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Ottavio Balena

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO: MORALISMO E GIOVIALITÀ

By OTTAVIO BALENA

A Dissertation submitted to the

Graduate School-New Brunswick

Rutgers, The State University of New Jersey

in partial fulfillment of the requirements

for the degree of

Doctor of Philosophy

Graduate Program in Italian

Written under the direction of

Professor David Marsh

and approved by

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New Brunswick, New Jersey

May, 2011 ABSTRACT OF THE DISSERTATION

Giovanni Gioviano Pontano: Moralismo e Giovialità

by Ottavio Balena

Dissertation Director Professor David Marsh

If there is an author in the history of the Italian Quattrocento that truly tried to theorize

in his writings the multiple manifestations of “life” by synthesizing and refining the

complexity of its themes, this is by all means Giovanni Gioviano Pontano. In true light of

the humanistic atmosphere of the time, where between life and art one must have chosen

art, Pontano embraced art as the fundamental medium through which he could convey

and articulate the object of his doctrinal meditations: life, where everything is connected

and disposed harmoniously; life, where the active, moral and jovial participation of all

individuals is essential to the establishment of society.

Since Pontano was a proliferous writer that left behind an abundant production of

poetical and philosophical masterpieces, the main objective of this dissertation is to

identify which of his works are best suited to narrate his life in conjunction to his

humanistic ideals.

Leaving behind traditional methodologies, especially those echoing the influence of

the Italian Romanticism, this dissertation emphasizes the importance to evaluate Pontano

without relying so much on past literary criticism, because it can easily suggest that he was an ambiguous writer, a lascivious poet, a great teacher of morality and a man of profound religious believes: hence the confusion about his true identity and inspiring muse.

ii

From an attentive reading of Pontano’s texts, particularly the Charon, Antonius,

Asinus, the Treatises on social virtues and various poems, purposely selected from his

vast lyrical collections, it is possible to identify the artistic juxtaposition within the

context of the society in which they were written, as well as the humanistic disposition of

Pontano, whose attitude was not to embrace a single ideological interest, but to deeply treat and evaluate all fields of human understanding.

Aware that individual wisdom was useless, Pontano spent his entire existence in sharing his doctrines with his contemporaneous; so much that among the members of his

Academia it was customary to debate in which discipline he best shined. Would have

Pontano not fully participated as a protagonist to all of the situations he so vibrantly and actively portrayed through art, the importance of his notions on life would have certainly gone unnoticed.

iii

Dedica

A mio padre, che i natali mi diede nella bella Partenope antica. Riposi su’alma felice e pia.

A mia madre che di caldi gelati fra gli Archi mi crebbe nel Purgatorio. Benedetta tu sii per sí gran dono.

A mí querida Opita chiquitica. Paciente me ayudaste noche y día. Sin ti, Cecilia, non estuviera aquí.

For my Boys: Let my work inspire your souls.

Volli e sempre volli, fortissimamente volli. Vittorio Alfieri

iv

Indice

Abstract ii

Dedica iv

Indice v

Introduzione 1

Capitolo I. Vita, opere e filosofia di Giovanni Gioviano Pontano I ricordi dell’infanzia fra i boschi della Valnerina 8 Pontano e i primi tempi alla corte aragonese 18 De laudibus divinis, Parthenopeus sive amores, Urania 22 Il poeta e il segretario di stato 30 Ambiguità: un dilemma da aggirare 38 Moralismo e filosofia 45

Capitolo II. I Dialoghi faceti: Charon, Antonius, Asinus Uno sguardo generale 55 Charon 57 Antonius 78 Asinus 98

Capitolo III. I trattati delle virtú sociali Introduzione 119 De liberalitate 122 De beneficentia 136 De magnificentia 142 De splendore 152 De conviventia 159

Capitolo IV. La poesia 166

Bibliografia 200

v

1

Introduzione

Una delle difficoltà fondamentali degli studi pontaniani è la carenza di testi critici in cui la figura del poeta emerga rappresentata integralmente. A questa bisogna aggiungere che la maggior parte delle ricerche eseguite sul Pontano sono ormai di vecchia data, risalenti, qual piú, qual meno, al tempo del Romanticismo, salve pochissime recensioni di autori piú recenti, che hanno dato un valido contributo dagli anni cinquanta in poi, come nel caso di Liliana Monti Sabia, ad esempio, la quale ha curato molte traduzioni dal latino di testi fondamentali, di Carmelo Previtera, che ha contribuito alla ristrutturazione dei

Dialoghi attraverso il confronto dei manoscritti pervenutici, e di Francesco Tateo, il cui vasto sapere sul Pontano rende l’autorità di questo critico indiscutibile. Ciononostante permane ancora il problema che la critica odierna non riesce a liberarsi dall’egemonia delle recensioni romantiche o perlomeno ad adattarsi a metodi di studi piú originali e moderni. Pare infatti essersi ridotta talmente alla soggezione delle retoriche del passato che a partire da metà Ottocento non fa altro che moltiplicare ed esprimere gli stessi concetti.

Attenendosi infatti alla storia della nostra critica letteraria, con l’affermarsi del volgare sul latino, la figura del Pontano, quale uno degli ultimi portavoci dell’antichità classica in un’Italia letteraria ormai avvezza all’uso della nuova lingua, finí gradualmente con

l’essere messa da parte, e col tempo quasi dimenticata. Tutto questo cominciò a cambiare

con l’istaurazione del Regno delle due Sicilie da parte dei Borboni. Una volta stabilita la

nuova forma di governo, i napoletani, sia per orgoglio nazionale che culturale, andarono

alla ricerca del loro passato, prestando particolare attenzione alle grandi figure storiche 2

che tanto operarono per la gloria di Napoli; e fra queste vi scoprirono il Pontano per la

prima volta. Infatti a questo tempo risalgono due testi biografici, l’uno scritto da un certo

Padre De Sarno, l’altro da un Monsignor Colangelo, nei cui libri furono esposti piú che

altro appunti rifusi dalle note di Tristano Caracciolo, amico del Pontano, e di altri

umanisti dell’epoca; ma nessuno dei due libri si rivelò d’importanza critica essenziale.

A parte questi due testi, scritti alla rinfusa per l’esigenza culturale napoletana del

tempo, niente di nuovo fu mai piú pubblicato, né durante il periodo neoclassico, né in

quello post-napoleonico, né in quello del primo Romanticismo italiano al tempo della

baronessa De Staël Holstein.1 Anzi, con l’incalzante affermarsi delle dottrine romantiche,

gli storici della nostra letteratura finirono col tacerne del tutto, non essendo convinti che

le sue opere appartenessero al patrimonio della cultura nazionale. Si dovette aspettare

all’arrivo in scena di Luigi Settembrini, in piena età romantica, allorché questo critico,

attenendosi alle norme e ai dettami del Romanticismo sull’importanza e l’utilità delle

traduzioni da un lato e persistendo dall’altro che l’Italia umanista fu bilingue, si

lamentava che del Pontano si sapeva ben poco e che c’era bisogno almeno di una

monografia, essendo stata la letteratura latina anch’essa parte integrale del pensiero

italiano del Quattrocento.2 Del compito se ne occupò il Tallarigo con il suo ineguagliabile

1Su madame De Staël e l’importanza delle traduzioni vedasi Franco Betti, “Key Aspects of Romantic Poetics in ,” Italica, 74, 2 (1997): 185-200. “It was her contention that even if all could read the various idioms used by ancient and modern writers, to read a good translation in the mother tongue gives the greatest pleasure, a pleasure deriving mainly from the new colors and unusual modes of expression that a national style acquires by appropriating foreign charms.”

2Sull’intervento del Settembrini a favore degli umanisti meridionali vedasi Antonio Altamura, “Orientamenti Bibliografici Sull'Umanesimo Nel Sud-Italia,” Italica, 24, 4 (1947): 325-328. “Degli altri scrittori, che si sono occupati del periodo dell'umanesimo in Italia, pochi hanno trattato dei meridionali: bisogna, infatti, attendere le Lezioni del Settembrini (lette nel biennio 1868-70) per udir parlare, la prima volta, con amore e calore, dei principali umanisti napoletani; ne egli si limita solo a parlarne nel suo corso universitario, ma si fece anche iniziatore di una Biblioteca napoletana, della quale fu pubblicato un solo primo volume, il Novellino di Masuccio, restituito alla sua antica lezione: movimento di grande importanza culturale per le province meridionali, che, iniziatosi col Settembrini, fu proseguito segnatamente per opera 3 lavoro, Giovanni Pontano e i suoi tempi, che non solo stimolò la critica del tempo, ma è tuttora oggi strumento fondamentale e indispensabile per lo studio di questo grande umanista.

Ma i tempi del Tallarigo erano anche quelli di Francesco De Sanctis, il cui giudizio sul

Rinascimento e l’Umanesimo fu alquanto severo, essendo in sua opinione un periodo visto come fenomeno puramente letterario nei suoi aspetti formalistici, retorici o fantastici; tanto che dell’epoca egli trascurò del tutto l’analisi del mondo culturale, appunto perché Rinascenza significava per il De Sanctis formalismo, divorzio tra forma e contenuto. Ma a parte questa perdonabile lacuna, dovuta senz’altro all’esigenza del De

Sanctis di proporre le norme essenziali di una nuova estetica atta a sviluppare e a rivelare l’organicità, la concretezza formale e l’autonomia dell’arte, quali canoni essenziali del

Romanticismo, egli fu un critico eccelso, il cui sapere non solo fu indiscutibile, ma un dato di fatto per molti critici dei suoi tempi e quelli a divenire, incluso il Croce. Tanto è vero che tuttora oggi la critica pontaniana riflette ancora numerosissime reminiscenze desanctisiane, per le quali è molto facile intraprendere argomenti ormai superati: ad esempio, che l’umanesimo fu un movimento prettamente di retorici.3

Considerando infatti il suo saggio Le Stanze, in Storia della letteratura italiana, è facile rendersene conto. In esso, descrivendo minuziosamente i dettagli della poesia

dei suoi amici e discepoli, quali il Fiorentino, Vittorio Imbriani, il De Blasiis, il Capasso, il Volpicella, il Minieri Riccio, che si occuparon tutti, nei loro libri di erudizione e di storia letteraria, di scrittori meridionali, dimenticati o trascurati dagli storici e critici che li precedettero. I1 Tallarigo, spinto da un desiderio dal maestro, pubblica una monografia sul Pontano (1874).”

3Cesare Vasoli, “L’estetica dell’Umanesimo e del Rinascimento,” Momenti e problemi di storia dell'estetica, (Milano: Marzorati, 1968) I, p.338: “Sarebbe quindi un grave errore storico ritenere che il culto umanistico della retorica e l’ammirazione per la perfezione formale dei modelli classici , si risolvesse anche in questo caso nella metodica cura di un’eleganza esteriore del dettato o, addirittura, in quella fatale “separazione tra la materia e la forma” di cui hanno parlato, sulle orme del De Sanctis, intere generazioni di critici.” 4 idillica del Quattrocento, il critico concludeva che i poeti di questo secolo furono abilissimi verseggiatori, preoccupati soltanto dalla bellezza della forma poetica, e fra questi incluse il Pontano e il Poliziano; aggiungendo infatti, per fare il punto sull’indifferenza che i poeti umanisti prestavano al contenuto, che ciò che importava non era cosa s’aveva a dire, ma come s’aveva a dire.4 Se in Boccaccio, proclamava il De

Sanctis, il dettaglio erotico era lo stimolo fondamentale ad accendere la fantasia, per i poeti del Quattrocento la fantasia era come un crogiuolo, dove l’oro si affinava.5

Da una metafora del genere, indubbiamente bella e raffinata, mirante a mettere in nuce la dottrina romantica del “vero,” è facile capire perché la critica si sia un ’ potuta

equivocare nei riguardi del Pontano, specialmente nel tener conto la seguente

affermazione del De Sanctis in cui si lodava unicamente l’abilità del poeta di verseggiare

con grazia inverosimile.

Leggete questi latinisti. Cosa c’è lí dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa. Questo studio dell’eleganza nelle forme accompagnato co’ tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni delle città era in iscorcio tutta la vita del letterato. ... [...] ... Ne senti l’eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la Lepidina tra’ sussurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con piú immaginazione nel Pontano, con piú sentimento nel Poliziano.6

Il Pontano, avendo trasformato il culto degli antichi in un serio programma di erudizione personale, di studi scrupolosi e pieni di vitalità, era un uomo di raffinata cultura. Era ovvio che egli sapesse maneggiare questa o quella frase ovidiana o virgiliana

4Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana (Ed. Gianfranco Contini. Torino: UTET, 1968), p. 381.

5Idem, 392. A tale proposito vedasi anche Gustavo Costa, “La concezione del Rinascimento in Hegel, Burckhardt e De Sanctis,” Italica, 41, 4 (Dec. 1964): 403-414. “Rifacendosi a motivi hegeliani, De Sanctis costata un venire meno dell’impegno morale, politico e religioso del Medioevo, cui segue un periodo di fiacchezza, che si traduce, in sede artistica, in un naturalismo idillico o comico, caratterizzato dal trionfo della fantasia (412).”

6Francesco De Sanctis in op. cit., pp. 382-383. 5 che fosse, e che al momento propizio riuscisse a dare veste figurativa a tutto il bagaglio di reminiscenze, sentenze o cadenze armoniose dell’antichità. Ma era anche un uomo del suo tempo, il cui genio poetico, operando nei parametri della tradizione umanistica, rifletteva la funzione liberatrice delle lettere, cosí come aveva di già prestabilito il

Petrarca; come era anche vero che le parole espresse nei suoi componimenti non erano

ripetizioni pedisseque di formule antiche, ma bensí splendide ed eccelse trasformazioni

poetiche, che dell’antichità rispecchiavano l’essenza, la gloria, lo spirito umano in veste

moderna.7

Il Romanticismo aveva forse dimenticato che per gli umanisti la poesia era intesa

come strumento generatore di fama e immortalità, l’altera philosofia, il cui scopo finale

era quello di richiamare l’uomo alla sua spirituale natura. E probabilmente fu questa

disavvertenza dottrinale, coadiuvata molto probabilmente dai tabú di fine Ottocento o la

vergogna di peccare contro la moralità, a fare in modo che l’altro tema tanto caro alla

musa pontaniana, l’erotismo, fosse aggirato senza mai essere affrontato direttamente,

parlando in genere di poesia lasciva, addolcita dal sentimento idillico e sensuale, e nel

peggiore dei casi addiritura di lascivia senile;8 quanto poi, agli albori dell’Umanesimo, fu

7Cesare Vasoli, op. cit., p. 331. Il Vasoli parafrasa il Boccaccio del Genealogiis deorum gentilium in difesa della poesia: “le parole che i poeti esprimono, le loro frasi, i loro versi, non sono infatti inerte materia o stanca ripetizione di formule, ma sono invece trasformazioni ora nel moto eterno e solenne dei cieli, ora nel fragore dei venti, ora nello scorrere dei fiumi o nell’ombra propizia del bosco. Quasi a gara con la natura la poesia va creando un mondo che nella sua vera essenza è tutto umano; e tuttavia, sotto il velame delle favole leggiadre, è facile scorgere verità filosofiche, sensi e insegnamenti sublimi che il poeta tramanda nell’elegante misura del suo eloquio. Non diversamente dalla Sacra Scrittura, che è pure anch’essa “espressione poetica,” l’arte della parola racchiude nei suoi “enigmi” significati e fini piú profondi delle dilettose apparenze.”

8Si veda la severissima pagina di Vittorio Rossi in, Il Quattrocento, (Milano: Francesco Vallardi, 1960), p. 340: “Morta (la moglie), la pianse con lagrime sincere e ne venerò la memoria finché ebbe vita. Eppure non seppe sacrificare a quell’amore gli appetiti del senso che lo trassero a violare la fede coniugale; ... né quel sincero e durevole rimpianto lo trattenne dal gettarsi nelle braccia di una concubina, certa Stella da Argenta, dalle quale ebbe, frutto di nauseante lascivia senile, un bambino che morí in fasce.” 6 proprio un Coluccio Salutati a spiegare che l’erotismo o la lascivia erano parte integrale del misterioso universo poetico:

Cosa può esservi di piú poetico e, a guardar solo l’espressione, di piú erotico e lascivo del Cantico dei Cantici? Quale maggior mistero, quale poesia piú alta dei libri e della storia di Giobbe? Tutta la Sacra scrittura ha un suo senso mistico, abbonda ovunque di molteplici misteri, cosa questa caratteristica dei poeti... E spesso la Sacra Pagina assume modi e forme poetiche.9

E anche in questo la scuola romantica aveva pudicamente esagerato, col non capire la funzione purificatrice della poesia, innanzi tutto quale strumento catartico, e tanto meno, quale unico veicolo di conquista morale e civile, cosí come esigeva l’Umanesimo. E a

pensare che nel solo 1825, Vincenzo Monti, nella sua lotta contro l’incalzante

Romanticismo, pubblicava il Sermone sulla mitologia; ultimo baluardo della scuola

classicista, per la quale poesia significava: “fantasia, libertà inventiva e favolosa, finzione

dell’immaginazione, capacità a crearsi mondi infiniti e soprattutto veicolo di diletto, cioè

gioia spirituale, di godimento interiore, di entusiasmo, anche di estasi e oblio.”10 E appunto contro il romanticismo il Monti rinfacciava che la nuova dottrina non sapesse distinguere la funzione della poesia da quella della filosofia:

Possibile che non si sappia distinguere l’officio del poeta da quello del filosofo? Che il parlar ai sensi è diverso dal parlare all’intelletto? Che la nuda e rigida verità è morte della poesia? Che poesia ... vale finzione, e che la favola non è altro che la verità travestita? Che questa verità ha bisogno d’essere ornata di rose onde avere liete accoglienze?11

La cosa piú sorprendente è che ai romantici piaceva il Vico, che in fatto di fantasia e filosofia ne abbondava, eccome. Ma forse avevano dimenticato che fu proprio questo

9Coluccio Salutati, citato da Cesare Vasoli in op. cit., p. 332. Sul Salutati e la difesa della poesia vedasi anche Joseph Cinquino, “Coluccio Salutati, Defender of Poetry,” Italica, 26, 2 (1949): 131-135.

10Salvatore Battaglia, “Il Sermone sulla mitologia di Vincenzo Monti,” Filologia e letteratura, XVII (1971): 459. A pagina 456 dello stesso articolo il Battaglia fa il punto contro il De Sanctis: “Il poemetto di Vincenzo Monti è anzitutto uno dei piú impegnati documenti di questa lunga e anche violenta lotta tra romantici e classicisti. È stato subito definito, anche dai suoi immediati confutatori, come l’ultimo anelito del classicismo. Un critico come Francesco De Sanctis ne doveva dare un giudizio assolutamente negativo e spregiativo.”

11Vincenzo Monti, dal Sermone sulla mitologia, citato da Salvatore Battaglia, op. cit., p. 455. 7

grande filosofo ad impartire loro la piú grande lezione sul “vero” poetico. Lo stesso De

Sanctis, in un altro famoso passo della Storia della letteratura italiana, trattando appunto

del Vico nel suo saggio La nuova scienza, asseriva vichianamente: “la verità è nella totalità, nel vedere cuncta ea quae in re insunt, ad rem sum affecta, l’idea nella pienezza del suo contenuto e delle sue attinenze”;12 che equivaleva al famoso scire per causas

vichiano, essendo ogni cosa spiegabile solo attraverso l’analisi di se stessa, della propria

essenza, o per dirla col Vico:

Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altro nascon le cose.13

E pertanto, in virtú di questa nozione filosofica, è necessario proporre un’alternativa

critica pressocché obbligata dalla scarsezza di testi piú aggiornati e consoni ai tempi; un

metodo di studio a se stante, simile a quello che György Lukács suggeriva nei suoi saggi

di critica letteraria; 14cioè nell’analizzare la figura del Pontano attraverso lo studio dei suoi scritti; senza dare troppo peso alla critica del passato, magari con l’accettare o

mettere in discussione di tanto in tanto qualche idea valida e sostenibile, purché si

dimostri alleggerita da reminiscenze romantiche, o, in caso di eccesso, come per i seguaci

del De Sanctis, depurarla dalle scorie del Romanticismo. Solo cosí la figura del Pontano

potrà emergere nella sua totalità, se è vero che, come indica il De Sanctis, cuncta ea quae

in re insunt, ad rem sum affecta.

12Francesco De Sanctis, in op. cit., p. 726.

13Cfr. Giambattista Vico, Scienza Nuova, Degli Elementi, XIV. Degnità su cui si stabilisce la famosa dottrina vichiana dei corsi e ricorsi storici.

14Per un accurata bibliografia degli scritti di György Lukács vedasi G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, (Bari: Laterza, 1970). 8

Capitolo primo

Vita, opere e filosofia di Giovanni Gioviano Pontano

1. I ricordi dell’infanzia fra i boschi della Valnerina

Giovanni Pontano nacque il 7 maggio 1429 a Cerreto di , in , un piccolo borgo collinare della Valnerina che sovrasta due vallate, quella del torrente Nera

a sinistra, dalle acque sulfuree, e del gelido Vigia a destra; cosí come le ricorda il poeta;

piú o meno a metà strada fra Spoleto e Norcia, al bivio congiunturale dell’odierna

Nursina, Sellanese e Valnerina. La zona è nota per la sua ricchezza di tartufi neri, donde

il nome Valnerina all’ampia gola di monti circostanti. A vederla cosí com’è al giorno

d’oggi, questa piccola frazione del comune di Spoleto, fatta di poche case e antichissimi

ruderi, non induce a credere che il suo passato sia stato teatro di grandi contese territoriali, lotti di parte, capovolgimenti politici e sanguinosi vendette; né riesce facile capacitarsi che sí umile borgata sia stato il luogo di nascita di uno fra i piú eminenti umanisti del Quattrocento, Jovannis Jovianus Pontanus, come egli stesso plasmò il suo nome alla maniera latina.1

1Per la nascita del Pontano si consulti Salvatore Monti, “Il problema dell’anno di nascita di Giovanni Gioviano Pontano,” Atti dell'Accademia Pontaniana, 12 (1963): 225-252. Per la biografia piú recente è necessario il testo di Carol Kidwell, Pontano, Poet and Prime Minister. London: Duckworth, 1991; nonché l’articolo di Liliana Monti Sabia, “Prolusione,” Atti della Giornata per il centenario della morte di Giovanni Pontano. Ed. A. Garzia (Napoli: 2004). Quaderni dell’Accademia Pontaniana, pp. 7-27. 9

La bellezza di questo paesaggio bucolico umbro, dominato da folti boschi di carpini bianchi e neri, querci nodose e piante di cerro, fu immortalato dal Pontano in due sue primissime composizioni: Ludit poetice e De quercu diis sacra, entrambi appartenenti alla raccolta del Parthenopeus sive amores; poesie considerevoli, sia per l’aspetto autobiografico dell’autore, che per i temi introdotti, chiari anticipatori di una futura attività poetica di grazia straordinaria.

Nei primi versi del Ludit poetice il poeta dichiara apertamente il desiderio di dedicarsi alla vera poesia; non come aveva fatto prima, con il suo arrivo alla corte aragonese, per diletto, per pura esercitazione poetica; magari con l’intento di allietare i potenti, di guadagnarsene i privilegi, le grazie, i favori. Dice di averne abbastanza di giocare infiacchito dall’ozio, di offrire le sue poesie ai cori delle ninfe. Sono infatti gli anni 1457-

58, periodo in cui egli rifiuta un suo primo libretto lascivo, il Pruritus, su imitazione dell’Hermaphroditus del Panormita e mette mano ai suoi primi capolavori. Il poeta, nelle sue parole, ne ha abbastanza di giocare pigramente:

Iam satis est molli residem lusisse sub umbra nostraque nympharum scripta tulisse choris.2

Questi versi segnano una svolta decisiva nella vita poetica del Pontano, il cui ingegno

creativo sarà imperniato d’ora innanzi sui cardini della spontaneità: canone fondamentale

della poesia schietta, genuina, quella dettata di getto. Una poesia dove il dolore sarà elegiaco e il piacere idillico.3 La parte piú ragguardevole del carme è la parte centrale,

2Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, XVIII, Ludit poetice, vv. 1-2: “Ormai ne ho abbastanza di giocare, ozioso, sotto la molle ombra e di offrire le mie poesie ai cori delle ninfe.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, Giovanni Pontano, Poesie Latine (Torino: Einaudi, 1977), p. 97).

3Nel saggio Le Stanze, nella sua notevole Storia della letteratura italiana (Ed. Gianfranco Contini. Torino: UTET, 1968), pp. 379-392, il De Sanctis fa un quadro generale ben chiaro sulla poesia del Quattrocento italiano, specialmente nei riguardi della poesia campestre. 10

dove il poeta vanta appunto le sue origini in Umbria, terra cultrice di Muse, perché fu

anch’essa patria di due grandi altri poeti, Properzio e Plauto:

Umbria Pieridum cultrix, patria alta Properti, quae me non humili candida monte tulit, Vigia quem gelidis placidus circumfluit undis et Nar sulphureis fontibus usque calens!4

La bellezza di questo paesaggio natio, dalle acque gelide e sulfuree, è sigillata da un

elogio diretto esplicitamente a Properzio e non a Plauto; non perché quest’ultimo non ne

fosse degno; anzi, come si vedrà piú innanzi, il Pontano ne sostenne un’impareggiabile

influenza, specialmente nel suo Asinus, del 1490, in cui entra la componente comica. La presenza di Properzio è indubbiamente dovuta al fatto che a livello psicologico il Pontano si identificò molto con questo antico poeta elegiaco umbro; perché anche egli, fra lutti e confische di terre, subí notevoli sorprusi in patria.5 Non c’è da meravigliarsi perciò se

Plauto non venga menzionato direttamente. In fondo la sua presenza è implicita nel plurale del sostantivo pieridum.

L’altro poema, il De quercu diis sacra, risalta sopra tutte le poesie della raccolta del

Parthenopeus sive amores per il suo fascino erotico e l’elemento mitologico. Qui il poeta, nostalgico della sua Umbria, ripensa ai verdi paesaggi della Valnerina, in particolare ad una quercia centenaria, la quale, servata per annos, nella fantasia del poeta è considerata una potenza divina, numen habet.

4Ludit poetice, vv. 25-28: “L’Umbria che onora le Muse, la grande patria di Properzio, che, ridente mi diede i natali sull’alta cima di un monte, che circondano il placido Vigia con le sue onde gelate e la Nera, sempre calda di sorgenti sulfuree.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p. 97).

5Properzio in condizioni miserrime dovette trasferirsi a Roma, dove intraprese la carriera politica e di poi quella letteraria nei circoli della capitale; Pontano in simile situazione, avendo dovuto trasferirsi a Napoli, divenne celeberrimo poeta e uomo politico. 11

Haec vetus et multos quercus servata per annos, si fas est vati credere, numen habet; Namque sub hac iacuit mixtus Naretide Nympha Pan, montanicolae captus amore deae.6

Il ricordo di questa quercia sacra al poeta rafforza il sentimento nostalgico per la patria

perduta nel giovane Pontano, il quale, fra le disavventure che lo colpirono nei primi suoi

tempi a Napoli, a causa di una malattia e delle sue alte ispirazioni di poeta, finí col

debellare la crescente maliconia del presente attraverso l’oblio della piú viva fantasia,

cosí come la descrisse il Vico nella Scienza nuova; per merito della quale, volendo sempre prestar fede agli insegnamenti di questo grande filosofo, attraverso un processo di

mitizzazione poetica della memoria si arriva al mito. Ed è proprio qui, in questa poesia,

che il Pontano spicca per la sua abilità fantasiosa, relegando ai posteri il suo primo mito

per eccellenza: quello della bella ninfa Naretide (della Nera), sedotta dal dio Pan mentre

giaceva dormiente all’ombra di una quercia; un racconto idillico in cui la sensualità della

vita si rispecchia attraverso la sorridente natura campestre e l’animo tutto assorto del

poeta in comunione con essa. In questo mito entra uno fra i piú notevoli topoi della musa

pontaniana: la scena del bagno, ossia l’elemento equoreo, che non solo sarà il forte del

Pontano, ma anche la base, il punto di riferimento essenziale sia per la lirica partenopea

che per quella volgare dai suoi tempi in poi; basti pensare al Tasso della Gerusalemme e

alle scene di bagno ivi incluse.7

6Dal Parthenopeus sive amores, Liber secundus, IX, De quercu diis sacra, vv. 1-4: “Sacra ad un nume, se si crede al vate / È questa quercia che qui sorge intera, / E intatta resta da remota etate. / Sott’essa con la Ninfa della Nera / Pane si stette, della bella Diva / Preso alla forma montanina e altera.” (Traduzione di Carlo Maria Tallarigo, Giovanni Pontano e i suoi tempi (Napoli: Domenico Morano Editore, 1874), p. 628).

7Domenico Chiodo, “Fra liquido cristal nevi guizzanti: la scena del bagno nella poesia italiana,” Luoghi e forme della lirica, a cura di Giorgio Barberi Squarotti (Torino: Tirrenia stampatori, 1996), pp. 54-55. Questo saggio è di notevole interesse in quanto al topos del bagno nella storia della letteratura italiana. 12

In base al racconto, avendo abbandonato la sua dimora in Arcadia, il dio Pan se ne

andò girovagando per i boschi umbri. Arrivato sulle sponde del Vigia, dove le sue acque

si uniscono a quelle della Nera, si accorse della bella Naretide che quivi si bagnava tutta

nuda con le sue belle membra all’onda chiara e ombrosa. Come la vide fu subito preso

d’amore, tanto che il cuore in petto gli sembrava d’un tratto esser diventato un vulcano.

Al che, rivolgendosi alla ninfa, intonò una canzone:

Nympha decus nemorum, sacro quae fonte lavaris, candidaque in nitido flumine membra rigas, Brachia sunt niveo tibi candidiora ligustro, collaque montana non minus alba nive, Purpureoque genas suffundens dia rubore tingis punicea lilia cana rosa.8

Intimidita dai plausi amorosi e dalle incalzanti offerte di doni, Naretide sola e

sdegnosa si nascose dietro un salice e sfuggí al nume meschino, che oppresso dal

disperato amore se ne tornò a pascolare il suo gregge. Ma un giorno la sorte venne

incontro al dio Pan. Sorgeva presso il fiume una quercia sublime, presso la quale

dicevano che abitassero i Fauni d’acqua, e che molte volte, ancora grondanti d’acqua,

ordissero danze gioiose. Era questo un luogo incantato, dove un giorno, stanca dalla

caccia, venne a riposarsi la ninfa. Questa, inebriata dal suono dell’acqua mormorante e

dalla fresca brezza dell’aria profumata, fu colpita da un dolce sopore e si addormentò

sulla molle erbetta. Quivi per caso si trovò passando Pan con il suo gregge. Come la vide

distesa sull’erba, si affrettò a penetrare nell’antro amichevole del boschetto, pregustando

di già in suo cuore le delizie dell’amore. Acquattatosi sull’erba, pian piano e senza far

8De quercu diis sacra, vv. 15-20: “Ninfa, decor dei boschi, che vezzosa / Ti lavi al sacro fonte e a terger stai / Le belle membra all’onda chiara e ombrosa, // Del candido ligustro tu ben hai / Piú bianchi i bracci, e fin la neve alpina / Del tuo collo al candor vinci d’assai. // E quando di rossor la tua divina / Gota è suffusa, oh che bel misto adorno / Di bianco giglio e rosa porporina!” (Traduzione di Carlo Maria Tallarigo, op. cit., p. 629). 13

alcun rumore, nemmeno col respiro, si avvicinò all’agognata ninfa, che ancora dormiente

non si accorgeva che il seducente dio avesse cominciato a palparla qua e là.9

Subducit retegitque sinus, nudatque papillas, hinc genua in molli lenta recurvat humo; blanditur femori digitis, collumque genasque libat, et amplexu pectora nuda fovet; iungit et os ori, mox ad sua gaudia pergit, et sperata diu re sibi vota capit. Illa ubi se captam dulci resoluta quiete sentit, ab apposita praelia veste movet; verum ubi nec precibus, nec vi praemovit amantem, paulatim victa est, deposuitque metum.10

Pan aveva vinto. Il suo ardire non fu vano, perché la ninfa, deposto il suo timore,

molte volte ritornò al sacro luogo per godersi il Dio. L’albero di poi fu consacrato agli dei

e divenne luogo di riverito culto e sempre pien di doni.

L’elemento erotico del mito riscontrato nel De quercu diis sacra è filtrato dalla

dolcezza delle immagini, la cui sensualità emerge purificata parola per parola, verso dopo

verso, in un insieme di allettevoli dettagli. Qui non è l’elemento carnale, quello lascivo,

ad incidere sulla fantasia, ma bensí l’insieme armonico di tutta la scena; a cominciare dal

torrente mormoreggiante alla soffice erbetta, dal vento carezzevole alla frescura degli

alberi. Qui è la natura che fa l’amore, in un isieme idillico briosamente sensuale: il bosco,

gli uccelli, l’acqua, il vento: un’immagine incantevole, come nei dipinti del Botticelli;

una profonda reminiscenza dei ricordi del passato che riemergono ora come fantasmi.

Incidentalmente, da una lettura piú attenta del Ludit poetice, risulta che il Pontano

abbia cominciato ad accarezzare il mito di Naretide sin dall’adolescenza, almeno a livello

9Cfr. De quercu diis sacra, vv. 5-14, 53-82.

10De quercu diis sacra, vv. 73-82: “Poi cingendo la viene, e il bianco seno / E le poppe discuovre, ed incurvando / Lenti i ginocchi sul molle terreno, // Le molce il fianco, e liba a quando a quando / Le gote e il collo, e il seno le carezza / Che nudo tra gli amplessi ei va scaldando; // E unisce bocca a bocca, e la dolcezza / Coglier si affretta, ed il fervente ardore / Della gioia fa pago nell’ebbrezza. // Come desta dal sonno ella d’amore / Prigioniera si sente, ardita oppone / A schermo le sue vesti l’aggressore. // Ma quando né preghiere né tenzone / dell’amante frenar ponno il desio, / Vinta si piega ed il timor depone.” (Traduzione di Carlo Maria Tallarigo, op. cit., p. 634). 14

embrionale, quando ancora alle prese con i primi studi, andava a giocare fra i boschi della

Valnerina, esattamente alla confluenza della Nera e del Vigia. Un luogo che nella fantasia sensibile di un fanciullo non poteva essere altro che una una foresta magica, incantata, popolata da creature mitologiche di ogni tipo.

In questa foresta, stando al contenuto del Ludit poetice, abitava un altro personaggio mitico nella fantasia pontaniana, quello della ninfa Azzurrina; la quale, avendo invitato il fanciullo a sedersi con lei all’ombra degli alberi presso le acque muscose dei due fiumi, gli predice il suo destino poetico.

Hic ubi me viridi puerum sub valle canentem audiit irrigui coerula nympha loci atque ait: – Antra, puer, muscosi fontis et ista tecta petas, en haec quae tibi serta paro; si mecum hoc viridi libeat considere prato, tu mea cura, puer, tu meus ardor eris; hanc tibi nos dabimus, ne sis modo durus amanti, quam dederat nobis Delius ante lyram –.11

Questi luoghi della Valnerina, si fas est vati credere, come afferma il Pontano, sono la

sua inesauribile fucina poetica, dove il poeta ricorrerà sempre col pensiero tutta la vita,

attingendone temi, topoi, personaggi: l’insieme delle immagini fantasiose puerili, che

covate a lungo nel subconscio, riemergono ora purificate e sacrate dall’ufficio poetico.

È pertanto il ricordo dell’Umbria, delle sue verdi vallate ricche di acque azzurrine, ad

incidere molto sulla poesia pontaniana. Nelle opere piú mature, infatti, saranno proprio

queste due delizie poetiche a far capire tante cose sull’adolescenza e sull’infanzia del

Pontano, di cui poco si sa, fatta eccezione che in seguito all’uccisione del padre il

giovane dovette riparare a con sua madre Cristiana senza mai piú far ritorno in

11Ludit poetice, vv. 29-36: “Qui, mentre fanciullo cantavo in fondo ad una verde vallata, mi udì una ninfa azzurrina di quel luogo ricco di acque e: - Fanciullo, - mi disse – vieni agli antri del fonte muscoso e sotto questo riparo; ecco, queste corone le sto preparando per te: se tu volessi sederti con me nel verde di questo prato, sarai tu il mio amore, questa lira che un tempo mi diede Apollo stesso.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p. 97). 15

patria. E fu un vero dramma, soprattutto perché questo esilio forzato non gli permise mai piú di visitare i boschi della Valnerina. Una tragedia personale che non poteva che aggravare la crescente melanconia in un fanciullo colpito nei suoi affetti piú intimi, quali la perdita del padre, della dimora familiare e della stessa patria, e ancor piú, sdradicato

dal suo mondo di giochi: un trauma ben profondo e marcato per la delicata sensibilità di

qualsiasi bambino, che senza dubbio incise molto sulla formazione del giovinetto

Pontano. Bisognerà aspettare agli anni della maturità per sanare questa ferita dolorosa,

allorché il poeta, rievocando le ingiurie del passato, riuscirà a smorzarne il dolore

attraverso il ricordo rasserenante dell’Umbria:

O si post cineres et me quoque iactet alumnum Umbria carminibus non inhonora meis.12

Sebbene l’allusione alle molte poesie scritte in onore dell’Umbria in Ludit Poetice

dimostri che il Pontano ha ritoccato questa composizione in tarda età, come abitualmente

si industriò di fare per tutte le sue opere una volta raggiunti gli anni del riposo, ciò che

piú ne risulta è il senso di pace, di riconciliazione psicologica e di affetto che egli nutre

per la sua terra natia. Non a caso è sempre in questo contesto che il Pontano si dichiara

ufficialmente poeta:

Felices nimium fortunatosque poetas et qui Penea tempora fronde tegunt! Una dies satis est hominum delere labores, vatibus at certe morte carere datum.13

12Ludit poetice, vv. 23-24: “Eh! Dopo la mia morte, non si scagli contro di me l’Umbria, che molto onore ha ricevuto dai miei carmi.” (Traduzione mia. D’ora in avanti, a meno che il nome del traduttore non venga indicato, le traduzioni dal latino sono curate da me).

13Ludit poetice, vv. 17-20: “O felicissimi e fortunatissimi sono i poeti e coloro che si cingono le tempie con la ghirlanda Penea. Basta un giorno a distruggere le imprese degli uomini, ma ai poeti è senza dubbio concesso di sfuggire alla morte.” 16

Di notevole interesse in questa composizione è l’accenno alla fronde Penea, perché dal

contesto non si tratta della tipica ghirlanda poetica, bensí di una ben specifica e cara al

Pontano: l’alloro per sapere trattare gli argomenti dell’amore, della passione, dell’eros; cosí come sapeva farlo Ovidio. Infatti, passando all’analisi filologica di Πηνειός, il dio fiume padre della ninfa Δάφνη, è ovvio che il poeta si rifaccia al racconto ovidiano delle

Metamorfosi, dove Dafne, inseguita dal dio Apollo, viene trasformata in un cespuglio d’alloro. Il che è sorprendente, specialmente nel considerare che il mito raccontato da

Ovidio coincide piú o meno con quelli della ninfa Naretide del De quercu diis sacra e della ninfa Azzurrina del Ludit poetice, dove sia il lauro che la quercia simboleggiano l’amore. Non c’è dubbio che si tratti di tre immagini mitiche sovrapposte in una nella fantasia poetica del poeta. A corroborare la validità di questo argomento è l’uso dell’aggettivo coerula riscontrato in ambedue gli autori: l’uno, quello della ninfa

Azzurrina, nascosta fra gli antri muscosi della Valnerina; l’altro, quello del dio Apollo,

Δήλιος, le cui tempie, secondo Ovidio, sono pure cinte da una corona azzurra fatta di foglie di quercia. Si tratta dello stesso dio di cui parla la ninfa Azzurrina.

Monte suo senior iudex consendit et aures liberat arboribus; quercu coma caerula tantum cingitur et pendent circum caua tempora glandes.14

A parte il fatto che gli antichi avessero una percezione dei colori ben diversa dalla

nostra, essendo le foglie di quercia verdi e non azzurre, l’altro elemento sorprendente di

coerula è che mette in nuce un altro personaggio molto caro al Pontano: il dio Pan, già

visto in azione nel mito di Naretide. Difatti, i versi ovidiani sopracitati, tratti dall’episodio

14Ovidio, Metamorfosi XI, vv. 158-160: “Il vecchio giudice se ne stava tranquillo sul suo monte con le orecchia volte agli alberi, era solo cinto di foglie azzurrine di quercia, con le ghiande che gli pendevano attorno alle tempie.” 17 di Midae aures, precedono quelli in cui appare la figura di Pan, che si pavoneggia con le ninfe dei monti con il suono della sua zampogna e sfida Apollo in una gara di musica.

Pan ibi dum teneris iactat sua carmina nymphis et leve cerata modulatur harundine carmen, ausus Apollineos prae se contemnere cantus, iudice sub Tmolo certamen venit ad impar.15

Considerando infine l’altro mito ovidiano, quello della ninfa Siringa, mutata in canna per eludere l’inseguimento di Pan nella valle di Tempe in Emonia, si ha un quadro idillico corrispondente nella precisione dei dettagli a quello della Valnerina: con tanto di

fiumi, onde schiumose, precipitosi pendìi e boschi verdeggianti; una vallata abitata non

solo da ninfe nascoste tra gli antri muscosi dei corsi di acqua, ma nientemeno che da

Πηνειός, re dei fiumi, e sua figlia Δάφνη.

Est nemus Haemoniae, praerupta quod undique claudit silva: vocant Tempe. Per quae Peneus ab imo effusus Pindo spumosis volvitur undis, deiectuque gravi tenues agitantia fumos nubila conducit summisque adspergine silvis inpluit et sonitu plus quam vicina fatigat. Haec domus, haec sedes, haec sunt penetralia magni amnis; in his residens facto de cautibus antro, undis iura dabat nymphisque colentibus undas. Conveniunt illuc popularia flumina primum, nescia, gratentur consolenturne parentem.16

Se dai riscontri letterari di queste prime composizioni poetiche è evidentissimo che per il Pontano il modello classico per eccellenza e per la sua fantasia mitologica sia stato

Ovidio, sarà pure opportuno supporre che egli abbia ricevuto tutto questo bagaglio di

15Idem, XI, vv. 154 -157: “Mentre Pan qui mandava le sue canzoni alle tenere ninfe modulando il canto sul flauto lievemente spalmato di cera, osò disprezzare il canto d’Apollo paragonato al suo e lo sfidò sotto il giudizio imparziale di Tmolo.”

16Idem, I, vv. 568-576: “È nell’Emonia una valle rinchiusa da monti selvosi: Tempe la chiamano. Il fiume Peneo, che balza del Pindo alle radici, la scorre con onde schiumose schizzando nuvole lievi di fumo nel precipitoso pendìo: spruzza le cime dei boschi e rintrona anche i luoghi lontani. Ha qui la casa e la sede: qui sono del fiume irruente i penetrali. Sedendo qui, dentro una spelonca di rocce, regola l’onde e comanda alle ninfe che stanno nell’acqua. Ivi convengono prima i tessalici fiumi e non sanno se rallegrarsi o dolersi col padre di Dafne.” (Traduzione di Ferruccio Bernini, Ovidio, Le Metamorfosi (: Nicola Zanichelli Editore, 1958), p. 35). 18 reminiscenze ovidiane in tenera età, quando la mente, essendo piú viva e prona alla fantasia, poteva maggiormente assimilarle e farle proprie.17 E pertanto, per capire ad

unum i motivi essenziali della vasta produzione letteraria pontaniana, bisogna sempre valutare l’importanza filologica ed ermeneutica del Ludit poetice e del De quercu diis sacra, essendo in esse racchiuso il segreto esegetico del poeta: la Valnerina, dove scorre placidamenre il fiume natìo e dove egli si riconosce umilmente poeta.

Tu nunc muscosa placidus sub rupe vagaris redditur et fluxu lenior aura tuo altaque praetexit virides tibi populus umbras et mille in foliis dulce queruntur aves.18

2. Pontano e i primi tempi alla corte aragonese

Passiamo quindi alla sua vita e a un’introduzione generale dei suoi scritti a partire dall’anno 1447, allorché il giovinetto, appena diciottenne si presenta al campo di Alfonso il Magnanimo che si trovava in Toscana per la sua guerra contro Firenze.19

Fallito il tentativo di riottenere i beni paterni confiscatigli a Cerreto, il giovane

Pontano, preoccupato del suo futuro e per le sue ambizioni di studio, che non sembravano

17Per meglio rendersi conto della formazione culturale del giovane Pontano, si vedano le pagine di Eugenio Garin, L’educazione umanistica in Europa, 1400-1600, (Bari: Editori Laterza, 1966). In esse il Garin, rifacendosi ai precetti educativi di Pier Paolo Vergerio e Guarino da Verona, delinea chiaramente quali furono i programmi di studi liberali affrontati dagli umanisti.

18Parthenopeus sive amores, Liber secundus, V, vv.3-6: “Scorri, tu, ora placido sotto la rupe muscosa, dove il flusso dell’acqua rinfresca l’aria circostante; gli alti pioppi intessono in te un velo di ombre verdi e mille uccelli piangono dolcemente tra le foglie.”

19Per una storiografia generale su Alfonso il Magnanimo vedasi David Abulafia, “Ferrante of . The Statecraft of a Renaissance Prince,” History Today, 45, 2 (1995): 19-25. Per uno sguardo generale sul primo arrivo del Pontano a Napoli è essenziale l’opera del Tallarigo, specialmente il primo capitolo, in cui il critico riporta moltissime citazioni di Tristano Caracciolo tratte da testi irreperibili. 19

ben promettere in patria, decise, come era di costume all’epoca, di affidare il suo destino

alle mani di un mecenate. L’imbarazzo della scelta di dove andare e a chi rivolgersi fu

certamente forte, essendo l’Italia un ambiente ricco di rinomati centri culturali, che di

sicuro non avrebbero avuto difficoltà ad appoggiare un giovane di sí gran talento, anzi se

ne sarebbero contesa la presenza. Fra i tanti il Pontano scelse quello della corte aragonese: una scelta ben deliberata, risoluta e significativa per due motivi. In primo luogo, grazie al programma di sviluppo della cultura italiana promosso da Alfonso il

Magnanimo (1435-1458), Napoli era diventata un centro di grande erudizione da non

aver nulla da invidiare a Firenze, a Roma, a Milano, a o a Urbino; secondo,

essendo il Quattrocento un secolo di lotta di tutti contro tutti, perché ciascuno temeva nel

suo vicino il futuro unificatore d’Italia, con molta probabilità il Pontano aveva intravisto

in Alfonso l’unico monarca capace di portare a termine in Italia il gran sogno della

unificazione nazionale.20

Entrato nelle grazie di Alfonso il Magnanimo con l’aiuto del Panormita, che si accorse del suo ingegno e della sua precoce erudizione al suo primo arrivo al campo in Toscana,

nell’ottobre del 1448 il re lo condusse con lui a Napoli, dove il Pontano strinse

immediatamente amicizia con Pietro Golino, il famoso Compatre, a cui fu legato da profondo affetto per tutta la vita, con Giovanni Olzina e con Giulio Forte da Messina, l’uno segretario di Alfonso, l’altro ministro delle finanze reali. Quest’ultimo si dimostrò molto generoso nei suoi confronti, ospitandolo in casa al suo primo arrivo nella capitale, quando il Pontano, colpito da una gravissima malattia, venne quasi in punto di morte.

20Per un rapido sguardo sulla condizione politica italiana nel Quattrocento vedasi Riccardo Fubini, “The Italian League and the Policy of the Balance of Power at the Accession of Lorenzo de’ Medici,” The Journal of Modern History, 67, Supplement: The Origins of the State in Italy, 1300-1600 (Dec. 1995), pp. 166-199; nonché Vincent Ilardi, “The Italian League, Francesco Sforza, and Charles VII (1454-1461),” Studies in the Renaissance, 6 (1959):129-166. 20

Fata vocant, lux alma, vale, iam deleor. At tu Inferias vati solve, Marine, tuo; ossa quoque in patriam miserae transmitte parenti.21

Recuperate le forze, il giovane attese subito alla sua formazione culturale, partecipando alle lezioni di greco dell’umbro Gregorio da Tiferno e poi a quelle piú prestigiose di Giorgio da Trebisonda, nonché agli studi di astronomia sotto l’auspicio di

Lorenzo Buonincontri da San Miniato, con il quale divenne subito amico per le affinità delle idee.22 Nel frattempo la stima e la simpatia del Panormita verso il Pontano era accresciuta, tanto che, avendo deciso il re di mandare il Panormita al senato veneziano come suo ambasciatore, l’illustre diplomatico colse l’occasione di iniziare il Pontano alla carriera dei negoziati politici, scegliendolo come suo compagno di viaggio.23 Questa impresa diplomatica attraverso l’Italia centro-settentrionale fu un vero e proprio trionfo per il Pontano, giacché non ci fu luogo al suo passaggio, in cui la sua mirabile dottrina e impareggiabile erudizione non destasse scalpore, specialmente per un bel giovane della sua età, tanto da accattivarsi la benevolenza di chiunque lo conoscesse. Cosimo de

Medici in persona, avendo letti alcuni versi del Pontano in lode dei Veneziani, ne addivinò profeticamente la futura gloria.24

21Dal Parthenopeus sive amores, Liber secundus,VIII, Ad Marinum Tomacellum sodalem: v. 1-3: “La morte mi chiama; o alma luce, addio: ormai è la fine! Ma tu, Marino, offri gli estremi onori al tuo poeta; e portane le ossa nella sua patria all’afflitta sua madre.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p.113).

22Per le lezioni di greco nel meridione d’Italia vedasi Maria Luisa Chirico, “Alfonso d’Aragona e l’insegnamento del greco nell’Italia Meridionale,” XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona d’Aragona, Napoli: 1997, a cura di Guido d’Agostino e Giula Buffardi, Vol. II, pp. 1311-1319. Per gli influssi della cultura ellenistica riguardo all’astronomia e all’astrologia vedasi James Hankins, Renaissance Crusaders: Humanist Crusade Literature in the Age of Mehmed, vol. 49, Symposium on Byzantium and the Italians, 13th-15th Centuries (1995). Dumbarton: Oaks Papers, pp. 111-207.

23Per il coinvolgimento del Pontano e del Panormita nei disegni politici di Alfonso si veda a Jerry H. Bentley, Politics and Culture in Renaissance Naples. Princeton: University Press, 1987.

24Il Tallarigo (p. 58) cita dal libro del De Sarno una nota molto interessante di Tristano Caracciolo sull’auspicio di Cosimo de Medici: “Ituro Panormitae Oratori ad Venetos commodum visum est Pontanum secum ducere, qui omne per iter talem per se pertulit, qualem postea cognovimus: praecipue tamen 21

Rientrati a Napoli l’illustre Panormita non volle piú separarsi dal Pontano, anzi per la grandissima ammirazione che nutriva per lui gli fece vedere la maggior parte delle sue opere, di cui procurò di fornirgliene copie, e lo ascrisse all’Accademia.25 Intanto la fama umanistica del Pontano non tardò a diffondersi negli ambienti culturali della città e d’Italia; il Panormita medesimo, ormai prossimo alla vecchiaia, a tutti coloro che andavano a consultarlo per qualsiasi questione letteraria rispondeva senza indugio di rivolgersi a Giovanni: Ite ad Jovianum.

Non diversa fu la sua fortuna professionale. Nel 1452, grazie all’ingegno dimostrato nel viaggio d’ambasceria a Venezia e alla stima che Giovanni Olzina, Segretario di Stato e primo Ministro di re Alfonso, nutriva nei suoi confronti, fu nominato scriba nella cancelleria reale, dove il Pontano non indugiò a dare subito prova di sé con il suo zelo nel lavoro, che curava con molta avvedutezza e perizia impeccabile. In breve tempo lo stesso

Olzina, incurante di altri funzionari che da tempo aspiravano a cariche piú prestigiose, consideratolo ormai degno della sua fiducia, gli affidò molti degli incarichi piú gravi e delicati.

Nel frattempo il Pontano, fra i copiosi lavori di cancelleria e le noie del mondo burocratico, trovava pur sempre il modo di dedicarsi allo studio e alla scrittura. Non passava giorno in cui egli non scrivesse un qualcosa, una poesia, una prosa, un dilettoso componimento, che poi leggeva ai suoi amici nell’ozio della sua dimora. La casa del

Florentiae, ubi Cosmus Medices vir sagax et longa aetate et experientia peritus de eo iudicium praetulerit. Forte enim, auditis quibusdam nugis a Pontano in Venetos editis, dixerit, si vita permiserit, illustrem illum eloquentia et doctrina futurum.”

25Idem, 59. Il gran senso di ammirazione del Panormita verso il Pontano, specialmente riguardo al privilegio di avergli dato copie delle sue opere è riscontrabile in un altro manoscritto di Tristano Caracciolo, De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum: “Quisquis hunc libellum aut viderit aut legerit, sciat emendatum esse, atque ab eo suppletum, et transcriptum exemplari, quod Antonius ipse Panormita, operis auctor, dono dedit Joanni Ioviano Pontano.” 22

Pontano si era trasformata in un santuario d’erudizione, un luogo d’incontro dove intere

brigate di gente colta gareggiavano a sentirlo parlare, vuoi di un autore antico, vuoi di

una questione di greco, vuoi di un suo componimento. E piú lui ne dava, piú ne volevano,

insaziabili ormai della grazia, piacevolezza e leggiadria delle sue parole. Re Alfonso

medesimo fu scosso dalla sua celebrità, perché, dovendo scegliere un precettore per suo

figlio Giovanni, Duca di Calabria, fra gli innumerevoli dotti della città nominò nel 1457 il

Pontano a tale ufficio. Fu questa una grande opportunità, non solo per il grandissimo

onore della carica, ma maggiormente perché il Pontano, liberatosi dal tedio dei lavori di

cancelleria che lo mantenevano sempre occupato, godeva adesso del necessario ozio e

tempo a disposizione per attendere ai suoi scritti. E furono questi gli anni in cui, da come

si è già osservato nella composizione del Ludit poetice, il poeta mise mano ai suoi

primissimi capolavori facendo delle scelte determinate.

3. De laudibus divinis, Parthenopeus sive amores, Urania

Il compito del maestro, dell’insegnante, che già di per sé comporta difficoltà enormi,

dovette essere ufficio alquanto arduo per il Pontano, sia perché ad essere educato era una

persona di sangue reale, sia perché fra lui e il principe c’erano due anni di differenza,

l’uno ventinovenne, l’altro ventisettenne. Tuttavia egli seppe mantenere tanta grazia ed

arguzia nel suo incarico di docente da guadagnarsi il benevolo riguardo ed apprezzamento del suo discepolo. Il poeta gli dedicò addirittura un libro di inni sacri, il 23

De laudibus divinis,26 una collezione di quattordici poesie dedicate alla Madonna e ai santi, precedute da una dedica al Panormita sulla creazione del mondo. Il libro fu stranamente interrotto e messo da parte di lí a poco, per poi essere ripreso in tarda età.

Con molta probabilità la composizione del libro fu sospesa a causa della morte di Alfonso il Magnanimo, perché il Pontano, congedato dal suo lavoro di precettore, dovette ritornare ai suoi vecchi uffici di cancelleria, perdendo quindi tutta la comodità del tempo libero da dedicare alla scrittura. Quel poco tempo che gli restava libero dalla carriera politica, divenuta ancora piú esigente a causa di una immediata promozione dai banchi della cancelleria a quello di dirigente delle faccende di Stato, dovette essere distribuito parsimoniosamente, giacché sul suo telaio poetico aveva di già cominciato a tessere opere di gran lunga per lui piú importanti, quali appunto il Parthenopeus sive amores, che portò a termine in questo periodo, e l’Urania, un poema astrologico, cui attese con gran cura fino ai settanta anni.

La morte di Alfonso il Magnanimo, il 27 giugno del 1458, coincise piú o meno con il

periodo in cui il Pontano aveva di già maturato per sé un programma poetico altamente ambizioso, del quale sia il Ludit poetice che il De quercu diis sacra rivelavano il fervore e la solerzia. Ciononostante anche nel De laudibus divinis già si profilava parte di tale disegno, e cioè quello di scrivere un poema narrativo di grande impegno sull’esempio dei grandi autori del passato, un’opera da firmarsi Giovanni Pontano, unica, distinta, personale, come l’Eneide, le Metamorfosi, il De rerum natura, a testamento della propria perizia poetica. L’ispirazione fu indubbiamente suggerita dalle Metamorfosi ovidiane, in cui l’antico autore narrò la storia del mondo dalle sue origini al tempo dei Cesari. Il

26Per un approfondimento sulla composizione del De laudibus divinis vedasi Charles Trinkaus, “The Astrological Cosmos and Rhetorical Culture of Giovanni Gioviano Pontano,” Renaissance Quarterly, 38, 3 (1985): 446-472. 24

Pontano aveva in mente un progetto del genere; e difatti la parte introduttiva del De laudibus divinis, dedicata al suo amico Antonio Panormita, è la prova piú evidente di questa ambizione.

Hoc coelum, quaeque oblique distincta meatu sed certa ferri sidera lege vides telluremque suo libratam pondere, circum quam cingit rapidis Enosigaeus aquis, spirantisque avium tractus fusumque superne, qui cuncta aetherio temperat orbe, Iovem, Antoni, Deus e nihilo, Deus omnia fecit Et formam rebus iussit adesse suam.27

Era questo lo stesso tema del Mundi origo tratto tal quale dalle Metamorfosi.28

Dilgentemente, il Pontano, resosi conto della banalità di imitare in tutto e per tutto

Ovidio, pose prontamente freno a questa composizione, anche perché aveva di già

compreso che la sua massima opera testamentaria doveva trattare un argomento piú originale e personale, come quello dell’astronomia e dell’astrologia ampiamente curato nell’Urania, cui diede inizio non appena terminò il Parthenopeus sive amores.

Scartato il De laudibus divinis come opera ancora da completare, il Parthenopeus sive amores fu quindi la sua prima opera ufficiale. In questo canzoniere comparvero i nomi dei suoi piú intimi amici napoletani e delle donne che erano entrate a far parte della sua vita sentimentale, in particolare una certa Fannia. Fu dedicato al suo amico, Lorenzo

27Dal De laudibus divinis, I, De mundi creatione, ad Antonium Panormitam, vv. 1-8: “Questo cielo e queste stelle che vedi, opportunatamente disposte, spostarsi con moto trasversale, ma secondo una legge fissa, e la terra librata sul suo peso, che tutt’intorno l’Enosigèo cinge con le sue rapide acque, e le aeree plaghe degli uccelli e il cielo che sopra vi è steso e che regola tutto l’universo con la sua volta eterea, tutte queste cose, Antonio, le ha create Iddio, Iddio le ha create dal nulla, comandando che ogni cosa avesse la sua propria forma.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p. 276).

28Cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 5-15: Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum / unus erat toto naturae vultus in orbe, / quem dixere chaos: rudis indigestaque moles / nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem / non bene iunctarum discordia semina rerum. / nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan, / nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe, / nec circumfuso pendebat in aere tellus / ponderibus librata suis, nec bracchia longo / margine terrarum porrexerat Amphitrite; / utque aer, tellus illic et pontus et aether. 25

Buonicontri da San Miniato,29 sebbene non vada escluso che piú che a lui, questa raccolta di quarantanove poesie di vario metro fosse indirizzata alla di lui moglie Cecilia. Sta di fatto che nella parte introduttiva, nel Librum alloquitur, dopo aver spiegato che la legge dei suoi versi era quella di parlare delle fanciulle sensibili all’amore con versi

“carezzevoli, arguti, spensierati e lievi”, il poeta, rivolgendosi al suo libro aggiungeva:

Nunc ad te redeo, libelle. Felix, i felix, pete nobilem sodalem inter nequitias amoris omnes ludentem in gremio suae Cicellae, cuius lacteolo sinu tumenti surgunt aureolae duae papillae, quas fecit manibus suis Cupido maternas imitatus ipse mammas.30

Anche se Cecilia non fosse stata la destinataria di questo gaudio poetico, di certo il poeta amò una donna sposata dallo pseudonimo di Fannia negli anni del suo primo soggiorno napoletano. Ad essa il Pontano dedicò undici poesie d’amore nel suo

Parthenopeus sive amores, due negli Hendecasyllabi seu Baiae e due ancora nel De tumulis, nonché molti accenni sulla sua persona nella Lyra e negli Eridanorum libri. Ecco infatti una poesia molto bella, tratta dagli Amores, in cui il poeta, cesellando l’immagine dell’amata con estro catulliano,31 invitava Fannia a non temere il marito:

29Sul rapporto d’amicizia fra il Pontano e il Bonincontri, vedasi Michele Rinaldi, “Un sodalizio poetico- astrologico nella Napoli del Quatroccento: Lorenzo Bonincontri e Giovanni Pontano.” MHNH. Revista Internacional de Investigación sobre Magia y Astrología. Antiguas 4 (2004): 221-244.

30Dal Parthenopeus sive amores, Librum alloquitur, vv.16-23: “Ora torniamo a te, libretto mio. Fa buon viaggio e cerca quel mio nobile amico, che in mezzo ad ogni furfanteria d’amore si spassa in grembo alla sua Cicella, sul cui turgido seno di neve sporgono due magnifici capezzoli, che Cupido plasmò con le sue stesse mani, prendendo a modello i seni di sua madre.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p. 80).

31Sull’influenza di Catullo in Pontano vedasi il saggio di Walter Ludwig, “The Origin and Developmnet of the Catullan Style in Neo-Latin Poetry”, Latin Poetry and The Classical Tradition, Edited by Peter Godman and Oswyn Murray. New York-Oxford University Press, 1990, pp. 183-197.

26

Amabo, mea cara Fanniella, ocellus Veneris decusque Amoris, iube, isthaec tibi basiem labella suciplena, tenella, mollicella; amabo, mea vita suaviumque, face istam mihi gratiam petenti. Ah, quid lenta tuum times maritum? ne time, leviter suaviabor. Apes ut tenero studens liquori libat summa thymi aut crocon rubentem, summa vix tibi suxerim labella, isthaec dico labella mollicella, quae me tam facient cito beatum quam fiam cito, si neges, misellus.32

L’efficacia di questa rappresentazione non sarebbe stata possibile se il poeta non vi

avesse incluso il piú importante costituente di qualsiasi gioco erotico: il vezzo, l’abilità di mostrare affetto e tenerezza congiunta alle dolci moine amatorie, come mostra la seguente composizione in cui il dettaglio erotico fu piuttosto smorzato, ma ancora pieno del vigore del vezzo; questa volta addirittura per mezzo di una colomba regalata in dono

alla fanciulla amata, come nel Catullo dei Carmina.33

Sed cuinam cupis, o columba, munus deferri? Scio; nam meam puellam amas plus oculis tuis nec ulla vivit mundior elegantiorve. Haec te in deliciis habebit, haec te praeponet nitidis suis ocellis nec tanti faciet suam sororem. Huius tu in gremio beata ludes et circumsiliens manus sinumque interdum aureolas petes papillas. Verum tunc caveas, proterva ne sis; nam poenas dabis et quidem severas, tantillum modo tam venusat poma de tactu vities: et est Diones tutelae hortulus ille dedicatus; numen laedere tu tuum caveto. Impune hoc facies volente diva,

32Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, XI, Ad Fanniam: “Ti supplico, mia cara Fanniella, / occhio di Venere e bellezza d’amore, / fa sí, che io baciucchi queste tue labbruzza / succolenti, tenerelle e morbidelle; / Ti supplico, vita e dolcezza mia, / fammi questa grazie che ti chiedo. / Oh, perché hai paura di tuo marito, tenera mia? / Non aver paura ti bacerò leggermente. / Cosí come l’ape che si studia il molle succo / e sfiora il timo o il croco rosseggiante, / io ti succhierò a mala pena le labbra, / dico queste labbruzza morbidelle, / che mi faranno immediatamente felice, / e misero se tu non volessi.”

33Cfr. Catullus, Carmina: 1, Cui dono lepidum novum libellum; 2, Passer, deliciae meae puellae. 27

ut, cum te roseo ore suaviatur rostrum purpureis premens labellis, mellitam rapias iocosa linguam, et tot basia totque basiabis donec nectarei fluant liquores.34

Al Pontano non mancava la facoltà di descrivere il mondo naturale; ma spesso e volentieri egli amava immedesimarsi personalmente nella scena rappresentata, filtrandola

con la sua fantasia invigorita di classicismo, come qui, nel caso della colomba; e questo non solo per gli argomenti erotici, ma anche per quelli di altro genere, ad esempio quello politico, di cui il libro degli Amores annoverava alcune composizioni. La piú importante

fu una poesia dedicata a Nicola Maria Bozzuto. In questo componimento, scagliandosi

ferocemente contro l’uso delle milizie mercenarie ai suoi tempi, il poeta ammetteva che

la guerra preferiva farla con la carta e con la penna.

