce passage pose des problèmes à tous les traducteurs, parce qu’Aristophane y fait deux calembours. Le premier est le composé ὑομουσία, né de l’union du mot ὗς (« porc ») avec *μουσία, qui rappelle les Muses ; le deuxième est l’hapax Δωροδοκιστί, un adverbe qui joue soit sur le mode dorien, un des quatre modes de la musique grecque, soit sur Doro, qui était la déesse de la vénalité, dont le nom renvoie à δῶρον (« cadeau », mais aussi « pot-de-vin »).

39 Voici la traduction de Hilaire van Daele : « Mais ce trait encore, je l’admire dans son éducation de pourceau : les enfants qui fréquentaient l’école avec lui disent qu’il lui arrivait souvent de ne pouvoir accorder sa lyre que sur le mode dorique et qu’il se refusait à en apprendre un autre ; alors le maître se fâchant le faisait emmener, attendu, disait-il, que cet enfant n’est capable d’apprendre aucun mode, si ce n’est le ique ».

40 Et Divus ? Sa traduction est la suivante : Sed et hoc ego ad- miror scientiae porcinae ipsius. Dicunt enim ipsum pueri qui simul ibant, donative solam co- aptare frequenter lyram, aliam autem non velle discere :

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et postea citharistam iratum abducere iube- re, quod harmoniam puer hic non potest discere, nisi donorum susceptive.

41 En ce qui concerne le premier calembour, on voit que la scientia porcina de Divus est une traduction très amusante du composé grec, peut-être moins banale et plus comique que la solution « éducation de pourceau » proposée par van Daele.

42 Le deuxième calembour est traduit avec une imagination appréciable : pour Δωριστί, Divus utilise donative ; pour Δωροδοκιστί, il trouve donorum susceptive, qui me paraît une solution moins alambiquée que « le ique » de van Daele.

43 La fin de ce deuxième débat voit la victoire définitive du Charcutier ; Peuple le nomme son intendant à la place du Paphlagonien disgracié, avec l’approbation enthousiaste du chœur des Cavaliers. À la fin de la comédie, rajeuni par un procédé magique, Peuple abjure ses erreurs passées et promet de mieux faire à l’avenir.

44 Parmi les premières mesures du Peuple, auxquelles le Charcutier donne son approbation, il y a l’interdiction faite aux « freluquets du marché au parfums » (τὰ μειράκια... τἀν τῷ μύρῳ, qui deviennent chez Divus adulescentulos… in myro) de flâner sur l’agora ; ainsi, ils ne pourront plus parler avec leur langage ridiculement affecté, qui abusait de suffixe -ικοσ, un langage dont Phaiax, un élève des Sophistes, était un des inventeurs.

45 Dans la définition que Peuple donne de Phaiax on aperçoit tout le sarcasme d’Aristophane sur cette façon ridicule de parler : Συνερτικὸς γάρ ἐστι καὶ περαντικός, καὶ γνωμοτυπικὸς καὶ σαφὴς καὶ κρουστικός, καταληπτικός τ' ἄριστα τοῦ θορυβητικοῦ 24. 46 Divus comprend l’ironie d’Aristophane et essaie de la reproduire en utilisant le suffixe latin -ivus : Compositivus enim est et terminativus, Et sententiarum formativus, et manifestus, et pulsativus, Deprehensivusque optime tumultuarii.

47 Le résultat est assez satisfaisant – au début, au moins, parce qu’à la fin Divus abdique : il préfère l’adjectif tumultuarius, donc θορυβητικόν ne devient pas tumultuativum ; puisque θορυβητικός n’est pas au nominatif comme les adjectifs précédents, Divus a peut-être cru qu’il ne concernait pas le sophiste25.

48 Enfin, Peuple condamne le Paphlagonien à revêtir le costume du Charcutier et à prendre le métier du marchand qui l’a supplanté dans sa position politique : il faudra qu’il vende les saucisses aux portes de la ville (et, en sus, qu’il se querelle avec des prostituées et des baigneurs). La dernière définition du Paphlagonien vaincu est le mot φαρμακός. Pour van Daele, le sens du mot est « malfaiteur » ; pour Divus, c’est magus.

49 Mais que signifie vraiment ce mot ? Les scholies l’ignorent. En latin, dans un contexte géographique particulier, celui de la Perse, magus signifie « prêtre » ou « devin 26 » ; dans d’autres contextes, il veut dire simplement « magicien »27. Ni « prêtre » ni « devin » ni « magicien » n’ont quoi que ce soit à voir avec la situation ; Divus a probablement essayé lui-même d’être un magus, c’est-à-dire de deviner le sens du mot – une chose qu’il a dû faire souvent, soit dans les comédies d’Aristophane soit dans la

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plus connue de ses traductions, celle des deux poèmes d’Homère28. Est-ce qu’il faut le blâmer pour ça ?

50 Malgré tous ses défauts, il faut toutefois reconnaître que Divus a essayé de se battre « avec le courage d’Héraclès » contre le « monstre » Aristophane29 : il l’a suivi dans ses nombreuses créations linguistiques (en créant à son tour de nouveaux mots latins) ; il l’a suivi dans ses altérations linguistiques (en altérant à son tour plusieurs mots, c’est- à-dire en créant des diminutifs) ; il l’a suivi dans ses calembours fantaisistes (en essayant parfois de les reproduire avec une fantaisie à peu près équivalente).

51 Si ses tentatives ne sont pas toujours réussies et si sa connaissance de la langue grecque laisse parfois à désirer, on ne peut pas nier que, sans la traduction de Andreas Divus, la connaissance du théâtre d’Aristophane se serait répandue beaucoup plus lentement. Surtout, s’il n’avait pas traduit toutes les onze comédies conservées par les manuscrits médiévaux, nous n’aurions pas pu lire à la même période la première traduction complète du théâtre d’Aristophane dans une langue moderne : à savoir la traduction de frères Pietro et Bartolomeo Rositini, publiée à Venise en 1545, sept ans après la traduction latine de Divus30.

52 Cette traduction italienne se base très souvent (et même trop souvent : même une lecture superficielle permet de constater que bien des bévues de Divus sont passées presque intactes dans la traduction des frères Rositini) sur la première traduction latine intégrale31. Mais Pietro et Bartolomeo, qui n’étaient pas des professionnels – ils exerçaient la profession de médecin – ont parfois montré une autonomie de jugement.

53 Par exemple, ils ont traduit le φαρμακός dont je viens de parler par « incantatore », qui veut dire surtout « enchanteur », mais qui signifie aussi « charmeur », un mot qui apparemment ne convient pas pour désigner un démagogue vaincu qui est destiné, comme le dit Aristophane, à injurier les prostituées et à boire l’eau sale des bains (ou, si l’on veut utiliser les mots de Divus, meretricibus conviciari et ex balneis ipsum lavacrum bibere)32.

54 Mais on sait bien que les vrais démagogues, même s’ils ont été vaincus, même s’il semble qu’ils sont en train de quitter leur charge, sont toujours capables de se cramponner à toutes les qualités qu’ils possèdent – y compris la qualité des φαρμακοί – au sens de « incantatori », « enchanteurs », mais aussi « charmeurs ». Par suite, comme nous savons que, après avoir voté pour la victoire d’Aristophane dans la compétition théâtrale des Lénéennes, les Athéniens votèrent pour l’élection de Cléon, qui cependant avait été tourné en ridicule dans une comédie qui lui était entièrement consacrée et qui fut acclamée par le public, la traduction des frères Rositini n’est pas complètement incorrecte.

55 La traduction donnée par Nicodemus Frischlin en 1586 est plus juste, bien sûr, car son veneficus reproduit fidèlement le ton dépréciatif du terme grec 33. Mais les deux mots choisis quelques années avant par Divus et par les frères Rositini possèdent un mérite, bien que ce mérite soit involontaire : ils sont une définition inconsciente de leur travail de traducteurs.

56 Un homme qui traduit est un incantatore, parce qu’il doit reproduire dans sa propre langue le même charme que les mots utilisés par l’auteur avaient dans la langue originale. Mais un traducteur est un magus aussi : ils doit « deviner » le sens correct des mots qu’il trouve dans le texte qu’il doit traduire et, comme par enchantement, le transporter dans sa langue. Face au texte des comédies d’Aristophane, écrit dans une

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langue qui était encore peu connue, Andreas Divus a essayé d’être un magus, car il a tenté de transformer un poète ayant vécu dans l’Athènes démocratique du Ve siècle avant J.-C. en un auteur s’exprimant dans la langue franche de l’Europe occidentale. Cette magie n’a pas toujours été couronnée de succès, c’est vrai – mais le magus Divus mérite malgré tout nos bravos.

NOTES

1. Pour la première citation, voir l’epistula 1661 (The correspondence of Erasmus : Letters 1658-1801 (1526-1527), Toronto and London, 1974, vol. 12, p. 17) ; pour la deuxième, voir De ratione studii, éd. J.-C. Margolin, in Desiderii Erasmi Roterodami, Opera omnia 1-2, Amsterdam, 1971, p. 115 (Quo quidem in genere (sc. dans la prose) primas tribuerim Luciano, alteras Demostheni, tertias Herodoto. Rursum ex poetis primas Aristophani, alteras Homero, tertias Euripidi). 2. La traduction de Bruni a été publiée par Maria et Enzo Cecchini (L. BRUNI, Versione del Pluto di Aristofane, Firenze, 1965) ; voir aussi E. CECCHINI et A.C. CASSIO, « Due contributi alla traduzione di Leonardo Bruni del Pluto di Aristofane », Giornale italiano di filologia classica 24 (1972), p. 472-82, et L. PRADELLE, « La version latine du Ploutos d’Aristophane par Leonardo Bruni : une traduction expérimentale ? », à paraître. 3. Aristophanis, comicorum principis, Comoediae undecim, e Graeco in Latinum, ad verbum translatae, Andrea Divo Iustinopolitano interprete, Venetijs, apud D. Iacob a Burgofrancho Papiensem, mense Iunio, 1538. 4. Voici la liste de ces réimpressions : Andreas Cratander, Bâle, 1539 et 1542 ; Pocatela, Venise, 1542 ; « apud Cominum de Tridino Montisferrati », Venise, 1548 ; Cratander, Bâle, 1552 ; « apud I. Ba. Et I. Be. Sessam », Venise, 1597. Une copie de l’édition Bâle 1539 fut possédée par François Rabelais ; L.C. STEVENS, « RABELAIS AND ARISTOPHANES », STUDIES IN PHILOLOGY 55 (1958), P. 24-30, NOUS DIT QUE CE LIVRE EST MAINTENANT DANS LA BIBLIOTHÈQUE DU MUSÉE CONDÉ, À CHANTILLY (COTE VIII-E-001). 5. Quapropter cum non ignorarem, quantum ex literis (sic !) Graecis fructus percipi soleat, nec tamen ab omnibus aut illis operam dari posse, aut intelligi : non inutilem, neque ingratum quam plurimis fore putavi laborem meus, si Graecos autores ad verbum in Latinum sermonem vertendos, atque excudendos curarem : non tamen in iis tam verborum quidem elegantiam, venustatem, lenociniave captans, quam ut lineamenta fidelius quam possem, poeticasque figuras exprimerem. 6. Tanaquilli Fabri Epistolae, pars posterior, editio altera priori emendatior. Additae sunt Aristophanis ΕΚΚΛΗΣΙΑΖΟΥΣΑΙ cum interpretatione nova, notis & emendationibus, typis & sumptibus Isaaci Desbordes & Ioannis Lesnerii, Salmurii, 1674. Pour une autre critique également sévère de la traduction de Divus on peut lire l’avant-propos de Ludolph Küster à l’édition complète des comédies d’Aristophane qu’il publia en 1710 à Amsterdam, où le philologue allemand déclare qu’il n’a pas voulu utiliser ses versions parce qu’elles étaient pleines d’erreurs (Aristophanis Comoediae undecim, Graece et Latine, ex codd. mss. emendatae : cum scholiis antiquis, inter quae scholia in Lysistratam ex cod. Vossiano nunc primum in lucem prodeunt. Accedunt notae virorum doctorum in omnes comoedias ; inter quas nunc primum eduntur Isaaci Casauboni in Equites ; illustriss. Ezech. Spanhemii in tres priores ; et Richardi Bentleji in duas priores comoedias observationes. Omnia collegit et recensuit, notasque in novem comoedias, et quatuor indices in fine adjecit Ludolphus Kusterus, sumptibus Thomae Fritsch, Amstelodami) ; voir aussi le jugement de l’abbé Giuseppe Fabiani dans Il Pluto di Aristofane, commedia prima, greco-italiana in versi con sue annotazioni, opera del signor Gio. Batista

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Terucci, gentiluomo sanese, pubblico professore di Leggi Civili nell’università di Siena, e accademico intronato, illustrata e pubblicata dall’abate Giuseppe Fabiani, Stamperia Moückiana, Firenze, 1751. 7. S. BETA, « La prima traduzione latina della Lisistrata. Luci e ombre della versione di Andrea Divo », Quaderni Urbinati di Cultura Classica 100 (2012 (vol. 129), p. 95-114. Sur le langage particulier de la philosophie, voir J. NASSICHUK, « Strepsiades’ Latin voice : two Renaissance translations of Aristophanes’ Clouds », in S. DOUGLAS OLSON (ed.), Ancient Comedy and Reception. Essays in Honor of Jeffrey Henderson, Berlin and Boston, 2013, p. 427-446. 8. Aristophane, Cavaliers 1-5 : « Aïe ! Aïe ! Aïe ! Hi ! Malheur de malheur ! Aïe ! Aïe ! Aïe ! Maudit soit le Paphlagonien acheté récemment, le misérable ! Depuis que la malheur a voulu qu’il entrât dans la maison, il ne cesse de faire donner la raclée aux serviteurs ». Ici et dans les notes suivantes la traduction française est celle d’Hilaire van Daele, publiée en regard du texte grec édité par Victor Coulon dans la collection Budé, paru à partir de 1923. 9. Aristophane, Cavaliers 6-7 : « Qu’il périsse le plus misérablement du monde, avant tous les autres Paphlagoniens, avec ses diffamations ! ». 10. Aristophane, Cavaliers 16, 19-20. La citation d’Euripide vient d’Hippolyte 345. 11. Avec le sens de « départ », abitio est attesté en latin classique seulement dans Plaute, Rudens 503. 12. Aristophane, Cavaliers 40-43 : « Nous avons un maître rustre d’humeur, croqueur de fèves, prompt à s’irriter, Démos, de Pnyx, petit vieux bourru, à l’oreille dure ». 13. Aristophane, Cavaliers 100. 14. Aristophane, Cavaliers 792-793. 15. Aristophane, Cavaliers 61. 16. Aristophane, Cavaliers 129, 136, 138 et 139. 17. Aristophane, Cavaliers 143. 18. Aristophane, Cavaliers 180-181. 19. Aristophane, Cavaliers 214-219. 20. Aristophane, Cavaliers 286-287. 21. Aristophane, Cavaliers 626-633. 22. Aristophane, Cavaliers 726 ; Horace, Epistulae I, 7, 65. 23. Aristophane, Cavaliers 984-996. 24. Aristophane, Cavaliers 1378-1380. 25. Même la réplique du Charcutier, qui lui demande οὔκουν καταδακτυλικὸς σὺ τοῦ λαλητικοῦ ; (v. 1381 : « N’es-tu pas l’habile manipulateur de cet habile phraseur ? »), est traduite par Divus sans recourir au suffixe -ivus (Igitur contra annulum illum loquacem ?). 26. Cicéron, Leges 2.26. 27. Horace, Carmina 1.27.22 ; Ovide, Métamorphoses 7.195. 28. Homeri Ilias, Andrea Divo Iustinopolitano interprete, ad verbum translata. Herodoti Halicarnassei libellus, Homeri vitam fidelissime continens, Conrado Heresbachio interprete. Cum indice copiosissimo, Venetiis, apud D. Iacob a Burgofrancho Papiensem, mense Martio, 1537 ; Homeri… Odyssea, Andrea Divo Iustinopolitano interprete, ad verbum translata. Eiusdem Batrachomyomachia, id est, Ranarum et murium pugna, Aldo Manutio Romano interprete. Eiusdem Hymni deorum 32. Georgio Dartona Cretense interprete, Venetiis, apud D. Iacob a Burgofrancho Papiensem, mense Martio, 1537. Divus traduisit aussi les Idylles de Théocrite (Theocriti Syracusani poetae clarissimi Idyllia trigintasex, recens e graeco in latinum, ad verbum translata, Andrea Divo Iustinopolitano interprete. Eiusdem Epigrammata, Bipennis, Ala, & Ara, latinitati donata, eodem Andrea Divo interprete, Venetiis, apud D. Iacob a Burgofrancho Papiensem, mense Februario, 1539). 29. J’ai emprunté une image que le même Aristophane a utilisée deux fois pour décrire sa lutte contre le « monstre » Cléon (Guêpes 1029-1037 et Paix 752-760).

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30. Sur cette traduction, voir S. BETA, « Aristophanes Venetus : i fratelli Rositini e la prima traduzione italiana del poeta comico greco (1545) », Cahiers d’études italiennes 17 (2013), p. 57-70 ; sur les traductions italiennes en général, voir R. QUAGLIA, « Su alcune traduzioni italiane di Aristofane : azzeccagarbugliando tra i secc. XVI e XIX », Maia 57 (2006), p. 349-357. 31. Sur les rapport entre la traduction de Divus et celle des Rositini, voir aussi F. SCHREIBER, « THE ETIOLOGY OF A MISINTERPRETATION : ARISTOPHANES BIRDS 30 », CLASSICAL PHILOLOGY 70 (1975), P. 208-212. 32. Aristophane, Cavaliers 1400-1401. 33. Nicodemi Frischlini Aristophanes, veteris comoediae princeps : poeta longe facetissimus & eloquentissimus : repurgatus a mendis, et imitatione Plauti atque Terentii interpretatus, ita ut fere carmen carmini, numerus numero, pes pedi, modus modo, Latinismus Graecismo respondeat, Francoforti ad Moenum, apud Iohannem Spies, 1586. Frischlin traduisit seulement cinq comédies (Ploutos, Nuées, Grenouilles, Cavaliers et Acharniens) ; ses traductions latines furent utilisées par Ludolf Küster dans l’édition intégrale des comédies d’Aristophane qu’il publia en 1710 (voir n. 6).

RÉSUMÉS

Bien que la première traduction complète d’Aristophane, qui parut en 1538, ne soit pas parfaite, le rôle qu’elle a joué dans la connaissance de son œuvre a été extrêmement important, car cette traduction remporta un vif succès et fut réimprimée six fois entre 1539 et 1597. Dans sa préface, le traducteur, Andreas Divus, un professeur de Capodistrie, déclare n’avoir pas essayé de reproduire l’élégance, la beauté et le charme des mots : il s’est contenté de la traduire de la façon la plus fidèle possible, pour exprimer les figures poétiques du style d’Aristophane. Or c’est précisément dans sa résolution de traduire le sens des mots que se trouvent les mérites et les défauts de son entreprise : on peut parler de mérites, parce que sa traduction mot à mot a permis à qui possédait une connaissance limitée de la langue grecque de comprendre le texte d’Aristophane ; mais on peut aussi parler de défauts, dans la mesure où le désir d’être toujours fidèle au texte original a produit une traduction qui est soit incorrecte soit incompréhensible. Les « savants » qui se sont occupés de cette traduction « savante » ont toujours négligé ses mérites et souligné ses défauts. Dans cette contribution, j’essaierai de souligner, à côté de défauts de Divus, ses mérites de traducteur, en analysant les Cavaliers, la plus politique de ses comédies.

Even if the first complete translation of Aristophanes, firstly appeared in 1538, was not perfect, the role it played in the knowledge of his works has been extremely important, considering that this translation was a true success and has been reprinted six times between 1539 and 1597. The translator, Andrea Divus, a professor in Koper, stated, in the preface, that he did not attempt to reproduce the elegance, the beauty and the charm of words : he contented himself with a translation the most faithful possible, able to express the figures of speech of Aristophanes’ style. Both his merits and faults lie in that choice : we can consider a merit the fact that translating verbatim allows a comprehension of Aristophanes’ text even to anyone who had a limited knowledge of the Greek language ; but we can consider as well a default the fact that his willing of faithfulness to the original produced a translation which is both incorrect and incomprehensible. The “erudite persons” who dealt with this “erudite” translation always neglected its merits and stressed its defaults. In this paper, I will try to underline, beside his defaults, his merits as translator, analysing the Horsemen, the most politic of his comedies.

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INDEX

Keywords : Andrea Divo, neologisms, Aristophanes, Horsemen, politics, Cleon, demagogue Mots-clés : Andrea Divo, néologismes, Aristophane, Cavaliers, politique, Cléon, démagogue

AUTEUR

SIMONE BETA Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne Università di Siena [email protected]

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Paroles de Paix en temps de guerre1 : Florent Chrestien et la première traduction de la Paix d’Aristophane en France (1589)

Malika Bastin-Hammou

1 En 1589 paraît à Paris, chez Fédéric Morel, une traduction en latin de la Paix d’Aristophane due à Florent Chrestien. La France est alors déchirée par les Guerres de religion, et le choix que fait Chrestien de traduire la Paix plutôt qu’une autre comédie est bien sûr à mettre en relation avec ce contexte singulier. Mais ce choix témoigne aussi d’une indépendance d’esprit et d’une curiosité caractéristiques de ce traducteur qui fut aussi polémiste et poète. C'est la première traduction séparée de la Paix, et il faudra attendre 1760 pour que paraisse une nouvelle traduction latine de cette comédie. Pendant presque deux siècles en effet, c’est la traduction de Florent Chrestien qui sera réimprimée dans les traductions complètes d’Aristophane qui se succéderont partout en Europe. Nous nous proposons ici d’examiner dans quelle mesure, par-delà le choix, original et engagé, de traduire la Paix, le travail de Florent Chrestien explique la longévité de cette traduction, et notamment en quoi elle témoigne d’une pratique de la traduction savante atypique, à l’image de la singularité de ce personnage qui, quoiqu’excellent latiniste et helléniste, et traducteur compulsif, a peu publié et nous est davantage connu pour son goût de la polémique que sa virtuosité de traducteur.

Un traducteur atypique

2 Florent Chrestien est en effet surtout célèbre pour sa querelle avec Ronsard et ses poèmes souvent considérés comme médiocres ; ses travaux de traducteur, pourtant bien plus originaux, ont peu retenu l’attention des chercheurs2.

3 Il naît en 1541 à Orléans. Son père, Guillaume Chrestien, est un humaniste qui fut le médecin de François Ier et de Henri II, auteur de traités de médecine et traducteur

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d’Hippocrate, Galien et Silvius (Jacques Dubois)3. Parti en Suisse parfaire son éducation, Florent Chrestien fréquente entre autres Henri Estienne ; ce séjour est également pour lui l’occasion de se rallier au calvinisme.

4 De retour à Paris en 1561, il fréquente le cercle de la Pléiade et la maison des Morel. Il s’oppose alors à Ronsard, sous le pseudonyme « La Baronie », lors de la « guerre des pamphlets » entre poètes catholiques et protestants4. Ronsard en effet se posait en défenseur du catholicisme ; Florent Chrestien s’en prit à lui, critiquant notamment ses prétentions poétiques, comme dans cette Seconde Response de F. de la Baronie à Messire Pierre de Ronsard : « D’aurat t’a expliqué quelques livres d’Homère, Quelques hymnes d’Orphée, ou bien de Callimach, Et pource incontinent tu fais de l’Antimach, Tu enfles ton gosier, pensant estre en la France Seul à qui Apollon a vendu sa science5. »

5 Ronsard lui répondit violemment dans son Epistre au Lecteur : « Gentil barboilleur de papier, qui m’as pris à partie, tu ne sçais rien de cest art que tu n’ayes aprins dedans les œuvres de mes compaignons ou dedans les miennes, comme vray singe de nos escris6. »

6 Dix ans plus tard, les deux hommes étaient réconciliés ; mais la querelle fit du tort à Florent Chrestien, que la postérité, qui retint le nom de Ronsard plus que celui de Chrestien, eut tendance à juger digne des insultes que lui avait adressées Ronsard7.

7 En 1566 il devient précepteur d’Henri de Navarre, futur Henri IV, à qui il restera fidèle. On le retrouve en 1574 établi à Vendôme, en tant qu’auditeur des comptes et secrétaire ordinaire des finances du Roy de Navarre ; peut-être y exerce-t-il également les fonctions de Bibliothécaire du Roy8. De Vendôme, il se rend souvent à Paris où il fréquente Jean Dorat et Fédéric Morel, qui sont les auteurs des textes liminaires en grec de la traduction de la Paix, mais aussi Nicolas Goulu, les poètes de la Pléiade, Salomon Certon, Jacques Grévin, Rapin, Buchanan, Scaliger et bien d’autres9. C’est alors qu’il compose ses traductions latines d’œuvres grecques et de nombreux commentaires10.

8 En 1589, date de la parution de la Paix, après l’assassinat d’Henri III, un conflit oppose catholiques et protestants à Vendôme. La ville est prise par les Ligueurs, avec qui Florent Chrestien, quoique protestant, parvient à s’entendre. Quand la ville est reprise par les partisans d’Henri IV, il est fait prisonnier et le roi doit payer une rançon de mille écus pour qu’il soit libéré11. Ses biens confisqués, il connaît alors la disgrâce et la pauvreté, et meurt le 23 octobre 1596.

9 Certains textes font état de sa conversion tardive au catholicisme, une version que conteste Monique Mund-Döpchie, « eu égard à la rigueur et à la droiture que lui ont toujours reconnues ses amis12 » ; ce qu’il y a de sûr, c’est qu’en 1594, son goût du pamphlet était encore intact puisqu’il composa la harangue du cardinal de Pelvé de la Satire Ménipée13.

10 Florent Chrestien apparaît donc comme un poète polémiste doublé d’un érudit « doctus utraque lingua », comme l’ont souligné ses contemporains14. Tout au long de sa vie, il manifesta son goût pour la polémique et son engagement pour les causes qui lui paraissaient justes : à cette veine appartiennent ses poèmes signés « La Baronie », ses pamphlets anticatholiques, sa traduction du poème satirique de Buchanan Franciscanus, qui s’en prend aux ordres religieux catholiques15 et sa participation comme coauteur à la rédaction de la Satyre ménipée. Son ami De Thou, à qui il dédicace sa traduction de la

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Paix, lui reprocha d’ailleurs en 1559 son penchant pour la satire, témoignant ainsi du fait qu’il s’y adonnait plus que de raison.

11 Mais c’est aussi un érudit soucieux de transmission. Il fut un temps professeur : même si l’expérience fut de courte durée et, semble-t-il, plutôt malheureuse, il fut Précepteur d’Henri de Navarre, à qui il fit traduire la Guerre des Gaules, et écrivit, sur cette expérience : « Vray est que mes paroles lui ont peu servy. » Mais c’est dans ses commentaires et ses traductions que ce goût de la transmission se manifeste le mieux. Délié de ses fonctions de précepteur, il s’adonna en effet au commentaire savant, avec Catulle, Tibulle, Properce, Sénèque et certaines de ses traductions sont agrémentées de commentaires ; c’est le cas de celle de la Paix. Excellent helléniste et latiniste, c’est dans l’exercice de la traduction plutôt que dans celui de l’édition qu’il manifesta sa maîtrise de ces langues qui, conjuguée à ses talents de poète, de pédagogue, et de commentateur firent de lui un traducteur hors-pair, et hors-normes.

12 De fait, la variété, la qualité et l’originalité des traductions de Florent Chrestien surprennent.

13 On connaît surtout de lui ses traductions en français, et tout particulièrement celle de la tragédie latine de Buchanan Jephthes sive Votum (Jephté ou le Vœu), publiée en 1567 chez Louis Rabier. Cette traduction de Buchanan a été récemment étudiée en détail par Carine Ferradou16 qui a pu montrer que « Florent Chrestien, tout en restant fidèle à l’esprit de l’Écossais, […] fait preuve de qualités poétiques innovantes, dans la maîtrise de la versification française […] alors en plein développement sous l’influence de la Pléiade, comme dans l’adaptation des procédés rhétoriques traditionnels à la poésie (comme l’harmonie imitative et le chiasme), au profit de l’approfondissement du sens tragique de l’intrigue » ; surtout, son analyse comparée des deux textes révèle comment « par de subtils ajouts Chrestien donne à son œuvre une forte connotation chrétienne, voire protestante, à l’inverse de Buchanan qui jouait sur l’ambiguïté et l’universalité d’une histoire dont la portée symbolique a été soulignée dès la première littérature chrétienne ». Ainsi, Chrestien choisit et traduit ses textes en fonction d’un message qu’il entend délivrer et met son érudition au service de ses engagements.

14 Traducteur du latin en français, il s’amusa par ailleurs à traduire Catulle en grec, Rémi Belleau en latin, et les quatrains de Pibrac en latin et en grec. Traducteur en vernaculaire, du vernaculaire, en latin, du latin, en grec, du grec – autant de facettes, mais aussi autant de compétences que Chrestien met à profit dans sa pratique de la traduction du grec au latin, son domaine de prédilection.

15 Dès 1575 il traduit le traité d’Oppien sur la chasse, mais sa préférence va aux textes en vers, qu’il traduit en vers latins : les Sept contre Thèbes d’Eschyle (1585), Philoctète de Sophocle (1586), la Paix d’Aristophane (1589), l’Andromaque d’Euripide (1594) mais aussi, publiés de manière posthume, le Cyclope d’Euripide (1599) et à nouveau deux comédies d’Aristophane, les Guêpes et Lysistrata, qui parurent, avec la Paix, dans l’édition complète des comédies d’Aristophane publiée à Genève en 1607 par Émile Porte. À quoi il faut ajouter la traduction, aujourd’hui perdue, du Prométhée enchaîné. À côté de ces traductions d’œuvres dramatiques on trouve celles d’épigrammes de l’Anthologie, de Héro et Léandre de Musée et d’un court poème astronomique publié en 1586, que Chrestien attribue à Georges Pisidès, intitulé Spherus vetus graeca (1587).

16 On le voit, les traductions du grec au latin dominent ; et parmi elles, les traductions d’auteurs dramatiques. En revanche, Chrestien semble avoir eu à cœur de traduire aussi bien des tragédies que des comédies et même un drame satyrique, tous auteurs

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confondus, avec, peut-être, une petite préférence pour Euripide, dont il traduit quatre pièces, et Aristophane, avec trois traductions, contre deux de Sophocle et deux d’Eschyle. Mais il faut rester prudent, car Chrestien a beaucoup plus traduit que publié et il laisse à sa mort de nombreux inédits, comme en témoigne une lettre à Scaliger de son fils Claude, qui s’employa à en faire paraître certains17.

17 Ce qui frappe surtout, c’est qu’il ne choisit pas de traduire les textes les plus en vogue et leur préfère ceux auxquels personne ou presque ne s’est encore intéressé, comme en témoignent ses traductions du Cyclope d’Euripide, qui connut une édition posthume, des Trachiniennes de Sophocle, que son fils mentionne dans sa lettre à Scaliger et qui est aujourd’hui perdue, des Bacchantes d’Euripide, également mentionnée par son fils, des Guêpes d’Aristophane et plus encore de la sulfureuse Lysistrata. C’est à cet éclectisme de curieux qu’il faut rattacher, me semble-t-il, le choix de traduire la Paix, en même temps qu’aux motivations politiques déjà mentionnées. Or cette audace dans le choix des textes s’avère payante.

18 En effet, non seulement Chrestien choisit un texte qui a peu retenu l’attention avant lui, mais la traduction qu’il en propose s’impose pour presque deux siècles à l’ensemble de l’Europe. Elle sera rééditée après sa mort, en 1607, accompagnée de ses traductions de Lysistrata et des Guêpes, grâce à son fils Claude Chrestien, par Émile Porte, dans l’édition complète des comédies d’Aristophane, aux côtés de traductions d’Andrea Divo et de Nicodemus Frischlin18, puis en 1625 dans l’édition de Scaliger à Leiden19, en 1670 dans l’édition de Jean Ravestein parue à Amsterdam20, dans celle de Küster parue en 1710 à Amsterdam également21, et il faut attendre 1760 pour que paraisse une nouvelle traduction latine de la Paix, dans l’édition de Stephanus Berglerus (Stephan Bergler)22. Pendant presque deux siècles donc, de 1589 à 1760, c’est la traduction latine de Florent Chrestien qui, pour la Paix, fait référence en Europe.

La Paix et les traductions d’Aristophane avant Chrestien : ad verbum, bilinguisme et imitation des comiques latins

19 La comparaison avec les traductions d’Aristophane qui l’ont précédée est révélatrice de l’audace dont fait preuve Chrestien. Avant 1589, Aristophane est loin d’être un inconnu. Édité dès la fin du XVe siècle – la princeps, due à Marcus Musurus, paraît chez Alde Manuce en 1498 – le poète comique est rapidement traduit en latin.

20 C’est le Ploutos qui retient d’abord l’intérêt des Humanistes. Avant même la princeps, en 1440, Leonardo Bruni traduit le début de la pièce23 ; puis en 1501, juste après la parution de l’aldine, paraît à Parme la première traduction complète du Ploutos en vers latins, due à Franciscus Passius24. Elle est suivie d’une autre, publiée en 1531 à Nüremberg, due à Thomas Venatorius25 ; puis d’une autre encore, en 1533 à Anvers, due à Adrianus Chilius, également en vers26.

21 En 1538 paraît la traduction complète d’Andreas Divus, et c’est alors seulement que la Paix est traduite pour la première fois en latin.

22 D’autres traductions d’Aristophane en latin suivront, avant que Chrestien ne publie la sienne : Charles Girard traduit le Ploutos en 154927 ; Coriolanus Martiranus fait paraître en 1556 à Naples une traduction latine du même Ploutos, accompagnée de celle des Nuées28 ; Lambertus Hortensius, de 1556 à 1561, fait paraître à Utrecht une traduction

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du Ploutos, des Nuées, des Cavaliers puis des Grenouilles29 ; en 1575, Nicasius Ellebodius traduit en latin les Thesmophories et Lysistrata30. Enfin, Nicodemus Frischlin31, en 1586, fait paraître à Francfort une traduction latine dans le style de la comédie latine du Ploutos, des Cavaliers, des Nuées, des Grenouilles et des Acharniens32.

23 Aristophane est donc bien traduit au XVIe s., majoritairement en latin, et, si les premières décennies se sont concentrées sur le Ploutos, la pièce la mieux transmise et la plus simple d’Aristophane, parce que la moins dépendante du contexte politique et poétique qui l’a vue naître, dans la seconde partie du siècle, d’autres pièces retiennent l’attention, à commencer par les Nuées, conformément à la transmission antique et médiévale, qui a favorisé ces deux comédies.

24 Mais la Paix ne fait pas partie des comédies qui ont eu l’honneur d’une traduction séparée – pas plus que la comédie des Guêpes, que Chrestien a également traduite. Seul Andrea Divo a traduit ces comédies, dans sa traduction complète parue en 1538 ; or il s’agissait d’une traduction ad verbum, très inélégante – voire incompréhensible33. Si on la compare aux autres traductions d’Aristophane parues en France, la traduction de Florent Chrestien se distingue également par son audace.

25 À la différence de Cabedius, l’auteur de la première traduction latine du Ploutos en France (1547), Chrestien propose un texte bilingue agrémenté de commentaires. L’on passe ainsi facilement du grec au latin, qui se font face, et les commentaires, réunis à la fin de l’ouvrage, éclairent considérablement la lecture. Celle de Charles Girard, en 1549, proposait bien un texte bilingue et commenté, mais textes, traduction et commentaire y étaient entremêlés, la traduction latine prenant la suite du texte grec sur une même page, qui contenait également les commentaires, rendant ainsi la lecture beaucoup moins aisée34. Girard, qui était professeur de grec à l’université de Bourges, avait sans doute plus à cœur de fournir à ses étudiants un outil facilitant l’apprentissage du grec, et donc la circulation entre texte-traduction et commentaire, que de proposer une traduction élégante et lisible d’une traite.

26 Chrestien, lui se soucie de proposer une traduction lisible, et fidèle non seulement à la lettre mais au style du poète comique : sa traduction est en vers et se revendique explicitement des comédies latines, elles-mêmes considérées comme des traductions des comédies grecques.

27 Ce choix de traduire Aristophane en vers distingue le travail de Chrestien de celui de Girard, mais il n’est pas nouveau pour autant : il s’inscrit dans une tradition de traduction en vers du Ploutos, initiée par Franciscus Passius en 1501, continuée régulièrement jusqu’à Chrestien, et qui disparaîtra au milieu du XVIIIe siècle : dans son édition de 1760 publiée à Leyde, Stephanus Berglerus remplace les traductions en vers de Frischlin et Chrestien qui figuraient encore dans l’édition de 1710 de Küster par de nouvelles traductions en prose. Le temps où les traducteurs revendiquaient l’habileté métrique de leur traduction est alors révolu, et fait place à un souci de précision philologique.

28 On assiste à une évolution similaire en ce qui concerne les traductions latines de tragédies grecques, et que l’on peut faire remonter cette fois à Érasme, qui fut le premier, en 1506, à traduire en latin des tragédies grecques, avec Hécube et Iphigénie à Aulis. Comme l’a bien montré Thomas Baier dans l’étude qu’il a consacrée aux traductions latines d’Aristophane par Frischlin, Érasme, dans sa traduction d’Hécube, s’efforce de ne pas traduire dans le style des poètes latins, qu’il juge ampoulé 35. Les licences autorisées par Cicéron dans la pratique de la traduction lui semblent

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excessives ; il témoigne en cela, comme l’a bien vu Thomas Baier, d’une attitude nouvelle dans la conception de la traduction : « Hatten die Alten das interpretari vor allem als schöpferische Anverwandlung oder als non verba sed vim exprimere ausgefasst, so macht sich hier das Bedürfnis nach vim et verba exprimere bemerkbar. Der Respekt vor den Schriften der Griechen ist zu gross, als dass man glaubt, sie allzu frei adaptieren zu dürfen36. » Mais avec Iphigénie à Aulis, il semble changer d’avis, et prend plus de libertés avec la métrique, en s’autorisant de l’exemple de Sénèque. On note donc dès le début de cette tradition de traduction du théâtre grec en vers latin à la fois le souci d’être exact et la nécessité d’une souplesse face à ce principe, notamment en ce qui concerne la métrique et les parties chorales.

29 Mais plus que la fidélité métrique, c’est l’imitation du style des comiques latins que revendique Chrestien, qui fait figurer sur sa première page « Cum latina Graeci Dramatiis Interpretatione Latinorum Comicorum stylum imitata », une revendication déjà présente dans les titres de ses traductions latines de tragédies grecques37, et également affichée par Nicodemus Frischlin, dont il connaissait probablement l’édition et la traduction de cinq comédies parues trois ans plus tôt.

30 Ainsi, dans son adresse à Jacques-Auguste de Thou, Chrestien écrit : In hac scena recognosces Pacem Aristophanicam quam ego iam pridem […] attentius perlectam, ex Palliata feci Togatam, tempore paludato & galeato, dum veram in motibus Gallicanis Pacem desideramus. Scilicet os interpolavimus antiquo Poetae senique caluo, neque hac injuria contenti, oggessimus tumentes plagas, eae sunt correctiones aliquot & Glossematum commentarii38. « Sur cette scène, tu reconnaîtras la Paix d’Aristophane, que j’ai pour ma part lue en entier assez attentivement depuis longtemps […] et dont j’ai fait une Togata, de Palliata qu’elle était, dans une époque arborant tenue militaire et casque, tandis qu’au milieu des troubles qui agitent la France, nous aspirons à une Paix véritable. Naturellement, nous avons transformé le visage de l’antique Poète et du vieillard chauve, et, non content de cette offense, nous avons infligé en quantité blessures et abcès, c’est-à-dire un bon nombre de corrections et commentaires de termes rares. »

31 Mais qu’entend-on exactement par traduction « dans le style des poètes latins » ? Il me semble que cela évolue au cours du siècle et si, avec Erasme, la question est d’emblée posée, elle ne se pose pas de la même manière à l’époque de Frischlin et Chrestien – que ce soit du point de vue de la métrique, du choix du lexique ou encore de la structure des pièces.

32 Le souci de respecter la métrique grecque se traduit par le choix de rendre les trimètres iambiques par des sénaires iambiques, et les parties chorales par des vers qui s’en approchent. En revanche, on ne voit pas bien en quoi la Paix est une Palliata (comédie latine à sujet grec, inspirée de Ménandre, et pratiquée par Plaute et Térence) et la traduction de Chrestien, une Togata (comédie latine à sujet latin) : elle est certes en latin, mais elle se passe bien en Grèce, à la manière d’une Palliata – si ce n’est que la Palliata s’inspire de la comédie nouvelle, tandis que la Paix est une comédie ancienne : plus que générique, la revendication est ici linguistique et stylistique, et semble surtout signaler qu’il ne s’agit pas d’une traduction ad verbum, et encore moins ad versum. Or là aussi, Chrestien initie une tradition, puisque cette revendication de l’imitation du style des comiques latins pour aborder Aristophane continue d’être affichée bien au-delà du XVIe siècle. Madame Dacier, dans ses traductions françaises du Ploutos et des Nuées, y recourt. Elle s’en justifie dans ses Remarques – il s’agit de rendre le poète grec compatible avec le goût du siècle – et s’en autorise pour diviser les comédies en actes et

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scènes et déplacer la parabase des Nuées, qui se situe au beau milieu de la pièce grecque, pour la faire figurer en tête de sa traduction, en guise de prologue39.

Prologue, parabase et poésie polémique

33 Chrestien lui aussi se pose la question du Prologue latin et de sa proximité avec la parabase, mais il y répond en d’autres termes, qui me semblent emblématiques de sa manière d’utiliser le modèle de la comédie latine pour appréhender la comédie grecque. Il ne déplace pas la parabase de la Paix ; en revanche, il sacrifie lui aussi à la tradition du prologue latin, ce texte métathéâtral dans lequel le personnage du Prologus, qui représente plus ou moins le poète, invite avec esprit ses spectateurs à l’applaudir et se défend face à d’imaginaires détracteurs. Mais, plutôt que de déplacer la parabase comme le fera plus tard Madame Dacier, Chrestien compose un prologue en latin, dans lequel il s’adresse à ses spectateurs-lecteurs : Salvere multum jubeo lectores meos quos autumo esse nunc vicem spectantium40. « Je salue abondamment mes lecteurs Dont j’affirme qu’ils jouent à présent le rôle de spectateurs. »

34 Tout le prologue consiste en un jeu reposant sur cette situation d’énonciation particulière du début de comédie latine, où le personnage du Prologue s’adresse à des spectateurs, quand Chrestien, dont le texte n’a pas pour horizon la scène, s’adresse à ses lecteurs, et revendique de ne pas recourir à des comédiens. Mais il s’apparente également à une parabase.

35 Comme dans une parabase en effet, il justifie son sujet, pour le moins polémique et de circonstance. Quand la préface rappelait la période troublée que traversait alors la France (tempore paludato & galeato, dum veram in motibus Gallicanis Pacem desideramus), le prologue revendique le choix d’un message pacifiste, tout en répondant par anticipation aux critiques qui ne manqueront pas d’advenir. Mieux, il les met en scène, à la manière du Prologus latin, mais aussi d’Aristophane lui-même qui, dans le prologue de la Paix, imagine un dialogue entre ses spectateurs critiquant sa pièce. Chez Chrestien, ce sont les partisans de la guerre qui prennent la parole : Ecce, Christianum non decet Optare Pacem, clamitant : mortem oppetat Pacis petitor : scilicet Christus tulit Sirempse legem, non enim Pacem dare Venit, sed arma. « Il ne convient pas qu’un Chrétien/que Chrestien Choisisse la Paix, clament-ils : il va au-devant de la mort Celui qui réclame la Paix : sans doute Christ a apporté une loi semblable : il n’est pas venu Donner la Paix, mais les armes. »

36 À la manière enfin d’Aristophane qui, dans ses parabases, loue son œuvre et ses qualités de poète, Chrestien se pose en traducteur et expose son travail : Irena Aristophani vetus Comoedia est, FLORENS recentat atque vortit barbare : Hoc est Latine quantum & ut potuit, neque Vanos latratus assis istorum facit, Qui docta in hisce vellicant con amina

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« La Paix d’Aristophane est une Comédie ancienne, Florent la reprend et la traduit en langue barbare : C’est-à-dire en latin, autant que possible, et Il ne fait pas grand cas des vains aboiements Qui dénigrent les efforts savants. »

37 Ainsi, Chrestien ne va pas jusqu’à bouleverser la structure de la comédie ancienne, comme le fera Anne Dacier, mais, en poète qu’il est, il compose « à la manière de » un prologue latin particulièrement aristophanesque, et se montre dans sa pratique de la traduction « dans le style des comiques latins » bien plus audacieux que ses contemporains, qui se limitent à une imitation métrique. Et c’est toujours dans l’esprit d’Aristophane qu’il choisit non seulement un sujet mais un ton polémiques, là où les audaces de Frischlin ou Dacier ne sont que poétiques.

« Paroles de Paix en temps de guerre » : une traduction d’actualité

38 Chrestien initie là une longue tradition de traductions puis de mises en scène engagées de cette comédie, en lien avec un contexte guerrier. Alors que la question de la guerre est omniprésente dans l’œuvre d’Aristophane qui a composé la majorité de ses comédies pendant la guerre du Péloponnèse, la Paix est celle que l’on traduit ou monte quand il s’agit de délivrer un message pacifiste, de faire entendre des paroles de paix en temps de guerre. Les Acharniens, Lysistrata délivrent un message tout aussi pacifiste, mais, sans doute parce que la seconde est jugée obscène, et que le titre de la première est moins parlant, on leur préfère systématiquement, quand il s’agit de faire entendre un message pacifiste, la Paix41.

39 Cette audace, les textes liminaires ne manquent pas de la souligner. Dorat le premier relève l’opportunité de cette traduction : Ὦ χάριεν ποίημα καὶ οὐκ ἀπροσδιόνυσον ἐν παρεόντι χρόνῳ τῷ πολεμουθορύβῳ42. « Gracieux poème, et non hors de propos en ces temps de tumulte et de guerre. »

40 Puis Fédéric Morel à son tour, à la fin de son texte :

Δοῦρ ' ἴθι νύμφα φίλη πολέων σώτειρα βροτῶν τε Οὐκ ὄναρ, ἀλλ' ὕπαρ, οὐκ ἐν δράματι αὐτὰρ ἐπ' ἔργῳ Κελτῶν μειλίσσουσα νόον θεὰ θυμολεόντων·43 « Viens ici, chère nymphe qui sauve aussi bien les villes que les mortels Non en rêve, mais vision réelle, non au théâtre, mais pour de bon Ô déesse qui calme les esprits des Celtes au cœur de lion. »

41 Et Chrestien, on l’a vu, s’en glorifie aussi bien dans sa dédicace à Jacques-Auguste de Thou que dans son Prologue.

Traduire Aristophane : quelques problèmes récurrents, et les solutions de Florent Chrestien

42 Chrestien, en choisissant cette comédie et en la mettant en relation avec les événements contemporains, se pose en traducteur engagé et fait preuve d’originalité.

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Sa pratique de la traduction est-elle, pour autant, si différente de celle de ses prédécesseurs ?

43 Si on compare sa traduction de la Paix à celle d’Andreas Divus, c’est incontestable : il propose un ouvrage bilingue, avec une traduction en vers, témoignant surtout d’une maîtrise du grec qui faisait défaut à son prédécesseur. Mais si on la compare aux autres traductions latines en prenant pour critère les choix de traduction qui se posent à tout traducteur d’Arisotphane, Chrestien ne diffère pas autant qu’on pourrait l’imaginer de ses prédécesseurs. Je me limiterai ici à deux écueils majeurs : la scatologie et les jeux de mots, dont le traitement me semble particulièrement révélateur du rapport à la langue.

44 L’obscénité et la scatologie ne l’effarouchent pas plus que ses prédécesseurs – alors même qu’en choisissant la Paix, dont le prologue est l’un des textes les plus scatologiques de l’histoire de la littérature, il ne se simplifiait pas la tâche. La pâtée du bousier est bien « ex aselli stercore », faite de crottin d’âne (ἐξ ὀνίδων, v.4), et on pourrait même dire dans ce cas que Chrestien explicite ce que le grec gardait implicite, n’hésitant pas à traduire littéralement les v. 149-153 : Ἐμοὶ μελήσει ταῦτα γ' . Ἀλλὰ χαίρετε. Ὑμεῖς δέ γ', ὑπὲρ ὧν τοὺς πόνους ἐγὼ πονῶ, μὴ βδεῖτε μηδὲ χέζεθ' ἡμερῶν τριῶν· ὡς εἰ μετέωρος οὗτος ὢν ὀσφρήσεται, κατωκάρα ῥίψας με βουκολήσεται. « J’y prendrai garde ; allez, au revoir. Quant à vous, pour qui je me donne cette peine, Interdiction de péter et de chier pendant trois jours. Car si celui-ci, de là-haut, renifle, Il me fera tomber la tête en bas pour aller paître. »

45 est rendu par : Satis hoc cavebo : caeterum valete vos Quorum labores gratia istos exsequor, Triduumque totum ne cacate aut pedite. Ne si iste in altum subvolans olfecerit Fallens me adaxit, praecipemque perduit.

46 Mais ce respect du grec pose problème quand il rencontre des jeux de mots. Il pèche alors par excès de fidélité au texte grec. Au v. 171, Aristophane joue sur la paronymie entre le verbe χέζειν, « chier », et la cité de Chios, dans l’île du même nom : [...] Ὡς ἤν τι πεσὼν ἐνθένδε πάθω, τοὐμοῦ θενάτου πέντε τάλανθ' ἡ πόλις ἡ Χίων διὰ τὸν σὸν πρωκτὸν ὀήσει « … car si en tombant d’ici il m’arrive quelque malheur, ma mort coûtera cinq talents à la cité des Chiotes, à cause de ton derrière »,

47 devient chez Chrestien : […] ne si Forte hic corruo perditus urbs Chia Culi ergo tui pro morte mea Mulctetur quinque talentis

48 En conservant le nom de la ville latinisé, Chrestien perd le jeu de mot pour lequel il avait été choisi ; mais il l’explicite en détail dans ses commentaria glossemata, qui apparaissent finalement plus comme des béquilles à la traduction que comme des commentaires savants :

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Notat Chios & culi laxitatem eis obijcit, tanquam semper paratis ad aluum egerendam, vel aliud quod dicere nolo. Obiter etiam Atheniensium mores tangit calumniantium & castigantium alias civitates, ac velut proverbium tollentium, Chius est qui cacat. (De chiorum autem spurca licentia notum illud quod a Plutarcho refertur in Laconicis dictis χέζοντας τοῖς χίοις ἐφιᾶσιν ἀσελγαίνειν) Fortassis etiam per nomen Chium alludit ad χέζοντας quod Gallico Idiomati pronum est & facile. Il blâme les habitants de Chios et il leur reproche la largeur de leur cul, parce qu’ils sont toujours prêts, pour ainsi dire, à évacuer des excréments, ou bien autre chose que je ne veux pas dire. En passant également il raille les mœurs des Athéniens qui aiment les chicanes et punissent les autres cités, et élèvent au rang de proverbe « Le Chiote est celui qui chie ». (Mais à propos de la grossière licence des Chiotes, on connaît ce que rapporte Plutarque dans les Apophtegmes des Lacédémoniens : τοῖς χίοις ἐφιᾶσιν ἀσελγαίνειν). Peut-être aussi fait-il allusion avec le nom « Chiote », au verbe χέζοντας, qu’il est facile de rendre en français44.

49 Il est en revanche intéressant de noter que Chrestien, traducteur tous azimuts, semble ici regretter de ne pas pouvoir traduire en français, langue qui fournit en effet un verbe qui convient parfaitement à la transposition de cette paronymie grecque !

