Salvatore Barbagallo

CITTA’ SVELATA

Di notte all’orizzonte un velo nero copre il mare e il cielo, luci rosse e gialle nella città e il fuoco della pietra scende da Lei... All’alba di bianco risplende, sulle dorate spiagge s’infrange la vita e sotto il sole c’è solo il verde, buia o luminosa questa è

1 PRESENTAZIONE Quando lessi di Catania, il cui nome in epoca greca era Katane, la quale, dopo Roma, è definita e riconosciuta città col maggior numero di siti archeologici, non potevo credere ad una notizia di tal guisa, eppure, di lì a poco e con sommo piacere, dovevo ricredermi. La nostra città nei secoli è stata meta di molteplici dominazioni, le quali hanno lasciato innumerevoli ferite, ma anche e, soprattutto, impronte indelebili sul nostro territorio, per cui, usi, costumi e linguaggio parlato, hanno ormai contraddistinto la nostra storia, per non parlare degli edifici che hanno punteggiato il tessuto connettivo del territorio etneo, tanto da farci immaginare di stare viaggiando all’interno della storia. Se provassimo a fare un giro per Catania, persino nei luoghi e negli angoli più reconditi, ci accorgeremmo di quanti reperti storici risultano sparsi per la città, senza che ce ne rendiamo minimamente conto, tanto siamo distratti ed abituati a vederli lì, sempre sul medesimo posto, sempre soggetti ad incuria, spesso ricettacolo di sporcizia e degrado, a volte persino stucchevolmente ed impudicamente celati alla vista. Eppure si potrebbe fare di più, molto di più, fare sì che funzionassero quando le centurie di turisti scendono nel profondo sud con la voglia e la gioia di visitare e portare in patria un souvenir o qualche foto dei posti più belli e pieni di fascino della nostra città, soprattutto fare in modo che possano un giorno ritornare, magari per consumare un arancino al ragù, una “cassatella” alla ricotta, uno “sfincione” di riso, oppure la esclusiva e gradevolissima granita ai gelsi neri. Sapeste quante volte, osservando la straordinaria molteplicità di turisti in giro per la città, mi sono sentito piacevolmente coinvolto dallo spirito da Cicerone, al punto da intervenire a fianco delle guide, con lo scopo di esplicitare e rendere appetibile la storia intrigante della straordinaria città, patria di Agata. Se questo non è amore viscerale!

2 Purtroppo subito dopo, passata, ahimè, l’onda della iniziale, piacevole sorpresa, partono via per altri lidi ritenuti più accattivanti ed ospitali. Bisognerebbe, invece, approfittare, di questo incalcolabile ed inesauribile patrimonio storico-artistico, facendo sì che possano trascorrere più tempo nella nostra città, monetizzando in tal modo questa straordinaria fonte turistica, onde offrire sviluppo e lavoro a quanti (soprattutto i più giovani) questo lavoro non lo cercano neanche più, giacché scoraggiati dai troppi intoppi burocratici, nonostante la loro fervida inventiva. Pensate, in conclusione, soprattutto ai vari teatri ed anfiteatri, edifici termali ed ai molteplici ipogei ed edifici sotterranei, presenti nella nostra splendida città, se sufficientemente attenzionati, potrebbero rendere realtà viva e tangibile queste peculiari loro definizioni. Giunti a questo punto una domanda risulta assolutamente spontanea: ma i catanesi conoscono la propria città? Dove per conoscenza si intende nel senso più profondo, interessato ad accurato. Ai posteri l’ardua sentenza.

3 INTRODUZIONE Oggi è quasi impossibile distinguere i monumenti della Catania greca da quelli della città romana. Le innumerevoli colate laviche coprirono quasi interamente il vecchio abitato greco e quel che ne rimase venne utilizzato dai Romani come traccia costruttiva per i loro edifici. La natura stessa della lava, inoltre, impedisce che il volto della Catania greca venga interamente alla luce, per cui, la polis giace inesplorabile sotto il pavimento su cui camminiamo, ci rattrista non poter vedere per intero i resti di quell’antica civiltà. Per quanto riguarda la Catania romana si può dire che i ritrovamenti sono parecchi, le certezze sulla loro identità e databilità sono più consistenti e, anche se frammentari e sporadici, sono sufficienti a tracciare per grandi linee la fisionomia della Civitas. Le più antiche tracce di Catania greca sono venute alla luce sulla collina di Montevergine ed esattamente vicino via Clemente e piazza Dante. In questa zona, che si suppone sia stata l’Acropoli della città, furono trovati molti cocci, alcuni dei quali decorati in stile geometrico, altri sono ceramiche rodie, joniche e corinzie. Dagli scavi non è emerso alcun edificio. Si può supporre, comunque, che qualche rudere lo si potrebbe ancora trovare se si smantellassero le tante casupole che occupano la zona. L’architetto e geologo Carmelo Sciuto Patti, trovò tracce di edifici greci vicino al Conservatorio della Purità, presso via Santa Maddalena. Queste sono le uniche notizie su Catania greca basate su ritrovamenti archeologici. Dei numerosi templi che sorgevano nella città purtroppo non è rimasto proprio nulla. L’unico documento di testimonianza è quello del principe Ignazio Biscari. Egli, infatti, sostiene di aver identificato alcuni ruderi appartenenti al tempio di Cerere, trovati esattamente nella zona del Bastione degli Infetti e sotto la via Botte dell’Acqua, e consolida la sua affermazione in base al fatto che in quel luogo furono trovate una iscrizione nella quale c’è inciso il nome di Demetra ed una statuetta di

4 Cerere. Per ciò che riguarda l’estensione si può dire che la città greca si sviluppava principalmente sull’altura di cui abbiamo parlato ed al centro della quale era l’Acropoli. A settentrione si estendeva sino al punto in cui i Romani costruirono poi l’anfiteatro, mentre a sud arrivava fino all’odierna via Garibaldi e ad oriente fino a quel punto in cui oggi c’è la via Etnea. Proprio lungo questo versante scorreva prima il fiume Amenano. La storia di Catania si può suddividere, grosso modo, in due grandi periodi, quello antico, concernente il Medioevo ed il moderno, riguardante la città Settecentesca. La separazione di questi periodi, reca una data ben precisa: l’11 gennaio del 1693, alle ore 14 circa, allorquando il terribile terremoto rase al suolo quasi l’intera Sicilia orientale, provocando la morte di 60.000 anime, la distruzione totale della città di Catania e la consistente perdita del patrimonio, inteso in termini di palazzi barocchi e monumenti più rappresentativi. Il decorso storico della città risulta essere molto articolato e complesso, poiché sul suo territorio, durante i secoli, si sono susseguiti molteplici popoli: Greci, Calcidesi, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Sabaudi, Austriaci e Borboni ed ognuno di essi ha lasciato in eredità lingua, usi, costumi, cultura, religione e storia. Nel tempo i nomi attribuiti alla città, si sono alternati, passando dal primo Katna, al Kata-Ana, poi Katàne, Kata-Aitnen, l’arabo Quataniyah, quindi, Katane, Etna o Càtina, Balad-El-Fil o Medina-El Fil, infine, l’attuale Catania. Oggi risulta particolarmente difficile comprendere la estensione urbana della città, di certo il cuore pulsante era costituito dall’Acropoli, la zona più alta, cioè la collina di Montevergine, ancor oggi visibile nella rampa di via Antonio di Sangiuliano. Già dall’VIII secolo a.C. l’odierna area ove è ubicato il Monastero dei Benedettini, fino giungere presso il Reclusorio della Purità, fu sede di dei primi nuclei abitativi dei coloni greci. Qui gli scavi (in quelli che un tempo erano gli orti del Reclusorio settecentesco), per la realizzazione di due aule universitarie, hanno

5 riportato alla luce una articolata stratificazione archeologica, di una antichissima fortificazione greca. Un tempo su questo vasto pianoro sorgevano abitazioni private ed edifici sacri, persino un tempio in onore del dio Apollo. L’intera Acropoli fu frequentata ininterrottamente per parecchi secoli, già all’indomani della conquista romana, allorquando furono avviati lavori edilizi per costruire, sopra gli edifici più remoti, lussuose abitazioni private, impianti termali e pubbliche fontane, trasformando l’Acropoli di Monte Vergine nel quartiere residenziale della romana. Dette abitazioni risultavano dotate di raffinate pitture con motivi geometrici e floreali alle pareti (ad affresco, simili a quelle scoperte ad Ostia ed a Pompei), a riprodurre tavole imbandite con drappi di stoffa e candelabri sontuosi. Questi edifici, a causa della caduta di copiosa cenere vulcanica, nella prima metà del II secolo a.C. subirono gravi distruzioni, tracce dell’evento, da Cicerone paragonato alla catastrofe di Pompei, sono state individuate nelle sezioni terrose di suddetto Reclusorio. Catania, tuttavia, alcuni anni dopo, risorse completamente, per diventare sotto il dominio dei primi Imperatori romani, una fra le più importanti città del Mediterraneo, infatti, oltre alla ricostruzione degli edifici più importanti, furono costruiti l’Anfiteatro, l’Odeon ed il teatro romano, ripristinato l’intero sistema viario, tracciato dai Greci. Testimonianza di tale ricchezza risulta evidente nelle Domus imperiali, scoperte nell’area di Piazza Dante, dello stesso Reclusorio della Purità, sotto la scalinata Alessi di Via Crociferi. Sotto la fondamenta del Monastero dei Benedettini è stata riportata alla luce una Domus, villa con peristilio, cioè con un portico colonnato, che in origine circondava un giardino, mentre i corridoi esterni e le molte salette, che si aprivano lungo il percorso, risultano rifinite con motivi geometrici, mentre i pavimenti sono costituiti da scaglie marmoree policrome. Sempre in epoca imperiale viene datato il complesso romano di via Crociferi, si tratta di una costruzione situata sulle pendici dell’Acropoli, costituita da alcuni ambienti, le cui pareti sono movimentate da nicchie decorate ad affresco, in alcuni

6 casi, onde proteggerli dall’umidità, proveniente dal passaggio del vicino acquedotto benedettino, foderate da lastre di marmo. Anche in questa Domus sono stati scoperti splendidi mosaici a pavimento, una fontana, persino raffinate sculture. Da tutto ciò è facile notare come Catania imperiale presentasse edifici eleganti, di certo appartenuti a ricchi esponenti della società romana dedita alle attività di scambio commerciale e marittimo. E non è certamente un caso che la città presentasse lungo la sua costa forse i più grandi scali portuali (villa Pacini, San Giovanni li Cuti ed Ognina) che, ancor prima dell’età imperiale, vigesse ana tassa portuale imposta a tutte le imbarcazioni di passaggio. Dopo più di venti secoli, i dati archeologici sembrano confermare l’impressione che già ebbe Cicerone nei riguardi di Catania, cioè quella di una città molto ricca e fiorente. Le scoperte sulla Catania sepolta non si fermano sicuramente all’età greco romana: tutta una serie di scavi ci illuminano sulla sua storia paleocristiana sino all’epoca bizantina. Una scoperta casuale si ebbe, tempo addietro, in via Androne (archeologicamente una delle arterie più interessanti) durante la costruzione di un edificio privato. In quella occasione venne alla luce un mosaico appartenente ad un’antica costruzione ma che non è possibile datare in quanto lo scavo si limitava ad una trincea. Secondo gli studiosi, il fabbricato, del quale venne trovato il pavimento limitato da un corridoio con le pareti a grandi blocchi di pietra da taglio accuratamente lavorati, poteva essere una chiesetta cristiana del primo periodo (IV secolo) dato che accanto alla trincea apparivano sepolcri di quell’epoca costruiti con la medesima pietra. Il Teatro di Catania è romano, tuttavia, al suo interno un poderoso muro risulta di età greca, esattamente del V secolo a.C., per cui, si evince che Catania ha avuto un teatro, già in età greca. Il Teatro ed il santuario di Demetra possono considerarsi due punti fermi nella topografia di Catania. Nel 1978, scavi eseguiti presso il Monastero dei Benedettini di piazza Dante, che occupa la parte più alta della città, corrispondente alla Acropoli greca.

7 UNA CITTA’, IL SUO NOME Cicerone la chiamò Catina, gli Arabi la soprannominarono “Katine”. Il suo nome si incontra in ogni pagina degli antichi fasti di Sicilia. La sua origine rimonta sin dai tempi dei Fenici, come ci è dal Bochart e molti secoli dopo fu abitata dai Calcidesi, i quali furono poi sconfitti da Gerone. Gerone volle poi che si nominasse Etna e non più Catania. Conclusa la pace coi Cartaginesi, Timoleonte (Timoleone siceliota) assediò Catania. Cesare Augusto, primo imperatore romano la fece poi restaurare dei danni sofferti nelle guerre civili, quindi, i suoi abitanti accrebbero di numero più dì ogni altra città siciliana. Svariate sono state le vicende di Catania e sarebbe lungo narrarle. Catania rappresentò una delle più belle città della Sicilia, capoluogo di provincia, la più singolare di tutta la Sicilia, è una nuova città, che rassomiglia a Napoli, ma dieci volte più estesa; entrambe ai piedi di un vulcano, in riva al mare, innalzate sopra vari strati di lava, che ogni istante temono una medesima triste sorte. Questa città venne infatti più volte rovesciata dai (tremori e ricoperta dalle lave vomitate dall’Etna, ma sempre risorse con maggiore magnificenza. L’ultima rovina avvenne durante il 1693; fu allora ridotta in un cumulo di macerie; vent’anni dopo venne riedificata come oggi la si può ammirare, cioè sopra un regolare disegno, con rette e larghe vie, con piazze simmetriche, adorne di fontane. Il Vacanini fu l’architetto di questa moderna città, unitamente ad un cappuccino soprannominato Frà Liberato (arch. Girolamo Palazzotto), il quale ne disegnò le strade in modo che il sole vi potesse sempre dominare. La città cominciò veramente a risorgere soltanto nel 1740 e le case sarebbero magnifiche, se l’architettura non fosse detestabile; ciò nonostante è una delle più belle città di Europa, quantunque le case tutte siano di un solo piano, onde meglio resistere ai frequenti tremori presso i luoghi che stanno ai piedi del terribile Mongibello.

8 Da Cicerone fu menzionato il tempio di Cerere, il quale era molto famoso presso i Siciliani, per cui, fu oggetto delle rapine di Verre, infine, venne restaurato dall’imperatore romano Cesare Augusto. Vi si possono inoltre riscontrare considerevoli tracce di manufatti dedicati alla dea Cibele (Grande Madre), a Vulcano ed alla dea Leucotea (divinità delle acque). Fu patria di molti sommi ingegni, tra i quali Vito Amici, antiquario del XVIII secolo, e dell’illustre principe Ignazio Biscari, il cui museo fornì una delle primarie curiosità di Catania, ed il suo grandioso palazzo è ancor oggi ridondante di bellezze delle arti antiche e moderne, raccolte dal sommo mecenate, il quale maggiormente si interessò a dissotterrare gli anzidetti antichi monumenti.

LA CITTA’ SVELATA - KATANE All’interno della città antica sono ancora numerose e discretamente conservate le vestigia del passato, tuttavia, sebbene la storia della Catania greca occupi ben cinque secoli, i principali monumenti visibili in città, si riferiscono alla Catania romana, che si impiantò su di essa. Del periodo bizantino rimangono invece i ruderi di alcune chiese a pianta greca, realizzate quando la Sicilia faceva parte dell’Impero greco bizantino. Alcuni secoli dopo il primo grande moto colonizzatore greco, durante il quale furono fondate parecchie città sulle coste dell’Asia Minore, ebbe inizio una seconda imponente ondata migratoria che si diresse verso l’Europa e la Sicilia. Il luogo prescelto per la città di Catania fu sulle pendici dell’Etna, più precisamente sulla collina di Montevergine. In quell’epoca la città svolgeva un ruolo subalterno, sia politicamente, che economicamente, rispetto a Naxos e Lentini, militarmente più forti. Katane, secondo lo storico e letterato ateniese Tucidite, fu fondata nel 729 a.C., dagli stessi calcidesi di Naxos (Calcide era un’isola di fronte l’Attica, regione dell’antica Grecia, verso l’Egeo). Il sito della nuova città presentava condizioni

9 ottimali per uno stanziamento, una posizione protetta all’interno di un porto ed una fertilità della terra, che veniva bagnata dal suo fiume misterioso: Amenano. La Piana di Catania, con la sua grande estensione di terreni coltivati, tuttavia, non rientrava ancora tra le ricchezze della colonia greca in quanto possedimento della città greca di Leontinoi, l’odierna Lentini. L’età romana fu senz’altro molto più rappresentata anche dal punto di vista archeologico e monumentale, infatti, in città esistevano vari edifici termali di età repubblicana ed imperiale che testimoniano la copiosità della ricchezza idrica catanese. Prima dell’eruzione del 1669, che trasformò la natura stessa del territorio catanese, i dintorni della città erano coltivati in maniera intensiva. Con l’arrivo dei Normanni le caratteristiche urbane della città si fecero più chiare, il Duomo divenne cuore della piazza, strategicamente localizzata vicino al porto (un tempo il mare entrava fino in città, attraverso la zona di Villa Pacini), onde facilitare gli scambi commerciali, mentre la posizione strategica, ove fu costruito il Castello ursino, consentiva il controllo sul porto ed allo stesso tempo, sulla pianura a sulla città. Con il terremoto del 1693 Catania fu costretta a confrontarsi con una immane tragedia, che ne mutò l’immagine e lo stile di vita. Si fece a gara per costruire chiese, monasteri, ville urbane, palazzi pubblici e privati, vennero innalzate fontane ed archi di trionfo, tutti nel caratteristico ispirato ai modelli medievali, con l’alternanza della pietra bianca e la pietra nera dell’Etna. Grandi architetti come Giovanni Battista Vaccarini, Stefano Ittar, Francesco Battaglia, Angelo Italia, Girolamo Palazzotto, Giuseppe Longobardo, Alonzo di Benedetto, si alternarono e si impegnarono alacremente per costruire in città il miglior barocco di quel periodo fecondo, utilizzando le ingenti economie che erano state stanziate per la ricostruzione in grande stile (più bella ed appariscente della prima) della novella Catania.

1 Tra il Settecento e l’Ottocento, ogni uomo di cultura europeo che si rispettasse, doveva aver compiuto almeno un viaggio in Italia, paese assai ricco di storia, di testimonianze del passato, di tradizioni, di arte, di cultura e letteratura. In tal senso il “Gand Tour” ha rappresentato come una vera e propria rassegna, da parte di illustri, emeriti personaggi, delle località più belle e rappresentative d’Italia. Nella seconda metà del XVIII secolo, allorquando l’Etna e Catania si inserirono nell’itinerario del “Gand Tour”, il principe Ignazio Biscari era l’esponente di maggior spicco dell’élite catanese ed è intorno alla sua illustre persona, massone ed animatrice di una attività archeologica ad ampio raggio, che si raggruppava a Catania una intellighenzia europea. Durante il periodo arcaico, la città godeva completa autonomia e vissuto intensamente sia politicamente, che intellettualmente. All’inizio del VI a.C. ha adottato un codice di legge redatto dal giurista siceliota, Caronda. Dai primi anni del V secolo a.C. la città fu sotto il controllo siracusano; nel 475 a.C. Ierone invase, espulsi i Calcidesi e ripopolò la città con 10.000 comunità ed il nome della città fu cambiato in Aitne. I Calcidesi ritornarono nel 461 a.C.. Nel corso della spedizione in Sicilia la città ha favorito gli Ateniesi. E’ stata occupata da Dionisio nel 403 ed è rimasta nella sfera della politica di Siracusa. Fu conquistata dai Romani nel 263 a.C. In tutto il secolo 2° e 1° a.C. fu Decumana civitas; divenne colonia romana sotto Ottaviano e progressivamente acquisito una importanza che ha mantenuto fino al periodo bizantino. All’inizio della guerra contro i Goti fu invasa da Belisario. La prima colonia greca deve essere risolta sulla collina che è sempre rimasta acropoli della città, attualmente occupata dal monastero benedettino. L’area ha restituito frammenti corinzie prototipi leggero ritardo rispetto alla data di fondazione.

1 Nel 1959 la possibilità di ritrovare ha portato alla scoperta fortunata di un ricco deposito votivo ai piedi del versante Sud dell’acropoli, nella Piazza San Francesco; il deposito è stato probabilmente collegato con un santuario di Demetra. Durante il periodo romano la città doveva essere ampliata considerevolmente verso Sud ed Est nella pianura. I principali monumenti civili appartengono a questa fase. Il teatro, che insieme alla vicina Odeon poggia contro il pendio Sud della collina dell’Acropoli, è stato recentemente eliminato delle strutture moderne che affollavano sopra la cavea e l’area dell’edificio palco. Della costruzione originale greca solo una grande parete rimane sotto il livello della cavea; le parti esistenti della data di costruzione di epoca romana. La cavea risulta divisa in nove cunei per mezzo di otto scale e la sua parte inferiore si appoggia contro il pendio della collina, mentre la parte superiore è sostenuta da tre corridoi concentrici che danno accesso ai sedili; il corridoio superiore si apre verso l’esterno in un portico a pilastri. La cavea, costruita in piccoli blocchi di lava, è supportata da una struttura che poggia su 18 pareti radiali inclinate verso l’interno dell’edificio e collegate tra loro da una serie di volte a botte; due scale dividono l’auditorium in tre cunei. I muri radiali formano 17 unità di apertura verso l’esterno. L’edificio, rivestito da blocchi di lava, è stata coronato da una semplice cornice. Sul versante N/Est della collina dell’acropoli e separata da uno stretto passaggio era l’anfiteatro; la sua fine Nord è parzialmente visibile in Piazza Stesicoro, mentre a Sud i suoi corridoi si trovano sotto le fondamenta di edifici moderni. La parte conservata dell’ anfiteatro è costruita su due corridoi concentrici collegati da corridoi radiali. Ci sono numerosi resti delle terme. Sotto la cattedrale alcune unità delle Terme Achilliane sono ancora visibili, le loro volte finemente decorate con rilievi in stucco; una grande sala quadrata sorretta da quattro pilastri e fiancheggiata da un

1 corridoio è ancora conservata; l’edificio continua sotto il livello dell’attuale piazza Duomo. Non lontano da lì, altri bagni (Terme dell’Indirizzo) in Piazza Santi Currò (dedicata al primario chirurgico dell’ospedale San Luigi), con circa 15 unità, grandi e piccoli, sono conservati fino alla loro altezza originale compresi i soffitti a volta. Sulla collina dell’Acropoli, a Nord del teatro, si possono vedere le Terme della Rotonda, così chiamate per via di una grande sala circolare, che è stata poi trasformata in chiesa cristiana. Ad altro complesso termale appartengono i resti di sette stanze in Piazza Dante, di fronte al monastero dei Benedettini. Una tomba sotterranea con resti di inumazione e la cremazione può essere visto anche in Via Antico Corso, dove viene incorporato in una stanza del palazzo eretto dall’Istituto delle Case Popolari.

FONDAZIONE DELLA CITTA’ Secondo Tucidide, i catanesi nominarono ecista Evarco, uno degli storici fondatori della colonia greca di Catania. Nel periodo della colonizzazione greca, ecista era colui che, alla testa di un gruppo di cittadini, partiva dalla propria città per recarsi a fondare una colonia in terra straniera. Non si hanno notizie in merito, fino al V secolo a.C., allorquando fu conquistata da Ippocrate di Gela. Con l’avvento al potere di Gerone I, Catania (i cui abitanti furono deportati ad Inessa (localizzata probabilmente fra Paternò o Santa Maria di Licodia) ed il cui nome fu cambiato in Aitna) passò a Siracusa e poi ottenne una certa autonomia quando venne assegnata a Dinomene il Vecchio, figlio di Gerone. Dopo un breve passaggio sotto il dominio di Ducezio, Re dei Siculi, che riportò in patria i catanesi originari, Catania tornò sotto il dominio diretto di Siracusa. Gli abitanti furono dispersi nel 403 a.C. da Dionisio I di Siracusa, che la ripopolò di mercenari campani.

1 Dopo la disastrosa eruzione del 1669, scomparvero i mostri, il cono eruttivo si distanziò dall’Etna, riapparve così la città cinta da mura del Braun e Hogenberg, o mura di Carlo V, anche se rimpicciolita rispetto al territorio circostante, ma quel che più conta è che la lava non dilagò più dappertutto, ma lambì le mura, penetrando all’interno del Monastero dei Benedettini, circondando il Castello Ursino, per cui non fu più una visione apocalittica della città. Fra il 404 ed il 402 a.C., sotto la tirannia di Timoleonte, politico e militare siceliota (Greci di Sicilia), Catania fu ripopolata con mercenari campani ed ebbe il suo tirannello, chiamato Mamerco, di origine sabellica, cioè dell’Italia centrale, l’ultimo di cui si abbia notizia. La venuta dei Greci in Sicilia fu conseguenza di una crisi creata da degenerazione della situazione politica di ordine economico. Quello della Grecia era un territorio montuoso, povero di pianure coltivabili. Era quindi conseguente la ricerca di terre fertili coma la Sicilia, migrarono così a piccoli gruppi, importando usi e costumi letterari di popoli variegati come calcidesi, doriche o ioniche. L’arrivo dei coloni greci, intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., segnò comunque un punto di svolta e il vero e proprio inizio della storia della città. Ma, se del successivo periodo romano restano tracce di grande valore architettonico (i teatri e le terme soprattutto), del periodo greco quasi nulla è rimasto in vista, per cui, a parte qualche toponimo di strada, poco e niente rimane nella memoria storica dei catanesi, già debole per conto suo. Di particolare interesse i numerosissimi materiali votivi (oltre 12.000 quelli già catalogati), ritrovati casualmente nel 1959, in un deposito (stipe) sottostante il piano stradale posto tra la chiesa di s. Francesco, nella piazza omonima, e la statua dedicata al cardinale Dusmet. Secondo gli studiosi si tratta di materiali databili fra il VII e il IV secolo a. C e pertinenti ad un importante santuario dedicato alla dea Demetra/Cerere ed alla figlia

1 Kore che doveva sorgere nelle immediate vicinanze, risalendo lungo l’attuale via Crociferi. Di questo edificio fino ad allora si aveva una prova solo per la scoperta di un bassorilievo che era stato rinvenuto in zona nel 1939. Oltre alle informazioni sulla vita religiosa della città, questi materiali offrono una eccezionale documentazione sulle attività artigianali e sulle tecniche di fabbricazione legate alla produzione di questi oggetti, che pongono Catania ad un livello non molto distante da quello dell’allora più importante Siracusa. Da un’altra sezione dedicata alle monete, scopriamo che Catania, a partire dalla metà del V secolo a. C, fu dotata di una sua zecca capace di coniare monete di ottima fattura artistica e di grande bellezza. Sono alcune di quelle poche (solo 23) che sono state incamerate dallo Stato delle 309 rinvenute in un vaso rinvenuto nel 1923 dalle parti di Ognina. Sotto i Romani la città decrebbe di importanza, assumendo con altre sei città il titolo qualificante di Colonia, cioè sede veterana di romani e cittadini locali integrati, che partecipavano ai diritti giuridici e civili degli stessi romani. Nei secoli imperiali Catania, ribattezzata il latino Catina, godette d’una certa prosperità, come attestano fonti letterarie ed archeologiche. La lingua parlata più diffusamente, comunque restava il greco, come dimostrano anche le epigrafi funerarie cristiane, ritrovate nelle catacombe. Anche in epoca cristiana le tracce di storia catanese sono soprattutto di natura onomastica e si annoverano precocemente i nomi dei martiri Agata ed Euplio, assieme alla piccola Julia Florentina. Coi Bizantini si moltiplicarono le Chiese: dei Quaranta Martiri, Santo Stefano, Sant’Elia, San Costantino, Sant’Agata la Vetere e del greco San Pantaleone. Durante il Medioevo il nome della città è stato alterato rispetto alla tradizionale Catania e si chiamò Tetrapolis, cioè città di quattro quartieri autosufficienti: Dimeteria (zona Piazza Dante, derivato dal nome della Dea Demetra); Lunada, da un tempio alla Luna o dal Forum lunare, il mercato; Civitas,

1 ossia il quartiere dei ricchi, verso il mare; Etnapolis, la parte nuova, fatta costruire dal tiranno Gerone, che attribuì alla città il vecchio titolo di Tetrapoli, descritta come un corpo di Aquila che stendeva la sua ala destra nei borghi di ponente, la sinistra nell’arco del porto, con le sue tredici torri, la testa nel colle di Santa Sofia, dove un tempo era il palazzo di Cerere (retaggio del paganesimo), che aveva come corona l’Etna fumante. Il nome Tetrapoli le fu attribuito per via del fatto che abbracciava ben quattro regioni, delle quali ciascuna prendeva forma di città e tutte insieme la rendevano non divisa, bensì, congiunta. Durante il periodo di dominazione Aragonese (1282-1412), Catania è stata persino capitale del Regno di Sicilia, mentre re fu proclamato Federico III, incoronato al Duomo, dove risulta tuttora seppellito, mentre la consorte Eleonora d’Angiò riposa presso la chiesa di San Francesco d’Assisi. Catania, in lusso e costumi definiti “molli” non era seconda ad alcuna città nell’Impero Romano. La ostentata ricchezza dei suoi abitanti è ancora oggi palesata dalla presenza di una elevatissima concentrazione di grandi strutture adibite alla vita quotidiana, al culto dell’aldilà ed agli spettacoli, segno di evidente interesse allo svago dei cittadini.

LE ANTICHE VESTIGIA All’interno della città antica sono ancora numerose e discretamente conservate le vestigia del passato, anche se di nostro ci abbiamo messo poco o nulla. Sebbene la storia della Catania greca occupi ben cinque secoli, i principali monumenti visibili in città, si riferiscono alla Catania romana, che si impiantò su di essa. Del periodo bizantino rimangono invece i ruderi di alcune chiese a pianta greca, realizzate quando la Sicilia faceva parte dell’Impero greco bizantino. Alcuni secoli dopo il primo grande moto colonizzatore greco, durante il quale furono fondate parecchie città sulle coste dell’Asia Minore, ebbe inizio una seconda imponente ondata migratoria che si diresse verso l’Europa e la Sicilia.

1 Il luogo prescelto per la città di Catania fu sulle pendici dell’Etna, più precisamente sulla collina di Montevergine. In quell’epoca la città svolgeva un ruolo subalterno, sia politicamente, che economicamente, rispetto a Naxos e Lentini, militarmente più forti. Katane, secondo lo storico e letterato ateniese Tucidite, fu fondata nel 729 a.C., dagli stessi calcidesi di Naxos (Calcide era un’isola di fronte l’Attica, regione dell’antica Grecia, verso l’Egeo). Il sito della nuova città presentava condizioni ottimali per uno stanziamento, una posizione protetta all’interno di un porto ed una fertilità della terra, che veniva bagnata dal suo fiume misterioso: Amenano. La Piana di Catania, con la sua grande estensione di terreni coltivati, tuttavia, non rientrava ancora tra le ricchezze della colonia greca in quanto possedimento della città greca di Leontinoi, l’odierna Lentini. L’età romana fu senz’altro molto più rappresentata anche dal punto di vista archeologico e monumentale, infatti, in città esistevano vari edifici termali di età repubblicana ed imperiale che testimoniano la copiosità della ricchezza idrica catanese. Prima dell’eruzione del 1669, che trasformò la natura stessa del territorio catanese, i dintorni della città erano coltivati in maniera intensiva. Con l’arrivo dei Normanni le caratteristiche urbane della città si fecero più chiare, il Duomo divenne cuore della piazza, strategicamente localizzata vicino al porto (un tempo il mare entrava fino in città, attraverso la zona di Villa Pacini), onde facilitare gli scambi commerciali, mentre la posizione strategica, ove fu costruito il Castello ursino, consentiva il controllo sul porto ed allo stesso tempo, sulla pianura a sulla città. Con il terremoto del 1693 Catania fu costretta a confrontarsi con una immane tragedia, che ne mutò l’immagine e lo stile di vita. Si fece così a gara per costruire chiese, monasteri, ville urbane, palazzi pubblici e privati, vennero innalzate fontane ed archi di trionfo, tutti nel caratteristico ispirato ai modelli medievali, con l’alternanza della pietra bianca e la pietra nera dell’Etna.

1 RIFERIMENTI COL CULTO EGIZIO Cicerone fa riferimento ad un Serapeo a Siracusa ma prima di quell’età (70 a.C.), le testimonianze relative a forme di rapporto intrattenute dalla Sicilia antica con l’Egitto sono estremamente labili. Sappiamo dallo storico romano Giustino che una congiunta del Re macedone Tolomeo Sotéer, la giovane principessa d’Egitto, Teossena (moglie del tiranno di Siracusa Agatocle), probabilmente attorno al 306 a.C., andò sposa al tiranno di Siracusa, Agatocle, che la rimandò in Egitto con i figli nati dal matrimonio, prima introduzione ufficiale di culti egizi in Sicilia, a Siracusa ed a Catania. Altri preferiscono far più solido conto della politica decisamente filoegiziana attuata da Ierone. L’emissione di monete raffiguranti Serapide ed Iside non lascia dubbi sull’instaurazione di un culto pubblico a Siracusa sin dagli inizi della dominazione romana (fine del III - inizi del II sec. a.C.). A Siracusa, Tauromenium, probabilmente Catania e forse anche a Messina, sorsero Serapei in cui si tributava culto e devozione agli dei egizi Una statuetta di Iside è stata rinvenuta nella necropoli di San Placido, un “ushabti”, si tratta di una statuetta, elemento integrante ed indispensabile del corredo funebre in uso dal Medio Regno, che doveva magicamente risparmiare al defunto i lavori pesanti nell’Al di là, assumendone l’onere. Lo storico siciliano dell’antichità, Emanuele Ciaceri (1905) ha visto nelle processioni di Sant’Agata, patrona di Catania, sopravvivenze di moduli isiaci (alcuni particolari della mascheratura e del comportamento dei partecipanti al rito ricorderebbero il navigum, nella descrizione fattane dallo storico e scrittore Pietro Carrera nel 1639). Si è spesso parlato di una presunta conversione cristiana del culto di Iside (di cui esistono attestazioni nella Catania antica), il cui prodotto sarebbe proprio il culto di Agata con annessi e connessi (processione, fercolo, cordoni, sacco). Si è tanto

1 parlato anche della possibilità di rivivere la festa di Sant’Agata in opere come “L’asino d’oro” di Lucio Apuleio, scrittore, sacerdote, filosofo e mago romano di scuola platonica. Considerando che l’opera di Apuleio risale al II secolo e la vicenda del presunto martirio di Sant'Agata si collocherebbe alla metà del III, forse sarebbe meglio dire che potremmo rivivere la processione di Iside nella festa di Sant’Agata. Il culto di Iside, dea della fertilità, in Sicilia ebbe inizio allorquando la dea venne identificata con la tanto celebrata Proserpina. Tale identificazione era comune allora; Apuleio afferma esplicitamente che i Siculi chiamavano Iside la Dea Proserpina. Il culto alessandrino fiorisce pertanto in Sicilia nei primi secoli dell’età cristiana e, come altrove, rappresenta un periodo di transizione fra il morente paganesimo e il cristianesimo trionfante. Si è in un tempo in cui comincia già a prevalere il misticismo, che spinge gli spiriti ad elevarsi verso il cielo e quasi annientarsi nella contemplazione di un’unica divinità.

SOTTO IL DOMINIO BIZANTINO Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, l’impero bizantino cercò di riconquistare la parte occidentale dei territori romani caduti nelle mani dei barbari. Sotto l’ambiziosa figura dell’Imperatore Giustiniano, tali progetti furono effettivamente concretizzati. I Bizantini scelsero di iniziare la guerra della Sicilia che, per la sua posizione e per la sua ricchezza di grano, costituiva un fondamentale caposaldo nell’opera di conquista della penisola italiana. La lunga ed estenuante riconquista terminò solo nel 555 d.C; Catania, entrata definitivamente nell’orbita bizantina nei secoli VI e VII, dimostrò una certa vitalità economica, mostrando anche un aspetto multiculturale: generalmente di religione cristiana, aveva al suo interno anche comunità di religione ebraica e pagana.

1 L’impero di Costantinopoli aveva il suo cuore pulsante nel Mediterraneo orientale e pertanto in Sicilia si sviluppò particolarmente la costa ionica, geograficamente rivolta verso la zona di maggiore interesse politico ed economico. La città di Catania seguì la sorte della Sicilia e dell’Italia che caddero prima nelle mani del re degli Eruli Odoacre e poi del re degli Ostrogoti Teodorico, il quale nel suo lungo regno attivò un vasto programma di rinnovamento edilizio. Considerati però gli scarsi mezzi economici disponibili, il nuovo re autorizzo il riutilizzo, come materiale da costruzione, delle pietre ben squadrate che costituivano i monumenti romani ormai non più utilizzati da tanto tempo. A Catania furono realizzate molte nuove costruzioni, sia private sia pubbliche, e anche chiese dalla tipica pianta greca. Successivamente l’impero, gravato dall’incessante pressione araba, non ebbe la forza di contrastare l’imponente esercito che, partito dalla Tunisia, sbarcò in Sicilia nell’827. Nonostante l’estrema difesa delle città siciliane, la conquista araba dell’isola fu inevitabile e l’impero fu costretto a cedere i territori d'occidente. I nuovi conquistatori cambiarono il nome di Catania in Balad el Fil (città dell’elefante). Durante il tardo periodo imperiale (bizantino), secondo il poeta romano Ausonio, Catania, rispetto alle altre città siciliane non era decaduta, anzi, la sua economia era florida. I tre secoli di dominazione bizantina in Sicilia possono dividersi in tre periodi di eguale lunghezza. Il primo va dal 560 al 580 e comprende la conquista dell’isola, strenuamente contesa dai Goti, il secondo è il più pacifico e va dal 580 al 680, il terzo va dal 680 all’ 824 ed è caratterizzato da ripetute invasioni musulmane, terminate con la definitiva conquista da parte degli Arabi. Nel primo periodo, da Catania ebbe inizio, data la sua posizione e la facilità della conquista, l’assoggettamento della Sicilia, da parte dei Bizantini che, in lotta con i Goti, con a capo il generale bizantino Narsete (eunuco), volevano farne una piazzaforte dell’Impero.