Hinc mihi Pierides studium sacrosque colendi vates, deliciis nomina grata meis, hinc nobis, Buxute, decus laudemque paramus; pro castris Helicon, pro duce Musa mihi est.35

Il genio della musa pontaniana non era mai sazio di dar vita personale a tutto ciò cui volgesse lo sguardo, vuoi ai promontori del golfo di Napoli, vuoi alle isole, al vulcano, ai colli, vuoi agli antri marini e alle spiagge solitarie di Posillipo, alle villette fuori città, vuoi ai paesini della campagna napoletana: il tutto sempre personalizzato con nomi di

34Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, V, Ad pueros de Columba, vv.10-31: “A chi desideri essere data in dono, colomba? Eggià, lo so; perché ami la mia fanciulla piú dei tuoi occhi e non c’è al mondo nessuma piú elegante. Questa ti considererà la sua delizia e ti amerà piú dei suoi begli occhi, e persino di sua sorella. Sul suo grembo giocherai felice. Saltellando di quà e di là, le beccherai le mani e il seno e di tanto in tanto lo splendido seno. Ti avviso però di non essere sfrontata, perché ti punirò severamente, se sciuperai a mala pena al solo toccare quei pomi cosí voluttuosi: non dimenticare che quel giardino è consacrato a Venere, perciò sta attenta a non offendere, proprio tu, la tua dea protettrice. Potrai permetterti questo però, senza essere punita, se la dea lo vorrà: che quando ti bacia con la sua rosea bocca stringendoti il becco con le sue labbra porporeggianti, tu afferri giocosa la lingua che sa di miele; e a quel punto dalle tanti e tanti baci fino a quando fluisce il nettare dalla sua lingua.”

35Parthenopeus sive amores, Liber secundus, XIII, Militiam huis temporis damnat, ad Nicolam Mariam Buxutum equitem Neapolitanum, vv. 37-40: “Di qui il mio desiderio di coltivare le Muse e i sacri vati, nomi cari alla mia gioia; è in questo, o Bozzuto, che io mi procuro onore e gloria: per accampamento ho l’Elicona, per condottiero la Musa.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 127). 28

ninfe leggiadre, Patulci, Antiniana, Resina, Nisida, che dai loro comportamenti e

sembianze ricordavano il luogo che esse medesime rappresentavano; come nel caso

dell’ultima poesia del Parthenopeus sive amores, dove il poeta descrisse la conversione del Sebeto in fiume in punizione dei suoi amori furtivi con una Nereide. E qui la materia del libro degli Amores volgeva a termine, non prima però che il poeta facesse la solenne promessa a Sebeto di riprendere a cantare un giorno le sue nozze con Partenope in un’opera diversa, quale sarà di poi la Lepidina.

Haec tibi, quae canerem molli resupinus in umbra, edidit imparibus nostra Camoena modis; tempus erit, caros cum dicemus hymenaeos, ut sit iuncta tuo Parthenopea toro: intera nostri nomen titulusque libelli pro tibi promisso munere pignus erit. 36

La conclusione del libro degli Amores, ultimata da un impegno del genere, dimostrava

che nella mente del Pontano si era di già maturato un abbozzo ben preciso di opere da

comporre. Il solo fatto che egli diede a pegno il nome e il titolo del suo primo libretto,

onde garantire la serietà di tale disegno poetico, indicava che tutta la materia e i temi

trattati nel Parthenopeus sive amores erano ormai il solo interesse del poeta da cui egli mai piú si sarebbe allontanato. E difatti l’impegno fu mantenuto a quaranta anni di distanza con la composizione della Lepidina, quando ormai il vecchio Pontano, ritiratosi nell’ozio della sua villa ad Antignano, poteva ora attendere liberamente alla sua musa.

Non diversa fu la sorte dell’Urania, il capolavoro astronomico e astrologico del

Pontano. In quest’opera didascalica egli aveva preso ad imitare l’Astronomicon di Marco

Manilio, poeta vissuto al tempo di Ottaviano Augusto e Tiberio, il quale imitò a modello

36Parthenopeus sive amores, Liber secundus, XIV, Ad Musam, de conversione Sebethi in fluvium, vv. 63-68: “Queste cose, perché le cantassi in tuo onore, disteso supino sotto l’ombra molle, mi narrò nell’impari metro la mia Musa; verrà un giorno in cui canterò le dolci tue nozze e come Partenope ti sia unita nel talamo: fino ad allora, il nome e il titolo di questo mio libretto saran pegno del dono che ti ho promesso.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 133). 29

strutturale per la sua opera il De rerum natura di Lucrezio. Nei cinque libri dell’Urania il

Pontano cantò con lo stesso entusiasmo didattico dell’antico poeta latino gli argomenti di

astronomia e astrologia: le origini del cosmo, le regioni dello spazio, le stelle, i pianeti, e

del loro influsso sulla terra; donde tutte le cose terrestri, tanto quelle dell’uomo quanto

quelle degli animali, delle piante, del mare e dell’aria ne ricevevano moto e vita.37

A parte la notevole trattazione scientifica degna di un Tolomeo, la componente piú affascinante dell’Urania si distinse grazie all’abilità del Pontano di amalgamare in un insieme organico astronomia, astrologia e mitologia: un felice connubio metamorfico per il quale non vi fu regione del cosmo, astro o pianeta che non diventasse un nume. Ogni regione della volta celeste, vuoi una costellazione, vuoi un segno zodiacale, vuoi una stella, si trasmutò in un essere un dí vivente sulla terra. L’Urania era un’opera molto complessa, il cui unico difetto consisteva nella stragrande abbondanza degli argomenti trattati, tanto quegli scientifici e zodiacali, quanto quelli mitologici. Un eccesso dovuto

non solo al fatto che il Pontano la curò con grandissimo zelo, ma anche perché egli

nutriva molta fede in questa scienza. La difese persino dalle accuse di Pico della

Mirandola, che nelle Disputationes in astrologiam aveva apertamente condannato

l’astrologia, essendo l’uomo dotato di libero arbitrio.38

Diversamente dal Pico, il Pontano credeva che il fattore determinante sulle azioni

dell’uomo non dipendeva soltanto dall’influsso degli astri, ma anche dall’insieme delle

37Su tale argomento vedasi Georg Roellenbleck, “L’astrologia nella poesia del Pontano: L’Urania,” L’astrologia e la sua influenza nella filosofia, nella letteratura e nell’arte dall’età Classica al Rinascimento. Istituto di studi umanistici F. Petrarca. Milano: Nuovi orizzonti, 1992, pp. 187-198.

38Per la difesa del Pontano contro Pico della Mirandola si consulti il saggio di Ornella Pompeo Faracovi, “In difesa dell’astrologia: Risposte a Pico in Bellanti e Pontano,” Nello specchio del cielo, Giovanni Pico della Mirandola e le “disputationes” contro l’astrologia divinatoria, pp. 47-66. Atti del Convegno di studi, Mirandola, 16 aprile 2004, Ferrara, 17 aprile 2004. A cura di Marco Bertozzi, 2008. Firenze: Olschki, 2008. 30 sue naturali inclinazioni, nonché dalle circostanze della vita, dalle istituzioni civili e dal libero volere umano. Non solo, e in questo precedeva di gran lunga il Vico, egli affermava anche che quegli esseri mitici che popolavano l’immensità degli spazi eterei altro non erano che creazioni della paura; donde la favola di Giove, le superstizioni, l’origine dei sacrifici, il rito, la religione.

Qualia dum attonitae mentes mirantur, et horror corda quatit, certae nec cognita causa ruinae, invenit metus ipse Iovem, cui fulmina dextrae assignant ac tela nigris humentia nimbis et, coelo resonante, leves per inania currus. Has iras Iovis esse canit longaevus ; adversi non aequa dei portenta sacerdos terrificat; dira ingeminat per pectora curas relligio, illa quidem magnorum causa malorum.39

4. Il poeta e il segretario di stato

Sul suo letto di morte re Alfonso fece le seguenti raccomandazioni al suo amatissimo figlio Ferdinando: “Se volete viver quieto, non imitate me in tre cose: primo, sbarazzatevi di tutti gli Aragonesi e Catalani da me esaltati; e Italiani, massime regnicoli, elevate agl’impieghi: secondo, i nuovi aggravii da me posti, ritornate alla misura antica: terzo, conservate la pace fatta con la chiesa, e tenetevela amica, se sapete.”40

39Cfr. Urania, I, vv. 679-687, 697-704: “Mentre le attonite menti guardano stupefatte, e il terrore scuote i petti, e incognita resta la causa di una violenza certa, ecco la paura stessa inventare Giove e attribuirgli le folgori, saette che sfolgorano umide tra le nere nubi, e il suono risonante del cielo attribuito al correre dei suoi carri nello spazio. Il vecchio aurispice li proclama ira di Giove, tanto che il sacerdote li presenta come manifestazioni terribili dell’ostilità del Dio. La religione, infatti, moltiplica le angosce delle menti sconvolte, a sua volta causa di grandi mali.”

40Tallarigo, op. cit., p. 63.

31

Dei primi due consigli la storia non permette di sapere se Ferdinando li abbia seguiti o

meno; ma per il terzo, anche se avesse voluto farlo, non ne ebbe l’opportunità, perché il

papa gli volse immediatamente le spalle, dando luogo a una serie di disastrosi eventi

strorici che occuparono gran parte della vita del Pontano, sia come soldato che come

negoziatore politico.

Callisto III,41 degno rappresentante della stirpe dei Borgia, ambizioso, stravagante,

testardo, fedigrafo, e, soprattutto accecato dall’amore dei suoi ignobili nipoti, per i quali avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur spregevole ed abbietta che fosse per aumentarne il prestigio, aizzò i baroni del reame napoletano alla ribellione nella speranza di veder deposto dal trono Ferndinando e di collocarvi Pietro, il piú perfido dei suoi nipoti.42

Quindi, dichiarando estinta con bolla pontificia la legittima discendenza di Alfonso il

Magnanimo, pretese che il regno di Napoli fosse immediatamente devoluto alla Chiesa.

Questa ignobile politica papale, mirante al dominio di Napoli, diede avvio a un

quarantennio di grandi sconvolgimenti politici nella penisola; tanto che se da un lato lo

Stato della Chiesa aveva destabilizzato ancora di piú il fragile equilibrio politico della

penisola, dall’altro aveva ormai eradicato la speranza di una unificazione nazionale.

Di questo clima bellicoso, fatto di tradimenti e vendette, di alleanze effimere e di

accordi mai rispettati, il Pontano non solo fu l’accurato storiografo, ma ne fu un attore

importante, sia a fianco del suo re sul campo di battaglia, che in figura di statista e

negoziatore. Grazie alla sua avvedutezza politica, egli fu capace di frenare l’ira della

41Su Callisto III e i suoi disegni politici vedasi Paolo Brezzi, “La politica di Callisto III,” Studi romani, 7 (1959): 31-42.

42Sulla Guerra dei Baroni si rimanda a Ernesto Pontieri, “La guerra dei baroni napoletani e di papa Innocenzo VIII contro Ferrante d’Aragona in dispacci della diplomazia fiorentina,” Archivio storico per le province napoletane, 94 (1977): 77-212. 32

Santa Sede per quasi quattro decenni, onde nessuno fu capace di averla vinta con Napoli

fino al 1495, allorché Carlo VIII fece ingresso a Napoli.43 In questa occasione il Pontano,

consegnando le chiavi di Castel Nuovo al re angioino, tenne un’orazione intorno alla

quale si accese, fin dal secolo XVI, una disputa finora non risolta, sulla prova di

servilismo ed opportunismo del Pontano.44 Ciononostante nella storia letteraria del

Quattrocento latino non è esistito nessun autore che come il Pontano abbia saputo

infondere nelle sue opere i segreti piú intimi della propria vita personale.

Nei suoi scritti abbondano riferimenti alla sua vita politica e familiare, emergono gli

stati d’animo, affiorano le finezze dell’uomo di corte, risalta l’audacia dell’uomo d’armi e

d’amore, la figura del padre, del marito, dell’amante: insomma un continuo registro di

una vita perfettamente ritratta dagli anni giovanili a quelli della senilità; un libro

instancabilmente ripristinato dal mutare dell’età che, seguendo di pari passo la vita del

suo autore, traccia un’immagine totale dell’uomo; una storia poetica foggiata secondo i

parametri properziani dell’epos e dell’ethos, per merito dei quali tra l’arte e la vita

bisogna assolutamente optare per la prima. In questo libro non esiste un limite, un punto

di demarcazione, un divorzio fra l’uomo e il poeta, perché in esso vita equivale a poesia,

e viceversa. Né fra i tanti celebri umanisti del secolo decimoquinto ci fu alcun autore

capace di tale assoluta dedizione alla poesia. Il Pontano fu unico in questo, riuscendo

43Sull’ingresso dei Francesi e l’immediato ritorno degli Aragonesi a Napoli vedasi Carol Kidwell, “The Neapolitan elites and the French and Spanish invasions,” The World of Savonarola, Italian elites and perceptions of crisis. Edited by Stella Fletcher and Christine Shaw (Burlington, Vermont: Ashgate: 2000), pp. 135-150.

44Cfr. Alessandra Mantovani, Giovanni Pontano. De sermone, Piccola Biblioteca Letteraria (Roma: Carocci editore, 2002), p. 8: “La letteratura di quell’evento resta a tutt’oggi icerta e controversa, sia per quanto concerne le circostanza e la natura del discorso, pronunciato forse non durante la cerimonia dell’incoronazione, ma in occasione della consegna delle chiavi di Castel Nuovo e quindi, in qualche modo, atto dovuto; sia quando si consideri la vicenda del Pontano dopo il pur effimero ritorno degli Aragonesi a Napoli.” 33

persino a superare gli stessi maestri dell’antichità: Catullo, Tibullo e Properzio, i quali,

essendo morti giovani, lasciarono i loro libri polarizzati sulla passione amorosa e

sull’esigenza edonistica della loro età giovanile. Il Pontano, avendo avuto la fortuna di

vivere fino a tarda età, poté essere il cantore della vita coniugale, dei morti, dei santi; di

un’intera vita intesa come sacerdozio poetico in tutto e per tutto, della quale, ben notava

Francesco Asolano nel lontano 1518 in una dedica dei carmi pontaniani ad Antonio

Mocenigo:45

Vel amores exprimit, vel mortuorum laudationes complectitur, vel Divorum numen, ac maiestatem suscipit, gloriamque amplificat. Nulla certe virtus, nulla venustas, nullus cultus, nulla gratia in illis desiderari potest. Nam ita iocatur, ludit, amat, dolet, queritur, irascitur, miseratione tangitur, describit, laudat, docet, ut quamvis alia aliis magis placeant, universa tamen ostendant plus divinitatis authori superfuisse, quam communis hominum conditio, et sors ferant.46

Da quanto si è osservato finora, sin dai tempi del Parthenopeus sive amores e delle

prime stesure dell’Urania, l’impegno umanistico del Pontano si era già orientato in due

direzioni diverse. Da un lato prevalse la sua passione per la lirica, nutrita dalla lettura dei

poeti elegiaci ed epigrammatici; dall’altro il suo entusiasmo per argomenti piú

propriamente di carattere didascalico-filosofici, favoriti dal suo grande amore per l’astrologia e la filosofia. Egli seppe sempre far concorrere sia l’uno che l’altro interesse

nelle sue opere, quale erudito e felice rispecchiamento della sua personalità, del suo

carattere, del suo modo di essere, della sua sensibilità umanistica, dominata unicamente

dall’arte, dalla scienza, dal dovere civile e da quello familiare.

45Su tale argomento vedasi tutta la parte introduttiva in Giovanni Parenti, Poëta Proteus alter: forma e storia di tre libri di Pontano (Firenze: Leo S. Olschki, 1985), pp. 1-14.

46Idem, p. 4: “Vuoi gli amori che esprime, e le orazioni funebri che egli compone, vuoi la volontà e lo splendore degli Dei che egli sostiene amplificandone la gloria, in lui non si può certamente desiderare altra cosa: nessuna grazia, nessun culto, niente. Così facendo egli scherza, si diverte, ama, si lamenta, si lagna, si sdegna, è preso da compassione, descrive, loda, insegna conformemente alle cose che fra le une e le altre piacciono maggiormente di piú: in lui tutto lo scibile può nondimeno essere descritto, purché si mostri piú degno del divino medesimo, della qual cosa, avendo la sorte favoritolo come condizione comune degli esseri umani, egli ne sovrabbondava.” 34

Questi due atteggiamenti letterari del Pontano, concomitanti con lo spirito dell’Umanesimo, lo seguirono tutta la vita in una vastissima produzione di opere, che cominciate, ideate o pianificate piú o meno nel periodo in cui il trono di Napoli passò nelle mani di Ferrante, 1458, come quelle che nacquero di poi, finirono per essere ultimate negli anni della sua vecchiaia, perché egli si adoperò instancabilmente a levigarle e raffinarle nel miglior modo possibile: forse un difetto dovuto all’esuberanza dello spirito napoletano verso la città, la famiglia, le bellezze naturali dei luoghi; oppure un pregio, essendo egli molto prudente e preoccupato nell’affinare i suoi capolavori. Nel

De fortitudine,47 ad esempio, un’opera didascalica dedicata al suo discepolo Alfonso, dove egli lo avverte dell’imminente minaccia turca e su come moderare “il proprio timore e fiducia” nel prepararsi alla pugna e mantenersi forte, apre un ragionamento filosofico sulla virtú del giusto mezzo, in un appassionato discorso che è dovuto o ad eccesi della sua monumentale erudizione, oppure ad esuberanze sentimentali di tipico stampo partenopeo.

Est igitur virtutis huius proprium affectus hos moderari ac sub ratione continere, quo medium retinere possit, a quo mediocritas dicta est. Etenim fortitudo cum sit virtus, mediocritas sit quaedam oportet. Medii autem ea vis ac natura est, ut in neutram extremorum partem propendat. Ab utroque enim recedit, quando utrumque inaequabile est. Quippe cum alteri exuperantia, alteri defectus insit. Quod cum sit, inter illa duo extrema, quae sunt parum ac nimis, virtus necesse est constituatur: eritque virtus, ut Horatius definit, medium vitiorum, atque utrinque reductum. Cum autem in ipsa vitia hinc deficiendo, illinc exuperando praecipitemur, efficitur, ut medium illud aut perinde deseramus ac si contemptui ipsum habeamus; ita quidem de via digressi, ut modum mensuramque sponte excesserimus, aut ab eo sic recedamus, ut non modo recusare, verum etiam reformidare ipsum medium videamur. Ex quo fit, ut nec rerum nec mensurae ratione habita, nunc exuperante animo, nunc rursum deficiente, proprium virtutis munus implere nequeamus. Nec vero audiendi sunt qui adversus haec disserere coeperunt minuti philosophi, aut potius nullo modo philosophi, qui mihi illud sane velle suadere videntur, ut de hominum actionibus tollatur mensura, ea videlicet, sine qua ne artifices quidem consummatum facere aliquid valeant. Est enim artificis et optimi cuiusque maxime metiri quae facit atque ad mensuram redigere ac numeros, quo singulae sibi inter se partes conveniant, quibus ipse dimetiendis aequandisque intentus, ut qui a suis numeris rectaque mensura nulla e parte recedat, opus suum tale efficit cui, quod de opere dici maxime consummato solet, nihil addi queat, nihil eximi, quod praestare atque efficere proprium

47Sul piano cronologico delle opere scritte dal Pontano la stesura del De fortitudine segue quella del De principe e risale al 1475. È interessante notare, intanto, che questi due scritti, insieme al De obedientia e ai due dialoghi Charon ed Antonius furono le prime opere pontaniane passate alla stampa nel 1490. 35

est mensurae. Quocirca quando omnis affabrefactio ex eo est, ut nec magis quid aut productum habeat, ut subductum quam ratio, quam natura, quam res denique ipsa quae fit postulat, nimirum laus omnis tum artificis tum operis est a medio, cuius, ut dixi, iudex est mensura. Docent hoc pictores in primis et caelatores et qui vocantur architecti. Rerum quoque scriptores ac poetae duo ante omnia fugiunt, alterum ne quid insolens ac turgidum in dicendo habeant, alterum ne quid humile et abiectum, quae cum fugiant, quodnam magis sequentur, quam quod inter duo haec positum et constitutum est? Id certe nisi medium esse nequit, quando ab utroque extremo, quae medii natura est, recedit. Ergo etiam poëtae virtus ac laus ex hac medii observatione gignitur. Quid quod physicis quoque placet, ab uno ad alterum extremum, nisi per medium, aditum esse nullum. Sed linquamus hac in parte physicos, ne aliunde magis quam a re ipsa sumere argumenta videamur. Nec poëtica profecto nec ars ulla tam est exacta, tamque operi examussim faciendo intenta, quam est virtus; quae tanto magis mensuram exigit, quod in faciendis operibus facilius est invenire medium, quam in ipsis aut actionibus aut affectibus. 48

48Per il De fortitudine, l’unica copia esistente in Nord America è custodita preziosamente alla Brown’s University Library (Reference# BMC VI.865). Si tratta di una copia originale stampata il 15 settembre, 1500, dalla tipografia Mattia Moravo di Napoli: Joannis Joviani Pontani de fortitudine ad Alphonsum ducem Calabriae liber incipit qui est fortitudine bellica et heroica. Impressum NEAPOLI per MATHIAM MORAVUM, atque emendatum accuratissime anno Salutis Dominicae M.CCCC.LXXXX (1490). Il passo citato è riportato fra le pagine a.íííí e b.í. “È quindi virtú della propria individualità moderare il timore e la fiducia entro i limiti della ragione, affinché si possa in essi raggiungere un equilibrio, detto mediocrità. Perché la fortezza, infatti, per essere virtú, per chiamarsi tale, necessita essere tale mediocrità. Ma siffatta forza deriva dalla natura del mezzo stesso, ossia dalla sua centralità, dato che propende nella parte neutra degli estermi. E dal momento che è ineguale in ambo le parti, certamente si disperde in esse, poiché nell’esuberanza dell’una coesiste il difetto dell’altra. E pertanto, tale deve essere la virtú, necessariamente costituita fra le due estremità, che non sono troppo eccessive. Sarà dunque virtú, come stabilito da Orazio, l’equilibrio degli eccessi, giustaposta esattamente fra l’una e l’altra parte. Al contrario, distaccandosi dagli stessi vizi di qua e superandoli di là, siamo sopraffatti da quel vizio; sarebbe a dire, come se nel momento in cui lo abbandoniamo, ne riceviamo la parte spregevole dello stesso. Senza dubbio, cosí come usciamo fuori dalla retta via, allontaniamo spontaneamente modo e misura, ma non appena rientriamo in essa di nuovo, ci accorgiamo però che il vero rifiuta e teme anche lo stesso equilibrio. Ne risulta che ora con animo sopravvivente, di poi con animo morente, non siamo piú in grado di soddisfare l’ufficio della propria virtú, né di capire il fenomeno stesso, né dell’argomento stimato. E neppure bisogna ascoltare i filosofi da strapazzo, i quali, volendo sostenere l’argomento sanamente, me ne hanno parlato o piuttosto per niente o a tal punto che tolsero di mezzo la misura dalle azioni degli uomini, veramente quella; senza la quale, se mai, gli autori avrebbero fatto qualcosa di perfetto. È difatti dell’individuo ottimo e artificioso stimare sommamente ciò che fa e ricondurre copiosamente alla misura, grazie alla quale le parti si confano una per volta tra esse medesime con nessun intento di volerle misurare e uguagliare, affinché nessuna misura si scosti direttamente dalle sue opere. Per chi è solito massimamante essere nominato per l’opera, tale sua opera fa sí che niente può essere aggiunto, niente sottratto, perché il distinguersi e dimostrare se stesso vuol dire misura. E per questo, giacché ogni modo di fare con arte gli è naturale, come se davvero la natura stessa avesse creato a buon ragione tal cosa in veste di ragione, cosí come il creato richiede, la magnificenza di ogni autore, di ogni opera nasce dal mezzo, del quale, come ho detto, il giudice è la misura. Questo insegnano principalmente i pittori, i cesellatori e alcuni che si chiamano architetti. Altresí gli scrittori e i poeti fuggono questo anzitutto, l’uno per non essere turgido e inesercitato nell’arte del dire, l’altro per non essere rozzo e spregevole. E quantunque sbuffino, a cosa aspirano maggiormente, se non a quello che fra le due cose fu stabilito? Certamente non può essere che il mezzo, la cui natura si scosta da ambo le parti. Pertanto, ancora una volta, la virtú e la lode del poeta viene raggiunta da questa regola del mezzo. Che cosa altresí piace ai fisici, che dall’uno all’altro dell’estremo, fuorché il mezzo, hanno affrontato il nulla? Ma lasciamo da parte i fisici piú che ogni cosa e riprendiamo gli stessi argomenti. Né la poetica certamente, né alcun’arte è tanto esatta da reputarsi opera perfetta quanto la virtú. La quale quanto piú misura richiede dalle azioni e dagli affetti, tanto piú facilmente raggiunge il mezzo delle opere da compiere.” 36

Siffatto insistere sulla virtú da ottenersi a qualsiasi costo perché necessaria per il ben

vivere implicava intanto l’ausilio della fortuna per il ben riuscire; alla qual cosa il

Pontano prestava grandissima fede, essendo egli consapevole dell’impossibilità di

raggiungere la virtú senza che ci fosse una qualche assistenza della fortuna: pensiero che

in sostanza si accordava con quello ovidiano del Tristia, in cui l’antico poeta, negli anni

della senilità per l’appunto, esprimeva il suo affanno e preoccupazione per la gloria

poetica.

Rara quidem virtus, quam non Fortuna gubernet, quae maneat stabili, cum fugit illa, pede. -siqua tamen pretii sibi merces ipsa petiti- inque parum laetis ardua rebus adest, ut tempus numeres, per saecula nulla tacetur, ut loca, mirantur qua patet orbis iter.49

Anche il Pontano negli anni della vecchiaia, già amareggiata per la morte della figlia

Lucia (1479) e della moglie Adriana (1490), dovette attraversare un periodo di sventure strazianti, quale il dolore per la morte del figlio Lucio (1498), nonché di lí a poco per quella dei suoi amici Pietro Compatre, Gabriele Attilio, Elisio Gallucci e infine della giovane ferrarese di Argenta, Stella, e del figlioletto Lucillo di appena trenta giorni natogli da questa. Allo stesso tempo, oltre a queste calamità personali, il poeta dovette assistere al crollo della monarchia aragonese, vittima dell’alleanza fra Ferdinando il

Cattolico e Luigi XII. Ma quantunque questa sequela di lutti e dispiaceri avessero

amareggiato il suo animo, egli trovò sempre conforto nel suo carattere indomabile di

49Cfr. Ovidio, Tristia, V, 14, vv. 29-34: “Rara è in verità la virtú che non sia guidata dalla fortuna / e che rimanga con piede saldo quando la fortuna l'abbandona; / ma se una virtú trova solo in se stessa la ricompensa cercata / e si conserva con fierezza nei momenti poco lieti, / si parla di lei, a calcolarne il tempo, in tutti i secoli / ed è ammirata in ogni luogo, ovunque il mondo si estende.” 37

studioso, sin quando la morte lo sorprese proprio quando stava per finire il De Fortuna e

il De Sermone (1503).50

His casus solorque meos fragilemque senectam. Delia nulla mihi, nulla Corinna seni est. Ficta iuvant, quae nostra tamen patientia fatum aut fugit aut mollit, si superare nequit. 51

Cosa fosse questa fortuna il Pontano cercò di spiegare attraverso un ragionamento

metafisico in cui egli cercò di riconciliare il pensiero classico con quello del

cristianesimo, pur non tralasciando l’astrologia. Ne conseguiva che la fortuna era un

qualcosa che veniva dall’alto, che il suo impulso era generato da Dio, ed infine, perché il

presagio si avverasse, c’era sempre bisogno di un essere superiore che eseguisse le

promesse delle stelle. Intanto, fortuna o meno, fra tante calamità personali, il Pontano non

abbandonò mai il proprio contegno di studioso; al contrario, grazie alla sua serietà di

scrittore, costantemente alla ricerca di un linguaggio raffinato che esprimesse le naturali

inclinazioni dell’essere umano, egli seppe infondere nelle sue opere l’ardore e la passione

dell’umanista aspirante all’immortalità della fama poetica: traguardo sublime dei grandi

poeti tra i quali egli si collocava.

50Per l’argomento del De fortuna vedasi Mario Santoro, “Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento,” Renaissance Quarterly, 23, 2 (1970): 165-168. Per il De sermone, con traduzione italiana e testo latino a fronte, vedasi Alessandra Mantovani, Giovanni Pontano. De sermone, (Roma: Carocci editore, 2002); oppure, De sermone libri sex, ed. S. Lupi e A. Risicato. Lucani: Thesauri Mundi, 1954.

51Cfr. Eridanus, II, 31, vv. 67-70: “Cosí mi consolo delle sciagure e della fragile vecchiaia. Nessuna Delia per me, nessuna Corinna per il vecchio. Mi appago d’illusioni: un modo di sopportare che, se non vince il fato, lo elude e lo mitiga.” 38

5. Ambiguità: un dilemma da aggirare

Non di rado gli scritti del Pontano possono essere fraintesi; in modo particolare

quando della sua vasta produzione letteraria vengono lette le opere di maggior rilievo, ignorando le rimanenti. L’iniquità di questo tipo di letture eseguite paratatticamente, in maniera antologica, induce a credere che l’autore sia una persona ambigua, dalla doppia personalità: uno scrittore di argomenti erotici e allo stesso tempo un gran maestro di moralità, di virtú civiche, un uomo dal senso religioso molto profondo; onde nasce la confusione su chi sia il vero Pontano o la sua musa ispiratrice.52

Ma da una lettura piú ampia dei testi pontaniani è possibile percepire non solo il loro

giusto rilievo artistico nel contesto della società nella quale e per la quale furono

composti, ma anche la vera disposizione umanistica del loro scrittore, il cui

atteggiamento è quello di non abbracciare un singolo indirizzo ideologico, ma trattare a fondo tutti i rami dello scibile pur attenendosi alla realtà e concretezza della vita; e affrontare i problemi delle piú riposte istanze umane e sintetizzarne e raffinare la

molteplicità dei suoi temi.

Per gli scritti erotici ad esempio, basta sfogliare qualche pagina dagli Hendecasyllabi

seu Baiae per rendersi immediatamente conto di quanto possente sia l’ebbrezza

voluttuosa dei versi pontaniani, che già dalla prima lirica, anteposta come manifesto alla

52Già si è visto dalla severissima nota di Vittorio Rossi nella parte introduttiva fino a che punto la poesia erotica del Pontano fosse stata fraintesa come poesia lasciva. In quanto all’equivoco sulla doppia personalità del Pontano si consulti Giuseppe Saitta, Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento (Bologna: C. Zuffi, 1949-51), p. 639: “In lui non ci sono, come altri ha detto, due personalità, ma un’unica personalità, la quale vive e si rispecchia e spicca con contorni precisi nei Dialoghi e nei trattati.” 39 raccolta, è evidenziabile la natura di un poetare in cui si divulgano i segreti di Venere

senza paura di peccare contro la pudicizia:

Huc huc, Hendecasyllabi, frequentes, huc vos quicquid habetis et leporum iocorum simul et facetiarum huc deferte, minutuli citique. Quod vos en pretium, aut manet voluptas? Inter lacteolas simul puellas, inter molliculos simul maritos ludetis simul atque prurietis. Dum tractat tumidas puer papillas, contrectat tenerum femur puella, tractat delitias suas maritus, temptat delicium suum puella, et ludunt simul et simul foventur lassi, languidulique fessulique, tunc vos, Hendecasyllabi beati, quot, quot oscula morsiunculasque, quot, quot enumerabitis duella? Quot suspiria, murmura et cachinnos, cum furtim liceat sopore in ipso contrectare papillulas sinumque, occultam et foemori admovere dextram.53

Ispirato dalla musa di Catullo, in questa raccolta il poeta canta le letizie dei bagni di

Baia, che è ancora ai suoi tempi, sin dall’antichità, la terra privilegiata della gioia e del piacere sessuale, dove: “Praegravida recedet alvo, quae venit vacua.”54 È qui, in questo luogo ameno, vero miracolo di mare e natura, che il Pontano invita amici e ragazze ad abbandonarsi alle dolcezze d’amore, ai sospiri, ai gemiti, alle risa. Ad ognuno di loro il

53Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber primus, I, Musam alloquitur, vv. 10-30: “Qui, qui correte, Endecasillabi, / in fitta schiera; qui, qui portate / veloci e piccoli, quante mai grazie, / facezie e giochi voi possedete. / Quale compenso, o qual piacere / per ciò vi attende? Fra pupe candide, / fra gli infrolliti loro mariti, / voi giocherete e andrete in fregola. / Mentre le turgide mammelle il giovane / già va palpando e la ragazza / il lombo tenero, palpa il marito / le sue delizie, tasta la donna / il suo gingillo e insieme scherzano / e si sollazzano, finché son stanchi / languidi e fiacchi, Endecasillabi, / o quanti baci, quanti morsetti, / quante battaglie, allor, felici, / voi conterete? Quanti sospiri, / gemiti e risa, quando furtivi, / pure nel sonno, si può palpare / mammelle e seno e occulta al femore / stender la mano?” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., pp. 289-291).

54Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber primus, VII, Balneae loquuntur, vv. 1-3: “Nostrum si titulum, puella, nescis, / hic est: “Praegravida recedet alvo, / quae venit vacua”; hoc habet tabella.” “La nostra insegna, se non lo sai, / fanciulla, è questa: Col ventre colmo se n’andrà quella che venne sterile. Sulla tabella così sta scritto.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p. 295). Da questi tre versi in particolare, posti come avviso alle fanciulle che vanno ai bagni di Baia per la prima volta, è evidenziabile la natura licenziosa di queste liriche. 40

poeta dedica numerosissimi versi, specialmente a Focilla, la vera regina di queste liriche,

la cui bellezza sensuale rievoca quella dell’Afrodite Cnidea di Prassitele; eccetto che essa

non è gelido marmo, ma viva personificazione della dea bagnantesi alla fonte acidalia,

giacché ride, canta, balla, esaspera gli amanti con i suoi sguardi provocanti, ma

soprattutto perché quando nuda giace nel letto, fra i voluttuosi giochi d’amore, essa non è

piú Amore, ma Venere in persona:

Si rides, veneres, Focilla, rides, si cantas, veneres, Focilla, cantas, et saltans veneres, Focilla, saltas; demun sunt veneres, Focilla, quicquid ludisque et loqueris facisque agisque. At cum nudula lectulo recumbis inter delicias libidinesque, tunc non es veneres, Venus sed ipsa, Venus, ne dubita, Focilla, tunc es. 55

Cosí come negli Hendecasyllabi, dove legge suprema è l’appagamento dei desideri

sessuali, non diverso è il tono di calda sensualità nei libri degli Amores, nei versi Iambici,

nella Lepidina, nell’Eridanus; testi, che messi a confonto con quelli di stampo religioso, tipo l’Aegidius o il De Laudibus Divinis ad esempio, denotano ipso facto un inverosimile

contrasto stilistico e tematico, giacché dalla libera e festosa licenziosità di un poetare

degno di una Lucrezia o di una Cleopatra, si passa ad un contegno stilistico di tale

devozione cristiana da sembrare tratto tal quale dagli scritti dei Padri della Chiesa; ad

esempio il seguente sermone dal dialogo Aegidius, in cui si svolge il testo evangelico di

55Dagli Hendecasyllaby seu Baiae, Liber secundus, VII, Ad Focillam: “Se ridi, veneri, Focilla, ridi, / se canti, veneri, Focilla, canti, / e balli, veneri, Focilla, balli; / tutte son veneri, Focilla, quello / che giochi e parli, o che tu faccia o tratti. / Ma se ignudetta sul letto ti giaci / nelle libidini, nella delizia, / non già veneri, Venere stessa, / ma sì, Focilla, già Venere sei.” (Traduzione di Gino Niccolai Gamba Castelli, Alcuni carmi del Pontano (Firenze: F. Le Monnier, 1945), p. 45). 41

Giovanni: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.”56

Voluit igitur [Christus], quo parte ex omni munus suum impleret, subire hominis officium et ut homo quoque inter homines versari caritatemque suam quo maiorem ostenderet, pati etiam illa quae essent hominum. Quid tu hic oblatrabis, o ingratissime homuntio? An quod necesse esset deum illa pati? In Deo tune mihi eiusque in voluntate necessitatem praetendis, qui nullus indigeat, nullam aut parem timeat aut maiorem potestatem? Quam tu necessitatem deblateras? Benivolentia illa quidem fuit, pietas, amor, caritas. An Decios, patrem, filium, nepotem necessitas traxit pro Romano se ut populo devoverent? . . . Nec omnes [cives] quidem pro patria ruunt in ferrum, aut, ut Virgilius ait, pro libertate, sed optimus ac generosissimus quisque. . . . Credidit antiquitas omnis Palladem Iovis e capite genitam, quo numerum augeret dearum perque eam hominibus sapientiam ostenderet; non credes Deum ipsum ac verum Deum rerumque creatorem omnium per Christum filium succurrisse mortalibus in ruinam prolabentibus? 57

Trattasi di un’omelia fondamentale nell’infrastruttura dell’Aegidius, perché su di essa si impernia, quale scopo del dialogo, tutto l’impegno del Pontano di arrivare a un punto di intesa fra la pietas umanistica contro l’impietas dei fisici; giacché la crisi del suo secolo, che coincide con l’incalzante ripresa scientifica greco-arabo-giudaica, è caratterizzata appunto dal sempre piú ostile opporsi dell’eresia della scienza contro la pietas umanistica tradizionale, che, fra le tante eterodossie, mette principalmente in causa il concetto dell’immortalità dell’anima, laddove per il Pontano essa è un’idea insita dalla natura nel genere umano sin dal tempo dei tempi:58

56Cfr.Vangelo secondo Giovanni, 14-6: “Ego sum via et veritas et vita nemo venit ad Patrem nisi per me.”

57Aegidius, vedi “Sermo Aegidii ad populum,” in Giovanni Pontano, I dialoghi; a cura di Carmelo Previtera (Firenze: Sansoni, 1943) pp. 250-251. “Volle quindi [Cristo], per soddisfare a pieno il suo dono, sottoporsi al servizio degli uomini, e, come uomo fra gli uomini, vivere la sua carità onde mostrarne la grandezza, e allo stesso tempo soffrire tutto ciò che è umano. Contro chi ti scaglierai qui, ingratissimo omiciattolo? Era forse necessario che Dio soffrisse queste cose? Mi vuoi fare pretendere una necessità in Dio e nella di Lui volontà che non ha bisogno di nessuno appunto e che non teme potestà alcuna, pari o maggiore? Di quale necessità vai tu ciarlando, quando in verità la sua fu benevolenza, pietà, amore, carità? Forse che i Deci, padre, figlio, nipote furono tratti dalla necessità a sacrificare se stessi per il popolo romano? . . . Non tutti i cittadini corrono senza indugio contro la spada per la patria, o, come Virgilio dice, per la libertà, ma l’uomo migliore e chiunque fra i piú generosi. . . . L’antichità tutta credette che Pallade fosse nata dal capo di Giove, affinché aumentasse il numero delle dee e per mezzo di lei si additasse la sapienza agli uomini. E tu non crederai che Dio stesso, il Dio vero e creatore di tutte le cose, a mezzo di Cristo suo figlio sia venuto in soccorso dei mortali che stavano per essere piegati in rovina?”

58Sull’argomento della pietas umanistica contro l’impietas dei fisici vedasi Giuseppe Toffanin, Giovanni Pontano, fra l'uomo e la natura (Bologna: N. Zanichelli, 1938), pp. 15-23. 42

Ego vero, ornatissimi viri, ita quidem mihi semper persuasi et pene exploratum duxi, opinionem eam, quae a levissimis quibusdam hominibus probata et culta inolevit, de animorum deliquatione, nuperrime a minutissimis quibusdam Graeciae philosophis ac Cyrenaicae renovatam, quae esset ab ignorantissimis Persidis ac Iudaeae physiologis, tum ob ignorantiam, tum ob vitae morumque lasciviam, multo ante excitata; cum sanctissima illa vetustissimaque immortalitatis opinio cum hominibus simul ipsis ab initio increvisset, quemadmodum et religio, quae nobis ipsis a natura est insita.59

Non diverso è il tono di commisurata eloquenza religiosa quando egli passa a discutere delle virtú morali, il forte della sua filosofia; per le quali, attenendosi a ciò che dice al suo amico Rutilio Zenone, vescovo di San Marco, nella parte proemiale del De Beneficentia, le loro scaturigini o princìpi derivano dalla divinità radicata nell’essere umano dagli dei

60 immortali, “qui rationis atque intellectus, divinae in nobis partis, sunt ministri.”

59Aegidius, op. cit., p. 253: “In realtà, onorevolissimi signori, sono sempre stato in verità cosí convinto e quasi provai che quell’opinione circa la mortalità dell’anima, fu rinnovata recentissimamente dai filosofi della Grecia e della Cirenaica, per ignoranza e lascivia di vita e di costumi insiti in loro dagli ignorantissimi fisiologi della Persia e della Giudea che ne avevano parlato molto tempo prima; laddove questa antichissima opinione dell’immortalità crebbe sin dagli inizi con lo stesso genere umano, cosí come crebbe la religione, che è insita in noi stessi dalla natura.” A testamento dell’immortalità dell’anima, come congenita credenza umana, sono prova le tombe, il cui culto, nella prospettiva pontaniana, nasce in seno alle religioni. Nozione importantissima in quanto prepara la strada al Vico nel terzo dei suoi principi: le sepolture. Cfr. Aegidius, op. cit., p. 253: “Ab initio igitur homines post obitum optimorum, sive regum sive civium sive institutorum sive etiam doctorum hominum, Manes eorum venerati sunt eosque inter divos retulerunt posueruntque aras illis ac templa; nec Graeci id modo servavere ac Latini, sed nationes (ut dixi) omnes etiam ferae atque immanes. Atqui hoc nequaquam fecissent, nisi apud eas immortalitatis animorum viguisset opinio, quae quibus si defuisset, an solicitari eos tantopere par fuisset in illis praesertim quae nihil ad ipsos attinerent? Nam cur, obsecro, introductum esset in funeribus orare deos pro mortuorum Manibus illorumque pacatione atque accessu ad pios ac felices locos, simul si cum corporibus et animi interissent? Ut igitur sanctissima, sic antiquissima etiam ac naturalis de animi immortalitate opinio.” “E quindi fin da principio gli uomini, dopo la morte degli ottimi, o cittadini, o re, o anche dei sapienti, venerarono i loro Mani, li annoverarono fra gli dei ed eressero loro templi ed altari. Né soltanto cosí ne conservarono l’usanza Greci e Latini, ma come dissi, tutti i popoli, anche i selvaggi e crudeli. Nondimeno, in nessun modo lo avrebbero fatto, se non fosse stata vigorosa fra loro l’opinione sull’immortalità dell’anima; la quale quand’anche non fosse esistita, era di si tale eccitazione che i popoli stessi continuavano a crederne e a custodirne la credenza. Per quale ragione appunto, chiedo vivamente, sia stato introdotto nei funerali l’uso di pregare gli dei per le anime dei morti, per la loro pacazione e per il loro accesso in luoghi pii e felici, se allo stesso tempo fossero morti gli animi con i corpi? Sono quindi del parere che l’immortalità dell’anima è santissima, cosí come lo è anche la sua antichissima e naturale esistenza.”

60Cfr. Giovanni Pontano, I trattati delle virtù sociali; a cura di Francesco Tateo (Roma: Ateneo, 1965), p. 67. “La ragione è distinta dall’intelletto, perché rappresenta l’attività argomentante propria dell’uomo, di fronte alla conoscenza intuitiva, propria dell’intelletto, che è la piú alta forma del conoscere, simile alla stessa autocoscienza divina.” 43

In excolendis animis, Rutili Zeno, institutionine plus an diis immortalibus debeamus, ut addubitem illud efficit, quod nisi discendo atque assuescendo in aliquo virtutis genere consumatum evadere video neminem. Sed, cum a fontibus rivi emanent, qui lungius profluentes paulatim tamen augescendo implentur, sic mihi videntur bonarum artium principia, et tamquam ortus, ad deos primum immortales referenda, quorum est muneris ut corpore fruamur et animo iisque etiam sensibus, qui rationis atque intellectus, divinae in nobis partis, sunt ministri.61

Dai pochi esempi finora citati sulla peculiarità degli scritti pontaniani si potrebbe conchiudere e liquidare l’argomento in termini di “innata versatilità” da parte dell’autore, come è stato proposto dal Toffanin62 e da molti critici che tuttora ne accettano la tesi; per la qual cosa è molto facile vedere la figura del Pontano in termini di ambiguità o

molteplicità, se le sue opere vengono interpretate nella loro singolarità, prive di

connessione alcuna col contesto generale dei suoi scritti; mentre l’attività fondamentale del suo ufficio poetico, filosofico o didascalico è esattamente l’opposto, cioè di raffigurare la vita in tutte le sue molteplici manifestazioni, ossia nella sua sacrale totalità,63 senza bisogno di dissembrarne l’insieme, il tuttuno armonico: la vita interpretata e vissuta nell’ottica di un uomo padrone del suo mondo, dove tutto è connesso e disposto armoniosamente; un universo dove egli agisce senza impaccio, risoluto di raggiungere il piú alto grado possibile di eloquenza e di ricchezza di pensiero, che, dall’esempio umanistico del Petrarca, può essere conseguita solo attraverso la disciplina letteraria e la cura dell’anima.

61Idem: “Nell’ingentilire gli animi, Rutilio Zenone, non so se dobbiamo piú all’educazione o agli dei immortali. Sono arrivato a tale dubbio, perché non vedo nessuno assuefare a perfezione qualche virtú, se non attraverso uno studio consumato. Ma, come dalle fonti scaturiscono i fiumi, che scorrono a poco a poco, per poi finalmente riempirsi ingrossandosi, cosí mi sembrano i principi delle virtú (delle arti buone), le cui origini, sono da attribuire primieramente agli dei immortali, dei quali è dono se noi ci compiacciamo di un corpo e un’anima, come anche quei sensi, che sono i promotori della ragione e dell’intelletto, la parte divina in noi.”

62Giuseppe Toffanin, Giovanni Pontano, fra l'uomo e la natura (Bologna: N. Zanichelli, 1938) p.12.

63Eberhard Gothein, Il rinascimento nell'Italia meridionale / traduzione note e indici a cura di Tommaso Persico (Firenze: Sansoni, 1915), p. 253: “L’attività per quest’uomo era la vita; anche la sua importanza filosofica come teorico della vita multiforme del suo tempo non si intenderebbe, s’ei non avesse partecipato praticamente a tutte le situazioni da lui rappresentate.” 44

Consapevole che a nulla serve la sapienza individuale senza ingegnarsi di condividerla

col prossimo, egli si dimostra maestro in tutte le discipline. Grazie a questo suo

temperamento, pregno di un’humanitas generatrice di civiltà, i suoi stessi contemporanei,

stando alla testimonianza di Frate Egidio da Viterbo, sgomenti e meravigliati al cospetto

di un uomo di sí tale ingegno, tanto nell’attività politica quanto nell’opera sua poetica, filosofica e didascalica, non sanno far altro che disputare e gareggiare a vicenda in quali delle arti il Pontano “meglio rifulga”: un’ammirazione generale, per la quale, dovunque si parla di lui:

Chiunque parli di letteratura o di studi, d’astronomia o di morale, di oratoria e di poesia, sempre incomincia da te, su te si fonda, con te conclude: o se tu fossi meco, udresti spesso gli interlocutori contendere fra loro per volerti considerare ognuno uno specialista della sua materia. I filosofi ti considerano filosofo, i vati vate, i matematici matematico, e dubbio resta pur sempre quale delle arti in te meglio rifulga.64

A differenza dei suoi contemporanei, abbagliati da tanta erudizione e talento artistico,

il problema fondamentale per il critico odierno non risiede principalmente nel fatto che il

Pontano si dimostri maestro di tante discipline, ma nel sapere individuare quali fra le sue

opere siano effettivamente quelle fondamentali per spiegare, rivelare e narrare la sua

figura; giacché, sia per la robustezza degli argomenti che egli tratta con tanta finezza,

che per la vastissima quantità dei suoi scritti, il piú delle volte la scelta lascia il dubbio di

avere omesso qualcosa d’importante, non tanto per le sue liriche, ma piú che altro per

quei tipi di opere, da cui emerge sempre a guisa di comune denominatore il bisogno di

riproporre una nuova filosofia morale, stimolata da concreti esempi umani e storici, come

in Aristotele e in vari altri autori dell’antichità. D’altronde, cercare di inquadrare la figura

artistica del Nostro senza alcuna nozione del suo pensiero filosofico, sarebbe come

64È la testimonianaza di Frate Egidio da Viterbo in una lettera di ringraziamento al Pontano per il dialogo dedicatogli (l’Aegidius). Cfr. Francesco Fiorentino, Il Risorgimento filosofico nel quattrocento, (Napoli: Morano, 1881) p. 264. 45

discutere la poesia del Leopardi senza considerare affatto il suo Zibaldone di pensieri; e si continuerebbe quindi a fraintendere come ambigua la personalità dell’artista Pontano,

mentre in lui esiste un’unica personalità, che si rispecchia attraverso un’arte ricca di

terrestrità, nella quale non esiste una separazione fra il poetare e il filosofare: un’unica

personalità per la quale poesia e filosofia sono un mirabile tutt’uno organico.

6. Moralismo e filosofia

Meta suprema degli sforzi filosofici del Pontano fu quella di liberare la filosofia dagli errori del passato, specie della scolastica, e dall’ispida smania del disputare per disputare, quantunque sapesse che i piú agguerriti umanisti suoi contemporanei gli avrebbero dato filo da torcere col valutare dappoco il suo intento. Sapendo che nell’antichità in fatto di scienze morali avevano scritto Aristotele, Cicerone e Seneca, il Pontano sosteneva che il

primo, pur discutendo ampiamente dei princìpi, non aveva parlato della disciplina attiva;

che il secondo, al contrario, dibattendosi sulla morale solo dal lato pratico, aveva scartato

del tutto l’argomento dei princìpi; che il terzo, non curandosi né dei princìpi né della

disciplina attiva, aveva eccitato le menti col suo fascino oratorio onde facilitare la

conquista della virtú per via di esempi. A differenza di questi, e lungi dall’imitarne ecletticamente le dottrine, il Pontano ebbe l’intento di fare tutte e tre queste cose, e cioè: discorrere dei princìpi, passare alla pratica e infine dimostrare il tutto tramite esempi pratici.

De moribus apud Latinos scripsisse Ciceronem, qui id solum mihi secutus videtur, ut actiones quae et quales esse debeant ostenderet, summa cum eloquentia, cuius ipse facile habendus est et magister et princeps. Coeterum definiendis virtutibus, explicandis earum principiis 46

inumbrandisque illarum imaginibus, nihil eum prorsus curae aut studii impendisse, ut practicas, hoc est actiuas, tantum res uisus sit uelle edocere ac complecti, ac si senatorii consularisque hoc tantum esset uiri munerisque dignioris; theoreticas autem res exequi plebeii cuiuspiam hominis ac tanquam in ocio marcescentis. Apud Graecos uero theoreticam hanc institutionem ita executum esse Aristotelem, uti actiua ab disciplina omnino recesserit, etsi in illo edocendi genere maxime diligens ac consumatus apparet. Post Ciceronem e nostris Senecam multa quidem maximeque uitae hominum utilia et commoda edisertasse, coeterum oratorio magis more exhortari ad uirtutem honestasque ad actiones legentem, quam ut quae dicat contenderit certis ac sibi constantibus rationibus comprobare, aut de principiis ipsis acutius disputare et quaerere; multa tamen admirabiliter loqui, cohortarique acerrime ad bene uiuendum auditores, deterrereque a uiciis, ut libri eius, ut praecepta ab eo tradita, ut denique quae ab illo in medium afferuntur exempla, stimuli sint quasi quidam ad honeste agendum ciuilesque ac domesticos ad mores actionesque uitae totius sic administrandas ut, beate simul ac tranquille vitam hanc ducentes, felicitate quidem ipsa uel fruamur adepti, uel consequendam ad eam quam proxime accedamus. Nos igitur summos et imitatione dignos viros cum intueremur ab adolescentia usque, id iudicamus, quod post executi etiam sumus, singulari esse laude dignum plurimumque humano quoque generi collaturum, scriptitandis rebus moralibus tria haec simul complecti, ut cognitio principiorum ac virtutum ipsarum per definitiones speciesque suas ac differentias, quod theoreticae est contemplationis, ut pratica exercitatio ususque uiuendi, idest qui et quales actus ipsi esse debeant, ostenderetur, utque ad confirmandos animos et exempla adiungerentur et sententiae auctoritatis plenae, dictaque ac facta clarissimorum uirorum nostraque dignorum imitatione atque opseruantia.65

In queste parole era pur forse vero che il Pontano, almeno a livello operante, facesse rivivere le idee degli antichi moralisti, ma in realtà essi erano solo dei modelli a cui

65De immanitate, Prologus: “Di morale si occupò fra i Latini Cicerone, che mi sembra abbia perseguito solo lo scopo di mostrare di che specie e di che qualità le azioni dovessero essere, con quell’eccelsa eloquenza, di cui egli incontestabilmente deve essere ritenuto maestro e campione. Ma quanto a definire le virtú, a chiarirne i movimenti, a delinearne il ritratto, egli non se ne curò affatto, né vi pose alcun impegno, sicché parve che volesse abbracciarne col suo insegnamento soltanto l’aspetto pratico, vale a dire quello attivo, come se solo questo fosse conveniente ad un senatore ed ad un ex console e ad una piú elevata attività di scrittore, mentre l’occuparsi del loro aspetto teoretico s’addicesse ad un qualsiasi plebeo, e ad uno che quasi marcisse nell’ozio. Tra i Greci invece Aristotele svolse l’insegnamento di questa parte teoretica, in modo da allontanarsi completamente da quella pratica, per quanto in quel tipo di insegnamento egli mostri la massima accuratezza e perfezione. Dopo Cicerone, fra gli scrittori latini Seneca trattò bensí molti problemi e soprattutto quelli che si presentavano utili e vantaggiosi per la vita umana, ma quanto al resto la sua è piú un’esortazione in chiave oratoria al lettore, perché segua la virtú e la rettitudine nell’agire, che non un impegno rivolto a dimostrare le sue affermazioni con argomenti precisi e non contraddittori, o una discussione e una ricerca piuttosto approfondita in fatto di principi in sé; in molte questioni, comunque, egli parla in modo che fa meraviglia, e mette uno straordinario calore nell’esortare gli ascoltatori a vivere virtuosamente e nel distoglierli dai vizi: è cosí che i suoi libri, che i suoi ammaestramenti, che infine gli esempi da lui adottati rappresentano come dei pungoli ad agire onestamente ed a regolare la propria condotta pubblica e privata e le azioni di tutta intera la vita in modo che, trascorrendo quaggiú un’esistenza al tempo stesso felice e tranquilla, possiamo godere della felicità assoluta, una volta raggiuntala, o avvicinarci il piú possibile al suo raggiungimento. Noi dunque, che fin dalla giovinezza teniamo l’occhio rivolto alle figure di piú alta levatura morale e quindi degne di essere imitate, ci siamo formati questa idea, e poi l’abbiamo anche tradotta in atto, che cioè sia una cosa altamente lodevole e fonte di straordinaria utilità per il genere umano il mirare contemporaneamente, quando si vada scrivendo di questioni morali, a questi tre obbiettivi: di far conoscere i principi e le virtú in sé, attraverso le definizioni, le loro categorie e le loro differenze, cómpito, questo, che è proprio della speculazione teoretica; di mostrare la loro applicazione pratica e la materia stessa di vivere, vale a dire di che specie e di che natura debbano essere le azioni in sé; di aggiungere a scopo parenetico, esempi e pareri autorevoli, cioè le parole e le opere di personaggi piú illustri e piú degni di essere da noi imitati e rispettati.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia Liliana in, Ioannis Ioviani Pontano. De immanitate liber (Napoli: Loffredo, 1970), pp. 49-50). 47

congiungersi per trattare e approfondire in maggior misura le correnti filosofiche del suo

tempo, in modo particolare quella implicante l’alto concetto umanistico che l’uomo reale,

ossia quello ubbidiente e accondiscendente ai comandi della ragione, altro non fosse che l’uomo della natura, cosí come per il vero Aristotele, i cui precetti insegnavano appunto che la genuina ricerca della verità assoluta era da rinvenire nella natura dell’uomo in rapporto alle proprie esigenze di vita.

Ispirato unicamente all’umanesimo, il Pontano prese le mosse da questa premessa, sostanziando e vivificando in chiave umanistica l’alto postulato aristotelico sulla funzione della ragione, in quanto essa rappresentava l’unica realtà umana per la quale la rinnovata umanità poteva ora schiudersi a nuove ideee e acquistare un nuovo orientamento di vita attraverso l’acquisto del sapere e il tirocinio della saggezza: una rinnovata filosofia insomma, alla quale, per bocca di Caronte nell’omonimo dialogo, Charon, il Pontano dichiarava la piú pura devozione personale:66

Ea laborum meorum solatrix est et comes, ea solum esse me non sinit, atque a multitudine, quae me assidue circumsistit, longius etiam segregat.67

Nei suoi studi di filosofia, miranti alla scoperta del vero Aristotele, il Pontano si tenne

occupato gran parte della sua vita, non solo nel ripristinare le dottrine dell’antico filosofo

e liberarle dalle false interpretazioni, ma nell’approfondire ulteriorlmente l’utilità e la

66Giuseppe Saitta, op. cit., p. 652: “Aristotele, Cicerone, Seneca e altri moralisti dell’antichità sembrano i modelli, ai quali il Pontano vuole ispirarsi, ma essi sono semplici appicchi, da cui confluiscono notazioni ricche sulla vita a lui contemporanea e osservazioni psicologiche d’una grande finezza e di indubbia originalità, ma, sopra tutto, l’alto concetto che la ragione è o deve essere l’unica dominatrice della realtà umana.” E ancora, rincarando la dose, p. 662: “In lui c’è l’illusione di costruire il suo edificio filosofico servendosi dei tre piú grandi moralsiti, Cicerone, Seneca e Aristotele, ma in realtà egli obbedisce all’ispirazione fondamentale dell’Umanesimo tendente a sostituire l’uomo compiuto all’uomo dimezzato dei secoli precedenti.” Secondo il Gaspary, al Pontano premeva dare “una piú salda norma alla scelta della ragione.” Vedasi Adolf Gaspary, Storia della letteratura italiana, (Torino: Loescher, 1887-1901) p. 292.

67Charon, scena II: “È dessa la consolatrice e la compagna delle mie fatiche! Essa non mi lascia esser solo, pur segregandomi dalla vil moltitudine che mi sta sempre intorno.” (Traduzione di M. Campodonico in L'asino e Il Caronte, (Lanciano: R. Carabba, 1918) pp. 90-91). 48

praticità della sua sapienza, quale unico mezzo capace di trasformare ed edificare ogni

progetto umano sia nella realtà della vita che dei tempi. E questo fu merito non

indifferente, specialmente se si considera che il Nostro umanista reintegrò il concetto

dell’uomo “animale politico” come era stato definito da Aristotele, restituendolo alla società alla quale gli era giocoforza appartenere, in contrasto a quanto gli era successo nei secoli precedenti, nei quali, essendosi tagliato fuori dalla società a cui apparteneva, aveva dimezzato la natura umana nel silenzio del chiostro monacale.

Ciononostante il Pontano non partecipò mai alle aspre dispute aristoteliche dei suoi contemporanei, perché nella sua opinione i filosofi del suo tempo “dicevano mille sciocchezze,” reiterando a guisa di pappagalli le numerose idiozie commesse e tramandate dagli antichi traduttori e commentatori, fino a non conoscere affatto

Aristotele. Simile atteggiamento lo mantenne con i traduttori greci appena arrivati in

Italia, che poco sapevano di latino, e coi latinisti italiani, che nulla capivano di greco.68

A differenza di questi che incespicavano ancora nell’interpretazione dei testi

aristotelici, il Pontano era perfettamente bilingue, sicché fu il primo nell’Italia umanistica a discorrere seriamente della dottrina dello Stagirita con esatezza, rigore e chiarezza di

idee. Nel dialogo Charon ad esempio, dove il Pontano sostenne piú che in ogni altro suo scritto la difesa del vero Aristotele, questo suo sentimento di disprezzo per i filosofi suoi

contemporanei raggiunse toni umoristici, come quando paragonò “un filosofuccio

teologo, che voleva stiracchiare a suo modo le parole di Aristotele,” a un calzolaio.

68Charon, IV:“Nequaquam in obscuritate omnia, verum ut mihi videtur duplex rei huius est causa. Altera, quod qui nunc philosophantur, ignorant bonas litteras, quarum Aristoteles gravis etiam auctor fuit. Altera, quod dialectica corrupta fuerit a Germanis primum et Gallis, deinde et a nostris. In eaque maximam nunc quoque ruinam faciunt.” “Ma non si tratta soltanto d’oscurità. Gli è che spesso quelli che filosofeggiano non conoscono le lettere greche, e quindi non capiscono Aristotele che è anche un valente scrittore. Inoltre la dialettica fu corrotta prima dai Tedeschi, poi dai Francesi e anche dai nostri: e quindi errori sopra errori.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 100). 49

Vix risum teneas, Charon, si tibi ipse retulero quam facete rethor argutulum quenda philosophum nuper irriserit. Nam cum ille nimis intorquere Aristotelis sensa vellet: “Auditores, rhetor inquit, scitote non cum philosopho mihi, verum cum sutore contentionem esse: quod enimi sutoris est proprium, dentibus alutam producere, hoc noster hic in Aristotelis dilatandis dictis facit. Quocirca videndum est tibi, philosophe, ne genuinos relinquas in corio.” Hinc factum est, Charon, tritum illud iam, bene dentatum esse theologum oportere.69

Da Aristotele il Pontano aveva sostanzialmente interiorizzato e reso proprio il concetto di virtú ampiamente trattato nel secondo libro dell’Etica a Nicomaco, quale disposizione mentale dell’uomo nel determinare e governare la scelta delle proprie azioni ed emozioni, attenendosi essenzialmente alla relatività del giusto mezzo che si interpone fra due estremi: ossia alla virtú intesa come equilibrio fondamentale del ben vivere a cui ogni uomo saggio dovrebbe aspirare:

Ἔστιν ἄρα ἡ ἀρετὴ ἕξις προαιρετική, ἐν μεσότητι οὖσα τῇ πρὸς ἡμᾶς, ὡρισμένῃ λόγῳ καὶ ᾧ ἂν ὁ φρόνιμος ὁρίσειεν. Μεσότης δὲ δύο κακιῶν, τῆς μὲν καθ' ὑπερβολὴν τῆς δὲ κατ' ἔλλειψιν: καὶ ἔτι τῷ τὰς μὲν ἐλλείπειν τὰς δ' ὑπερβάλλειν τοῦ δέοντος ἔν τε τοῖς πάθεσι καὶ ἐν ταῖς πράξεσι, τὴν δ' ἀρετὴν τὸ μέσον καὶ εὑρίσκειν καὶ αἱρεῖσθαι. Διὸ κατὰ μὲν τὴν οὐσίαν καὶ τὸν λόγον τὸν τὸ τί ἦν εἶναι λέγοντα μεσότης ἐστὶν ἡ ἀρετή, κατὰ δὲ τὸ ἄριστον καὶ τὸ εὖ 70 ἀκρότης.

Attenendosi a questa famosa definizione di virtú aristotelica, che si basava sulla facoltà della scelta, ἕξις προαιρετική, quale disposizione degli animi, ἕξεις τῶν ψυχῶν, ossia dell’habitus animorum,71 per il Pontano dovere dell’uomo saggio era quindi quello

69Charon, IV: “Vuoi che ti faccia ridere? Voglio dirti, a questo proposito, come argutamente un valente oratore mise in derisione, che non è molto, un filosofuccio teologo che voleva stiracchiare a suo modo le parole di Aristotele. E allora l’altro, rivolgendosi agli uditori: non è un filosofo questo, ma un calzolaio; e come questo tira il cuoio e lo spago coi denti, cosí quello tira le parole di Aristotele: badi di non rimetterci i denti delle mascelle! E di qui nacque il detto che il teologo deve avere buoni denti.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 99).

