Marta Verginella*

Genealogie di confine. Le rivendicazioni slovene su

Una città, molte narrazioni Trieste è stata definita città cosmopolita, ma anche la città redenta e italianissima, la porta orientale del Regno, la città polmone sloveno o, ancora più recentemente, una città di confine e città ponte, a seconda della prospettiva politica, ideologica, culturale di chi l’ha definita1. Il più delle volte queste stesse definizioni, il cui compito non era semplicemente esaltare quello che veniva dichiarato come essenza stessa della città o come la sua particolare vocazione, sono servite piuttosto a produrre immagini spendibili in contesti ad essa esterni, ma anche a legare il suo presente con il suo passato, o meglio con una certa idea del suo passato, considerato particolarmente funzionale per determinare il futuro di questa città. Gran parte di queste definizioni diedero senso storico alle stesse comunità che le promossero o se ne appropriarono, ma furono anche usate per tracciare una linea sempre più netta tra il “noi” e gli “altri”. In una società eterogenea dal punto di vista linguistico ed etnico, dalla seconda metà dell’Ottocento al centro di processi di omogeneizzazione culturale e politica, identificarsi con la narrazione storica di una delle componenti nazionali cittadine ha significato rafforzare anche la propria appartenenza nazionale. Se nel contesto della storiografia italiana, e in parte anche in quella internazionale, sono oramai ben note le cause dell’irredentismo italiano nei territori austriaci e le ragioni che portarono il governo italiano a stipulare a Londra il 26 aprile 1915 un patto segreto con gli Stati dell’Intesa che assicurò all’Italia, in cambio del suo intervento militare contro l’Austria-Ungheria, la cessione di , Trieste, l’ e dei porti della Dalmazia settentrionale oltre che del Trentino, assai meno conosciute e studiate sono le tappe pregresse delle rivendicazioni jugoslave su quello stesso territorio di confine, incluso in gran parte dopo la fine della seconda guerra mondiale entro i confini della Jugoslavia di Tito. In questo contributo mi soffermerò inizialmente su alcune modalità che hanno accompagnato i vari cambiamenti del confine, per affrontare poi più nel dettaglio le ragioni che concorsero a includere Trieste nei programmi nazionali sloveni e, dopo la prima guerra mondiale, a farne uno degli obiettivi delle rivendicazioni territoriali jugoslave.

Dall’Impero absburgico al Regno d’Italia Tra Sette e Ottocento, da principale porto dell’Impero asburgico, Trieste si trasformò in un importante polo urbano, commerciale e industriale, interessato da vasti flussi migratori provenienti sia dal suo immediato che più lontano entroterra, dell’Impero e del vicino Regno d’Italia. La maggioranza della sua popolazione era di lingua italiana, accanto ad essa vi risiedeva però una cospicua componente di lingua slovena, quest’ultima minoritaria nel centro urbano, maggioritaria invece nei suoi dintorni2. Se si esclude la componente tedesca, le altre comunità di croati, serbi, greci, cechi, polacchi, inglesi, svizzeri erano numericamente meno consistenti, ma fondamentalmente la loro presenza non influì in modo sostanziale sulla dinamica delle rivendicazioni nazionali. Dopo il riconoscimento dei diritti nazionali approvati dallo Stato austriaco con l’Ausgleich del 1867 si instaurò a Trieste uno stato di permanente conflittualità tra il partito liberalnazionale italiano e la rappresentanza politica slovena, riunita nella società politica dell’Edinost (L’unità). La mobilitazione politica fece leva soprattutto sull’articolo 19 della Costituzione, sancente il diritto alla scuola in lingua madre, diritto che le autorità municipali triestine, in mano alla maggioranza italiana, non riconobbero alla popolazione slovena nel centro città. Neppure dopo la fine della prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero, quando furono incluse entro i confini del Regno d’Italia oltre a Trieste, Gorizia, l’Istria, settori del Quarnero e Zara, anche aree del

* Docente di Storia contemporanea alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lubiana, . 1 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982. 2 Nel 1910 gli sloveni rappresentavano quasi il 30% della popolazione cittadina, mentre il circondario della città era abitato in grande prevalenza da popolazione slovena. Per uno sguardo generale cfr. Marina Cattaruzza, La formazione del proletariato urbano, Torino, Musolini, 1979. Postumiese e della Notranjska3, mantenendo nei confronti della popolazione slovena e croata le prassi di dominio tipiche per uno Stato liberale, e adeguandosi di fatto alle pratiche politiche locali preesistenti. Il divieto dell’insegnamento della lingua minoritaria nelle scuole cittadine fu infatti mantenuto, tanto che l’unica scuola slovena presente in città era privata e gestita dalla Società dei santi Cirillo e Metodio. Quando nel novembre del 1918 le truppe italiane entrarono trionfanti a Trieste, la città cessò di essere il principale porto asburgico. Da capoluogo del Litorale austriaco si trasformò in capoluogo della Venezia Giulia4. Il territorio annesso all’Italia passò sotto l’amministrazione del Governatorato militare dell’esercito italiano, ancor prima che il Trattato di pace firmato a Rapallo (12 novembre 1920) sancisse il confine tra il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (Regno SHS, dal 1929 Regno di Jugoslavia), da poco costituitosi5. L’acquisizione della cittadinanza italiana fu automatica per la popolazione di nazionalità italiana, più tortuosa, a volte persino impossibile, fu invece per le persone appartenenti alla comunità di lingua tedesca o di quella slovena o ad altre nazionalità dell’ex Impero. Dopo il 1918 l’intera area nordadriatica fu coinvolta da vasti fenomeni migratori. Trieste divenne meta appetibile per gli immigrati (circa 50.000) provenienti dalle varie province del Regno d’Italia, attratti dalla possibilità d’impiego sopravvenuta dopo la partenza, dovuta spesso al licenziamento o all’espulsione dei cittadini austriaci di lingua tedesca, ma anche slovena e croata6. Tra il 1919 e il 1922 emigrarono dalla Venezia Giulia nel nuovo Stato jugoslavo circa 28.000 fra sloveni e croati. Entro il 1934 il loro numero salì a 50.000, per raggiungere all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale circa le 105.000 persone7. Nonostante questi consistenti flussi migratori, i rapporti etnici nella nuova regione italiana non furono radicalmente sovvertiti; la popolazione slovena e croata in regione superava quella italiana8. Nemmeno la politica di snazionalizzazione della popolazione minoritaria slovena – in Istria anche di quella croata – attuata dal regime fascista ebbe modo di portare a compimento la “bonifica etnica”9, strettamente funzionale a trasformare questa regione, attraverso l’esclusione delle presenze nazionali minoritarie, in una sorta di cinta protettiva dai popoli balcanici e, nel contempo, di “spalto” all’evenienza pronto ad aggredire contestualmente al disegno imperialista italiano nei Balcani10.