2 Nel secondo periodo, grande autorità godette Gregorio Magno, poi divenuto pontefice, il quale dovette restaurare la disciplina ed amministrare i beni della Chiesa romana in Sicilia. Egli ebbe più volte ad accennare a spiacevoli fatti avvenuti a Catania, come per esempio alla persecuzione che i Samarei (non erano samaritani, ma ebrei), facevano a danno dei Pagani. Nel terzo periodo (fine VII secolo) vi furono le invasioni arabe ad intervalli e per ben 11 volte. Tuttavia se il nome di Catania non viene ricordato a proposito delle incursioni musulmane, ma per l’uccisione dell’Imperatore Romano Costantino I il Grande, da parte del turmarca (comandante bizantino) Eufemio da Messina, provocando, come detto, la definitiva venuta degli Arabi in Sicilia. In Sicilia, la lotta contro il paganesimo fu espressa soprattutto nel racconto della distruzione, compiuta da vescovo Leone II, detto il Taumaturgo (a tal proposito ricordiamo il mago Eliodoro), del tempio consacrato alle due grandi divinità muliebri, tanto venerate a Catania: Demetra e Core e non meraviglia il fatto che ancora nell’VIII secolo d.C. queste antichissime divinità pagane avessero tempio, simulacri ed adoratori. Tracce di necropoli esclusivamente bizantine finora non ne sono state individuate a Catania, tuttavia, è probabile che quel vasto cimitero di epoca classica che si estendeva per tutta la zona di Santa Maria di Gesù (selva) abbia seguitato ad accogliere sepolcri anche nell’epoca di cui ci si sta occupando. Nell’età bizantina Catania aveva una popolazione costituita principalmente da elementi latini e greci, questi ultimi così costituiti: rimasti sin dall’epoca ellenistica ed immigrati dall’età bizantina. Oltre alla convivenza di questi due popoli, in città c’erano anche Giudei, Siriani, i quali facevano la popolazione assai ricca e varia, molto apprezzata nei commerci, nella fiorente esportazione di grano, nello sbocco in mare del suo porto. Una delle più importati attività di Catania, fu rappresentata dalla zecca che fiorì durante l’impero di Flavio Tiberio Maurizio, a questa epoca risalgono i

2 decanummi ed i pentanumm (monete di bronzo), recanti il busto diademato del sovrano col globo crucigero, costituito da una sfera con in cima una croce. Detta zecca cessò di esistere nel 641. A Catania, in particolare, fonti storiche attestano che i cittadini usufruirono del permesso di sfruttare le pietre del grande anfiteatro. In quello stesso periodo, l’impero bizantino, diretto erede in oriente dell’impero romano (sebbene di cultura e lingua greca), avendo risolto temporaneamente i problemi sul fronte orientale, tese i propri sforzi economici e militari a riconquistare la parte occidentale dei territori romani caduti nelle mani dei barbari. Sotto l’ambiziosa figura dell’imperatore Giustiniano tali progetti furono effettivamente concretizzati. Sconfitto, infatti, velocemente il regno dei Vandali che aveva occupato la provincia romana d’Africa, le armate inviate dall’imperatore iniziarono la conquista dell’Italia. I Bizantini scelsero di iniziare la guerra dalla Sicilia, che per la sua posizione e per la sua ricchezza di grano costituiva un fondamentale caposaldo nell’opera di conquista della penisola italiana. Non a caso, quindi, nella lunga ed estenuante riconquista, che terminò solo nel 555 d.C., la città di Catania venne più volte persa e riconquistata dai due contrapposti eserciti. Entrata definitivamente nell’orbita bizantina, Catania dimostrò una certa vitalità economica mostrando anche un aspetto multiculturale, giacché al suo interno convivevano i greci discendenti dall’antica colonizzazione, romani, ebrei, ed i neo-arrivati greci dell’impero bizantino. Generalmente di religione cristiana, Catania aveva al suo interno anche numerose comunità di religione ebraica e, anche se in misura minore, di religione pagana. Anche all’interno dell’impero bizantino, così come era avvenuto in epoca romana, la città godette della sua invidiabile posizione geografica. L’impero di Costantinopoli aveva il suo cuore pulsante nel Mediterraneo orientale e pertanto in Sicilia si sviluppò particolarmente la costa ionica,

2 geograficamente rivolta proprio verso la zona di maggiore interesse politico ed economico. Sebbene in Sicilia la città egemone divenne ben presto Siracusa, Catania fu comunque un centro abitato di primo piano fra le città siciliane, tanto che in essa era attiva una zecca, che da sempre è indice di città opulenti e politicamente forti. A Catania, furono realizzate, in questo periodo, molte nuove costruzioni sia private che pubbliche, ed anche delle chiese dalla tipica pianta greca (cappella Bonajuto). Nell’VIII secolo le lotte iconoclaste, che avevano come oggetto del contendere il divieto di rappresentare le immagini sacre, scatenarono in tutto l’impero gravi tensioni. Le persecuzioni che ne scaturirono portarono a Catania al martirio dei vescovi catanesi Giacomo e Sabino.

CATANIA NELL’ORBITA BIZANTINA Bisanzio era il nome di una modesta colonia greca del VII secolo a.C., un millennio dopo fu scelta da Costantino a capitale dell’Impero Romano d’Oriente per la sua posizione strategica. Prese così il nome dell’imperatore romano (Costantinopoli), che l’ingrandì, fortificò, cinse di mura, dotandola di edifici pubblici, terme, mercati e chiese. Gli abitanti si chiamarono Romani, o meglio Romei , che gli Arabi abbreviarono in Rom. Bisanzio era compresa tra il Bosforo ad est, il Corno d’Oro a nord ed il mar di Marmara a sud, aveva mura talmente imponenti e massicce che la trasformarono in fortezza inespugnabile. All’Imperatore Giustiniano, poi, si deve la trasformazione dell’Impero da romano a bizantino, mentre la Sicilia venne conquistata ed annessa all’Impero d’Oriente, la Sicilia, dove l’elemento greco costituiva la maggioranza della popolazione, divenne il tema particolarmente fedele all’impero.

2 Allo stratega di Sicilia erano subordinate il Ducato di Calabria (Bruzio) e quello di Napoli, limitato al golfo di Gaeta, Napoli ed Amalfi. Allo stratega spettava soprattutto la difesa, salvaguardia e la concessione di privilegi. A provocare il distacco della Chiesa d’Oriente sul piano religioso, intervenne il basiliano San Leone III Isaurico (antica religione dell’Anatolia, oggi Turchia), il quale con la sua lotta al culto delle immagini, non era la distinzione nelle regioni bizantine, il predominio della Chiesa di Roma. Entrata definitivamente nell’orbita bizantina, Catania, nei secoli VI e VII, dimostrò una certa vitalità economica mostrando anche un aspetto multiculturale, giacché al suo interno convivevano i greci discendenti dall’antica colonizzazione, romani, ebrei, ed i neo-arrivati greci dell’impero bizantino. Generalmente di religione cristiana, Catania aveva al suo interno anche numerose comunità di religione ebraica e, anche se in misura minore, di religione pagana. Anche all’interno dell’impero bizantino, così come era avvenuto in epoca romana, la città godette della sua invidiabile posizione geografica. L’impero di Costantinopoli aveva il suo cuore pulsante nel Mediterraneo orientale e pertanto in Sicilia si sviluppò particolarmente la costa ionica, geograficamente rivolta proprio verso la zona di maggiore interesse politico ed economico. Sebbene in Sicilia la città egemone divenne ben presto Siracusa, Catania fu comunque un centro abitato di primo piano fra le città siciliane, tanto che in essa era attiva una zecca (fine VI, metà del VII sec.), che da sempre è indice di città opulenti e politicamente forti. A Catania, furono realizzate, in questo periodo, molte nuove costruzioni sia private che pubbliche, ed anche delle chiese dalla tipica pianta greca, come ad esempio la cappella Bonajuto. La religione ortodossa è una delle pietre miliari nella struttura culturale e politica dell'impero bizantino; un decreto imperiale del 380 che venne in seguito

2 posto in apertura del codice di Giustiniano considera “dementi e folli” chi non condivide la religione” che il Divino Apostolo Pietro trasmise ai romani”. Il significato d’ortodossia era “retta dottrina”, tutti i sudditi dell’impero non solo dovevano essere cristiani ma anche seguire un’unica dottrina: la minima deviazione da tale dottrina era considerata un’eresia. Un solo Dio, una sola religione un solo impero che, tramite l’imperatore doveva fare valere l’osservanza del vero credo. Viene per logica che non tutti i sudditi dell’impero erano cristiani ortodossi. Nel primo periodo bizantino i dissenzienti erano estremamente tanti, forse la maggioranza, tale numero diminuì nel periodo medio per divenire minimo in quello tardo. Il gruppo più consistente è costituito dai pagani di qualsiasi natura, i cristiani intorno al 400 erano la maggioranza nelle città tranne alcuni casi dove la popolazione rimase pagana ben oltre la conquista araba. La popolazione rimase pagana alle due estremità della scala sociale: da un lato i contadini dall’altro l’aristocrazia provinciale. Il paganesimo domina ancora i circoli intellettuali ed è parte essenziale della tradizione popolare. Il tempio d’Iside a File è chiuso solo nel 540. Ancora nel VII secolo la “Vita” del vescovo Leone di Catania segnala l’esistenza di una corrente pagana molto potente in Sicilia. La storia del passaggio dal paganesimo e cristianesimo è spesso accompagnato da oppressione e persecuzioni, da linciaggi come quello patito dall’antropologa greca Ipazia, da roghi di libri e di templi. La chiusura della scuola filosofica d’Atene da parte di Giustiniano nel 529 e le ultime persecuzioni non fanno sparire il paganesimo, spesso i culti sono praticati in privato e la conversione frettolosa d’ampie fasce di popolazione non può cambiare immediatamente radicate consuetudini e convenzioni. Il cristianesimo popolare ereditò e in parte razionalizzò un vasto corpus di superstizioni pagane, e alcune tradizioni pagane sopravvivono ancora nell’islam

2 popolare in Anatolia: i Dervisci ruotanti sono gli eredi dei sacerdoti di Cibele, i Galli, che danzavano vorticosamente prima di evirarsi in onore della dea. Un capitolo a parte meritano i Balcani dopo l’invasione slava, queste terre perse all’impero e al cristianesimo dovranno essere nuovamente evangelizzate dopo la riconquista e anche in queste terre il passaggio dal paganesimo al cristianesimo non sarà lineare e indolore.

DAI ROMANI AGLI ARABI E NORMANNI Ben poco sappiamo degli insediamenti umani nella media valle del Simeto durante la dominazione. Cicerone “nelle Verrine” ci dice che fra le città oppresse da Verre (politico e magistrato romano), c’era anche Imachara (allevamento cavalli arabi), limitrofa del territorio centuripino. Con probabilità potrebbe essere la città del Mendolito che cosa potrebbe essere stata riabilitata in età romana. A questa età comunque risale la base dell'arcata maggiore del ponte dei Saraceni che faceva parte della via frumentaria. Durante l'invasione gotica del V sec. d. C. visse nella vallata del Simeto una comunità di cristiani; Esiste infatti, incisa in questo periodo, l’epigrafe delle Favare presso le quali si riunivano clandestinamente i primi cristiani per praticare i loro culti. L’epigrafe reca i nomi di alcuni cristiani ( Paulenos, Eusebios ) con il simbolo cristiano di una palmetta e il verbo eufrantesan. Con il ritorno da Antiochia di San Birillo, molti nostri antenati abbracciarono la fede cristiana e i due templi che sorgevano sulle sponde del Simeto, uno dedicato a Marte e l’altro ad Ercole, furono convertiti in chiese cristiane. Nella Valle delle Muse, in contrada Pulichello, si edificò la chiesa di Santa Maria, in contrada Sciarone invece quella dedicata a Santa Domenica, Vergine e Martire: Nulla sappiamo di insediamenti umani durante l’età bizantina.

2 Durante l’invasione araba e la conseguente dominazione che durò due secoli ( 850 - 1070 ), i Saraceni si insediarono in questa fertile pianura che era la via che da Messina portava a attraverso la rocca araba di Troina. Proprio qui, nel 1040, ventimila arabi cercarono di sbarrare il passo al condottiero Giorgio Maniace che con un altrettanto numeroso esercito di cristiani, bizantini, siciliani, li sconfisse in un pianoro che venne in seguito chiamato Piano della Sconfitta da Saraceni e Maniace dai cristiani. Ritornando al nostro territorio, dobbiamo dire che alcune famiglie di Saraceni preferirono rimanere in questo luogo ridente e fertile che da essi prese il nome do "Casale", rispettando il culto cristiano che ivi si praticava e costruendo un ponte con arco gotico, il famoso Ponte dei Saraceni la cui base dell’arco maggiore, come abbiamo già detto, risaliva all’età romana. Detto ponte collegava i feudi del Mendolito e di Carcaci. ( Ricostruito in stile gotico ai tempi di Ruggero II ( 1101 - 1154 ), ebbe in seguito sostanziali rifacimenti nei secoli XVI e XVII ad opera di architetti palermitani ). In età normanna, nella località Simetia di Polichello, esisteva un villaggio di arabi cristianizzati. Un documento certo è l’atto di donazione stipulato il 15 maggio 1158 con l’arcivescovo G. Barense nel quale la contessa Adelasia, che aveva ereditato dal padre il territorio di Adernò, nell’istituire il Conservatorio delle Vergini sotto il nome di Santa Lucia, donava pure il Casale ove risiedevano ancora ventiquattro famiglie di Saraceni cristianizzati, denominati villani. In seguito il Casale fu abbandonato ma il culto di Santa Domenica rimase per molti secoli sostenuto fino al 1860 dal monastero di Santa Lucia. Nel terreno adiacente alla chiesa, si celebrava la festa campestre di Santa Domenica, durante la quale si svolgeva una fiera di bestiame nell'ultima settimana di agosto, in base a un Decreto Reale del 1826 di Francesco I°. Viandanti, bordonari e pastori, scendevano dai monti a svernare nella piana di Catania, sostavano e si rifocillavano in questo luogo ameno e ridente, facendo

2 donazioni di grano od altro, prima di partire, in cambio della Grazia concessa dalla martire di salvaguardare i loro armenti e le loro greggi. La venerazione della Santa si è protratta fino agli anni ‘60 di questo secolo. Oggi la festa non è più celebrata e non vi si tiene alcuna fiera.

CATANIA NELL’ETA’ IMPERIALE Catania all’età imperiale, data la scarsità di fonti ufficiali, occorre cercare di dare ordine, in un racconto coerente, una tradizione così lacunosa ed equivoca. Nella estrema rarefazione delle fonti letterarie, limitate spesso alla segnalazione di pochi eventi, scaglionati nel tempo, la storia della città in età imperiale è sostanzialmente scritta, tra i testi dello storico greco antico, Strabone e dello scrittore romano Plinio il Vecchio, da un lato e quello del poeta romano Ausonio, dall’altro, nella sontuosità dei suoi edifici pubblici, sopravvissuti a terremoti e ad invasioni laviche. Tra lo geografo e storico greco antico Strabone, il poeta latino Ausonio, lo scrittore Plinio il vecchio ed i resti dell’Anfiteatro, una continuità impressionante sembra caratterizzare la storia della Sicilia in genere e della città Etnea in particolare: cavalli, greggi, armenti, messi e vigneti, facevano di Catania una città ricca e di alto livello sulla costa, con una spiccata capacità di produrre giochi circensi di elevata qualità, che ne caratterizzavano l’immagine dalla tarda Repubblica alla tarda antichità. In effetti Catania sembra affacciarsi alle soglie dell’età imperiale, in una situazione favorevole e sembra corrispondere in pieno al modello di città romano imperiale, dotata di colonia e sembra che abbia goduto di una situazione favorevole, non soltanto sul piano costituzionale, ma anche su quello economico sociale. La valenza della notazione di Strabone su Catania, certamente si muove tutta sul piano economico, mentre sono escluse le considerazioni di carattere militare.

2 La sua osservazione confronta da un lato con l’apprezzamento di Cicerone per la ricchezza della città, dall’altro con i calcoli sulla popolazione urbana di Catania, basata sull’ampiezza del Teatro greco e dell’Anfiteatro romano.

CITTA’ DECUMANA La conquista romana del 263 a.C., aprì per Catania un periodo di circa sette secoli, durante il quale essa accrebbe notevolmente la sua importanza ed il proprio prestigio. L’inizio ufficiale della dominazione romana in Sicilia risale al 263 a.C., da quel momento i Sicelioti ritenendo potersi liberare dai Mamertini e dai Cartaginesi, si arresero ai consoli romani Manlio Valerio Massimo e Mario Otacilio Crasso, i quali, con forza di quarantamila soldati, attraversando lo stretto, occuparono isola. Dire quale sia stata la storia di Catania durante il periodo romano significherebbe ricostruire le complesse vicende di quel periodo, relativi agli imperatori, ai consoli ed ai proconsoli. Catania fu il frutto di una lenta assimilazione, piuttosto che il risultato di una drastica imposizione governativa. Catania fu una città decumana, cioè soggetta al pagamento delle decime, già in atto durante il governo di Dioniso I (vecchio tiranno di Siracusa) e dai Cartaginesi, piuttosto che da Gerone, fu innalzata da Augusto al rango di colonia romana. L’onore della decima imponeva a Catania di pagare in natura la decima parte del grano, del frumento, dell’orzo, del vino dell’olio e dei prodotti che produceva. Strettamente legato al problema dei rapporti tra Catania e Roma è quello dell’ordinamento interno della città, anche in questo caso i Romani, col pretesto di aiutare la città a prosperare, in realtà la gabbarono in maniera grossolana, infatti cercarono do soffocare ogni principio democratico per garantirsi contro ogni probabile agitazione. La città rifletteva l’ordinamento interno di Roma, così come avveniva nella capitale il governo era formato dal senato, il quale decretava e dal popolo che comandava attraverso i suoi rappresentanti, quindi, c’erano i questori che si

2 occupavano delle finanze comunali, a cui fu affidato il compito di custodire il tempio, dopo le ruberie del questore Gaio Verre, infine, i censori avevano l’incarico di tassare i cittadini di una imposta che andava a favore della città medesima. Della Catania imperiale, purtroppo, restano poche testimonianze, così come dell’impero di Augusto, mentre dell’imperatore caracalla si sa che estese il diritto di cittadinanza romana a tutti i liberi cittadini siciliani e di Adriano, il quale, in occasione dell’ispezione dell’impero, giunse a Catania e nel 126 d.C. si recò sull’Etna, evento celebrato mediante la coniazione di monete a ricordo. In quel tempo l’economia della città poggiava principalmente sul grano, coltivato alla piana di Catania, di cui, come scrisse Cicerone, a Roma si pagava la decima, poi c’era il vino, il legname per la costruzione delle navi, le lumache mangerecce dell’Etna, l’allevamento dei cavalli, di pecore per la produzione di una pregiatissima lana e la pesca (soprattutto) del gambero imperiale. La magnificenza monumentale della città, che il tempo ha parzialmente cancellato, così come la sua fitta rete stradale, sta a dimostrazione di quanta importanza rappresentasse la città di Catania per l’Impero Romano.

LA CITTA’ SEGRETA Non molti ne sono a conoscenza, in quanto pensata da sempre solo come città siciliana ai piedi di un vulcano da cui proteggersi, ma Catania non doveva proteggersi solo dal Mongibello, perché altri pericoli incombevano sulle sue spiagge, essendo città marinara, vulnerabile ai continui attacchi che provenivano via mare dal Medio Oriente. Così, per volere di Carlo V, si rese necessaria la sua difesa attraverso fortificazioni, mura, vedette e stratagemmi di segnalazioni. Era una città recintata, il cui accesso avveniva solo dalle sue porte. Tante altre città italiane furono fortificate per difendersi, con la differenza che queste hanno conservato i loro ruderi, mentre i nostri se li è letteralmente mangiati l’Etna nel 1669. Ecco quel che è rimasto, o meglio, tentare di far capire dove si trovavano.

3 C’è un mondo nascosto sotto la città. Un mondo che trasuda storia, coperto da altra storia. Catania nasconde un cuore archeologico spesso sconosciuto ma che vale la pena di scoprire, addentrandosi sotto la superficie dove si trovano le testimonianze delle vite precedenti di una città rinata più volte su se stessa, che si intrecciano con la città moderna. In via Etnea, proprio sotto La Rinascente, appena si scende di qualche piano, superato lo scarico merci, una porta introduce in un ambiente spoglio e piuttosto freddo, di cemento grezzo. Qui inizia uno spezzone della vastissima necropoli romana di Catania: è venuto alla luce oltre mezzo secolo fa, durante la costruzione dell’edificio. Le sepolture vuote si intervallano a tubature e pilastri delle fondamenta; in mezzo si apre un pozzo artesiano. Sulle pareti dei loculi, dove ancora resiste l’intonaco, si possono osservare tracce di colore giallo e rosso. Colpisce il contrasto tra queste pietre ed il cemento. Il ritrovamento risale agli anni ‘50, quando fu demolito il vecchio palazzo Spitaleri Trigona, danneggiato dai bombardamenti, e sostituito dallo stabile attuale: questo necessitava di piani molto interrati, anche per i pilastri delle fondamenta. Le tombe furono scoperte in quell’occasione, ma già nel 1928 se n’erano rinvenute altre durante la costruzione del vicino palazzo delle Poste. Il centro di Catania sorge quindi su un antico cimitero romano. Negli anni ’60, in epoca di speculazione edilizia, non erano rari episodi simili. Sotto la zona di via Dottor Consoli e via Androne, scavando altre fondamenta, fu dissotterrata un’altra grossa area sepolcrale, dove spiccava una piccola basilica. Il mosaico pavimentale è stato restaurato ed esposto al Castello Ursino, finché la ristrutturazione degli anni ’90 non ha costretto i costruttori a smontarlo per conservarlo in un deposito, dove si trova tutt’ora.

3 Il rinvenimento del mosaico riveste una certa importanza storica. Esso risale al V secolo d.C., al periodo dell’invasione dei Visigoti, denota tuttavia una forte disponibilità economica per l’ingaggio di artigiani qualificati, in un’epoca pur critica. Durante gli anni del boom edilizio la coscienza collettiva su questi fatti era scarsa. Del resto la prima legge sulla tutela dei beni archeologici risale al 1939. Tuttavia, proprio nella necropoli della Rinascente il professor Rizza procedette a operazioni di restauro. I ritrovamenti in viale Regina Margherita sono avvenuti sui terreni già di proprietà dei domenicani, espropriati dallo Stato unitario e poi acquistati dalle famiglie borghesi per costruirvi le famose ville liberty. Oggi, i beni sarebbero tutelati in modo ben più rigoroso, anche se nel caso di villa Modica i proprietari hanno sempre avuto la massima disponibilità verso la Soprintendenza in caso di sopralluoghi. Nell’insieme, la necropoli catanese si estende su tutta la zona a nord dell’anfiteatro e fuori dalle antiche mura, tra Palazzo Tezzano (dove altre sepolture romane sono emerse una ventina d’anni fa) e piazza Santa Maria di Gesù. Alcuni luoghi, come quello sotto le Poste, non sono oggi fruibili; altri stanno conoscendo diversi processi di valorizzazione.

LA STORIA Sebbene la storia di Catania greca occupò l’arco di cinque secoli, sono poche le testimonianze di questo periodo storico poiché, come detto precedentemente, la città romana si impiantò sulla preesistente greca. Probabilmente la città greca si estendeva fino all’attuale piazza Stesicoro, ciò lo si desume dalle testimonianze delle necropoli catanesi di epoca ellenistica poste poco fuori della città, cioè nelle aree archeologiche di via Dottor Consoli (basilica bizantina), del palazzo delle Poste (ipogeo di Sant’Euplio e di piazza Carlo Alberto (ritenuto erroneamente sepolcro di Stesicoro, oggi di Sant’Agata).

3 I confini della città seguivano gran parte dell’attuale via Plebiscito, mentre la presenza di mura non è mai stata accertata. Le testimonianze archeologiche hanno comunque individuato i principali quartieri della città, come L’Acropoli (zona alta della collina di Montevergine), mentre in quella bassa si trovava l’Agorà, che comprendeva il teatro ed il porto. A partire dal III secolo, inizia per la città il periodo romano, destinato a finire nel V secolo, con la caduta di Roma. Durante questo periodo si procedette con la costruzione di alcuni edifici termali, pubblici e privati (Terme della Rotonda), di lussuose case patrizie (Domus dei Benedettini di piazza Dante e di via Crociferi), e con l’ammodernamento del porto. Quello dell’Impero Romano fu il periodo di maggiore espansione della città, in cui furono realizzati il Foro, l’Anfiteatro, l’Odeon, il Circo, la Naumachia e numerose case lussuose, dotate di terme private. Nel medesimo periodo si diede mano all’aspetto urbanistico della città romana, dotandola di strade ed assi viari. Dopo un periodo di stasi ricominciò una nuova febbrile fase edilizia, che portò alla realizzazione di grandi edifici termali pubblici (Terme Achilliane e dell’Indirizzo), di case patrizie (Balneum di piazza Dante e piazza Sant’Antonio, di necropoli importanti (via Dottor Consoli). Alla fine dell’impero di Roma, Catania si estendeva complessivamente per circa 130 ettari sulla collina di Montevergine e sulle sue pendici orientali, collocandosi al sedicesimo posto, subito dopo Siracusa, tra le più importanti città romane. Dopo la conquista nel III secolo della Sicilia e della Magna Grecia, anche tra i Romani si diffuse la cultura del teatro. In genere i teatri romani veniva costruiti per intero, non addossati ad una collina, poiché tale soluzione, pur se dispendiosa, contentiva di scegliere l’ubicazione più opportuna per la struttura pubblica, senza essere vincolati alla morfologia del luogo. Inoltre i teatri romani erano muniti di un fronte scenico permanente, realizzato con blocchi di pietra lapidea ed aveva un aspetto monumentale, derivato da colonne, raffinati capitelli e grandi statue di bronzo.

3 Quello catanese oggi si trova all’interno di un’ampia area archeologica delimitata dalla via V. Emanuele, via Teatro Greco e piazza San Francesco, adagiato nella parte inferiore meridionale della collina di Montevergine, antica acropoli della città, il teatro catanese fu ricostruito durante l’età antica. Sono state riscontrate cinque fasi: greca, augustea, giulio claudia, dei Severi, (a questi ultimi si riferiscono la maggior parte delle strutture ancor oggi visibili) e di Teodorico, Re degli Ostrogoti.

I TEATRI ANTICHI Anfiteatro Romano (piazza Stesicoro). Fu costruito ai piedi della collina di Montevergine, secondo tecnica ingegneristica romana, con pietra lavica dell’Etna e con mattoni. Era l’edificio più grandioso dell’architettura civile romana, dove i cittadini assistevano alle lotte gladiatorie fra uomini ed animali feroci. Inizialmente era stato costruito in legno ed utilizzato per celebrare i funerali di patrizi illustri, successivamente dagli imperatori. Teatro Greco Romano di via Vittorio Emanuele. Era uno dei maggiori della Sicilia, limitrofo al palazzo del Proconsole ed alle prigioni, fu realizzato sulle fondamenta di quello realizzato da Alcibiade, politico ed oratore, uno dei comandanti dell’esercito ateniese. Aveva forma ellittica, 56 archi, 30 ordini di sedili ed una capienza di 16.ooo spettatori. Attirava sempre un gran numero di cittadini che si radunavano per assistere, gratuitamente, alla rappresentazione di antichi racconti eroici od episodi della mitologia greca. Gli attori erano soltanto uomini, i quali, indossando a volte delle vistose maschere, dovevano impegnarsi anche nelle parti femminili. Quello antico fu sotterrato dalle lave, per questo motivo non ne parlarono lo storico siceliota Diodoro ed il filosofo ed oratore romano, Cicerone. Fu smembrato ed i marmi bianchi e rossi dei sedili servirono per pavimentare il Duomo, così come successe per le colonne, i cimeli, le effigi ed altro materiale.

3 Catania, unica città al mondo, conserva un teatro romano nel fitto della sua maglia urbanistica ed a giudicare dai rilievi più antichi, esso apparve fuso alla città senza soluzioni di continuità da epoche remote. Una strada, la defunta via Grotte, separava in due parti l’edificio e strade e piazze erano ricavate sulla sua cavea. Ma al di là di questa palazzina in realtà non si apre solo uno scenario di architetture che raccontano la storia della città. L’orchestra del teatro, messa in luce dopo una lunga e fortunata campagna di scavo guidata dall’allora sovrintendente Maria Grazia Branciforti, appare oggi occupata da un insolito ambiente umido. Lungo la parete sinistra rimane una canaletta presumibilmente sfruttata per incanalare l’acqua che oggi allaga l’orchestra. Diverse testimonianze raccontano di conoscere la presenza di questo laghetto già negli anni '70 ed in verità in una guida del Touring Club Italiano del 1989 viene testimoniata la condizione di allagamento poiché il tratto mediano dell’ambulacro inferiore si presenta rivestito di intonaco idraulico. E’ del tutto evidente che esso fu adattato in tarda età imperiale a serbatoio idrico al fine di poter allagare l’orchestra e permettere spettacoli sull’acqua. La presenza perenne dell’acqua dell’Amenano nell’orchestra potrebbe infatti avere una origine molto antica. Esistono infatti diverse canalette che imbrigliavano le acque oggi a vista per condurle in alcune vasche di cui una ricavata tranciando i marmi dell’orchestra. Giungeva ad essa un canale rivestito di marmi recuperati dal teatro stesso. Tale fiume venne ricordato dalle fonti antiche quale capriccioso, capace di rimanere asciutto per decenni e poi improvvisamente ingrossare fino ad allagare le case costruite intorno al suo letto. Ovidio ne testimoniava anche la natura sabbiosa del suo letto. Similmente la polla d’acqua del teatro è viva, pur ogni tanto asciutta, come nei primi anni del 2000, quando si poterono indagare la scena e la stessa orchestra. Questa polla d’acqua, inoltre, trascina con sé sabbia, evidentemente parte dei sedimenti su cui poggia la città di Catania, in età greca probabilmente doveva essere gialla e non nera. Interessante notare come la rappresentazione del fiume Amenano 3 sulle monete della zecca cataniota sia inizialmente con le fattezze di un uomo barbuto ed a partire da un certo periodo con quelle di un giovinetto, segno che anticamente il fiume dovette avere una grossa gittata e solo in un secondo tempo ridursi ad essere semi stagionale. Il comportamento è del tutto simile a quanto si può vedere presso la Timpa della Leucatia, dove il peso delle lave preistoriche, facendo pressione sulle argille sottostanti, fa defluire in diversi punti le varie sorgive, le quali incontrano la resistenza del sottosuolo impermeabile e fuoriescono creando un ambiente umido di indiscutibile fascino. Analogamente accade alle Favare di Santa Domenica, presso Castiglione, dove le sorgive sono destinate ad ingrossare le acque del Simeto. In epoca romana era tutto un fiorire di condotte idriche e di strutture termali, di fontane e di ninfei ed il Teatro ne risultava totalmente circondato. Sul lato occidentale del Colle Montevergine, nel quartiere della Cipriana, si insediò la comunità ebraica catanese durante l’età islamica. Una delle priorità per qualsiasi comunità in quel periodo era la presenza di sorgenti di acqua pura, che sarebbero stati sfruttati come bagni purificativi. L’importanza del bagno rituale era tale che per una comunità nuova precedeva la costruzione di una sinagoga e si poteva giungere all’estrema necessità di vendere le pergamene della Torah per ottenere fondi a sufficienza.

Non lungi dal teatro esisteva il celebre Pozzo Mulino che dà il nome alla medesima via. La presenza di questo pozzo viene messa in relazione con Sant’Euplio, decapitato nel 304, ma il suo uso nel Medioevo è probabilmente da mettere in relazione con la comunità ebraica. Nulla di strano dunque che uno dei nuclei familiari catanesi si fosse insediato all’interno del Teatro per sfruttarne la ricca sorgente d’acqua. Interessante è anche il rinvenimento degli scarti di una macelleria all’interno della scena, dove si presume

3 esistesse un cortile nel XIV secolo, tra i cui resti anche le ossa di un dromedario le quali raccontano un aspetto ben più colorito di quanto oggi non sia la città. Il Teatro quindi chiude in questo semplice specchio d’acqua tanti interessanti ambiti di ricerca, ma non solo. Questo piccolo ambiente umido è diventato presto un rifugio per diverse specie animali. Così si avvistava il Martin Pescatore tuffarsi e bere, così si notavano anguille nuotare tra i ruderi (sulla loro origine rimangono dubbi: secondo alcuni risalirebbero dalla Pescheria in piazza Di Benedetto lungo il sottosuolo dove vengono catturate e vendute dagli ambulanti. Stando invece a chi nel Teatro ha lavorato, si tratterebbe della nidiata di alcuni esemplari portati qui apposta per pulire l’acqua da insetti ed alghe, ma tra gli altri spiccherebbe la Testuggine palustre siciliana, identificata da una rappresentanza dell’ENPA. Proprio la presenza di questo endemismo ha allertato l’Ente, preoccupato da una parte del progetto degli ultimi lavori che si stanno eseguendo presso il Teatro, importanti lavori di restauro e fruizione che permetteranno l’accesso alle visite a zone più ampie dell’edificio, estendendole anche ai diversamente abili, e all’approfondimento degli scavi in diversi punti. Il progetto nella sua totalità coinvolge tanto l’area del Teatro quanto quella dell'adiacente Odeon, nonché le vicine Terme della Rotonda. Uno dei cantieri infatti prevedeva la trivellazione di una parte del retroscena mediante una pesante macchina che rischiava anche di minacciare le strutture più antiche, la cui conseguenza sarebbe stato lo svuotamento dell’orchestra e la perdita del piccolo habitat. Una dichiarazione da parte della direzione del Parco Archeologico Greco Romano di Catania al quotidiano La Sicilia e successivi rimaneggiamenti del progetto hanno comunque salvato il laghetto ed i suoi abitanti. Odeon (annesso) di via Teatro Greco. Fu costruito in epoca romano imperiale per ascoltare audizioni musicali, sul fianco della collina di Montevergine, ad esso si accede solo da un’ampia scalinata. Può essere considerato fratello minore del Teatro Greco, da cui riprende la forma ad emiciclo. Non poteva servire per grandi riunioni

3 popolari, bensì per ristrette adunanze, ai concorsi degli autori drammatici e per le prove dei cori, così come risulta confermato dalla mancanza della scena. A questo punto vorrei muovere un appunto circa il degrado di questo complesso, costituito dall’accorpamento del Teatro Romano con l’Odeon, causato dagli interventi (pessimi) dei secoli scorsi, allorquando privati cittadini hanno osato costruire i propri immobili, utilizzando le pareti delle costruzioni romane, senza che alcuno, facente parte delle Istituzioni, avesse mosso un dito. Pertanto, durante le calde serate dedicate alle tragedie greche del Teatro Stabile di Catania, di tanto in tanto è possibile ascoltare l’irriverente suono di un televisore, poco consono al severo contesto, od ancor più sconcertante di uno sciacquone. Foro Romano (Cortile San Pantaleone). Fu costruito dov’era già l’Agorà, della città greca, su cui si affacciavano i più importanti edifici pubblici per lo svolgimento delle funzioni pubbliche, giuridiche, amministrative, religiose, tra cui la basilica forense, il mercato civico (botteghe). Con questo termine nell’antica Grecia si indicava anche la piazza principale della polis, dove discutere di un po’ di tutto. Dalle decisioni prese venivano però escluse le donne. Da questo monumento provengono le 32 colonne utilizzate per abbellire piazza Mazzini ed il torso colossale dell’imperatore Tiberio, esposto al museo civico di Castello Ursino. Il foro, l’anfiteatro ed il teatro romano della città, vennero successivamente smantellati per recuperare i blocchi quadrangolari di pietra lavica, le granitiche colonne con le relative basi e gli eleganti capitelli marmorei di stile corinzio, per essere poi utilizzati nella costruzione di edifici pubblici e privati.

IPOGEI E NECROPOLI Ipogeo Romano (via G. Sanfilippo). Il monumento funerario romano, letteralmente invaso dalle fitte sterpaglie, conosciuto con il nome di “Ipogeo quadrato”, è ubicato dietro la via Ipogeo e ricade nella vasta area che, dalla fine del V secolo a. C. fino ad epoca tardo-antica e cristiana, fu destinata ad uso funerario.