70Aristotele, Etica Nicomachea, II – 1106b36: “La virtú, dunque, è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà in rapporto a noi, determinata in base ad un criterio, e precisamente al criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo saggio. Medietà tra due vizi, tra quello per eccesso e quello per difetto; e inoltre è medietà per il fatto che alcuni vizi restano al di sotto e altri stanno al di sopra di ciò che si deve, sia nelle passioni sia nelle azioni, mentre la virtú trova e sceglie il mezzo.” Vedasi Etica Nicomachea, Introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta. Volume I (libri I-V). Milano: Rizzoli, 1998.

71Cfr. Platone, Le Leggi, 650b: “Questa è senz’altro la cosa piú vantaggiosa, ovvero il conoscere le indoli e le disposizioni delle anime, per quell’arte che deve curarsi di queste cose. E questo diciamo, io credo, che sia proprio della politica. O no?” 50

di mirare al coraggio, alla temperanza, alla liberalità, alla magnaminità, alla

mansuetudine e infine alla giustizia, la maggiore delle virtú, per la quale, stando sempre alle parole dello stesso Stagirita, ogni virtú si raccoglie in una sola.72

Da questo presupposto, che in effetti rispondeva all’esigenza umanistica del tempo di

affermare l’ideale di una repubblica umana, in cui trionfasse la libertà e la virtú civile, il

Pontano svolse la teorica della mediocritas, la filosofia del giusto mezzo, reclamandola di

poi sua, una volta affrontato e riconciliato a modo suo il perenne diverbio filosofico

pertinente alla differenza fra il significato di bene etico e di quello eudemonologico; che

pur sempre, sin dall’antichità, a cominciare dalle famose dispute degli stoici e degli

epicurei, era ai suoi tempi un argomento ancora irrisolto, trasmutatosi ora nell’inquietante

disaccordo dottrinale esistente tra i fisici eretici e gli umanisti tradizionali.73 Il Pontano, pur sapendo che per gli uni l’unico scopo della vita umana fosse la virtú e per gli altri il

piacere, riuscí attraverso la sua teorica della mediocritas a riconciliare le due sette e ad armonizzarne le opposte dottrine; perché a suo avviso vivere felici non era viver bene, dacché viver felici era vivere secondo il senso e non secondo la ragione, ch’era sostanza del viver bene; ma viver bene era vivere felice, dacché anche la ragione aveva la sua voluttà; la quale era fatta di due maniere, la cui inferenza essenziale si riduceva a questo: l’una, quella derivante dal bene eudemonologico, ossia dal senso, nasceva dal piacere e faceva capo al dolore; l’altra, al contrario, quella derivante dalla ragione, ovvero dal bene

72Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, V- 1129b: “Ogni virtú si raccoglie in una sola. Ed è una virtú perfetta al più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtú anche verso gli altri e non soltanto verso se stesso.”

73Per i problemi del moralismo nell’estetica classica si consultino le pagine di Armando Plebe, “Origini e problemi dell’estetica antica,” Momenti e problemi di storia dell'estetica, vol. I (Milano: Marzorati, 1968), p. 22 e seguenti; nonché Whitney J. Oates, “The Doctrine of the Mean,” The Philosophical Review, 45, 4 (1936): 382-398. Per una piú dettagliata inquadratura sul problema etico religioso, si consulti Ernesto Caserta, “Il problema religioso nel De voluptate del Valla e nell'Aegidius del Pontano,” Italica, 43, 3 (1966): 240-263. 51

etico, nasceva dal dolore e faceva capo al piacere: l’una era voluttà apparente perché

motivata dalla passione, dalla libidine, dalla lussuria, e quindi temporanea, come gli atti del senso animale; l’altra era voluttà reale perché motivata dalla temperanza, dalla continenza, dalla castità, e quindi duratura, come gli atti del senso spirituale. Era insomma il suo modo di distinguere gli appetiti della concupiscenza da quelli dell’animo facenti capo alla virtú, che aveva per oggetto azioni e passioni attraverso la medietà dell’eccesso, considerato un errore, e del difetto, uno biasimo.

Come in Aristotele, la virtú era sí una specie di medietà tendente al mezzo, eccetto che era motivata dalla forza della cupiditas; la quale era per il Pontano talmente insita nella natura umana, che senza di essa sarebbe stato impossibile spiegare le piú alte manifestazioni dello spirito e le gesta piú insigne dell’uomo. Come spiegare infatti, argomentava, l’impeto pugnace di interi eserciti a combattere per l’amor di patria e per la gloria, se non per passione? Come interpretare la spinta temeraria dell’uomo ad affrontare l’ignoto, se non per la sua brama del sapere? Senza la foga veemente delle passioni la ragione non avrebbe avuto nessuno scopo nella sua opinione, in quanto la prima mossa all’azione nell’universo passionale dell’uomo deriva sempre dal senso; e da qui, risalendo alla famosa tripartizione aristotelica dell’anima vegetativa, sensitiva e razionale, ufficio fondamentale dell’uomo era quello di operare con ragione e ad essa conformarsi in contegno, usanza e costumi; donde le virtú, che da mos-moris, vennero appunto chiamate

“virtú morali”; delle quali, nell’intento di proporre l’ideale dell’umana perfezione e della felicità quale pietra miliare della sua meditazione etica, egli si preoccupò altamente di trattare i principi; giacché vivere bene e felici significava maggiormente esercitare tutte le virtú, sia pubbliche che private, in rapporto coi propri simili, all’interno della società e 52

sempre in funzione del bene. Non a caso, proprio nella parte finale del Charon, il dialogo

in cui egli esaminò in chiave satirica la stoltezza umana, questa sua visione della felicità

fu pronunziata da un personaggio molto interessante: un’ombra giunta di recente nel

regno dei Mani di origine umbra, che scambiando con Caronte le ultime battute del

dialogo, spiega in che consista la vis virtutis e quali frutti si ricavano:

Felicem igitur qui bene agendo recteque intelligendo perfectam fuerit virtutem assecutus, qui cupiditates compescens et quasi extra pericula positus, liber ac securus vixerit, cumque sibi ipse lex esset, leges nequaquam timuerit et tanquam omnia sub pedibus subjecta haberet, tutus incesserit contra populi rumores, contra tyrannorum libidines, atque adversus fortunam ita steterit, ut ingruentem eam a se repulerit, neque manum porrexerit blandienti!74

E cosí fu, almeno per l’uomo Pontano, che passando dalle parole ai fatti, pur tra gli

affanni dell’instancabile vita di Primo Ministro, pur tra le guerre a cui partecipò senza

mai un attimo di respiro, tra la costante minaccia dei Turchi, dei baroni ribelli e della

cocciutaggine dei papi miranti alla dissouluzione del regno napoletano, pur tra i lutti e i

disappunti personali che egli affrontò nell’ultimo decennio della sua vita, si mantenne

costantemente “saldo come torre contro la Fortuna avversa”; tanto che nel finale

dell’Urania, essendo appunto cosciente che un giorno, post obitum, intere generazioni lo

avrebbero giudicato sulla sua capacità o meno di “aver saputo bene operare e ragionare,”

concludeva il suo massimo capolavoro col pronosticare di già l’immortalità della propria

fama umanistica a testamento della propria tenacia.

74Charon, scena finale, in Giovanni Pontano, I dialoghi. (A cura di Carmelo Previtera. Firenze: Sansoni, 1943) p. 44: “Felice dunque colui che bene operando e ben ragionando abbia raggiunto la perfetta virtú! Essa lo fa vivere libero e sicuro, al disopra del turbamento delle passioni e dei pericoli eterni. Egli non temerà le leggi, perché detterà legge a se stesso; e procedendo sicuro innanzi, si metterà sotto i piedi le calunnie del volgo e i capricci dei tiranni; saldo come torre contro la Fortuna, tanto se questa gli sorrida, come se gli sia avversa.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 137). 53

Fama ipsa assistens tumulo cum vestibus aureis, ore ingens, ac voce ingens, ingentibus alis per populos late ingenti mea nomina plausu vulgabit, titulosque feret per saecula nostros, plaudentesque meis resonabunt laudibus aurae vivet et extento celeber Iovianus in aevo.75

L’altro apetto fondamentale della mediocritas a cui il Pontano volse la sua attenzione fu il discorso, che secondo la sua opinione non solo doveva essere elegante ed eloquente, ma allo steso tempo anche ricco di arguzie, di motti e di giochi faceti, che nell’insieme dovevano dare alla forza emotiva della parola, ossia dell’oratio in senso lato, una giusta misura che egli chiamava facetudo: una virtú che permetteva all’uomo, “animale sociale,” di condividere la propria realtà e le proprie esperienze nel contesto della società, in quanto il discorso era l’unico “vincolo” umano capace di reggere e conservare la società civilmente.76 Al livello teorico il Pontano spiegò ampliamente in che consistesse la facetudo nel suo ultimo trattato il De sermone, dove attenendosi alle teorie classiche della comunicazione umana, insisteva che il maggior compito di questa virtú era quello di ristorare gli animi dalle fatiche e dalle preoccupazioni diurne e ritemprare le loro energie affinché potessero operare attivamente sul piano della serietà e del buon giudizio; ma fu nei Dialoghi faceti, che a livello pratico il Pontano riuscí ad applicare meglio che in qualsiasi altro suo scritto la tecnica della facetudo. Infatti, ancora vivo il Pontano, quando fu tenuto a scegliere quali fra i suoi scritti dovessero essere portati alla stampa, egli diede

75Urania, Liber V, De se ipso post obitum, vv. 923-928: “E la Fama, sedendo accanto al tumulo nelle sue vesti d’oro, la Fama dalla bocca immensa, dalla voce tonante e dalle gigantesche ali, diffonderà per ogni dove tra i popoli, destando gran plauso, il mio nome e tramanderà attraverso i secoli i miei meriti e tutta l’aria, plaudendo, risuonerà delle mie lodi e Gioviano vivrà famoso fino a che il tempo duri.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, op. cit., p. 461).

76Vedasi Giancarlo Alfano, “La misura e lo scacco: sul De Sermone di Gioviano Pontano,” in MLN, 115, 1, (2000): 13-33: “Nel riprendere la grande questione del rapporto tra ratio ed oratio, Pontano non si limitava a identificare nella seconda l’organo per esprimere quae ratio ipsa dictat, ma riconosceva in essa lo strumento per mezzo del quale conservare e proteggere la conciliatio, la humana societas appunto, della quale il discorso è vinculum.” Per ulteriori approfondimenti si rimanda a G. Ferroni, “La teoria classicistica della facezia da Pontano a Castiglione,” Sigma, XIII (1980): 69–96; nonché a S. Lupi, “Il De Sermone di Gioviano Pontano,” Filologia Romanza, 8 (1955): 366–417. 54 immediatamente preferenza ai suoi Dialoghi faceti, il Charon e l’Antonius, piú che all’Urania o alle altre opere sue poetiche e liriche; giacché in questi scritti, grazie appunto alla facetudo, egli era riuscito a mettere in nuce tutti i problemi all’ordine del giorno dell’ambiente umanistico in cui viveva: problemi religiosi, morali, filologici e critici, che a suo avviso erano un grande ostacolo al conseguimento della felicità umana; ma anche perché attraverso l’immediata pubblicazione di queste opere egli sapeva bene di fare rivivere a livello socratico e collettivo la discussione culturale nel vivo dell’esperienza umanistica; celebrando quindi l’Accademia come il punto di riferimento essenziale per una vita da dedicarsi agli studi piacevoli, pieni di saggia gaiezza, intelligenza e assiduità. E questa fu indubbiamente la piú felice immagine che egli avesse potuto tramandare ai posteri: quella dell’arguto filosofo, profondo moralista e virtuoso scrittore. 55

Capitolo secondo

I Dialoghi faceti: Charon, Antonius, Asinus.

1. Uno sguardo generale

I Dialoghi faceti sono la parte piú innovativa ed originale delle opere del Pontano perché in essi viene abbozzato meglio che in qualsiasi altra sua trattazione morale il problema fondamentale di tutta la sua meditazione etica: la felicità, il sommo bene a cui tende ogni umana attività.1 L’aspetto ragguardevole di queste opere è che in esse il

Pontano espone le sue idee liberamente, da un lato facendole rivivere in modo spontaneo a livello dialogico, cosí come s’erano evolute dai fruttuosi incontri accademici e dai colloqui con gli amici, e dall’altro impostandole attraverso la tecnica della sua facetudo, che a differenza del De sermone, dove ne discute l’aspetto teorico in base ai grandi modelli faceti dell’antichità e dei suoi tempi, trova in questi dialoghi un’ampia applicazione pratica.2

1 Per lo sviluppo cronologico dei Dialoghi vedasi Salvatore Monti, “Ricerche sulla cronologia dei Dialoghi di Pontano,” Annali della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Napoli, 10 (1962-63): 247-311.

2Cfr. Alessandra Mantovani in, Giovanni Pontano. De sermone, (Roma: Carocci editore, 2002), pp. 50- 51: “La teoria umanistica del comico, che pure tanto deve al magistero di Cicerone e Quintiliano, nasce di fatto dall’incrocio di diverse tradizioni, al punto che persino il quattrocentesco della facezia in latino non prescinde mai, in realtà, dal riso liberatorio e carnevalesco della novella in volgare. Non è un caso quindi che il Pontano consigli all’uomo faceto di ravvivare la propria conversazione con la lettura di pagine d’autore e che questa lectio debba poi attingere al reportorio canonico di entrambe le tradizioni, dal Decameron di Boccaccio alle Facetiae di Poggio, integrate dall’esempio di dialoghi piacevoli alla maniera 56

In virtú di questa facetudo, che è il frutto di una profondissima meditazione filologica,

il Pontano non solo ricrea la realtà dell’ambiente e della vita spirituale dell’Umanesimo

meridionale, esponendone tutti i problemi estetici e morali, ma riesce allo stesso tempo

ad analizzare tutti gli aspetti della tragicità umana, evidenziando che il conseguimento

della virtú è solo possibile attraverso la conoscenza dei propri limiti umani; in sostanza

mediante la conquista della sapienza, che si acquista liberandosi da tutte le forme di

chiusure mentali e dalle debolezze del genere umano, dai piccoli ai grandi vizi: che

talvolta critica con accento duro e mordace, come in una scenetta del Charon contro il

clero e i medici, che sono considerati la gente piú allegra e libera al mondo, in quanto agli

uni è permesso di cantare ai funerali e agli altri di uccidere senza nemmeno essere puniti,

anzi, per giunta pagati; talvolta scherzando, come nell’Antonius, dove l’autore, che tanto

tiene ad odio la petulanza e l’arroganza dei grammatici, giocherella con i vocaboli

mentulum-mentulam; e talvolta con un tono di comicità che fa nascere il riso, come

nell’Asinus, allorché all’ingenuo contadino Fagioli, che vuole cambiare il suo nome in

Casiello, perché l’altro gli suona male, regalano una forma di formaggio parmigiano.3

di Luciano, di cui l’Umanesimo ha già definito un’illustre e originale tradizione con le Intercoenales e il Monus dell’Alberti, sino al Charon del Pontano.”

3Per uno studio sull’evoluzione del linguaggio faceto durante l’Umanesimo vedasi Barbara C. Bowen, “Renaissance Collections of facetiae, 1344-1490,” Renaissance Quarterly, 39, 1 (1986): 1-15; nonché Reeve, M.D., “Review: Plautus, Pontano and Panormita,” The Classical Review, 40, 1 (1990): 24-27. Per le facezie in generale, invece, vedasi Elaine Fantham, The Roman World of Cicero’s De Oratore, (Oxford Univeristy Press: 2004), cap. 8, “Wit and Humour as ’s Combat Weapons,” pp. 186-208. 57

2. Charon

Il piú importante fra i dialoghi pontaniani è il Charon, che a livello satirico morale ha

un’impostazione molto efficace, in quanto il Pontano affronta in modo uniforme il tema della stoltezza umana: da singolari esempi del comportamento degli uomini, come quelli

appartenenti al clero, che si approffittano puntualmente della semplicità del volgo; quelli

della classe politica, che con la loro brama di potere continuano a mantenere un clima nefasto e bellicoso in Italia; della gente in generale, inclusi i nobili, gli aristocratici e i signori, che con le loro credenze superstiziose non fanno altro che vivere nel terrore; oppure, dagli esempi presi direttamente dalla storia, attraverso la scelta di singolari esempi di inumanità, come l’ingiusta condanna a morte di Socrate e di Cristo o l’assurdo assassinio di Pitagora: cioè degli uomini piú saggi e buoni che fossero mai esistiti al mondo, uccisi per il solo peccato di aver voluto ricondurre il genere umano sulla buona strada, all’uno facendogli bere la cicuta, all’altro crucifiggendolo, al terzo bruciandolo vivo in casa. In breve, tutta la prospettiva del Charon si basa nel contrapporre i grandi valori umani dell’antichità a quelli decadenti della modernità attraverso una dettagliata indagine morale, il cui fine è di intendere cosa sia successo all’antica sapienza umana, perché dagli eventi contemporanei sembra proprio che l’uomo abbia perso la felicità e che sia destinato a soffrire a causa della propria stoltezza. E pertanto, laddove il motivo umanistico del confronto storico fra le due età mette in nuce l’insormontabile sapienza antica da un lato, si ricongiunge dall’altro a quello morale della felicità.4

4Per un maggiore approfondimento sul linguaggio faceto nel contesto del Charon è essenzialissimo lo studio di David Marsh in, The Quattrocento Dialogue, (Cambridge-London: Harward University Press, 1980), Cap. IV, “Giovanni Pontano and the Academic Gathering,” pp. 100-116; nonché, dello stesso studioso, il capitolo IV, “The Dialogue of the Gods 2: The Scene on Earth,” pp. 105-147, Lucian and the 58

I personaggi principali sono i mitici giudici infernali Eaco e Minosse, il dio Mercurio, che funge da intermediario fra il mondo dei vivi e quello dei morti, e infine Caronte, il

filosofo del “buon senso,” su cui si intreccia tutta la comicità del dialogo, giacché nel suo

intento di imparare riesce tanto simpatico e divertente quanto un popolano mezzo istruito

che vuole dire la sua senza gli eccessi della volgarità. A questi si aggiungono diverse

figure di carattere secondario: Piricalco, un demonio che, per facilitare il lavoro dei

giudici, imprime note raccapriccianti sulla fronte delle anime in base ai loro peccati;

Diogene e Cratete, due filosofi cinici; Pedano, Teano e Menicello, tre grammatici che si azzuffano continuamente per questioni di latino; Cipria, una prostituta in compagnia del suo amante cardinale; una fanciulla sedotta da un prete; e infine alcune ombre, fra cui quella di un toscano, che si ride di tutto e di tutti, e quella di un’ombra molto saggia che dice di essere d’origine umbra.

Attraverso i loro discorsi pregni di quella sapienza antica che è andata perduta, Eaco e

Minosse fanno rivivere il gran sogno umanistico dell’antichità, prendendosi sempre cura, in caso di divergenze ideologiche, di trovare un punto di intesa, cosí come i dotti

dell’Accademia. Il dio Mercurio, il cui compito è di trasportare le anime dalla terra agli

inferi, è sempre aggiornato di tutto quanto succede al mondo e rappresenta la sapienza

tutta.5 Dal canto suo, Caronte, ammettendo sin dal principio del dialogo di essere colto

Latins, Humor and Humanism in the Early Renaissance (Ann Arbor: The University of Michigan Press, 1998).

5Sul personaggio Mercurio rimando a Luisa Vergani, “Giovanni Pontano scrittore lucianeo,” Critica letteraria, 1-2 (1973-1974): 485-497: “Mercurio è l’interlocutore piú critico degli uomini, di cui senza pietà mette a nudo le debolezze, deride le assurde credenze e frustra le speranze. A lui si deve una delle frasi piú amare di tutto il dialogo: “Conosco le fatiche degli uomini, conosco le proprie miserie; che cosa può esserci di piú rovinoso?” Egli rimane il mitico messaggero con le ali ai piedi quale l’hanno cantato i poeti e rappresentato gli artisti, ma il mondo dal quale arriva è quello del Quattrocento. Le sue notizie sempre aggiornate sono il frutto di un’osservazione attenta, sicché nel Caronte Mercurio è il personaggio che generalmente dà voce al pensiero piú orginale del Pontano (490).” 59

solo un po’, è trattato rispettuosamente da questi tre personaggi; e parlando con loro, dopo tutta una serie di fraintendimenti per cose che non riesce a capire, con grandi sforzi

acquista un po’ piú di cultura e dimostra infine la propria saggezza.

Siamo nel regno dell’Ade. Non avendo niente da fare, perché sono tre giorni che non

giunge nessun’anima, Eaco e Minosse lasciano il solo Radamanto ad attendere ai pochi

affari della giornata e si appartano all’ombra di alcuni cipressi, dove si mettono a

ragionare dell’ignoranza umana. Ad avviare il discorso è Minosse, che mette in rilievo

l’importanza di mantenersi sempre occupati, specialmente durante le ore di ozio, perché anche nel riposo bisogna sempre pensare alle cose da fare in seguito: “Qui magistratum,

Aeace, gerunt, iis nunquam sine negocio ocium esse debet.”6 Queste parole di

avviamento al dialogo stabiliscono di primo acchitto l’importanza del riposo, quale

necessità dell’animo e della mente “per poter meglio vedere lontano e vedere meglio.”

Allo stesso tempo rievocano il modo in cui gli umanisti avviavano le loro conversazioni

nei loro luoghi d’incontro, qui rappresentato da un paesaggio infernale dove abbondano

fiori e ruscelletti d’acqua: una sorta di Campi Elisi, dove è appunto possibile appartarsi,

cosí come nelle accademie, e abbandonarsi al dolce ozio del bel filosofare.

Da lontano i due giudici infernali si accorgono che Caronte, anche lui senza far niente,

discorre da solo molto gravemente sulla vana speranza degli uomini, e decidono di chiamarlo. Lasciata la sua barca e unitosi all’ozio dei due, che stanno parlando dei vizi degli uomini, specialmente dell’ingratitudine umana che non risparmia nessuno, il buon nocchiero di anime entra a piene vele nel loro ragionamento, stupefacendoli prontamente

per la propria dottrina filosofica: una filosofia che egli giustifica avere acquisito a furia di

6Charon, in op. cit., p. 3: “Eaco, quelli che amministrano la magistratura, anche quando non hanno nessuna cosa da fare, mai devono abbandonarsi all’ozio.” 60

ascoltare da anni i discorsi di tutti quegli uomini dottissimi, che, per non essere stati

sepolti, devono rimanere sull’altra riva dell’Acheronte nel Limbo; e che egli si diverte ad

ascoltare quando non c’è lavoro, perché non solo ci prende piacere, ma impara

moltissimo.

L’entrata in scena di Caronte verte sulla comicità dei pasticci linguistici, specialmente

quando si diverte a raccontare come alcuni filosofi del Limbo siano tanto ridicoli da

dirgli: “Remus Romuli frater fuit; plures istic remos habes, plures ergo frates tecum sunt

Romuli”;7 oppure, “Tribus, portitor, manibus uteris; etenim palma manus cum sit et

tribus ipse palmis remiges, tribus profecto manibus uteris.”8 Sono dei sillogismi molto

divertenti, le cui conclusioni rivelano la vera sapienza del ragionamento di Caronte sulla

pazzia degli uomini e preparano i tre interlocutori alla serietà del discorso che stanno per

affrontare: la malvagità umana e da dove scaturisce questa cosa tanto abominevole.9

Considerando l’atroce esperienza di Cristo, fatto crudelmente morire da quegli stessi

uomini coi quali aveva vissuto innocente per tanto tempo, concludono che la colpa è da far risalire alla duplice natura dell’uomo, giacché l’una è razionale e l’altra priva di ragione. E che la parte priva di ragione è duplice anch’essa: l’una opposta alla ragione, l’altra che ad essa si avvicina e le obbedisce; tanto che le passioni violente e gli appetiti

7Charon, in op. cit. , p. 5: “Remo fu fratello di Romolo; tu hai qui molti remi, di conseguenza con te ci sono molti fratelli di Romolo.”

8Idem: “Tu hai tre mani. Non si chiama palma anche la pala del tuo remo? Dunque quando adoperi il remo ti servi di tre mani.” (Traduzione di di M. Campodonico, op. cit., p. 86-87).

9Vedasi Scevola Mariotti, “Per lo studio dei dialoghi del Pontano,” Scritti medievali e umanistici; a cura di Sivia Rizzo (Roma: Edizioni di storia e letteratura, 2010): 261-284. “Nei rapporti fra loro, i componenti della dotta brigata adoperano il formulario consueto delle conversazioni accademiche. Ma al di sopra dei complimentosi scrupoli gerarchici, che fanno pensare alla Napoli spagnola dell’ultimo quattrocento, si dà prova qui, come nelle riunioni accademiche, di quell’ideale fratellanza fra sapienti di cui l’umanesimo ritrovava l’esempio nei dialoghi ciceroniani. Il barcaiolo Caronte, concepito come un subalterno che si è fatto da sé la sua cultura, è ammesso a trattare da pari a pari coi suoi superiori.” ( 269-270). 61 disordinati e incapaci di freno solgono talmente abbattere quella parte che obbedisce alla ragione, che questa non può dare nessuno aiuto a mantenersi nella via di mezzo.

A tale proposito, Minosse riferisce il discorso pronunziato da Aristotile medesimo in propria difesa il giorno in cui fu convocato a giudizio nel mondo dell’Ade con l’accusa di essere stato ingiusto ed ingrato verso il suo maestro Socrate: un ragionamento che nel contesto del Charon risulta essere interessante, perché viene ribadito implicitamente, cosí

come il Pontano aveva di già discusso nel secondo capitolo del primo libro del De

fortitudine, il fatto che la sede delle virtù morali risiede nelle passioni, in quanto sono

proprio queste a incitare o “solleticare” la prima mossa all’azione: “Ac prima quide titillatio fere est a sensibus.”10

Admirari desinas si mentem ad philosophiam revocaveris; etenim oportet memorem esse philosophantem. Et profecto dies ille memorabilis apud Manes fuit quo vocatus est in iudicium Stagirites ille, qui se Peripateticum agnominabat, quod de preceptore suo partim perperam sensisset, partim ingratus in eum fuisset. Hunc itaque die dicta, cum rerum a se commentarum rationem redderet, quasi ab initio dictionis disserere ita memini: duplicem esse hominis naturam, altreram rationalem, alteram carentem ratione; atque hoc ipsum, quod ratione careret, duplex esse dicebat, alterum prorsus semotum a ratione, alterum vero solere ad rationem sese adiungere eique obtemperare. Cupiditates igitur appetitionesque vehementes atque incompositas, nullis adhibitis frenis, solere partem illam quae rationis esset audiens ita deiicere de statu suo, ut nullum ea ad medium illud retinendum adiumentum afferre posset: hinc ortum ducere vitia seditionesque cieri et bella, coeteraque oriri mortalium mala; hinc veritatem molestam illis esse, ob eamque causam nec audire nec pati eos velle qui iusta honestaque praecipiant. Hoc itaque plane in ignem Pythagoram coniecit, hoc Socratem veneno extinxit, hoc ipsum item Christum cruci affixit.11

10Cfr. De fortitudine II, “Passiones non frustra homini a natura esse datas.”

11Charon, op. cit., pp. 7-8: “Capirai (la verità) se abbandoni la mente alla filosofia, poiché chi filosofeggia deve essere ricordevole. Ti ricordi di quel memorabile giorno fra i Mani in cui fu convocato a giudizio quello Stagirita, che si faceva soprannominare il Peripatetico, perché alcuni l’accusavano a torto di essere stato ingiusto verso il suo precetttore ed altri ingrato? In questo giorno adunque, per dare ragione di queste accuse, sin dal principio della sua difesa egli si ricordò che la natura dell’uomo fosse duplice, l’una razionale, l’altra carente di ragione; e che questa parte stessa priva di ragione, diceva egli, fosse anch’essa duplice, l’una in tutto e per tutto rimossa dalla ragione, invero l’altra esser solita unirsi alla ragione e ad essa compiacere; e che perciò le passioni violenti e le brame senza misura, per nulla adoperate a mantener freno, solevano abbattere quella parte della ragione capace di ascoltare, abbattendone in questo modo la propria esistenza, in modo che questa non poteva dare nessuno aiuto a mantenersi in quel mezzo: e che da qui originati, cominciassero i vizi, le discordie, le guerre e gli altri malanni che si trovano fra i mortali; che per questo la verità fosse loro molesta, in quanto non volevano né ascoltare né tollerare quelli che desideravano insegnare le cose giuste ed oneste. Chiaramente per questa ragione Pitagora fu gettato nel fuoco, per questo Socrate fu ucciso dal veleno, per questo lo stesso Cristo fu parimenti affisso alla croce.” 62

Mentre ragionano appare sull’altra riva del fiume una nube densissima di anime

precedute da Mercurio, riconoscibile dai suoi talari splendenti. Richiamato al suo lavoro,

Caronte spinge la sua barca nel fiume e va loro incontro per traghettarle. Rimasti soli ed

approfittando della sua assenza, Eaco e Minosse fanno le loro considerazioni sul nocchiero diventato filosofo:

Minos. En, Aeace, consideras quanta sit vis institutionis? Quem nunc philosophum videmus, qui principio remex erat! Quid ociosus ageret, quid si a primis annis audisset philosophos? Aeacus. Nec animo volenti quicquam potest esse difficile, nec aetas ad discendum tarda est ulla. Nam, quamquam adolesceantiae flores magnam prae se ferunt speciem, omnis tamen fructus est ingravescentis aetatis. 12

Lo stupore di Minosse nel constatare che Caronte non è un vecchio burbero, rozzo e

scontroso traghettatore di anime, ma un buon uomo che gode della conoscenza del

“Bello” e del “Vero,” viene subito mitigato da Eaco, che riaprendo la discussione

sull’insipienza degli uomini che non apprezzano né conoscono la vera sapienza della

vecchiaia, gli fa notare che non è mai troppo tardi per imparare, specialmente nell’età

matura; e da qui, facendo gli elogi della vecchiaia in termini etici, i due concludono che

l’amore della virtú e della lode è piú impetuosa nei giovani, perché essi tendono alla

gloria, mentre la virtú dei vecchi, essendo disinteressata, è piú vicina alla perfezione, in

quanto nella tarda età la ragione è per natura tranquilla e pacata. E pertanto, cosí come i

frutti dai fiori, la saggezza dei vecchi nasce dall’immaturità e dall’inconsapevolezza dei

giovani: “sic ex adolescentulorum teneritate atque inscitia senum voluit provenire

sapientiam”; che è un paragone molto raffinato a favore di Caronte, qui simbolo della

12Charon, op. cit., p. 9: Minosse. Ma guarda un po’ quanto può la forza dell’educazione! Quello che dapprima era un rematore, addesso vediamo un filosofo! E se avesse ascoltato i filosofi sin dall’infanzia, non ci sarebbe diventato piú rapidamente? Eaco. Nessuna cosa con animo volente può essere difficile, né alcuna età mai tardi per imparare. Perché se i fiori della speranza sono propri della giovinezza, tuttavia ogni frutto matura nella vecchiaia. 63

senilità, che si è ritrovato filosofo dopo anni di continuo contatto con uomini e cose di

ogni specie.13

Intanto Mercurio sta passando in rassegna le anime degli usurai, dei pirati, dei ruffiani

e di tutto il resto della plebaglia che ha appena scortato agli inferi da molte nazioni. A

tutti fa bollare la fronte dal suo aiutante Piricalco con un ferro rovente, eccetto ai

Francesi, ai quali fa forare il ventre, perché a differenza degli altri, essendo tutti osti,

cuochi, ingrassapolli, trombettieri, biscazzieri e ubriaconi, non hanno cervello.

Mentre questi sono indaffarati dal loro lavoro, da lontano Caronte fa cenno a Mercurio

di avvicinarsi. Curioso di sapere cosa vuole, il Dio raccomanda a Piricalco di fare tutte le

cose per bene e va là da Caronte, che gli esprime immediatamente la sua gioia di saperlo

sano e salvo dal viaggio: cosa che irrita molto Mercurio, perché non potendo a un Dio

nuocere nulla, è indispettito dal fatto che Caronte, suppostamente filosofo, non capisce

che il salve va detto solo ai mortali. E da qui nasce un diverbio tra loro due, che risulta

essere una satira abbastanza pungente contro i dei celesti e i preti; specialmente quando

Caronte, convinto che gli dei non rapiscono piú le donzelle perché si sono fatti vecchi o

diventati eunuchi, viene a sapere da Mercurio bene altrimenti; e cioè che di recente,

avendo Giove perso tutti i denti per un bacio dato a una fanciulla di Taranto, è stata

emessa una legge, per la quale è vietato alle donne mortali congiungersi con gli dei,

eccezion fatta per i preti loro rappresentanti.

13Cfr. Luisa Vergani, in op. cit., p. 489: “Le mansioni del Caronte pontaniano sono ancora quelle di un umile barcaiuolo, ma i suoi gusti si sono raffinati: è amante della piacevole compagnia e di qualche onesto ozio concepito, a mo’ degli antichi, come agio di coltivare la meditazione e le conversazioni dotte. La filosofia è, in particolare, un debole del vecchio, sebbene si tratti di una filosofia spicciola e di carattere prammatico che arriva invariabilmente alla stessa conclusione: l’umanità è gravata da mali e ottenbrata da errori e false illusioni.” 64

Merc. Forte Iupiter in Tarentinam virginem commotus cum esset, versus ipse in adolescentulum, dum illius os nimis efflictim suaviatur, quod erat quam fucatissimum, labem inde contrahit, dentisque haud multo post de contactu illo amisit. Tum dii aegre ferentes regem suum esse edentulum, promulgandae legis auctores fuere. Char. An, quaeso, Iupiter nunc est sine dentibus? Merc. Minime. Nam cum renasci nequirent Deo tam annoso, elephantinos sibi faciundos curavit. Mulcta vero haec statuta est mulieribus, ut venire amplius in deorum complexus non liceat; permissum tamen est sacerdotibus, quod eorum sunt ministri, ut in eum succedant locum.14

Totalmente esterefatto dal racconto, Caronte esprime il suo piacere di imparare cose nuove tutti i giorni. Ma è tardi ormai. Ansioso di condurre Mercurio da Eaco e Minosse, lo invita a imbarcarsi e si avviano. Lungo la traversata vedono Diogene il Cinico che mangia pesci e vive dentro il fiume, Crate il Tebano che cerca nelle acque del fiume tutto l’oro sperperato nella vita; e giú navigando, parlando degli antichi filosofi, affrontano il tema delle false interpretazioni di Aristotele da parte dei suoi chiosatori, i quali, su avviso di Mercurio, non conoscendo le lettere greche, continuano a commettere errori:

Nequaquam in obscuritate omnia, verum ut mihi videtur duplex rei huius est causa. Altera, quod qui nunc philosophantur, ignorant bonas litteras, quarum Aristoteles gravis etiam auctor fuit. Altera, quod dialectica corrupta fuerit a Germanis primum et Gallis, deinde et a nostris. In eaque maximam nunc quoque ruinam faciunt.15

Per dire la sua, Caronte, dice che di recente, traghettando un fraticello nella sua barca, questi aveva intentato un ragionamento filosofico non molto convincente; e benché ragionasse e discorresse bene, non era cascato nell’inganno della sua argomentazione, in

14Charon, op. cit., p. 13: Mercurio. Poiché Giove si era fortemente eccitato per una vergine di Taranto, si trasformò in un giovane molto focoso, e baciandola soavemente in bocca molte volte, non si accorse che aveva le labbra sporche, contraendone una malattia per la quale perse i denti. E cosí gli Dei, dolenti di vedere il loro re sdentato, promulgarono la legge. Caronte. Ma dimmi, Giove è tuttora senza denti? Mercurio. In nessun modo. Ma siccome il Dio era tanto vecchio che i denti non potevano rinascergli, si curò facendoseli mettere d’avorio. E siccome questa legge è stata decretata per le donne, alle quali non è permesso avere un amplesso con gli dei, fu loro permesso invece di avere quello dei sacerdoti, che sono i loro ministri e rappresentanti.

15Charon, op. cit., p. 15: “Ma non si tratta soltanto d’oscurità. Gli è che spesso quelli che filosofeggiano non conoscono le lettere greche, e quindi non capiscono Aristotele che è anche un valente scrittore. Inoltre la dialettica fu corrotta prima dai Tedeschi, poi dai Francesi e anche dai nostri: e quindi errori sopra errori.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 100). 65

quanto aveva riconosciuto la sua natura asinina dalla fronte e dalle orecchie che erano

fatte appunto di asino; e che anzi lo canzonava addirittura giacché si cibava di pane

d’orzo invece che di frumento. L’accenno al frate da parte di Caronte, induce Mercurio a

premonirlo di non fidarsi mai di gente di tal genia, perché con i loro discorsi e le loro

argomentazioni essi arrivano a tutto.16 E cosí discorrendo sulla scellerataggine del clero,

giungono in un luogo ameno, dove scorre limpido e blando un ruscelletto che somiglia al

Clitunno, il fiume umbro che il Pontano non aveva mai dimenticato.

Talis Clitumnus per Umbros fertur, et quanquam multarum ille est aquarum dives, hic tamen, quod gurgites nullos efficit, sed continuo et leni currit tractu, ripas habet amoeniores et magis delectat. Sed qualia tibi prata videntur haec, Charon?17

Ma perché proprio questo fiume e non un altro? Come si vedrà piú innanzi nello

svolgimento dei dialoghi che seguono, dove la presenza del Pontano personaggio sarà

ovvia nell’Antonius attraverso la voce del figlio Lucio e di un poeta misterioso, per poi

passare ad essere il protagonista assoluto e centrale nell’Asinus, si avverte in questa

immagine del fiume la disposizione umanistica dell’autore a partecipare attivamente e in

prima persona agli argomenti di cui tratta. Per il momento, considerando che nelle

descrizioni dei paesaggi idillici egli ebbe sempre a cuore le contrade del suo paese natio,

bisogna almeno tenere in considerazione che attraverso questa immagine del Clitunno

egli abbia fantasticato sull’idea di voler far parte della schiera di questi filosofi

16L’avversione contra la corruzione dei frati è tipica dell’umanesimo laico; basta pensare all’Oratio adversus Hypocrisim del Bruni, alle dispute del Filelfo con San Bernandino, al De Professione Religiosorum del Valla, nonché a numerosi scritti di , fra cui il Contra hypocritas, dove si concentra tutto il suo disprezzo per l’ipocrisia dei frati. Sull’argomento vedasi Giulio Vallese, “Umanisti e Frati nella Prima Meta del 400: Poggio Bracciolini e il Contra Hypocritas,” Italica, 23, 3 (1946): 147- 151.

17Idem, p. 17: “Tale muovesi il Clitunno attraverso l’Umbria, e quantunque quello sia piú abbondante di acque, con tutto ciò, questo non producendo nessun vortice, ma muovendosi dolcemente per la contrada, ha rive piú piacevoli e dilettevoli. Ma cosa pensi di questi prati che si vedono, Caronte?” 66 d’oltretomba, se non altro per rinnovare il grande valore simbolico del Limbo come simbolo della sapienza e dei valori della ragione umana.

Sbarcati sulla riva di questo placido e lene corso d’acqua, i due si inoltrano lungo un prato dove abbondano in gran copia fiori d’ogni genere: viole, che i mortali chiamano garofani, ligustri con i quali si fanno le corone, rose che sembrano fatte di rugiada, e infine, il bellissimo fior di giacinto, che per versare le sue lacrimucce nelle ore mattutine,

è chiamato dagli ortolani il tristerello, moerentiolum; e qui, camminando fra tanta bellezza, senza mai smettere di confabulare insieme, si appressano all’ombra di un cipresso, dove incontrano i due giudici Eaco e Minosse.

Ricevuta una lietissima accoglienza, Mercurio comincia a fare una lunga relazione di cosa stia capitando di recente in Italia: di terremoti sconquassanti che hanno prostrato interi paesi al suolo, di guerre che continuano a devastare l’Italia e, particolarmente, dell’ignoranza e dell’infelice superstizione del popolo. Il suo discorso è un accurato profilo storico dell’epoca, che fornisce un quadro ben chiaro dei costumi del tempo e delle sue credenze.

La notizia del terremoto coglie di sorpresa Minosse che domanda prontamente se gli uomini abbiano trovato o meno un modo speciale di costruire le case, in modo da non poter essere distrutte. Viene informato che qualche progresso in ingegneria edile è stato fatto, come il legare le pareti con travi lunghe e incatenarle, ma è solo un rimedio che porge salvezza per qualche tempo; mentre invece, secondo il parere di Mercurio, gli uomini farebbero meglio a incatenare le loro passioni e i loro desideri sfrenati, giacché tutti si preoccupano di allontanare un pericolo che li assilla forse una volta ogni secolo, 67

ma si precipitano di buona lena, felici e contenti, incontro ai pericoli, alle guerre, alle

pestilenze, di cui sono essi medesimi la causa.

Nocte una post aliquot etiam secula quod ad viginti hominum millia sub tectis oppressa sunt, omnes hoc horrent incusantque, ac damnant naturam, quae vix scio quamobrem amplius illos ferat. At bella, quae unius horae momento et fere quotannis multa hominum millia exhauriunt, interdum regna tota populosissimasque extinguunt nationes, qua non arte quaerunt? In his sese exercent; hic illis ludus, hae delitiae sunt.18

Mercurio conclude l’argomento facendo osservare che gli uomini non solo non hanno

punto mutato in meglio dall’antichità, ma che sono anche diventati peggiori, perché se

una volta “i mariti ripudiavano le mogli adultere, adesso le sgozzano.”19

Esaurito il tema della malvagità umana Mercurio passa a quello della superstizione,

avviando il discorso sulla nozione che il Dio Ottimo e Massimo ha operato giustamente

nel dare agli uomini, come pena della grande fatica che fanno per divinare il futuro, non solo il tormento dei mali presenti, ma anche l’angoscia e il terrore dei mali che possono capitare; come ad esempio il terrore seminato fra la popolazione a causa di una recente ecclissi solare e l’avvistamento di una cometa, essendo questi presagi di gravissime guerre e sconvolgimenti di regni.

Su istanza di Eaco e Minosse, che sono curiosi di sapere perché all’uomo non è concesso di divinare il proprio futuro, Mercurio afferma che a saperlo prima l’uomo vivrebbe disperato e non avrebbe pace. Infatti, nel creare l’uomo ed evitare che egli sia piú infelice di quanto la sua natura richieda, Dio ha voluto privargli la conoscenza dei

18Charon, op. cit., p. 21: “Se in una sola notte, dopo parecchi secoli, capita che piú di venti mila persone siano schiacciate sotto i tetti, tutti ne restano inorriditi e biasimano la natura; tutti la condannano, la quale a mala pena, io penso, voglia apportare loro tanto danno. Non sono poi essi a cercare con arte le guerre, che quasi ogni anno, nel giro di un momento, uccidono molte migliaia di uomini? Non sono essi ad estinguere nazioni popolatissime? In queste cose si addestrano! Questo è il loro divertimento, la loro letizia!”

19Idem, p. 21: “Imperantibus vobis, viri uxores adulteras repudiabant, at nunc ferro enecant.” “Quando voi regnavate, i mariti ripudiavano le mogli adultere, mentre ora le sgozzano.”

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mali che non potrebbe assolutamente evitare; come anche dei beni, perché se da un lato

renderebbero la sua vita felice nell’attenderli, dall’altro l’uomo diventerebbe inerte e

vivrebbe una vita senza agire aspettandoli dormendo. Ma dal momento che “Deus

hominem ad agendum comparandamque agendo virtutem creavit,”20 Dio ha voluto

appositamente dare all’uomo come compagna della vita la “Miseria,” per la quale egli è

costretto ad affaticarsi nell’incertezza, avendo per sola certezza il lavoro quotidiano. 21

Intanto Caronte, che fino adesso ha ascoltato diligentemente da buon alunno il

discorso di Mercurio senza fare alcun intervento, fa la domanda se la superstizione degli

uomini sia gradita o meno agli dei, dando luogo a un dibattito molto serio, che risulta

essere una vera e propria condanna delle profanazioni religiose. Innanzi tutto, non c’è

cosa che torni molesta agli dei che la superstizione, perché, essendo una cosa grottesca, rende ridicoli gli dei. Ma è anche un male calamitoso e spregevole per il quale l’essere umano è costretto a vivere costantemente nell’incubo, onde consuma i giorni e le notti genuflesso supplicando gli dei e borbottando preghiere e giaculatorie strampalate. Questo non è un comportamento che rende felici gli dei. Ad essi non interessano né le lacrime, né gli spaventi degli umani. Al contrario, essi diligono “et bonos et iustos, non lacrimosos.”

Atque ut verum noscatis, nullum gravius malum homines invasit superstitione et studio ac metu isto in Deos tam inani et frigido, nec tam vera religio Diis est grata quam molesta superstitio; quae quam sit detestabilis hinc tute iudicato, quod, tamquam caede saginemur ac sanguine, hominem homo nobis mactat, quin et proprium fundit sanguinem.22

20Idem, p. 22: “Dio creò l’uomo per l’azione e la ponderatezza, per le quali si ottiene la virtú.”

21Salvatore Monti, in op. cit., p. 275, fa notare che dal discorso di Mercurio è evidenziabile l’intento del Pontano in satireggiare la realtà storica del mondo a lui contemporaneo: “La satira del Charon pontaniano è una satira storica: è la satira, piú precisamente, del mondo contemporaneo, in ciò che esso aveva, per gli occhi del Pontano, di meritevole d’essere satireggiato.”

22Charon, op. cit., p. 24: “Tanto per farvelo capire, nessun male piú grave ha invaso l’uomo che questa indolente e vana superstizione e inclinazione di aver paura degli dei. Cosí come è grata agli dei la vera religione, tanto è loro fastidiosa la superstizione; la quale è talmente detestabile e riprovante, che l’uomo uccide per noi l’uomo. Come se poi noi pascessimo nel sangue, l’uomo non si rende conto che ci versa anche il proprio sangue.” 69

Incredulo dal resoconto di Mercurio, Caronte gli chiede allora per quale ragione né i

sacerdoti, né i pontefici non impediscano all’uomo di compiere tali scelleratezze, quantunque sappia che, fra la gente che egli trasporta nella sua barca, siano proprio quelli

appartenenti al clero ad avere impresso sulla fronte il marchio piú brutto. Di rimando,

Mercurio lo avverte che la loro unica preoccupazione è quella di ingrassare sia i loro

patrimoni che i loro ventri; e gli racconta la storia di un Cardinale che per poco non

licenziò il suo cuoco, avendo questi deciso di non comprare un pesce che costava

carissimo; e poi di un altro, dello stesso Collegio cardinalizio, che lasciò per testamento

trenta mila fiorini d’oro a un suo amante. Gli dice persino che spesso avvelenano la gente con l’ostia consacrata. Al che, il povero Caronte, sbigottito come un fanciullo, non può far altro che rimanere ancora piú incredulo di questi orrori, per i quali, egli dice che Dio

dovrebbe vergognarsi di avere per ministri tale feccia di gente; e tutto per colpa della sola

superstizione. Basti pensare alle donne del volgo, prosegue Mercurio, che si struggono

ora per questa, ora per quell’immagine sacra, piangendo e supplicandole per cose inaudite

e stupide, ad esempio una gallina o una papera ammalata. Persino i re, i principi e i gran

signori ricorrono agli dei quando un cavallo si rompe un piede o un falcone vola troppo

lontano. Tanto è vero che le chiese sono piene zeppe di immagini votive d’argento, ex

voto, raffigurando ora uno sparviero, ora un cavallo, ora un pappagallo, ora una gamba,

ora una parte oscena del corpo che loro stessi si vergognano di mostrare al medico.

Convinto ormai che l’uomo è un essere sciocco e ben poco ragionevole, Caronte vuole

sapere se la superstizione sia almeno un fenomeno italiano. Ma viene a sapere che fuori

d’Italia le cose sono peggiori. In Germania, ad esempio, ogni anno, durante la stagione

della svinatura, che coincide con la festa di San Martino, tutti sono tenuti ad ubriacarsi in 70 onore del Santo. Al mattino tirano fuori dalla chiesa la statua del Santo e la portano in processione per le strade, ognuno tenendo in mano boccali zeppi di vino e bevendo allegramente; raggiunto il fondo del boccale, schizzano a gara quelle poche gocce rimaste addosso al Santo; tutti gli offrono il miglior vino, in gran quantità, tanto che le strade, le piazze, le chiese sono letteralmente invase da botti e barilotti di vino da dove tutti attingono. In caso di pioggia, però, per il Santo è un grave problema. Tutti lo maledicono, lo imbrattano di fango e gli riversano addosso le cloache delle strade. Udito questo,

Caronte conclude che questa gente agisce da porci ubriaconi per i luridi scherzi che fanno al loro Santo. Ma non è ancora niente rispetto a quello che viene ora a sapere di quello che capita in ogni anno a maggio, durante la festa del porcello.

Nella capitale dei Campani c’è una chiesetta in cui si appende ad una trave del soffitto un maialetto insaponato di unto e di sego, che si cala e si tira prontamente fra la folla, su e giú. I contadini arrivano da tutte le parti per disputarselo; e la gente si diverte moltissimo vederli darsi spinte, urlare, inveire contro i santi, la Vergine e Dio, nel cercare di acchiapparlo; e su e giú, ora tirando, ora calando, ora dondolando la fune, per ampliare il boato delle risa, quelli che stanno di sopra rovesciano all’improvviso sulla folla dei contendenti tutta una brodaglia di acqua fradicia e puzzolente e di urine con tutti gli escrementi. Ciononostante la gara continua sotto questa incessante pioggia di brutture e scelleratezze, fino a quando, dopo tante prove fallite, uno dei villani si impadronisce del porcello e non se lo fa piú scivolare dalle mani. A prova della sua saggezza Caronte conclude che quelli che hanno tanto ardire a conciarsi in tal modo per impadronirsi del maiale non fanno altro che rivoltarsi come il porcello nel brago della loro superstizione. È una conclusione molto fine a testamento della sua saggezza; ma viene subito contrapposta 71

da una molto ingegnosa, dietro le cui parole si nasconde però il piú aspro sarcasmo del

Pontano contro il clero. Avendo Caronte frainteso “festa dei Campani” per “festa delle campane,” conclude che gli uomini hanno inventato le campane per diventare ancora piú pazzi ascoltandone i suoni e i fragori, e da qui il motivo per cui le suonano con tanto amore e devozione.

Ma è tempo ormai che il buon Nocchiero ritorni al suo ufficio. Avviandosi verso il porto si imbatte di nuovo in Diogene e Crate, ai quali va dicendo la sua, provocandone un umore abbastanza divertente, specialmente quando Diogene gli chiede di chiamarlo

“Cane” e Caronte gli propone invece “Pescecane.”

Char. Natitans mecum serio aliquid loquere, quo laborem hunc meum dicendo leves. Diog. Dum ne me canem appelles. Char. Quid si piscicanem? Diog. Perplacet. Char. Dicas, igitur, obsecro, piscicanis, an eorum quae in vita egeris alicuius te nunc delectet memoria.23

Diogene gli racconta che un giorno, non avendo legna con cui cucinare e ripararsi dal

freddo, fece a pezzi una statuetta di legno raffigurante un dio per riscaldarsi e cucinarsi la

cena. E nonostante il dio volesse vendicarsi accecandolo col fumo, egli lo vinse, soffiando ed agitando il berretto, tanto da mantenere la fiamma viva soffocandone il fumo. Caronte lo congratula dicendogli che è un ottimo gladiatore e che sa difendersi bene; ma vuole sapere come fece a discolparsi in tribunale per il dio mandato in fumo.

23Idem, p. 28: Caronte. Nuota un po’ con me e parliamo seriamente, in modo tale che discorrendo mi distrai un po’ da questo mio lavoro. Diogene. A patto che tu mi chiami cane. Caronte. E perché non pescecane? Diogene. Mi piace. Caronte. Dimmi dunque di grazia, Pescecane, di tutte le tue cose che hai fatto nella vita, qual è quella che piú ti allieta la memoria? 72

Facile id quidem fuit. Nam cum frequenti populo contra me ageretur, tum ego: “Praetor, inquam, tute scis me canem esse, quod et ipse confiteor; leges autem hominem, non canem puniunt; lege igitur mecum agere nihil tibi omnino licet.” Quo dicto cum qui aderant assensissent, illico me praetor absolvit.24

I due giudici Eaco e Minosse, che intanto sono rimasti a parlare da soli con Mercurio,

vogliono sapere da costui cosa realmente significano i segni celesti di cui ha parlato; e

Mercurio dice loro che significano guerre e peste imminenti, pronte ad essere scagliate

contro l’umanità dai sacerdoti e dai Papi; perché in realtà la pace la vogliono a parole e

non a fatti. E da qui in poi il discorso verte sulla condizione politica dell’Italia, che

mantenuta lacera e divisa dall’egoismo ecclesiastico, essa ha perso ogni Romana virtú.

Tristi e piangenti, Eaco e Minosse convengono che non Roma soltanto, ma l’Italia

intera è priva di uomini di vero valore. Abbandonatosi dunque all’oblio dei dolci ricordi

dell’antichità, delle virtuose gesta dei Greci e dei Romani, a un certo punto Eaco

annunzia a Minosse una profezia sul futuro dell’Italia.

Vel quod haud multis post seculis futurum auguror ut Italia, cuius intestina te odia male habent, Minos, in unius redacta ditionem resumat imperii maiestatem.25

Ma intanto ecco che le guerre e pestilenze predette da Mercurio sono già scoppiate; e

cominciano a piovere all’inferno migliaia di anime. Eaco e Minosse, che tutto a un tratto si son trovati con un bel daffare, ritornano ai loro posti e vanno a cercare il loro collega

Radamante per potersi preparare al gran flusso di gente. Fra tutto l’andirivieni di gente e di ombre che si ammassano ogni dove, seguono scene piene di vitalità e di movimento,

24Idem, p. 29: “Fu veramente una cosa molto facile. Siccome si era ammassata contro di me un’enormissima folla, dissi allora: “Tu sai benissimo, Pretore, che io sono un cane, io stesso lo ammetto. Le leggi però puniscono l’uomo non il cane. E pertanto io non ho niente a che vedere con la legge, né ti è permesso d’applicarla”. Detto questo, tutti i presenti acconsentirono, e il pretore mi assolse lí per lí all’istante.”

25Idem, p. 32: “Io prevedo senza dubbio, Minosse, che fra molti secoli futuri l’Italia, in cui adesso ci sono troppi odii civili, rinnoverà lo splendore dell’impero, una volta ridotta sotto il dominio di uno solo.” 73

che a livello artistico sembrano essere prese di primo acchitto dai canti infernali danteschi

e dalle novelle del Boccaccio.

Mercurio, che nel frattempo sta aspettando il ritorno di Caronte con la sua barca zeppa di anime per poterle accompagnare davanti ai giudici infernali, accortosi di alcune ombre

che svolazzano da sole si intrattiene a parlare con loro. Sono Menicello, Pedano e Teano,

tre grammatici, che si azzuffano e si beffano l’un l’altro per questioni di latino: ad

esempio se il vocabolo manus è maschile o femminile, qual è la differenza fra lapis e

petra e che Cesare avrebbe dovuto scrivere currus invece di carros; Pedano si vanta

persino di avere appena parlato con Virgilio e saputo da questi che Aceste aveva

approvvigionato la flotta di Enea con sette anfore di vino per ogni trireme, piú un

sextariolus (piccola botte) di aceto, quando partí dalla Sicilia; ma che si era equivocato

con lo scrivere cados (orci) invece di amphoras, perché a quel tempo nell’isola non si

usavano ancora gli orci di terracotta.

Caronte, invece, è alle prese con una barca stracarica di anime, che a stento riesce a

muovere con il remo. Rimprovera tutti che a nulla servono le lacrime nell’oltre tomba,

specialmente ad una certa Cipria, dalla quale viene a sapere che in vita era dedita alla

prostituzione e che il compagno silenzioso con cui viaggia, un vecchio cardinale

dall’aspetto molto libidinoso, è il suo amante che la amava e la manteneva. Indignato che

una bella giovinetta avesse potuto amare un vecchio prete, Caronte si adira dicendole che

la bellezza vale piú che la religione, e che il denaro piú che la vecchiaia; cosa a cui lei

non obbietta, perché col denaro il cardinale non solo aveva piú volte comprato la sua

vecchiezza, ma anche la bruttezza della sua faccia. Inoltre, quantunque vecchio, era cosí

libidinoso che lei stessa non gli bastava. 74

Cipria. Ego ubi primum ad eum sum arcessita, putavi me cum adolescentulo coiturum. At ubi aetatem vidi et os distortum, coepi queri meque deceptam esse ab lenone inclamitare. Tum ille; “Ne, inquit, querare, animula, nam cuius nunc tortum os fugis haud multo post rectum nervum experiere”. Quod fuit; nihil enim illo tentius passa sum unquam. Char. Ite, infelices, in ignem coiturae aevumque illic miserrimum acturae.26

Adiratissimo dalla sua sfacciataggine, Caronte non ha pietà per questi due scellerati, augurando loro non solo di patire nel fuoco eterno dell’inferno, ma che questo fuoco serva loro anche da talamo nuziale dove esercitare le loro vergognese lordure cosí come

da vivi. E cosí, proseguendo a vogare stizzito la sua barca lungo l’Acheronte, nota una

fanciulla in preda alla disperazione che piange e si affligge. Provandone pietà e calmatosi

dalla sua ira, la invita a parlare e a sfogarsi con lui, promettendole che se è stata costretta

da altri a cadere nel peccato, avrà una pena piú leggera o che sarà addirittura assolta.

Confortata da queste parole di speranza, la fanciulla comincia a narrare per filo e per

segno come un vecchio prete lascivo avesse approfittato della sua semplice ingenuità. E

qui comincia uno dei racconti piú toccanti del dialogo.27

“Spesso andavo in chiesa a pregare Dio che mi facesse maritare con un buon uomo, facendo offerte al buon Signore; e spesso ero solita confessarmi con un vecchio prete dall’aspetto molto buono, che pareva un santo. Ma quando poi egli cominciò a rendersi conto della mia semplicità, un giorno mi disse che il Dio non voleva che io gli chiedessi un uomo e che sarebbe stato molto meglio per me non maritarmi; ma che anzi dovevo a

26Idem, p. 37: Cipria. Quando io fui mandata da lui per la prima volta, pensavo fra me stessa che avrei fatto l’amore con un giovanotto. Ma quando poi arrivai e mi resi conto dell’età e della bocca storta, cominciai a pensare fra me stessa di essere stata ingannata e cominciai a chiamare ad alta voce il negoziatore. Al che lui mi disse: - Non lamentarti, tesoruccio mio, quello che tu vedi ora con la bocca storta, una volta provato il suo nervo teso, non fuggirai piú per molto tempo -. E cosí fu; né prima, né poi, mi sono mai piú distesa sotto una cosa cosí tesa. Caronte. Ma andate a copulare nel fuoco eterno dell’inferno, infelici, là nel piú miserabile dei luoghi!

27Per questo episodio in particolare rimando allo studio del Mariotti, in op. cit., pp. 264-265, dove lo studioso fa un’analisi filologica molto dettagliata sull’adattabilità stilistica del latino pontaniano a forme piú proprie della narrativa in volgare. 75 lui consacrare e dedicare la mia verginità. Al che risposi, che se questo era in Suo volere, a Lui dedicavo la mia verginità. Cosí il prete, colmandomi di lodi, aggiunse che dovevo consacrare a qualche chiesa la mia offerta. E a qual chiesa meglio che la sua, gli proposi.

Mi rispose umilmente che di gran cuore accettava la mia offerta, ma che doveva dapprima consultare la sua coscienza, se era necessario o meno ricevere in nome di Dio un dono sí grande per la sua chiesa. E cosí mi raccomandò di ritornare di buon mattino sola, senza testimoni, ben lavata e con una tunica nuova, giacché bisogna essere tutti puliti davanti a Dio. Il mattino seguente mi recai in chiesa, come mi era stato comandato, e lui subito mi fece entrare in una cella in cui c’era una imponente statua raffigurante

Iddio circondata da grandi ceri accesi. E qui ci mettemmo a pregare. Ma non passò molto tempo che lui mi disse di togliermi la tunica e tutto il resto, perché era nel volere di Dio e di tutti i celesti che io facessi la mia offerta nuda”.

Ubi ego nuda astitissem, tum ille papillas has pertractans: “Hae, inquit, ecclesiae meae sunt.” Tum mentum manu demulcens: “Et hoc ecclesiae est meae.” Hinc genas summis delibans digitis: “Filia, inquit, oris possession non nisi ore capiunda est,” meque ter osculates cum fuisset, “et labia haec meae sunt ecclesiae.” Sic pectus, sic ventrem ecclesiae suae esse cum dixisset, ut iacerem iussit. Iacui infelix; tum ille genu innixus femoraque contrectans: “Deus, ait, qui tumidula haec femora castigatulumque ventrem cum brachiolis his teretibus tam venuste molliterque formasti, aspice virgunculam tuam et ista possesione laetare.” Ter haec cecinit; ibi; ut omnia transigeret, id respexit quo mulieres sumus. “Et illud, inquit, filia, manu capiendum est. Verum ut oris capta est ore possessio, sic tui quoque illius meo hoc est capienda.”Utinamque tunc expirassem, misera! 28

“Invece”, continua l’ingenua, “mi fece tornare tante e tante di quelle volte, tanto che lui, sempre studiandosi di lavorare piú arditamente il suo fondo, mi ingravidò. Ed io

28Idem, pp. 38-39: “Non appena fui nuda, lui cominciò a palpeggiare queste mammelle e disse: “Queste sono della mia chiesa.” Poi accarezzandomi con la mano il mento: “E questo è della mia chiesa.” Disse poi, sfiorando con la punta delle dita queste guance: “Figlia, il possesso della tua bocca deve essere preso soltanto dalla mia”. E baciandomi tre volte, continuò a dire: “E queste labbra sono della mia chiesa.” E così del petto e del ventre, che appartenevano sempre alla sua chiesa, fino a che mi ordinò di giacere supina. Al che io infelice mi stesi. Ma non appena si inginocchiò anche lui, cominciò a palparmi le cosce, dicendo: “Dio, che queste belle cosce creasti perfette e pasciutelle, e questo ventre cosí liscio, e queste braccia cosí perfette e soffici, volgi il tuo sguardo a questa tua verginella e rallegrati di possederla.” Tre volte disse queste parole, poi toccandomi dappertutto, volse il suo sguardo in quella parte per cui siam fatte donne e disse: “ Figlia, lasciati toccare con la mano. Cosí come il possesso della tua bocca è stato compiuto dalla mia, in tal modo questa parte deve essere posseduta dalla mia.” Misera me! Avesse Iddio voluto farmi morire sull’istante!” 76

morii nel parto.” Esterefatto da questo turpe racconto, Caronte vuole sapere se il prete

avesse almeno avuto la decenza di confessarla in punto di morte; cosa che lei conferma;

al che Caronte la conforta dicendole di essere stata assolta appena in tempo.

Char. Nunquid non ille te absolvit morientem? Umbra. Absolvit. Char. Laeta esto. Nam iudices et ipsi absolvent.29

E qui termina la storia di questa fanciulla, onde fu tratta in inganno e tradita da un prete: che è poi il solito tema dell’arte scellerata dei ministri di Dio nel raggirare le donne

ingenue, cosí come era già stato trattato dal Boccaccio (Decameron III, 10) e da

Masuccio Salernitano (Novellino I, 2), eccetto che in Pontano, come si è visto, la

narrazione del coito è molto piú dettagliata.

Non ancora raggiunta la sponda opposta del fiume, Caronte continua a parlare con due

anime in particolare, un toscano e un umbro, con i quali moraleggia e motteggia sempre

con quel suo fare bonario, facendo tante e svariate domande su argomenti di ogni genere,

specialmente sul loro ideale di sapienza umana. Il Toscano mette in evidenza l’aspetto

pratico della sapienza, facendo il punto che per vivere felici bisogna distaccarsi dalle

preoccupazioni e dagli affanni della vita attraverso il sorriso e il piacere: ad esempio la paura della morte, il cui rimedio sta nel vivere tranquillamente e onestamente; il terrore della povertà, la cui cura sta nel pensare che non può mai essere povero colui che vive secondo natura; prender moglie una seconda volta, totalmente da sconsigliare, perché non bisogna mettersi allo sbaraglio due volte; e cosí per l’invidia, le calunnie, l’ambizione, la superstizione, incluso il destino dell’uomo, per il quale non esiste altro che vanità e stoltezza in ogni cosa, “Vanitatem ac stultitiam esse omnia.” L’Umbro, invece, mette in

29Idem, p. 39: Caronte. Ti ha almeno assolto moriente? Ombra. Mi assolse. Caronte. Rallegrati di questo. Perché i giudici ti assolveranno. 77 rilievo l’aspetto filosofico della sapienza umana. Dalle sue parole, pregne di quella

dottrina morale tipicamente pontaniana, non va escluso che sia lo stesso autore ad

intervenire in prima persona. Non a caso il dialogo si conclude qui, con una nota sulla

felicità umana, cosí come solo il Pontano sapeva intenderla: giovialità e moralità.