50 Si les commentaires permettent de venir au secours de la traduction de ce jeu de mots, en revanche, quand il rencontre l’expression grecque ἐς κόρακας, il choisit de l’omettre : v. 117 la petite fille de Trygée s’étonne de ce que son père l’abandonne pour aller… aux corbeaux, ἐς κόρακας βαδιεῖ. À nouveau, une note vient expliquer le passage, et à nouveau son intérêt réside moins dans l’explication donnée que dans les tentatives insatisfaisantes de traduction dont elle fait état, et notamment des traductions qui auraient été possibles dans d’autres langues : « Idiotismus Italicus inde fortassis dixit, va in mal’hora45. »

51 Cette aisance à passer d’une langue ancienne à l’autre, mais aussi d’un vernaculaire à l’autre, est caractéristique de Florent Chrestien, ce traducteur qui manie les langues, sans se contenter de les connaître. Se dessine ainsi avec Chrestien une figure que, me semble-t-il, il faut distinguer de celle de l’érudit. Ce qui l’intéresse, par-delà la portée politique et poétique du texte qu’il a choisi, c’est sa langue, et la manière de la rendre de la façon la plus idiomatique possible, « quantum & ut potuit », comme il l’écrit dans sa préface.

52 Scaliger a loué les talents de traducteur de Chrestien, qui a su emprunter aux anciens poètes latins comme aux auteurs récents le meilleur de leur art46. Plus récemment, Monique Mund-Döpchie a elle aussi reconnu l’exceptionnelle élégance de ses traductions : « Notre humaniste entend le grec et serre l’original d’assez près, tout en témoignant à chaque instant d’une attitude souple ; car il préfère écrire dans une langue fluide et claire plutôt que rendre maladroitement et littéralement la moindre nuance, le moindre détail. Cette liberté créatrice va de pair avec le souci constant de transmettre le mieux possible la force originelle du texte grec, quitte à en transposer l’expression. » Érudit et poète, savant mais présent à son temps, amoureux des langues classiques qu’il connaît parfaitement, Florent Chrestien révèle avec la Paix une figure de traducteur complexe et complète, distincte de celle de l’érudit, et s’affirme comme un jalon important de l’histoire de la réception d’Aristophane.

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NOTES

1. Je reprends ici le titre du volume collectif qui contient mon article sur les mises en scène de la Paix d’Aristophane en France au XXe s., et qui est à l’origine du présent article : S. CAUCANAS, R. CAZALS et N. OFFENSTADT (sous la direction de), Paroles de paix en temps de guerre. Actes du Colloque international de Carcassonne, Toulouse, Privat, 2006. 2. Voir cependant F. VIAN, « Florent Chrestien, lecteur et traducteur d’Apollonios de Rhodes », Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance XXXIV-3 (1972), p. 471-482 ; M. MUND-DÖPCHIE, La survie d’Eschyle à la Renaissance. Éditions, traductions, commentaires et imitations, Louvain, Peeters, 1984, ch. 12, « Les Sept contre Thèbes de Florent Chrestien (1585) » ; C. FERRADOU, « Jephté, tragédie tirée du latin de George Buchanan : Florent Chrestien traducteur, poète et polémiste », Études-Epistémè 23 (2013), en ligne. 3. B. JACOBSEN, Florent Chrestien. Ein Protestant und Humanist in Frankreich zur Zeit der Religionskriege, München, Wilhelm Fink Verlag, 1973, p. 164. Les éléments de la biographie de Chrestien fournis ici viennent du premier chapitre de cet ouvrage, dont je résume ici le propos. 4. Voir F. CHARBONNIER, La Poésie française et les guerres de religion (1560-1574), Paris, 1920, Slatkine Reprints, 1970 ; D. MÉNAGER, Ronsard, le Roi, le poète et les hommes, Genève, Droz, 1979, IIIe section, p. 187-274 ; J. PINEAUX, La Poésie des protestants de langue française (1559-1598), Paris, Klincksieck, 1971, p. 178-227 et p. 332 et La Polémique protestante contre Ronsard, Paris, STFM, Didier, 1973. 5. [Florent Chrestien], Seconde Response de F. de la Baronie à Messire Pierre de Ronsard, s.l. [Orléans ?], s.n., 1563 [Il n’y a pas de trace de la Première Responce]. Voir également [Florent Chrestien ?], Le Temple de Ronsard, où la légende de sa vie est briefvement descrite, Genève, s.n., [juillet] 1563 et [Florent Chrestien], Apologie ou deffence d’un homme chrestien pour imposer silence aus sottes reprehensions de M. Pierre Ronsard, soy disant non seulement Poëte, mais aussi maistre des Poëtastres, s.l.n.n., 1564 [décembre 1563]. Pour une analyse du rôle et des écrits de Chrestien dans la querelle, voir F. ROUGET, « Ronsard et ses adversaires protestants : une relation parodique », Seizième siècle 2 (2006), p. 79-94 et plus particulièrement p. 87-88 et 91-94. 6. Ronsard, Epistre au lecteur par laquelle succinctement l’autheur respond à ses calomniateurs dans Responce…, Paris, G. Buon, 1564. 7. Sur cette querelle, voir I. SILVER, Ronsard and the Hellenic Renaissance in France, St Louis, Washington University, 1961, p. 39 et 72 ; R. VERGÈS, « Ronsard et Florent Chrestien », in Mélanges de Littérature, d’Histoire et de Philologie offerts à Paul Laumonier, Paris, Droz, 1935, p. 257-267 ; P. PEDRIZET, Ronsard et la Réforme, Paris, Fischbacher, 1902, p. 30-40 ; J. PINEAUX, « Ronsard et les poètes antiques, vu par ses adversaires protestants », in Actes du Congrès de Lyon (1958) de l’Association Guillaume Budé, Paris, Les Belles Lettres, 1960, p. 410-411. 8. JACOBSEN, p. 32. 9. JACOBSEN, p. 79-140. 10. JACOBSEN, p. 166. 11. JACOBSEN, p. 37-40. 12. MUND-DÖPCHIE, 1984, ch. 12, p. 310. 13. Il s’agit d’une œuvre collective satirique écrite en vers et en prose, sur les États généraux réunis en 1593 par le duc de Mayenne, le chef de la Ligue, qui souhaitait voir élu un roi catholique. Voir M. MARTIN (éd.), Satyre Menippee de la Vertu du Catholicon d’Espagne et de la tenue des Estats de Paris, Paris, Champion, 2007. 14. Scaliger écrivit de lui qu’il était « excellentissimus poeta gracus, latinus, gallius ». 15. Le Cordelier ou le saint François de George Buchanan, prince des poètes de ce temps… 16. FERRADOU, en ligne.

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17. La plupart semblent perdus. La lettre à Scaliger mentionne la traduction latine d’Apollonios de Rhodes, qu’a étudiée Francis Vian. Voir la lettre du 16 août 1605 de Claude Chrestien à Scaliger, in P. BOTLEY & D. VAN MIERT (éds.), The Correspondence of Joseph Justus Scaliger, Genève, Droz, 2012, tome VI, p. 118-121. 18. Aristophanis Comoediae Undecim, cum scholis antiquis, quae tudio & opera Nobilis viri Odoardi Biseti Carlaei sunt quamplurimis locis acurate emendata, & perpetuus novis Scholiis illustrata. Adque etiam accesserunt ejusdem in duas posteriores novi Commentarii : opera tamen & studio Doctissimi viri D. Aemylii Franscisci Porti Cretensis filii ex Biseti autographo excripti & in ordinem digesti. Quae ad hanc editionem accesserunt praeterea pagina 36. demonstrat, Sumptibus Caldorianae Societatis, M.D C. VII. 19. Aristophanis comoediae undecim, Graece & Latine, Cum Indice Paroemiarum selectiorum, & Emendationibus virorum doctorum, praecipue Josephi SCALIGERI. Accesserunt praeterea fragmenta Ejusdem ineditarum Comoediarum Aristophanis. LUGDUNI BATAVORUM. Apud Joannem Maire. 1624. 20. Aristophanis Comoediae undecim. Graece et Latine. Editio Novissima. Amstelodami, Apud Joh. Ravesteynium. 1670. 21. ARISTOPHANIS COMOEDIAE UNDECIM. GRAECE ET LATINE. EX CODD. MSS. EMENDATAE : CUM SCHOLIIS ANTIQUIS, INTER QUAE SCHOLIA IN LYSISTRATAM EX COD. VOSSIANO NUNC PRIMUM IN LUCEM PRODEUNT. ACCEDUNT NOTAE VIRORUM DOCTORUM IN OMNES COMOEDIAS : INTER QUAS NUNC PRIMUM EDUNTUR ISAACI CASAUBONI IN EQUITES ; ILLUSTRISS. EZECH. SPANHEIMII IN TRES PRIORES ; ET RICHARDI BENTLEJI IN DUAS PRIORES COMOEDIAS OBSERVATIONES. OMNIA COLLEGIT ET RECENSUIT, NOTASQUE IN NOVEM COMOEDIAS, ET QUATUOR INDICES IN FINE ADJECIT LUDOLPHUS KUSTERUS J.U.D. EXCUSUM AMSTELODAMI SUMPTIBUS THOMAS FRITSCH, BIBLIOP. LIPSIENSIS, A. MDCCX. 22. ARISTOPHANIS COMOEDIAE UNDECIM, GRAECE ET LATINE, ad fidem optimorum codicum MSS. emendatae cum nova octo comoediarum interpretatione Latina, & notis ad singulas ineditis STEPHANI BERGLERI nec non CAROLI ANDREAE DUKERI ad quatuor priores. Accedunt DEPERDITARUM COMOEDIARUM FRAGMENTA, A THEOD. CANTERO ET GUL. CODDAEO COLLECTA, earum Indices a JOH. MEURSIO & JOH. ALB. FABRICIO GIGESTI. Curante PETRO BURMANNO SECUNDO, qui praefationem praefixit. LUGDUNI BATAVORUM, Apud SAMUELEM ET JOANNEM LUCHTMANS, Academiae Typographos. MDCCLX. 23. Voir D.P. LOCKWOOD, « Leonardo Bruni’s Translation of Act I of the Plutus of Aristophanes », in G.D. HADZSITS (ed.), Classical Studies in Honor of John Carew Rolfe, Philadelphia, [1931], 1967, p. 163-172 ; M. et E. CECCHINI, Leonardo Bruni, Versione del Pluto di Aristofane, (introduzione e testo critico di), Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Teatro latino del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1965 ; L. BERNARD-PRADELLE, « La version latine du Ploutos d’Aristophane par Leonardo Bruni : une traduction expérimentale ? », à paraître. 24. Il s’agit à proprement parler plus d’une réécriture que d’une traduction ; ainsi, elle est beaucoup plus longue que l’original grec, là où Venatorius et ses successeurs s’efforceront de faire correspondre un vers à un vers. 25. Aristophanis facetissimi comici Plutus, Norimbergae apud Jo. Petreium anno M.D.XXXI. Cum privilegio. Sur Venatorius, voir T. KOLDE, « Thomas Venatorius, sein Leben und seine literarische Tätigkeit », Beiträge zur bayerischen Kirchengeschichte 13 (1965), p. 97-121 et 157-195. 26. Dirk Van Kerchove a édité cette traduction dans D. VAN KERCHOVE, « The Latin Translation of Aristophanes’ Plutus by Hadrianus Chilius, 1533 », Humanistica Lovaniensia 23 (1974), p. 42-127. 27. Aristophanis… PLUTUS, jam nunc per Carolum Girardum Bituricum & Latinus factus, & Commentariis insuper sanè quàm utiliß. recèns illustratus. EDITIO PRIMA. Cum Privilegio Regis. PARISIIS, Apud Mathurinum Dupuys, via Jacobea, sub insigni hominis sylvestris, & scuto Frobenij. M. D. XLIX 28. Coriolani Martirani Cosentini Episcopi Sancti Marci Tragoediae VIII, Medea, Electra, Hippolytus, Bacchae, Phoenissae Cyclops, Prometheus, Christus, Comoediae II Plutus, Nubes, Odysseae lib. XII, Batrachomyomachia, Argonautica. Neap. Ianus Marius Simonetta Cremonensis Neapoli excudebat, 1556. 29. Aristophanis clarissimi comici Plutus, interprete Lamberto Hortensio Montfortio. Ultrajecti. Harmannus Borculous excudebat. Anno, 1556. Cum gratia & privilegio.

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30. Voir F. SCHREIBER, « Unpublished Renaissance Emendations of Aristophanes », Transactions of the American Philological Association 105 (1975), p. 313-332. 31. Nicodemi Frischlini Aristophanes Veteris Comoediae Princeps : Poeta longe facetissimus & eloquentissimus : repurgatus a mendis, et imitatione Plauti atque Terentii interpretatus, ita ut ere Carmen Carmini, numerus numero, pes pedi, modus modo, Latinissmus Graecismo respondeat, Opus Divo Rudolpho Caesar sacrum. Francoforti ad Moenum. 32. Parallèlement à ces traductions latines, des traductions en vernaculaires commencent à se faire jour : en 1545 les frères Rositini traduisent en italien les onze comédies d’Aristophane, en se basant sur la traduction latine de Divo. Vers 1549, Ronsard aurait traduit le début du Ploutos en vers français ; et Jean-Antoine de Baïf, vers 1560, la pièce entière, en prose. Le texte supposé de Ronsard fut édité de manière posthume, et celui de Baïf, s’il a vraiment existé, est perdu. Pedro Simon Abril aurait traduit le Ploutos en espagnol. 33. Voir, dans ce volume, la contribution de Simone Beta sur la traduction des Cavaliers par Andrea Divo ainsi que S. BETA, « La prima traduzione latina della Lisistrata. Luci e ombre della versione di Andrea Divo », Quaderni Urbinati di Cultura Classica 100 (2012), p. 95-114. 34. La première comédie à avoir fait l’objet de commentaires en France à la Renaissance n’est singulièrement pas le Ploutos mais les Thesmophories : en 1545, Gilles Bourdin fait paraître ses commentaires à cette comédie, sans en publier le texte ni le traduire. 35. « Er grenzt sich deutlich gegen den Stil der römischen Tragiker ab, der Euripides nicht angemessen sei […] Offensichtlich betrachtete er, wie zu seiner Zeit üblich, die römischen Tragiker nicht als selbständige Dichter, sondern als übersetzer, und er will sie übertreffen, indem er grössere Werk – und Stiltreue beweist », T. BAIER, « Nicodemus Frischlin als Aristophanes- übersetzer », in E. STÄRK & G. VOGT-SPIRA (éds.), Dramatische Wäldchen. Festschrift für Eckard Lefèvre, Hildesheim, Olms, 2000, p. 138. 36. Ibid. 37. C’est le cas, au moins, pour ses traductions des Sept contre Thèbes (Septem Thebana Tragœdia Aeschula Stylo ad veteres tragicos Latinos accendente quam proxime fieri potuit a Q. Septimio Florente Christiano, à Paris, chez Fédéric Morel, 1585) et du Philoctète (Sophoclis Philoctetes in Lemno, stylo ad veteres tragicos latinos accedente quam proxime fieri potuit a Q. Septimio Florente Christiano. Accesserunt ejusdem glossemata ad eandem Philocteteam, à Paris, chez Fédéric Morel, 1586). 38. Lettre préface à Jacques-Auguste de Thou, p. 6. 39. « Ce discours estait à la fin du premier Acte, & faisoit la premiere partie de l’Intermede. Aristophane avait ses raisons pour le placer là plûtost qu’ailleurs ; mais comme ses raisons ne sont plus pour nous d’aucune consequence, j’ai cru qu’il m’étoit permis de le mettre à la tête de la Comedie, & d’en faire un Prologue, cela est plus à nos manieres, car aujourd’huy on ne veut rien qui interrompe le cours de l’action Theatrale » [Anne Dacier], Le Plutus et les Nuées, comédies grecques, traduites en français avec des Remarques & un Examen de chaque Piece selon les regles du Theatre, par Mlle Lefevre, Paris, Thierry et Barbin, 1684, p. 271. 40. Prologus, p. 2, v.1-2. 41. Ainsi, de toutes les comédies d’Aristophane qui nous sont parvenues, la Paix est celle qui a le plus retenu l’intérêt des metteurs en scène français au XXe s. On compte une quinzaine de mises en scène professionnelles de cette pièce, pourtant volontiers jugée médiocre et qui, aux Dionysies de 421, n’avait pas remporté la victoire. Charles Dullin la monte en 1932, et remporte un franc succès et devient, pour ainsi dire, la référence en matière de mise en scène d’Aristophane. En 1961, on compte trois mises en scène majeures faisant référence à la guerre d’Algérie : celle de Jean Vilar au TNP, d’Hubert Gignoux à Strasbourg, et de l’adaptation de Vitez à Marseille. En 1969, c’est la guerre du Vietnam qui ramène la Paix sur les planches, avec notamment une mise en scène de Marcel Maréchal à Lyon, puis une autre en 1991, pendant la guerre du Golfe, à Marseille. J’ai pu montrer ailleurs que ce choix pouvait s’expliquer par le souci, pour les metteurs en scène, de se mettre à l’abri de la censure grâce au détour par les Anciens, mais aussi de recourir à une

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pièce qui avait été conçue pour faire pression, puisqu’elle fut représentée pendant les négociations entre Athènes et Sparte. Voir M. BASTIN-HAMMOU, « Comment faire la Paix ? Autour du prétendu pacifisme d’Aristophane » in CAUCANAS, CAZALS et OFFENSTADT, 2006, p. 241-253. 42. Éloge de Dorat, p. 1, 1.11-12. 43. Éloge de Fédéric Morel, p. 8, l.10. 44. Q. Septimi Florentis Christiani in Aristophanis Irenam vel Pacem Commentaria Glossemata : Ubi aliquot veterum Grammaticorum aliorumque auctorum loci aut correcti aut animadversi. Cum Latina Graeci Dramatis Interpretatione Latinorum Comicorum stylum imitata, & eodem genere versuum cum Graecis conscripta. Lutetiae, Apud Federicum Morellum Typographum Regium, vico Bellovaco ad urbanam Morum. M.D.LXXXI. Ex privilegio regis. P. 18. Chrestien fait ici référence au texte suivant : « Des habitants de Chios qui étaient à Sparte ayant, après le repas, vomi dans la salle des éphores, et sali les sièges de ces magistrats, on s’informa d’abord avec le plus grand soin si les auteurs de cette indignité étaient des citoyens. Lorsqu’on eut découvert qu’elle venait de ces étrangers, on fit proclamer, par un décret public, qu’il était permis à des gens de Chios de faire des actions honteuses. » Plutarque, Apophtegmes des Lacédémoniens, 233a, traduction de Dominique Ricard. 45. Glossemata Commentaria, p. 49. 46. Il écrit : Veterum neque illu ignava negligentia Placet, aut novorum obscura diligentia. Florem leporis Scaenici, atque Musicae, utroque numeris temperavit et stilo, Priscis Poetis comtior, melior novis (1615, Poemata omnia, p. 47-48, cité d’après MUND-DÖPCHIE, p. 328).

RÉSUMÉS

En 1589 paraît à Paris la première traduction latine séparée de la Paix d’Aristophane, due à Florent Chrestien. Cet article examine dans quelle mesure le choix audacieux de traduire cette comédie plutôt que le Ploutos ou les Nuées, dans le contexte des Guerres de Religions, s’accompagne d’une pratique tout aussi audacieuse de la traduction savante.

In 1589 appeared in Paris the first separate Latin translation of the Peace by Aristophanes, thanks to Florent Chrestien. This paper analyses to which extent the audacious choice of translating this comedy rather than the Plutus or the Clouds, in the context of the Wars of Religion, goes along with an as well audacious practice of erudite translation.

INDEX

Mots-clés : traduction savante, Aristophane, Florent Chrestien, comédie ancienne, Renaissance, Paix Keywords : erudite translation, Aristophanes, Florent Chrestien, ancient comedy, Renaissance, Peace

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AUTEUR

MALIKA BASTIN-HAMMOU Maître de conférences en langue et littérature grecques Univ. Grenoble Alpes, LITT&ARTS [email protected]

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Archéologie des savoirs

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Back to the Archives: Elias Bickerman in the Fonds Louis Robert

Albert I. Baumgarten

1 The Fonds Louis Robert, at the Académie des Inscriptions et Belles-Lettres in Paris, was created by the donation of Mme Jeanne Robert (1910 -2002).1 It contains a large collection of material relating to the life and work of Louis Robert (1904-1985), the distinguished French historian of antiquity, the foremost epigraphist of the age, who pioneered the use of historical geography in Classics.2 Elias Bickerman (1897-1981) figures a number of times in the correspondence preserved there, both in letters he wrote to Robert and in letters that Henri Seyrig (1895-1973) wrote to Robert.3 There are six letters from Bickerman to Robert, dated March 19, 1945, November 23, 1945, January 9, 1948, April 12, 1948, June 14, 1955, and December 27, 1965 in the Fonds Louis Robert, while Bickerman is mentioned in nine letters from Seyrig to Robert, the first from July 15, 1938 and the last from August 8, 1965, with the bulk of the letters from the years of World War II and its immediate aftermath. These letters deal almost entirely with academic matters of different sorts, such as proofs of Bickerman’s articles, orders for books published on either side of the Atlantic, and reviews of books. My focus in this paper will be on the brief remarks in these letters that concern the relationship between Bickerman, Robert, and Seyrig. However, in order to give the reader a sense of this correspondence, of the typical fuller context in which the little bits and pieces from other letters quoted below appear, I reproduce in full Bickerman’s letter to Robert of March 19, 1945, the first letter in the series. Elias J. Bickerman 100 West 80th Street4 New York 24, N.Y. Le 19 Mars 1945 Mon cher ami, Je viens de recevoir votre lettre de 23.11. Je n’ai pas besoin de vous dire comme je suis content. Vous devinez que nous avons souvent pensé à vous et les vôtres, ma femme et moi. Elle est toujours souffrante, une maladie suit l’autre surtout depuis

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qu’elle a appris que sa mère a été déportée.5 La situation alimentaire en France nous enrage, mais la faute en est en partie au gouvernement français qui était plus préoccupé de “haute politique” que des choses terre à terre, et où il y avait trop d’esprit “émigré”. Ajoutez les folies administratives : toujours on ne peut pas faire entrer des cigarettes en France. Télégraphiez-moi les médicaments dont vous avez besoin, je vous les ferai parvenir le plus vite possible. Je vous ai envoyé deux colis alimentaires, d’autres suivront. Quelle est l’adresse actuelle d’Is. Lévy ?6 Je vous enverrai les livres demandés, peut-être avec les collections achetées par le gouvernement pour les bibliothèques françaises. Mille fois merci pour des soins donnés à mes livres. Ayez la bonté de lire les épreuves de mon article dans REG. Il y avait des fautes d’impression ; et ajoutez la date : Mai 1940, pour expliquer pourquoi je ne cite pas les articles de Fine (AJPh. 1940) et de Walbank (JHS 1942) etc.7 J’ai sous presse un article sur Pol. VII, 9,8 un autre sur la Seconde Guerre de Macédoine,9 et un troisième à propos de Rostovtz. Soc. History of the Hellenistic World. 10 Vous me manquez énormément pour échanger des idées, demander des renseignements, p. ex. aujourd’hui quand j’écris sur chronologie des Arsacides, d’Attale I, etc. pour Berytus.11 Ici, on est pratiquement seul.12 À propos, Grégoire13 a posé ma candidature à la chaire d’Is. Lévy à Bruxelles, devenue vacante. Parlez-en à Is. Lévy. J’y tiens beaucoup, car, en raison des chinoiseries administratives, Bruxelles est probablement la seule univ. française où je pourrais m’établir. Dussaud14 m’écrit qu’il manque de papier pour RHR. Peut être vous (ou lui) pourraient me faire parvenir par Seyrig et ses service mon Ms. laissé pour RHR.15 Quand tout sera remis en ordre, je donnerai à Dussaud, s’il y tient, d’autres articles. Chez vous j’ai laissé un article sur Salluste. Pourrait-il paraître dans REL ou Rev. de Phil. ?16 Donnez-moi de nouvelles sur Vajda,17 Liber,18 Etard,19 et saluez de ma part Palanque, qui était très convenable à Aix.20 Où est Fatzfeld ?21 Sauvaget ?22 Mais j’espère d’avoir de nouvelles par Seyrig quand il va revenir. Je vous écris en hâte, car demain une jeune fille du Secrétariat de l’École Libre va partir pour Paris, et elle prend la lettre. P.S. Vos livres étaient “recensés” dans JHS, pendant la guerre. Par Tod et Woodward. Celui-ci vous reproche d’avoir oublié quelques inscr. de Sparte. Tod est simplement enchanté. (Handwritten) Votre ami E. Bikerman Ma femme me téléphone priant de vous parvenir ses salutations et ses vœux sympathiques pour la santé de Mme Robert et de Mme votre mère.23

II

2 The documents at the Fonds Louis Robert concerning Bickerman allow a renewed and deeper insight into the two most influential and magisterial works that appeared in his lifetime :24 Der Gott der Makkabäer in 1937 and Institutions des Séleucides in 1938. The reflections on these two works stimulated by these archival finds also permit an important confirmation of the interplay of past and present, life experience and political commitment, in shaping a historian’s interpretation of the past.

3 In both Der Gott der Makkabäer and Institutions des Séleucides Bickerman displayed that special quality that made his work so distinctive. As noted by Anthony Grafton, “Given random series of official documents, Bickerman could reconstruct the bureaucracies that had produced them with an almost magical precision… Bickerman, it seems, had a kind of occult natural ability to see texts as they were and to recreate the circumstances in which they were created.25” Nevertheless, despite the fact that Der Gott der Makkabäer and Institutions des Séleucides were published at virtually the same

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time and that both drew heavily on his analysis of I and II Macc, Bickerman’s attitude towards the past as expressed in the Prefaces of these works was radically different. While one was open-mindedly tentative, the other was much more determinedly dogmatic. I begin with Institutions des Séleucides.

III

4 Institutions des Séleucides was written in close collaboration with Bickerman’s dear personal friend, Louis Robert. Indeed, the archival documents that are the stimulus for this article attest to the very close relationship between the Bickermans and the Roberts, as couples. Thus, although Bickerman did not share personal information about himself, even with someone as close as Michael Rostovtzeff (1870-1952), his St. Petersburg teacher and mentor through difficult years in Germany and Nazi France,26 in the letter quoted above he noted the troubles his wife, Anita Suzanne Bickerman (1913-1998), was undergoing in New York : ma femme… est toujours souffrante, une maladie suit l’autre, surtout depuis qu’elle a appris que sa mère a été déportée. Several years later, in a letter of January 9, 1948, he explained that his wife would soon be travelling to Nice : elle a un besoin urgent du repos, qu’on ne trouve pas ici. Pour vivre à N.Y. il faut avoir des nerfs et la santé de fer.27 As one further indication of the deep familial connection between the two couples, Bickerman added a handwritten postscript to the letter quoted above : ma femme me téléphone priant de vous parvenir ses salutations et ses vœux sympathiques pour la santé de Mme Robert et de Mme votre mère. In a handwritten postscript to his letter to Robert of November 23, 1945 Bickerman wrote : nous étions (i.e. he and his wife) très touchés du post-scriptum de Madame Robert dans votre lettre. Finally, in a handwritten postscript to his letter of June 14, 1955, Bickerman sent his regards (now in his name only) to Mme Robert and to Louis Robert’s mother.28

5 In practical terms, Bickerman asked Robert to speak with Is. Lévy of Brussels concerning Henri Grégoire’s suggestion that Bickerman replace Lévy at Brussels. Bickerman had great hopes for the outcome there, because, as he wrote in the letter cited above, en raison des chinoiseries administratives, Bruxelles est probablement la seule univ. française où je pourrais m’établir.

6 Food, medicine, and other necessities were then in short supply in Europe, a circumstance that Bickerman blamed on the policies of the French government in the letter of March 19, 1945, quoted above. In that letter, Bickerman offered to send medicines, and had already sent two food parcels to the Roberts, with more to follow. Food and other supplies – a bottle of oil for Mme Robert, charcuterie and cheese – were noted in Bickerman’s letter of November 23, 1945, in which Bickerman regretted that he had not sent the Roberts an electric hearer ; if he first sent it now it would arrive in the Spring. One must note that Bickerman went to all this trouble and expense despite the fact that his own academic situation was then most uncertain and his financial circumstances not that good.29 Another matter of concern in these letters from the years immediately after the war was Bickerman’s books, left behind in France when he escaped for the USA, which Robert was arranging shipping to New York (letters of January 9, 1948 and April 12, 1948).

7 In scholarly terms, Robert shared Bickerman’s unusual ability for turning the smallest details concerning the Greco-Roman world into the starting points of elaborate and wide-ranging reconstructions of ancient life and times.30 Bickerman’s evaluation of

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Robert’s scholarship could not have been higher. In his letter to Robert quoted above, Bickerman wrote : vous me manquez énormément pour échanger des idées, demander des renseignements, p. ex. aujourd’hui quand j’écris sur chronologie des Arsacides, d’Attale I, etc. pour Berytus. Ici on est pratiquement seul. A decade later, on June 14, 1955, Bickerman wrote to Robert the following “rebuke” : Je vois que vous allez repartir encore une fois pour la Turquie. J’admire votre énergie indomptable (et la patience de M-me. L.R.), mais, permettez moi le dire, je hésite d’applaudir. En travaillant chaque été, après votre effort prodigieux et généreux de l’année scolaire, vous vous ruinez. D’ailleurs, il ne manque pas de fouilleurs, mais vous le savez vous-même – L.R. est unique et le temps dépensé pour fouiller telle ruine pourrait servir à rédiger un volume que personne pourrait nous donner sauf L.R. Oui, je sais que les conseils ne plaisent qu’à ceux qui les donnent. Mais vous connaissez mon affection et admiration reconnaissante pour vous. D’ailleurs, je viens d’être gravement souffrant (une sorte de pneumonie), la première maladie sérieuse depuis 35 ans,31 et telle expérience vous apprend à penser à la santé de ceux qu’on aime.

8 At the end of the same letter, Bickerman complained about one of the students he had “inherited” from W.L. Westermann (1873-1954) at Columbia. Bickerman then added : si j’ai un bon élève, je le ferai aller à l’EHE d’apprendre le métier chez L.R.32 I heard similar high praise of Robert in Bickerman’s class.

9 Robert’s contribution to Institutions des Séleucides was substantial. As Bickerman wrote in the Preface : je ne pourrais taire sans ingratitude mon obligation particulière envers mon ami Louis Robert, qui a pris la peine de lire tout le manuscrit et a revu de plus les épreuves de cette étude. Le présent livre lui doit beaucoup de suggestions et corrections.33 When the book appeared Robert wrote to Bickerman thanking him for the specially prepared copy that Bickerman had sent, bound in the same special binding, with Robert’s initials, as other books in Robert’s library.34 Bickerman saved this letter, along with two others, from Franz Cumont (1868-1947) and André Piganiol (1883-1968), in his personal copy of Institutions des Séleucides.35 Robert noted that Bickerman’s academic contributions and his approach to scholarship were a source of intellectual enjoyment and one of the true pleasures of his life : Samedi, 12 mars Cher ami, laissez-moi vous dire que j’ai été véritablement ému en ayant cette surprise de cette belle reliure, faite à mon goût, sur le modèle de mes livres préférés. J’ai été si touché de cette délicate attention, et d’y trouver mes initiales comme sur les livres de ma bibliothèque. Comment avez-vous pu le faire relier en si peu de temps ? Quelle surprise ! Je ne vous parlerai pas du contenu ; il nous est trop familier. Que ce me soit du moins l’occasion de vous dire combien vos travaux et votre tournure d’esprit me sont une jouissance intellectuelle, vraiment un des plaisirs de ma vie. Votre ami, Louis Robert

10 In the preface to the volume, while Bickerman stressed that this was a new book, of a type that had not been attempted before, he also dwelt at length on its limitations due to the nature of the available evidence, scattered in numerous sources that no one had bothered to systematically collect. Furthermore, not enough of the Seleucid cities and villages founded in the East had been excavated. It was therefore impossible to discuss the nature of Seleucid colonization. Only two or three documents yielded information about Seleucid law. Bickerman therefore chose not to fill the missing gaps with

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Egyptian, Greek, or Parthian parallels, but preferred instead to confess our (or just his) ignorance. He therefore narrowed the focus of the book to topics on which he felt more certain he could say something, such as the king, his court, army, treasury, administrative organization, coinage, and the religion of the dynasty. As this list indicates, “narrow” as the focus was, the book was still a vast and monumental undertaking.

11 Bickerman was aware of the tentative nature of what he had written. Excavations such as those conducted by Rostovtzeff and Cumont at Dura Europos were revealing new aspects of life in the East. A scholar needed to be open-minded and willing to change his/her mind as this new information became available : Demain ou après-demain de nouveaux documents, sortis du sol de l’Asie, combleront des lacunes, corrigent des erreurs de mon livre. Il importe fort peu même pour l’auteur que les témoignages nouveaux confirment ou détruisent des affirmations et des hypothèses de cet ouvrage. Ce à quoi je tiens, c’est à aider à mieux comprendre les textes connus comme les textes qui vont être découverts. Finis libri non finis quaerendi.36

12 Bickerman remained aware of the need for revision in the light of new information until the end of his life. In a rough draft of a preface prepared for the Russian translation of Institutions des Séleucides, which appeared after his death, in 1985, he explained that he felt little need to change what he had written in most of the book. However, the chapter on Seleucid coinage needed extensive revision in light of the work of numerous scholars – his friends Newell, Seyrig, Schlumberger, Boehringer, G. Le Rider, Morkholm, and Louis Robert. He added : J’espère qu’un de mes jeunes lecteurs se mettre à la tâche de récrire mon esquisse. Des corrigenda aussi qu’une bibliographie sélective ajoutées à la traduction permettons le lecteur russe se tenir au courant de l’état présent des recherches sur l’État séleucide.37

13 The tentative nature of the work and the need to remain open minded was evident to Franz Cumont (1868-1947) in his letter thanking Bickerman for a copy of Institutions des Séleucides, preserved in Bickerman’s personal copy. While praising the book, Cumont offered a number of suggestions and corrections that might be included in a second edition. I cite only the opening paragraph, as the specific suggestions are of less importance for the purposes of my argument in this paper :38 Rome, 7 Mai 1938. Cher monsieur Bikerman, Vous m’avez à la fois fait un vif plaisir et rendu un grand service en m’envoyant votre volume et je vous remercie sincèrement de ce don précieux. Faut-il vous faire l’éloge de votre ouvrage ? Vous avez écrit un chapitre nouveau de l’histoire de l’hellénisme et méritez la gratitude de tous ceux qui s’intéressent aux institutions de l’antiquité. Je suis certain que ce livre, indispensable à tous les érudits, s’épuisera rapidement et plutôt que de le louer sans profit pour vous, j’aime mieux vous envoyer quelques notules, griffonnées au cours d’une lecture trop rapide, en vue d’une deuxième édition.

IV

14 As noted at the outset, Bickerman’s approach to the past was very different in Der Gott der Makkabäer. This work was written in close collaboration with Bickerman’s dear friend from Berlin, Hans Lewy.39 Christians and Jews might ponder the meaning of the

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Maccabean persecutions and ask why God allowed His faithful to die in allegiance to His truth. The Jewish answer was that the persecution was a punishment sent by God, for which the blood of the martyrs was the price to be paid for salvation, and the liberation from the oppression was a result of the repentance of the oppressed : Das Blut der Märtyrer der Preis der Erlösung und die Befreiung aus der Not eine Folge der inneren Umkehr der Bedrängten.40

15 However, the historian dare not ask questions of that sort : theodicy was not a historian’s concern. The only judgment allowed a historian was to inquire whether the interpretation of an event, with which a seer or wise man had to contend, corresponded to the actual course of events. The aim of the book was thus historical, Die Zielsetzung dieses Buches ist eine rein historische – “to determine the sequence of events we usually call the persecution of Antiochus and to make this series of events comprehensible.41” The investigation originated in a philological analysis of the books of Maccabees and was intended as a preliminary study for a full-scale commentary on these sources, which Bickerman was supposed to write.42 Nothing was tentative here, or subject to revision in light of future discoveries.43 As is well known, Bickerman concluded that the initiative for the persecution came not from without but from within, from a Jewish group that included the leading members of society, that intended to reform Judaism, without completely rejecting the God of the Fathers or without total disloyalty to Zion. The Maccabees saved the Jews (and ultimately, mankind) from this reform and led the people back to the God of Abraham, Isaac and Jacob. History thus confirmed theology, and Bickerman’s language now echoed explicitly the theological explanation offered earlier : Die Geschichte bestätigt somit die Theologie. Nicht von aussen, sondern von innen kommt das Unglück, aber auch die Rettung, deren Voraussetzung die Umkehr ist.44 He ended by quoting Ps. 106 :43-46 : He saved them time and time again, but they were deliberately rebellious, and so they were brought low by their iniquity. When He saw that they were in distress, when He heard their cry, He was mindful of His covenant and in His great faithfulness relented. He made their captors kindly disposed towards them.

16 The confirmation of theodicy offered by history, despite the earlier disclaimer that questions of theodicy were not part of the historian’s task, is an indication that, unlike the circumstances involved in writing Institutions des Séleucides, something more than historical inquiry was at stake in Bickerman’s investigation of the persecutions and the explanations he offered for these events. There was something determinedly dogmatic about the thesis Bickerman offered : it mattered to him in a deep personal way. This conclusion is made even more definite by the end of the book, a declaration of faith and a clear call for martyrdom, if necessary, in face of the impending doom of European Jewry in the Nazi era : For the deeds of the Maccabeans are worth remembering forever, only because they resulted in the survival of monotheism. Through the blood witness of the martyrs, through the service in the rededicated temple the one truth was saved which for mankind during its wanderings of a thousand years, it has found unchangeable and eternal. Man has been deceived and disappointed by innumerable alleged truths – but never by the one truth of the uniqueness of God. Thus, those men and women and children who sacrificed their lives during the persecution under Epiphanes in order to remain faithful to the Eternal One, remain forever and for all peoples examples of true heroism. “May men learn from them to die for the truth” says Augustine (P.L. 38, 1379).45

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V

17 Nevertheless, in the end, Bickerman’s case concerning the persecutions of Antiochus IV must be judged and was evaluated by his peers as history, not theodicy. As such, as I have argued elsewhere, it was found wanting, and new evidence found since Bickerman wrote may undermine his case further.46 This outcome, as I argued, was most unlike that of many of Bickerman’s other contributions, which were almost immediately recognized as masterly conclusions. It was not without reason that Arnaldo Momigliano, no mean scholar himself, wrote that “I never disagree lightly with Elias Bickerman,”47 yet numerous scholars expressed reservations about Bickerman’s explanation of the persecutions and offered interpretations of their own – for better or worse – for these events, and the list of these scholars includes Momigliano.48 Perhaps the only scholar to fully embrace Bickerman’s views and attempt to extend them further was Martin Hengel (1926-2009), of Tübingen University.49 However, the response to Hengel’s massive volumes has generated further responses to Bickerman’s initial suggestion, and these contributions are sometimes highly critical of Hengel for following in Bickerman’s path.50 Viewed in the light of the overwhelmingly favorable reception of his other publications, the numerous scholars who dissented from Bickerman and offered interpretations of their own did not do this as an act of eccentric willfulness or academic vengeance. They did so on the basis of their understanding of the evidence and their cumulative response deserves respect. I therefore concluded that Der Gott der Makkabäer was a “failure.51”

VI

18 But why did this happen ? Why was Bickerman so much less convincing on the persecutions of Antiochus IV ? His comment cited from the preface to Der Gott der Makkabäer (above, 170), about history confirming theodicy, the dogmatic certainty exhibited in the preface to Der Gott der Makkabäer as opposed to Institutions des Séleucides, all suggest that something deeply personal and a matter of intense individual commitment was at stake in Der Gott der Makkabäer. This book, as Grafton characterized it, was “magnificently polemical” in the service of passionate convictions.52 This allegiance, not necessarily shared by others, I suggested, motivated Bickerman to propose an explanation that was far less successful than his other contributions in convincing other scholars.

19 I therefore took advantage of the approach widely accepted among students of historiography of looking to the scholar’s life experiences and ideological preferences as a key to understanding the scholarship.53 I should add that indicating a historian’s source(s) of inspiration remains an entirely separate question. The objective of research to indicate a historian’s source(s) of inspiration is to understand how and why a particular historian came to offer a specific interpretation, no more but no less. This sort of investigation neither detracts nor adds to the degree to which an argument based on the evidence is convincing ; it neither validates nor invalidates it.54

20 Bickerman himself appreciated the value of this sort of analysis. While he sought to avoid what he called the “Crocean heresy,” that all history is history of the present, Bickerman conceded that the past created by any society is a social construct, a product of the time and place of that past’s creation, constantly modified to meet a society’s

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changing needs. Like gravity, Plato’s Republic has remained the same, but our understanding of that classic over time differs as a result of new experiences and observations. So too the past. Accordingly, for Bickerman, absolute objectivity was impossible : since the historian was part of the history he or she created, history was subject to the forces of the time and place in which it was being fabricated. History was not physics. Moreover, history must reckon with accidents, events that can never be explained (the “law of unintended consequences”). For that reason (and against the Marxists) history had little predictive value. It may teach how to avoid mistakes ; it may be philosophy by examples,55 but the complexities of human experience are such that historians must be satisfied if they can understand events. A full account of causality was beyond possibility. The historian’s work should be for knowledge for its own sake and should not be mingled with contingency.56 Or, as Bickerman wrote to Judah Goldin, responding to Goldin’s comments on the Bickerman-Smith volume, “the lessons of history are neglected because the honest historians warn the reader of the equivocal nature of their results.57”

21 While Bickerman himself connected between the work of other historians and their life experience or commitments, he did not want this sort of analysis offered on his own work. It may be that he ordered his personal papers destroyed in order to make it difficult to find the connections between his life and scholarship.58 Nevertheless, Bickerman cannot be an exception to the rule. As he himself insisted, one must read the Bible by the same standards and methods as one reads Tacitus and Livy.59

22 It was in this spirit, but contrary to Bickerman’s wishes, that I noted Bickerman’s comparison of the ancient extreme Hellenizers of Jerusalem to leaders of the Jewish reform movement in Germany in the nineteenth century and its similarity to views expressed by Samson Raphael Hirsch (1808-1888), the father of 19th century German Jewish neo-Orthodoxy.60 I added two other sources of inspiration of Bickerman’s thesis that he did not acknowledge explicitly : (1) the template for his thesis provided by the actions of enlightened Jews asking the Tsarist government to reform Jewish education in the 1840s, and to impose that reform on the unenlightened and backward mass of Russian Jews, an episode with which Elias Bickerman should have been very familiar ;61 (2) the anti-Bolshevik activity of the Patriotic Union of Russian Jews Abroad, of which Elias Bickerman’s father, Joseph Bikerman (February 15, 1867 (os) – January 4, 1942) was the central figure and in whose activities Elias participated during his years in Berlin. The Patriotic Union supported the Whites in the Russian Civil War. The organization was devoted to defending the Jews against the charge of the “Kommikike” conspiracy, that all Jews were Bolsheviks (or that all Bolsheviks were Jews). The members of the Patriotic Union were penitent patriots, determined to demonstrate their loyalty to the monarchy and their hatred of the Bolsheviks.62 In the end, Joseph Bikerman and his few associates in the “Patriotic Union” expressed an extreme minority view. They were not only considered mad (or worse) by other émigré Jews, such as S. Dubnow (1860-1941), but their protestations of Russian identity and loyalty were rejected by other Russians, who refused to accept them as their own.63 What is important for our purposes is that Jewish communists were the worst of all traitors in the eyes of Joseph Bikerman and the Patriotic Union.

23 I found at least a hint that Elias Bickerman had collaborated with his father in working out his interpretation of the persecutions of Antiochus IV in his father’s public talk in Berlin, delivered on December 12, 1929 on Chanukah – a topic far outside the range of

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Joseph Bikerman’s interests and public activity, but precisely in those of his son Elias, and at a time when Elias Bickerman was publishing his first essays on the Maccabees.64 I suggested that their hatred of the Jewish communists, as traitors from within, was in the back of their minds (if not closer to front and center) when Elias Bickerman saw the ancient Jewish Hellenizers in Jerusalem as the instigators and the real culprits of the persecutions. When Elias Bickerman concluded the preface of Der Gott der Makkabäer with the remark that : “It is not from without, but from within, that misfortune comes : but also salvation, which is conditioned upon repentance”, I wondered whether he was thinking of the campaign of the Patriotic Union as the contemporary example of penitence and of their efforts as leading to salvation from the Bolshevik threat in the here and now.65 In sum, I proposed that the contemporary loyalties of Elias Bickerman and his father were were so deeply embedded and so idiosyncratic that they overwhelmed Bickerman’s usual caution and determination to remain open-minded about his conclusions, as exhibited in Institutions des Séleucides.66 If I am correct and these commitments helped provide the background for Elias Bickerman’s interpretation of the events in Jerusalem at the time of Antiochus IV it is not surprising that Bickerman’s thesis was not that convincing.

24 This interpretation finds support in the Seyrig-Robert correspondence in the Fonds Louis Robert. Bickerman and Seyrig were in touch even before the war, as Seyrig had a role in accepting Bickerman’s Institutions des Séleucides in the Bibliothèque Archéologique et Historique, under the auspices of the French Antiquities Service of Syria and Lebanon. 67 Seyrig wrote to Louis Robert on July 25, 1938 that he was reading the book and that it was (un) livre remarquable, et pourtant drôlement fait. From 1942 until the end of World War II, Seyrig was a special envoy of the Free French Government in New York. He then returned to Beirut. Bickerman and Seyrig met often in New York during the war years, as Seyrig wrote to Robert on September 21, 1944 : j’ai souvent parlé de toi avec Bikerman, que je vois très souvent. Seyrig had a keen appreciation of Bickerman’s character. He wrote to Robert on September 22, 1945 concerning Bickerman : il déteste les indigènes et c’est à Paris qu’il veut être.68 Tu as raison c’est un gaffeur69 mais c’est un bon professeur et nous avons profit à nous l’attacher. A year later, on November 19, 1946, Seyrig wrote to Robert, again about Bickerman : Bikerman est une des personnes que je regrette le plus d’avoir laissés aux États- Unis. Il avait toujours des choses intéressantes à dire et un jugement très fin, avec une nature agréable – avec des opinions surprenantes, car il aurait vraiment remis sur le trône Nicolas II, prince d’une grande indulgence.70

25 The personal evaluation of Bickerman’s character in this letter was far more favorable than in the previous one cited : he was no longer un gaffeur but now avec une nature agréable. However, Bickerman’s politics, after his departure from Russia for Berlin in 1922, for Paris in 1933, and for the USA in 1942, were still unchanged, deeply held, and perversely idiosyncratic, even as seen by some of his closest friends and academic admirers.71 Therefore, if this political perspective helped provide the lens through which Bickerman saw the persecutions of Antiochus IV, if it blocked his sense of the equivocal nature of his results, which he argued was the case with all historians (above, 174), it is not surprising that other scholars did not follow his lead.

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VII

26 It would be wrong and do Bickerman a grave injustice to conclude the discussion of Der Gott der Makkabäer on this note. Whether accepting or rejecting his arguments, the thesis Bickerman presented there has proven remarkably provocative and stimulating for more than seventy five years.72 This is an achievement that few scholarly works attain. As Grafton noted : “Very few of Bickerman’s colleagues are still living presences in research. He is.73” Perhaps the best way to summarize the discussion of Der Gott der Makkabäer is to cite Morton Smith’s evaluation of Goodenough’s Jewish Symbols (and even this may be unfair to Bickerman as his Gott der Makkabäer is much more alive in the scholarly discourse than Goodenough’s Jewish Symbols) :74 In the preface to his last volume Goodenough wrote, “Scholars have repeatedly said to me, ‘At least you will always be remembered and used for your collection of material’… I have not spent thirty years as a mere collector : I was trying to make a point.” He was, and he failed. His pandemic sacramental paganism was a fantasy ; so was the interpretation of pagan symbols based on it, and so was the empire-wide, anti-rabbinic, mystical Judaism, based on the interpretation of these symbols. All three are enormous exaggerations of elements which existed, but were rare, in early imperial times.

27 Soit. Columbus failed, too. But his failure revealed a new world, and so did Goodenough’s.75

28 Der Gott der Makkabäer also revealed a new world of the Jews in antiquity and epitomized a new and powerful way of studying it. Der Gott der Makkabäer had highly important favorable consequences that still resonate in the field more than seventy five years later. Few scholars are ever blessed with such glorious “failures.”

APPENDIXES

I thank Professor Glen Bowersock of the Institute for Advanced Study, Princeton, responsable du Fonds Louis Robert, for permission to visit the Fonds Louis Robert in May 2012, to examine Bickerman’s letters to Robert, and to publish them along with pertinent excerpts from the Seyrig-Robert correspondence. My research at the Fonds Louis Robert was greatly facilitated by the warm welcome and enthusiastic assistance of Mme Béatrice Meyer, chargée de mission. All citations from letters from Bickerman to Robert and Seyrig to Robert in this article are from the “Archives du Fonds Louis Robert de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres”. I thank Professor David Kramer, Librarian of the Jewish Theological Seminary, for permission to cite material from Bickerman Archive, ARC 19, in the Jewish Theological Seminary collections. All references to and citations from the Bickerman Archive at the Jewish Theological Seminary in this article appear courtesy of the Archives of the Jewish Theological Seminary Library, New York City. Once again, I acknowledge my debt to Ms. Ellen Kastel, archivist at the Jewish Theological Seminary when I conducted my research there. She was a constant source of inspiration and guidance into the protocols, privileges, and pleasures of archival research. It is thanks to her perceptive

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diligence that the letters Bickerman saved in his personal copy of Institutions des Séleucides, discussed above, p. 167-169, were not lost.

In this paper I elaborate points made in previous publications : A.I. BAUMGARTEN, “Elias Bickerman on the Hellenizing Reformers : A Case Study of an unconvincing case”, Jewish Quarterly Review 97 (2007), p. 149-179 ; ID., Elias Bickerman as a Historian of the Jews : A Twentieth Century Tale (TSAJ 131), Tübingen 2010 ; ID., “Russian-Jewish Ideas in German Dress : Elias Bickerman on the hellenizing reformers of jewish antiquity”, in J. SCHULTE, O. TABACHNIKOVA, and P. WAGSTAFF (eds.), The Russian Jewish Diaspora and European Culture (1917-1937), Leiden 2012, p. 73-107. In order to keep references to archival material to a minimum I follow the pattern of abbreviations in BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 325-332.

NOTES

1. On Jeanne Robert as a scholar, both in collaboration with her husband and on her own, see P. HERMANN, “Jeanne Robert”, Gnomon 75 (2003), p. 190-191. For a description of the contents of the Fonds Louis Robert, its history and regulations see http://www.aibl.fr/travaux/antiquite/article/ le-fonds-louis-robert. On the circumstances and history of the donation see G. BOWERSOCK, “Louis Robert : la gloire et la joie d’une vie consacrée à l’antiquité grecque”, Studi Ellenistici 24 (2010), p. 13-15. 2. On Robert see See BOWERSOCK, “Louis Robert”, p. 9-31. 3. No biography of Seyrig has appeared thus far. Perhaps the recent conference devoted to Seyrig, held on October 10-11, 2013 at the Bibliothèque nationale de France and the Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, will begin to fill the lacuna concerning this distinguished scholar, Professor Glen Bowersock is considering authorization of a complete publication of the 158 letters from Seyrig to Robert but has not so far found an appropriate editor with the diverse range of skills required for the task. (Letters of April 1, 2014 and November 25, 2014). 4. The Bickermans lived on the Upper West Side of Manhattan. This area was favored by European émigrés ; it was probably the neighborhood with the most European atmosphere in New York City. 5. Mrs. Bickerman’s mother, Toni Bernstein, was “T.B. Deported by the Germans, Ps. 35 :17” to whom the 1947 translation of The Maccabees was dedicated. Even two years later than the letter cited above, in 1947, Elias Bickerman and his wife cherished the hope that Toni Bernstein would still turn up alive. She was not “murdered” by the Nazis, or “killed” by them, merely “deported”. The verse from Psalms cited in the dedication of The Maccabees supported this slim ray of optimism. See further BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 45-47. 6. On Lévy’s role in Bickerman’s career while in Paris see BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 122 and 127. 7. E.J. BICKERMAN, “Notes sur Polybe II”, in E.J. BICKERMAN, Religions and Politics in the Hellenistic and Roman Periods, edited by Emilio Gabba and Morton Smith, Como1985, p. 167-184. 8. E.J. BICKERMAN, “An Oath of Hannibal”, Religions and Politics, p. 255-272. 9. E.J. BICKERMAN, “Bellum Phillipicum, Some Roman and Greek views concerning the causes of the Second Macedonian War”, Religions and Politics, p. 273-286. 10. E.J. BICKERMAN, “L’européisation de l’Orient classique”, Renaissance 2-3 (1944-45), p. 381-392. 11. E.J. BICKERMAN, “Notes on the Seleucid and Parthian Chronology”, Berytus 8 (1943-44), p. 73-83.