3 Sia il Pustumiese che la Notranjska erano abitate da popolazione slovena; soltanto nei piccoli centri come Postojna, Ilirska Bistrica e Ajdovščina risiedevano anche alcune famiglie tedesche e italiane. 4 Termine coniato dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli per identificare i territori austriaci ad est dell’Isonzo abitati da popolazione italiana. 5 Sulle trattative di pace, sulle richieste italiane e jugoslave cfr. Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il mulino, 2007, pp. 117-128. 6 Fenomeni di emigrazione e immigrazione interessarono anche altre aree ex asburgiche. 7 Secondo recenti ricerche questa cifra, riportata nel 1936 da Lavo Čermelj in Life and Death Struggle of a National Minority. The Jugoslavs in (, Štrukelj), è sovrastimata, poiché comprende tanto i 70.000 profughi emigrati in Jugoslavia, quanto le 5.000 persone trasferitesi in altri paesi europei, nonché i 30.000 immigrati in America Latina, non classificati però in base alla loro appartenenza nazionale (Aleksej Kalc, L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre ed il suo ruolo politico, in “Annales. Annali di studi istriani e mediterranei” anno VI, n° 8, 1996, pp. 28-29; Aleksej Kalc, L’emigrazione slovena e croata, in Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Venezia Giulia, Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, , Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1997, p. 538. 8 Secondo i dati del censimento del 1910, a Trieste e nel Litorale austriaco risiedevano 326.282 persone classificate con lingua d’uso slovena (circa il 58% dell’intera popolazione), mentre secondo il censimento italiano del 1921 il loro numero era diminuito a 271.305; cfr. Sandi Volk, Gli spostamenti di popolazione italiane, slovene e croate al confine italiano tra fascismo e dopoguerra, in Lorenzo Bertucelli, Mila Orlić, Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento, Verona, Ombre Corte, 2008. 9 L’imposizione dell’italianità in un territorio che sotto l’Austria aveva visto riconosciuta la propria composizione multi- etnica e multilingue, avvenne con la chiusura delle scuole slovene e croate, con l’italianizzazione dei nomi e cognomi sloveni o croati (in taluni casi anche di quelli d’origine tedesca) e con la chiusura di circoli culturali, sociali e sportivi, banche e casse di risparmio, appartenenti alla minoranza slovena e croata. Lo smantellamento di tutto l’assetto culturale, sociale ed in parte anche quello economico minoritario fu realizzato in meno di un decennio e venne coronato dalla proibizione dell’uso della lingua minoritaria in pubblico, anche in chiesa; cfr. Anna Maria Vinci, Il fascismo al confine orientale, in Roberto Finzi, Claudio Magris, Giovanni Miccoli (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, Torino, Einaudi, 2002, vol. I, pp. 377-513; Marta Verginella, Il confine degli altri, Roma, Donzelli, 2008. 10 Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Glenda Sluga, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border. Difference, Identity, and Sovereignty in Twentieth- Century , Albany, State University of New York Press, 2001, pp. 55-61. Nella città di Trieste il processo di assimilazione e la militanza nelle file fasciste coinvolsero i ceti meno abbienti della popolazione slovena. Nelle zone periferiche e nelle aree rurali più distanti dal polo urbano l’adesione volontaria al fascismo fu invece una scelta spesso obbligata e spontaneamente praticata da pochi. La maggioranza della popolazione slovena, ma così pure quella croata, appoggiò la battaglia politica, perseguita su un piano istituzionale e della legalità, per la propria rappresentanza politica, limitatamente al riconoscimento dei diritti nazionali della minoranza entro lo Stato italiano. Tuttavia, quando la politica repressiva dello Stato si fece sempre più persistente, non mancarono neppure espressioni di consenso per le azioni dimostrative e gli atti di terrorismo compiuti dalle organizzazioni clandestine slovene e croate. Furono proprio queste organizzazioni che per prime rinunciarono a qualsiasi progetto di autonomia della minoranza nazionale nell’ambito dello Stato italiano e iniziarono a rivendicare il distacco dall’Italia dei territori di confine abitati da sloveni e croati, comprese le aree urbane a maggioranza italiana, ritenendo che la stessa sopravvivenza della popolazione slovena presente nella regione del Litorale e di quella croata in Istria trovasse garanzia soltanto entro la compagine statale jugoslava. A sostenerlo non erano ormai soltanto le frange più radicali del movimento antifascista sloveno e croato, di ascendenza liberale o comunista, ma anche i rappresentanti del mondo cattolico sloveno11. Dopo l’aggressione delle forze dell’Asse alla Jugoslavia nel 1941 e l’occupazione italiana della provincia di Lubiana12 (i tedeschi occuparono la Slovenia settentrionale, gli ungheresi il Prekmurje, l’area ai confini con l’Ungheria) un esteso movimento di resistenza armata si diffuse nella Slovenia centrale e dopo l’8 settembre 1943 interessò anche vaste aree della Venezia Giulia13. Va da sé che in questa regione la posta in gioco andasse ben oltre la liberazione del territorio occupato, aprendosi alla questione del futuro riassetto territoriale di tutta l’area di confine. Sin dal 1941 l’annessione della Primorska (il Litorale) alla Jugoslavia divenne infatti uno dei principali obiettivi del movimento resistenziale sloveno, così come l’accorpamento dell’Istria e della Dalmazia al resto della Croazia lo fu per quello croato. Coerentemente con questo atteggiamento, la promessa del movimento di liberazione jugoslavo, del cambiamento del confine di Stato, fu accolta con favore anche da chi non nutriva invece grandi simpatie per i suoi vertici comunisti, né per i progetti della rivoluzione socialista. L’arrivo delle truppe partigiane a Trieste, come anche a Gorizia (1 maggio del 1945), fu salutato dagli sloveni favorevoli al movimento di liberazione jugoslavo, per le ragioni appena esposte, come un’azione affrancatrice dopo anni di violenze, rappresaglie, deportazioni, eccidi nazifascisti. Di contro, coloro che invece ritenevano i partigiani di Tito i loro principali nemici, o per il loro antecedente collaborazionismo con i tedeschi e fascisti o per il loro profondo sentimento anticomunista, l’inizio dell’amministrazione jugoslava fu visto come una sorta di prolungamento dell’esperienza bellica. Tuttavia tra gli sloveni ostili alle autorità jugoslave ben pochi avrebbero sostenuto con favore il ritorno dell’Italia nella Venezia Giulia, preferendo la prospettiva di uno “Stato cuscinetto”, ma in ogni caso salutando con grande sollievo la fine dell’occupazione jugoslava “dei quaranta giorni” quando, dopo l’accordo di Belgrado del 9 giugno, Trieste fu affidata all’amministrazione angloamericana che diede loro la possibilità di risiedere e operare nella zona A14.