Etenim cum inter deos atque homines tantum intersit quantum norunt omnes, nec solum spatio, sed natura, nonne admirabilis virtutis vis haec est, quod et deos hominibus conciliat in vita et post mortem illorum coetui eos adiungit? Nam cum virtus medium quoddam sit extrema quae videantur in agendo fugiens, quae maxima illius laus est, haec certe summa est vis eius, quod eadem haec ipsa virtus inter Deum et hominem medium tenet, quo quidem dempto medio, nullus est ad Deum accessus, nulla quae ad illum perducat via, quae et ipsa principio Deum cognoverit et qui secundum se vixissent inter divos retulerit. Coetera cum fluxa et fragilia sint, auferri temporis momento possunt, at virtus firmum et stabile bonum est. Quae cum nullius sit externae rei indigens, alia tamen omnia absque illa manca sunt, hucque atque illuc incerta feruntur.30

Nel suo desiderio sincero di apprendere, dove l’alunno pone la domanda e il maestro risponde, il personaggio Caronte è una felice mediazione fra ignoranza e sapienza, rozzezza e cultura. Egli non è piú il vecchio burbero nocchiero, bensí una sorta di popolano che non è volgare nei suoi modi di fare; non è piú il vecchio brontolone pervenutoci dalla tradizione classica, ma un bonaccione che vuole imparare e si meraviglia di tutto. In lui si incarna tutto il sarcasmo del Pontano contro la stoltezza degli uomini, che per la loro cecità non riescono a discernere il bene dal male, allontanandosi quindi sempre di piú dal giusto mezzo, che è l’unica alternativa capace di garantire la vera felicità all’uomo. E il dialogo finisce qui, con questa nota sulla felicità, allorché entrando nel regno dell’immortalità due cori di anime, l’uno composto da ombre malvagie, l’altro da ombre innocenti, intonano un canto in un’immaginaria scena infernale.

30Idem, p. 44: “Tu sai quanto Dio è distante dall’Uomo, non solo di spazio, ma anche di natura: ebbene, la Virtú è la sola che in vita concilia Dio all’uomo, e dopo morte unisce l’uomo a Dio. Poiché, siccome la virtú “sta nel mezzo” e fugge gli estremi, cosí anche fra Dio e l’Uomo sta unicamente la Virtú; né senza di essa è possibile conoscere Dio o salire a Dio. Tutti gli altri beni sono fragili e passeggeri: la virtú sola è stabile ed eterna. E mentre essa non ha bisogno di alcuno, tutte le altre cose senza di lei sono manchevoli.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 137). 78

3. Antonius

Lo stesso motivo della ricostruzione della sapienza che nel Charon si è sviluppato

gradualmente attraverso la condanna della superstizione, dell’ipocrisia del clero e della

petulanza dei grammatici, viene ripreso nel secondo dei dialoghi pontaniani, l’Antonius,

dove l’autore affronta nuovamente il problema della felicità. A differenza del Charon

però, dove la ricerca della sapienza è affidata unicamente al personaggio Caronte, che nel

graduale procedere delle scene va man mano ampliando la propria dottrina e cultura,

nell’Antonius questo avviene attraverso piú di un personaggio e un susseguirsi di scene

frammentate, non ben connesse fra di loro, quasi fossero le une indipendenti dalle altre.31

Ciononostante, la stessa prospettiva che contrappone gli ideali della vita antica con quelli

deplorevoli del presente, viene qui riproposta attraverso la rievocazione della figura

umanissima di Antonio Beccadelli; e quindi, laddove nel Charon il punto di paragone fra

le due età, l’antica e la moderna, viene raffrontato attraverso l’ingenuità di Caronte,

nell’Antonius gli stessi valori dell’umana perfezione vengono fatti rivivere attraverso il

ricordo di Antonio Beccadelli, il Panormita, a cui viene dedicato il dialogo.

A parte la figura del Panormita, quale fondatore dell’Accademia e grande difensore di

Cicerone e Virgilio, i personaggi piú notevoli del dialogo sono Suppazio, che racconta

comicamente le avventure di un suo recente viaggio in Italia, affrontato con la sola

speranza di trovare l’ideale della “sapienza”; quella dello stesso Pontano, che tramite il

racconto in prima persona del figlio Lucio, troviamo nel bel mezzo di un litigio con la

31La critica parla spesso di questo dialogo in termini di frammentarietà. Vedasi ad esempio Antologia poetica di umanisti meridionali (A cura di A. Altamura, F. Sbordone, E. Servidio. Napoli: Società Editrice Napoletana, 1975), p. 98: “L’Antonius è una miniera di vivaci discorsi frammisti a canti, a descrizioni, a esibizioni di girovaghi.” 79

moglie, che lo accusa di presunte scappatelle extra coniugali; e infine quella del Poeta

Personatus, che accompagnato dal suo istrione, narra in versi la guerra di Sertorio. Sono

tutti personaggi importanti in quanto, pur nella loro dimensione comica, danno un senso

di legame a tutto quanto il dialogo, dove il tema della sapienza è incentrato sul motivo della iocunditas, ossia della giovialità, qui rappresentato dal capovolgimento faceto degli ideali umani, della sapienza e del buon vivere; insomma delle virtú, che attraverso una dettagliata analisi dei loro estremi, e quindi della stoltezza, dell’ipocrisia, delle superstizioni, dell’ignoranza e via dicendo, vengono indirettamente messe in luce per il loro alto valore morale; attraverso le quali, se bene esercitate, si giunge alla felicità.

In questo senso però, bisogna fare molta attenzione a non fraintendere il significato di

“giovialità,” perché nell’opinione del Pontano essa non è uno stato mentale passeggero, uno sfogo catartico per cosí dire, che attraverso lo scherzo e il sorriso ha un effetto purificatore. “Giovialità” significa soprattutto “accettazione” delle cose che non possono essere cambiate; come la morte ad esempio, che dal punto di vista cristiano e ciceroniano non è un male dopo tutto. Ne consegue pertanto che attraverso la conoscenza dei propri limiti umani “l’accettazione” è una virtú, che nel contesto dell’Antonius viene infatti sublimata attraverso il ricordo del Panormita.

Dà inizio al dialogo un Siciliano, venuto a Napoli per visitare il portico antoniano, dove spera di conoscere Antonio Beccadelli. Ma il suo desiderio è vano, perché viene subito informato da Pietro Golino, il Compatre, che il portico può visitarlo tutto quanto gli pare, ma che purtroppo Antonio non c’è e che non può vederlo. Fattolo sedere, il

Compatre, che ancora veste di lutto, gli dà la brutta notizia che il Panormita è morto di recente, dopodiché comincia a narrargli dell’accademia e della figura del suo illustre 80

fondatore. Il suo discorso, che è ricco di particolari anedottici, è sostanzialmente un vero

e proprio elogio dedicato al Panormita, alla sua immensa dottrina e specialmente al suo

carattere gioviale, allegro, giocoso e pieno di vitalità. Pochi giorni prima della morte,

infatti, lui che tanto si divertiva a pigliare in giro i Pugliesi e le loro superstizioni, si era

messo a recitare lo scongiuro di San Vito che essi canticchiano per essere curati dai morsi

dei cani rabbiosi:

Alme Vithe pellicane, oram qui tenes Apulam litusque Polignanicum, qui morsus rabidos levas irasque canum mitigas, tu, sancte, rabiem asperam rictusque canis luridos, tu saevam prohibe luem. I procul hinc, rabies, procul hinc furor omnis abesto .32

Attraverso questa cantilena scherzosa il Panormita dà prova della sua sapienza, in

quanto egli accetta la morte come fatto naturale, perseverando quindi ad esercitare il

proprio carattere gioviale fino agli ultimi sgoccioli della vita, ad esempio della sua

costanza, fortezza e certezza che l’uomo si realizza solo attraverso l’esercizio delle virtú.

E da qui in poi il motivo centrale del dialogo s’impernia tutto sulla tecnica del gioco, del

sorriso, delle apostrofi scherzose, a testamento della socialità dell’uomo.

Rideva infatti il Panormita della tarantola dei Pugliesi, che mordendo le fanciulle inoculava loro il veleno della libidine, per il quale dovevano prontamente trovarsi un

marito onde guarire; e cosí di tante altre sciocche superstizioni. Rideva ai passanti per la

strada con cui avviava e manteneva la conversazione; ugualmente ai dotti del suo Portico,

32Antonius, in Giovanni Pontano, I dialoghi. (A cura di Carmelo Previtera. Firenze: Sansoni, 1943) p. 50: “O Vito, generoso pellicano, protettore della terra Apula e del litorale di Polignano, che rendi innocui i morsi rabbiosi e plachi la rabbia dei cani idrofobi, tu, santo, tieni lontano la molesta rabbia ed i morsi letali del cane e del terribile flagello. Va’ lontana da qui, rabbia; ogni furore resti lontano da qui.” (Traduzione dall’Antologia poetica di umanisti meridionali (A cura di A. Altamura, F. Sbordone, E. Servidio. Napoli: Società Editrice Napoletana, 1975), p. 99). 81

che egli chiamava “Senato.” Era sempre sorridente, castigando col suo sorriso i vizi e la

stoltezza dell’uomo; e a tale proposito il Compatre racconta al suo ospite una storiella che

il Panormita era solito narrare sulla stoltezza di una donna, una certa Callezia; la quale,

ogni qualvolta che Re Alfonso andava a Gaeta, si metteva alla testa del corteo tutta nuda,

credendo che questo fosse il miglior modo di onorare il suo re; né ci fu modo alcuno di

convicerla diversamente. Ma la conversazione viene interrotta da un banditore del re,

venuto a pronunziare un editto nei pressi di casa Pontano, che abita di fronte al portico:

Licere fasque esse Iovianum Pontanum, qui habitat in proximo, tuto egredi domo, tuto per urbem incedere, tuto etiam de rebus Latinis Latinum hominem disserere; istos vero Graecissantis homines atque Italo-graecos nihil ei maledicere, nihil incessere; non oculis, non barba, non superciliis, non denique ulla Graeca arte illudere. Hoc regem ipsum edicere. Si quis secus fecerit, barbam ei evellere impune licere, pilleum auferre, erepidulas eripere. Quod edictum sanctum esse omnes sciunto idque tuba hac testor.33

Per spiegare il motivo dell’editto, il Compatre spiega al forestiero che è stato emesso

contro i saputelli grecizzanti, i quali molestano il Pontano, credendo di sapere il greco

meglio di lui che lo ha studiato in Italia. Il Pontano poi non andrebbe a Costantinopoli per

imparare il greco, dove si parla meglio il turco, dacché la vera Grecia si è ormai trasferita tutta in Italia. Ed ecco passare uno di questi che, citando alcuni versi di Pindaro tutto pettoruto, si pavoneggia per strada senza salutare nessuno. L’ospite siciliano, che non capisce il greco, pensando che vuole offenderlo, sta per dargli addosso. Ma è immediatamente fermato dal Compatre, che gli dice di non mettersi con gente del genere,

giacché non è consuetudine degli Antoniani querelare con loro.

33Antonius, op. cit., p. 53: “È concesso per legge a Ioviano Pontano, che abita qui vicino, sicuramente fuori casa, sicuramente camminando per la città, sicuramente a discorrere anche di cose latine dei Latini, che questi uomini grecizzanti, specialmente gli Italo-Greci, non devono per nulla maledirlo, né scagliarsi contro di lui; né tanto meno fare smorfie con la loro barba e le loro sopracciglia, né infine di alcuna arte greca. Il re in persona ha ordinato questo. Se qualcuno diversamente lo farà, gli sarà impunemente strappata la barba, tolto il pileo e con esso la libertà. In quanto alla santità di questo editto, tutti sono ritenuti a capire quanto ordinato, che quivi attesto con il suono della tromba.” 82

Intanto il portico comincia ad affollarsi dall’arrivo dei dotti dell’Accademia, tra cui

Enrico Poderico, che si lamenta della nobiltà napoletana, della poltroneria dei giovani e della corruzione dei costumi. Aspettando che arrivino i rimanenti accademici, fra una battuta scherzosa e l’altra seguono nel frattempo piccole scene di persone del quartiere che passano per strada a ridosso del portico. Con il loro chiasso e la loro vivacità i passanti amplificano l’allegra atmosfera della strada e quella degli accademici, che, a vederli passare, si divertono a considerare le loro personalità: ora di un adolescente che narra come il suo padrone prelato sia guarito da una violenta indigestione per l’avere assoldato una prostituta, onde gli accademici convengono che una sentina sia molto piú aggraziata di un prete; ora di un vecchietto ottantenne, che tutto preso dall’amore per la sua Marianna, le va canticchiando versi amorosi, perché grazie a lei si sente giovane e forte, onde tutti ridono della sua pazzia; ora di Euforbia, la piú pazza del vicinato, le cui grida non fanno dormire nessuno, onde tutti sono d’accordo che se la pongono in cima a una vetta delle Alpi, la sua voce potrebbe chiamare a concilio tutte quante le popolazioni della Gallia, della Germania e della Bretagna; ora di tutta quanta la città intera, che tota delirium est. Ma ormai tutti gli accademici sono presenti all’appello ed è ora di passare ad altre considerazioni, molto piú serie che scherzare guardando i passanti. L’azione del dialogo si sposta ora su una discussione dottrinale in difesa dell’arte oratoria ciceroniana e di quella poetica virgiliana contro gli attacchi dei grammatici.

Sotto la guida del Compatre, che parla a nome di Antonio Beccadelli, si affronta la prima questione, che è quella di definire se il fine dell’oratore deve essere il “dicere apposite ad persuasionem,” secondo Cicerone, o il “solum bene dicere,” come vogliono i grammatici a favore di Quintiliano. L’argomento è affrontato da Andrea Contrario; il 83

quale, dopo una lunghissima disquisizione sulla definizione dell’arte oratoria, come è

definita sia dall’uno che dall’altro autore antico, mostra con vigore di logica che Cicerone

ha ragione. Sono pagine ricche di sottigliezza e ampia dottrina filosofica, dove il lettore

moderno a mala pena riesce a raccapezzare la finezza del ragionamento; ma belle e

raffinatissime, in quanto danno un’idea molto chiara sulla realtà storica dei vivaci

convegni accademici napoletani, dove fra tanti discorsi dottrinali si trovava pur sempre il

modo di rallegrare l’animo con una pausa dilettevole; come ad esempio qui con

l’intervento del Compatre, che durante l’intervallo ricorda ai convenuti come il Panormita

si divertiva contro i grammatici raccontando la storia della sua nutrice Sibilla quando egli

viveva a Palermo; la quale, ogni qual volta ne vedeva passare uno per strada, recitava uno

scongiuro, come i Siciliani sono soliti fare quando si imbattono in qualche cane rabbioso.

Nel giustificare lo strano comportamento della nutrice, il Panormita era solito dire che

nemmeno l’inferno li voleva:

Solas etiam grammaticorum animas post mortem non expurgari; quodque infernus eas expiandas non caperet, statim redire in corpora ac propterea contingere ut in dies atque in secula grammatici dementiores essent”.34

Viene ora la volta di difendere un passo dell’Eneide di Virgilio, dove vengono

descritti i tuoni dell’Etna presso il porto dei Ciclopi (Eneide III, 570). A parlare è Elisio,

che si scaglia prontamente contro due filosofi antichi, un certo Gellio e un Favorino,

secondo i quali i versi di Virgilio non avevano nulla a che fare con quelli di Pindaro e

Claudiano sullo stesso argomento. E quindi, esaminando una per una le parole di Virgilio

in confronto a quelle dei due autori precedenti, dimostra che le tre descrizioni erano di

natura diversa, giacché diverso era stato sia il fine poetico che voleva raggiungere ognuno

34Idem, p. 62: “Solo le anime dei grammatici dopo la morte non possono essere purgate, perché l’inferno non accetta queste anime da espiare e subito le rimanda a prendere i loro corpi, e per questo, giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, i grammatici sono sempre piú dementi.” 84

dei tre poeti, che l’aspetto del vulcano allorché tuonava in loro presenza.35 Liquidati

Gellio e Favorino, Elisio passa all’attacco di Macrobio, un altro censore di Virgilio considerato il piú pedante fra i grammatici, perché non conoscendo bene il latino, voleva fare da maestro a Virgilio. Fra le tante idiozie dette che lo si accusa di piú, è la sua nozione o fraintendimento del significato reale della parola “Fama.” Essendo Macrobio del parere che nell’atto creativo poetico bisognava attenersi a un solo modello fisso, in modo particolare ad Omero, Virgilio era in errore, in quanto non aveva eseguito lo stesso ordine di catalogazione, cosí come Omero, nella rassegna degli eserciti, dei guerrieri e delle città greche. Ad Elisio questa nozione non garba, perché Virgilio, ora scostandosi da

Omero, ora da Pindaro, ora dai maggiori poeti dell’antichità, si era dimostrato molto piú originale, affermando pertanto la norma del bello attraverso il suo esempio poetico. Non a caso Elisio liquida l’argomento di Macrobio con una famosissima iperbole virgiliana pertinente appunto alla fama, che invece di esaltare l’uomo alle stelle, “intra sidera,”

esalta la sua testa fra le nuvole, “caput inter nubila condit.” E la discussione finisce qui

con questa parte teoretica sull’arte in generale; la quale, considerando i tempi, è

abbastanza geniale e moderna.

A conclusione della loro disquisizione filosofica, mentre fanno i dovuti elogi ai

prìncipi dell’antica poesia, gli accademici sono sorpresi tutto ad un tratto dall’arrivo

inaspettato di Iurazio Suppazio, che, appena giunto da un viaggio attraverso l’Italia alla ricerca del sapiente, a sapientibus quaeritandis, è in cerca del Pontano. Con la sua

35Sull’episodio dell’eruzione vulcanica è molto interessante l’inetrvento di Salvatore Monti , op. cit., pp. 279-281. Secondo il critico il Pontano aveva in mente l’ultima eruzione del monte Epomeo, il vulcano dell’isola d’Ischia, occorsa durante il regno di Carlo III d’Angiò Durazzo, fra il 1382-86. In base a questa data e ad un commento del Pontano che l’eruzione ebbe luogo “centum ante annis aut paulo amplius,” il Monti stabilisce che la data di composizione dell’Antonius è da datare non prima del 1482-83 e non oltre il 1490. 85

comparsa in scena il dialogo riprende il suo tono di giovialità iniziale, se non altro grazie all’allegra brigata degli accademici, i quali, gareggiando nell’avvicinarsi a Suppazio, si sono tutti riversati in strada lungo i portici, facendogli una gran festa. Tutti sono presi

dalla gioia della sua venuta, ognuno sollecitandolo a raccontare di ogni città che ha

visitato, tutte le cose ottime o pessime che ha notato e cose simili; e qui il dialogo diventa

interessante per il suo contenuto storico-culturale, perché nel resoconto delle sue

avventure Suppazio inquadra vivissimamente la realtà dei costumi e delle città del

36 Quattrocento italiano.

Comincia a parlare di Siena, dove era stato attratto dalla fama del suo Studio; ma a sua

sorpresa, nonostante avesse notato che la città fosse abitata da moltissimi vecchi, gli

amministratori della repubblica erano per la maggior parte giovani. Lo stesso era capitato

a Pisa, dove i vecchi abbondavano in gran numero ed erano “tutti dediti al cuoio, ma

nessuno al cuore.”37 In questa città non avrebbe mai potuto sperare di trovare qualsiasi forma di intelligenza; infatti, a causa di sedizioni domestiche ed odii civili, i Pisani avevano perso in poco tempo la repubblica. Fuggitosene a Lucca, ne aveva subito tolto il piede, perché avendo visto in una chiesa una statua di Cristo con una testa enorme, aveva concluso che il popolo lucchese era zotico e che non poteva intendere altro che l’inciviltà.

Recatosi a Prato, meta di tanti viaggiatori, si era trovato nel bel mezzo di una festa in onore della Madonna locale, dove la folla dei cittadini e dei contadini delle campagne circostanti era tutta gremita intorno alla sua statua, ognuno cercando di toccarla fra uno

36Antonius, in op. cit., pp. 86-88: Queste pagine sono degne di nota in quanto al loro valore storico- culturale, specialmente nel considerare che il Pontano, attraverso le sue ambascerie, conosceva l’Italia molto bene.

37Idem, p. 86: “Omnes quidem corio, cordi deditum esse neminem.” Si è voluto qui riportare l’originale latino per far risaltare il gioco fra i vocaboli corio-cordi. 86

spintone e l’altro; ed anche da qui, non esistendo al mondo cosa piú scabbiosa che la

superstizione, se ne era subito scappato, cosí come ne era venuto. A Firenze poi, aveva

notato che le donne piú si preoccupavano di apparire belle, piú rimanevano alienate dagli

uomini. Una sola cosa gli era però molto piaciuto di quella città, ed era il modo in cui i

Fiorentini decoravano le loro abitazioni. Ogni casa aveva appesa alla porta una bilancia, eccetto quelle dei magistrati, che ne avevano appese due, una per pesare le cose dei loro cittadini, l’altra quelle d’Italia. Andatosene a Bologna, non aveva incontrato nessun sapiente vivo, ovvero, molti di essi morti o incatenati. Delle città della Gallia Cisalpina ne aveva visitate tantissime, ma aveva fatto a meno di avvicinarsi a quei pochi sapienti in giro, perché erano tutti al servizio dei tiranni. Ciononostante, in alcune di queste città la sapienza era cominciata a diffondersi, avendo i cittadini imparato ad uccidere i loro tiranni, sebbene poi non avessero ancora appreso come mantenere a lungo la libertà conquistata. Volle vedere Genova, ma non c’era cosa piú volubile al mondo della natura e dell’ingegno dei Genovesi. Imbarcatosi, arrivò al porto di Telamone, dove si rese conto

che al mondo esiste un terzo genere di uomini ancora ignoti ai fisici, dacché dal loro

aspetto i cittadini non sembravano né morti, né vivi. Fuggito subito da questo gregge di

larve, arrivò a Roma grazie al vento di Zefiro spirante, dove nei primi due giorni si era

dedicato a visitare i monumenti antichi e ad indagare le cose sacre. Arrivato il terzo

giorno, se ne era andato a spasso per la città col proposito di incontare qualche sapiente;

ma in ogni quartiere non c’erano altro che trattorie, usurai, bordellieri, meretrici,

gentaglia di ogni genere, e tutta dedita al ventre. Mancò poco che una prostituta lo

picchiasse e che fosse stritolato sotto i piedi dalle mule dei preti. Tra questi ne incontrò

dei buoni, ma ce ne erano tantissimi che erano saputelli fino alla punta degli occhi, tanto 87

che era difficile mantenere una conversazione senza incorrere il rischio di essere

malmenato. Abbandonata ormai l’idea di andare in cerca del vero sapiente, aveva lasciato

Roma e se ne era venuto nel napoletano. Dapprima a Terracina, dove fu bastonato dai

grammatici per aver detto frictio e non fricatio; di poi a Gaeta, dove invece della sapienza

aveva trovato la piú efferata superstizione, e in luogo del sapiente, impostori e

fattucchiere a non finire. A Capua, avendolo scambiato per un dottore, gli avevano chiesto cosa giovasse di piú agli occhi, al che lui aveva risposto, nel non vedere mai un avvocato o un difensore di legge; agli orecchi, nel non avere nessuna donna in casa; allo

stomaco, nel non sedersi mai a tavola con un cardinale. Partito da Capua alla volta di

Aversa, era stato bombardato da una fitta sassaiola da un gruppo di ragazzacci, tanto che il suo asino, preso dallo spavento, si era messo a correrre cosí forte da catapultarlo in una pozzanghera, nella quale, giacente trasecolato in tanta lordura, invece di apparire

Suppazio, sembrava un Lutazio, onde aveva concluso: “Atque hic quidem susceptae ob quaeritandum sapientem profectionis exitus ac finis fuit.”38 E il suo racconto finisce qui,

esprimendo il suo desiderio di andare ora a visitare il Pontano, perché gli è giunta notizia

fino a Capua che si è rotto una gamba ed è in casa convalescente.

La figura di Suppazio riprende il tema del viaggiatore, come il Mercurio del Charon,

che appena arrivato dall’Italia riportava le notizie piú strane sulla stoltezza degli uomini.

In questo senso il suo personaggio si ricollega di nuovo al motivo della sapienza; solo che

dal suo modo faceto di interpretare la vita e dai racconti che egli riporta del mondo in cui

gli è piaciuto muoversi, egli dà l’impressione di essere il tipico eroe delle farse popolari,

il fanfarone burlesco a cui non ne va mai nessuna buona, piuttosto che il vero sapiente

che sa esercitare le proprie virtú attraverso l’accettazione. Già dal fatto che Suppazio

38Idem, p. 94: “E così, dal principio alla fine, questo è stato l’esito per andar in cerca del sapiente.” 88

fugge da una città all’altra, perché non è in grado di accettare la realtà di ciò che vede e

sente, è ovvio che in lui manca quel senso di eroismo virtuoso capace di fargli accettare

le cose che non possono essere cambiate. Egli conosce le regole del gioco, ma non sa

concretizzarle; ovvero, crede di saper riconoscere i sapienti, ma non ne incontra nessuno;

crede di poter affrontare argomenti filologici, ma le busca vilmente dai grammatici. In

tutto il suo peregrinare egli si comporta da controfigura comica del sapiente idealizzato e

perseguito dagli accademici napoletani; ed è pertanto, da questo punto di vista, il

capovolgimento burlesco di tale ideale, di tale sogno, di tale aspirazione. Uno degli

accademici infatti, Enrico Poderico, che lo aveva visto per primo arrivare al portico, aveva appunto messo in risalto questo suo atteggiamento di “Sapiente Antoniano”:

“Volevate il sapiente Antoniano? Eccolo che arriva in carne ed ossa!”

Dii boni, videone ego Antonium sapientem, estne ille Iuratius Suppatius? Certe ipse est. O diem iucundissimum, per ego Ciceronem, perque divinam Ciceronis eloquentiam oro obtestorque uti, valere aliquantulum iussis grammaticis, Antonium sapientem de sapientia disserentem placide audiatis; nihil est, mihi credite, homine hoc urbanius. Videbitis quod loquendi principium adveniens dabit.39

Ma accanto alla figura comica di Suppazio, le cui suggestive avventure mirano a

mettere in luce l’ideale della sapienza, esiste un altro personaggio parimenti importante

nella rappresentazione faceta del dramma umano; ed è quello dello stesso autore, che già

apparso indirettamente all’inizio del dialogo, allorché il banditore del re promulga

l’ordine ai grecizzanti di non dargli fastidio, riappare ora una seconda volta in modo piú

implicito attraverso la voce del figlio. Accade che mentre il Compatre sta facendo il ritratto del Pontano all’ospite siciliano, che ha manifestato il desiderio di conoscerlo,

39Idem, pp. 85-86: “Per Dio santissimo, non vedo io Antonio il sapiente, non è quello Iurazio Suppazio? Certamente, è proprio lui! Oh giorno lietissimo, vi chiedo e vi supplico, io, in nome di Cicerone e della sua divina eloquenzia, di lasciare un poco da parte i grammatici, giacché ascolterete Antonio il sapiente parlare placidamente della sapienzia; credetemi, non c’è uomo piú spiritoso di questo. Vi renderete conto voi stessi, come colui che viene darà sfoggio al fondamento del parlare.” 89 arriva il piccolo Lucio, dicendo che i genitori stanno litigando in casa per colpa di un ragazzino che si è presentato alla porta in cerca del babbo; e dà vita a una scena molto simpatica e vivace.

Hosp. Multa quidem a Siculis meis audio de Pontano; ... . Interim contentus ero qua facie sit novisse. Comp. Bona et recta statura ... . Sed bene habet, eius filiolus domo egreditur, quem compellasse non iniucundum fuerit, cum sit bona et laeta indole, atque, ut video, ad nos venit. Luciole, quid agit pater? Luc. Cum matre litigat. Accessit ad eum adolescentulus cum mandatis; putat illum mater missum a pellice; eam vociferantem quo magis ridet pater eo vehementius irritat. Ego e cubiculo me proripui atque eo libentius quod sacerdos ad eum ingressus est; vult enim mater sacerdoti se ut purget ac peccata nudet, rem sane importunam; sat enim scio matrem et sua et patris peccata nudiustertius sacerdoti ordine aperuisse. Nam cum ipse ad confitentis matris genua assedissem, maternam confessionem, aut rectius questum, attente aucupatus sum: << Bone sacerdos, maritus meus amat ancillulas, si quas facie liberali vidit, sectatur ingenuas puellas. Anno superiore Tarenti cum esset, cognovit non unam; anno ante in cum Gaditanula deprehensus fuit. Iocatur etiam domi cum Aethiopissis, nec pati possum eius interperantiam. Ille ridet, ego dirumpor; perrectat urbem ac principium aulas, ego domi inter pedissequas partior pensa. Nam quid ego illum cum sodalibus, quibus quam familiarissime dies ac noctes utitur, nisi de amoribus deque voluptate loqui atque agere putem, cum interim misera in cubiculo de re familiari solicita domesticis curis maceror? Dii me omnes aspexere quo die crus fregit; non licebit claudum totis diebus domo abesse, singulis horis prostibula adire. Rideat nunc, urbem inambulet, frequentet sodalium domos, audiat via in media pellicum pueros; ego vel ex hoc deos aequissimos iudicaverim, quod tandem iusto eum supplicio affecere>>. Quid igitur opus patrem errores iterato confiteri, quos mater tam aperte explicaverit? Nuper notus quidam et vetus, ut arbitror, familiaris patrem cum adiret, ubi eum vidit mater, ex... exclamare statim coepit: << Scilicet ab Etruria? ab scortillis? Quid agunt Pisatiles meretriculae?>> Prae ira non Pisanas, sed Pisatiles dixit. << Ut valet Gaditana illa? ut memor est amorum hirquituli huius? detulistine ab ea litterulas, cum mandatos? ubi munuscula? ubi monumenta veterem deliciarum?>> Ac tantum non manum iniiciebat; quo ille veritas retro ad ianuam mature concessit atque actutum abiit. Mihi pater, ut cederem innuit; ipse carmen decantare evovium coepit. Hosp. Scitum puerum! Sed, obsecro, carmen evovium quod sit edoce. Luc. Qui Carmen dicit in mulierem furore percitam conversus ter despuit; illa statim bilem evomit ac rabie levatur. Ipsum autem carmen est: Triceps est Cerberus, ter te ego despuo. Triples est Eumenis, ter te ego despuo. Vomas, dico vomas, ter vome et improbam Pectore purgato rabiem ad Phlegethonta remitte.. Hosp. Mirum huic carmini vim tantum inesse! Luc. Ipsa res docet. Se desine, obsecro, mater est in fenestra, cuius conspectum vereor. Valete bellissime. 40

40Idem, pp. 95-96: Ospite. Molte lodi davvero sento elevare dai miei compatrioti Siciliani a questo Pontano; ... Frattanto mi contenterò di sapere quale sia il suo aspetto. Comp. È di statura notevole ... . Ma bene! Il suo figlioletto esce di casa e non sarà poco piacevole a lui: è di indole buona e gioviale e, come vedo, viene verso di noi. Lucietto, come sta tuo padre? 90

Torna intanto Suppazio, che scrollando la testa e tutto impallidito borbotta tra sé:

Hoc deerat ad quaeritandam sapientiam, mulierem irritatam adire, ne id velit sapientiae ipsius pater Iupiter. ... Mihi quidem, si haec vita est maritorum, ne ipsa quidem constantia videri virtus potest, quae vitae inquietudinem ac miseriam alat. Quid enim offirmatio tam constans ac perpetua, nisi continuae rixationis alimonia est? Valeat, valeat virtus ista coniugalis, litigiorum nutricula! Valeat maritalis vita!41

Lucio. Litiga con mia madre. È venuto da lui un ragazzino con un’imbasciata; mia madre crede sia stato mandato dall’amante; lei strilla e quanto piú mio padre ride, tanto piú la irrita. Io sono scappato dalla camera da letto, tanto piú volentieri perché era entrato da lui un sacerdote; infatti mia madre vuole che si confessi da un sacerdote e che metta a nudo i suoi peccati, una cosa veramente fuor di luogo; so bene infatti che mia madre ha esposto di fila al sacerdote i peccati suoi e quelli di mio padre tre giorni fa. Infatti, seduto sulle ginocchia di mia madre, mentre si confessava, ho ascoltato attentamente tutta la sua confessione, o meglio le sue lamentele: “Caro sacerdote, mio marito si innamora delle servette quando ne vede qualcuna di aspetto piú gentile, e va dietro alle ragazze dabbene, L’anno passato stando a Taranto ne ha conosciuta piú di una; l’anno precedente in Toscana fu sorpreso con una ragazza di Cadice. Anche in casa scherza con le ragazze etiopie e non posso sopportare la sua mancanza di moderazione. Lui ride, io scoppio; va in giro per la città e per le sale dei principi, mentre io a casa distribuisco il lavoro fra le ancelle. E infatti, di che genere debbo pensare siano i suoi discorsi e le sue occupazioni insieme agli amici, che frequenta giorno e notte con grande familiarità? Non riguarderanno forse amori e lascivie, mentre io, poveretta mi tormento nel letto, preoccupandomi della famiglia e degli affari domestici? Tutti gli dei hanno rivolto a me lo sguardo il giorno che si è rotto la gamba: non gli sarà possibile, zoppo, andarsene tutti i giorni di casa, andare dalle prostitute ad ogni ora. Rida ora, passeggi per la città, frequenti le case degli amici, ascolti in mezzo alla strada i ragazzi delle amanti; io anche per questo giudicherei giustissimi gli dei, che finalmente gli hanno inflitto una giusta punizione.” Che necessità dunque c’è che mio padre confessi per la seconda volta le sue colpe, che mia madre ha rivelato con tanta chiarezza? Poco fa un conoscente, vecchio amico, come credo, andava da mio padre, ma quando mia madre lo vide incominciò subito a gridare “Certamente vieni di Toscana! Da parte di sgualdrinelle! Come stanno le puttanelle pisatelli?” Per l’ira, invece di “pisane” disse “pisatilli.” “Come sta quella famosa ragazza di Cadice? Si ricorda, è vero, dell’amore di questo sporcaccione? Hai portato una letterina da parte sua, con un’imbasciata? Dove sono i regalucci? Dove sono i ricordi degli amori di un tempo?”E per poco non menava le mani; quello impaurito, subito si diede indietro fino alla porta e immediatamente se ne andò. Mio padre mi ha fatto cenno di uscire ed ha cominciato a recitare un carme vomitatorio. Ospite. Che ragazzo simpatico! Ma ti prego, spiegami che cosa sia un carme “vomitatorio.” Lucio. Chi pronuncia questo carme contro una donna spinta dal furore, sputa tre volte voltato indietro; quella subito vomita la bile e si libera dalla rabbia. Il carme è questo: Cerbero ha tre teste, tre volte ti sputo. / Tre sono le Eumenidi, tre volte ti sputo. / Vomita, ti dico vomita, tre volte vomita / e rimanda dal cuore purificato la perfida rabbia nel Flegetonte. Ospite. È meraviglioso che in questo carme ci sia tanta potenza! Lucio. L’esperienza lo dimostra, Ma smettila, ti prego, mia madre è alla finestra, e io temo la sua presenza. Salute, Carissimo. (Traduzione del Tateo in L'umanesimo meridionale (Bari: Laterza, 1972), pp. 41-42).

41Idem, p. 96-97: “Solo questo mancava a chi va in cerca della sapienzia, imbattersi in una moglie irritata! Tanto meno chi la desidera, per Giove! ... Mi domando se questa sia la vita dei mariti, se non c’è nemmeno un po’ di tranquillità. Una vita che in fondo si nutre di miseria ed inquietudine. Eh! Il detto antico è duraturo e perpetuo: per avere un’erezione tenace ci vogliono gli alimenti, bisogna mangiare! Evviva questa virtú coniugale, genitrice di litigi! Evviva la vita matrimoniale!”

91

E la buona ragione di lamentarsi in tal modo è il fatto che il poveretto, essendo andato

a trovare il Pontano, aveva invece avuto a che fare con la moglie, che credutulo un

messaggero delle sgualdrinelle toscane, mancava poco che non gli graffiasse la faccia. E

mentre sta tessendo comicamente gli elogi della vita coniugale, il Poderico gli chiede

perché sia tornato cosí presto dalla sua visita. Al che Suppazio, tacendo la vera causa del

suo ritorno immediato, si limita a dire che il Pontano stava dormendo e che non aveva

ritenuto opportuno disturbarlo; e cercando di sviare l’argomento, propone al Poderico di

ritornare a parlare del sapiente antoniano.

A livello strutturale, con la scena del ritorno di Suppazio dalla casa del Pontano, si

conclude teoreticamente la prima parte del dialogo, che fino ad ora, attraverso la felice

rievocazione della figura di Antonio Beccadelli è stato “il grido di battaglia contro il

pedantismo di qualsiasi genere in nome della creatività dello spirito,” come indica il

Saitta.42 Ma dai parametri di questa prima fase del dialogo risulta anche che l’autore, seppure brevemente, fa mostra di essere un tremendo cacciatore di ancillule: un dettaglio

a cui la critica ha prestato un po’ troppa attenzione, interpretandolo tal quale nel giudicare

la sua poesia erotica, senza però verificare dai dati biografici, se egli sia poi stato davvero

tanto lascivo. Fatto sta che il personaggio Pontano appare in questa forma, ed è quindi

necessario capire il significato recondito di questa scena di gelosia della moglie, piuttosto

che limitarsi a dedurre che l’autore non era uno stinco di santo solo da questa

rappresentazione artistica.

42Cfr. Giuseppe Saitta, op.cit., p. 640. 92

Come dimostrano i suoi tre libri del De amore coniugali,43 infatti, dove il poeta canta i

dolci affetti della famiglia, o il suo largo epistolario dedicato alla moglie, scrittole quando

egli si assentava a lungo per un viaggio di ambasceria o sotto la tenda dell’accampamento

durante una missione di guerra, egli la amava moltissimo ed era pienamente convinto

sulla funzionalità civica dell’istituzione matrimoniale. Le raccomandava infatti di

attendere bene ai figli, di darsi cura delle cose domestiche e di maggiormente pensare alle

gioie del talamo, a cui ben presto sarebbero ritornati insieme. Non escludendo poi la

natura faceta del dialogo, questo episodio può benissimo stare a significare esattamente

l’opposto di quello che il Pontano voglia far credere per quanto riguarda la licenziosità della sua persona; che sebbene sia tanto prevalente nella sua lirica, non può essere per nulla verificata dai dati biografici pervenutoci. Dopo tutto la poesia è anche un gioco, i cui significati non debbono mai essere interpretati tal quali come appaiono, ma bensí nella loro recondita trasposizione semantica.

C’è da porsi quindi varie domande. La prima è quella di capire quale sia la funzione

del Pontano nel contesto di questo dialogo che egli dedica al Panormita; che è la piú

ovvia e facile da rispondere, giacché egli sa di essere la nuova guida dei dotti

dell’Accademia, che da lui prende infatti il nome di Pontaniana. Per la seconda invece,

bisogna attenersi alla struttura del dialogo stesso e considerare la maniera in cui sia il

Beccadelli che il Pontano vengono rappresentati. Entrambi vengono descritti in chiave

faceta secondo l’ottica di un adulto, il Compatre, e di un bambino, il figlioletto Lucio.

Dal resoconto dei due narratori risulta che il Beccadelli e il Pontano stanno a letto, l’uno

43Per la rievalutazione cronologica del De Amore Coniugali, rimando a Liliana Monti Sabia, “Tra realtà e poesia: per una nuova cronologia di alcuni carmi del De amore coniugali di Giovanni Pontano,” Classicità e Medioevo. Studi in onore di S. Monti, ed. Giuseppe Germano (Napoli: Dipartimento di filologia classica, 1996), pp. 351- 370. 93

morente, l’altro convalescente; eppure con il sorriso in bocca: il Panormita recitando

comicamente lo scongiuro di San Vito per curarsi dai morsi dei cani rabbiosi; il Pontano,

similmente, recitando il carme vomitatorio contro Cerbero, per far liberare la moglie dalla

bile rabbiosa della gelosia. Mentre la figura di Antonio Beccadelli viene descritta in

termini della propria sapienza, il cui sorriso è il segno piú evidente, quella del Pontano

viene delineata analogamente per la sua grande bravura lirica, il cui forte, si sa, è il tema

dell’eros, qui implicito dal racconto del figlio. Si tratta quindi di un trapasso di staffetta

simbolico molto significativo: dall’uno all’altro sapiente antoniano; l’uno raccogliendo in

sé la virtú dell’uomo saggio, per il quale esiste solo il sorriso dell’accettazione, l’altro che

articola lo scontro fra sapienza e stoltezza attraverso lo stesso sorriso; da Antonio

Beccadelli a Giovanni Gioviano Pontano; dal vecchio al nuovo; dal passato al presente.44

Ma qual è il presente? A rivelarlo è la rimanente parte del dialogo, dal quale, sebbene sia

strutturato diversamente, emerge ancora una volta e indirettamente la figura del Pontano

attraverso due personaggi misteriosi: un vecchio lirico, a testimonianza della sua abilità

lirica in quanto agli argomenti dell’eros, e un istrione in quanto alla sua facoltà linguistica

nello esprimersi in stile faceto.

Mentre Suppazio e Poderico stanno per affrontare di nuovo l’argomento del “Sapiente

Antoniano,” odono la voce melodiosa di un vecchietto, che tutto solo se ne va per strada

canticchiando canzoni d’amore. Attratti dalla sua voce e dalla bellezza dei suoi versi, gli

Accademici gli si fanno intorno e lo invitano a cantarne di altre; fra cui questa, che tratta

di un bacio rubato da Polifemo a Galatea.

44A questo proposito, condivido lo stesso parere di Mario Regali che ci arriva per vie diverse. Vedasi il suo saggio, “La discussione contro i ‘Grammatici’ e l’ideale di cultura del Pontano nell’Antonius,” Res Publica Litterarum, 8 (1985): 252-262. “Il passaggio di consegne ideale tra il Panormita e il Pontano ci sembra il motivo unitario del dialogo, intorno al quale ruotano tutte le altre componenti di esso apparentemente stravaganti, ma tutte finalizzate a questo motivo unitario.” 94

Dulce dum ludit Galatea in unda Et movet nudos agilis lacertos, Dum latus versat fluitantque nudae Aequore mammae,

Surgit e vasto Polyphemus antro, Linquit et solas volucer capellas; Nec mora, et litus petit et sub altos Desilit aestus.

Impiger latis secat aequore ulnis, Frangit attollens caput et per undas Labitur, qualis viridi sub umbra Lubricus anguis.

Illa velocis movit acris artus Dum peti sentit; simul et sequentem incitat labens, simul et deorum Numina clamat.

Illicet divum chorus hinc et illinc Fert opem fessae. At Polyphemus ante Non abit, lassus licet et deorum Voce repulsus,

Quam ferox nymphae tumidis papillis Iniicit dexteram, roseoque ab ore Osculum victor rapit. Illa moesto Delitet amne.45

Dopo questa canzone ne canta altre ad istanza di Suppazio; e da quelle poche cose che dice della sua vita agli Accademici, che esultano ai suoi versi pieni di voluttà, ci vuol poco a capire che sotto le sue vesti si nasconde il Pontano. Ma il vecchietto deve ora andare via, perché deve rallegrare con il suo canto una festa nuziale a cui è stato invitato.

A questo punto, proprio nel momento in cui egli esce di scena, spunta tutto ad un tratto, dall’angolo della strada, una moltitudine di maschere precedute da un istrione, il quale attira con le sue grida la gente del quartiere. Si tratta di una compagnia teatrale

45Antonius, op. cit., pp. 97-98: “Mentre Galatea gioca fra le onde, muovendo le nude e agili braccia, e da un lato girandosi, ondeggia nudo il seno fra le acque, spunta fuori dalla vasta spelonca Polifemo, che veloce lascia sole le caprette; senza indugio corre al lido e salta giú nell’acque ondose e alte. Vigoroso taglia le acque con le braccia immense, e a capo in su, strisciando come una biscia sotto un’ombra verdeggiante, spezza il flusso delle onde. Sentendosi ristretta dal feroce, la ninfa si muove piú veloce; e mentre invoca l’aiuto degli dei, piú incita lo sforzo di chi la insegue. Subito un coro di dei porta aiuto all’oppressa. Stanco e offeso dalla voce degli dei, Polifemo non si arrende, finché il feroce stringe i tumidi capezzoli della ninfa, e abilmente sulla rosea bocca le ruba un bacio vittorioso. Ed ella sparisce nella mesta corrente.” 95 ambulante, che sta per improvvisare uno spettacolo. A tal vista il Poderico, indignato da tanta baldoria e dalla confusione del popolo accorso a vedere questi attori, propone di andare dal Pontano; che nel frattempo, per fare piacere all’ospite siciliano, ha invitato tutti a casa sua.

Intanto l’istrione, che svolge il ruolo di prologo alla rappresentazione, si impadronisce della scena. Dopo avere invitato tutti al silenzio, introduce brevemente l’argomento con un linguaggio fortemente faceto, il cui gioco linguistico, qui imbastito in nome del vino,

si rivela carico di scansioni sostitutive ed eufemismi proverbiali.

Tacete atque silete atque animum advortite, Novam afferimus vobis quae vetus est fabulam. Muti tacete, mutos tam diu volo Silentium dum rumpat plausus, editus Lingua, manu, pedibus quam clarissimus. Hoc qui faciet plausum post editum bibet. Tacent: nimirum sitiunt omnes maxime. Atqui licet potare plausum ante editum; Adest cadus, caupo, guttum atque urceus. Caveat tamen qui bibit, ebrius ne cubet; Silentium non somnum mutamus mero. Illi promito, caupo, sedet qui ultimus; Vinosum eum esse nom somniculosum indicat Productus nasus, eminens, tuber, rufus. Ipse hoc fatetur, ridet: habent hoc ebrii, Rident libenter, risus nam sitim excitat, Novum tamen poetam ridere abstine. Coenabis post silentium, pretium hoc erit, Imo potabis large, abunde, Gallice; Ridere sed iam desinas postquam satis Potasti, nasum emunge, atque aures arrige, Novum dum vates Carmen pulpito intonat. Prius tamen argumentum hoc explico tibi: Dum castra haberet ultimis in finibus Hispaniae Sertorius dumque aggredi Parat Pompeius ex improviso eum, Fit per exploratores ipse certior. Cogit in campis copias; committitur Ab equitatu certamen saevum, atrox, dubium, Equi virique hinc illinc confossi cadunt. Duces accurrunt propere instructo agmine, Pugnatur vi, dolo, fraude, audacia. Nox proelium ac Dianae nuntia dimirit. Habetis argumentum veteris fabulae. Heus, tu, qui dester asides, subrigito Oculos ac mentulum; quid spectas humum? Paulatim sic, ut video, somnum provocas. 96

Ridetis? Dixi mentulum, non mentulam; Nec est peccatum; a mento, non menta editum est Vocabulum. Novus sed vates incipit, Demulsit barbam, hederam capiti implicuit. Tacete atque silete atque animum advortite.46

Ubriaco e sonnolento, il poeta sale sul palcoscenico e inizia cosí il serio racconto intorno alla guerra di Sertorio e Pompeo, tirando giú di fila piú di duecento esametri. Ma, sopraffatto da una sete acuta di vino, non può piú andare avanti e si ferma. L’istrione è quindi costretto a tornare in scena, dove, placata la sete vinosa del compagno, lo costringe a portare a termine le gesta del classico episodio; che risulta poi essere un lungo poema “eroicomico,” in cui il Pontano si diverte a schierare gli amici dell’Accademia. E il dialogo si conclude qui, con questo tono faceto, polarizato agli estremi dai versi giocosi dell’istrione e da quelli eroici del compagno poeta, che nel frattempo è diventato ormai ubriaco fradicio.

Sebbene il finale dell’Antonius sia stato un po’ trascurato dalla critica, va almeno osservato che sul piano strutturale dell’intero dialogo questa parte conclusiva rappresenta

46Idem, pp. 101-102: “State zitti, fate silenzio, e prestate attenzione! Stiamo per raccontarvi una storiella molto vecchia. Dovete stare zitti, muti fino a quando ve lo dico io, allorché, plaudendo con la lingua, le mani e i piedi, potrete fare tutto il gran chiasso che volete! Chi farà questo, dopo gli applausi berrà! A come vedo, fate silenzio adesso! Si vede che certamente avete una gran sete! Va bene! Comunque un sorsetto per bagnarvi la gola, lo potete fare anche prima degli applausi! Taverniere, porta subito orci, vasi e boccali! Non ubbriacatevi però! Voglio che stiate zitti e non addormentati dal vino! Taverniere, a quello seduto in ultima fila, dagli del vino! Sembra mezzo addormentato, ma è solo ebbrio. Si vede dal naso allungato, sporgente e rubicondo. Guardalo come ride! Tutti quelli che sono ebbri ridono di buon animo, perché la sete eccita al riso. Ma, tu, dico a te! Astieniti dal ridere al nuovo poeta! Dopo aver fatto silenzio, cenerai, (parlando al compagno) questa sarà la ricompensa. Anzi, meglio! Potrai bere abbondantemente, o Gallo! (Gli attori venivano dalla Gallia Cisalpina.) Ma adesso basta dal ridere, e siccome hai già bevuto abbastanza, soffiati il naso e mantieni le orecchia aperte, adesso che il vate poeta comincia il suo carme dal pulpito! Voglio prima però spiegarvi l’argomento: Sertorio mantiene ancora l’accampamento nei piú remoti confini della Spagna e sta per essere improvissamente aggredito da Pompeio. Ma informato dai suoi esploratori, raccoglie le truppe nei campi e aspetta l’attacco. La cavalleria ingaggia la violenta, atroce e pericolosa battaglia. Dappertutto cadono uomini e cavalli. I generali accorrono prontamente, istruendo le schiere a combattere con la forza, con l’astuzia e con l’audacia. La notte e l’intervento di Diana pongono fine alla battaglia. Sentirete la storia di questo vecchio racconto. Ehi, tu, che siedi a destra, dirizza gli occhi dal mento! Che fai? Guardi a terra? Da come vedo, poco alla volta ti ci piglia il sonno! E voi, che ridete a fare! Gli ho detto di drizzare gli occhi dal mento, non dal pene! In fondo che male c’è! Il vocabolo è da interpretarsi da mento, non da menta! Silenzio! Da come vedo, il nuovo, ma vate poeta, ha già cominciato. Si è accarezzato la barba e si è cinta la testa d’edera. State zitti, fate silenzio, e prestate attenzione!” 97

piú o meno una sorta di capovolgimento di quella iniziale: alla prima parte, infatti, dove

la rievocazione della sapienza viene eseguita attraverso il ricordo del Panormita e la

figura implicita del Pontano, fa riscontro la seconda tramite la scena teatrale improvvisata

per strada, qui simbolo dell’umana scellerataggine; al personaggio Suppazio, che è la

controfigura comica del Panormita, si riflette quella dell’istrione per il Pontano; alla

struttura in prosa della prima metà del dialogo si oppone quella in versi nel finale. E

quindi l’Antonius, il cui procedimento letterario si basa sulla rappresentazione faceta dei contrari, si rivela essere allo stesso tempo il capovolgimento di se stesso, dove le possibilità di poter riscontrare ulteriori contrapposizioni interne non sembrano aver limite. Si pensi ad esempio con quanta diligenza gli Accademici affrontino i loro discorsi,

paragonati a quelli dell’istrione e del poeta personatus; oppure al comportamento dei

grecizzanti, raffrontato a quello delle maschere teatrali; come anche alla pazza del

quartiere, Euforbia, che non la smette mai di gridare, di riscontro agli spettatori che non

riescono a star zitti agli ordini dell’istrione; e cosí via. Grazie a questa dinamica di

contrasti coesistenti fra la prima e seconda parte, quel senso di follia e pazzia generale,

che il dialogo intende e vuole rappresentare, si amplia ancora di piú coinvolgendo tutto e

tutti a livello esponenziale; specialmente lí dove si svolge l’azione, in città, a ridosso dei

portici dell’Accademia, lungo la strada, che sostanzialmente funge da meraviglioso

palcoscenico teatrale su cui l’Antonius viene portato in scena. 98

4. Asinus

Nel frattempo, questa pazzia collettiva non risparmia nessuno, nemmeno l’autore, che

scappato dal caotico delirio della città, si rifugia ora nella sua casa di campagna, dove si

dedica alla coltura dei cedri e al suo caro asinello Cillaro. È l’argomento dell’Asinus,

ultimo dei dialoghi per ordine di scrittura, ma terzo nella trilogia di quelli faceti. Si tratta di un dialogo abbastanza breve strutturato alla maniera plautina,47 dove la comicità dei

dialoghi precedenti sembra tutta voler confluire, come in un gran finale esplosivo, nel

personaggio principale, il Pontano; il quale, essendo impazzito per il suo asino, fa cose

per lui che nemmeno l’innamorato piú preso d’amore farebbe per la sua amata, solo per

imparare alla fine, e a suo discapito, la validità del famoso proverbio, “asino caput qui

lavent, eos operam cum sapone amittere”; ma questo almeno in superficie, giacché anche

questo dialogo, pur nella sua semplicità, contiene molti significati reconditi, che non solo

si riallacciano ai temi e ai personaggi fondamentali dei precedenti due dialoghi, ma anche

ai Trattati morali, di cui avremo modo di parlarne nel capitolo che segue.

Ad ispirare il dialogo fu il sentimento d’ingratitudine che il Pontano serbò contro il

Principe Alfonso, allorché questi, avendo combattuto al lato del suo maestro Pontano

contro i Baroni ribelli, non ne riconobbe i meriti presso il padre Ferdinando I, non

favorendolo alla carica di Primo Ministro, come avrebbe dovuto fare; per cui, provocando

47Per il linguaggio plautino del Pontano e della sua funzionalità “comica, liberatrice e catartica” vedasi l’articolo di M.D. Reeve, “Plautus, Pontano and Panormita,” [Rec.] The Classical Review,40, 1 (1990): 24- 27. Il critico cita Rita Cappelletto da, La ‘Lectura Plauti’del Pontano, (Urbino: QuattroVenti, 1988), p. 98: “La lectura Plauti del Pontano è una lettura che è in primo luogo gusto immediato del testo e divertimento autentico..., ma anche impegno filologico, meditazione moraleggiante, ricerca di spunti letterari e, soprattutto, paziente e puntiglioso scavo lessicale: è proprio partendo da uno studio dei classici cosí meditato e personale che egli saprà far rivivere l’antica materia... in una prosa nuova di indubbio fascino. In comune con Plauto resta peraltro, nel Pontano “comico,” una forma di linguaggio esuberante e “liberatorio,” in cui la fantasia verbale e la funzione emotiva del suono giocano un ruolo maggiore.” 99

l’indignazione del Pontano, che tra l’altro fu il mediatore della pace, il Principe venne qui

rappresentato in veste di asino, che essendo stato allevato e nutrito con grande amore e

devozione dal suo padrone, aveva finito col prenderlo a calci alla fine. Eventualmente al

Pontano fu concessa la carica di Primo Ministro, tanto che il dialogo, ancora imperanti gli

Aragonesi, fu messo da parte per ovvie ragioni politiche e ripreso dopo, negli anni della

senilità, quando egli, dedicandosi all’ozio e alla tranquillità della sua vita campestre, ebbe

finalmente l’opportunità di rimettere mano ai suoi scritti.

Il dialogo comincia in un’osteria fuori le mura della città, in collina, dove un viandante chiede all’oste se sia vera o meno la notizia che a Roma sia stata stipulata la pace fra

Papa Innocenzo VIII e Re Ferdinando di Napoli ad opera di un poeta che non conosce, perché vorrebbe fare un brindisi alla sua salute con un buon boccale di vino. L’oste gli

dà subito da bere, confermando che la notizia è vera. Brindano e cominciano ad ubriacarsi fra un boccale e l’altro, l’oste ringraziando il buon San Lorenzo, a cui fa voto di dedicargli ogni anno una festa osteriale, un cauponarium, perché prevede di già grandi affari per la sua taverna; il viandante ringraziando Bacco perché è amico della pace.

Intanto arriva il regio corriere che conferma ufficialmente la buona nuova della pace e

che il poeta Pontano ne è stato il negoziatore vittorioso. Annunzia anche che tutti coloro

che hanno tradito il Re sono stati messi in prigione e che pagheranno con la pena di morte

il loro tradimento.

Dii ipsi, ut omnes praedicant atque ut rex ipse testatur, seni et quidem valitudinario affuere; pacem enim ita confecit, ut regi salva sint omnia, quae amissa prope iam erant, procerum perfidia administrorumque iniquitate. Vos autem et paci et patriae propugnatori, qui pacem populis virtute sua peperit, exornate et porticus et compita diesque festos agite. Mihi alia ad oppida properandum est publicae laetitiae gratia; rex, patriae pater publicorumque bonorum auctor, hoc sic imperat. Valete, compotores valentissimi.48

48Idem, p. 291: “A quello che tutti proclamano e il Re stesso attesta, Dio è stato con quel povero vecchio malandato! Perché egli ha saputo combinare una pace, che ha salvato al nostro Re tutto quello che era già quasi perduto, per la perfidia dei baroni (procerum) e l’iniquità dei ministri. Basta! Ora voi ornate le 100

Si brinda di nuovo, e giú bicchieri a non finire; ma l’oste, che non riesce a trattenersi dalla gioia per le grandi quantità di vino, che presto diluirà con acqua e si farà pagare costosamente, corre subito in città, per accertarsi personalmente della pace conclusa.

Esultante, la trova tutta parata a festa, affollata dal popolo e dai preti, che riversatisi in

strada fanno una gran baldoria inneggiando canti a Dio, al Re e al Pontano:

Caup. Quod mihi meisque contubernalibus felix ac faustum sit, deorum supplicationibus urbem occupatam invenio; quam laeta populi frequentia! quam canorus sacerdotum chorus! Chor. Pacem coeli rector populo, Pacem terrae tutor peperit. Caup. O bene ominatum carmen! Chor. Nobis pacem, nobis ocium Pacis nobis auctor retulit. Caup. At meritoriae meae lucrum et voluptatem et dapinationes opiperas! O me beatum!49

Pensando ai proficui guadagni della sua osteria, dove presto arriveranno in folla, per mangiare, bere e celebrare, le sgualdrinelle di Spagna e di Sicilia con il loro seguito di innamorati, di spasimanti e tutti quelli che vivono alle loro spalle, l’oste torna subito alla sua taverna, onde prepararsi a provvedere pietanze e bevande da re, per le quali sarà esaltato al cielo e coronato re degli osti. Mentre pensa alle future ricchezze e ai viaggi che presto potrà permettersi di fare a Venezia, a Firenze o persino oltre oceano, alla volta della Bretagna, su una navicella d’oro, col suo albero d’oro e le vele d’oro, vede arrivare da lontano un folto gruppo di viaggiatori; i quali, dall’aspetto e dal loro modo di vestire e case, i portici e le strade in onor della Pace e del difensore della Patria, che con la sua virtú ha procurato la pace ai popoli. E fate festa piú giorni. Io devo affrettarmi ad altre città, per questa pubblica allegrezza. Cosí vi comanda il Re, Padre della patria, e autore di ogni pubblico bene. E statevi bene, bevitori fortissimi!” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 25).

49Idem, p. 292: Oste. Stia bene a me e ai miei compaesani! Vedo la città tutta piena di processioni sacre e di preghiere... Com’è lieto tutto questo affollarsi del popolo!... com’è armonioso questo coro di sacerdoti! Coro. Pace il Signor dei cieli diede al popolo, pace il Signor del mondo... Oste. Che bel canto di buon augurio! Coro. A noi pace e riposo die’ l’Altissimo, ci die’ il viver giocondo... Oste. Certamente!... E alla mia osteria concesse il guadagno, e di poter passarla allegramente mangiando e bevendo... O me felice! (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 27-29).

Il traduttore (p.29) fa notare che il coeli rector è Dio, terrare tutor il Re, e paucis author il Pontano. 101

camminare, sembrano manco a farlo apposta degli Inglesi: una coincidenza per la quale

egli pensa che sia proprio nel volere del destino dovere aprire un’osteria nel mar Bretone

dove gettare le sue reti d’oro. I viaggiatori gli dicono che sono in viaggio per la Terra

Santa e che sono appena arrivati da Roma, dove erano andati per verificare se il Papa

avesse figli per davvero; ma ne erano rimasti sconfortati, in quanto a prova della mirabile

e meravigliosa verità della religione cristiana, non solo avevano trovato il Papa sul suo

trono d’oro presiedere alle nozze del figlio, ma anche una figlia tutta imbellettata a una

festa da ballo e di un’altra appena natagli di recente, concludendo pertanto che se a Dio

era concesso avere dei nipotini dai suoi delegati in terra, non c’era da scandalizzarsi se

suo figlio Gesú fosse poi nato da donna.50

Intanto l’oste versa ai nuovi arrivati il piú limpido e cristallino dei suoi vini, un

Neretto di Casoria che deve essere sorseggiato a fior di labbra e non buttato giú tutto di

un colpo. Dal Neretto si passa poi al Centuresio, un vino della cantina piú interna, nel cui

barilotto, secondo quanto l’oste dice, Bacco scherza sempre con Madonna Primavera ed è

tutto un profumo, è oro liquido, che sdoppia l’anima; anzi, l’intripla. Viene poi la volta

del Fastiniano, ultimo avanzo di tutte le cantine della Campania, che invita al sonno e a

un po’ di parlantina. E la scena si conclude qui, cosí com’era iniziata, fra un brindisi e

l’altro, in un clima di allegria che si mantiene dal principio alla fine.

Nel contesto generale della trilogia dei dialoghi faceti, in questa scena di apertura

all’Asinus vengono ripresi il tema del viaggiatore, dell’ospitalità, dell’urbanità, della

corruzione clericale e del vino. Di interesse notevole sono però i viandanti, giacché attraverso le loro figure, rapportate a quelle dei dialoghi precedenti, ossia a Mercurio,

50Idem, p. 294: “Si enim Deo nascuntur nepotuli, nunquid non necesse est Christum ipsum mulieris utero prodiisse?” 102

all’ospite Siciliano, a Suppazio e all’Istrione, il Pontano completa a livello geografico

tutta la mappa del mondo occidentale conosciuto ai suoi tempi: dalla Bretagna alla Terra

Santa, dalla Sicilia alla Spagna, con maggiore attenzione e rilievo alle città d’Italia,

aumentando per tanto quel senso di universalità e di follia generale, da cui egli stesso,

come dimostra la rimanente parte del dialogo, non riesce a sfuggire.

Dal clima di festività della taverna, il dialogo ci trasporta ora in città, dove l’Altilio,

preoccupato per la salute mentale del Pontano, ha convocato urgentemente il Pardo, per

informarlo che il loro amato maestro è diventato un pazzo rimbambito; giacché un uomo

di quella età, sulla sessantina, già colmo dei piú grandi e insigni onori, di tanta autorità

presso la corte e l’Italia intera, ha comprato un asino a caro prezzo, che lo fornisce di

briglie d’oro e di gualdrappe di seta, e se ne va addirittura in giro per la città, spronandolo

come un destriero e canticchiandoli canzoni amorose.

Iudicabam actum cum Ioviano felicissime, quod, pace parta, regias res prope afflictas, magna sua cum gloria, maiore populorum tranquillitate, non restituisset modo, verum etiam stabilisset. Quanto autem secus et illi et nobis, qui eum amamus et colimus, acciderit, dicere dolor prohibet: nihil enim contingere aut illi indignius, aut nobis insperatius potulit. 51

Da lontano vedono il Cariteo che corre tutto affannato, a rotta di collo, e lo fermano.