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12. Decades later, in the USA, Bickerman could still complain that there were no good professors of ancient history there, no Momiglianos or Roberts (Letter to Gabba, February 22, 1979, Gabba Archives). See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 162. 13. Henri Grégoire (1881-1964), the Belgian historian of the Byzantine period, was at the École libre des hautes études in New York during World War II. 14. René Dussaud (1868-1958) found work for Bickerman when he lost his position in Paris after the German invasion. See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 133. 15. So far as I can determine this MS was lost. This was not the only piece of Bickerman’s work lost during World War II. Bickerman wrote a volume for the series Histoire générale edited by Gustave Glotz, a project mentioned by M. Rostovtzeff in his letter concerning Bickerman to W.L. Westermann of March 29, 1939, BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 129. Writing to Robert on November 23, 1945, Bickerman asked : Pourrais-je vous prier de demander à la famille de Roussel s’ils ont trouvé mon Ms. destiné à l’Hist. Générale de Glotz ? Ce serait fâcheux si le Ms. s’égare, comme je n’ai pas gardé une copie. 16. The article appeared in REL. See E.J. BICKERMAN, “La lettre de Mithridate dans les ‘Histoires’ de Salluste”, Religions and Politics, p. 287-309. Mithridates’ letter in Sallust was a sensitive matter for Bickerman as it was one of the principal topics of his Habilitationsschrift in Berlin in 1929, which was severely criticized by its readers. See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 86-95. However, it was not only the Habilitationsschrift that was found wanting. According to F. S OLMSEN, “Classical Scholarship in Berlin between the Wars”, Greek, Roman and Byzantine Studies 30 (1989), p. 135 when Bickerman spoke at the Probevorlesung on “Books and Battles of the Maccabees”, Wilamowitz denounced the source on which much of Bickerman’s presentation was based, crushing and demolishing Bickerman, declaring that “one should absolutely not rely on Malalas”. Thanks to the kindness of Prof. Klaus Harloff of Berlin (letter of March 28, 2014), I learned more about Bickerman’s disastrous first Probevorlesung on July 22, 1929, as recounted by Ludwig Deubner (1877-1946), a member of the commission appointed to examine Bickerman’s Habilitationsschrift, in his diary entry for July 22, 1929 : Die Habilitation Bickermanns endete mit einem Durchfall. Die Darbietung des Vortrages war sehr schwach + wenig klar. Wilcken versuchte ihn zu halten + Norden sekundierte (natürlich : weil es ein Jude war), + auch Oncken stimmte für Durchlassen, doch Ed. Meyer, Wilam., ich, Mazeks, Brachmann + Marckwardt waren dagegen. Der Mann ist trotz aller Gelehrsamkeit + Gescheitheit doch mehr Journalist. 17. Georges Vajda (1908-1981), a specialist in Semitic languages, taught at the Sorbonne. 18. Grand-Rabbin Maurice Liber (1884-1956) taught Jewish Studies at the École pratique des hautes études, focusing on Rabbinic Literature. Liber and Bickerman agreed in their anti- Zionism, as Liber was convinced that emancipation had resolved the national question for the Jews. Liber and Bickerman might have also collaborated as part of Liber’s efforts to help refugees from Nazi Germany resettle in France. On Liber see G. VAJDA, “Le Grand Rabbin Maurice Liber (13 Septembre 1884-23 Novembre 1956)”, Revue des Études Juives 15 (1956), p. 5-7. On Bickerman’s anti-Zionism see BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 35 ; 53-55. 19. Perhaps Madeleine Étard (1897- ?), a translator of Russian works into French, among others I. EHRENBOURG, Duhamel, Gide, Malraux, Mauriac, Morands, Romains, Unamuno, vus par un écrivain d’URSS, Paris 1934. She translated other Russian authors, such as A. GRABAR, L’Église de Boïana, architecture- peinture, Paris 1924. I am far from certain of this identification : all others in this part of Bickerman’s letter taught at institutions of higher learning in France, Paris in particular, during Bickerman’s years there. As such, Robert would also have also known them. Yet, I found no proof that Madeleine Étard occupied such a position. If Bickerman knew Étard from the Russian émigré community, how would Robert have known her ? 20. Jean-Rémy Palanque (1898-1988) was Professor of Ancient History at Aix-en-Provence. Palanque assisted many of those in trouble during World War II, for which he was awarded the

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Medal of the Resistance in 1945. Bickerman, who spent February to June 1942 under house arrest (residence forcée) in Aix, was one of those helped by Palanque. See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 137, 323. On Palanque see further J. POUILLOUX, “Allocution à l’occasion du décès de M. Jean-Rémy Palanque, académicien libre”, 21. Bickerman intended Jean Hatzfeld (1880-1947), an archeologist and Hellenist who published on the history of ancient Greece. 22. Jean Sauvaget was an orientalist. See F.E. DAY, “Jean Sauvaget (1901-1950)”, Ars Orientalia 1 (1954), p. 259-262. 23. I have corrected obvious errors in Bickerman’s French. See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 245, n. 20. 24. The Jews in the Greek Age appeared posthumously. 25. A. GRAFTON, “The Bible Scholar who did not know Hebrew”, The Jewish Review of Books 3 (Fall 2010), p. 37. 26. Rostovtzeff noted that when he corresponded with Bickerman, “he never speaks about his family affairs”. Rostovtzeff to Johnson, October 4, 1940, Rostovtzeff Archive = G. BONGARD-LEVIN, Skifskii Roman, Moscow 1997, #9. Thus, while Rostovtzeff knew that Bickerman had no children when he had last seen him in 1937, he did not know if any had been born between then and when he wrote this letter in 1940. 27. I presume that Anita Suzanne Bickerman travelled to Nice to be with her father, Georges Bernstein, who visited his daughter in NY in November 1947, BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 47. On the Bickerman couple in the 1950s and their eventual separation and divorce see ibid., p. 22-23. For a photograph of Elias and Anita Suzanne Bickerman from 1945 see ibid., p. 318, plate 3. 28. These greetings to Louis Robert’s wife, formerly Mlle J. Vanseveren, have a specific context. The Annuaire of the École Pratique records information about Bickerman’s courses there : In 1936-37 Bickerman gave a course on Seleucid and Roman texts preserved by Josephus in light of papyri and inscriptions. Mlle J. Vanseveren was noted as one of the auditeurs reguliers, Annuaire, 1936-37, p. 46. In Bickerman’s courses in 1937-38 and 1938-39 the Annuaire noted that M lle J. Vanseveren a pris une parte active aux discussions. Apparently, Louis Robert, who already taught J. Vanseveren in 1935, recommended that his student and future bride participate in Bickerman’s courses. This would be one more indication of Robert’s high regard for Bickerman, but the three years Mme Robert spent as Bickerman’s student provided an additional foundation for a direct personal relationship between the teacher and his former student. The greetings to the elder Mme Robert are further attestations to the fact that the Bickermans were frequent guests at the home of the Roberts and of the close connection between the Roberts and Bickermans as families. Robert’s mother lived with her son and daughter-in-law, and Louis Robert was very attached to her. Her passing was so disturbing to Robert that his annual publication of Bulletin Épigraphique did not appear in the year following her death. Any “regular” at the home of the Roberts would have met the elder Mme Robert and been aware of her importance for her son (Glen Bowersock, letter of November 26, 2013). 29. BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 21, 143-149. 30. For Bowersock’s evaluation of Robert’s contributions see above, n. 2. 31. Bickerman was seriously ill during the Civil War in Russia. See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 38. 32. Although Robert was appointed in 1939 at the Collège de France (See BOWERSOCK, “Louis Robert”, p. 11), he continued to teach at the École pratique des hautes études, as did other colleagues. 33. E. BIKERMAN, Institutions des Séleucides, Paris 1938, p. 2. 34. I have not found the copy of Institutions des Séleucides that Bickerman sent Robert. Unfortunately, it is not in the Fonds Louis Robert.

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35. Bickerman Archive, Jewish Theological Seminary, Box 4, folder 14. I thank Professor Corinne Bonnet of Toulouse University for her help in transcribing these three letters. 36. BIKERMAN, Institutions des Séleucides, p. 2. 37. Bickerman Archive, Jewish Theological Seminary, Box 6, folder 4. See the discussion of this preface in BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 244-245. For revisions now necessary in Institutions des Séleucides due to new information see J. MA, “Relire les Institutions des Séleucides de Bikerman”, in S. BENOIST (ed.), Rome, a City and its Empire in Perspective : The Impact of the Roman World through Fergus Millar’s Research, Leiden - Boston 2012, p. 59-84. 38. The three letters Bickerman preserved in his copy of Institutions des Séleucides merit a comprehensive and independent assessment of their own. Professor Bonnet and I plan to publish a paper on them. 39. See A.I. BAUMGARTEN, “Elias Bickerman and Hans (Yohanan) Lewy : The story of a friendship”, Anabases 13 (2011), p. 95-118, esp. p. 96-97. 40. E. BICKERMANN, Der Gott der Makkabäer : Untersuchungen über Sinn und Ursprung der makkabäischen Erhebung, Berlin 1937, p. 7. Compare E. BICKERMAN, The God of the Maccabees, Studies in the Meaning and Origin of the Maccabean Revolt, translated by H. MOEHRING, Leiden 1979, p. 1 = Studies in Jewish and Christian History, A New Edition in English including The God of the Maccabees, introduced by Martin Hengel, edited by Amram Tropper, Leiden 2007, p. 1033. Bickerman was extremely unhappy with Moehring’s translation. The notes were omitted, which allowed the reader no appreciation of the brilliance of the interpretation of the evidence in making the argument of the book. In an undated postcard to Gabba, postmarked February 18, 1980, Bickerman complained that the English version of God of the Maccabees was awful : Brill did not allow extensive additions and then paid no royalties. He concluded that the book was useful only to those who cannot read German, that is, to Americans, and that the publication was a “bastard of my productivity”. See BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 162. 41. Gott der Makkabäer, p. 7 = God of the Maccabees, p. 1 = Studies, A New Edition in English, p. 1033. 42. This commentary never appeared. For an account of Bickerman’s invitation to write these commentaries see God of the Maccabees, p. xi-xii = Studies, A New Edition in English, p. 1029-1030, and BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 350. 43. When Bickerman’s interpretation was challenged, as did I. HEINEMANN, “Wer veranlasste den Glaubenszwang der Makkabäerzeit ?”, Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums 82 (1938), p. 145-172, Bickerman responded to the critique by admitting its force and some of its valid points, yet nevertheless maintained his allegiance to the basic thesis argued in Der Gott der Makkabäer. The need to restate and revise arguments made in Der Gott der Makkabäer in light of Heinemann’s criticism was a major impetus behind The Jews in the Greek Age. See A.I. BAUMGARTEN, “Bibliographical Note”, in E.J. BICKERMAN, The Jews in the Greek Age, Cambridge, MA 1988, p. 309-327. 44. Gott der Makkabäer, p. 8. Cf. God of the Maccabees, p. 2 = Studies, A New Edition in English, p. 1034. 45. Gott der Makkabäer, p. 139 = God of the Maccabees, p. 92 =Studies, A New Edition in English, p. 1126. As I argued in BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 249, the quote from Augustine was a brilliant way to avoid complications with Nazi censorship. How could a censor object to Augustine ? 46. See D. GERA, “Heliodoros, Olympiodoros, and the Temples of Koilê Syria and Phoinikê”, Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 169 (2009), p. 125-155 ; C.P. JONES, “The Inscription from Tel Maresha for Olympiodoros”, Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 171 (2009), p. 100-104. 47. A. MOMIGLIANO, Alien Wisdom – The Limits of Hellenization, New York 1975, p. 91. On Momigliano and Bickerman see BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 193-204. 48. The list of those who dissented from Bickerman’s interpretation or offered interpretations of their own of the evidence is very long. For Heinemann’s dissent and its consequences see above, n. 43. For Momigliano’s dissent See A. MOMIGLIANO, “Review, M. Hengel, Judentum und Hellenismus”,

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Journal of Theological Studies 21 (1970), p. 149-153, and then at greater length in MOMIGLIANO, Alien Wisdom, p. 106-112. 49. M. HENGEL, Judaism and Hellenism, translated by J. BOWDEN, Philadelphia 1974. Hengel turned Bickerman into his intellectual master, who set the agenda for much of his scholarly career ; see M. HENGEL, “Erinnerungen an einen grossen Althistoriker aus St. Petersburg”, Hyperboreus 10 (2004), p. 192-194 =Studies, A New Edition in English, p. xlix-lii. 50. See for example H. CANCIK, “Besp. Martin Hengel, Judentum und Hellenismus”, Theologische Quartalschrift 151 (1971), p. 360-362 ; F. MILLAR, “The Background to the Maccabean Revolution : Reflections on Martin Hengel’s Judaism and Hellenism”, Journal of Jewish Studies 29 (1978), p. 1-21 ; M. STERN, “Review of Hengel, Judaism and Hellenism”, Studies in Jewish History : The Second Temple Period, Jerusalem 1991, p. 578-586 [Hebrew] ; ID., “Judaism and Hellenism in the Land of Israel in the Third and Second Centuries BCE”, Studies in Jewish History, p. 3-21 [Hebrew]. 51. BAUMGARTEN, “Elias Bickerman on the Hellenizing Reformers”, p. 149-179. Compare U. RAPPAPORT, “Elias Bickerman : Historian of Hellenization and the Decrees of Antiochus”, Cathedra 149 (5774), p. 143-152 [Hebrew]. Rappaport is unwilling to deem Der Gott der Makkabäer a failure in any sense, despite the fact that many scholars (including Rappaport himself) dissented from some of its major conclusions, because the book was so stimulating, original, and provocative. For a balanced attempt to consider the diverse aspects of Gott der Makkabäer see the conclusion of this article. 52. GRAFTON, “The Bible Scholar”, p. 37. See also K. Bringmann, “Elias Bickerman und der ‘Gott der Makkabäer’, Ein Historiker zwischen Theodizee und Geschichtswissenschaft”, Trumah, 17 (2007), p. 5-7. As Bringmann concluded there, concerning Der Gott der Makkabäer : In ihr steckt ein persönliches Glaubensbekenntnis. 53. See E.H. CARR, What is History ?, New York 1964. This book generated much discussion. For one important critique of Carr’s approach see J. H. HEXTER, Doing History, London 1971, p. 77-106. 54. For a full discussion of Rappaport’s critique of my approach in analyzing Bickerman’s life and works (above, n. 51) and my response see A. I. BAUMGARTEN, “Elias Bickerman’s Gott der Makkabäer,” [Hebrew] to appear soon in Cathedra. 55. The role of history as experimental politics, and therefore as the best teacher of politics, was a key element in the thought of Joseph de Maistre. See for example, J. DE MAISTRE, The Works of Joseph de Maistre selected, translated and with an Introduction by J. LIVELY, New York 1965, p. 114. 56. Bickerman to Raditsa, November 23, 1973, Raditsa Archive. Bickerman set forth his understanding of the matter in a chapter entitled “Why History ?”, in E. J. BICKERMAN, M. SMITH, The Ancient History of Western Civilization, New York 1976, p. 1-9. See further BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 80-82. 57. Bickerman to Goldin, March 24, 1976, responding to Goldin to Bickerman, March 21, 1976, both in Judah Goldin Files. 58. BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 25-30. 59. BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. vi, and 172. This was Bickerman’s revision of the principle stated by Spinoza, Tract. Theol. Pol. 7.6 : dico methodum interpretandi Scripturam haud differe a methodo interpretandi naturam. 60. BAUMGARTEN, “Elias Bickerman on the Hellenizing Reformers”, p. 162-169. 61. BAUMGARTEN, “Russian-Jewish Ideas in German Dress”. 62. The “Patriotic Union” held a rosy view of pre-revolutionary Russia but was not necessarily monarchist. Thus, D.S. Pasmanik (1869-1930) concluded his contribution to the Russian-German “Patriotic Union” volumes (D. S. PASMANIK, “Was erstreben wir eigentlich ?”, in J. M. BICKERMANN [ed.], Die Umwälzung in Russland und das Schicksal der russischen Juden, Ein Sammelwerk, aus dem Russischen übertragen, Berlin 1925, p. 210-211) by indicating that it mattered little to him whether a republican president or a Romanov monarch presided over the corpse of Bolshevik Russia.

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What mattered, as Peter Struve had remarked, was that Bolshevik rule end, not who buried it. Nevertheless, since the “Patriotic Union” supported the White Army, the conclusion that the group was monarchist was virtually inevitable. 63. O. BUDNITSKII. Russian Jews Between the Reds and the Whites, 1917-1920, translated by T. J. PORTICE, Philadelphia 2012, p. 412-413. 64. BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 263. Unfortunately I only found an announcement of the talk and of its title, but no summary of what Joseph Bikerman said. 65. BAUMGARTEN, “Elias Bickerman on the Hellenizing Reformers”, p. 169-177. 66. I owe this point to a suggestion of Martha Himmelfarb. 67. Seyrig was appropriately thanked for this role, BIKERMAN, Institutions des Séleucides. p. 2. 68. On Bickerman’s attitude towards the United States and New York see above, n. 12, p. 164, at n. 27, and further BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 161-163. In his letter to Robert of November 23, 1945 Bickerman complained about the quality of goods available in the USA : prices were the same as in 1942 (when he first came to NY), but the merchandise was inferior. When cigarettes were in short supply a black market quickly ensued. One wonders if Bickerman was encouraged to hate New York by his wife and her difficulties there, above, p. 164. In the end, did he blame the United States and New York for the failure of his marriage ? Was that part of the explanation for this hatred for the country that had saved him from the horrors of World War II ? 69. On the similarities between Bickerman and Nabokov’s Pnin, bumbling through a landscape in which he could never be at home, see BAUMGARTEN, Elias Bickerman, p. 156-158. Even Louis Robert, Bickerman’s close personal friend and admirer, thought he was un gaffeur, a blunderer, something of a schlemiel. 70. I understand this remark either as a reflection of the way Bickerman saw Nicholas II or as an ironic comment on the gap between Bickerman’s view of Nicholas II and the way others saw the last Tsar of Russia, See his depiction as an incompetent, indecisive, and half-literate rascal, A. TYRKOVA-WILLIAMS, From Liberty to Brest-Litovsk : The First Year of the Russian Revolution, London 1919, p. 4. 71. Bickerman’s politics remained out of step with those current in the liberal university world when at Columbia. See GRAFTON, “The Bible Scholar”, p. 37. 72. This is a point on which I am happy to agree with RAPPAPORT, “Elias Bickerman”, p. 150. 73. GRAFTON, “The Bible Scholar”, p. 38. 74. I owe this observation to Martha Himmelfarb. 75. M. SMITH, “Goodenough’s Jewish Symbols in Retrospect”, Journal of Biblical Literature 86 (1967), p. 65-66.

ABSTRACTS

This paper examines the letters of Elias Bickerman (1897-1981) to Louis Robert (1904-1985) found in the Fonds Louis Robert in Paris. It also considers comments by Henri Seyrig (1895-1973) writing to Robert concerning Bickerman in letters in that same collection. It argues that Bickerman’s agenda in Der Gott der Makkabäer was a matter of intense personal belief, in which history confirmed theology. This was opposed to the open attitude, in which conclusions were subject to revision, in Institutions des Séleucides. The paper utilizes that dogmatic setting to help

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explain why Der Gott der Makkabäer, while acknowledged as brilliant and original, convinced few other scholars. This conclusion is confirmed by comments concerning Bickerman in Seyrig’s letters to Robert. In the end, the article argues that while Der Gott der Makkabäer may have been a « failure » it should be compared to the failure of Columbus in reaching India, as a result of which Columbus discovered a new world. Few scholars ever achieve such important and creative failures as Bickerman did in Der Gott der Makkabäer.

Cet article étudie les letters d’Elias Bickerman (1897-1981) à Louis Robert (1904-1985), découvertes dans le Fonds Louis Robert, à Paris. On y prend aussi en considérations les commentaires faits par Henri Seyrig (1895-1973) lorsqu’il écrit à Louis Robert concernant Elias Bickerman dans les lettres du même fonds. On y défend la position que, pour Bickerman, la rédaction de Der Gott der Makkabäer était une question de croyance personnelle intense, dans laquelle l’histoire confirmait la théologie. Une telle posture se situait aux antipodes de l’attitude ouverte qu’il manifestait dans les Institutions des Séleucides, avec des conclusions susceptibles d’être révisées. On analyse ce positionnement dogmatique pour expliquer pourquoi Der Gott der Makkabäer, bien que salué comme un livre brillant et original, finit par convaincre un petit nombre de spécialistes. Une telle conclusion est confirmée par les commentaires que fait Seyrig au sujet de Bickerman dans ses lettres à Robert. Au final, le présent article suggère que, si Der Gott der Makkabäer a pu être un « échec », il faut le comparer à celui de Christophe Colomb atteignant l’Inde, un résultat qui lui valut de découvrir le nouveau monde. Rares sont les savants qui ont à leur actif des « échecs » aussi importants et créatifs que Bickerman dans Der Gott der Makkabäer.

INDEX

Mots-clés: Elias Bickerman, Louis Robert, Henri Seyrig, Institutions des Séleucides, Der Gott der Keywords: Elias Bickerman, Louis Robert, Henri Seyrig, Institutions des Séleucides, Der Gott der Makkabäer

AUTHOR

ALBERT I. BAUMGARTEN Bar Ilan University [email protected]

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Le roman historique est-il archéocompatible1 ?

Claude Aziza

1 On voudra bien pardonner ici un terme volontairement ludique pour un sujet qui risque de l’être moins, à savoir examiner les liens entre la toute jeune archéologie et ce nouveau genre littéraire qu’est le roman, qu’il soit historique ou autre. Tous deux sont nés à la fin du XVIIIe siècle, ont prospéré tout au long du siècle suivant, ont fait les beaux jours du XXe et se portent à merveille aujourd’hui. Ce type de roman a-t-il une dette envers cette jeune science ? Les chantiers de fouilles ont-ils inspiré des romans historiques ? Tentative de réponse en six romans et autant de nouvelles.

Les Derniers Jours de Pompéi ou l’Antiquité ressuscitée (1834)

2 Peu de temps avant Les Martyrs (1809), en 1804, Chateaubriand, secrétaire d’ambassade à Rome depuis 1803, est allé voir Pompéi. Il en a retiré une impression, très en avance pour son temps : « Il faut laisser les choses, écrit-il dans son Voyage en Italie, dans l’endroit où on les trouve. Ne serait-ce pas là le plus merveilleux musée de la terre ? Une ville romaine conservée tout entière, comme si ses habitants venaient d’en sortir un quart d’heure auparavant ? » Un autre écrivain ira encore plus loin, E.G. Bulwer- Lytton (1803-1873).

3 Car, en ce début de siècle, pour ressusciter la vie des siècles passés, il fallait à la fois se faire historien et « antiquaire », terme qui englobera au siècle suivant à la fois l’historien et l’archéologue des siècles passés. Walter Scott survint alors, qui commença à vouloir faire revivre cette Écosse, d’où il était originaire. Ses romans furent portés aux nues dans toute l’Europe. Mais, bien qu’elle ne touchât en rien à l’Antiquité, l’œuvre romanesque de Scott allait jeter les bases d’une nouvelle vision historique qui inspirera tout le siècle, mais, au premier chef, le plus grand des disciples du romancier, Edward George Bulwer-Lytton, l’immortel auteur des Derniers Jours de Pompéi.

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4 Edward George Bulwer, qui deviendra plus tard (en 1866) baron Lytton de Knebworth, reste aujourd’hui, l’homme d’un seul roman mais en réalité ses œuvres dépassent la centaine. Poète couronné, auteur dramatique à succès, romancier doué, homme d’État, grand voyageur, il a été tout cela.

5 Mais revenons à cet hiver 1832-1833 qui voit notre jeune romancier, marié depuis peu, partir en Campanie avec une épouse pour laquelle il n’éprouve pas une grande passion. Laquelle goûte peu aux charmes d’une région alors insalubre et préfère les agréments napolitains aux rêveries sur les cités disparues. Va-t-elle peu ou prou rendre jaloux son tiède époux ? Va-t-il retrouver au pied du Vésuve, alors éteint, le souvenir d’un amour de jeunesse déçu ? Peu importe. Le cœur a ses raisons qui nourrissent la création littéraire : c’est l’essentiel. Il faut imaginer notre jeune écrivain romantique errant, seul, le cœur en écharpe, dans une cité alors ouverte à tous, devenue, depuis un petit demi-siècle, le lieu de passage obligé de toute l’Europe. Le Vésuve prend part à la fête : il gronde en 1794, perd encore deux cent mètres de haut mais se rattrape en dévorant Torre Del Greco ; il s’épanche encore en 1822.

6 Mais rien n’y fait : écrivains et princes affluent : Goethe, puis Walter Scott, en compagnie de William Gell, auteur d’ouvrages savants sur Pompéi, à qui Bulwer-Lytton – qui fut son hôte à Naples – dédicacera son roman en lui témoignant toute son admiration. C’est sans doute par lui qu’il connut les réactions de Scott visitant Pompéi : « La cité de la Mort ! La cité de la Mort. » On peut imaginer que cette réflexion lui a donné le désir de refaire de Pompéi une cité de la Vie. Il arrivait d’ailleurs au bon moment ; les découvertes succédaient aux découvertes : en 1810, des amulettes trouvées dans le temple d’Isis, un des hauts lieux du roman, en 1815, l’amphithéâtre est dégagé, en 1824, c’est le tour du temple de la Fortune Auguste et, un an plus tard, c’est la découverte d’une maison que l’on baptise « Maison du poète tragique ». Ce sera la demeure de Glaucos, le héros du roman. En 1831, encore, on découvre la superbe mosaïque d’« Alexandre à Issus ».

7 Le secret du roman se trouve alors dans la préface : « Repeupler une fois encore ces rues désertes, restaurer ces ruines élégantes et réanimer des ossements encore cachés (au) regard, traversant un gouffre de dix-huit siècles et éveillant à une seconde existence la cité de la Mort ! » Il s’agit non seulement de rivaliser avec le Maître mais, bien plus, de le surpasser. Mais la tâche est difficile, « car, nous sommes sans lien domestique ou familier avec l’âge classique […] ; et ces choses, liées à des souvenirs d’étude imposées comme besogne et non cultivées comme plaisir, nous furent rendues encore plus usées par les pédanteries scolastiques qui en premier lieu nous les firent connaître. »

8 Les Derniers Jours de Pompéi paraissent en 1834, le romancier a choisi une fiction directement liée à l’histoire mais il a mis l’érudition à son service. Certes il sait se montrer latiniste, archéologue, historien, moraliste, philosophe. Mais il refuse la pédanterie, adopte un langage vivant, n’hésite pas devant les situations mélodramatiques et se veut poète romantique. Pompéi, sous les auspices de Scott et de Goethe, est redevenue une cité vivante que l’on peut visiter avec pour guide le roman de Bulwer-Lytton. Bien plus, au-delà d’un fatras romantique, un peu dépassé aujourd’hui, on y trouvera une mine de renseignements, dont certains donnent à voir des étapes aujourd’hui disparues de la résurrection de la cité. Avec les ans, le roman s’est fait à la fois guide archéologique, témoin d’un temps disparu, sans perdre sa force et son charme, fût-il parfois suranné.

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9 Avant Bulwer, il y avait eu, à Pompéi, Goethe, le 11 mars 1787 que l’exiguïté de la cité surprend et qui regrette, lors de sa visite à Herculanum, le lendemain que « les fouilles n’aient pas été faites méthodiquement par des mineurs allemands. » Il est vrai que trois ans plus tôt, en 1784, Winckelmann comptait dans les quelque cinquante travailleurs attribués aux fouilles – et dont seuls huit étaient au travail lors de sa visite ! – « les esclaves d’Alger et de Tunis »…

10 Après Chateaubriand, ce seront Madame de Staël, en 1805, Lamartine, en 1811, Stendhal, en 1817. Après lui Nerval, en 1834, l’année même de la parution du roman, puis, de retour d’Orient en 1843. Pompéi lui inspire un curieux texte, Le Temple d’Isis, souvenir de Pompéi, qui deviendra Isis (1845), une nouvelle reprise ensuite dans le recueil, Les Filles du feu (1854). Son ami Gautier, visite la cité en 1850. Cette visite lui inspirera, en 1852, une nouvelle, Arria Marcella. Flaubert, le suivra d’une année ; Taine viendra en 1864, Freud, enfin, en 1902.

11 Reste Alexandre Dumas qui suit d’une année Bulwer-Lytton, lui aussi à la recherche d’une Antiquité plus vivante que celle de ses souvenirs d’études.

Acté ou l’Antiquité flamboyante (1839)

« Quand je suis bien las, bien fatigué, bien abruti, je trouve un prétexte pour aller à Rome et j’y vais. Quand je ne trouve pas de prétexte, j’y vais encore. – Mais que faites-vous à Rome ? me demanderez-vous. – Oh ! ce que je fais à Rome, c’est bien facile à dire : je vais voir la via Appia ; je vais regarder couler le Tibre ; je vais m’asseoir sous une arcade du Colisée, et je dis à part moi : “Il faut pourtant que je fasse une histoire de Rome.” – Pourquoi ne la faites-vous pas alors ? – Parce qu’elle serait trop amusante ; personne ne la lirait. »

12 Aveu faussement naïf ou vraiment roublard ? Lorsque Dumas écrit ces lignes, en 1860, il a depuis longtemps compris que pour séduire avec l’Histoire, la vraie, la grande, les lecteurs, il vaut mieux avoir le sens de l’épopée ou du drame que celui de la pédagogie. Le secret ? Le romancier nous le livre dans la préface de Caligula (1837), une tragédie en cinq actes et en vers : faire revivre « toute une époque inconnue, ou, qui pis est, mal connue ; une époque que, arrivés à un certain âge, nous ne revoyons plus qu’à travers les souvenirs fastidieux du collège […]. Ajoutez à cela que l’Antiquité […] était tombée dans un si merveilleux discrédit, que l’ennui qu’elle traînait à sa suite était devenu proverbial […]. Je partis pour l’Italie, afin de voir Rome ; car, ne pouvant étudier le cadavre, je voulais au moins visiter le tombeau. Je restais deux mois dans la ville aux sept collines, visitant le Vatican le jour, et la nuit le Colisée ; mais après avoir tout rebâti dans ma pensée, depuis les prisons Mamertines jusqu’aux bains de Titus, je m’aperçus que je n’avais qu’une face du Janus antique ; face grave et sévère […]. C’était Naples, la belle esclave grecque, qui devait m’offrir ce second visage, voilé, pour nos grands maîtres, sous la lave d’Herculanum et la cendre de Pompéi. »

13 Arrivé le 19 juin en Italie, Dumas part donc pour Naples le 2 août, quasiment sur les traces de Bulwer-Lytton. Il y restera jusqu’au 23, après avoir longuement visité la ville, Pouzzoles, le Vésuve, Herculanum et Pompéi où il décide de séjourner, mais à sa façon : « Je descendis dans les souterrains de Résina, je m’établis dans la maison du Faune ; pendant huit jours je vécus, m’éveillant et m’endormant dans une habitation romaine, touchant du doigt l’Antiquité. » Faut-il le croire ? Avec ce diable d’homme, tout est possible !

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14 Cet amour pour Pompéi laissera chez Dumas une trace si profonde, cet émerveillement sera si durable, qu’en septembre 1860 – il vient de terminer son second roman sur Rome, les Mémoires d’Horace – il demande à Garibaldi, le nouveau maître du royaume de Naples, en récompense de ses services – fourniture d’armes – … la direction des musées de Naples et des fouilles de Pompéi. Et il l’obtient. Pour peu de mois, il est vrai : Fiorelli, l’inventeur des moulages, lui succédera en décembre.

15 Comment est donc venu à Dumas le désir de parler de l’Antiquité ? Sans doute pour les mêmes raisons que Bulwer-Lytton : dans les deux cas, il s’agit d’une Antiquité qui a pris les couleurs romantiques : un amour fou, auquel l’héroïne – tendre et touchante comme il se doit – succombe immédiatement. Elle y était prédestinée. Mais chez l’un, après avoir vaincu la folie des hommes et la rage de la nature, il triomphera. Alors que chez l’autre cet amour est sans espoir. Bien plus, il entraînera l’innocente Acté dans le péché au point qu’elle devra trouver dans la religion chrétienne – telle une nouvelle Marie-Madeleine – son salut par le rachat. Car chez nos deux romanciers, le christianisme n’est jamais bien loin. Parfois, comme chez le premier, en faisant fi de toute vérité historique.

16 Mais la radicale nouveauté d’Acté se trouve dans le portrait que le romancier a donné de Néron. La réputation sulfureuse de celui que les Pères de l’Eglise, avec une complaisance sans cesse renouvelée, ont nommé « l’Antéchrist », n’a jamais cessé de croître et d’embellir. Or Dumas, en l’absence de toute documentation scientifique sérieuse sur le personnage, en donne – comme beaucoup d’historiens contemporains – un portrait somme toute positif.

17 Le roman est construit comme une tragédie en cinq actes : les jeux de Corinthe, la cour de Néron, les catacombes, les noces impériales, la mort du tyran. Mais si Dumas ne résiste pas à décrire les jeux du cirque, bizarrement, il bâcle en quelques lignes, la tarte à la crème – si l’on ose dire – de tous les romans qui suivront : l’incendie de Rome de 64. Le romancier refuse la description pour la description : son héroïne n’est pas mêlée à l’incendie dont le complaisant tableau n’obéirait à aucune nécessité dramatique.

18 Si, avec Acté, la littérature française entrait, avec toute la pompe du triomphe romain, dans le roman à l’antique, l’influence de Chateaubriand restait trop grande pour qu’on puisse abandonner si vite l’Antiquité chrétienne. Il aura un successeur de talent en la personne du cardinal Wiseman, qui écrit en 1854 Fabiola ou l’église des catacombes.

Fabiola ou l’Antiquité chrétienne (1854)

19 La vie et la carrière du romancier, né à Séville en 1802, la même année que Dumas et Hugo, ne manquent pas d’intérêt. Brillantes études classiques, docteur en théologie, linguiste confirmé, spécialiste de l’hébreu et du syriaque. Ordonné prêtre en 1825, professeur d’hébreu et de syro-chaldéen au collège où il avait fait ses études, il commence une belle carrière à la fois scientifique et littéraire. Évêque en 1840, vicaire apostolique de Rome en 1850, nommé cardinal la même année par le pape Pie IX.

20 Après la publication d’Essais en 1853, Wiseman songe à une façon agréable et efficace de raconter les débuts du christianisme. Il y travaillait par à-coups déjà. Profitant d’une maladie et d’un lent voyage à Rome, il compose Fabiola dont le succès est immédiat. Il sera durable. À sa mort, en 1865, il aura droit à des funérailles nationales.

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21 Une lecture rapide du roman y verrait un ouvrage de patronage, relevé des structures littéraires nouvelles. Au mélodrame il emprunte son ton larmoyant, ses accents insupportable (du moins aujourd’hui), ses ressorts usés. Au feuilleton, ses coups de théâtre, ses reconnaissances subites, ses familles déchirées dont, ici, la fille est déjà « chrétienne de cœur », comme disait Tertullien en parlant de Pilate, tandis que le père est un Romain de la vieille espèce. Pourtant le roman puise aux meilleures sources de la recherche historique du siècle. Wiseman, antiquisant confirmé, est au fait de la toute nouvelle archéologie chrétienne, illustrée par Giovanni Battista de Rossi. Ainsi Fabiola peut, à la limite, se présenter comme un manuel d’archéologie chrétienne à l’usage des jeunes lecteurs du XIXe siècle, des adultes du XXe siècle et des savants du XXIe siècle…

22 Le hasard fait que paraît en cette même année 1854, cette somme monumentale qu’est l’Histoire romaine de Theodor Mommsen (1817-1903). Quant aux résultats des recherches de Rossi, ils ont certes été publiés après le roman (en 1861, ses Inscriptiones Christianae Urbis Romae, suivies par le Dictionnaire des Antiquités chrétiennes de Martigny, en 1865) mais ses travaux ne sont pas restés inconnus de Wiseman qui les cite sans cesse dans ses notes. Enfin, il faudrait pouvoir démontrer – mais la chose est difficile – que le roman de Wiseman est aussi un jalon important dans l’histoire de l’Église au XIXe siècle. On ne peut que signaler quelques éléments qu’on voudrait signifiants. Il est clair que le public, déjà fasciné par les découvertes de l’archéologie païenne, notamment à Pompéi, a goûté aux charmes de celle chrétienne. Un exemple, entre cent, le plus spectaculaire peut-être : c’est en 1854 – encore une coïncidence – que fut mise à jour la « crypte des papes », une chambre souterraine qui abrite les dépouilles de nombre de papes du IIIe siècle, la plupart morts en martyrs. Tout près se trouve le cubiculum qui abritait jusqu’au Xe siècle, la tombe de sainte Cécile, la Caecilia du roman.

23 Tout comme pour Pompéi, le public sera fasciné par ces mondes souterrains au point de s’en faire une idée aussi romantique qu’inexacte. S’il fallait une clé pour expliquer le succès de Fabiola (voire celui de ses épigones), nous la rechercherions volontiers dans le roman de Bulwer. Ici et là un monde enseveli que fait redécouvrir l’archéologie, un monde souterrain, une descente aux enfers, païens ou chrétien, peu importe. Une société paisible tournée vers l’amour – païen ou divin – qu’une catastrophe imminente, volcan ou persécution, menace de détruire. Quant au portrait que fait Wiseman des tyrans persécuteurs que sont Dioclétien et Galère, il emprunte des traits à celui – moins traditionnel – du héros du roman de Dumas.

24 Mais, il est temps de revenir en France pour découvrir d’autres horizons antiques, du haut des pyramides ou dans les ruines de Carthage. Changement de décor !

Le Roman de la momie ou l’Antiquité refuge (1857)

25 Qui mieux que Baudelaire a pu comprendre Gautier (1811-1872) qui fut son maître et son modèle ? « Le goût du beau, écrit-il dans L’Art romantique, est pour lui un fatum. […] La muse de Théophile Gautier habite un monde plus éthéré. […] Elle aime ressusciter les villes défuntes, et faire redire aux morts rajeunis leurs passions interrompues. […] Mais ce qu’elle aime surtout, c’est, debout sur les rivages parfumés de la mer Intérieure, nous raconter avec sa parole d’or cette gloire qui fut la Grèce et cette grandeur qui fut Rome… »

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26 Pour Gautier dont la sensibilité tient à la fois du peintre qu’il aurait voulu être et du poète qu’il refusa toujours d’éteindre en lui, malgré les vicissitudes d’une vie tout entière de labeur, pour Gautier, donc, l’Antiquité, plus que ce Moyen Âge – mythique – où se réfugièrent ses pairs, est, d’abord, un monde de grâces, de charmes et de beauté. Cette beauté sous toutes ses formes, les récits, roman et nouvelles, où Gautier évoque le monde antique permettent d’en saisir les multiples aspects.

27 Qu’y a-t-il de commun, en effet, entre l’Égypte des pharaons du Roman de la momie (1857) et l’Athènes de Périclès de La Chaîne d’or ou l’amant partagé (1837) ? Entre la mythique Lydie du Roi Candaule (1844) et la troublante Pompéi d’Arria Marcella (1852) ? Entre la Cléopâtre d’Une nuit de Cléopâtre (1838) et l’Omphale d’Omphale, ou la tapisserie amoureuse (1834) ? Peu de choses, sinon que toutes, peu ou prou, sont associées à des contrées fabuleuses où le rêve peut prendre son essor sans entraves et où l’imagination se donne libre cours dans une luxuriance de formes et de couleurs.

28 Mais d’où vient l’amour de l’Égypte chez Gautier ? S’il est lié aux découvertes archéologiques de son temps, on le fera remonter à cette année 1817 où Belzoni découvre l’hypogée de Séti Ier qu’il reconstitue à Paris en 1823. À moins que ce ne soit l’exposition de la collection Passalacqua à la galerie Vivienne, à Paris, cette même année 1826 qui voit la création, le 16 mai, au Louvre d’une salle (ouverte au public le 6 janvier 1828) consacrée aux monuments égyptiens dont Champollion est le conservateur. Ce même Champollion, de retour en 1829, d’un voyage en Égypte avec un cadeau… pharaonique : l’obélisque de Louxor et qui prononce sa leçon inaugurale d’Égyptologie le 10 mai 1831 au Collège de France, avant de mourir le 4 mars 1832, laissant des Lettres écrites d’Égypte et de Nubie en 1828 et 1829, publiées en 1833 et où l’on trouve le nom de l’héroïne du roman de Gautier, Tahoser, mais orthographié ici Thaoser.

29 À moins qu’il ne faille chercher du côté des « orientalistes », surtout chez Prosper Marilhat qui expose au salon de 1834 une vue du Caire : Place de l’Esbekieh. Dont Gautier dira dans un article du 9 mars 1836, repris dans la Revue des Deux Mondes le 1 er juillet 1848 : « Aucun tableau ne fit sur moi une impression plus profonde et plus longtemps vibrante […]. Je crus que je venais de reconnaître ma véritable patrie. » Ou du côté de la musique avec l’opéra de Rossini, Moïse ou le passage de la mer Rouge que l’opéra de Paris reprend en 1852.

30 Mais dans l’œuvre de l’écrivain tout commence en 1840 par un pied charmant qui trouble et qui fascine celui qui le contemple. À lui en faire perdre la raison. C’est un pied de femme, bien sûr, bien conservé des outrages du temps qu’il a traversé, derrière le rempart de ses bandelettes, pour vanter les charmes vénéneux du passé et flatter les fantasmes… de son créateur. On l’aura deviné, c’est un pied de momie et Théophile Gautier, l’auteur de la nouvelle homonyme (parue en septembre 1840 dans Le Musée des familles), fait partie de ces hommes du XIXe siècle pour qui la femme est d’autant plus objet de désir qu’elle se présente sous la forme de morceaux choisis ! Entre le pied et la momie tout entière dix-sept ans. Marqués par l’exposition de « la chambre des Rois » de Karnak à la Bibliothèque nationale en 1844 et par les « Nostalgies d’obélisques » de Gautier, publiées dans la Presse du 4 août 1851. Surtout peut-être, par la publication, en 1856, de l’Histoire des usages funèbres et des sépultures des peuples anciens d’Ernest Feydeau dont l’écrivain fera un compte rendu nourri le 31 octobre 1856 dans Le Moniteur universel.

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31 On y est ou presque : du 11 mars au 6 mai 1857 Le Roman de la momie paraît dans Le Moniteur universel, puis en librairie en avril de l’année suivante. L’Égyptomanie avait enfin son drapeau littéraire ! Deux ans avant le début des travaux de creusement du futur canal de Suez. Là, se mêlent harmonieusement thèmes bibliques, l’Exode et la traversée de la mer Rouge, égyptomaniaques, la recherche archéologique, fantastiques, un amour qui traverse le temps et… oniriques, la recherche – presque platonicienne – de l’objet du désir qui permettra au Moi divisé de retrouver son unité. Roman de l’amour impossible, celui que l’on retrouvera dans toutes les nouvelles de Gautier.

32 Mais le retour à la réalité réservera bien des déceptions au poète quand il sera confronté en juin 1867, lors de l’Exposition universelle, au démaillotage, si à la mode à l’époque, d’une momie, Nes-Khons, qui n’a que de lointains rapports avec la charmante Tahoser. Mais surtout, deux ans plus tard, lorsqu’il part, enfin, en Égypte pour l’inauguration du canal de Suez et que, victime d’une chute sur le bateau, il ne peut jouir pleinement de ce moment tant attendu. Une seule et maigre consolation : il sera logé à l’hôtel Sheppeard… place de l’Esbekieh. « On nous logeait dans notre rêve », s’écrie-t-il, avec le ravissement d’un désir enfin réalisé et la mélancolie qui en suit nécessairement sa satisfaction. Car Gautier restera toute sa vie un « animal triste post scriptum ». Merci Lucrèce…

33 Domaine du beau, refuge de l’idéal, l’Antiquité c’est aussi le territoire de « la rétrospective évocatrice », pour reprendre les termes de Georges Poulet dans ses Études sur le temps humain (1949). « C’est une espèce d’évocation magique du passé, où ce que les yeux ont vu et ne reverront plus, se relève un moment de sa tombe d’oubli, et apparaît avec les couleurs d’une vie fantasmatique. » L’art peut donc par une sorte d’effet, que Gautier lui-même nomme « galvanisme » – un terme à la mode –, ressusciter les morts, si bien qu’on finit par s’intéresser aux fantômes qu’évoque la magie du poète, qu’on les prend pour les individualités historiques dont il a voulu remuer les cendres.

34 Ces cendres ne sont-elles point précisément celles qui recouvrirent, en 79 de notre ère, la ville de Pompéi et qui enchâssèrent dans un sarcophage de boue durcie Arria Marcella ? Que le regard d’Octavien, le héros de la nouvelle de Gautier, délivrera de sa prison, tout comme celui de lord Evandale fera revivre la momie Tahoser. Ainsi l’imagination recrée un monde antique qui éveille le désir et transporte l’esprit hors du temps. C’est ce que va, à son tour, tenter Flaubert.

Salammbô ou l’Antiquité évasion (1862)

35 « Peu de gens devineront combien il a fallu être triste pour entreprendre de ressusciter Carthage ! C’est là une Thébaïde où le dégoût de la vie moderne m’a poussé. » C’est ainsi que Gustave Flaubert (1821-1880) annonce, le 29 novembre 1859, son projet à Ernest Feydeau, le même qui inspira – on l’a vu – Gautier. En fait, il remonte bien plus loin, à cette année 1850, où il voyage en Égypte, avec son ami Du Camp. Un « conte égyptien (lui) trotte dans la tête » : Anubis ou l’histoire d’un amour impossible. La rédaction de Madame Bovary va l’épuiser : « Cette cohabitation morale avec des bourgeois me tourne sur le cœur et m’épuise. Je sens le besoin de vivre dans des milieux plus propres […]. Il est temps que je m’amuse […] C’est pourquoi je me perds, tant que je peux, dans l’Antiquité. » Annoncé depuis 1857, maintes fois retardé après son voyage à Carthage en 1858, le roman est repris de fond en comble à partir de juillet 1858.

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36 Primitivement, il devait s’appeler Les Mercenaires, puis il se transforme en Salammbô, roman carthaginois, enfin il s’intitule Salammbô. Le nom même de l’héroïne a considérablement varié : Pyra, Pyrrha, Hanna, Salambô (avec un seul M). Avant d’aboutir au titre final dont le sens, voulu par l’écrivain par l’ajout d’un second M (qui oblige à prononcer SALAMM), renvoie à la fois à Emma Bovary – ce que comprendra fort bien Sainte-Beuve dans sa critique du roman – et à la formule orientale Salamm qui est une sorte de salut. C’est donc une façon de saluer Emma Bovary à laquelle Salammbô emprunte bien des traits mais en même temps de dire adieu – pour un temps du moins – à la forme réaliste romanesque qui avait été jusque-là celle de Flaubert, pour aborder un style baroque et flamboyant. Soutenu par « un travail archéologique formidable » (« J’ai une indigestion de bouquins. Je rote de l’in-folio […] Savez-vous combien je me suis ingurgité de volumes sur Carthage ? Environ 100 »).

37 Car beaucoup d’ouvrages ont paru depuis 1833 et les travaux de C.T. Falbe, consul général du Danemark à Tunis, qui dresse une carte archéologique de Carthage pour accompagner ses Recherches sur l’emplacement de Carthage. Quatre ans plus tard on crée une « Société pour l’exploration de Carthage », dont le président, Dureau de la Malle, avait publié, en 1835, des Recherches sur la topographie de Carthage. Mais c’est en 1859 que commence vraiment, avec Charles-Ernest Beulé, « l’inventeur » des Propylées de l’Acropole d’Athènes, la résurrection de Carthage. Bientôt Edmond de Sainte-Marie découvre 2 000 stèles puniques. Ernest Renan fait, de 1860 à 1861, une mission d’exploration en Phénicie. On peut imaginer que la création, en 1885, d’un service des Antiquités à Carthage doit beaucoup à l’immense succès du roman de Flaubert.

38 En l’écrivant, le romancier a voulu, comme il l’écrit à Sainte-Beuve, « fixer un mirage ». Mais ce mirage, il n’a pu lui donner forme qu’en « appliquant à l’Antiquité les procédés du roman moderne ». Roman historique ? Roman archéologique ? « Roman antique », le terme est de l’écrivain lui-même ? Roman réaliste même ? « Roman carthaginois », voire ? Flaubert sait bien que « si le roman est aussi embêtant qu’un bouquin scientifique, bonsoir, il n’y a plus d’Art. » Voila pourquoi le formidable travail archéologique, théorique et pratique, sur le terrain, à Carthage, auquel s’est livré l’écrivain, ne vise pas à une vérité, impossible, du moins à l’époque, à atteindre. Il s’agit surtout de « faire vrai », de créer une « illusion » de réalité, bref d’aboutir à cet « effet de réel », au sens où l’entendra Barthes, un siècle plus tard.

39 Cette Antiquité punique, dont le visage barbare tranche avec celui plus policé de la grecque ou de la romaine, se veut comme une provocation lancée à la face de la société gourmée du temps de Flaubert. Ne déclare-t-il pas lui-même : « Salammbô 1° embêtera les bourgeois, c’est-à-dire tout le monde ; 2° révoltera les nerfs et le cœur des personnes sensibles ; 3° irritera les archéologues ; 4° semblera inintelligible aux dames ; 5° me fera passer pour pédéraste anthropophage ? Espérons-le » (Lettre à E. Feydeau, octobre 1862). Mais là ne se situe pas la scandaleuse nouveauté du roman. Les moments sadiques (la fameuse « grillade des moutards ») ne font plus frémir et la version définitive a émoussé les audaces érotiques (la « baisade sous le péplos »).

40 C’est sur le plan de l’écriture, dans le choix du vocabulaire, dans les hardiesses de la forme, cette forme poétique appliquée au romanesque. Ajoutons que s’intéresser à « une civilisation perdue, anéantie ; un pays de ruines » – les mots sont de Sainte-Beuve –, c’est relever un défi : « Ce n’est pas une petite ambition que de vouloir entrer dans le cœur des hommes quand ces hommes ont vécu il y a plus de deux mille ans et dans une civilisation qui n’a rien d’analogue avec la nôtre. » On croirait lire la préface des

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Derniers Jours de Pompéi ou retrouver les mots de l’ami Gautier, qui avait joué un si mauvais tour à Flaubert ! Ne lui avait-il pas chipé cette Égypte qui l’avait tant fait rêver ? À la suite du romancier, l’Antiquité prit de nouvelles couleurs. Dont certaines seront bibliques grâce à Lewis Wallace.

Ben-Hur ou l’Antiquité messianique (1880)

41 Lewis Wallace (on dira ensuite Lew) est né le 10 avril 1827 à Brookville, dans l’Indiana. Des études de droit le mènent au barreau mais, il s’engage, en 1846-1847, dans la guerre que les États-Unis mènent contre le Mexique. Colonel au début de la guerre de Sécession, il s’y illustre en sauvant même Washington d’un coup de main ennemi. Major général à la fin de la guerre, il devient gouverneur du Nouveau Mexique de 1878 à 1881 (on peut même l’apercevoir dans un coin de western !), puis ambassadeur en Turquie de 1881 à 1885. Retiré alors de la vie politique, il continuera une carrière littéraire commencée en 1873 avec Le Dieu de beauté, un roman qui relate son expérience mexicaine et continuée avec le succès qu’on sait, en 1880, avec Ben-Hur. Un récit messianique. Il reviendra à l’Antiquité évangélique, en 1885, avec Le Prince de l’Inde, un récit qui met en scène le Juif Errant. Il meurt en 1905.

42 Musicien, peintre, écrivain, soldat, diplomate, Lew Wallace avait tous les dons. Mais rien pourtant ne le prédisposait à écrire le roman qui le rendra universellement célèbre, Ben-Hur. Roman dont le héros, le prince Juda Ben-Hur, d’illustre famille, va voir son destin bouleversé. Capturé, humilié, dépouillé de son bien, envoyé aux galères, le jeune aristocrate doit se venger de son ancien ami, le Romain Messala. En chemin, il rencontrera l’amour et la révélation divine. Le sous-titre auquel on ne prête généralement assez peu d’attention indique bien le sens du récit : la venue d’un prophète nommé Jésus, fils de David, qui passait, aux yeux de certains Juifs, pour le Messie tant attendu.