11 , Vivere al confine. Sloveni e italiani negli anni 1918-1941, Gorizia, Goriška Mohorjeva družba, 2004; Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, Bari, Laterza, 1966; Marina Cattaruzza, L'Italia, cit., pp. 165-190. 12 Sull’occupazione italiana della provincia di Lubiana si vedano Marco Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1998; Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1943, Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, 1994. Sulle forme di repressione della resistenza slovena e sulla deportazione della popolazione civile (circa 30.000 persone, tra cui molte donne, bambini e anziani) nei campi d’internamento in varie località italiane (Gonars e Rinicci) e sull’isola dalmata di Rab (Arbe) vedi Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004; Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi, Roma, Nutrimenti, 2008. 13 Mentre nella Provincia di Lubiana si svilupparono varie forme di collaborazionismo con l’occupante italiano, sostenute soprattutto dalle forze politiche slovene anticomuniste (il più numeroso fu il movimento dei domobranci, cioè i militi inquadrati nella cosiddetta Difesa territoriale slovena), nel Litorale tale fenomeno fu assai ridotto e in talune aree del tutto assente. 14 L’area di confine fu divisa in zona A e zona B, la prima amministrata dagli Alleati, la seconda dall’esercito jugoslavo; cfr. Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesti locali, Milano, Franco Angeli, 1986; Tullia

Movimento partigiano jugoslavo e Fronte di liberazione sloveno La liberazione e la riunificazione dei territori sloveni invasi e smembrati dai tre Stati occupanti, la Germania, l’Italia e l’Ungheria, fu uno degli obiettivi prioritari del Fronte di liberazione sloveno (OF) sin dalla sua costituzione nel 1941. La questione della configurazione geopolitica della “Slovenia unita” e dei suoi confini rimase però aperta fino al 1944. La dirigenza comunista slovena era convinta che con la vittoria del fronte sovietico e la sconfitta di quello imperialista, la questione confinaria si sarebbe facilmente risolta, anche sulla base degli accordi presi nel 1934 con i comunisti italiani e quelli austriaci che riconoscevano alla popolazione slovena il diritto di autodeterminazione nazionale. Gli stessi ambienti liberali ed anticomunisti, a loro volta molto impegnati a delineare il futuro assetto della Slovenia unita, non si astennero dal muovere il loro rimprovero al Partito comunista della Slovenia a causa della sua mancata chiarezza nel definire il futuro assetto dei confini sloveni. L’istituzione nell’ottobre 1941 di una Commissione per lo studio dei confini presso il Comitato esecutivo dell’OF fu a tutti gli effetti una risposta alle pressioni provenienti dall’esterno. Anche se essa non produsse alcun documento programmatico e si prefigurò come una sorta di circolo studi interno, come sottolinea Bojan Godeša, in realtà giocò un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle principali premesse sulle quali i comunisti sloveni in seguito avrebbero fissato le loro posizioni verso le questioni dei confini15.

La commissione composta dal geografo , dallo storico , dallo scrittore carinziano Prežihov Voranc, dall’ingegnere Črtomir Nagode e dall’intellettuale cristiano-sociale Edvard Kocbek pose, in effetti, le basi per le future rivendicazioni slovene e jugoslave, estendendole anche a quelle aree dove la popolazione slovena non risultava maggioritaria o dove si erano verificati fenomeni di secolare snazionalizzazione. A differenza di gran parte dei membri della Commissione per lo studio sui confini, i quali auspicavano l’inclusione nella futura Slovenia anche delle città a maggioranza tedesca, come Villaco - Villach o , perorando il principio che le città dovessero venir accorpate al contado, principio che, come argomentò Anton Melik, fu ampiamente usato nel tracciare i confini delle singole repubbliche sovietiche, la dirigenza comunista preferì mantenere il suo riserbo su questo argomento e quindi anche sulla futura appartenenza statale di Trieste. Esemplificativa risulta a questo proposito la memoria di Angela Vode, figura di primo piano del femminismo sloveno nel periodo tra le due guerre. Quando fu incaricata, nella veste di rappresentante dell’Unione delle donne jugoslave, in cui militavano anche molte intellettuali slovene emigrate durante il ventennio dalla Venezia Giulia, di chiedere al Plenum del Fronte di liberazione quale fosse il programma dell’OF rispetto a Trieste, Boris Kidrič, figura di primo piano del partito comunista sloveno, la zittì con il seguente monito:

Lei ha influenza sulle donne, faccia sì che esse non pongano simili inattuali domande. Sappiate che Trieste apparterrà allo Stato che per primo instaurerà il comunismo16.

Godeša riferisce che i vertici comunisti sloveni iniziarono ad affrontare la questione di Trieste esprimendosi pubblicamente sul futuro dei territori, inclusi dopo il 1918 nella Venezia Giulia ed annessi al Regno d’Italia, soltanto nella primavera del 1942. Inizialmente, la prospettiva di legare il destino di Trieste a quello del suo entroterra non pregiudicava ancora l’appartenenza statale dell’area, come conferma tra l’altro la corrispondenza avviata da Edvard Kardelj con il dirigente comunista italiano Umberto Massola “Quinto”. Nell’agosto del 1942 Kardelj pensava sì all’annessione del Litorale alla Slovenia unita, ma anche alla costituzione di Trieste come territorio autonomo17. Nel settembre del

Catalan et alii (a cura di), Dopoguerra di confine. Povojni čas ob meji, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia - Dipartimento di scienze geografiche e storiche dell’Università, 2007. 15 Bojan Godeša, I comunisti sloveni e la questione di Trieste durante la Seconda guerra mondiale, in “Qualestoria” n° 1, 2007, p. 123. 16 Angela Vode, Skriti spomin, Ljubljana, Nova revija, 2006, p. 352; Vode non indica la data dell’incontro, mentre Godeša lo fa risalire alla fine del 1942, cfr. Bojan Godeša, I comunisti sloveni, cit., p. 125. 17 Sulla tradizione autonomista e gli ambienti comunisti negli anni Trenta cfr. Jože Pirjevec, “Trst je naš!”. Boj Slovencev za morje (1848-1954), Ljubljana, Nova revija, 2007, pp. 130-132; sulla tradizione autonomista e gli ambienti della socialdemocrazia 1942 era ancora convinto che fosse soprattutto fondamentale lottare contro l’occupante e non disquisire sui confini. Secondo la versione proposta dalla storiografia slovena, egli avrebbe iniziato a riflettere sulla soluzione della questione triestina soltanto dopo il telegramma del 3 agosto 1942 ricevuto dal Comintern che: autorizzava l’attività dei comunisti sloveni anche nel Litorale, tuttavia nella suddivisione delle competenze tra PCS e PCI decise per la divisione secondo nazionalità (tra gli sloveni avrebbe operato il PCS, tra gli italiani il PCI) e non secondo un principio territoriale. Questo andava contro la prassi stabilita fino a quel momento, se- condo cui la sfera delle competenze dei singoli partiti comunisti coincideva con i confini statali. Se, da una parte, si trattava di una soluzione temporanea e anche un po’ equivoca, che non faceva trasparire alcuna decisione definitiva da parte del Comintern (dell’Unione Sovietica) rispetto all’appartenenza statale di Trieste, dall’altro il fatto che il Comintern avesse riconosciuto ai comunisti sloveni il diritto di operare anche nel Litorale, benché in funzione di un potenziamento della comune lotta contro il nazifascismo in questa regione, di fatto esso significò in via di principio l’assenso sovietico ad un possibile cambiamento del confine di Rapallo18.

