ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO Rivista di studi giuridici e politici

2015 • ANNO XXXVI 2 aprile/giugno

LE POLITICHE TERRITORIALI. MODELLI ED ESPERIENZE DIRETTORE DELLA RIVISTA COMITATO DI REDAZIONE Gianluca Gardini Marina Caporale Marzia De Donno COMITATO SCIENTIFICO Giulia Massari Gianluca Gardini (Direttore) Marcos Almeida Cerreda Brunetta Baldi Francesco Bilancia Stefano Civitarese Matteucci Justin Orlando Frosini Condizioni di abbonamento Alfredo Galán Galán La quota di abbonamento Giancarlo Gasperoni alla Rivista per il 2015 Tomaso Francesco Giupponi è di € 116,00 da versare Peter Leyland sul c.c. postale n. 31666589 Marco Magri intestato a Maggioli s.p.a. Andrea Morrone – Periodici, Via del Carpino, 8 – 47822 Santarcangelo Alessandra Pioggia di Romagna (RN). Giuseppe Piperata La Rivista è disponibile Claudia Tubertini nelle migliori librerie. Il prezzo di vendita per singoli numeri è di € 25,00. REDAZIONE E GESTIONE SITO WEB Il prezzo per ciascun fascicolo presso Regione Emilia-Romagna arretrato è di € 29,00. Servizio innovazione e semplificazione amministrativa I prezzi suindicati si intendono Viale Aldo Moro, 52 – 40127 Bologna Iva inclusa. Tel. 051 5275953 La quota di abbonamento E-mail: [email protected] alla Rivista in formato digitale Sito web: www.regione.emilia-romagna.it/affari–ist/federalismo per il 2015 è di € 82 + Iva. L’abbonamento decorre REFERENTI REGIONE EMILIA-ROMAGNA dal 1° gennaio Francesca Paron con diritto al ricevimento [email protected] dei fascicoli arretrati ed avrà validità per un anno. Francesca Palazzi La Casa Editrice comunque, [email protected] al fine di garantire la continuità del servizio, in mancanza EDITORE di esplicita revoca, Maggioli Editore presso c.p.o. Rimini, da comunicarsi in forma scritta via Coriano, 58 – 47924 Rimini entro il trimestre seguente tel. 0541.628111 – fax 0541.622100 alla scadenza dell’abbonamento, Maggioli Editore è un marchio di Maggioli s.p.a. si riserva di inviare il periodico Servizio Abbonamenti: tel. 0541.628779 anche per il periodo successivo. Sito web: www.maggioli.it La disdetta non è comunque E-mail: [email protected] valida se l’abbonato non è Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001:2008 in regola con i pagamenti. Il rifiuto o la restituzione dei fascicoli della Rivista Tutti i diritti riservati – È vietata la riproduzione, anche parziale, non costituiscono disdetta del materiale pubblicato senza autorizzazione dell’Editore dell’abbonamento a nessun effetto. STAMPA I fascicoli non pervenuti possono Stabilimento Maggioli s.p.a. – Santarcangelo di Romagna (RN) essere richiesti dall’abbonato non oltre 20 giorni dopo la ricezione Maggioli s.p.a. è iscritta al registro operatori della comunicazione del numero successivo.

Pubblicazione registrata al Tribunale di Bologna il 4 luglio 1980, n.4824 Direttore responsabile: Piero Venturi INDICE

SAGGI E ARTICOLI

313 Il procedimento legislativo di fusione di Comuni nelle leg- gi regionali Rita Filippini e Alessandra Maglieri

331 Un nuevo instrumento para el redimensionamiento de la planta municipal española: el convenio de fusión entre ayuntamientos Marcos Almeida Cerreda

357 La articulación intermunicipal en Argentina. Origen, balan- ce y recomendaciones Enzo Ricardo Completa

381 Las Áreas metropolitanas en el derecho español: modelos vigentes e incidencia de la crisis económica Francisco Toscano Gil

423 Crisi economica e finanziaria e sistema multi-livello tede- sco: alcuni cenni critici sulle politiche dell’austerità Alexander Grasse

NOTE E COMMENTI

447 Fusione e incorporazione alla luce della sentenza n. 50 del 2015 della Corte costituzionale Cosimo Tommasi

461 Dal modello neoparlamentare a quello presidenziale? As- sessori esterni e potere decisionale dei Presidenti nelle nuove Giunte delle Regioni a Statuto ordinario Brunetta Baldi 312 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

OSSERVATORIO REGIONALE

477 Fusioni di Comuni in Emilia-Romagna: stima dei vantag- gi sulla base dell’analisi dei dati dei bilanci consuntivi e del censimento del personale del 2013 Stefano Ramazza

497 La specificità della Provincia di Belluno e i rapporti con la Regione del Veneto: brevi considerazioni sull’art. 15 del nuovo Statuto regionale Luca Dell’Osta

521 Table of contents and abstracts

525 Note sugli autori SAGGI E ARTICOLI 313

Il procedimento legislativo di fusione di Comuni nelle leggi regionali Rita Filippini e Alessandra Maglieri*

L’istituto della fusione di Comuni sta vivendo un momento di particolare vigo- re. Numerosi Comuni italiani hanno intrapreso negli ultimi anni percorsi di fusione e le Regioni, competenti in materia per espressa previsione costituzio- nale, stanno mettendo a punto la rispettiva normativa volta a regolare il pro- cedimento legislativo di fusione. Le Regioni, in particolare, sono competenti ad adottare: leggi regionali di disciplina generale del procedimento di formazione delle singole leggi di fusione; leggi regionali di disciplina del referendum con- sultivo territoriale; leggi regionali che dispongono e regolano la singola fusione. Il contributo, dopo avere presentato il quadro delle 61 fusioni già realizzate in Italia e dopo avere richiamato le norme statali di riferimento, descrive il genera- le procedimento legislativo di fusione attraverso la disamina della legislazione regionale, evidenziando gli aspetti peculiari di cui le Regioni si sono dotate.

1. Introduzione: le fusioni in Italia Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’incremento dei processi di fusione che oggi fanno contare ben 61 nuovi Comuni nati a seguito di altrettanti percorsi di fusione. Alle nove fusioni realizzate tra il 1994 ed il 20111 se ne sono aggiunte molte altre dal 2013 a luglio 20152 e molti processi sono tuttora in cor- so in varie Regioni.

* Il presente contributo rappresenta una rielaborazione della relazione svolta in occasione del Seminario organizzato grazie alla collaborazione tra Spisa e Anci – Accademia dell’autonomia, tenutosi il 25 marzo 2015 presso la Spisa. Rita Filippini ha redatto i paragrafi 1, 2, 3, 3.1 e 3.2. Alessandra Maglieri ha redatto i paragrafi 3.3, 3.4, 4 e 5. (1) Si tratta dei Comuni di: Porto Viro (l.r. Veneto 49/1994); Due Carrare (l.r. Veneto 14/1995); Mon- tiglio Monferrato (l.r. Piemonte 65/1997); Mosso (l.r. Piemonte 32/1998); San Siro (l.r. Lombardia 29/2002); Campolongo Tapogliano (l.r. Friuli-Venezia Giulia 8/2008); Ledro (l.r. Trentino-Alto Adige 1/2009); Comano Terme (l.r. Trentino-Alto Adige 7/2009); Gravedona ed Uniti (l.r. Lombardia 1/2011). (2) Si tratta dei Comuni di: Rivignano Teor (l.r. Friuli-Venezia Giulia 1/2013); Montoro (l.r. Campa- nia 16/2013); Quero Vas (l.r. Veneto 34/2013) Valsamoggia (l.r. Emilia-Romagna 1/2013); Fiscaglia (l.r. Emilia-Romagna 18/2013); Poggio Torriana (l.r. Emilia-Romagna 19/2013); Sissa Trecasali 314 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Le Regioni finora maggiormente coinvolte da percorsi di fusione sono, per quanto riguarda le Regioni a statuto ordinario: Lombardia con 12 fusioni concluse; Toscana con 8 fusioni concluse; Emilia-Romagna con 5 fusioni concluse; Veneto e Piemonte con 4 fusioni concluse; Marche con 2 fusioni concluse; Campania con una sola fusione conclusa3. Alle 36 fusioni portate a termine nelle Regioni a statuto ordinario si aggiun- gono le altre 25 fusioni concluse in Regioni a statuto speciale e, precisamen- te: 22 fusioni nel Trentino-Alto Adige e 3 fusioni nel Friuli-Venezia Giulia. Nella maggior parte dei casi, le fusioni hanno portato all’istituzione di nuovi Comuni di modeste dimensioni demografiche, fatte salve un paio di situazioni nelle quali è stata raggiunta la soglia tra i 20.000 e i 30.000 abitanti4, e altre 5 soltanto hanno istituito Comuni con popolazione su- periore ai 10.000 abitanti5.