3 La zona, nota fino al secolo scorso con il nome di “Selva del convento di Santa Maria di Gesù”, era compresa tra le colline del Giardino Bellini ad est, la via Plebiscito a sud e il viale Regina Margherita a nord, nei pressi del quale si trova il sepolcro a pianta circolare, detto “Mausoleo di villa Modica”. Dell’ipogeo si hanno notizie precise dal Principe Biscari, che lo descrisse con una copertura a piramide, rimane anche un acquerello di Houel ed il rilievo eseguito da Sebastiano Ittar, figlio di Stefano. Numerosi studiosi si sono occupati del monumento a due piani, del quale non vi sono più tracce, con destinazione funeraria, attestata dalla presenza del loculo e delle nicchie all’interno del vano ipogeico. L’ipogeo, ancora oggi visitabile, si apre sul lato ovest e vi si può accedere tramite una scaletta, della quale rimangono in situ solo i tre gradini inferiori. Il vano è a pianta quadrata, sulla parete est, opposta all’entrata, è ricavato un loculo, ormai rovinato; ai lati dell’ingresso sono due nicchie per vasi cinerari. La copertura originaria doveva essere costituita da una volta a botte, poi restaurata in mattoni ma oggi fortemente danneggiata. Sulle pareti che fiancheggiano la scala si notano tracce di intonaco. L’importanza architettonica e l’ubicazione del monumento funerario fanno ipotizzare che appartenesse ad un esponente della classe elevata, che in Sicilia, tra il II e il III secolo d. C., godeva di ottime condizioni economiche. Questa considerazione e la tipologia costruttiva del monumento suggeriscono una datazione non precedente alla prima metà del II secolo d. C.. Ipogeo quadrato (via Ipogeo). Per distinguerlo da quello circolare di Villa Modica, si tratta di un vano sotterraneo adibito a tomba od a luogo di culto, ubicato nella ex Selva del convento di Santa Maria di Gesù, il monumento, impropriamente noto come “ipogeo quadrato”, è in realtà una monumentale tomba di età romana imperiale (I-II sec. d. C.), tra le poche sopravvissute delle vaste necropoli di Catina che occupavano l’area a nord dell’attuale centro storico di Catania.

3 La tomba, che nel tardo Medioevo fu utilizzata dai monaci del convento come calcara (fornace per cuocere laterizi) dai monaci del convento, venne riscoperta dagli eruditi del XVII secolo. Raffigurata in un acquerello di Jean-Pierre Louis Laurent Houël (XVIII sec.) ed in alcune incisioni di Sebastiano Ittar, cartografo e figlio di Stefano (XIX sec.), essa fu interamente scavata e portata alla luce da Francesco Ferrara, abate ed archeologo, nei primi anni dell’800. Negli anni ’70 del secolo scorso la tomba è stata restaurata e resa visitabile all’interno di un’area attrezzata a verde. Quanto resta dell’edificio si compone di una grande struttura a pianta rettangolare (circa 13 x 9 m), che mantiene uno spiccato di circa tre metri. La metà orientale dell’edificio è costituita da un massiccio corpo di fabbrica, mentre quella opposta è occupata da una camera quadrata parzialmente ipogeica, originariamente voltata, accessibile attraverso una scala dal lato corto occidentale. Al centro della parete di fondo si apre un loculo rettangolare, mentre altre quattro nicchie, di dimensioni minori, si dispongono simmetricamente sulle altre pareti: una per ciascuno al centro dei lati nord e sud e due sulla parete d’ingresso, ai lati della scala. La muratura dell’edificio, del tutto analoga a quella dei maggiori monumenti di Catina, è composta da un potente riempimento in opus coementicium (calce, sabbia vulcanica e scaglie di pietra lavica) rivestito in opus mixtum, formato da parti in opus vittatum (uso di mattoni nei cantonali e su tre filari che corrono lungo tutta la base del monumento) e parti in opus incertum (blocchetti di pietra lavica irregolarmente squadrati e lisciati in faccia vista). Tutti gli studiosi concordano nell’ipotizzare che l’edificio avesse in origine un secondo piano, probabilmente inaccessibile, secondo un modello architettonico, di origine ellenistica, diffuso nel mondo romano dalla seconda metà del I sec. d.C.. Sull’aspetto originario del secondo piano, che non ha lasciato altre tracce che non siano le possenti murature che lo sostenevano, si possono fare soltanto congetture.

4 Cappella Bonajuto, o del Salvatorello. Di epoca bizantina, si trova in via Bonajuto, presso il quartiere Civita. Cripta di Sant’Euplio. Eretta sui resti di un tempio paleocristiano, dedicata a Sant’Euplio ed a Sant’Antonio Abate, si trova in piazza Borsa. Domus Romana. Tipica abitazione di epoca romana, da pochi anni riesumata, risulta adiacente al Monastero delle Benedettine di via Crociferi. Pozzo di Gammazita. Di epoca angioina, si trova presso la via San Calogero. Villa Modica. E’ un edificio ottocentesco che sorge sul viale Regina Margherita, area di villeggiatura nel corso del XIX secolo sorta su ciò che molti secoli prima fu la Necropoli patrizia di Catania. L’edificio, un ricco palazzotto nobiliare in stile Neo Romanico con accenni di Neo Gotico, racchiude un ampio giardino, un tempo facente parte della ricca selva del contado catanese, in cui è custodito un Mausoleo Romano. L’edificio funebre presenta un diametro esterno di poco inferiore agli 8 metri e reca a ovest un’apertura arcuata che da’ all’interno. Al di sopra una cornice in terracotta (di cui non rimangono che labili tracce) segnava il confine tra il pianterreno e il piano superiore. Nell’area del Monastero dei Benedettini sono stati repertati alcuni manufatti risalenti all’età neolitica e un tratto di mura civiche di periodo greco. Carcere Romano. Di fronte l’ospedale Santa Marta, accanto alla chiesa dei Minoritelli, i resti del carcere romano, secondo la leggenda carcere di transito dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino prima che venissero uccisi a Lentini da Tertullo, senatore e primo console romano. Nel terzo secolo a.C., Catania possedeva una vasta gamma di aree cimiteriali che si estendeva persino all’interno del fitto tessuto di tombe di frequentazione pagana. Riguardo all’antica cattedrale catanese c’è il silenzio assoluto delle fonti arabe normanne, forse perché non più esistente od agibile, solo la toponomastica sembra confermare la presenza al momento di un nucleo importante, culturale dedicato a

4 Sant’Agata, anteriore alla nuova cattedrale da Ruggero (XI secolo), costruita presso un luogo strategico, presso costa e lontano dalle Avibus nocturnis antea sedes. I resti edilizi sottostanti l’attuale contigua chiesa di Sant’Agata al Carcere potrebbero ulteriormente confermare la tradizione di un coinvolgimento specifico di tutto questo settore urbano. In merito alla ubicazione dei tre contesti cardine del tragico martirio è ancor oggi oggetto di nuove indagini archeologiche (Fornace, Carcere, Pretorio), sono rapportati alla presenza del contiguo anfiteatro, chiara metafora di potere e di morte, conclusosi con la sublimazione delle virtù cristiane, in attesa della resurrezione fisica. Nella cartografia del ‘500 la memoria della fornace appare prossima all’anfiteatro ed immediatamente fuori le mura; il nucleo Carcere/Cattedrale, situato a margine della città e preesistente al perimetro urbano medievale del ‘500 di Re Carlo V. la robusta costruzione omano imperiale del Carcere e di tutto l’edificio pubblico in cui era inserito (Pretorio) si trovava ad una quota piuttosto alta, corrispondente alla somma cavea del medesimo anfiteatro. Le strutture antiche romano imperiali, collegate al Carcere giustificano la presenza di un presidio, in posizione dominante rispetto alla città, quindi, l’ubicazione del Palatinum presso cui si svolse l’interrogatorio di Sant’Agata. Della necropoli greca (catanese) conosciamo molto poco, per via degli accadimenti nefasti che nei secoli si sono susseguiti. Tuttavia, vi sono alcuni sepolcri costruiti con blocchi di pietra calcarea, rinvenuti nell’area dell’Orto Botanico, poco prima di piazza Cavour, presso il quartiere Borgo. Della necropoli arcaica non si ha comunque idea, tanto meno di quelle dell’VIII e VII secolo a.C., è possibile che la lava ne abbia completamente cancellato le tracce. La regione compresa tra l’ex Piazza Bellini ed il quartiere Cibali dovette essere l’area sepolcrale catanese mantenutasi nel tempo dall’epoca ellenistica al medioevo. In realtà in molte altre zone della periferia civica furono trovate lapidi funeree, ma di

4 sicuro, forse per la conformazione del territorio su cui essa sorgeva, era questa l’area a più alta densità sepolcrale. Il rinvenimento avvenuto durante la costruzione delle fondamenta nel 1923 di Palazzo delle Poste sembra confermare quanto detto. Qui furono rinvenute 17 tombe e diversi edifici funebri databili al IV secolo a.C.. Intorno a quest’area molti altri sepolcri, tra cui interessanti i risultati degli scavi in quella che è oggi via Reclusorio del Lume (altezza via Nino Martoglio) fu ritrovato un ipogeo che conservava le urne dei defunti con nomi latini scritti in caratteri greci. La crescita della città sotto l’Impero romano ebbe di riflesso l’incremento delle sue necropoli. Oltre a quelle già in uso in epoca ellenistica, infatti, estesa nell’area compresa tra piazza Stesicoro e il quartiere Cibali, si allargarono ad ovest verso Monte Po, ove la successione è poco chiara, a causa dell’eruzione del 1669, che interessò questa zona, a sud ovest verso l’attuale piazza Palestro, a est a ridosso della città. Delle necropoli di epoca paleocristiana rimangono significative tracce al di sotto di molte chiese cittadine, tra cui San Gaetano alle Grotte, (divenuta martyrion e in seguito chiesa ipogea), il Santo Spirito, Sant’Euplio, la chiesa della Mecca (oggi cappella dell’Ospedale Garibaldi), la Vetere. Inoltre sono venute alla luce diverse sepolture, quali ad esempio la necropoli di via dottor Consoli, da dove proviene la celebre epigrafe di Iulia Florentina esposta al museo del Louvre, ovvero i recenti scavi nell’area antistante le Terme della Rotonda, la quale inizialmente fu sede di un martyrion che, secondo la tradizione, ospitò le spoglie di Sant’Agata. Conserva del periodo originario un arcosolium (sepolcro incassato), una falsa finestra e due sedili in pietra lavica. Del periodo di adattamento a chiesa rimangono invece l’altare e parte dell’arco trionfale. L’edificio subì poi diversi rimaneggiamenti nei secoli successivi, tra cui l’erezione di un nuovo tempio apogeo dedicato a San Gaetano, il pozzo battesimale ricavato nell’ex cisterna, la scalinata di età normanna.

4 In città sono stati individuati circa sette edifici funerari a pianta rettangolare, databili nel primo Secolo d. C.; di questi, uno presenta una serie di nicchie alle pareti, mentre i sepolcri sono circondati da recinti nei cui pavimenti, in una seconda fase di utilizzazione, sono state individuate tombe a fossa in muratura databili tra il V ed il VI Secolo d. C.. Quella sotto il Palazzo delle Poste di via Etnea è un’ampia necropoli di età tardo ellenistica romana, da mettere in relazione con il complesso rinvenuto durante gli scavi per le fondazioni del vicino Palazzo delle Poste, il quale, durante il suo rinvenimento ottenne il vincolo di accessibilità, Anche il rinvenimento di una importante testimonianza archeologica di circa 2000 anni fa, risale al lontano ottobre 1959, allorché, durante i lavori edilizi per la costruzione dei magazzini de “La Rinascente” è venuta alla luce una Necropoli costituita da numerose costruzioni di carattere funerario, tra di loro accostate, ancora oggi in gran parte conservate e visibili nei sotterranei. Detti ruderi, che occupano un’area di circa m. 35 x 30, all’angolo tra via Sant’Euplio e via Spedalieri, prospettano e sono orientati lungo la via Sant’Euplio, tuttavia per l’ostilità da parte dello stesso grande magazzino, non si è mai riusciti ad accedervi. Recentemente è stato scoperto un monumento dimenticato e finora inaccessibile del quale si era persa la memoria, si trova all’interno del Distretto Militare di Catania in piazza Carlo Alberto, tanto che il vincolo della Sovrintendenza risale al 2007. Eppure, già nel 1923, ne aveva parlato Guido Libertini, docente in archeologia, in una nota del “Der Alte Catane”, libro dello storico tedesco Adolf Holm, indicandolo, erroneamente, come la possibile tomba di Stesicoro. Nel 1926, però, corresse l’errore, ma lo fece con un articolo pubblicato in una rivista specializza di scarsa diffusione. Nel 1990 l’archeologo Roger Wilson lo

4 definì il “monumento inaccessibile” e, negli stessi anni, il prof. Mario Torelli, in una guida della Sicilia, ne parlò come di una tomba romana. Al colonnello di questa caserma, il dottor Corrado Rubino si deve lo studio e il rilievo della tomba ed i successivi lavori di restauro condotti sotto la supervisione della Sovrintendenza, lavori cui ha dato un contributo fondamentale l’Accademia di Belle Arti, la quale ha stanziato i fondi necessari, aprendo, per la prima volta, un cantiere di studio e di lavoro per i propri allievi. L’area dove sorgeva questa tomba, in epoca romana, era una grande necropoli monumentale che, non a caso, fiancheggiava la via Pompeia, la strada consolare che univa Messina a Siracusa. Strada che, in questo tratto era ad un livello inferiore di 4 metri rispetto alla colata lavica preistorica su cui era stata edificata questa tomba che, dal basso, doveva apparire enorme, imponente, spettacolare. Nella facciata sud si aprono quattro finestrelle disposte a raggiera in modo che i raggi del sole, entrandovi, convergevano in un unico punto, su un sepolcro che ne veniva illuminato conferendogli un’aurea sacra. La tomba di una persona speciale, dunque, la possibile sepoltura di Sant’Agata, sostiene il colonnello Rubino rifacendosi a fonti secentesche, agli storici Caetani, De Grossis e Vito Amico. E non sarebbe un caso se, fino a qualche anno fa, la chiesa del Carmine, insieme a quella di Sant’Agata la Vetere, erano le sole dove il fercolo della Patrona entrava. Perché, se non per un’antica memoria? Del resto anche il convento del Carmine, dopo il terremoto del 1693 che lo rase quasi al suolo, fu ricostruito prevedendo un ampio corridoio che, dall’ingresso della chiesa, sviluppandosi lungo la facciata, porta direttamente alla tomba romana, un non senso dal punto di vista architettonico, spiegabile soltanto con l’importanza del sito. Va ricordato, inoltre, che, sotto le macerie del terremoto, perirono quasi tutti i frati carmelitani e il convento fu ripopolato da confratelli che arrivavano da

4 Trapani, figli di altra storia ed altra tradizione. Forse anche questo spiega la progressiva perdita della memoria del luogo. Il monumento, infine, fu sottratto alla devozione popolare quando quella parte del convento divenne, dopo i moti del 1848, caserma borbonica. Eppure, racconta il colonnello Rubino, della memoria di Agata, il suo probabile sepolcro non più accessibile, i frati carmelitani lasciarono traccia dedicandole una teca, nel secondo altare di sinistra della chiesa, la quale accoglie una giovane donna con il volto di cera, in realtà costruita per la baronessa Rosanna Petroso Grimaldi, trucidata a 22 anni, nel 1783, dal marito, il marchese Orazio di Sangiuliano. Oggi la tomba romana non è di immediata lettura perché ne è stato restaurato soltanto un angolo esterno, nella piccola parte, un quarto, che appartiene alla caserma Santangelo Fulci. La restante parte è dei padri carmelitani che la danno in affitto come deposito agli ambulanti del mercato di piazza Carlo Alberto. Un monumento di cui se ne vede appena uno spigolo, in uno dei cortili interni dell’ex convento del Carmine, eppure questa tomba di epoca romana, costruita in blocchi squadrati di pietra lavica, potrebbe essere la prima sepoltura di Sant’Agata. Un monumento dimenticato e finora inaccessibile, chiuso com’è all’interno dell’ex distretto militare di Catania di piazza Carlo Alberto. Si tratta di una tomba “a casa”, cioè di una costruzione a pianta quadrata, ampia 100 mq, e alta 6 metri dalla risega di fondazione che oggi si trova 90 centimetri sotto la quota del cortile della caserma. Una costruzione rifinita con una modanatura a forma di timpano spezzato di origine traianea, una tomba di epoca romano imperiale, databile tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., in piena epoca Severiana, cioè tra Marco Aurelio e la dinastia dei Severi. La dinastia dei Severi che regnò sull’Impero Romano tra la fine del II e i primi decenni del III secolo, dal 193 al 235, con una breve interruzione durante il regno dell’Imperatore romano Marco Opellio Macrino (Cappadocia, l’attuale Turchia

4 centrale) tra il 217 e il 218, ebbe in Settimio Severo il suo capostipite ed in Alessandro Severo il suo ultimo discendente. Caso unico, la costruzione era perfettamente rivestita anche nella parte posteriore, indizio del fatto che doveva essere un edificio isolato. Il monumento fu così sottratto alla devozione popolare, allorquando quella parte del convento divenne, dopo i moti del 1848, caserma borbonica. Nel 1991 i lavori del Genio Civile hanno portato alla luce, lungo la parete di una scala, parte del muro esterno della tomba ed altri lavori di recente sono stati fatti dall’Accademia di Belle Arti che, con la generosa autorizzazione del comandante Fontana, ha demolito parte del magazzino dei viveri della caserma che impediva la vista e la fruizione del monumento.

TESORI SOTTRATTI ALLA VISTA Il territorio di Catania è particolarmente ricco di importanti testimonianze archeologiche di cui si va perdendo traccia e che vengono sottratte alla pubblica fruizione. Si tratta di tesori archeologici dimenticati di cui si ripromette di stimolare la riscoperta, il recupero e la fruizione del nostro patrimonio archeologico abbandonato al degrado ed all’oblio. Purtroppo non tutto risulta visibile e disponibile alla pubblica fruibilità, così oggi, qualora provassimo a fare un giro per la città, soprattutto in prossimità del centro storico, ci renderemmo conto di quanto in gran parte esso risulta ancora celato alla vista dei catanesi, non sempre per mancanza di fondi, spesse volte soltanto per incuria o gretta insipienza. Molto spesso si tratta di siti archeologici venuti improvvisamente alla luce durante gli scavi finalizzati alla realizzazione di edifici od opere pubbliche, tuttavia non ultimati, bensì, lasciati in completo abbandono, come è successo da tempo immemore per via Crociferi, con gli scavi ridotti a ricettacolo d’immondizia, o per via Zurria (strada di accesso alla piscina comunale), oppure per l’area

4 dell’importantissimo sito archeologico dell’ex Reclusorio della Purità a ridosso del dismesso Centro Sociale Experia, con una Necropoli del V secolo a. C. ed un edificio di età romana, dal 2002 ignominiosamente lasciati all’incuria ed all’ignominia più totale. Ma ciò che lascia particolarmente contrariati si riferisce ad alcuni luoghi di culto lasciati nel più inarrestabile degrado, alcuni persino dopo essere stati da anni sottoposti a restauro. E’ il caso della chiesa della Purità di via Santa Maddalena o di Santa Maria dell’Indirizzo presso la Pescheria, ove le sterpaglie hanno da tempo iniziato l’opera di invasione e devastazione. Presso il quartiere Antico Corso, infine, la Chiesa Santa Maria d’Itria, da anni abbandonata al proprio ineluttabile destino, oggi rischia di crollare e svanire nel nulla. Fu fatta erigere dal vescovo di Catania Andrea Riggio, il periodo storico della sua fondazione risale agli inizi del 700. Utilizzata inizialmente dall’ordine dei francescani, dopo l’Unità d’Italia venne requisita, in seguito iniziò ad ospitare la parrocchia Immacolata dei Minoritelli, che dal 1948 spostò la propria sede nell’omonima Chiesa in Via Gesualdo Clementi. Da quel momento in poi la Chiesa dell’Idria divenne una rettoria. La chiesa della Santissima Trinità è un altro di quegli esempi eclatanti di come un gioiello da tempo immemore, purtroppo oggi in pessimo stato di conservazione, venga sottratto alla pubblica fruibilità. Pensate che per uno come me, da sempre appassionato cultore di opere d’arte, non è stato mai possibile accedere all’interno di questa chiesa, la cui maestosità e splendore della facciata rende un’idea alquanto eloquente di tutto quello che potrebbe trovarsi al suo interno. E qui vorrei mettere un punto, poiché sarebbe particolarmente lungo e tedioso enumerare tutte quelle situazioni che avrebbero bisogno di una maggiore attenzione da parte di chi ne avrebbe competenza. Nel 1990, in occasione di lavori di restauro del Castello Ursino, uno scavo tra le fondamenta dell’edificio per ricavarne nuovi spazi espositivi da adibire al museo che vi è ospitato, portò alla identificazione di alcuni strati dell’età greca, risparmiati

4 dal taglio delle fondazioni del Castello. Accanto alla età classica si trovò materiale arcaico e proto arcaico, a dimostrazione che la città, calcidese già nel suo primo impianto, occupava l’altura dei Benedettini, sia la costa su cui fu costruita il maniero federiciano, in età medievale. Presso la chiesa di San Sebastiano, zona Castello Ursino, nel 1860 è stata trovata una antica fontana, con dei tubi di terracotta vicino ad un pavimento in mosaico, adesso conservato presso il Museo dei Benedettini, recante una testa femminile ricoperta da esuvie (strato superficiale eliminato con la muta) elefantine, la testa di una personificazione dell’Egitto o dell’Africa. In questa parte di città un tempo si trovavano tre edifici scomparsi durante l’eruzione del 1669. Dette rovine davanti alla Porta Decima appartengono ad una Naumachia, così come di un circo erano appartenuti altri ruderi, qui dovevano esistere i resti di un Gimnasium che si pensava fosse quello realizzato da Gaio Claudio Marcello, di cui furono rinvenuti avanzi nel giardino del capitano di Castello Ursino. Anticamente presso il giardino dei Minoriti si trovava una volta sotterranea, larga 10 (76,20 cm.) palmi, lunga ed alta 12, con ingresso ad ovest, su ciascuno dei lati presentava due nicchie per delle urne cinerarie rinchiuse dentro delle arcate. La zona fra piazza Bellini e Cibali, definita “placa”, costituiva le regione sepolcrale di Catania, dai dai tempi ellenistici fino all’alto Medioevo. Questa necropoli era la più popolata della città, dove furono trovati, oltre a questi locali a volta, delle urne cinerarie di terracotta, cassette in pietra, sarcofagi di pietra lavica e lucerne.

IL QUARTIERE DI SANTA SOFIA Il quartiere Santa Sofia è collocato nella zona nord della città di Catania tra le aree di Barriera del Bosco e Cìbali. Il territorio di Santa Sofìa è quasi interamente interessato dalla presenza dell’omonima collina. L’area ospita la sede della Cittadella Universitaria e dell’Osservatorio Astrofisico.

4 Ma perchè proprio “Santa Sofìa”? Esiste forse un legame con la martire romana venerata dalla Chiesa Cattolica e dalla Chiesa Ortodossa? Come sempre in questi casi è necessario compiere un salto indietro nel tempo fino al momento in cui la realtà storica e la tradizione popolare si fondono creando un fantastico immaginario che affresca la dimensione mitologica di una Sicilia che non c’è più. Tra le tante leggende della nostra terra ve n’è una, quella della Grotta di Santa Sofìa, oggi interrata, che merita sicuramente la nostra attenzione. Un tempo l’uomo credeva che le cave e le grotte rappresentassero le porte d’accesso dell’Ade ed in molti nel ‘600, tra storici improvvisati e scrittori bramosi di celebrità come Pietro Carrera, descrissero i cunicoli vulcanici della Grotta di Santa Sofia come l’ingresso degli Inferi. Secondo costoro qui venne compiuto il famoso “Ratto di Proserpina” messo in atto da Plutone, sconfessando così le scritture di Ovidio che collocavano il rapimento nei pressi del lago di Pergusa. L’uomo ha sempre ammirato e temuto le montagne e le grotte al punto da considerarle dimore degli spiriti del bene e del male. Dei, demoni, maghi, esseri angelici e mostruosi hanno così nella storia dell'umanità ammantato di mistero lo splendore delle vette e le oscurità delle grotte, terrorizzando o colmando di stupore i curiosi ed incauti violatori dei loro segreti. Il molteplice simbolismo di caverne e monti ha favorito la loro elezione a palcoscenico ideale dell’immaginario e del meraviglioso, a luogo ove da sempre sono stati ambientati miti e leggende, ad altare ove si celebrano diversi culti. I significati simbolici legati al fuoco sono parimenti moltissimi e talvolta contrastanti tra loro. Basti pensare che il fuoco è generalmente considerato tanto d’origine demoniaca quanto divina; se da un lato con le sue fiamme ed il suo calore esso distrugge, se col suo fumo oscura e soffoca, dall’altro riscalda ed illumina, rigenera e purifica; se è il simbolo per eccellenza delle passioni e del sesso, con le

5 sue fiamme che salgono verso il cielo il fuoco rappresenta anche la sublimazione e lo slancio verso lo spirito, verso Dio. L’Etna è la summa di tutta questa simbologia; è per eccellenza, almeno nella cultura del Mediterraneo, la montagna del fuoco e delle grotte; di queste, sui fianchi del vulcano, se ne contano centinaia. Ad ogni eruzione se ne formano di nuove e spesso se ne cancellano di vecchie. Dal punto di vista naturalistico l’Etna è dunque una immensa macchina che genera lava, ovvero fuoco, e grotte; dal punto di vista umano è un generatore di miti e di leggende, una enorme cassa di risonanza dell’immaginazione. È sempre Ovidio a narrare nei Fasti e nelle Metamorfosi un’altra storia fantastica, il mito che spiega l’alternarsi delle stagioni. Figlia di Giove e Cerere, Proserpina raccoglieva fiori vicino al lago di Pergusa quando venne rapita da Plutone, dio degli inferi emerso da una grotta, e da questi condotta sul suo carro agli Inferi. Cerere, dopo averla disperatamente cercata invano, ottenne da Giove la restituzione della figlia a patto che questa, durante la sua permanenza nell'Ade, non avesse assaggiato alcun cibo. Proserpina aveva però mangiato sei chicchi di una melagrana colta nei campi Elisi e così poté tornare con la madre soltanto per sei mesi ‘anno, periodo che da allora coincise con la primavera perché Cerere, felice per la presenza della figlia, faceva fiorire la terra. Claudiano, poeta della tarda latinità, ricalcando le orme di Ovidio fece rivivere in un suo poema, il De raptu Proserpinae, questo celebre mito Per trovare l’opportuna ispirazione, il poeta alessandrino visitò la Sicilia e Catania dove, sembra, non solo fu ammaliato dalla bellezza dei luoghi etnei ma probabilmente raccolse anche un’antica versione della leggenda che voleva che la dea fosse stata rapita sulle pendici dell'Etna. Ecco come Claudiano, poco prima di descrivere il rapimento, inizia a tratteggiare il ridente luogo collinare ove si apriva la grotta da cui uscì Plutone col suo carro per rapire Proserpina tra i fiori. Una cavità che concorre con quella di

5 santa Sofia per il titolo di porta dell’Ade è l’altrettanto celebre Grotta di San Giovanni, alias della Chiesa, a San Giovanni Galermo; pure da essa si racconta infatti che emerse Plutone per consumare il celebre ratto. Torniamo brevemente alla Grotta di Santa Sofia alias Grotta di Proserpina. Tale grotta, che ha sempre esercitato un cupo fascino su quanti la visitavano, non è infatti legata soltanto al mito di Proserpina ma anche ad altre credenze e superstizioni. Il gesuita e storico Giovanni Andrea Massa riferisce in una di queste credenze, che in quest’Antro ricevessero la salute per gratia di Proserpina quei Maniaci, i quali entrandovi dentro, vi passassero la notte dormendo. Ma fu soprattutto la leggenda di una favolosa truvatura incantata nascosta nelle sue profondità ad eccitare la fantasia dei catanesi e ad attirare al suo interno un gran numero di cacciatori di tesori, fino a quando, all’inizio del secolo, il proprietario del fondo ne fece interrare l’ingresso. Il tesoro di santa Sofia che si favoleggiava fosse composto da ben sette, enormi cufini colmi di monete d’oro, tanto ricco da fare la fortuna dell’intera Sicilia; una pagina intrisa di mistero e, forse, del sangue di vittime innocenti sacrificate all’oscuro demone della superstizione e del più spietato egoismo. Uno dei più grandiosi ambienti ipogei che la fantasia umana abbia mai creato è una enorme caverna, simile ad un ventre, che l’Etna nasconde nelle sue abissali profondità infuocate; dapprima, secondo la tradizione classica, questo immenso antro zampillante magma fu occupato da Vulcano-Efesto, dio del fuoco, che vi impiantò la mitica fucina in cui i ciclopi Bronte, Sterope e Arge forgiavano belle armature per gli eroi e fulmini per Giove. Con l’avvento del Cristianesimo, si diede inizio alla seguente leggenda citata dallo storico siciliano Giuseppe Pitrè, che è molto esplicativa al riguardo; in essa il grande antro etneo, dopo lo scontro dei campioni del bene e del male, una sorta di Titanomachia cristiana, diviene dimora del demonio e quindi sede dell’inferno.

5 Così il vulcano schiaccia Lucifero come già fece con i giganti Encelado e Tifeo; il cratere e le grotte diventano porta del terribile luogo. Quando il Signore creò il mondo, creò anche gli Angeli, gli Arcangeli, i Serafini ed i Cherubini, tra questi Angeli ce n’era uno che si chiamava Lucifero, il quale si credette importante, e si mise a fare la guerra al Signore che l’aveva creato. Dio, stanco, mandò San Michele Arcangelo con un spada di fuoco, per farlo uscire dal Paradiso. San Michele volò con la sua spada e l’inseguì in ogni dove. Lucifero correva da una nuvola all’altra cercando di nascondersi, ma la spada di San Michele arrivava dappertutto ed era perciò inutile. Quando Lucifero si vide perso, fece un gran salto e si gettò sulla montagna di Mongibello (l’Etna). Dal gran colpo che prese sprofondò sottoterra, soltanto la testa restò fuori, ed era come la testa di un serpente velenoso con certe corna. San Michele scese allora con la spada e tagliò uno di questi corni, che per la furia andò a cadere dentro una grotta vicino Mazzara. Lucifero per il dolore gettò un urlo spaventoso, che fece atterrire il mondo, e con un morso che diede a San Michele, gli spezzò una penna dell’ala, ka cui ala si trova come reliquia nella città di Caltanissetta. Ed ora Lucifero infernale è ancora sotto Mongibello, dai cui sotterranei che percorrono il vulcano, il diavolo talvolta appare terrorizzando le genti etnee. Una leggenda di origine normanna parla di re Artù sull’Etna. È questa la più atipica ma anche la più bella leggenda etnea. Qui la grotta (che simboleggia sempre la Madre buona, generatrice del meraviglioso) ha invero, importanza marginale rispetto al vulcano pur presentandosi puntuale in tutte le numerose versioni. Questa storia sembra aver avuto origine non dalle genti dell’Etna, vicine alle leggende carolingie e del tutto estranee ai miti del ciclo bretone, ma dai normanni invasori che avendo molta dimestichezza ed affinità culturale con l’epos nordico tentarono, invero con scarsi risultati, di introdurlo nelle terre italiane conquistate. Per secoli, attorno ai fuochi che brillavano nelle gelide notti nordiche, si narrò di Artù ferito in battaglia da Mordred, un personaggio della Britannia, conosciuto

5 all’interno del ciclo arturiano come il traditore che combatté Re Artù nella ultima Battaglia di Camlann, ove Artù perse la vita. Artù venne poi condotto dalla sorella (fata) Morgana nella incantata e mitica isola di Avalon in Inghilterra vicino Bristol, per essere curato e protetto; per secoli i bretoni credettero che il loro eroe non fosse morto per quella ferita e che sarebbe prima o poi tornato dalle nebbie della misteriosa isola, ove nessuno poteva morire, per guidare la riscossa contro gli odiati sassoni. L’eroe gallese attendeva nel suo regno fatato o, come eroe dormiente, in qualche grotta del suo paese. Le vie della fantasia sono però infinite, quasi quanto quelle divine, ed ecco che, intorno al 1200, il redivivo Artù riappare nell'immaginario collettivo non più attorniato dai suoi cavalieri sui campi di battaglia delle isole inglesi o in una delle tante grotte del Galles; egli trasmigra nel luogo più affascinante e misterioso del Mediterraneo, l’Etna. Il possente vulcano dovette eccitare enormemente la fantasia dei normanni se costoro preferirono dimenticare i tradizionali scenari a loro cari, lo splendore della leggendaria Avalon, per trasferire Artù all'interno di una grotta del vulcano siciliano. L’Etna diventa così, ancora una volta, un luogo magico, una sorta di paese delle fate; percorrendo i tenebrosi antri lavici del monte i comuni mortali si ritrovano così inaspettatamente in gioiosi luoghi di delizia simili al Paradiso terrestre, in splendidi palazzi e castelli, ove ad attenderli sta re Artù con la sua corte e Morgana coi suoi incantesimi. La leggenda normanna di re Artù sull’Etna si diffonde nella Sicilia del XIII e XIV secolo e viene raccolta da Gervasio di Tilbury, fantasioso cronista inglese al servizio della corte normanna di Palermo, che la narra nei suoi Otia Imperialia. Una grotta accoglie dunque ancora una volta re Artù; una benevola grotta che diviene per il mitico sovrano una sorta di eremo, di luogo di preghiera e di osservazione delle meraviglie del mondo dove si risanano le ferite del corpo e

5 soprattutto quelle dello spirito; Excalibur, saldata dal fuoco etneo, diviene una sorta di novella croce che frena le colate laviche salvando da queste tanta povera gente. L’ultimo, bellissimo racconto di Artù sull’Etna, La reggia nella caverna del Gebel, è dei giorni nostri, di Santo Calì, poeta dialettale di Linguaglossa, che nella sua narrazione riesce a dare alla grotta tutto il cupo valore psicologico che essa ha forse sempre avuto per l’uomo etneo. In un torrido giorno di un’estate senza tempo lo spirito di Artù va errando insanguinato per l’Etna, sulle balze sabbiose della regione deserta del Gebel, che si estende a monte di Pedara; stanco, inquieto ed assetato il sovrano mormora od urla di continuo soltanto due parole che racchiudono tutta la sua disperazione, Mordred, scellerato Mordred, ... Mordred, scellerato Mordred. Creduto dai contadini un pellegrino bisognoso d’aiuto, Artù ripara nel profondo di una grotta. A questo punto la scena si sposta nelle scuderie del Vescovo di Catania dove un palafreniere sta strigliando un bianco stallone, di nome Albino, che infiammatosi per una giumenta, fugge dalla stalla. L’uomo rincorre il cavallo per ogni dove sul vulcano fin quando, sul costone di Monte Fallacca (Linguaglossa Piano Provenzana), ne scopre e ne segue le orme che si perdono in fondo ad una grotta. In effetti i tempi in cui re Artù, Galatea ed i ciclopi abitavano le grotte dell’Etna sono ormai lontani; da allora la montagna è davvero scassata cento volte. Oggi la scienza vola in cielo come Lucifero correva sulle nuvole per sfuggire a san Michele e controlla dall’alto ogni minima alterazione del vulcano; oggi macchine di ferro tentano perfino di deviare le colate come faceva re Artù con Excalibur, cercando di spezzare il terribile filo di fuoco che consente ai demoni del Mongibello di danzare sul fronte lavico, a decine di chilometri dalla bocca dell’inferno. Ma, per fortuna, il cuore dell’uomo è in fondo sempre lo stesso. Di fronte ad una grotta vulcanica di quelle giuste, tenebrosa fredda aspra tagliente, eppur ammaliante, una di quelle che sembrano celare chissà quale mistero e condurre

5 diritte al centro della Terra, l’emozione si scatena ancora una volta e la fantasia torna a farla da padrona; fosse anche per un solo istante. Ed in quel momento fatato si torna quasi sui banchi di scuola quando, studiando l’Odissea, si attendeva con ansia che il curioso Ulisse (Nessuno) violasse il mistero dell’antro di Polifemo, orrendo mostro. Ed allora le parole di Leonardo da Vinci, quelle parole che terranno sempre in vita le leggende, parleranno per noi: "E tirato dalla mia bramosa voglia, ... pervenni all’entrata di una gran caverna, dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa ... subito salse in me due cose: paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spelonca, desiderio per vedere se là entro fosse alcuna miracolosa cosa".

LA GROTTA DI SANTA SOFIA La bocca dell’Ade da cui sarebbe emerso Plutone, sta quasi in cima all'altura e guarda a Sud-Est verso un panorama mozzafiato; dominata o meglio schiacciata dalla ciclopica antenna televisiva che la sovrasta, essa si apre in fondo ad un dirupo nei pressi dell'Osservatorio Astrofisico ed è ben difficilmente individuabile non tanto per la vegetazione che la circonda quanto per i grossi massi che la ostruiscono. La grotta non è infatti legata soltanto al mito di Proserpina ma anche alla leggenda di un favoloso tesoro incantato che attirò al suo interno un gran numero di cacciatori di tesori fino a quando, all’inizio del secolo, il proprietario del fondo, stanco di tali incursioni, ne fece interrare l’ingresso. Una cavità che concorre con quella di santa Sofia per il titolo di porta dell’Ade è l’altrettanto celebre Grotta di San Giovanni, alias della Chiesa, a San Giovanni Galermo, pure da essa si racconta infatti che fosse emerso Plutone per consumare il celebre ratto. E peraltro il più immaginifico dei poeti non avrebbe potuto creare nei suoi versi uno scenario plutonico più appropriato e suggestivo di questo splendido cavernone dalle ciclopiche dimensioni, a guardarlo sembra davvero un brandello, un

5 relitto dell’antica Sicilia dei miti e non sorprenderebbe affatto di vedervi zufolare e danzare barbuti fauni. Forse per evocare tali agresti danze, fino a qualche decennio fa, durante la locale festa patronale, il grande ambiente iniziale di questa grotta cittadina veniva trasformato in sala da ballo. Al suono di polke e mazurche si festeggiavano così San Giovanni Battista e l’inizio dell’estate, si esorcizzavano pure gli eventuali demoni infernali che avessero osato far capolino dalla porta dell’Ade. All’interno della grotta si mostra un lastrone lavico che si dice essere il letto di San Giovanni. Come abbia fatto il Battista a pernottare qui non si sa proprio.