In un ampio studio dedicato alle rivendicazioni slovene su Trieste, Jože Pirjevec ricostruisce i tempi del cambiamento di rotta del PCS rispetto alla questione di Trieste, mettendo in luce l’importanza dell’incarico affidato dai vertici comunisti sloveni al giovane giurista triestino Joža Vilfan. Nell’elaborato di 35 pagine dal titolo La questione di Trieste nella cornice della questione nazionale slovena, questi raccolse tutte le argomentazioni a favore dell’appartenenza di Trieste, a maggioranza italiana, al suo entroterra sloveno, soprattutto quelle riguardanti i traffici e il commercio con il bacino mitteleuropeo che avallavano l’importanza economica del legame economico instauratosi tra la città e la sua campagna. Vilfan non dimenticò di ribadire che il criterio di legare le sorti della città a quelle del suo entroterra coincideva con quello usato dalle autorità sovietiche nel riassetto delle singole repubbliche. Né il riferimento al contesto sovietico, né le citazioni di Lenin e di Stalin, favorirono però l’accoglienza delle tesi proposte dal Vilfan in seno al CC del PCS. Agli occhi dei massimi quadri del partito esse continuarono a rimanere problematiche, soprattutto perché mancavano di una visione internazionalista; detto altrimenti, non mettevano in giusta luce la comune lotta tra il proletariato sloveno e quello italiano contro il fascismo e l’ordine borghese19. Con il passare del tempo la persistenza delle voci, provenienti dagli ambienti liberali e anticomunisti sloveni, così in Slovenia come all’estero, soprattutto a Londra, che imputavano ai comunisti sloveni l’intenzione di cedere Trieste, la Carinzia e Maribor ai loro vicini in nome della fede internazionalista, obbligò gli stessi vertici dell’OF a rassicurare i propri sostenitori sui futuri obiettivi dell’esercito partigiano e i combattenti sulla futura liberazione di tutto il territorio abitato dalla nazione slovena. Il passaggio dalla retorica rivoluzionaria a quella patriottica avvenne, secondo Pirjevec, tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943, quando ai vertici del PCS si diffuse l’opinione che la collaborazione con PCI non dovesse pregiudicare il futuro di Trieste, anzi che proprio nel nome dell’internazionalismo proletario si poteva progettare il suo futuro inserimento nella Slovenia unita. Con il proseguire della guerra sembrò meno necessario temporeggiare e dar importanza alle rimostranze, esternate dal PCI. Il 31 dicembre 1942 Kardelj spiegò ai membri del comitato provinciale del PCS del Litorale che Trieste per il suo “antico carattere italiano”20 avrebbe mantenuto un ruolo autonomo nella libera ed unificata Slovenia. In quello stesso periodo in una lettera indirizzata a Tito scrisse:

La questione del confine è per noi così attuale come forse non lo è nemmeno per l’impero inglese […]. Abbiamo a lungo tentato di glissare [su tale problema] con dichiarazioni di principio generali, ma ora tutto questo è diventato sempre meno possibile. Gli sloveni divisi ormai già da mille anni, ora sentono che finalmente il vecchio slogan sulla Slovenia unita può diventare realtà21. triestina cfr. Marina Cattaruzza, Socialismo adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915, Manduria, Lacaita, 1998, pp. 49-60, 127-154. 18 Bojan Godeša, I comunisti sloveni, cit., p. 128; Jože Pirjevec, “Trst je naš!”, cit., p. 222; Nevenka Troha, Il confine con l’Italia prima e dopo la seconda guerra mondiale. Il progetto jugoslavo, in Lorenzo Bertucelli, Mila Orlić, Una storia, cit., pp. 72-89. 19 Jože Pirjevec, “Trst je naš!”, cit., p. 228. 20 Ivi, p. 234. 21 Si tratta della lettera scritta a Tito, in cui Kardelj afferma anche che la Slovenia unita si sarebbe estesa a tutto quel ter- ritorio popolato dagli sloveni o che in passato era stato snazionalizzato; cfr. Bojan Godeša, I comunisti sloveni, cit., p. 130.

All’inizio di dicembre del 1942 il Comitato esecutivo dell’OF si pronunciò sui futuri confini della Slovenia liberata e riunificata che si sarebbe dovuta estendere da Spienfield a Trieste, dalla Kolpa a Klagenfurt. La paura di un eventuale sbarco alleato nell’Alto Adriatico o nell’area balcanica, ma anche una visione meno ottimista dei rapporti di forza tra lo schieramento filosovietico e quello imperialista in Europa, la vicinanza degli ambienti liberali e clericali sloveni con il governo britannico, portarono i vertici del PCS e della stessa OF ad affrontare in termini sempre più concreti la questione dei confini e a delineare l’assetto geopolitico della futura Slovenia. Le rivendicazioni territoriali dichiarate dall’Assemblea del Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (in serbo-croato Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije, in sloveno Antifašistični svet narodne osvoboditve Jugoslavije, abbreviato in Avnoj, costituiva una sorta di governo provvisorio espressione del movimento di liberazione) tenutasi a Jajce dal 21 al 29 novembre del 1943 e la dichiarazione di Tito sulla liberazione del Litorale e dell’Istria, rilasciata alla conclusione del consesso, non lasciavano più adito a fraintendimenti sui futuri obiettivi dell’esercito popolare e sull’intenzione di creare le condizioni per una radicale revisione del confine italo-jugoslavo stabilito nel 1920 con il Trattato di Rapallo22. Alla fine del 1944 anche due personalità come Engelbert Besednjak e Virgil Šček23, rappresentative di quella classe politica liberale e cristiano sociale della Venezia Giulia, marginalizzata dagli eventi e dall’egemonia attuata dal partito comunista all’interno del movimento di liberazione sloveno, ebbero modo di constatare che la paura di vedere svendere il territorio sloveno per mantenere fede all’internazionalismo non era più reale:

Che il movimento di liberazione combatta per l’unità della nostra nazione, ci era chiaro, nonostante ciò ci inquietava la questione di Trieste. Chi ci poteva garantire che nell’Internazionale non prevalessero le posizioni degli italiani, più forti, che Trieste non sarebbe divenuta una seconda Danzica? Chi poteva garantire, che i nostri non si sarebbero sottomessi alla disciplina e avrebbero accolto come soluzione che Trieste fosse smembrata dal corpo della Slovenia precludendo alla nostra nazione l’accesso al mare? Sapevamo troppo a fondo cosa significasse Trieste per la condizione degli Sloveni nei Balcani e nel mondo internazionale, per poter accettare una simile soluzione. Via via si diffuse via radio la voce, che l’accordo tra i comunisti jugoslavi e italiani riguardo ai nostri confini era stato raggiunto. Dato che il contenuto dell’accordo non era noto, avevamo ragione di non abbandonare i nostri sospetti e dubbi. […] I nostri sospetti e i nostri dubbi iniziarono a dissolversi quell’anno, verso la fine di settembre. Solo allora Tito avviò ufficialmente la discussione sui nostri confini. Noi lo ringraziammo per aver messo in moto la questione della nostra patria, ma egli purtroppo non poté venir raggiunto dal nostro messaggio. Quando un mese più tardi il suo esercito liberò la capitale noi entrammo in contatto con i suoi più stretti collaboratori e, con nostra soddisfazione e gioia, tutti gli altri dubbi si dispersero. Durante i lunghi ed esaurienti colloqui che io e Medved [Josip Bitežnik] abbiamo avuto, abbiamo appurato con loro che nonostante la loro affiliazione all’internazionale e la collaborazione con i reparti militari italiani non si sono allontanati neppure di un millimetro dal nostro programma nazionale24.