(l.r. Emilia-Romagna 20/2013); Figline e Incisa Valdarno (l.r. Toscana 31/2013); Castelfranco Pian- discò (l.r. Toscana 32/2013); Fabbriche di Vergemoli (l.r. Toscana 43/2013); Scarperia e San Piero (l.r. Toscana 67/2013); Crespina Lorenzana (l.r. Toscana 69/2013); Casciana Terme Lari (l.r. Toscana 68/2013); Pratovecchio Stia (l.r. Toscana 70/2013); Trecastelli (l.r. Marche 18/2013);Vallefoglia (l.r. Mar- che 47/2013); Sant’Omobono Terme (l.r. Lombardia 2/2014); Val Brembilla (l.r. Lombardia 3/2014); Bellagio (l.r. Lombardia 4/2014); Colverde (l.r. Lombardia 5/2014); Verderio (l.r. Lombardia 6/2014); Cornale e Bastida (l.r. Lombardia 7/2014); Maccano con Pino e Veddasca (l.r. Lombardia 8/2014); Borgo Virgilio (l.r. Lombardia 9/2014); Tremezzina (l.r. Lombardia 10/2014); Longarone (l.r. Veneto 9/2014); Predaia (l.r. Trentino-Alto Adige 1/2014); Valdaone (l.r. Trentino-Alto Adige 2/2014); San Lo- renzo Dorsino (l.r. Trentino-Alto Adige 3/2014); Valvasone Arzene (l.r. Friuli-Venezia Giulia 20/2014); Sillano Giuncugnano (l.r. Toscana 71/2014); La Valletta Brianza (l.r. Lombardia 1/2015); Pieve di Bo- no-Prezzo (l.r. Trentino-Alto Adige 1/2015); Dimaro Folgarida (l.r. Trentino-Alto Adige 2/2015);Ventas- so (l.r. Emilia-Romagna 8/2015); Altavalle (l.r. Trentino-Alto Adige 6/2015); Altopiano (l.r. Trentino-Al- to Adige 7/2015); Amblar-Don (l.r. Trentino-Alto Adige 8/2015); Borgo Chiese (l.r. Trentino-Alto Adige 9/2015); Borgo Lares (l.r. Trentino-Alto Adige 10/2015); Castel Ivano (l.r. Trentino-Alto Adige 11/2015); Cembra Lisignago (l.r. Trentino-Alto Adige 12/2015); Contà (l.r. Trentino-Alto Adige 13/2015); Ma- druzzo (l.r. Trentino-Alto Adige 14/2015); Porte di Rendena (l.r. Trentino-Alto Adige 15/2015); Primie- ro San Martino di Castrozza (l.r. Trentino-Alto Adige 16/2015); Sella Giudicarie (l.r. Trentino-Alto Adi- ge 17/2015); Tre Ville (l.r. Trentino-Alto Adige 18/2015); Vallelaghi (l.r. Trentino-Alto Adige 19/2015); Ville d’Anaunia (l.r. Trentino-Alto Adige 20/2015); Borgomezzavalle (l.r. Piemonte 16/2015); Lessona (l.r. Piemonte 17/2015).

(3) Per una panoramica delle fusioni concluse fino al 1° gennaio 2014, si veda G. Marinuzzi e W. Tortorella, Lo stato dell’arte delle fusioni di Comuni in Italia, in Amministrare, 1, 2014, p. 149 ss. (4) I due casi sono il Comune di Valsamoggia e il Comune di Figline e Incisa Valdarno che raggiungono, al 1° gennaio 2015 secondo i dati Istat, una popolazione, rispettivamente, pari a 30.362 abitanti e 23.641 abitanti. (5) Sono i Comuni di: Porto Viro con 14.591 abitanti; Scarperia e San Piero con 12.158 abitanti; Val- lefoglia con 15.029 abitanti; Borgo Virgilio con 14.788 abitanti; Montoro con 19.612 abitanti. SAGGI E ARTICOLI 315

Alla luce di tali dati, le fusioni, dunque, vengono considerate come stru- mento per rimediare all’inadeguatezza dei piccoli Comuni, ma possono rappresentare anche un importante volano per lo sviluppo dei territori.

2. Le norme statali e le norme regionali sul procedimento di fusione La fusione di Comuni rappresenta una ipotesi peculiare di istituzione di nuovo Comune e di modifica di confini comunali e trova discipli- na nell’art. 133, comma 2, della Costituzione, ai sensi del quale «la Re- gione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni»6. Ai sensi dell’art. 15, comma 1, d.lgs. 267/2000 (Testo unico enti locali), la procedura da seguire per l’approvazione delle leggi regionali di mo- difica dei confini comunali è contenuta in una legge regionale ad hoc. Per la fusione di Comuni occorre, dunque, una legge regionale specifi- ca, emanata nel rispetto della legge regionale generale sul procedimen- to, e preceduta dalla consultazione delle popolazioni interessate che, a sua volta, è disciplinata dalla normativa regionale appositamente pre- vista. Sulla base della legge regionale generale sul procedimento viene ema- nata la legge regionale istitutiva di un nuovo Comune, c.d. legge-prov- vedimento, alla quale è riconosciuta la potestà di disporre direttamen- te sulla specifica situazione derivante dalla fusione di preesistenti Co- muni7.

(6) Tale norma non risulta modificata dal disegno di legge costituzionale A.S. 1429-B «Dispo- sizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamen- tari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione», approvato, in prima deliberazione, dal Senato e modificato dalla Camera dei deputati e ora all’esame della Commissione Affari costitu- zionali del Senato. Per la disamina della norma costituzionale in oggetto, si vedano: E. Rotelli, Commento all’art. 133, in G. Branca e A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzio- ne, Zanichelli, 1990, p. 204 ss.; E. Ferioli, Commento all’art. 133, in Commentario alla Costitu- zione Italiana, Utet, 2006, p. 2548 ss.; C. Mainardis, Commento all’art. 133, in S. Bartole e R. Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Cedam, 2008, p. 1144 ss.

(7) Cfr. L. Vandelli, E. Barusso, Commento all’art. 15, d.lgs. n. 267/2000, in L. Vandelli, E. Barus- so (a cura di), Autonomie locali: Disposizioni generali, Soggetti, Commento, Parte I, Titoli I-II, artt. 1-35, Maggioli, 2004, p. 681 ss., spec. p. 684. 316 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Dunque, la legge statale non dispone direttamente, ma rinvia alla legge regionale la disciplina del procedimento legislativo di fusione. A livello regionale si possono quindi menzionare tre diversi ambiti di intervento: a) leggi regionali di disciplina generale del procedimento di formazione delle singole leggi istitutive di nuovi Comuni; b) leggi re- gionali di disciplina dello speciale referendum consultivo territoriale; c) leggi regionali provvedimentali che concretamente dispongono e re- golano la singola fusione. Ciascuna Regione, sulla base dei principi discendenti dall’art. 133, com- ma 2, Cost. e dall’art. 15, comma 1, d.lgs. 267/2000, si è dotata di una disciplina generale sul procedimento che conduce alla fusione8, non- ché di regole per lo svolgimento del referendum delle popolazioni in- teressate9. La legislazione regionale, più volte rivista mano a mano che i processi di fusione si sono concretizzati, presenta alcuni tratti comuni e altri profili peculiari che, nell’insieme, consentono di delineare lo sche- ma generale del procedimento legislativo di fusione.