L’ANTRO DEL DEMONIO Con l’avvento del Cristianesimo, lo zoppo dio del fuoco ed i suoi ciclopi furono drasticamente sfrattati dalla Chiesa (per mano dei suoi Padri e Dottori, primo fra tutti Gregorio Magno) che necessitava di un grande locale di tortura per collocarvi Lucifero e la sua corte di demoni. La terribile e ben collaudata fornace dell’Etna con le sue fontane di lava ed i suoi fiumi di fuoco si prestava benissimo per accogliere le anime dei peccatori e dei nemici della Chiesa. L’antro del demonio e l’eremo del Santo, uno dei più grandiosi ambienti ipogei che la fantasia umana abbia mai creato è una enorme caverna, simile ad un ventre, che l’Etna nasconde nelle sue abissali profondità infuocate; dapprima, secondo la tradizione classica, questo immenso antro zampillante magma fu occupato da Vulcano (Efesto in greco antico) dio del fuoco, che vi impiantò la mitica fucina in cui i ciclopi Bronte, Sterope e Arge forgiavano belle armature per gli eroi e fulmini per Giove. Da Vulcano a Lucifero quindi, da officina ad inferno. La seguente leggenda citata da Pitrè è molto esplicativa al riguardo; in essa il grande antro etneo, dopo lo

5 scontro dei campioni del bene e del male, una sorta di Titanomachia cristiana, diviene dimora del demonio e quindi sede dell’inferno. Il vulcano schiaccia Lucifero come già fece con Encelado e Tifeo; il cratere e le grotte diventano porta del terribile luogo. “Quando il Signore creò il mondo, creò anche gli Angeli, gli Arcangeli, i Serafini, i Cherubini e tutti. Tra questi Angeli ce n’era uno che si chiamava (Gesù sia lodato!) Lucifero. Lucifero si credette importante, e si mise a fare la guerra al Signore che l’aveva creato. Dio, stanco, mandò San Michele Arcangelo con un spada di fuoco per farlo uscire dal Paradiso.

IL FORO ROMANO Chi di voi è a conoscenza della presenza di questa manufatto d’epoca romana nella nostra città? Suppongo pochi, poiché non è stato mai reclamizzato, del resto come tanti altri siti di cui Catania è ricca, quasi al pari della Capitale. Confesso che neanche io ne ero a conoscenza fino a poco tempo fa. Allorquando, spinto dalla innata mia curiosità e bramosia di conoscenza, sono andato alla sua ricerca, devo confessare di non essere stato facile, infatti, mi sono trovato presso una piazzetta al centro della città, nei pressi di via Vittorio Emanuele II, con una insegna sul muro che recava la definizione di Cortile San Pantaleone. Quando ho chiesto ad alcune persone del luogo ho ricevuto solo delle risposte del tutto evasive, come ad esempio: <> oppure <> od anche <> le quali denotavano il fatto che in pochi sapevano di che stessi parlando. Nell’età romana il foro era una piazza monumentale che costituiva il centro della vita civile, economica e sociale della città e costituiva, altresì, il punto d’incontro ufficiale dei cittadini di tutti i territori della Repubblica. Ad un certo punto mi sono sentito contrariato ed alquanto sconcertato, essendo a bene a conoscenza dell’importanza di tale monumento che ha

5 attraversato la storia di Catania, tuttavia non mi sono perso d’animo ed ho continuato a girovagare ed a cercare, fintanto che non l’ho trovato. Trattavasi di una volta in pietra lavica, incassa alla parete di facciata, la quale non lasciava intravedere alcunché di ciò che di più prezioso doveva verosimilmente trovarsi al suo interno, infatti, un anonimo portoncino in ferro ne sbarrava inesorabilmente l’accesso. Ma ad onore del vero la cosa che mi ha maggiormente lasciato sconcertato è l’avere notato che qualcuno aveva impunemente costruito la propria abitazione, con un balcone che si affacciava sulla piazza, su tale reperto storico, proprio uno scempio simile a quelli perpetrati a danno di altri monumenti storici, di cui ho già precedentemente fatto menzione.

I SEPOLCRI SOTTO PALAZZO DELLE POSTE Nel 1924, durante i lavori di scavo delle fondazioni, nell’area compresa tra il lato meridionale della villa Bellini, la via Sant’Euplio e la via Etnea, vennero scoperti: un edificio di età imperiale romana, realizzato in conci di pietra lavica; una necropoli costituita, per lo più, da sepolcri formati da muretti di mattoni coperti da lastre in laterizio; una cisterna e un vano rettangolare posto a fianco dell’edificio di età imperiale. Una necropoli romana e cristiana sotto il palazzo delle Poste, in quello che era stato il palazzo Majorana. Questa costruzione dalla strana forma trapezoidale, si elevava per complessivi metri 7,60 con i lati adorni di un rivestimento uguale, sia per materiale, sia per lavorazione, ad alcuni pezzi del vicino anfiteatro, persino dello stesso I periodo dell’Impero Romano. Alcune iscrizioni indicavano la presenza di gruppi sepolcrali cristiani più orientali in contrada Santa Maria di Gesù e sotto la chiesa della Mecca, all’interno del vecchio Ospedale G. Garibaldi, e presso la chiesa del Carmine.

5 I pochissimi oggetti trovati, qualche vasetto, poche lucerne ed una lastra in marmo con un’iscrizione cristiana, sono testimonianza della povertà di questo complesso cimiteriale. La scoperta di questo sepolcreto ha consentito di acquisire interessanti elementi sull’estensione urbana di Catania romana ma è servita, anche, ad aggiungere un contributo alla conoscenza delle necropoli cristiane che recingevano la città dal lato settentrionale. Per quanto riguarda le botteghe di Palazzo Tezzano oltre al devastante incendio preesistente all’acquisto da parte del Fondo, nel corso di lavori di ristrutturazione sono emerse alcune tombe “a forno”, facenti parte di un’ampia necropoli di età tardo ellenistica-romana che si estende anche in un sotterraneo del Palazzo della Rinascente.

IL SARCOFAGO DI SANT’AGATA Poco tempo è giunta notizia che nella chiesa di Sant’Agata la Vetere padre Ugo Aresco stava riportando alla luce il passaggio che un tempo collegava la cripta con la vicina chiesa di Sant’Agata al Carcere, mettendo in luce anche altre strutture antiche. Si tratta del Sarcofago in cui, secondo tradizione, fu sepolta restò sul posto in cui Agata fu martirizzata oppure venne sistemato in un cimitero in cui nel terzo secolo venivano sepolti tutti i cristiani? Come anche molti devoti agatini sanno, la tradizione popolare parla a questo proposito del sotterraneo che si trova nella chiesa di San Gaetano alle Grotte in piazza Carlo Alberto, come del primo luogo di sepoltura della Martire. Ma anche qui non c’è nessuna sicurezza e nessuna testimonianza certa. Ci vorrebbero prove certe, quelle che in questi quasi diciotto secoli purtroppo non sono mai state trovate. Certo, è difficile credere che appena morta Sant’Agata sia stata seppellita nei pressi del martirio, cioè in un edificio sacro approntato sul momento e costituente il primo nucleo della chiesa di Sant’Agata la Vetere.

6 Più

verosimile è invece che la Giovinetta martirizzata sia stata sepolta dentro il sarcofago che ancora riteniamo suo, lì dove venivano seppelliti tutti i cristiani catanesi del III e del IV secolo. In questa ipotesi, che sembra la più razionale, ci viene in soccorso la scoperta fatta dagli archeologi negli anni Cinquanta quando, scavando nella zona di via Dottor Consoli (quasi alla confluenza di detta strada con via Androne e via Orto San Clemente), si misero in luce numerosi mausolei cristiani ed anche un martyrium, cioè una basilichetta triabsidata (trichora) degli inizi del IV secolo, costruita sopra quella che era una vera e propria necropoli.

Sant’Agata appena morta venne seppellita, probabilmente dentro lo stesso famoso sarcofago che conosciamo, lì dove c’è il cimitero cristiano e dove agli inizi del IV secolo venne costruita una piccola basilica per accoglierne le reliquie. Due secoli dopo, cresciuta a dismisura nel mondo e soprattutto a Catania la fama della Santa, accanto alla piccola chiesa ne viene costruita una molto più grande e più ricca di decorazioni, con al centro l’altare con il sarcofago che serve da basamento e su cui viene poggiata una mensa per le messe.

6 Passa dell’altro tempo e viene costruita una terza chiesa, forse proprio lì dove oggi sorge Sant’Agata la Vetere e dove viene trasferito il sarcofago con le spoglie mortali della Martire. Con gli anni, infatti, l’antico cimitero cristiano e le due basiliche sono caduti piano piano in disuso. Il resto è storia nota. Questa realtà sotterranea, che dopo essere stata scoperta e portata alla luce è tornata ad essere invisibile, conosciuta solo dagli studiosi e dagli addetti ai lavori per lunghi decenni, è ormai ricoperta da nuove costruzioni, senza contare le decine di tombe cristiane che si trovavano tutt’intorno e che sono state schiacciate e cancellate anch’esse dalle fondazioni di altri palazzi. Insomma, la Catania cristiana dei primi secoli è tutta sottoterra, compresa quella parte più preziosa che era dedicata ai martiri catanesi, a Sant’Agata in modo particolare. Come dire che una parte della devozione agatina dei Catanesi è stata seppellita una seconda volta. Il primo luogo di culto dei Catanesi per Sant’Agata era infatti, molto probabilmente, in quel cimitero cristiano di via Dottor Consoli e nelle due basiliche martiriali che ne ricordavano la santità, e non in questa o quella chiesa relativamente moderna. Lì si recavano i primi devoti con una lucerna per andare a pregare; lì portavano i propri figli ad indottrinarli sull’esempio di vita e di fede della Martire; lì le madri andavano a chiedere la grazia di una guarigione per i propri parenti; lì presbiteri e religiosi, passato il periodo delle persecuzioni, curavano il culto agatino e diffondevano le vicende biografiche della Santuzza che aveva resistito all’arroganza di Quinziano e dei Romani, senza cedere neanche per un momento ai tentativi di persuasione e alle violenze dei carnefici; lì raccontavano i prodigi che operava ancora non solo nella conversione dei cuori ma anche nel domare le forze della natura come le eruzioni dell’Etna e i terremoti; lì, agli inizi del IV secolo, gli affranti genitori della piccola Iulia Florentina sentirono di dover portare il corpicino della propria figlia facendo il viaggio da Hybla purché la bambina, battezzata,

6 potesse più sicuramente rinascere a vita eterna se seppellita presso le tombe dei martiri.

L’ANTICO TEMPIO DI CERERE Il Bastione degli Infetti, o almeno quello che ne rimane oggi, conserva ricordi molto più antichi, ormai quasi del tutto dimenticati, e proprio per questo da riportare alla memoria. Tra il Bastione degli Infetti e la Torre del Vescovo, oggi scenario del caotico traffico cittadino e, purtroppo, di un sempre più evidente degrado urbano, sorgeva un tempo un edificio sacro così importante da rivaleggiare addirittura con quello presente nella città di Roma, cioè il Tempio di Cerere. Di questa pregevole costruzione rimangono oggi soltanto alcuni antichi disegni e la descrizione fatta da Cicerone. Il Tempio sorgeva a settentrione e la sua importanza, oltre per il fatto di essere dedicato a una divinità molto onorata e riconosciuta in tutta la Sicilia, era dovuta al fatto che, al suo interno, veniva custodita una antichissima statua della Dea, una statua che non tutti conoscevano visto che l’accesso al Tempio era riservato soltanto alle donne. Dopo le molteplici calamità che colpirono Catania, del Tempio rimase ben poco, tanto da farlo quasi entrare nella leggenda, d’altra parte la sua storia risulta essere così affascinante e misteriosa che non furono pochi gli storici a dubitare della sua stessa esistenza. Riprendendo le memorie di Cicerone nelle “Verrine” parla di un sacrario a lei dedicato a Catania, infatti, scopriamo che l’intera Sicilia era consacrata sia a Cerere che ad un’altra divinità chiamata Libera. Quest’ultima veniva ricordata con il nome di Proserpina, figlia di Cerere, e protagonista del secondo luogo dimenticato della città citato nel titolo di questo articolo: la Grotta dell’Ade.

6 Esiste un’antica credenza popolare che si fonda su antichissimi documenti e testimonianze che tutta la Sicilia sia consacrate a Cerere e Libera. Non è profonda persuasione a tal punto da sembrare insito e connaturato nell’animo, infatti, credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in questa terra per prima siano nate e scoperte e che Libera, che i catanesi chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi. Per parlare di questo luogo, intimamente legato al Tempio di Cerere e al famoso rapimento della figlia Proserpina, dobbiamo spostarci dall’altro lato della città, nel quartiere Santa Sofia. Questa zona, spesso sottovalutata storicamente, prende il nome dalla collina omonima, ma più esattamente da una grotta, il cui accesso oggi risulta completamente ostruito, che un tempo si pensava fosse l’ingresso al regno dei morti. La grotta in seguito divenne famosa per un altro motivo, si sparse infatti la voce che al suo interno fosse custodito un favoloso tesoro. Questa notizia attirò curiosi, avventurieri e cercatori di tesori da tutta la Sicilia, tanto che all’inizio del secolo il proprietario del terreno decise di ostruire per sempre l’ingresso della grotta. Il territorio di Santa Sofìa è quasi interamente interessato dalla presenza dell’omonima collina. L’area ospita la sede della Cittadella Universitaria e dell’Osservatorio Astrofisico. Tra le tante leggende della nostra terra ve n’è una, quella della Grotta di Santa Sofìa, oggi interrata, che merita sicuramente la nostra attenzione. Storici e scrittori come Pietro Carrera, descrissero i cunicoli vulcanici della Grotta di Santa Sofia come l’ingresso degli Inferi. Secondo costoro qui venne compiuto il famoso ratto di Proserpina, messo in atto da Plutone, sconfessando così le scritture di Ovidio che collocavano il rapimento nei pressi del lago di Pergusa. Si narra inoltre che ai piedi della collina sorgesse un vero e proprio tempio dedicato a Cerere, all’interno del quale era conservato il fuoco sacro perpetuo sorvegliato da due cani mastini.

6 L’esistenza del tempio non è mai stata verificata, ma un’altra versione storica ci racconta della presenza di un monastero di donne sotto il nome di Santa Sofia. La tradizione vuole che fosse uno dei monasteri fatti costruire in Sicilia da Giuliano di Le Mans, vescovo romano e santo della Chiesa cattolica, inviato in Gallia per predicare il Vangelo presso la tribù celtica dei Cenomani. La collina venne dunque chiamata Santa Sofia per la presenza di questo monastero collocato sui suoi fianchi. Anche il mecenate Ignazio Biscari sosteneva di aver identificato alcuni ruderi appartenenti al tempio di Cerere, trovati esattamente nella zona del Bastione degli Infetti e sotto la via Botte dell’Acqua, e consolida la sua affermazione in base al fatto che in quel luogo furono trovate una iscrizione nella quale c’è inciso il nome di Demetra ed una statuetta di Cerere. Cerere, sorella di Giove (madre Terra) per i latini, Demetra per i greci, in Sicilia fu venerata fin dai tempi in cui i greci dominarono la Sicilia. Dea delle messi, della terra, dei campi, raffigurata come una nobile matrona con veste dorica, una corona di spighe sul capo. Infatti, Demetra, fa rinascere fiori e semi nei campi. Proserpina era venerata come fanciulla, Kore, e come regina degli Inferi. E’ rappresentata con una fiaccola in una mano ed uno scettro nell’altra, dall’unione con lo stesso Giove, generò Proserpina, corrispondente alla dea Persefone o Kore venerata dai greci, che rappresentò la rinascita. La leggenda del ratto di Proserpina è un’allegoria della natura e del ciclo della vegetazione, che muore e rinasce. La sua statua è posta sulla cima di un piedistallo in stile barocco realizzato in marmo di Carrara, posto all’interno di una vasca per il contenimento dell’acqua emessa dagli ugelli idrici. E’ abbigliata con vesti classiche ma pudiche, con aria e posa flemmatica, nell’atto di brandire una falce. Il piedistallo quadrato su cui poggia, il cui bordo piega simmetricamente in modo sinuoso, presenta su ogni lato un mascherone corrucciato, dalla cui bocca sgorga acqua, che finisce in una prima vasca sospesa in

6 forma di quattro grosse conchiglie, da questa trabocca direttamente verso la vasca principale più bassa, posta a terra e chiusa da un alto e robusto margine in pietra. Nel compiere questo tragitto scorre irregolarmente sulla parte portante della fontana, costituita da quattro delfini angolari, anch’essi dotati di ugello-boccale, da una ricca copertura di finto pietrame riprodotto sempre in marmo, nel quale si trovano incastonate due lapidi testimonianti la costruzione dell’opera per mano dell’Orlando e l’identità della dea rappresentata e da alcune piccole figure scolpite, quali piccoli volti e animali marini. Nella sua primitiva posizione, la fontana si trovava a fronteggiare il settecentesco palazzo dell’Università catanese, o Syculorum Gymnasium, luogo per cui, con dovizia di riferimenti culturali alti, era stata pensata dal suo artefice, il palermitano Giuseppe Orlando, che la scolpì nel 1757. La commissione giungeva dal Senato catanese il quale, in base a quanto tramandato, accolse le richieste e le suppliche di parte della popolazione locale per l’erezione di un monumento finalizzato ad ingraziarsi il favore della natura e 4 della prosperità, vista la devastante carestia che attanagliava il val di Noto dal 1756. Cerere, per definizione dea della fertilità, nonché divinità radicata nella cultura siciliana da secoli, fu dunque la figura divina, anche se pagana, prescelta per l’opera, che venne decretata fontana. Inizialmente fu molto apprezzata, sulla base delle testimonianze dell’epoca il gradimento dell’opera risulta progressivamente scemare, tanto da parte della nobiltà catanese quanto della borghesia e più in generale della popolazione, forse anche per l’auspicato ma non concesso aiuto divino di cui l’opera era stata investita, finché il Senato non fece ufficialmente smontare l’intera fontana, spostandola al Borgo, luogo molto distante da piazza Università, anche se comunicante anch’esso con la principale via Etnea. A partire da questo momento, attorno alla fontana sorsero dicerie e leggende popolari relative ad una certa sfortuna che l’avrebbe da sempre accompagnata. Ben

6 presto la statua della dea venne vandalizzata con la mutilazione del naso e delle braccia, e quindi rattoppata. Ad alimentare queste interpretazioni nefaste, contribuì nel 1882 la morte per infarto del suo restauratore, lo scultore Francesco Licata, proprio all’interno della vasca principale, dove si era introdotto per effettuare una semplice manutenzione. Oggi la fontana è circondata da un corridoio piastrellato a ciottoli, con due basse rampe d’accesso, che a loro volta sono racchiuse da un gradevole praticello. L’impianto idraulico dell’opera, invece, si presenta in cattivo stato per via di superficiale manutenzione e per l’aggiunta, nel XX secolo, di alcuni tubi a spruzzo verticale, molto visibili ed antiestetici, infissi sul fondo della vasca più grande. La fontana di Cerere è inoltre nota per un equivoco ormai divenuto storico che riguarda proprio il suo nome. All’indomani della realizzazione, il popolo catanese la scambiò per la Dea Pallade ed iniziò a chiamarla in maniera 4 dispregiativa la “tapàllara”. Ancor oggi la statua è simpaticamente ricordata con questo particolare soprannome, che viene spesso utilizzato per indicare una ragazza poco affascinante. Non è raro, infatti, che a Catania una giovane donna non molto bella possa essere definita “lària comu a tapàllara ‘do Bùggu” (brutta come la “tapàllara” del Borgo).

SARCOFAGO DI VIA NINO MARTOGLIO Sarcofago di Dulcitia (dim. 0,45x1,94x0,55) rinvenuto nei pressi di Via Nino Martoglio, è conservato presso il Museo Civico di Castello Ursino. Sulla fronte al centro, una corona di fiori, retta da due geni alati, visti frontalmente, molto diversi dai geni trovati in altri sarcofagi. Entro la corona sono incisi le seguenti due parole Dulciti Habe (cognome romano Dulcitius o Dulcitia, Ave), di sapore cristiano.

6 Era la forma di saluto tipicamente pagana, tuttavia non è escluso possa essere cristiana. Sui lati brevi risulta decorato con due festoni di fiori. Probabilmente si tratta di un lavoro dell’artigianato locale, databile fine IV secolo.

LA VIA POMPEIA Nella Sicilia greca all’arrivo dei Romani, una efficiente rete viaria ricopriva l’intera superficie dell’Isola, mentre grandi scali marittimi la integravano nei traffici dei regni ellenistici e col mondo punico. Una fitta maglia di trazzere, dall’interno dell’Isola, consentiva di avviare i vari prodotti verso gli scali minori e da qui, attraverso un servizio di piccolo cabotaggio, ai grandi porti. Per viaggiare i Romani si servivano di diversi tipi di carte stradali: gli “Itineraria scripta” e gli “Itineraria picta”, le prime erano guide scritte, le seconde disegnate. Entrambi i tipi offrivano informazioni preziose, infatti riportavano le distanze che intercorrevano tra i principali centri abitati, annotando anche pubblici locali per le soste dei viaggiatori per il cambio dei cavalli. La ricerca sulla via Pompeia, che si è sviluppata nell’arco di tre anni, riguarda la ricostruzione del tracciato viario romano tra Messina e Siracusa, quella strada che Cicerone fugacemente citò come via Pompeia. Poiché di essa non esiste altra traccia nelle opere antiche, l’indagine è stata soprattutto concentrata sulla ricognizione archeologica, al fine di individuare sul terreno tracce visibili dell’antica via. L’ipotesi finale è stata successivamente costruita da un lato, sull’ubicazione delle emergenze archeologiche note da bibliografia e, dall’altro, sull’analisi diretta del territorio attraversato dalla strada, che si snoda attraverso tre province e oltre trenta comuni, per una lunghezza totale di circa 150 chilometri.

6 Il testo è arricchito con numerose illustrazioni, con carte analitiche e corredato da tavole, redatte sulla base della cartografia IGM, che sintetizzano il presunto andamento del tracciato viario. Nella Sicilia greca all’arrivo dei Romani, una efficiente rete viaria ricopriva l’intera superficie dell’Isola, mentre grandi scali marittimi la integravano nei traffici dei regni ellenistici e col mondo punico. Una fitta maglia di trazzere, dall’interno dell’Isola, consentiva di avviare i vari prodotti verso gli scali minori e da qui, attraverso un servizio di piccolo cabotaggio, ai grandi porti, come Aquileia Venezia, Civitavecchia, Taranto, Brindisi. Se queste vie non potevano essere che radiali, cioè dall’interno verso la costa, varie testimonianze permettono di accertare anche l’esistenza di vie para litoranee come la via Elorina (SR), menzionata dallo storico e filosofo ateniese Tucidide, o gran parte della via Selinuntina. L’area centro orientale dell’Isola, rimasta a lungo sotto l’influenza di Siracusa, godeva di un proprio sistema di collegamenti terrestri, di conseguenza qui il progetto di viabilità romana si limitò a ripristinare il preesistente con interventi sia nella strada principale che percorreva la costa ionica da Messina a Siracusa, sia con i prolungamenti della via Elorina a sud, e della via Selinuntina ad ovest. L’estrema Sicilia occidentale, poiché in mano ai cartaginesi, era rimasta estranea ad ogni progetto viario delle città siceliote. Ma quando Roma, nel III secolo a.C., si trovò interessata ad una politica economica di respiro mediterraneo, lo scontro con Cartagine divenne inevitabile e, proprio la Sicilia occidentale, in quanto teatro della prima guerra punica, fu per prima, dai romani, dotata di un sistema viario nato per esigenze militari. Quando dopo le guerre puniche la Sicilia perse ogni interesse strategico, Roma, coinvolta in una politica di respiro mediterraneo, si limitò a tenere efficienti comodi punti di appoggio costieri, costituiti dai grandi porti quali Siracusa, Messina, Palermo e Catania. Né lo sfruttamento, mai allentato, delle risorse agricole,

6 minerarie e forestali dell’isola valse a migliorare la viabilità interna, in quanto l’uso della “deportatio ad acquam”, soprattutto della produzione cerealicola, finì col potenziare ulteriormente le strutture portuali. L’area dove sorgeva la prima tomba di Sant’Agata, quella presso la zona del santuario della madonna del Carmelo, in epoca romana, era una grande necropoli monumentale che, non a caso, fiancheggiava la via Pompeia, strada che, in questo tratto, era ad un livello inferiore di 4 metri rispetto alla colata lavica preistorica su cui era stata edificata questa tomba che, dal basso, doveva apparire enorme, imponente, spettacolare. La realizzazione della rete viaria si attuò, nel suo insieme negli ultimi due secoli della Repubblica tra la prima guerra punica e l’età di Pompeo. Nel 227 a.C., la Sicilia era diventata provincia romana ed era già servita da un sistema viario che riutilizzava, in parte, i vecchi tracciati greci. Ma nell’ultimo secolo della Repubblica l’istaurarsi della grande proprietà privata dava inizio alla “suburbanitas Siciliae”, che si sarebbe sempre più aggravata con l’inizio del Principato. Sotto Ottaviano Augusto, fondatore dell’Impero Romano, si ebbe non solo la stagnazione dell’attività economica, ma anche la marginalizzazione della Sicilia, l’Egitto, infatti, era divenuto il nuovo granaio di Roma. In questo periodo si diffuse il latifondo e si volse l’attenzione alla rete viaria minore necessaria per avviare ai grandi porti la produzione cerealicola. Segni di qualche risveglio si ebbero sotto la dinastia dei Severi che, incrementando lo sviluppo e l’importanza delle province africane, restituirono alla Sicilia un ruolo economico strategico. Sotto Diocleziano (286-305) la riforma delle province e l’“Edictum pretiis” significarono per la Sicilia l’istaurarsi di un rapporto istituzionale con la capitale. L’isola ritornò così al centro dei traffici del Mediterraneo tra Oriente, Egitto ed Africa da una parte e Roma dall’altra. La presunta via Pompeia, prenderà poi la denominazione di “dromos”, “strada principale”; congiungeva lo stretto di Messina

7 con Taormina, Aci, Catania, Lentini, e Siracusa, quest’ultima importante scalo marittimo e nodo viario, mentre la Catania Termini correva alle falde meridionali dell’Etna fino a Paternò, poi proseguiva per Centuripe, Agira ed Enna. In Sicilia sono stati individuati circa 100 insediamenti tra fattorie, stationes e mansiones. Sulla litoranea per “marittima loca”, in prossimità di Gela, ritroviamo le fattorie Calvis, Chalis; sulla Catania–Agrigento le “stationes” Philosophiana, Calvisiana, Comitiana, Capitoniana, Calloniana, Corconiana, Petiliana ed altre ancora. Connessa a queste fattorie è una rete viaria minore, portata alla luce durante gli scavi degli anni ’60, tra Butera e Gela, tale rete remota collegava le zone interne tra loro e con le principali arterie di comunicazione stradali. Nata, in un primo momento, per esigenze militari, la rete viaria della Sicilia non interessò mai fino in fondo Roma, infatti dopo le conquiste, le uniche opere di cui abbiamo notizia le ritroviamo nelle “Verrine” di Cicerone (serie di orazioni scritte da Cicerone), che scrive di un intervento, dovuto a Pompeo Magno, tra l’ 82 e l’80 a.C., a cui si deve la realizzazione della via Pompeia, in partenza da Messina. Anche un’iscrizione rinvenuta a Siracusa, faceva accenno, nell’88 a.C., a qualche restauro, a scopi militari, nella vecchia via Selinuntina. Durante il principato di Augusto fu riorganizzato il servizio postale, riutilizzando la rete viaria greca, in seguito per circa 360 anni, nel corso dell’impero non si ha più notizia di interventi sulla viabilità isolana. Nel IV secolo, pochi provvedimenti furono presi da Giuliano l’Apostata prima, e da Valentiniano dopo. A partire poi, dall’invasione vandalica del 440 d.C., alcuni fattori di disgregazione dell’Impero romano, come la mancanza di interventi del potere centrale si sommarono, per quanto riguarda la politica stradale, ad una inconfessata quanto operante volontà di evitare il ripristino delle grandi arterie: si trattava di reazione di autodifesa, in quanto le strade sembravano avvicinare il pericolo di rapide incursioni; la viabilità tornava ad essere a fondo naturale e dovette presentarsi

7 in condizioni non dissimili dalla vecchie trazzere o mulattiere di epoca arcaica, riprese in parte da alcune odierne strade statali. Uno dei tratti, su cui maggiormente si discute da parte degli studiosi, è il percorso che da Catania conduceva ad Agrigento, via interna che si staccava a Catania dalla para litoranea Via Pompeia e si dirigeva alla costa centromeridionale attraversando la Piana di Catania, forse uscendo dalla città da sud-ovest, come avveniva anche per la strada che portava a Siracusa. Il tracciato è presente due volte nell’Itinerarium Antonini o Provinciarum2 , che ne descrive in tutto nove, ma non compare nella Tabula Peutingeriana. Si tratta di un percorso interno doppiamente citato. Infatti, a quello definito “A Traiecto Lilybeo”, che dallo Stretto di Messina conduceva a Catania e da qui, per via interna, ad Agrigento, da dove proseguiva lungo la costa sud occidentale, probabilmente già esistente nel III secolo, se ne aggiunge un secondo, noto come Item a. C. La prima redazione, dunque, testimonierebbe una situazione relativa alla seconda metà o alla fine del III secolo d.C., a seconda che la si attribuisca all’epoca di Caracalla o a quella di Diocleziano. Al tempo del geografo arabo Muhammad al-Idrisi era ancora necessario percorrere una media di 25 m. p. al giorno per raggiungere a cavallo in sette giorni Palermo da Messina (cioè all’incirca 36 chilometri, né la situazione all’epoca dei Romani doveva presentarsi differente. Una leggera deviazione realizzata nel IV secolo ha lievemente accorciato le distanze fra le due città. In giornate di cammino la differenza è sostanzialmente poca. Ma lungo le strade romane non esistevano solo le grandi stationes con funzione di accentramento fiscale o le mansiones a carattere militare; a metà giornata era spesso necessario per il viaggiatore appoggiarsi a strutture intermedie di passaggio, poste a leggera distanza dalla strada principale e facilmente raggiungibili tramite dei diverticoli , necessarie specialmente per il cambio del cavallo.

7 La ricostruzione della viabilità della Sicilia in età romana ha, da sempre, presentato una serie di difficoltà, legate soprattutto alla mancanza di testimonianze archeologiche. L’archeologo Paolo Orsi, però, aveva tentato un approccio di tipo storico- filologico, sostenendo, nel 1907, che “chi ponesse mano allo studio della viabilità della Sicilia antica, da nessuno mai tentato, arriverebbe alla singolare conclusione che tutte le vecchie trazzere non erano in ultima analisi che le pessime e grandi strade dell’antichità greca e romana, e talune forse rimandano ancora più addietro”. Sulla scorta di questa affermazione è stato possibile ipotizzare che i tracciati viari siano rimasti sostanzialmente immutati almeno dall’età protostorica e che soltanto in alcuni casi la viabilità principale e secondaria abbia subito dei rimaneggiamenti nel corso dei secoli. Questo studio nasce dal tentativo di ricostruire l’andamento di una delle strade forse più importanti della Sicilia romana, quella, cioè, che collegava i maggiori centri della costa orientale e che giungeva fino a Siracusa. Essa, al contrario delle altre strade che, nella tradizione, venivano indicate col nome del promotore della realizzazione o del restauro, non ha nome; viene riconosciuta nella letteratura archeologica col nome di Via Pompeia, ma, a parte la fugace citazione di Cicerone, non si hanno altre testimonianze precise, tanto che viene spesso confusa con la Via Valeria, oggi correttamente identificata come la via costiera settentrionale. La cosiddetta Via Pompeia partiva, dunque, dal Traiectus, localizzabile nei pressi dell’insediamento tardoantico scavato nel corso degli anni ’90 su un’altura immediatamente a ridosso del Pantano Grande di Ganzirri. Sul litorale, poco a sud-est dell’insediamento, nel corso delle ricognizioni, è stato possibile identificare una lunga struttura semisommersa, realizzata in malta cementizia, che potrebbe costituire un avanzo delle opere di sistemazione dell’approdo. Da qui la strada proseguiva verso sud, seguendo probabilmente il

7 tracciato moderno dell’attuale via Consolare Pompea, ed entrava, approssimativamente all’altezza dell’attuale viale Boccetta, nel centro urbano di Messina, esteso, in età romana, fino alle estreme propaggini del Monte Piselli. Oltre questo confine naturale, infatti, lungo il percorso dell’attuale via Catania, il rinvenimento di un abitato rurale di età romana imperiale, permette di ipotizzare con sufficiente chiarezza l’andamento del tracciato antico, che ancora più a sud lambiva, presumibilmente, la località dove sorse la villa tardo imperiale di Pistunina. Il tracciato seguiva dunque la linea di costa, ma la ricostruzione particolareggiata del suo andamento è impedita, a partire da Pistunina e fino a Calatabiano, dall’urbanizzazione selvaggia che caratterizza tutta la fascia costiera della Sicilia nord-orientale. Ricostruzione ben più complessa è quella della strada immediatamente fuori dalla zona sud di Catania: dagli studiosi sei-settecenteschi sappiamo che una porta doveva trovarsi nelle mura nei pressi del Castello Ursino, dove, nelle immediate vicinanze, sorgeva anche la cosiddetta “Naumachia”. È quindi probabile che la strada romana lasciasse la città in questi paraggi per dirigersi a sud-ovest, verso l’attuale quartiere di Librino, dove è segnalata la presenza di resti di una villa romana e, forse, di un impianto termale. Particolarmente complessa si è rivelata la formulazione di una ipotesi per il tracciato immediatamente fuori da quella che doveva essere l’area occupata in età romana: l’insediamento di numerose industrie di piccole e medie dimensioni, la realizzazione della viabilità di servizio, la costruzione dell’aeroporto e della tangenziale hanno prodotto delle modificazioni così radicali nel paesaggio antico da non permettere di rilevare nessuna persistenza di tracciati né di resti archeologici. Da qui il tracciato viario scendeva probabilmente verso l’attuale SS 192 Catania-Enna, per poi proseguire, attraverso la Piana di Catania, verso la contrada Passo Martino, dove doveva trovarsi l’insediamento di Symaetus con la relativa necropoli. In questo punto si trovava presumibilmente il traghetto, cioè un

7 attraversamento con barca, come attestato per le epoche successive anche dal nome che tradizionalmente viene assegnato al fiume Simeto, ovvero Giarretta. L’impossibilità di costruire un ponte fu, probabilmente, dovuta alla violenza delle piene: il principe di Biscari, Ignazio Paternò Castello, tra il 1765 e il 1777 ne fece edificare uno che venne completamente distrutto da un’alluvione cinque anni dopo il completamento. Proseguendo verso sud, presso la contrada Grotte San Giorgio, venne localizzata un’area di frammenti fittili dove Giovanni Uggeri dell’Università di Roma, propose di ubicare Symaetus. Secondo le precise indicazioni di l’architetto e geologo catanese Carmelo Sciuto Patti, tuttavia, non sembra probabile che il sito fosse così distante dalla riva del fiume. Da qui la strada scendeva verso sud lungo la provinciale fino all’incrocio attuale con la SS 385, lungo la quale è segnalata una fattoria di età augustea, della quale rimanevano ampie porzioni di strutture murarie. Il percorso proseguiva probabilmente seguendo quello dell’attuale provinciale SP 95, che attraversava il fiume San Leonardo all’altezza dell’attuale Ponte dei Malati, dove è nota un’altra fattoria di età romana imperiale.

IL LAGO DI NICITO Catania in tempi remoti possedeva anche un lago, il quale durante il periodo bizantino fu chiamato Lago di Aniceto (l’invincibile) forse per via del nome di uno dei proprietari della zona, mentre durante il Medioevo venne chiamato Lago di Nichitu. Detto lago era talmente vasto che, durante il 1652 vi si combattè una finta battaglia navale, una cosiddetta naumachia, in occasione di una festa popolare. Nell’aprile del 1669 venne definitivamente coperto dalle lave dell’Etna, per tale motivo, di esso è rimasto soltanto il ricordo nel nome della via Lago di Nicito, proprio presso la zona dove al tempo dei Romani avvenivano le sepolture dei Martiri Cristiani e dei Santi catanesi.