Anche dopo la conferenza di Jalta nel febbraio del 1945, e nonostante le contrarietà espresse da parte alleata, nei confronti delle rivendicazioni territoriali slovene su Trieste e Gorizia, le posizioni dei vertici dell’OF e del PCS non mutarono. L’annessione di tutto il Litorale alla Slovenia si concretizzò il 1° maggio del 1945, quando le truppe del IX corpo d’armata entrarono a Gorizia e a Trieste. La riunificazione della nazione slovena entro lo Stato jugoslavo ebbe però vita breve: durò quaranta giorni e fu segnata, da una parte, dall’alto costo umano dovuto alla liberazione, dall’altra dal trattamento riservato dalle autorità jugoslave alle forze politicamente avverse, collaborazioniste ma in certi casi anche antifasciste, contrarie però alla presenza jugoslava o soltanto all’egemonia comunista. Con l’accordo di Belgrado le truppe jugoslave dovettero lasciare Trieste e Gorizia e ritrarsi oltre la cosiddetta linea Morgan. Tito e la stessa leadership slovena non poterono non tener conto delle numerose voci contrarie alle rivendicazioni territoriali jugoslave. La presenza jugoslava a Trieste e Gorizia era

22 Marina Cattaruzza, L’Italia, cit., pp. 259-264. 23 Don Virgil Šček fu eletto deputato al parlamento italiano nel 1921 e rimase fino alla fine della seconda guerra mondiale un personaggio di riferimento per i cristanosociali sloveni della Venezia Giulia; Engelbert Besednjak, dopo essere stato deputato al parlamento italiano (1924-1929), divenne il rappresentante delle minoranze slovena e croata al Congresso delle minoranze etniche europee a . 24 Jože Pirjevec, “Trst je naš!”, cit., pp. 282-283. fortemente osteggiata dalla popolazione italiana, nella stramaggioranza favorevole al ritorno dell’Italia nelle terre di confine. Contrari all’annessione di Trieste e Gorizia al resto della Jugoslavia non erano solo le potenze alleate, la Gran Bretagna e gli USA ma anche gli ambienti sloveni che non avevano aderito all’OF. Il mancato appoggio sovietico alla linea diplomatica jugoslava, difesa alla conferenza di pace a Parigi, eclissò le speranze nutrite fino allora dalla dirigenza slovena e anche il programma della riunificazione slovena. Una parte della popolazione slovena dell’area di confine avrebbe tuttavia continuato ancora a sperare in una futura riannessione di Trieste e Gorizia fino al 1954 e al Memorandum di Londra.

Il costituirsi del movimento nazionale sloveno L’indagine storiografica ha esaurientemente approfondito in questi ultimi decenni tutti i passaggi fondamentali nelle politiche di spartizione dell’area di confine e le posizioni dei vari schieramenti politici e nazionali riguardo alla questione di Trieste. Minore attenzione è stata finora riservata, oltre che alla genealogia delle rivendicazioni territoriali slovene e jugoslave, anche a tutte quelle ambiguità contenute nel programma nazionale sloveno, sin dalla sua iniziale elaborazione nella petizione della Zedinjena Slovenija (Slovenia unita) che per la prima volta formulava la richiesta dell’unione di tutti gli sloveni, residenti in , Carinzia, Stira, nel Goriziano, in Istria e a Trieste in un’unica unità amministrativa. La petizione formulata da Matija Majar (1809-1892), parroco presso la cattedrale di Klagenfurt, ottenne il necessario appoggio soprattutto tra la cerchia di intellettuali sloveni presenti a e a Vienna, impegnati già dagli anni Trenta nella promozione della lingua slovena25, ma anche tra il clero e gli studenti di Klagenfurt, centro amministrativo carinziano abitato anche da popolazione di lingua slovena26. Va notato che i principali promotori del movimento nazionale sloveno, gli intellettuali, gli insegnanti e gli studenti, operavano presso sedi universitarie esterne al territorio abitato dalla popolazione di lingua slovena, a Vienna o a Graz27, o comunque in realtà mistilingue come Klagenfurt, in sloveno Celovec28. A questo proposito va notato che Lubiana, in quanto centro regionale e amministrativo della Carniola, si trovò coinvolta nella mobilitazione a favore del programma politico nazionale sloveno soltanto in un secondo tempo. Trieste, dove gli ambienti favorevoli al movimento nazionale sloveno non parteciparono alla prima fase dell’iniziativa, fu coinvolta nell’azione di sostegno della petizione ancora più tardi e comunque in modo del tutto marginale. Il programma nazionale così come venne formulato da Matija Majar il 17 marzo 1848 si richiamava alla fratellanza tra le nazioni:

Noi sloveni, tedeschi, italiani, ungheresi. Noi tutti abbiamo bisogno dell’altro. Che ognuno viva nella propria regione, come gli è caro. Il tedesco alla tedesca. L’italiano all’italiana, l’ungherese all’ungherese. Noi sloveni, anche in modo convinto, con tutta la forza, chiediamo di vivere a casa alla nostra. Gli sloveni alla slovena29.