Chiestogli di dar loro ragione della sua fretta, del suo trottare ansimante, questi spiega

che è l’asino a farlo correre, perché ora comanda lui e non piú il suo padrone. Deve infatti

andare da un ramaio a comprare tutta una serie di campanelli diversi, che di poi dovrà far

cucire da un sellaio a una cinghia ricamata a seta di diversi colori; da qui deve poi correre

a precipizio in altri negozi per acquistare un pennacchio dorato da attaccare alla sua

51Idem, p. 295: “Credevo che tutto fosse terminato felicemente pel nostro caro Gioviano, perché, concludendo la pace, non solo aveva con sua grandissima gloria, per maggiore tranquillità dei popoli, ristorato le condizioni dello stato e del suo Re, che erano molto a mal partito, ma aveva anche dato loro stabile assetto. Invece, quanto diversamente sia andata la cosa per lui, e per noi che lo onoriamo e lo amiamo, ... non si può dire per il dolore! Non gli poteva capitare una cosa piú indegna... Chi se lo sarebbe mai aspettato?” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 39). 103 fronte, un ventaglio per rinfrescarlo, cingoli, nappe, nastri e ornamenti d’ogni genere. Ma c’è di peggio, e legge loro una lettera appena pervenutagli da un garzone dispacciato di corsa dalla villa del Pontano:

Amabo, Charitee meus ocule, pectinem mihi auratum emito, qui sit eburneus, Praxitelicus, qui dum stringitur, dum dorso agitur, tinniat mihi, subblandiatur animo meo, qui risum pelliciat atque hilaritudinem, quid enim asello meo delicatius? vult sibi applaudi, vult dici bellissima verba, facit mihi delicias, dum ei frontem defrico, dum versiculo succino. Quin te beatiorem ut faciam, et hoc accipe: Apposui deliciolo meo e melle ientaculum; ubi illud delinxit, osculo me confestim petiit, tam blande, ut ei quoque amplexum cum osculo retulerim; beavit me, cupio et illum beatum esse. Tu vero, meus amicule, et illu statim cura. Timet deliciolum meum muscas, calores fugitat; perrectato institores omneis, dum e tenuissimo serico stragulum compares, quo intectus Arion meus, Cyllarus meus muscarum aut culicum aculeos ne sentiat; atque id cum primis effice, ut sit quam fulgentissimum stragulum, delicatissimum textum, solidissimum muscarum repagulum. Ne vero aut mirere aut indigne feras domini delicias, vide et contemplare ex asino atque in asino Pythagoricam disciplinam, Nam haec ad te dum scribo, pellegente asello, ipse accomodatis humanam ad enuntiationem labris distichon hoc effudit:

Melle meus me pascit herus; pro melle recepit Oscula, complexum pro sagulo excipiet.

Iudicabis aut Marsum aut Cornificium in asello meo versus edere. Illud quoque summo studio ac deditissima curabis opera, uti flabellum pavoninum, quod sit quam oculatissimum, per hunc ipsum puerum ad me mittas, quo in umbra atque in aestu meo deliciolo ventum faciam. Recte vale, nam et ego cum domino, sine quo vita mihi nulla est, valeo etiam valentissime.52

52Idem, p. 297: “Di grazia, mio Cariteo garbatissimo, comprami un pettine dorato, ma che sia proprio d’avorio Prassitelico!... affinché quando lo si strigli e lo si pettini sul dorso, scuotendo i campanelli del capo mi faccia festa, e susciti il riso e la gaiezza nell’animo mio. Perché, sai?... il mio asinello è molto delicato... e vuol essere lodato, e che gli si dicano delle belle parole... Allora mi fa le carezzine, quando gli gratto la fronte e gli canticchio dei versi... Vuoi sentirne una ancora piú carina? Ieri gli ho messo innanzi, per colazione, un tortino di miele... Appena lo ebbe leccato un po’, mi assalí con un bacio cosí carezzevole, che ho dovuto cambiargli il suo amplesso e il suo bacio. È giusto che, se egli mi fa beato, io lo faccia beato. Dunque, amichino mio carissimo, occupati subito di quel che ti dico: il mio amore, l’asinuccio mio, teme le mosche e teme il caldo. Tu corri da tutti i merciai, da tutti i bottegai, finché tu mi abbia comprato una sottilissima gualdrappa di seta, perché il mio Arione... il mio Cillaro delizioso... non abbia a sentir piú le punture delle mosche e delle zanzare. E bada che questa gualdrappa sia ben brillante, delicata di tessuto, ma solida difesa contro gli insetti. E perché tu non abbia a meravigliar troppo di queste nuove delizie del tuo padrone e non te ne abbia a sdegnare, pensa e medita la dottrina Pitagorica in quanto tratta dell’asino... Senti che asino è questo! Mentre ti scrivevo, questo caro asinello mi seguiva con l’occhio e leggeva... e poi, accomodando le labbra alla pronuncia umana, ha sciorinato questo distico:

Di miele mi pasci, padrone; un bacio t’ho dato pel miele: darò per la gualdrappa piú che un bacio, un abbraccio.

Avresti mai creduto che nell’asinuccio mio un Marso o un Cornificio facesse dei versi? Un’altra cosa ancora: cerca con ogni studio e diligenza di avere un flabello di penne di pavone, (ma che sian tutte occhiute) e mandamelo subito per mezzo del ragazzo che ti porta questa mia lettera: voglio sventolarlo con quello, il mio asinello, tanto al caldo che all’ombra. Stammi bene, come sto bene io, a patto che stia bene il mio asino-padrone, senza del quale non saprei vivere. Vale.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 45-47). 104

Increduli della lettera appena letta, decidono di andare dal Sannazzaro, il quale,

essendo stato compagno di viaggio del Pontano, può meglio di tutti informarli se già

durante il loro soggiorno a Roma o durante il viaggio di rientro egli sia stato colpito da qualche insolito eccesso di pazzia, onde giudicare se esista o meno qualche speranza di pronta guarigione. Il Sannazzaro li assicura che il Pontano si è sempre comportato da sano di mente; anzi, che durante tutte le difficoltà delle negoziazioni politiche, egli aveva pur sempre trovato il modo, in un momento di tregua, di meditare di lettere e di filosofia o di recitare a memoria i versi della sua Urania.

Stando cosí le cose, i tre decidono che la miglior cosa da farsi è di andare direttamente a casa sua e verificare personalmente il suo stato mentale. Detto fatto, si incamminano verso villa Antignano, dove appena giunti si appostano dietro una siepe per osservare in silenzio cosa fa il Pontano. Senza borbottare parola alcuna, lo vedono dare istruzioni di agricoltura al suo contadino Fagioli su come procedere con taluni innesti, su come innaffiare le piante e persino su come tenere in conto del movimento degli astri, specialmente di Saturno, che è l’astro che presiede alla seminagione.

Dai consigli e dai precetti che egli dà, le sue parole non sembrano essere quelle di un folle ai tre accademici; anzi, sono ricche di sapere scientifico, che a livello botanico, in particolar modo per quanto riguarda la coltura dei cedri, sono degne di ammirazione; ad esempio il seguente passo, nel quale il Pontano spiega a Fagioli il motivo per cui gli agrumi devono essere innaffiati anche d’inverno.

Illud autem mirifice improbandum atque accusandum, Faselio, duco, quod sub haec frigora tam repente a septentrionibus excitata citrios irrigare multa etiam aqua neglexeris. Nihil enim tantopere ab hoc arboris genere frigus arcet quam, frigidissimis etiam diebus, assidua irrigatio; quod ratio ipsa docet, siquidem hieme ipsa, concretoque septentrionali flatu aere, qui terrae calor inest magis ac magis in se cogitur, cum evaporare, concreta gelu terrae superficie ac solo, nequeat. Quocirca cum arbor haec stiticulosa sit admodum, tepescente terrae sinu, aquam ad radices appetentius trahit, qua in alimentum versa robustiorem sese adversus frigus agit; neque enim exarescere succum patitur, perinde ac materno fota sinu huberibusque nutricis admota. Ad haec arbuscula 105

ipsa ad summam pene terram fibras etiam plurimas, capillamenta quasi quaedam agit, et quidem minutissima, quae glebulis inharentes, multum inde succum ebibunt; hae autem ipsae glebulae, ut magis ac magis capillamentis ipsis propter humidi vim conciliantur, sic rursus sicciores effectae penitusque exuctae capillamenta destituunt, quod assidua quidem irrigatio omnino prohibet. Hanc ob rem tum aestate tum hieme opportuna irrigatione iuvanda est.53

Udito con quanta cura meticolosa il Pontano abbia istruito il suo contadino, i tre amici ringraziano le Muse, perché il loro maestro non ha dato nessun segno di pazzia nel suo ragionamento; e continuano a spiarlo mentre egli prosegue con le sue lezioni di botanica: questa volta su come fertilizzare la terra con il letame, che deve essere sempre ben posto vicino alle radici.

Ma è arrivato ormai il momento della verità, perché è tempo di attendere all’asino.

Liberatosi da Fagioli, il Pontano chiama il suo garzone e gli ordina di condurre a sé il suo amoruccio Cillaro, ben ripulito, strigliato e ricoperto della piú bella gualdrappa di seta, preavvisandolo di fare attenzione ai suoi calci, perché è un gran giocherellone; e qui ha luogo la scena piú divertente del dialogo, la cui comicità, di sicuro stampo aristofaneo, nasconde la piú cruda e pungente satira contro l’ingratitudine, qui simboleggiata dall’asino.

Lepidissime illud quidem: et rudit simul et calcitrat meum delicium. Unum illud defuit, asini quod solent; an fortasse puduit hero praesente crepitulum facere. Vides quid praestet domini reverentia? Blandire illi, bone puer, fac delicias, dic bellum aliquid.54

53Idem, p. 301: “ Ma in una cosa sopratutto ti disapprovo, Fagioli mio; ed è che hai trascurato di irrigare con molta acqua gli agrumi durante questa frescura improvvisamente sorta pei venti di settentrione. Se c’è una cosa che ripari dal freddo queste piante cosí delicate, è l’irrigarle molto anche durante i giorni piú freddi. Ne vuoi sapere la ragione? Anche durante l’inverno, e quando l’aria par si congeli pei freddi soffi settentrionali, il calore che è sottoterra, non potendo evaporare perché la superficie del suolo è gelata, si raccoglie in se maggiormente. Allora la pianta agrumaria che è molto assetata, tanto piú vogliosamente attira l’acqua alle sue radici dal tepido seno della terra, e dopo essersene cosí nutrita, reagisce piú robusta contro il freddo, e non lascia inaridire i suoi succhi vitali, come se fosse stata riscaldata nel seno materno e si fosse nutrita alle sue mammelle. Inoltre questo delicato arboscello, se tu l’hai bene osservato, spinge quasi a fior di terra moltissime fibrille che direi capillari, sottilissime, le quali, aderendo alle zolle, ne estraggono e ne bevono il succo. Ma come queste zolline, quando sono umide, per l’umidità stessa adersicono a dette fibrille capillari, cosí, quando siano state disseccate e quasi succhiate, devono necessariamente abbandonare quelle fibrille. Ma se tu le bagnerai irrigandole bene, e – tanto d’estate che d’inverno – questo incoveniente non succederà.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 59).

54Idem, p. 302: “Ma sai che è bellissimo!.. Raglia e tira calci insieme, quel mio amorino!.. Una sola cosa non fa – di quelle che sogliono fare gli asini – e non lo fa per rispetto al suo padrone... Ti vergogni, 106

Obbediente agli ordini del Pontano, il garzone incita Cillaro di fare onore al suo

padrone, di attenersi al suo dovere; cioè, di sparare un gran botto, una nota ben musicale,

forte, a ritmo settenario, in modo che Calliope stessa possa scappare. L’asino non se lo fa

dire due volte e scorreggia, sventolando la coda in faccia al garzone, che ne rimane

stizzito, giacché la bestia avrebbe dovuto serbare questa attenzione al suo padrone che

tanto gli vuol bene e non a lui. A tal vista, gli amici nascosti dietro la siepe scoppiano

dalle risa, specialmente perché il loro maestro pretende ora dal garzone, giustamente

irritato, di parlare con garbo al suo Cillaro, al suo eroe, che recalcitrando si è messo pure a fare il girotondo. Ed ecco un’altra strombazzata di quelle da provocare la pioggia, puzzolente, putrefatta, meglio dei profumi d’Arabia, seguita immediatamente da tutta una merce di sterco purulente, che se messo in vendita, su suggerimento del garzone, il padrone potrebbe ricavarne tanto di quel profitto, da potersi permettere di comprargli fibbie e cinghie dorate. Ma l’asino non vuole saperne di stare buono. Mentre scalcia e raglia irrequietamente, si rizza all’improvviso sulle zampe col membro eretto e cerca di montare il ragazzo, che annoiato grida all’infame di saltare addosso al suo protettore, al suo re; che è ora costretto ad intervenire disciplinandolo.

Cur puero tam bono, mi aselle, malefecisti? quid? altorem tuum verberasti tam impie? An fortasse hordeum tibi negligentius excrevit? an pectinem dorso inclementius duxit? Vide? vide, amabo, ut prae pudore auriculas, ut etiam caput demisit, ut obticuit pudentissimus, pigetque maleficii! Eum ego te, aselle, velim, qui in asino quidem asini nihil habeas, qui sis urbanitate etiam ipsa urbanior.55

vero, di... sparare in mia presenza? Fagli una carezza, buon ragazzo!.. Digli una parolina, ... digli qualche cosa di bellino.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 63).

55Idem, p. 303: “Perché hai fatto male a questo ragazzo cosí buono, asinello mio? Non sai che è lui che ti dà da mangiare?... O forse è stato poco attento nello sceglierti l’orzo?... ti ha pettinato rudemente sul dorso?... Vedi, vedi, garzone... come per la vergogna ha abbassato le orecchie... e anche la testa... e ora tace pieno di vergogna... Gli rincresce averti fatto del male, e se ne pente. Vedi, asinello mio caro, che in corpo d’asino non hai nulla di asinino... Vedi? Io vorrei che tu fossi piú gentile di Madonna Gentilezza.” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 67). 107

Detto questo, il Pontano incoraggia il ragazzo di essere paziente con Cillaro, di riavvicinarsi e mostrargli affetto; magari grattandogli le orecchie o scacciando le zanzare che sempre lo molestano. Esitante, il garzone si riaccosta all’asino; ma non appena fa atto di compiacere al padrone, che nel frattempo gli ha ordinato di accarezzargli gentilmente la coscia presso l’inguine, la bestia gli tira un calcio possente. Indispettito e infuriato il ragazzo manda tutti in malora e scappa via gridando.

Rimasto solo con l’asino, il Pontano gli dice di vergognarsi di essere stato cosí cattivo

con chi lo tratta meglio di un re, con chi lo nutre abbondantemente e lo striglia tutti i

giorni tanto amorevolmente. Quasi capisse i rimproveri del suo signore, Cillaro comincia

mestamente a leccargli i piedi; al che il Pontano, teneramente emozionato da questa

improvvisa condotta affettuosa dell’asino, lo accarezza dicendogli che si sta comportando

da vero saggio, in quanto il suo gesto di pentimento è un atto virtuoso; e siccome pochi sono coloro che riescono a riconoscere i propri errori e di sottostare ai rimproveri e ai consigli di chi si affanna nell’educare, per premio lo laverà dalla testa ai piedi con un sapone ben profumato e con molta acqua tiepida.

Euge, lepidissime, ut te delectat tepidula, ut frictio tam minuta et lenis! Nunc me beas, dum dente restringis, dum morsiunculas tam urbanas ludis. Apage, apage, animal inertissimum, bestiam ingratissimam! ut mihi pene manum utramque morsibus abripuit! ut me tam offirmato capite percussum in terram atque in lutum excussit! Arbuscula haec vix praesidio mihi fuit, quominus stratum me atque humi iacentem et pedibus inculcaverit et calcibus totum diffregerit! Apage te, bestiam nequissimam! Hoc, hoc illud est, tarde illud didici senex improvidus, homo minime consideratus! hoc hoc, inquam, illud est quam usurpatissimum, asino caput qui lavent, eos operam cum sapone amittere, in asinum abire qui asini delectur! Quocirca frustra me et opera et sumptus habuit. Sero hoc didici, iuvat tamen exemplo ipso alios commonuisse. O asini, valete iam, valete posthac ipsa cum Arcadia, asini!56

56Idem, p. 305: “Ti fa piacere questa acqua tiepida?... e che io ti ci freghi cosí leggermente e minutamente?... Oh caro! come mi fai felice a sentirti cosí rodere i denti... a vederti dar questi piccoli morsi come bacetti gentili... Va via! va via!... brutto asinaccio! bestia ingrata e ignorante!... O non mi hai quasi stroncate le mani con un morso?!... e m’ha gettato a terra e nel fango... e se non mi riparavano quegli arboscelli, quand’ero a terra mi finivi a calci! Via, via! bestia malvagia!... Ho dovuto imparare da vecchio la verità del proverbio “che chi lava la testa all’asino, perde il tempo e il sapone... e che chi sta volentieri con gli asini, merita di diventare asino anch’esso!” Ci ho rimesso tempo e spese... Ma non importa: qualcuno forse imparerà dal mio esempio. Tardi ho imparato! Addio, asini, per sempre! addio a voi, e a tutta l’Arcadia!” (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 71). 108

Quest’ultima scena, che dovrebbe essere la piú significativa nel contesto del dialogo non sembra ben riuscita. A parte il fatto che la sequenza logica del discorso è molto veloce, tanto che si è obbligati a rileggerlo alcune volte per capirne il contenuto, ciò che non quadra bene è l’eccessiva brevità di tutta l’azione. Se si considera infatti con quanta precisione e minuzia il Pontano sa procedere nei suoi scritti, una volta letta questa scena o paragonata a tantissime altre, colpisce subito l’occhio la poca attenzione posta alla rifinitura e alla limatura dei dettagli; che è cosa alquanto insolita. A mio avviso il motivo

è semplice. Da un lato va ricordato che questo dialogo fu in un primo momento ispirato dalla collera del Pontano verso il Principe Alfonso, che lo aveva slealmente ferito nel suo orgoglio non avendolo favorito presso il padre per la nomina a Primo Ministro. Ottenuta di poi la tanto aspirata carica governativa, immortalarlo in veste d’asino non solo sarebbe stato inopportuno a livello politico, ma anche troppo pericoloso; e quindi non se ne parlò piú. Il dialogo fu messo da parte e la vicenda conclusa lí, cosí com’era cominciata. Ma intanto l’opera era nata, il dado tratto, e con essa l’idea di trattare il tema dell’ingratitudine, senza necessariamente polarizzarlo nella figura di Alfonso, bensí smorzandone le allusioni e impostando l’argomento in termini generali, universali, giacché anche l’ingratitudine nell’ottica pontaniana faceva parte dei grandi vizi degli uomini.

Dalla versione finale del dialogo pervenutaci questo proposito è abbastanza evidente.

Innanzi tutto non esiste nessun riferimento che faccia minimamente pensare al Principe

Aragonese. Le uniche scene che potrebbero essere considerate discriminanti contro la sua persona, a cominciare da quella in cui il Cariteo legge la lettera del Pontano al Pardo e all’Altilio, fino al momento in cui l’asino morde il suo padrone, sono camuffate dalla 109

pazzia del personaggio Pontano alle prese con l’asino o raggirate tramite argomenti

tematici che non hanno nulla a che vedere con il motivo fondamentale del dialogo, ad

esempio le spledide e mirabili lezioni di agricoltura che il Pontano impartisce al suo

contadino. Fatta eccezione di queste scene centrali, dove il tema dell’ingratitudine è trattato in una sequenza scenografica ben concatenata e priva di mutamenti improvvisi, le rimanenti parti del dialogo danno l’impressione di essere abbastanza disarticolate dalla struttura globale dell’opera perché in esse vengono svolti argomenti del tutto diversi; in maggior modo nella parte conclusiva, dove subbentra un motivo erotico di tale lascivia, che non solo lascia perplessi per la licensiosità del suo contenuto, ma anche interdetti, in quanto riesce veramente difficile stabilirne la funzione logica nel contesto del dialogo.57

Ciononostante, da una lettura ben eseguita, risulta che in questa fase finale del dialogo il

Pontano abbia in sostanza rappresentato il tema dell’ingratitudine attraverso la

rappresentazione comica del suo opposto, ossia della gratitudine, il cui motivo, da come

si avrà modo di constatare tra breve, affiora immediatamente.

Riavutosi dall’esperienza scioccante con l’asino, il Pontano torna ad avere dominio di

se stesso seguitando ad accudire l’orticello come se nulla fosse successo. Gli si avvicina

intanto il suo contadino, che, intavolando il discorso, gli chiede il parere se cambiare il

proprio nome da Fagioli in Caserio sia una buona idea o meno.

57La maggior parte dei critici ritengono che l’immagine dell’asino sia da identificarsi con il Principe Alfonso; ma non tutti sembrano essere daccordo. Cfr. Guido Martellotti, “Il primo abbozzo dell’Asinus di Giovanni Pontano,” Annali della scuola normale superiore di Pisa, II, XXXVI (1967). “Dobbiamo dire subito che l’esplorazione del cod. Vat. 2840 non ci offre documenti decisivi per risolvere la questione fondamentale che riguarda l’interpretazione del dialogo: se nell’Asinus a cui esso si intitola, almeno nella redazione definitiva, si debba riconoscere una determinata persona e quale; se l’accento di tutto il discorso debba porsi sull’ingratitudine della bestia, o non piuttosto sull’avventure erotiche del padrone; se l’asino di cui si parla sia d’avvicinare a quello di Apuleio, per un alone di sensualità che sembra circondarlo, o non semplicemente dell’asellus di Orazio, che invano si intenderebbe di trasformare in un cavallo da corsa. ... Non ci è lecito fare ipotesi su quello che, nelle intenzioni del Pontano, avrebbe potuto essere lo sviluppo del dialogo, quando lasciò in troco questo primo abbozzo. Certo è comunque che il testo contenuto nella c. 2 appartiene a una ripresa della composizione, nettamente distinta nel tempo (pp. 2-3).” 110

Fas. Quod sine ulla fiat fraude meoque permagno cum commodo, meum mihi nomen mutari, here, cupio, deque Fasellione fieri Caselio volo. Pont. Delectat me utique nominis commutatio teque ut de marra rastrisque benemeritum donatumque Parmensi illo caseo pervetere et grandi salvere Caselionem iubeo. Vale, Caselio, iam salve, Caselio, multumque ac diu salve!58

Bastano queste poche parole, domanda e risposta, uno scambio colloquiale pregno di comicità, a preannunziare il grande affetto che lega i due come anche il loro vicendevole senso di gratitudine: l’uno che nella sua semplicità villereccia riverisce ed onora il padrone, perché da lui dipende la propria sicurezza; l’altro che nella sua prodigalità contraccambia la lealtà del servo in ugual modo; l’uno regalando, l’altro ricevendo; ma in maniera comica, capovolta, giacché diversamente dalle consuetudini dell’epoca, per le quali la grandezza e la modestia individuale erano commisurate sia nell’atto del donare lautamente, che nel ricevere umilmente, qui esiste un rovesciamento drammatico di questa tradizione.59 Sta di fatto che mentre Fagioli, chiamandosi cosí, poteva a un tempo

godere dei legumi della terra, ora può rallegrarsi di aver ricevuto in dono dal padrone una

forma di vecchio formaggio parmigiano conformemente al suo nuovo nome Caserio; che

è in pratica una situazione farsesca, imperniata non sulla gratitudine, ma sugli interessi

personali di ambo i personaggi, il cui egocentrismo, da come si avrà modo di constatare

nella rimanente parte del discorso, raggiunge livelli ancora piú sorprendenti.

Fagioli, che ha intenzione di accasarsi, chiede al padrone dei soldi per acquistare una

casa. Il Pontano non ha nessun problema e glieli dà, ma a patto che possa usufruire

58Idem, p. 305: Fag. Che ne dite, padrone!... M’è venuto voglia di mutare cognome, e di Fagioli ch’ero prendere un nome che mi porti piú fortuna... per esempio Caserio... Pont. Se piace a te questo mutamento, a me non dispiace... E come prima chiamandoti Fagioli fosti benemerito dei miei legumi e della marra e del rastrello, cosí ora, per buon augurio del tuo nuovo nome, ti regalerò una bella forma di vecchio cacio parmigiano... Salve dunque, Caserio!... salve, Caserio... (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 71).

59Si vogliono qui ricordare le famosissime pagine dell’Huizinga in Autunno del Medioevo. 111 anch’egli di tanto in tanto di taluni servizi, che qui s’intendono, da parte della futura mogliettina.

Per accrescere il prezzo della sua merce, il contadino comincia cinicamente ad enumerare tutti i segreti della donna, che solo un marito dovrebbe conoscere; mentre il padrone, per meglio conoscerne le qualità, gli fa domande invereconde.

Fas. Nec me dono ipso indignum, here, duco, et libens volensque illud manucapio; namque et vetustulus est caseus et sarcinam prorsus asinariam exaequat. Alia tamen est novi nominis et ratio et causa. Ducere uxorem volo neque ubi cum illa inhabitem mihi casa est nulla; hac ego a te donatus dono ex ipso agnominari Caselio volo. Pont. Anne magis Uxorio, quando uxoris gratia donari a me et ipse cupis et ego te donatum opto uxoriae rei gratia? Eccas tibi unciolas tris Robertinis e liliatis. Cape libellam, siquidem et probi et iusti sunt pensi; his tute tibi casam commercator, his in suburbinis locis. Vin ab hero tuo aliud? Fas. Et unciolas accipio et aliud est etiamnum, here, a te impetrare quod cupio. Tu me de rastris deque marra benemeritum donas, et recte quidem donas; verum neque te dieculae illius tam voulptarie immemorem esse decet gratiamque mihi ut referas profecto par est. Lectulus ille in quo delicias tam illecebrosas meridiator fecisti novam sibi suppellectilem cupit, novas munditias, ipseque novus sum maritus, nova et illa nupta.60

L’audacia del contadino nel parlare cosí liberamente e senza peli sulla lingua al suo padrone riflette il motivo originario del dialogo, il cui messaggio fondamentale continua

ancora ad incentrarsi con insistenza sul principio umano del reddere quae sunt Caesaris

Ceasari, ossia, a ciascuno ciò che è suo: Unicuique suum. Dal comportamento di Fagioli

infatti, il cui fine è di esigere un’equa ricompensa dal suo signore, è identificabile tutto il

sarcasmo faceto dell’autore contro l’ingratitudine e coloro che non riescono a donare

60Idem, p. 305-306: Fag. Grazie, padrone. Accetto il dono del cacio di cui non mi credo indegno, tanto piú se lo paragono alle grosse spese che fate per l’asino. Ma però un’altra è la ragione per cui voglio mutar nome... Voi sapete che sto per accasarmi; dunque... mi ci vuole una casa nuova... ed io vo’ nominarmi Caserio, perché avrò avuto in regalo la casa dal mio padrone... Pont. E perché non chiamarti allora <> se è per cagion della tua donna, che vuoi da me il regalo?... Eccoti tre once d’oro... di quelle col giglio del re Roberto... Prendi la bilancetta, e vedi se son di peso giusto; e comprati la casa in questi dintorni... Vuoi altro? Fag. Accetto il denaro... ma c’è un’altra cosa che vorrei ottenere da voi, padrone. Le tre once me le date perché ho ben meritato di voi... con la marra e col rastrello... Ma voi vi dimenticate che c’è nella scadenza un altro vostro debituccio voluttario... C’è un certo letticciolo... dove avete pur goduto nelle ore calde del pomeriggio, qualche delizia... scherzandoci sopra lascivamente... Ebbene quel letto vuole ora una suppellettile nuova... e vuol essere tutto bello e pulito... Sapete bene, padrone: prendo moglie... Marito nuovo, moglie nuova, letto nuovo. (Traduzione di M. Campodonico, op. cit., p. 71-73). 112 prontamente, lí per lí, ipso facto. Si dà il caso che il personaggio Pontano, una volta preso in considerazione le richieste del contadino, non se lo fare dire due volte e lo compiace prontamente: un contegno esemplare che nell’ottica pontaniana dovrebbe essere il virtuoso ideale da perseguire, anche perché bis dat qui cito dat. E da qui in poi segue la scena piú baldanzosa della conversazione, sia per il suo contenuto satirico, che per le allitterazioni dei vocaboli appositamente scanditi ed enunciati in maniera comica, dove è facilmente riscontrabile lo sforzo dell’autore nel mettere in luce l’importanza di questo ideale.

Pont. Do, volo, spondeo, hac tamen conditione, ut mihi quoque... Fas. Quid est hoc verbi? Caselio ego sum, non coquus. Pont. Hoc verbi illud quidem ipsum est, mi Caselio, ut mihi, perveteri, liberali atque indulgenti hero tuo, illud liceat etiam in luce. Fas. Tute tibi hoc videto, dum foveo, dum aro, ut luceat, numquam enim agrum ipse nocturnis aravi in tenebris. Pont. Hoc ipsum est, mi Caselio: arare ego tecum in luce una cum uxorcula agellum velim. Fas. Orare profecto ad genua quoque provolutus potes; ne tu trimodio quidem cicerculae ab illa, non si quotquot horti Caietani siliquulas ferunt, vel unam solam oculorum paetulam inflexionem impetrabis, senex, edentulus, exuctis medullis senioque ipso confectus atque incanis malis. Pont. Quid si ad tris illas unciolas atque ad lectulum accesserit a me senio etiam Alphonsinorum, quis et ollas pulmentarias et patinas et pelves quaeque vasa nuper peregrina e materia allata sunt Valentia Balearibusque abusque insulis ipsa sibi uxor comparet? Teque cum videam hilarem atque uxori deditum, illam mihi et illecebrosam videre iam videor et rei familiari etiam plus nimio deditam. Cumque tenella ipsa sit atque in suburbiis nata, urbanitatem prae se ferre scitulas inter puellas festisque ut queat diebus a te ipso summopere videndum duco. Ego, mi Caselio, non deero. Vult puella crispellas aureolas capiti, vult collo redimicula pedibusque bracteatulas soleas. Ego haec illi omnia, tibi quoque natalitiis in solemnibus calceos diversicolores trisque quotannis pernulas suillas dabo. Fas. Num et penulas? Pont. Et penulas tibi et subculam illi rosaceam. Verum age, quaeso, amice Caselio, quibus est papillulis nostra animula? Fas. Tumidiusculis quasque manu vix interstringas. Pont. Innatane, obsecro, adhunc illic est illi lanugo? Fas. Nulla. Pont. Novaculam fortasse adhibuit. Fas. Nullum adhuc illa fecit tonsum, putula tota est, nedum glabris femurculis! Pont. Illud quoque non est quod erubescas, fateare, amabo, salitne, dum ipse salis, nostrum delicium? Fas. Et salit et sussilit et auram inspirat et scit quibus verbis paxillum surrigat, fermentillam dicas. Pont. Quid hoc verbi, mi Caselio? Fas. An ignoras fermento contumescere panificiam materiam? Habet illa in manibus, in verbis, in ocellis fermentum. 113

Pont. Venus bona! Ut blande, ut deliciose futurum est mihi cum Fermentilla nostra! Sed heus, tu, mi Caselio, nihil ultra, continendus est sermo. Eccos philosophos, exhibe vultum gravem advenientibus, ac si de ipsorum adventu collocuti hic simus diutius.61

E cosí fanno. Aspettano. Ma nell’attesa i due si prolungano, anche se brevemente, in un giro di parole alquanto significative, almeno a livello semantico. Il Pontano, che è ormai infervorato dalle sue fantasie erotiche, per accattivarsi ancora di piú il consenso di

61Idem, p. 306-307. Il Campodonico non traduce questo testo conformemente all’edizione originale redatta dal Previtera. Mancano molte parti, specialmente le piú oscene, che qui traduco.

Pont. Va bene te lo dono (il letto), desidero farlo, te lo garantisco, ma a questa condizione, che tu mi faccia altresí... Fag. Cos’è questa parola (quoque)? Io sono Caserio, non un cuoco. Pont. Questa parola significa, Caserio mio, che a me, che ti sono cosí liberale ed indulgente, permetterai di mettere sotto sopra il tuo campicello e valutare quella cosa lí anche di giorno. Fag. Lo farete voi! Voi dovete incaricarvene. Io curo e coltivo il campo solo di giorno. Non ho mai arato durante le tenebre della notte. Pont. Ma è proprio questo, Caserio mio, che intendo dire: di arare durante il giorno un certo campicello con la tua mogliettina. Fag. Ma voi potreste pregarla e gettarvi in ginocchio quanto vi pare! Neppure se le regalaste tre moggi di ceci e quanti legumi nascono negli orti di Gaeta, otterreste da lei un solo sguardo tenero dagli occhi. Non vi rendete conto che siete vecchio, sdentato, smidollato, di essere sfinito dagli anni e gravemente canuto? Pont. Che ne diresti allora, se a quelle once d’oro e al lettino questo vecchietto sfinito aggiungesse anche degli Alfonsini, con i quali tua moglie stessa potrebbe comprarsi le pentole per le vivande, le padelle, i piatti e anche le stoviglie giunte recentemente sin da Valenzia e dalle isole Baleari? E siccome ti vedo già tutto sorridente e dedicato alla tua mogliettina, cosí mi pare di vedere anche lei tutta dedita a me, portata alle cose familiari e a nessun’altra cosa. E poi lei è tenerella, delicata, perché è nata nei sobborghi della città. È quasi una cittadina. Nei giorni di festa vorrà pur fare bella figura con le compagne. Tu stesso ne avrai piacere sotto la mia protezione. Né io mancherò, Caserio mio! Vuole un pettine dorato per la testa? Vuole una catenella al collo o delle scarpe laminate d’oro ai piedi? Le darò tutto quello che vuole! A te pure darò ogni anno durante le feste (natalizie) scarpe di diversi colori e tre prosciutti di maiale. Fag. Anche i prosciutti? Pont. Faccio sul serio! A te i prosciutti e a lei una sottana rosa. Ma ora dimmi, amico Caserio, come sono i capezzolini della nostra animuccia? Fag. I piú turgidi che la forza della mano possa stringere. Pont. È nata pelosa in quel luogo lí? Dimmelo, ti prego! Fag. Per niente. Pont. (Fra sé) Mi sa di aver forse guadagnato un bel nuovo sedere! Fag. Fino ad ora ella non si è mai rasata, è tutta splendida ed ha delle coscie lisce e soavi! Pont. Dimmi, di grazia! Non è che poi lei si vergogni e si arrabbi, cominciando ad incavolarsi e saltare, cosí come il nostro asinello? Fag. Quando salta, salta in alto sbuffando! Ma conosce le parole per fare la pace. Basta che voi la chiamate Fermentilla. Pont. Che cos’è questa parola, Caserio mio? Fag. Non sapete che il lievito fa gonfiare l’impastata del pane? Lei ha il lievito nelle mani, nelle parole, negli occhi! Pont. Per Venere buona! Come è attraente e delizioso il mio futuro con la nostra Fermentilla! Ma ascolta, Caserio mio! Questo discorso deve rimanere fra di noi! Non ne parliamo piú! (Vedendo i filosofi arrivare) Ecco i filosofi! Fai la faccia seria a questi che arrivano, come se avessimo parlato del loro arrivo aspettandoli qui lungamente! 114

Fagioli su quanto pattuito, gli regala l’asino con tutte le suppellettili ad uso esclusivo

della moglie, dicendogli che quando ella ci salirà sopra, per andare a qualche festa di

matrimonio o ai bagni di Baia, tutte le ragazze del contado creperanno d’invidia. Fagioli

non sa che dire. Stupefatto dal dono dell’asino, assicura il padrone che con un regalo cosí

ampio e generoso egli passserà con Fermentilla innumerevoli momenti ermafroditici; al

che il Pontano, non capendo cosa abbia a che fare l’Ermafrodito nel loro discorso, ne

esige un’immediata spiegazione.

Cas. Here, mihi crede, hoc asello tibi ab illa et meridies hermaphroditinas comparabis et noctes. Pont. Amabo, quid nobis cum hermaphrodito? Cas. Quod illa sic tecum amplexa, innexa, implicita accumbet incumbetque in lecto, itaque inhaerescet hederescetque tecum una, hermaphroditum simul ut agatis; ego tum vobis inspergam et rosam et myrtum et quos illa e citrio deliquavit rores. Verum approperant iam philosophi, ego ad eos praecurro.62

Fagioli si spiega, ma contrariamente al suo tipico modo di ragionare da semplice

contadino, il cui universo è fatto di prosciutti e legumi, le sue parole seguono una logica

cosí complessa che non si addice alla sua personalità, al suo modo di pensare. Come personaggio sarà scaltro, abile con la favella, marpione, ma non erudito a tal punto da potersi spiegare in maniera siffatta.

Dal suo modo imprevisto di esprimersi non va escluso intanto che la presenza

implicita dell’autore voglia mettere in rilievo qualcosa di molto piú importante; specialmente quando si tiene in considerazione che solo una mente colta e raffinata come quella del Pontano può permettersi di manipolare a suo piacimento il gran mito ovidiano

62Idem, p. 307: Cas. Con questo regalo fattomi poco anzi, credetemi, questo asinello vi procurerà giorni e notti Ermafroditiche da lei. Pont. Spiegati, di grazia! Che c’entriamo noi con l’Ermafrodito? Cas. C’entrate! Perché quando ella giacerà e si abbandonerà a letto tutta abbracciata, avvolta e intrecciata a voi, vi resterà attaccata e intorcigliata come l’erba, tanto che sembrerete simili all’Ermafrodito. Ed io vi cospargerò di rose, di mirti e di queste gocce di fior d’arancio distillate da lei stessa. Ma si avvicinano di già i filosofi. Vado loro incontro. 115

dell’Ermafrodito, dove egli include persino una variante non riscontrata nelle

Metamorfosi; e cioè quella della cerimonia nuziale simbolicamente eseguita da Fagioli

col cospargere di rose, mirti e profumi d’arancio il corpo dell’Ermafrodito: che è in pratica il tipico rito di iniziazione matrimoniale riscontrato in quasi tutte le civiltà del bacino mediterraneo sin da epoche remote, di cui il contadino sicuramente sa poco.

Non va quindi scartata la possibilità che il Pontano abbia appositamente codificato nell’immagine dell’Ermafrodito un messaggio abbastanza complesso; al che la domanda piú logica da porsi, che è quella di capire per quale motivo abbia egli voluto concludere l’Asinus col riallacciarsi a questo mito in particolare, anche se in maniera meno allusiva.

A mio avviso, ancor piú del racconto ovidiano delle Metamorfosi, dove la ninfa

Salmace si fonde al corpo del figlio di Ermes ed Afrodite, l’Ermafrodito a cui si riferisce

l’autore è il titolo dello scritto piú controverso dei suoi tempi, l’Hermaphroditus del

Panormita, un’opera di contenuto lascivo su modello della Priapea e di Marziale che il

Pontano medesimo prese ad imitare nei suoi anni giovanili, ma che ben presto scartò

ripudiandola, il Pruritus; forse per evitare lo stesso tipo di critiche da cui il Panormita

dovette saldamente difendersi, specialmente da coloro che non riuscivano a capire né la funzione della poesia erotica, né tanto meno la sostanziale differenza esistente fra un componimento osceno, pagina lasciva, e la virtuosa disposizione morale, vita proba, di un autore propenso a questo genere di scrittura. Ciononostante, sebbene il Pontano avesse rifiutato il suo Pruritus come opera da non rendere pubblica, questo non esclude che egli, che in fatto di lascivia poteva gareggiare con i grandi dell’antichità, non avesse tenuto fede alla defensio del suo amico e maestro tratteggiata cosí vivamente nel contesto del suo Hermaphroditus, in virtú della quale si insisteva appunto che l’unico fine della poesia 116 erotica altro non fosse che puro passatempo, tanto per divertirsi un po’ nelle ore di riposo, lusus et ioci.63

Il Pontano, che tanto aborriva l’ozio, aveva capito benissimo questa posizione di difesa presa dal Panormita, almeno perché sia il gioco che le facezie erotiche erano un contrassegno di sofisticatezza poetica avente nulla a che vedere con la vita personale di uno scrittore. Difatti, cosí come suggerito nell’Hermaphroditus, per i suoi scritti lascivi in forma esametrica il Pontano si attenne principalmente a Marziale, secondo il quale le poesie giocose non potevano essere divertenti almeno che non fossero pruriginose o includessero un’immagine fallica;64e per quelli in forma endecasillabica a Catullo, il quale aveva suggerito che un poeta sacro non doveva necessariamente essere casto nei suoi versi.65 Ritornando quindi alla domanda del perché l’Asinus si conclude col

rievocare il mito dell’Ermafrodito, bisogna come minimo ammettere che l’autore, cosí come nell’Antonius, stia commemorando ancora una volta l’autorevole figura umanistica del Panormita; se non altro per rendere grazie al suo maestro nel contesto di un dialogo dove si celebra appunto in forma caricaturale e burlesca il sentimento della gratitudine.

63Per la defensio del Panormita intrapresa nell’Hermaphroditus, vedasi l’articolo di Eugene O’Connor, “Panormita's reply to his critics: the Hermaphroditus and the literary defense,” Renaissance Quarterly, 50, 4 (1997): 985-1010.

64Cfr. Marziale, Ep. 1, 35.3-11: “Hi libelli, / tamquam coniugibus suis mariti, / non possunt sine mentula placere. / Quid si me iubeas talassionem / verbis dicere non talassionis?/ Quis Floralia vestit et stolatum / permittit meretricibus pudorem? / Lex haec carminibus data est iocosis, / ne possint, nisi pruriant, iuvare.” “Questi scritti, cosí come alle mogli i loro mariti, non possono piacere senza il pene. Cosa ne verrebbe fuori se tu mi ordinassi di scrivere una poesia matrimoniale senza usare termini amorosi? Chi vorrebbe imporre vestiti alle feste di Flora, permettere alle meretrici il pudore delle matrone? Questa è la legge prestabilita per le poesie giocose: possono divertire solo se sono pruriginose.”

65Cfr. Catullo, Poema 16, 5-11: “Nam castum esse decet pium poetam / ipsum, versiculos nihil necesse est; / qui tum denique habent salem ac leporem, / si sunt molliculi ac parum pudici, / et quod pruriat incitare possunt, / non dico pueris, sed his pilosis / qui duros nequeunt mouere lumbos.” “Il poeta sacro deve essere casto, non necessariamente i suoi versi, che in fondo contengono arguzia e giovialità. Se i versi sono voluttuosi e ugualmente pudici, è perché possono incitare il desiderio, non dico dei giovani, ma dei vecchi pelosi che nemmeno possono muovere i rigidi fianchi.” 117

A livelli piú riflessivi, frattanto, considerando che con l’Asinus si conclude la trilogia

dei Dialoghi faceti, dove il tema fondamentale che muove tutta quanta l’azione è in

sostanza la ricerca del “Sapiente Antoniano,” non va escluso che l’Ermafrodito possa qui stare a significare idealisticamente il ritrovamento finale di tale individuo; tanto piú perché trattandosi di un essere che si definisce in termini della sua natura androgina, dove l’uomo non può esserci senza la donna, viene allo stesso tempo affermata l’unità fondamentale della mediocritas: l’uno e l’altro, il maschio e la femmina, fusi in un abbraccio indefinito e perenne il cui punto di unione sta esattamente nel mezzo.

Sono possibilità interpretative da non sottovalutare, anche perché, ai fini di questo studio, ho avuto modo di constatare che la critica non si è pronunziata per niente sul

significato dell’Ermafrodito; causa che faccio risalire al Tallarigo, al quale è infatti

sfuggita questa intrinseca raffinatezza semantica:

Le domande invereconde che fa il padrone per conoscere meglio le qualità della moglie, sono tutte cose che il lenoncino dell’arte non basta a rendere sopportabili, ma producono un senso penoso di disgusto. Buono che Faselio vedendo venire un po’ da lungi gli amici del padrone, già sbucati dalla siepe, va loro incontro e lascia questo tema disgradevolissimo.66

Quel che non va messo in discussione intanto è che l’Asinus si conclude all’insegna di una giovialità universale, perché non coinvolge solo Fagioli e il Pontano personaggio, ma anche i filosofi appena arrivati. Fagioli, infatti, contrariamente alle raccomandazioni del

Pontano di non fare parola alcuna di Fermentilla, quando dà loro il benvenuto li informa prontamente che il padrone, avendo saputo che sta per maritarsi, gli sta per dar di volta il cervello. E conchiude dicendo che non riesce a capire per quale motivo egli si accenda subito a sentir parlare di femmine maritate.67

66Tallarigo, op. cit. p. 554.

67Idem, p. 308: “Nihil enim est eo salacius ac nescio quomodo in maritas foemellas magis accenditur.” 118

Dal suo atteggiamento semplice e bonario, tipico della gente incolta, Fagioli riflette uno degli aspetti piú nobili e innovatori del pensiero pontaniano, che è quello di promuovere la discussione culturale anche fra coloro che appartengono a ceti sociali meno dotti; e da qui tutta quella serie di conversazioni dottrinali, gioviali e licenziose dei

Dialoghi, che, incitando indiscriminatamente tutti al dialogo, non solo mettono in luce i difetti degli uomini, ma maggiormente che il Pontano non tollera né l’amentia, ossia la stoltezza, né l’immanitas, il rifiuto della sapienza; per le qual cosa il genere umano è

68 ridotto in uno stato incapace di rinnovarsi, e pertanto condannato all’infelicità.

68Vedasi il Tateo, op. cit., p. 51: La nuova misura della vita, cioè il ritrovamento di una nuova sapienza, escludeva il rigore del ragionamento dialettico e teologico, e rinnovava con un certo gusto edonistico la tradizione socratica della discussione senza pregiudizi e definizioni, in utramque partem. Di qui l’interesse umanistico per il dialogo come necessaria forma di educazione civile, e l’accentuato carattere occasionale, il gusto della varietà dei temi e la sua motivazione edonistica; piú che l’unità narrativa e logica, si intendeva a raggiungere una unità tematica e totale, collegando strettamente l’incontro dialogico con avvenimenti e condizioni storiche attuali. Con queste premesse si possono intendere a pieno due caratteristiche essenziali dei dialoghi pontaniani, che da una parte (con l’alterno e bizzarro concatenarsi dei ragionamenti) sfuggono ad ogni precisa conclusione, quando si affrontano i fondamentali problemi filosofo-teologici; dall’altra amano risolversi spesso nel tono “comico”, che scaturisce quasi naturalmente dall’esigenza di calare in personaggi di comune livello umano, nella vita quotidiana, i grandi problemi etici. 119

Capitolo terzo

I trattati delle virtú sociali

1. Introduzione

Limitarsi unicamente allo studio delle maggiori opere letterarie del Pontano, come nel

caso dei Dialoghi, dove tutta la trattazione teoretica ispirata all’Etica Nicomachea risulta

essere la piú efficiente a livello dialogico, significherebbe cogliere soltanto l’aspetto

dottrinale del pensiero morale pontaniano; e cioè l’eleganza della forza espressiva, come

in Virgilio e Cicerone, rafforzata da innumerevoli esempi di esperienze umane alla

maniera di Seneca: un approccio riverberante nel suo seno tutta la discussione etico- morale degli umanisti napoletani, che dal chiuso del loro ristretto circolo accademico riescono ad espandere e proporre la loro cultura a livelli piú vasti e universali. Ma se da un lato il merito artistico dei Dialoghi è di avere appunto messo in luce il carattere cosmopolitico dell’Accademia Pontaniana, dall’altro non basta a rendere completa la figura del Pontano umanista, il quale, mantenendosi in linea con le correnti intellettuali del tempo, affianca alla sua vastissima produzione letteraria, opere di stampo politico e morale, in cui si propone di indirizzare la classe politica e dirigente verso mete civili piú moderne. 120

A questo gruppo di opere appartengono innumerevoli scritti a prova del suo acume politico e della sua sapienza realistica, fra cui vanno enumerati il De obedientia, il De fortitudine e il De principe, trattati politici composti negli anni del periodo aragonese, fra il 1468 e il 1490, dove vengono elaborati i concetti fondamentali e filosofici del principato e di come rafforzarne il potere; seguiti poco dopo, a partire dal 1495 in poi, anno in cui il Pontano si ritira negli agi della vita privata, dai cinque trattati delle virtú sociali, il De liberalitate, il De beneficentia, il De magnificentia, il De splendore e il De

conviventia, il cui argomento principale si concentra sull’uso del danaro e sulle virtú

cortesi. Questi ultimi, che sono considerati meno originali a livello artistico, sono i piú

rilevanti fra i suoi scritti minori, giacché enucleano con precisione di dettagli il vivo

pensiero del Pontano colto nella sua odierna preoccupazione su come adeguarsi al

“giusto mezzo.”1

Attenendosi agli stessi precetti aristotelici della liberalità e della magnificenza, cosí

come enumerati nel IV libro dell’Etica Nicomachea, i cinque trattati pontaniani sono interconnessi da un unico tema fondamentale: la gestione del danaro e di tutto quello che si misura con la moneta a livello morale. Ma a differenza di Aristotele, per il quale

1Per questi trattati è essenzialissima l’opera di Francesco Tateo, I trattati delle virtú sociali (Roma: Ateneo, 1965). Vedasi infatti la recensione di Danilo Aguzzi-Barbagli, De Magnanimitate by Giovanni Pontano; Francesco Tateo, in Italica, 49, 2 (1972): 264-267. “Il Tateo inizia la sua analisi con una giusta precisazione su come in tutta l'opera in prosa di Giovanni Pontano la costante preoccupazione di carattere educativo e morale si associ ad un acuto senso della particolare realtà politica ed umana, che circonda l'umanista. Lo studioso passa alla discussione dei troppo spesso trascurati trattatelli filosofici: il De liberalitate, De beneficientia, De magnificentia, De splendore, De conviventia. La particolare importanza di queste operette consiste nel fatto che in esse meglio si rivelano nella loro molteplicità le caratteristiche della personalità dello scrittore, le quali tendono invece ad offuscarsi nel tentativo di raggiungere un piano dialettico piú universale, quando il Pontano idealizza le virtú umane nei trattati filosofici di maggiore impegno dottrinale. Partendo da schemi aristotelici e rimanendo sostanzialmente legato alle matrici dell'Etica Nicomachea, il Pontano dei trattatelli filosofici opera una sottile elaborazione della tradizione aristotelica, proprio per la sua intenzione di “ampliare e chiarire quel che l'Etica aristotelica avesse di poco esplicito.” Tale tradizione, dunque, continuata alla luce di una piú aperta esperienza culturale, di modo che, Tateo opportunamente avverte, come i trattati morali del Pontano vanno “ricondotti nel vivo della sua umana esperienza.” 121

“liberalità” significa essere capace di spendere le ricchezze per scopi necessari, mentre

“magnificenza” per manifestazione di sé, e quindi per un fine non necessario, il Pontano correla strettamente queste due virtú sociali, facendo il punto che qualsiasi virtú derivante dalla liberalità, dalla magnificenza o da tutte le altre ad esse associate, devono essere esercitate col distribuire le proprie ricchezze sia a livello personale, a testamento del proprio “splendore,” che pubblico, a testamento della propria “magnificenza.”2 Solo cosí l’uomo di rango può conservare onestamente il proprio stato sociale e rafforzare i vincoli con la società in cui vive, attraverso un comportamento munificente tanto nelle spese pubbliche quanto in quelle private; ad esempio con l’abbellire la dimora in cui si vive, che deve essere sempre bene ornata e ricca di suppellettili, come anche nel costruire opere pubbliche. Questo atteggiamento del Pontano è particolarmente evidente in un passo del De splendore, dove l’avvicinamento fra lo “splendore” e la “magnificenza” si dimostra funzionale sia nella sua applicazione pubblica che privata:

Non inepte autem magnificentiae splendor statim subiungitur, quod et ipse in magnis versatur sumptibus et habet pecuniam communem quidem cum illa materiam. Sed magnificentia ipsa sumpsit nomen a magnitudine, versaturque in aedificiis, spectaculis, muneribus. At splendor, quod in ornamentis domesticis, in cultu corporis, in supelectile, in apparatu rerum diversarum praelucet, inde nomen a splendendo duxit; atque, ut magnificentia a magnis faciendis, sic virtus haec a splendidis traxit vocabulum. Quin etiam magnificentia in publicis operibus et iis, quae diutius permansura sint, magis versatur, cum splendor privata potius curet, nec momentanea quaedam ac minora negligat.3

2Per una recente interpretazione sull’uso del danaro nell’ottica aristotelica rimando a Peter Hadreas, “Aristotle on the Vices and Virtue of Wealth,” Journal of Business Ethics 39 (2002): 361–376.

3De splendore I, da I trattati delle virtù sociali, a cura di Francesco Tateo (Roma: Ateneo, 1965) p. 125: “Non è ingiustificato poi collegare strettamente lo splendore alla magnificenza, poiché anch’esso consiste in grandi spese ed ha con essa la materia in comune, ossia il danaro. Ma la magnificenza deriva il suo nome dal concetto di grandezza, e riguarda l’edilizia, gli spettacoli, i doni, mentre lo splendore riguarda ciò che risplende particolarmente nell’ornamento della casa, nella cura della persona, nella suppellettile, nell’apparecchiatura di cose diverse: cosí la virtú relativa ha tratto il nome dalle “splendide” cose che fa. Inoltre la magnificenza si rivela di piú nelle opere pubbliche ed in quelle che sono destinate ad una vita piú lunga, mentre lo splendore si interessa piuttosto di cose private e non trascura una cosa se è di breve durata o piú piccola.” (Traduzione del Tateo nel medesimo libro, p. 268). 122

Anche se queste idee, considerando le traduzioni del Bruni e dell’Argiropulo dal

greco, sono abbastanza conosciute dai dotti dell’epoca, bisogna osservare che in questi cinque trattati al Pontano non interessa affatto gareggiare con altri umanisti in materie aristoteliche, ma sintetizzare e modernizzare tutta la dottrina dell’antico filosofo divulgata dalla tradizione filologica del Quattrocento e concretizzarla dalla scienza alla pratica attuale. In questo senso, la raffinatezza dei Trattati, dove la sapienza del Pontano

si trasmuta appunto dalla parola alla realtà grazie alla forza dell’eloquenza, rappresenta

uno dei momenti filologici piú esemplari di tutto lo sforzo umanistico nell’adeguare la

cultura classica nei parametri di una vita piú concreta e moderna.

2. De liberalitate

Dedicato ad Azio Sincero, il Sannazzaro, uno dei piú fedeli discepoli del Pontano, il trattato si avvia partendo dalla considerazione che “ai bisogni degli uomini e alla stessa umana società giova moltissimo mantenere i propri vincoli attraverso un rapporto fondato sulla liberalità,”4 in quanto è una virtú che si addice agli uomini “liberi,” che esercitandola possono godere della loro libertà, al contrario degli avari che sono “servi” del danaro. È un presupposto questo, da cui emerge uno dei problemi fondamentali della crisi sociale che pervade l’Italia del Quattrocento, ossia quello generato dalla nascita del

4De liberalitate I, da I trattati delle virtù sociali, a cura di Francesco Tateo (Roma: Ateneo, 1965) p. 4: “Rerum egestatem et ipsa humani generis societatem, cuius retinendae plura sunt vincula, homo ipse plurimum et dando sublevat, et invincem liberaliter agendo conservat.” “Ai bisogni degli uomini e alla stessa umana società, costituita da una serie di vincoli che ocorre osservare per mantenerla, l’uomo stesso può giovare moltissimo, perché allevia i primi con la generosità e conserva la seconda attraverso un rapporto fondato sulla liberalità.” (Idem per la traduzione, p. 160). 123

capitalismo che tende ad imporre le proprie leggi speculative, sia sul piano politico, che

economico; cosa che non succedeva nel mondo feudale, dove regnava unicamente il culto

dell’educazione cavalleresca. E quindi, laddove il Pontano cerca da un lato di riproporre

gli alti ideali della vita cortese, quali il gusto della vita aristocratica e della letteratura

cortigiana, dall’altro affronta eticamente il tema dell’uso del danaro e di come dovrebbe

essere amministrato dai nuovi mecenati.

Nel discorrere di questa virtú, il Pontano usa lo stesso metodo applicato nei Dialoghi

faceti: da un lato mette in rilievo l’ideale della liberalità attraverso l’analisi dei suoi

eccessi; dall’altro, avvalendosi di nuovo della storia, prende spunto dagli esempi dei

maestri della vita morale per la grandezza dei loro benefici e per l’utilità da essi procurata all’educazione dell’animo. Pur non dimenticando di includere se stesso fra questi grandi, perché “scrive senza attendere o ricevere ricompensa e senza mire ambiziose,”5 al

Pontano preme fare tutte le dovute considerazioni sulla liberalità non per coloro che ne

abbandonano i princìpi, come molti potenti del suo tempo, che, rivolgendo tutto il loro

interesse ai furti, alle estorsioni, agli inganni, restano incantati di fronte alle ricchezze, ma

per coloro che bisogna mantenere onesti a tutti i costi, affinché attraverso il loro esempio

di giustiza e di saggezza possa prevalere la libertà nel mondo civile.

Cosí come tutte le arti, che, disponendo di una materia sulla quale esercitarsi, ispirano

gli artisti a dar vita e corpo ai loro capolavori, per esercitare la liberalità bisogna spendere

il danaro, la materia di questa virtú. Chi infatti investe le proprie ricchezze senza mire di

guadagno per l’altrui bene è degno di essere nominato “uomo liberale.” Ma siccome del

5De liberalitate, Prologus, in op. cit., p. 3: “Sed de praefatione hac mea deque vitae institutoribus virtutumque ac disciplinarum magistris satis sit pauca haec disseruisse, praesertim sine spe, sine precio, absque ambitione scribentem.” “Ma per ciò che riguarda questa mia prefazione, gli educatori, i maestri della virtú e della scienza, basti quel poco che ho detto, specie perché io scrivo senza attendere o riceverne ricompensa e senza mire ambiziose.” (Idem per la traduzione, p. 159). 124

danaro si può fare buono o cattivo uso, bisogna fare attenzione nell’osservare modo e misura, perché chi ne fa buon uso riscuote lode, altrimenti biasimo. Da questa prospettiva

la liberalità è da considerarsi pertanto una virtú, giacché coloro che sanno adoperarla non solo si mantengono nei parametri della giusta misura, ma sono anche onesti. Sono proprio

gli eccessi della giusta misura, l’avarizia e la prodigalità, a dimostrare infatti che la

liberalità è una virtú, in quanto ce ne si può allontanare soltanto in due modi: l’uno,

spendendo in modo del tutto insignificante, come fanno gli avari; l’altro in modo

eccessivo, che è il tipico comportamento dei prodighi; in ambo i casi, né gli uni né gli

altri sanno mantenere a freno i propri eccessi, in quanto sono incapaci di moderare la loro

brama di conservare o il loro desiderio di spendere. Nell’uso del danaro bisogna adunque

saper mentenersi nella via di mezzo, sia nel darlo che nel prenderlo; differentemente non

c’è piú posto per la ragione, la quale virtutum ipsarum et dux et comes est.6 In questo senso il danaro è un bene utile che deve essere accumulato con onestà ed elargito con giudizio, altrimenti non offre alcun beneficio, né alla società né ai singoli, specialmente quando viene accumulato col carpire la roba altrui o senza risparmiare qualsiasi tipo di scelleratezza.

Fatte le indispensabili premesse sul significato di liberalità e su come acquistare ed

usare il danaro, il Pontano indirizza l’argomento sull’avarizia, per poter far risaltare piú

decorosamente l’ideale della liberalità attraverso l’analisi del suo opposto. Innazitutto

l’avarizia è un morbo insanabile e cresce in modo visibile con l’età. Inoltre, essendo la

tendenza al possesso anche un fatto naturale, risulta che al mondo ci sono piú avari che

prodighi. Lo dimostra il fatto che col passare degli anni l’istinto naturale al possesso

6De liberalitate III, in op. cit., p. 6: “... la quale è guida e compagna proprio delle virtù.” (Idem per la traduzione, p. 162). 125

subisce tanti di quei mutamenti che quelli che da giovani erano soliti essere piú inclini

alla prodigalità, con l’avanzare dell’età diventano a vista d’occhio piú parsimoniosi.

Ciononostante permane sempre il giudizio che gli avari non apportano nessun bene né a se stessi né alla società.

Al mondo esistono numerosissime specie di avari, raggruppati complessivamente in due categorie distinte e separate: quelli da considerarsi innocui e quelli nocivi. I primi, pur di salvaguardare il loro patrimonio, spendono il meno possibile, ma si riguardano dal causare danni agli altri, perché sono dotati da una bontà istintiva che li rende incapaci di compiere cattiverie contro il prossimo per un fine economico. A questa categoria appartengono i parchi e gli spilorci. I secondi invece, essendo la loro natura innatamente malevole, si consacrano animo e corpo al guadagno illecito e malvagio, pur di conseguire un lucro; e di questi ne esistono a bizzeffe: lenoni, biscazzieri, usurai, furfanti, sicari, fraudolenti, tiranni e cosí via.

L’avarizia dei parchi o dei parsimoniosi, cosí come li chiamavano gli antichi, può anche essere ammissibile e tollerabile, purché sia motivata da condizioni economiche abbastanza ristrette o modeste; come ad esempio un padre preoccupato di soddisfare ai bisogni della famiglia o un individuo assalito dalle preoccupazioni e dalle necessità della vita in generale. Quella degli spilorici invece no; specialmente quando si tratta di un re, di un prìncipe, di cittadini benestanti, che in alcune circostanze si preoccupano persino di economizzare sugli alimenti di cui si cibano, come nel caso di Dido Giuliano e dell’imperatore Pertinace.

Didi Iuliani, maximi e potentissimi viri, sordem quis ferat, qui porcellum leporemve dono ad se missum in triduanas partiretur coenas, saepe etiam, cum nulla religio aut abstinendi causa subesset, leguminibus oleribusque solis contentus coenerat? Quo ut non minus sordibus, sic fortasse magis accusandus Pertinax , qui inter privatum et imperatorem nihil interesse putaverit, dimidiatas lactucas, cardos etiam dimidiatos apponere convivis solitus, ac si quando ad 126

amicos de coena mitteret, binas tantum ossulas aut paucula poma, atque, ubi opipere magis egisse videri vellet, gallinaceos lumbos mitteret. Quid enim principe indignius, quam ut, qui tam late imperet, animum tam angustum etiam in vilissimis rebus habeat? 7

Sebbene l’avirizia dei parchi e degli spilorci non apporti nessun beneficio al prossimo, tuttavia esistono casi di gente povera, che, contentandosi di poco e disprezzando qualsiasi bene materiale, preferisce vivere in povertà, pur di contribuire al bene comune della società. È il caso di un certo Fabrizio, comandante dell’esercito romano al tempo della guerra contro Pirro, che, inviato presso il nemico per negoziare il rilascio dei prigionieri, non si lasciò corrempere dall’oro offertogli. Il suo gesto fu un esempio di singolare integrità morale da ricondursi all’onestà piuttosto che all’avarizia. Difatti questi, pur sapendo di trovarsi in condizioni economiche molto ristrette, e piú di quanto il suo stato richiedesse, preferí rinunciare all’oro e vivere di povertà, piuttosto che di ricchezze acquisite macchiandosi di un delitto.

Ma di uomini del genere, di siffatto onestissimo stampo, al punto di spregiare qualsiasi bene, fuorché la gloria della rettitudine, ne esistono pochissimi. Tanto è vero che al mondo ci sono piú persone capaci di conseguire e carpire le proprie ricchezze disonestamente, di quelle in grado di sostenere dignitosamente la propria povertà; quae, nisi quibus invitis accessisset, indecora non esset;8 e qui il Pontano porta l’esempio di

7De liberalitate VII, in op. cit., p. 10: “E chi potrebbe tollerare la spilorceria in un uomo cosí grande e potente, qual era Dido Giuliano? Era lui che ripartiva in tre cene, e consumava in tre giorni, un porcellino o una lepre che avesse ricevuti in dono. Spesso, anche senza una prescrizione religiosa, senza un motivo di astinenza, si contentava di cenare con soli legumi e verdura. Ma, come non è meno spilorcio, cosí è forse anche piú riprovevole l’imperatore Pertinace, il quale, con la sua idea che non vi sia differenza fra uomo privato e imperatore, faceva portare a tavola mezza lattuga e anche mezzo cardo e, se invitava a cena gli amici, faceva servire solo due nocelle o un pochino di frutta. E quando voleva far vedere di avere preparato con maggior sfarzo, ordinava cosce di gallina. Non v’è cosa piú indegna per un principe, che conservare un comportamento cosí meschino anche nelle cose di minor conto, quando si ha un impero cosí vasto.” (Idem per la traduzione, p. 166).