7 L’IMPERATORE ADRIANO SULL’ETNA Le pendici etnee erano in età romana sfruttate in maniera intensiva con coltivazioni di vino e olio ma sino adesso le ricerche archeologiche non sono state effettuate in maniera estensiva e completa. L’Historia Augusta riporta la notizia della visita dell’imperatore Adriano dei crateri sommitali per ammirare il sorgere del sole e si è tentato di attribuire alla sua visita la costruzione di un edificio commemorativo immortalato in una incisione di Jean-Pierre Louis Laurent Houël, incisore, pittore ed architetto francese. Alle notizie storiche la ricerca archeologica ha cercato conferme, benché le continue colate laviche che si sono succedute sin dall’età preistorica, associate spesso con l’apertura di bocche secondarie a bassa quota, abbiano modificato il territorio, modificazione a cui si aggiunge l’attività umana di cementificazione. Le evidenze archeologiche del territorio etneo sono presenti nelle zone risparmiate dalle colate laviche di varia epoca e mostrano importanti processi di occupazione in età romana con sfruttamento agricolo delle terre. La ricerca archeologica ha evidenziato delle aree di probabili insediamenti di età romana a Viagrande, in contrada Sciarelle e Poio e nell’area di Trecastagni in contrada Tremonti. Una fortunata casualità ha messo in luce recentemente in contrada Cisternazza di Mascalucia un importante insediamento di età rurale, rinvenuto in occasione dei lavori per la posa in opera di un metanodotto tra San Pietro Clarenza e San Giovanni La Punta. L’insediamento ebbe vita piuttosto lunga e notevole estensione ed era certamente legato allo sfruttamento agricolo con la produzione di vino o di olio. Lo scavo dell’insediamento ha permesso di ricostruire gli avvenimenti tramite gli strati di cenere vulcanica rinvenuti sotto un muro di terrazzamento da connettere ad eruzioni vulcaniche ravvicinate. Le fonti antiche attestano nel II secolo a.C. tre eruzioni vulcaniche in tempi piuttosto ravvicinati, tra il 140, il 135 ed infine il 122, quest’ultima descritta dal presbitero, storico e apologeta romano, Paolo Orosio e

7 continuate nel I secolo a.C. tra il 50, il 44, il 36 e il 32 a C., quest’ultima ricordata da Lucio Cassio Dione, storico e senatore romano di lingua greca, che rovinò i raccolti e arrecò gravi danni alle città. Alle eruzioni vulcaniche si aggiunse l’azione di violenti terremoti verificatisi nel I secolo a.C., eventi che mutarono il volto non solo della regione etnea ma di tutta l’isola e che sono stati probabilmente la causa dell’abbandono di officine con interruzione di fiorenti produzioni vascolari. Le ricerche archeologiche effettuate nella medesima zona di Contrada Cisternazza hanno inoltre dato il via ad una serie di perlustrazioni e ricerche storiche, che hanno permesso di individuare altre zone nel territorio di Mascalucia. Una delle contrade più note in letteratura è quella denominata “Ombra”, a pochi km a nord dell’odierno centro, il cui toponimo ha suscitato da secoli l’interesse e stimolato la fantasia di storici ed eruditi, fra i quali Nicolas Fréret, storico e linguista francese, che nella sua Histoire lo ha collegato allo stanziamento di un omonimo popolo degli Ombri, che sarebbe giunto in Sicilia insieme ai Pelasgi e ai Siculi. In tale contrada si vedono ancora oggi i ruderi di una torre, denominata del Grifo. Questa, ricordata già da Carrera a proposito di un’eruzione vulcanica datata al 1573, è poi descritta dall’abate Vito Maria Amico, che la denomina “del Portuso” e la pose vicino ad una grande cisterna. L’erudito locale Somma, probabilmente riferendosi ai propri possedimenti, segnalò il rinvenimento, durante i lavori agricoli, di sepolcreti nelle campagne della medesima contrada, con vasellame e altri oggetti di corredo, molti dei quali facenti parte di una sua collezione privata. Tra questi oggetti descrisse il disco di una lucerna con decorazione figurata rappresentante Zeus con un’aquila e un notevole numero di monete romane di età repubblicana e imperiale. Dalle notizie sopra riportate si può dedurre la presenza in siffatta contrada e nell’area vicina alla torre, di sepolture romane in sarcofagi fittili, posti in fosse scavate nel terreno e protette da mattoni. Della torre del Grifo non si

7 hanno molte altre descrizioni, né il monumento è mai stato oggetto di alcuna investigazione archeologica, essendo, al momento attuale, all’interno di una proprietà privata ed inglobato nei resti di una masseria della fine dell’Ottocento. Anche se parzialmente distrutta, la torre presenta pianta quadrata e un alzato in conci di pietra lavica, legati con malta, caratteristiche che ricordano il sepolcro romano di Monte San Paolillo alla periferia nord di Catania.

L’Historia Augusta (una raccolta di biografie ed un insieme di vite, di interesse considerevole, redatta da sei scrittori differenti, di imperatori ed usurpatori romani, comprendente l’arco di tempo che va da Adriano a Numeriano), riporta la notizia della visita dell’imperatore Adriano presso i crateri sommitali per ammirare il sorgere del sole e si è tentato attribuire alla sua visita la costruzione di un edificio commemorativo immortalato in una incisione di Houel. Alle notizie storiche la ricerca archeologica ha cercato conferme, benché le continue colate laviche che si sono succedute sin dall’età preistorica, associate spesso con l’apertura di bocche secondarie a bassa quota, abbiano modificato il territorio, modificazione a cui si aggiunge l’attività umana di cementificazione. Le evidenze archeologiche del territorio etneo sono presenti nelle zone risparmiate dalle colate laviche di varia epoca e mostrano importanti processi di occupazione in età romana con sfruttamento agricolo delle terre. La ricerca archeologica, inoltre, ha evidenziato delle aree di probabili insediamenti di età romana a Viagrande, in contrada Sciarelle e Poio e nell’area di Trecastagni, contrada Tremonti.

LA TOMBA ROMANA DI MONTE SAN PAOLILLO Al confine tra Sant’Agata li Battiati ed i quartieri catanesi di Barriera del Bosco e Canalicchio sorge il monte San Paolillo, questo colle posto al confine della circoscrizione, riveste un ruolo non marginale nella zona della Licatìa, così, ancora oggi, la chiamano gli abitanti di Barriera e Canalicchio.

7 La bellezza di questa cintura verde è legata alla presenza di tre habitat con caratteristiche ecologiche differenti: l’ambiente umido, il pianoro di Monte San Paolillo e la Timpa di Leucatia. L’ambiente umido è per molti aspetti unico, presenta una grandissima varietà di specie animali e vegetali, nonostante sia circondato da case e strade di un centro urbano che ha fagocitato quella che una volta era periferia. Questa straordinaria zona umida urbana è dovuta alla presenza di numerose sorgenti di acque dolci provenienti dall’Etna. In seguito, infatti, al contatto tra le lave dei Centri alcalini eruttivi antichi e le argille marnose del Siciliano, avviene l’affioramento delle acque sotterranee lungo una fascia compresa tra il territorio comunale di Sant’Agata li Battiati e Catania, una preziosa risorsa che favorì la formazione di insediamenti umani sin dalla preistoria. Certamente ne fruirono le popolazioni dell’Età del Bronzo, che ci lasciarono numerose testimonianze della loro presenza nelle tante grotte esistenti nelle antiche lave di Barriera e Canalicchio. Abitato in epoca preistorica, ricco di sorgenti di acqua, in epoca Romana vi si ricavò un imponente edificio. Nel Cinquecento i monaci Benedettini vi realizzarono le vasche di raccolta per il sistema idrico che approvvigionava il monastero e la città.

IPOGEO DELLA COLLINA LEUCATIA

Per ritrovare un altro monumento funerario dobbiamo allontanarci dal centro di Catania e spostarci alla periferia in cima alla collina Leucatia. In cima al monte San Paolillo, resistono all’ingiuria del tempo e dell’uomo i ruderi di un edificio che ricorda la tipologia di alcuni monumenti sepolcrali romani rinvenuti nella città di Catania ed in alcune aree della fascia costiera ionica. Sin dal XVII secolo, si narrava di un’antica costruzione risalente al II-III sec. d.C., riferibile a un tempio di epoca romana, dedicato alla dea Leucotea, di forma quadrata, edificata con grossi blocchi basaltici, con all’interno tre nicchie e coperta a

7 volta. La forma quadrata era ascrivibile alla presenza di muri di rivestimento sui lati est, sud e ovest, prolungati fino a incontrarsi ad angolo retto. Le pareti dovevano presentarsi prive di alcun rivestimento marmoreo. La costruzione della monumentale tomba, agli inizi del ‘900, subì consistenti modifiche, onde consentire, sia una più comoda visione panoramica della città, sia l’appostamento di cacciatori pronti a sparare all’avifauna di passaggio, sarebbe stato costruito un terrazzino con annessa scalinata al posto dell’originaria artistica cupola. Sempre qui, la Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Catania, dal novembre al dicembre 1994 ha condotto una campagna di scavi in seguito alla quale sono stati riportati alla luce, sparsi in un raggio di alcune decine di metri, altri interessanti ritrovamenti: il banco lavico del monumento funerario, una tomba a cassa (sempre di epoca romana), un muro spesso 80 cm e lungo 6 m, che gli esperti, esaminata la tecnica di costruzione, fanno risalire addirittura al IV sec. a.C. E, ancora, materiale ceramico attribuibile al passaggio dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro, frammenti ceramici ascrivibili al periodo che va dal Bronzo medio all’epoca greco-arcaica. L’anno successivo, inoltre, sono stati rinvenuti lembi di ciottoli fluviali compattati, sormontati da un piano di calpestio in terra battuta e pochi frammenti riconducibili presumibilmente al Bronzo medio. La breve campagna di scavi ha consentito agli archeologi di verificare quanto già scritto nei secoli passati dai cultori della storia catanese e vale a dire che la presenza di notevole materiale stratificato non solo testimonia con certezza il passaggio di antiche civiltà, ma apre nuovi scenari dalla Preistoria alla colonizzazione greca. Ultimamente una campagna di scavo della Soprintendenza effettuata a poche decine di metri dal cantiere bloccato dalla magistratura ha riportato alla luce i resti di un villaggio preistorico. L’analisi dei reperti finora recuperati confermano che la colonizzazione del territorio non è avvenuta solo a partire dalla città antica, ma

8 contemporaneamente in aree periferiche che potevano avere per i Calcidesi una posizione strategica militare ed economica. E la collina di Leucatia risponde a queste esigenze, tant’è vero che fu abitata da uomini primitivi che sfruttarono le sorgenti d’acqua e la naturale posizione di difesa del sito. Le conoscenze raggiunte permettono, inoltre, di affermare che non solo l’area ricopre un interesse archeologico di gran pregio in quanto testimonianza diretta d’insediamenti indigeni precoloniali, ma anche dell’appartenenza del monumento funerario ad una vasta area di necropoli di epoca romana asserita lungo la direttrice della Catania Messina. Un’altra importante annotazione è che l’attuale area era un’impenetrabile selva di querce e pini. In epoca romana, la legna ricavata da quei boschi, una volta trasferita nei cantieri dell’Urbe, servì in gran parte per la costruzione della flotta navale romana.

TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE Il territorio di Catania è particolarmente ricco di importanti testimonianze archeologiche di cui si va perdendo traccia, che vengono sottratte giorno dopo giorno alla pubblica fruizione. Un grandioso monumento sepolcrale a pianta circolare di m. 6,60 di diametro, di cui danno precisa notizia gli studiosi a partire dalla fine del Settecento (Biscari, Houel, Ferrara, Serradifalco, Holm, Libertini, ecc.), ma che oggi è ignoto anche alla maggior parte dei cultori di Catania antica. Si tratta di uno dei più importanti e grandi edifici funerari dell’intera Sicilia, il problema è che si trova all’interno di una proprietà privata e che i proprietari della villa Modica presso viale Regina Margherita a Catania, non consentono l’accesso. I privati, tuttavia, sono tenuti a consentire l’accesso e lo studio dei Beni Culturali all’interno delle proprietà ed alla cura e manutenzione degli stessi, mentre alla Soprintendenza spetterebbe il controllo ed il rispetto delle normative. Purtroppo oggi la cella sepolcrale è attualmente adibita a deposito di sedie a sdraio ed altri arredi di giardino.

8 I SEPOLCRI CRISTIANI DELLE VIE DOTTOR CONSOLI ED ANDRONE Nel maggio del 1935, durante gli scavi presso via Dottor Consoli e via Androne, furono rinvenuti i resti di alcune tombe che, in seguito ad un ulteriore allargamento dello scavo, risultarono far parte di un recinto funerario di epoca classica, limitato da muri di vario spessore, contenenti in diversi strati, tombe per adulti e per bambini. La zona era conosciuta come parte di una vasta necropoli antica, che si estendeva a nord della città, verso Santa Maria di Gesù e verso la collina di Cibali, rimasta in funzione dall’epoca ellenistica, fino alla tarda età romana. Questa realtà sotterranea, che dopo essere stata scoperta e portata alla luce è tornata ad essere invisibile, conosciuta solo dagli studiosi e dagli addetti ai lavori per lunghi decenni, è ormai ricoperta da costruzioni che oggi ospitano una banca e un ufficio postale (che fanno angolo tra via Dottor Consoli e via Androne), senza contare le decine di tombe cristiane che si trovavano tutt’intorno e che sono state schiacciate e cancellate anch’esse dalle fondazioni di altri palazzi. Il gruppo più importante di tombe è stato scoperto lungo la Via Androne e nella zona attraversata dalla Via Dottor Consoli. La continuità di questo cimitero è attestata dall’ellenistico fino al periodo tardo romano ed offre un buon esempio di necropoli pagana, che lentamente si trasformò in un cimitero cristiano. Esso contiene numerosi mausolei, tombe a cista, camere hypogaean (metropolitana); una tomba con pitture murali e volta a botte è conservata sotto il livello di via Dottor Consoli. In via Dottor Consoli, sotto l’asfalto giace ancora la piccola trichora, si tratta di un corpo triabsidato, un complesso basilicale cristiano extra moenia, definito “agatino”. Nell’autunno del 1953, in via Dottor Consoli (già strada della Vecchia Necropoli), nel cortile di casa Lombardo, durante i lavori di sbancamento per le

8 fondamenta di un palazzo tra le vie Orto San Clemente ed Androne, furono rinvenuti interessanti reperti archeologici ed in particolare quattro sepolture. Il 19 ottobre, 11 giorni dopo la morte dell’archeologo ed accademico catanese Guido Libertini, l’archeologo Giovanni Rizza, suo discepolo prediletto, individuò, durante degli scavi, un cimitero cristiano nell’area della vasta necropoli extramoenia. Nell’agosto dell’anno seguente continuarono gli scavi e su una parte del complesso cimiteriale fu rinvenuto un pavimento decorato a mosaico della metà del VI sec. d.C.. Il prof. Rizza il 31 marzo 1955, tra l’altro, individuò poco al di sotto della superficie stradale di via Santa Barbara i resti di una basilica tricora, paleocristiana, dove il successivo 5 maggio veniva alla luce un dorso marmoreo drappeggiato ed acefalo che rappresentava una figura genuflessa, a mani legate dietro la schiena, forse in atto di essere decapitata. Si trattava probabilmente della decollazione di un martire, forse Sant’Euplio, secondo la tradizione martirizzato il 12 agosto del 304, proprio in quella zona. Lo stesso archeologo in via Dottor Consoli, dove negli anni Trenta aveva lavorato il Libertini, individuò un martyrium (cappella dedicata ad un martire) all’interno di una basilichetta triabsidata martiriale degli inizi del IV secolo, messa in relazione, come qualche anno prima di morire prematuramente, riferì in diversi articoli il compianto giornalista Salvo Nibali, con la celebre lapide funeraria latina di Julia Florentina. Fra le varie esplorazioni del tipo su accennato, quella risalente al 1951 permise l’esame dell’estremo margine occidentale della zona cimiteriale, permettendo altresì il rinvenimento di mausolei pagani e cristiani. Il prof. Rizza, allargando le ricerche, trovò un’altra basilica, più grande, risalente al VI secolo, di cui ebbe a scrivere: La particolarità di questo secondo edificio sacro, di cui si ebbe memoria fino al terremoto del 1693, a parte le tombe cristiane che lo circondavano, i mosaici e l’estensione, era l’altare posto al centro, una sistemazione tipica delle basiliche cristiane dei primi secoli.

8 Lo studioso, che aveva pure individuato la mensa eucaristica in pietra lavica, che avrà poggiato su un venerato sepolcro di martiri come allora si usava, e la cattedra episcopale nell’area presbiterale dell’abside, riuscì a salvare i mosaici, portandoli al Castello Ursino. La smisurata devozione a Sant’Agata, che ha obliato quasi del tutto quella degli altri martiri catanesi, finora non è riuscita a recuperare e valorizzare quel preziosissimo e storico sito delle origini delle prime comunità cristiane di Catania, nonostante l’importantissima scoperta dal prof. Giovanni Rizza, morto il 13 febbraio del 2011, a cui si deve anche la scoperta, della stipe votiva di Demetra, in piazza San Francesco, menzionata dallo stesso Cicerone. In alcuni luoghi le tombe erano contenute all’interno di recinti circondati da muretti e interconnessi: questi erano per lo più tombe caratterizzate da una grande varietà di iscrizioni cristiane; in alcuni recinti delle tombe sono state costruite sopra il livello del terreno in diverse storie. Nella più grande zona ancora scoperta, lungo la via Dottor Consoli, è stata trovata una basilica funeraria cristiana sovrapposta al livello delle tombe; un grande mosaico policromo con scene figurate copriva il pavimento. Il mosaico (20 x 10 m), che è presente nel Museo Comunale, è databile alla metà del 6 ° C. AD, ed è da attribuire ad un laboratorio Orientale. Della Basilica solo l’abside è conservato, può essere visto sotto l’abitazione dei signori Lombardo. Allo stesso periodo può essere attribuita una grande trichora scoperta e conservata sotto Via Santa Barbara. Il contributo dato dalle scoperte effettuate a Catania risulta quindi fondamentale per lo studio della storia del cristianesimo non solo in Sicilia, ma in tutta la penisola. La città vanta una delle più antiche comunità cristiane dell’isola; secondo la tradizione, infatti, San Pietro inviò San Berillo nell’isola. Questa non è la sola leggenda riguardante la penetrazione del cristianesimo nell’isola. Le leggende però non trovano alcuna convalida storica. Più attendibili come testimonianze del nascere di comunità cristiane sicule sono invece le tradizioni

8 riguardanti il martirio del diacono Euplio e di Sant’Agata, avvenuti durante le persecuzioni di Decio nel III secolo. Di là dall’aspetto leggendario, l’antica tradizione apostolica catanese trova una convalida nella già citata, famosa epigrafe di «Julia Florentina» attestante la pratica del culto cristiano dei martiri fin dagli inizi del IV secolo e l’esistenza di un «Martyrium» nella città. Questa epigrafe (oggi conservata nel Museo del Louvre) venne casualmente rinvenuta nel 1730 insieme ad altri materiali andati poi distrutti in un orto dei Signori Rizzari (come ricorda Ignazio Biscari) e, secondo gli attenti studi dei competenti, si trovava nei pressi di via Androne e più precisamente lungo il lato Ovest di quest’ultima (tenuto conto che all’altezza del numero civico 197 di via Etnea esiste una via Rizzari, che collega via Etnea con via Sant’Euplio, che certamente conduceva all’altura sino alla proprietà della medesima famiglia.

Successive scoperte degli anni ’53, ’54, ’56 e soprattutto del 1957 hanno permesso l’ampliamento della conoscenza della necropoli e l’individuazione a Nord del piccolo Martyrium di una seconda basilica, sovrapposta alle tombe, parallela alla precedente e col medesimo orientamento. Anche questa piccola basilica, come la tricora, poggiava all’esterno su numerose tombe, mentre all’interno dell’abside, la struttura appariva molto regolare per la presenza di un rivestimento in blocchi di pietra. Lungo la curva del muro correva un gradino continuo che faceva da base a un banco presbiteriale in muratura con un’altra spalliera di tipo semicircolare. Al centro del banco, un corpo sporgente segnava il posto della cattedra episcopale. La tradizione cristiana e la fedeltà dei cittadini alla Chiesa di Roma assunsero, nel corso degli anni un carattere esemplare: basti dire che spesso i vescovi catanesi si schierarono addirittura contro la Corte di Bisanzio appoggiando il Papa. È noto inoltre il fiero atteggiamento dei vescovi catanesi contro le eresie, come per esempio Giacomo, accanito oppositore dell’iconoclastia e morto nella lotta contro questa eresia (nel XVII secolo i catanesi lo proclamarono loro patrono), del saggio Teodoro (organizzatore del concilio di Nicea nel 787), di Leone II il Taumaturgo, fiero oppositore della magia di Eliodoro. Nel 535 la città venne occupata dai Bizantini di Belisario, e fu la prima città a cadere sotto il dominio straniero in Sicilia. Sotto il dominio bizantino Catania assunse grande importanza: basti ricordare la Zecca che l’imperatore Flavio Maurizio Tiberio vi fondò e le magistrature che vi ebbero sede.

8 Sono comunque scarsissimi i monumenti bizantini visibili nella città; più che altro sono dei ruderi senza importanza. Unico documento della dominazione orientale sono tre icone in pessimo stato di conservazione, ma che hanno grande rilevanza storico artistica. Prima fra queste è la tricora (camera quadrata coperta da una volta) di via Santa Barbara, databile al VI secolo e quasi certamente appartenente ad un edificio di culto fortemente legato, per le sue forme alla tradizione architettonica classica. Nel 1950, durante lo spianamento di via Dottor Consoli si vide chiaramente che il muro di recinzione proteggeva un edificio, uno dei primi venuti alla luce, il quale presentava tre absidiole congiunte fra loro così da formare una trichora alla quale si attaccava un muro lungo 5 metri, che rappresentava uno dei fianchi dell’edificio stesso. Si trattava quindi di una basilichetta in cui al corpo absidale a trifoglio si saldava una navata a corridoio. Questi ruderi purtroppo non si ergevano più di 50 cm. dal suolo, tuttavia erano sufficienti ad indicare la pianta di questa piccola costruzione chiesastica ed a mostrare alcuni particolari. Le dimensioni dell’edificio erano dunque modeste, la larghezza fra le due absidi opposte di m. 7 e la lunghezza della navata, che doveva essere unica, non superava i m. 10, tuttavia essa doveva avere una certa ricchezza, desumibile da alcuni frammenti di mosaico pavimentale rinvenuti, da diversi elementi architettonici ritrovati nei pressi, che dovevano sicuramente essere appartenuti alla medesima costruzione, così descritti: quattro torsi di colonne marmoree, un capitello corinzio, due capitelli marmorei ad imposta, di tipo prettamente bizantino, vari frammenti di transenne con decorazioni a squame, frammenti di pavimento a mosaico, frammenti di rilievi che probabilmente decoravano dei sarcofagi del IV-V secolo d.C. su di uno si vede la figura frontale di un giovane vestito con una tunica greca di stoffa leggera, chiuso con cintura, recante sulla destra abbassata una situla (secchia metallica), un capitello marmoreo a foglie d’acqua, parecchi ornamenti decorativi di particolare finezza, come un vaso con riprodotto un racemo con dei

8 grappoli d’uva. Questa basilica bizantina, anche se lo schema le forme e le decorazioni risultano diversi, si unisce a quelle già note del Salvatorello, presso palazzo Bonajuto, ed a quella circolare di Santa Maria della Rotonda, con quella extra moenia della basilica di Nesima. Essa si inserì nella tarda romanità nel cuore di una metropoli prevalentemente pagana, quando era ancora in uso, tanto da sentire il bisogno di crearle un’area di rispetto con un muro di recinzione. Si trattava, verosimilmente, della continuazione di una necropoli che confinava con le vicine vie Androne e Nino Martoglio. La parte superiore dei ruderi raggiungeva quasi il livello del piano di campagna, ma si trattava di sovrastrutture più tarde, infatti, tolte queste ultime, si constatò che scendendo alcuni gradini, si penetrava all’interno di una cameretta, dove si aprivano delle nicchie in due ordini sovrapposti, atte a contenere ossari o cinerari. Era ipotizzabile che altre nicchie potessero esistere, per cui questa cella dimostrava essere stata una specie di colombario. Nell’ipogeo non fu trovato alcun ossario od avanzo, l’unico reperto era costituito dall’avanzo di un coperchio di cinerario, sul cui bordo era scolpita a rilievo la figura di una leonessa accovacciata, rivolta a destra, davanti alla quale si notava una specie di staccionata o gabbia. Si tratta di un complesso cristiano extra moenia (fuori le mura della città) risalente al VI secolo, in quanto fortemente manipolato da drastica riedificazione del periodo normanno. È difficile ricostruire l’impianto originario della chiesa, risalente probabilmente al VI secolo, in quanto fortemente manipolato dalla drastica riedificazione del periodo normanno. Una ricostruzione comporterebbe un rapporto fra lunghezza e larghezza del corpo delle tre navate, con esclusione dell’abside, secondo modelli ravennati, Bizantini e Musulmani di Sicilia. Gli studiosi ipotizzano una prima fase paleocristiana databile tra i secoli IV e V, comprendente unicamente il corpo delle tre navate e l’abside orientata ad Ovest,

8 secondo una prassi diffusa in Occidente nelle prime chiese. Successivamente, nei secoli VII-VIII, in piena fase bizantina, sarebbe stato aggiunto l’avancorpo ad Est, con funzione di transetto, al quale venne giustapposta l’abside semicircolare. Ai suoi lati vennero aperte due nicchie semicircolari ricavate nello spessore murario, con funzione di prothesis (luogo del presbiterio) e diaconicon (locale a sud dell’abside nelle chiese ortodosse). In questo momento sarebbe stata obliterata la prima abside ad Occidente. Successivamente, nel XIV secolo, fu ruotato nuovamente l’asse liturgico, stavolta in senso Nord-Sud, con l’apertura di un portale su lato settentrionale e la costruzione, su quello opposto, di un’abside semicircolare. In tale fase, infine, l’abside orientale venne cancellata e l’avancorpo escluso dall’uso del culto e destinato ad ambiente di servizio. Gli stessi ipotizzano nella prima fase la realizzazione non solo del corpo delle tre navate, ma anche di questo avancorpo, con funzione di nartece (porticato), ferma restando l’originaria collocazione dell’abside ad Ovest. Di un’abside ad Occidente restano oggi cospicue tracce, ma si tratta di una costruzione aggiunta in un secondo momento; l’abside ad Oriente, aperta al centro del transetto, è stata successivamente rasa; se ne vedono gli attacchi dei muri sul fianco orientale. A meno di non ipotizzare tre successivi spostamenti dell’abside, da Ovest ad Est e poi nuovamente ad Ovest, la lettura più semplice lascerebbe ipotizzare l’originaria collocazione dell’abside ad Oriente. l’impianto dell’edificio è riconducile ad una griglia di 5x4 moduli quadrati, rispettivamente in lunghezza e larghezza. La navata centrale è di ampiezza doppia delle laterali e la griglia è tangente al lato esterno dei pilastri divisori il cui spessore è ricavato con la sezione aurea del quadrato di base. Il diametro del perimetro esterno dell’abside originaria, deducibile dallo spessore dei muri rasi. Il lettore più edotto sa bene che quando l’intitolazione “fuori le mura” accompagna il titolo di una chiesa, è perché viene reso un necessario distinguo con

8 la sua controparte “dentro le mura”, pertanto, se fin qui è stata chiamata la chiesa di Sant’Euplio (sostituita poi dalla omonima parrocchia eretta su progetto dell’architetto Giacomo Leone il 21 giugno 1964, inaugurata da monsignor Guido Luigi Bentivoglio, dove tra l’altro si conserva una preziosa statua rappresentante il Santo e datata al Cinquecento, risparmiata dal bombardamento alleato) extra moenia, è sottinteso che esistette pure una chiesa di Sant’Euplio intra moenia. Questo contributo vuole essere un tentativo per poter avanzare qualche ipotesi per una corretta localizzazione. Per farlo bisognerà tenere conto degli atti del martirio di Euplio, il quale venne imprigionato, la tradizione identifica la cripta di cui sopra quale sua prigione, il 29 aprile del 304 e, dopo più di tre mesi, condotto nella piazza cittadina per un secondo processo, stavolta pubblico. Accusato di spergiuro nei confronti degli Dei e delle leggi, venne condannato alla decapitazione in loco. L’esecuzione, avvenuta sotto gli occhi dei cittadini (tra i presenti si dice vi fosse anche l’allora vescovo di Catania, San Serapione d’Alessandria, anacoreta (che visse in solitudine), fu eseguita a filo di spada su una pietra, detta dei martiri o del supplizio o di Sant’Euplio, che venne in seguito custodita nella chiesetta di Santa Barbara, i cui resti si addossano all’angolo nord orientale della chiesa di Santa Maria Immacolata ai Minoritelli. Tale pietra andò perduta probabilmente dopo il sisma del 1693. Il luogo del martirio fu quindi una pubblica piazza, chiamata forum Achellis (Foro di Achille), secondo alcuni perché vi si onorava l’eroe greco con un tempio o una statua dedicatogli, ma nessuna fonte né alcuna scoperta archeologica conforta tale ipotesi. La piazza pubblica, l’antico foro sorto in sostituzione dell’Agorà (nell’antica Grecia si indicava la piazza principale della polis), la individuò alla fine del Settecento il principe Ignazio Paternò Castello in quello che il popolino e gli eruditi locali vedevano quale bagno dei tempi antichi, ossia in una serie di ambienti ipogei presso il caseggiato del piano di San Pantaleone. Oggi non si è in grado di confermare quanto il principe ritenne di aver

8 identificato, tuttavia è piuttosto significativo il sito in cui si trovano le strutture studiate dal dotto mecenate. Qui esisteva un tempo la chiesa di San Giovanni alla Giudecca superiore, a detta dallo studioso Guglielmo Policastro, situata alle spalle della chiesa di Santa Marina (di cui avanza un resto in via Pozzo Mulino) e ricondotta al culto di Euplio nel 1486. Resti della chiesa di Santa Marina su via Pozzo Mulino. Alle spalle di questa era eretto il tempio dedicato a Euplio. Come nel caso di Agata, quindi, nel luogo del martirio dovette sorgere un primo luogo di culto al Santo, rinnovato dopo varie vicissitudini in epoche successive. Il tempio più antico si trovava in contrada Muro Rotto, odierno quartiere di San Cristoforo, non lungi dai ruderi ipotizzati dagli eruditi locali quali i resti di una grandiosa Naumachia. La contrada non era distante dal presunto foro romano del cortile di San Pantaleone, né dalla via Pozzo Mulino, luogo dove per tradizione venne gettato il capo mozzo del Santo. Su questo presunto tempio non sappiamo praticamente nulla, ma si può ipotizzarne una data di fondazione tardo antica, sulla base di alcuni elementi. La contrada Muro Rotto si trovava al di fuori delle mura medioevali, sorte nel periodo in cui Catania fu capitale, le quali isolavano dalla città i ruderi del passato non difendibili e ormai decadenti (a nord accedeva per l’Anfiteatro, a sud per gli stadi, a ovest per edifici ritenuti templi, l’Arcora ed il presunto tempio di Cerere o Atena a Paestum, in provincia di Salerno, del mondo pagano). Le mura probabilmente seguivano un circuito ormai consolidato da secoli, risalente forse alle aggressioni gote alla città, in epoca tardo antica. Questo fu il periodo in cui il re ostrogoto Teodorico concesse ai catanesi la spoliazione dell’Anfiteatro di Piazza Stesicoro per ricavarne materiale come fosse una cava di pietre: questo elemento indica una sorta di restringimento della città che abbandona gli edifici periferici (e gli edifici per gli spettacoli in età romana lo erano) per concentrarsi nella zona più centrale.

9 Alle mura si addossavano i sepolcri della comunità cristiana, le quali si sovrapponevano senza soluzione di continuità alle necropoli antiche: a nord con i sepolcri di via dottor Consoli e di via Sant’Euplio, a sud probabilmente nella citata contrada Muro Rotto. Ad ovest, dov’è oggi piazza Campo Trincerato, in un’area evidentemente risparmiata dalle lave del 1669, si rinvenne il celebre Cippo Carcaci (oggi conservato presso il museo civico di Castello ursino), importante monumento funebre a forma di altare che testimonia la presenza di una necropoli a sud della città in epoca imperiale, tuttavia la lava anzidetta preclude qualsiasi indagine per stabilire con certezza quale è l’interazione tra i vari elementi urbani di quest’area. Il tempio dedicato ad Euplio dovette poi decadere, forse con la conquista islamica. Nel IX secolo i re Berberi (Grande Maghreb) portarono in Sicilia numerosi nuclei di Ebrei Mori, i quali facevano loro da contabili, tesorieri e notai. A Catania si stabilirono nella zona della Cipriana (vicolo nei pressi di Piazza Dante), a nord ovest, da cui poi in un paio di secoli si spinsero a colonizzare la zona delle mura meridionali, appunto presso il Muro Rotto. Appare dunque evidente che il culto di Euplio dovette subire certamente un trasferimento se non un lungo periodo di interruzione. Una prova della perdita del culto in tale area sta nell’assenza di riferimenti a chiese, in particolare dedicate al Santo, sulle planimetrie più antiche pervenuteci e risalenti al XVI e al XVII secolo. La notizia riportata dal Policastro evidentemente riferisce di una chiesetta considerata non particolarmente importante dai cartografi del tempo, la quale si colloca distante dal tempio originario, anche se in zona. L’area dovette prendere il nome dal Santo, se il Bastione che qui sorse alla fine del Cinquecento venne detto di Sant’Euplio. Di questo bastione ne fu progettata la realizzazione a metà del secolo a rinforzare le ormai insufficienti mura aragonesi, ma dal rilievo dell’architetto Tiburzio Spannocchi appare evidente che non venne ancora completato negli anni successivi.

9 Curioso però che lo Spannocchi lo chiami di San Paolo, anziché di Sant’Euplio. Nel rilievo del Negro del 1610 il bastione sembra essere completo e in forma semiciclica anziché a martello come nel disegno precedente. Grazie a questo rilievo si è in grado di stabilire con estrema esattezza dove esso si trovi, nonostante sia del tutto sommerso da quei caseggiati che costituirono il nascente nucleo di San Cristoforo, poco più a sud della piazza di Sant’Antonio, con le Terme di Sant’Antonio, il medesimo Santo che aveva un altare presso il cinquecentesco tempio di Euplio a nord. Quindi in zona esistette un tempio dedicato a Sant’Euplio, forse nella scomparsa chiesa di San Giovanni alla Giudecca, di cui non si hanno molte notizie, mentre è più nota la chiesa di San Giovanni Battista che si apriva sull’attuale via Garibaldi. Questa, ricorda lo storico Rasà Napoli, il 25 giugno 1550 e fu insignita dell’Ordine Gerosolimitano dei Cavalieri di Malta, diventando una replica dell’omonimo tempio ospedaliero presso la Porta di Sant’Orsola (della quale resta solo l’arco in via Cestai). Nel 1548 è testimoniato un violento terremoto a Catania il quale, sebbene non riportò ingenti danni alla popolazione ed alle cose, certamente rovinò gli edifici meno robusti (alcuni realizzati a secco crollarono miseramente) e tra questi forse anche il tempio di Sant’Euplio che prima del 1486 fu dedicato a San Giovanni. Forse per questo motivo non appare nelle planimetrie del Cinquecento alcun riferimento al Santo. Singolare la presenza di un bastione datato al 1553 poco più ad occidente, dedicato a San Giovanni. Un tempo dove il Bastione di Sant’Euplio o di San Paolo incontrava le mura medioevali sul suo lato orientale, sorgeva la chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Qui nel Seicento venne trasferito il culto di Santa Maria dell’Aiuto, dove viene ancora venerata, la quale in precedenza aveva il culto nella chiesa dei Santi Simone e Giuda, non distante dalla attuale sede, nel cortile della Misericordia, oggi un piccolo slargo circondato da casupole che si apre in via Consolato della Seta, alle spalle della

9 chiesa di San Giacomo. Il culto dell’Aiuto era presente a Catania almeno dal 1372 e trovò la nuova sede forse intorno al 1635, quando venne fondata la Congregazione dei Secolari, e ne è certa la presenza il 3 novembre 1641, quando venne portata in processione una riproduzione della Vergine che si reputava miracolosa, proveniente dalla chiesa di Santa Marina, la stessa di cui rimane una porzione in via Pozzo Mulino. Dunque le vicende dei santuari dedicati a Giovanni, a Marina, a Santa Maria dell’Aiuto, a Pietro e Paolo, appaiono fittamente intricati tra essi e con i luoghi della tradizione di Euplio, in un quartiere che appariva nel Medioevo ricco di chiese le cui storie sono inevitabilmente intrecciate con la storia generale di Catania, tutto intorno al Bastione che vi si eresse, mai del tutto completato e rovinato dall’eruzione del 1669, oggi del tutto sommerso da quella stessa città che avrebbe dovuto difendere, una volta compiuto. Un baluardo sorto forse con troppo ritardo, ma la cui storia sembra rispecchiare l’animo del quartiere in cui è ubicato, San Cristoforo, un quartiere a metà, mai del tutto cosciente delle storie che lo hanno generato. Dagli atti che la tradizione ci tramanda scopriamo che Euplio fu processato il 29 aprile 304, in privato. Dopo il processo la sua persona venne condotta in prigionia. La tradizione vuole che il luogo di costrizione del martire nei tre mesi che seguirono non fosse lontano dal sito in cui vide prigioniera Agata, nella località chiamata “Fosse”, a nord dell’Anfiteatro, quella che oggi corrisponde più o meno a via Sant’Euplio. Il nome in antico non era casuale: questa strada era evidentemente la via mortuaria, strada in cui si manteneva il ricordo delle fosse, cioè le tombe greche e romane che solo con gli scavi del XIX e XX secolo videro la luce. Qui fu pure rivenuta una lastra in terracotta con una iscrizione a stampo ed un frammento di pietra calcarea con alcune lettere incise. Era evidente che vicino alla chiesa dovevano esserci altre costruzioni, i cui ruderi, furono rinvenuti assieme a

9 torsi di colonne marmoree, durante lo spianamento della strada. Intorno alla chiesa, con ogni probabilità, dovevano esserci alcune sepolture, cioè tombe a volta od a baule, alcune spuntano ancora attraverso il terreno. Queste scoperte gettano un ulteriore raggio di luce su Catania durante la tarda romanità e l’epoca bizantina, rivelando l’importanza della città in tale periodo, dimostrata durante l’età bizantina, resa illustre anche da insigni figure di vescovi.