25 All’università del capoluogo stiriano venne aperta nel 1812 una cattedra di sloveno, attorno alla quale si mobilitarono già negli anni Trenta alcuni intellettuali che negli anni Quaranta sarebbero divenuti personaggi di primo piano del movimento nazionale sloveno, come ad esempio Janez Ivan Macun, , Davorin Terstenjak. Non meno importanti furono le cerchie di intellettuali formatesi a Vienna attorno a personaggi di rilievo come il direttore della Biblioteca di corte Jernej Kopitar (1780-1844) e il filologo Franc Miklošič (1813-1891), divenuto nel 1848 presidente del circolo Slovenija, costituitosi a Vienna, cfr. Josip Apih, Slovenci in 1848. leto, Ljubljana, Matica Slovenska, 1888, p. 14. 26 Sostenitore dell’idea della nazione slovena fu un gruppo di seminaristi e insegnanti con a capo il futuro vescovo della diocesi levantina, Anton Martin Slomšek (1800-1862) e il sacerdote Andrej Einspieler (1813-1888), ambedue molto impegnati sul fronte dell’alfabetizzazione delle masse contadine. Questa cerchia fondò il Društvo sv. Mohorja (Società di Sant’Ermacora) che in pochi anni sviluppò un’intensa attività editoriale con la quale riuscì a diffondere libri sloveni anche tra i più larghi strati della popolazione slovena, sia nelle aree urbane che in quelle rurali, anche del Litorale. 27 Il circolo Slovenija si costituì a Graz il 16 aprile 1848 e sostenne il programma della Slovenia unita. 28 Il loro profilo combacia del tutto con quello indicato da Miroslav Hroch come caratteristico della prima fase del nation building, quando il principale interesse viene rivolto alle questioni della lingua “nazionale”, dell’arte “nazionale” e del passato “nazionale”; cfr. Mirolav Hroch, Social Preconditions of National Revival in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. 29 Vasilij Melik, Leto 1848 v slovenski zgodovini, in XVII. Seminar Slovenskega jezika, literature in kulture. Zbornik predavanj, Ljubljana, Univerza Edvarda Kardelja v Ljubljani et alii, 1981, p. 10. Vi era molto chiaramente formulata la richiesta dell’equiparazione della lingua slovena e soprattutto dell’unificazione della nazione slovena in un unico regno, dal nome Slovenia, dotato di una propria assemblea regionale. L’appello di Majar risultava però inaccettabile per tutti coloro che volevano preservare lo status quo delle vecchie province e rimanevano convinti sostenitori della nazione dominante, appunto quella tedesca. La rappresentanza politica regionale, così in Carniola come in Stiria, rimase più favorevole alle aspirazioni pangermaniche che non a quelle slovene. Le simpatie che la petizione ottenne, tra gli studenti di filologia slava e i giuristi di Vienna e Graz, tra i giovani avvocati, professionalmente attivi nella Stiria meridionale, in Carniola e nel Litorale, tutti di ispirazione liberali, non erano sufficienti, visto che i deputati all’assemblea costituente, eletti in regioni abitate dalla popolazione di lingua slovena, rimanevano contrari ad ogni unificazione. All’indomani dei moti rivoluzionari del quarantotto la vita politica nelle terre asburgiche non era ancora profilata in senso nazionale. Nelle principali città e cittadine della Carniola, non diversamente che in Stiria meridionale e in alcune parti del Litorale, il ceto medio parlava in tedesco e spesso anche quando vantava origini slovene si assimilava molto velocemente alla popolazione di lingua tedesca, nonché, ma soltanto nelle città della costa, a quella di lingua italiana. Nella vita privata poteva conversare anche in sloveno, specie nei rapporti con la servitù, ma per i contatti epistolari preferiva il tedesco, così come era abituale che anche chi si dichiarava sloveno frequentasse il teatro recitato in tedesco e leggesse la letteratura, scritta o tradotta in tedesco. Del resto non può che risultare significativo che anche coloro che oggi sono annoverati tra i padri della patria slovena, come ad esempio il vescovo Slomšek o il poeta France Prešeren, all’indomani dei moti rivoluzionari del 1848 corrispondessero in tedesco30. Nelle botteghe e nei laboratori i commercianti e gli artigiani passavano dal tedesco alla parlata slovena locale e il bilinguismo veniva praticato da tutti coloro che mantenevano contatti regolari con la popolazione del contado. E’ un dato di fatto che tra gli anni Trenta e Quaranta a sostenere l’insegnamento della lingua slovena nelle scuole della Carniola, della Stiria inferiore, della Corinzia e del Litorale fossero principalmente gli uomini di chiesa31. Inoltre non va dimenticato che in alcune realtà, soprattutto ai confini con la Croazia, l’entusiasmo per la causa slovena coincideva con il sostegno dato al movimento illirico. Tra i firmatari della petizione della Slovenia unita, vi erano anche persone che si dichiaravano di nazionalità croata. Similmente nella cerchia degli intellettuali sloveni attivi a Graz vi erano anche i firmatari della petizione croata nonché sostenitori dell’unione illirica. L’autorevole direttore delle Novice, Janez Bleiweis, intervenuto davanti al consiglio regionale della Carniola a favore della nazione slovena, dichiarò anche la sua contrarietà all’unificazione di tutti gli sloveni in un’unica unità amministrativa. Nondimeno indicativo risulta oggi il fatto che tra i vari distretti in cui erano divise le province abitate dalla popolazione di lingua slovena soltanto quelli di Ptuj e di Kranj non elessero i propri rappresentanti nella dieta di Francoforte. Nel Goriziano e nell’Isontino la soluzione confederativa germanica trovò sostegno anche tra i personaggi molto impegnati sul fronte nazionale sloveno, come ad esempio l’avvocato Karel Lavrič. Secondo Walter Lukan la debolezza costitutiva del movimento nazionale sloveno emerge soprattutto in un quadro comparativo. A differenza dei patrioti slovacchi che riuscirono ad esprimere una rappresentanza politicamente capace di organizzare una manifestazione di massa a sostegno delle loro richieste nazionali, quelli sloveni mancarono di capacità organizzative e come opinion makers operarono in grande isolamento politico e sociale32, e a questo deficit politico iniziale è dovuta probabilmente anche una mancata definizione territoriale della futura Slovenia.

L’invenzione contemporanea di più tradizioni La cerchia, che nel 1848 aderì a Trieste al movimento nazionale sloveno, era numericamente poco consistente. Del resto in una città fedele suddita degli Asburgo il disinteresse per qualunque

30 Mojca Marija Peternel, Nemški časopisi na Slovenskem v revolucionarnem letu 1848, tesi di dottorato, Ljubljana, Filozofska fakulteta, 2004, pp. 10-11. 31 Josip Apih, Slovenci, cit., p. 5. 32 Walter Lukan, Slovenci in Slovaki v revolucionarnih letih 1848/49, in Stane Granda, Barbara Šatej (a cura di), Slovenija 1848- 1998. Iskanje lastne poti, Maribor, Univerza v Mariboru - Zveza zgodovinskih drustev, 1998, pp. 44-51. manifestazione nazionale fu quasi generale e anche i patrioti italiani potevano contare su un’esigua cerchia di persone. Se analizziamo la tipologia dei patrioti sloveni o soltanto genericamente slavi che aderirono a Trieste nell’ottobre 1848 al Slavjanski zbor v Trstu (Il consesso slavo di Trieste), ribattezzato quattro mesi più tardi in Slavjansko društvo (Associazione slava), appuriamo che essi erano i rappresentanti del nascente ceto medio sloveno e del clero e che coltivavano un generico “amor di patria”, quasi più panslavo che non sloveno, e che in pochi appoggiarono tutti i punti del programma della Slovenia unita. Per i 336 soci ordinari e 140 soci corrispondenti del circolo sloveno, tra cui troviamo anche i rappresentanti delle altre comunità slave presenti in città, soprattutto croati e serbi, il principale obiettivo era “risvegliare” dal suo torpore l’attività culturale degli sloveni e degli slavi in generale, entusiasmare per la slovenità e la slavità una base quanto più ampia possibile della popolazione slovena, compresi quanti avevano “tradito” le proprie origini adeguandosi alla lingua e alla cultura della maggioranza italiana. Nel corso dell’Ottocento la popolazione emigrata dalle regioni dell’entroterra del Litorale, della Carniola, la Stiria e dalla Carinzia, nel corso del XIX sec, già nella prima, ma in modo definitivo nella seconda generazione, si assimilava alla maggioranza di lingua italiana, di fatto predominante in città. I passaggi nelle file tedesche furono meno frequenti e per lo più caratteristici dell’alta burocrazia e dell’imprenditoria33. Assai accentuata rimaneva però l’appartenenza regionale. Il sentirsi carniolini, carinziani o stiriani, piuttosto che tedeschi o sloveni, era a Trieste frequente ancora negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto tra i commercianti e gli impiegati statali immigrati in città. Nella prospettiva dei patrioti sloveni che vivevano a Trieste e si sentivano a tutti gli effetti membri di quella comunità nazionale che iniziava a delinearsi in contemporanea con la mobilitazione a favore del programma politico della Slovenia unita, la diffusione della consapevolezza nazionale si configurava come l’unico mezzo efficace in grado di contrastare l’assimilazione nazionale degli emigrati e delle emigrate slovene da parte della maggioranza italiana. Per instillare ai suoi membri un sentimento comune e contemporaneamente legarli alla convinzione che una nazione si fonda sulla lingua, la stampa slovena divenne il principale promotore della “slovenità triestina” e sostenne per decenni la campagna per il riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni sia nell’insegnamento pubblico che nell’amministrazione statale34. Nei decenni successivi di fronte al mancato riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni di Trieste, che la rappresentanza liberalnazionale italiana come forza egemone a livello municipale prolungò fino alla dissoluzione della monarchia, lo schieramento nazionale sloveno organizzatosi intorno alla società politica Edinost elaborò una strategia difensiva centrata sull’idea dell’autoctonia slovena nell’area alto-adriatica. Le argomentazioni a sostegno dell’autoctonia trovarono presto spazio sulla stampa slovena di Trieste, prima sulle pagine dello Slavjanski rodoljub, poi sull’Ilirski primorjan e più tardi sulle pagine dell’Edinost, seguendo per lo più degli schemi argomentativi standardizzati: gli antenati degli sloveni si erano trasferiti nella fascia costiera triestina già durante la preistoria; gli slavi fra i quali andiamo compresi anche noi Sloveni, o gli Illiri nostri antenati vivevano nel Triestino molto prima che Trieste diventasse una colonia romana e cambiasse nome in Tergeste35.