43 Ce qui étonne dans l’accueil enthousiaste fait à Ben-Hur, à moins que ce ne soit un début d’explication, c’est la complète étrangeté de l’œuvre dans la production littéraire américaine de l’époque. Ben-Hur demeure, dans la littérature américaine de la fin du XIXe siècle, littérature qui ne s’est jamais soucié d’Antiquité, un « apax ». Peut-on en trouver la source en Europe ? Rien n’est moins sûr : entre Fabiola et Quo Vadis ? entre 1854 et 1895, rien, ou si peu, qui puisse, du moins dans le domaine romanesque, inspirer Wallace.

44 En revanche la science historique avait marché à grands pas et la figure de Jésus, dégagée des enluminures christiques, prenait, peu à peu, difficilement mais sûrement, épaisseur humaine. Dès 1835-1836, D.F. Strauss, dans sa Vie de Jésus, tentait d’unir les faits historiques, à savoir l’existence d’un Jésus ancré dans une réalité historique, et les éléments mythiques ajoutés par la suite : double portrait d’un Jésus historique face à un Christ idéalisé. Sans avoir publié de vie de Jésus, F.C. Baur, dans son Paul apôtre de Jésus (1845) appliqua à l’histoire du christianisme primitif la fameuse triade hégélienne : thèse (le courant judéo-chrétien de Pierre et de Jacques), antithèse (le courant hellénistico-chrétien de Paul), synthèse (l’Église catholique). Sans nier toutefois l’existence de Jésus. Ce que finit par faire radicalement son adversaire, Bauer, qui voyait le christianisme primitif comme une fusion entre le stoïcisme et le judaïsme hellénistique. Cette thèse coûta à son auteur, en 1842, la défense d’enseigner.

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45 Ce qui arriva, vingt ans plus tard, à E. Renan (1823-1892). Sa Vie de Jésus (1863) fut le premier pas de la critique française sur un terrain dont elle n’avait pas l’habitude et déclencha un tollé général et… un immense succès. Dix rééditions et onze traductions à la fin de l’année 1863. L’année suivante, une version plus accessible, Jésus, se vend à un million d’exemplaires. En juin 1864 Renan est révoqué de sa chaire d’hébreu du Collège de France, chaire qu’il ne retrouvera qu’en 1870. Historien, linguiste, archéologue, homme d’étude et de terrain, Renan, qui vient de publier en 1874, son fameux Recueil des inscriptions sémitiques, ne pouvait pas ne pas être connu de Wallace.

46 Mais ce sont surtout les avancées de la recherche archéologique qui ont dû retenir son attention : Américains, comme Edward Robinson qui découvre à Jérusalem ce qu’on nomme depuis « l’arche de Robinson », au pied du mont du Temple ; Français, comme F. de Saulcy qui creuse, en 1863, et met au jour, à l’extérieur de la vieille ville, des tombes royales ; Anglais qui s’activent depuis la fondation, en 1863, du « Palestine Exploration Fund » et dont l’un deux, Charles Warren, repère, entre 1867 et 1870, dans la cité de David, le « puits de Warren ». Bref, le roman de Wallace a les couleurs de l’actualité.

47 L’action relève à la fois de la parabole : un Juif va, peu à peu, ouvrir les yeux sur le Christ ; qui plus est, un Juif de noble famille. Et du roman-feuilleton : la vengeance d’un homme dépouillé de ses biens et trahi par son meilleur ami. C’est ce mélange de ficelles romanesques et de ton inspiré qui donne au récit ce charme si particulier. La structure en est très classique et le découpage semble appeler déjà le scénariste ! Des lieux mythiques : Jérusalem, Antioche, Rome, le désert. Des morceaux de bravoure : la bataille navale, la course de chars, la descente chez les lépreux. La figure de Jésus dont la main soulage la soif du prisonnier qui, à son tour, tentera ensuite de lui venir en aide. En vain, on s’en doute. Tout cela vaudra au roman un triomphal accueil. Il faudra attendre plus de vingt ans pour que, avec Freud, l’on revienne à Pompéi.

Gradiva ou l’Antiquité fantasmatique (1903 et 1907)

48 Depuis 1896, Sigmund Freud a pris l’habitude de partir à l’étranger, la plupart du temps en Italie de la fin août à la mi-septembre. En 1902, avec son frère Alexandre, il s’installe à Sorrente ; il visite Naples et la région du Vésuve. L’étape la plus importante est, on s’en doute, Pompéi.

49 Freud possède des ouvrages sur la cité disparue. Il en a étudié les rues avec passion : « J’attends avidement les beaux jours ; pendant les quelques semaines où j’ai pu avoir une heure de liberté, je n’ai rien fait qu’étudier les rues de Pompéi » (lettre à Fliess du 12 avril 1897). Il en a rêvé (lettre au même du 28 avril 1897). Il a placé dans son bureau la reproduction d’un « fragment de mur pompéien avec un centaure et un faune » qui le « transporte vers son Italie tant désirée » (lettre au même du 24 mai 1901).

50 À Sorrente se mêlent dans son esprit le parfum des orangers et la beauté des ruines. Peu à peu, au cours de ses voyages en Italie et en Grèce, Freud va prendre conscience de l’étroite parenté qui existe entre l’archéologue et l’analyste. L’un et l’autre essaient d’exhumer ce qui est demeuré enfoui d’une antique civilisation ou d’un désir infantile.

51 Il aurait pu, s’il avait été plus amateur de fiction, ajouter l’auteur de romans historiques. Lui aussi, comme l’analyste, remonte dans le temps, pour retrouver dans le

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passé ce qui, comme le pensaient Gautier ou Waltari, est resté enseveli en lui-même ; pour tenter, à travers des destins antiques, de comprendre le sien.

52 Durant l’été 1906, Freud lit une nouvelle de Wilhelm Jensen (1837-1911), parue en 1903 : Gradiva, fantaisie pompéienne, que Carl Jung lui a conseillée. Immédiatement il en écrit un commentaire, qui paraîtra en 1907 : Le Délire et les rêves dans la Gradiva de Jensen. C’est qu’il a pris conscience qu’« il n’y a pas de meilleure analogie du refoulement – qui tout à la fois rend un élément psychique inaccessible et le conserve – qu’un ensevelissement comme celui qui a été le destin fatal de Pompéi et dont la ville a pu émerger à nouveau par le travail de la pioche ». Cette approche ne rencontrera guère d’écho chez Jensen, qui refusera même de rencontrer Freud, mais elle ouvrira une voie féconde à l’application de la méthode analytique aux textes littéraires – et consacrera définitivement Pompéi dans son rôle de cité fantasmatique.

53 Freud, quant à lui, gardera toujours une tendresse secrète pour cette femme, la Gradiva. À Rome, en 1907, il fait enfin sa connaissance : « Pense à ma joie, écrit-il à son épouse Martha, le 24 septembre, en rencontrant aujourd’hui au Vatican, après une si longue solitude, le visage connu d’un être qui m’est cher ; mais la reconnaissance a été unilatérale, car il s’agissait de Gradiva, accrochée tout au haut d’un mur. » Désormais le moulage du bas-relief montrant une jeune fille traversant une rue figurera dans son bureau – et dans celui de bien des analystes –, avec des fresques pompéiennes.

54 La nouvelle de Jensen, grâce à Freud, est devenue universellement célèbre. Son héros en est Norbert, un jeune archéologue qui croit retrouver à Pompéi une Pompéienne dont le bas relief l’a troublé : Gradiva. Il lui parle en latin, elle lui répond dans la même langue. Il comprendra à la fin du récit qu’en fait il avait retrouvé une amie d’enfance, bien oubliée depuis des années et dont il était secrètement épris.

55 Quel dommage que Freud n’ait pas connu Arria Marcella, souvenir de Pompéi, la nouvelle de Gautier déjà évoquée ! Nul doute qu’il y aurait trouvé un plus beau sujet d’études. Car le récit de cette nuit fantastique où le jeune Octavien, en visite avec des amis à Pompéi, se retrouve dans la cité redevenue vivante, pourrait aisément faire l’objet d’une étude psychanalytique avec, bien sûr, toute la part d’arbitraire qu’elle suppose. Je verrais volontiers, pour ma part, dans le récit de Gautier, les quatre manifestations du désir et poserait les quatre termes de la phase fantasmatique : désir, interdit, transgression, sanction.

56 Au fond, si la cure analytique de Norbert a réussi : en bonne analyste, la pseudo Gradiva est entrée dans le fantasme de son analysant-amoureux, puis, par elle et pour elle, il en est sorti, pour revenir à la réalité. L’analyse d’Octavien, en revanche, a échoué : il n’a pas pu échapper au sien et il sera malheureux toute sa vie. N’en fut-il pas ainsi pour son créateur ?

57 On aurait pu aussi évoquer la Crète et les travaux d’Evans qui eurent un écho de l’œuvre de Nicos Kazantzakis ou l’Afrique du Sud avec les ruines de Zimbabwe qui firent rêver, en 1885, H. Ridder Haggard et ses Mines du roi Salomon.

58 Ainsi donc, au siècle qui assiste à la naissance conjointe du roman historique et de l’archéologie, la pioche des archéologues a souvent inspiré la plume des romanciers. Sous les couleurs d’une Antiquité nouvelle, revivifiée, de nouveau vivante.

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NOTES

1. Ce texte est la version abrégée d’une conférence faite le 18 octobre 2014, au Musée archéologique de Nîmes, dans le cadre d’un cycle sur l’Archéologie.

RÉSUMÉS

Le roman historique et l’archéologie sont nés pour ainsi dire en même temps. Chacun d’eux plonge ses racines dans l’Histoire mais le premier fait partie des Belles Lettres alors que la seconde entre dans le champ des sciences humaines. Pourtant, tout au long du XIXe siècle, se tissent d’invisibles liens entre les découvertes archéologiques et les productions fictionnelles à sujet antique. L’Égypte, la Grèce, Rome, l’Afrique inspirent les romanciers qui marchent sur les pas des archéologues. Thèbes, Pompéi, Rome, Carthage, Jérusalem, autant de noms qui suscitent un imaginaire dont la poésie masque l’érudition.

Historical novel and archaeology are not, so to speak, born together. Each one is rooted in History but the first one is part of Belles Lettres, while the second one of Human Sciences. Nonetheless, all along the 19th century, invisible links have been created between archaeological discoveries and fictions about Antiquity. Egypt, Greece, Rome, Africa inspired novelists, who walked on the footprints of archaeologists. Thebes, Pompeii, Rome, Carthage, Jerusalem, so many names that evoke an imaginary where the poetic masks the erudite.

INDEX

Keywords : Archaeology, Egyptology, historical novel, Pompeii, Rome, Jerusalem, Carthage, Egypt Mots-clés : archéologie, égyptologie, roman historique, Pompéi, Rome, Jérusalem, Carthage, Égypte

AUTEUR

CLAUDE AZIZA Université de la Sorbonne Nouvelle, Paris III [email protected]

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Actualités et débats

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Entre ici et ailleurs. Les enjeux des comparatismes Entretien avec Christian Jacob1

1 Christian Jacob est directeur de recherche au CNRS et directeur d’études à l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (Paris). À partir de travaux consacrés à l’histoire et à l’épistémologie de la géographie antique (L’Empire des cartes, 1992 ; Géographie et ethnographie en Grèce ancienne, 1991), il a développé des recherches sur la constitution des savoirs, dans une perspective comparatiste, dans le temps et dans l’espace. Le cheminement et l’aboutissement, encore à venir, de ce programme ouvert et ambitieux sont notamment constitués par l’entreprise collective des Lieux de savoir, sous la forme de deux imposants volumes : I. Espaces et communautés, 2007 ; II. Les mains de l’intellect, 2011. Il privilégie toujours davantage une approche « qui consiste à travailler sur des situations, des contextes d’échanges et de contacts interculturels ». L’analyse des différentes formes de diffusion et de réception de l’Antiquité constitue un terrain particulièrement fécond.

2 Pascal Payen : Il n’est pas aisé de présenter les cheminements qui ont donné lieu à l’œuvre de Christian Jacob. Il s’agit d’une œuvre à la fois abondante et complexe, pour laquelle vous n’avez jamais hésité à vous engager dans des renouvellements venus d’autrui, ou bien dans des hypothèses nouvelles, issues des cheminements de votre propre réflexion, de vos propres avancées. Pour présenter l’ensemble de votre œuvre, je retiendrai deux moments forts dans vos travaux, à travers quatre livres.

3 Il y eut tout d’abord, pourrait-on dire, un premier moment où s’est forgé l’historien de la géographie ancienne, à partir des apports, notamment, de la philologie et de l’anthropologie. Cette période correspond, à mon sens, à trois grandes productions. D’abord, une monumentale thèse d’État, Géographie et culture en Grèce ancienne2, soutenue en 1987. Il s’agit d’une vaste histoire de la géographie et de la cartographie des Grecs, à travers l’analyse de l’œuvre singulière de Denys d’Alexandrie, en 1187 vers, qui a servi de manuel de géographie jusqu’au début du XVIIIe siècle pour le monde cultivé. Denys est un compilateur, qui a tout lu, depuis Homère et Hérodote jusqu’aux géographes alexandrins, et qui tient compte de l’extension du monde connu à l’époque même où il vit, celle d’Hadrien. Cette époque est celle de la mise en place d’une vision universaliste, qui embrasse d’un seul tenant Grecs et Barbares. Autrement dit, le clivage

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sur lequel s’était formée une part de la réflexion des Grecs de l’époque classique, la séparation si radicale entre Grecs et Barbares, n’a plus le même sens et tend en large part à s’effacer. Pour comprendre la signification de ce texte, du genre dans lequel il s’inscrit, il fallait prendre en compte toute l’histoire culturelle qui se rapporte à la description de la terre habitée et à la géographie – c’est notamment l’objet de la troisième partie de votre travail. Mais ce qui est singulier dans ce travail, et qui l’était encore davantage au moment où vous l’avez conduit, est que l’ensemble de la thèse se présente comme une réflexion sur la théorie de la description de la terre habitée et de la carte qui sous-tend le travail de Denys. En d’autres termes, vous ne cessez de vous interroger sur les catégories mentales des Grecs et sur leur capacité à extraire des modèles, à partir de la réalité, à construire des abstractions à partir de la diversité du réel qui les entoure.

4 Cette expérience forte a été ensuite élargie, approfondie, dans sa dimension spatiale et comparatiste, dans un livre qui fait toujours référence, L’Empire des cartes3. Dans ce livre, il n’est plus question seulement des Grecs : on les quitte, dans une vision large sur le plan spatial et théorique, mais pour essayer ensuite de revenir vers eux, pour mieux les mettre en perspective au terme d’un long détour. J’en lis un passage, qui résume bien, à mon sens, l’ensemble de votre méthode et de ces deux premiers livres : « Notre fil conducteur sera une phénoménologie de la perception cartographique : reconstituer les itinéraires du regard, les points prégnants de la carte susceptibles de le fixer, les voies d’accès, directes ou tortueuses, aux informations géographiques principales ou secondaires, la hiérarchisation et l’étagement des niveaux de vision, déterminés par les choix graphiques de l’auteur, les accentuations chromatiques, la répartition des ornements, des inscriptions et des éléments figuratifs. Car la carte ne se réduit pas au dessin topographique ; ses autres composantes, loin de jouer un rôle accessoire, conditionnent le regard et l’orientent selon des modalités qu’il nous faut définir4. »

5 Le troisième livre issu de cette première étape de vos recherches est un admirable petit classique, aujourd’hui malheureusement introuvable : Géographie et ethnographie en Grèce ancienne5. Cet ouvrage est le résultat d’un cours, professé devant les étudiants de Vincennes, mais aussi la synthèse des deux premiers livres que nous avons évoqués. C’est une histoire de la géographie, mais aussi de l’ethnographie dans le monde grec, dans laquelle vous vous demandez comment les hommes habitent un territoire, comment ils l’occupent avec d’autres et comment, à partir du rapport au territoire, un peuple peut construire sa propre identité, voire ses identités multiples, au contact des autres.

6 Ainsi, pendant une bonne dizaine d’années, à partir de ces trois livres, on voit se dessiner une forme de pensée originale, et cette originalité, selon moi, vient de ce que les questions que vous posez portent à la fois sur les détails matériels les plus concrets qui soient, mais aussi sur la manière propre, pour les Grecs ou pour les Barbares, de concevoir le monde. Ces observations m’inspirent deux questions : est-ce cela que vous appelez « anthropologie historique », à votre manière ? Quels sont, par ailleurs, les auteurs, quelles sont les références théoriques sur lesquels vous vous êtes appuyé, dans les années 1980 et jusqu’au début des années 1990, pour mener à bien ces travaux ?

7 Christian Jacob : Merci beaucoup pour ces réflexions. C’est un moment extrêmement précieux et intimidant, qui – au-delà de l’aspect « notice nécrologique » ! –, permet en tout cas de réfléchir à la cohérence d’un travail, d’un cheminement. Je réponds donc volontiers à vos deux questions.

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8 Oui, le premier moment que vous avez évoqué peut être décrit comme celui d’une « anthropologie historique ». Encore en amont de la thèse et de ce travail, il y a eu une étape, restée pratiquement inédite – hormis peut-être un article sur la Périégèse de Pausanias6 –, un travail expérimental sous la direction de Marcel Detienne, influencé, aussi, par un professeur d’archéologie de Paris IV, Philippe Bruneau, qui a été le codirecteur de ma maîtrise. Dans ce premier travail, j’hésitais encore entre deux modèles, celui d’un formalisme sémiotique inspiré de Greimas – qui représentait alors, pour les jeunes chercheurs désireux d’intégrer les dernières nouveautés de la place parisienne, le nec plus ultra en termes de « machine » intellectuelle –, et celui que proposaient Vernant et Detienne, dont, dès cette époque-là, j’ai saisi l’intérêt, la portée et les possibles implications, pour l’étude non plus simplement de la cité, de la religion, des pratiques symboliques et du sacrifice, mais aussi des modes de fonctionnement des savoirs et de l’univers mental des Grecs. Une autre influence, paradoxale sans doute mais qui revient périodiquement, est celle d’Ignace Meyerson. Jean-Pierre Vernant m’a souvent confié que, parmi ses élèves de la deuxième ou troisième génération, j’étais un des seuls qui avait lu Meyerson et le relisait périodiquement : une façon de dire mon intérêt pour les facettes d’un rapport au monde, à l’espace, au temps, à la mémoire, à la raison, déterminé historiquement et culturellement, et pouvant donc se traduire dans des communautés, des pratiques ou des généalogies savantes.

9 Cette anthropologie historique m’a conduit à m’intéresser à ce qui était secondaire chez Vernant et Detienne, c’est-à-dire cette tradition savante qui m’a fasciné dès le départ, ces scholiastes, ces lexicographes, la Souda, les paradoxographes, ces auteurs souvent mineurs, mais dont Vernant et Detienne montraient qu’ils étaient les vecteurs à la fois d’une encyclopédie, d’une bibliothèque, de cadres de pensée, d’une mémoire, transformés sous la forme de notices lexicographiques, de bribes de commentaires, de notices géographiques, etc. Je me suis donc orienté vers ce qui, du monde grec, n’était pas pris en charge par Vernant, Detienne ou même Vidal-Naquet, à savoir les bibliothèques savantes et les géographes, qui mobilisaient à la fois des représentations du monde, mais aussi des pratiques d’écriture ou de visualisation, la constitution de généalogies savantes, la confrontation de visions du monde concurrentes, comme celle des géomètres alexandrins et celle des géographes littéraires, héritiers d’Homère et d’Hésiode.

10 Au chapitre des références théoriques, donc : Meyerson, dont je n’ai pas repris toute l’armature théorique, est quelqu’un que j’ai croisé dans les dernières années de sa vie, sans pleinement réaliser l’urgence qu’il y aurait eu à assister à tous ses séminaires. Une autre référence déterminante a été celle de Michel de Certeau, rencontré alors j’étais encore doctorant, qui m’introduisit dans ce milieu des colloques de sémiotique à Urbino, où l’on croisait des penseurs comme Umberto Eco, qui n’était pas encore la star qu’il est devenu depuis, Jean-François Lyotard, Hubert Damisch, Louis Marin, c’est-à- dire un creuset de chercheurs anti-mandarins, qui accordaient autant d’importance au dialogue avec un étudiant thésard qu’avec des gens de leur milieu. Une sorte de milieu intellectuel dans lequel de Certeau se dégageait, pour plusieurs raisons, à savoir l’inspiration insufflée à mes recherches sur l’histoire de la cartographie, l’histoire des voyages et l’historiographie, mais aussi une leçon qui m’a profondément marqué et que j’essaie de transmettre à mon tour à mes étudiants : les chercheurs sont des braconniers, et les meilleurs braconniers sont ceux qui n’hésitent pas à sauter par- dessus les clôtures pour suivre le lièvre, d’un champ à l’autre. La leçon de Michel de

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Certeau à ses jeunes interlocuteurs était la suivante : « Soyez mobiles, ne restez pas dans un terrain unique ; vos objets de recherche peuvent vous conduire à franchir les frontières de certaines disciplines. » Cette forme de liberté intellectuelle – chose que je précise aussi à mes étudiants – a été rendue possible par mon recrutement au CNRS, où l’on peut, ce n’est pas négligeable, justifier de passer des études grecques à l’histoire de la géographie, de l’anthropologie des savoirs aux sciences cognitives. C’est peut-être plus difficile dans le cadre d’un ancrage dans un département d’histoire. Une autre référence théorique, concernant l’histoire de la cartographie : les américains, comme J. Brian Harley et David Woodward, qui ont été les maîtres d’œuvre d’une monumentale histoire de la cartographie7 publiée par les Presses de l’université de Chicago, avec un appel d’air extraordinaire, la mobilisation d’un vaste panel d’auteurs internationaux, une grande innovation intellectuelle. Malheureusement, le premier volume était déjà très largement entamé lorsque j’ai fait la connaissance de ces professeurs. Ils ont en fait traduit en anglais un certain nombre de textes – dus à Germaine Aujac8, par exemple –, et, d’une certaine façon, c’est un peu l’école française qui se trouvait impliquée dans ce projet. Voilà donc pour cette première phase, en termes d’influences intellectuelles.

11 Pascal Payen : Je voudrais maintenant vous interroger sur un deuxième domaine, que j’ai annoncé précédemment, celui qui est illustré par la vaste entreprise des Lieux de savoir9. On peut définir cette entreprise comme une histoire comparée des pratiques intellectuelles, qui représente une sorte d’aboutissement, provisoire du moins, dans le cheminement intellectuel que nous venons d’évoquer. C’est une vaste entreprise que vous avez endossée, conçue, écrite, en partie, que vous avez fait se développer et que vous continuez à diriger. Des quatre volumes initialement prévus, les deux premiers ont déjà paru au format papier, les deux autres paraîtront sous une autre forme. Il est hors de question de résumer ici, même brièvement, ces deux volumes. Je voudrais simplement vous poser un faisceau de questions, qui font sens et signe pour les chercheurs que nous sommes, jeunes ou moins jeunes. D’abord, quel bénéfice retirez- vous d’une telle expérience, dans sa dimension collective ? Sont-ce au contraire, au terme du parcours, les obstacles et les limites que vous retenez et qui l’emportent ? Ensuite, pour élargir quelque peu le propos, la recherche, telle que nous la pratiquons maintenant, est-elle « condamnée » aux vastes projets collectifs ? De quel côté, pour terminer, incline votre penchant de chercheur, quel est selon vous le milieu le plus propice aux découvertes ? Est-ce lorsqu’on est seul devant la page blanche, crayon en main, ou bien la position de celui qui, ouvrant son ordinateur, se trouve connecté avec des milliers de savants ? Vers quelle position va votre préférence ?

12 Christian Jacob : Quelques mots, tout d’abord, sur les bénéfices d’une expérience collective comme celle des Lieux de savoir. Le modèle a été les grandes entreprises comparatistes menées par Vernant et Detienne, les volumes sur les problèmes de la guerre, de la terre, de la divination en Grèce ancienne, sur les savoirs de l’écriture10, ou le volume de Detienne sur les tracés de fondation11. Je crois que c’est Vernant qui a le mieux parlé de ces formes de communauté savantes, électives, créées, le plus souvent, en dehors des institutions, sur la base d’une camaraderie intellectuelle, de liens d’amitié et de complémentarité, et au sein desquelles chacun accepte d’apporter la technicité de son travail et de son expertise, de ses dossiers de sources premières, mais aussi d’entrer dans un jeu de communication avec des spécialistes de tout autres domaines. Je dirais donc que, pour moi, ce type de travail collectif est une des raisons d’être de la recherche en sciences humaines, à savoir partager des questions, construire des objets, être, aussi, dans une démarche évolutive : les Lieux de savoir ont ainsi

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connu des étapes antérieures, sous forme de colloques, de journées d’étude, de séminaires, d’ateliers, soit tout un ensemble d’étapes qui permettent de construire peu à peu un réseau d’amitié, de connivence, d’utopie et de déraison, aussi, puisque on pourrait imaginer que ce type d’entreprise scientifique, avec son lot de difficultés techniques, économiques, logistiques, puisse ne pas être retenu par des chercheurs d’un tempérament différent. L’avantage, selon moi, c’est que ce type d’entreprise collective permet de soulever des montagnes, si je puis dire. On peut très bien choisir de travailler seul et d’être un architecte, un bâtisseur tout à fait performant sur un terrain déterminé ; mais les Lieux de savoir, en mobilisant une quarantaine d’auteurs pour chaque volume, en les obligeant à se lire les uns les autres et à réfléchir les uns par rapport aux autres, ont permis de déblayer un énorme terrain, et surtout de faire se rencontrer des mondes, plus ou moins éloignés, qui ne communiquent pas toujours : le monde des antiquisants, le monde des anthropologues, le monde des historiens modernes, des historiens des sciences, des sinologues ou des spécialistes du monde arabe. Il s’agissait, aussi, d’entrecroiser leurs expertises sur un jeu de questionnements comparatistes : qu’est-ce que les savoirs ? De quel type sont les pratiques qui produisent du savoir ? Comment certains énoncés, certains artefacts sont identifiés comme « savants » dans nos sociétés ? Quels sont les acteurs individuels, les communautés, quels sont les lieux ou les dynamiques spatiales qui permettent la production et la diffusion de ces artefacts ? Un tel ensemble de questions gagne, je crois, à être éclairé, travaillé d’une manière très expérimentale, c’est-à-dire sans souci d’exhaustivité ou d’encyclopédisme, en adoptant souvent le parti pris de la distance maximale, comme lorsque l’on confronte l’exploration du sol de la planète Mars par les rovers téléguidés de la NASA12 et les pratiques de mobilité de la cour iranienne13 : ce sont des univers hautement distincts, et lorsqu’on rajoute comme troisième terme les récits d’exploration ethnographique en Afrique au début du XXe siècle14, on obtient une triangulation qui oblige à penser le rapport aux lieux, le rapport à la distance, à la sphère d’action, le statut du passage, du voyage, du déplacement ou de l’ancrage, de l’ici et ailleurs, et on parvient à faire avancer la réflexion collective sur des sujets de ce type-là.

13 Sur le deuxième aspect de votre question, je dirai qu’évidemment un projet comme les Lieux de savoir s’est appuyé sur une infrastructure « légère », celle d’un Groupement de Recherche International (GDRI) du CNRS, au sein duquel nous avons pu, en quelques années, organiser quantité de colloques, de tables rondes, de séminaires, avec des invités venus de partout, dont j’ai dû assurer moi-même la coordination – le financement de pareils projets ne prévoit que rarement les moyens humains nécessaires à leur réalisation. À un certain moment, cette infrastructure s’est arrêtée ; nous n’avons pas demandé de renouvellement car les inconvénients logistiques, le poids gestionnaire devenaient un peu paralysants par rapport à l’avancée du projet intellectuel. Nous avons donc adopté des manières de travailler tout aussi efficaces, mais décentralisées, reposant davantage sur les échanges par internet – d’où, aussi, la mutation du projet aujourd’hui. Plus récemment, j’ai contribué à la création d’un Laboratoire d’Excellence (LabEx) à Paris, « Histoire et anthropologie des savoirs, des techniques et des croyances15 » (HASTEC). J’ai consacré beaucoup de temps et d’enthousiasme à cette initiative, dont je reste proche, mais je me rends compte maintenant qu’il y a des logiques gestionnaires, bureaucratiques, administratives très importantes, qui demandent que les chercheurs acceptent de sacrifier beaucoup de leur temps. Ce type de projet en vaut la peine, car cela permet de financer des contrats

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doctoraux, des post-doctorants et de sortir de la difficulté des jeunes chercheurs, mais je pense qu’il doit vraiment y avoir une rotation à ce genre de fonction, de responsabilité. D’abord, dans un souci de démocratie, d’ouverture, de pluralisme intellectuel, mais aussi parce qu’il convient de préserver le temps du travail personnel.

14 Pour répondre, enfin, à votre dernière question, sur la solitude du travail intellectuel et le travail connecté, Tzvetan Todorov prétendait il y a quelques années que, finalement, la nouvelle administration du travail de la recherche (en projets, appels d’offre, laboratoires, etc.) était une hérésie, parce que le chercheur en sciences humaines a seulement besoin d’un ordinateur chez lui et de l’accès à une bibliothèque. S’agissant de ma propre pratique, cependant, je ne conçois pas le travail de recherche comme complètement isolé ou déconnecté ; les séminaires jouent un rôle très important, comme lieux de mise à l’épreuve des premières hypothèses, des premiers résultats, comme lieux, aussi, de questionnement. Les meilleurs séminaires sont ceux où l’on n’hésite pas à aller au-delà de sa pensée, à prendre des risques intellectuels en disant des choses que l’on n’écrirait pas nécessairement immédiatement ; c’est une manière de tester, de soumettre à la critique et à l’intelligence collective. On ne peut donc travailler seul, mais on peut travailler en réseau. J’ai découvert Twitter assez récemment, il y a deux ans. C’est devenu une extension de mon bureau : il ne s’agit pas seulement de faire état de son quotidien, mais aussi de demander à ses collègues, tard dans la soirée, la copie numérique de la Bibliotheca Universalis de Gesner et de recevoir quelques heures plus tard les informations nécessaires pour y accéder en ligne. C’est donc un lieu d’expertise extraordinaire, une manière de séminaire décentralisé, un lieu d’invention, d’ébullition intellectuelle, conceptuelle, bibliographique, qui peut faire perdre, mais aussi gagner beaucoup de temps.

15 Corinne Bonnet : Nous venons d’évoquer les noms de Detienne et de Vernant, qui seront l’occasion pour moi de revenir sur la pratique du comparatisme, qui fait une part de l’intérêt et de l’originalité de votre œuvre. Le comparatisme séduit aussi nos étudiants, qui viennent vers nous avec des sujets de mémoire qui vont de l’Égypte à la Mésopotamie, voire avec des choses plus exotiques encore. Le comparatisme attire, et c’est une démarche, je dirais, assez « naturelle ». Dans une de vos publications, vous écrivez que le comparatisme est un peu votre « tribu16 », à laquelle je me rallierais aussi moi-même volontiers. Dans le même temps, le comparatisme est un exercice difficile, risqué. Puis-je vous demander quel bilan vous faites de ces expériences comparatistes ? Est-il vraiment possible de comparer des cultures aussi différentes que celles de la Chine et de la Grèce, du Japon et de Rome, en faisant le va-et-vient, aussi, entre des époques très différentes ? Quelles sont les précautions, quels sont les avantages ou les inconvénients ?

16 Christian Jacob : Effectivement, il existe plusieurs manières de pratiquer le comparatisme. On peut le pratiquer seul : c’est ce que fait quelqu’un comme Geoffrey Lloyd17, qui a appris suffisamment de chinois classique pour accéder directement à certains textes et offre ainsi une mise à plat de certains questionnements, concernant le monde grec, le monde mésopotamien ou le monde chinois. Il y a aussi un comparatisme comme celui de François Jullien18, à la fois sinologue et helléniste, qui, contrairement à Lloyd, ne cherche pas la production d’un savoir historique ou anthropologique « objectif », mais voit dans le comparatisme une manière de faire de la philosophie : approche très suggestive intellectuellement, mais dans le même temps très difficile à appliquer en tant que méthode. C’est une approche si personnelle, si

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individualisée, qu’on a du mal à voir comment s’approprier un tel outil. Le comparatisme de Vernant et de Detienne est un comparatisme collectif, qui passe par le dialogue avec des spécialistes et nécessite, pour les membres de cette « tribu », le désir d’en faire un peu plus : non seulement écouter, lors de séminaires, ce qu’aura à dire le collègue spécialiste d’un autre domaine, mais aussi entamer une réflexion plus élaborée entre ici et ailleurs et, sans prétendre à la compétence d’un spécialiste d’une autre ère culturelle, essayer de s’approprier certaines des questions, certains des objets que ce spécialiste a construits, pour les appliquer à ses propres objets. Dans mon cas, c’est vrai que le monde chinois est un univers où je voyage périodiquement, au sens propre comme au sens figuré. Nous y sommes allés avec Marcel Detienne il y a deux ans – l’un de ses élèves a en effet créé le département d’histoire ancienne à l’Université Fudan de Shanghai –, et j’y suis retourné en octobre pour enseigner Hérodote, Plutarque, Athénée à des étudiants tout à fait enthousiastes et passionnés. Pourquoi la Chine ? D’abord, pour des raisons et des rencontres personnelles : Jean-Pierre Drège, spécialiste de l’histoire du livre et des bibliothèques, et Anne Cheng, maintenant professeur au Collège de France, spécialiste de l’histoire de la pensée chinoise. La collaboration avec Anne Cheng va assez loin, puisque j’ai déjà été dans le jury de thèse de trois de ses étudiants ; je suis également invité, par son intermédiaire, à des écoles d’été sinologiques et viens de terminer un texte, à paraître dans les actes d’un colloque19 sur un classique chinois, le Da xue ou « Grande Étude », dans lequel j’apporte un point de vue complètement extérieur sur ce texte. Ce type de comparatisme demande d’abord un effort conséquent d’immersion : il faut lire, aller au-delà de la musique de noms propres ou d’œuvres complètement exotiques ; il faut essayer de saisir et de s’approprier les enjeux d’une histoire. Le travail sur le Da xue porte sur un texte extrêmement court, qui était intégré dans le corpus des classiques de Confucius à très haute époque et qui est devenu, en quelque sorte, une introduction au confucianisme encore valable aujourd’hui. Pour le présenter très brièvement, c’est un texte qui fait l’objet d’une tradition exégétique extraordinaire, multiséculaire, au cours de laquelle on a travaillé à la fois sur sa littéralité et sur sa structure – le texte était à l’origine écrit sur des lamelles de bambou, un support fragile, qui par la dissociation éventuelle des lamelles, peut également perturber l’agencement d’un texte. C’est également un texte à l’intérieur duquel des commentaires sont venus se glisser progressivement. Il permet donc de penser l’ensemble des opérations sur lesquelles peut s’appuyer la fabrique d’un texte en tant qu’objet intellectuel, sur la façon dont il devient un champ de problèmes, sur la façon de déterminer une marge d’action et un espace d’intervention qui permettent à certains lecteurs autorisés d’entreprendre une série d’opérations techniques, intellectuelles, herméneutiques. C’est donc un lieu privilégié de comparaison avec les pratiques des philologues alexandrins sur le texte homérique, en pointant immédiatement les différences entre les deux corpus et en m’intéressant également à des modes de positionnement tout à fait différents. Ainsi les philologues alexandrins procèdent à des formes d’édition non destructives des textes, sous la forme de signes marginaux, tandis que leurs collègues chinois n’hésitent pas à copier, coller, reconfigurer, réécrire et à rechercher des nouvelles formes de textualité qui permettront de dire, mieux que le texte original, ce qu’il a voulu signifier, au point d’aboutir parfois à des diagrammes et à des schémas complètement abstraits. Par cet exemple précis, on voit qu’il ne s’agit pas de dresser, par le comparatisme, un immense panorama, ni d’établir l’inventaire, terme à terme, des différences et des similitudes, mais plutôt de comprendre des scénarios culturels très particuliers, comme cette

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tradition exégétique liée à un classique chinois sur plusieurs siècles, d’essayer de repérer les logiques, les positionnements, les artefacts qui sont produits, les modes de raisonnement, les controverses, et de comparer cela avec ce qui est produit dans le Musée d’Alexandrie ou à Pergame sur le texte homérique, à savoir des paradigmes de lectures qui entrent en concurrence, des controverses très vives – le texte comme surface ou au contraire comme profondeur, pour ne citer qu’un exemple. Voilà donc un type possible d’enquête comparatiste selon moi.

17 Un autre axe de mon travail actuel concerne, dans le cadre d’une réflexion sur la construction des traditions, les travaux des cognitivistes, sur la manière dont la culture peut être transmise d’individu à individu, de génération à génération. Ce sont des manières de penser qui me sont très étrangères, mais qui posent des questions très intéressantes, y compris pour un spécialiste du monde grec. On peut être amené à comparer la transmission des ritournelles dans les cours de récréation des écoles primaires avec la transmission culturelle des poèmes homériques dans le monde grec… Le comparatisme est donc une manière de penser les terrains sur lesquels on travaille, en utilisant des éclairages qui peuvent certes présenter des similitudes, mais se situer aussi dans l’éloignement maximal. Je crois que c’est Marcel Detienne qui m’a inspiré à ce propos une image, que je réutilise parfois auprès de mes étudiants : il peut être intéressant de mettre dans le monde grec, comme on le fait dans un tube à essai au moyen d’une pipette, quelques « gouttes » de Chine, et d’analyser la réaction chimique ainsi produite. Le comparatisme, à ce titre, est une pratique très empirique.

18 Pascal Payen : Sur ce point, on voit aussi que le comparatisme est toujours une pratique exigeante, en ce qu’elle appelle des lectures, un effort de documentation sur un domaine qu’on ne connaît pas ou peu. Et la chose devient plus difficile encore quand la comparaison fait intervenir plus de deux termes.

19 Adeline Grand-Clément : On voit également, au-delà des lectures, l’importance des discussions – d’où l’intérêt des séminaires –, et donc aussi des relations d’affinité, et je dirais même de confiance avec les spécialistes du domaine concerné.

20 Christian Jacob : Une autre voie d’accès, peut-être plus aisée à mettre en œuvre, consiste à travailler sur des situations, des contextes d’échanges et de contacts interculturels. Plutarque, entre Grecs et Romains, en est un bon exemple. Dans le volume collectif sur ce classique chinois auquel j’ai fait allusion, de même, il y a un chapitre extraordinaire écrit par un père jésuite, Thierry Meynard (qui se trouve d’ailleurs en Chine actuellement), sur les premières traductions occidentales de ce texte, par les jésuites du XVIIe siècle, je crois. Ce petit traité a été le premier traité confucéen traduit en latin, et l’étude de cette traduction montre très concrètement comment les jésuites comparaient deux univers culturels très différents, l’univers confucianiste et l’univers aristotélico-thomiste occidental, en essayant de négocier chaque correspondance, chaque traduction, d’annoter, de créer des ponts et des passerelles, sur les significations philosophiques, théologiques, aussi bien que politiques. On voit là le comparatisme en œuvre : la traduction en latin, le lien entre les termes latins et les caractères chinois, ainsi que les commentaires ajoutés par les jésuites témoignent véritablement d’un laboratoire comparatiste tout à fait extraordinaire.

21 Corinne Bonnet : Une dernière question. Je voudrais lire un texte de votre plume, qui m’a beaucoup plu, pour aborder une question que nous avons l’habitude de poser à nos invités, et ce d’autant plus qu’Anabases est une revue qui se soucie de la réception de

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l’Antiquité et donc de la manière dont le présent « vit » l’Antiquité, s’en empare, l’interroge ou la rejette. Voici le passage en question : « Je voudrais dire ma conviction forte dans l’importance et l’actualité de la recherche dans le champ des humanités et des sciences sociales. D’abord, chercher à comprendre l’univers d’un scribe mésopotamien, d’un encyclopédiste grec, d’un médecin de la Renaissance, d’un guérisseur africain ou d’un chaman amérindien présente un intérêt en soi, et on n’a pas à s’excuser ou à entrer dans la logique d’une justification utilitariste. Mais de plus, ce désir de comprendre l’humain dans la diversité de ses activités, de ses cultures, de ses sociétés et de ses productions symboliques, nous apporte un surplus d’intelligibilité, une distance critique, des leviers cognitifs et comparatistes pour nous comprendre nous-même, dans notre rapport au monde, aux techniques et aux savoirs. Il n’y a pas de sens sans un horizon20. »

22 Devant cette belle prise de proposition, à laquelle je souscris avec enthousiasme, quel est donc le présent de l’Antiquité, aujourd’hui, pour un antiquisant comme vous ?

23 Christian Jacob : Je pense que les études anciennes, l’histoire, l’anthropologie, dans toute la diversité de leurs formes, les sciences sociales et les humanités d’une manière générale sont absolument indispensables aujourd’hui. Ce texte est aussi une prise de position au sujet des propos d’un ancien président français, qui avait une attitude totalement négative par rapport aux humanités… C’est également une réflexion que j’ai menée avec mes camarades du centre Anthropologie et Histoire des Mondes Anciens (ANHIMA), puisque que, comme votre équipe sans doute, nous avons été pris dans l’urgence d’un nouveau projet quinquennal, qui a été l’occasion de réfléchir à l’utilité des études anciennes aujourd’hui. Ma réflexion personnelle et celle de mes collègues se rejoignent sur ce point pour dire que nous sommes sans doute des artisans d’intelligibilité, de réflexivité sur tout ce qui se passe aujourd’hui. Travailler sur Athènes, sur Rome ou sur Alexandrie, sur la tradition européenne ou chinoise permet de poser des questions sur le politique, la société, le genre, sur le statut de l’étranger, la culture, la religion, le rapport au monde, le vivre ensemble, soit tout un ensemble de dimensions qui sont fondamentales dans les sociétés humaines. Cela veut dire deux choses : d’une part, que notre travail comporte une exigence de continuité et de collectivité – il faut continuer à écrire des livres, à organiser des colloques ou des séminaires, à publier des revues, à éditer et commenter des textes ; d’autre part, il faut aussi porter notre travail et notre savoir vers la société civile, le monde politique, vers le monde de l’action sociale, aussi : éducateurs de rue, intervenants qui s’occupent des toxicomanes, des personnes à mobilité réduite ou atteintes de la maladie d’Alzheimer. Dans ce domaine, j’ai fait ces dernières années de très belles rencontres. Ces professionnels ont organisé il y a quelque temps un colloque européen sur le thème de la transmission, à l’occasion duquel ils m’ont invité à proposer le point de vue d’un historien et anthropologue sur cette notion. Ce fut une rencontre absolument inoubliable, très marquante pour moi, où j’ai pu voir le retour de cette société civile, engagée dans le concret très quotidien, sur les questions autour desquelles je travaille, à savoir le statut de la mémoire, de la culture, de l’oubli, de l’apprentissage, la nature du lien social, etc. Je plaide donc pour un rapport complètement décomplexé avec le savoir : travailler sur la Grèce ou Rome n’est pas plus stupide que de travailler en laboratoire sur la génétique de telle ou telle catégorie de mouches. Ce sont des formes de recherche scientifique très fondamentale, mais je crois que nous avons aussi, à notre époque, un devoir particulier pour éclairer le présent.

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24 Mon dernier mot sur ce point sera lié à mon implication dans le domaine de l’histoire des savoirs et des pratiques savantes. Les travaux que je mène m’ont valu, à la demande du président de l’EHESS, de participer comme observateur à une mission sur les humanités numériques – bien que je ne sois en aucune façon un spécialiste des nouvelles technologies. Et effectivement, le numérique, envisagé dans le long terme, modifie profondément l’enseignement, notre rapport à la recherche, notre rapport aux sources, modifie même nos univers de pensée : contrairement à ce que peuvent penser nos étudiants ou certains de nos collègues, qui considèrent parfois le numérique uniquement d’un point de vue instrumental et comme un outil destiné à faciliter nos tâches, je pense que nous assistons à des mutations extrêmement profondes de nos manières de penser, de lire, d’écrire, de visualiser, d’imaginer. Si l’on remonte un peu dans le temps, l’apparition du Thesaurus Linguae Graecae sous un format numérique avait déjà fait exploser les cadres de l’hellénisme traditionnel – plus de cent millions de mots grecs à portée de l’étudiant ou du chercheur ! Aujourd’hui, à l’heure de la Text Encoding Initiative et des modes de visualisation de données, on peut poser à des textes ou à des bibliothèques des questions qui auraient été impensables auparavant – je pense à Athénée en particulier. Nos études sont donc tout à fait actuelles, et très importantes pour former de jeunes chercheurs et leur assurer un avenir.

25 Marion Maisonobe, doctorante en géographie : Quel a été, pour revenir à la question des influences, le rôle des géographes dans la construction de votre démarche et de votre travail ?

26 Christian Jacob : Il y a eu une très belle rencontre avec un géographe français qui s’appelle Paul Claval. Il était à mon jury de thèse, et il a créé la revue Géographie et cultures21, qui existe toujours. Il faut aussi mentionner les Américains dont j’ai parlé, Brian Harley et David Woodward, qui étaient des géographes critiques, très marqués par le déconstructionnisme français (Foucault, Derrida…). J’ai été influencé par Roger Brunet et son travail sur la chorématique et les visualisations géographiques22. Actuellement, je suis intéressé par les travaux d’historiens de la géographie et de la cartographie, comme ceux de Jean-Marc Besse23 ou de Giorgio Mangani24. Et il y a bien sûr le courant que l’on dénomme le « tournant spatial », qui mobilise des concepts géographiques pour les appliquer à différents objets des humanités et des sciences sociales : la géographie peut offrir de très utiles paradigmes pour l’histoire et l’anthropologie des savoirs, et le projet même des « Lieux de savoir » en est le meilleur exemple…

27 Un étudiant : Comment la recherche universitaire, précisément, pourrait-elle davantage s’ouvrir en direction de la société civile et d’un public plus large ?

28 Christian Jacob : L’une des idées que nous avons eues avec le LabEx HASTEC créé à Paris était de fonder un collège des savoirs, c’est-à-dire un lieu, qui pourrait être itinérant et proposer des échanges, des conférences, des écoles d’été, des partenariats avec des entreprises ou des associations. Malheureusement, les choses sont ainsi faites que les évaluateurs nous ont donné pour mettre en place ce dispositif une dotation très inférieure à celle qui était prévue, et ce collège a été supprimé, afin de privilégier des emplois pour des doctorants et des post-doctorants. Une autre voie serait de favoriser des passerelles entre la recherche, l’enseignement supérieur et l’enseignement secondaire. J’ai eu l’occasion de rencontrer des professeurs de lettres du secondaire, travaillant sur l’usage des nouvelles technologies dans les collèges et les lycées. J’ai été impressionné par leur dynamisme, leur originalité, leur inventivité, et en même temps

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par la demande très forte pour l’implication des chercheurs et des universitaires. La suite des Lieux de savoir, enfin, qui prendra une forme différente, pourra proposer une déclinaison de supports pour différents publics, c’est-à-dire pour un public international de chercheurs, pour un public scolaire, mais aussi pour le grand public, qui accédera, au moyen d’applications, à un univers savant sous une forme interactive et ludique. On peut parfaitement imaginer, pour ne citer qu’une possibilité, une mappemonde, sur laquelle on pourrait associer la Californie, l’Afrique et le Japon, pour voir ce que cette association permet de traverser dans l’histoire des savoirs et des traditions savantes. Voilà quelques exemples de modes de communication vers le grand public. Je suis aussi très favorable à l’open access et à des initiatives comme celles de revues.org ou hypotheses.org, en vue d’un partage et d’une communication aussi larges que possible, et en particulier non seulement pour le public européen, mais aussi pour les pays en développement. Je signale également une collection que nous avons lancée sur OpenEdition, « L’encyclopédie numérique25 », dont plusieurs volumes ont déjà paru. L’idée de cette « encyclopédie numérique » est aussi de partager le plus largement possible les contenus scientifiques.

NOTES

1. Ce texte, fruit d’un entretien dans le cadre du séminaire de l’équipe ERASME (UNIVERSITÉ TOULOUSE-JEAN JAURÈS), A ÉTÉ RETRANSCRIT ET ANNOTÉ PAR ANTHONY ANDURAND, RÉVISÉ PAR CORINNE BONNET ET PASCAL PAYEN, REVU PAR CHRISTIAN JACOB. 2. C. JACOB, GÉOGRAPHIE ET CULTURE EN GRÈCE ANCIENNE : ESSAI DE LECTURE DE LA DESCRIPTION DE LA TERRE HABITÉE

DE DENYS D’ALEXANDRIE, LILLE, ANRT, 1989.

3. C. JACOB, L’EMPIRE DES CARTES : APPROCHE THÉORIQUE DE LA CARTOGRAPHIE À TRAVERS L’HISTOIRE, PARIS, ALBIN MICHEL, 1992. 4. Ibid., p. 143. 5. C. JACOB, GÉOGRAPHIE ET ETHNOGRAPHIE EN GRÈCE ANCIENNE, PARIS, ARMAND COLIN, 1991. 6. C. JACOB, « PAYSAGES HANTÉS ET JARDINS MERVEILLEUX : LA GRÈCE IMAGINAIRE DE PAUSANIAS »,

L’ETHNOGRAPHIE, LXXVI, N.S. 1 (1980), P. 35-67 ; « THE GREEK TRAVELER’S AREAS OF KNOWLEDGE : MYTHS AND OTHER

DISCOURSES IN PAUSANIAS’ DESCRIPTION OF GREECE », YALE FRENCH STUDIES 59 (1980), P. 65-85. 7. J. B. HALEY, D. WOODWARD (ed.), The History of Cartography, London-Chicago, University of Chicago Press, 1987-… (4 vol. à ce jour). 8. G. AUJAC, « The Foundations of Theoretical Cartography in Archaic and Classical Greece », « The Growth of an Empirical Cartography in Hellenistic Greece », « Greek Cartography in the Early Roman World », in J. B. HALEY, D. WOODWARD (ed.), The History of Cartography, London, Chicago, University of Chicago Press, 1987, I, p. 130-176. 9. C. JACOB (DIR.), LIEUX DE SAVOIR. I : ESPACES ET COMMUNAUTÉS, PARIS, ALBIN MICHEL, 2007 ; LIEUX DE SAVOIR. LES MAINS DE L’INTELLECT, PARIS, ALBIN MICHEL, 2011. CARNET DE RECHERCHE ACCESSIBLE SUR LA PLATEFORME HYPOTHESES.ORG : LIEUXDESAVOIR.HYPOTHESES.ORG/

10. J.-P. VERNANT (DIR.), PROBLÈMES DE LA GUERRE EN GRÈCE ANCIENNE, PARIS-LA HAYE, MOUTON, 1968 ; M. I. FINLEY

(DIR.), PROBLÈMES DE LA TERRE EN GRÈCE ANCIENNE, PARIS-LA HAYE, MOUTON, 1973 ; J.-P. VERNANT ET AL., DIVINATION ET

RATIONALITÉ, PARIS, LE SEUIL, 1974 ; M. DETIENNE, J.-P. VERNANT, LES RUSES DE L’INTELLIGENCE : LA MÈTIS DES GRECS, PARIS,

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FLAMMARION, 1974 ; M. DETIENNE, J.-P. VERNANT, LA CUISINE DU SACRIFICE EN PAYS GREC, PARIS, GALLIMARD, 1979 ; M.

DETIENNE (DIR.), LES SAVOIRS DE L’ÉCRITURE EN GRÈCE ANCIENNE, LILLE, PRESSES UNIVERSITAIRES DE LILLE, 1988. 11. M. DETIENNE (DIR.), TRACÉS DE FONDATION, LOUVAIN-PARIS, PEETERS, 1990. 12. E. BENAZERA, « STRUCTURES ET PRATIQUES DU SAVOIR À DISTANCE : LE CAS DE L’EXPLORATION ROBOTIQUE DE MARS », IN LIEUX DE SAVOIR, I, P. 897-915.