8De liberalitate VII, in op. cit., p. 11: “... che non è vergognosa se non quando tocca a coloro che non sanno accettarla.” (Idem per la traduzione, p. 167). 127

San Francesco d’Assisi, che a parte uno squallido vestito di tela di sacco non possedette assolutamente nulla.

Decrevit divus Franciscus in summa etiam rerum inopia vivere: nihil habuit praeter solum et quidem sordidum vestitum, nihil omnino possedit; non recusabat tamen ab aliis, si offeretur, quantum diei unius victui, eidemque rusticano, satis esset; sin minus offeretur, petebat ipse, Nam, ut aliis conferret, quomodo praestare id posset, qui nihil omnino haberet? Quocirca tanta eum homines admiratione prosecuti sunt, ut post mortem inter divos retulerint, eique aras ac templa statuerint, sacerdotesque decreverint. Parcum igitur hunc, an potius humanarum necessitatum ac naturae ipsius victorem nominabimus? Sed redeamus ad avaritiam.9

L’attenzione si sposta ora sulla seconda categoria d’avari, i nocivi, che è la piú perfida e odiosa delle due; dacché costoro sono motivati da un deciso, chiaro e predeterminato proposito, quello di non indietreggiare di fronte al disonore, alla vergogna, alla turpitudine. Esaltati dalla bramosia del danaro e del possesso, che li angustia giorno dopo giorno in modo frenetico, questi si abbandonano ad ogni sorta di bruttura, a qualsiasi

inganno abominevole, pur di conseguire un guadagno, pur di arricchire il loro patrimonio,

anche se banale. Di conseguenza questi trascurano ogni sentimento di nobiltà umana,

abbandonandosi irreversibilmente “alle truffe, ai furti, ai latrocini, alle violenze, alle rapine, alle firme false, alle sperequazioni, alla frode, all’usura, ai parricidi fatti per danaro, agli avvelenamenti.”10 Ecco perché l’avarizia è da considerarsi il piedistallo e l’origine di tutti i vizi umani: perché apre le porte ben spalancate a qualsiasi forma di

scelleratezza.

9Idem: “San Francesco decise di vivere nella piú profonda povertà: non ebbe nulla tranne un solo e veramente squallido vestito, non possedette nulla; tuttavia non lo rifiutava, se gli offrivano quanto bastasse per il vitto di un solo giorno, un vitto rustico per giunta; ma se non gliel’offrivano lo chiedeva. Poiché, come avrebbe potuto dare agli altri, chi non aveva assolutamente nulla? Perciò gli uomini lo hanno seguito con tanta ammirazione, che dopo la morte lo hanno annoverato fra i santi e gli hanno dedicato altari, chiese e sacerdoti. Lo chiameremo parco, o piuttosto vincitore dei bisogni umani e della stessa natura? Ma torniamo all’avarizia.” (Idem per la traduzione, p. 167).

10Cfr. De liberalitate VIII, in op. cit., p. 14: “... furta, latrocinia, violentiae, rapinae, falsae obsignationes, iniqua iudicia, fraudes, frenerationes, mercenaria paricidia, venena.” 128

Nonostante la lista dei crimini commessi da questa seconda categoria di avari sia

abbastanza lunga e complessa, il Pontano opta di limitarsi a pochissimi esempi storici

abbastanza irrilevanti: tutt’al piú un paio di periodi di due o tre righe al massimo; ma

niente di essenziale importanza. Riporta ad esempio la congenita crudeltà di Annibale,

che durante la guerra di Cartagine compí molte azioni disumane, ma non si spiega bene

se questa sua crudeltà fosse da far risalire alla sua natura avidissima o alle necessità della

guerra; quello di un certo Angelo Rao, un giurista che aveva rifiutato il caso di un cliente

perché la sua retribuzione non era di argento; e infine quello di un personaggio della

commedia plautina, Euclione, che si lamentava di consumare l’acqua quando si lavava e

conservava le unghie tagliate; nient’altro. Sono pagine prive di particolari interessanti,

dove è facile capire che al Pontano preme intavolare immediatamente il discorso sulla

prodigalità; e difatti a un certo punto lo dice:

Atque haec nunc quidem de avaritia dicta sint. De qua postquam disseruimus ostendimusque avaros, supra quam consentaneum ac decens esset, pecuniae deditos esse, cum ea, quae invincem sibi adversa sunt, si iusta constitua sint, manifestioria cernantur, placet de prodigis statim dicere, ut hinc avaritiae, illinc profusionis facie inspecta, liberalitatis forma tanto nobilior atque honestior visentibus appareat, siquidem, cognitis extremis iisque plane animadversis, medium ipsum multo illustrius apparere necesse est.11

Siccome la natura del prodigo è quella di dissipare le proprie ricchezze senza rifletterci

bene, né tanto meno di procurarsene in abbondanza come fa l’avaro, il Pontano si pone

l’ovvia domanda di quale dei due sia peggiore e chi si allontani di piú dal punto medio.

Di primo acchito la risposta sembra logica, giacché il prodigo, recando molta utilità

agli altri, a diferrenza dell’avaro che non riesce nemmeno a giovare se stesso, si avvicina

di piú all’ideale dell’uomo liberale. Sta di fatto che egli dona anche di buon grado e

11Idem, in op. cit., pp. 15-16: “E si è detto quello che c’era da dire sull’avarizia. Ma ora che abbiamo mostrato che gli avari s’interessano al danaro oltrepassando i limiti opportuni del lecito, poiché le cose appaiono con maggiore evidenza, se li si mettono con quelle contrarie, voglio subito parlare della prodigalità; sicché, guardando da una parte il volto dell’avarizia, dall’altra quello dello sperpero, l’ideale della libertà si riveli piú nobile e piú elevato. Se è vero che, conosciuti e ben chiariti gli estremi, necessariamente il termine medio risulta molto piú evidente.” (Idem per la traduzione, pp. 170-171). 129

amorevolmente, cosí come fanno gli uomini nobili e grandi. Allo stesso tempo, mentre l’avarizia è un male che cresce quotidianamente fino al punto da non essere piú rimediabile, la prodigalità finisce con l’assumere un tenore piú misurato e sanabile con l’avanzare degli anni; perché il prodigo, a causa delle difficoltà economiche nelle quali finisce per ritrovarsi di solito, limitando il suo sperpero, viene richiamato alla saggezza; e ritorna quindi poco alla volta a quel punto medio da cui si è allontanato.

Tali considerazioni bastano per concludere che gli avari sono peggiori; ma non è tutt’oro quello che luccica, giacché anche i prodighi, se giungono agli eccessi del vizio, possono commettere azioni parimenti turpi e scellerate come quelle degli avari. Lo dice il fatto che, essendo l’incontinenza il male piú grave di cui soffrono, essi scialacquano e dissipano talmente i loro averi nella lussuria, nei conviti e negli sfarzi piú intemperati, che a lungo andare non solo finiscono col perdere tutto, ma ricorrono anche alle azioni piú vili, pur di soddisfare al loro bisogno di spendere largamente e senza ritegno. Ma non si tratta soltanto di diventare sciagurati al massimo grado, ma anche di morire, perché il loro modo di fare è paragonabile alla morte, all’annientamento totale. E a tale proposito, per mettere in evidenza l’annichilante pericolo da cui i prodighi debbono maggiormente riguardarsi, il Pontano cita un epigramma di Valerio Marziale destinato a un certo Cinna, che aveva appunto sperperato i beni paterni:

“Dixerat astrologus periturum te cito, Cinna, Nec, puto, mentitus dixerat ille tibi. Nam, dum tu metuis ne quid post fata relinquas, hausisti patrias luxuriosus opes. Bis quartum decies non toto tabuit anno: dic mihi, non est hoc, Cinna, perire cito?”12

12Idem, in op. cit., p. 17: “Un astrologo aveva detto che saresti morto subito, Cinna, / e non mi pare che mentisse, quando te lo diceva; / poiché, nel timore di lasciare qualcosa alla tua morte, / hai consumato tutte le ricchezze paterne, fra la lussuria. / In un anno, nemmeno intero, se ne sono andati otto milioni: / ciò non significa, dimmi, perire subito, o Cinna?” (Idem per la traduzione, p. 172). 130

Insieme al perire o all’autodistruzione, il Pontano parla anche di stoltezza, di insania mentale, non cercare nessuna forma di guadagno o mettere a repentaglio la stabilità economica della famiglia; o tanto peggio, di uno stato, di una nazione, di un regno, se a peccare di prodigalità sono proprio coloro alla guida di un popolo. È giusto quindi che siffatta specie di gente sia da ritenersi calamitosissima, dal momento che dopo aver consumato tutti il loro beni sono capaci di oltreppassare i limiti dell’onestà e darsi alla tirannide, senza piú preoccuparsi né della rettitudine né della vergogna né tanto meno dell’infamia, pur di saziare ai loro bisogni prodigali. Contraddicendo finanche Aristotile, il quale non ritiene opportuno definire “prodighi” né i re né i tiranni, per la sola ragione che essi possegono tante di quelle ricchezze da non poter oltrepassare i limiti del giusto mezzo, il Pontano dimostra il contrario. Forse per esperienza personale con gli Aragonesi e il mondo politico italiano, fa il punto che alcuni di essi, svuotando le casse dello stato, ricorrono all’inganno per le loro ristrettezze economiche: e cita ad esempio il figlio dell’imperatore Antonino, Lucio Commodo, per l’antichità, e il re Alfonso (da non confondersi con Alfonso il Magnanimo), per la storia a lui contemporanea. Il primo, avendo dissipato tutti i suoi averi per le spese della lussuria, svuotò le case dello stato a tal punto da cacciare il pretesto di volersi recare in Africa e placare le rivolte nella provincia, per il solo fine di riscuotere le tasse per l’impresa. Il secondo, pur di incassare una gran somma di danaro dai sacerdoti, giurò solennemente in chiesa che si sarebbe recato in Grecia per combattere contro i Turchi. Ma a parte i raggiri artificiosi di cui i potenti sono capaci, ciò che al Pontano veramente non garba è che i sovrani o capi di stato sogliono usualmente affidare le loro finanze nelle mani di uomini inetti, di gente 131

adulatrice, ruffiana e viziosa, mentre farebbero meglio ad affidarle agli onesti e ai probi.

E di questa sua sensibilità già si è avuto modo di assaporare il discontento nell’Asinus.

Dal confronto dei vizi dovuti all’avarizia e alla prodigalità, il Pontano stabilisce

finalmente quali debbono essere le qualità essenziali dell’uomo liberale. Sommariamente,

egli è colui in grado di dare agli altri senza pretendere nessuna ricompensa, poiché “alii

qui dat, non qui sibi accipit liberalis dicitur.”13 Esemplarissimo fu l’esempio di Giulio

Cesare, che, vantandosi spesso delle ricchezze da lui accumulate con la guerra, era solito dire che non le serbava per suo piacere, bensí per darle in premio agli eroi. Tuttavia, siccome il compito dell’uomo liberale consiste piú nel dare che nel ricevere, è necessario che egli usi moderazione ed equità nel saper provvedere alla sua stabilità economica, tanto nell’acquisire il danaro che nel distribuirlo, adoperandosi sempre di giovare al piú gran numero di persone possibile e di non recare danno a nessuno.

Nello scegliere la persona a cui fare un dono, l’uomo liberale deve prima di tutto

considerare la propria condizione personale in rapporto a quella dell’altro; di poi i meriti,

le aspettative, il tenore di vita, l’età e altre cose del genere ad essa connessi. Elio Adriano

ad esempio, avendo visto per strada un soldato, che aveva conosciuto sotto le armi,

trascinare il suo corpo scabbioso addirittura contro un muro, perché non aveva alcuna

persona che lo aiutasse, subito provvide che questi avesse un servo e i mezzi necessari

per un vitto adeguato alle sue esigenze. In questo modo egli aveva considerato sia la

propria condizione personale che quella del soldato. Allo stesso modo Marco Aurelio, il

quale, nominato dalla madre, assieme alla sorella, quali unici eredi delle ricchezze

paterne, egli che era un imperatore agiatissimo e che non aveva bisogno di beni

13Idem, in op. cit., p. 22: “... chi dà agli altri, non chi prende per sè, si chiama liberale.” (Idem per la traduzione, p. 178). 132

addizionali, cedette tutta l’eredità alla sorella; similmente Scipione “Numantino” che

rinunciò tutta l’eredità in favore del fratello Fabio; e Agesilao, il quale, rendendosi conto

delle difficoltà economiche in cui versavano i suoi familiari, decise di compartire alla pari

tutti i suoi averi con loro. E qui il Pontano, per dare piú risalto e rilievo a questo criterio, cita persino il suo esempio personale nei riguardi della sorella, alla quale aveva donato tutte le ricchezze ereditate dal padre, contentandosi unicamente dei beni acquisiti con l’industria e la fatica nel regno aragonese.

Spinto dalla sua naturale spontaneità di dare agli altri, l’uomo liberale deve anche aderire alle seguenti norme: “cosa, quanto, quando e come donare,” giacché “non si può

mantenere la via giusta senza il principio di giustizia, da cui dipende la scelta.”14

Per la prima norma da osservare, bisogna commisurare con esatezza e diligenza “cosa

donare” al destinatario secondo quello che gli si addice. È inutile, infatti, regalare ad un

letterato un cavallo d’arme munito di accessori vistosi, come d’altronde ad un soldato un

Omero rilegato in argento. E per fare il punto il Pontano cita l’esempio di Alessandro

Magno, che a suo parere si dimostrò essere il migliore maestro del mondo antico nella scelta di “ciò” e a “chi” dava.

Cuius rei quem aut meliorem, aut maiorem magistrum adhibere in consilium possumus, quam eundem hunc Alexandrum, qui honesto loco natos et magistratibus atque honoribus functos, quos inopia rei familiaris laborare intelligebat, dum tamen neque per luxum patrimonia absumpissent, neque inopia simularent, alios aliis commodis, agris, servis, armentis, ut quem egere intellexisset, iuvabat? Quin etiam magnificas domos a se extructas integris atque incorruptis viris amicitia secum iunctis donabat, ut non modo quo daret, sed quibus etiam daret exacte adeo pensitare visus sit, ut istrionibus atque in scena se exercentibus nihil aurem aut argentum, quin perraro numos dederit.15

14Idem, in op. cit., p. 23: “Neque enim retineri medium ipsum sine recta ratione potest, e qua delectus manat.”

15De liberalitate XIII, in op. cit., pp. 25-26: “Su questo punto non v’è maestro migliore e maggiore da poter seguire di Alessandro, ancora una volta. Questi, quando vedeva che alcuni, nati da illustri famiglie, dopo aver esercitato la loro funzione nelle pubbliche cariche versavano in disagiate condizioni economiche, purché non avessero dilapidato nel lusso il patrimonio e ostentassero una falsa miseria, li favoriva, chi in un modo, chi in un altro, e donava campi, servi, armenti, a seconda di ciò che vedeva mancare a ciascuno. 133

Cosí come per la prima, anche per la seconda delle norme Alessandro manifestò la propria sapienza nello stabilire la giusta misura del dono, ossia “quanto donare”; il cui valore deve essere sempre sufficiente in base alle possibilità che convengano sia al benefattore che al ricevente.

Alexander, cum animadvertisset Macedonem quendam, defecto viribus mulo, humeris aurum ferre, ac iam iam sub honere deficere: “Atqui, inquit, ut bono sis animo, ad tuum te tabernaculum honus istud ferre scias.” Hoc non multum fortasse Alexandro, at mulioni multo nimium fuit.16

Segue la terza delle norme, “quando donare”, secondo la quale è necessario esercitare

la liberalità al monento giusto, in modo tale che i doni stessi non solo appaiano piú grandi

per la loro utilità, ma anche piú graditi da parte della persona che li riceve. Pomponio

Attico, ad esempio, fece un regalo di duecentomila sesterzi a Cicerone allorché questi fu

mandato in esilio; similmente con Bruto, con un dono di centomila sesterzi quando partí

dall’Italia. Grazie alla tempestività dei suoi aiuti, i doni si dimostrarono piú solenni

appunto perché furono resi in circostanze adatte.

Per l’ultima delle norme, “come donare,” il Pontano si rifà di nuovo all’esempio di

Alessandro, il quale era un maestro nel dimostrare la propria giovialità nel donare, sia con

l’espressione del viso che con le parole.

Offerenti militi caput ab se truncati in pugna hostis: “Apud nostros, inquit, aurem poculum huiusmodi virtuti solet esse praemium; quod te capere oportet”; renidensque statim subdidit: “de more quidem vacuum; ast Alexander meri plenum illud propinat.” Dubitem gratiusne hoc militi, an poculum ipsum fuerit.17

Anzi regalava slpendidi palazzi, fatti costruire da lui per le persone integre e incorrotte che gli erano legate da vincoli d’amicizia. Si vedeva, quindi, che pensava non solo ciò che dava, ma anche a chi dava, a tal punto che agli istrioni ed a quelli che si esibivano in teatro non diede mai ricompense in oro o in argento, ma solo delle monete, e molto raramente.” (Idem per la traduzione, p. 181).

16Idem, p. 27: “Alessandro, accortosi che un macedone trasportava dell’oro sulle spalle, perché il mulo era esausto, e che quasi quasi veniva meno sotto il peso, disse: “Bè! Voglio che tu sia di buon animo: sappi che questo peso lo porti alla tua tenda.” Forse per Alessandro questo dono non fu gran cosa, ma rappresentò moltissimo, fin troppo per il mulattiere.” (Idem per la traduzione, p. 182).

17De liberalitate XVI, in op. cit., p. 29: “Ad un soldato, che gli presentava la testa di un nemico da lui ucciso in battaglia, disse: “Da noi di solito si premia un tale atto con una tazza d’oro; ed è bene che tu la riceva”; ma sorridendo aggiunse: “vuota, s’intende, come si usa. Ma Alessandro te la offre piena di vino.” 134

Stabilite queste quattro norme essenziali su come esercitare la liberalità, il Pontano ne

approfondisce le particolarità con ulteriori ragionamenti, il cui fine è di evidenziare

ancora di piú i benefici che gli uomini liberali apportano alla società. Ad esempio: l’uomo liberale deve lasciarsi commovuore dai bisogni altrui ed avere pietà delle gravi sventure umane; non deve permettere che il suo atto di generosità sia compromesso da un atto di ingratitudine, né dimostrare che la cosa gli dispiaccia; deve talvolta dare in segreto

tramite terze persone, cosí come prestabilito dal mandato cristiano, dove la mano sinistra

ignora ciò che dà la mano destra; deve usare la liberalità anche verso i nemici, perché non

c’è niente di piú bello che debellare con questa virtú coloro che sono stati vinti con le armi; deve evitare che la liberalità usata verso i singoli sia contraria al pubblico bene, in quanto è un errore peccare contro la pubblica utilità, mentre si pensa all’utilità di uno o di soli pochi; e cosí via: una minuziosa analisi di tutte le possibili applicazioni di questa virtú in campo sociale, dove persino il culto dei morti deve essere prodigato con liberalità, in quanto non solo è una dimostrazione di gratitudine verso i defunti, ma anche un invito a guadagnarsi gli stessi meriti; donde i sepolcri, le lapidi, le statue e i tumuli a testamento delle loro gesta.

Di questa virtú il Pontano non ha piú niente da dire, eccetto un accenno molto breve nell’ultimo capitoletto (XLVIII, De largitione et corruptela) per quanto riguarda la possibilità che l’azione liberale possa a volte essere strumento di tirannide; la qual cosa è molto difficile da identificare, perché quelli che usano il danaro per questo fine sono molto prudenti nel celare le proprie ambizioni di potere e di dominio. Infatti, dimostrando di essere generosi, a volte con elargizioni abbastanza cospicue, essi mirano unicamente a

Non saprei dire ora se fu piú gradita al soldato questa gentilezza o la stessa tazza.” (Idem per la traduzione, p. 184). 135

trasformare il loro gesto di liberalità in utilità propria; laddove i popoli dovrebbero essere

conquistati con “umanità, lealtà e corretezza.”

Cleomenes, Lacedaemoniorum rex, ut regibus indignam, ut maxime iniustam iure detestabatur, iudicans civium animos humanitate, fide, integritate ad benivolentiam invitandos, idque regibus potissimum convenire.18

In sostanza, il De liberalitate funge da premessa ai rimanenti trattati, in quanto il procedimento di come distinguere un animo nobile ed educato da uno avaro e meschino permane lo stesso; sebbene poi, fatta eccezione del De beneficentia, dove non si richiedono ricchezze per esercitare questa virtú, le grandi disposizioni economiche sono necessarie per esercitare sia la magnificenza, lo splendore, che la convivenza. Tuttavia, già da questo primo trattato sono evidenziabili molti atteggiamenti morali ereditati dall’etica cortese, cristiana ed aristotelica, qui filtrati dall’ottica laica ed umanistica del

Pontano. Molto rilevante è infatti il concetto del disinteresse personale quando si fa un dono, che è tipico del mondo cortese e cavalleresco; quello di adeguare il dono in base alle proprie possibilità e di colui che lo riceve, dove subbentra il motivo aristotelico della giusta misura; di essere caritatevole verso il prossimo e di provare compassione per le altrui difficoltà, che sono i precetti fondamentali del cristianesimo: un’insieme di norme relative all’uso del danaro, dalle quali risulta che l’azione dell’uomo liberale deve essere accompagnata sempre dalla giovialità e dalla cortesia, giacché è proprio attraverso questo comportamento che l’uomo sapiente riesce a dimostrare la propria compiutezza sia a livello personale, spirituale che umano.

18De liberalitate XLVIII, in op. cit., p. 62: “Cleomene, re di Sparta, la detestava come indegna dei re e come una delle cose piú ingiuste, ritenendo che l’animo dei cittadini debba cattivarsi con l’umanità, la lealtà, la correttezza, e che questo modo di agire sia il piú adatto ad un re.” (Idem per la traduzione, p. 212). 136

3. De beneficentia

In linea generale l’argomento del De beneficentia è simile a quello svolto nel De

liberalitate, in quanto sia l’uno che l’altro trattato riguardano il principio di fare del bene.

L’unica differenza coesistente fra i due è la “materia” per la quale la virtú della liberalità e della beneficenza viene esercitata, dove in luogo “del danaro” viene impiegata invece

“l’opera” di beneficenza; ma il fine permane lo stesso. Sicché, laddove viene a mancare la possibilità di esercitare la liberalità per mancanza di fortune economiche, è raro che si possa perdere la possibilità di beneficare il prossimo. Sta di fatto che l’uomo benefico, a differenza dell’uomo liberale che deve sempre avere a disposizione il danaro, può giovare a quanti vuole con la sua opera di beneficenza pur se non possiede ricchezze.

Questa virtú dell’uomo benefico, intanto, risulterebbe impossibile se egli non fosse adeguatamente acculturato, giacché l’accudimento e l’affinamento del proprio sapere personale vale di gran lunga molto di piú delle ricchezze economiche. E su questo punto il Pontano non fa altro che attenersi al concetto che la nobiltà individuale si acquista per meriti propri, specialmente attraverso una formazione educativa di carattere liberale, che, fondata appunto sugli studia humanitatis, si dimostra essere l’unico mezzo efficace atto a creare l’uomo completo che sa agire sul piano della realtà umana anche se non possiede ricchezze economiche.19 Per tale motivo il De beneficentia è da ritenersi una sorta di appendice al De liberalitate, dove il Pontano altro no fa che universalizzare questa virtú, in quanto viene a tutti concesso di esercitarla.

19Sull’importanza degli studia humanitatis quale strumento ideale per la formazione dell’uomo completo, vedasi Eugenio Garin, L’educazione umanistica in Italia, (Bari: Laterza, 1959). 137

Da questo punto di vista il De beneficentia è pertanto molto innovativo, giacché prima del Pontano a nessuno è occorsa l’idea che la beneficenza può essere adoperata non diversamente dalla liberalità. Sta di fatto che, nulla pervenendo al Pontano dall’antichità, egli ricorre a un sofisticatissimo ragionamento filologico,20 per il quale risulta essere il primo ad identificare quelli che si allontanano verso l’uno o l’altro degli estremi, come anche a coniare due vocaboli adatti onde descriverne i vizi, “officienza” e “scortesia.”

20De beneficentia II, in op. cit., pp. 70-71: “Sed virtutes, ut vitia, ut morbi, multa invicem habent communia; sunt enim eiusdem tum animi tum corporis, et genere plerunque conveniunt. Ad haec, si bene et male opponuntur, et beneficium maleficio adversatur, bene facere et male facere ut impugnent sese necesse est. Cum autem in altero extremo maleficus collocetur, in altero collocandus videtur qui, cum ipse minimum omnium noceat, nemini tamen prodesse curet, hunc inofficiosum placet appellare, eritque vitium ipsum inofficiositatis. Videbitur fortasse verbum hoc minus usitatum, sed alius non occurrit, quod rem ipsam tam plane explicet. Quid enim est aliud nemini bene facere, quam nulli officium suum impendere? Praeter inofficiositatem autem et maleficentiam non est quod aliud ex adverso beneficentiae opponas. Nam aut nullam quis alicui operam confert, in quo ab officio deficit, aut malam; et hic quidem hac in parte nimius est, cum sit violentus et impotens. Inter malam autem et nullam operam bona constituatur necesse est, quae quidem, quod aequabilis est, iure medium locum optinet. Poteram et suo quidem ac proprio nomine officientiam dicere, cuius est officiendi studium, ut beneficentiae benefaciendi. Quominus autem primo statim congressu id opponerem, non temere fortasse illud obstit, ne quis, ut sunt hominum quorundam ingenia, hoc ipsum nomen non ab officiendo, sed ab eo, quod est officium, deduci perperam interpretaretur. Quod si a studiosis viris in usu recipiatur, non est quod aut magis oppositum inveniri queat, aut quod rem ipsam tam plane explicet. Nam, ut beneficentiae est prodesse unicuique, inofficiositatis nemini, sic officientiae est quam potest obesse; et qui sic affectus fuerit officiens, ut experiens, ut constans, ut temperans, a quibus experientia, constantia, temperantia deducta sunt, vocari poterit.” “Ma le virtú, come i vizi, hanno fra loro molte cose in comune, perché appartengono al medesimo animo, al medesimo corpo, e per lo piú si incontrano nel medesimo campo. Inoltre, se il bene e il male sono opposti fra loro e il beneficio si oppone al maleficio, necessariamente il far del bene e il far del male sono in contrasto. Ma poiché l’uomo malefico si colloca ad un estremo, all’altro sembra doversi collocare chi, pur senza nuocere minimamente, non si preoccupa tuttavia di giovare ad alcuno. Quest’ultimo lo chiamerei scortese e il vizio relativo sarà la scortesia. Forse questo termine risulterà poco usato, ma non ne trovo un altro che designi cosí chiaramente il concetto. Cos’altro è, infatti, il non far del bene a nessuno, che non rendere a nessuno un proprio servigio? Oltre la scortesia e la malvagità non c’è altro vizio da opporre direttamente alla beneficenza, giacché o uno non rende alcun servigio a nessuno, e perciò vien meno alla cortesia, oppure fa del male ed è sotto questo aspetto smodato, essendo violento e sfrenato. Ora, fra un’opera malvagia e la mancanza assoluta di opere si deve necesssariamente porre l’opera buona, che, per essere giusta, occupa a buon diritto il posto di mezzo. Avrei potuto chiamarla “officienza” col suo nome appropriato, perché consiste nella disposizione a nuocere (in latino “officere”) come è proprio della beneficenza la disposizione a far del bene. A contrapporre immediatamente quel termine forse mi ha trattenuto, non senza ragione, il timore che qualcuno (è fatta cosí la mente di alcuni uomini) lo collegasse non al concetto di “officere” ma a quello di “officium.” Ma se dagli studiosi ne venisse accolto l’uso, non sarebbe possibile trovare un termine piú adatto ad essere opposto o che designasse il concetto piú chiaramente. Infatti, come la beneficenza consiste nel giovare a ciascuno, la scortesia nel non giovare a nessuno, la “officienza” consiste nell’arrecare quanto male si può, e chi avrà tale disposizione potrà giustamente chiamarsi “officiente,” come altri esperto, costante, temperante, parole dalle quali si sono ricavati i termini di esperienza, costanza, temperanza.” (Idem per la traduzione, p. 218). 138

Resta dunque da vedere chi sono gli “scortesi” e chi gli “officienti.” Ci sono due

generi di uomini che peccano di scortesia: alcuni sono incapaci di fare del bene perché

manca loro l’istinto naturale di farlo; altri per pura pigrizia. Per i primi, bene o male,

bisogna avere un po’ di compassione perché sono innatamente proni al torpore e

all’inerzia; e il Pontano li mette da parte. Per i secondi invece no. Non c’è nessuna scusa

che possa giustificare la loro poltroneria. Essi, che sono nati per coltivare i doveri della

vita civile, preferiscono vivere senza mostrare alcun interesse per il genere umano e la

società a cui appartengono. Vi è tuttavia anche un terzo genere di uomini scortesi; ma il

Pontano non sa bene se collocarli o meno in questa categoria, appare alquanto indeciso.

Si tratta di coloro che dopo anni di grandi fatiche nel coltivare la vita civile e nel

frequentare la società, una volta ritiratisi nella vita privata, chi per ragioni d’età, chi per

stanchezza, si astengono poi dalle medesime attività per le quali erano degni di lode a un

tempo. Rifugiatisi tutto a un tratto in un angolo perduto della vita, essi vivono in funzione

di se stessi per quel poco che rimane da vivere, senza piú preoccuparsi né della vita

politica né di quella civile. Tale comportamento il Pontano lo ritiene assurdo, dal

momento che è proprio nell’età matura, nell’invecchiamento, che l’uomo virtuoso

dovrebbe esercitare al massimo le proprie virtú. Paragona, infatti, la senilità al vino, che è

piú generoso all’ultimo; e ai cavalli equestri, che giunti una volta al traguardo sono

ancora vigorosi e gagliardi.21

21De beneficentia III, in op. cit., p. 72: “Sed, nescio quomodo, in hominibus idem illud quod in vino exigitur, cum generosum quodque ad ultimum sit optimum ac probatissimum. Equi etiam laudantur, non qui circa primos fervent carceres, sed qui, post quam ad metam ipsam perventum est, vires etiam recentes ostentant”. “Ma, non so come, agli uomini si richiede la stessa cosa che al vino: il vino piú generoso all’ultimo è migliore e piú gradito che mai. Anche i cavalli: sono lodati non quelli che si vedon focosi al principio, attorno alle sbarre, ma quelli che, dopo giunti alla meta, mostrano di aver le forza ancora fresche.” (Idem per la traduzione, p. 220). 139

Gli officienti invece si dividono in moltissime specie, di cui il Pontano riporta soltanto due, non ritenendo opportuno entrare nei particolari, giacché chiunque potrebbe farlo facilmente.22 I primi, “i trascurati,” peccano per errore, perché laddove vorrebbero giovare al prossimo, non si accorgono di fare danno per pura mancanza di diligenza nell’esercitare il criterio della scelta. Sono pertanto da considerarsi negligenti per il fatto che la ragione dovrebbe essere usata con giudizio e prudenza. I secondi, invece, “gli

arroganti,” sia per la loro smodata cupidigia, sia per la loro sfrenatezza di sentimenti,

costituiscono il genere di uomini piú turpi al mondo e sono da ritenersi la rovina della

civiltà, perché vivono dimentichi sia della giustizia che della natura: alcuni di questi,

infatti, soggiogati dal danaro e persuasi dalle promesse di coloro con cui vivono a seguito

senza ritegno o vergogna, fanno male agli altri, pur di compiacere ai loro signori;23 tali

altri, essendo la loro disposizione al piacere sí possente, si abbandonano a ogni sorta di

malvagità e mostruosità, per il solo fine di conseguire un godimento, “quasi piacesse loro

far del male a titolo gratuito,” cosí come le mosche che riescono sempre fastidiose. 24

Stabiliti i termini, ovvero i punti essenziali su come riconoscere la natura degli scortesi

e degli officienti, il Pontano non aggiunge altro di specifico e passa direttamente alla

descrizione di quelle poche regole fondamentali onde offrire l’opera di beneficenza. In

22Cfr. De beneficentia IV, in op. cit., p. 73: “Haec fere sunt maleficorum genera, quae quidem ipsa in plures partiri species quia cuivis est facile, nec video esse necesse, in praesentiam omittam.” “Questi sono i vari generi di uomini malvagi, che a loro volta possono distinguersi in piú specie; poiché ognuno potrebbe farlo facilmente ed io non vedo la necessità di farlo, per ora lo lascierò da parte.” (Idem per la traduzione, p. 221).

23Idem: “Sunt qui, victi precio ac pollicitis capti, aliis noceant ut aliis morem gerant, aliorum ipsi asseclae atque alienum ad nutum viventes.” “Vi son di quelli che, vinti dal danaro e conquistati da promesse, nuocciono ad alcuni per compiacere ad altri, vivendo al seguito di altri e secondo il volere altrui.” (Idem per la traduzione, p. 221).

24Idem: “Quidam, suapte quadam natura atque innato vitio, muscarum more incommodi et molesti sunt, ut gratuito quidem iuvet malefecisse.” “Alcuni, per la loro natura particolare, per vizio innato, riescono fastidiosi e noiosi come le mosche, quasi piacesse loro fare del male a titolo gratuito.” (Idem per la traduzione, p. 221). 140

primo luogo, nell’esercitare questa virtú bisogna attenersi fortemente ai princìpi di

giustizia ed onestà e mai lasciarsi corrompere da qualsiasi forma di favoreggiamento a

discapito dei deboli o di persone sconosciute, come spesso fanno coloro che peccano di nepotismo: ad esempio, quando un avvocato si assume la difesa del figlio di un amico, egli deve farlo rispettando la giustizia e l’onestà, senza mai lasciarsi corrompere un solo istante dal sentimento d’amicizia, cosí com’è di consuetudine nelle repubbliche bene organizzate e negli ottimi principati, dove la giustizia è uguale per tutti ed è decretata secondo i princìpi dell’imparzialità. In secondo luogo, non bisogna vergognarsi se a volte l’opera di beneficenza comporta nell’aiutare persone di stato sociale inferiore; gli uomini di riguardo, infatti, sono da lodarsi maggiormente allorché, offrendo il loro ausilio ai piú umili, non esitano un solo istante a compiere le fatiche piú vili: Re Alfonso il

Magnanimo, ad esempio, avendo visto l’asinello di un vecchio e debole contadino cadere

sotto il carico in una via fangosa, scese prontamente da cavallo per issarlo su, senza

preoccuparsi né del fango né della vergogna. Il suo gesto di beneficenza confina in un

certo qualmodo con la terza delle regole, dove è necessario porgere aiuto non solo a chi

lo chiede, ma maggiormente a coloro che non lo chiedono, quasi fosse un atto spontaneo.

Per questa virtú, secondo il Pontano, nessuno eccelle piú di Enrico Poderico e Pietro

Compatre (gli accademici e amici del Pontano incontrati nel dialogo Antonius) uomini pieni di cortesia e buona disposizione d’amino, e non senza ragione il siciliano Tolomeo

Gallina, che egli ha visto piú di una volta affrontare viaggi lunghi e faticosi da Catania nonostante la sua età, pur di andare spontaneamente incontro con la sua opera ad amici e a conoscenti in città lontane. Segue la quarta delle regole, per la quale non bisogna tergiversare ricorrendo solo al consiglio, laddove è necessaria l’azione. Quando qualcuno 141

chiede un favore, l’uomo benefico deve essere pronto ad offrire immediatamente sia

l’azione che il consiglio, affinché la prontezza risulti piú accetta dell’opera stessa. Difatti,

che è l’argomento della regola che segue, chi fa un bene prontamente, lo fa due volte, in quanto se un aiuto arriva in ritardo può ritenersi come non fatto; ad esempio Pericle, che lasciando morire in povertà il suo amico Anassagora, si pentí troppo tardi per non averlo soccorso a tempo; e il papa Nicolò quinto, che per non essersi recato prontamente a

Costantinopoli in aiuto di Costantino, lo lasciò trucidare dal re Maometto nella pugna furente che distrusse la città. Ultima delle regole, bisogna fare il bene a tutti, siano essi parenti, forestieri, compatrioti; specialmente agli umili e a quelli che versano nella povertà, beneficando quindi non solo coloro che sono stati favoriti dalla fortuna, ma maggiormente quelli che versano in condizioni contrarie. Sono poche regole da seguire, ma essenziali; quantunque poi, essendo il campo della beneficenza cosí largo, il Pontano medesimo riconosce l’impossibilità di esaminarlo tutto e minuziosamente:

Velle autem complecti quot quibusque modis ac quibus in causis negociisque beneficentia uti quis possit, sane difficile est, minimeque necessarium, quod, ut una absolvam sententia, nullum esse vitae genus potest, ad quod beneficentia non penetret, nullus tam dives aut potens, qui non alterius indigeat opera, nullus adeo inops et imbecillus, qui non conferre aliquid benefaciendo valeat.25

È un ragionamento questo da non sottovalutare, perché da un lato comprova l’intento

del Pontano di universalizzare questa virtú, in quanto tutti sono in grado di dare qualcosa di se stessi agli altri, mentre dall’altro rieccheggia il motivo insistente che nel far del

25De beneficentia X, in op. cit., p. 77: “Ma voler esaminare tutte le persone, tutti i modi, tutte le circostanze nelle quali si possa usare la beneficenza è veramente difficile, e non è nemmeno necessario, perché, per spiegarmi con un’unica frase, non vi può essere nessun genere di vita in cui non possa penetrare la beneficenza, nessuno può essere così ricco o potente, che non abbia bisogno dell’opera altrui, nessuno cosí povero o debole, che non sia in grado di dare qualcosa come esige la beneficenza.” (Idem per la traduzione, p. 224).

142

bene, bisogna essere sempre onesti, giusti e imparziali; che sono d’altronde “abiti umani”

a cui si perviene solo con l’ausilio della cultura e dell’educazione.26

4. De magnificentia

Il fine principale della magnificenza è quello di mirare all’utilità dei cittadini e degli

stranieri e deriva in larga misura dal danaro. A dimostrarlo sono le numerosissime opere

pubbliche del passato: i porti artificiali, i moli lanciati nel mare, i templi dedicati agli dei,

gli acquedotti, le cloache, le strade, cosí come tante altre costruzioni imponenti, che da

sempre hanno provveduto all’utilità e alla sicurezza degli uomini.27 Il nome stesso di

magnificenza implica “fare grandi cose,” a differenza della liberalità, dove con piccole

spese non è possibile ottenere gli stessi risultati. Perciò anche se si avvalgono della stessa

materia di cui trattano, il danaro, sia la liberalità che la magnificenza risultano differenti

in alcune cose. La piú ovvia è che laddove l’uomo liberale può esercitare la propria

liberalità con poco, l’uomo magnifico riesce grande col fare spese enormi. Mentre il fine

dell’uomo liberale è di essere utile e di giovare agli altri il piú possibile, quello dell’uomo

magnifico è di fare qualcosa in piú per il piacere di tutti. Sta di fatto che mentre i doni

dell’uomo liberale fanno comodo solo a chi li riceve, quelli dell’uomo magnifico, che

mirano all’utilità di un’intera società, destano gioia a livello generale, non solo con opere

26De beneficentia I, in op. cit., p. 67: “Quibus e principiis profecta ratio, disciplinis institutionibusque adiuta, praestat tandem”. “Partendo da questi princìpi, con l’aiuto della cultura e dell’educazione, la ragione ci permette di diventare tali.” (Idem per la traduzione, p. 215).

27 Sull’argomento della magnificenza, specialmente in quanto all’esercizio di questa virtú in relazione alle grandi opere monumentali, vedasi Peter Howard, “Preaching Magnificence in Renaissance ,” Renaissance Quarterly, 61, 2 (2008): 325-369. 143

di eccellente fattura edilizia, ma anche per mezzo di feste sfarzose e prinicipesche, tipo

giostre cavalleresche, cacce e altri tipi di spettacoli pubblici. La liberalità, inoltre, si

esercita solo nei confronti degli altri, mentre la magnificenza anche verso se stessi, come

quando ad esempio l’uomo magnifico fa costruire per se stesso e i suoi discendenti ville

suntuose e palazzi illustri. Sicché, considerate queste poche differenze, dove lo spendere

stesso implica il donare, risulta che chi è magnifico è anche liberale, ma non viceversa, se

è vero che “la liberalità è superata in magnitudine dalla magnificenza.”28

Due sono i generi di uomini che si allontanano dal giusto mezzo i “modici,” ossia

quelli che quando commissionano un’opera guardano al risparmio, sacrificandone la

bellezza dei dettagli artistici, e i “ventosi,”29 quelli che non si accontentano mai di

spendere, anche per cose che non hanno nulla a che fare con la magnificenza. In quanto ai

primi, la modicità o deriva dall’animo meschino di questa gente, per cui è un fatto di

volontà, di pura scelta personale, oppure dalle ristrettezze del patrimonio, che è una

limitazione dovuta alla miseria. Ne consegue che, essendo le ricchezze lo strumento e la

materia della magnificenza, il povero non può mai essere magnifico. Per i secondi invece,

i ventosi, il Pontano non ha altro da dire che si tratta di gente senza criterio, perché nei

loro inesauribili e irragionevoli sperperi altro non fanno che “spontaneamente gettar via modo e misura.”30

Quando si fanno spese colossali, bisogna attenersi a un criterio di scelta disinteressato

attraverso il quale l’uomo magnifico possa realizzare grandi cose nobili e maestose,

28De magnificentia I, in op. cit., p. 87: “... liberalitas a magnificentia magnitudine superatur...”

29Ho ritenuto opportuno riprodurre questo termine dall’originale latino “ventosos”, a differenza dei due proposti dalla traduzione del Tateo, “fumosi” e “vanesi”, per accostarmi di piú al testo pontaniano, dove è persistente l’uso di questo aggettivo.

30De magnificentia III, in op. cit., p. 89: “...modum ac mensuram sponte obiicit... .” 144

contentandosi unicamente della realizzazione e della bellezza magnifica dell’opera in

quanto tale, a differenza degli investimenti smisurati che si fanno per allestire flotte

belliche o per fortificare città, i cui fini sono ovviamente diversi: l’uno il predominio dei

mari, l’altro l’inespugnabilità delle città; quantunque poi la flotta allestita da Marco

Antonio per tenere l’Egitto insieme a Cleopatra e le mura di Babilonia tuttora suscitino

negli uomini grande ammirazione; ma queste sono rare eccezioni per il Pontano.

Nulla può dirsi veramente grande o magnifico, degno di merito, se vi manca modo e

misura. Differentemente significa perdere e dissipare il danaro; specialmente quando le

spese vengono fatte non per magnificenza, ma per pura ostentazione e turpe piacere

individuale: ad esempio, l’imperatore Domizio Nerone fece scavare un lago intero per

condurvi delle triremi, per il solo piacere di vedere delle donne nude costrette a remare

queste imbarcazioni di notte al lume di ceri accesi; non diversamente l’ateniese Demade,

che pagò centomila dracme di multa, per avere assoldato cento danzatori stranieri in una

rappresentazione teatrale ad Atene, dove per legge era stato decretato da tempo che

nessun straniero potesse partecipare alle feste pubbliche o teatrali. Ma nessuno piú

dell’imperatore Caio Giulio Cesare Germanico, Caligola, si dimostrò piú vergognoso in

questi tipi di scempi.

Caius, qui Tiberio Augusto successit, intra annum opes illas immensas a Tiberio congestas ac vicies septies millies sestertium absumpsit. Quid mirum? qui Liburnicarum navium gemmatis puppibus ac diversicoloribus velis uteretur, in quibus etiam thermas, porticus ac triclinia magna laxitate statuisset, vitibus etiam ac pomiferis arbusculis dispositis, quarum umbra de die tectus atque inter chorus et cantus, litora Campaniae comessabundus discurreret. Idem in extruendis praetoriis ac villis nihil pensi habuit: excisae rupes durissimi silicis, montes alibi ad planum usque subversi, alibi terrae aggestione campi montium iugis aequati, moles iactae profundo et aestuoso mari; atque haec omnia tanta celeritate, ut capitale esset causam tarditati dedisse. Denique ad ea efficienda intentissimus erat, quae quidem fieri nequaquam posse ex aliorum iudicio intelligeret.31

31De magnificentia III, in op. cit., p. 90: “ Caio, che successe a Tiberio Augusto, consumò entro un anno tutte le immense ricchezze accumulate da Tiberio e in piú due miliardi e settecentomila sesterzi. E non c’è da meravigliarsi, se pensiamo che egli usava navi liburniche (navi veloci, brigantini) con poppe adorne di gemme e vele di vari colori, e vi aveva fatto mettere delle terme, dei portici, delle sale da pranzo di grande ampiezza, in piú viti e alberetti di frutta, per poter correre lungo le coste della Campania seduto a tavola, 145

Siccome il danaro si spende in molte occasioni, resta da vedere in che modo l’uomo magnifico debba spenderlo. Innazi tutto è necessario che egli lo faccia con gusto e con slancio, accompagnando la sua azione con grandissima gioia, in quanto l’opera stessa deve essere il riflesso della propria grandezza d’animo. Infatti, dimenticandosi persino delle spese che sostiene, egli pensa solo al modo con cui l’opera intrapresa riesca la piú bella possibile, onde suscitare di poi l’ammirazione di chi le visita e le contempla; cosí come intende dimostrare Virigilio, sottolinea il Pontano, allorché dice: “... minaeque / murorum ingentes aequataque machina coelo.”32 Allo stesso tempo l’uomo magnifico deve anche osservare i princìpi di onestà e di giustizia. Qualora il danaro impiegato nella spesa venga procacciato a danno dei cittadini con rapine e violenze, la sua opera non è degna di lode: ad esempio Roberto, principe di Salerno, il quale, pur di estrarre e trasportare a Napoli il materiale edilizio dalla Lucania per edificarvi un palazzo stupendo

(trasformato di poi nell’odierna chiesa del Gesù Nuovo e le due scuole adiacenti) si dimostrò molto crudele nei riguardi della sua gente con esosi sorprusi; né tanto meno fu degno di magnificenza Borso d’Este, che, secondo quanto raccontavano i Ferraresi allo stesso Pontano, fece costruire dei palazzi e delle ville magnifiche per darle in dono ai suoi amici piú intimi. Nel fare le spese, adunque, non solo bisogna fare in modo che esse si affrontino per un fine onesto, ma che si impieghino anche in opere il cui uso sia utile e necessario a tutti. Ma siccome molti signori e re sono soliti intraprendere opere grandiose non tanto per l’utilità pratica, ma anche per la bellezza della forma esteriore, è anche protetto di giornio dalla loro ombra, fra danze e canti. Egli ancora, nel costruire palazzi e ville, non si curava di nulla: si tagliarono rupi di selce durissima, altrove persino si spianarono monti, altrove ancora si sollevarono campi al livello dei gioghi dei monti con l’ammucchiarvi terreno, si gettarono moli nel mare profondo e burrascoso. E tutto ciò con tanta celerità, che era punito con la pena capitale chi avesse provocato un ritardo. Infine, si interessava piú di tutto di fare quelle imprese, che capiva che secondo il giudizio altrui non potevano compiersi in nessun modo.” (Idem per la traduzione, p. 237).

32Cfr. Eneide, IV, vv. 88-89: “... e immense mura minacciose e ordigni che toccano il cielo... .” 146

necessario che fra la grandezza dell’opera e la forma del decoro esteriore coesista un

equilibrio perfetto, onde non togliere all’opera la sua dignità, che è determinata appunto

in base alla distribuzione armoniosa coesistente fra misura e bellezza: esempi pratici, i

duomi di Firenze, di Siena, di Pisa e di Venezia, che dal punto di vista estetico e

dimensionale sono fra le opere piú belle e appariscenti d’Italia; nonché quelle dove in assenza di bellezza esteriore l’equilibrio estetico è determinato invece dallo loro utilità, ampiezza e spaziosità, tipo gli acquedotti e le cloache romane.

Tulere laudem Romanorum quidam principum e cloacis, quarum ut usus solus quaeritur, sic nullus exigitur ornatus. Amplitudo tamen ipsa et excursus spatiosus firmaque concameratio possunt auctorem de magnificentia commendare, et quanquam cloacae quidem ipse carent ornatu, non mediocri tamen ornamento sunt urbis.33

Cosí come le cloache romane, la perennità dell’opera porta fama; sicché quanto piú

durature e imponenti sono le opere, tanto maggiore è la gloria di coloro che le

commissionano. È dovere dell’uomo magnifico, dunque, concentrare i propri sforzi nella

riuscita dell’opera, che deve essere la piú bella possibile. Ma questo richiede di avere a

disposizione un’infinità immensa di danaro, come i re ad esempio, a cui si convengono

opere regali e magnifiche; a differenza di altri, che rischiano di diventare ridicoli se il

proprio stato sociale o le proprie facoltà economiche non corrispondono esattamente alla

magnificenza dell’opera intrapresa. Agire diversamente, ossia contro la propria “dignità

sociale,” così come la chiama il Pontano, significa non usare la ragione, come nel caso di

un certo Belfiore, un catanese abbastanza acculturato e benestante, che per avere

intrapreso un’opera grandissima, tanto da richiedere la potenza economica di un re, si

dimostrò ridicolo per aver consumato tutte le sue ricchezze nel gettare solamente le

33De magnificentia III, in op. cit., pp. 94-95: “Alcuni signori romani ottennero gran fama per le cloache; eppure, se si cerca solo che siano utili, non si richiede alcun ornamento. Tuttavia la stessa ampiezza, spaziosità, solidità delle volte possono esaltare la magnificenza di chi ne ordinò la costruzione, e quantunque le cloache in se stesse non abbiano abbellimenti, tuttavia non poco è l’ornamento che apportano alla città.” (Idem per la traduzione, p. 242). 147

fondamenta di un palazzo, con la vana illusione che, un giorno, i posteri avrebbero poi immaginato dalla dimensione delle fondamenta la grandezza della propria persona. E a tale proposito, onde dimostrare appunto come le spese e le opere debbano convenirsi a chi le fa eseguire, il Pontano cita di nuovo Marziale (Epigr., VIII, 3, vv. 6-7), dove si critica un uomo di bassissima condizione, il barbiere Licino, per essersi fatto costruire un sepolcro di marmo degno di un re: “Marmoreo Licinus tumulo iacet, at Cato parvo, /

Pompeius nullo; credimus esse deos?”34

Per far sí che le opere siano ancora piú degne di stupore e magnificenza, bisogna in primo luogo considerare i tempi e il luogo appropriato: ad esempio, quando con la sua marcia Annibale minacciava lo stato romano, sarebbe stata una cosa molto sconveniente costruire strade per l’Italia o edificare teatri a Roma, in quanto queste cose sono da farsi in tempi di pace; in secondo luogo, bisogna che chi attende all’opera provveda al suo compimento senza un minimo di pensiero alcuno dell’enormi spese da affrontarsi: come

Cosimo dei Medici, per l’appunto, il quale, quando convocava i suoi artigiani, per esortarli con grandissima affabilità a compiere il loro lavoro, bene e con speditezza, non solo diceva loro di non fermarsi, ma anche di non darsi alcun pensiero nel risparmiare il suo danaro; giacché le grandi spese e i loro stessi autori, come rimarca il Pontano, non solo sono elogiati da tutto il genere umano, ma sono allo stesso tempo anche fonte d’ispirazione poetica e storica.

Magni enim sumptus et opera ipsa magna, eademque ex egregia et peregrina materia, artificiose, varie ac decenter ornata, locis editis imminentia, firmiter et ad perpetuitatem posita, non ipsa modo censentur admirabilia, verum auctores ispsos admirabiles faciunt; quos aeque genus omne hominum laudibus etiam mirificis prosequatur. Quid? quod aedificia ipsa, ubi eiusmodi fuerint,

34De magnificentia X, in op. cit., p. 96: “Licino giace in una tomba di marmo, ma Catone in una piccola tomba, / Pompeo in nessuna; e crediamo che esistano gli dei?” (Traduzione del Tateo, p. 244).

148

remotissimis e terris homines ad sui spectaculum atque admirationem trahunt, ac tum poëtas, tum rerum scriptores ad sui commendationem invitant.35

Nell’esporre quali tipi di opere sono degne di lode per la loro magnificenza, il Pontano tesse gli elogi di tutti coloro che dall’antichità in poi, fino ai suoi giorni, si sono dimostrati magnifici nell’esercitare questa virtú a livello pubblico, ossia per il bene di tutti. Comincia da Giulio Cesare, che dopo aver fatto prosciugare la pianura Pontina, per facilitare l’agricoltura delle popolazioni vicine, non bastandogli quest’opera imponente, vi fece presto costruire una strada ricca di ponti per raggiungere Roma piú agevolmente e in breve tempo; passa di poi all’imperatore Claudio, che per undici anni impiegò piú di trentamila schiavi, onde controllare il livello delle acque del lago Fucino, per estensione il terzo d’Italia a quei tempi, che ogni anno, straripando nei giorni del disgelo primaverile, terrorizzava il popolo dei Marsi; nonché all’imperatore Costantino, che intraprendendo i progetti di fortificazione per la città di Bisanzio, faceva nientemeno importare dai lidi di Baia la pozzolana per rafforzare il cemento, tanta poca preoccupazione si dava nello spendere il danaro; e infine agli imperatori Nerva e Traiano, che, per selciare e arricchire di ponti e pietre miliari le strade della Puglia, del Sannio e della Campania, non si dimostrarono affatto parchi con le imponenti spese che sostennero: si tratta di uomini che per la loro eccezionale magnificenza non solo rivelano il grande interesse dei Romani per il bene pubblico, ma anche un’arte raffinatissima nel portarle a termine e una disinvoltura non indifferente nel finanziarle. I monumenti di

Roma, gli imponenti acquedotti, i porti artificiali di Ostia e di Pirgi, il molo Giulio sul

35Idem, in op. cit., p. 98: “Le grandi spese infatti, e le stesse grandi opere fatte di materia eccellente e rara, decorate con arte, varietà e garbo, posti in cima a luoghi elevati, collocate solidamente e in modo da durare a lungo, non solo vengono giudicate esse stesse, ma rendono ammirevoli i loro stessi autori, e giustamente tutto il genere umano con lodi, perfino mirabili, li elogia. E che dire del fatto che gli edifici, quando sono di tal fatta, attirano visitatori dalle parti piú lontane ad ammirarli, e invitano i poeti e gli storici a diffonderne le lodi?” (Idem per la traduzione, p. 245). 149

lago Lucrino, la grotta di Napoli,36 destano ancora oggi stupore e meraviglia in chi li

contempla per la loro bellezza e capacità funzionale, anche le loro stesse rovine: opere

pubbliche, che, nelle parole dello stesso Pontano, “a edificarle si potrebbe dire che non

abbia mezzi a sufficienza nessun re dei nostri tempi.”37 Non nel caso di Cosimo dei

Medici, però, il quale è ai tempi del Pontano il primo a riprendere l’antica magnificenza

nell’edificare templi e ville, nel fondare biblioteche, e piú di ogni altra cosa, ad investire

il proprio danaro per il bene pubblico e per la bellezza e l’ornamento della patria.

Sebbene la magnificenza si riveli maggiormente nelle opere pubbliche, selciando

strade, costruendo ponti, bonificando terreni, lanciando moli nel mare e cose del genere, è

tuttavia opportuno che l’uomo magnifico eserciti anche verso se stesso questa virtú nel

campo privato, differentemente rischierebbe di passare per avaro. Le opere di carattere

privato elencate dal Pontano sono i palazzi, le ville, le torri e i sepolcri, che nel loro

insieme, non solo rendono piú bella la città, ma danno anche piú rilievo, reputazione e

rispetto a coloro che le commissionano. Chi fa parte dell’aristocrazia, chi è colmo di

ricchezze, a meno che non voglia essere accusato di meschinità, non può vivere in una

casa misera e disadorna, né tantomeno permettere che le sue spoglie mortali o quelle dei

membri della sua famiglia vengano inumate in luoghi comuni. Sparsi in moltissimi luoghi

e città d’Italia, l’impeccabile magnificenza di tanti palazzi magnifici, di ville suntuose e

di sepolcri monumentali rivelano con quanta cura e perizia gli uomini del passato

avessero acquisito splendore e magnificenza; tanta, che in alcune circostanze, pare fosse

anche diventato un fenomeno di pura competizione personale nell’esercitare questa virtú,

36Si tratta dell’odierna galleria di Piedigrotta, che ancora oggi collega Mergellina con i Campi Flegrei.

37De magnificentia XI, in op. cit., p. 101: “...quibus aedificandis nullos aetatis nostrae reges satis esse dicas... .” 150

come nel caso delle torri quadrate di Siena e Perugia, la cui altezza lasciano appunto

credere che i cittadini di riguardo avessero gareggiato a vicenda nell’edificarle quanto piú

alte possibile. Ma niente di piú magnifico al mondo evidenzia la fama dei benemeriti

uomini dell’antichità quanto lo sono i loro sepolcri, le tombe, i mausolei, le piramidi, gli

archi trionfali e le colonne di Roma, in particolar modo quella Traiana e Antonina, a

testamento della loro gloria perenne.

Mausolei ac pyramidum fama nisi cum ipsis literis non extinguetur. Mos fuit, et quidem probatissimus, extruendorum sive trophaeorum sive arcuum, qui hodie triumphales dicuntur, quippe qui essent rerum gestarum monumenta, in quibus quanta magnificentia maiores nostri usi fuerint, arcus ipsi docent. Quid admirabilius marmoreis illis columnis, quae duae Romae sunt reliquae, quae mihi quidem tum ob altitudinem, tum ob sculpturae elegantiam ac varietatem et ob ipsam imprimis raritatem videntur non urbi solum, sed orbi ipsi ornamento esse posse? 38

A tale proposito, infatti, all’ornamento decoroso della città si ricollega l’ultimo principio che l’uomo magnifico deve osservare con precisione rituale e massima avvedutezza. Essa riguarda il culto, le usanze e le consuetudini popolari. Differentemente egli rischia di passare come un’individuo che si è poco preoccupato della propria fama personale e dell’opinione altrui. Bisogna, dunque, che egli tenga in considerazione i gusti dei cittadini nell’abbellire le città di statue, di portici, nell’edificare templi religiosi a seconda delle credenze del popolo, come anche nell’allestire feste e banchetti pubblici, facendo particolare attenzione nel non tralasciar mai cosa alcuna che non riesca gradita ai cittadini. Entrambi Greci e Romani, infatti, si dimostrarono piú che virtuosi in questo aspetto della magnificenza: curando il decoro delle città con statue di uomini a cavallo, in toga o a mezzo busto; facendo numerosi doni religiosi agli dei immortali, come quelli

38Idem, in op. cit., p. 104: “La fama del Mausoleo e delle piramidi non si spegnerà se non con la stessa storia. Era buonissima usanza quella di costruire trofei ed archi, che oggi si chiamano trionfali, perché rimanessero quali testimonianza delle gesta compiute; gli archi stessi dimostrano quanta magnificenza vi adoprarono i nostri antenati. Cosa c’è di piú meraviglioso di quelle colonne di marmo (a Roma ne sono rimaste due), che per l’altezza, per l’eleganza e la varietà della scultura, per la rarità soprattutto, a me sembra possano considerarsi un ornamento non solo dell’Urbe, ma del mondo intero?” (Idem per la traduzione, p. 249).

151

inviati all’oracolo di Delfi; distribuendo viveri in modo abbondante, come nel caso

dell’imperatore Aureliano, “a cui risale quel famoso detto, per il quale non c’è niente di

piú piacevole del popolo romano quando è sazio”;39 e infine organizzando spettacoli di

vario genere per la sola gioia del popolo. Sono piccole accortezze, ma necessarie, che

nell’insieme fortificano il senso d’amore e di lealtà del popolo verso il suo signore. Si

dice, ad esempio, che re Alfonso il Magnanimo superò tutti i re dell’epoca nell’esercitare

queste esigue finezze.

Suis temporibus rex Alfonsus vicit omnes aetatis illius reges tum in iis comparandis atque exhibendis, quae ad sacrificiorum apparatum et sacerdotum spectarent ornatum, tum in deorum ac dearum statuis, quas plurimas, et in iis duodecim Apostolorum ex argento conflatas, habuit: nihil aetas illa aut sacris solennibus, aut publicis ludis ab eo editis vidit magnificientius.40

Coloro che vogliono essere magnifici, insomma, devono sempre provvedere nel non

tralasciare o trascurare cosa alcuna che non riesca gradita al consenso generale o al

compiacimento dei cittadini, specialmente quando si tratta di pubbliche onoranze funebri

o feste nuziali, di cui il popolo, accorrendo in moltitudine, giudica la magnificenza. Per i

funerali, infatti, non vi è niente di piú utile e decoroso per i cittadini medesimi, che

onorare le gesta e le virtú di coloro che li hanno resi orgogliosi; lo stesso per i matrimoni,

i cui vincoli non solo diversificano l’uomo dalle bestie, ma aiutano a consolidare tutta

quanta una città da stretti vincoli di parentele; e con esse, la gloria, la fama, l’ingegno di

interi popoli, passati, presenti e futuri, qualora sussistano sempre, e a qualsiasi costo, i

princìpi di onestà e di giustizia, che per il Pontano rappresentano le fondamenta del

mondo civile.

39De magnificentia XV, in op. cit., p.109: “...cuius illud dictum pervulgatum est populo Romano saturo nihil esse laetius...”

40De magnificentia XIII, in op. cit., p. 107: “Ai suoi tempi il re Alfonso vinse tutti i re contemporanei sia nel procurare e fornire quegli arredi che servono alla pompa delle funzioni religiose e all’ornamento dei sacerdoti, sia per quel che riguarda le statue di santi e di sante: ne ebbe molti infatti, e fra esse quelle dei dodici apostoli d’argento. Nulla a quei tempi si vide di piú magnifico o nelle sollenità sacre o nelle feste popolari.” (Idem per la traduzione, p. 252). 152

5. De splendore

Il trattato del De splendore segue la stessa logica del De magnificentia, eccetto che

laddove la magnificenza riguarda l’edilizia, i doni e gli spettacoli, lo splendore prende in

analisi tutte le cose che “splendono” nell’ornamento della casa, nella cura della persona,

nella suppellettile e nel corredo domestico. Come per la magnificenza anche per lo

splendore si sostengono spese enormi, per le quali, onde evitare il solito errore di

risparmiare o gettare via senza misura il danaro, bisogna attenersi a un giusto mezzo. Gli

antichi chiamavano, infatti, “splendido” colui che era dotato di questa misura, mentre

“sfarzoso” e il suo contrario “sozzo” chi si abbandonava all’eccesso.

Vi sono due generi di uomini sozzi: quelli che nell’acquisto della suppellettile o della cura personale spendono poco e quelli che, preoccupati come sono del loro danaro, quasi niente. Mentre i primi si danno almeno la preoccupazione di acquistare una cosa che sia utile e modesta per la casa, anche se poco pregevole, i secondi non si curano affatto in averla, e se l’hanno, è di scarsissimo valore; ugualmente per l’abbigliamento: gli uni bene, ma senza badare all’eleganza; gli altri da zotici, a testamento della loro avarizia.

Gli uomini sfarzosi, invece, si suddividono in piú di una specie; ma il Pontano ne esamina due tipi in particolare, in quanto i loro vizi sono alquanto eccessivi: coloro che eccedono in modo ostentato nel lusso, specialmente per l’abbigliamento; e coloro che si fingono splendidi pur di mascherare la loro avarizia. Per quanto riguarda i primi, questi

sono “sciocchi,” perché nel curare la propria persona si dimenticano sia della propria dignità, che quella dei propri antenati. Sta di fatto che nel loro modo di vestirsi non badano a nessuna cosa: né all’età, né al rango sociale a cui appartengono, né tantomeno 153 alle circostanze; esempio massimo Caligola, il cui vestiario, secondo le testimonianze di

Svetonio, non era per niente virile:

Qualem fuisse Caium Caesarem Augustum apud Suetonium legimus, qui ne virili quidem, nedum humano vestitu calciatuque ac coetero habitu usus fuerit. Quippe qui, ut armillas ac gemmatas penulas, ut cycladas ac cothurnos, ut speculatoriam caligam, ut denique muliebrem soccum taceamus, saepenumero conspectus fuerit in deorum habitu, nunc aurea barba, fulmen tenens, nunc fascinam aut caduceum, aliquando etiam Veneris habitu in publicum processerit.41

I secondi, invece, quelli che cercano di sembrare splendidi, pur di eliminare qualsiasi sospetto d’avarizia nei loro confronti, comprano di tutto, incluso roba contraffatta: vasi di bronzo rivestiti d’oro, gemme preziose e qualsiasi altro tipo di suppellettile ornamentale, purché sia appariscente e di poco valore. Di questa genia era il duca di Milano, Galeazzo

Maria Sforza, che si vantava di aver comprato a caro prezzo delle gemme rarissime, quando poi erano false. Celando agli altri il proprio vizio, il loro non è splendore, bensí vanità unita alla frode.