3. Le fasi del procedimento legislativo di fusione Le principali fasi del procedimento legislativo di fusione, che ricorrono in tutte le leggi regionali sul procedimento legislativo, sono in linea di massima: 1) esercizio della iniziativa legislativa; 2) giudizio preliminare di meritevolezza che culmina nella decisione di deliberare o meno l’indizio- ne del referendum, definendo quesito e ambito territoriale; 3) svolgimen- to del referendum e presa d’atto dei risultati; 4) decisione definitiva sul- la legge di fusione; a cui fa seguito una fase 5) dedicata all’istituzione del nuovo Comune e alle successive prime elezioni dei suoi organi. Occorre precisare, però, che le motivazioni della fusione, i vantaggi at-

(8) Le leggi regionali generali sul procedimento legislativo di fusione sono: l.r. Emilia-Romagna 24/1996; l.r. Lombardia 29/2006; l.r. Marche 10/1995; l.r. Piemonte 51/1992; l.r. Toscana 68/2011; l.r. Veneto 25/1992; l.r. Campania 54/1974; l.r. Lazio 19/1980; l.r. Umbria 14/2010; l.r. Abruzzo 143/1997; l.r. Liguria 12/1994; l.r. Puglia 26/1973 e l.r. 34/2014; l.r. Calabria 15/2006; l.r. Basilica- ta 42/1993; l.r. Molise 35/1975; l.r. Friuli-Venezia Giulia 5/2003; l.r. Trentino-Alto Adige 29/1963. (9) Le leggi regionali sulla disciplina del referendum sono: l.r. Emilia-Romagna 34/1999; l.r. Lombardia 29/2006 e l.r. 34/1983; l.r. Marche 18/1980; l.r. Piemonte 4/1973; l.r. Toscana 62/2007; l.r. Veneto 1/1973; l.r. Campania 25/1975; l.r. Lazio 19/1980; l.r. Umbria 14/2010; l.r. Abruzzo 44/2007; l.r. Liguria 44/1977; l.r. Puglia 27/1973; l.r. Calabria 13/1983; l.r. Basilicata 42/1993; l.r. Molise 35/1975; l.r. Trentino-Alto Adige 16/1950. SAGGI E ARTICOLI 317

tesi, le possibili criticità, il loro esame calato nello specifico contesto ter- ritoriale di riferimento alla luce delle sue caratteristiche demografiche, economiche e territoriali sono l’oggetto di una valutazione a monte, compiuta prima di attivarsi da chi promuove l’iniziativa legislativa e so- prattutto dalle amministrazioni comunali interessate, per assumere una decisione matura e consapevole sull’opportunità o meno di dare il via ad un percorso legislativo di fusione. Tale valutazione a monte si traduce molto spesso nell’elaborazione di uno studio di fattibilità che può essere elaborato dalle amministrazioni comunali al loro interno o affidato ad una ditta esterna e che, comun- que, non rappresenta una fase formalizzata del procedimento legislati- vo di fusione. Le Regioni sostengono i Comuni in queste attività di analisi preliminare e li coadiuvano in vari modi: ad esempio, in Emilia-Romagna, sono ero- gati contributi per studi di fattibilità commissionati a professionisti ester- ni; è garantita un’attività di affiancamento diretto ai Comuni mettendo a loro disposizione dati ed indicatori territoriali, economici, sui servizi, imprese, nonché sui bilanci e personale degli enti, tratti da siti statistici regionali aggiornati e certificati; infine, sono previsti contributi per per- corsi partecipativi propedeutici alla fusione10.

3.1. Iniziativa legislativa Considerato che il procedimento di cui si tratta è un procedimento le- gislativo, che culmina con l’adozione di una legge regionale che dispo- ne l’istituzione di un nuovo Comune e la contestuale soppressione di preesistenti Comuni, la prima fase dell’iter è inevitabilmente quella del- la iniziativa legislativa. Di norma le leggi regionali generali sul procedimento richiamano il

(10) L’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna nel 2013 e 2014, nell’ambito delle iniziative previste dalla l.r. 3/2010 «Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali», ha approvato bandi finalizzati a finanziare progetti di partecipazione dedicati ai percorsi di fusioni di Comu- ni. A tali bandi hanno aderito varie amministrazioni comunali coinvolte in percorsi di fusione, allo scopo di progettare e realizzare progetti di partecipazione dei cittadini, per accompagnare le comunità nella condivisione del percorso di fusione dei Comuni e, in vari casi, sono stati an- che creati siti ufficiali dei progetti di fusione in corso. Sul punto si veda https://partecipazione. regione.emilia-romagna.it/tecnico-di-garanzia. 318 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

proprio Statuto regionale, in base al quale l’iniziativa appartiene: ai sin- goli consiglieri regionali; alla Giunta regionale; a Consigli provinciali o Consigli comunali che rappresentino un certo numero di abitanti; ad un certo numero di elettori che esercitano l’iniziativa popolare. Scorrendo gli Statuti regionali con riguardo ai soggetti abilitati, si no- tano alcune differenziazioni sia legate al numero di abitanti necessario per esercitare l’iniziativa, sia con riguardo ai soggetti che, in alcuni ca- si, includono anche i Consigli delle Unioni dei Comuni o la Città metro- politana. A titolo esemplificativo: in Emilia-Romagna sono 5.000 elettori e uno o più Consigli comunali con popolazione di almeno 50.000 abi- tanti11; in Veneto sono 7.000 elettori, singoli Consigli dei Comuni capo- luogo di Provincia e delle Città metropolitane, Consigli comunali con 20.000 abitanti12; in Lombardia sono 5.000 elettori, Consigli comunali in numero non inferiore a 5 o con popolazione complessiva di 25.000 elettori13; in Piemonte 8.000 elettori, Consigli comunali in numero non inferiore a cinque, oppure uno o più Comuni rappresentanti non meno di 25.000 elettori14; nelle Marche 5.000 elettori, Consigli comunali in nu- mero non inferiore a 5, Consigli delle Unioni dei Comuni che compren- dono almeno 5 Comuni15; in Lazio 10.000 elettori, Consigli comunali in numero non inferiore a 5 che rappresentino congiuntamente una popo- lazione di almeno 10.000 abitanti16; in Toscana 5.000 elettori, 3 Consigli comunali, Città metropolitana17. Le leggi regionali che regolano il procedimento di fusione normalmen- te prevedono una particolare forma di iniziativa legislativa della Giunta, esercitata “per conto” delle comunità interessate18. In sostanza, i Comu-

(11) Art. 18, comma 2, Statuto dell’Emilia-Romagna, approvato con l.r. 13/2005. (12) Art. 20, comma 2, Statuto del Veneto, approvato con l.r. 1/2012. (13) Art. 34, comma 1, Statuto della Lombardia, approvato con l.r. 1/2008. (14) Artt. 74, comma 2 e 75, comma 1, Statuto del Piemonte, approvato con l.r. 1/2005. (15) Art. 30, comma 1, Statuto delle Marche, approvato con l.r. 1/2005. (16) Art. 37, comma 1, Statuto del Lazio, approvato con l.r. 1/2004. (17) Art. 74, comma 1, Statuto della Toscana dell’11 febbraio 2005. (18) Ad esempio si vedano art. 8, comma 2, l.r. Emilia-Romagna 24/1996; art. 7, commi 3 e 3-bis, l.r. Lombardia 29/2006, con la peculiarità lombarda di avere scandito termini precisi per l’inte- SAGGI E ARTICOLI 319

ni interessati presentano un’istanza alla Giunta regionale (comprensiva delle rispettive deliberazioni consiliari approvate con maggioranze qua- lificate) chiedendole di esercitare per loro l’iniziativa legislativa. Questa è stata di gran lunga la modalità di esercizio della iniziativa legislativa più utilizzata in tutti i percorsi di fusione sin qui intrapresi. Si segnala la modalità di iniziativa della Giunta prevista dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, secondo cui la Giunta regionale si fa promotrice della fusione di Comuni con lo strumento del Programma annuale delle fusioni di Comuni19. Quando il Programma viene approvato in via de- finitiva, la Giunta assume l’iniziativa legislativa (ai sensi dell’art. 17, l.r. 5/2003) su ogni singolo progetto di fusione contenuto nel Programma20.