13. Z. VESEL, F. RICHARD, « LA CULTURE DE COUR DANS LE MONDE IRANIEN DE L’ÉPOQUE SASSANIDE AUX QADJARS »,

IN LIEUX DE SAVOIR, I, P. 854-874. 14. É. JOLLY, « LA MISSION ETHNOGRAPHIQUE DAKAR-DJIBOUTI : COLLECTE ITINÉRANTE ET MAÎTRISE DU TERRAIN », IN LIEUX DE SAVOIR, I, P. 875-895. 15. http://www.hesam.eu/labexhastec/

16. C. JACOB, « ANTHROPOLOGIE, COMPARATISME : EXPÉRIMENTER SUR LES SAVOIRS » (CONFÉRENCE SFHSH 3, 4

FÉVRIER 2011), EN LIGNE : HTTP://LIEUXDESAVOIR.HYPOTHESES.ORG/813 17. G. E. R. LLOYD, Ancient Worlds, Modern Reflections : Philosophical Perspectives on Greek and Chinese Science and Culture, New York-Oxford, Oxford University Press, 2004 ; The Delusions of Invulnerability : Wisdom and Morality in Ancient Greece, China and Today. London, Duckworth, 2005 ; Principles And Practices in Ancient Greek And Chinese Science, Aldershot, Ashgate, 2006. 18. F. JULLIEN, LA VALEUR ALLUSIVE. DES CATÉGORIES ORIGINALES DE L’INTERPRÉTATION POÉTIQUE DANS LA TRADITION CHINOISE, PARIS, ÉCOLE FRANÇAISE D’EXTRÊME-ORIENT, 1985 ; LA CHAÎNE ET LA TRAME. DU CANONIQUE, DE L’IMAGINAIRE

ET DE L’ORDRE DU TEXTE EN CHINE, PARIS, PUF, 2004 (1RE ÉD. : PARIS, PRESSES UNIVERSITAIRES DE VINCENNES, 1986) ; DE L’UNIVERSEL, DE L’UNIFORME, DU COMMUN ET DU DIALOGUE ENTRE LES CULTURES, PARIS, FAYARD, 2008. 19. « Lectures et usages de la Grande Étude », colloque international organisé par la chaire d’Histoire intellectuelle de la Chine, Paris, Collège de France, 23-24 juin 2011.

20. C. JACOB, « PENSER AVEC L’ABSENT » (CONFÉRENCE SFHSH 5, 4 FÉVRIER 2011), EN LIGNE : HTTP:// LIEUXDESAVOIR.HYPOTHESES.ORG/822 21. La revue est accessible sur revues.org : http://gc.revues.org/ 22. R. BRUNET, « LA COMPOSITION DES MODÈLES DANS L’ANALYSE SPATIALE », L’ESPACE GÉOGRAPHIQUE 4 (1980), P. 253-264 ; « LA CARTE-MODÈLE ET LES CHORÈMES », MAPPEMONDE 4 (1986), P. 2-6. 23. J.-M. BESSE ET AL. (DIR.), DU MILIEU À L’ENVIRONNEMENT : PRATIQUES ET REPRÉSENTATIONS DU RAPPORT HOMME/

NATURE DEPUIS LA RENAISSANCE, PARIS, ECONOMICA, 1992 ; J.-M. BESSE, LES GRANDEURS DE LA TERRE : ASPECTS DU SAVOIR

GÉOGRAPHIQUE À LA RENAISSANCE, LYON, ENS ÉD., 2003 ; J.-M. BESSE ET AL. (DIR.), NAISSANCES DE LA GÉOGRAPHIE MODERNE,

1760-1860 : LIEUX, PRATIQUES ET FORMATION DES SAVOIRS DE L’ESPACE, LYON, ENS ÉD., 2010. 24. G. MANGANI, Cartografia morale : geografia, persuasione, identità, Modena, F. C. Panini, 2006 ; Geopolitica del paesaggio. Storie e geografie dell’identità marchigiana, Ancona, Il lavoro editoriale, 2012. 25. La collection (http://books.openedition.org/oep/127 ?lang=fr) est dirigée par M. Dacos et C. Jacob. Quatre volumes ont déjà paru : O. ERTZSCHEID, Qu’est-ce que l’identité numérique ?, 2013 ; C. JACOB, Qu’est-ce qu’un lieu de savoir ?, 2014 ; L. BURNARD, What is the Text Encoding Initiative ?, 2014 ; J.-F. BERT, Qu’est-ce qu’une archive de chercheur ?, 2014. Plusieurs volumes sont en préparation.

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Fana, templa, delubra : Lieux de culte de l’Italie antique Corpus raisonné, actualités scientifiques et réflexions

Despina Chatzivasiliou

1 Nombreuses sont les études de géographie et d’urbanisation pour l’Antiquité ; nombreux sont également les projets dont le but est de répertorier les cultes et d’étudier les religions gréco-romaines. Pourtant dans le domaine de la topographie religieuse antique, l’accroissement régulier de la documentation ne fait pas l’objet de larges synthèses. Ceci s’explique sans doute par la complexité du sujet qui exige la combinaison de plusieurs types de sources ainsi qu’une approche pluridisciplinaire. À ce besoin, fort présent dans l’actualité des études sur l’Antiquité, tente de répondre le projet de recherche : FTD, Lieux de culte de l’Italie antique, mené sous la direction de John Scheid (Collège de France) avec la collaboration de nombreux chercheurs en France et en Italie.

2 FTD correspond à fana, templa, delubra, trois termes qui désignent dans des contextes différents un temple, un espace sacré délimité, un sanctuaire, tout type de lieu de culte. Trois termes très proches et complémentaires, mais pas interchangeables, témoignent de la pluralité des lieux sacrés1. Fanum signifie ce qui est posé, établi comme un autel ou un objet votif pour aboutir à l’idée de lieu sacré. Tite Live (X, 37, 15) décrit le fanum comme « un lieu défini pour accueillir un temple2 ». Templum a deux sens fondamentaux, le premier « espace découpé par l’augure » pour l’observation des présages, un édifice consacré à une divinité, le second « un espace délimité suivant certains rites3 ». Templum désigne finalement le bâtiment en tant qu’il est inscrit sur le sol et dans l’espace. Parmi les termes indiquant un lieu de culte, templum a le sens le plus large, malgré sa définition technique. Dēlūbrum, mot plus rare que templum et appartenant apparemment à un registre plus élevé, serait originellement le « lieu où l’on se lave des impuretés », ou bien « où l’on s’acquitte d’un vœu » en dédiant une statue à un dieu4. D’autres termes peuvent également désigner un lieu sacré (aedes), un lieu où l’on pratique des rites, un lieu religieux. Dans le Code Théodosien (XVI, 10, 25), en 438 apr. J.-C., les trois termes, fana, templa, delubra, désignent ensemble les lieux de culte de l’Antiquité qu’on prescrit désormais à détruire et à remplacer par des églises.

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Notre approche ne concerne donc pas seulement la description des sanctuaires : par lieu de culte on entend tout aménagement lié aux cultes et aux rites sacrés, comme les zones sacrées, les autels, les sources, les voies de procession ou tout simplement une concentration d’offrandes, un dépôt votif.

3 Mais qu’est-ce qu’une activité cultuelle ? Si nous sommes incapables de donner une définition parfaite, nous pouvons au moins décrire et interpréter nos données. Notre travail consiste à regarder les sources de tout type et à repérer toute occurrence faisant référence à une pratique de caractère cultuel. Chaque pratique est alors liée à un lieu. De nouvelles questions apparaissent à travers cette approche. Qu’est-ce qu’un lieu ? Trouvons-nous un ensemble de pratiques communes à chaque région ? Est-ce que ces pratiques communes caractérisent un territoire ? Comment se définissent les limites d’un territoire ? Ces notions aussi abstraites que précises méritent une étude approfondie qui donne lieu à de nouvelles interprétations et définitions.

4 Le lieu est entendu comme un point précis, une section de terrain où l’on construit un culte avec des édifices aussi bien qu’avec des croyances et des légendes. Des études et des tentatives de définition de plus en plus pertinentes ont permis de donner un sens concret à l’espace, concept abstrait par ailleurs5 : l’étendue indéfinie qui contient ou entoure tous les objets, qui mesure ce qui sépare deux points géographiques ou deux points temporels. Il existe donc un espace géographique aussi bien qu’un espace chronologique. Une structure telle qu’une ville communique avec nous en référence à ces codes fondamentaux ou primaires. L’espace et le temps, lesquels bien entendu ne sont pas des termes fixes, mais des coordonnées, des variables interdépendantes. L’« espace » peut être reconstitué par la précision territoriale : dans l’Antiquité, parler d’espace revenait à parler de fondation6. Fonder une ville, un État, une société et ses institutions consistait d’abord à définir l’espace qualifié pour les accueillir et pour y habiter. Le mythe de la fondation de Rome, par exemple, raconte le tracé par Romulus d’une ligne qui correspond à la limite de l’espace urbain7. La notion de « territoire » suppose l’existence de limites précises, de frontières avec des territoires limitrophes. Cependant cette notion n’est pas seulement spatiale, mais implique aussi une dimension temporelle d’appropriation et de constitution qui peut s’être prolongée dans le temps.

5 D’un point de vue historiographique, notre projet a pour ambition de présenter une approche complémentaire à des travaux sur l’espace. Les traités d’urbanisme8, les essais sur le paysage9 ou encore les récits littéraires10 se multiplient et décrivent le rapport des hommes aux territoires qu’ils occupent. L’espace, le paysage, le cultuel et le religieux sont traités comme des notions proches et distinctes à la fois. Récemment, une nouvelle notion a été introduite, celle de « paysage religieux » : le processus par lequel l’espace se construit symboliquement, à partir d’une analyse des lieux de culte et des pratiques cultuelles dans l’organisation et dans les représentations symboliques du territoire de la cité. Par l’étude des lieux de culte, on se trouve alors devant un exemple de structuration hiérarchique du territoire et on peut discerner le processus d’invention du paysage religieux : ce n’est pas la distance par rapport à la ville, mais c’est la valeur de chaque lieu qui devient le critère des liens dans le territoire11. La démarche n’est pas sans risques puisque l’historien d’aujourd’hui peut facilement tomber dans l’anachronisme et s’interdire de distinguer un paysage religieux propre à chaque époque.

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6 L’étude des lieux de culte a également posé de nouvelles questions sur la définition de l’urbain et du périurbain, et de leur rapport. Les termes urbain, périurbain et extra- F0 urbain 2D sous l’influence de la structuration de l’espace à l’époque moderne et contemporaine – remplacent ce qu’on désignait naguère par ville et campagne12. Les archéologues et les historiens ont même inventé deux nouveaux termes, préurbain ou proto-urbain, pour désigner la forme de la cité préindustrielle, ce qui correspondrait pour l’Antiquité à la forme prise par une agglomération au moment de la phase de transition entre deux époques.

7 Afin de comprendre ces notions et ces valeurs pour l’Antiquité romaine, on se livre à la vaste entreprise de discerner la structuration de l’espace par le biais des lieux de culte, ou, en d’autres termes, d’étudier les lieux de culte par leur topographie. Notre cadre géographique est celui des onze régions, circonscriptions administratives, qui divisent l’Italie à l’époque d’Auguste et dans lesquelles les cités romaines se développèrent et les tribus italiennes se repartirent. Cette Italie romaine de l’époque impériale, à partir du Ier s. après J.-C., sert ensuite de point de départ pour reconstituer les territoires des communautés italiques pré-romaines, et aussi, à partir des IVe-Ve siècles après J.-C., des diocèses chrétiens. Ce choix s’est imposé, car les régions de l’Italie augustéenne et les cités romaines sont les seules unités géographiques et institutionnelles dont nous connaissons de manière à peu près satisfaisante les limites. Pline (Histoire Naturelle, 111, 46 et 49-126) fournit la source principale des limites de ces régions sur le terrain, mais sa description n’est pas toujours claire ni précise13. Les régions sont désignées le plus souvent par leur nom ethnique que par leur numéro et, sauf la onzième (Transpadana), ont pour point commun d’avoir un débouché sur la mer14 : I Latium et Campania II Apulia et Calabria III Lucania et Bruttium IV Samnium V Picenum VI Umbria et Ager Gallicus VII Etruria VIII Aemilia IX Liguria X Venetia et Histria XI Transpadana

8 Et la question se pose de nouveau de comprendre comment une région, une unité territoriale se forme et s’articule par le biais des dispositifs cultuels. C’est-à-dire non seulement tracer la topographie, ou repérer, localiser les cultes mais aussi se lancer dans la grande entreprise de faire l’histoire de la topographie religieuse. Ainsi, notre cadre chronologique s’étend du VIIe siècle avant J.-C. jusqu’au VIIe siècle après J.-C., et comprend aussi bien les premières traces cultuelles que les débuts de la christianisation des sites. Cette approche nous permet de constater sur la carte qu’il n’y a pas d’évolution linéaire des lieux de culte, contrairement aux concepts historiographiques traditionnels, et que la succession des cultes ne suit pas une règle générale et absolue. Le culte mené sur un site peut être abandonné, les édifices reconstruits ou même déplacés sans qu’on puisse forcément donner une explication autre que des raisons purement pratiques.

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9 La religion est un excellent outil pour poser et analyser les questions générales de l’histoire antique, car elle était présente dans toutes les communautés comme un élément central de la vie quotidienne, civique et sociale. En outre, les traces monumentales et matérielles laissées par les pratiques religieuses ont généralement bien survécu et offrent donc une voie d’accès privilégiée vers la civilisation antique. L’importante documentation archéologique et littéraire fournie par les fouilles et les textes est, en revanche, très dispersée et mal publiée, ce qui interdit fréquemment aux chercheurs d’établir le contexte historique des trouvailles, voire même de connaître l’existence de ces documents. Parfois les sites cités dans les textes ne sont pas identifiables sur le terrain ou les vestiges repérés lors les fouilles ne sont pas mentionnés dans les sources littéraires. Nous avons adopté le parti qui nous a semblé le plus efficace : inventorier les sources religieuses en les classant selon les lieux de culte. Seul cet ancrage, en effet, permet de le leur redonner tout leur sens. Les religions de l’Italie antique ne peuvent pas être comprises comme des subdivisions locales d’une religion universelle, italique ou romaine ; elles formaient des microsystèmes homologues mais autonomes. Il convient donc d’étudier les témoignages sur la vie religieuse dans leurs contextes géographique, institutionnel et social. Pour pallier ce problème, nous avons voulu procéder à la constitution d’un corpus de toutes les sources littéraires et archéologiques, entre le VIIe siècle avant et le VIIe siècle après J.-C., et inventorier l’ensemble de la documentation qui témoigne de l’existence d’un lieu de culte précis.

10 Le besoin de systématiser les informations est donc manifeste et nous avons décidé de procéder par rubriques. Trois grandes catégories nous renseignent sur l’existence d’un lieu de culte : – les sources littéraires ; – les inscriptions : les textes sont cités avec leur traduction, souvent après reconstitution, et permettent de proposer de nouvelles reconstitutions et traductions ; – les vestiges archéologiques : édifices et aménagements, objets rituels et offrandes.

11 Cette organisation des sources permet de citer les textes antiques, en latin, en grec, en osque etc., avec des traductions, des corrections d’édition et des mises à jour, de décrire les objets, suivis des références bibliographiques précises, souvent difficilement accessibles par ailleurs, des numéros d’inventaire, des informations sur le lieu et la date de leur découverte, ainsi que le lieu et l’état de leur conservation. Chaque information renvoie à l’existence d’un lieu de culte, qui, selon sa situation géographique, est classé à l’intérieur de sa région en trois catégories principales : – les sanctuaires urbains, qui se trouvent dans la ville ; – les sanctuaires périurbains, construits à la périphérie de l’espace urbain ; – les sanctuaires extra-urbains, à l’extrémité du territoire.

12 Pourtant, cette typologie, comme tout classement, a ses limites et nous avons donc décidé de répertorier les sites selon des critères géographiques. Ces nouveaux termes peuvent être considérés comme manquant d’une définition claire. Supposent-ils qu’un espace urbain important aurait contrôlé les cultes de tout le territoire ? La question reste ouverte. Dans notre description des sites, nous avons voulu démontrer que les sanctuaires évoluaient chacun à leur propre rythme et que les territoires n’avaient pas forcément un caractère cultuel uniforme. D’autres catégories s’imposent dans le répertoire des cultes : privé ou public ; attribution à des divinités titulaires et F0 associées ; situation géographique selon la topographie antique (région augustéenne AB

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F0 nom antique de la ville AB nom du peuple italique, nom de l’évêché), la toponymie moderne (situant le lieu par rapport aux sites modernes) et le relief géographique (vallée, colline, côte maritime, etc.).

13 Ainsi, on aboutit à une image suffisamment complète du lieu et de ses aménagements. Chaque lieu de culte est ainsi décrit dans une fiche, signée par le chercheur qui la rédige. Une introduction couvre l’ensemble de la région augustéenne et pour chaque F0 F0 subdivision régionale 2D territoire des cités 2D , une synthèse détaillée groupe l’ensemble des lieux de culte et fournit une description historique et topographique, organisée par périodes chronologiques.

14 Le corpus donne aujourd’hui lieu à une publication papier de fascicules qui forment une collection de la maison d’édition italienne Quasar15.

15 Une seconde parution y est associée sous forme de base de données, outil qui nous paraît beaucoup plus adaptée à ce projet. Nous avons donc débuté une réflexion pour la création de ce fonds documentaire. Cette base de données est conçue pour être évolutive, tenir aisément compte des nouvelles découvertes et ne sera pas uniquement réservée à l’Italie antique, mais sera utilisée pour d’autres régions du monde antique, étudiées au sein des chaires d’archéologie du Collège de France, ou bien dans les laboratoires d’histoire ancienne d’autres institutions telles que l’École normale supérieure, l’université Paris I. D’ores et déjà, une collaboration est entreprise avec des archéologues tunisiens travaillant sur les lieux de culte de la partie de l’Afrique proconsulaire qui correspond à la Tunisie actuelle.

16 La base de données sera donc alimentée à partir des informations contenues dans les fiches des fascicules, soit : – la description des lieux de culte, des édifices et des mobiliers ; – la topographie des lieux de culte ; – les sources littéraires ; – les sources épigraphiques ; – la documentation (images, plans et dessins) ; – la bibliographie.

17 Les fiches sont rédigées dans la langue des chercheurs qui les créent, il est donc aussi envisagé de publier notre fonds documentaire en français, en italien, en anglais ou en allemand. La base sera consultable sur internet, avec un accès réservé pour certaines informations (géolocalisation par exemple), et sera actualisée au fur et à mesure de la publication de fascicules ou de l’intégration de nouveaux territoires et sites cultuels. Pour donner à ce projet une dimension internationale, un certain nombre de prérequis seront indispensables : – normalisation d’un vocabulaire commun à l’aide d’ouvrages de référence tels que le Dictionnaire méthodique de l’architecture grecque et romaine de René Ginouvès ; – insertion de métadonnées pour l’interopérabilité (dublinCore) ; – encodage des métadonnées (standardisation XML) ; – adoption du protocole OAI-PMH pour la communication entre des bases de données diverses et hétérogènes ; – compatibilité avec le portail Michael et le projet CLAROS pour les sciences de l’Antiquité.

18 Outre les données purement quantifiables, les fiches comportent les commentaires, les interprétations, les suggestions des différents archéologues qui ont étudié les sites et ces informations ne peuvent être intégrées à la base, car celle-ci n’a pas pour fonction

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d’être un facsimilé des fiches. Par contre, toutes ces informations sont extrêmement importantes et doivent être simplement accessibles à partir de la base. Il nous a donc semblé opportun de lier à notre travail, une publication électronique des fascicules, qui rendra possible la consultation des fiches grâce à la présence de liens pérennes pour chaque lieu de culte. Les fascicules seront donc édités sous forme électronique sur OpenEdition Books dans les collections du Collège de France.

19 Le traitement et la réorganisation du matériel disponible, particulièrement compliqué et abondant, concerne dans un premier temps la Région I (Latium et Campanie), la Région IV (Samnium) et la Région V (Picenum). D’autres régions suivront. L’année 2014-2015 est consacrée à la publication des prochains fascicules et à la mise en œuvre du portail numérique en espérant qu’il sera accessible à la communication scientifique début 2015.

20 L’analyse des données, à une échelle locale et régionale, permet des comparaisons entre le matériel et une étude avancée, en évitant la hiérarchisation des cultes. Toute donnée est portée à une interprétation et peut être liée à d’autres sources archéologiques et littéraires : il s’agit des variables interdépendantes se référant toujours à un lieu de culte.

21 L’ambition de notre projet est d’assurer que le traitement des informations ne soit pas figé dans une forme de tableau, répertorié dans une base des données. Diffuser les résultats des fouilles et des études scientifiques réalisées est l’un des devoirs de l’antiquisant, surtout dans le monde actuel où la production scientifique a crû de manière exponentielle. Notre projet permet la description, l’interprétation et la diffusion par des spécialistes d’un vaste ensemble de données à la communauté scientifique nationale et internationale, et contribuera entre autres aussi à la sensibilisation du public spécialisé ou non, ce qui est un des facteurs fondamentaux de la préservation du patrimoine archéologique. Ce projet structural destiné à une forte visibilité scientifique internationale des sources antiques de tout type, renforce une recherche à très haut niveau. Nous le considérons comme un point de départ pour une réflexion avancée sur la structuration territoriale cultuelle de l’Antiquité.

NOTES

1. Pour Fana, templa, delubra, voir J. SCHEID ET A. DUBOURDIEU, « LIEUX DE CULTE, LIEUX SACRÉS : LES USAGES DE

LA LANGUE. ITALIE ROMAINE », IN A. VAUCHEZ (ÉD.), LIEUX SACRÉS, LIEUX DE CULTE, SANCTUAIRES. APPROCHES TERMINOLOGIQUES, MÉTHODOLOGIQUES, HISTORIQUES ET MONOGRAPHIQUES, ROME, 2000, COLLECTION DE L’ÉCOLE FRANÇAISE DE ROME 273, P. 59-80. 2. Fānum vient du proto-italique *fasnom « temple », avec des termes apparentés en osco- ombrien ; apparenté à fēriae « jours sacrés », fēstus « (jour) de fête ». Selon Ernout-Meillet, DELL, s.v. fānum, le mot signifie d’abord « lieu consacré », et le mot était rattaché par étymologie populaire à fāri « parler » (Varron, De lingua latina, VI, 54), mais dans l’usage courant c’est un synonyme de templum, delū ̄brum et aedes.

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3. Templum est dérivé de la racine *temh1- « couper » (cf. τέμνω) au sens de « espace découpé par l’augure » pour l’observation des présages (Varron, De lingua latina, VII, 6. Ernout-Meillet, DELL ; cf. gr. τέμενος), ou bien de la racine *temp- « tendre, tirer un fil », au sens de « espace mesuré par un fil tendu » (M. de VAAN, Etymological Dictionary of the Latin and the other Italic Languages, Leyde-Londres, 2008 ; G. MEISER, Historische Lautlehre und Formenlehre der lateinischen Sprache, 1998, p. 81). 4. Il est impossible de déterminer le sens originel de delū ̄brum, l’étymologie exacte nous échappe. Dérivé de de-luō ̄, dont le premier membre exprime la séparation et le second peut être tiré soit de lauō, -āre « laver » (ainsi de Vaan s.v., cf. po(l)lūbrum « bassin pour se laver les mains »), soit de luō « délier, expier, s’acquitter d’un vœu ». Dans le premier cas, avec deluō ̄ « nettoyer », le dēlūbrum serait originellement le « lieu où l’on se lave des impuretés », dans le second, avec dēluō « délier », ce serait le « lieu où l’on expie les impuretés » ou bien « où l’on s’acquitte d’un vœu ». Pour la seconde hypothèse, peut-être plus probable, cf. C. PICHECA, « DELUBRUM TEMPLI », INVIGILATA LUCERNIS, 10, 1988, P. 253-261 : À L’ORIGINE CE TERME DÉSIGNE LE LIEU DEVANT LE TEMPLUM, EN PLEIN AIR,

CARACTÉRISÉ PAR LA PRÉSENCE D’UNE STATUE DE CULTE ; REJETTE L’ÉTYMOLOGIE PAR LAUŌ « LAVER » AU PROFIT DE CELLE PAR LUŌ « DÉLIER » AU SENS DE « S’ACQUITTER D’UN VŒU » (LUERE DEO DEBITUM/UOTUM) ; IL S’AGIT DONC DU LIEU OÙ L’ON S’ACQUITTAIT D’UN VŒU EN DÉDIANT UNE STATUE À UN DIEU.

5. A. BERTHOZ ET R. RECHT (DIR.), LES ESPACES DE L’HOMME, PARIS, 2005. DANS CETTE PUBLICATION DU COLLOQUE ORGANISÉ AU COLLÈGE DE FRANCE EN 2003, DES SCIENTIFIQUES DE DISCIPLINES DIFFÉRENTES ONT ÉTUDIÉ LA QUESTION « QUELS RAPPORTS L’HOMME ENTRETIENT-IL AVEC SES ESPACES ? ». SANS OUBLIER « L’ESPACE » DE M. MERLEAU-

PONTY DANS LA PHÉNOMÉNOLOGIE DE LA PERCEPTION II. LE MONDE PERÇU I (M. MERLEAU-PONTY, ŒUVRES, PARIS, 2010, P. 935-994). 6. J. SCHEID, « RELIGION ET ESPACE DANS L’ANTIQUITÉ : RÉALITÉ ET REPRÉSENTATION », DANS LES ESPACES DE

L’HOMME, OP. CIT., P. 265-276. POUR LA FONDATION DE CARTHAGE PAR EXEMPLE VOIR J. SCHEID & J. SVENBRO, LA TORTUE ET

LA LYRE. DANS L'ATELIER DU MYTHE ANTIQUE, PARIS, 2014, P. 33-55. 7. M. HUMM, « LE CONCEPT D’ITALIE : DES PREMIERS COLONS GRECS À LA RÉORGANISATION AUGUSTÉENNE », IN A. COLOMBO ET AL. (DIR.), MÉMOIRES D’ITALIE. IDENTITÉS REPRÉSENTATIONS, ENJEUX, COMO, 2010, P. 36-66. 8. Sur les urbanistes, voir récemment T. PAQUOT (ÉD.), LES FAISEURS DES VILLES 1850-1950, PARIS, 2011 ; P.

PENARAI, J.-C. DEPAULE ET M. DEMORGON, ANALYSE URBAINE, MARSEILLE, 3 VOL. , 1995-2005. J.M. STÉBÉ ET H. MARCHAL (ÉD.),

TRAITÉ SUR LA VILLE, PARIS, 2009 ; « LES MESURES DE LA VILLE », HISTOIRE & MESURE, 24/2 (2009). 9. J.-M. BESSE, LE GOÛT DU MONDE : EXERCICES DU PAYSAGE, PARIS, 2009. CET OUVRAGE PROPOSE CINQ DÉFINITIONS-

APPROCHES POUR COMPRENDRE LE TERME DE « PAYSAGE ». A. BERQUE, LA PENSÉE PAYSAGÈRE, PARIS, 2008. L’AUTEUR S’OPPOSE À L’IDÉE QUE LE PAYSAGE SOIT UN CONCEPT INVENTÉ ET CONSIDÈRE QUE LE PAYSAGE N’EST PAS DANS UN REGARD SUR DES OBJETS, MAIS DANS LA RÉALITÉ DES CHOSES, C’EST-À-DIRE DANS LE RAPPORT QUE NOUS AVONS AVEC NOTRE ENVIRONNEMENT. IL FAUT DONC PARLER DE LA « NAISSANCE » DU PAYSAGE ET NON DE L’« INVENTION » DU

PAYSAGE. A. BERQUE (DIR.), CINQ PROPOSITIONS POUR UNE THÉORIE DU PAYSAGE, 1994. CONTRA, A. CAUQUELIN, L’INVENTION

DU PAYSAGE, PARIS, 2 VOL. , 1989-2000 ; P. THOMPSON, « LE PAYSAGE COMME FICTION » ET « NOTE ADDITIONNELLE SUR

LE PANORAMA ET LE DIORAMA », REVUE DES SCIENCES HUMAINES, 209 (JANVIER-MARS 1988), P. 9-37. SUR LE PAYSAGE ET

L’ANTIQUITÉ, LES PREMIERS ESSAIS REMONTENT À A. CHOISY, HISTOIRE DE L’ARCHITECTURE, PARIS, 1895, RÉÉDITÉ À MARSEILLE EN 1997. 10. Par exemple, I. CALVINO, LES VILLES INVISIBLES, PARIS, 1973 (ÉD. ORIGINALE, TURIN, 1972). 11. Cette lecture de structuration de l’espace urbain, par les mythes, les images, les monuments a été développée pour la compréhension des villes de la Renaissance comme dans l’essai de S. BETTINI, VENISE : NAISSANCE D’UNE VILLE, PARIS, 2006 (TRADUIT DE L’ITALIEN, VENEZIA. NASCITA DI UNA CITTÀ, MILAN, 1978). 12. P. CLARK, « La fabrication de la Cambridge Urban History of Britain », Histoire urbaine 6, 2002, p. 161-174. F. CHOAY, « Le règne de l’urbain et la mort de la ville », La ville, art et architecture en Europe, 1870-1993 (catalogue d’exposition au Centre Pompidou), Paris, 1994.

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13. La difficulté de définir avec précision les limites de ces régions a été signalée plusieurs fois. Voir par exemple Cl. NICOLET, « L’ORIGINE DES REGIONES ITALIAE AUGUSTÉENNES », CAHIERS DU CENTRE GUSTAVE GLOTZ, 2, 1991, P. 73-97. 14. Ol. de CAZANOVE, « LES COLONIES LATINES ET LES FRONTIÈRES RÉGIONALES DE L’ITALIE », MÉLANGES DE LA CASA VELASQUEZ 35-2, 2005, P. 107-124. 15. À ce jour, deux titres sont parus : FTD 1, Regio I : Alatri, Anagni, Capitulum Hernicum, Ferentino, Veroli ; FTD 2, Regio I : Avella, Atripalda, Salerno. Deux volumes sont en cours de publication et paraîtront en 2015 : FTD 3, Regio IV : Alife, Bojano, Sepino ; FTD 4, Regio I : Fondi, Formia, Minturno, Ponza. Et deux autres volumes sont en cours de préparation et dont la publication est prévue pour 2016 : FTD 4, Regio V : Cingulum, Numana, Planina ; FTD 5, Regio V : Osimo, Auximum, Ancona, Cupra, Montana.

AUTEUR

DESPINA CHATZIVASILIOU Collège de France [email protected]

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Antiquités parallèles (2). Femmes antiques

Claude Aziza

« La femme antique est l’avenir de l’homme moderne » Sigmund Freud.

1 La chronique précédente avait pour héros un Athénien subtil, Thémistocle, un patriarche inquiet, Noé et un héros bodybuildé, Hercule. Celle-ci mettra en valeur quelques héroïnes antiques.

Quand les Dieux s’en mêlent…

2 On commencera par Bethsabée. On connaît l’histoire : David, devenu, après Saül, le deuxième roi d’Israël, est tombé amoureux de l’épouse d’un de ses capitaines, Urie, qu’il envoie se faire tuer en première ligne. L’opéra, la peinture, la littérature ont glosé sur cet épisode somme toute peu glorieux qui voit la passion triompher de la justice et attirer les foudres jéhoviennes sur les amants. Le cinéma a donné de l’histoire plusieurs versions. Les deux dernières ont choisi des tonalités différentes. La plus récente, Le Roi David de B. Beresford (1985), mêle assez habilement la romance amoureuse et le pouvoir politique face au pouvoir religieux, en donnant à la danse devant l’Arche une interprétation assez inhabituelle qui va dans ce sens. Hélas, le film sorti en VHS n’est toujours pas disponible en DVD. Plus conventionnel, plus sage, plus hollywoodien, le David et Bethsabée d’H. King (1951) ne manque pourtant pas d’allure. Il est sorti en DVD.

3 Mais dans l’histoire de David, on oublie souvent un élément important : ses rapports ambigus avec Saül et Jonathan, le fils de celui-ci. Pour A. Gide, la mort de Saül (Saül, 1898-1903) est la conséquence de la passion qu’il voue à son poète et son dépit devant la liaison qu’il a avec Jonathan. T. Burnett Swan (1928-1976) dans Plus grands sont les héros (1974, TR. Les Moutons électriques, Hélios, 14, 2014) a tenté de creuser ce qui unit les deux jeunes hommes, en donnant à son récit des couleurs parfois surnaturelles. Or l’auteur, peu connu en France, devrait intéresser tout amateur d’antiquité à laquelle il a

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consacré deux trilogies passionnantes. La première a pour héros le Minotaure et on la trouve aujourd’hui regroupée en un seul volume chez Folio SF, n° 204 (1. Le Labyrinthe du Minotaure ; 2. La Forêt du Minotaure ; 3. Le Jour du Minotaure). La seconde, à mes yeux plus intéressante, se nomme Le Cycle du Latium et est centrée sur les débuts de Rome en leur donnant des couleurs nouvelles. Le premier volume, Le Phénix vert (Points fantasy, n° P1670), nous montre un Énée barbare et brutal accoster sur les rives d’un monde où règnent encore faunes et dryades qui devront l’affronter. Dans le deuxième, Le Peuple de la mer (Id., n° P1729), prend place l’épisode didonien. Le troisième, La Dame des abeilles (Id., n° P1767) a pour héros les fameux jumeaux qui, alliés aux dryades et aux faunes (les revoilà), vont conquérir Albe. Ce n’est qu’après la mort du pacifique et doux Remus que pourra commencer – sur le fratricide que l’on sait – la fondation de Rome. Cette alliance entre SF et Antiquité n’est pas nouvelle. On en veut pour preuve deux recueils récents de nouvelles. Le premier, Fragments d’une fantasy antique, est paru chez Mnémos en 2012, le second, Dimension antiquité, chez Rivière blanche en 2014. Dans les deux cas, des romanciers, français et étrangers, prennent pour cadre le monde antique. Plus étonnant, cependant, le récit de l’installation d’Énée en terre latine et de sa rencontre avec celle qui deviendra son épouse, Lavinie. Lavinia est un roman d’U. Le Guin (2008, TR. L’Atalante, 2010), une grande dame de la SF, peut-être la plus grande, dont l’œuvre a été surtout consacrée à la défense et à l’illustration de la condition féminine à travers les mondes de la galaxie. Son chef-d’œuvre reste La Main gauche de la Nuit (1969, Pocket SF, n° 5191, mais peut-être plus disponible). La planète Gethen-Nivôse, située aux confins de l’univers, à une centaine d’années-lumière de la Terre, est un monde sans sexe défini : ses habitants sont, en suivant un cycle d’ovulation, successivement hommes et femmes. Ce qui trouble profondément le héros du roman mais engendre un monde pacifique et hautement civilisé. Ce qui n’est pas le cas de celui qui voit Grecs et Troyens s’affronter…

Remue-ménage à Troie

4 Deux romans pour raconter la Belle Hélène. Romans assez médiocres, il faut bien l’avouer. Le premier de M. Georges, Hélène de Troie, en 2 volumes (Le Livre de poche, nos 31214 et 31215) est d’une honnête mais plate facture. Le second, de F. Petrizzo, Mémoires d’une catin (2010, trad. Michel Lafon, 2010) se vend sur un titre inutilement provocateur et sur une intrigue de bazar. Mieux vaut se pencher sur les héros grecs. Achille est au cœur d’un très poétique récit de M. Miller, Le Chant d’Achille (2013, TR. Rue Fromentin, 2014) et Ulysse d’un beau roman de V. Manfredi : Odysseus. Les Rêves d’Ulysse (2014, TR. J.-C. Lattès, 2014), dont on attend la suite. Autre séductrice mais, peut-être, malgré elle, Salomé.

La danse des 7 toiles

5 La sortie de 2 DVD consacrés à Salomé (C. Bryant, 1923 ; W. Dieterle, 1952) m’incite à explorer le sort cinématographique de la fameuse danseuse. L’épisode de Salomé a été rapporté par deux évangélistes : Matthieu (14, 1-12) et Marc (6, 14-28). Il est absent de Luc qui, en 3, 19-20, mentionne seulement l’emprisonnement de Jean le Baptiste par Hérode Antipas. Tout comme Josèphe dans les Antiquités Judaïques, XVIII, 7. On connaît sa fortune littéraire (Flaubert, Laforgue, Mallarmé, Wilde et bien d’autres encore),

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picturale (Moreau) et musicale (Massenet, Schmitt, Strauss). Mais on ignore, en général, sa richesse cinématographique. Entre 1902 et 2002, pas moins de 25 adaptations (dont 16 pour le muet) qui à partir des Évangiles, qui à partir de la pièce – écrite en français (on conseillera la version bilingue chez GF, n° 649, avec la traduction anglaise d’A. Douglas, 1894) – d’Oscar Wilde (1894, mais représentée le 12 février 1896 au Théâtre de l’Œuvre à Paris, avec Sarah Bernhardt). Sans compter les parodies, les transpositions et les apparitions de l’héroïne dans quelques vies de Jésus, dont Le Roi des Rois, N. Ray, 1961, L’Évangile selon saint Matthieu, P. P. Pasolini, 1964, Jésus de Nazareth, F. Zeffirelli, 1977. Tous trois disponibles en DVD. Passons au détail de sept adaptations.

6 – La plus Vamp : Si la première, en 1902, est allemande, la première réussite est due au grand maître américain du muet : J. Stuart Blackton, en 1908. Il faudra attendre cependant encore dix ans pour qu’en 1918 J. Gordon Edwards, s’inspirant de Wilde et de Strauss, fasse incarner Salomé par la première vamp américaine (et mondiale), Theda Bara (1890-1955) qui venait de jouer Carmen, Sapho, Juliette, Hélène, Cléopâtre et… Madame du Barry.

7 – La plus Wildienne (désormais accessible) : En 1922, dans des décors et avec des costumes qui évoquent plus l’art nouveau que le Nouveau Testament, Alla Nazimova (1879-1945) évolue avec grâce, le visage blanchi et la perruque claire, dans un film américain de Ch. Bryant. La costumière, Natasha Rambova (seconde épouse de Rudolph Valentino) avait tenté de recréer les costumes dessinés par Aubrey Beardsley pour la première de la pièce de Wilde. L’actrice, aux goûts somptueux et extravagants, s’était ruinée pour financer ce film qui fut un échec. Elle dut, sur les écrans, céder la place à Greta Garbo.

8 – La plus étrange : Aucun cinéaste n’osant se mesurer à Ch. Bryant, Ch. Lamont tourna la difficulté en 1945 : dans Les Amours de Salomé, il transposait l’histoire dans un décor de western et offrait à la voluptueuse Yvonne de Carlo l’un de ses plus beaux rôles (chercher le film en VHS, chez AlpaMedia).

9 – La plus pro (désormais accessible) : Il convenait de revenir à l’antique et de confier le rôle à une authentique danseuse. Ce fut Rita Hayworth en 1952 dans la Salomé de W. Dieterle, tirée d’un roman que le cinéaste avait lui-même écrit sous pseudonyme. On y raconte les amours de Salomé, élevée à la cour de Tibère, et d’un beau centurion romain. Après une somptueuse scène de danse, Salomé, déjà préchrétienne, s’enfuit avec son légionnaire. R. Anderson a tiré une novellisation du film, parue en traduction française en 1953, chez André Martel.

10 – La plus corrosive : Les années 1970 virent le retour du mythe traité à la façon « underground ». Dans un film allemand de W. Schroeter (1971), tiré de Wilde, Salomé se présente comme une icône glaciale. Mais c’est C. Bene, toujours d’après Wilde, en 1972, qui donne de la pièce de Wilde une image visuellement délirante et troublante.

11 – La plus scandaleuse : On ne pouvait attendre de K. Russel autre chose qu’une version à scandale. Jugez-en : dans un film de 1988, Wilde assiste, dans un lupanar londonien, à une représentation privée de sa pièce. Représentation qui commence par la fameuse danse (chercher le film en VHS chez Delta Vidéo).

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12 – La plus musicale : La dernière mouture du mythe, la Salomé de C. Saura (2002), existe en DVD. Il s’agit d’un ballet dont l’éblouissante chorégraphie moderne, les jeux de lumière et l’alliance des mouvements de caméra et de ceux des corps sont une véritable transfiguration de la légende.

Victimes et bourreaux

13 Elle s’appelait Paulina, elle était originaire de la Narbonnaise et elle devint l’épouse de Sénèque. Triste fut le destin de cette femme intelligente et cultivée qui assista au suicide, imposé par Néron, de son époux, mais fut épargnée par l’empereur. P. de Carolis raconte son histoire dans La Dame du Palatin (Plon, 2011), un beau roman. Il faudra le lire en même temps que Villa du crépuscule de J. Browner (2007, TR. Phébus, 2009) qui raconte la dernière nuit de Pétrone, et que Quitte Rome ou meurs de R. Sardou (2009, XO éditions, Pocket, n° 14438) dont l’intrigue se passe à la cour de Néron. On pourra agrémenter le cocktail en visionnant deux versions de Quo Vadis ? aujourd’hui disponibles en DVD, celle de M. Le Roy (1951) et celle de J. Kawalerowicz (2001), sans oublier que la version intégrale (toutes les autres étaient amputées) du roman est disponible aux Belles Lettres (2010). Ajoutons-y Légions. Les Guerriers de Rome (un film de B. Anderson, 2003) pour le plaisir de voir le jeune Néron sucer avidement le sein maternel !

14 Elle s’appelait Fabiola, elle naquit sous la plume du cardinal Wiseman, en 1854 (la chercher d’occasion en Pocket) et connut un succès mondial. Longtemps indisponible, la version d’A. Blasetti (1948) est en DVD. On peut y voir – avec un peu d’attention – quelques fils télégraphiques laissés par mégarde mais surtout assister in live, sur la plage d’Ostie, aux amours de Michèle Morgan (la belle patricienne romaine) et d’Henri Vidal (le beau gladiateur gaulois). On s’en doute, ces festons érotiques ne se trouvaient pas dans le roman.

15 On ne connaît pas le nom de la concubine d’Augustin, cette femme mystérieuse, mère de son fils Deodatus, qui disparut de la vie du futur saint quand il renonça à vivre dans le péché. Cl. Pujade-Renaud lui rend justice dans un beau et grave roman, Dans l’ombre de la lumière (Actes Sud, 2013, Babel, n° 1241).

16 Terminons enfin par le destin tragique d’Hypatie, philosophe, astronome et mathématicienne. Mais surtout femme libre que les fanatiques chrétiens de l’Alexandrie du IVe siècle, conduits par l’évêque Cyrille, assassinèrent avec une cruauté barbare, au nom du Christ. Ainsi donc les victimes étaient devenues bourreaux ! A. Amenabar en a fait, en 2010, un film superbe, vigoureux plaidoyer contre l’intolérance, qui fut en butte à l’hostilité de l’Église d’Espagne et passa quasiment inaperçu en France. Heureusement le DVD est désormais là.

17 Ah, j’allais oublier Alcibiade ! Sa vie scandaleuse est racontée dans un roman d’E. Jourdan, Sans lois ni dieux (H et O, 2010, n° 22). Mais que vient-il faire ici ? En souvenir de François Villon qui – comme tous ses contemporains – le croyait femme… (voir sa Ballade des Dames du temps jadis : « Dites-moi où, n’en quel pays// Est Flora la belle Romaine// Archipiades ne Thaïs// Qui fut sa cousine germaine ? »).

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AUTEUR

CLAUDE AZIZA Université de la Sorbonne Nouvelle, Paris III [email protected]

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Relire les classiques des sciences de l'Antiquité

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La paideia à la croisée des humanismes : Marrou lecteur de Jaeger

Anthony Andurand

1 Un « événement considérable1 » : c’est ainsi que Marrou, dans un long compte rendu publié en 1946 dans les mélanges de la Revue historique, salue la parution des deuxième et troisième volumes de Paideia, produit des recherches menées par l’helléniste Werner Jaeger2, depuis une vingtaine d’années, sur l’histoire de la littérature et de la culture grecques. Il est vrai que le monde de l’érudition, alors, attend depuis quelque temps déjà l’achèvement de cette imposante étude, due à l’un des maîtres de la science allemande et dont le premier tome3, publié en 1934, a été fort bien accueilli4.

2 Presque dix ans ont passé lorsque le philologue fait paraître, respectivement en 1943 et 1944, les deux derniers volets de son opus magnum5. C’est aux presses universitaires d’Oxford et en anglais, du reste, d’après une traduction du manuscrit allemand préparée par Gilbert Highet6, que les deux volumes ont été publiés, sous le titre Paideia : The Ideals of Greek Culture. Indirectement touché par les lois raciales7, Jaeger avait en effet dû quitter Berlin en 1936 pour rallier les États-Unis et l’université de Chicago, avant de rejoindre, en 1939, la prestigieuse université de Harvard, où il enseigna jusqu’à sa mort en 1961.

3 Si le texte de Marrou, connu de quelques commentateurs8, ne saurait être considéré comme un « classique » de l’érudition, il mérite qu’on lui fasse une place dans les annales des sciences de l’Antiquité. La recension est, d’abord, un modèle du genre : on y retrouve, en quelques pages serrées, cette hauteur de vue soucieuse de dégager, de l’examen des faits concrets du passé, des problèmes encore pertinents pour la culture du temps présent ; ce style patient, aussi, et ce ton audacieux, qui assume volontiers l’analogie historique9 comme un outil d’intelligibilité à l’usage de l’historien et de ses contemporains. De fait, le compte rendu de Marrou est une lecture lumineuse de Paideia, en même temps qu’une excellente introduction à l’œuvre de Jaeger. Le portrait dressé au fil des pages révèle sa parfaite connaissance des travaux du philologue allemand, depuis la thèse sur Aristote (1912) jusqu’à ses recherches récentes sur la

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culture grecque et les origines du christianisme, en passant par son volume dédié à Démosthène (1938) ; Marrou n’ignore pas, non plus, les efforts entrepris par Jaeger, au sein de l’école qu’il avait su regrouper autour de sa personne et de la revue Die Antike, pour inspirer dans l’Allemagne weimarienne un nouvel humanisme, le « troisième » (dritter Humanismus), capable de placer les valeurs idéales de l’héritage grec et du génie platonicien au service de la communauté politique et de l’action humaine. « On sait quelle noble ambition, suggère Marrou dans sa recension, anime l’œuvre de ce grand éducateur qu’est W. Jaeger : humaniste, il ne sépare pas la connaissance de la vie10. » Empreint d’estime, l’hommage ne cède pourtant rien à la lucidité, et n’élude pas les affinités qui ont un temps rapproché l’historien, « honneur de la science allemande », « victime de la barbarie nouvelle », de « l’esprit nouveau que les nazis faisaient triompher11 ».

4 C’est donc à la lumière de l’engagement humaniste de Jaeger, écho de ses propres préoccupations, que Marrou se propose de relire Paideia. La recension se présente comme un document historiographique de première importance, témoignage sur le vif de la lente maturation, au contact des questionnements et des renouvellements de la science contemporaine, d’une pensée ample et originale. Dans la continuité d’une réflexion amorcée depuis plusieurs années, Marrou s’y montre particulièrement attentif à la démarche de son homologue allemand et aux questions de méthode qu’elle tend à soulever. L’étude de Jaeger est ainsi décrite comme l’exemple le plus remarquable du « nouvel esprit historique12 », cette attitude qui, prenant appui sur les données événementielles et concrètes de l’histoire, s’applique à dégager des témoignages du passé des « idées » et des « valeurs » valables pour « l’homme vivant13 ». De fait, souligne Marrou, Jaeger ne s’intéresse guère, dans son étude sur la paideia, aux pratiques, aux méthodes et aux contenus de l’éducation dans le monde grec – aspects auxquels l’auteur de l’Histoire de l’éducation dans l’Antiquité se montrera plus sensible. Paideia peut davantage être envisagé comme une histoire de la littérature grecque, d’Homère à Démosthène, abordée sous l’angle de sa portée éducative et formatrice. Dans ce vaste tableau, insiste par ailleurs Marrou, « l’essentiel de l’effort est consacré à Platon14 ». Le premier volume de Paideia, qui traitait de la période archaïque et du Ve siècle athénien, s’achevait par un chapitre consacré à Thucydide, le « penseur politique » (politischer Denker) ; les deuxième et troisième volumes – soit près de 750 pages –, en revanche, sont pour les deux tiers dédiés à la philosophie platonicienne. Le lecteur, remarque ainsi fort justement le recenseur, peut légitimement se demander « si le véritable sujet du livre n’est pas une initiation à l’étude de Platon15 ».

5 L’ouvrage, dès lors, prend place dans la grande tradition des études platoniciennes – « forme moderne de la permanence du platonisme même16 » –, dont la science allemande, de Schleiermacher à Stenzel17, s’est fait une spécialité. L’ombre du Platon de Wilamowitz accompagne le lecteur : avec Paideia, observe Marrou, Jaeger livre à l’érudition une « grande synthèse » sur le philosophe, « analogue et rivale18 » à celle du maître. Analogue, parce que Jaeger se propose de retracer, comme Wilamowitz et comme il l’a déjà fait pour Aristote, l’itinéraire spirituel de Platon, tel qu’il se révèle dans la succession des dialogues et dans le témoignage autobiographique de la Lettre VII, tenu pour authentique ; rivale, cependant, car, contrairement à son prédécesseur, soucieux de dégager les étapes du développement intérieur (innere Entwicklung) et de l’élaboration de la pensée platonicienne, l’auteur de Paideia, lui, souligne à l’inverse « l’unité profonde de tout Platon », animé par la conviction que l’éducation ne constitue

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pas un aspect, parmi d’autres, de l’œuvre du philosophe, mais bien plutôt « l’essence même du génie platonicien19 ». Sur ce dernier point, enfin, alors que le Platon de Wilamowitz, en trouvant refuge dans les murs paisibles de l’Académie, n’était devenu pédagogue que sous l’effet des circonstances extérieures et d’expériences déçues, celui de Jaeger, au contraire, des premiers dialogues à la République et aux Lois, se fait éducateur comme par vocation, guidé par les visées pratiques d’une philosophie au service de la cité et de l’ambition réformatrice20.

6 Délaissant le champ des études platoniciennes et les traditions de la science allemande, la dernière partie du compte rendu s’efforce d’évaluer l’apport de Paideia à la compréhension de l’histoire culturelle du monde grec. C’est à ce stade que l’analyse de Marrou manifeste ses divergences avec l’approche et les conceptions jaegeriennes, laissant ainsi entrevoir ce que seront les orientations de la future Histoire de l’éducation dans l’Antiquité, alors en préparation21. La ligne de partage s’insinue d’abord, pourrait- on dire, dans le choix de la période de référence. Jaeger a choisi de placer au centre de son enquête le IVe siècle athénien – « cette période attachante, ajoute le recenseur, à mesure qu’elle nous est mieux connue22 » –, et fait de « l’âge de Platon23 » l’époque « classique de l’histoire de la paideia24 ». C’est « sous un autre éclairage25 », cependant, que Marrou souhaite appréhender le devenir de l’éducation antique : « Je situerais volontiers à l’époque hellénistique (prolongée jusqu’à la fin du Haut-Empire romain : je crois à l’unité de l’hellenistisch-römische Kultur) l’akmè de la paideia antique, l’apogée de l’art de modeler la forme intérieure de la personnalité humaine26. » En proposant d’élargir la perspective chronologique, Marrou n’invite pas seulement le spécialiste à envisager dans la longue durée l’évolution de l’éducation et de la culture grecques ; le programme de revalorisation de la période hellénistique – c’est ici que son analyse marque un nouvel écart par rapport à l’étude de Jaeger – doit aussi être compris comme une redéfinition du contenu même de la paideia et des références auxquelles elle puise : « Par contre-coup, suggère-t-il, j’en viendrais à revaloriser, vis-à-vis de Platon, le rôle historique d’Isocrate, le grand initiateur au point de vue des institutions pédagogiques, le fondateur de la grande tradition de l’école antique27. » Confiant dans la portée et la valeur du « message » platonicien pour le temps présent, Jaeger a peut-être accordé une place excessive aux leçons du philosophe dans son histoire de la paideia. Car, dans la lecture proposée par Marrou, Platon fait bien figure, au risque d’une certaine audace, de « vaincu » de l’histoire : ce n’est pas l’enseignement platonicien, mais celui d’Isocrate et de la tradition rhétorique que les générations ultérieures ont suivi et reçu pour donner vie à la « tradition antique », cette tradition, prend soin de préciser l’historien pour finir, dont toute une civilisation a vécu et « dont nous vivons encore28 ».