Essendo la loro natura avara, gli uomini sozzi sono quelli che piú si allontanano dallo splendore, poiché, da come si è già discusso nel trattato della liberalità, i loro vizi sono incurabili e divengono ogni giorno piú grandi. Invece gli uomini sfarzosi vengono spesso richiamati alla giusta misura, se è vero che chi pecca di prodigalità finisce con l’assumere un tenore piú misurato e sanabile con l’avanzare degli anni.

Fatte le dovute distinzioni di coloro che peccano in un aspetto particolare dello splendore, il Pontano comincia ad analizzare uno per volta quali dovrebbero essere gli

41De splendore II, in op. cit., p. 127-128: “ Che tipo di persona fu Caio Cesare Augusto (Caligola) lo si legge in Svetonio, secondo il quale non erano virili o da essere umano né l’abbigliamento, né le calzature, né tantomeno tutta la rimanente parte del suo vestiario; poiché, tanto per non parlare dei braccialetti, dei mantelli gemmati con cui incappucciarsi, delle vesti, degli stivaletti da teatro o da esploratore e infine dei sandali femminili, fu molte volte visto in pubblico vestito come gli dei, a volte con la barba dorata o con il fulmine in mano, tale altre con il tridente o il caduceo; un giorno persino vestito da Venere.” Un altro tipico esempio di smodata eccessività ci viene data dall’imperatore Nerone, che nell’uso dei metalli preziosi era particolarmente esagerato; tanto che, non solo rivestiva d’oro la sua casa, ma faceva anche ferrare i suoi muli e cavalli con l’argento; in due occasioni ebbe persino la sfrontatatezza di andare a pescare nudo con delle reti d’oro puro intrecciate da fili di porpora e di cocco. Cfr. op. cit., p. 128. 154

interessi dell’uomo splendido: innanzi tutto la suppelettile, di poi gli oggetti ornamentali, la cura e l’eleganza della persona, infine il corredo per le occorrenze fastose o solenni.

Ogni comodità della casa, stoviglie, posate, divani, mobili, e cose di questo genere, senza le quali sarebbe impossibile vivere agiatamente, si chiama suppellettile. Sebbene queste cose si acquistino per uso proprio e comodità personale, il compito dell’uomo splendido è quello di procurarsene abbastanza e di eccellente qualità, perché quando si presenta l’occasione fra gli invitati, egli possa agevolmente servirsene a dimostrazione del proprio splendore. La sua suppellettile, purché sia acquistata in vista di un fine giusto ed onesto, deve corrispondere alle sue posssibilità, come anche alle aspettative degli ospiti e alla dignità sua; pertanto deve essere rara, distinta e di valore artistico particolare;

tanto pregevole, da evidenziare che egli l’abbia comprata non per se stesso, ma per il suo

seguito, secondo l’esempio del re Alfonso il Magnanimo:

Rex Alfonsus et cados et dolia et stipulas ex argento habuit, crateres etiam ex auro, toralia et mappas e tela conquisitissima. Itaque eius mensis nihil splendidius. Talem igitur splendidi hominis supelectilem esse volumus; cuius quidem tametsi proprium est curare ut sit multa et peregrina, ignorare tamen debet quanta ea sit, dummodo sit maxima, quaeque rationem habeat facultatum ac dignitatis.42

Gli oggetti ornamentali, invece, sono quelli che si acquistano non tanto per l’uso,

quanto per l’abbellimento e lo splendore della casa, tipo statue, quadri, arazzi, seggi

d’avorio, drappi intessuti di gemme, vasetti di cristallo e altre cose di questo tipo. Ogni

oggetto deve essere collocato al posto giusto, perché ci sono oggetti che vanno bene nel

salone, ma non in una camera da letto; inoltre bisogna anche considerare che alcuni sono

usati quotidianamente, mentre altri in occasioni speciali e solenni. Nella casa dell’uomo

42De splendore III, in op. cit., p. 130-131: “Re Alfonso possedette orci, botti e tubi in argento, coppe di oro, tovaglie e salviette di tessuto ricercatissimo. Perciò niente c’era di piú splendido che i suoi banchetti. Tale dunque vogliamo che sia la suppelettile dell’uomo splendido; il cui compito è quello di curare che sia molta e rara, ignorandone la quantità, purché sia di massimo valore e che si addica alla propria facoltà e dignità.” 155 splendido, inoltre, deve regnare la pulizia e il nitore, soprattutto fra coloro che l’abitano, in quanto lo splendore del padrone sarà maggiormente messo in rilievo dalla bellezza ed eleganza delle donne e dalla finezza degli uomini. È anche suo dovere possedere in casa molti attrezzi che servano alla caccia, all’uccellagione, ai cani e ai falconi. L’uomo splendido deve essere molto attento in queste cose e non deve mai dimenticarne nessuna, come Mitridate, re del Ponto:

Qualem fuisse Mithridatem, Ponti regem, ex hoc ipso iudicari potest, quod eo mortuo in regia eius inventa fuerint ad duo millia poculorum ex onichite lapide, auro perlitorum, phialae ad haec permultae, et vascula mira varietate, item mensae ac sellae elegantissime ornatae, equorum quoque frena et falerae non solum aureo, verum etiam gemmis ac margaritis artificiosissime variatae. Quantus etiam fuerit rerum coeterarum apparatus declarare illud potest, quod diebus vix triginta explicatus ab iis est, quibus ea cura demandata fuit. Quae quidem omnia ab illo magno studio conquisita et comparata fuerant unius ornatus ac splendoris gratia.43

La casa dell’uomo splendido, insomma, deve essere pronta a tutto, a qualsiasi genere di occasione in cui si richieda il suo servigio, perché sarebbe vergognoso farsi cogliere alla sprovvista. Sicché, se capita la visita inaspettata di un ospite, l’uomo splendido sia pronto ad accoglierlo magnificamente; se si dà una festa, sia essa pubblica o privata, la sua casa costituisca una specie di ripostiglio da cui prelevare in gran quantità tutto l’arredo e il corredo che gli parrà necessario; come il Magnanimo, che in questa virtú, nessuno piú di lui si dimostrò minuzioso nel come addobbare una casa e fornirla di tutta

quanta la roba necessaria per dimostrare il proprio splendore.

Rex Alfonsus eodem tempore et regiam, in qua habitabat, et templum, ubi sacra faciebat, et multorum legatorum domos mirifice ornabat, et quidem vario ornamentorum genere; ac nihilo minus, tanquam parum abundaret, Galliam ulteriorem auleis, Syriam gemmis pene spoliavit, ingentibus preciis propositis. Quin etiam artifices ac mercatores corrupuit, ne quid praeter coetera insigne nisi soli sibi venderent. Quo tempore Helionorae neptis nuptias, de quibus diximus (De

43De splendore IV, in op. cit., p. 132-133: “Che tipo di persona fu Mitridate, re del Ponto, lo si può giudicare da questo stesso fatto. Alla sua morte furono rinvenuti nella sua reggia pressappoco due mila tazze in pietra di onice bagnate in oro, molte boccette di vetro e vasetti di varietà mirabile; inoltre mense e sgabelli decorati elegantissimamente; di poi freni e piastre di cavalli, non solo in oro, ma anche ornati artificiosissimamente da una varietà di gemme e di perle. Quanto magnifiche furono il resto delle cose ritrovate, lo può dimostare il fatto che, a coloro che fu dato l’incarico, ci vollero piú di trenta giorni per esaminarle. Tutte queste cose furono procacciate e comprate da lui con grande studio in vista della bellezza e della grazia dello splendore.” 156

magnificentia, XVI), celebravit, (dii boni!) non regiam modo suam, non Federici Augusti, non tot procerum modo domos, sed pene urbem omnem luculentissime exornavit. Quin etiam miri operis tentorium secundum Anguianam paludem statuit die venationis, quod magni etiam oppidi instar erat; quo die videre licuit non tentorium modo ipsum, sed paludis oram omnem splendere tapetis, auleis, abacis, scenis e frondibus, e pannis, e variis etiam textis. Docuit igitur Alfonsus qualem splendidi regis domum esse deceat, et qualem quantumque apparatum habere. Cuius exemplum pro facultate ac dignitate sua qui sequentur, eum iure ut splendidum commendabimus.44

Lo stesso ragionamento vale per la cura della persona e dell’abbigliamento, anche se il

Pontano ne parla pochissimo, dal momento che la moda cambia drasticamente giorno per giorno, e a vista d’occhio. Due sono i criteri sui quali egli insiste. Il primo è che bisogna osservare il principio della dignità personale: dove a un re si convenga un vestiario regale; a un uomo maturo e di rango la serietà e il grado; ai giovani l’eleganza e la decenza; alle ragazze la grazia dell’acconciatura; e alle signore il decoro di donne mature.

Perciò l’abbigliamento di un re deve essere diverso da quello di un magistrato o di un uomo privato; regale sí, ma non effeminato come tanti imperatori romani, i quali, pur di farsi ammirare in pubblico, ora si presentavano vestiti da Venere, ora da Giunone, ora da

Minerva. Per chi governa un popolo, tale comportamento è assurdo e inadatto, in quanto

“lo splendore dimostra un animo nobile, le mollezze un animo effeminato”;45 inoltre, presentarsi in pubblico vestiti da dei, non solo è indice di smisurata pazzia, ma anche di enorme superbia. Il secondo dei criteri, invece, è che l’uomo splendido non deve mai

44De splendore V, in op. cit., p. 133-134: “Il re Alfonso adornava meravigliosamente e con varietà di ornamenti insieme la reggia dove abitava, la chiesa dove faceva celebrare le sacre funzioni e le abitazioni di molti ambasciatori; e nondimeno, come se fosse troppo disporre di tanta dovizia, quasi spogliò di tappeti la Francia, di gemme la Siria, offrendo prezzi enormi. Anzi corruppe artigiani e mercanti, perché non vendessero nulla di particolarmente eccellente, se non a lui. Quando celebrò le nozze della nipote Eleonora, della quale si è già parlato, (Dio buono!) non solo la sua reggia, non solo quella dell’imperatore Federico, non solo le case di tanti aristocratici, ma quasi tutta la città adornò con grandissimo splendore. Anzi fece costruire presso la palude di Agnano, nel giorno della caccia, un padiglione di mirabile fattura, che poteva addirittura paragonarsi ad un grande castello. In quel giorno si potè vedere non solo lo stesso padiglione, ma tutta la riva della palude risplendere di arazzi, coperte, abachi, palchi ornati di rami, di nastri, e di tessuti vari. Dimostrò dunque Alfonso come debba essere addobbata la casa di un re splendido, e la quantità di roba che debba tenere in serbo. Noi loderemo, a giusta ragione, come splendido chi seguirà il suo esempio, secondo le sue possibilità e il suo grado sociale.” (Traduzione del Tateo nel medesimo libro, p. 274).

45De splendore VI, in op. cit., p.135: “Splendor generosum prae se fert animum, mollities effeminatum.” 157 permettere che i suoi vestiti diventino logori e vecchi, perché le cose invecchiate non possono risplendere; anzi, prima che perdano il loro splendore, bisogna che siano regalate a coloro che lo meritano, trasformando il vestiaro in opere di liberalità, specialmente verso i poveri.

Per chi se lo può permettere, intanto, lo splendore dell’abbigliamento assume maggior pregio quando ai capi di vestiario e al corredo familiare vengono intessute gemme, perle e pietre preziosisse.46 Quantunque in questo campo non è possibile risplendere, a meno che non si sia straricchi, l’uomo splendido deve anche coltivare questa raffinatezza: il loro acquisto. Non basta averne poche di gemme, infatti, ma molte, varie e rare; come nel caso del duca di Berry, la cui fama si era divulgata in ogni angolo della terra, tante ne comprava; un primato, per il quale, alla sua morte, il Magnanimo medesimo non si diede pace fino a quando non fu capace di batterlo.

L’ultimo argomento del trattato riguarda i giardini e le ville.47 Innanzi tutto, l’uomo splendido non deve fare dei giardini lo stesso uso che ne fa un contadino, coltivandolo in

46De splendore VII, in op. cit., p.136: “Atque ut purpura sericumque splendidi hominis vestitum commendat, sic gemmae lapillique, tum nonnulla corporis ornamenta, tum domesticos quosdam apparatus, nec eos solum apparatus, qui ad viros ac mulieres spectant, verum etiam qui ad supplicia et ornatus deorum immortalium. Quidam tamen, quamquam liberales ac magnifici, qualem Syracusanum fuisse Dionem legimus, non gemmas modo habere neglexerunt, sed in ornatu ac vestitu corporis splendorem hunc omnino abiecerunt, ut qui popularibus ac civibus suis hac in parte modici potius ac continentes videri vellent, quam splendidi; quorum consilium tametsi non improbamus, tamen in divitiis atque in magna opulentia sordescere principem civitatis indignum ducimus”. “Come la porpora e la seta rendono piú pregevole il vestito di un uomo splendido, in tal modo le gemme e le pietruzze preziose rendono piú pregievoli alcuni capi d’abbigliamento e quelle parti del corredo domestico, che non solo spettano agli uomini e alle donne, ma anche alle funzioni e alle immagini degli dei immortali. Alcuni però, quantunque siano liberali e magnifici, come si legge di Dione siracusano, non si preoccupano né delle gemme, né dello splendore dell’abbigliamento, perché vogliono essere percepiti dal popolo e dai cittadini come persone moderate e continenti, invece che splendidi. Anche se noi non riproviamo il loro volere, allo stesso tempo non riteniamo opportuno che fra tante ricchezze e potenza un principe di una civiltà abbia un aspetto poco dignitoso.”

47Sulla bellezza dei giardini napoletani vedasi Terry Comito, “Renaissance Gardens and the Discovery of Paradise,” Journal of the History of Ideas, 32, 4 (1971): 483-506. Lo stesso Carlo VIII, entrato una volta a Napoli nel 1495, non potè fare a meno di esaltare la bellezza dei giardini della città: “Vous ne pourriez croire les beaulx jardins que j'ay en ceste ville”, scrive a casa, “car, sur ma foy, il semble qu'il n'y faille que 158 funzione di un guadagno. I giardini servono per le passeggiate e i banchetti all’aperto. Per tale motivo è opportuno che siano adorni di piante esotiche, rare e curate debitamente con arte impeccabile. Non dispiace intanto se in essi vengano disposti accuratamente piante di mirto, di bosso, di agrumi e di rosmarino. Per quanto riguarda le ville, il loro splendore aumenta quando sono costruite non rusticamente, ossia nello stile di campagna, ma con la stessa magnificenza della città. Bisogna, infatti, che la suppelletile dell’uomo splendido e raffinato risplenda anche in campagna, dove egli possa servirsene a suo piacimento, senza avere la sensazione di essere passato dalla luce alle tenebre, facendosi cogliere alla sprovvista da una visita inaspettata. A maggior ragione egli deve possedere vivai di pesci, uccelli di ogni specie, cani da caccia e tutte quelle cose necessarie che possano servire alla messa a punto di un banchetto conviviale, dal momento che, “come la sua mensa risplende d’oro e d’argento, cosí devono risplendere le vivande”; 48 che è l’argomento del prossimo trattato:

In quibus tamen, ut coeteris in rebus, tenendus modus est, ne videamur ad voluptatem corporis referre omnia: aliud est enim splendidum esse, aliud comedonem, cum nonnunquam splendidi officium sit inter lectissimas dapes holusculo et pisciculis contentum esse. ... Quia vero in eam partem, quae ad convivia pertinet, non temere incidimus, de hac ipsa re, postquam ea, quae de splendore necessaria visa sunt, diximus, deinceps disseremus.49

Adam et Eve pour en faire ung paradis terrestre tant ilz sont beaulx et plains de toutes bonnes et singulieres choses.” (483).

48De splendore VIII, in op. cit., p.137: “...ut mensa eius argento et auro, sic splendescere epulis debet.”

49Idem, pp. 137-138: “Finalmente, come in tutte le altre cose, anche in questo (nei conviti) bisogna attenersi alla misura, in modo che noi non appariamo propensi di volgere tutta l’attenzione ai piaceri del corpo, poiché una cosa è essere splendido, l’altra mangione. Infatti, fra vivande deliziosissime, è a volte dovere dell’uomo splendido essere contento di verdure e piccoli pesci. ... Ma siccome siamo arrivati a quella parte che riguarda i conviti, non riteniamo opportuno andare piú avanti e parlare di questa cosa; ne parleremo dopo, perché dello splendore ne abbiamo visto e detto tutte le cose che si ritengono necessarie.” 159

6. De conviventia

Quantunque i rapporti di socievolezza fra gli uomini siano stimolati dalla natura

stessa, a consolidarne maggiormente i legami concorrono da un lato la comunanza degli

interessi personali, e dall’altro l’abitudine di mangiare insieme: due disposizioni naturali

per le quali l’uomo appaga sia il suo desiderio di intendere e di sapere, che il suo appetito quotidiano; due istinti basilari e spontanei, senza i quali la sopravvivenza dell’animo e del

corpo risulterebbe impossibile. Perciò, se da una parte la vita stessa, fra tanta moltitudine

di persone, fa sí che gli interessi comuni degli uomini vengano a lungo andare a

restringersi e a irrobustirsi in una stretta cerchia di amici, dall’altro, l’uso di stare insieme

a tavola rafforza i vincoli di amicizia in modo sacrale e religioso.

Alcuni uomini, intanto, rifuggono da quest’umana convenzione sociale. Ad esempio

Pericle, il quale aborriva talmente le cene e i conviti, che non cenò mai a casa di un

amico, eccetto il giorno delle nozze di suo cugino Eurittolemo, sebbene poi fosse un

uomo abbastanza ricco e liberale, secondo quando si legge in Plutarco. Altri, invece,

eccedono talmente nei conviti che sembrano nati apposta solo per mangiare e condurre la

loro vita tra un banchetto e l’altro. Ne consegue pertanto che laddove costituisce un vizio

il rifiuto di partecipare alla cordialità dei conviti, merita allo stesso tempo biasimo e

riprovazione il dedicarsi unicamente all’avidità e ai piaceri della gola. Mentre il diffetto

dell’uno, “l’inconvivenza,” è dovuto raramente alla propria asocialità individuale, ma

spesso all’avarizia, che è comunque sempre disgustosa e deplorevole; quello dell’altro,

“l’ingordigia,” deturpa e rovina l’animo umano a livello bestiale, giacché la voracità 160 della gola accomuna l’uomo agli animali feroci. Eppure è possibile, anche in questo caso,

attenersi a una giusta misura.

Eccetto l’esempio di Pericle per coloro che peccano di “inconvivenza,”50 il Pontano non ne riporta altri. Usando la solita tecnica dell’analisi degli eccessi, donde poi proporre l’ideale del giusto mezzo, passa direttamente alla critica delle persone piú ingorde e viziose vissute nell’antichità; giacché come dice lui:

Hoc enim vitio ac labe infecti qui sunt curare id solum videntur, ut comedant, neque convivia exercent convivendi gratia, sed commessandi, dumque assidue ac liberaliter potent, dum ventrem impleant, dum palato indulgeant, coeterum obliviscuntur omnium.51

L’esempio piú grave è quello di Vario Eliogabalo, le cui cene non costarono mai meno di cento sesterzi, talvolta anche tremila. In piú di un’occasione fece servire seicento teste di struzzo ai suoi invitati, in modo che ne potessero gustare le cervella. Ma la cosa piú assurda e deplorevole, in quanto all’eccentricità di questo imperatore, era che quando soggiornava al mare non mangiava mai pesce, tutto il suo pasto consisteva di carne; al contrario, quando si allontanava dal mare, non faceva altro che mangiare pesce. Aveva anche un’altra curiosa abitudine; in alcune cene pretendeva che tutte le portate dei pasti fossero costituite da una sola cosa in particolare e che fosse preparata in modi diversi, tanto era grave la sua brama di saziarsi esclusivamente di quel cibo e di nessun altro. Non

50È l’unico commento del Pontano in quanto agli inconviventi. Cfr. De conviventia I, in op. cit., p.142: “Qualem fuisse Atheniensem Periclem legimus, quem a coenarum ac conviviorum apparatibus consuetudineque sic abhorruisse traditum est ut ne apud amicum unquam coenaverit, praeterquam apud Eurytolemum nupatiarum die, licet ipse admodum liberalis esset ac suis opibus plurimos sustentaret”. “Di Pericle l’ateniese leggiamo, che aborriva le cene, l’allestimento e la consuetudine dei conviti, né alcuna volta aveva mangiato fra amici, eccetto da Eurittolemo nel giorno delle nozze, da quanto ci è stato tramandato, sebbene lui stesso fosse abbastanza liberale e con le sue opere beneficasse molte persone.” Cfr. anche Plutarco, Pericle, c. 7: “... in città era visto passare per una sola strada, quella per l'agorà e il tribunale, e trascurò inviti a pranzo e ogni siffatta consuetudine e allegria, cosí che nel lungo tempo passato in cui si occupò di politica, non andò a pranzo da nessuno degli amici; eccetto quando si sposò il cugino Eurittolemo, avendo assistito fino alle libagioni subito se ne andò.”

51Idem, in op. cit., p.143: “Quelli che sono infetti in verità da questo vizio e vergogna sembrano voler curarsi solo di questo: basta che mangino, senza coltivare né la grazia dei banchetti né quella dei convitati. Mentre divorano, senza interruzione e liberamente quanto piú possono, finché riempiono il ventre e soddisfano il palato, si dimenticano di tutti gli altri.” 161

molto diverso da questi fu l’imperatore Gallieno. Lo dimostrò vilmente il giorno in cui

chiese cosa ci fosse da mangiare, come risposta agli astanti che si lamentavano della

prigionia del padre Valeriano per mano dei Parti. Anche se la suntuosità dei banchetti

richiede numerosissime portate, varie, abbondanti e prelibate, il Pontano non giustifica gli

eccessi smodati perpetrati da moltissimi imperatori romani, che spesso e volentieri

vomitavano, pur di arrivare alla fine dei pasti. Ad esempio della stravaganza di questi

imperatori viene citato quello di Caligola, il quale faceva servire ai suoi convitati perle preziosissime sciolte in aceto, da centellinare con prelibatezza, come anche pane e pietanze d’oro; quello di Aulo Vitellio, rimasto famoso sia per la sua abitudine di ripartire i pasti in tre parti, talvolta anche in quattro, colazione, pranzo, cena ed orgia, che per la cena offerta al fratello, in cui furono serviti duemila pesci di primissima qualità e settemila uccelli; e infine quello di Nerone, i cui conviti duravano da mezzogiorno a mezzanotte; e se qualche volta si trovava ad assistere ad una battaglia navale, o nel Circo

Massimo o nel Campo Marzio, la faceva smettere momentaneamente, in modo da poter cenare lautamente insieme al suo corteggio di meretrici e danzatrici.

Il Pontano non aggiunge altro, giacché dai pochissimi esempi riportati, è ovvio che gli sperperi dovuti alle sfrenatezze dei sensi si allontanano da quella giusta misura che è la virtú conviviale. Passa dunque alla descrizione di quello che a suo avviso dovrebbe essere la funzione dei conviti e gli alti ideali da perseguire nel loro allestimento.

Convivia igitur, in quibus convivalitas versatur, alia convivendi gratia atque inter paucos cum quadam familiaritate ac victus suavitate fiunt, alia tum ut multorum simul gratia comparetur, ut cum populo epulum paratur, tum ut civili consuetudini satisfiat, ut cum in nuptiis cognati familiaresque ac noti adhibentur ad coenam. Nonnunquam etiam instituuntur convivia, ut splendori tantum ipsi fiat satis, qualia sunt regum ac principum convivia in hortis ac locis amoenioribus; aliquando ut hoc honoris atque hospitalitatis genere tum alios, tum peregre 162

advenientes prosequamur, quod etiam apud Virgilium Aeolus innuit, cum ait: “...tu das epulis accumbere divum”.52

Chi possiede questa virtú, difficilmente si astiene da questi princìpi. A parte il fatto

che è anche una questione di cortesia, la cosa piú importante è che con la sua arte

conviviale l’uomo splendido si procura l’affetto dei cittadini e quello dei forestieri,

purché la esibisca per un fine onesto; in quanto, come insiste usualmente il Pontano, “una

volta perduta l’onestà, non c’è nulla che possa meritare una giusta lode in qualunque

settore della vita umana.”53 Come prima regola, dunque, la mensa dell’uomo splendido

non deve mai essere desolata o parca; al contrario, deve essere sempre apparecchiata

abbondantemente, in modo tale da potere invitare ed accogliere il piú gran numero di

persone possibile, incluso quelle che si presentano all’improvviso: ad esempio, come era

solito fare Marco Licinio Crasso, l'uomo piú ricco della storia, il quale aveva l’abitudine

di cenare con molti ospiti scelti fra la plebe; o come Giacomo Caldora, un generale della

regina Giovanna D’Angiò, il quale invitava alla sua mensa molti dei suoi piú valorosi

soldati, allorché conduceva una campagna bellica. Segue la seconda delle regole, per la

quale l’uomo splendido deve adornare la solennità del convito con la propria allegria, con

la serenità del proprio viso e con il facilitare conversazioni piacevoli fra gli invitati: ad

esempio Tito, il figlio dell’imperatore Vespasiano, i cui conviti, sebbene non fossero

abbondanti, erano pur sempre pieni di allegria; quello di Augusto, il quale usava piú

52De conviventia II, in op. cit., p.145-146: “I conviti, adunque, quelli nei quali risiede la virtú conviviale, alcuni si fanno per la grazia di mangiare insieme, altri, fra quelle poche persone familiari con cui si gioiscono usualmente i pasti; di poscia altri si allestiscono per la gioia di stare insieme fra molta gente, come quando si apparecchiano banchetti solenni fra il popolo, per soddisfare le consuetudini civili, o come quando nelle nozze si imbandiscono cene per amici, parenti e conoscenti. Talvolta i conviti si allestiscono per la gloria dello splendore in quanto tale, come lo sono quelli dei re e dei principi, che si apparecchiano nei giardini e nei luoghi ameni; altre volte accogliamo con questo genere di onore e di ospitalità persone che vengono da lontano, come riporta Virgilio nel caso di Eolo (cfr. Eneide, I, v.79), quando accennando a una cosa del genere, dice: ... tu mi offri un banchetto e di sedere a tavola fra gli dei.”

53De conviventia V, in op. cit., p. 153: “Quo deserto laudari nihil recte potest in aliqua hominum vitae parte”. 163 l’affabilità che la ricercatezza dei pasti; e infine quello del Magnanimo, a cui piaceva ascoltare i discorsi del Panormita o di altri dotti dopo i pasti, giacché riteneva opportuno che anche l’animo avesse diritto a rifocillarsi del suo proprio cibo. Terza ed ultima delle regole: a tavola non deve mai mancare la presenza di Bacco, che è datore di gioia, come giustamente dice Virgilio: “E tu, Bacco, largitor di letizia, e buona Giuno.”54

Siccome la natura dei banchetti richiede “dovizia e squisitezza”, molte volte bisogna badare all’utile e al dilettevole, specialmente quando essi si imbandiscono in onore del popolo, dove lo splendore dei pasti è misurato non tanto dalla loro succulenza e sapore, ma dallo loro abilità di saziare il piú gran numero di gente possibile. Pertanto, colui che riesce magnificamente a bilanciare in queste occasioni, sia l’abbondanza delle portate, che la loro squisitezza, ha diritto di essere chiamato, “uomo splendido”: ad esempio, il conte di Ariano Irpino, Pietro Guevara, che in occasione delle sue nozze esibí una finezza impareggiabile.

Quod quidem praestitit Petrus Gevara, comes Arianensis, cum uxoris nuptias Ariani celebrasset; dies enim octo non populares modo suos, sed finitimos, qui ad nuptias vocati venerant, ita accepit, ut nihil visum fuerit in eo genere opulentius, fuitque opulentiae admista lautities. Et quia principes quoque multi convenerant, certatum est etiam ut neque ciborum conquisitio et concinnatio, neque apparatus domesticus vinceretur a copia: itaque fuere omnia admodum condita, lauta, opipera, conquisita. Illud rarum, quod sine strepitu et turbis, quod videri etiam mirum potuit, in tanto hominum conventu et varietate.55

Quando invece i conviti vengono allestiti tenendo di mira unicamente lo splendore, in questo caso non bisogna trascurare nulla; anzi, “bisogna correre, allentando un po’ le

54Cfr. Eneide, I, v. 734: “Adsit laetitiae Bacchus dato, et bona Juno.”

55De conviventia II, in op. cit., p. 148: “In questo primeggiò Pietro Guevara, conte di Ariano Irpino, quando celebrò le nozze con la moglie ad Ariano. Per otto giorni, infatti, per la sua grandezza vennero ospitati alle nozze non solo i compaesani, ma anche quelli vicini; un’accoglienza tale, che niente fu mai visto di piú opulente in questo genere di conviti, al quale si aggiunse anche la squisitezza delle portate. E siccome accorsero anche molti prìncipi, egli si adoperò anche di far prevalere in abbondanza sia la ricercatezza e l’eleganza dei cibi, che quella degli addobi domestici. Per tale ragione ogni vivanda fu bene ornatata, splendida, suntuosa e squisita. La cosa rara della festa, che si dimostò essere poi una meraviglia, fu che fra tanta varietà di gente e di invitati, non ci fu né chiasso, né confusione.” 164

briglie, e non procedere, come si suol dire, coi piedi di piombo.”56 La casa deve sorridere

d’argento, come dice Orazio.57 Tutto deve essere curato nella finezza dei dettagli; a

cominciare dal corredo di famiglia, alla suppellettile, dall’abbondanza dei cibi locali, a

quelli di rara raffinatezza esotica, anche se bisogna farli importare da fuori; disponendo

ogni cosa con tale maestria e impeccabilità, da dare l’impressione che tutte le cose

presenti sembrino volere gareggiare a vicenda, in quanto è proprio grazie alla varietà e

all’abbondanza degli addobbi e delle pietanze che l’eleganza e la suntuostà di un

banchetto assume la sua propria splendida dimensione. Dal canto loro tutti i presenti,

incluso i servitori, devono osservare un comportamento dignitoso e galante, astenendosi,

pertanto, dai quei tipi di discorsi o contegni che possano in qualche modo compromettere

o rovinare la gioia dell’atmosfera conviviale. Per questo motivo è stato introdotto, e a

buona ragione, l’uso dei musici nei banchetti, i quali, attirando i presenti alla dolcezza del

canto e alla melodia dei suoni, impongono il silenzio, e con esso la tranquillità.

Stabiliti i criteri fondamentali sull’arte conviviale, il Pontano conclude il trattato

affrontando l’argomento della “seconda mensa.” In esso viene ribadito ancora una volta l’importanza dell’abbodanza, della varietà e della squisitezza dei pasti; ma poca attenzione al vero scopo di questa parte finale del banchetto, che è quello di servire frutta e vino. Il discorso, infatti, concentrandosi di nuovo sulla suntuosità dell’arredamento e

sulla vasta gamma di cibi da esibire, fra i quali carni di capriolo, di daino, di cervo, di

cinghiale, di lepre e di coniglio, tende ad essere abbastanza ripetitivo. Tuttavia esiste una

novità, in quanto il Pontano menziona che di recente i conviti hanno ottenuto una variante

56Idem IV, in op. cit., p. 150: “…verum etiam habenae ipsae liberius laxandae sunt, neque passibus, ut dici solet, plenioribus accedendum, sed currendum potius”.

57Cfr. Carmina, IV, 11, v. 6: “ridet argento domus.” 165 ragguardevole grazie alla scoperta dello zucchero e alle sue applicazioni nella manifattura dei dolci, o, come li chiama lui, delle “colazioni,” sia per il piacere visivo che procurano ai presenti che per la loro prelibata squisitezza. Sebbene questo argomento non venga tanto elaborato, l’accenno all’uso dei dolciumi è una cosa straordinaria, almeno dal punto

di vista culinario. Infatti, quo apud Pontanum legimus, appare un riferimento ai dolci

grazie al seguente passo, dove viene descritta una cena offerta da Alfonso, figlio di

Ferdinando I e nipote di Alfonso il Magnanimo, in onore di Carlo, duca di Borgogna.58

Post plurimos rerum varium missus tantumque apparatum, post suavissimos cantus, post secundam mensam longe splendidissimam introducti mimi aditumque ad lychnos spectaculum, tandem magificentissima illa comessatiuncula, quam collationem hodie vocari dixi, plurimis ferculis allata est, ac deinde inter astantes diffusa et passim etiam iactata, ut omnibus ex ea esse liceret.59

Il trattato si conclude qui, e con esso tutta quella parte dell’etica che ha per oggetto il danaro, in quanto nel parere del Pontano non rimane nient’altro da dire. Ciononostante permane strabiliante il fatto che tutta la sua argomentazione filosofica sia venuta a termine all’insegna dei dolci, quasi ne avesse pronosticato la futura fama gastronomica:

Diximus enim de liberalitate et ei aversantibus vitiis, cui accessit etiam de beneficentia disputatio, post de magnificentia, et qui, et quales essent tum modici, tum ventosi disseruimus. Deinceps de splendore, de sorde, de luxu, postremo de mediocritate, quae in conviviis versaretur.60

58In base a questi dati è certo che il De conviventia è stato scritto non prima del 1494, essendo Alfonso salito al trono in quell’anno.

59De conviventia VI, in op. cit., p. 154: “Dopo moltissime cose portate e tanta pompa, oltre ai soavissimi canti, in seguito alla seconda mensa, che fu splendidissima in tutte le sue parti, vennero fatti entrare i mimi e fu allestito uno spettacolo alla luce delle lampade. Finalmente fu portato in numerosissimi piatti quel magnificentissimo bocconcino da mangiare, che, come ho detto, oggi si chiama colazione; fu quindi distribuito fra gli astanti e lasciato anche dappertutto, in modo che tutti potessero servirsene.”

60Idem, in op. cit., p. 155: “Abbiamo discusso infatti della liberalità e dei vizi ad essa opposti, alla quale si è aggiunta anche il discorso sulla beneficienzia; di poi della magnificenzia, distinguendo chi sono i modici e chi i ventosi. Dopodiché dello splendore, degli sfarzosi e dei sozzi, e infine del giusto mezzo che bisogna praticare nei conviti.” 166

Capitolo quarto

La poesia

Forza dominatrice degli scritti pontaniani è la spontaneità creativa. Sinora si è avuto

modo di osservarlo dalle analisi dei Dialoghi faceti e dei Trattati delle virtú sociali, dove

il naturale talento artistico e l’alta moralità del Pontano si rispecchiano grazie a

un’eloquenza che scuote l’animo del lettore, tanto da renderlo partecipe degli stessi

affetti. Tale appunto è anche il vigore e l’espressività della sua lirica, che riesce efficace

grazie a un’impostazione tipicamente dialogica: sia che il poeta si rivolga alle persone

che gli stanno piú a cuore, ai suoi amori, alla famiglia, agli amici; sia che egli faccia

parlare figure mitologiche di sua invenzione; uno stile di poesia coinvolgente attraverso

l’impareggiabile efficacia della conversazione, la quale, come ben notava il Guazzo in La

civile conversazione, 1574, “non solamente è giovevole, ma necessaria alla perfezione

dell’uomo.”1

1Cfr. Eugenio Garin, L'umanesimo italiano: filosofia e vita civile nel Rinascimento (Bari: G. Laterza, 1958), p. 182, dove il critico cita direttamente dal testo di Stefano Guazzo, La civil conversazione, (Venezia, 1586) p. 14: “Anzi principio e fine d’ogni sapere è proprio questo dialogo umano (“il sapere comincia dal conversare e finisce nel conversare”), in cui non solo si mette a prova il nostro sapere (“la disputa è il cribro della verità”), ma si sveglia l’anima nostra, e si incita a feconda ricerca. Umanità, anzi, è questo conversare, questo parlare, questo dialogo, che in sè riassume ogni concreto significato della vita spirituale. “Si potrebbe dar l’elleboro al solitario come al pazzo, e qualunque persona avrà riguardo... all’etimologia della voce uomo, che nella lingua greca, secondo il parere d’alcuni dotti scrittori, significa insieme, s’accorgerà che non si può essere uomo senza conversazione, perché chi non conversa non ha esperienza, chi non ha esperienza non ha giudizio, chi non ha giudizio è poco men che bestia.” Sullo stesso argomento vedasi anche l’articolo di Giancarlo Alfano, “La misura e lo scacco: sul De Sermone di 167

A un primo amore giovanile del Pontano, a Fannia, risalgono questi primi tipi di lirica

dialogica, dove il sentimento del poeta colpisce la sensibilità di chi legge, facendogli

avvertire tutto l’affetto e la passione che gli inonda l’animo.

Quid mihi tam multas proponis, Fannia, poenas, et cupis in tantis excruciare malis? Sit satis interdum gravibus me affligere verbis et miserum de me sumere supplicium. Non ego servitium dominae tam mite recuso (ah pereat, siquis vincula et ipsa timet!); luminibus sed dura meis te subtrahis et me excludit posita clausa fenestra sera, sed numquam potui lacrimis aut fletibus ullis efficere, ut nobis mitior ipsa fores. An quia te a teneris dilexi puriter annis, hoc meruit de te, perfida, longus amor? Quid si me alterius cepissent lumina? Quid si altera in amplexus isset amica meos? Hoc nocuit misero servisse fideliter uni, hoc nocuit tanta semper amasse fide. O pereat quicumque colit tenerasque puellas et durae sequitur militiam Veneris! Et mihi si posthac fuerit quae gratia tecum, dilanient avidi tum mea membra lupi, tum mea membra avido discerpant gutture corvi effodiantque oculos, qui mihi causa mali.2

Gioviano Pontano,” MLN, 115, 1 (2000): 13-33: “Nel riprendere la grande questione del rapporto tra ratio e oratio, Pontano non si limitava a identificare nella seconda l’organo per esprimere “quae ratio ipsa dictat,” ma riconosceva in essa lo strumento per mezzo del quale conversare e proteggere la concilatio, la “humana societas” appunto, della quale il discorso è vinculum (I 1, 2).” Non sorprende pertanto che egli parli subito di civil congregatio, con una espressione che rinvia palesemente a quella branca della filosofia pratica che regola la vita comunitaria, ed è rivelatorio che tale formula appaia nella definizione proemiale dell’oggetto trattato: “nos hac in parte de ea quae oratoria sive vis facultasque sive ars dicitur, nihil omnino loquimur, verum de oratione tantum ipsa communi, quaque homines adeundis amicis, communicandis negociis in quotidianis precipue utuntur sermonibus, in conventibus, consessionibus, congressionibus familiaribusque ac civilibus consuetudinibus (I 3, 2).”

2Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, IX, Ad Fanniam, vv. 1-22: “Perché, o Fannia, mi minacci tante pene e vuoi tormentarmi tra sí grandi supplizi? Ti basti colpirmi di quando in quando con parole pesanti e infliggermi un duro castigo. Io non rifiuto la schiavitú dolcissima di una tiranna – ah, sia maledetto chi teme le catene d’amore!- ma tu, spietata qual sei, ti sottrai ai miei occhi e mi chiudi fuori, sprangando la finestra; però mai per preghiere o pianti ho potuto ottenere che tu diventassi piú dolce con me. O forse perché t’ho amata castamente fin dai miei teneri anni, questo da te, malvagia, ha meritato il mio lungo amore? E se mi avessero irretito gli occhi di un’altra? Se un’altra amica fosse corsa fra le mie braccia? È questo che mi ha nociuto, infelice, l’essere stato schiavo fedele d’una sola donna, è questo che m’ha nociuto, l’averti amata sempre con tanta fedeltà. Sia maledetto chi ama le tenere fanciulle e milita nelle file della crudele Venere! E se dopo tutto questo, avrò ancora un po’ d’affetto per te, allora sbranino le mie membra dei lupi affamati, allora mi strazino le carni i corvi coi loro becchi bramosi e mi cavino gli occhi, che sono la causa della mia sventura!” (Traduzione di Monti Sabia, Liliana, in Giovanni Pontano, Poesie Latine (Torino: Einaudi, 1977), p. 87). 168

L’amore per Fannia è tutto un fremito di amore passionale che sconvolge il poeta a tal punto, che egli stesso, forse nella speranza di placare il dolce, ma opprimente oblio della

furia amorosa che lo tormenta, si abbandona al vagheggiamento del proprio animo; e da

qui, pensando, immaginando, colloquiando, accarezzando solingo l’immagine dell’amata, passa alla razzionalizzazione delle sue pene d’amore.

Quingentas solitus cum sis adamare puellas, nunc ab amore tuo quid, Ioviane, vacas? An quia difficilem sese tibi Fannia praebet, et rigidos mores forma superba facit? Cum tot sint faciles, sit copia mollis amorum, quaere aliquam, tibi quae sponte placere velit, quae tibi se dedat, cui sis et carus ocellus, cui dicas: – Iam iam Fannia nulla mihi est. – Ipsa tibi dicat: – Mea lux, mea vita, meus flos, liliolumque meum basiolumque meum, carior et gemmis et caro carior auro, tu rosa, tu violae, tu mihi levis onyx, deliciae cultusque meus, mea gaudia solus, corque meum, et prae te nil iuvat esse meum. – Et quigenta simul capiat tunc basia raptim, et sine mente oculos volvat agatque suos ac linguam querulo cum suxerit ore trementem, examinis collo pendeat ipsa tuo. Tunc dices: – Amor est suco iucundior omni, dulcior et melle est, suavior ambrosia est. – Nec tibi quingentas fuerit sat amasse puellas. Nil numerus certe, nil in amore valet.3

Accanto a questi primi componimenti, suggeriti indubbiamente dalla lettura dei poeti elegiaci, dove poesia e autobiografia sono un meraviglioso insieme organico polarizzato decisamente dalla forza espressiva dell’arte poetica, si affiancano degli altri dove il poeta

3Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, XXV, Ad se ipsum: “Tu che sei solito innamorarti di cinquecento ragazze, come mai, Gioviano, ora te ne stai senza amoreggiare? Forse perché Fannia ti si mostra inespugnabile e la sua superba bellezza rende rigidi i costumi? Ma di ragazze arrendevoli ce n’è ad usura: cercane un’altra, che si preoccupi di piacerti, che si dia tutta a te, per cui tu sia la sua adorata pupilla ed a cui tu possa dire: – Ora sí, ora Fannia non significa piú nulla per me! – E che dica a te: – Luce mia, vita mia, fiorellino mio, mio candido giglio, mio tenero bacio, piú caro delle gemme e piú caro dell’oro, pur caro, tu sei per me una rosa, una viola, un’onice levigata, la mia delizia e il mio amore, la mia gioia tu solo e il mio cuore e, all’infuori di te, non mi importa che altra cosa sia mia. – E cosí dicendo si prenda allora, uno dietro l’altro, cinquecento baci e, fuori di sé, rovesci gli occhi e li muova di qua e di là e, dopo aver succhiato con la sua bocca che geme la tua lingua che vibra, penda priva di sensi dal tuo collo. Allora tu dirai: – L’amore è piú gradevole d’ogni succo, è piú dolce del miele, è piú squisito dell’ambrosia. – E allora non ti basterà aver amato cinquecento ragazze. No, certamente, non vale niente il numero in amore.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., pp. 102-103). 169 cerca il conforto degli amici, cosí come qualsiasi innamorato, che, confidando le proprie pene al piú intimo dei suoi compagni, quasi ne richieda un consiglio, un parere, una parola di sollievo:

Fannia formosa est, Charisi, Fannia pulcra est, totaque mollicula est totaque lacteola est, et cum lucidulos in me convertit ocellos, tota Venus, tota est Fannia nequitia, basiaque umidulis cum sumit rapta labellis, tum mihi de coelo spargitur ambrosia! Haec mihi praeripuit sensus et amara videndo vulnera dat, lacrimis excubat illa meis.4

Ma si è ancora ai primi tempi del Parthenopeus sive amores, allorché il giovane

Pontano, non avendo ancora stabilito per se stesso un programma ben definito da seguire,

è ancora alle prese con un’esercitazione poetica sperimentale. Tuttavia, anche se a livello embrionale, da questi primi scritti trapela di già una certa tendenza al dialogo. Molto gioviale è infatti il seguente componimento dedicato al Panormita, in cui il Pontano lo invita a recarsi a casa sua e passare insieme un momento di allegria.

Antoni, decus elegantiarum atque idem pater omnium leporum, unus te rogat e tuis amicis, cras ad se venias ferasque tecum quantumcumque potes facetiarum et quicquid fuerit domi iocorum: nam tantum tibi risus apparavit, quantum Democrito diebus octo profundi satis et super fuisset; quod tecum patulo cupit palato perridere suapte risione, condita levitate ineptiisque.5

4Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, XV, Ad Charisium: “Fannia è una donna formosa, Carisio, Fannia è una bella donna: è tutta morbida morbida, è tutta candida candida, e quando rivolge verso di me i suoi occhioni lucenti, Fannia è tutto amore, è tutta voluttà; e quando con le sue umide labbra si prende a forza i miei baci, allora dal cielo piove ambrosia per me! Questa donna mi ha tolto il senno e mi infligge con i suoi sguardi dolorose ferite e non chiude gli occhi, pur di farmi piangere.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 93).

5Dal Parthenopeus sive amores, Liber primus, XXVII, Ad Antonium Panhormitam: “O Antonio, vanto della cultura e al tempo stesso padre di tutte le barzellette, uno dei tuoi amici ti prega di venire domani a casa sua e di portare con te quante piú arguzie potrai, e tutta la riserva di freddure che ti ritrovi in casa: egli ti ha preparato tante di quelle risate, che per smaltirle Democrito avrebbe avuto bisogno di otto giorni, e 170

Ben presto però, proprio negli anni in cui il Pontano sta portando a termine la raccolta

del Parthenopeus sive amores, 1457-58, il suo interesse letterario comincia a svilupparsi

in due direzioni diverse, da una parte affrontando i problemi di etica morale, di cui già si

è messo in rilievo la parte piú ragguardevole, dall’altro intraprendendo una copiosa

produzione lirica confluente in una serie di raccolte abbastanza complesse: il De amore

coniugali, in cui viene celebrato il casto amore familiare; i Tumuli, dove il poeta dà sfogo

al suo cordoglio per la morte dei suoi cari; gli Hendecasyllabi, in cui vengono descritte le gioie, gli svaghi e le letizie dei bagni di Baia; l’Eridanus, una serie di elegie dedicate a

Stella, un tardo amore del vedovo, ormai vecchio Pontano; la Lepidina, un carme bucolico, in cui due pastori assistono alle nozze del dio Sebeto con la ninfa Partenope; il

De laudibus divinis, un libro di inni religiosi; e infine la Lyra, un gruppo di liriche di vario argomento mitologico. Contemporaneamente il Pontano è alle prese col suo vasto poema astrologico l’Urania, che lo mantiene occupato gran parte della vita, cui seguono in ultimo il Meteora, dedicato al figlio Lucio, e un poema georgico, il De hortis

Hesperidum, che tratta della coltivazione dei cedri. In ognuna di queste raccolte non vi è luogo in cui il poeta non anteponga il dialogo a qualsiasi altra forma letteraria, quasi a testimonianza e conferma della sua inclinazione aristotelica, per la quale l’arte poetica si rivela essere anch’essa un ottimo strumento complementare a servizio della morale.6

gliene sarebbero anche avanzate, poiché insieme con te, egli vuole sganasciarsi in una scorpacciata di risate, condita di chiacchiere senza costrutto.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 103).

6Cfr. Eugenio Garin, in op. cit., p. 187: “Vincenzo Maggi, e con lui Bartolomeo Lombardi, commentando la Poetica d’Aristotele, e sostenendo che la poesia è al servizio della morale, non esitarono a ridurre poesia e poetica all’etica. I platonici, come il Patrizi, Francesco Piccolomini e, specialmente, Jacopo Mazzoni, affermarono essere la poetica disciplina civile, mentre il Patrizi dichiarava addirittura esser l’opuscolo aristotelico il nono libro della Politica. Gli aristotelici piú ortodossi la riconducevano invece alla logica, e sentenziavano col Varchi esser “la dialettica, la loica e la poetica... quasi una medesima cosa, non essendo differenti sostanzialmente ma per accidente”. Anzi, essendo la poetica “parte o spezie della loica, 171

Se è dunque vero, come indica il Garin, che il compito dell’artista è quello “di avere

esperienza in tutto,” per di poi poeticamente “accomodare a’ luoghi loro con lucidissimo

ordine e con vaghe parole tutte quelle ricchezze,” bisogna logicamente convenire che il

Pontano si serva sia della filosofia che della poesia, onde incitare l’umanità agli ottimi

costumi.7

Figlio del Quattrocento, il Pontano, pur di offrire al suo secolo, ai posteri, al mondo

intero, gli alti ideali da perseguire onde poter vivere giovialmente in seno alla società, si

attiene alla realtà e alla concretezza della vita, affrontandone tutti i problemi con una

dignità impareggiabile e attraverso qualsiasi forma letteraria. Non è un caso, infatti, che

nel latinizzare il suo nome egli accosti a quello di Jovannis il singolare Jovianus, che

riflette non solo il suo atteggiamento umanistico, ma anche il suo carattere allegro,

scherzoso, bonario: quello del tipico uomo sorridente, del sapiente Antoniano, il cui

sorriso invita alla piacevolezza e alla serietà del dialogo, e con esso “il principio e il fine

d’ogni sapere umano.” Non c’è da meravigliarsi, quindi, se anche la sua poesia, altro non

sia che un felice e naturale riflesso del suo alto sapere, della sua inclinazione morale a

operare a fin di bene e sempre secondo i princìpi della civile giustizia. Cominciamo

quindi dalla famiglia, che dal punto di vista etico è la base fondamentale della società.

Nel De amore coniugali, 1461, il Pontano narra la sua storia di sposo e di padre. È una

collezione di trentadue componimenti elegiaci divisi in tre libri e dedicati alla moglie

nessuno può essere poeta, il quale non sia loico: anzi quanto ciascheduno sarà miglior loico, tanto sarà piú eccellente poeta.”

7Idem, p. 188: “Come dice il Varchi, “poetare è imitare, cioè fingere o rappresentare, per ammendare e correggere la vita” senza fatica alcuna, ma con “diletto grandissimo.” E per giungere a quella tal rappresentazione converrà che il poeta conosca un po’ tutto, e sia scienziato prima che poeta; “è di mestieri al poeta... d’aver cognizione dell’arti e delle scienze..., e geografo e astrologo o teologo e d’ogni altra scienza bene intendente dimostrarsi.”

172

Adriana Sassone sotto il nome poetico di Ariadna, in cui il poeta celebra i dolci affetti della famiglia. Di questa raccolta vanno segnalate la terza e la quarta elegia del primo libro, poiché in esse viene poeticamente affermata la sacralità del matrimonio come istituzione civile. Nel primo caso si tratta di un epitalamio di settantadue versi composti per le sue nozze, in cui il poeta, dopo aver convocato a concilio Imeneo e tutti i suoi santi seguaci, descrive le timidezze della casta e novella sua sposa, allorché esita di entrare nella camera nuziale.

Exorere optatumque viro optatumque puellae, et gratum thalamis, Hespere, tolle iubar; tuque tuos, Erycina, toros visura canoras iunge et aves, rutilas praefer et ipsa faces, qualis adesse soles sanctis celebrata hymenaeis, 5 cum timet a cupido nupta novella viro. Quos, dea, concilias rixamque in gaudia vertis et tenerum florem carpere amica doces. Tecum Amor et casto gaudens Concordia lecto cumque sua veniat Gratia iuncta Fide; 10 sancte Geni nardoque comam perfuse madenti, felicique assis, Hora benigna, pede. ... [...]... Iam venit, cohibete modos; iam, tibia, siste; haesitat ad primas iam nova nupta fores atque hanc cunctantemque gradus atque ora rubentem admonet his Erato dulciaque ora movet: – Ne dubita, sustolle pedem felixque marito et felix natis, o mea, limen adi. 40 Fortunata domus tibi erit sanctique penates, candidus in primis et sine lite torus, isque etiam coniunx, cui prae te et numera Croesi et dives rutilis sordeat Hermus aquis. – His Erato. ...8

8Dal De amore coniugali, Liber primus, III, Carmen nuptiale: “Sorgi, Espero, e leva il tuo splendore, desiderato ardentemente dallo sposo, desiderato ardentemente dalla sposa e gradito al letto nuziale; e tu, Ericina, che tra poco vedrai questo letto a te sacro, lega al carro gli uccelli canori e porta innanzi tu pure le rutilanti fiaccole, quale sei solita assistere, festeggiata, ai santi imenei, (5) quando la sposa novella trema dell’avido sposo. Ma tu, o dea, li unisci e muti in piacere la lotta e, amica, insegni a cogliere il tenero fiore. Con te vengano l’Amore e la Concordia, che gode della castità del letto, e la Grazia unita all’amata sua Fede; (10) e tu, o santo Genio, sparsa la chioma di stile di dardo, e tu, Ora benigna, con piede propizio accorrete. … […]… (35) Ecco, la sposa novella esita, lí, davanti alla soglia, e mentre indugia col piede e si fa rossa in volto, cosí l’ammonisce Erato, schiudendo la dolce sua bocca; solleva il piede e sorpassa la soglia, felice per la scelta dello sposo, felice per i figli che verranno. (40) Fortunata sarà la tua casa, santo il tuo focolare e, innanzitutto, senza macchia e senza lite il tuo talamo e in piú avrai uno sposo tale, che per lui, al tuo confronto, non avranno valore le ricchezze di Creso e l’Erno ricco di acque scintillanti. – Questo dice Erato.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., pp. 135, 137). 173

Incoraggiata infine da Elegia a non sciupare le sue lacrime e ad aver pietà per il suo sposo, Ariadna entra nella serena dimora, dove il talamo nuziale accoglie gli innamorati,

finché l’arrivo del giorno, dopo tanta lotta e meritato riposo, scacciando i loro piacevoli

sogni, li risveglia mollemente stretti in un languido abbraccio. E qui segue l’argomento dell’altra elegia, che è una consolatio molto bella e totalmente fuori del comune rivolta alla moglie che si sveglia piangente.

Qualis ab Herculeis surgens complexibus Hebe visa est erepta virginitate queri, cum lacrimis suffusa genas, impexa capillum non oculos coram est ausa levare suos, talis mane mihi somno digressa mariti 5 et querere et lacrimis ora, Ariadna, mades. Scilicet et pudor est huius tibi causa doloris, utque putas, merito te tua damma movent. Sed tamen est Veneri quod debes, nec tibi soli nata, sed et socii sunt tibi vincla tori, 10 in partemque viri cessit pudor; utitur ille hac sibi permissi condicione tori. Non est quod doleas: mutata pudore voluptas in partem cessit, cara puella, tuam. Utere sorte tua neu te tibi subtrahe flendo, 15 gaudia neu tristi perdere mente velis.9

Nel frattempo, laddove nella maggior parte delle liriche del De amore coniugali si

inneggia alla felicità domestica attraverso componimenti ricchi di sapienza civile, come

nel caso degli epitalami per le nozze delle figlie, dove viene affermata di nuovo la

sacralità dell’amore coniugale, quale cardine essenziale del buon accordo familiare, e con

esso il prolungamento della stirpe in seno alla società, – “Felix et sine lite torus!” / Felici

9Dal De amore coniugali, Liber primus, IV, Uxorem alloquitur: “Come, al suo levarsi dagli amplessi di Ercole, Ebe fu vista piangere la verginità a lei strappata, quando, sparse le guance di lacrime, scarmigliati i capelli, non osava levare in faccia a lui i suoi occhi, cosí, Ariadna, stamani, appena uscita dal letto di tuo marito, (5) tu piangi per colpa mia ed hai il viso tutto grondante di lacrime. Certo il pudore è causa di questa pena, e a ragione, come tu credi, il danno subito ti affligge, Ma c’è purtroppo qualcosa di cui sei debitrice a Venere, né tu sei nata per conservarti a te sola, ma hai anche degli obblighi di amor coniugale (10) e il tuo pudore è passato tra i beni di tuo marito; in ciò egli non fa che servirsi di un diritto concessogli dal matrimonio. Non hai di che lamentarti: al posto del pudore, cara ragazza, è entrato tra i tuoi beni il piacere. Serviti della tua condizione e non rubarti col pianto una parte di te (15) e non sciupare le gioie con il triste rimpianto.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 139).

174 cum prole genus carumque nepotem / reddat avo.10 –, vi sono alcune poesie nel secondo

libro, dodici con esattezza, il cui genere poetico è un’invenzione del Pontano. Si tratta

delle Naeniae, dove il poeta vezzeggia con grazia inverosimile il piccolo figlio Lucio. Di

queste, si vogliono qui riportare le piú famose, la prima e la quarta, che per la loro

vivacità, fatta di vezzi, di grazie e di lepidezze, sono un vero e proprio capolavoro della

musa pontaniana.

Somne, veni; tibi Luciolus blanditur ocellis; somne, veni, venias, blandule somne, veni. Luciolus tibi dulce canit, somne, optime somne; somne, veni, venias, blandule somne, veni. Luciolus vocat in thalamos te, blandule somne, somnule dulcicule, blandule somnicule. Ad cunas te Luciolus vocat; huc, age, somne, somne, veni ad cunas, somne, age, somne, veni. Accubitum te Luciolus vocat, eia age, somne, eia age, somne, veni, noctis amice, veni. Luciolus te ad pulvinum vocat, instat ocellis; somne, veni, venias, eia age, somne, veni. Luciolus te in complexum vocat, innuit ipse, innuit; en venias, en modo, somne, veni. Venisti, bone somne, boni pater alme soporis, qui curas hominum corporaque aegra levas.11

La novità espressiva di queste Naeniae, è che in esse vengono assorbite, attraverso la

tecnica dei diminuitivi affettuosi, i tipici temi delle ninnenanne popolari, che trasferitisi

dai generi della tradizione classica nel latino del Pontano, “Fuscula nox, Orcus quoque

10Dal De amore coniugali, Liber tertius, IV, Epithalamium in nuptiis Eugeniae filiae: vv. 80-82: “Felice sia il letto e senza bisticci! Con una numerosa prole, dia al nonno un caro nipote che ne continui la stirpe.”(Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 209).

11Dal De amore coniugali, Liber secundus, VIII, Naenia prima ad somnum provocandum: “Vieni, o sonno, chè vezzoso / Ti sta Lucio ad occhieggiar: / “Vieni, o sonno, ed amoroso / Sonno cedi al mio pregar”. // Il mio Lucio dolcemente / A te canta: “o buon sopor, / Vieni, vieni, e mollemente / Spiega, o sonno, l’ali d’ôr”. // Ei t’invita il mio Lucietto / Nel suo talamo a volar, / Vezzosetto, amorosetto, / Dolce sonno a folleggiar. // Alla culla il mio Lucino / Invocando ormai ti sta: / Vieni in culla, o sonnellino, / Presto, o sonno, vola qua”. // Ei ti chiama a stargli a lato, / Deh ti affretta nel venir, / Scendi, o sonno, o sonno amato, / dolce amico del dormir. // Già t’invita al capezzale, / gli occhiettini fisi t’ha: / “Presto, o sonno, sciogli l’ale, / Vieni, o sonno, vieni qua”. // Ei ti chiama nel suo amplesso, / Nè si cessa d’ammiccar: / “Dolce sonno, a me da presso / Vieni presto e non tardar”. // Già sei sceso, e i dolci vanni / Stendi, o padre del sopor, / Nato a molcere gli affanni / La stanchezza ed il dolor.” (Traduzione del Tallarigo, in op. cit., pp. 636-638). 175 fusculus,”12 qui si adattano a quelli piú consoni della tradizione volgare, i cui toni di

amorevolezza sono anche conditi dal tono artificioso ed ironico del linguaggio dei grandi,

come nel caso della quarta nugatoria, dove la nutrice, fingendo di lamentarsi delle violenze subite al seno, chiama improbulus, cattivello, il piccolo Lucio.13

Ora quis, aut quis labra mihi linguamque momordit? Lucius improbulus, Lucius ille malus. Quis collum mammasque meas pectusque momordit? Lucius ille malus, Lucius improbulus. Ne posthac, ne tange, puer. Cui basia servo labraque? Cui linguam hanc? Antinoo, Antinoo; cui pectus mollemque sinum tenerasque papillas amplexusque meos? Antinoo, Antinoo. Antinoe o formose, veni; tibi brachia pando; quamprimum in nostros, blande, recurre sinus; en mammas, en lacteolas, formose, papillas, en cape delicias tinnula plectra tuas. Sed quisnam nostra puer hic cervice pependit? Mentior? An certe est Lucius improbulus? Implicuit collo simul et simul oscula sumpsit improbulus non iam, sed probus ipse puer.14

Non meno soavi ed affettuosi sono i componimenti dei Tumuli, 1498, una raccolta di

oltre cento poesie divise in due libri, dove la cetra dell’ormai vecchio Pontano piange la

morte dei suoi cari estinti. Per ognuno di essi, i genitori, la moglie, i figli, gli amici, cui egli sopravvive, ha una lacrima da spargere sulle loro tombe: un fiore poetico, dal cui canto sgorga tutto il dolore per le bellezze e le gioie della vita che la morte dissolve. Ora,

12Dal De amore coniugali, Liber secundus, VIII, Naenia septima. Nugatoria ad inducendum soporem, v.1: “Nera è la notte ed anche l’Orco è nero.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, Liliana, in op. cit., p. 183).

13Per il linguaggio delle Naeniae e l’abilità del Pontano nell’adattare la lingua latina alle esigenze linguistiche e tematiche della tradizione volgare vedasi Leo Spitzer, “The Problem of Latin Renaissance,” Studies in the Renaissance, 2 (1995): 131-134. 14Dal De amore coniugali, Liber secundus, XI, Naenia quarta. Nutrix iocatur: “Chi il mio volto ha morsecchiato, / Chi la lingua, i labbri ancor? / Egli è Lucio che spietato, / Che divien cattivo ognor. // Chi è costui che il collo e il petto / E mordendo il sen mi sta? / Egli è Lucio che furbetto, / Che insolente ognor si fa. // No, non piú mi toccherai; / E ora i baci a chi darò? / Vieni, Antinoo, e tu gli avrai, / Labbri e lingua a te dar vo’. // Chi sul molle sen poggiato / Le mie fresche poppe avrà? / Tra gli amplessi carezzato / Solo Antinoo, sol sarà. // Vieni, Antinoo mio vezzoso, / Che le braccia io stendo a te, / Vieni subito e giocoso / T’intrattieni in seno a me. // To’ le mamme, e il bianco petto, / Caro, aprressati a poppar, / To’ il sonoro cembaletto / Con cui brami trastullar. // Ma chi è questo bambinello / Che già pende sul mio sen? / Sbaglio, ovvero è il cattivello / Lucio mio che a me rivien? // Già nel collo mi si è stretto, / Mi da baci e baci ognor, / Non più tristo pargoletto, / Ma bonino e tutt’amor.” (Traduzione del Tallarigo, in op. cit., pp. 642-643). 176 a parte i Sepolcri del Foscolo e la poesia Alla madre dell’Ungaretti, in cui la religione dei sepolcri viene modulata da sí tanta freschezza d’affetto e cordoglio, non credo esistano casi di lirica moderna dove il gioco verbale, ondulato dal ritmo commovente dei versi, divenga il tramite letterario per far rivivere ancora una volta i cari estinti, per di poi mestamente dipartirsi da essi e dar loro l’ultimo addio. Di queste liriche si vogliono appositamente qui riportare quelle dedicate al Panormita, e a Pietro Golino, al Compatre, in quanto le loro figure ci pervengono quali erano state descritte nell’Antonius.