A questo esercizio di attestazione dell’autoctonia della propria etnia su un suolo abitato anche da altri si prestarono numerosi autori di storie patrie, sloveni, italiani, tedeschi, interessati a soddisfare le richieste delle proprie élites nazionali36. L’“invenzione della propria tradizione”, nei termini definiti da Eric John

33 Marino Breschi, Aleksej Kalc, Elisabetta Navarra, La nascita di una città. Storia minima della popolazione di Trieste, secc. XVIII- XIX, in Roberto Finzi, Giovanni Panjek, Storia economica e sociale di Trieste, Trieste, LINT, 2001, pp. 69-273; Marta Verginella, Sloveni a Trieste. Da comunità etnica a minoranza nazionale, ivi, pp. 441-481. 34 Slavjanski rodoljub. Faksimile vseh šestih številk iz leta 1849, Trieste, Založništvo tržaškega tiska, 1971. 35 Nekaj o našem Trstu, in “Ilirski Primorjan”, 4 febbraio 1866. 36 Come ricorda Giorgio Negrelli, gli uomini politici triestini non solo si compiacevano di colorire i loro discorsi con sfoggi di cultura storica, ma fondavano anche la validità delle loro scelte politiche e delle loro pretese sull’appello alla «verità storica»; cfr. Giorgio Negrelli, Al di qua del mito. Diritto storico e difesa nazionale nell’autonomismo della Trieste asburgica, Udine, Del Bianco, 1978, pp. 10-11. Hobsbawm37, permise ai singoli movimenti nazionali in competizione tra di loro di creare una memoria collettiva in grado di attestare la comune appartenenza nazionale. La progettazione del futuro nazionale avvenne anche attraverso l'interpretazione del proprio passato38 e ribadire la continuità della presenza della propria stirpe dall’antichità alla contemporaneità su un territorio abitato anche da un'altra etnia servì nel clima del post-Quarantotto austriaco a rivendicare non soltanto il legame primitivo e naturale della comunità con il suolo ma anche a dimostrare l’estraneità storica e l’”infiltrazione” degli altri39. Nella versione nazionalistica italiana gli slavi, in veste di sloveni o croati, erano rappresentati come usurpatori delle terre “italiane” (come tali venivano trattati anche gli austriaci in quanto rappresentanti dello Stato dominante). In quella slovena invece il ruolo usurpatore veniva assolto principalmente dagli italiani, a cui si negava l’ospitalità in base al “diritto naturale” ricevuto dalla precedenza acquisita nell’insediamento territoriale40. I sostenitori della slovenità di Trieste per respingere i rimproveri di non storicità branditi dai loro oppositori che giuravano sulle radici romane e sulle origini italiane di Trieste, risposero con un’ampia messe di esempi storici che avevano lo scopo di dimostrare la secolare ed ininterrotta presenza della popolazione slava a Trieste e nei suoi dintorni. La fedeltà alle tradizioni si configurava come la principale regola di condotta dei patrioti, che si muovevano nella convinzione che il passato fosse più importante del presente41. A fronte della convinzione che una storia comune valesse infatti a rafforzare i legami tra i sostenitori della stessa nazione con il chiaro intento di rinsaldare le fila della nuova “comunità immaginata”, la narrazione storica divenne l’asse centrale del processo di sensibilizzazione nazionale. Se nel clima postquarantottesco l’obiettivo principale, nel dimostrare la presenza slava nel Triestino prima dell’arrivo dei romani, era quello di attribuire il diritto di autoctonia agli Sloveni triestini, per far sì che gli Italiani fossero di conseguenza collocati nella posizione di foresti42, nei decenni successivi la parola d’ordine del movimento nazionale sloveno fu il cambiamento radicale delle condizioni politiche della città adriatica e dei rapporti nazionali nella regione. La pratica argomentativa utilizzata dall’élite slovena nella seconda metà del XIX secolo non fu molto diversa da quella in uso tra le file della parte avversa, italiana. Entrambe possedevano obiettivi di affermazione nazionale e politica, la differenza stava soltanto nella condizione del destinatario. Mentre i patrioti italiani si arrogarono la condizione di maggioranza al governo, gli sloveni furono invece i portavoce di una minoranza politicamente non riconosciuta che aspirava ad ottenere i diritti linguistici ma anche a modificare i rapporti di forza tra minoranza e maggioranza. Benché sull’assunzione della teoria autoctonista da parte dei patrioti triestini sloveni indubbiamente influì la sua precedente affermazione nei principali circoli sloveni, comprenderemmo difficilmente il suo successo se non tenessimo conto dell’efficacia politica di questa rappresentazione. La raffigurazione epica della realtà primitiva che veniva offerta dal mito della Trieste slovena adempiva ad un bisogno spirituale e nel contempo soddisfaceva le richieste pratiche dei dirigenti nazionali.