7 Le compte rendu de Marrou conduit ainsi le lecteur aux origines mêmes de cet humanisme dont l’historien n’a cessé de se revendiquer et de sonder les sources historiques et spirituelles. Sans doute la recherche de ces dernières décennies a-t-elle fait éclater les cadres de l’humanisme traditionnel et ébranlé ses certitudes, cependant que les pérégrinations de la notion, depuis les errements du programme jaegerien jusqu’aux usages plus récents du terme, contribuaient à en affaiblir la portée. Plus d’un demi-siècle après la parution de Paideia et de l’Histoire de l’éducation, toutefois, le texte de Marrou conserve remarquablement la trace de cet effort pour interroger et embrasser, au présent, dans la patiente fréquentation des Anciens et le dialogue engagé avec les contemporains, les voies et les détours d’une tradition.

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NOTES

1. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON. À PROPOS D’UN LIVRE RÉCENT », REVUE HISTORIQUE 196 (1946), P. 142-149, P. 142. 2. Pour une présentation synthétique du parcours et de l’œuvre de Werner Jaeger (1888-1961) :

W.M. CALDER, « WERNER JAEGER », IN W.M. CALDER, W. BRIGGS (ED.), CLASSICAL SCHOLARSHIP. A BIOGRAPHICAL

ENCYCLOPEDIA, NEW YORK, LONDRES, GARLAND PUBLISHING, 1990, P. 211-226. 3. W. JAEGER, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, Berlin, W. de Gruyter, 1934. 4. Sur la composition du premier volume de Paideia et son accueil dans le monde des études classiques : B. NÄF, « WERNER JAEGERS PAIDEIA : ENTSTEHUNG, KULTURPOLITISCHE ABSICHTEN UND REZEPTION »,

IN W. M. CALDER (ED.), WERNER JAEGER RECONSIDERED, ATLANTA, SCHOLARS PRESS, 1992, P. 125-146. 5. W. JAEGER, Paideia. The Ideals of Greek Culture. II : In Search of the Divine Centre, New York, Oxford University Press, 1943 ; III : The Conflict of Cultural Ideals in the Age of Plato, New York, Oxford University Press, 1944. Les deux volumes sont par la suite publiés en allemand, chez W. de Gruyter, respectivement en 1944 et 1947. L’édition recensée par Marrou est la deuxième édition anglaise, parue chez Blackwell en 1945. 6. Classiciste et professeur à Columbia, Gilbert Highet (1906-1978) est par ailleurs l’auteur de l’ouvrage The Classical Tradition : Greek and Roman Influences on Western Literature, Oxford, New York, Oxford University Press, 1949. 7. Jaeger était alors marié, depuis 1931, à Ruth Heinitz, qui fut, à la fin de l’année 1935, déchue de la nationalité allemande par les Lois de Nuremberg. 8. On signalera ici la contribution de P. DEMONT, « H.-I. MARROU ET LES “DEUX COLONNES DU TEMPLE” :

ISOCRATE ET PLATON », IN J.-M. PAILLER, P. PAYEN (DIR.), QUE RESTE-T-IL DE L’ÉDUCATION CLASSIQUE ? RELIRE « LE MARROU

», HISTOIRE DE L’ÉDUCATION DANS L’ANTIQUITÉ, TOULOUSE, PRESSES UNIVERSITAIRES DU MIRAIL, 2004, P. 109-119 (LE TEXTE DE MARROU EST ANALYSÉ P. 110-111). 9. Ainsi Jaeger, ayant quitté l’Allemagne et trouvé refuge aux États-Unis « comme les savants byzantins du XVE SIÈCLE L’AVAIENT CHERCHÉ EN ITALIE » (P. 142) ; L’ÉVOCATION DU JEUNE ARISTOTE, « PRIVAT- DOCENT DE RHÉTORIQUE À L’ACADÉMIE », ET LE PORTRAIT D’ISOCRATE, « PORTE-PAROLE DE LA NOUVELLE DROITE, DISONS DE LA DROITE CONSTITUTIONNELLE MODÉRÉE » (P. 144). 10. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON », P. 142. 11. Ibid., p. 142. Sur les rapports équivoques de Jaeger avec l’idéologie nationale-socialiste et ses tentatives pour se rapprocher du nouveau régime entre 1933 et 1936, on pourra consulter la mise au point de W. M. CALDER, « WERNER JAEGER AND RICHARD HARDER : AN ERKLÄRUNG », QS 17 (1983), P. 99-121. 12. La formule apparaît dans le titre d’un article donné au Monde le 12 juillet de la même année. 13. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON », P. 143. 14. Ibid., p. 145. 15. Ibid., p. 144. Notons toutefois qu’il s’agit là, de la part de l’auteur de Paideia, d’un choix délibéré et assumé : dans la préface de l’édition anglaise, Jaeger n’hésite pas à présenter son étude comme une « introduction à Platon », décrit comme « le véritable philosophe de la paideia » (W. JAEGER, « PREFACE », PAIDEIA. THE IDEALS OF GREEK CULTURE. II : IN SEARCH OF THE DIVINE CENTRE,

OXFORD, BLACKWELL, 1947, P. X-XI). 16. Ibid., p. 146. 17. J. STENZEL, PLATON DER ERZIEHER, LEIPZIG, F. MEINER, 1928 (ET NON 1938, COMME INDIQUÉ, DE MANIÈRE ERRONÉE, DANS LA RECENSION DE MARROU). 18. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON », P. 145. 19. Ibid., p. 147.

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20. Sur ce point, du reste, il n’est pas certain, comme le suggère Marrou dans son compte rendu (p. 148), que le Platon de Jaeger, « parti pour construire une cité » aboutisse « à rêver d’une Église ». Cette lecture « personnaliste » de Paideia, par ailleurs reprise deux ans plus tard dans une note de l’Histoire de l’éducation dans l’Antiquité (Paris, Seuil, 2 vol. , 19917 [1948], I, p. 367, n. 20), paraît quelque peu excessive. Chez Jaeger, la philosophie de Platon, dans les dernières années de la vie de celui-ci, oscille en effet entre l’ambition pratique d’une refonte de la cité et la tentation d’une sagesse toute personnelle, contemplative et dégagée des sollicitations politiques – le repli du philosophe « vers la cité intérieure qu’il porte en lui-même » (Platon, Rép., IX, 591e : πρὸς τὴν ἐν αὑτῷ πολιτείαν). Il n’est pas certain, en revanche, que ce second pôle de la philosophie platonicienne, dans la présentation de Jaeger, prenne définitivement le pas sur le projet politique initial : pour le philologue allemand, celle-ci demeure jusqu’au bout – autrement dit, jusqu’à la composition des Lois – une philosophie de l’action, animée par l’effort de rénovation de la vie politique et de la cité grecques. 21. Dans De la connaissance historique, Marrou confie en effet que le livre lui a été « commandé » en 1943 par un « éditeur ami » des Éditions du Seuil (De la connaissance historique, Paris, Le Seuil, 19757 [1954], p. 202). 22. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON », P. 144. 23. L’expression apparaît dans le sous-titre du troisième volume de Paideia.

24. W. JAEGER, « PREFACE », PAIDEIA, II, P. XI. 25. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON », P. 148. 26. Ibid., p. 149. 27. Ibid., p. 149. Ces positions, remarque à juste titre Paul Demont, se voient quelque peu infléchies dans l’Histoire de l’éducation dans l’Antiquité, où Platon et Isocrate, dans les chapitres qui leur sont consacrés, sont désormais décrits, selon la formule bien connue, comme « les deux colonnes du temple », « se faisant équilibre et comme se répondant » (P. DEMONT, « H.-I. MARROU ET LES “DEUX COLONNES DU TEMPLE” », P. 111). 28. H.-I. MARROU, « LE SIÈCLE DE PLATON », P. 149.

AUTEUR

ANTHONY ANDURAND

PLH-ERASME (EA 4601) Université Toulouse-Jean Jaurès [email protected]

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Le siècle de Platon

Henri-Irénée Marrou

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L'atelier de l'histoire : chantiers historiographiques

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L'atelier de l'histoire : chantiers historiographiques

Archives de savants

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La correspondance d’Émile Espérandieu au Palais du Roure à Avignon

Marianne Altit-Morvillez

1 Parmi les archéologues de la première moitié du XXe siècle, le commandant Émile Espérandieu est connu essentiellement pour son ouvrage le Recueil des Bas-Reliefs de la Gaule, mais une grande partie de son œuvre reste quelque peu occultée. Par ailleurs, sa double carrière de militaire et d’archéologue le rend inclassable, car il ne fait pas partie des institutions universitaires de son temps. En étudiant, pour ma thèse1, ses archives conservées au Palais du Roure à Avignon, et en particulier sa correspondance scientifique, j’ai voulu non seulement appréhender le parcours d’un militaire hors norme dans le contexte historiographique de la société archéologique de la IIIe République, mais aussi, à travers ce prisme, tenter de rendre compte de manière plus globale des interactions sociales et des pratiques scientifiques au sein des réseaux archéologiques métropolitains2.

2 Pour appréhender la richesse du fonds documentaire du Palais du Roure, je rappellerai d’abord sa carrière. Émile Espérandieu, né en 1857, est fils d’un agriculteur d’un petit village du Gard (Saint-Hippolyte-de-Caton). Pendant son service militaire, ses supérieurs le remarquent et sur leurs conseils, il passe le baccalauréat pour entrer en 1878 à l’école spéciale de Saint-Cyr. Envoyé à sa demande dans le Corps expéditionnaire de Tunisie, il est affecté aux brigades topographiques. Là, il découvre l’épigraphie et l’archéologie, comme beaucoup d’officiers dans les colonies d’Afrique3 et rencontre les érudits locaux, comme Alexandre Papier4, ou le Père Delattre5. Il commence une correspondance scientifique, et envoie ses premiers relevés d’épigraphie à l’Académie d’Hippone, et à l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres6.

3 Cette expérience scientifique va se développer lorsqu’il rentre en métropole en 1884, car il s’intéresse au gré de ses affectations à l’archéologie locale et intègre de nombreuses sociétés savantes. C’est pour lui une période féconde de publications de corpus d’épigraphie régionale qui le font remarquer du monde savant7. Il développe son réseau scientifique tant en France qu’à l’étranger : il devient le disciple et l’ami

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d’Auguste Allmer8, fondateur de la Revue épigraphique du Midi de la France, publication dont il prendra la direction en 1898 ; il sollicite et reçoit les conseils de R. Cagnat9 qu’il avait rencontré en Tunisie10, de S. Reinach11, ou d’A. Héron de Villefosse12 ; il entre en contact avec les éditeurs du CIL, O. Hirschfeld13, O. Bohn14, leur envoie ses inscriptions de Tunisie, et en 1904, publiera dans le tome XIII son Recueil des cachets d’oculistes romains15.

4 Dans le même temps, professeur à l’école des officiers de Saint-Maixent, il publie un cours de géographie, un autre de topographie ; il est chargé aussi, par sa hiérarchie qui profite ainsi de ses compétences, de recherches d’histoire militaire16. À partir de 1901, détaché à la direction de la Revue du Cercle militaire – à cause d’une surdité croissante, il ne peut plus enseigner –, il s’installe à Paris et est nommé correspondant de l’Institut. En 1903, le ministère de l’Instruction publique le charge, sur la recommandation de C. Jullian17 et S. Reinach, de la préparation du Recueil général des bas-reliefs de la Gaule romaine. Il est ensuite nommé à la direction des fouilles d’Alésia en 1905. Chaque année, il publie les rapports de fouilles et travaille au Recueil des bas-reliefs. Lorsque la guerre éclate en 1914, alors qu’il était en retraite depuis l’année précédente, il reprend volontairement un service de bureau à l’armée, le front lui étant refusé à cause de son handicap. En 1919, il est élu à l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres et nommé conservateur des musées de Nîmes la même année. Il reprend ses fouilles d’Alésia, et poursuit la publication des Bas-reliefs, dont le dernier tome XI18 est publié en 1938, un an avant sa mort.

5 Cette carrière longue et complexe explique la variété des documents du Palais du Roure : sont conservés, par la volonté même d’Espérandieu, non seulement l’intégralité de sa bibliothèque, mais aussi ses manuscrits, sa documentation iconographique, et sa correspondance. Celle-ci n’était pas accessible à la recherche car elle n’avait jamais été classée entièrement. Pour étudier cette correspondance scientifique19, il m’a donc fallu la classer dans un premier temps, et l’inventorier. En l’état actuel de mon inventaire, qui n’est pas définitif, les correspondants sont près de 2 500, pour environ 15 000 lettres. Le nombre des correspondants semble très important – d’autant que l’archéologie constitue la deuxième carrière du commandant –, mais n’est pas exceptionnel au regard d’autres correspondances d’archéologues inventoriées, comme celles de F. Cumont20, ou de J. Déchelette21. Cette correspondance passive trouve un intérêt augmenté par des lettres de la correspondance active retrouvée dans des fonds accessibles22 et complétée par le document autobiographique des Souvenirs rédigés entre 1931 et 1936. Ainsi un choix de 195 lettres et les Souvenirs ont été retranscrits en appui de la synthèse de mon travail.

6 J’ai abordé cette correspondance pléthorique à travers trois thématiques clés de la carrière d’Espérandieu : l’épigraphie, l’édition du Recueil des bas-reliefs, et la pratique de l’archéologie qui ont permis de relier les problématiques de manière transversale. En premier lieu, analyser les correspondances permet de comprendre la position de son statut d’officier saint-cyrien et son évolution de l’érudit amateur à l’expert reconnu. Le parcours met en valeur son ascension sociale : Espérandieu est l’exemple type du système de la IIIe République de l’élévation par le mérite. Ainsi, la correspondance montre bien le fonctionnement d’un cursus honorum, depuis la reconnaissance institutionnelle des travaux scientifiques pour les érudits provinciaux, jusqu’à l’entrée à l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, dont Espérandieu est l’exemple théorique mais exceptionnel en pratique23.

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7 Par ailleurs, on comprend la stratégie mise en place par Espérandieu pour s’intégrer dans le monde érudit des sociétés savantes24, bien loin de l’armée, son cadre professionnel d’origine.

8 Les échanges nourris avec les réseaux, et avec les institutionnels de Paris, permettent de saisir leurs imbrications. C’est ainsi que le traitement de l’inventaire a mis en exergue le maillage du réseau : on retrouve la plupart des savants et des sociétés savantes de l’époque s’occupant d’archéologie gallo-romaine. Certains comme S. Reinach, C. Jullian, Héron de Villefosse se distinguent par leur volume d’échanges marquant de facto leur importance non seulement dans l’évolution de la carrière d’Espérandieu, mais aussi au sein de ces réseaux scientifiques. Parmi les correspondants étrangers, les Allemands sont, sans surprise, les plus nombreux puisqu’Espérandieu a participé au CIL, et édité en grande partie grâce à leur aide les bas- reliefs du limes.

9 Au-delà de ce portrait, cette correspondance nous donne à voir les interactions sociales des réseaux. Les sociétés savantes montrent, en même temps, une grande disponibilité dans les échanges scientifiques, et dans l’accueil des membres, mais aussi une volonté forte de garder leur autonomie, en particulier vis-à-vis de Paris : Espérandieu en fait l’expérience sur le chantier d’Alésia, avec le différend qui l’oppose à la Société de Semur. D’autre part, le rôle des sociétés de province dans la construction des savoirs transparaît indéniablement dans cette correspondance. D’un côté, on remarque l’indépendance d’un grand nombre de travaux antiquaires qui se font au sein des sociétés savantes de province. D’un autre côté, la supervision de ces travaux et leur soutien, guidage, critique par les institutions parisiennes, en particulier le CTHS, sont effectifs. En particulier, la correspondance montre que S. Reinach, C. Jullian suivent de très près l’avancée du Recueil des bas-reliefs. De même, apparaît le rôle de production mais aussi de passeur des sociétés savantes dans la recherche archéologique. Le maillage de ces sociétés sur tout le territoire et le système de diffusion par les bulletins des sociétés savantes sont fondamentaux. Dans cette optique, apparaît la question de la pratique éditoriale avec les problèmes de diffusion liés à la vitalité des réseaux, et de concurrence interne. Ce phénomène a pu être analysé à travers l’exemple de la Revue épigraphique.

10 Les archives permettent donc de dresser un portrait de ce militaire-archéologue – ainsi qu’Espérandieu se nomme lui-même –, mais, de manière concomitante, de nuancer fortement le rôle de l’armée dans l’histoire de l’archéologie. Si Espérandieu par son parcours original a pu faire une carrière savante, c’est tout à fait exceptionnel pour un officier sur le sol métropolitain, encore plus que dans les colonies25. Lorsqu’on replace dans son contexte la position de l’institution militaire, on constate qu’elle n’apprécie pas ces occupations non militaires. Toutefois, dans le cas d’Espérandieu, elle reste ambiguë : on la voit freiner la carrière d’Espérandieu mais se servir de ses compétences pour lui commander des travaux d’histoire militaire. Sans doute pourra-t-on affiner les relations de l’armée avec l’archéologie en étudiant la correspondance militaire encore inédite.

11 Enfin, ce qui apparaît remarquable dans le parcours d’Espérandieu, c’est sans doute sa position d’indépendant : membre de plusieurs sociétés savantes, il n’est jamais vraiment ancré dans un territoire, puisque, en tant que militaire, il ne reste pas longtemps en poste dans une même ville. C’est bien par et grâce à la correspondance qu’il maintient et agrandit ses réseaux. Son indépendance lui permet d’avoir les liens

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sans concurrence avec de nombreux archéologues, comme J. Déchelette26. Il faut noter la qualité de ses relations avec ses homologues allemands, surtout après la guerre. Alors que les académies européennes ont coupé les relations avec les académies allemandes27, il continue, bien qu’académicien lui-même, à travailler avec eux pour le Recueil des bas- reliefs, les lettres en témoignent.

12 Mais a contrario, si cette indépendance sert la carrière d’Espérandieu, d’une certaine manière, à cause d’elle, il reste à la marge. Il est symptomatique de constater que pour s’ancrer dans ce monde érudit, ce militaire se crée avec son maître en épigraphie Auguste Allmer une généalogie scientifique issue de l’héritage antiquaire28. Et sans doute du fait de son indépendance et de son statut militaire, il restera aussi toujours à la frontière entre l’antiquaire et l’archéologue, autre marge, celle-là scientifique et non plus institutionnelle29.

13 L’inventaire informatique de la correspondance d’Espérandieu, que je réalise actuellement à la demande de S. Clap, le conservateur du Palais du Roure, permettra d’apporter, à terme, de nouvelles données accessibles pour les recherches en cours sur l’histoire de l’archéologie gallo-romaine de la IIIe République.

NOTES

1. Émile Espérandieu (1857-1939), un archéologue entre institution militaire et monde académique, Université Paris I, sous la direction d’Alain Schnapp, soutenue en septembre 2014. 2. Pour les enjeux de la recherche, C. BONNET, V. KRINGS (ÉD.), S’ÉCRIRE ET ÉCRIRE SUR L’ANTIQUITÉ. L’APPORT DES CORRESPONDANCES À L’HISTOIRE DES TRAVAUX SCIENTIFIQUES, JÉRÔME MILLON, GRENOBLE, 2008. L’HISTOIRE DES

GRANDES INSTITUTIONS ARCHÉOLOGIQUES A ÉTÉ DÉVELOPPÉE DEPUIS DE NOMBREUSES ANNÉES, CF. E. GRAN-AYMERICH,

LA NAISSANCE DE L’ARCHÉOLOGIE MODERNE (1798-1945), CNRS ÉDITIONS, PARIS, 1998. EN REVANCHE L’ARCHÉOLOGIE

MÉTROPOLITAINE, À CAUSE DE SA SITUATION SPÉCIFIQUE, A FAIT L’OBJET D’ÉTUDES FORT DISPERSÉES, COMME

L’EXPLIQUE O. PARSIS-BARUBÉ, LA PROVINCE ANTIQUAIRE. L’INVENTION DE L’HISTOIRE LOCALE EN FRANCE (1800-1870), CTHS,

PARIS, 2011, P. 297.

3. M. KHANOUSSI, P. RUGGERI, C. VISMARA (DIR.), « L’AFRICA ROMANA. GEOGRAFI, VIAGGIATORI, MILITARI NEL

MAGHREB : ALLE ORIGINI DELL’ARCHEOLOGIA NEL NORD AFRICA », L’AFRICA ROMANA 13, ROMA, 2000. 4. Alexandre Papier (1826-1909), président de l’Académie d’Hippone. 5. Alfred-Louis Delattre (1850-1932), prêtre de la Société des Missionnaires d’Afrique (Pères blancs), archiprêtre de la Primatiale de Carthage, conservateur du Musée Lavigerie de Saint-Louis de Carthage. 6. Ces inscriptions seront regroupées dans Épigraphie des environs du Kef, Paris 1884-1885, en 7 fascicules. 7. Parmi ses publications, citons : Épigraphie romaine du Poitou et de la Saintonge, Melle, 1888 ; Inscriptions de la cité des Lemovices, Thorin, Paris, 1891 ; Inscriptions antiques de Lectoure, Paris, 1892 ; Inscriptions antiques de la Corse, Bastia, 1893. 8. Auguste Allmer (1815-1899), épigraphiste, conservateur du musée de Lyon, correspondant de l’Institut, son volume publié avec P. DISSARD, INSCRIPTIONS ANTIQUES DU MUSÉE DE LYON, LYON, 1888-1893, REÇOIT LE PRIX GOBERT.

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9. René Cagnat (1852-1937), professeur au Collège de France, sur la chaire d’épigraphie latine, fondateur de L’Année épigraphique, membre de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres.

10. F. BARATTE, LE VOYAGE EN TUNISIE DE CAGNAT ET SALADIN, ÉDITÉ ET PRÉSENTÉ PAR F. BARATTE, CTHS, PARIS, 2005. 11. Salomon Reinach (1858-1932), archéologue, philologue, conservateur du musée des Antiquités nationales à Saint-Germain-en-Laye, professeur d’histoire de l’art et d’archéologie nationale à l’École du Louvre, membre de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. 12. Antoine Héron de Villefosse (1845-1919), conservateur au département des Antiquités grecques et romaines du Louvre, enseigne l’épigraphie à l’École pratique des hautes études, membre de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. 13. Otto Hirschfeld (1843-1922), épigraphiste, professeur d’histoire ancienne, succède à Mommsen à la direction du CIL. 14. Oscar Bohn (1857-1927), épigraphiste et collaborateur du CIL XIII. 15. Paru d’abord dans la Revue archéologique en 1893. 16. Expédition de Sardaigne et Campagne de Corse, 1793-1794, Paris, 1895 ; Histoire abrégée des Campagnes du 61e Régiment d’Infanterie, d’après les archives du ministère de la Guerre, Marseille, 1897. 17. Camille Jullian (1859-1933), historien, philologue, professeur d’histoire et d’antiquités nationales à la faculté de Bordeaux, puis au Collège de France, membre de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres et de l’Académie française. 18. Le recueil est complété par R. LANTIER, RECUEIL DES BAS-RELIEFS, T. XII-XV, 1947-1966, ET POUR LES TABLES

DES NOTICES ET DES NOMS GÉOGRAPHIQUES, P.-M. DUVAL, T. XVI, 1981. IL EST REMIS À JOUR DEPUIS 2003, SOUS LA

DIRECTION D’H. LAVAGNE, SOUS LE TITRE DE NOUVEL ESPÉRANDIEU, RECUEIL GÉNÉRAL DES SCULPTURES SUR PIERRE DE LA GAULE. 19. La conservatrice S. Barnicaud (1949-2011) m’a donné libéralement accès à cette correspondance scientifique. Notons que les correspondances militaires et privées ne sont ni classées, ni inventoriées. 20. En ligne sur le site de l’Academia Belgica : http://www.academiabelgica.it/index.php? option=com_content&view=article&id=113&Itemid=90&lang=fr 21. En ligne sur le site de la bibliothèque de Roanne : http://roanne.cd-script.fr/fr/liste- fond.php?id=7 22. Fonds Reinach au musée des Antiquités nationales de Saint-Germain-en-Laye et à la bibliothèque Méjanes à Aix-en-Provence, fonds Delattre aux Archives générales des missionnaires d’Afrique à Rome, Archives Gallia, Maison de l’Archéologie René-Ginouvès à Nanterre.

23. M. ALTIT-MORVILLEZ, S. PÉRÉ-NOGUES, « LE LONG CHEMIN VERS L’INSTITUT », IN REGARDS SUR L’ARCHÉOLOGIE,

ACTES DES JOURNÉES D’ÉTUDES, 4-5 NOV. 2011, RECUEIL DE MÉMOIRES ET DOCUMENTS SUR LE FOREZ, LA DIANA, FRAL,

T. 48, 2013, P. 39-48.

24. J.-P. CHALINE, SOCIABILITÉ ET ÉRUDITION. LES SOCIÉTÉS SAVANTES EN FRANCE, XIXE-XXE SIÈCLES, CTHS, PARIS, 1998. 25. M. DONDIN-PAYRE, « L’EXERCITUS AFRICAE INSPIRATRICE DE L’ARMÉE FRANÇAISE D’AFRIQUE : ENSE ET ARATRO », ANTIQUITÉS AFRICAINES, 27, 1991, P. 141-149. 26. Joseph Déchelette (1862-1914), industriel, archéologue protohistorien, auteur du Manuel d’archéologie préhistorique, celtique et gallo-romaine, fouilleur de Bibracte, conservateur du musée de Roanne, correspondant de l’Institut. M. ALTIT-MORVILLEZ, « LA CORRESPONDANCE ESPÉRANDIEU- DÉCHELETTE RECONSTITUÉE », ANABASES, 9, 2009, P. 221-238.

27. R. REINBOTHE, « L’EXCLUSION DES SCIENTIFIQUES ALLEMANDS ET DE LA LANGUE ALLEMANDE DES CONGRÈS

SCIENTIFIQUES INTERNATIONAUX APRÈS LA PREMIÈRE GUERRE MONDIALE », LA FABRIQUE INTERNATIONALE DE LA

SCIENCE, REVUE GERMANIQUE INTERNATIONALE 12, 2010, P. 193-208 ; C. BONNET, LE « GRAND ATELIER DE LA SCIENCE ». FRANZ CUMONT ET L’ALTERTUMSWISSENSCHAFT. HÉRITAGES ET ÉMANCIPATIONS, INSTITUT HISTORIQUE BELGE DE ROME, ÉTUDES DE PHILOLOGIE, D’ARCHÉOLOGIE ET D’HISTOIRE ANCIENNES, 41, BRUXELLES-ROME, 2005, P. 355-375.

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28. F. WAQUET, LES ENFANTS DE SOCRATE. FILIATION INTELLECTUELLE ET TRANSMISSION DU SAVOIR. XVIIE-XXIE SIÈCLE, PARIS, 2008.

29. A. SCHNAPP,« ANTIQUAIRES ET ARCHÉOLOGUES : RESSEMBLANCES ET DISSEMBLANCES », IN V. KRINGS, C. VALENTI

(DIR.), LES ANTIQUAIRES DU MIDI, SAVOIRS ET MÉMOIRES XVIE-XIXE SIÈCLE, PARIS, ERRANCE, 2011, P. 183-190.

AUTEUR

MARIANNE ALTIT-MORVILLEZ

Chercheur associé UMR 5608 TRACES Université Toulouse-Jean Jaurès [email protected]

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L'atelier de l'histoire : chantiers historiographiques

Atelier des doctorants

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La réception des poétesses grecques, ou les affabulations de « l’imagination combleuse »

Anne Debrosse

« L’imagination combleuse de vides est essentiellement [menteuse » Simone Weil, La Pesanteur et la Grâce

1 Les œuvres de Sappho et d’Érinna ont été sensiblement augmentées au XIXe siècle avec la découverte des papyrus d’Oxyrhynchus. Entre l’extrême fin de l’Antiquité et la Première Modernité, des fragments plus ou moins complets existaient certes, mais rares et très parcellaires la plupart du temps. Pourtant, ces deux autrices – dont les acteurs de la transmission n’avaient pas conservé les textes – ainsi que tout un ensemble de poétesses grecques antiques30, ont fait l’objet d’une recherche étonnamment active lors de la Première Modernité, si acharnée même qu’on a alors développé des trésors d’imagination pour (re)constituer des faits, voire des textes, presque inexistants. Le présent article n’enquêtera cependant pas sur les canaux de la transmission, mais s’attachera à présenter la singularité des enjeux de la réception qui s’attache à ce groupe d’auteurs31 : pourquoi un tel regain des poétesses alors qu’elles n’avaient laissé quasiment aucune trace ? Certes, il n’est pas original de dire que la conservation est toujours le résultat d’un choix, puisque la mémoire humaine ne conserve pas tout son passé. L’effort de mémoire varie en fonction du désir de transmettre et de celui de retrouver. Ce désir provient lui-même d’un besoin : on efface ce qui est inutile, et le souvenir et l’oubli révèlent les préoccupations et les valeurs de la société qui se souvient. Bien souvent, la décision de transmettre se plie au désir de faire du passé un instrument au service de besoins nouveaux, ce qui engendre des partis pris très visibles : les travaux récents sur la constitution des canons l’ont bien montré. Les poétesses n’échappent pas à cette règle. Cependant, elles se démarquent très nettement des autres corpus anciens, pour plusieurs raisons et de plusieurs façons.

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Première raison d’une spécificité du corpus : rareté et disparition

2 La première de ces raisons est propre à l’époque moderne. Elle est de l’ordre de celles qui font que Politien enseigne Stace plutôt que Virgile : il s’agit de la rareté et de la nouveauté des poétesses. Elles ne sont absolument pas connues à la Renaissance. Une seule poétesse antique est véritablement célèbre et lue avant le XVIe siècle, comme le soulignent Hélène Cazes et William Kemp dans leur article32 sur les Carmina novem illustrium feminarum d’Orsini33, qui est le premier recueil connu de l’histoire à réunir les fragments de femmes (neuf poétesses grecques) en fonction de leur sexe. Il s’agit d’une latine, Proba Falconia, qui a produit un long centon virgilien mettant en scène l’Ancien et le Nouveau Testament34. Son texte est d’accès facile grâce à ses multiples rééditions mais aussi grâce à la langue du poème. Quant à Sappho, elle a certes été constamment invoquée au Moyen Âge, mais Carmen sapphicum est devenu une expression pour désigner un agencement poétique, parfois utilisé pour des pièces religieuses, hérité à travers Horace. L’ambivalence du terme – sapphicum pour désigner l’agencement poétique ou ce qui émane de la poétesse elle-même – perdure tout au long du XVIe siècle et même au-delà. Les poèmes de Sappho, quant à eux, n’étaient pas du tout connus, et c’est l’édition princeps par Henri Estienne en 1552 qui leur a rendu une existence réelle. De même que l’étoile de Stace obscurcit celle de Virgile dans les cours de Politien, Sappho éclipse Proba, comme le soulignent H. Cazes et W. Kemp. Les rééditions des Centons se ralentissent au cours du XVIe et surtout du XVIIe siècle, tandis que Sappho devient un objet de désir pour les philologues et les érudits de la Renaissance qui essaient de retrouver ses poèmes.

3 La poétesse Sappho devient à la mode parce qu’elle est une figure paradoxale. Elle est célèbre – elle avait influencé Horace, Ovide et d’autres grands noms de la poésie, elle avait été ajoutée au nombre des Muses – mais aucun texte d’elle n’était disponible, si bien qu’elle était finalement inconnue au début de l’époque moderne. Ainsi, à l’aube du XVIe siècle, la motivation pour retrouver Sappho est double : elle est aiguillonnée par le désir non seulement de réparer une lacune du savoir, mais aussi de découvrir une poésie qui avait fait les délices des Anciens et qui promettait d’être un joyau à ajouter aux trésors de l’humanité. En réalité, peu de fragments subsistent et les limites de son corpus ont vite été atteintes. Bien plus, le « Royaume de Féminye » dont elle ouvrait les portes se révèle fort exigu : les autres Grecques qui avaient écrit et qui lui avaient été associées n’avaient pas laissé beaucoup de vestiges.

4 Pourtant, cela n’a pas découragé les philologues. Bien au contraire, la rareté même et l’état lacunaire des fragments est une gageure et un aiguillon : la prouesse technique est valorisée en soi, comme chez Orsini, en compétition avec Henri Estienne. L’édition du fragment en elle-même est un moyen de se faire connaître et reconnaître. Enfin, le grec devient lui-même plus séduisant que le latin, dans certains cercles érudits, parce qu’on le redécouvre et qu’il donne accès à des textes non traduits. Il est même de bon ton de ne pas proposer de traduction latine lorsque l’on cite un texte grec, comme dans les Carmina d’Orsini. Sappho combine ainsi rareté, excellence et exotisme : voilà ce qui a provoqué l’intérêt pour elle, que ce soit en France et en Italie, aux XVIe et XVIIe siècles. À travers Sappho, le mouvement de redécouverte des autres poétesses grecques était initié.

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5 Ces dernières combinent également certains des traits visibles chez Sappho : elles écrivent en grec, elles restent à découvrir, leurs textes lacunaires permettent au philologue de prouver sa virtuosité et elles sont louées par les Anciens. Elles flattent ce vent de nouveauté qui souffle chez les érudits au début de la période moderne. Néanmoins, parmi toutes ces caractéristiques, leur attrait réside surtout dans leur extrême rareté, là où Sappho était déjà renommée. Par conséquent, elles intéressent surtout les érudits les plus fins et les plus novateurs, plus encore que Sappho dont la silhouette était malgré tout familière aux auteurs et aux lecteurs de l’époque moderne. Elles deviennent donc un marqueur de la nouveauté du travail du philologue qui en parle, plus encore que Sappho. Les encyclopédistes qui campent sur les connaissances traditionnelles et pensent encore selon les critères de la scolastique, comme Gregorius Reisch35, ne parlent absolument pas des poétesses. Parallèlement, Niccolò Perotti36, qui se plie déjà à quelques nouveautés, évoque Sappho. C’est chez Politien que les poétesses se trouvent en nombre. Certaines même, comme Érinna et Corinne, font l’objet de longs développements en cours, comme le révèlent les notes du professeur37. Il en va ainsi pendant longtemps, puisque c’est un Henri Estienne qui propose des textes de Sappho et d’Érinna, puisque c’est un Fulvio Orsini qui produit l’editio princeps des poétesses grecques en 1568, puisque c’est un Claude Saumaise qui, dans une lettre à Vossius en 164338, s’enthousiasme devant les vers de Corinne qui blâment Myrtis d’avoir marché contre Pindare39. Certes, cette analyse convient également à tout corpus rare et bizarre. Les érudits aiment trouver des perles oubliées, qu’elles proviennent de poétesses ou de poètes. Néanmoins, nos érudits sont, la plupart du temps, sensibles au sexe des poétesses. Henri Estienne ajoute un poème d’Érinna à son édition des fragments de Sappho, tout en soulignant les liens supposés entre les deux poétesses. Saumaise fait part de son étonnement à Vossius lorsqu’il lui annonce les paroles misogynes de Corinne. Orisini réunit les poétesses grecques au début de son recueil, choix qui dépend d’un contexte très marqué par la Querelle des femmes40 : un intérêt nouveau naît pour les femmes écrivains antiques en particulier.

6 En effet, une partie de l’intérêt que présentent les poétesses réside justement dans leur disparition et dans l’interprétation qui en est faite. Leur rareté et la radicalité de leur effacement, ceci joint à l’afflux de manuscrits nouveaux éveillant l’espoir d’en redécouvrir certaines, a conduit les écrivains des XVIe et XVIIe siècles à se pencher sur leur cas. Mais là où les uns cherchent à combler les lacunes de la mémoire en acquérant des manuscrits et en établissant et en traduisant le grec, les autres réfléchissent, à l’inverse, à la disparition elle-même, aux raisons de l’absence de textes. Les causes pouvaient en être multiples, mais, aux yeux de nombre de Modernes (Français et Italiens, aux XVIe et XVIIe siècles), les poétesses ont majoritairement pâti de l’invidia des hommes qui s’attaquaient aux œuvres des femmes depuis toujours. La quasi-disparition des poétesses et de leurs textes a ainsi pris une valeur universelle, qui ne pouvait plus se contenter des traditionnelles explications données sur la corruption des sources antiques et la faiblesse de la mémoire humaine. Les négligences et les catastrophes ne suffisaient pas à rendre compte du sort exceptionnel des autrices antiques, qui ont été regroupées au sein d’une réflexion sur les ressorts de la transmission à la Renaissance.

7 Parmi les écrivains des XVIe et XVIIe siècles qui ont parlé des poétesses, les plus savants et les plus attentifs (Politien, l’Arioste) ont ainsi eu recours à cette « archéologie du silence » pratiquée par Michel Foucault dans l’Histoire de la Folie : les poétesses, personnages marginalisés et dont peu de textes restent, sont l’objet silencieux et

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presque absent qu’ils interrogent. Politien essaie de retrouver la trace perdue, à défaut de la parole, tandis que l’Arioste esquisse une « histoire des limites », accuse la culture ancienne qui a rejeté « quelque chose qui [était] pour elle l’Extérieur ». Les poétesses grecques, pour eux comme pour nous, sont ainsi un élément propre à ouvrir l’histoire et la parole justement par leur silence et leur absence : la Renaissance pense briser le tabou portant sur la violence originaire exercée à l’encontre des femmes, qui s’incarne dans le silence qui leur est imposé et dans le discours normatif qui les a cernées dès l’Antiquité.

Deuxième raison d’une spécificité du corpus : l’aspiration des femmes à l’écriture

8 Nos analyses sur la présence ou l’absence des poétesses ont abouti à la conclusion que les poétesses investissent le devant de la scène et font l’objet de regroupements chaque fois que les femmes écrivains gagnent en importance et à chaque moment de l’histoire où il y a une forte revendication des femmes à l’écriture. À l’époque hellénistique, le rôle politique et artistique des femmes devient plus important. Les mécènes sont parfois des reines, comme Arsinoé. À l’époque moderne, les régentes en France tout comme les princesses italiennes jouent un rôle dans la vie politique des XVIe et XVIIe siècles. Les femmes accèdent en nombre à l’écriture. En Italie, avant les années 1580 qui correspondent à un « backlash41 » dans le domaine de l’écriture féminine, les femmes écrivains fleurissent et leur rôle est de plus en plus reconnu, malgré des phénomènes de résistance. En France, à partir des années 1640, comme l’a montré Linda Timmermans42, les autrices réussissent à obtenir une légitimité inégalée auparavant, grâce au rôle des salonnières notamment. On ne compte plus les références aux poétesses grecques à ce moment de l’histoire de France. Le lien entre l’évocation des poétesses grecques en nombre et celui de l’accès des femmes à des postes de pouvoir et à l’écriture apparaît clairement : les poétesses sont ainsi à la base des tentatives d’écriture féminine, qu’elles légitiment.

9 Sappho est invariablement évoquée en premier, lorsque les autres poétesses, à nouveau à la mode, la côtoient occasionnellement. Si l’on veut comprendre pourquoi, souvent, on ne s’est pas contenté de la citer seule, on doit essayer de déterminer son statut particulier. Il faut rappeler au préalable que la femme écrivain a plus de poids si elle se place dans la lignée d’un prédécesseur fameux de son sexe, afin de couper court aux reproches que l’on adresse habituellement à une femme qui prend publiquement la parole, dans l’Antiquité comme à l’époque moderne. Bien plus, au XVIe siècle et, dans une moindre mesure, au XVIIe siècle, elle ne peut de toute façon pas se présenter sans caution auctoriale. Une garante antique est très appréciée parce qu’elle est elle-même avalisée par des témoignages antiques flatteurs et par le souvenir qui en a été conservé malgré les siècles écoulés. Sappho, contrairement à d’autres figures féminines qui pourraient également servir de caution, est une garante particulièrement prisée pour plusieurs raisons, dès l’Antiquité.

10 Elle apparaît comme la première femme écrivain de l’histoire de l’humanité. Celles qui l’ont suivie dans la pratique de la poésie forment ainsi le premier groupe de femmes qui ait écrit et dont il reste quelque chose, contrairement à celles qui ont été philosophes, grammairiennes ou historiennes, qui sont d’ailleurs plus tardives dans l’histoire grecque. En outre, d’autres femmes écrivains antiques comme Proba Falconia ont laissé

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davantage de textes. Cependant, Sappho remonte à une plus haute Antiquité ; surtout, elle est louée par Platon et Aristote, références incontestées jusqu’à aujourd’hui.

11 De plus, Sappho donne accès à une littérature (la poésie lyrique amoureuse) et à une posture littéraire que Proba, qui produit une poésie chrétienne, ne permet pas. Une Louise Labé et une Gaspara Stampa, qui se sont consacrées à la poésie érotique, devaient trouver un modèle qui leur corresponde sur ce point également. Au XVIe siècle, la vogue pétrarquiste incite aux soupirs et à la douleur d’amour. S’ils sont normaux pour un homme, il est indécent pour une femme de faire étalage de ses sentiments amoureux, réels ou fictifs, surtout en public. Sappho permet de passer outre. Au XVIIe siècle, il en va de même, malgré une exigence de discrétion imposée encore plus fortement à l’autrice : les romans d’aventures et d’amour de Madeleine de Scudéry reçoivent la caution de Sappho la passionnée. Sappho légitime donc le discours amoureux des autrices qui osent même employer le « je ». Bien plus, Sappho réclame haut et fort la gloire, l’immortalité à travers ses vers : qu’on se souvienne d’elle et qu’on désire s’en rappeler, telle est sa volonté. Or, là encore c’était un objectif orgueilleux pour une femme des débuts de notre époque moderne, et même au-delà. La voix impérieuse de Sappho libérait ainsi celles des autrices qui se permettaient d’autant plus de revendiquer leur envie de gloire au grand jour qu’un modèle illustre l’avait fait avant elles.

12 Enfin, s’il est difficile d’interpréter les échos entre poétesses pendant la période antique, l’importance de Sappho est très claire dans le contexte de la Querelle des femmes, selon la perception qu’en a Éliane Viennot43, qui consiste à faire résider son enjeu dans l’accession à la connaissance. Or, le savoir et la capacité littéraire des femmes sont illustrés, depuis le début, par Sappho. D’une part, la Lesbienne paraît à tous un modèle d’intelligence littéraire : les plus grands auteurs grecs, latins et modernes lui rendent hommage et reconnaissent son immense talent. D’autre part et surtout, Sappho est placée aux origines d’une lignée mixte : Ovide, Jodelle, Ronsard, Racine et bien d’autres hommes de lettres s’en réclament. Ce phénomène ne connaît pas d’équivalent dans les domaines politique, juridique, historique etc. Certes, Aspasie était une fine oratrice et politique : mais si elle influence Périclès, elle n’est pas à l’origine d’une branche de la politique. Sappho est donc la preuve suprême de la capacité intellectuelle des femmes. Par conséquent, Proba n’est pas interchangeable avec Sappho, bien qu’elles soient toutes deux des poétesses antiques.

13 Cependant, si Sappho est, pour toutes ces raisons et pour la plupart des autrices, un modèle incontournable, elle reste une exception si on l’évoque seule, que ce soit aux yeux des Anciens ou des Modernes, en Italie et en France. Sappho ne suffit pas comme antécédent. En effet, elle est très tôt considérée comme une exception, un θαυμαστόν τι χρῆμα44. La multiplication des exempla, au sein de listes notamment mais aussi dès l’Antiquité au sein de canons de poétesses, annule le risque que représente l’évocation unique de la Lesbienne. Ainsi, aux XVIe et XVIIe siècles, les poétesses antiques montrent, grâce à leur existence passée et à leur nombre non négligeable, qu’il est possible pour les femmes d’écrire et de traverser les siècles. Par extension (dès Clément d’Alexandrie, mais surtout à l’époque moderne), les femmes écrivains ou les intellectuelles en général ont fini par remplir un rôle qui, au départ et tout au long des époques qui ont fait l’objet de notre travail, était dévolu essentiellement aux seules poétesses, à cause d’un lien ancien et fort entre femmes et poésie45. Dès lors, la légitimation de l’écriture féminine passe souvent, même si cela n’est pas systématique, par l’accumulation, faible

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ou importante, des modèles poétiques grecs : Gaspara Stampa évoque Corinne et Sappho46, Madeleine de Scudéry Érinna, Corinne et Sappho47. Nous avons essayé de montrer dans notre travail à quel point l’évocation de plusieurs poétesses enrichissait les lectures traditionnelles de ces auteurs. Il est remarquable, à cet égard, que les femmes écrivains associent souvent plusieurs noms de poétesses grecques : elles se placent ainsi dans une lignée et au sein d’un groupe, et rarement en parallèle avec la seule Sappho. On assiste donc à la constitution d’un réseau littéraire crédible de femmes à travers les figures des poétesses grecques.

Troisième raison d’une spécificité du corpus : la question du sexe, ou séparés parce qu'inégaux

14 La troisième raison pour laquelle les poétesses se démarquent très nettement et qui pousse à regrouper les poétesses réside dans la volonté de ne pas comparer les femmes avec les hommes de lettres, ou le moins possible. La poétesse doit rester à sa place, que ce soit dans l’Antiquité ou à l’époque moderne. En effet, Corinne évoque le reproche fait à Myrtis de ce que, βανὰ φοῦσα 48, elle a marché contre Pindare. Quelques témoignages antiques font part d’une écriture féminine, adressée aux femmes. Les chœurs de jeunes filles n’entonnent pas n’importe quel répertoire. À l’époque moderne, il y a également une répartition sexuée des rôles littéraires. Souvent, l’écriture est secondaire pour les femmes – qui cessent la pratique des lettres quand elles se marient – et elles pratiquent une écriture secondaire – en cultivant les petits genres. Dès lors que les femmes entretiennent et, surtout, doivent entretenir un lien spécifique à l’écriture, leur regroupement s’impose de lui-même à tous, hommes et femmes. En effet, il ne s’agit plus ici de prêter attention aux échos volontaires entre femmes et à la création d’un univers littéraire féminocentré, mais de constater l’existence d’un ordre social et culturel qui donne une place secondaire à la création artistique féminine. Dans cette perspective, comparer les autrices entre elles revient à les cantonner dans un rôle très restreint : on évite de les confronter aux auteurs masculins. Pour certains, cela serait un contresens car chacun des deux sexes fait partie d’une sphère aux cloisons étanches, si bien que les femmes ne peuvent être sur le même plan que les hommes, ou très rarement. Ainsi, des distinctions sociales fortes s’imposent entre auteurs et autrices. Les poétesses grecques forment une unité spécifique constituée en fonction du sexe. En effet, Antipater de Thessalonique réunit des poétesses qui écrivent dans des genres poétiques différents (Anytè des épigrammes bucoliques, Corinne des hymnes…), ce qui distingue nettement le canon des poétesses de celui des neuf poètes lyriques. À l’époque moderne, il en va de même, en France et en Italie. Comme dans l’Antiquité, les honneurs les plus importants (concours panhelléniques et Académie française par exemple) sont interdits aux femmes en raison de leur sexe. Ainsi, l’appartenance à un sexe est discriminante plutôt que le goût pour un genre donné, ce qui n’est pas le cas chez les poètes masculins, répartis selon la chronologie ou selon leur préférence poétique, ni chez Sappho, en raison du caractère exceptionnel qu’on lui attribue dès les origines.

15 Bien plus, les critères d’excellence ne sont pas du même ordre pour les auteurs et les autrices, et cette différence est délibérée, plus encore à l’époque moderne que dans l’Antiquité peut-être. Par exemple, la question de la chasteté et de la discrétion, et dans sa vie et dans ses œuvres, est primordiale pour la femme, non pour l’homme de lettres.

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Ce n’est pas sans conséquence pour les poétesses grecques et c’est une autre caractéristique de ce corpus si particulier. Sappho est ainsi soigneusement omise quand la question de la respectabilité prime, soit parce que l’autrice avec qui on la compare est vigoureusement placée au-dessus d’elle en matière de mœurs, soit qu’elle soit purement et simplement évincée. Les ouvrages édifiants la passent sous silence lorsqu’ils évoquent les femmes exemplaires. Bien plus, les poétesses grecques sont progressivement contaminées par la Lesbienne, si bien qu’elles aussi finissent par être écartées de ce type de littérature. Il en va ainsi chez Tatien, qui fait figure d’exception dans l’Antiquité dans l’état de nos connaissances : il en vient à mettre sur le même plan des autrices de grande qualité et des prostituées, des femmes incestueuses et criminelles. Plutôt que de choisir de conspuer ces modèles mais dans un esprit similaire, les religieux des années 1640 et suivantes en France ont choisi de proposer des galeries de femmes célèbres totalement dénuées de paradigmes grecs, ce qui est très étonnant étant donné la place originelle et prestigieuse des Grecques. Comparativement, Madeleine de Scudéry, dans le même type d’ouvrage (dans les Harangues héroïques, qui est une galerie de femmes célèbres), met en exergue Sappho et Érinna pour souligner l’importance de la littérature dans le choix de ses modèles. Les poétesses incarnent ainsi une soif de gloire littéraire avant d’être respectables pour leurs mœurs, ce qui rend leur utilisation comme modèles problématique, malgré la réputation de virginité d’Érinna ou de Cléobulina par exemple. Pourtant, la plupart du temps elles sont évoquées, justement parce qu’elles sont incontournables.

16 Ainsi, globalement, l’attitude des lecteurs et des autorités du monde culturel ne diffère pas fondamentalement entre l’Antiquité et l’époque moderne, même si nous constatons des assouplissements des interdictions et des présupposés qui pèsent sur l’écriture féminine à différents moments de notre axe chronologique.

17 La misogynie de Tatien est flagrante et devient même ridicule. Néanmoins, même si le regroupement peut être, à première vue, laudateur, le sous-entendu de cette perspective sexuée imposée par la postérité est tout autre : jugées à égalité avec les hommes, sans doute les poétesses ne seraient-elles pas passées à la postérité parce qu’elles sont moins intéressantes que les bons auteurs. Dès lors, il convient de donner une place à part aux autrices. Le phénomène d’effet pervers des regroupements est de plus en plus aigu dans la diachronie.

18 Ceci est très net avec l’emploi de la figure de Sappho comme caution auctoriale à l’époque moderne. Ainsi, lorsque Sappho apparaît comme l’ancêtre en écriture d’une autrice, aux yeux de ceux qui la flattent dans des poèmes d’hommage ou des notices de dictionnaires, elle est implicitement perçue comme une exception à son tour, à l’instar de son modèle antique. Bien plus, en comparant l’autrice moderne à Sappho, on évite de la comparer à un auteur masculin, antique ou moderne : lorsque les autrices des XVIe et XVIIe siècles se voient proposer un modèle poétique plus ancien, il s’agit à coup sûr d’une autre femme, si exceptionnelle soit-elle. Sappho, Anytè et Érinna étaient encore comparées à Homère dans l’Antiquité. À l’époque moderne, Gaspara Stampa et Louise Labé rappellent Sappho à leurs contemporains, alors qu’il serait plus pertinent de les mettre en parallèle avec Pétrarque. L’autrice moderne étalonnée à la Lesbienne apparaît ainsi comme un objet non identifié, admirable mais incongru et destiné à le rester. Voilà une attitude bien différente de celle que nous avons mentionnée ci-dessus, qui consiste pour les autrices à se placer sous le patronage de plusieurs poétesses antiques afin de créer une lignée cohérente mettant fin à l’impression d’exception.

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L’utilisation de Sappho seule comme modèle poétique par les commentateurs des autrices modernes est en fait, très souvent, révélateur d’une attitude dépréciative ou méfiante à l’égard des femmes écrivains et d’un tropisme fort vers une perspective fatalement féminocentrée, afin de comparer ce qui est comparable et de préserver les prérogatives du sexe masculin.

19 En outre, lorsque les parallèles et regroupements ne se limitent pas à Sappho, les conclusions sont à peu près les mêmes : englober les femmes illustres, sans critère discriminant autre que leur sexe, revient à les réduire à leur genre (gender). Antipater néglige déjà les particularités littéraires des femmes qu’il énumère, mais au moins il en reste à une liste de poétesses, à défaut de dresser un catalogue d’autrices lyriques ou épigrammatistes. Clément d’Alexandrie, même s’il préserve les distinctions entre peintres, auteurs et autres, va encore un pas plus loin dans la séparation entre les sexes : les femmes exceptionnelles sont à regrouper entre elles, quel que soit leur domaine de prédilection. Les listes de femmes célèbres des traités philogynes mais aussi des encyclopédies et de divers ouvrages comme celui de Tiraqueau49 vont encore plus loin, puisque le critère de sélection repose sur le savoir des femmes énumérées ou, encore plus largement, sur leurs qualités, physiques, intellectuelles ou morales. Ainsi, les modes de classement des listes sont variés : celui qui consiste à regrouper les célébrités féminines en fonction de leurs champs d’action, comme chez Clément, ne sont pas les plus fréquents finalement, ou, plus précisément, ne sont pas faits en finesse. Les poétesses sont englobées parmi les philosophes, les grammairiennes, mais aussi parmi les figures fantasmatiques et légendaires qui décrédibilisent en réalité le catalogue. Les femmes célèbres deviennent ainsi des figures exceptionnelles de l’ordre de la merveille, comme chez Chasseneuz50. Que des femmes aient réussi quelque chose est exceptionnel en soi : on ne détaille donc pas outre mesure les modalités de l’exploit. Sans toujours aller jusque-là, il n’en reste pas moins que le genre outrepasse les autres critères dans ces catalogues, ce qui amoindrit la force des revendications littéraires possibles grâce à des modèles appréciés pour la spécificité de leur parcours. Se revendiquer de Sappho comme poétesse lyrique virtuose dans la peinture des désordres amoureux ou comme femme célèbre d’exception ne revient pas au même.