Siste, hospes: fas est cantus audire dearum; grata mora est, Musae nam loca sacra tenent. Antoni monumenta vides: hinc templa frequentant; ille fuit sacri maxima cura chori, illum saepe suis medium statuere choreis; 5 duxit compositos arte decente choros. Saepe lyram cessit Clio, cessere sorores; concinuit teneros voce manuque sonos. Exstinctum flevitque Aon flevitque Aganippe, Sebethus miseros egit in amne modos; 10 Sirenes quoque de scopulis miserabile carmen ingeminant; planctu litora pulsa sonant; Pierides tristem ad tumulum effudere querelas, Pierides passis post sua terga comis. Hinc crevit desiderium nec cura recessit 15 vatis, at exstincto vate remansit amor; conveniunt nunc ad tumulum celebrantque choreas et memorant lusus, magne poeta, tuos. En audis, sonet ut lenis concentibus aura? Ut sonet appulsu concita terra pedum? 20 Haec vati memores Musae post fata rependunt; carminis hoc meritum est. Num satis? Hospes, abi.15

15Dai Tumuli, Liber primus, XX, Tumulus Antonii Panhormitae, poetae nobilissimi: “ Passante, fermati: il canto qui puoi ascoltare delle dee; / dolce è la sosta: han sede nei sacrari le Muse. / Questa è la tomba d’Antonio: perciò esse affollano il tempio; / egli fu il sommo amore della lor sacra schiera; / in mezzo alle lor danze lo misero spesso le Muse; / egli il leggiadro stuolo con bell’arte diresse. / Spesso gli porser la lira sia Clio che l’altre sorelle / ed egli mano e voce mosse a dolci concenti. / Quando morì, l’Elicona lo pianse, lo pianse Aganippe, / tristi lamenti emise nel suo fiume Sebeto; / e le sirene, anch’esse, ripetono un canto di morte / dai loro scogli: i lidi risuonano di pianto; / sul mesto avello le Muse sfogarono il loro dolore, / le Muse con le chiome sciolte giú per le spalle. / Crebbe da allora il rimpianto, ma non venne meno il cordoglio, / anzi, scomparso il vate, resta vivo il suo amore; / or sulla tomba le Muse s’adunano e intrecciano danze / e i tuoi giocosi carmi, gran poeta, ricordano. / Non senti tu come dolce di musiche l’aria risuoni? / Come risuoni il suolo al battere dei piedi? / Cosí ripagano, grate, l’estinto poeta le Muse: / questo dei carmi il frutto. Non basta? Or va, passante.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., pp. 227- 229). 177

È, infatti, lo stesso ritratto pieno di rimpianto lasciatoci nell’Antonius, dove la rievocazione del Panormita riassume in sé il carattere gioviale della sua personalità, sempre pronta allo scherzo e all’intelligente gioco umoristico: un’immagine senz’altro enfatizzata al diciottesimo verso, allorché le Muse, intrecciando danze al ritmo dei suoi carmi giocosi, ricordano il suo modo di castigare i vizi e le stoltezze umane attraverso il suo spregiudicato sorriso.

Non diversamente viene fatta rivivere la memoria di Pietro Golino, il Compatre, che viene qui ritratto nel suo tipico modo ospitale di parlare bonariamente a tutti coloro che passano per i portici dell’accademia, come quando il viandante siciliano, dando inizio al dialogo l’Antonius, gli chiedeva notizie del Panormita. L’unica differenza è che qui viene eseguito un capovolgimento molto significativo, in quanto è il Compatre a rivolgersi al passante, mentre la figura di quest’ultimo si ricollega indirettamente a quella di Suppazio.

Petrus. Dic tumulo pia verba; feres pretium; iacet hic, qui nec sensit lites iurgiave ulla domi. Viator. Macte vir ingenio, spiret ver, floreat urna, dent pacem et cineri numina: da pretium. Petrus. Do pretium: fuce vincla tori, fuge iura mariti; non tibi erunt lites iurgiave ulla domi. Viator. Ducta est, coniugium subii: succurre marito. Petrus. Ducta est Parthenope si tibi, vive Senis. Viator. Macte, iterum tibi ver spiret, tibi floreat urna, et pascant manes Attica mella tuos. Petrus. Compater hanc legem statuit: connubia vita; connubis namque est addita rixa comes. 16

16Dai Tumuli, Liber secundus, XIX, Tumulus Petri Compatris iucundissimi poetae: “Pietro. Prega su questo sepolcro; sarai premiato; qui giace / uno che mai conobbe liti o baruffe in casa. / Passante. Gloria al tuo ingegno; olezzi primavera, l’urna fiorisca, / dian pace all’ossa i numi: dammi la ricompensa! / Pietro. Ecco: di nozze i vincoli fuggi e i diritti di sposo; / così non avrai liti, né mai baruffe in casa. / Passante. La moglie l’ho presa, il giogo lo porto: soccorri un marito! / Pietro. Se la prendesti a Napoli, devi vivere a Siena. / Passante. Salve, di nuovo spiri per te primavera e fiorisca / l’urna e nutra i tuoi Mani il miele dell’Imetto! / Pietro. Questa la legge che pose Compatre: rifuggi da nozze, / ché compagna alle nozze fu data la baruffa.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 247). 178

Non è un caso, infatti, che al passante che ha preso moglie, viene qui suggerito umoristicamente di andare a vivere a Siena, la medesima città da cui inizia il racconto di

Suppazio, “A sapientibus quaeritandis”; convalidando, quindi, l’importanza della presenza del Compatre nel contesto dell’Antonius, dove nelle vesti del Panormita dirige l’allegra brigata accademica in un discorso dottrinale all’insegna della giovialità.

Simile tono scherzoso e pregno di umorismo riemerge negli Hendecasyllabi, del 1498,

dove il Pontano si diverte a prendere in giro i piú ritrosi della schiera pontaniana,

invitandoli a tuffarsi con lui nel mare di Baia, in quel pelago di voluttà, posto tra punta

Lucrino e Bacoli, dove le stesse onde marine sembrano baciare quella splendida riviera che è un sorriso di mare e natura. Al medico Antonio Galateo, il piú serio e schivo di tutti gli accademici, il Pontano rivolge l’invito di alternare ai suoi impegni dottrinali i giochi dell’amore.

Gauranae, Galatee, te puellae exspectant, calidis laves ut undis, expectat medicum salubre litus. Laetentur medico iocante Baiae, exsultent medico lavante thermae. Qui risus tamen inde, qui cachinni, senex herniolose, dum lavabis? Qui lusus tamen inde, qui lepores, senex ventriculose, cum natabis? His nec te medicum dolere par est, risus qui soleas ineptiores ulcisci calido fluore ventri iniecto et liquidae madore malvae, tum betae atque oleo et sale atque melle.17

17Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber secundus, XX, Ad Antonium Galateum: “O Galateo, te le fanciulle / del Gauro aspettano che faccia il bagno / nell’onde calde; te, che sei medico, / aspetta il lido che dà salute. / Si svaga un medico: gongoli Baia, / fa il bagno un medico: le terme esultino. / Ma perché mai queste risate, / questi sogghigni, quando ti bagni, / o vecchio ernioso? Ma perché mai questi motteggi, questi sberleffi, / quando tu nuoti, vecchio panciuto? / Ma non è giusto che te ne angustii, / tu che sei medico, quando sei solito / di queste risa piuttosto stupide / fare vendetta con un clistere, / con un decotto di malva e di bietole, / con un po’ d’olio, di sale e di miele.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 347). 179

L’atmosfera di questo luogo di letizie, di cui lo stesso Boccaccio attesta la festività e l’esultanza dei bagnanti, che coi loro conviti e musiche si abbandonano ad ogni sorta di

“amorosi ragionari,” tanto “da far ritornare Cleopatra chi ai bagni va da Lucrezia,” è

descritta con brio ammirevole nel seguente componimento; in cui il molle ondeggiare dei

versi, imitando in unisono accordo quello dei flutti del mare, riflette la voluttuosa

gioiosità dei Bagni di Baia. Si tratta di un’altra presa in giro del suo amico di lunga data,

Marino Tomacelli, che ormai vecchio e infiacchito non può piú pensare ai piaceri e agli

abbandoni dei sensi.

Nostrum si titulum, puella, nescis, hic est: “Praegravida recedet alvo, quae venit vacua”; hoc habet tabella. Quod vero officium tuum meumque, quae partes, moneam. Virum ipsa tecum adducas validum, ioci peritum, cui telum viride et virens iuventa; nec tu defueris comes iocanti aut ore aut femore aut manu iocisve: namque et balnea mutuum requirunt. Nunc ad me venio meumque munus quod sit, subiciam. Tibi senex vir si sit nec validus nec ore gratus nec aptus thalamis torive rebus, mox tibi iuvenis decens valensque qui sit, substituam, salaciorque verno passere et albulis columbis, cui rubro caput horreat cucullo. Haec vis est tabulae vigorque fontis. Quare si sapies, Marine, cum sis effetus, fugies repente Baias, vites balnea myrteumque litus, elumbis, tremulus, macer, senexque: saetosum Hectora balneae requirunt.18

18Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber primus, VII, Balneae loquuntur: “La nostra insegna, se non lo sai, / fanciulla è questa: “Col ventre colmo / se n’andrà quella che venne sterile: / Sulla tabella cosí sta scritto. / Quale il tuo compito, quale sia il mio, / quali le parti t’insegnerò. / Tu con te portati un uomo valido, / un bravo amante, di forte nerbo, / nei suoi trastulli fiacca compagna, / né con le labbra, né con i fianchi, / né con la mano, né con le mosse: / i bagni vogliono che la tua opera / presti anche tu. Ora a me vengo, / ed il mio compito quale mai sia / tutto di seguito ti spiegherò. // Se per marito tu avessi un vecchio, / un impotente, un brutto ceffo, / non atto al talamo e alle sue gioie, / un giovanotto bello e robusto / subito in cambio io t’offrirò, / che piú del passero a primavera, / piú dei colombi candidi sia / intraprendente, a cui si rizzi / sotto un cappuccio rosso la testa. / Tale il tenore di quest’insegna, / e la potenza di questa fonte. // Dunque, Marino, se tu sei saggio, / visto che sei già tanto esausto, / non perder tempo, fuggi da Baia, / i 180

A parte gli amici, di cui il Pontano si diverte a tormentare i ricordi degli amori passionali, il poeta include anche se stesso nella schiera di coloro che accarezzano con

nostalgia le memorie della gioventú. I canti dedicati a Batilla e a Focilla testimoniano con

quanto ardore l’autore vorrebbe rivivere la calda sensualità degli amori di un tempo.

Cum rides, mihi basium negasti, cum ploras, mihi basium dedisti; una in tristitia libens benigna es, una in laetitia volens severa es. Nata est de lacrimis mihi voluptas, de risu dolor. O miselli amantes, sperate simul omnia et timete!19

È un’apostrofe dolorosa rivolta a tutti gli amanti, in quanto le trepidazioni dei loro

appettiti sensuali, che non danno tregua in gioventú, saranno ben presto incalzate dalle limitazioni dell’età, dove solo i sogni e la fantasia permetteranno alla dea Venere di operare senza licenza.

In somnis tenerum mihi labellum offers dum, male suaviorque utrumque, decursim lacrimae tibi exciderunt et largo faciem madore tinguis; atque has dum lacrimas madenti ab ore detergo simul et simul relingo, surreptim mihi mordicusque linguam exceptam rapis obteirsque dente. Mox risum lacrimis iocosque miscens: – Haec nos ludicra imaginesque noctis, has – inquis – simul in die vicissim et veras faciamus et probemus. – His te in iudicium voco fidemque: en linguam tibi, porge mi labella.20

bagni e il lido dei mirti schiva, / tu senza lombi, tremulo, scarno, / mummificato: ché per i bagni / ci vuole un Ettore tutto peloso.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., pp. 295-297).

19Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber primus, XV, Ad Bathyllam: “Tu ridi? il bacio me l’hai negato. / Tu piangi? il bacio me l’hai già dato. / Solo se triste ti vien la voglia / d’esser cedevole, solo se lieta / ti salta il grillo d’essermi dura. / Son le tue lacrime la mia delizia, / e il tuo sorriso il mio tormento. / Poveri amanti, tutto sperate / e al tempo stesso tutto temete!” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 307). 20Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber secundus, XI, Ad Focillam: “Nel sonno mentre le labbra morbide / tu m’offri ed io le bacio tanto / da farti male, dagli occhi t’escono / lacrime a rivoli, ed un gran pianto / ti bagna il viso; e dal tuo volto / tutto bagnato mentre le lacrime / asciugo e lecco, tu sorniona / con un gran morso la lingua intrappoli, / risucchi e mastichi. Poi, mescolando / alle tue lacrime il riso e il gioco: / – Gli spassi e i sogni di questa notte / – dici – di giorno dobbiam rivederli / l’una con l’altro nella realtà. – 181

Anche se è vero che queste liriche sono l’apoteosi della voluttà, delle quali la critica ha tanto evidenziato il carattere concupiscente e lascivo, non bisogna dimenticare che chi

scrive è un vecchio poeta, il quale, accarezzando col suo canto i dolci ricordi degli amori

giovanili, non fa altro che catarticamente rasserenare le proprie passioni attraverso il

gioco poetico. La morale qui non c’entra; anzi, cede il posto a tutta la perizia artistica del

Pontano, che di questi canti fa una delle cose piú belle e perfette che egli abbia, in quanto

la passione dei versi nasce dal piú profondo e vivo dei suoi nobili sentimenti. Chi stenta a

crederlo ancora, si rilegga allora il lunghissimo carmen dedicato alla moglie Ariadna,

dove riemerge in tutta la sua purezza il casto e fedele ricordo dell’amore coniugale.

Uxor, deliciae senis mariti et casti thalami fides amorque, per te vel viridis mihi senecta est, quem curae fugiunt senem seniles, qui seram supero senex senectam 5 et canus iuvenum cano furores; sed tamquam redeat calor iuventae et sis cura recens amorque primus et primus furor impetusque saevus, antiquas volo suscitare flammas. 10 ... [...]... Tunc, ut de tenui solet favilla 60 crescens igniculus focum repente flammis corripere, aridisque lignis quodcumque adicies edit voratque, sic me de tenui levis favilla conceptus calor et nigris ocellis 65 imas corripuit vorans medullas: urebat roseus per ora fulgor, urebat niveus per ora candor, urebat coma, myrrheus capillus; urebat tumidis latens papillis, 70 mox cursans Amor huc et huc et illuc et per guttura, per genas manusque et per candida colla perque frontem, et per pectora candidosque dentes, ut iam non Amor is, sed ignis esset, 75 qui seram quoque calfacit senectam.21

/ Dunque, in giudizio, perché mantenga / la tua parola, ti chiamo: prendi, / ecco la lingua, dammi le labbra.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 337-339).

21Dagli Hendecasyllabi seu Baiae, Liber primus, XIII, “Ad Ariadnam uxorem”: “Moglie, delizia del vecchio sposo, / d’un casto talamo fedele amore, / per te la stessa vecchiezza è verde / a me che, vecchio, 182

Il tema dell’amore voluttuoso e senile riemerge nell’Eridanus, una raccolta di elegie

erotiche di stampo piú classico, dedicate per la maggior parte a Stella, una giovane di

Argenta, un piccolo borgo della Bassa Padania, in provincia di Ferrara, con cui il poeta

convisse in tarda età e da cui ebbe un figlio, Lucillo, mortogli di lí a poco. A differenza dei tripudi dei Bagni di Baia, dove le esuberanti manifestazioni della vita felice si rispecchiano nella briosa vivacità dei versi, i canti alla voluttà di questa raccolta sono

temperati da un tono di malinconica mestizia, che nasce sia dall’ansia di non poter soddisfare e possedere la persona amata, che dall’insaziabile desiderio di un vecchio innamorato, rinvigorito ora dall’amore di una giovane donna. Stella, infatti, non è come

Batilla o Fucilla, che esasperano gli appetiti passionali, ora abbandonandosi incontrastate

nelle braccia dell’amante, or meno. Ella è la tipica fanciulla timida e ritrosa, il cui candore fa risuscitare nel poeta le fiamme dell’antico amore coniugale, cosí come a un tempo con la propria moglie, che è tutta sua e a lui concede le dolci tenerezze del talamo.

Qui sta il segreto di questa lirica pregna di nostalgia, che spirando dal metro elegiaco, riflette verso dopo verso i sospiri ansimanti dell’amore, i battiti del cuore, le dolci parole

per la docile e bella Ferrarese.

l’ansie senili / fuggon, che, vecchio, vinco la tarda / vecchiaia e canto, ormai canuto, / ogni follia di gioventú; / ma quasi il fuoco di giovinezza / tornasse ad ardere, e fiamma nuova / e primo amore tu fossi, e primo / furore e slancio pien di tormento, / suscitar voglio le fiamme antiche. // ... [...]... Allora, come quel fuocherello, / che da una piccola scintilla cresce, / suole ad un tratto con le sue fiamme / tutto ravvolgere il focolare, / e ciò che all’arida legna tu aggiungi, / tutto consuma, tutto divora, / cosí il tepore, che mi fu infuso / da una scintilla piccola e un paio / di occhioni neri, poi, divorandomi, / tutto nell’intime fibre mi prese: / m’ardeva il niveo candor del viso, / la tua castana chioma m’ardeva, / m’ardeva Amore, che nei tuoi turgidi / seni celatosi, guizzava fuori / di qua e di là, su per la gola, / su per le guance, su per le mani, / su per il niveo collo e la fronte, / su per il petto e i denti candidi, / sí che non era piú Amor, ma un fuoco, / era quel fuoco che scalda e tempera / pur della vita l’estrema età.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., pp. 301, 305). 183

Quale per aestatem, sub sole rigentibus herbis, blanditur lapsis aura recens foliis, quale per arentes hortos in vere tepenti nox mulcet teneras rore madente rosas; tale mihi, dum mens languet, dum pectora fervent 5 nostraque in incertum vela gubernat Amor, tale seni solamen ades mihi dulcior Hyblae, Stella, favis, umbra gratior Idalia. Aura recens nam, Stella, mihi flagrante sub aestu, ipsa meos ignes rore madente levas; 10 e labris mihi ros, ex ore recentior aura spirat, Stella, tuo, stillat et ipse liquor.22

Il tema erotico riappare anche nelle egloghe, ma differentemente da quello sviluppato

negli Hendecasyllabi e nell’Eridanus, dove la scansione dei versi riverbera in suo seno le

trepidazioni del vecchio Pontano, ora per i ricordi voluttuosi della gioventú, ora per quelli

della senilità, si presenta qui purificato da tutte le scorie emotive coinvolgenti la sua voce

a livello personale; onde confluiscono in questi componimenti gran parte dei motivi

pontaniani esplorati e raffinati altrove; grazie ai quali, e per l’esperienza linguistica del poeta, e per la sua singolare saggezza, il tutto appare meravigliosamente armonioso e compatto al giudizio di colui, che, mirando questi canti pieni di vita e di naturali bellezze, non può far altro che arrendersi innanzi a tanta perizia artistica.

La piú impegnativa delle egloghe è la Lepidina, 1498, il cui concepimento, servato per annos nell’animo del poeta, risale a ben quaranta anni addietro, allorché il giovane

Pontano, portata a termine la sua prima raccolta di poesie, il Parthenopeus sive amores, già si era proposto di comporre un’opera dove celebrare le nozze del fiume Sebeto con la

22Dall’Eridanus, Liber primus, XIII, “Stella alloquitur”: “Come d’estate, quando le piante s’inaridiscono sotto la vampa del sole, il venticello fresco carezza le foglie cadute; come per i giardini assetati, nella tepida primavera, la notte ristora le tenere rose con una pioggia di rugiada, cosí, mentre langue il mio animo, mentre il mio cuore ribolle (5) e Amore dirige la mia nave verso l’ignoto, tu sei, o Stella, per la mia vecchiaia, un conforto piú dolce del miele dell’Ibla, piú gradito dell’ombra dell’Idalio. Perché tu, o Stella, venticello fresco nell’avvampare della canicola, temperi i miei fuochi con una pioggia di rugiada; (10) per me dalle tue labbra piove rugiada, dalla tua bocca spira un alito fresco e stilla liquore d’ambrosia.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., pp. 391-393). 184

bella Partenope, a riflesso della sua spiccata sensibilità per le bellezze della natura;23 le quali, sin dagli anni dell’adolescenza, tra le selve della Valnerina nella sua mitica ed adorata Umbria, avevano di già cominciato a suggestionare l’animo del poeta a volgere il

suo sguardo alle incantevoli manifestazioni del mondo naturale: vuoi a un fiore, a un corso d’acqua, a una quercia antica della Valnerina; vuoi a un antro marino, a un promontorio vulcanico, a un’isola del golfo di Napoli in età piú tarda; vuoi infine all’inesauribile forza dell’amore, che tutto muove, turba, strugge e rincora; il tutto filtrato e miticizzato con misura e ragione, dove, fra tanta ricchezza di colori idillici ed elegiaci, di piaceri e di dolori, la musa pontaniana dipinge sempre con grazia inverosimile.

La Lepidina si apre con un idillio affascinante, qui riportato per intero per la sua

impeccabile e sorprendente bellezza, cui fa da sfondo la bella natura verdeggiante di un boschetto. Macrone e Lepidina, due sposi del contado napoletano, che si amano come colombi, sono in viaggio per le nozze di Sebeto e Partenope con il loro umile carico di regali, fatti di una secchia di ed di altri doni villerecci. Fa molto caldo; ed essendo

Lepidina gravida, il marito la invita a sedersi all’ombra ed aspettare che il calore del sole si smorzi un pochino col volgere del giorno. A loro sorpresa, però, l’ombra dell’albero presso la quale si sdraiano è la stessa dove s’incontrarono per la prima volta; e qui cominciano ad accarezzare i ricordi di quel loro primo incontro, per cui tanto si amarono.

23Si confronti la nota del Tallarigo, in op. cit., p. 619, dove secondo la testimonianza di , viene confermato il proposito del Pontano di comporre sin dagli anni giovanili un’opera dove cantare le nozze di Sebeto e Partenope: “Is etenim (Pontanus) ab adolescentia ornandae Neapolis gratia hoc ipsum facere decreverat, ut scilicet Sebethi et Parthenopes nuptias caneret: id quod tunc in Elegia illa de transformatione Sebethi pollicitus est his versibus: “Tempus erit choros quum dicemus Hymenaeos, / Ut sit iuncta tuo Parthenopea toro”. Hoc tamen longe post, veluti promissi memor, senex iam absolvit; quod et in nonnullis aliis fecit operibus.” “Giacché il Pontano sin dagli anni giovanili si era proposto di provvedere ad un’opera onde spiccassero le bellezze di Napoli, dove certamente cantare le nozze di Sebeto e Partenope, promise allora nei seguenti versi di trattare con stile elegiaco la trasformazione del Sebeto: “Verrà un giorno in cui canteremo in coro l’unione delle tue nozze, / per le quali potrai unirti nel tuo letto a Partenope”. Finalmente, dopo tanto tempo, ricordandosi della promessa fatta, il vecchio la portò a termine; cosa che non fece per nessun’altra delle sue opere.” 185

LEPIDINA CUIUS POMPAE SEPTEM Collocutores Macron et Lepidina.

Macron. Et gravida es, Lepidina, et onus grave languida defers, obbam lactis et haec fumanti farta canistro; hac, agedum, viridi paulum requiesce sub umbra, declinat sol dum rapidus desaevit et aestus. Lepidina. En lactis tibi sinum atque haec simul oscula trado; 5 umbra mihi haec veteres (memor es) iam suscitat ignes; o coniunx mihi care Macron, redde altera, Macron. Macron. Hic mihi tu teneras nudasti prima papillas, hic, Lepidina, mihi suspiria prima dedisti; tunc Macron, Lepidina, tibi, Lepidina Macroni. 10 Lepidina. Has inter frondes virgultaque nota latebas, cum tibi prima rosam, primus mihi fraga tulisti. Macron. Hic “Macron”, Lepidina, “meus”, me prima vocasti, et primus “mea”, te alternans, “Lepidina”, vocavi. Lepidina. Viximus ex illo gemini sine lite columbi, 15 nox socios vidit, socios lux; oscula iunge mutua, sic gemini servant in amore columbi. Macron. Illa, uxor, memini ninc, oscula prima fuere; nostra tuis, tua labra meis haesere, diuque spiritus alterno huc illuc se miscuit ore. 20 Tunc Orcus si nos una rapuisset, amantum una futura anima, una etiam simul umbra futura. Lepidina. Quod felix faustumque omen sit! Reice, coniunx, hirsutum hunc thalamis, thalami sint omnia fausta, Parthenope thalamo namque est dignissima fausto. 25 Macron. Hirsuti horripilique absint! Age, candida an ipso visa viro virgo est, heroe et coniuge digna? Lepidina. O Macron, mea cura Macron, illi alba ligustra concedant, collata illi sint nigra colostra. Delioli ad fontem sola ac sine teste lavabat; 30 vidi ego, vidit Anas: viso candore puellae, qui niger ante fuit, nunc est nitidissimus ales, et mihi tum subitus crevit per pectora candor: ipse vides, niveas cerne has sine labe papillas. Macron. Quin haec candentes, lux o mea, pascua tauros 35 quod nec sueta ferunt, nostrae sunt munera nymphae. Ipse tuas, mea lux, teneo foveoque papillas, nec liquido cedunt argento aut pondere plumbo. Fige oculos in me, coniunx mea, qui mihi lucent et lychnum et quod nec nigricante cicendula nocte; 40 Parthenope anne aliis, anne his dea fulget ocellis? Lepidina. Magnetem gerit illa oculis stellamque supremam: venerit ad litus, trahit ad sua lumina pisces; iverit in silvas, trahit ad spectula cervos, ilicet indomiti surgunt ad proelia tauri; 45 verterit illa oculos in quem iuvenemve senemve, ille perit: miseris haec crescit amantibus error. Macron. Me miserum, ne oculos in me quoque vertat et ipse avellar procul his, procul ah, Lepidina, lacertis. Lepidina. Ne, coniunx, ne, care, time: nam sedula mater 50 hoc docuit, ter te ut levi pro limite postis amplectar, ter rapta tibi simul oscula iungam, et dicam: “Meus es”; tenerum quoque eryngion ore 186

ferre dedit, dedit atque hederae cum fronde racemum ferre sinu et geminis te noctu onerare lacertis; 55 neu limis, mea lux, dominam spectaris ocellis, praesertim si blanda pedem nudarit; ibi illa retia tendit et insidias parat et fovet ignem: quae mihi frater Acon, soror et soror altera dixit. Macron. Haec eadem mihi Naretas et amicus Omason, 60 quin maiora ferunt: siccat dum nympha capillum ad speculam et niveae ludunt sine veste papillae, vidit et: “O” dixit Saliceni filius “alis utar et ad celsam pennis ferar ipse fenestram!” Annuit et placidis risit dea dulcis ocellis: 65 ille volat, celsam pennis petit inde fenestram. Dic, mea, dic, formosa canit dum nympha per aestum, audierisne deam? Lepidina. Ad saepem tum forte latebam: cum canere inciperet, atrox hic dente pilaster latrat; ibi ipsa fuga saepem insidiasque reliqui. 70 Invidia (sic Nicla refert) philomela recessit; at circum attonitae stupuere ad carmina nymphae. Ipsa quidem canit (at venti posuere silentes strataque pacati requierunt murmura ponti): “Exoptat messemque sator frugemque colonus, 75 ver ales, carum virgo desponsa maritum: vitis in arboribus, hederae pro rupibus altis, coniugis in cupidis gaudet nova nupta lacertis; irriguum sitiunt fontem sata, pabula rorem, nupta sitit socii lusus et gaudia lecti”. 80 Haec dea: surgamus, meus hoc, age, personat Hymen. Pompa venit celebresque vocant Hymenaeon ad aedes.24

24Dal Lepidina, “Collocutores Macron et Lepidina.” Nel tradurre, non potendo attenermi al ritmo dei versi, ho cercato il piú possibile di riprodurre in italiano la melodia dei suoni.

Dialogo fra Macrone e Lepidina.

Macrone. Gravida sei, Lepidina; e con grave fatica porti questa secchia di latte e questa cesta piena di doni fumanti. Per di quà, riposati un pochino al verde dell’ombra, finché il sole cocente discenda e si calmi il calore! Lepidina. Eccoti una ciotola di latte insieme a questi baci! (5) Quest’ombra in me riaccende le antiche fiamme dell’amore. E tu, Macrone, ricambiami con altrettanti baci! Oh mio caro marito Macrone! Macrone. Fu qui, che per la prima volta mi denudasti il tuo tenero seno; qui, Lepidina mia, mi porgesti i primi sospiri; da allora, Lepidina, Macrone fu tuo; Lepidina del suo Macrone. (10) Lepidina. Tra queste frondi e virgulti a noi conosciuti, ti nascondevi, quando a te diedi la prima rosa, e tu a me la prima manciata di fragole. Macrone. Qui, “Macrone mio!”, mi chiamasti la prima volta, Lepidina; ed io, “Lepidina mia!”, di rimando, ti dissi la prima volta. Lepidina. Da quel giorno vissuti abbiamo come colombi senza liti; (15) ci vide uniti la notte, la luce ci vide uniti. Ricambiami i baci, come i colombi insieme fanno in amore! Macrone. Ancora ricordo quei baci, o moglie, furono i primi; aderirono le nostre labbra, le mie alle tue, le tue alle mie; e a lungo alternandosi e mischiandosi, uno spirito fluiva dalla mia bocca alla tua. (20) Se l’Orco rapiti ci avesse congiunti a quel punto, le innamorate anime nostre in una si sarebbero fuse insieme all’ombra nostra. 187

A questa parte iniziale, indubbiamente amorevole per i ricordi evocati dalla coppia, seguono sette pompe nuziali, parimenti affascinanti per la ricchezza dei dettagli artistici, che sono eseguiti pieni di brio e di eleganza. Stupefatti come fanciulli, fra la folla

Lepidina. Lascia che sia d’augurio questo felice giorno di festa! Non parlare, o sposo, di questo mostro irsuto in un giorno di nozze! Allontanalo! Le nozze comandano che tutto sia fausto, ché di fauste nozze degnissima è Partenope. (25) Macrone. Vada via l’irsuto e l’orripile mostro, quindi! Ma, dimmi, però! È sembrata degna di lui, al giovine, la candida vergine degna di essere moglie di un semidio? Lepidina. O Macrone, mio amore Macrone, quei bianchi ligustri sfigurerebbero, paragonati a lei; nero sembrerebbe il colostro dei seni. Un dí la vidi che si bagnava sola, alla fonte del Dogliuolo, senza alcun che la guardasse. (30) La vide anche Anitra, che visto il biancor della fanciulla, da pennuto nero che era, di colpo diventò bianchissima, cosí come accadde al mio petto, che subito s’irradiò di bianco colore. Guarda tu stesso, guarda questi puri e nivei seni! Macrone. Suvvia, luce mia! Se in questi pascoli biancheggianti la terra non è adatta al candore, il nostro è di certo un regalo della Ninfa. Questi tuoi seni, che non son men lucenti dell’argento, non men pesanti del piombo, prendo ed accarezzo, mia luce. Volgimi gli occhi, moglie mia! Essi non solo mi luccicano come una lampada, ma come una lucciola nel buio della notte. (40) Gli occhi di Partenope splendono in altro modo, o come i tuoi? Lepidina. Ella ha negli occhi una calamita e il sole supremo. Se al lido viene, i pesci attira alla sua luce; se va nei boschi, i cervi attrae a guardarla, mentre subito alla pugna si appressano gli indomiti tori. (45) A chiunque ella volga gli occhi, sia giovane o vecchio, lo distrugge: questa fanciulla cresce per distruggere i miseri amanti. Macrone. Povero me, che a me non volga gli occhi e che mi strappi lungi da te, Lepidina, lungi dalle tue braccia! Lepidina. No, non temere, caro sposo! Perché la diligente mia madre (50) mi ha questo insegnato: tre volte sull’uscio di casa ti devo abbracciare, tre volte i baci rubare ti devo, altrettanti dartene, e dirti: “Sei mio!” Mi ha dato anche questo tenero cardo da portare in bocca e quest’edera con una foglia di vite da portare al petto, raccomandandomi di colmarti di abbracci di notte con ambo le braccia. (55) Per non spaurirti, tu, mia luce, nel frattempo non guardare con gli occhi a quella signora! Specialmente se lusinghiera denuda il suo piede: È cosí ch’ella tende le reti, prepara le insidie e accende il fuoco. Queste cose me le ha dette mio fratello Acone, una sorella e poi un’altra sorella ancora. Macrone. Anche a me , Nareta e il suo amico Omasone, han detto le stesse cose. (60) Solo che furono piú gravi. Una volta, mentre la Ninfa si asciugava i capelli allo specchio e senza abiti i suoi nivei seni se la spassavano liberi, il figlio di Saliceno la vide e sospirò: “O, come vorrei avere delle ali e servirmene, per andare lassù su quella finestra!”. Sorrise la dea con i placidi e dolci suoi occhi. E col capo fece senno di sí. (65) Ed eccolo da lí volare in alto con le sue sospirate ali alla finestra. Ma ora dimmi, mia cara, dimmi! Quando d’estate cantava la bella ninfa, hai mai udito tu la dea? Lepidina. Ad una siepe ero per caso una volta nascosta. Quando cominciò a cantare, in quel preciso istante latrò con i denti una fauce atroce di un cane. Subito mi diedi alla fuga e piantai lí la siepe e il nascondiglio. (70) Figurati che Nicla mi ha detto che per invidia anche l’usignuolo se ne andò; mentre, prese da stupore e stupefatte dal canto, altre ninfe la circondarono. Lei stessa cantava, e con forza, tanto che taciti si calmarono i venti e si acquietarono le distese e i sussurri del mare. Il suo canto diceva: “Sospira il raccolto chi pianta e le messi il colono; (75) sospira la primavera l’uccello e la sposa promessa il caro marito. Gode la vite negli alberi e le erbe su per le rupi; gode la sposa novella tra le avide braccia del marito. I campi hanno sete della fonte che li appaga, i pascoli della rugiada, la sposa del gioco del compagno e dei piaceri del letto”. Questo cantava la dea. (80) Alziamoci ora! Questo che risuona da lontano è il canto del mio Imene. Presto! Sta arrivando il corteo. Invitano tutti in coro a venire Imeneo.

188

spettatrice ed esuberante di gioia, Macrone e Lepidina osservano passare intere file di

giovanotti ben forti e di belle contadinelle, schiere di Nereidi affascinanti e di Tritoni

portentosi, seguiti a loro volta, e in folti stuoli, da una miriade di ninfe leggiadre; che una

dopo l’altra, personificando i luoghi che esse rappresentano, sono la cosa piú incantevole

e geniale di questa operetta. Fra queste, quelle che piú destano fascino per la loro

trasposizione artistica sono: Posillipo, che cerula in volto, e coi capelli intrecciati di

foglie d’edera, avanza con flessuosa andatura; la bella Mergellina dagli occhi maliardi, al

cui confronto Procida potrebbe invidiarle la bellezza delle dita; la malinconica Resina

(Ercolano), sul cui volto è ancora dipinta la tristezza per il disastro causato dal padre

Vesevo; la stupenda Ercli,25 il cui fascino fa impazzire; l’eroina del mare Capri, scortata

ai lati dalle non meno belle Equana (Vico Equense) ed Amalfi; la ricchissima Butine,26

famosa per le sue salsicce e per la sua rotonda e ben pasciuta bellezza; l’incipriatissima di

farina Ulmia,27 celebre per le sue pizze, le sue gallette e i suoi tanto lodati taralli di sugna,

ritorti con sale, pepe e mandorle; sua sorella Teduccia; di poi Capodimonte, Pianura,

Massa, Casolla, Afragola, Pomigliano e tantissime altre, che nel loro insieme riflettono

l’atmosfera di festa non solo della città intera, ma di tutto quanto il territorio partenopeo,

che da Capo Miseno a Punta Campanella, dai monti Irpini ai Lattari, riecheggia di canti,

25Hercli: Personificazione del monte Echia, su cui sorge l’odierno quartiere di Pizzofalcone, dove a un tempo, i primi coloni greci, spostandosi da Cuma piú addentro nel golfo partenopeo, ribattezzarono questo insediamento, Neopolis, ossia Novapolis in latino, e da qui il nome della città di Napoli.

26Butine. È la personificazione di un’antico mercato della città, situato all’incirca presso l’odierna Piazza Borsa.

27Ulmia. Personificazione dell’antica Piazza dell’Olmo, situata allo sbocco di una strada che da Castel Nuovo portava alla Chiesa di San Pietro Martire, piú o meno di fronte all’università Federico II.

189 di musiche e di lieti tumulti.28 Non manca la personificazione del Vesuvio, un brutto

vecchietto, che disceso dal suo monte in groppa al suo asino, è venuto anch’egli a porgere

gli auguri agli sposi. Di questo vulcano è molto interessante la descrizione che la ninfa

Pianura fa a Lepidina, non tanto per il sorprendente abbozzo artistico, che lo ritrae in tutta la sua minacciosa e reale potenza, ma ad esempio della capacità linguistica pontaniana nel saper far filtrare nel latino la viva lingua del popolo, cosí com’è, trascritta nella sua ricca e vivace briosità gergale.

Ventre quidem modico, at medio de pectore gibbum protendit, quanta est Baviae cretatilis olla, qua miscet suibus pultes farcitque catinum; quodque pudet, nullas res hic habet et caret illis, pro quibus intumuit cucumis niger; inde Napaeae hunc rident, rident et Oreades; ille superbum nutat et inflexo quassat nigra tempora cornu, quod longe horrescit saetis hinc inde reflexis. At calvum caput, et nullo vestitur amictu; stant mento sentes horrentque ad pectora dumi. Ah vereor, soror, et dicam tamen: huius ab ore curvantur geminae sannae, quarum altera pontum taetra petit fluctusque ferox et litora verrit, altera Saratris fauces, saxa horrida Sarni.29

Ultima a sfilare nei cortei è Antiniana,30 la bella ninfa del Pontano, nella cui figura converge tutta l’atmosfera festiva del poema. Seguita da un folto stuolo di fanciulli e di

28A mio avviso, il luogo dove si svolge l’azione della Lepidina è situato esattamente ai piedi del pendio collinare, che dall’odierna Piazza Cavour, scende gradualmente verso il porto, parallelamente a Via Duomo e Via Mezzocannone; ossia lungo il Rettifilo, tra Piazza Borsa e Piazza Nicola Amore. A un tempo questa zona, non ancora contaminata dalla mostruosità delle strutture moderne, dovette essere una spiaggia idillica meravigliosa, se il Pontano la prescelse sopra ogni altra quale palcoscenico ideale per la sua Lepidina.

29Dalla Lepidina, “Pompa quinta,” vv. 245-258: “La pancia non l’ha grande, ma di mezzo al petto gli vien fuori una gobba, grossa quanto può esserlo la pignatta di creta in cui Bavia impasta la per i maiali, tanto da riempirne un mastello, e (con licenza parlando), certe cose non le ha e ne è privo completamente; in cambio, gli si è gonfiato quel nero bubbone: perciò lo deridono le Napee, lo deridono le Oreadi; egli scuote la testa con aria superba e squassa le tempie nere, adorne di un corno ripiegato all’indietro, che si protende lontano, tutto irto di setole che si curvano da una parte e dall’altra. La testa è calva e non ha nulla che la ricopra; il mento invece, ha dei rovi e fitti cespugli gli si rizzano sul petto. Tremo a dirlo, sorella mia, ma voglio confidartelo ugualmente: dalla bocca gli escono due zanne ricurve, di cui una, orrenda, corre al mare e spazza, inesorabile, le onde ed il lido, l’altra giunge fino alla gola di Sarastri e alle orride rocce di Sarno.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, Liliana, in op. cit., pp. 43-45).

30Antiniana. Era la villa del Pontano in cui egli si ritirò in vecchiaia. 190 fanciulle, che si abbracciano affettuosamente, essa intona un canto epitalamico, dove facendo gli auguri agli sposi, profetizza l’arrivo di un nuovo poeta bucolico: il Pontano.

Nascetur qui longinquis procul advena terris haec adeat pastor pauper loca, cuius ab ore arida vicini resonent et saxa Vesevi, ipsae quem pinus, ipsa haec arbusta vocabunt. Ille alta sub rupe canet frondator ad auras pastoris musam Damonis et Alphesiboei: illi concedant hinc Tityrus, inde Menalcas, alter oves, alter distentas lacte capellas, et mirata suos requiescent flumina cursus, Damonis musam dum cantat et Alphesiboei.31

E la Lepidina si conclude qui, all’insegna di questa profezia, dove il Pontano, sulla

orme di Virgilio, rivendica a se stesso il titolo di continuatore della poesia bucolica in piena età umanistica. Dal canto loro, Macrone e Lepidina, decidono che il piú bell’augurio da porgere agli sposi, è che anche essi possano amarsi teneremante come colombi.

Intanto, la bella Antiniana riappare anche nella Lyra, 1498, una serie di componimenti saffici pieni di impeto lirico, in cui il Pontano conversa affettuosamente con la sua ninfa, come con una qualsiasi persona amata. In un’occasione la esorta a scendere giú dai giardini e dai roseti di Posillipo, per unirsi alle danze di altre ninfe e celebrare le bellezze della primavera:

31Dalla Lepidina, “Pompa Septima,” vv. 45-54: “Nascerà un pastore che, straniero, da terre lontane, giungerà povero in questi luoghi e farà risuonare del suo canto anche le aridi rupi del vicino Vesuvio, e sarà invocato da questi pini, da questi arbusti stessi. Egli, sfrondando le piante sotto un’alta rupe, canterà al vento il contrasto dei pastori Damòne e Alfesibeo, sí che a lui, vinti, cedano Tìtiro da una parte e Menalca dall’altra, l’uno le sue pecore, l’altro le sue caprette dalle mammelle gonfie di latte e, colti da stupore, i fiumi si fermeranno nel loro fluire, mentre egli canta il contrasto di Damone ed Alfesibeo.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 53). 191

En adest inter violas rosamque illa, quae vernos, hiemen sub ipsam ore prae se fert oculisque et omni tempore honores; quam prius victis rediens ab Indis Liber ad festos thiasos vocabat, nunc vocant Musae ad choreas et hortos.32

In un’altra la invita a tessere con la sua cetra le lodi della bella Napoli, giacché questa

nobile e felice città, è stata prescelta come loro sede e dimora dalle Muse, dalle Arti

Liberali e dal Culto di tutte le cose benevoli, rette, religiose e giuste.

Hanc domum Musae sibi vendicarunt et bonae hanc artes studiis bonique cultus et recti simul et sacrorum iustitiaeque. templaque et regum monumenta et arces, aedium insignes aditus adornant et diis gratam et patribus, virisque et plebe frequentem.33

Ma Antiniana, intanto, è solo un’ombra, dalla cui sagoma rifulge pieno di bellezza e soavità l’animo dell’universo pontaniano. Ella si aggira dappertutto nella villa del poeta e nei suoi ricordi epifanici: ora rievocandogli un verso poetico o una prosa didascalica da perfezionare in maggior misura, come negli Amores, nell’Urania o nei Trattati sociali; ora ridestando in lui l’interesse per l’astrologia o la morale, tanto da indurlo a comporre

altre opere epiche o trattati morali, tipo il Meteororum liber, portato a termine nei suoi ultimi anni, o il De fortuna e il De sermone, lasciati incompiuti alla sua morte; ora parlandogli nelle vesti di qualsiasi creatura appartenente al suo regno poetico. Antiniana altro non è che l’alter ego del Pontano; è il riflesso vivente della sua saggezza foggiata

32Dalla Lyra, “Antinianam Nympham Iovis et Nesidis filiam”: vv, 21-27: “Ecco che arriva, fra viole e rose, colei che nel cuore dell’inverno e in ogni altra stagione porta nel volto e negli occhi lo splendore della primavera, colei che un tempo, reduce dalle sue vittorie sugli Indi, Bacco chiamava a far parte dei suoi tiasi festanti ed ora chiaman le Muse a danzare nei giardini.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, pp. 357-359).

33Dalla Lyra, “Antinianam Nympham invocat ad cantandas laudes urbis Neapolis,” vv, 21-28: “L’hanno rivendicata come loro dimora le Muse e come sede per i loro studi le arti liberali e insieme il culto della bontà e della rettitudine e della religione e della giustizia, e templi e monumenti di re e rocche e splendidi portali adornano questa città, cara agli dei ed ai nostri padri, affollata di nobili e di popolo.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, Liliana, p. 363). 192 dagli anni e dalla continua ricerca del vero; Antiniana è la fantasia pontaniana incarnatasi

nel mondo sensibile della realtà. Ed egli la ama e con lei conversa instancabilmente,

anche di notte, nei sogni, dove accorrono le ombre dei suoi piú dolci affetti del passato; la

moglie Arianna ad esempio, che proprio nel contesto della Lyra, gli appare in sogno

come un’ombra e lo diletta con i suoi abbracci d’amore.

Umbra sis felix mihi; suntne veri, uxor, amplexus? Vigilantis anne cura te in somnis agit atque vana ludis imago? Umbra sed quamvis, mihi cara, salve, 5 et mihi felix ades; osculantem osculans tete accipioque amansque am- plector amantem. Credit et virgo speculo; ast imago ludit indulgens speculi; perinde 10 somnia et mentes capiunt amantque somnia mentes. I, puer, nocti cane sacra, nocti tura succendens. Per opaca noctis umbra versatur, volat usa noctis 15 umbra favore; nox parit somnos, hominum quietem; hi vocant imis animas Avernis morte contempta et simulacra vivis mortua iungunt. 20 Vos, pii manes, memores senectae ultimae iam, sacrifica ex acerra munera haec, stacten capite et Sabaeae mercis honores; dumque nos rursum Elysio in recessu 25 iungat obstringens amor, haud gravare et seni somnos, Ariadna, amatum et visere lectum.34

34Dalla Lyra, Uxorem in somnis alloquitur: “Ombra, sii felice con me; son veri, o moglie, i tuoi abbracci? O l’istancabil pensier tuo ti porta nei miei sogni e da vana immagine inganni? Ma anche se sei ombra, salve, mia cara (5) e sii lieta con me; baciandoti i tuoi baci ricevo, e con amore abbracciandoti rispondo al tuo abbraccio. Come la vergine crede allo specchio in fronte all’immagine che l’illude indulgente, parimenti (10) i sogni catturano le menti, e le menti amano i sogni. Va, fanciullo, canta alla notte inni sacri, alla notte accendendo gli incensi. Per l’oscura notte si aggira l’ombra, vola l’ombra col favore della notte (16). La notte procaccia i sonni, pace degli uomini; questa chiama le anime dall’Averno disprezzando la morte e congiunge ai vivi i fantasmi dei morti (20). E voi, pii spiriti, testimoni adesso della mia tarda vecchiaia, accogliete i sacrifici che verso dal turibolo sacrificale, accogliete l’olio di mirra e le onorevoli merci di Sabea (24); e fino a che nuovamente nei recessi dell’Elisio ci ricongiunga amore, non ti sia molesto, Ariadna, ritornare nei sogni del vecchio e rimirare il letto che amasti.” 193

Come un gran sogno luminoso nel cielo della notte stellata, cosí, infatti, appare anche la trasposizione poetica del mondo astrale pontaniano: l’Urania, un universo di astri brillanti proiettati nelle immensità degli spazi eterni, dove il mito e la fantasia ambiscono di amalgamarsi con la scienza. Fra queste maestose curve per le vie del firmamento si muovono incontrastate le personificazioni degli astri e dei segni zodiacali, che coi loro influssi reggono il mondo umano e naturale; quantunque poi l’uomo, ultimo degli essseri viventi ad essere creato, con la sua forza e ragione, con la sua eccezionale potenza creativa, è capace di riscattare il proprio destino dall’influsso di questi astri e creare per se stesso un vita migliore trasformando la natura. Infatti, anche se tutti quegli esseri animati dello spazio sono lucrezianamente il riflesso delle superstizioni umane, delle paure, da cui gli uomini furono presi in tempi remoti da eventi naturali terrificanti, a nulla serve implorare le divinità da essi immaginate e pretendere la loro benevolenza, se la natura stessa segue sempre incontrastata un ordine invariabile nelle sue manifestazioni.

Ed è questo il conflitto essenziale dell’Urania, dove l’umanesimo del Pontano, cercando di conciliare l’uomo con la scienza, si muove tenacemente contro tutte le forme di pregiudizi mistici, religiosi o spiritualistici, con la stessa visione antagonostica già applicata nei Dialoghi e nei Trattati, in cui prevale appunto il motivo scientifico.

Ille etiam ventos tempestatesque futuras atque imbres aestusque graves et frigora monstrat. Namque ubi coeruleo rapidum petit aequore coelum exoriens, aperitque diem natalibus undis, 325 si nigram obscuro faciem variaverit ortu concavus, inque atram condentur lumina nubem, et pelago et terris violentior incubat Eurus, turbatasque amnis in pontum devehet undas. Quin etiam ut nullae densentur in aëre nubes, 330 si tamen aut hebetes radii torpore videntur, aut si plus nimio torrens incanduit ardor, collige venturos imbres. ...35

35Dall’Urania, vv. 322, 333: “Il sole indica pure che sono vicini venti e tempeste, e piogge e pesanti calure ed ondate di freddo. Ché se al suo levarsi dall’azzurra distesa, quando sale nel rapido cielo e schiude 194

Anche se è vero che nell’Urania il sole è rappresentato accanto al biondo Apollo, per il Pontano non ha niente di mitologico. La visione scientifica del sole, qui riportata ad esempio dei suoi influssi metereologici sulla terra, è dettata da constatazioni concrete di dato e di fatto. Non vi è nulla di mistico; anzi, prevale il pensiero del poeta, la cui determinazione soggettiva dimostra che la natura segue sicura i suoi corsi al di là di qualsiasi postulato religioso; cosa che egli conferma appunto nel finale dell’opera, allorché, mortagli prematuramente la figlia Lucia, ammette disperatamente che la natura

è l’unica cosa certa, l’unica realtà vivente e irrazionale, fuori della quale la terrestreità cessa di esistere e non c’è nulla.

Certo ego felicis tedas dulcisque hymenaeos, nata, tibi carosque parabam e stirpe nepotes, 820 fingebamque et avi lusus, numerosaque verba ad cunas, cantusque senex meditabar aniles. En miserae patris tedae? Hosne senex hymenaeos aspicio? Sunt haec solatia grata nepotum? nata, iaces, nec blanda senem, nec filia patrem 825 alloqueris, sed muta siles, sed lumina condis. Hoc meruit pater infelix? Age, nata, reclusos et sustolle oculos et me solare querentem. O vanum desiderium et spes patris inanes: en tabes. Decor ille tuus quo, nata, recessit, 830 deliciae matris miserae? Tibi dona parabat et lusus dignos hymenaeo et coniuge vestes: pro donis lusuque et pro laetis hymenaeis liquisti luctum et lacrimas atque aera nigrum. . . . Quae, superi, quae saevities! Molitur ab ortu 856 sol cursum, pergitque iter, et spatia ardua lustrans conficit, occiduum dum progrediatur ad orbem; at vitae spatium incertum, et persaepe senectus ingruit in medio cursu vellitque iuventae 860 languentem florem, et spoliat spe divite ramos.36 il giorno sull’onde natali, (325) per la foschia dell’alba spargerà di macchie nere la sua faccia, deformandosi, allora la luce si seppellirà in una nera nuvolaglia, lo scirocco si abbatterà con insolita violenza sul mare e sulla terra, e il fiume trascinerà in mare onde fangose. Inoltre se, pur quando nessuna nuvola s’addensa nell’aria, (330) i suoi raggi, smorti, sembrano ugualmente privi di forza e calore, o se, torrida, la sua vampa s’infoca eccessivamente, considera questo un indizio di pioggia.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 453).

36Dall’Urania, vv. 819-834, 856-861: “Certo io nozze felici e dolci imenei / avevo in mente per te, o figlia, e cari discendenti, / e già sognavo i giochi del nonno e le cantilene / presso la culla, e, vecchio, andavo componendo i canti che cantano le nonne. / Ebbene, furono sventurate le fiaccole nuziali del padre? 195

L’acume scientifico del Pontano riaffiora anche nel Meterorum Liber, che a quanto pare, fu un’opera originariamente stesa nei suoi anni giovanili, ma poi rubata ed andata perduta, ma rifatta piú tardi, immediatamente dopo la conclusione dell’Urania.37 Fatto è che il suo interesse per la scienza risale piú o meno al periodo in cui muore Alfonso il

Magnanimo, 1458, proprio negli anni che lo avevano visto impegnato con il De laudibus divinis, quale primo tentativo di mettere mano ad un lavoro di grande impegno poetico, dove superare le contraddizioni del presente attraverso l’interpretazione del passato, cosí come in Ovidio e Lucrezio sostanzialmente, ma poi abbandonato di lí a poco, perché il poeta, attratto ora dalla scienza delle stelle, aveva deciso di affrontare il tema del graduale incivilimento del genere umano attraverso lo studio dell’astrologia, quale fu appunto il percorso eseguito nell’Urania. E quindi, laddove in questo grande poema della natura si perviene alla dolorosa considerazione che la natura è irrazionale, come testimoniato infine dalla morte inattesa della figlia Lucia, nel Meterorum Liber l’analisi di questo motivo viene ripreso e portato agli estremi da tormentose visioni apocalittiche, giacché il mondo degli esseri umani, contrariamente a tutte le forme di determinismo astrale per le

Questi imenei, io vecchio, / devo vedere? È questo il gradito conforto che speravo dai nipoti? / Figlia, tu giaci, né dolcemente al vecchio, né quale figlia al padre / tu parli, ma muta taci, e chiudi gli occhi. / Questo meritò il padre infelice? Suvvia, figlia, gli occhi / chiusi solleva e consola la mia sofferenza. / O vano desiderio e vana speranza del padre: / ecco che ora ti decomponi. Dove è fuggita, o figlia, quella tua bellezza, / gioia della misera madre? Per te preparava i doni / e le feste per celebrare degnamente le nozze, e le vesti da sposa: / al posto dei doni e delle feste e al posto dei lieti imenei / hai lasciato il lutto, le lacrime e le tenebri. . . . Quale crudeltà, o dei. Il sole sorgendo / inizia il suo corso, prosegue il cammino, e percorrendo gli elevati spazi / lo porta a termine, finché giunge all’occidente; / ma il corso della vita è incerto, e molto spesso la vecchiaia / insorge a metà cammino e strappa della giovinezza / il fiore languente, e spoglia i rami ricchi di speranza.” (Traduzione del Tateo, L'umanesimo meridionale (Bari: Laterza, 1972), pp. 23, 24).

37Cfr. Mauro De Nichilo, in I poemi astrologici di Giovanni Pontano, con un saggio di edizione critica del Meteororum liber (Bari : Dedalo libri, 1975), p. 12-13: L’opera rubata era il Liber Meteororum, almeno nel suo primo abbozzo, rifatto piú tardi, dopo che fu condotta a termine la composizione dell’Urania; ma certamente non del poemetto meteorologico, che ora noi leggiamo, si trattava, ma di un poema dai connotati scientifici meno individuati e delineati, un misto di meteorologia, d’astronomia e di geografia, qualcosa come Urania e Meteora insieme. 196 quali non esiste libertà di scelta, è in fondo il dominio dell’irrazionalità della natura con tutte le sue incoerenze e contraddizioni, e dove regna unicamente la terrestrità e la caducità di tutte le cose scibili, manifeste e tangibili.

Quid mirum fontes siccato et flumina cursu desinere? Adveniet lustris properantibus aetas, cum pelago emerget tellus nova, cum mare terris 1575 incumbens mole ingenti oppida et arces cultaque sub rapido secum feret hausta profundo. Nullus honos regum tumulis, impune deorum templa ruent, idem fluctus pecudemque Iovemque auratum affliget scopulo, exitium omnibus unum, 1580 et clades una absumet iuvenesque senesque, matres atque viros et corpora cara nepotum, nec natum complexa parens miserabilis udis proficiet lacrimis, clamantem et acerba gementem coeruleus cano vortex absorbet hiatu, 1585 et vota et pictos secum feret unda penates. Non ullae ultra relliquiae aut monumenta manebunt, non rerum labor, aut operum vis edita coelo; maiestas ipsa ingenii, decora illa sororum Aonidum, confecta situ atque in nube iacebunt, 1590 cunctaque sub tenebris et opaca nocte tegentur. Parte alia exsurgent immani corpore montes et nigra primo coelum caligine tingent fumosis iuga verticibus, nondum aëre aperto, nec sicca tellure satis. Post tempore certo 1595 terra recens coelumque novum, nova litora et udi labentes passim lymphis crepitantibus amnes incipient praebere novis alimenta colonis paulatimque novus fato instaurabitur orbis.38

38Dal Meteororum liber, vv. 1573, 1599: “Perché meravigliarsi che fonti e fiumi, inariditisi, smettano di fluire? Nella corsa dei secoli, verrà un tempo in cui dal mare affiorerà una terra nuova, un tempo in cui, piombando sulle terre (1575) con la sua smisurata massa, il mare trascinerà via con sé città, castelli e campagne, inghiottendoli in fondo ai suoi travolgenti abissi. Non saranno rispettati i mauselei dei re; impunemente verranno abbattuti i tempi degli dei, la stessa ondata sbatterà contro uno scoglio la bestia e la statua d’oro di Giove; una sola sarà la fine per tutti, (1580) e un solo disastro annienterà giovani e vecchi, mamme e mariti e i corpi amati dei loro nipoti, né, tenendo abbracciato il figliuolo, la madre infelice potrà salvarlo col pianto che le bagna il viso: mentr’egli grida e amaramente geme, un vortice azzurro l’inghiotterà nella sua biancheggiante voragine (1585) e l’onda si porterà via i voti e i dipinti penati. Non sopravviveranno né reliquie né testimonianze, non le faticose costruzioni o la possanza delle opere levate sino al cielo; la stessa maestà dell’ingegno, gli ornamenti preclari delle sorelle Anoidi giaceranno disfatti dalla muffa e tra i nembi (1590) e tutto sarà nascosto nelle tenebre e nell’oscurità della notte. In altra parte affioreranno montagne di smisurata mole e prima gioghi dalle cime fumose tingeranno di nera caligine il cielo, quando l’aria non sarà ancora sgombra né abbastanza asciutta la terra; poi, al tempo stabilito, (1595) una terra novella e un nuovo cielo, nuove sponde e umidi fiumi, scorrenti qua e là tra lo scrosciar delle acque, cominceranno ad offrir nutrimento a nuovi abitatori e pian piano, come vuole il destino, prenderà inizio un nuovo mondo.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., p. 467). 197

Davanti a una visione apocalittica del genere l’uomo moderno forse non avvertirà nulla di inaudito; ma resta strabiliante che l’intuito scientifico del Pontano, senza un minimo di nozione alcuna dei lenti movimenti delle placche continentali, degli effetti atmosferici dovuti a portentose eruzioni vulcaniche, e tantomeno degli tsunami, abbia con tanta precisione di dettagli descritto i cicli della natura che si ripetono fatalmente ad intervalli millenari, se non addirittura a distanza di milioni di anni; e poi con tanta perizia poetica, ricca di immagini efficaci. Ecco cosa s’intende dire per “vate,” riferendosi ai poeti! Qual miglior rivelazione di eventi futuri, come quella appena letta, può scaturire da un animo poetico cosí sensibile e sapiente, tanto da conoscere i piú intimi segreti della natura? Il che lascia interdetti se le rivelazioni poetiche altro non siano che riflessi parziali della divinità risiedente nell’animo umano, di cui l’uomo può a mala pena avere una visione totale, come vuole Platone, oppure ricordi del continuo interagire con la natura dissotterrati di tanto in tanto dai meandri della memoria collettiva, attraverso i quali l’uomo riconosce per istinto le leggi della natura, come vuole Aristotele. È un dilemma che perseguita l’uomo sin dai tempi primordiali, ora per mezzo dei poemi omerici, ora per le scritture bibliche, ora attraverso dispute filosofiche, che a partire da quelle antiche greco-romane, man mano, giú attraverso i secoli, tramite quelle cristiane, medievali, umanistiche, rinascimentali, illuministiche, hanno da sempre cercato di rispondere all’essenziale domanda se al di fuori della natura esista il divino o meno: il perenne contrasto fra scienza e divinità, spiritualisno e stoicismo, in cui lo stesso Pontano poco si raccapezza. Tuttavia, da buon umanista, il cui intuito gli fa riconoscere l’immutabilità delle leggi della natura, riesce pur sempre a creare monumenti poetici stupendi, dove scienza e mitologia, amalgamandosi in un insieme organico, permettono 198 alla sua voce di compartire con l’umanità la mirabile visione del suo universo poetico, dalla prima all’ultima delle sue opere, il De hortis Hesperidum, del 1500, dove,

abbandonato per sempre il cielo, il poeta ritorna sulla terra, nei giardini odorosi delle

Esperidi, in cui regna immortale il cedro dagli aurati pomi.

Illi perpetuus frondi decor. Inter opacum albescunt nitidi flores nemus. Atque ita late spirat odoratus Zephiris felicibus aer. Ipsa quidem Lauro foliisque et cortice et ipso stipite tum similis, tum frondescente iuventa, at cono inferior ramisque valentibus impar, nam florum longe candore et odoribus anteit. Quin gravida e ramis, triplici distincta colore, mala nitent virides primum referentia frondes; hinc rutilant fulvoque micant matura metallo, flore novo semper, semper quoque foetibus aucta, perpetuum Veneris Monumentum at triste dolorum.39

Si tratta di un poema georgico come la Lepidina attraverso il quale il poeta intende celebrare la bellezza del territorio partenopeo. Qui, secondo la leggenda narrata dal

Pontano, in questo luogo idillico del Mezzogiorno d’Italia fu trasportato per volere della dea Venere il corpo di Adone convertito in cedro. Esaltata come pianta ornamentale delle coste napoletane, il cedro assume in quest’operetta due significati: da un lato subentra il motivo mitologico ed erotico, messo in evidenza dal disperato amore di Venere che trasforma Adone in una pianta a simbolo della sua eterna giovinezza e bellezza, dall’altro subentra, invece, il motivo piú propriamento umanistico, ossia quello didascalico, per mezzo del quale il Pontano riafferma la capacità dell’essere umano di controllare o dominare la natura, giacché con la sua cura assidua l’uomo riesce dopo tutto a coltivare

39Dal De hortis Hesperidum, I, vv. 56-68: “Eterna è la bellezza della sua chioma. In mezzo all’ombroso / bosco biancheggiano i suoi splendidi fiori. E così per largo tratto / spira odorosa l’aria fecondata dagli Zefiri. / Quest’albero assomiglia all’alloro nelle foglie, nella corteccia e perfino / nel tronco, e gli rassomiglia anche per il vigore giovanile con cui sempre frondeggia, / ma non è pari ad esso per l’altezza della cima e per la robustezza dei rami, / mentre lo supera di molto per la lucentezza e il profumo dei fiori. / Anzi, dai suoi rami, pesanti, ornati di tre colori, / risplendono i pomi, presentando dapprima il verde colore delle foglie; / poi rosseggiano e infine maturi spiccano col fulvo colore dell’oro, / arricchendosi sempre piú di frutti per il rinnovarsi dei fiori, / ricordo eterno, ma triste, del dolore di Venere.” (Traduzione del Tateo, in op. cit., p. 18). 199

ed estrarre da questa pianta il frutto piú bello; della qual cosa, proprio in uno dei dialoghi pontaniani piú divertenti, l’Asinus, il medesimo Pontano dà prova della sua grande esperienza nella coltivazione dei cedri.

Con il De hortis Hesperidum si conclude, dunque, il viaggio poetico di questo grande

umanista, che a partire dagli anni adolescenziali, sin agli ultimi sgoccioli della vita, non

fa altro che continuamente dialogare con l’umanità intera, col suo secolo, con gli antichi,

con i posteri. Un dialogo nel quale egli si prende cura di essere chiaro e preciso, dove la

parola, cedendo il posto al mito, alla fantasia, alla scienza, ora attraverso il sorriso e la

serietà, ora tramite i suoi racconti fantastici o filosofici, pur sempre riesce efficace nel

proiettare nella mente dei suoi lettori uno spiraglio di luce di come fu la sua vita in quel gran secolo in cui visse. Un dialogo umano incessante, specialmente con le persone che piú gli stanno a cuore, come qui nel De hortis Hesperidum, dove riappare ancora una

volta l’ombra dell’amata Ariadna e alla quale confida le pene della sua vecchiaia:

O felix obitu, quae non violenta Brigantum perpessa imperia, quae non miserabili nati funus et orbati senis immedicabile vulnus vidisti et patrios foedata sede penates. Sed solamen ades, coniunx; amplectere, neu me lude diu, amplexare virum ac solare querentem et mecum solitos citriorum collige flores.40

40Dal De hortis Hesperidum, I, vv. 329-335: “Felice te, che sei morta, che non hai dovuto subire il prepotente dominio dei Briganti (i Francesi), che non hai visto l’infelice morte di tuo figlio e l’inguaribile ferita di questo vecchio privo del suo figliuolo, e contaminati nella loro sede i patrii penati. Ma tu, vieni a consolarmi, o sposa: abbracciami, non illudermi ancora, abbraccia tuo marito, consola il suo dolore e, come facevi un tempo, vieni a cogliere ancora, con me, i fiori dei cedri.” (Traduzione di Liliana Monti Sabia, in op. cit., Liliana, p. 471). 200

Bibliografia Opere citate

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