Genealogie Di Confine. Le Rivendicazioni Slovene Su Trieste

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Genealogie Di Confine. Le Rivendicazioni Slovene Su Trieste Marta Verginella* Genealogie di confine. Le rivendicazioni slovene su Trieste Una città, molte narrazioni Trieste è stata definita città cosmopolita, ma anche la città redenta e italianissima, la porta orientale del Regno, la città polmone sloveno o, ancora più recentemente, una città di confine e città ponte, a seconda della prospettiva politica, ideologica, culturale di chi l’ha definita1. Il più delle volte queste stesse definizioni, il cui compito non era semplicemente esaltare quello che veniva dichiarato come essenza stessa della città o come la sua particolare vocazione, sono servite piuttosto a produrre immagini spendibili in contesti ad essa esterni, ma anche a legare il suo presente con il suo passato, o meglio con una certa idea del suo passato, considerato particolarmente funzionale per determinare il futuro di questa città. Gran parte di queste definizioni diedero senso storico alle stesse comunità che le promossero o se ne appropriarono, ma furono anche usate per tracciare una linea sempre più netta tra il “noi” e gli “altri”. In una società eterogenea dal punto di vista linguistico ed etnico, dalla seconda metà dell’Ottocento al centro di processi di omogeneizzazione culturale e politica, identificarsi con la narrazione storica di una delle componenti nazionali cittadine ha significato rafforzare anche la propria appartenenza nazionale. Se nel contesto della storiografia italiana, e in parte anche in quella internazionale, sono oramai ben note le cause dell’irredentismo italiano nei territori austriaci e le ragioni che portarono il governo italiano a stipulare a Londra il 26 aprile 1915 un patto segreto con gli Stati dell’Intesa che assicurò all’Italia, in cambio del suo intervento militare contro l’Austria-Ungheria, la cessione di Gorizia, Trieste, l’Istria e dei porti della Dalmazia settentrionale oltre che del Trentino, assai meno conosciute e studiate sono le tappe pregresse delle rivendicazioni jugoslave su quello stesso territorio di confine, incluso in gran parte dopo la fine della seconda guerra mondiale entro i confini della Jugoslavia di Tito. In questo contributo mi soffermerò inizialmente su alcune modalità che hanno accompagnato i vari cambiamenti del confine, per affrontare poi più nel dettaglio le ragioni che concorsero a includere Trieste nei programmi nazionali sloveni e, dopo la prima guerra mondiale, a farne uno degli obiettivi delle rivendicazioni territoriali jugoslave. Dall’Impero absburgico al Regno d’Italia Tra Sette e Ottocento, da principale porto dell’Impero asburgico, Trieste si trasformò in un importante polo urbano, commerciale e industriale, interessato da vasti flussi migratori provenienti sia dal suo immediato che più lontano entroterra, dell’Impero e del vicino Regno d’Italia. La maggioranza della sua popolazione era di lingua italiana, accanto ad essa vi risiedeva però una cospicua componente di lingua slovena, quest’ultima minoritaria nel centro urbano, maggioritaria invece nei suoi dintorni2. Se si esclude la componente tedesca, le altre comunità di croati, serbi, greci, cechi, polacchi, inglesi, svizzeri erano numericamente meno consistenti, ma fondamentalmente la loro presenza non influì in modo sostanziale sulla dinamica delle rivendicazioni nazionali. Dopo il riconoscimento dei diritti nazionali approvati dallo Stato austriaco con l’Ausgleich del 1867 si instaurò a Trieste uno stato di permanente conflittualità tra il partito liberalnazionale italiano e la rappresentanza politica slovena, riunita nella società politica dell’Edinost (L’unità). La mobilitazione politica fece leva soprattutto sull’articolo 19 della Costituzione, sancente il diritto alla scuola in lingua madre, diritto che le autorità municipali triestine, in mano alla maggioranza italiana, non riconobbero alla popolazione slovena nel centro città. Neppure dopo la fine della prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero, quando furono incluse entro i confini del Regno d’Italia oltre a Trieste, Gorizia, l’Istria, settori del Quarnero e Zara, anche aree del * Docente di Storia contemporanea alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lubiana, Slovenia. 1 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982. 