20 Notre lecteur pourrait croire que nous cédons à une facilité de mauvais aloi en distinguant des attitudes masculines et féminines, puisque nous opposons les religieux à Madeleine de Scudéry, et les listes d’un Tiraqueau aux patronages féminins pluriels revendiqués par des poétesses modernes. Mais il serait naïf d’opposer deux blocs, les femmes et les hommes, et tel n’est pas notre propos, même si de grandes lignes de partage distinguent souvent les deux sexes : il existait bien entendu des misogynes de sexe féminin et des philogynes de sexe masculin, comme le soulignent d’ailleurs Marie de Gournay51 ou Poullain de la Barre52. La perspective féminocentrée peut partir d’une véritable volonté laudative, sans arrière-pensée amoindrissante. Il s’agit de proposer des modèles aux femmes, pour qu’elles hésitent moins à céder à une vocation d’autrice et non pas pour les cantonner entre elles. Ce schéma incitatif est toujours d’actualité : pour encourager les jeunes filles à suivre des études de « sciences pures » ou à devenir chef d’entreprise, aujourd’hui, on essaie de leur trouver des modèles auxquels s’assimiler53, de Marie Curie à Simone Veil. Le critère de sélection des paradigmes tient encore assez souvent au sexe de l’héroïne dès lors qu’il est question de valoriser et de promouvoir les femmes. Mais dans le cas des poétesses, la question est encore plus cruciale pour les XVIe et XVIIe siècles, comme nous avons voulu le montrer.

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NOTES

30. Les neuf grandes poétesses qu’Antipater de Thessalonique nomme dans AG IX 26 surtout, mais d’autres aussi, dont les noms apparaissent dans les sources antiques. 31. Cet article résume donc la deuxième partie d’une thèse intitulée « La souvenance et le désir » : la réception des poétesses grecques dans l’Antiquité aux XVIe et XVIIe siècles (France et Italie), conduite en Littérature comparée sous la direction du Professeur François Lecercle, Université Paris- Sorbonne, Centre de recherche en littérature comparée (CRLC), et soutenue le 29 juin 2012. À paraître chez Classiques Garnier, coll. « Perspectives comparatistes ». Il s’agit ici d’une adaptation de la conclusion de la thèse, partie qui ne sera pas éditée. 32. « La Renaissance des Muses : une curieuse féminité. Carmina Novem illustrium feminarum, Plantin, 1568 », Revue de la BNF n. 17 (2004), p. 34-36. 33. Carmina novem illustrium feminarum Sapphus Erinnae Myrus Myrtidis Corinnae Telesillae Praxillae Nossidis Anytae et lyricorum Alcmanis Stesichori Alcaei Ibyci Anacreontis Simonidis Bacchylidis. Elegiae Tyrtaei et Mimnermi. Bucolica Bionis et Moschi. Latino versu a Laurentio Gambara expressa. Cleanthis Moschionis aliorumque fragmenta nunc primum edita. Ex bibliotheca Fuluii Ursini Romani, Antverpiae, ex officina Chr. Plantini, 1568, 8°. 34. Par exemple, cette édition parmi d’autres : Probae Falconiae Centonis clarissimae foeminae excerptum e Maronis carminibus ad testimonium ueteris nouique instrumenti opusculum a diuo Hieronymo comprobatum, Venetiis, in officina Ioannis Tachuini de Tridino, 1513. 35. Margarita philosophica, Rursus exaratum peruigili noua itemque secundaria hac opera Joannis Schotti Argentinensis chalcographi Ciuis, Argentinae, per Joannem Grüninger, 1504 [version pirate. La version « légitime » a été publiée en 1503 par Johann Schott à Fribourg]. 36. Nicolai Perotti Cornu copiae seu linguae latinae commentarii, éd. J.-L. CHARLET et M. FURNO, Sassoferato, Istituto internazionale di studi Piceni, 1989-2001. 37. Les Miscellaneorum centuria secunda, edizione critica, per cura di V. BRANCA e M PASTORE STOCCHI, editio minor, Leo Olschki, Firenze, 1978. 38. Lib. I, Epistol. 14, ad Vossium. 39. Frag. 664 (éd. Loeb). 40. Cette expression désigne une polémique qui est née avec Christine de Pizan et qui porte sur la question de l’égalité entre les sexes, remettant en question l’idée d’une infériorité intrinsèque des femmes. Les controverses se sont incarnées dans la production importante d’ouvrages sur le sujet, qui se présentent sous forme de récits allégoriques, de récits, de traités, de poèmes… Voir, pour plus d’informations, le site d’É. Viennot (http://www.elianeviennot.fr/), et plus particulièrement ce document, qui est l’introduction de Revisiter la Querelle des femmes. Discours sur l’égalité/inégalité des femmes et des hommes, de 1750 aux lendemains de la Révolution, Saint-Étienne, Publications de l’université de Saint-Étienne, 2012, http://www.elianeviennot.fr/Articles/ Viennot-Querelle1-intro.pdf

41. Pour reprendre le titre d’un chapitre de l’ouvrage de V. COX, WOMEN’S WRITING IN ITALY, 1400-1650, JHU PRESS, 2008. 42. Dans L’accès des femmes à la culture (1598-1715), Paris, Champion, 1993. 43. Voir son site : http://www.elianeviennot.fr/Querelle/Querelle1-articleEV.html. 44. Strabon, Géographie, XIII 2, 3 : Σαπφώ, θαυμαστόν τι χρῆμα· οὐ γὰρ ἴσμεν ἐν τῷ τοσούτῳ χρόνῳ τῷ μνημονευομένῳ φανεῖσάν τινα γυναῖκα ἐνάμιλλον οὐδὲ κατὰ μικρὸν ἐκείνῃ ποιήσεως χάριν, « Sappho est une merveille ; on chercherait en vain, dans toute la suite de l’histoire, une femme qui puisse, même de loin, lui être comparée pour la poésie », trad. André Charbonnet (http://chaerephon.e-monsite.com/medias/files/poetriai.htm).

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45. Voir notre article, « Cingler vers Mitylène. Comment Lesbos devint la patrie des poétesses grecques », Semitica & Classica, Revue Internationale d’Études Orientales et Méditerranéennes 6 (2013), p. 61-71. 46. Dans Rime, « Rime varie », p. 245, poème CCXLIX. 47. Dans plusieurs de ses œuvres : Artamène ou le Grand Cyrus, Clélie et les Harangues héroïques. 48. μέμφομη δὲ κὴ λιγουρὰν Μουρτίδ’ ἱώνγ’ ὅτι βανὰ φοῦσ’ ἔβα Πινδάροι πὸτ ἔριν, « Je fais reproche encore à la Mélodieuse, à Myrtis, oui, moi, en ce que, femme étant, contre Pindare elle a marché, rivale », trad. Y. Battistini, frag. 664 (Loeb). 49. Andreae Tiraquelli ex commentariis in Pictonum consuetudines sectio de Legibus connubialibus et jure maritali, venundatur Parisiis a Gallioti, 1524 et 1546. 50. Catalogus gloriae mundi, laudes, honores, excellentias ac preeminentias omnium fere statuum… continens, a… Bartholomeo a Chasseneo… editus…, Genevae, apud P. Chouet, 1649 [1528]. 51. L’Égalité des Hommes et des Femmes : Grief des dames, suivis du Proumenoir de Monsieur de Montaigne, éd. Constant Venesoen, Genève, Droz, 1993 [1622]. 52. De l’égalité des deux sexes, Paris, Fayard, 1984 [1673]. 53. Constat dressé, entre autres, lors des assises de l’ IEC, PARIS, TOUS LES LUNDIS D’OCTOBRE 2011 (NOTAMMENT LORS DES DEUX DERNIÈRES JOURNÉES, CONSACRÉES L’UNE À LA QUESTION DE L’ABSENCE DES FILLES DES CARRIÈRES SCIENTIFIQUES – INGÉNIERIE, RECHERCHE EN MATHÉMATIQUES FONDAMENTALES – ET L’AUTRE AUX FEMMES DANS LES ENTREPRISES).

AUTEUR

ANNE DEBROSSE Professeur à l'École spéciale militaire de Saint-Cyr CRLC (Centre de Recherche en Littérature Comparée) [email protected]

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Comptes rendus de lecture

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Debbie CHALLIS, From the Harpy Tomb to the Wonders of Ephesus : British Archaeologists in the Ottoman Empire 1840-1880

Olivier Gengler

RÉFÉRENCE

Debbie CHALLIS, From the Harpy Tomb to the Wonders of Ephesus : British Archaeologists in the Ottoman Empire 1840-1880 Duckworth, Londres, 2008, xii+212 p. 18 livres / ISBN 978-0-7156-3757-91

1 L’ouvrage retrace l’histoire des recherches archéologiques britanniques dans l’Empire Ottoman qui ont particulièrement contribué à enrichir les collections du British Museum (BM) dans la seconde moitié du XIXe s., essentiellement vues à travers les récits de voyages rédigés par les archéologues qui les ont entreprises. On suit donc dans ces pages, illustrées principalement de reproductions d’époque, l’évolution sur un demi- siècle d’une discipline scientifique en devenir et la réception du savoir qu’elle a créé. Après une introduction qui définit le cadre de l’étude et présente notamment de très intéressantes remarques sur le récit de voyage archéologique comme genre, l’A. nous emmène de l’Asie Mineure à l’Afrique du nord puis, de là, à nouveau en Asie Mineure et à Chypre, suivant un ordre approximativement chronologique. Chaque chapitre, à l’exception des derniers, est consacré particulièrement à un voyageur-archéologue. La première partie est consacrée à Charles Fellows (1799-1860, ch. 1-2) et Charles Newton (1816-1894, ch. 3) qui explorèrent respectivement la Lycie dans les années 1840 et Halicarnasse et Cnide dans les années 1850. Le lecteur est ensuite invité à suivre à Carthage les recherches de Nathan Davis (1812-1882, ch. 4), et à Cyrène celles de Robert Murdoch Smith et Edwin Augustus Porcher (1835-1900 et 1824-1878, ch. 5 ; sur ces

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derniers, voir maintenant Dorothy M. Thorn, The four seasons of Cyrene, Rome, 2007 [Studia archaeologica, 155]), à la fin des années 1850. La décennie qui s’ouvre alors, et durant laquelle l’Angleterre comme la France bénéficient, dans leur relation avec l’Empire Ottoman, de leur engagement à ses côtés durant la guerre de Crimée (1854-1856), est aussi celle qui voit la concurrence entre les deux pays se dessiner le plus nettement. Les initiatives françaises se multiplient en effet, aussi bien en Grèce qu’en Afrique du Nord ou en Asie Mineure, sans que les activités des archéologues anglais ne diminuent d’intensité. C’est durant cette période, entre 1863 et 1870, que John Turtle Wood (1821-1890, ch. 6) va entreprendre de dégager les ruines d’Éphèse. C’est aussi durant cette période que se produit une évolution notable dans la relation qui associe investigations archéologiques et enrichissement des collections du BM. Même s’il en a bénéficié, et même s’il a pu intervenir soit financièrement, soit politiquement, pour apporter un soutien a posteriori aux fouilles entreprises bien souvent par des ingénieurs, des architectes ou des diplomates en poste dans l’Empire Ottoman, jamais le BM ne s’est trouvé véritablement à l’origine des expéditions archéologiques. À partir des années 1860, il va cependant jouer un rôle d’orientation par l’entremise de son conservateur aux Antiquités grecques et romaines, l’archéologue et voyageur Charles Newton. Au cours des presque trente ans où il est titulaire de ce poste nouvellement créé, soit de 1861 à 1888, Newton multiplie ainsi les voyages sur les sites, dispense ses conseils et ses encouragements et se procure de nouvelles pièces pour les collections du musée, tout en garantissant le soutien diplomatique ou logistique nécessaire aux initiatives privées, comme celles de Wood à Éphèse ou encore de Richard Popplewell Pullan (1825-1888) à Priène – agissant sous les auspices de la Société des Dilettanti –, d’Alfred Biliotti (1833-1915) à Rhodes – que Newton suivait dès 1859 alors qu’il n’était qu’adjoint du conservateur aux Antiquités du BM, Edward Hawkins (1780-1867) – et de George Dennis (1814-1898) à Sarde (ch. 7). Les années 1870 voient une nouvelle évolution dans l’exploration archéologique des vestiges dispersés dans l’Empire Ottoman. C’est en 1874, en réaction notamment au transfert, vers Londres d’abord, puis vers Berlin, des objets précieux mis au jour par Schliemann dans les fouilles de Troie, que l’Empire Ottoman se dote d’une législation sur les antiquités, bientôt suivie d’une seconde en 1884, consécutive au transfert à Berlin de l’Autel de Pergame. À cette époque précisément, prenant appui sur une conception rationnelle de l’histoire de l’art déjà bien établie et sur l’approche novatrice des fouilles d’Olympie, la science archéologique allemande se positionne en concurrente de l’Angleterre et lui dispute l’héritage de la Grèce classique. La définition d’une législation régissant les fouilles, la concurrence accrue avec Berlin, jointe à l’impact négatif des initiatives peu scrupuleuses des frères Cesnola à Chypre (ch. 8) contribuent alors fortement à la constitution de l’archéologie comme discipline universitaire en Angleterre et à son encadrement institutionnel, qui se reflète dans la création de la Society for the Promotion of Hellenic Studies, de la British School at Athens et du Cyprus Exploration Fund. Malgré l’implication plus ou moins directe du BM dans le financement voire l’organisation de nombreuses fouilles jusque-là, il faut attendre la fin du XIXe s. pour voir se dessiner en Angleterre une véritable politique de recherche qui, de manière significative, après 1880, ne profitera plus exclusivement au musée londonien.

2 Dans cette étude très riche, l’accent est mis notamment sur la réception dans le grand public des résultats des explorations archéologiques décrites. Le second chapitre est ainsi consacré à l’accueil des vestiges lyciens rapportés par Fellows et à leur exposition au BM, et une grande partie des chapitres suivants est également vouée à cette

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thématique. Plus largement, l’A. explore de manière très fine le contexte du voyage, les conditions, parfois pénibles, dans lesquelles il a été préparé, organisé, financé. Mais elle s’intéresse également à ses suites : comment les résultats ont été livrés au public, c’est- à-dire comment ont été rédigés et diffusés les comptes rendus, comment ont été acheminés et exposés les objets, comment la vision des sites explorés s’est imposée ou s’est transformée dans l’opinion. On trouve notamment des informations sur l’organisation du BM, son financement, sa fréquentation, sur la disposition des salles et l’exposition des objets, qui aident à mesurer l’importance de l’effort fourni et l’intérêt suscité par les voyages. L’A. est aussi attentive aux conditions matérielles de diffusion de récits tirés des voyages d’exploration, dont on découvre qu’ils eurent un grand succès, y compris sous forme d’éditions bon marché. Outre la promotion de l’auteur comme un éminent voyageur et archéologue et la diffusion des informations récoltées, la publication de ces récits pouvaient en effet répondre parfois à la nécessité de tirer un bénéfice financier de l’aventure. C’est là l’intérêt majeur de ce livre : restituer le voyage archéologique dans un processus où le voyageur et son entreprise ne sont jamais isolés, ni du monde savant, ni du grand public. À ce titre, les nombreuses citations de la presse de l’époque ou de documents d’archives apportent un éclairage particulièrement utile. Un autre aspect essentiel bien mis en évidence dans ces pages est la manière dont l’archéologie s’est constituée en discipline scientifique dans la seconde moitié du XIXe s., dans le cadre d’une quête identitaire doublée d’une concurrence internationale très forte.

3 L’exposé s’adresse à un large public, ce qui se marque notamment par l’abondance d’anecdotes ou de détails évocateurs (par exemple p. 132-133), par le choix de l’illustration ou par l’ajout d’un appendice, fort intéressant, où sont réunies quelques indications sur les objets récoltés lors des campagnes évoquées dans le livre et encore visibles au BM. La bibliographie retenue et quelques approximations témoignent par ailleurs d’une connaissance parfois un peu sommaire des questions proprement archéologiques, mais cela ne biaise l’analyse que dans de très rares cas. On notera par exemple que, lorsque Fellows décrit le site du théâtre de Pergame comme truly Greek, il faisait certainement référence à des caractères architecturaux et topographiques, et pas seulement esthétiques comme l’estime l’A. (p. 27). Sans excès d’érudition, l’ouvrage donne cependant un tableau vivant des voyages d’explorations à visée archéologique dans l’Empire Ottoman de la seconde moitié du XIXe s. Comme nous l’avons souligné, il vaut surtout par son aperçu très éclairant sur l’intérêt suscité dans l’opinion publique par ces voyages et les découvertes qui en ont résulté. On y trouvera ainsi un aperçu de la diffusion de la culture antique dans l’Angleterre du XIXe s. et de la contribution de l’Antiquité gréco-romaine à la construction identitaire de l’Occident moderne, ainsi qu’une présentation évocatrice du contexte de découverte de nombreux vestiges antiques et, de manière corollaire, du développement de l’archéologie scientifique en Angleterre.

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NOTES

1. Les responsables de la section des comptes rendus présentent leurs excuses à Olivier Gengler et aux lecteurs d’Anabases pour la publication tardive de cette recension.

AUTEURS

OLIVIER GENGLER Université de Vienne [email protected]

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Frédéric DUVAL, Dire Rome en français. Dictionnaire onomasiologique des institutions

Luigi-Alberto Sanchi

RÉFÉRENCE

Frédéric DUVAL, Dire Rome en français. Dictionnaire onomasiologique des institutions, Genève, Droz, 2012, Publications romanes et françaises 257, 468 p. 66 euros / ISBN 978-2-600-01597-4

1 Ce miroir très précis des relations lexicales étroites qu’a entretenues la littérature médiévale en français avec le patrimoine intellectuel de la Rome antique, même limité aux « institutions » (selon la perspective de l’Histoire des institutions de J. Ellul : voir l’Introduction, p. 24-25), ne manquera pas d’attirer l’attention des lecteurs et des chercheurs passionnés par les réceptions de l’Antiquité. La méthode d’analyse « onomasiologique » annoncée dans le sous-titre part des « concepts », ici indiqués en latin (choix justifié dans l’Introduction, p. 37), pour en développer l’étude sémantique à travers les expressions auxquelles chaque concept donne lieu dans la langue voulue, ici l’ancien français.

2 Sans doute aurait-on pu employer le terme de thésaurus, car ce « dictionnaire », loin de suivre l’ordre alphabétique des concepts retenus, les organise de manière nécessairement hiérarchisée. Grâce à la table des matières en fin de volume et à la « table des concepts » (p. 465-468), le lecteur découvre ainsi l’ordre choisi par F. Duval – et motivé dans l’Introduction, p. 34-37 – pour répartir la masse de notions au sein de chapitres cohérents, d’ampleur inégale : I. « Exercice suprême du pouvoir » (décliné en plusieurs sections, comme « Principes généraux », « Royauté », « Empire », p. 61-96) ; II. « Les organes du gouvernement » (comprenant le « Sénat », les « Assemblées du peuple », jusqu’au « Personnel subalterne », p. 97-333) ; III. « Le

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peuple romain » (citoyens, hommes libres, esclaves, p. 335-424) et IV. « Le statut des terres et de leurs habitants » (Latins, alliés, provinces, municipes…, p. 446).

3 Pour ne donner qu’un exemple des niveaux hiérarchiques inférieurs, jusqu’aux expressions françaises correspondantes, prenons l’entrée « Libertus », qui se trouve insérée sous le § 4 (« Affranchissement ») de la section « Liberté et esclavage » dans le chapitre III cité plus haut (« Le peuple romain »). Sous le concept de « Libertus » sont rassemblés plusieurs lemmes latins : les noms « libertus, libertinus », « liberta, libertina » et « libertinus », traités aux p. 415-421. On y trouve toutes les expressions présentes dans le large corpus français étudié par l’Auteur et découlant de ces noms latins ; au nombre de seize pour « libertus, libertinus », elles vont de « serf et puis franchi » à « sergent mis hors de servage » et à « qui est affranchi et par avant a esté serf », en passant par « libertin », « liberte », « fils d’un vilain serf » ou, entre autres, « jadis homme serf qui lors estoit affranchi ». Chacune de ces traductions fait l’objet d’un développement, rédigé avec un minimum d’abréviations fastidieuses, donnant sa source, son contexte et son emploi et ajoutant d’utiles commentaires. Après l’analyse de tous les lemmes concernés, l’auteur offre (p. 421) une commode « Synthèse de Libertus », c’est-à-dire une vue d’ensemble de tous les lemmes compris sous le concept étudié, qui commence ici par rappeler que la lexicographie médiolatine « simplifie le système classique en opposant le libertus (affranchi) au libertinus (fils d’affranchi), alors qu’en latin classique libertinus a les deux sens ».

4 Certaines synthèses d’entrées très fouillées sont précédées d’un tableau récapitulatif ; c’est le cas, p. 155, pour celle relative au concept de « Magistratus » dans les deux sens de magistrat et de magistrature, p. 141-154. Pour consulter l’ouvrage à partir des mots français, on peut consulter l’Index verborum (p. 449-459) qui réunit toutes les unités lexicales françaises, y compris celles qui entrent dans les périphrases citées : ainsi « vilain » (présent dans l’expression « fils d’un vilain serf ») et « liberte » font également l’objet de renvois au lemme cité Libertus, libertinus.

5 Le large corpus français à la base des différentes entrées s’ouvre sur le début du XIIIe siècle et est borné par un terminus ad quem très classique, à savoir l’an 1500 (voir à ce propos les considérations de l’auteur, p. 25-26). Ce corpus comprend, bien sûr, de nombreuses traductions, de Végèce, du Digeste, de Cicéron, de Boèce, de Térence… mais aussi celles du Speculum historiale ou du Policraticus, ainsi que des abrégés d’histoire, des vies de saints, le Trésor de Brunetto Latini, les traités politiques de Christine de Pisan Le Chemin de longue étude et Le livre du corps de policie (voir la liste détaillée p. 26-30 ; des « Compléments » sont énumérés p. 33-34). Soulignons aussi la clarté avec laquelle les difficultés orthographiques et grammaticales inhérentes à l’ancien français ont été groupées, analysées, simplifiées (voir p. 37-42) pour aider la lisibilité sans renoncer à la précision scientifique.

6 Situé au confluent de l’histoire, de la linguistique et de la philologie et reposant sur une vaste bibliographie (voir p. 44-57), ce travail à la fois original, rigoureux et généreux permet d’interroger avec pertinence et sur un terrain balisé le rapport complexe – « dialectique », comme le déclare la présentation en quatrième de couverture – du grand Moyen Âge français des XIIIe-XVe siècles avec le passé antique, notamment romain impérial, et sa curiosité pour les éléments encyclopédiques de la civilisation hellénistique-romaine, tour à tour historiques et philosophiques, juridiques, politiques, administratifs, militaires ou techniques.

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AUTEURS

LUIGI-ALBERTO SANCHI

CNRS – Institut d’histoire du droit, Paris [email protected]

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Marie-Claire FERRIÈS, Maria Paola CASTIGLIONI et Françoise LÉTOUBLON, Forgerons, élites et voyageurs d’Homère à nos jours, Hommages en mémoire d’Isabelle Ratinaud-Lachkar

Geneviève Hoffmann

RÉFÉRENCE

Marie-Claire FERRIÈS, Maria Paola CASTIGLIONI et Françoise LÉTOUBLON, Forgerons, élites et voyageurs d’Homère à nos jours, Hommages en mémoire d’Isabelle Ratinaud-Lachkar, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 2013, 552 p. 34, 90 euros/ ISBN 9-782706-117916

1 Publié dans la collection La Pierre et l’Écrit des Presses universitaires de Grenoble, ce recueil Forgerons, élites et voyageurs d’Homère à nos jours est un hommage rendu à la mémoire d’Isabelle Ratinaud-Lachkar, dont les publications portaient sur les métaux et leurs usages dans les sociétés grecques de la période géométrique. Élue membre junior de l’Institut universitaire de France en novembre 2008, elle avait présenté dans son dossier de candidature plusieurs thématiques de recherche développées dans le présent ouvrage. L’introduction de ce volume coordonné par Marie-Claude Ferriès, Maria Paola Castiglioni et Françoise Létoublon, souligne l’intérêt de la méthode qu’elle avait adoptée en combinant les approches de l’archéologue, de l’historien et de l’historiographe, pour suivre la piste des métaux et interroger, chemin faisant, les élites et les échanges culturels. Les chercheurs à l’origine des vingt-trois chapitres qui composent ce volume, se réclament de cette pluridisciplinarité.

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2 La première partie est consacrée au métal comme marqueur et révélateur d’une distinction symbolique ou sociale (« Le Métal, ses artisans et les objets de prestige », p. 23-203). Elle s’ouvre sur la contribution de Sylvie Rougier-Blanc qui s’intéresse à l’architecture homérique et à son décor (p. 23-39). Alors que pour Homère – selon une conception sans doute d’origine orientale – l’or est signe d’une faveur divine, l’intérieur des maisons des héros est orné d’armes de bronze, tradition qui se maintient dans les temples. En confrontant les formules homériques et les données archéologiques (p. 41-61), Françoise Létoublon relève l’écart entre les conventions et les usages. Le monde héroïque, habité par la nostalgie du bronze, est aussi une société où déjà domine le fer. En mémoire de l’intérêt manifesté par Isabelle Ratinaud-Lachkar pour la culture matérielle de l’Argolide pendant l’âge de Bronze, Gunnel Ekroth reprend le dossier des dépôts mis au jour dans les sanctuaires archaïques de la plaine argienne, et étudie plus particulièrement deux types d’offrandes votives, les unes en bronze, les autres – plus modestes – en céramique qui ont la forme de cratères miniatures à protomés féminins. Ces vases datés entre 600 et 575 et qui n’ont pas de parallèle dans les autres régions du monde grec, seraient une création d’un atelier que Gunnel Ekroth localise à Mycènes ou à Berbati, site fouillé dans les années 1980 par l’Institut suédois d’archéologie (p. 63-77). La seconde thématique, développée dans cette première partie, porte sur les prix accordés comme récompenses des concours. En préambule de sa contribution, Annie Verbanck-Piérard évoque l’intérêt d’Isabelle Ratinaud-Lachkar pour les trépieds en bronze trouvés dans les sanctuaires géométriques et archaïques (« Héros homériques et sanctuaires d’époque géométrique », Kernos, suppl. 10, 2000, p. 247-262). La lecture iconographique qu’elle propose en guise d’offrande amicale porte sur Héraclès (p. 79-106). La présence du trépied dans la scénographie des onze vases attiques retenus confirme sa fonction, y compris dans la dispute avec Apollon, comme dieu de la victoire, qu’elle soit militaire ou athlétique. Dans le même esprit, Gwenola Cogan étudie les hydries de bronze, identifiables par leur inscription comme récompenses des concours du Péloponnèse et en particulier des Héraia d’Argos, mais quand elles sont anépigraphes, comme celles d’Aigion et d’Érétrie, les hydries trouvées dans les tombes renvoient à la purification et au passage d’un état à l’autre (p. 107-126). Dans son étude intitulée « Des palais éclaboussés d’or, la dramatisation du luxe dans l’Athènes classique » (p. 127-145), Noémie Villacèque se situe sur la scène du théâtre athénien pour interroger l’ambivalence du luxe qui fascine tout autant qu’il inquiète. Signe de démesure, associé à l’or et aux Barbares, il fait en effet planer la menace de la tyrannie. Marie-Claire Ferriès et Julie Dalaison cherchent la signification symbolique de la vaisselle précieuse à Rome, entre la fin de la République et le début de l’Empire. Comme dans les cours hellénistiques, les Romains ont fait de l’argenterie une source de prestige et un moyen de montrer leur aspiration à « un art de cour » (p. 147-167). Les deux dernières contributions de cette première partie quittent l’Antiquité pour traiter de la question du rapport entre le métal et les élites. La première propose une démonstration élégante et argumentée sur les cabinets de curiosité des princes allemands dans la seconde moitié du XVIe siècle, entre commerce artistique et spéculation symbolique (Naïma Ghermani, p. 169-181). Les objets métalliques qui rappellent l’Antiquité (médailles, bronzes) participent d’un processus de légitimation et de sacralisation du pouvoir tout en étant une alternative aux trésors sacrés. Le dernier article oblige le lecteur à s’intéresser à un monde très différent, à savoir les activités sidérurgique et minière de la basse Maurienne au XIXe siècle (Pierre Judet, p. 183-203).

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3 Dans la seconde partie : « Les tombeaux et les élites : pratiques et représentations », sont regroupées trois contributions qui développent un des axes de recherche annoncés par Isabelle Ratinaud-Lachkar : le métal comme expression de l’élite (p. 207-329). Par la confrontation des poèmes homériques et des données archéologiques, Olivier Mariaud remet en cause l’emploi abusif de l’épithète « homérique » pour qualifier une tombe en ne se fondant que sur l’étude du rituel. Tous les morts chez Homère ont droit à la « part du feu ». Ce n’est une question ni de statut ni de genre. Si la pratique funéraire ne peut pas être différente pour les héros, sa complexité et sa longueur sont le moyen de confirmer un statut antérieur, acquis soit par la naissance soit par l’exploit sur le champ de bataille (p. 207-225). C’est une autre hiérarchie qui donne l’occasion à Pierre Fröhlich d’offrir au lecteur un article très documenté sur les tombeaux monumentaux intra-muros à l’époque hellénistique (p. 227-309). Se plaçant sur le terrain institutionnel et historique, il démontre que comme dans le passé, les cités accordent à leurs élites les honneurs qu’elles leur doivent. Si cette synthèse prouve que la multiplication des tombeaux n’a pas été source de banalisation, elle ne permet pas, faute de données, d’aboutir à une chronologie fine et d’expliquer l’extension de cet honneur à la fin de la période hellénistique. Marcel Piérart propose la traduction et le commentaire de l’inscription, datée de la première moitié du IIe siècle, qui a été trouvée en 1994 dans une fouille de la mairie d’Argos. Le roi Phorôneus, « fondateur de la très antique cité Inachienne », était un civilisateur, ancêtre des Péloponnésiens et de la race des hommes demi-dieux, fondée par Zeus et sa fille Niobé. Son tombeau était placé de façon à être visible de tout voyageur sur la route de Corinthe à Sparte. En une période troublée, son mémorial était porteur de l’identité de la cité d’Argos, de son mérite et de son ancienneté (p. 311-329).

4 Dans une troisième partie, sous le titre « La ville et ses renaissances, concepts et realia » sont regroupées des analyses sur l’identité urbaine et son éloge (p. 333-379). François de Polignac esquisse quelques réflexions sur la définition du territoire et sur la cartographie de l’Argolide à l’époque géométrique avant de présenter Tirynthe comme « le repoussoir imaginaire d’Argos », Tirynthe, cité de l’hybris, de la transgression et de l’ensauvagement (p. 333-340). Dans une belle étude historiographique, Ilaria Taddei rappelle comment dans la « nouvelle Athènes » que fut Florence au XVe siècle, la redécouverte de l’hellénisme après la chute de Constantinople joua un rôle essentiel dans la légitimité des Médicis – de Côme l’Ancien présenté comme le Périclès de son siècle à Laurent le Magnifique, protecteur des arts et des lettres –, sans pour autant remettre en cause la place de la Rome antique dans l’imaginaire du temps (p. 341-362). Clarisse Coulomb étudie les éloges de villes publiés en France, des années 1640 aux années 1780, quand ils ont disparu « dans le vent de l’histoire » (p. 363-379). Alors que la ville était célébrée au XVIIe siècle par cette littérature encomiastique comme un corps mystique, elle est devenue au XVIIIe siècle partie prenante d’une Nation dont elle devait favoriser le dynamisme et illustrer les valeurs.

5 La dernière partie : « Les voyages et les contacts culturels : une expérience qui forge ? » est riche de huit chapitres qui portent sur la circulation des objets comme témoignage des échanges commerciaux et culturels (p. 383-541). Maria Paola Castiglioni cherche dans les mythes et les sources littéraires, la route qui conduit les pèlerins de Dodone à Délos, pour porter des offrandes à Artémis. En s’appuyant sur des indices épigraphiques, elle reconstruit une protohistoire des contacts des Grecs avec les peuples de l’Europe du Nord, dont la mémoire eubéenne garda trace (p. 383-405). Noëlle

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Deflou-Leca étudie la carrière d’un aristocrate italien, un clunisien Heldric, abbé réformateur au tournant du Xe et XIe siècle, qui alla d’Italie à Auxerre (p. 407-422). Cette étude aussi louable soit-elle est la plus éloignée de l’esprit du recueil. Il s’agit ni plus ni moins d’une monographie sur un personnage qui a laissé peu de traces dans l’histoire. L’Orient musulman est l’objet d’une curiosité qui ne s’embarrasse pas de véracité. Ainsi en est-il de l’Italien Ludovico di Varthema qui participa au pèlerinage de Damas à la Mecque en 1503. Bernadette Martel-Thoumian cherche la part de la réalité et de la fiction dans le récit haut en couleurs qu’il en donna. Son ouvrage fut imprimé à Rome en 1510 et traduit en plusieurs langues sous le titre Itinéraire en Égypte, en Syrie, en Arabie Déserte et Heureuse, en Perse, en Inde et en Ethiopie. Religion, mode de vie et coutumes de toutes ces provinces (p. 423-435). On revient au monde grec avec Fabrice Delrieux et son étude des récits des voyageurs partis à la redécouverte de Mylasa en Carie (p. 437-464). Férus d’antiquité et pénétrés de l’esprit des Lumières, ces érudits font preuve de rigueur dans leurs descriptions, leurs croquis et leurs relevés des monuments, tout en témoignant du pittoresque de la société ottomane et de leurs inquiétudes face à un milieu naturel jugé hostile. Le regard des voyageurs est interrogé dans la contribution proposée par Olivier Forlin sur les intellectuels français qui visitèrent l’Italie des années 1940 à 1960 (p. 465-481). Comme on pouvait s’y attendre, ils trouvaient ce qu’ils cherchaient en fonction de leur obédience politique : l’Italie éternelle pour les penseurs de droite, l’Italie révolutionnaire pour les intellectuels de gauche, mais tous furent fascinés par le Sud d’où ils attendaient le renouveau. Laurianne Martinez-Sève étudie la vie religieuse des Grecs dans le sanctuaire d’Aï Khanoum, fondé à l’époque séleucide en Bactriane (p. 483-504). Ce faisant, elle souligne l’importance des transferts culturels qui permettaient aux Grecs et aux Bactriens d’honorer le « Zeus » d’Aï-Khanoum et de lui rendre un culte conforme à la tradition locale. En se fondant sur cinq gentilices peu fréquents de la « confédération cirtéenne » sous le Haut-Empire romain, François Bertrandy propose une réflexion plus générale sur la politique d’intégration de la région de Cirta dans l’Afrique proconsulaire (p. 505-521). Enfin, Anne Lemonde se rattache artificiellement à la figure d’Ulysse pour justifier « d’une période à l’autre » sa participation au recueil sous forme d’une réflexion sur l’exil et le bannissement dans les pratiques coercitives et judiciaires du Dauphiné au XIVe siècle (p. 523-541).

6 Peut-être ce livre aurait-il gagné en cohérence et en force s’il avait été plus réduit. Certains auteurs reconnaissent d’ailleurs avec honnêteté que leur contribution se rattache de très loin au projet initial. Il n’en demeure pas moins que ce recueil, porté par la volonté conjointe de la famille de la défunte et de ses collègues, fait vivre les axes de recherche d’Isabelle Ratinaud-Lachkar, et qu’il est une belle et juste offrande à celle qui avait le « gai savoir ».

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AUTEURS

GENEVIÈVE HOFFMANN Université de Picardie Jules Verne [email protected]

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Lin FOXHALL, Studying Gender in Classical Antiquity

Geneviève Hoffmann

RÉFÉRENCE

Lin FOXHALL, Studying Gender in Classical Antiquity, Cambridge, Cambridge University Press, 2013, 188 p. 19, 99 livres/ ISBN 978-0-521-55739-9

1 Lin Foxhall (LF), professeure à l’université de Leicester, archéologue et spécialiste de l’agriculture grecque, s’intéresse également à la question du genre. Elle a publié deux livres avec John Salmon sur la masculinité dans l’Antiquité (1998). Le présent ouvrage, paru dans la collection Key Themes in Ancient History des Presses de Cambridge, est un manuel destiné plus particulièrement aux étudiants engagés dans les études classiques afin de les initier à cet outil d’analyse qu’est le genre. Six domaines ont été retenus, chaque chapitre étant divisé en rubriques centrées sur le commentaire d’un document, d’un texte, d’une découverte archéologique ou d’une représentation iconographique. Ainsi, des sources antiques bien connues sont-elles réexaminées à la lumière des problématiques que soulève la construction du genre.

2 Le premier chapitre « Gender and the study of classical antiquity », tient lieu à la fois d’introduction, d’historiographie de la question et de présentation des sujets traités (p. 1-23). Dans le sillage des réflexions théoriques de Judith Butler, l’auteure souligne la pertinence du genre comme critère épistémologique pour remettre en cause le clivage « naturel » entre féminin et masculin. Elle retrace l’histoire de la notion qui, née du féminisme, a fini par inclure les « gays ». Pour souligner le point de vue traditionnel, elle retient le livre de Jérôme Carcopino La Vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire (1939) qui resta influent dans les études universitaires jusqu’aux années 1980 du siècle dernier. Dans cet ouvrage, l’historien reprenait sans critique le point de vue moral des auteurs latins qui peignent le portrait de la matrone romaine idéale, à la fois épouse irréprochable et excellente mère. Soumis aux élites des mâles dominants du passé

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comme du présent, les historiens n’étaient pas plus à l’aise pour étudier la question féminine que l’homosexualité. L’auteur pose les jalons les plus importants dans la prise de conscience féministe en France, au Royaume-Uni et aux États-Unis, qui ont permis de sortir de cet obscurantisme. En France, elle rappelle le rôle des Annales, l’importance du Deuxième Sexe de Simone de Beauvoir (1949) et de l’Histoire de la sexualité de Michel Foucault (1976). Les Anglo-Saxons ont découvert la place des femmes dans l’Antiquité dans les années 1970 et 1980. La revue américaine Arethusa publia en 1973 un numéro consacré à cette question dans une perspective féministe. Le livre de Sarah Pomeroy Goddesses, Whores, Wives and Slaves : Women in Classical Antiquity (1975), fut en son temps révolutionnaire. L’auteure dresse un tableau des articles publiés sur les femmes et le genre dans trois périodiques, American Journal of Philology (USA), Classical Quarterly (Grande-Bretagne) et Historia (Allemagne) (p. 9). Cette présentation historiographique éclaire de façon didactique les conditions d’émergence du genre, dans une perspective anglo-saxonne. Elle entend convaincre les historiens de l’intérêt d’interroger une documentation bien connue par cette nouvelle catégorie de pensée.

3 Le chapitre 2 (p. 24-44) qui traite du domaine et de la famille commence par l’étude du vocabulaire grec (oikos, genos, angchisteia) et latin (familia, paterfamilias, domus), puis présente les idées d’Aristote et de Cicéron sur le sujet. Postulant que la « gender hierarchy » est au cœur de l’organisation des sociétés antiques (p. 30), LF étudie sous cet angle le mariage grec et le mariage romain avant d’autopsier le couple par le biais de la relation adultérine. La conclusion est attendue : dans le couple, les hommes ont le pouvoir et les femmes sont soumises. Le chapitre 3 porte sur la démographie (p. 45-67). Sous ce titre, il ne faut pas entendre des données chiffrées, mais une réflexion sur la généalogie, sur l’exposition et l’éducation des enfants, sur la puberté, la mort et le culte de la mémoire. La conclusion le souligne : dès l’enfance, garçons et filles sont perçus et traités différemment par la famille qui est le lieu où les rôles se cristallisent pour les conduire sur des voies différentes (p. 67). La question du corps s’ouvre dans le chapitre 4 (p. 68-89) sur le cas particulier de l’eunuque Favorinus qui se présentait comme doté des deux natures, féminine et masculine. L’étude de la reproduction permet de reprendre les termes du débat sur le rôle respectif des parents dans la conception, d’Eschyle à Aristote. Puis sont brièvement traités et sans souci de grande cohérence le point du vue hippocratique sur le corps, le portrait romain, le comportement sexuel et le corps politique à Athènes, la violence dans la guerre… La conclusion impose l’idée que les corps sont construits par les pratiques et les habitudes sociales, en laissant peu de marge de liberté. L’auteure écrit : « Generally to be a (free, adult and usually elite) man was to have (or acquire) the body of a man » (p. 89), tout en reconnaissant des comportements déviants chez les Grecs comme chez les Romains. Pour en témoigner, LF revient sur l’exemple de l’orateur Favorinus qui en dépit de sa marginalité sexuelle, a joui d’un statut élevé et d’une reconnaissance sociale. Dans le chapitre 5 (p. 91-113), les exemples retenus entendent démontrer que les femmes accédaient difficilement à la richesse et qu’à Rome et à Athènes, elles avaient des activités « étonnamment semblables » (p. 98). Elles s’occupaient des enfants, elles étaient chargées de la préparation des repas et de la confection des vêtements, et elles étaient des « sex workers ». C’est incontestable : l’idéologie du genre, qui pesait sur la répartition des travaux et des métiers, entravait l’accès des femmes au pouvoir économique. Le chapitre 6 sur les espaces privés et publics reconnaît la difficulté de faire correspondre les sources littéraires aux testimonia archéologiques et en particulier, d’identifier un gynécée dans les maisons grecques. Peu d’espaces sont en effet « gendered in absolute

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sense », comme l’est le gymnase (p. 114-136). Dans le chapitre 7 qui porte sur les rapports entre religion et société (p. 137-157), sont analysés successivement le sacrifice, les Grandes Panathénées, les Thesmophories à Athènes, les cultes civiques de la Bona Dea et les cultes de Bacchus à Rome, les dédicaces votives et enfin la magie. Pour l’auteure, si les activités religieuses donnaient aux femmes un rôle important, elles renforçaient leur marginalité dans le quotidien.

4 En conclusion (chapitre 8, p. 158-159), LF reconnaît la difficulté qu’il y a à maîtriser un sujet d’une telle ampleur dans un manuel de 188 pages. Comme elle n’a pu développer certaines problématiques, elle a complété chaque chapitre par une bibliographie commentée. L’intérêt de l’ouvrage réside dans la volonté affichée, mais pas toujours suivie d’effet, de ne pas réduire toutes les problématiques aux rapports de sexe. La tentation est grande en effet de vouloir tout expliquer par la loi du genre, ce « persistent and pervasive subject », mais pour qu’il soit pertinent, cet outil d’analyse doit être combiné avec d’autres critères : l’âge, la classe, la richesse, autant d’axes de recherche que ce livre ne peut qu’évoquer. On regrette le manque de chronologie et de mise en perspective des sources. Les fiches présentées sont liées les unes aux autres sans cohérence ni souci de transition. Ainsi sont mises sur le même plan, la Sparte de Plutarque, l’Athènes de Périclès, la cité de Gortyne… Comme on trouve ce que l’on cherche, les exemples retenus dégagent une norme qui illustre le postulat du genre. À lire ce manuel, on ne peut pas comprendre les destins de femmes d’exception comme Artémise d’Halicarnasse, Aspasie ou Olympias. Les étudiants francophones ne trouveront dans la bibliographie générale aucun des livres en langue française qui ont renouvelé récemment ce sujet (p. 165-184). Pour s’initier au genre, ils auront tout intérêt à lire Hommes et femmes dans l’Antiquité. Le genre : méthodes et documents, ouvrage publié sous la direction de Sandra Boehringer et Violaine Sébillotte-Cuchet (2011), dont l’approche didactique respecte la spécificité des sources tout en proposant de fructueuses pistes de recherche.

AUTEUR

GENEVIÈVE HOFFMANN Université de Picardie Jules Verne [email protected]

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Maria FRAGOULAKI, Kinship in Thucydides. Intercommunal Ties and Historical Narrative

Maria Stella Trifirò

NOTIZIA

Maria FRAGOULAKI, Kinship in Thucydides. Intercommunal Ties and Historical Narrative, Oxford, Oxford University Press, 2013, 443 p. 116,29 euros/ ISBN 978-0-19-969777-9

1 L’immaginario legato al concetto di parentela (xyngeneia) svolge un ruolo importante nelle dinamiche della diplomazia greca antica. Il lessico in origine impiegato nel contesto familiare viene per analogia applicato alle relazioni interstatali, sulle quali Maria Fragoulaki focalizza l’attenzione svolgendo un’indagine mirata su Tucidide. Lo studio approfondisce il significato del vincolo di xyngeneia nella sua dimensione etica/ emozionale e rituale/istituzionale. Vengono distinte due ampie categorie di indagine, la prima riguarda la parentela fondata su vincoli di consanguineità e discendenza genealogica ; nello specifico concerne i legami in cui è strettamente pertinente l’uso del termine xyngeneia (relazioni coloniali, comuni origini etniche) ; la seconda categoria intende la nozione di parentela in un’accezione più ampia, facendo riferimento ai legami che è possibile creare e « inventare » anche tra estranei attraverso un apparato culturale che dispone di riti, istituzioni, norme sociali (xenia, proxenia, matrimonio, miti e rituali religiosi comuni) ; in questi casi la studiosa parla di Relatedness, ovvero di forme estese della nozione di parentela che si originano da costruzioni socioculturali. Il concetto di Relatedness tratto dagli studi antropologici (vd. J. Carsten, Cultures of Relatedness : New Approaches to the Study of Kinship, Cambridge, 2000), si rivela utile per l’analisi della capacità creativa dei Greci di instaurare relazioni tra comunità diverse, anche in quei casi in cui non sia possibile fare appello ad una comune origine o a legami di parentela in senso proprio. Attraverso queste

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classificazioni si riflette inoltre sull’interazione tra natura e cultura (physis e nomos), due sfere distinte da confini spesso fluidi e porosi (p. 23).

2 Lo studio non mira soltanto ad una migliore definizione del ruolo della xyngeneia all’interno della società greca, ma utilizza questo concetto per mettere in luce la maestria narrativa di Tucidide e la sua « distinctive authorial personality » (p. 27), facendo attenzione alle sue interpretazioni della storia e alla raffinata elaborazione del testo. Scelte narrative, omissioni e silenzi vengono esplorati al fine di delineare il valore artistico dell’opera tucididea, che si comprende inoltre alla luce di un dialogo costante con le altre fonti letterarie e, in particolar modo, con le Storie di Erodoto. Questa impostazione metodologica getta nuova luce sull’opera di Tucidide, andando al di là delle nette differenziazioni che si pongono tra aspetto letterario e storico, fittizio e realistico per tentare un approccio omnicomprensivo che dia un’interpretazione piena del testo storiografico (p. 26). Si è fin troppo insistito sull’immagine di Tucidide come di un pensatore amorale, intento a delineare con lucidità machiavellica le logiche di Realpolitik proprie del potere, senza lasciare spazio ad altri aspetti etici, emozionali, culturali ; al contrario un’analisi attenta alle sottili suggestioni offerte dal testo ci rivela come : « There is much concern for emotions and morality in the History […], whose neglect leaves an important side of Thucydides’ historical narrative and authorial personality in darkness » (p. 25).

3 Il concetto di kinship viene osservato come « fatto sociale totale », secondo la terminologia di Marcel Mauss, dacché interferisce con la sfera giuridica, economica, religiosa, etica ed emotiva ; esso si rivela dunque uno strumento di indagine che permette di esplorare diversi aspetti (p. 10). Seguendo la scia delle « trajectories of names and cults » (p. 108) il mondo greco appare, al tempo stesso, frammentato e ben connesso nelle sue molteplici sfaccettature etnico-culturali. L’incontro tra madrepatria e colonia o tra Greci e Non-Greci è rivisitato con strumenti di indagine, propri della moderna network theory, attenti alle mutue influenze originate dai contatti interculturali ed alla creazione di un middle ground o third space (p. 13).

4 Il lavoro è così strutturato, dopo una esaustiva introduzione in cui viene delineata la fisionomia della problematica affrontata (capitolo 1), si definisce la terminologia impiegata da Tucidide per descrivere i legami di parentela (capitolo 2). Vengono poi esplorate le relazioni tra la madrepatria Corinto e le sue colonie in riferimento alla questione corcirese e ai rapporti con Siracusa (capitolo 3). Sono di seguito analizzati i legami di xyngeneia in relazione alle vicende legate a Mitilene e Platea (capitolo 4). Le due ultime sezioni si concentrano invece su (capitolo 5) e Atene (capitolo 6) e sui rispettivi orizzonti geografico-culturali in cui si collocano le poleis cui le due città risultano legate da vincoli di kinship. La parte conclusiva pone l’attenzione sulle Mixed Realities dell’Occidente, ovvero sull’incontro tra Greci e Non-Greci in Italia e in Sicilia (capitolo 7). Lo studio è inoltre corredato da due appendici, la prima è un approfondimento sulle cleruchie ateniesi ; la seconda è un indice che cataloga per città i dati che Erodoto e Tucidide offrono in merito alle poleis e ai loro vincoli di xyngeneia ; essa costituisce un utile strumento che permette di comparare le informazioni dei due autori.

5 Questo studio, ricco e dettagliato, ha il merito di interpretare con un nuovo sguardo una tematica nota, servendosi con maestria degli inputs offerti dalle scienze antropologiche e sociali ; si rivolge agli studiosi specialisti di Tucidide e li invita ad interrogarne il testo cercando di darne una lettura che ridoni spessore alla personalità

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dell’autore. Esso si rivolge altresì al più vasto pubblico di lettori che si interessa al genere storiografico cui si suggerisce l’adozione di una prospettiva attenta non solo al contenuto informativo della fonte storiografica, ma anche al suo aspetto formale- letterario, andando oltre la distinzione tra reale e fittizio, evenemenziale e letterario per intendere l’opera storiografica nella sua completezza e ricchezza.

AUTORI

MARIA STELLA TRIFIRÒ Università di Palermo/ Université de Toulouse (UT2J) [email protected]

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Michael GREENHALGH, Constantinople to Córdoba. Dismantling Ancient Architecture in the East, North Africa and Islamic Spain

Jorge Elices Ocón

RÉFÉRENCE

Michael GREENHALGH, Constantinople to Córdoba. Dismantling Ancient Architecture in the East, North Africa and Islamic Spain, Leiden-Boston, Brill, 2012, 576 p. 182 euros /ISBN 9789004212466

1 M. Greenhalgh has again written an interesting book about the reception and final fate of the ancient architecture during the Middle Ages. It puts an end to a series of valuable and useful books (The Survival of Roman Antiquities, 1989 ; Islam and Marble, 2005 ; Marble Past, Monumental Present, 2009) in which he had explored the role of antiquities and ancient marble in the Mediterranean, comparing and contrasting how ancient buildings and its material (marble in particular) were dismantled, destructed, recycled or ignored over nearly ten centuries in western Christendom, Byzantium and Islam.

2 Many of the evidences and arguments stresses in this new book repeat or continue previous ones, but in this case the author goes further and takes a widely view, adding the descriptions and references to the ancient buildings of late centuries travellers and focusing on regions as Greece, Turkey and Medieval Islam where nowadays it is possible to find more classical ruins. This remarkable broad survey, both chronological and geographical, is covered in considerable detail. Proof of this is the impressive bibliography collected (p. 425-495, divided by region or monuments) and the references to the traveller’s works at the end of each chapter.