3.2. Giudizio preliminare di meritevolezza sulla fusione Dopo l’approvazione del progetto di legge di fusione, la Giunta regio- nale lo presenta al Consiglio regionale/Assemblea legislativa, che deve svolgere un preliminare giudizio di meritevolezza del processo di fusio- ne, ai fini dell’ulteriore prosecuzione del procedimento legislativo. Tale giudizio preliminare può culminare con l’adozione, da parte del Con- siglio regionale/Assemblea legislativa, della deliberazione di indizione del referendum consultivo delle popolazioni interessate. Questa fase preliminare è caratterizzata da un’attività istruttoria procedi- mentale svolta dalla competente Commissione consiliare/assembleare, la quale deve acquisire il parere delle Province interessate21 e svolgere ogni atto istruttorio, comprese audizioni pubbliche, in base al quale for- mulare una relazione al Consiglio/Assemblea, affinché questa possa de- cidere circa l’esistenza dei requisiti a fondamento della fusione. Non si

ro procedimento legislativo di fusione; art. 8, comma 3, l.r. Marche 10/1995; art. 2-bis, l.r. Pie- monte 51/1992; art. 4, comma 3, l.r. Veneto 25/1992; art. 6-bis, l.r. Liguria 12/1994, con la pe- culiarità ligure per cui l’istanza viene presentata all’Ufficio di Presidenza del Consiglio regiona- le e non alla Giunta. (19) Cfr. art. 8, l.r. Friuli-Venezia Giulia 26/2014. (20) Con la deliberazione della Giunta regionale n. 1467 del 22 luglio 2015 sono stati adottati direttive ed indirizzi per l’adozione del primo Programma annuale delle fusioni. V.: http://auto- nomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/fusioni-comuni/Programma/#n0. (21) Si segnala il recente intervento della Regione Emilia-Romagna, che ha eliminato l’obbligo di acquisire il parere della Provincia interessata: si veda art. 9, comma 2, l.r. 30 luglio 2015, n. 13. 320 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

tratta di una valutazione sul progetto di legge, che non viene esaminato puntualmente, bensì di un giudizio sulla fusione in sé. Dunque, generalmente la decisione sulla indizione della consultazio- ne referendaria spetta al Consiglio/Assemblea legislativa, a seguito della presentazione di un progetto di legge da parte della Giunta re- gionale. Tuttavia, negli ordinamenti regionali, si segnalano alcuni casi in cui il referendum è indetto prima di presentare (o a prescindere dal presen- tare) il progetto di legge di fusione. Così, ad esempio: in Umbria, do- ve se l’esito del referendum è favorevole, entro 60 giorni dai risultati, il Presidente della Regione propone al Consiglio il disegno di legge di fu- sione. Se l’esito è negativo rimane la facoltà di presentarlo22; analoga di- sciplina in Abruzzo, dove l’istanza delle amministrazioni comunali alla Giunta regionale è presentata affinché questa proponga al Consiglio re- gionale di indire il referendum23; in Liguria, dove il Consiglio regionale, se ritiene proponibile l’iniziativa, procede all’indizione del referendum e, con la stessa deliberazione di indizione, affida alla Giunta regionale l’incarico di elaborare entro 30 giorni il disegno di legge24; in Friuli-Ve- nezia Giulia, dove la Giunta regionale è tenuta a presentare al Consiglio il disegno di legge di fusione entro 60 giorni dalla proclamazione dei risultati del referendum25.

3.3. Referendum consultivo delle popolazioni interessate La consultazione delle popolazioni interessate è una fase obbligatoria all’interno del procedimento legislativo di fusione, per espressa previ- sione costituzionale. Come ricordato, infatti, l’art. 133, comma 2 della Costituzione impone alla Regione di sentire le popolazioni interessate prima di istituire un nuovo Comune o modificare le circoscrizioni co- munali. La Corte costituzionale ha in più occasioni ribadito che il refe- rendum rappresenta la modalità di consultazione praticabile e ricondu-

(22) Cfr. art. 48, commi 2 e 3, l.r. Umbria 14/2010. (23) Cfr. art. 30, commi 2 e 3, l.r. Abruzzo 44/2007. (24) Cfr. art. 7, l.r. Liguria 12/1994. (25) Cfr. art. 19, comma 2, l.r. Friuli-Venezia Giulia 5/2003. SAGGI E ARTICOLI 321

cibile alla competenza regionale e deve riguardare sia i confini del nuo- vo Comune che il nome26. Se il referendum è un passaggio obbligatorio, non è però vincolante, avendo natura consultiva con l’obiettivo di rappresentare al legislato- re regionale qual è la volontà delle popolazioni interessate, prima che venga assunta la decisione finale sulla fusione. Ciascuna Regione ha una propria disciplina speciale del referendum con- sultivo per le modifiche territoriali e specie nell’epoca recente, in conco- mitanza con l’intensificarsi dei processi di fusione, le diverse discipline sono state oggetto, più e più volte, di modifiche ed aggiornamenti. Sebbene il referendum abbia valore consultivo, alcune leggi regionali hanno deciso di “autovincolarsi” stabilendo quorum e attribuendo effet- ti vincolanti agli esiti referendari. Le discipline regionali possono essere suddivise in tre tipologie: in alcuni casi sono stabiliti un quorum par- tecipativo dei votanti sugli aventi diritto e un quorum deliberativo dato dai voti favorevoli sui votanti; in altri casi è previsto il solo quorum deli- berativo; in altri casi ancora, invece, vige l’assenza di qualsiasi quorum. Nella prima tipologia che prevede un quorum partecipativo e un quo- rum deliberativo rientrano le Regioni Liguria27, Umbria28, Calabria29, Trentino-Alto Adige30, Molise31. Alla seconda tipologia, che contempla il solo quorum deliberativo, afferiscono le Regioni Abruzzo32, Veneto33,

(26) Per una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale sul tema, si rinvia al precedente contributo pubblicato in questa stessa Rivista: A. Maglieri, La Valle del Samoggia verso la fusio- ne, in questa Rivista, Quaderni, 1, 2012, p. 99 ss., spec. p. 114 ss. (27) Art. 42, comma 1, l.r. Liguria 44/1977. (28) Art. 48, comma 1, l.r. Umbria 14/2010. (29) Art. 34, comma 2, l.r. Calabria 13/1983. (30) Art. 31-bis, l.r. Trentino-Alto Adige 16/1950. (31) Art. 14, comma 2, l.r. Molise 35/1975. (32) Art. 30, comma 1, l.r. Abruzzo 44/2007. (33) Art. 6, comma 5-bis, l.r. Veneto 25/1992. 322 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Piemonte34, Lazio35, Friuli-Venezia Giulia36, Lombardia37 (con la precisa- zione di cui si dirà di seguito). Infine, le Regioni che hanno scelto l’as- senza di qualsiasi tipo di quorum sono Emilia-Romagna38, Marche39, To- scana40 e Campania41. Dalle modifiche apportate negli ultimi anni alle discipline regionali emer- ge in sintesi la situazione per cui, in alcuni casi, è stato eliminato il quo- rum partecipativo, ma è stato mantenuto quello deliberativo (Lazio42, Abruzzo43, Veneto44), in un caso è stato eliminato il quorum partecipati- vo, unico quorum prima presente (Campania45), in un caso poi è stato in-

(34) Art. 36, comma 3, l.r. Piemonte 4/1973. (35) Art. 7, comma 3, l.r. Lazio 19/1980. (36) Art. 19, comma 1, l.r. Friuli-Venezia Giulia 5/2003. (37) Art. 9, comma 4-bis, l.r. Lombardia 29/2006. (38) Art. 12, comma 9, l.r. Emilia-Romagna 24/1996. (39) Art. 10, comma 4, l.r. Marche 10/1995. (40) Art. 67, comma 1, l.r. Toscana 62/2007. (41) Art. 29, comma 3, l.r. Campania 25/1975. (42) L’art. 7, comma 3, l.r. Lazio 19/1980, che dispone: «Il quesito sottoposto a referendum è di- chiarato accolto qualora la maggioranza dei voti validamente espressi sia favorevole ad esso», è stato modificato dall’art. 2, comma 145, lettera a), numero 2), l.r. 7/2014, mentre nella sua ver- sione originaria stabiliva che «Il quesito sottoposto a referendum è dichiarato accolto se ha par- tecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto e qualora la maggioranza dei voti va- lidamente espressi sia favorevole ad esso». (43) L’art. 30, comma 1, l.r. Abruzzo 44/2007 prevede che «La proposta soggetta a referendum con- sultivo è approvata, indipendentemente dal numero di elettori che ha partecipato, e se la risposta affermativa raggiunge la maggioranza dei voti validamente espressi» ed è stato modificato dall’art. 2, comma 1, lettera a), l.r. 52/2013. Nella sua precedente versione stabiliva: «La proposta soggetta a re- ferendum consultivo è approvata se alla votazione ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto e se la risposta affermativa raggiunge la maggioranza dei voti validamente espressi». (44) L’art. 1, comma 1, l.r. Veneto 22/2013 ha aggiunto il comma 5-bis all’art. 6 della l.r. 25/1992: «Quando si tratti della variazione delle circoscrizioni comunali per fusione [...], indipendente- mente dal numero degli elettori che ha partecipato, la proposta sottoposta a referendum è ap- provata se è stata raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi». (45) L’art. 29, comma 3, l.r. Campania 25/1975 fino all’inizio del 2012 stabiliva che «Il referen- dum è valido se alla votazione hanno partecipato la maggioranza degli elettori aventi diritto». L’applicazione di tale norma non ha reso valido il referendum, svoltosi il 5 e 6 giugno 2011, nei sei Comuni dell’Isola di Ischia per l’istituzione del nuovo Comune di “Isola d’Ischia” median- te la fusione dei Comuni di “Barano”, “Casamicciola Terme”, “Forio”, “Ischia”, “Lacco Ameno” e “Serrara Fontana”. In quell’occasione, infatti, è stata raggiunta la percentuale totale di votanti SAGGI E ARTICOLI 323

serito il quorum deliberativo, ma solo per la qualificazione come sfavore- vole o favorevole dell’esito del voto e non per la validità del referendum (Lombardia46) e in un caso, infine, è stata ridotta al 40% la percentuale dei votanti per calcolare il quorum partecipativo (Trentino-Alto Adige47).