37 L’invenzione della tradizione è una delle pratiche portanti della nazionalizzazione della società e quindi di quel processo attraverso il quale gli opinion makers nazionali si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento nelle quali è automaticamente implicita la continuità del passato; cfr. , Terence Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; cfr. anche John Breuilly, Approaches to nationalism, in Gopal Balakrishnan (a cura di), Mapping the Nation, New York - London, Verso, 1996, pp. 156-158. 38 Hans-Ulrich Wehler, Nationalismus. Geschichte, Formen, Folgen, München, Beck, 2001. 39 Hervé Le Bras, Le sol et le sang, Paris, ditions de l'Aube 1994. 40 Su come il diritto di precedenza sul territorio e il diritto di conquista dei territori occupati da vicini “non civilizzati” facciano parte delle retoriche di confine cfr. Rolf Petri, Gerarchie culturali e confini nazionali. Sulla legittimazione delle frontiere nell’Europa dei secoli XIX e XX, in Silvia Salvatici (a cura di), Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2005, pp. 79-99. 41 Benedict Anderson, Le comunità immaginate, Roma, Manifestolibri, 1996 (ed. or. Imagined communities. Reflections on the origin and spread of nationalism, London – New York, Verso, 1983) 42 L’anonimo autore dell’articolo Slovenstvo v Trstu (La slovenità a Trieste), pubblicato il 16 settembre 1866 sulla prima pagina di quello che figurava come il 18o numero dell’Ilirski Primorjan, parte dal presupposto che già lo stesso nome della città è una dimostrazione che gli sloveni si sono trasferiti a Trieste prima delle “genti italiane” contro le quali ora devono lottare, poiché per benemerenza del governo “avevano ottenuto nelle mani l’autorità ed introdotto la lingua italiana nella vita pubblica, nelle scuole e negli uffici comunali”. La convinzione circa l’esistenza di un’età dell’oro slava a Trieste, precedente all’arrivo delle genti italiche, si diffuse tra i patrioti sloveni, soprattutto quelli meno istruiti, grazie all’avallo ottenuto da personaggi influenti del clero triestino, come ad esempio il vescovo di Trieste Matevž Ravnikar e il canonico Mihael Verne43, nonché il giurista Josip Godina-Vrdelski che, quale alto commissario finanziario in pensione, intraprese ricerche di storia patria per portar prove a sostegno dell’origine slovena di Trieste44. Tra gli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, quando gli autori di studi di storia patria, come ad esempio Janez Jesenko, professore di storia e geografia presso il ginnasio triestino tra il 1867 e il 189945, o Simon Rutar, formatosi alla scuola storica di Vienna, respinsero la teoria autoctonista collocando il momento del trasferimento degli slavi alpini nel VI secolo, iniziò ad affermarsi una nuova concezione della “slavità adriatica”; essa non era più vista come un residuo delle glorie passate bensì come il risultato di una lotta lenta e lunga con la romanità46. In un periodo di crescita della società slovena e con l’attenuarsi del processo di assimilazione nazionale nel contesto urbano, la presenza maggioritaria della popolazione italiana non veniva ritenuta più come un ostacolo per l’affermazione della “slovenità adriatica”. Nel 1888 l’Edinost scriveva: “Il destino del popolo sloveno si riconosce sul mare Adriatico! Per gli Sloveni la chiave d’entrata sul mare Adriatico è Trieste! Pertanto se gli Sloveni hanno in loro possesso questa città, se gli imprimono sulla fronte un carattere sloveno, in futuro potranno esercitare un dominio, altrimenti spariranno dal mondo!”47 A questo proposito non è casuale lo spostamento di attenzione effettuato da Rutar per quanto riguarda la storia di Trieste e del Litorale dall’antichità ovvero “da un falso passato glorioso” ai secoli successivi, in cui ebbe inizio il declino della presenza veneziana sulla sponda orientale dell’Adriatico: “In quest’alba della storia la slavità lungo l’Adriatico non suscita più in noi sensazioni malinconiche ed amare”48. L’incremento della popolazione slovena a Trieste, confermato dal censimento statale del 1910 che registrava tra la popolazione di Trieste circa il 30% di persone di lingua d’uso, l’esito delle elezioni all’assemblea nazionale del 1911 in cui l’associazione politica Edinost a Trieste ottenne 10 653 voti49 erano, accanto alla crescita del capitale degli istituti bancari sloveni, segnali di una nuova stagione foriera di importanti cambiamenti. Sebbene l’ascesa sociale, economica e culturale della popolazione slovena avvenuta agli inizi del Novecento non abbia volto l’ago della bilancia politica a suo favore, modificò però il suo atteggiamento nei confronti della città e del suo futuro. Era un dato di fatto, che prima dello scoppio della prima guerra mondiale risiedevano a Trieste più sloveni che non a Lubiana50 e che gli ambienti sloveni politicamente e culturalmente più progressisti trovavano a Trieste il più delle volte i loro principali interlocutori politici ed economici. La fortuna della metafora di Trieste città polmone sloveno, coniata dallo scrittore sloveno Ivan Tavčar, e rafforzata nella sua carica emotiva proprio da un altro scrittore, Ivan Cankar, più volte conferenziere e ospite negli ambienti socialdemocratici sloveni di Trieste51, fu pari alla convinzione, diffusa soprattutto tra i giovani intellettuali sloveni, che senza Trieste non sarebbe potuta nascere una Jugoslavia indipendente e democratica. Soltanto tenendo conto di queste aspirazioni

43 Non è stato ancora approfondito in che misura Matevž Ravnikar e Mihael Verne avessero contribuito da parte slovena a spiegare la storia di Trieste. Il primo, noto rinnovatore e studioso della lingua slovena, a partire dal 1832 fu vescovo della diocesi di Trieste-Capodistria. Il secondo (1797-1861) fu canonico a Trieste, ispettore scolastico e, dopo la morte di Ravnikar nel 1945, anche vicario vescovile. 44 Josip Godina Verdeljski, Opis in zgodovina Tersta in njegove okolice pa se marsikaj druziga o slavjanskih zadevah, Trieste, Tisk Avstrijskega Lloyd, 1872. 45 Janez Jesenko, Občna zgodovina, Ljubljana, Narodna Tiskarna, 1886, p. 30. 46 Simon Rutar, Samosvoje mesto Trst in mejna grofija Istra, Ljubljana, Matica Slovenska, 1896, volume II; cfr. anche Branko Marušič, O Simonu Rutarju in o pisanju slovenske zgodovine, in Simon Rutar, Poknežena grofija Goriška in Gradišèanska, Nova Gorica, Branko, 1997 (ristampa in facsimile dell’edizione originale uscita a Lubiana negli anni 1892 e 1893). 47 Slovani v Trstu nekdaj in danes, in “Edinost”, 15 febbraio 1888. 48 Simon Rutar, Samosvoje, cit., volume II. 49 Un’altra parte consistente dell’elettorato sloveno votava invece per i socialdemocratici. 50 Secondo i dati del censimento del 1910, Lubiana aveva 41.727 abitanti, la popolazione dichiaratasi slovena a Trieste assommava invece a 56.916 abitanti. 51 Ivan Cankar tenne la conferenza dal titolo Očiščenje in pomlajenje (Purificazione e ringiovanimento) nella sala del Ljudski oder di Trieste il 20 aprile 1918; tra il 27 e il 29 aprile ne fu pubblicato il testo dall’organo del partito socialdemocratico Naprej – cfr. Ivan Cankar, Očiščenje in pomlajenje, Ljubljana, Državna založba Slovenije, 1976, pp. 121 e pp. 196-197. coltivate realizzatesi già ai tempi della monarchia asburgica si riesce a comprendere il background sul quale si strutturò l’irredentismo sloveno dopo l’annessione di Trieste e della Venezia Giulia all’Italia e le sostanziali ambiguità che permasero anche negli ambienti cristanosociali per la loro adesione alla Slovenia unita, programma nazionale che non affrontò mai nella sostanza la questione della multietnicità del Litorale ovvero della Venezia Giulia. Gli unici tentativi, fatti in questo senso, furono attuati dapprima negli ambienti socialdemocratici e in seguito in quelli comunisti, ma anche in questi due casi, come si è visto, la capacità di pensare uno spazio abitato dagli altri non ottenne un risultato soddisfacente.