2 Nel 1910 gli sloveni rappresentavano quasi il 30% della popolazione cittadina, mentre il circondario della città era abitato in grande prevalenza da popolazione slovena. Per uno sguardo generale cfr. Marina Cattaruzza, La formazione del proletariato urbano, Torino, Musolini, 1979. Postumiese e della Notranjska3, mantenendo nei confronti della popolazione slovena e croata le prassi di dominio tipiche per uno Stato liberale, e adeguandosi di fatto alle pratiche politiche locali preesistenti. Il divieto dell’insegnamento della lingua minoritaria nelle scuole cittadine fu infatti mantenuto, tanto che l’unica scuola slovena presente in città era privata e gestita dalla Società dei santi Cirillo e Metodio. Quando nel novembre del 1918 le truppe italiane entrarono trionfanti a Trieste, la città cessò di essere il principale porto asburgico. Da capoluogo del Litorale austriaco si trasformò in capoluogo della Venezia Giulia4. Il territorio annesso all’Italia passò sotto l’amministrazione del Governatorato militare dell’esercito italiano, ancor prima che il Trattato di pace firmato a Rapallo (12 novembre 1920) sancisse il confine tra il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (Regno SHS, dal 1929 Regno di Jugoslavia), da poco costituitosi5. L’acquisizione della cittadinanza italiana fu automatica per la popolazione di nazionalità italiana, più tortuosa, a volte persino impossibile, fu invece per le persone appartenenti alla comunità di lingua tedesca o di quella slovena o ad altre nazionalità dell’ex Impero. Dopo il 1918 l’intera area nordadriatica fu coinvolta da vasti fenomeni migratori. Trieste divenne meta appetibile per gli immigrati (circa 50.000) provenienti dalle varie province del Regno d’Italia, attratti dalla possibilità d’impiego sopravvenuta dopo la partenza, dovuta spesso al licenziamento o all’espulsione dei cittadini austriaci di lingua tedesca, ma anche slovena e croata6. Tra il 1919 e il 1922 emigrarono dalla Venezia Giulia nel nuovo Stato jugoslavo circa 28.000 fra sloveni e croati. Entro il 1934 il loro numero salì a 50.000, per raggiungere all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale circa le 105.000 persone7. Nonostante questi consistenti flussi migratori, i rapporti etnici nella nuova regione italiana non furono radicalmente sovvertiti; la popolazione slovena e croata in regione superava quella italiana8. Nemmeno la politica di snazionalizzazione della popolazione minoritaria slovena – in Istria anche di quella croata – attuata dal regime fascista ebbe modo di portare a compimento la “bonifica etnica”9, strettamente funzionale a trasformare questa regione, attraverso l’esclusione delle presenze nazionali minoritarie, in una sorta di cinta protettiva dai popoli balcanici e, nel contempo, di “spalto” all’evenienza pronto ad aggredire contestualmente al disegno imperialista italiano nei Balcani10. 3 Sia il Pustumiese che la Notranjska erano abitate da popolazione slovena; soltanto nei piccoli centri come Postojna, Ilirska Bistrica e Ajdovščina risiedevano anche alcune famiglie tedesche e italiane. 4 Termine coniato dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli per identificare i territori austriaci ad est dell’Isonzo abitati da popolazione italiana. 5 Sulle trattative di pace, sulle richieste italiane e jugoslave cfr. Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il mulino, 2007, pp. 117-128. 6 Fenomeni di emigrazione e immigrazione interessarono anche altre aree ex asburgiche. 7 Secondo recenti ricerche questa cifra, riportata nel 1936 da Lavo Čermelj in Life and Death Struggle of a National Minority. The Jugoslavs in Italy (Ljubljana, Štrukelj), è sovrastimata, poiché comprende tanto i 70.000 profughi emigrati in Jugoslavia, quanto le 5.000 persone trasferitesi in altri paesi europei, nonché i 30.000 immigrati in America Latina, non classificati però in base alla loro appartenenza nazionale (Aleksej Kalc, L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre ed il suo ruolo politico, in “Annales. Annali di studi istriani e mediterranei” anno VI, n° 8, 1996, pp. 28-29; Aleksej Kalc, L’emigrazione slovena e croata, in Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, , Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1997, p. 538. 8 Secondo i dati del censimento del 1910, a Trieste e nel Litorale austriaco risiedevano 326.282 persone classificate con lingua d’uso slovena (circa il 58% dell’intera popolazione), mentre secondo il censimento italiano del 1921 il loro numero era diminuito a 271.305; cfr. Sandi Volk, Gli spostamenti di popolazione italiane, slovene e croate al confine italiano tra fascismo e dopoguerra, in Lorenzo Bertucelli, Mila Orlić, Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento, Verona, Ombre Corte, 2008. 9 L’imposizione dell’italianità in un territorio che sotto l’Austria aveva visto riconosciuta la propria composizione multi- etnica e multilingue, avvenne con la chiusura delle scuole slovene e croate, con l’italianizzazione dei nomi e cognomi sloveni o croati (in taluni casi anche di quelli d’origine tedesca) e con la chiusura di circoli culturali, sociali e sportivi, banche e casse di risparmio, appartenenti alla minoranza slovena e croata. Lo smantellamento
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