3.4. Decisione definitiva sulla legge di fusione, istituzione del nuovo Comune e prime elezioni dei suoi organi Dopo l’espletamento del referendum consultivo, il Consiglio regionale/ Assemblea legislativa apre la fase di valutazione degli esiti del referen- dum che si chiude con la deliberazione legislativa definitiva sul proget- to di legge di fusione. Laddove il legislatore regionale non si sia auto-vincolato, disponendo effetti cogenti derivanti dal quorum partecipativo o deliberativo del re- ferendum, la valutazione sugli esiti del referendum stesso e le conse- guenti decisioni politiche sono rimesse alla discrezionalità ed alla valu- tazione politica della Regione. Per consentire, però, una esaustiva valutazione degli esiti referendari, le discipline regionali, sulla scorta di indicazioni provenienti dalla giuri- sprudenza costituzionale, stabiliscono che i risultati del referendum sia- no indicati sia nel loro risultato complessivo, sia sulla base degli esiti di- stinti per ciascuna parte del territorio diversamente interessata48.

del 28,48% (15.080 votanti su 52.948 elettori) con la percentuale dell’85,1% a favore della fusio- ne (fonte Ufficio Elettorale Regionale della Regione Campania). Con l’art. 52, comma 24, lettera b), l.r. 1/2012, è stato modificato l’art. 29 che, al comma 3, ora prevede: «Il referendum è valido qualsiasi sia la percentuale dei votanti interessati alla consultazione referendaria». (46) L’art. 9, comma 4-bis, l.r. Lombardia 29/2006 prevede: «La votazione si intende favorevole in caso di conseguimento, in ogni Comune interessato, della maggioranza dei voti validi favorevol- mente espressi». Tale comma è stato aggiunto dall’art. 9, comma 1, lettera g), l.r. 19/2014. (47) L’art. 31-bis, commi 1 e 2, l.r. Trentino-Alto Adige 16/1950 stabilisce, rispettivamente, che «Ai fini della validità del referendum è necessaria la partecipazione al medesimo, in ciascun Co- mune interessato, di almeno il 40 per cento degli elettori, non computando tra questi i cittadini iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero...» e che «Il referendum si intende abbia dato esito negativo qualora per la formula sottoposta a votazione non sia stata raggiunta la percen- tuale di voti positivi di almeno il 50 per cento di quelli validamente espressi». Il comma 1 è sta- to sostituito dall’art. 26, comma 1, lettera b), l.r. 11/2014; nella sua precedente versione stabiliva che «ai fini della validità del referendum è necessaria la partecipazione al medesimo della mag- gioranza degli elettori del Comune o dei Comuni interessati». (48) Così ad esempio: art. 12, comma 7, l.r. Emilia-Romagna 24/1996; art. 9, comma 4, l.r. Lombar- dia 29/2006; art. 6, comma 3, l.r. Veneto 25/1992; art. 67, comma 4, l.r. Toscana 62/2007. 324 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Pertanto, la Regione, tenuto conto dei risultati del referendum, può, in tali casi, decidere di concludere il procedimento legislativo di fusione, appro- vando definitivamente la legge regionale ricomprendente tutti i Comuni in- teressati, anche se l’esito referendario in uno o più di essi fosse stato sfa- vorevole alla fusione, oppure può decidere di soprassedere a tale fusione. Di norma le leggi regionali prevedono un termine dalla pubblicazione dei risultati del referendum per la decisione finale sull’approvazione o meno della legge di fusione; tale termine è, ad esempio, di 60 giorni in Emilia-Romagna49 e 45 giorni in Lombardia50. Con la definitiva approvazione della legge regionale di fusione, pren- de vita il nuovo Comune, ma la data di decorrenza della fusione (quin- di di istituzione del nuovo ente) può non coincidere con la data di ap- provazione della legge stessa. Nelle esperienze di fusione fin qui prati- cate, ad esempio, in alcune Regioni (come Lombardia e Veneto) si ten- de a fare coincidere la data della legge di fusione con l’istituzione del Comune, nella maggior parte dei casi (come Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Trentino-Alto Adige), invece, le leggi di fusione stabiliscono la decorrenza che, molto spesso, ricade al 1° gennaio dell’anno successi- vo a quello di approvazione della legge. Subito dopo l’approvazione della legge di fusione, occorre realizzare una serie di adempimenti amministrativi volti a portare a conoscenza tutte le amministrazioni nazionali della nascita del nuovo Comune (e della contestuale soppressione di Comuni preesistenti)51. Il nuovo Comune sarà, in questa fase, retto da un Commissario prefetti- zio che condurrà il nuovo ente fino alle elezioni amministrative più vi- cine. Nel caso dei Comuni (la maggior parte) che nascono dal 1° gen- naio di ogni anno, il periodo di commissariamento dura quindi qualche

(49) Cfr. art. 13, comma 2, l.r. Emilia-Romagna n. 24/1996. (50) Cfr. art. 10, comma 2, l.r. Lombardia n. 29/2006. (51) La Regione deve dare comunicazione ufficiale della istituzione del nuovo Comune, tra gli altri, a: Istat – Istituto Nazionale di Statistica (ai fini del codice Istat), Agenzia delle Entrate (ai fini del codice catastale e del codice fiscale), al Ministero dell’interno – Dipartimento Affari In- terni e Territoriali, Direzione Centrale della Finanza Locale, Ufficio Trasferimenti Ordinari agli Enti locali, Sportello Unioni (ai fini del codice ente), Inps, Inail, Igmi – Istituto Geografico Mi- litare, Ministero delle infrastrutture e trasporti, Ministero dell’economia e delle finanze, Enti e strutture regionali. SAGGI E ARTICOLI 325

mese, fino alla tornata elettorale primaverile, nella quale vengono eletti, per la prima volta, gli organi del nuovo ente. Alcune leggi regionali di fusione hanno disposto, e oggi anche la c.d. legge Delrio (art. 1, comma 120, legge 56/2014) espressamente preve- de, che i Sindaci uscenti possano collaborare con il Commissario nella fase di transizione dai preesistenti Comuni al nuovo ente. La legge 56/2014 stabilisce anche che i Comuni che hanno dato avvio al procedimento di fusione ai sensi delle rispettive leggi regionali pos- sono, anche prima dell’istituzione del nuovo ente, mediante approva- zione di testo conforme da parte di tutti i Consigli comunali, definire lo Statuto che entrerà in vigore con l’istituzione del nuovo Comune e ri- marrà vigente fino alle modifiche dello stesso da parte degli organi del nuovo Comune istituito (art. 15, comma 2, d.lgs. 267/2000 come modi- ficato dall’art. 1, comma 117, legge 56/2014)52.

4. Principali contenuti delle leggi regionali di fusione Quale sia, in concreto, il contenuto di una legge regionale di fusione non è espressamente indicato in alcuna norma statale, rientrando la fu- sione di Comuni nella competenza esclusiva regionale. Nell’intento di ricostruire i principali contenuti delle leggi di fusione, occorre dunque guardare alle esperienze già conclusesi in Italia. Le leggi regionali contengono, in parte, oggetti comuni a quasi tutte, in parte, profili innovativi di diversa natura, legati anche al fatto che sia- no disciplinati da una Regione a statuto ordinario o da una Regione a statuto speciale. Tra gli oggetti comuni, vi sono le norme istitutive del nuovo ente, che concernono il territorio, la denominazione (che può essere scelta dal- le popolazioni interessate in sede di referendum, sulla base di una ro- sa di nomi proposta dalle amministrazioni comunali preesistenti), la de- correnza della fusione, come si è anticipato nel precedente paragrafo. Sempre tra le norme che ricorrono nelle leggi di fusione, vi sono: quel- le relative alla successione del nuovo Comune nella titolarità dei beni e