LA NAUMACHIA Nei pressi dell’attuale Castello Ursino, vicino la Chiesa di San Giuseppe, si trovava un tempo la Naumachia, una imponente opera pubblica della quale oggi non rimane alcuna traccia, non inferiore per bellezza e magnificenza a quella di Roma. Si trattava di un colossale edificio atto a riprodurre al suo interno le più importanti battaglie navali e giochi acquatici dell’impero, atti a ricordare al popolo la grandezza e magnificenza di Roma. Si trattava di una costruzione in puro stile romano, circondata da un ricco boschetto e conteneva anche una vasca adibita ad acquario. Il lago, largo centoventuno metri e lungo cento settantadue, era incavato nell’argilla e tutto intorno era circondato da numerosi alberi di ginepro e pioppo. I due muri paralleli dell’edificio erano lunghi oltre duecento metri e distanti circa 131 metri l’uno dall’altro. La naumachia era quindi uno spettacolo più micidiale di quello dei gladiatori, infatti, le battaglie terminavano sistematicamente con la morte dei vinti. L’apparizione delle naumachie è strettamente legata a quella, leggermente anteriore, di un altro spettacolo, il combattimento fra truppe, che non ingaggiava dei combattenti a coppie, ma due piccole armate. Proprio in queste ultime i combattenti erano più sovente dei condannati senza allenamento specifico rispetto ai veri gladiatori. Cesare, creatore della prima naumachia, traspose semplicemente in un ambiente navale il principio delle formazioni di battaglia terrestre.

9 Tuttavia, in rapporto ai combattimenti fra truppe, le naumachie avevano la peculiarità di sviluppare dei temi storici o pseudo storici: ogni flotta che si affrontava incarnava un popolo celebre per la sua potenza marittima nella Grecia classica o l’Oriente ellenistico: Egizi e Fenici per la naumachia di Cesare, Persiani ed Ateniesi per quella augustea, Siculi e Rodii per quella di Claudio. Inoltre, aveva bisogno di mezzi considerevoli, superiori persino a quelli dei più grandi combattimenti con truppe. Questo fattore rendeva la naumachia uno spettacolo riservato ad occasioni eccezionali, strettamente legato a celebrazioni dell’imperatore, sue vittorie e suoi monumenti. L’irriducibile specificità dello spettacolo e dei suoi temi tratti dalla storia del mondo greco ne spiega l’origine del termine: una trascrizione fonetica della parola greca indicante una battaglia navale naumakhía, indicante in seguito anche i vasti bacini artificiali ad essa dedicata. L’immissione d’acqua negli anfiteatri solleva numerose domande. Innanzi tutto, questi luoghi non servivano esclusivamente per le naumachie e dovevano essere disponibili per caccia e lotte tra gladiatori. Questo Spettacolo costava esorbitanti somme di danaro, tuttavia, una rappresentanza debole o semplice non avrebbe mai soddisfatto gli spettatori del carattere dei Romani. Bisognava che essi vedessero scorrere il sangue, annegare degli Uomini, ed anche andare a picco qualche Nave, e sommergersi. Quello delle Naumachie era uno spettacolo in voga nella Roma imperiale, ma ripreso anche nel rinascimento, che riproduceva una battaglia navale in laghetti naturali o artificiali, l’apposito impianto, per lo più un’arena molto ampia, in cui si svolgeva tale spettacolo. Accanto alla Naumachia di Catania sorgeva anche un ippodromo, lungo 1872 piedi, nel quale si svolgevano le corse durante la festa di Bacco. A delimitare il punto di partenza e quello di arrivo erano stati posti due obelischi; uno di questi è possibile ancora oggi ammirarlo in Piazza Duomo, proprio in groppa all’elefante che adorna la fontana. Durante l’eruzione del 1669, le ultime tracce di queste

9 colossali opere, rimasero per sempre sepolte sotto l’imponente colata lavica. Un grande acquedotto forniva tanta abbondanza d’acqua dal fiume Licodia per alimentare la Naumachia, i cui ultimi resti scomparvero sotto le lave.

LA PRIGIONE DI SANT’EUPLIO Il presunto carcere di Euplio non si discostava dalle altre prigioni, trattandosi quasi certamente di un sepolcro, tuttavia l’adattamento a chiesa ipogea e la costante frequentazione in antico non permise di trovare tracce delle fasi più antiche e di confermare tale suggestione. Qui sorse un tempio paleocristiano méta di pellegrinaggi, ampliato nel XIII secolo da una seconda chiesa, testimoniata indirettamente da un documento del Conte di Leontini. Questa nel 1548 venne ricostruita in gusto rinascimentale, dedicata a Sant’Antonio Abate e cinquanta anni più tardi ceduta ai frati Cappuccini, per poi passare nel 1606 ai Francescani. Il tempio non ebbe molta fortuna, sebbene non pare che abbia subito danni gravi dal sisma del 1693, giorno 8 luglio 1943 venne colpito in pieno da una bomba degli Alleati. Si dice che gli alleati colpissero volontariamente le chiese, per impedire che la cittadinanza, militare, ma anche civile, si potesse lì riunire in attesa del cessato allarme. Quale che fosse la situazione, la povera chiesa non superò l’attacco e di essa rimasero solo le macerie. Dal 29 gennaio del 1978 i resti della chiesa, ornati da dodici formelle rappresentanti gli Apostoli originariamente destinate al Cimitero Monumentale cittadino, divennero sacrario dei martiri cristiani e delle vittime civili di tutte le guerre. Secondo i racconti di Rasà Napoli, l’interno movimentato da semicolonne corinzie era riccamente decorato da affreschi rappresentanti i Santi Euplio e Antonio, sull’altare maggiore e sulle due cappelle laterali. La facciata sulla strada delle Fosse era in pietra calcarea e decorata solo dagli elementi simbolici di Euplio: una mitra, un vangelo aperto ed un campanello. La prigione di Euplio a Catania divenne meta di pellegrinaggi e nel sec. XIII vi fu persino eretta una chiesa. È anche

9 vero che la chiesetta, nei sec. XVI e XVII, era dedicata a Sant’Antonio Abate ma pare che, anticamente, essa sia stata dedicata al martire Euplio. Ciò perché in un documento di Alaimo, conte di Lentini, risulta che la contrada Sant’Euplio, da cui aveva inizio il territorio di Ognina, si estendeva fuori della porta Stesicorea o di Jaci.

Il nobile Alaimo fu uno dei principali protagonisti dei Vespri siciliani. Fuori le mura occidentali, in contrada Muro Rotto, nei pressi della Naumachia, esisteva la prima chiesa conosciuta dedicata a Sant’Euplio, che probabilmente prendeva nome dalla chiesa omonima. Lo storico e poeta catanese, Ottavio d’Arcangelo informa che gli antichi abitanti della città di Catania ornarono il luogo della prigione di Euplio di un altare con l’immagine del martire catanese (raffigurato assieme al vescovo catanese San Serapione) affinché fosse possibile celebrarvi la messa non solo il giorno dei suoi natali, ma anche in altri giorni. Ad ovest, dov’è oggi piazza Campo Trincerato, in un’area evidentemente risparmiata dalle lave del 1669, si rinvenne il celebre Cippo Carcaci, importante monumento funebre a forma di altare che testimonia la presenza di una necropoli a sud della città in epoca imperiale (oggi presso il Museo Civico di Castello Ursino), non lungi dagli stadi; tuttavia la lava anzidetta ci preclude qualsiasi indagine per stabilire con certezza quale l’interazione tra i vari elementi urbani di quest’area. Nel 1663 il Senato di Catania restaurò il sacro carcere, dandovi una forma più ampia, aprendo anche una scala di accesso più comoda, ma durante questi lavori, fu rinvenuta l’antica scala, che, in effetti, prima dei bombardamenti della guerra del 1943, che distrussero pure la chiesa, era ancora ben visibile. La piccola cripta romana, costituita da un unico ambiente bipartito, stretto e senza luci il cui unico accesso è costituito da una scaletta, venne decorato da affre- schi: un tempo secondo lo storico e poeta catanese Ottavio D’Arcangelo vi si scor- geva l’immagine di Euplio e dell’allora vescovo catanese San Serapione. Conserva, questa cripta, l’originale altare paleocristiano costituito da un capitello romano su cui poggia la mensola del messale.

9 Sulle pareti si affacciano piccole nicchie, forse un tempo ospitanti vasi canopi dell’antico Egitto, come l’analogo colombario romano sito sotto la chiesa di Santa Maria della Mecca (odierna cappella dell’Ospedale Giuseppe Garibaldi). Nel 1663 si ampliò l’accesso alla cripta dalla chiesa superiore eliminandone la botola che ne ostruiva il passaggio; in questi lavori si rinvenne l’antica scala d’accesso di età roma- na, risparmiata e mantenuta. Fu il bombardamento del ‘43 a danneggiarla, in seguito. Il piccolo ambiente ed i ruderi della chiesa superiore (costituiti dalle pareti settentrionale e orientale) an- nualmente venivano aperti in occasione dei festeggiamenti in onore al Santo, il 12 di agosto, per celebrarvi la Messa e permettere il mantenimento della tradizionale ed antica processione in memoria del Santo, interrotta solo nel 1169 e nel 1693 a segui- to dei rispettivi disastrosi terremoti. La struttura sotterranea, un ambiente ipogeo di epoca romana, è da considerarsi a tutti gli effetti un bene archeologico cittadino e come tale sarebbe destinato a rientrare nell’elenco dei beni tutelati costituenti il Par- co Archeologico di Catania. Accusato di spergiuro, Euplio, nei confronti degli Dei e delle leggi, venne condannato alla decapitazione in loco. L’esecuzione, avvenuta sotto gli occhi dei cittadini (tra i presenti si dice vi fos- se anche l’allora vescovo, Serapione), fu eseguita a filo di spada su una pietra, det- ta dei martiri o del supplizio o di Sant’Euplio, che venne in seguito custodita nella chiesetta di Santa Barbara, i cui resti si addossano all’angolo nord-orientale della chiesa di Santa Maria Immacolata ai Minoritelli. Tale pietra andò perduta probabilmente dopo il sisma del 1693. Di questa chiesa dedicata ad Euplio non vi sono molte notizie, mentre è più nota la chiesa di San Giovanni Battista che si apriva sull’attuale via Garibaldi. Questa il 25 giugno 1550 fu insignita dell’Ordine Gerosolimitano dei Cavalieri di Malta, diventando una replica dell’omonimo tempio spedaliero presso la Porta di Sant’Orsola, di cui ne resta solo l’arco su via Cestai.

9 Nel 1548 è testimoniato un violento terremoto a Catania il quale, sebbene non riportò ingenti danni alla popolazione ed alle cose, certamente rovinò gli edifici meno robusti (alcuni edifici realizzati a secco crollarono miseramente) e tra questi forse anche il tempio di Sant’Euplio che prima del 1486 fu dedicato a Giovanni. Forse per questo motivo non appare nelle planimetrie del Cinquecento alcun riferimento al Santo. Singolare la presenza di un bastione datato al 1553 poco più ad occidente, dedicato a San Giovanni: che qui esistesse un altro santuario dedicato al Battista a partire dal 1486.

IL RECLUSORIO DELLA PURITA’ L’area interessata dell’ex Reclusorio della Purità, è situata nel centro storico di Catania, nel cantonale di fine Via Plebiscito e Via Santa Maddalena, fronteggia in parte la Chiesa di Sant’Agata la Vetere. Il complesso monumentale in origine era un Istituto di accoglienza di giovani donne indigenti ed orfane, fondato nel 1775 da Nicolò Tedeschi e costruito a partire dal 1787, a seguito del lascito di don Giovanni Francesco Lullo. Con la progressiva acquisizione di aree pubbliche e private, il Reclusorio si è esteso fino ad occupare l’intero isolato delimitato dalle attuali via Santa Maddalena ad Est, via Plebiscito a Nord, via Bambino, sede dell’omonimo Ospedale di maternità di cui ancora si rinvengono tracce del ‘700 nella Chiesa annessa all’Ospedale, ad Ovest, via Purità e via Marziano a Sud. L’area, divenuta nel 1872 sede del collegio di educazione femminile Pio IX, poi Regina Elena, subì radicali trasformazioni tra il 1928 ed il 1930 dopo la cessione di una parte all’Opera Nazionale del Balilla. In quegli anni il corpo di fabbrica su via Plebiscito si estese sino alla Via Bambino, con adattamenti ed aggiunte moderne. Non è ben documentato lo sviluppo originario del complesso a Sud della omonima chiesa, costruita su progetto di Antonino Battaglia a partire dal 1789.

9 Il complesso è stato edificato in un luogo naturalmente in pendenza, che si presume giungesse all’antica Agorà, prospettava su via Purità con una serie di case basse che in atto sono ruderi dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale nell’aprile del 1943. Nella medesima area recentemente è avvenuto il ritrovamento di resti antichi di eccezionale interesse andando ad integrare ed in qualche caso a chiarire le sommarie notizie archeologiche. Questo sito venne scelto dai greci per la fondazione della città. Nel 1752 il senato di Catania concesse l’autorizzazione alla fondazione e nel 1799 venne completata la chiesa della Purità. Lungo l’area di Via Purità, che in parte ospita la scuola Alessandro Manzoni, rimase di un ampio spazio libero inaccessibile, esso conteneva ruderi di case terrane bicellulari (a schiera) del primo ‘700. Qui si pensa siano stati rinvenuti resti delle mura normanne, di una torre aragonese, appartenente alla cinta muraria cittadina, e di una casa romana.

IL RECLUSORIO DEL LUME Un tempo l’istituto di beneficenza sorgeva in via Santa Maddalena, di fronte alla chiesa di Santa Maria la Grande fuori le mura, meglio conosciuta come chiesa di San Domenico. Un fabbricato antico ma fragile, d’inizio Ottocento, la cui presenza ha scandito a Catania la storia dell’assistenza a sostegno delle fasce più deboli ed esposte della società. A ricordare l’edificio oggi è rimasta la targa stradale: via Reclusorio del Lume, già vico Santa Maria del Lume dopo l’Unità d’Italia, e vico II San Domenico al tempo dei Borbone. Un nome monco, incompleto, poiché quello ricordato dallo statuto di fondazione è Conservatorio (o Reclusorio) sotto titolo di Maria SS. del Lume. Demolite le vecchie fabbriche negli anni ’70 del secolo scorso, al suo posto fu costruito un edificio multipiano porticato, la cui presenza impedisce di cogliere i tratti originari e le modifiche subite nel tempo dall’antico vicolo, rimasto senza sbocco fino al 1925, anno del suo prolungamento e del raccordo a via Orto San

1 Clemente. Ritornando al vicolo e alla sua storia, sappiamo che nel 1812 la strada si esauriva di fronte ad un muro oltre il quale si aprivano gli spazi aperti della campagna che, ai lati del futuro prolungamento della strada, si spingevano a ponente fino al confine con l’Orto San Domenico del marchese del Toscano (all’incirca sull’asse di via Orto San Clemente), mentre a mezzogiorno confinavano con l’Orto del Re, un tempo appartenuto alle monache benedettine di San Placido e successivamente pervenuto al barone di Sisto. Sul vicolo si apriva una traversa (oggi via Orto del Re), prolungata fino a via Plebiscito negli anni ’80 dell’Ottocento, in seguito al piano di lottizzazione dell’orto, avviato dagli eredi Sisto. Prima di allora la stradina si esauriva nel vico San Domenico (poi Mannino, oggi via Bonanno), ed era delimitata a levante da un muro di clausura e a ponente da un filare di modeste case terrane. Queste ultime, oggi modificate, sono appollaiate sopra un muro di contenimento che gira su via Reclusorio del Lume. Tuttora vi si affaccia un vetusto edificio (civici 21-23) con accesso da una rampa di scale costruita a causa dell’abbassamento di quota dell’antico piano stradale. E di ciò se ne ha conferma dalle foto d’epoca. Una di esse mostra porzione dell’ex giardino in formato pensile, ripreso all’inizio dei lavori di demolizione dello stabilimento. Si vede parte del muro di confine demolito. Dei dodici istituti presenti a Catania prima del 1812, sette si trovavano in pieno tessuto urbano, ai piedi del monastero dei Benedettini, dentro un quartiere dove alla fine dell’Ottocento, il grosso della popolazione è orribilmente alloggiato in vecchie casacce o in tuguri malsani; altri tre erano localizzati ai margini di San Berillo, altro quartiere che in fatto di ventilazione è tra le peggiori sezioni, allineati lungo la strada dei malati (via Maddem e via San Vincenzo de’ Paoli). Diversamente da questi ultimi, il reclusorio del Lume sfruttava il vantaggio della contiguità alla campagna, della vicinanza a piazza Stesicoro e al principale asse cittadino, e del polmone verde che lo separava dai quartieri degradati.

1 Assieme al dirimpettaio convento, era l’ultimo fabbricato presente nella strada della Maddalena prima che questa si aprisse ai giardini disposti lungo le direttrici che conducevano a Cibali ed al Borgo. La strada rimaneva un luogo di transito verso i due borghi, polverosa e priva di alberi, senza una bettola od una locanda, priva di interesse per l’umanità assiepata nei quartieri a sud di via Plebiscito. E tale rimarrà fino all’apertura dell’ingresso occidentale del giardino Bellini. La decisione di costruire lo stabilimento in periferia non poteva prescindere da motivazioni di carattere economico e da esigenze di spazio impossibili da conciliare “dentro” la città. Sulla necessità di mettere a disposizione delle convittrici superfici di ampio respiro ne era stato tenace assertore lo stesso duca di Carcaci dalle pagine della sua guida; nel sottolineare l’importanza della “salubrità” come base per una crescita sana, faceva l’esempio dell’ampio giardino destinato alla ricreazione delle donzelle recluse nel reclusorio del Lume. Se l’ubicazione in periferia era stata dunque una necessità, sulla scelta della località i fondatori poterono muoversi con più libertà. Basta scorrere le carte d’archivio per capire come fosse centrale l’esigenza della quiete per il recupero delle convittrici, perlopiù ragazze, le quali, vagabonde chiedevano l’elemosina nelle pubbliche strade della città, e nelle chiese. Ragazze pericolanti che bisognava tenere lontano, perfino nello sguardo, dallo squallido ambiente della prostituzione. Le mura amiche da sole non bastavano, occorreva che l’area circostante al reclusorio fosse esente da impurità. Questo potrebbe spiegare il significato di quel riquadrare ed isolare la periferia, che guidò l’azione degli amministratori nell’interesse generale delle convittrici, o quando fecero ricorso contro una tale Maria che abitava in una delle case terrane che si affacciava nell’unica traversa della strada, rea di fare della sua abitazione un lupanare da cui sotto giorno si sentono detti e si vedevano fatti che recano scandalo a quelle vergini. LE AREE ARCHEOLOGICE DI VIA CROCIFERI E PIAZZA DANTE

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In Via Crociferi una scoperta fortuita ha permesso di accertare nel 1989 la presenza di un edificio di età romana con pavimenti a mosaico, disposto su più piani lungo il declivio dell’altura; era delimitato nella parte alta da un portico e da nicchie davanti alle quali fu rinvenuta una statua marmorea di atleta. A monte dell’edificio correva una strada con direzione Nord-Sud. I resti archeologici di una domus romana, rinvenuta nel sottosuolo del Monastero delle Benedettine. Una domus romana, ed un muro bizantino, probabilmente la parte di un kastron (castello o fortezza), sono i tesori archeologici riportati alla luce all’interno del Monastero di San Benedetto. Sul lato meridionale di piazza Dante, presso il giardino della Questura, al confine col Monastero dei Benedettini, precisamente nell’area compresa tra questa e la via Vittorio Emanuele, furono effettuati degli scavi in profondità, i quali hanno permesso di constatare la presenza di un vasto pavimento di coccio pesto, a dimostrare una continuità di livello con quei mosaici che, anni prima, erano stati rinvenuti nella suddetta piazza, che fecero accertare la presenza di un edificio importante, costituito da diversi vani riccamente pavimentati in mosaico, poco lontano dai resti di Terme, site sotto l’attuale Conservatorio delle Verginelle.

IL TRAFORO O FORTINO VECCHIO Porta Fortino (quella vera) si trova in via Sacchero, a pochi passi da piazza Palestro. Il Fortino Vecchio, come era chiamato un tempo, fu di grande interesse storico e fu voluto dal Vicerè Claude Lamoral I di Ligne uno dei più prestigiosi titoli nobiliari belgi al tempo delle crociate, marchese e militare spagnolo che inaugurò il

1 fortilizio entrando per tale porta in pompa magna. Risale all’undicesimo secolo e deve il suo nome al villaggio in cui si originò. Questi, temendo per le incursioni sempre più frequenti dei francesi, con a capo Napoleone Bonaparte, nell’ottobre del 1672 decise di fortificare la città dalla parte occidentale con mura esterne sulle lave ancora calde e con alcuni fortini costruiti nelle vicine colline. In origine, nel 1673, si trattava di un vero e proprio fortino militare, oggi della costruzione originale non resta che un arco, mentre tutto il resto è sparito sotto un groviglio di casupole. Era anche detta Porta di Ligne, l’unica porta esistente nel Ridotto o Fortino, distante dal sistema difensivo originario, ma facente parte di esso in quanto ne sostituiva la parte sud ovest, irrimediabilmente perduta. L’ultima testa coronata a passarvi fu durante il 1714 il re Vittorio Amedeo II di Savoia assieme alla regina Anna d’Orleans mentre si recavano da Palermo a Messina, attraversarono detta porta per fare ritorno in Piemonte, dopodiché decadde e si preferirono altri più comodi accessi, come la Porta Ferdinanda del 1768. Il Fortino, datato un secolo, divenne Fortino Vecchio e oggi la Porta, ancora ben visibile in fondo alla via Giacomo Sacchero (librettista del musicista Gaetano Donizetti alla Scala di Milano, nonché poeta e botanico catanese 1813-1875), da cui prende nome. Quello che si trova in Piazza Palestro è un arco di trionfo eretto durante il 1768 per festeggiare il matrimonio di Ferdinando di Borbone IV Re di Napoli 3 III di Sicilia con Maria Carolina d’Austria e vi si può leggere la significativa scritta: “Melior De Cenere Surgo”, che poi è ciò che rappresenta la caratteristica peculiare della Fenice, l’uccello mitologico associato alla città di Catania, il quale rinasceva ogni volta dalle cenere più bello di prima.

IL FORTINO

1 Porta Ferdinandea (Fortino) la cui costruzione fu suggerita e poi personalmente fatta costruire nel 1768, dopo l’Unità d’Italia, da Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari e da Domenico Rosso di Cerami, su progetto di Stefano Ittar e Francesco Battaglia, per commemorare le nozze di Ferdinando I di Borbone, Re delle Due Sicilie con Maria Cristina d’Asburgo Lorena. Ne venne fuori un maestoso arco trionfale, un capolavoro d’arte settecentesca, formato alternando parallelamente strisce di pietre bianche e nere. La porta nel suo progetto originale doveva rappresentare l’ingresso solenne ad ovest della città, in perfetto asse con l’ingresso del Duomo. Nel 1862 cambiò denominazione in Porta Garibaldi in onore del generale che aveva messo fine alla denominazione borbonica. Anticamente, le porte d’accesso ad una città rivestivano una notevole importanza dal punto di vista della difesa.

ORIGINI NORMANNE DEL DUOMO Riguardo all’antica cattedrale di Catania c’è il silenzio assoluto delle fonti arabe normanne, forse perché non più esistenti o agibili, solo la toponomastica sembra confermare la presenza al momento di un nucleo importante culturale, dedicato a Sant’Agata, anteriore alla nuova cattedrale da Ruggero (XI secolo), costruita in luogo strategico presso la costa e lontano dalle Avibus nocturnis antea sedes. I resti edilizi sottostanti l’attuale contigua chiesa di Sant’Agata al Carcere potrebbero ulteriormente confermare la tradizione di un coinvolgimento specifico di tutto questo settore urbano. In merito alla ubicazione dei tre contesti cardine del tragico martirio è ancor oggi oggetto di nuove indagini archeologiche (Fornace, Carcere, Pretorio) sono rapportati alla presenza del contiguo anfiteatro, chiara metamorfosi di potere e di morte, conclusasi con la sublimazione delle virtù cristiane, in attesa della resurrezione fisica. Nella cartografia del Cinquecento la memoria della fornace appare prossima all’Anfiteatro ed immediatamente fuori le mura, il nucleo Carcere-

1 Cattedrale si situa a margine della città e preesiste al perimetro urbano medievale del Cinquecento di Re Carlo V. La robusta costruzione romano imperiale del Carcere e tutto l’edificio pubblico in cui era inserito (palazzo Pretorio) si trovava ad una quota piuttosto alta, corrispondente alla somma cavea del medesimo anfiteatro. Le strutture antiche romano imperiali collegate al Carcere giustificano la presenza di un presidio in posizione dominante rispetto alla città, quindi, l’ubicazione del Palatinum (palazzo imperiale), presso cui si svolse l’interrogatorio di Sant’Agata, la quale morì all’una di notte del 5 febbraio del 251.

ORIGINI DI VIA STESICOREA-ETNEA Dopo il 1693, onde far posto alla Via Etnea, venne arretrata la cortina che congiungeva i bastioni del Santo carcere alla vicina antica porta Stesicorea, il convento e la chiesa dei Minoriti, parte dell’Università (già ospedale San Marco), la chiesa dell’Elemosina (Collegiata) ed i palazzi aristocratici. La direzione fu quella verso gli orti di San Filippo con un grande piazzale a coronamento rettangolare intitolato a Stesicoro, oggi a Vincenzo Bellini. Successivamente un leggero piegamento la diresse fino al cratere dell’Etna. Il patriziato fu pronto per la riedificazione della patria, a tutti i sacrifici. Fin da allora l’arteria divenne la regina della città, con alla sinistra i quartieri medievali ed a destra i conventi nuovi del Carmine, San Berillo, dello Spirito Santo. Il piano della Via Stesicorea era ed è rimasto ondulato, fino a quando il Marchese di Casalotto, sindaco di Catania e, per opera dell’ingegnere Maddem non fu ridotto ad un solo livello, scavando intere montagne di lava. Il Duca di Camastra, pertanto, ordinò che i nuovi edifici superassero l’altezza del primo piano, oggi fino ai tre piani, tranne Palazzo Carcaci. Egli fece inoltre realizzare il Corso (Via Vittorio Emanuele), laVia Lanza (poi Via Lincon, infine, Di Sangiuliano), formando i Quattro Canti ad angoli smussati. RELIQUIE DELLA PASSIONE DI CRISTO

1 Le Reliquie della Passione sono cinque e fanno parte del “tesoro dei Benedettini”. Custodite in preziose teche, si trovano nella Chiesa di San Nicoló l’Arena, passata in proprietà del Comune dopo le leggi postunitarie con le quali lo Stato incamerò i beni degli Ordini religiosi.

Le reliquie sono:  Il Chiodo che trafisse la mano destra del Redentore.  Due frammenti della croce.  Un frammento della vesta bianca.  Un frammento del manto purpureo di Cristo.  Una delle spine della corona. Il chiodo ed i frammenti della croce furono affidati ai Benedettini nel 1393 da Martino I d’Aragona, re di Sicilia, che li portava al collo, i frammenti delle vesti furono donati dalla regina Eleonora d’Aragona e la spina della corona fu offerta da Artale I Alagona, maestro e giustiziere del regno di Sicilia, protagonista dello Scacco di Ognina, al cenobio di Novaluce. Lo Scacco di Ognina fu una battaglia navale combattuta al largo del Golfo di Catania nel 1356 fra angioini ed aragonesi durante le Guerre del Vespro. Le sacre reliquie vennero portate a Catania dai monaci del Monastero di San Nicoló l’Arena il 9 febbraio del 1578; il Santo Chiodo veniva portato in solenne processione per le vie della città. Questa usanza si svolse per l’ultima volta nell’Ottocento.

IL CAMPANILE DEL DUOMO La storia della torre campanaria del Duomo di Catania, costruita dall’architetto e geologo Carmelo Sciuto Patti, unitamente alla lanterna superiore, è stata molto accidentata, in quanto, nei secoli ha subito diversi crolli, quindi, molte riedificazioni, come ad esempio quella ad opera dell’architetto, nonché monaco benedettino, Giovanni Battista Vaccarini.

1 In origine la torre era a base quadrata e misurava circa 15 metri per lato, ma nel 1662 venne ulteriormente innalzata per l’inserimento di un orologio e fu portata alla ragguardevole altezza di 100 metri. Durante il terremoto dell’undici gennaio del 1693 venne scaraventata in mare, travolgendo anche la chiesa e causando la morte di oltre 7000 fedeli che, per scampare alla morte, si erano raccolti in preghiera al suo interno. Venne poi rifusa anche con oro e argento donati dai cittadini, mentre la campana dell’orologio risale al lontano 1527. Successivamente la torre venne riedificata assieme alla chiesa ed alla sommità fu collocata la campana maggiore, di colore verde chiaro, del diametro di metri 1,80, fusa ben 5 volte, la prima durante il 1388, l’ultima nel 1614. Essa ha il tono in do naturale e pesa ben 7616 chilogrammi, caduta dalla torre medesima nel corso del terremoto, ma rimasta integra, unitamente alla campana del popolo del 1505. Oggi accoglie 5 campane di varia grandezza, fra cui la grande “del popolo”, una delle più grandi esistenti in Italia che, come si racconta, durante il terremoto del 1693 ruzzolò in mare assieme al suo vecchio campanile (alto 96 metri), frantumandosi in tre pezzi. Successivamente venne ripescata indenne dalla fanghiglia in cui era stata abbandonata, lanciata una pubblica offerta, quindi, fusa all’interno d’una fonderia di via della consolazione, ricostruita con metallo nuovo e ricollocata in servizio esattamente nel medesimo punto ove ancor oggi è possibile ammirare. Alla inaugurazione si era formata una lunghissima fila di fedeli e dopo la messa fu suonato il Gloria. Al primo suono rimbombante il popolo gridò “Viva Sant’Agata”. In quel frangente l’artefice dell’opera si tolse la vita, giacché credette che il suono generato dalla campana avesse voce falsa, lugubre, come di cosa rotta. Il 23 dicembre del 1695, fu mastro Alessandro Palazzone ad essere incaricato dall’allora Vescovo di Catania Andrea Riggio e da Giuseppe Cilestri, canonico e tesoriere della Cattedrale, di togliere dal campanile distrutto dal terremoto, la campana grande assieme alle due piccole, per ricollocarle in un luogo più sicuro,

1 vicino alla chiesa. In cattedrale la campana del popolo “campanone” un tempo serviva a dare l’annunzio delle esecuzioni capitali, era fra le più grandi di tutta la Sicilia e del mondo, alta 2 metri e 20 centimetri ed aveva una circonferenza alla base di ben 5 metri e 90 centimetri.

LE STATUE MARMOREE DEL DUOMO Sapreste dare un nome alle varie statue in marmo bianco di Carrara che si tro- vano in cima alla balaustra del Duomo di Catania? Non credo sia cosa tanto facile, soprattutto se non ci si è mai soffermati ad osservarle con un minimo di interesse quelle statue in marmo bianco di Carrara che ornano quel prospetto barocco di grande pregio architettonico, a firma dell'architet- to Giovanni Battista Vaccarini. Eppure una moltitudine di gente ogni giorno va a far visita a questo nostro pregevole gioiello, ma sono soprattutto i turisti a rimanere ammirati, nell'ascoltare attentamente le parole pronunciate dalle guide, a scattare innumerevoli foto, mentre noi non ci lasciamo nemmeno sfiorare dalla curiosità. Ed allo stesso modo di come, in un verso della Divina Commedia, Virgilio soleva dire al sommo poeta Dante: “non ragionar di loro, ma guarda e passa”, noi transitiamo da quei luoghi cento, mille vol- te, ma molto spesso non alziamo lo sguardo per osservare tutto ciò che si pone in- nanzi ai nostri occhi distratti e disinteressati. Ma neanche le Istituzioni possono considerarsi da meno, in quanto, spesso fanno poco, o troppo poco, per stimolare la conoscenza circa gli illustri personaggi che hanno reso famosa Catania nel mondo. Tuttavia, io ritengo oltremodo giusto che ogni cittadino rispettoso delle proprie origini, debba in qualche modo avere co- noscenza dei luoghi e della propria storia. Erano anni che avrei voluto conoscere la identità di quei personaggi, realizzati in marmo saccaroide. Cosicché oggi sono finalmente andato a scattare alcune foto ai personaggi rap- presentati sulla balaustra, proseguendo da sinistra ed in senso antiorario, riportando-

1 li nella medesima lingua latina, così come sono rappresentati sul luogo: S. Everius, S. Iacobus Vescovo, S. Athilius, S. Sixtus, Beatus Bernardus Scammacca, S. Rosalia, S. Agatha, S. Thanasius, S. Leo, mentre sul prospetto centrale, in basso sono rappre- sentati i santi Pietro e Paolo e sulla sommità S. Euplio e S. Berillo. Le statuette in bronzo sul cancello in ferro battuto a difesa della cameretta di Sant’Agata rappresentano i Santi Fortunato, Bernardo Scammacca, Euplio diacono, Berillo, Pietro, Leone, Stefano, il Beato Guglielmo Scammacca e San Ponziano.

ERASMO CICALA - BADIA DI SANT’ AGATA Catania, per via della sua posizione geografica, che la rende una “terrazza” sul Mediterraneo, e della sua vicinanza al vulcano Etna dalle cui lave, come un’araba fenice di pietra, è più volte risorta, è stata nel corso del tempo una meta immancabile per i viaggiatori. Affascinati dalla sua storia e dalla sua cultura, frutto di anni di dominazione che hanno forgiato un popolo, con i suoi usi e costumi, unico al mondo, decisero di aggiungere alle capitali europee, e alle più importanti città italiane, mete immancabili dei Grand Tour di viaggio, anche la Sicilia: Palermo, Messina, Siracusa e Catania. Città, quest’ultima, capace di ammaliare sin dall’arrivo: sin dalle coste, sin dalla vista dell’imponente Etna. Guy de Maupassant, Johann Hermann von Riedesel, Johann Wolfgang Goethe, Jean Houel sono soltanto alcuni dei viaggiatori che sono andati alla ”conquista” della Sicilia in cerca della sue origini classiche e affascinati dalla sua morfologia. Arrivando a Catania i visitatori potevano contare su un anfitrione d’eccezione: Il Principe di Biscari Ignazio Paternò Castello, nominato custode delle antichità del Val di Noto e Val Demone per le sue conoscenza del territorio e della storia e dell’architettura della città, che ben volentieri raccontava la storia di Catania e illustrava i siti di maggior interesse.

1 Son passati oltre due secoli dal periodo dei Grand Tour, ma le impressioni e le emozioni di quei viaggi non sono andate perdute, annotate da protagonisti in diari di viaggio redatti lungo il cammino. L’edificio che oggi vediamo poggia sulle rovine dell’antica chiesa e convento dedicati a Sant’Agata, nel 1620, da Erasmo Cicala e crollati a causa del terremoto del 1693. Erasmo Cicala era un nobile genovese, secondo la regola di San Francesco di Paola, nel 1620 edificò il convento di Sant’Agata (Badia), il quale rimase chiuso fino al 1652 per cause poco chiare. Nello stesso anno, su iniziativa del Vescovo di Catania, Antonio Gussio, si formò una comunità composta da suor Elisabetta Cicala, sorella di Erasmo, suor Maria Maddalena Fimia e da 12 novizie, provenienti dal monastero di Santa Maria di Porto Salvo, presso Napoli. Il terremoto del 1693 distrusse il monastero, il quale venne ricostruito per volere del Vescovo Andrea Riggio, con la partecipazione del Vaccarini, in stile barocco. Il complesso monastico oggi risulta occupato da alcuni uffici comunali. La famiglia dei Cicala apparteneva alla nobiltà genovese, con tanto di stemma, geneticamente guerriera e mercantile, poté prosperare e conservare la propria sovranità in una Europa organizzata in grandi Stati monarchici, ciò fu dovuto in larga parte all’abilità con cui numerosi rami di famiglie genovesi riuscirono ad affermarsi in quegli stessi Stati, entrando a far parte dei ceti dirigenti locali, sia in ambio civico, che feudale, inserendosi incisivamente nel loro apparato economico e ricoprendo cariche di primo piano, senza mai recidere il legame con la madrepatria della quale, anzi, rappresentarono sempre gli interessi economici e politici. La loggia della nobile famiglia dei Cicala si trova a Genova (secoli XV-XVII) in piazza delle Scuole Pie, originaria dalla Germania e presente a Genova dal 942. Il nome e lo stemma derivarono da uno sciame di cicale che avrebbero sovrastato, cantando, Pompeo in battaglia contro i pisani, creando panico fra gli stessi e procurandogli la vittoria.

1 Egli, pertanto, assunse quale stemma le cicale fino al 1432 quando il re di Polonia concesse a Giobatta Cicala in premio per le sue vittorie contro i Tatari l’uso del proprio stemma rosso con aquila coronata d’argento. Nel1528, a seguito della riforma voluta da Andrea Doria, formarono il 7° Albergo. I Cicala o Cigala, presenti sulla politica cittadina della Repubblica di Genova dal XII secolo, appartenevano alla più antica nobiltà genovese, quella consolare, che aveva dato consoli allo stesso comune nel primo periodo della sua esistenza. Guglielmo fu tra i primi consoli tra il 1155 ed il 1161. Nel corso del secolo successivo la famiglia dette altri uomini di governo, tutti esponenti ghibellini. Le case dell’Albergo erano situate tra la Cattedrale di San Lorenzo (Genova) ed il mercato di San Pietro in Banchi. Le prime memorie ella famiglia patrizia genovese si fanno risalire all’anno 924, quando sarebbe passata da Lerici a Genova. E’ leggendaria tradizione che, avendo sorvolato il capo di tal Pompeo di questa stirpe uno sciame di cicale quand’egli era per attaccare coi suoi Genovesi i Pisani, conseguita la vittoria, volle celebrare il prodigio dipingendo quegli insetti sullo scudo e assumendone il nome. Questa famiglia, una delle consolari di Genova, fiorì non solamente in Genova per commerci, per navigazioni, per armi, per lettere, per cariche civili ed ecclesiastiche, ma beni anche in moltissimi altri paesi d’Italia e di fuori

RICOSTRUZIONE DEL MONASTERO DEI BENEDETTINI Il 30 settembre del 1558, ottenuto il permesso, dopo infinite traversie, per poter costruire il nuovo convento benedettino, sotto il titolo di Sancti Nicolai de Arenis, ebbero inizio i lavori diretti da Giulio Lasso, architetto ufficiale del monastero, su disegni di Valeriano De Franchis, catanese dall’ingegno versatile, filosofo e matematico. Dopo 20 lunghi anni i lavori furono portati a termine.

