Waterboys, perché tanto scialbi?

La cocente delusione rappresentata dall’ultimo sforzo di una band leggendaria come la formazione scozzese dei Waterboys resta, per i fan più esigenti, inspiegabile quanto straziante

/ 02.10.2017 di Benedicta Froelich

Nell’ambito della scena rock angloamericana, il ritorno di una band dalla rilevanza non solo musicale, ma anche culturale come quella dei Waterboys, formazione scozzese distintasi per l’alto livello intellettuale della propria musica, non può che suscitare grandi aspettative – soprattutto considerando come, in oltre trent’anni di carriera, il gruppo capeggiato dal geniale non si sia mai ripetuto, riuscendo sempre a prodursi in interessanti evoluzioni stilistiche e concettuali. E stavolta l’attesa è resa ancor più marcata dal fatto che il nuovo offre ai fan addirittura un doppio; scelta che tuttavia, come la storia insegna, rappresenta spesso un azzardo, in quanto tende inevitabilmente a inibire la capacità dell’artista di selezionare, anche con una certa spietatezza, il materiale da scartare.

Purtroppo, in questo Scott e i suoi non fanno eccezione; ecco quindi che nella tracklist dei due CD troviamo anche brani inequivocabilmente scialbi come If I Was Your Boyfriend – il quale, da un punto di vista lirico e stilistico, potrebbe provenire dal songbook di un ventenne – oppure orecchiabili e piacevoli, ma dagli accenti decisamente un po’ troppo pop, quali If the Answer is Yeah e Payo Payo Chin; e le cose non migliorano troppo nemmeno con le suadenti ballate Santa Fe e Love Walks In, che richiamano in parte gli exploit del George Harrison solista. Difatti, l’impressione generale è che i Waterboys abbiano deciso di convertirsi a una musica per molti versi «innocua»: in questo, le atmosfere americane a cui la band si è votata negli ultimi anni non hanno migliorato le cose, spingendo Scott e i suoi a rinnegare le radici di un tempo (da sempre affondate nel folk di matrice anglo-scozzese e irlandese) in favore di uno strano mix tra country, soul e perfino R’n’B, pullulante di riferimenti alla cultura e storia targate USA, ma che mal si addice a un gruppo dal background culturale dei Waterboys (avevamo davvero bisogno di un pezzo dal titolo di New York I Love You?). Così, la tensione creativa e narrativa dei migliori lavori di Mike e compagni sembra latitare: ad apparire lontane non sono soltanto le suggestioni folkloriche dell’intramontabile Fisherman’s Blues (1988), indimenticato capolavoro degli anni d’oro della band, ma anche la poetica irrequietezza di dischi meno noti come (1985) e, in fondo, anche dei più maturi e forse sottovalutati (2003) e An Appointment With Mr Yeats (2011) – i quali, a differenza del recente Modern Blues, mostravano una band ispirata, ancora alla ricerca di nuove suggestioni creative tramite cui esprimere le ossessioni personali di Scott, solitamente incentrate sul rapporto elusivo tra fattori contrastanti quali solitudine e attaccamento, monoteismo e paganesimo.

Certo, nonostante tutto, Out of All This Blue offre ancora qualche sprazzo dei «veri»’ Waterboys – ad esempio, lo straziante e malinconico The Girl in the Window Chair (intriso di quel senso di dolorosa fatalità e predestinazione da sempre tanto caro a Mike & Co.), e perfino il sensuale Morning Came Too Soon o il più grintoso Yamaben; sfortunatamente, però, si incontrano anche citazioni quasi pedisseque del passato, come nel caso di The Connemara Fox, uno dei pochi brani del disco a rimandare alle atmosfere proto-folk di cui la band è maestra. Così, per quanto gradevole, perfino la scarna ballata Rokudenashiko, il cui titolo si deve al nome d’arte della nuova moglie di Scott (la controversa artista giapponese divenuta celebre per le proiezioni in 3-D della propria vulva), non può che suscitare una sensazione di déjà-vu.

Soprattutto, però, ciò che davvero preoccupa è il fatto che, per la prima volta dagli esordi, i testi di Mike mostrano una pochezza sconcertante, scadendo addirittura in abissi di semplicistica retorica: l’esempio più agghiacciante è Kinky’s History Lesson (tentativo in salsa country di «castigare» l’irritante star texana Kinky Friedman), destinato a ridursi a un compendio enfatico e perfino ridicolmente dilettantistico della storia della Seconda Guerra Mondiale. E quando si ripensa alla «gloria rabbiosa», per dirla con Bob Dylan, dei brani a fondo storico firmati in passato da Scott – su tutti, Red Army Blues, del 1984 – non si può che avvertire una fitta al cuore davanti a cotanta povertà concettuale e testuale. Del resto, Mike non sembra trovarsi troppo a suo agio con simili tentativi di emulazione delle topical songs anni 60, dal momento che anche l’amaro attacco a Keith Richards incarnato da Mister Charisma finisce per apparire come una ramanzina sgraziata e quasi moralistica.

L’inevitabile risultato di tutto ciò è che gli ammiratori di vecchia data avranno serie difficoltà a perdonare al ragazzo di Edimburgo un disco sbiadito e superficiale come questo; e, al pari di chi scrive, potranno solo sperare che Mike Scott recuperi al più presto la tagliente lucidità di un tempo per tornare a produrre la musica di spessore a cui ha abituato il mondo.