(52) Sul punto cfr. C. Tubertini, Commento al comma 117, in L. Vandelli (a cura di), Città metro- politane, Province, Unioni e fusioni di Comuni. La legge Delrio, 7 aprile 2014, n. 56 commen- tata comma per comma, Rimini, Maggioli, 2014, pp. 237 e 238. 326 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

di situazioni giuridiche dei preesistenti Comuni (beni demaniali e patri- moniali, personale, titolarità delle posizioni e dei rapporti giuridici atti- vi e passivi); quelle sull’efficacia dei regolamenti e di ogni disposizio- ne generale vigente fino all’adozione degli atti da parte del nuovo Co- mune; quelle sui contributi regionali derivanti dalla fusione e connesse norme finanziarie; quelle volte a gestire la transizione verso la piena at- tività del nuovo Comune. Tra i profili peculiari propri di alcune leggi regionali, si segnalano le nor- me piemontesi contenenti agevolazioni fiscali per i residenti esentati, per i dieci anni successivi all’istituzione del nuovo Comune, dal pagamen- to del 50 per cento delle tasse di concessione regionale, dal pagamento delle addizionali regionali, nonché dal pagamento del 50 per cento della tassa regionale per il diritto allo studio universitario53. Inoltre, si richiama- no: le norme trentine sulla gestione provvisoria del nuovo ente da parte dell’Unione di Comuni a cui aderivano i Comuni preesistenti54; le norme trentine e friulane sulla prima elezione degli organi e dei municipi55 e sul- la nomina di un Commissario da parte della Regione56. Vi sono poi, come profilo peculiare, norme che riconoscono priorità as- soluta nei programmi e nei provvedimenti regionali di settore che pre- vedono contributi a favore degli enti locali e norme che equiparano il nuovo Comune ad una Unione di Comuni ai fini dell’accesso ai contri- buti previsti da programmi e provvedimenti regionali di settore riservati a forme associative di Comuni57. Si aggiungono, inoltre, norme sulla proroga del termine per adempie- re agli obblighi di gestione associata delle funzioni fondamentali per il nuovo Comune58.

(53) V. art. 2, comma 3, l.r. Piemonte 32/1998, istitutiva del Comune di Mosso. (54) V. art. 6, comma 1, l.r. Trentino-Alto Adige 1/2009, istitutiva del Comune di Ledro. (55) V. art. 2, l.r. Friuli-Venezia Giulia 8/2008, istitutiva del Comune Campolongo Tapogliano, e art. 9, l.r. Trentino-Alto Adige 1/2009 cit. (56) V. art. 2, l.r. Friuli-Venezia Giulia 8/2008 cit. e art. 6, l.r. Trentino-Alto Adige 1/2009 cit. (57) V. art. 5, comma 4, l.r. Emilia-Romagna 1/2013, istitutiva del Comune di Valsamoggia, e art. 4, l.r. Marche 47/2013, istitutiva del Comune di Vallefoglia. (58) V. art. 7, comma 3, l.r. Emilia-Romagna 19/2013, istitutiva del Comune di Poggio Torriana, e art. 10, comma 1, l.r. Toscana 71/2014, istitutiva del Comune di Sillano Giuncugnano. SAGGI E ARTICOLI 327

Si segnala, infine, la norma emiliano-romagnola sull’istituzione di un Osservatorio regionale del processo di fusione dei Comuni per monito- rare gli effetti che scaturiscono dal processo di fusione in tutti i settori amministrativi di competenza regionale ed il concreto impatto del pro- cesso di fusione sui cittadini, sugli enti pubblici e sulle imprese59.

5. L’istituto della fusione: un fenomeno in crescita L’incremento del numero di fusioni è tuttora in atto, come dimostrano i numerosi referendum consultivi espletati o indetti nelle varie Regioni. Il 31 maggio 2015 si è svolto, con una partecipazione che ha supera- to il 60% degli aventi diritto, il referendum per la fusione di 4 Comuni dell’Alto Appennino Reggiano nell’Emilia-Romagna60, il 7 giugno si so- no svolti 19 referendum per la fusione di 55 Comuni del Trentino-Alto Adige61, il 14 giugno si sono svolti 3 referendum per la fusione di 6 Co- muni nel Piemonte62 e, nella Regione Lombardia, è stato svolto un refe- rendum per la fusione da incorporazione63.

(59) V. art. 4, comma 5, l.r. Emilia-Romagna 1/2013, istitutiva del Comune di Valsamoggia. (60) Si tratta dei 4 Comuni di Busana, Collagna, Ligonchio e Ramiseto, che hanno dato vita al Comune di Ventasso istituito con l.r. 8/2015. (61) Il quorum del 40% di affluenza necessario per la validità dei referendum è stato raggiun- to in tutti i 55 Comuni interessati. Su 19 progetti di fusione sottoposti a referendum, l’esito è stato favorevole per 15 di essi che interessano 45 Comuni. Si veda il sito della Regione Trenti- no-Alto Adige: http://www.regione.taa.it/Elettorale/modulistica.aspx e http://www.regione.taa. it/SchedaInfo.aspx?Id=826. (62) In due casi la popolazione si è espressa a maggioranza per la fusione; nell’altro caso la maggioranza ha votato contro. Nel caso dei Comuni di Seppiana e Viganella, con un’affluen- za alle urne intorno al 70%, oltre l’80% ha dato il suo consenso all’accorpamento. Favorevoli alla fusione, per oltre il 90%, anche le popolazioni di Crosa e Lessona, nel biellese. Contrarie all’accorpamento, invece, le popolazioni di Casapinta e Mezzana Mortigliengo, in cui il 59% si è espresso in tal senso. V.: http://www.lospiffero.com/portineria/referendum-fusioni-comuni-re- schigna-luci-e-ombre-22328.html. (63) Il 31 maggio 2015 si è svolto il referendum per la fusione tra i Comuni di Gordona e Menarola mediante incorporazione del Comune di Menarola. Il sì alla consultazione referendaria ha prevalso. V.: http://www.laprovinciadisondrio.it/stories/Cronaca/referendum-si-alla-fusione-tra-gordona-e-me- narola_1123766_11/. Il comma 130 dell’art. 1 della legge 56/2014 prevede che: «I Comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione in un Comune contiguo. In tal caso, fermo restando il procedimento previsto dal comma 1 dell’articolo 15 del testo unico, il Comune incorporante con- serva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al Comune incorporato e gli organi di quest’ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Lo statu- to del Comune incorporante prevede che alle comunità del Comune cessato siano assicurate adegua- 328 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Inoltre, in Emilia-Romagna sono stati indetti, per l’11 ottobre 2015, tre referendum per la fusione di 6 Comuni, di cui 2 dell’Appennino Bo- lognese64, 2 della Provincia di Parma65 e 2 della Provincia di Rimini66 e, nel Friuli-Venezia Giulia, è stata indetta, per il 18 ottobre 2015, la consultazione referendaria, che interesserà più di 16.000 elettori, per l’istituzione di un nuovo Comune mediante fusione di 2 Comuni del- la Provincia di Pordenone67. Tra il 1° ottobre e il 15 novembre 2015 si svolgerà, poi, il referendum per la fusione di 3 Comuni della Pro- vincia di Biella, come deliberato dal Consiglio regionale del Piemon- te nel luglio scorso68. Le Regioni, nell’ottica della riduzione del numero dei Comuni, stanno quindi praticando sempre più l’istituto della fusione, nella convinzio- ne che la fusione stessa debba essere vista più come una «opportunità

te forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. A tale scopo lo statuto è integrato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Le popolazioni interessa- te sono sentite ai fini dell’articolo 133 della Costituzione mediante referendum consultivo comunale, svolto secondo le discipline regionali e prima che i Consigli comunali deliberino l’avvio della proce- dura di richiesta alla Regione di incorporazione. Nel caso di aggregazioni di Comuni mediante incor- porazione è data facoltà di modificare anche la denominazione del Comune. Con legge regionale so- no definite le ulteriori modalità della procedura di fusione per incorporazione». Sul tema si veda C. Tubertini, Commento al comma 130, in L. Vandelli (a cura di), Città metropolitane, Province, Unioni e fusioni di Comuni, cit., pp. 246 e 247. (64) Con decreto del Presidente della Giunta regionale n. 59 del 2 aprile 2015 è stato indetto per domenica 11 ottobre il referendum per la fusione dei Comuni di Granaglione e Porretta Ter- me nella Città metropolitana di Bologna. V.: http://bur.regione.emilia-romagna.it/dettaglio-inse rzione?i=4e779b9de1814e86a96a7e6beaa0b16e. (65) Con decreto del Presidente della Giunta regionale n. 140 del 13 luglio 2015 è stato indetto per domenica 11 ottobre il referendum per la fusione dei Comuni di Polesine Parmense e Zi- bello nella Provincia di Parma. V.: http://bur.regione.emilia-romagna.it/dettaglio-inserzione?i=8 81b8318eedb49ed9c8410bdc540fa9e. (66) Con decreto del Presidente della Giunta regionale n. 141 del 13 luglio 2015 è stato indetto per domenica 11 ottobre il referendum per la fusione dei Comuni di Monte Colombo e Monte- scudo nella Provincia di Rimini. V.: http://bur.regione.emilia-romagna.it/dettaglio-inserzione?i= 88814ac65ca04301be39569067c3cf9d. (67) Cfr. decreto del Presidente della Regione n. 169 del 19 agosto 2015: http://autonomielocali. regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Elezioni/ReferendumAzzanoDecimoPravisdomini/#n1. (68) Cfr. Deliberazione del Consiglio regionale del Piemonte n. 78 del 21 luglio 2015: http:// www.cr.piemonte.it/web/comunicati-stampa/comunicati-stampa-2015/397-luglio-2015/3974-fu- sione-di-comuni. SAGGI E ARTICOLI 329