1 Allorquando nel 1669 la lava investì e circondò a tramontana il monastero, distruggendo i gradini che costituivano un importante accesso per la mensa dei monaci, distruggendo i chiostri, i dormitori e la Chiesa. Dei 32 monaci presenti si salvarono soltanto Lodovico Batteato monaco con altri due fratelli e l’abate, in quanto al momento risultava assente. Fu allora chiamato da Roma l’architetto Giovanni Battista Contini per la ricostruzione, così la prima pietra fu posta il 3 giugno del 1687. Dal 1702 al 1799 la collina di Montevergine, dalla Cipriana al Tindaro, al Bastione degli infetti, divenne tutto un cantiere, si susseguirono, frattanto, nella ricostruzione del monastero i maestri del Barocco, come gli Amato, Andrea, Tommaso ed Antonino, Alonzo Di Benedetto, Giovanni Battista Vaccarini, Girolamo Palazzotto, i Battaglia, Francesco, Antonio e Carmelo, Stefano Ittar, Francesco Navone ed altri ancora. Dall’architetto Navone venne così scelto il progetto di Carmelo Battaglia Santangelo.

CHIOSTRO DI PONENTE

Jakob Ignaz Hittorff, architetto di origine tedesca, figlio di un modesto artigiano che lo indirizzò all’architettura facendogli studiare matematica e disegno, Hittorff nacque a Colonia come cittadino tedesco, ma con l’occupazione francese del 1794 diventò un cittadino francese. Quindi per proseguire gli studi si recò a Parigi nel 1810 per frequentare l’École impériale et spéciale des Beaux-Arts de Strasbourg, seguendo i corsi dell’architetto francese Charles Percier. Durante il viaggio in Italia iniziato nel 1822, quasi un obbligo per gli architetti europei della sua generazione, dopo Roma proseguì nel 1823 per la Sicilia accompagnato da Karl Ludwig Wilhelm Zanth e da Wilhelm Stier. Nell’isola, sulle orme del suo antico professore Léon Dufourny, famoso architetto neoclassico francese si fermò a lungo studiando le vestigia antiche.

1 Il soggiorno siciliano fu centrale nella sua esperienza professionale ed estetica come per molti altri architetti dell’epoca. Dopo aver scoperto a Selinunte delle tracce di stucco colorato, sia sugli elementi architettonici che su quelli scultorei, fu tra i primi a dare evidenza architettonica alla policromia dell’architettura greca, già teorizzata in precedenza; le tavole e gli acquarelli di Hittorff e Zanth che ricostruiscono i templi siciliani daranno all’immaginario neoclassico una concreta e nuova visione dell’architettura greca, segnando la crisi delle candide visioni di Johann Joachim Winckelmann o di Antonio Canova. In Sicilia, in modo del tutto inconsueto per l’epoca, si interessò anche dell’architettura del XVI e del XVII secolo e di quella a lui contemporanea, di transizione tra barocco e neoclassicismo; studiò e rilevò in particolare i palazzi palermitani e l’opera dell’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia, la cui opera rappresenta il momento di passaggio tra il tardo barocco ed il neoclassicismo europeo nella cultura architettonica della Sicilia. Durante il soggiorno catanese Hittorff si ritrovò a visitare il famoso monastero di San Nicolò l’Arena; qui fece altri rilievi, in particolare disegnò la sezione della famosa fontana del chiostro di ponente (conosciuto anche come “chiostro dei marmi”, indicandone anche le misure. Questo suo lavoro si rivelerà fondamentale per il restauro della fontana durante i lavori di recupero del sito, condotti da Giancarlo De Carlo a partire dal 1984. Ritornato a Parigi, ebbe numerosi incarichi pubblici e divenne architetto della città di Parigi, nel periodo del rinnovamento urbano di Haussmann. Si sposò con la figlia dell’architetto Jean-Baptiste Lepère con il quale collaborò. Rimase in Francia anche dopo il Congresso di Vienna, acquistando la nazionalità francese nel 1842, per candidarsi all’Institut de France.

1 LA MERIDIANA DI SAN NICOLO’ Quei segni talvolta tipicamente esoterici sono quelli della meridiana di San Nicolò l’Arena. A pensarla e costruirla fu nell’Ottocento il barone tedesco Wolgang Sartorius von Qaltershausen, famoso topografo. Già nei primi anni dell’Ottocento i monaci benedettini lo avevano preteso, soprattutto perché in Europa, meridiane se ne erano costruite parecchie all’interno delle chiese. L’abate don Federico La Valle aveva investito una somma considerevole, senza, tuttavia, poter realizzare il progetto. Maggior fortuna ebbe il suo successore, don Tommaso Ansalone, fu lui ad incaricare l’astronomo palermitano Nicolò Cacciatore di studiare l’adeguata sistemazione dell’impianto. L’inizio dei lavori, tuttavia, si interruppe subito dopo, con l’arrivo in Sicilia, intorno al 1838, del Sartorius per portare a termine lo studio dei fenomeni vulcanici dell’Etna, infatti, due crateri portano oggi il suo nome, per cui, i Benedettini non si fecero sfuggire l’occasione. Don Giovanni Francesco Corvaia, abate in carica riuscì ad affidargli la ripresa dei lavori del grande orologio solare destinato ad assicurare l’ora esatta al popolo dei catanesi. Il barone Sartorius si fece assistere dal tedesco barone Christian Heinrich Friedrich Peters, anche lui frequentatore di Catania, in quel tempo impegnato in studi di astronomia, così è stato proprio lui a determinare la latitudine geografica della città e la posizione topografica dell’Etna. Onde poter portare a termine il compito, incaricò scultori locali per la realizzazione delle piastrelle raffiguranti figure dello zodiaco, numerose altre con l’indicazione dei giorni e mesi, furono opera di maestranze etnee. A lui, inoltre, si deve lo spettacolo del grande calendario da un capo all’altro del transetto. L’opera, ultimata nel 1841, fu subito oggetto di ammirazione, destinata a perpetuarsi nel tempo per via della precisione dei calcoli e la grandiosità, generando nei catanesi una grande fierezza, infatti, a mezzogiorno in punto, dal foro sul tetto del transetto di San Nicolò, ad un’altezza di circa 24 metri, ancor oggi accoglie un

1 raggio di sole che raggiunge come una spada folgorante, il punto esatto dove sono segnati giorno e mese. Sul pavimento resistono all’usura del tempo 24 lastre marmoree lavorate, con al centro la linea meridiana. Accanto ai simboli dello zodiaco ci sono due scritte, la prima è destinata a perpetuare l’evento della realizzazione dell’orologio, la seconda è la guida alla interpretazione dei segni, a seconda delle stagioni, quindi, alla corretta lettura della meridiana stessa. Onde marcare il carattere internazionale del comprensorio etneo, c’è una tabella delle unità di misura in uso nei paesi europei. Lo scienziato tedesco e l’astronomo danese, con la realizzazione della meridiana, hanno anche dimostrato grande conoscenza della nostra città, infatti, sono stati capaci di inserire nelle lastre marmoree del sistema di misurazione del tempo, persino dati sulle condizioni climatiche e la meteorologia cittadina. Il Sartorius è stato anche il realizzatore dell’orologio solare all’interno del Giardino Bellini, conosciuto come gnomone, presso il viale degli uomini illustri.

LA MERIDIANA CATANESE Catania, come racconta lo scrittore e filosofo greco antico Plutarco nelle Vite di Marcello, possedeva una mirabile meridiana che il console e scrittore latino Marco Valerio Messalla Corvino portò con sé a Roma col sacco della conquista. L’interesse per la gnomonica, la scienza dei quadranti solari, ha nella città etnea quindi un’origine piuttosto antica, tuttavia in città non sono rimasti manufatti più antichi del XIX secolo e, in numero, non sono molti. Tra essi spicca certamente la splendida Meridiana dei Benedettini, opera di notevole pregio di Sartorius e Peters, astronomi conosciutisi ad Acireale dove inaugurarono un’altra pregevole opera. Ma non tutti ricordano un quadrante in marmo, mancante della sua metà destra, esposto per anni nel cortile del Palazzo degli Elefanti, sede del Municipio di Catania. Questo quadrante, piuttosto articolato, è opera firmata del sacerdote

1 Salvatore Franco, il geniale Autore del calendario perpetuo che vinse alla Esposizione Universale di Parigi, commissionata, come si legge dall’incisione sulla lastra marmorea, da mons. Antonino Caff. Di questo quadrante è nota soltanto l’ubicazione originaria, mentre l’anno ed il motivo che spinse alla sua realizzazione sono ignoti. Originariamente posto all’interno del cortile dell’Arcivescovato, forse appeso su una parete liscia, venne probabilmente asportato durante la realizzazione del nuovo corpo di fabbrica che ne precluse un corretto funzionamento. Abbandonata quindi per anni nel cortile del Palazzo degli Elefanti, fu ritrovata in pessime condizioni da Michele Trobia, un appassionato di gnomonica interessato al suo restauro e al ripristino. Dopo diversi anni di tribolazioni e di difficoltà incontrate nel reperire tutti i pezzi mancanti, ma anche nelle procedure burocratiche dilatatesi nel frattempo a causa del cambio di vescovo. Il Trobia riuscì finalmente a vedere coronato il suo sogno il 15 maggio di quell’anno, riportando alla sua originaria allocazione il quadrante restaurato dal Laboratorio di Conservazione dei BBCC “Calvagna” di Aci Sant’Antonio. L’opera, degna del suo realizzatore, è in grado di fornire informazioni dettagliate e di pubblica utilità per il periodo in cui venne realizzata. L’ombra dello gnomone, la riproduzione del disco solare a sette raggi fiammati, viene proiettata sulla superficie su cui sono indicate le ore (dalle 6:00 alle 18:00 in numeri latini ed arabi), le mezze ore, i quarti d’ora, le lemniscate (ossia le ellittiche “ad otto”) che calcolano il tempo medio locale di Palermo. Queste ultime erano necessarie in quanto con la realizzazione delle prime ferrovie gli orari locali iniziarono a confrontarsi con quelli delle altre località, spesso alterando i tempi di attesa dei mezzi su rotaia. A questo proposito il nascente Regno d’Italia indicò nel meridiano di Roma l’ora legale per la penisola, mentre la Sicilia e la Sardegna adottarono i meridiani dei rispettivi capoluoghi.

1 In Sicilia si usò il meridiano di Palermo fino al 1893, distante 6' 28”' dal meridiano catanese. Pertanto la realizzazione del quadrante di Salvatore Franco si colloca antecedentemente a tale data, forse nel biennio 1888-1890. Ma le sorprese non sono finite. La lemniscata palermitana (curva a forma di otto) del mezzogiorno presenta lungo i bordi la rappresentazione dei segni zodiacali, mentre ai lati dell’arco dell’orologio solare, legate da una retta che indica sul quadrante la retta degli equinozi (pertanto in grado di segnare anche l’inizio delle principali festività mobili cristiane), sono due piccole meridiane a lemniscata, in grado di fornire ulteriori dati: a destra una molto semplice segna gli equinozi ed una data - il 18 marzo - probabilmente una ricorrenza cara al m. Caff; a sinistra una più completa segna tutti mesi dell’anno. Per assurdo un’opera tanto bella, tanto importante e dai natali così illustri, si trova ancora priva di una doverosa segnalazione, mancando indicazioni, pannelli didattici o altre informazioni per la conoscenza del manufatto; inoltre è impossibile poterne gustare il completo funzionamento quando è in vigore l’ora legale, in quanto l’Arcivescovato chiude alle 12:30 che, in ora solare, equivalgono alle 11:30, così che per poter apprezzare l’uso delle piccole meridiane, funzionanti solo nel mezzogiorno, bisognerebbe ammirare il quadrante quando è in vigore l’ora solare.

MARIA SS. DEL ROSARIO L’ex chiesa Maria SS. del Rosario dei padri domenicani, sede oggi dell’Archivio Storico Comunale di Catania Alcune foto riesumate dall’Archivio Fotografico della Sovrintendenza ai BB. CC. AA. di Catania mostrano l’interno della chiesa prima della sua demolizione. La chiesa si vede pressoché integra e, confrontando il rilievo con quello dello stato di fatto al 1990, ci si accorge che gran parte delle strutture murarie furono utilizzate per la costruzione del nuovo edificio.

1 Il convento fu costruito per volere di donna Margherita Arcangelo alla fine del ‘600, fu destinato, nel 1610, ai Padri Domenicani. L’uso di appellare comunemente il Convento e la Chiesa di Santa Caterina al Rosario ebbe la sua origine dalla concessione, nel 1643, del convento alla Congregazione di Santa Maria del Rosario In alcune foto conservate nell’Archivio Fotografico è possibile vedere l’interno della chiesa prima della sua demolizione, ancora ricca di stucchi ma ormai spoglia dei preziosi rivestimenti in marmo degli altari. Da altre foto, che ritraggono i prospetti esterni, si evince che era crollato solamente il secondo ordine della facciata principale che, nel progettare il nuovo edificio, l’ing. Piana riutilizzò in parte alcuni elementi architettonici della vecchia facciata. Le foto ritraggono anche gli altri prospetti della chiesa, facendo vedere che il portale dell’ingresso laterale era stato rimosso e che la navata centrale era stata solo parzialmente danneggiata dai bombardamenti, mentre sono visibili le finestre del transetto e del presbiterio, facendone apprezzare la ricca decorazione settecentesca, nonché la casa per civile abitazione nell’angolo fra via Pulvirenti e via Mazza ed il campanile collocato a ridosso del presbiterio. Il progetto dell’ingegnere Sebastiano Piana prevedeva l’inserimento delle finestre poste nel transetto e nel presbiterio come elementi architettonici del nuovo edificio, lasciando invariata la loro posizione originaria. Questa previsione progettuale rimase disattesa in quanto, come si evince dallo stato di fatto, fu rispettato il disegno del prospetto solo su piazza Scammacca mentre nell’angolo fra via Pulvirenti e via Mazza venne realizzato il palazzo in cemento armato ancora esistente, seguendo la sorte degli altri edifici sorti al posto di alcune chiese del Settecento catanese che, se fossero state restaurate invece di essere demolite, avrebbero fatto parte del patrimonio dell’UNESCO. I documenti di archivio relativi alla costruzione della chiesa, conservati nel fondo dell’Archivio Storico Diocesano di Catania si legge che «Il convento era stato

1 fondato, con decreto pontificio, in esecuzione della volontà dei defunti don Vincenzo e donna Margherita d’Arcangelo e Paternò. Prima del terremoto del 1693, aveva il chiostro con colonne di marmo ed il dormitorio. L’abside sulle cui pareti laterali erano dipinti il Sacrificio di Melchisedech da un lato e Mosè che fa piovere la manna nel deserto dall’altro, ambedue questi affreschi del pennello di Paolo Ferro Vaccaro. Sotto il cappellone era stato eretto l’altare maggiore, più il coro con 16 stalli, l’organo con putti sulla cantoria innanzi al cui parapetto si vedeva il monogramma di Maria. Sul pavimento del presbiterio esisteva una lapide sepolcrale ove era disegnato uno stemma. L’altare della Madonna del Rosario con una bella tela del cav. Conca, attorno alla quale facevano bella corona altri 15 quadretti rappresentanti i misteri del rosario. L’altare di Santa Caterina da Siena. L’altare di Santa Caterina de Riccis con un altro gran dipinto di essa, oltre un piccolo quadro rappresentante Sant’Anna, San Gioacchino e la Madonnina. Una porta prospettava nella piazza Scammacca. L’altare (ultimo) di San Pietro Geremia con un grande dipinto ed un altro piccolo quadro, i magazzini, la dispensa, la cucina e le botteghe. La chiesa era adorna di stucco reale e finitissime pitture, rivestita tutta d’oro, con una magnificenza così grande, che la rendeva la più bella, grande sontuosa chiesa a tempio della nostra città. Con il terremoto tutto rovinò e i padri superstiti furono costretti ad adattarsi in capanna; fu predisposta alla meglio una chiesa in modo che potesse continuare il Pergamo Quaresimale per i Predicatori di questo illustrissimo Senato. In un altro documento conservato nel fondo Corporazioni Religiose Soppresse dell’Archivio di Stato si legge che fu istituito quale archivio provinciale in esecuzione del regio decreto del 1° agosto 1843, che estendeva ai Domini al di là del Faro l’istituzione degli archivi provinciali, alle dirette dipendenze della segreteria dell’intendente.

1 Ma la situazione politica del tempo ne ritardò l’attuazione, sicché esso, primo fra gli archivi provinciali in Sicilia, fu inaugurato soltanto il 12 gennaio 1854, anniversario della nascita del re Ferdinando II. In materia sopraggiunsero più tardi la legge 20 marzo 1865, e, l’anno dopo, il regio decreto 21 gennaio 1866; in forza dei quali l’Archivio di Catania fu affidato all’Amministrazione Provinciale, al pari di tutti gli altri esistenti nell’Italia meridionale. Durante il fascismo la sua denominazione subì una lieve modifica, per cui, divenne quella di archivio provinciale di Stato; ciò in virtù del regio decreto del 22 settembre 1932, che inquadrava nei ruoli statali il personale degli archivi delle province napoletane e siciliane. Tale rimase fino al 1940, quando divenne sezione di archivio di Stato, in esecuzione della legge 22 dicembre 1939. Con l’entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica del 30 settembre 1963, la denominazione divenne “Archivio di Stato”. La sua prima sede fu il palazzo Boccafuoco alla Marina, da dove, nel 1868, fu trasferito nell’ex convento dei padri domenicani sotto il titolo di Santa Caterina da Siena al Rosario, ubicato in via Vittorio Emanuele 156, sua sede attuale. L’archivio offre la possibilità di consultare i documenti archivistici in una sala studio. L’Istituto è dotato di una Biblioteca, con specializzazione precipua in storia siciliana (e più in particolare catanese) nonché nelle materie di carattere archivistico, paleografico, diplomatico e giuridico. La biblioteca consta, a tutt’oggi, di circa 15250 volumi, 430 testate, per complessive 3700 annate circa. Esiste anche una piccola sezione di compact-disc e videocassette, composta di circa 200 unità, frutto soprattutto di dono da parte di altri Istituti, che va incrementandosi di anno in anno.

INDUSTRIE - LIQUIRIZIA E TABACCO In Sicilia erano in forte espansione le fabbriche che si occupavano della produzione di liquirizia, di cui Catania, nel periodo 1889-95, era la maggiore fornitrice.

1 La liquirizia veniva esportata in piccoli bastoncini verso grandi città come Trieste, Livorno, Genova, Marsiglia, ed in importanti nazioni come Inghilterra, Olanda, Germania, e persino in Giappone ed in Australia. Questa era utilizzata per produrre il colore di diverse penne per le sue rimanenti proprietà medicinali. Ma poche erano le fabbriche bene attrezzate, come quelle della ditta di Bernardo Fichera o di Giuseppe Pastore, che producevano succo e radice manifatturata, o di Gaetano Musumeci che concorreva con il mercato russo e spagnolo, lavorando una radice particolare, premiata anche con una medaglia d’oro. Nonostante la fortuna incontrata da questo prodotto, anche sul mercato internazionale, i processi produttivi continuarono su livelli artigianali. A prova di ciò il fatto che ancora negli anni ‘90 queste industrie non disponevano di motori meccanici, continuavano ad utilizzare forza manuale. Molto importante, infine, era anche l’industria del tabacco, che usava le qualità brasiliane e spagnole, coltivate ad Acireale, Paternò, Licodia, Vizzini, Mineo e Grammichele. In città le aziende produttrici di tabacco erano circa una ventina e furono eliminate nel 1878 a causa del monopolio statale. Gli operai assorbiti furono impiegati nella Grande Manifattura di Stato, alloggiata nell’ex caserma borbonica costruita sulla via Ferdinanda.

IL TEATRO COPPOLA Il Teatro Coppola (ex Teatro Comunale), sito in via del Vecchio Bastione, presso il quartiere Civita è stato il primo teatro comunale di Catania, inaugurato nel 1821. Distrutto da un bombardamento l’8 luglio 1943 e poi trasformato in laboratorio scenografico del Teatro Massimo Vincenzo Bellini, venne in seguito abbandonato. È stato poi riaperto, in seguito all’occupazione da parte di cittadini volontari, la mattina del 16 dicembre 2011 un folto gruppo di lavoratori siciliani della cultura e dello spettacolo (artisti, maestranze ed operatori)

1 L’edificio con una lunga storia artistica, si tratta del primo Teatro Comunale della città di Catania che, venne abbandonato a se stesso, dimenticato da amministrazione e cittadini. Inaugurato nel 1821 e profondamente danneggiato dai bombardamenti dell’8 luglio 1943. L’ex Teatro Coppola, ospitato all’interno di un vecchio magazzino nella zona del Porto, inizialmente di proprietà del cavaliere Francesco Gravina Hernandez e poi acquistato dal Comune, nacque come teatro provvisorio, nell’attesa che venissero completati i lavori del Teatro Novaluce (l’attuale Teatro Massimo Vincenzo Bellini), sopperendo, così, alla necessità di dare alla città uno spazio per le rappresentazioni pubbliche. Il 19 luglio 1821 con la messa in scena dell’Aureliana in Palmira di Gioacchino Rossini, il Teatro Coppola, a causa dei ritardi nella costruzione del Novaluce, viene inaugurato come 1° Teatro Comunale di Catania. Dopo l’apertura del Teatro Massimo Vincenzo Bellini, diverse sono le destinazioni del Coppola che per anni è utilizzato come laboratorio scenografico. Un progetto di ricostruzione già negli anni Sessanta era stato approvato e finanziato, fu però rinviato per destinare quei soldi ad azioni ritenute più urgenti. A seguito di una petizione sottoposta nel 1818 al Comune di Catania da parte dei cittadini, nella quale si lamentava l’interruzione dei lavori per la costruzione del Teatro Novaluce (l’odierno Teatro Massimo Vincenzo Bellini) e la mancanza di un luogo idoneo alle rappresentazioni pubbliche, il Decurionato, «considerando la giustizia del pubblico reclamo per ottenere un locale provvisorio di pubblico spettacolo» e «considerando essere assolutamente necessario il bisogno di erigersi questo teatro onde cessare le giuste querele della popolazione», decise di procedere alla realizzazione di un teatro provvisorio nei locali del cavaliere Francesco Gravina Hernandez.

1 I locali vennero presi in affitto dal Comune per nove anni, al termine dei quali si ritiene possa essere ultimato il ben più ambizioso progetto del Teatro Grande nella piazza di Novaluce (attuale piazza Teatro Massimo). E’ la nascita ufficiale del primo Teatro Comunale di Catania, che aprirà i battenti il 19 giugno del 1821 mettendo in scena l'Aureliana in Palmira di Gioacchino Rossini. Trascorsi i nove anni e non vedendosi ancora la fine dei lavori per la costruzione del Teatro Novaluce il Comune decide l'acquisto dei locali del cavalier Gravina Hernandez e vengono annessi alcuni terreni sul retro per ampliare sia il teatro che i suoi servizi. Il Teatro smette di essere Provvisorio e si chiamerà fino al 1887 (anno della sua prima chiusura) Teatro Comunale. Nel 1887 il Teatro Comunale viene chiuso, ritrasformato in magazzino e affittato a commercianti locali come deposito di crusca, cereali e baccalà. Fino all’inizio del 1895, quando il locale viene concesso dal Comune al "Circolo Filodrammatico Artistico" che, dopo averlo rimesso a nuovo a proprie spese, lo inaugura il 26 gennaio dello stesso anno. Nel 1908, in occasione della rappresentazione del dramma Malìa di Luigi Capuana, il 2 giugno di quell'anno il teatro viene dedicato al compositore Pietro Antonio Coppola, già maestro orchestratore del Teatro Comunale e morto nel 1877. Lo scoppio della prima guerra mondiale tronca ogni attività del Teatro Coppola fino al 1920, quando il Circolo Artistico, finita la guerra e raccolti i superstiti della filodrammatica, chiede al Comune la concessione del Coppola per farne un teatro sperimentale. L’Amministrazione Comunale accoglie la richiesta con deliberazione del 1920. Il nuovo corso del Teatro Coppola viene così inaugurato il 12 Febbraio del 1920 con un lavoro del poeta, drammaturgo e giornalista Ernesto Murolo.

1 Nel 1923 la filodrammatica viene battezzata “Brigata d’Arte” e diviene, grazie anche ai numerosi successi, un vero e proprio vivaio per il teatro catanese. L’inizio del secondo conflitto mondiale tronca ancora una volta ogni attività del Teatro Coppola che, abbandonato a se stesso, si riduce a deposito per i pescatori della zona. Fino all’8 luglio del 1943, quando i bombardamenti americani lo distruggono quasi completamente. Due anni dopo i giovani del Circolo Artistico ne rivendicano le rovine allo scopo di ricostruirlo. Il glorioso Teatro, dal 1942 è rimasto muto nelle sue rovine. Di ricostruzione si è riparlato negli anni Sessanta. Il progetto fu approvato e finanziato e avrebbe goduto del contributo statale per danni bellici, ma l’Amministrazione Comunale qualche anno dopo fece stornare le somme per altre opere ritenute più urgenti, rinunciando persino a percepire il risarcimento dei danni di guerra. Ridotto per anni a laboratorio scenografico del Bellini, nel 2005 è stato approvato un progetto per farne sala prove per l’orchestra dello stesso Ente ed ancora una volta i lavori sono stati interrotti e il cantiere abbandonato. Oggi il Teatro Coppola ridiventa Teatro dei Cittadini, qualora vorranno ricostruirlo.

LAVATOIO DI CIBALI Catania è piena di storia, arte e cultura. Purtroppo molte opere sono abbandonate a se stesse diventando fragili bersagli di atti vandalici. È quanto accade sotto gli occhi di tutti, ogni giorno ed ogni anno. E seppure, di tanto in tanto, si interviene bonificando le aree reperto, alla fine dei conti l’incuranza collettiva finisce sempre col danneggiare un bene pubblico. È quanto accade ai lavatoi storici di Catania, che resistono al passare del tempo fra degrado ed abbandono. Un vero e proprio pezzo di storia del quartiere Cibali, infatti, giace tra l’indifferenza della gente. L’opera è stata costruita nel 1671 dalle maestranze

1 cittadine e restaurata nel 1864. In questo sito, anticamente, si sviluppò uno dei primi nuclei abitativi catanesi grazie alle fonti d’acqua presenti. Oltre ad essere una delle poche testimonianze della zona, il lavatoio, infatti, è sopravvissuto ai bombardamenti anglo americani durante la seconda guerra mondiale. Gli ultimi lavori di restauro risalgono al 2008, anno in cui fu riparato il tetto e furono ricostruiti i pilastri corrosi dalla muffa e crepati. Tuttavia negli ultimi anni la struttura è stata aperta ufficialmente solo per poche e selezionate occasioni. Chiusi i cancelli, il museo scivola nel dimenticatoio e la fontana che lo affianca, da cui ancora oggi la gente attinge l’acqua. Nel passato, l’acqua di questa fontana riusciva a soddisfare le più importanti esigenze giornaliere degli abitanti. E’ l’acquedotto benedettino catanese, esempio di idraulica a livello europeo, oggi in stato di degrado nei diversi punti della città in cui ancora resiste. Le mura continuano a sgretolarsi, disperdendo così pezzi di storia. L’antico lavatoio di via Licatia, purtroppo, oggi ha cessato di servire per la sua vecchia funzione ed è diventato luogo d’appuntamento per coppie senza dimora. Resta poco della struttura, sebbene un filo d’acqua scorra ancora fra i cespugli rinvigorendo il verde circostante. Come si intuisce dal suo stesso nome, la presenza di una sorgente è da sempre l’elemento caratterizzante di questa zona, sita sulla collina di Santa Sofia. In passato il quartiere veniva infatti denominato Cifali, nome il cui significato è da rintracciare nel greco antico ed in particolare nel termine kephale, ovvero testa di fiume. Tornando al significato greco, a Cibali si trova la sorgente del fiume sotterraneo Longane. Fino al 1381 il torrente fluiva regolarmente sul terreno, sfociando ad Ognina, ma la stessa Etna da cui lui ha origine quell’anno lo coprì con la propria lava, ponendolo sotto i piedi della città. Sarà durante il 1625 che i monaci benedettini realizzarono un acquedotto, il Cifali appunto, che da allora alimenta il lavatoio.

1 L’attuale quartiere di Cibali sorse sul colle di Santa Sofia dove vi furono i primi insediamenti di Sicani e successivamente di Siculi; la zona era ideale perché l’attraversava un grande corso d’acqua, il Longane, che sfociava nel mare di Ognina. In seguito le sue acque vennero utilizzate dai romani per gli usi civili della città di Katane. Il fiume fu coperto dalla lava nell’eruzione del 1381, ma continua a scorrere nel sottosuolo, infatti nel 1625 i monaci benedettini realizzarono nel cuore della città un acquedotto, detto di Cifali, in parte sotterraneo ed in parte sopraelevato, che alimentava buona parte della città e serviva il monastero. Un tempo serviva un tempo per lavare i panni, contrariamente all’apparente promiscuità e contemporaneità dell’uso, è del tutto igienico, poiché l’acqua non è stagnante ma in continuo, anche se lento, movimento.

I TRAGHETTI DEL SIMETO Durante la dominazione romana, lungo il corso del Simeto, da Maniace a Catania, furono costruiti diversi ponti per unire le due sponde del fiume per il passaggio delle soldatesche e delle carovane di animali da soma carichi di grano. Nel corso delle dominazioni barbariche, essi andarono, quasi nella totalità, distrutti per mancanza di manutenzione. Dato il regime torrentizio del Simeto, nei periodi di magra era facile individuare guadi o passi, ma nei periodi di piena o non si attraversava o si rischiava di lasciarsi trascinare dalla corrente. Col fiorire dell’agricoltura e del commercio in età araba, si incominciarono ad usare delle zattere o barche denominate giarrette che venivano poste allo sbocco delle trazzere più frequentate di qua e di là del fiume per permettere il traghettamento di persone, animali e merci. Queste venivano assicurate alle due sponde del fiume da grosse gomene, dette libani, che servivano da guida e di appiglio attraverso i vortici della corrente. Sulla sponda orientale del fiume, c’era una specie di scalo con un grande pagliaio dove stavano i barchieri e gli attrezzi: tronchi, tavole, corde e pece per le barche.

1 Erano di proprietà del sovrano o del nobile che le aveva ricevute col feudo; esse venivano gestite in gabella per periodi che variavano dai 3 ai 6 anni.. Il gabelloto corrispondeva al feudatario o ad un suo vassallo un canone annuo in denaro o in vettovaglie ed a sua volta si rivaleva sui traghettanti, riscuotendo particolari diritti di passaggio da massari, pastori ecc. Le Giarrette più note furono tre: quella di Adernò o di Mandarano, quella di Paternò o della Poira e quella di Catania non lontana dalla foce del Simeto. Della Giarretta di Adernò si ha notizie da lettere del conte Francesco Moncada del 27-8-1564. In tale contratto si afferma che, per disposizione del conte, i proventi della barca dovevano essere percepiti annualmente dai procuratori della Chiesa Matrice per spenderli nell’acquisto di cera, olio, ecc. Dal 1564 al 1636, la Matrice gabellò la barca percependone un canone annuo di 10 onze dai gabelloti che per le loro prestazioni esigevano i seguenti diritti: dai borghesi che facevano masserie, tumoli quattro di grano per giornata di aratro; dai pastori un cantaro di formaggio per iazzo oltre a capretti, ciavarelli e ricotte. Questo pesante onere gravò per tanti anni e spesso si sollevarono lamentele da parte di agricoltori e pastori che non intendevano pagare così forti diritti. A loro volta, i procuratori della Matrice si lamentavano sulla magrezza dei frutti della barca che rendeva meno di quello che ci voleva per le riparazioni, perciò essi, con un atto del 27-5-1718, concessero al barone Antonio Spitaleri Iunior il diritto di tenere per suo conto la barca nel fiume con le stesse modalità con cui l’aveva tenuta per alcuni secoli la Matrice e tutto per il canone annuo di 10 onze per pagare i quali, il barone pose un'ipoteca su tutti i suoi beni. I ripari e la ricostruzione della barca in caso di naufragio erano tutti a carico del concessionario. Ma i pagamenti alla Chiesa non furono regolari e il 3-5-1759 il nipote di don Antonio, don Rosario Spitaleri, era debitore di 127 onze da pagare, in rate annuali, ai procuratori della Matrice. Nel dividere i beni di don Agatino, figlio di don Antonio Spitaleri, tra gli eredi si convenne che la barca rimaneva in comune e che il

1 censo di 10 onze alla Matrice dovevano pagarlo nella misura di 5 onze donna Anna Spitaleri e Ciancio e di 5 onze don Felice e donna Rosaria Spitaleri. Nel 1797, il principe di Paternò don Francesco Alvarez de Toledo mise in servizio un’altra barca distante da quella degli Spitaleri. Questi intentarono causa al principe al quale fu intimato di situare la sua barca in un altro luogo molto distante, per non ledere il diritto di esclusiva preteso dagli Spitaleri che però non vollero più contendere contro un così potente antagonista e finirono per abbandonare il negozio della barca e non fecero più versamenti alla Matrice.

LE GROTTE DI PRIMOSOLE In realtà non ci sarebbe molto da dire, in quanto per ciò che ci risulta non esistono studi approfonditi sulla zona. In pratica non c'è stato ancora un interesse archeologico della zona, salvo qualche rara citazione a cavallo tra i secoli XIX e XX, come in una introvabile monografia dello Sciuto-Patti. Le grotte rimaste sono alcune cavità artificiali, fortemente erose a causa della natura instabile delle rocce in cui furono scavate, per la maggior parte ad uso funebre. A quando possano risalire, chiaramente, rimane un mistero, mancandone il corredo trafugato in passato. La tipologia a forno può comunque costituire uno spunto di riflessione: che siano di origine preistorica? La tipologia a forno è diffusissima nel siciliano durante l'Età del Bronzo, ma rimane la principale sepoltura anche durante il Ferro e in alcuni casi in piena età greca. L’unico esemplare che si è potuto esplorare presentava una pianta circolare con volta quasi piatta e ingresso quadrangolare. L’interno non si sviluppa molto in profondità e lo stesso ingresso si presenta piuttosto modesto, segno che si trattava di una tomba singola. La natura del materiale calcareo, facilmente erodibile, non ha permesso il perfetto mantenimento della facciata di ingresso, di cui tuttavia se ne è potuta

1 intuire l'esistenza grazie ad un foro che dovette servire a fissare il chiusino della tomba. Altri sepolcri pure riconoscibili sono stati più sfortunati, presentantosi tronchi fin quasi la metà. Chi poté sfruttare queste tombe? La tipologia della tomba a forno non è diffusa nel contesto dei Siculi, mentre rimane un elemento distintivo sicano. Non si esclude quindi possano essere appartenute a quest'ultima società. Le fonti e le prove archeologiche raccontano come nel corso del XIII secolo a.C. la Sicilia orientale venne spopolata dai Sicani, sotto l’avanzare siculo. Solo alcuni speroni di roccia ben difendibili, come Pantalica e Cassibile, consentirono il mantenimento di questa antica società indigena. Chiaramente la Collina Primosole non è per nulla difendibile (anzi è un punto strategico per l'occupazione militare della costa orientale, come testimoniato ancora fino allo sbarco alleato del ‘43), ciò può indurre a credere che tali tombe possano precedere l'avanzata sicula. Un sito dunque di grande importanza archeologica, visto che il suo studio potrebbe aiutare a comprendere meglio le dinamiche socio-etniche anelleniche (non greche) di questa parte dell’Isola. Le fonti raccontano la storia del luogo soltanto per un breve periodo durante l'occupazione romana: Plinio ricorda tra le città tributarie dell’Impero vi era anche l’antica Simeto, riportata nella Geografia dell’astronomo greco Claudio Tolomeo erroneamente come Dimeto. Per lo storico siceliota Diodoro Siculo fu città di origine servile, sorta vicino l’altare dei Palici, città chiamata Simezia da Petronio Russo e identificata con i ruderi della contrada di Mendolito, mentre per Cluverioandrebbe identificata con Regalbuto, poiché egli la colloca a metà strada tra Agira e Centuripe mal interpretando Ameselo come corruzione di Simeto (in realtà, alcuni autori secentisti volevano che il fiume Amenano di Catania fosse chiamato in età arcaica Chamaseno o Amaseno, donde forse il palese errore di Cluverio). Diodoro aggiunge che Ducezio, Re dei Siculi, vi edificò una polis cinta da mura, chiamata Palica. Tuttavia tanto Simezia quanto Palica vengono localizzate da

1 autori moderni e contemporanei nella valle medio-alta del fiume Simeto e non nei pressi della foce. Alcuni autori (Carrera, Parthey, Sciuto-Patti) hanno localizzato la necropoli della Symaethus latina in contrada Passo Martino "nella tenuta o podere denominato Turrazza posseduta oggi dal sig. Carmelo Porto (...) dai villici denominato Spedale" non lungi dalla Collina Primosole, quasi a guardare le necropoli più antiche. Il sito indicato è oggi in un appezzamento privato e viene riportato in diverse cartografie archeologiche e turistiche. Alcune obiezioni mosse di recente (Condorelli) mettono in dubbio la possibilità che i due siti siano messi in relazione, per via del letto del Gornalunga, ultimo affluente del Simeto prima della foce, che segna un ostacolo geografico per una naturale continuità tra i siti. Su questo sito e in generale della parte bassa della Piana le fonti sono piuttosto silenziose, lasciando così troppi vuoti che difficilmente si possano colmare. Giunge a gettare un po’ di luce sulla storia del sito un diploma del 1093 in cui il Conte di Siracusa Tancredi Altavilla di Salerno cedeva alla diocesi di Catania tra gli altri il casale di Ximet o Simed (identificato dal Carrera con la contrada che Sciuto- Patti denomina Grotte, evidentemente Grotte San Giorgio, ossia il sito di nostra analisi) di sua proprietà e punto di confine dei latifondi ceduti per la costituzione, nel 1102, del feudo della Mensa Arcivescovile di Catania, sequestrata dal regno sabaudo. Il latifondo si estendeva a sud fino al fiume San Leonardo, a nord fino al Simeto (detto magni fluminis Catan, Linheti o Muse, con chiaro riferimento in quest'ultima dizione alla toponomastica islamica di Wadi Musha, Fiume di ), a est fino al mare e a ovest fino alla carraia Lentini-Paternò. Il regno sabaudo, per fare cassa, svendette e smembrò il feudo; nel 1887 uno dei maggiori beneficiari fu il barone Sigona di Villermosa e Castel d’Oxena (o Oscina), alla cui famiglia rimase la collina fino al 1964. Al Sigona di Villermosa si devono le principali architetture ancora ammirabili nei pressi, tra cui la Masseria Primosole, oggi azienda agrituristica, impostata su un

1 baglio di canone settecentesco o la Masseria Grotte San Giorgio, posta a ridosso del nostro sito. Alle vicende del feudo si ispirò Verga nella composizione della prima stesura del Mastro Don Gesualdo (allo zio Nunzio appartenne l’osteria di Primosole, trasposizione fittizzia del barone Antonio Sigona) citando inoltre la “madonna di primosole che è miracolosa”. A questo feudo appartennero le grotte, ma anche Verga tace sulla loro presenza.