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3 As M. Greenhalgh explains at the beginning, the aim of the book is to offer a coherent account of how the classical landscape was changed. Earthquakes or transformations in the seashore can explain the loss of ancient architecture, but the main is of course due to human actions. There is a relation between growing towns and diminishing antiquities or between the quality and luxury of the material and how quickly it disappears. Statues and white marble were easily sent to the kilns to be transformed in mortar, iron and lead were hunted in temples and palaces, and columns and capitals were selected to be reused in mosques. Indeed, it could be added more examples, some of them very relevant and surprisingly not considered by Greenhalgh, as the fabulous collection of ancient marble sarcophagus re-used in the Umayyad Palace of Madinat al- Zahra, near Córdoba (Greenhalgh also forgets remarkable articles such us A. Caiozzo « Images des vestiges préislamiques de l’Ifrîqiya chez les géographes arabes », in Anabases, 2009, 9. p. 127-145). In any case, references to Alexandria, Damascus, Baalbek, Kairouan or Mérida appear along the chapters, each one dedicated to a specific topic : Roads and Ports (chap. 3), Fountains and Waterways (chap. 4), Tombs (chap. 5), Palaces and Villas (chap. 6), Inscriptions (chap. 7), Quarries (chap. 8) or Temples (chap. 9).

4 One of the main conclusions of his work states that, until XIX and XX centuries it had been a landscape with plentiful ancient building : « It was Westerners who were responsible for the degradation of large quantities of antiquities […] Irony of ironies, monuments left to the tender mercies of “savages” and “barbarians” stood largely intact until Western civilization waded in, bribing, destroying and carrying off antiquities » (p. 313).

5 As he rightly points out, the case of the French invasion of Algeria is a very explicit example. Chapters 13 and 14 are dedicated to these periods and the « predatory extraction » of antiquities by westerners and travellers.

6 The great number of buildings of the Islamic world that he discusses is not only interesting in its own right, it also points out new lines of arguments that consider how the ruins were conceived by Muslims or why they selected and re-used that material. He merely states that Muslims rulers were interested in classical antiquities, just like Christians ones. He considers rightly that the re-used marble material had a purely pragmatic and not ideological charge and he accepts « triumphalism » or other messages in a few cases, like the impressive collections of relief and statues disposed in Turkey, in the walls of Konya. Chapter 10 is precisely dedicated to these aspects. M. Greenhalgh shows how antiquities were related to treasures, popular beliefs and superstitions with figures as Salomon. Even, it is worth pursuing his argument, taking into account other aspects such as the collections of sarcophagi in Madinat al-Zahra, restoration of aqueducts in Córdoba and interesting pre-Islamic notices about ancient history and ruins of Al-Andalus or Egypt to which Muslims historians gave more attention than what we could expect by reading Greenhalgh’s work.

7 Along the chapters, he discusses a great number of buildings (theatres, aqueducts, city walls, statues, palaces and mosques). Therefore scholars of History, Archaeology or Art should take into account this new work. Unfortunately, there are some aspects that deserve remarks. For example, there is not a map or a list of dates and therefore, geographical and chronological changes can be difficult to follow (three index – subjects, sites and people – solve only partly this difficulty). Text boxes with commentaries and excursions appear in many pages and may disturb a continuous reading. Finally, there is no previous study about the travellers mentioned and the

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differences between them are clearly very important. Al-Masudi or Ibn Hawqal are Muslims of the X century and their contexts and work’s purposes differ in weight and value from western travellers of the XVIII and XIX centuries. On the veracity of the information that authors provide us, he only mentions briefly the problems found and prefer to « keep interpretation in the text to a reasonable minimum » (p. xxiii). All these remarks may see the book as « a catalogue inter-weaved with a running commentary » as Greenhalgh states himself (p. xxiv). Nevertheless, these problems are just the common difficulties when assembling this wealth of information. Greenhagh’s work deserves to be widely read and discussed. It shows the great success that reception studies are getting. Roma quanta fuit, ipsa ruina docet, reminds he us in his concluding lines.

AUTEUR

JORGE ELICES OCÓN [email protected]

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Corinne JOUANNO, Ulysse. Odyssée d’un personnage d’Homère à Joyce

Jean Zaganiaris

RÉFÉRENCE

Corinne JOUANNO, Ulysse. Odyssée d’un personnage d’Homère à Joyce, Paris, Ellipses, 2013, 570 p. 25 euros / ISBN 9782729875916

Nous commencerons par saluer l’impressionnante galerie des portraits d’Ulysse dressée par Corinne Jouanno dans cet ouvrage. Tant pour la qualité d’analyse des œuvres que pour la mise en relation intertextuelle, son travail est empreint d’une grande rigueur intellectuelle. L’auteure montre qu’au viiie siècle avant J.-C. l’Iliade et l’Odyssée relèvent avant tout de la tradition orale et n’ont pas été le fruit d’une version stable et définitive. Il y a eu une multitude de versions éphémères de ces poèmes épiques qui circulait. Le personnage d’Ulysse est d’ailleurs lui-même multiple, y compris au sein d’une même œuvre. Si dans l’Iliade le personnage a les traits d’un guerrier épique, courageux au combat et prudent dans ses stratégies, il en est autrement dans l’Odyssée, où le héros, éloigné de son île natale, est en proie à la mélancolie et aux pleurs. Dans le texte d’Homère, une ambivalence entre la masculinité et la féminité d’Ulysse est présente puisque le personnage de Pénélope est en fait le double, l’alter ego du roi d’Ithaque : « Pour mieux suggérer, peut-être, la complémentarité d’Ulysse et de Pénélope, le poète s’est livré à leur propos à un étonnant brouillage des rôles sexuels, en inversant les polarités du masculin et du féminin » (p. 77). Tout aussi rusée qu’Ulysse, Pénélope sait également se montrer héroïque face à ses prétendants et former avec son époux une étroite « communauté d’esprit » (homophrosunê). La question de la transformation est dès lors centrale dans le livre de Corinne Jouanno, qui dessine cette fresque des différents Ulysse en interrogeant d’autres auteurs de l’Antiquité tels que Sophocle ou Euripide ainsi que d’autres représentations de ce personnage, le montrant comme un rhéteur, un traître perfide, un manipulateur

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immoral ou un sophiste. Des représentations érotiques d’Ulysse figurent également dans le monde antique, comme l’indique un texte anonyme rédigé par l’auteur des Priapées où les vers poétiques tournent autour de la mentula. Le Satyricon est d’ailleurs une parodie travestie de l’Odyssée, décrivant un personnage à la recherche de sa virilité perdue. Ces représentations contrastent fortement avec les conceptions morales d’Ulysse que l’on retrouve sous la plume de Dante ou de Fénelon. Dans les appropriations chrétiennes des textes antiques, la poésie d’Homère va jusqu’à préfigurer les saints évangiles. Cela sera au prix d’un certain nombre de contresens, d’écarts et de modification des poèmes de l’Antiquité. Le plus important est celui du passage avec les sirènes. Alors que dans l’Odyssée, le personnage d’Ulysse demande à être attaché au mât du navire afin de pouvoir écouter les chants sans se jeter dans l’eau et être la proie de ces séduisantes créatures, dans la symbolique chrétienne ses compagnons lui bouchent les oreilles afin de le protéger de la tentation. Le bateau représente l’Église et tout écart hors de son giron est violemment puni, comme le montre le cadavre des marins déchirés par les sirènes. Parmi les différentes appropriations d’Ulysse, depuis Rousseau à Gide en passant par Mallarmé, Giono, Pessoa, Borges ou Kafka, Corinne Jouanno consacre certaines parties du livre aux auteurs grecs. Si celle sur Constantin Cavafy aurait gagné à être développée davantage, notamment en ce qui concerne l’analyse du poème « Ithaque » qui bouleverse radicalement la mélancolie de l’exil en insistant sur l’importance des expériences vécues pendant le voyage plutôt que sur le fait d’arriver au port, les passages sur Nikos Kazantzakis et surtout sur Georges Séféris, qui raconte l’Odyssée à partir de sa propre trajectoire d’exilé, sont fouillés. Les lectures grecques contemporaines des poèmes d’Homère montrent qu’il y a un « Ulysse » qui est entre « l’Occident » et « l’Orient ». Des rapprochements pourraient d’ailleurs être faits avec des auteurs du Maghreb, notamment avec le roman Le chien d’Ulysse (2001) de l’écrivain algérien Salim Bachi ou bien avec Trois jours et Le Néant (2013) de l’auteur marocain Youssef Wahboun dont les analogies avec l’Ulysse de Joyce gagneraient un jour à être étudiées de près. C’est d’ailleurs avec l’analyse du roman de l’écrivain irlandais que Corinne Jouanno termine son ouvrage. La lecture de l’œuvre dans ce dernier chapitre est remarquable et met en évidence l’appropriation que Joyce effectue de la poésie homérique. Jouant savamment sur les références explicites et sur l’hommage implicite, accompagnés de « clins d’œil complices » aux lecteurs, ce roman irlandais incarne la quintessence du spectre de la Grèce antique qui plane sur l’Europe depuis des siècles. Incarnation sublime de cet héritage transmis sans aucun testament, pour reprendre l’expression de Hannah Arendt, l’Ulysse de Joyce est à la fois l’une des plus fidèles réécritures du texte d’Homère et l’un des travaux de création les plus importants du xxe siècle. Le roi d’Ithaque est devenu un Monsieur-tout-le-monde qui s’occupe de contrats publicitaires, Molly est une Pénélope infidèle (infidèle de « corps » mais pas « d’esprit », comme le montre la dernière tirade), les bars irlandais sont remplis de sirènes, Circée s’est changée en une maquerelle nommée Bella et une nouvelle Nausicaa devenue Gertie s’offre sur le bord de mer à un Bloom décontenancé. Les transformations multiples du personnage, présentes dans le récit antique, ainsi que la dimension transgenre sont également dans le texte de Joyce. On est à la fois « nous-mêmes » et « quelqu’un d’autre », faisant de l’identité un flux et non quelque chose de stable ou de figée. La permutation du masculin et du féminin est d’ailleurs magistralement illustrée dans de nombreux passages évoquant l’androgynie de Bloom, notamment lors de l’épisode au cours duquel il change de sexe avec Bella. L’odyssée dans laquelle nous entraîne cet

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ouvrage d’érudition permet d’avoir un beau panorama des différents Ulysse et de saisir le périple de ce héros légendaire à travers ses différentes représentations.

AUTEURS

JEAN ZAGANIARIS ege Rabat [email protected]

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Diego LANZA, Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento

Anne de Cremoux

RÉFÉRENCE

Diego LANZA, Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Rome, Carocci, 2013, 254 p. 19 euros / ISBN 978-88-430-6695-7

1 Lanza entend dans ce livre retracer les expériences de quelques maîtres de la discipline philologique. Il propose ainsi quelques grands jalons de son évolution, et plus largement de l’histoire culturelle européenne. Si chaque chapitre est dédié à l’étude d’une figure ou d’un phénomène particuliers, Lanza prend en effet soin de souligner également l’évolution générale qui sous-tend l’histoire de la philologie, en replaçant chaque moment dans son contexte – en particulier institutionnel, avec l’histoire de l’université, et idéologique –, et en étudiant le jeu des influences réciproques. Il constate une évolution vers une crise des sciences de l’Antiquité, de la fin du XIXe s. à nos jours. Comme Lanza le rappelle en introduction, son étude est donc liée à la nécessité, pour les philologues d’aujourd’hui, de s’interroger à nouveau sur leur utilité collective. Pour Lanza, le spécialiste de l’Antiquité doit ainsi être l’interprète d’un passé socialement vivant, plutôt qu’un antiquaire jaloux, gardien d’un passé révolu.

2 Le premier chapitre est consacré à Wolf, et à la manière dont il contribue à créer l’autonomie de la philologie, en particulier vis-à-vis de la théologie : c’est en ce sens qu’est décrite, dans le contexte prussien, la fondation du Seminarium philologicum, dont le but est de former des enseignants pour la nouvelle école laïque sur la base de l’étude des classiques. Lanza souligne les influences qu’a connues Wolf, en particulier celles de Lessing et Humboldt. Il indique l’orientation décisive que Wolf fait prendre à la philologie, dans ses Prolegomena ad Homerum, lorsqu’il utilise en particulier les scholies pour établir l’histoire d’un texte oral, puis dans sa Darstellung, où il établit le primat de

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la langue écrite, et en particulier le grec, au sommet de la hiérarchie organisée des sciences de l’Antiquité.

3 Dans le chapitre consacré à Wilamowitz, Lanza décrit la manière dont le philologue tente, de manière polémique (en particulier contre Nietzsche), de définir le mode et la signification de l’étude de l’Antiquité, vue comme processus unitaire d’acquisitions positives. Si l’institution qu’il connaît ne lui convient pas, Wilamowitz considère néanmoins que l’université allemande, avec la pratique et la méthode de la philologie, reste le lieu le plus conforme à une éducation scientifique de l’individu, y compris à des fins politiques.

4 Lanza retrace ensuite le parcours de Jaeger, en commençant par son itinéraire religieux entre protestantisme et catholicisme, et la manière originale dont il explique son éducation classique et son œuvre scientifique. Les influences, celle surtout de Harnack, sont étudiées. Lanza éclaire l’« a-confessionnalité » de Jaeger par les contextes non seulement religieux, mais aussi idéologique – comprendre et faire l’unité de l’Occident – et politique. C’est aussi par ce prisme qu’il analyse sa conception de la philologie.

5 Dans le quatrième chapitre, Lanza se livre à une analyse du Docteur Faustus de Thomas Mann à la lumière de l’histoire de la philologie, représentée par Zeitblom dans le roman. Il s’appuie sur les écrits de Mann lui-même à propos de la genèse de cette œuvre et du sens large qu’a la reprise du mythe : il s’agit en effet de livrer une parabole sur le peuple allemand. Dans cette perspective, la philologie classique représente une défense culturelle contre l’aliénation nazie ; mais l’impuissance pratique et sociale de Zeitblom reflète aussi les limites et la crise de cette science à son époque. Lanza place cette représentation dans un débat plus ancien sur la discipline, en remontant notamment à la figure emblématique d’Érasme.

6 Le chapitre suivant prend comme point de départ les reprises de tragédies antiques au XXe s. pour comprendre ce que le public du moment peut entendre par « tragédie », et plus encore par « tragique ». Il s’agit à cette occasion de faire l’histoire de la théorie sur cette notion, depuis Goethe et Hegel jusqu’à Jaspers et Schadewaldt, et du lien entre pratique interprétative et pratique théâtrale.

7 Lanza se consacre ensuite à Snell et à la manière dont critique et philologie, chez lui, s’intègrent dans la perspective plus large de l’histoire de l’esprit. L’influence de Hegel sur cette approche historique de la langue et des concepts grecs est fortement soulignée, de même que la préférence de Snell pour l’individualité, plus spécifiquement historique, et donc pour l’analyse linguistique. C’est en ce sens que chez lui, la philologie reprend une priorité culturelle.

8 Le chapitre suivant est dédié à Vernant, avec le colloque de 1973 à Urbino, véritable manifeste des positions sur les études classiques dans un contexte italien particulier, en lien avec son engagement politique et en rupture avec les approches marxistes du monde antique. Lanza insiste sur la dette qu’a désormais toute étude de l’Antiquité classique vis-à-vis de Vernant et des questions théoriques soulevées par son œuvre.

9 Les pages suivantes sont consacrées à la question de l’auteur. Partant de la réflexion foucaldienne, Lanza constate qu’elle a pendant longtemps été tue par les hellénistes. Pour Lanza, ce phénomène est lié à la mise en danger des études classiques ces dernières décennies, et à la peur de voir s’effacer encore l’autorité de la tradition. Lanza pose à nouveaux frais la question, à propos de la période archaïque surtout, et montre son lien avec l’enjeu qu’est la mémoire sociale.

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10 Dans un chapitre conclusif, Lanza relève les contradictions qui marquent à présent la corporation des philologues. Il s’interroge sur la place actuelle des études classiques à l’école et à l’université : si cette place est menacée, c’est par incapacité à s’interroger sur le monde dans lequel on vit : « Et sans une problématisation adéquate du présent, il est inutile d’interroger le passé : ce dernier ne fera que refléter les mensonges rassurants que nous désirons. »

AUTEURS

ANNE DE CREMOUX Université de Lille 3 [email protected]

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ENRICO MARINI, Les Aigles de Rome

Marianne Beraud

RÉFÉRENCE

ENRICO MARINI, Les Aigles de Rome, tomes 1 à 4, Paris/Bruxelles, Dargaud Éditions, parutions respectivement en 2007, 2009, 2011 et 2013, 13,99 euros le tome / ISBN 9782505-001379, -006763, -011514, -017974

D’Ermanamer à Arminius : l’histoire en vignettes

1 Loin des studios en carton-pâte de Cinecitta et des superproductions hollywoodiennes, le péplum moderne trouve son renouvellement dans la bande dessinée contemporaine. À l’heure où Philippe Delaby et Jean Dufaux croquent l’ambiance curiale de la cour palatine néronienne dans Murena, le dessinateur et scénariste Enrico Marini propose un renouvellement du genre. Les quatre premiers albums des Aigles de Rome, publiés aux éditions Dargaud entre 2007 et 2013, s’inscrivent résolument dans l’axe « historique » du péplum, avec un souci louable de vérité historique. L’originalité tient en grande partie à la dimension biographique inédite dans le genre qui esquisse les traits du personnage fameux d’Arminius. Dans La Germanie, l’historien Tacite a rendu hommage à cet adversaire exemplaire. Parmi les écrivains allemands qui ont célébré ce héros national, le poète Friedrich Klopstock écrit dès 1769 trois chants patriotiques en prose avec chœurs, Hermannsschlacht (1769, La Bataille d’Arminius), Hermann und die Fürsten (1784, Arminius et les princes) et Hermanns Tod (1787, La Mort d’Arminius). Sous le pinceau d’Enrico Marini, c’est la première fois que la bande dessinée fait un sort à celui qui est le symbole du patriote allemand qui refuse de plier devant l’ennemi. L’épisode est connu et se situe chez les Chérusques, au sud du Hanovre et du Brunswick, sur les rives de la Weser actuelle. En 11 av. J.-C., le prince chérusque Sigmar / Segimerus, livre son fils Ermanamer en otage aux Romains. César confie l’éducation de ce jeune barbare chevelu au fidèle Titus Valerius Falco – personnage fictif –, père d’un fils du même âge, Marcus. Sous prétexte de construire l’amitié entre les deux jeunes garçons, Marini

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explore la veine de l’expérience initiatique. C’est ce creuset fictif qui permet au dessinateur de faire des infidélités à l’histoire en prenant le parti, par exemple, d’une éducation campagnarde d’Arminius. De cette éducation dont l’historien ne sait rien, le scénariste brosse, sous la férule d’un entraîneur ancien légionnaire, une discipline de fer toute vouée à l’apprentissage du maniement des armes. Parallèlement à ce récit strictement didactique, l’auteur développe une fiction dans le contexte historique du règne d’Auguste. Le quatrième volet s’achève sur les prémices des tensions entre Arminius et Marcus. Il appartiendra donc à l’album suivant de mettre en scène la défaite de Varus lors de la bataille de Teutobourg en 9 ap. J.-C.

Enrico Marini, historien ? Le scénariste entre histoire et fiction

2 À plus d’une reprise, Enrico Marini entend coller au plus près de la réalité historique. À ce sujet, la scène de métonomasie, c’est-à-dire de changement de nom, du jeune Ermanamer est exemplaire. Le dessinateur nous montre l’empereur Auguste qui, d’un ton péremptoire, affirme « Désormais tu t’appelleras Gaius Julius Arminius ». Un spécialiste de l’onomastique romaine y décèlerait immédiatement la romanisation du nom chérusque (Arminius) et l’adoption des tria nomina romains, avec les praenomen (prénom) et gentilice (nom de famille) de l’empereur Auguste adopté par César. Citons aussi l’invocation au dieu Consus lors de la course de chars2 du deuxième album. L’emploi du vocabulaire latin des professions (pedisequus pour valet de pied, agrimensores pour les arpenteurs, medicus pour médecin, speculatores pour les éclaireurs de la légion), des insultes (irrumator pour débauché), et des lieux (Ara Vbiorum, principia, ergastulum) accréditent cet effort de documentation. Le florilège de dieux et déesses appartenant à la mythologie latine, gauloise ou germanique (Bona Dea, Bellona, Horatius Cocles, Nerthus, Tyr, Loup Fenrir, Managarms, Wodan, Valkyries, Sol) participe à cet « effet de réel » qui restitue bien les croyances du Ier siècle.

3 Il faut aussi rendre justice à l’auteur de l’excellent travail de documentation historique sur l’armement. Le degré de précision dans la composition de l’armée romaine est à saluer : on y retrouve l’aquilifer (porteur de l’aigle), le signifer 3 porte les insignes militaires dont la reproduction est en tout point conforme à celle des signa militaria. On retrouve en effet sur les hampes des enseignes manipulaires des phalères et des croissants. De même, l’exactitude du cimier transversal rouge du centurion, la lorica segmentata (cuirasse segmentée) du légionnaire et les fers de lance en forme de feuille de saule respectent les derniers apports des découvertes archéologiques et de l’archéologie expérimentale. L’attestation récente de l’armure de plate avant le règne de Tibère4 procède notamment des découvertes sur les légionnaires malheureux de Varus, vaincus par les tribus germaniques (Chérusques, Marses, Chattes et Bructères), à proximité de la forêt de Teutoburg5. Un esprit avisé saura également reconnaître la grande qualité des recherches sur les guerriers chérusques6. On y retrouve les boucliers hexagonaux en bois pourvu d’un umbo germanique de forme conique7. La forme et les motifs géométriques (swastikas, triskèles, croissants, soleils, runes) sont conformes aux découvertes de boucliers sur le site d’Illerup. L’armement (javelines et épées de type celte) est aussi fidèle à celui des stèles des auxiliaires romains près du Rhin où le défunt est représenté sur un cheval foulant au pied un barbare, ou des sarcophages en marbre de Portonaccio (fin du IIe siècle)8. Dans le quatrième album de la série, le personnage de

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Lepidus porte un masque de parade9 en guise de clin d’œil au fameux masque d’acier découvert à Kalkriese, site de la bataille de Teutoburg. Indubitablement, ces planches grand public n’occultent en rien le souci permanent de retranscrire les grandes problématiques qui animent l’imaginaire romain. La crainte du furor teutonicus, plusieurs fois mentionnée, en est un exemple.

4 S’agissant de l’apparence des guerriers chérusques, Enrico Marini fait le choix de suivre Tacite pour portraiturer le personnage d’Arminius. D’après Tacite (La Germanie, IV), les Germains ont les yeux bleus, les cheveux blonds et ils sont plus grands que les Romains. Dans les sources iconographiques romaines, les Germains sont toujours représentés les cheveux longs. La couleur des cheveux quasi rouge des Chérusques dans les albums ne doit pas surprendre. Ceci est aussi bien constaté par Tacite au Ier siècle que par Ammien Marcelin au IVe siècle. Ce dernier rapporte qu’un groupe d’Alamans surpris par le maître de la cavalerie Jovin était en train de les teindre en rouge : « Il voyait les uns se laver, certains se teindre la chevelure en rouge selon leur coutume » (Ammien Marcellin, XXVII, 2, 2). Le lecteur pourra se fier sans trop de réserves à l’habillement chérusque (tunique et pantalon). Le site de Thorsberg en Allemagne a en effet livré plusieurs fragments de textiles, notamment une tunique complète en laine tissée ainsi qu’un pantalon. On regrettera simplement la présentation systématique des Chérusques comme un peuple de barbares sanguinaires, à la chevelure hirsute, et aux visages monstrueux quasi simiesques. Notons aussi la présence d’un excellent glossaire à la fin de chaque album avec des entrées sur des notions fondamentales (furor teutonicus, rang équestre, latifundium, dignitas, princeps senatus, Liberatores).

Le péplum, un épuisement du genre ?

5 Ce souci constant de coller à la réalité est pourtant quelque peu desservi par le recours aux ficelles du genre. Cette facilité est d’autant plus regrettable que l’auteur n’a pas lésiné sur les renseignements factuels et le souci du détail. Parmi les stéréotypes qui auraient pu être évités, il faut citer les poncifs de l’orgie romaine et les intrusions constantes de proxénètes et de leurs séduisantes courtisanes aux mots crus. Les trop nombreuses scènes à thématique érotique sont toutefois elles aussi bien documentées : la connaissance de la lex Iulia contre l’adultère 10 permet d’échapper aux clichés racoleurs gratuits. La place accordée aux femmes est somme toute assez conforme aux péplums depuis les origines du genre. Citons l’histoire d’amour empreinte d’un peu de naïveté entre Marius Valerius Falco et la belle Priscilla : poème « Le baiser d’automne », échanges qui prêtent à sourire (« Marcus, une couronne sur la tête : – N’ai-je pas l’air ridicule comme ça ? – Priscilla : Pas pour moi, Mon Apollo11 »). Notons simplement, en outre, quelques erreurs historiques et factuelles, à commencer par l’emploi impropre de l’ethnonyme « Germains », qui plus est dans la bouche des Chérusques eux-mêmes. Du point de vue historique, cet anthroponyme ne recouvre aucune réalité puisqu’il existe une multiplicité de peuples dont aucun ne se désigne comme tel. L’invention du mot, forgé par César afin de donner une limite à sa conquête (les Gaules d’un côté, la Germanie de l’autre), en dit long sur le sujet. En aucune manière des peuples aussi divisés ne sauraient trouver un semblant d’unité à travers ce terme. Il convient encore de souligner l’anachronisme de la statue d’Hadrien sur la place du forum. En dépit de ces quelques faiblesses, cet opus de belle facture et de grande qualité mérite une attention certaine.

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NOTES

2. E. MARINI, LES AIGLES DE ROME, II, DARGAUD, 2009, P. 8. 3. E. MARINI, LES AIGLES DE ROME, I, DARGAUD, 2007, P. 1. 4. A. ROST et S. WILBERS-ROST, « Weapons at the Battlefield of Kalkriese », Gladius, XXX, 2010, p. 124.

5. Sur ce sujet, Y. LE BOHEC, LA BATAILLE DU TEUTOBURG : 9 APRÈS J.-C. NANTES, 2008. 6. E. MARINI, LES AIGLES DE ROME, IV, DARGAUD, 2013, P. 4. 7. P. WILCOX, Rome’s Enemies : Germanics and Dacians, Osprey, Men-At-Arms Series, n° 129, 1982.

8. C. CHADBURN, « LES BOUCLIERS DES GUERRIERS GERMANIQUES AUX IE ET IIE SIÈCLES DE NOTRE ÈRE », HISTOIRE

ANTIQUE ET MÉDIÉVALE, N° 67, 2013, P. 58-61. 9. E. MARINI, LES AIGLES DE ROME, IV, DARGAUD, 2013, P. 5. 10. E. MARINI, LES AIGLES DE ROME, II, DARGAUD, 2009, P. 4. 11. E. MARINI, op. cit., p. 16.

AUTEURS

MARIANNE BERAUD Université Pierre Mendès France-Grenoble 2 [email protected]

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Pascal PAYEN, Évelyne SCHEID-TISSINIER (éd.), Anthropologie de l’Antiquité. Anciens objets, nouvelles approches

Carlamaria Lucci

RÉFÉRENCE

Pascal PAYEN, Évelyne SCHEID-TISSINIER (éd.), Anthropologie de l’Antiquité. Anciens objets, nouvelles approches, Turnhout, Brepols Publishers, 2012, 441 p. 80 euros / ISBN 978-2-503-54697-1

1 Structuré sous la forme d’un recueil d’essais, ce volume collectif est le premier d’une nouvelle série, consacrée par ses directeurs (C. Bonnet et P. Payen) à La Traversée des Frontières. Si l’œuvre de Jean-Pierre Vernant fait l’objet de nombreuses références, ce n’est pas le seul héritage auquel les auteurs des contributions se confrontent. L’option du grand helléniste s’était définie en faveur d’une anthropologie historique, issue de l’échange avec et entre ses deux maîtres : le psychologue Ignace Meyerson et l’helléniste, de formation durkheimienne, Louis Gernet (voir R. Di Donato, Per un’antropologia storica del mondo antico, Firenze 1990 et Per una storia culturale dell’antico, I-II, Pisa 2013). Les auteurs du volume, rattachés pour une partie au centre de recherches que Vernant avait fondé à Paris (aujourd’hui ANHIMA), réfléchissent plutôt aux conditions de possibilité d’une Anthropologie de l’Antiquité. Le manque de qualificatif est ici en rapport avec la pluralité et la diversité réciproque des approches, qu’ils proposent et pratiquent, en relation avec un champ d’études plus large (le monde grec et/ou romain).

2 En ce qui concerne l’histoire de la culture, l’importance de la psychologie historique est reconnue par A. Wittenburg (p. 336), de l’université de Picardie, ainsi que par A. Grand- Clément (PLH-ERASME Toulouse). Celle-ci assume les fruits de la collaboration entre Meyerson et Gernet comme l’un des points de départ pour son essai sur la perception

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des couleurs en Grèce ancienne (p. 242). La fonction paradigmatique qu’elle attribue aux travaux du médiéviste Michel Pastoureau (p. 240), est néanmoins significative d’une tendance que C. Bonnet (PLH-ERASME Toulouse) et P. Schmitt Pantel (ANHIMA) rendent explicite (p. 106 et 127). L’approche que chacune des deux chercheuses théorise ne se superpose pas mécaniquement à celle de Vernant. En écho avec A. Burguière (Dictionnaire des Sciences Historiques, Paris 1980), elles entendent, par anthropologie historique, le produit d’un renouvellement intrinsèque à l’histoire comme discipline académique (notamment l’histoire des Annales), à travers les apports de l’anthropologie sociale (surtout de Lévi-Strauss) et culturelle (anglo-américaine). Ce n’est pas un hasard que P. Schmitt Pantel ait été élève de Pierre Vidal-Naquet, historien de formation qui a croisé le parcours, intellectuel et humain, de Vernant. Dans une perspective analogue à celle de P.S.P., ancrée dans les limites disciplinaires de l’histoire, V. Azoulay et V. Sebillotte-Cuchet (ANHIMA) intègrent les apports, respectivement, de l’anthropologie culturelle et des gender studies. Il s’agit, pour l’un, de relire Mauss et Gernet, afin de renouveler le thème classique du don en Grèce ancienne, pour l’autre, de fonder une anthropologie du genre (comme notion historiquement construite), à travers la critique des travaux de Nicole Loraux sur la différence des sexes.

3 La perspective de P. Payen (PLH-ERASME Toulouse) est symétrique : par son approche du monde grec elle relève moins d’une anthropologie historique que d’une histoire structurale contaminant la longue durée de Braudel et les invariants de Lévi-Strauss (p. 207). La guerre des cités lui apparaît comme un phénomène de conjoncture dont l’analyse peut amener à l’identification de tendances sous-jacentes, telles le rapport polis-stasis, que Nicole Loraux avait brillamment esquissé. Avec É. Scheid-Tissinier (ANHIMA), auteur de l’introduction au volume et d’un essai sur les émotions en Grèce ancienne, l’approche historique, au sens étroit du terme, laisse place à une approche, linguistique et sémantique, dont elle a montré l’efficacité dans son ouvrage de 1994 (Les usages du don chez Homère. Vocabulaire et pratique). Son intérêt (p. 9-10) glisse vers le Gernet sociologue des années 1910, ainsi que vers l’identification d’une ligne de continuité avec le Vernant du mythe des races (années 1960).

4 Du côté des spécialistes du monde romain, l’emploi de la notion d’anthropologie n’est pas moins varié. Les approches mobilisées par T. Derks (Amsterdam) et N. Purcell (Oxford) montrent des points communs avec celle que théorise P. Schmitt Pantel. Dans son projet d’archéologie historico-anthropologique, Derks situe sa source d’inspiration dans l’École des Annales (p. 49) ; Purcell utilise indifféremment les notions d’anthropologie historique (p. 82), d’histoire anthropologique (p. 83), d’anthropologie sociale (p. 96, 98). Si, par conséquent, les références à Mauss, Gernet, Vernant, Finley (pour le monde anglo-saxon) ne manquent pas, le pivot de la démarche interprétative consiste en une contamination directe de données documentaires et de grilles catégoriales tirées de l’anthropologie culturelle. Tel est le sens des références de Derks, dans son étude sur les rites de passage dans la Gaule romaine, aux modèles de tripartition initiatique introduits par A. Van Gennep et V. Turner (p. 51-52). Tel est, encore, le sens des références de Purcell, dans son étude sur les représentations et pratiques d’achat et vente dans les mondes grec et romain, à Geertz (p. 93) et Appadurai (p. 88).

5 Représentant d’une anthropologie du monde ancien spécifiquement siennoise, M. Bettini transpose à un témoignage de Plaute (Aulularia 1-36) sur le Lar Familiaris la

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distinction interprétative, introduite dans les sciences sociales anglo-américaines, entre les points de vue étique et émique. Il montre en quelle mesure la philologie se fait instrument privilégié du passage des catégories de l’observateur (moderne) aux catégories des acteurs d’un monde révolu (les formes des représentations de la parenté des anciens Romains).

6 À signaler, enfin, l’ouverture de chemins nouveaux dans le cadre du centre ANHIMA : tel est le cas de l’anthropologie de l’écriture pratiquée par E. Valette. L’identification de la fonction rituelle de l’écriture funéraire, en tension avec l’écriture littéraire de l’élégie romaine, montrent les potentialités d’une approche redevable autant aux études classiques de J.L. Austin (sur les actes de paroles) qu’aux études de C. Calame et F. Dupont (pareillement actifs au Centre) sur les dimensions discursives/pragmatiques de la poésie ancienne.

AUTEURS

CARLAMARIA LUCCI Dipartimento di Filologia Classica, Università di Pisa [email protected]

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Almut-Barbara RENGER et Jon SOLOMON, Ancient Worlds in Film and Television: Gender and Politics

Mathieu Scapin et Matthieu Soler

RÉFÉRENCE

Almut-Barbara RENGER et Jon SOLOMON, Ancient Worlds in Film and Television: Gender and Politics, Leiden-Boston, Brill, Metaforms, 2013, 332 p. 123 euros / ISBN 9789004183209

1 Le premier Metaforms est centré sur le sens sociopolitique d’un cinéma à l’Antique mettant en scène des corps/images reflets des relations de genre. Ce livre résulte d’un colloque international pluridisciplinaire tenu à la Freie Universität Berlin en décembre 2009. Seize interventions sont publiées, étudiant ces recompositions en prenant en compte conditions et codes de production, stratégies de vente, autocensures et pressions socioculturelles. L’ouvrage est scindé en trois parties déséquilibrées et peu cohérentes, oubliant parfois la relation politique/genre. Un découpage thématique appuyé sur les développements majeurs des différents articles aurait été pertinent : corps-icône, instrumentalisation politique, manipulation des codes.

2 Historical Ancients parle de films fondés sur des événements historiques, éludant la question des sources – renvoyée à M. Winkler. Dans « Ben-Hur and Gladiator : Manifest destiny and the contradictions of American empire », J. Solomon, à travers deux œuvres majeures, pose la méthodologie et montre la complexité et la multivalence de la relation entre les messages du film et son audience, permettant à un public fragmentaire de choisir ce qu’il veut voir et entendre. L’attraction-répulsion des Américains envers l’impérialisme s’y lit dans l’archétype du personnage, infléchi par la personnalité et les engagements de l’acteur (Th. Späh et M. Tröhler, « Muscles and morals : Spartacus, ancient hero of modern times »). Cette centralité de l’image du

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corps se retrouve dans le controversé 300 de . L’héroïsme mâle de Léonidas, par ailleurs père et mari, ne s’accomplit qu’à travers sa femme, Gorgo, forte et moderne (T. Beigen, « With your shield or on it : The gender of heroism in Zack Snyder’s 300 and Rudolph Maté’s The 300 Spartans »). Il y a là une véritable interrogation sur la domination du discours masculin dans notre société (M. Dhont, J. Lauwers et X. Huybrecht, « This is Sparta ! : Discourse, gender, and the Orient in Zach Snyder’s 300 »). La narration de Snyder met en avant la bataille idéologique, livrant la vision des faits telle que les Spartiates auraient pu la conter. Il faut donc passer outre le racisme, l’homophobie, ou la vulgarité (excellent R. J. Poole, « Everybody loves a muscle boy »). Ce même type de déconstruction du rapport féminin/masculin se retrouve dans Rome (M. M. Toscano, « The womanizing of Mark Antony : virile ruthlessness and redemptive cross-dressing in Rome, Season Two »). Marc Antoine, symbole de la force mâle, s’oppose à la douceur et à la vulnérabilité méprisées et féminisées. Les femmes de son entourage le changent jusqu’au travestissement final qui le place au-dessus et dans les catégories d’opposés. Il y gagne sa rédemption tandis qu’Octave, masculinisé, perd son âme : à quel prix est le pouvoir ? C’est là une inversion du point de vue qui prévaut dans les réceptions modernes : image d’un Orient lascif, vision moderne de l’Est (E. Bronfen, « Cleopatra’s Venus »).

3 Dans Mythological Ancients, la mythologie est utilisée pour interroger la modernité des relations masculines et des frontières littéraires et cinématographiques qui les régissent dans Troie (A. Kraas dans « Over his dead body : male friendship in Homer’s Iliad and Wolfgagng Petersen’s Troy (2004) »). L’amitié passionnée de l’Iliade, Patrocle/ Achille, est changée en lien familial obscur dans le film, laissant le spectateur choisir le message (C. Proche et M. Kleu, « Models of masculinities in Troy »). Malgré cette richesse sémantique, le poème épique d’Homère reste un récit marginal, adapté par Camerini, Godard et Rossi (C. Pischel, « Include me out ») qui construisent des conceptions de l’épique, transformant expérience théâtrale ou littéraire en discours cinématographique. Pasolini fait de même, sa Médée, par sa masculinité héroïque, est un anti-modèle utilisé pour dénoncer l’anachronisme du rejet des transgressions en 1969 (L. Stavanicic, « Between mythical and rational worlds »). Celui-ci est visible lors de la protestation de croyants hindous contre la mise en scène d’une relation homosexuelle recevant l’assentiment de Krishna dans Xena (X. Zeiler, « Universal’s religious bigotry against hinduism »).

4 Mythological and Historical Thematics invite à s’extraire du péplum pour explorer des films qui auraient un fond de tradition classique. S. SlapŠak propose une analyse fondée sur l’anthropologie historique française (« Ancient woman’s cults and rituals in grand narratives on screen from Walt Disney’s snow white to Olga Malea’s Doughnuts with honey »). La posture de l’auteur étonne quand elle compare, sans convaincre, l’iconographie grecque à Blanche Neige, et élude la question de la culture classique des auteurs. Il nous semble impossible, méthodologiquement, de faire l’économie d’une réflexion sur Andersen et ses réceptions, avant de renvoyer à une Antiquité intemporelle qui serait indissociable de notre inconscient. Les articles suivants, de meilleure tenue, présentent des femmes-icônes. Avec Pandora, Hésiode devient le prétexte à une mise en scène du regard du réalisateur sur Ava Gardner (A.-B. Renger, « Pandora-Eve-Ava : Albert Lewin’s Making of a “Secret Goddess” »). Actrice et personnage deviennent une figure christique de la rédemption et du sacrifice (B. Schrödl, « Phryne paves the way for the wirtschaftswunder : vision of guilt and “purity” fed by the Ancient Greece, Christian narrative, and contemporary history » et T. Ilan «

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The new israeli film Beruriah : between Rashi and Talmud, between Antiquity and Modernity, between feminism and religion »).

5 L’ouvrage est doté d’un index et de photographies couleur petites et simplement illustratives. Le lecteur averti aimerait trouver dans le livre les spécialités des auteurs afin de mieux cerner leur regard, de comprendre comment telle spécialité travaille et envisage ses méthodes. Cet ouvrage n’est pas destiné à tous les publics, les chercheurs n’y trouveront que ponctuellement matière à réfléchir et les publics érudit ou étudiant s’égareront dans le manque global de cohérence.

AUTEURS

MATHIEU SCAPIN

Université de Toulouse – Jean Jaurès (UT2J) [email protected] [email protected]

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Anne ROLET (éd.), Allégorie et symbole : voies de dissidence ? De l’Antiquité à la Renaissance

Cyrielle Landrea

RÉFÉRENCE

Anne ROLET (éd.), Allégorie et symbole : voies de dissidence ? De l’Antiquité à la Renaissance, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2012, 597 p. 24 euros / ISBN 9782753519824.

1 Issu d’un colloque international en 2009, ce volume dense a pour volonté de se situer au point de convergence entre d’un côté l’allégorie et le symbole – voire le mythe – et de l’autre les dissidences. L’approche est résolument diachronique, puisque l’ouvrage couvre une période allant de l’Antiquité à la Renaissance et même jusqu’au XIXe s.

2 L’introduction, bien menée et d’une grande érudition, replace bien le débat, puis définit clairement les concepts d’allégorie, de symbole et de dissidence à travers les âges, y compris d’un point de vue étymologique. L’approche sur le temps long n’était pas un prétexte, même s’il existe une distinction entre les grandes périodes historiques, rendue effectivement nécessaire, car l’allégorie et le symbole ne sont pas perçus de la même façon.

3 L’entreprise était vaste et dans la perspective du colloque, des domaines de réflexion cohérents et complémentaires ont été privilégiés autour de plusieurs grands thèmes fédérateurs. Dans la première partie intitulée : « L’allégorie mode de construction des oppositions politiques, intellectuelles et artistiques dans l’Antiquité », les articles ont pour but d’explorer le devenir de l’allégorie et de quelques usages idéologiques liés à la dissidence dans l’Antiquité. S. Kefallonitis démontre le refus originel des historiens grecs d’associer l’allégorie à leur récit, puis sa progressive utilisation à l’époque romaine (uia l’allegoria in factis) pour mieux rendre compte des éléments exemplaires et

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universels. Le parcours de Q. Lutatius Catulus (cos. 102 av. J.-C.) – anticonformiste notoire – est mis en perspective par G. Sauron, tandis que J. Fabre-Serris montre comment Ovide a prôné l’élégie et l’érotisme au milieu du moralisme ambiant, sans pour autant être un dissident. Enfin la récupération de l’allégorie et du symbole par l’opposition politique au Ier s. ap. J.-C. est appréciée par C. Badel. Cependant la portée de cette opposition est brouillée par une tradition culturelle commune, la bataille des allégories et la récupération impériale.

4 La perspective est élargie dans la deuxième partie (« Lectures philosophiques de l’allégorie antique : la contestation de la tradition »). A. Gigandet insiste sur l’opposition de Lucrèce à l’allégorèse classique des mythes, tandis que B. Pouderon examine les débats autour du vocabulaire de l’allégorie chez Héraclite Pontique. Enfin la philosophie (Sénèque, Apulée et Marc Aurèle) a dû affronter des querelles qui portaient sur la pauvreté dans les allégories romaines impériale (J. Dross).

5 Dans la troisième partie (« Le symbole et l’allégorie dans la confrontation entre références païennes et culture judéo-chrétienne »), les communications étudient les formes de résistance à l’assimilation religieuse et les modalités d’attraction d’une religion à l’autre. Les propos portent d’abord sur le recours à des signes discrets de reconnaissance à l’époque proto-chrétienne lorsqu’il était dangereux de s’afficher comme chrétien (I. Ramelli). Puis la croyance dans la résurrection du corps martyrisé chez les Juifs fait émerger une symbolique singulière (M.-F. Baslez). Le païen Procope fait des allusions aux mystères eucharistiques (E. Amato), alors que le chrétien Ennode de Pavie utilise des allégories païennes (V. Zarini).

6 La quatrième partie nous fait entrer dans l’ère médiévale (« Nouvelles sensibilités spirituelles et mutations du langage allégorique à l’époque médiévale »). Afin de mettre en avant les continuités et les ruptures entre l’Antiquité tardive et la Renaissance, plusieurs études sont proposées à commencer par les mouvements philosophiques et spirituels (XIe-XIVe s.) qui remettent en cause les allégories religieuses (S. Piron) ou celle sur la traduction de l’Ovide moralisé en langue romane, qui lui donne un sens plus chrétien (M. Possamai-Pérez). Ensuite la propagande révolutionnaire de Cola di Rienzo a su utiliser de façon originale les personnifications allégoriques traditionnelles de Rome (J.C. d’Amico).

7 Les usages différents et pléthoriques de l’allégorie à la Renaissance dans le cadre des oppositions religieuses sont au cœur de la cinquième partie (« Allégorie plastique, allégorie littéraire dans les controverses religieuses du XVIe s. »). Certaines figures (comme Brutus) ont été utilisées à l’époque de la Pléiade et d’Etienne Pasquier pour dénigrer les protestants (E. Karagiannis), tandis que des personnifications peintes par Vasari visent à soutenir un idéal religieux renouvelé (A. Fenech Kroke). La nomination des mois fut aussi au cœur de querelles entre calvinistes et catholiques (E. Leutrat).

8 « L’allégorie à la Renaissance, arme des dissidences » est la sixième partie qui s’intéresse aux symboles antiques dans la célébration du tyrannicide (S. Rolet), aux pouvoirs subversifs de l’humour dans la peinture allégorique vénitienne (G. Cassegrain), au rôle de l’allégorie dans les allusions homosexuelles chez Ronsard (P. Ford), et aux allégories pour dire et masquer de nouvelles conceptions scientifiques au XVIIe s. (A. Guiderdoni-Bruslé).

9 Enfin la dernière partie (« Dissidence et circulation géographique de l’allégorie à la Renaissance ») montre les échanges entre les cours de Ferrare et de Turin (R. Gorris

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Camos), le langage symbolique à Bâle pour attirer Érasme (V. Sebastiani) et les métamorphoses de l’âne-Pégase (O. Pot). Les allégories dans la musique de Liszt servent d’épilogue (P. Maréchaux).

10 Un des intérêts de l’ouvrage réside dans la complémentarité des approches mêlant l’épistémologie, l’histoire, l’histoire de l’art, mais aussi les approches idéologiques, littéraires, musicologiques, philosophiques et religieuses. Notons aussi la présence bienvenue d’un index pour mettre en relation les articles.

AUTEURS

CYRIELLE LANDREA

Paris, ANHIMA (UMR 8210) [email protected]

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Francisco DE VITORIA, De la loi

Karine Wurtz

RÉFÉRENCE

Francisco DE VITORIA, De la loi, Commentaire, introduction et notes de Gaëlle Demelemestre, Paris, Éditions du Cerf, 2013, 180 p. 25 euros / ISBN 978-2-204-10003-8

1 On connaît surtout de Vitoria ses grandes « leçons » annuelles, notamment celles sur les indiens et sur le droit de guerre. On connaît moins l’enseignement régulier, son analyse approfondie de la pensée de Thomas d’Aquin, mise en perspectives avec les débats d’époque. C’est ce manque que la traduction de Gaëlle Demelemestre vient combler aujourd’hui, en nous permettant de découvrir le cours donné par Vitoria pendant l’année universitaire 1533-1534 sur le fameux Traité des lois de Thomas d’Aquin, correspondant aux questions 90 à 108 de la Somme Théologique, Ia-IIae.

2 Après une introduction de Blandine Kriegel rappelant tout ce que la modernité doit à Vitoria, l’ouvrage nous propose une introduction éclairante de Gaëlle Demelemestre. L’auteur commence par rappeler la signification de la loi chez Thomas d’Aquin, pour ensuite s’arrêter sur les nominalistes (Pierre Auriol, Durand de Saint-Pourçain, Duns Scott, Guillaume d’Occam…) qui se sont constitués autour de la critique de l’ontologie thomasienne. L’introduction revient pour finir sur les thèses luthériennes. Nous avons ainsi un panorama utile des différentes pensées convoquées par Vitoria pour commenter le Traité des lois.

3 Gaëlle Demelemestre rappelle que chez Thomas d’Aquin, Dieu est avant tout Sagesse. La loi est donc l’expression de la raison de Dieu, elle traverse le réel comme puissance créatrice et organisatrice selon un modèle hiérarchique : au sommet se trouve la loi divine, de celle-ci participe la loi naturelle dans une moindre perfection, puis de même pour la loi humaine, chacune étant parfaitement adaptée au domaine normatif qu’elle régit. Tout le système est tendu par un postulat : la possibilité pour l’homme d’accéder au bonheur suprême et à la vie éternelle. Les lois humaines, dont le but est la concorde

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entre les hommes, doivent permettre le développement et l’exercice de la charité. Ainsi, bien qu’elles soient circonstancielles, les lois positives expriment le juste dont elles participent en tant que lois. De plus, la loi naturelle est accessible à l’homme pour s’imposer à lui comme une évidence. Susceptible de s’en écarter par l’exercice de sa liberté, l’homme possède alors en lui les principes de la responsabilité. Enfin, la loi divine dépasse l’intelligence humaine et reste inconnaissable. L’auteur rappelle ainsi que la théorie de la loi se double chez Thomas d’Aquin d’un enseignement pratique : l’ordre inhérent au réel doit servir de principe normatif de l’action.

4 L’auteur rappelle ensuite la critique nominaliste : si pour Thomas d’Aquin, Dieu est avant tout Sagesse, pour les nominalistes, il est avant tout Volonté. La loi peut donc être retirée ou modifiée selon son arbitraire. Les conséquences sont multiples : le droit revient relatif, de même que la justice. Le réel lui-même n’est plus qu’un contingent muet. Par conséquent, la loi positive devient la seule norme du bien et du mal. Dès lors, la bonne ou la mauvaise conscience n’a plus de signification, la grâce n’est pas liée à une réforme intérieure. Dans la conception nominaliste, la loi a avant tout un sens pénal, elle est un instrument extérieur permettant aux hommes de coexister. Le respect de l’obligation sera ainsi le fondement de la moralité.

5 La dernière opposition majeure aux théories thomasiennes que Vitoria convoque est tenue par Luther. Pour lui, le péché originel a tellement perverti l’homme qu’un abîme infranchissable s’est creusé entre la justice divine et le monde. La puissance rationnelle ou les inclinations naturelles ne peuvent lui permettre de distinguer le bien du mal, il est incapable d’avancer seul vers la sainteté et ne peut qu’espérer que la foi lui sera offerte. L’homme ne peut donc que s’humilier. Dans cette pensée, la loi naturelle n’a plus de sens, la loi ne peut concerner que l’espace politique. Elle n’est qu’une force extérieure, qui interdit et punit, sans effet sur les consciences.

6 Cette introduction, à la fois dense et claire, se termine par un résumé des enseignements délivrés par Vitoria au fil de son commentaire : il renforce la loi naturelle, il réaffirme les deux fonctions de la loi : ordonner les relations humaines et contraindre.

7 L’ouvrage présente ensuite le texte du cours de Vitoria, dans une excellente traduction réalisée par Gaëlle Demelemestre. Il consiste en vingt-huit « questions », chacune traversée par plusieurs articles répondant à chaque fois à une interrogation. Pour chacune, Vitoria expose le texte thomasien, propose son propre commentaire, convoque les objections possibles chez les opposants, évalue ces objections sans aucun passage en force, puis donne sa conclusion. Après avoir discuté de l’essence de la loi (90), de sa diversité (91) et de ses effets (92), le texte s’arrête sur la loi éternelle (93), la loi naturelle (94) et la loi humaine (95-97). Viennent ensuite des questions consacrées à la loi ancienne (98-100), les préceptes cérémoniels (101-103), les préceptes judiciaires (104-105) et enfin la loi nouvelle (106-108). C’est ainsi l’occasion de traiter des interrogations comme « la loi est-elle toujours orientée au bien commun ? », « la coutume peut-elle obtenir force de loi ? » ou encore « la loi naturelle peut-elle changer ? ».

8 Le commentaire de Vitoria est précieux à plus d’un titre : d’une part, il expose avec beaucoup de rigueur et d’exhaustivité les thèses thomasiennes. D’autre part, bien que sa faveur aille à Thomas d’Aquin, Vitoria leur oppose les meilleurs arguments des thèses nominalistes sans esquiver la difficulté. Son étude poussée des thèses nominalistes auprès de Petrus Crockaert à Paris ne peut qu’ajouter à l’intérêt de son

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évaluation. Cette démarche, alliant rigueur et grande honnêteté intellectuelle, autorise un réel débat, qui non seulement permet l’exposition d’un auteur fondamental de la pensée politique moderne, mais aussi permet l’exposition d’un panorama de la connaissance et des positions intellectuelles sur la question de la loi au XVIe siècle.

AUTEURS

KARINE WURTZ Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne [email protected]

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