strategica che come un approdo necessitato per ragioni contingenti»69. Per facilitare tali processi, la Giunta regionale dell’Emilia-Romagna, nell’am- bito della più ampia legge sul riordino delle funzioni provinciali, approvata alla fine di luglio 2015, ha previsto specifiche norme volte a semplificare il procedimento legislativo di fusione e a rivedere il profilo degli incentivi70. La disciplina regionale sul tema, come si è visto, è dunque in costante mutamento, soprattutto ora che le fusioni sono praticate e non solo stu- diate astrattamente71. I processi di fusione coinvolgono anche le amministrazioni centrali che, in sinergia con le Regioni, contribuiscono all’avvio istituzionale di nuovi enti con la contestuale soppressione di preesistenti Comuni. Al di là, dunque, degli ordinamenti regionali a cui spetta occuparsi di fusioni, si sta confi- gurando a livello nazionale la necessità di affrontare le diverse tematiche che, sempre più, caratterizzano la nuova categoria dei c.d. “Comuni scatu- riti da fusione”, come, ad esempio, in tema di personale, risorse o bilanci72.

(69) Così, ad esempio, il Presidente dell’Emilia-Romagna, che, nel Programma di mandato del- la Giunta comunicato all’Assemblea Legislativa il 26 gennaio 2015 ha indicato come traguardo da raggiungere per le fusioni «entro il 2019 quello di portare a 300 il numero dei Comuni, dimi- nuendone quindi il numero attuale». (70) Cfr. l.r. 30 luglio 2015, n. 13, «Riforma del sistema di governo regionale e locale e dispo- sizioni su Città metropolitana di Bologna, Province, Comuni e loro Unioni», in particolare art. 9, «Misure per favorire lo sviluppo delle fusioni di Comuni. Modifiche ed integrazioni alla leg- ge regionale n. 24 del 1996». (71) A tal fine, gran parte delle Regioni stanno predisponendo siti web dedicati al tema delle fusio- ni, rendendo disponibili informazioni e documentazione utile per l’avvio dei percorsi di fusione. Si vedano, tra gli altri, i siti di: Emilia-Romagna, http://autonomie.regione.emilia-romagna.it/fusioni-di- comuni e http://www.assemblea.emr.it/fusione-di-comuni; Toscana, http://www.regione.toscana.it/ fusioni-di-comuni; Veneto, http://www.regione.veneto.it/web/enti-locali/fusioni-dei-comuni; Friuli- Venezia Giulia, http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/fusioni-comuni/; Trentino- Alto Adige, http://www.regione.taa.it/rapportientilocali/default.aspx; Marche, http://marchentilocali. regione.marche.it/Home/GESTIONIASSOCIATEFRACOMUNI.aspx; Piemonte, http://www.regione. piemonte.it/autonomie/modificaComuni.htm. (72) Oltre alle norme contenute nella legge c.d. Delrio (art. 1, commi 116-134, legge 56/2014) e nella legge di stabilità 2015 [art. 1, commi 450, lett. a), e 498, lett. b), legge 190/2014], si pen- si, ad esempio, alle pronunce della Corte dei conti in tema di personale nei Comuni sorti da fu- sione (come Corte dei conti, sez. Lombardia, 4 marzo 2015, n. 87). Per la disamina delle norme contenute nella legge 56/2014 si rinvia a L. Vandelli (a cura di), Città metropolitane, Province, Unioni e fusioni di Comuni, cit., p. 232 ss.

SAGGI E ARTICOLI 331

Un nuevo instrumento para el redimensionamiento de la planta municipal española: el convenio de fusión entre ayuntamientos1 Marcos Almeida Cerreda

Nel presente articolo si analizza l’istituto degli accordi di fusione tra Comu- ni (convenios de fusión de municipios), recentemente introdotto nell’ordi- namento spagnolo. In particolare, vengono esaminati la natura giuridica, i requisiti, gli effetti e il procedimento di adozione. La trattazione mira inoltre a far emergere i principali problemi posti dalla disciplina di questo nuovo istituto, dal punto di vista dell’autonomia, della democrazia e del buon an- damento delle amministrazioni comunali, col fine ultimo di proporre alcu- ne soluzioni a superamento degli stessi.

1. Introducción Desde hace décadas, el considerable número de municipios existente

(1) Este estudio constituye una profundización y actualización de algunas de las ideas expues- tas en el trabajo La planta local a pequeña escala: municipios y entidades locales menores, QDL, núm. 35, 2014, p. 7 y ss. En el presente trabajo, se han empleado las siguientes abreviaturas: Bo- cg, Boletín Oficial de las Cortes Generales; Ce, Constitución Española; cfr., confere; cit., citado; coord., coordinador; dir., director; dirs., directores; Lbrl, Ley 7/1985, de 2 de abril, Reguladora de las Bases del Régimen Local; Loepsf, Ley Orgánica 2/2012, de 27 de abril, de Estabilidad Pre- supuestaria y Sostenibilidad Financiera; Loreg, Ley Orgánica 5/1985, de 19 de junio, del Régi- men Electoral General; Lrsal, Ley 27/2013, de 27 de diciembre, de Racionalización y Sostenibi- lidad de la Administración Local; núm., número; p., página; pp., páginas; QDL, Cuadernos de Derecho Local; RAP, Revista de Administración Pública; REDA, Revista Española de Derecho Ad- ministrativo; REALA, Revista de Estudios de la Administración Local y Autonómica: Nueva Épo- ca; REVL, Revista de Estudios de la Vida Local; REGAP, Revista Galega de Administración Públi- ca; ROF, Real Decreto 2568/1986, de 28 de noviembre, por el que se aprueba el Reglamento de Organización, Funcionamiento y Régimen Jurídico de las Entidades Locales; RPDT, Real Decre- to 1690/1986, de 11 de julio, por el que se aprueba el Reglamento de Población y Demarcación Territorial de las Entidades Locales; Trlhl, Real Decreto Legislativo 2/2004, de 5 de marzo, por el que se aprueba el Texto Refundido de la Ley Reguladora de las Haciendas Locales; Trrl, Real De- creto Legislativo 781/1986, de 18 de abril, por el que se aprueba el Texto Refundido de las Dispo- siciones Legales Vigentes en Materia de Régimen Local; ss., siguientes; vid., videre. 332 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

en España – actualmente, según el Registro de Entidades Locales del Ministerio de Hacienda y Administraciones Públicas, son 8.1222 –, así como las escasas dimensiones poblacionales de un nutrido grupo de ellos – de acuerdo con el citado registro, más de la mitad de los mis- mos tienen una población inferior a mil habitantes –, ha llevado, a que, en diferentes momentos históricos, por parte de distintos sectores de la doctrina3, sobre la base de la insostenibilidad económica, la ineficacia ejecutiva, la ineficiencia de gestión y la inoperatividad democrática de estos últimos, se haya defendido una radical reducción del número de dichos entes y, consecuentemente, se hayan planteado diferentes méto- dos para conseguir este objetivo4. Tales propuestas rara vez salían del ámbito académico, para pasar a la agenda política; ahora bien, la crisis económica mundial, que se desenca- denó en 2008, cambió esta situación. Así, con motivo de las elecciones ge- nerales de 2011, en el programa de gobierno de algunos partidos, se in- cluyó el proceder a minorar la cantidad de ayuntamientos existente, como una medida de actuación dirigida a contribuir a la salida de la citada crisis, mediante la consecución de una mayor eficacia y eficiencia en el gasto pú- blico5. En consecuencia, este tema fue objeto de debate ante la opinión pú- blica y tuvo un notable eco mediático6. Con estos precedentes, el Gobier-

(2) Cfr. http://ssweb.seap.minhap.es/REL/frontend/inicio/municipios/all/all (consultado en mayo de 2015).