GLI ACQURELLI DI HOUEL

Negli orizzonti dell’ideale neoclassico, Jean Pierre Louis Laurent Houel era attratto dalle antichità siciliane, che vedeva custodite nell’isola come in un santuario. Scriveva: <> Egli, da pittore ed architetto, concentrava quindi il maggiore impegno investigativo su questo terreno, attribuendo al rapporto testo-immagine un rilievo particolare, sul piano tecnico oltre che estetico. Offriva così materiali utili all’archeologia, che usciva intanto dal bozzolo dell’antiquaria. Ma collocava tutto questo in una narrazione di tipo descrittivo, che ritraeva con particolare cura i caratteri e la vita sociale dell’isola. 1 L’illustre viaggiatore si riprometteva così di raccontare una Sicilia più ampia di quella che era stata annotata fino a quel momento. Nei suoi famosi e molteplici acquerelli, Houel rappresentò le vestigia della Catania romana, qui risulta rappresentata l’antica via del Colosseo, su cui troneggiava la facciata della chiesa di Sant’Agata al Carcere. Spiccava in mezzo alla strada una singolare apertura oggi non più esistente, quella del famoso accesso all’Anfiteatro da cui il mecenate Ignazio Paternò Castello V principe di Biscari era solito esplorare il sottosuolo formato da un ammasso di detriti, onde liberare colonne, marmi pregiati, statuette e fregi d’ogni tipo. Ci troviamo naturalmente in piazza Stesicoro, prima che venisse alla luce il grande Anfiteatro Romano, secondo soltanto al Colosseo di Roma.

CASTA DIVA E’ MARIA CALLAS In realtà non ci sarebbe molto da dire, in quanto per ciò che ci risulta non Un classico della lirica: Casta Diva dalla Norma, un melodramma composto da Vincenzo Bellini nel 1831. L’aria, celeberrima, Casta Diva, è la preghiera che la sacerdotessa e veggente Norma, figlia di Oroveso, capo dei Druidi (antichi sacerdoti della natura), rivolge alla luna, interpretando il desiderio del popolo dei Galli (l’attuale Francia) di sottrarsi all’egemonia dei Romani. Ma, nella vicenda, non mancano i contenuti personalistici, infatti Norma, la protagonista dell’opera, è stata l’amante segreta del proconsole romano Gaio Asinio Pollione, Figlio di una ricca famiglia di Teate, l’attuale Chieti, dalla cui relazione sono nati due figli. Pollione però, s’invaghisce di una giovane druida, a sua volta anch’ella sacerdotessa, Adalgisa. Norma, sconvolta una volta appresa la notizia, incontra Pollione e gli chiede di lasciare Adalgisa. L’uomo rifiuta e Norma, per vendicarsi della delusione subìta, addita Adalgisa (la quale ha infranto i sacri voti di castità) come la vittima sacrificale da offrire agli dei affinché aiutino i Galli a liberarsi dal giogo romano.

1 Ma, proprio nel momento in cui può compiere la sua vendetta, Norma anziché scegliere Adalgisa nomina se stessa quale vittima da destinare al sacrificio, poiché riconosce nella giovane la sua stessa debolezza, l’amore per Pollione. Questi, di fronte al nobile gesto di Norma, decide di immolarsi sul rogo assieme a lei. I figli di Norma e Pollione sono affidati alla fedele Clotilde, la quale li porterà con sé, al sicuro, a Roma. Norma, opera tecnicamente difficile fu splendidamente interpretata da una vera Divina, Maria Callas, iconoclasta del bel canto. Dal ’49 comincia un ventennio dorato: Maria Callas si cuce addosso la Norma di Bellini (la interpreterà 90 volte e chi non ha mai sentito Casta Diva e anche con la Scala e con Milano è amore. Ella ha saputo trasformare l’opera da semplice “bel canto” a dramma da vivere sulla pelle, ha ispirato ed è stata amica di registi come Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini, il quale la volle per la sua Medea in celluloide. A quarant’anni dalla scomparsa, la parabola artistica e umana di Maria Callas commuove ancora. Era il 31 maggio 1890 quando a Catania avvenne l'inaugurazione del Teatro Massimo Vincenzo Bellini. L’evento fu celebrato con la rappresentazione di “Norma”, il capolavoro del grande compositore catanese al quale era stato intitolato il Teatro. Fu una grande serata vissuta intensamente, in una sala illuminata da tremolanti fiammelle di gas arancione a forma di farfalle, che contribuirono a rendere particolarmente suggestiva l’atmosfera. Dopo quella festosa e fastosa apertura, però, il decennio finale del secolo non fu per il Teatro particolarmente significativo sul piano della qualità delle messe in scena. La situazione migliorò nel primo decennio del Novecento, grazie all’intuito dell’impresario chiamato a gestire il Teatro, Giuseppe Cavallaro, con opere come Tosca di Giacomo Puccini, Sonnambula, Norma ed i Puritani di Vincenzo Bellini. Chiusa la triste parentesi della prima guerra mondiale, il “Bellini” rilanciò la propria attività nel 1918 con un cartellone di quattordici opere.

1 A gestire il Teatro era la Società anonima imprese teatrali, cui subentrerà, con l’avvento del fascismo, il Sindacato nazionale orchestrale fascista. Dal 1925 al 1934 calcarono le scene del Teatro catanese i maggiori cantanti dell’epoca. Il drammatico incalzare degli eventi bellici impose la chiusura del Teatro. Nel 1944 la ripresa delle rappresentazioni, che aprì un decennio segnato da presenze di assoluto valore. Solo per citare alcuni nomi: Ferruccio Tagliavini, Beniamino Gigli, Gino Bechi, Renata Tebaldi. Nel 1951, per il 150° anniversario della nascita di Vincenzo Bellini, faceva la sua apparizione in “Norma” Maria Callas: uno straordinario successo che doppierà l’anno dopo e nel 1953. A Lei il popolo dei catanesi ha dedicato la strada che corre lungo il perimetro esterno del Teatro Massimo Bellini, che in vita le era stato particolarmente caro, così come il suo eccelso compositore, spalancandole le porte del successo.

PASTA ALLA NORMA La versione numero 1 della Norma è la seguente: la prima tenutasi al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre del 1831 fu un fiasco solenne ed il motivo, non ancora chiaro, fu attribuito ad una indisposizione della protagonista, la soprano e mezzo soprano Giuditta Pasta od alla stanchezza dei cantanti che quella mattina avevano provato per l’ennesima volta tutto il secondo atto, forse per tutta una serie di innovazioni registiche che il tradizionalista pubblico della Scala non aveva probabilmente compreso. In più si disse allora, ci si è messa anche una claque pagata apposta per rumoreggiare e fischiare nel corso della rappresentazione, mandante della congiura la contessa russa Giulia Samoyloff (1807), ex amante di Vincenzo Bellini ed all’epoca dei fatti compagna di un suo acerrimo rivale, il compositore catanese Giovanni Pacini. La Samoyloff era conosciuta alla corte di Pietroburgo per essere l’amante dello Zar Nicola I per la sua esuberanza tanto essere stata esiliata dallo stesso sovrano a Milano. Ella era solita fare il bagno ogni mattina nel latte,

1 successivamente inviava il liquido a rifornire il Caffè Cova per poi elaborare il gelato che i soldati austriaci avrebbero poi gustato. I fischi furono però un caso isolato e già dalla rappresentazione successiva il pubblico si mostrò entusiasta e soddisfatto, per cui, gli applausi divennero scroscianti. I catanesi si ritennero comunque in dovere di consolare il massimo rappresentante del Teatro alla Scala, pertanto dedicarono alla sua opera, la quale era stata subito apprezzata come avrebbe meritato l’autore, un piatto tipico della loro città, ovvero, appunto la pasta col pomodoro, melenzane fritte con una abbondante spruzzata di ricotta salata.

COSTRUZIONE DI CASTELLO URSINO In tre lettere spedite dall’Imperatore Federico II tra il novembre del 1239 ed il marzo dell’anno successivo al supervisore Riccardo da Lentini, la costruzione del castello Ursino fu iniziata appunto nel novembre del 1239, mediante duecento onze d’oro sborsate dai cittadini di Catania su “caloroso” invito dello Svevo, più altre centosessanta onze avanzate dalla costruzione del Castello di Augusta. Ben poco altro, purtroppo, si ha conoscenza di documenti rimastici, ma molti altri dettagli sono stati dedotti dall’analisi del castello medesimo. La caratteristica più saliente del Castello Ursino è la massiccia staticità delle sue mura, il cui continuum non viene interrotto nemmeno dal lato di accesso: il portale è infatti di una semplicità tale da conferire anche a quel lato senso e funzione di solidità. Come fa notare lo storico e critico d’arte Stefano Bottari, infatti, non furono motivi economici a determinare l’essenzialità dell’architettura di questo castello, ed in primo luogo del suo portale, ma precise scelte architettoniche, rispondenti allo stile dei “castra” arabi che non era mai venuto meno in Sicilia neppure dopo la conquista normanna. In base alla stessa logica architettonica anche le quattro torri circolari agli angoli del castello svevo di Catania, insieme alle altre quattro

1 emisferiche a metà di ogni lato (di cui attualmente ne rimangono solo due) oltre che essere funzionali alla difesa, danno maggiore risalto all’imponenza della struttura oltre che al suo senso di solidità. Pensate per un momento al Castello Ursino con le sue quattro torri cilindriche, poste agli spigoli e quasi staccate dal muro, e pensateo alle quattro minori interposte e compenetrate nella cortina. L’equilibrio di questa mole è indicato decisamente dalla simmetria assoluta di ogni parte con un segno di distinzione che è cesura incolmabile con lo spazio intorno. L’opera nel suo equilibrio la sentiamo distaccata e distante; un senso quasi astratto della forma è nelle torri angolari, rappresentati come staccati cilindri esaltanti questa idea precisa di volume puro; in esse si condensa gran parte dell’espressione potentissima e pur contenuta in uno stato di equilibrata tensione. Per disposizione del medesimo imperatore svevo il Castello Ursino doveva rimanere l’edificio più alto di Catania, vietando che si costruissero nella città palazzi o chiese più alti delle sue mura. Questo perché anche l’immagine ben visibile della fortezza doveva servire come deterrente, essendo stata Catania una città ribelle e costantemente inquieta. Edificato infatti su di una lingua di terra che si prolungava sul mare, ai tempi di Federico II il castello era circondato per tre lati dall’acqua, dominando con la sua posizione e con la sua altezza la città, finché la colossale eruzione dell’Etna del 1669 non lo circondò con la sua lava, allontanandolo definitivamente dal mare, e colmando parte della sua altezza dal suolo.

SANTA MARIA DELLA ROTONDA Ubicato a nord del Teatro romano, l’edificio, oggi noto come Terme della Rotonda. Nella struttura a peristilio. Riconosciuta per la presenza di un portico con pavimento a tessere policrome, può riconoscersi un edificio di probabile destinazione pubblica, in quella che fu in età greca arcaica l’area del più importante

1 santuario di Katane (l’antico nome di Catania), dedicato dalla età dionigiana in poi al culto di Demetra o Cerere (madre terra), a metà strada tra l’Anfiteatro ed il Teatro. In essa sopravvive ancor oggi un ciclo pittorico dove si conservano sparute tracce della città medievale, rovinosamente perduta col terremoto del 1693. I molteplici ritrovamenti hanno confermato la persistenza in età romana dell’impianto adottato dopo la conquista di Catania da parte del tiranno Dionigi I di Siracusa. Alcuni di questi hanno strette relazioni con il sistema di distribuzione delle acque esistente nella città romana e con l’edificio termale individuato alla Rotonda, il cui acquedotto, attingendo l’acqua dalla grande sorgente di Santa Maria di Licodia, riforniva la città di Catania. Il punto di arrivo si ipotizza a nord del Monastero dei Benedettini (via Botte dell’Acqua), dove doveva esistere un grande serbatoio che, attraverso vari condotti distribuiva l’acqua, prima al monastero, quindi, alla città. In connessione al serbatoio venne eretta una monumentale fontana pubblica (ninfeo), per buona parte portata alla luce nel 1771 dal principe Ignazio Biscari, lungo il tratto settentrionale dell’attuale Piazza Dante, fra il sagrato della chiesa di San Nicolò l’Arena ed il muro di cinta del medesimo monastero. Dalla parte alta della collina l’acqua si distribuiva in diversi rami che scendevano paralleli fino alla città bassa, dove anticamente alcuni sifoni in laterizio erano persino visibili. Molteplici in città sono ancora visibili alcuni bracci di detto acquedotto, come per esempio (arco a tutto sesto con ghiera in blocchi di pietra lavica alternati a coppie di mattoni) a fianco della chiesa di Santa Maria della Concezione, dell’ordine dei Cierici Regolari Minori (Minoriti), angolo via A. di Sangiuliano e via Marino ed in via Gsualdo Clementi (clinico e docente). Disegni di Jean Pierre Houel, conservati presso l’Ermitage di San Pietroburgo, raffigurano dette strutture.

1 Nel sistema di distribuzione delle acque in età romana, le condutture erano poste normalmente sotto o sul limite delle sedi stradali, caratterizzate dalla tipica pavimentazione a grandi lastre di pietra lavica. Fra i molteplici tratti di questo sistema idraulico, rinvenuti in citta, quello meglio conservato si trova in via Crociferi, dal cui lungo condotto si diramavano bracci secolari onde servire gli edifici compresi nei vari isolati. Uno di questi bracci alimentava la piccola fontana pubblica messa in luce nel tratto finale di via Alessi quasi all’incrocio con via Crociferi. Alla fine dell’Ottocento in via Gesuiti era visibile una porta sul fianco meridionale dell’ex palazzo del duca di Misterbianco, con un arco listato ed ornato di fattura romana, che ricorda per tecnica realizzativa quello presso la chiesa di Santa Maria della Concezione. Nella pianta, inoltre, è evidenziato un reticolo di muri a cui potrebbe riferirsi un tratto murario con andamento nord sud messo in luce, in epoca moderna, lungo il marciapiede antistante l’ex palazzo Tremestieri. In occasione di lavori eseguiti presso il Conservatorio delle verginelle, nella parte meridionale di piazza Dante, sono stati scoperti altre strutture idrauliche, con avanzi del di un lungo acquedotto in pietra lavica. I rinvenimenti presso nei pressi dell’Idria, in via Bambino, in via Casa Nutrizione ed in piazza Dante, confermano la presenza di edifici che usufruivano della distribuzione pubblica della acque. Il frequente rinvenimento di tubazioni e condotti sotterranei presso la collina di Montevergine, aveva indotto il principe Ignazio Biscari ad ipotizzare, sull’intera area compresa fra piazza Dante e la Rotonda, una unica grandissima Terma di cui facevano parte il Ninfeo, i ruderi della chiesa della Concezione e la stessa Rotonda. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale furono effettuati i primi interventi sulla chiesa della Rotonda, per cui, eliminate le imbiancature recenti, venivano in luce affreschi di età barocca e bizantina, si scoprivano le vasche, rivestite in marmo, collocate all’interno delle nicchie laterali, pertinenti all’edificio termale romano.

1 L’ex sacrestia e l’unità edilizia attigua, completamente devastati dai bombardamenti, rimasero allo stati di ruderi sino all’inizio dell’ultimo intervento del 2004, mentre i collegamenti con la chiesa rimasero chiusi da tamponamenti in mattoni ed in pietrame. I maggiori danni si registrarono nella chiesa di Santa Maria della Cava, della quale rimase in piedi il piccolo campanile e presso l’attiguo palazzetto di cui sopravvissero solo alcune porzioni. Nell’area esterna lo scavo ha evidenziato situazioni stratigrafiche alquanto complesse, spesso persino di difficile interpretazione, di cui una risaliva alla ricostruzione della città dopo il terremoto del 1693 dello spazio antistante la Rotonda e della chiesa di Santa Maria della Cava, a cui si addossava, caso purtroppo frequente nella nostra città, una casa di civile abitazione. Asportati alcuni accumuli e riempimenti degli anni ’40, sono venute alla luce delle aree cimiteriali ricoperti con lastroni appena sbozzati, con all’interno corpicini di bambini o di neonati, ricoperti di coppi. Sotto questa stessa area si rivenivano alcuni ambienti pertinenti ad un edificio termale pubblico. L’epigrafe sulla parte interna dalla Rotonda afferma che il monumento è un Pantheon consacrato nel 44 da San Pietro alla Vergine ancora vivente, fissa su di esso l’esito finale dell’eccezione che a Catania ebbe la rivendicazione apostolica della sede vescovile tipica della cultura municipale di molte città fra Cinquecento e Seicento, che nella città etnea trova proprio nella Rotonda il tramite per saldarsi alla componente erudita e laica della cultura locale. Innumerevoli sono, infine, le figure di santi che si alternano all’interno della Rotonda, alcune in maniera distinta, altre di difficile interpretazione, poiché poco visibili, fra cui si possono notare Sant’Agata, Santa Lucia, S. Chiara, S. Pietro, S. Paolo, S. Nicola, S. Leone, S. Vito, S. Caterina, S. Giovanni, S. Marco, S. Luca, S. Matteo, S. Omobono, l’Assunzione, la Vergine in trono con Bambino, l’Ascensione.

1 LA ROTODA ED I TEMPLARI Templari: questa parola suscita nell’immaginario collettivo le più svariate sensazioni. Riemergono gli studi scolastici. Gli appassionati di storia iniziano a percepire l’acre odore della guerra. La maggior parte delle persone sono tuttavia portate a ritenere che questi misteriosi personaggi abbiano vissuto in un contesto assolutamente distante dal proprio. Nulla di più sbagliato. Non si sorprendano i Catanesi: anche nella nostra città ci sono tracce del loro passaggio. Il curioso visitatore del centro storico catanese si sarà senz’altro soffermato ad osservare una strana struttura che ricorda vagamente una costruzione araba. Si tratta del complesso di Santa Maria della Rotonda. Ebbene, questa struttura nasconde più di ciò che dimostra. Il complesso della Rotonda nasce in epoca romana, intorno al I Secolo d.C., come impianto termale. La storia ci ha dimostrato che la Sicilia ha subito continue trasformazioni. Lo stesso è accaduto per le terme della Rotonda. Dopo una fase di abbandono, infatti, questo monumentale complesso è divenuto nel VI Secolo d.C. una chiesa dedicata alla Vergine Maria. Tali informazioni sono tuttavia state rese note solo negli ultimi tempi. Nei secoli passati, infatti, si riteneva che la struttura diventata chiesa non fosse altro che il Pantheon catanese. Questa tradizione, che vedeva nella chiesa della Rotonda il principale tempio romano, è stata demolita definitivamente in seguito ai più recenti studi archeologici. La piccola chiesa fu più volte riadattata durante i secoli. Non ultimo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale subì pesanti danneggiamenti. Ma la domanda resta sempre quella: perché i Templari? Secondo quanto emerso da alcuni studi portati avanti pochi anni fa dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Catania l’area antistante la chiesa era dedicata alle sepolture. Gli esperti nell’esaminare i resti funerari presenti hanno rinvenuto la salma di quello che a tutta evidenza potrebbe essere un Cavaliere del Tempio.

1 I Templari, infatti, erano presenti sul territorio catanese e, secondo le fonti, possedevano dei feudi nella pianura attorno alla Città. Dalle ricostruzioni storiche emergerebbe che Federico II di Svevia abbia affidato a questi leggendari cavalieri proprio una chiesa in territorio catanese. La circostanza parrebbe dimostrata dalla pianta ottagonale della chiesa della Rotonda che proprio per l’intrinseco valore simbolico sarebbe stata tra le predilette dell’Ordine. Nel 1221 da Catania, il neo imperatore Federico II di Svevia confermò ai Templari alcuni privilegi riconosciuti da Papa Onorio III, senza però accennare a nuove concessioni. Il numero 8, la via dell’eternità, assume una certa in ambito cristiano. Il tutto parte dalle parole di Agostino, il vescovo di Ippona (Algeria) venerato come santo dalla maggior parte dei Cristiani. Ai popoli venne infatti concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte. L’8 è quindi il numero della risurrezione, il numero della salvezza eterna. Non sembra strano quindi che un ordine cavalleresco come quello dei Templari fosse legato a questo genere di cose. Oggi di questo monumentale complesso resta ben poco. A colpire maggiormente l’attenzione degli ignari visitatori è senz’altro la cupola che sovrasta la chiesa. Magari tutto ciò resterà solo una supposizione, ma di sicuro l’infittirsi del mistero affascinerà non pochi. Certamente anche da questo punto di vista la magia di Catania resta tutta da scoprire. Davanti alla storica chiesa di Santa Maria della Rotonda operano diligentemente ragazzi che per studio o per passione affrontano pesanti turni di lavoro. L’impianto termale sorgeva quindi nella parte alta della città proprio nel mezzo della zona che l’aristocrazia locale romana aveva scelto come area residenziale (viste le emergenze archeologiche dell’intero settore) proprio alle spalle del Teatro. L’estensione presunta dell’impianto e la sua accurata fattura fanno presupporre che si tratti di uno dei più grandi ed importanti dell’altura di Monte Vergine e quindi si tratta di un tassello importantissimo per la comprensione dell’inquadramento topografico.

1 Si ipotizza uno sviluppo planimetrico delle Terme verso il Teatro da cui esse dovettero essere separate da uno spazio libero attraversato probabilmente dal decumano individuato nell’ex monastero dei Benedettini che, poco più ad est, doveva ortogonalmente incrociare la strada messa in luce in via dei Crociferi. Questo grande impianto termale di notevole valore storico ed architettonico e che viene datato alla prima età imperiale, superando così precedenti datazioni ellenistiche che, alla luce dei dati emersi dall’ultima campagna di scavi, appaiono senza fondamento. Oggi una delle cose che più colpisce l’attenzione è la cupola, di epoca romana, che copre una grande sala circolare delle terme (che però sembra essere di epoca successiva al primo impianto termale) e che si è conservata quasi integra. È probabile che le ampie vasche e le absidi, che ancora ornano questa grande sala circolare, fossero in origine decorate con marmi policromi e pavimenti musivi. La cupola ha sfidato non solo i secoli ma anche il terremoto del 1693 ed i bombardamenti del ’43 che hanno però centrato in pieno l’adiacente chiesetta di Santa Maria della Cava. È probabile che in età bizantina (circa VI sec.), quando l’impianto termale non svolse più la sua funzione, la grande sala circolare fu trasformata in chiesa. Il ricordo di questa trasformazione si perde nel tempo e tale vetustà ha fatto nascere leggende e tradizioni che fanno risalire la consacrazione del luogo di culto addirittura a San Pietro, nel 44 d.C., al tempo dell’imperatore Claudio. Unica cosa che sembra essere accettabile è che la chiesa fu consacrata fin dall’inizio alla Madre di Cristo. Le due nicchie che contenevano le vasche furono convertite in cappelle e le pareti impegnate con affreschi. Sembra che gli affreschi alle pareti con tracce di figure di santi e vescovi non siano bizantini ma successivi. Altre trasformazioni in età medievale hanno aggiunto sul lato ovest della chiesa un arco d’ingresso a sesto acuto e una curiosa merlatura al culmine della struttura quadrangolare esterna.

1 Infine in epoca tardo rinascimentale è stato realizzato il portale a sud che diventerà l’ingresso principale nel ‘700. Durante lo scavo dell’area esterna dell’antica chiesa di S. Maria della Rotonda, prima di arrivare a mettere in luce le strutture termali sono state trovate oltre cento sepolture appartenenti alla necropoli medievale della chiesa. Molte erano tombe riutilizzate, altre sconvolte dal bombardamento che ha colpito l’area, altre trovate proprio fra i lacerti dei muri dell’antico impianto termale. In particolare sono state trovate numerose sepolture singole a fossa dove il corpo del defunto era stato adagiato nella nuda terra e ricoperto con blocchi di pietra lavica, simili a tante sepolture dell’epoca medievale. Ma togliendo le pietre di copertura sono stati trovati degli scheletri perfettamente conservati di soli uomini, lunghi tra il metro e settanta ed il metro e settantacinque, che per l’epoca era una statura superiore alla media. Chi erano? o chi potevano essere? Nessun elemento ne ha permesso una esatta identificazione ma gli archeologi hanno potuto datare lo strato pertinente grazie al ritrovamento di una notevole quantità di ceramiche di XII e XIII secolo, l’ipotesi che si possa trattare delle sepolture di Cavalieri del Tempio, hanno suscitato grande curiosità. Ciò confermerebbe la tesi secondo la quale Federico II avrebbe concesso come luogo di culto ai Templari l’edificio delle terme, già allora trasformato in chiesa cristiana. A supporto della tesi delle Terme come luogo di culto dei Templari occorre dire che essi possedevano nella Piana di Catania numerosi latifondi, che prediligevano gli edifici di culto a pianta rotonda od ottagonale.

LA STELLA DI SVENTOLA SU CATANIA L’8 giugno 1943, alle prime luci dell’alba, dopo quasi cinque secoli dalla cacciata degli ebrei dalla Sicilia, il sergente Natan Cohen si era ritrovato suo malgrado ad essere il primo ebreo a toccare il suolo siciliano da conquistatore. Il primo, ma non l’ultimo. Non pochi furono infatti gli ebrei tra i 478.000 uomini che

1 l’operazione Husky, come venne chiamata in codice l’invasione alleata, scagliò il 9 luglio 1943 sulle spiagge della Sicilia. Alcuni di loro riposano oggi sotto bianche stelle di Davide nei prati sempreverdi del cimitero militare alleato di Catania, mentre i particolari meno conosciuti delle loro vicende ci sono ora svelati dalla recente pubblicazione, per i tipi del Ministero della difesa israeliano, del diario di guerra del rabbino Ephraim Elimelech Urbach. Chi conosce il rabbino Urbach per i suoi importanti studi post-talmudici, rimarrà incredulo nel sorprendere l'autore di The Sages. Their Concepts and Beliefs scorrazzare per polverosi deserti a bordo di sconquassati camion dell'VIII Armata del generale Montgomery, piuttosto che in severe biblioteche oxfordiane, o strapazzare gli intraprendenti commilitoni che organizzano commerci carnali sopra il suo appartamento di Tripoli. Israele ha voluto rendere omaggio all'uomo che si batté perché i soldati ebrei arruolati in Palestina avessero il diritto di issare la bandiera con la stella di Davide. I suoi contatti con la popolazione locale gli permettono di acquisire informazioni che ci rivelano aspetti inediti dell'occupazione militare alleata. Un fruttivendolo catanese gli racconta che prima di ritirarsi le truppe italiane e tedesche hanno saccheggiato i negozi e spera che gli inglesi separino la Sicilia dall'Italia e ne facciano un loro protettorato. Incontra ebrei italiani sposati con donne di Catania e un professore di economia, suo vicino di casa, che gli confida di essere sempre stato antifascista e gli mostra come prova il manoscritto del suo libro intitolato "Come i fascisti rovinarono l'economia siciliana". Lo colpiscono le molte donne vestite di nero, ma soprattutto il fetore degli abitanti che non sembrano avere mai conosciuto il sapone e gli zoccoli di legno lasciati davanti l'uscio. Apre un ufficio in via XX Settembre, dove organizza la distribuzione di libri di preghiere e scatolette di cibi kosher, cioè adatti alla consumazione. A Catania rav Urbach fa le cose in grande. Chiede al generale Montgomery il permesso di stampare un giornale e una licenza per tutti i

1 soldati del Commonwealth di religione ebraica stazionati in Sicilia e li fa convergere il 29 settembre 1943 al cinema Lopò di via Etnea, che ha preso in affitto per celebrarvi le grandi feste del giorno dell’espiazione. Poiché vi sono affluiti anche molti profughi ebrei liberati dai campi di concentramento e lo spazio non basta, ripete la funzione religiosa nella Casa del Fascio trasformata in Navy House. Ma il numero dei soldati ebrei aumenta costantemente. Ben 2 mila provengono dalla Palestina sotto mandato britannico e rav Urbach lamenta di non riuscire ad assistere tutti. Non dimentica però di essere innanzitutto uno studioso e dedica una delle sue prime visite after work alla biblioteca dell'Università di Catania, dove ammira la preziosa raccolta di libri antichi e ascolta le lamentele del personale costretto ad ospitare il circolo dei soldati alleati. Per la festa delle luci, organizza un party al quale partecipano 1.500 soldati ebrei. Il 24 febbraio 1944, in vista della Pasqua ebraica, manda un telegramma ai superiori per informarli che in Sicilia è assolutamente impossibile produrre pani azzimi e chiede di farli venire al più presto dalla Palestina o dagli Stati uniti. Poco dopo lascia definitivamente la Sicilia al seguito delle truppe britanniche. A proposito della data di costruzione dell’elegante fontanina -definita “enigmatica” dal prof. Santi Correnti con riferimento alla scritta latina ivi apposta-mi sembra interessante richiamare quanto pubblicato, nel 1993, nel pregevole volume “Villa Cerami”, dal compianto storico di Diritto Romano prof. Cristoforo Cosentini, preside della Facoltà di Giurisprudenza e presidente dell’Accademia Zelantea di Acireale: “Nella deliziosa fontanina (spenta, purtroppo, da tempo), che si trova ancor oggi all’ingresso della Villa su via Crociferi, si legge, con tanta nobiltà di stile:. Quella fontanina pubblica era stata costruita a beneficio del pubblico, senza spesa di denaro pubblico. In alto a tale scritta, emerge lo stemma dei Rosso di Cerami. A conclusione della scritta: 1723”.

1 LA FONTANA ENIGMATICA ED IL PORTALE In fondo a via dei Crociferi, alla sinistra di Villa Cerami (oggi sede della Facoltà di Giurisprudenza), esiste una fontanella a forma di enorme conchiglia, da lungo tempo abbandonata al proprio destino, quindi, ormai muta, la quale reca la seguente enigmatica scritta: Pubblico/Non a Pubblico/Hic Pubblicus, che ha dato adito a parecchie interpretazioni da parte di quanti si sono sbizzarriti nel fornire le loro più variegate verità. Nella realtà dei fatti, il senso di questi scritti in lingua latina, risulta di facile interpretazione in quanto Domenico Rosso Paternò Castello, principe di Cerami, che la fece collocare nel lontano 1727, voleva significare che quella pubblica fontana era stata costruita con i propri denari, a beneficio di tutti i cittadini catanesi. Risulta dubbia la attribuzione artistica del portale del Vaccarini, infatti In base all’atto del 1724, al momento dell’acquisto da parte dei Cerami, nonché la scuderia (ancora esistente e dalla Facoltà di Giurisprudenza trasformata in aula: quella detta aula giardino) ed il baglio: il solenne cortile oggi come ieri con la palma. Giovanni Rosso nella sua Memoria scrive che il porticato di ingresso alla Villa, artisticamente barocco era opera pregevole del Vaccarini, venuto, com’è noto, a Catania il 27 dicembre del 1729. Tale portale, che reca lo stemma dei Cerami, se è veramente opera del Vaccarini (1702-1768), sarà stato sostituito all’originario porticato. L’ipotesi di attribuire al Vaccarini l’abbellimento del portone d’ingresso e della scala non è da escludere.

LA PIAZZA DELLE MENZOGNE Così i catanesi hanno battezzato Piazza Crocifisso Majorana, la quale si trova in fondo a Via G. Garibaldi ed anticamente vi si scioglievano i cortei funebri, data la vicinanza col Cimitero. Pertanto, vi si tenevano gli elogi dei cari estinti, che trasformavano tutti gli uomini in perfetti gentiluomini e cittadini esemplari e tutte le donne in signore dalle specchiate virtù. Da qui il soprannome della piazza.

1 CONCLUSIONI Se mai fosse possibile. E’ ormai noto a tutti, non solo ai catanesi, che il sottosuolo di questa straordinaria, e per certi versi unica città, è ricchissimo di reperti storici, tuttavia, il problema è costituito dal fatto che non è possibile, per ovvi motivi, non solo economici, fare del suolo di Catania un enorme cantiere a cielo aperto. Un esempio per tutti l’anfiteatro di piazza Stesicoro, la cui porzione a vista risulta essere soltanto una piccola parte, mentre tutto il resto della struttura si trova celato nel sottosuolo della zona, per cui, riportarlo alla luce non sarebbe cosa assolutamente facile, né possibile. La stessa cosa potrebbe sussistere per piazza Duomo e strade limitrofe, sotto cui scorrono vecchi fiumi (l’Amenano) laghetti e corsi d’acqua, alcuni dei quali ormai prosciugati. Ogni tanto salta fuori qualcuno con la smania di mecenatismo, tuttavia, alla prima difficoltà ci si arrende proditoriamente. Per questo motivo negli anni passati sono stati compiuti svariati tentativi di portare alla luce innumerevoli reperti di inequivocabile valore storico, tuttavia, dopo qualche tempo quegli scavi sono stati abbandonati ed adesso, letteralmente invasi dalle sterpaglie, fanno “bella mostra” di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. A dimostrazione di quanto, ci sono i ruderi a sinistra della salita di via Zurria, direzione piscina comunale, oppure presso l’area dell’ex Cinema Esperia, inizio di via Bambino. Spesse volte, durante la costruzione di strade ed edifici, si è assistito persino alla distruzione di reperti storici venuti improvvisamente alla luce. Ciò a dimostrazione della assoluta e colpevole mancanza di lungimiranza di chi, di contro, dovrebbe essere preposto alla tutela dei luoghi.

1 Ma, a questo punto, enumerare le innumerevoli incompiute e le molteplici incurie sarebbe compito alquanto arduo e non basterebbe a concedere lustro a questa città dall’illustre passato. Ecco alcuni esempi più esaustivi per tutti: Nei pressi di via Sant’Euplio esiste ancora un vano sotterraneo con nicchie quadrangolari, per cui, le strade della zona scorrono sopra una grande quantità di sepolcri, scavati e successivamente ricoperti. A sud ovest davanti Porta Ferdinandea, sulla strada verso Siracusa, presso la sorgente “Acqua santa”, fonte che conserva ancora l’antico aspetto, anticamente venne alla luce una pietra funeraria, attualmente conservata nel giardino del duca di Carcaci, presso Santa Maria di Gesù. Monte Po presenta sulla sua vetta e sui declivi degli avanzi di antiche fabbriche, risalenti ad antichissime epoche. Anche sui fianchi della collina di Santa Sofia sono ricordati dei ruderi in contrada Petraro, dove, alla presenza di una grotta aperta, si pensò alla localizzazione del famoso “Ratto di Proserpina” e fatto sorgere un tempio ed un boschetto, descritto da D’Arcangelo e Grossi, per questo motivo il colle sommità di Cerere, fu chiamato Coereris arx, ossia “colle, sommità di Cerere”. Proserpina, secondo la mitologia romana, era figlia di Cerere, dea della fertilità. Si narra, inoltre, che ai piedi della collina sorgesse un vero e proprio tempio dedicato a Cerere, all’interno del quale era conservato il fuoco sacro (rituale) perpetuo sorvegliato da due cani mastini. L’esistenza del tempio non è mai stata verificata, ma un’altra versione storica ci racconta della presenza di un “monastero di donne” sotto il nome di “Santa Sofia”. La tradizione vuole che fosse uno dei monasteri fatti costruire in Sicilia da Giuliano di Le Mans, vescovo romano inviato in Gallia pe r predicare il Vangelo presso la tribù celtica dei Cenomani della Gallia cisalpina. Proprio per questo motivo egli venne conosciuto come “Giuliano cenomanese”. La collina venne dunque chiamata “Santa Sofia” per la presenza di questo monastero collocato sui suoi fianchi.

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