(3) Vid., por ejemplo, a mediados del siglo pasado: F. Albi, La crisis del municipalismo, IEAL, Madrid, 1966, pp. 269-293 o L. Jordana de Pozas, La previsible alteración de nuestra división te- rritorial, REVL, núm. 155, 1967, p. 651; a principios de la presente centuria: Sosa Wagner, Fran- cisco, Prólogo para españoles, en L. Vandelli, Trastornos de las Instituciones Públicas, Trotta, Madrid, 2007, p. 26, R. Parada Vázquez, La segunda descentralización: del Estado Autonómico al Municipal, RAP, núm. 172, 2007, p. 36 y ss. y, recientemente, F. López Ramón, Por la reforma del mapa municipal, REDA, núm. 167, 2014, pp. 13-19.

(4) Una crítica a este drástico planteamiento se puede ver en: M. Almeida Cerreda, La reforma de la planta, estructura competencial, organizacion y articulacion de la Administracion local, en J.J. Díez Sánchez (coord.), La planta del Gobierno local, Fundacion Democracia y Gobierno Local-AEPDA, Madrid, 2013, p. 61 y ss. (5) Vid., por ejemplo, http://www.upyd.es/Fusion-de-ayuntamientos-y-eliminacion-de-Diputa- ciones (consultado en mayo de 2015). (6) Vid. http://www.elmundo.es/elmundo/2011/11/11/madrid/1321031711.html (consultado en mayo de 2015). SAGGI E ARTICOLI 333

no constituido tras dichos comicios, bajo la presión que la Unión europea ejercía sobre España, para que esta cumpliese sus obligaciones dentro de la Unión Monetaria7, incorporó, en el Programa Nacional de Reformas de 2012, entre otras medidas de ahorro, una línea de actuación consistente en “la agrupación de municipios”8. Si bien, como se puede apreciar, se empleó una fórmula muy genérica y poco precisa, que tanto se podría referir a la contracción del conjunto de estas entidades9, como a la colaboración for- zosa entre ellas para el desempeño de sus competencias. En este contexto, entre mediados de 2012 y finales de 2013, se gestó la reforma de laL brl, que culminaría con la aprobación de la Ley 27/2013, de 27 de diciembre, de Racionalización y Sostenibilidad de la Administración Local (en adelan- te, Lrsal)10. En ella, aunque en alguno de los borradores que precedieron a su tramitación parlamentaria, se planteó la extinción directa de ayunta- mientos con población inferior a 5.000 habitantes, cuando concurriesen determinadas circunstancias; finalmente, tal posibilidad se descartó, que- dando tan sólo en la Lrsal medidas de apremio y de fomento de las unio- nes, para lograr el redimensionamiento de la planta municipal española11.

(7) Vid. E. Carbonell Porras, La planta local: análisis general y perspectivas de reforma, en J.J. Díez Sánchez (coord.), La planta del Gobierno local, cit., pp. 18 y 19. (8) Este programa, actualmente, se puede encontrar en la siguiente dirección web: http://www. empleo.gob.es/es/sec_trabajo/debes_saber/pnr/120504_PNR_ESPANYA_20121.pdf (consultado en mayo de 2015). (9) Esta medida no figuraba expresamente como un punto en el programa de gobierno del Partido Popular, aunque, en diversas ocasiones, su líder no había descartado el recurso a ella (vid. http://cincodias.com/cincodias/2010/05/29/economia/1275112583_850215.html, consulta- do en mayo de 2015).

(10) Sobre el alcance y orientación general de esta reforma, vid.: A. Boix Palop, Sentido y orien- tación de la Ley 27/2013 de racionalización y sostenibilidad de la Administración local: au- tonomía local, recentralización y provisión de servicios públicos locales, REALA, núm. 2, 2014.

(11) En el borrador de anteproyecto de la Lrsal de 4 de febrero de 2013, se contenía la inclu- sión en la Lbrl de un artículo 61-bis con el siguiente tenor: «Artículo 61-bis. Extinción de muni- cipios con población inferior a 5.000 habitantes. 1. Los municipios con población inferior a 5.000 habitantes quedarán extinguidos cuando se ha- ya aplicado el apartado 3 del artículo 26 de la Ley Orgánica 2/2012, de 27 de abril, de Estabilidad Presupuestaria y Sostenibilidad Financiera o bien concurran todas las circunstancias siguientes: a. Haber obtenido una evaluación negativa de los servicios mínimos prestados por el ayunta- miento a los que se refiere el artículo 26. b. Presenten en los tres años inmediatamente anteriores a la evaluación mencionada en la letra a) anterior remanentes de tesorería para gastos generales negativos. c. Hayan incumplido el objetivo de estabilidad presupuestaria, de conformidad con la Ley Or- gánica 2/2012, de 27 de abril, de Estabilidad Presupuestaria y Sostenibilidad Financiera, sin que 334 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Así, por un lado, la Lrsal intenta imponer el recurso a la agrupación, tan- to a aquellos ayuntamientos que se vean obligados a formular un plan económico-financiero12, como a los municipios más pequeños. En el pri- mer caso, la exigencia derivará de la aplicación del nuevo artículo 116 bis.2, letra f) de la Lbrl, el cual dispone que el mencionado plan ha de incluir, necesariamente, una propuesta de agregación de tales ayunta- mientos con otro colindante13; mientras que, en el supuesto de los pe-

resulte posible la corrección de esta situación financiera. Se entenderá que no resulta posible esta corrección cuando el municipio tenga retenido el porcentaje máximo permitido de su Par- ticipación en los Ingresos del Estado, de conformidad con lo dispuesto anualmente en la Ley de Presupuestos Generales del Estado. 2. La concurrencia de lo previsto en el apartado (sic) dará lugar a la extinción y absorción por un municipio colindante dentro de la misma provincia. A falta de acuerdo entre los municipios será absorbido por el de mayor población de entre los colindantes de la misma provincia de acuerdo con lo previsto en la normativa autonómica que corresponda. El municipio extinguido, pese a carecer de personalidad jurídica, será una forma de organización desconcentrada del municipio absorbente de acuerdo con lo previsto en el artículo 45 de esta ley. 3. La extinción y absorción conllevará: a. La integración en el municipio absorbente del territorio, población y organización, incluyen- do todos los medios personales, materiales y económicos, del municipio extinguido. b. Los órganos de gobierno del municipio extinguido serán transformados en un órgano de repre- sentación vecinal ante el municipio absorbente hasta la convocatoria de las siguientes elecciones. c. La asunción de la titularidad de las competencias mínimas obligatorias que tuviera el muni- cipio extinguido por parte del municipio absorbente así como la asunción de la parte de la fi- nanciación que corresponda. d. La suspensión automática de las acciones legales que pudieran emprender los acreedores del municipio respecto de las obligaciones pendientes de pago, así como la paralización del cóm- puto del plazo de los intereses que correspondan. e. La integración de las obligaciones, bienes y derechos patrimoniales del municipio extingui- do en un fondo, sin personalidad jurídica y con contabilidad separada, adscrito al municipio absorbente. 4. Se habilita al Gobierno a desarrollar mediante Real Decreto lo previsto en este artículo».

(12) De acuerdo con el artículo 21 de la Loespsf, tal plan es un documento que, en caso de in- cumplimiento del objetivo de estabilidad presupuestaria, del objetivo de deuda pública o de la regla de gasto, han de formular las Administraciones incumplidoras con la finalidad de que, durante el año de que se trate y en el siguiente, puedan alcanzar el cumplimiento de los obje- tivos citados o de la regla de gasto. (13) Ahora bien, este sistema de acicate indirecto y coactivo de las agregaciones municipales pre- senta problemas, tanto en el plano fáctico como en el jurídico. En el primero de ellos, dichas com- plicaciones se plantean, esencialmente, desde el punto de vista de la efectividad de tal exigencia, pues el hecho de imponer al municipio que ha de elaborar el plan económico-financiero la car- ga de que incluya una propuesta de agregación con otro ayuntamiento no garantiza, en absolu- to, que dicho municipio vaya a encontrar a otro ente que quiera unirse con él, de modo que sea posible activar el procedimiento de fusión voluntaria previsto en el artículo 13.4 de la Lbrl. Al re- vés, cabe suponer que, si un ayuntamiento tiene problemas económicos que le llevan a formular SAGGI E ARTICOLI 335

queños municipios, el apremio resultará del juego del sistema de incen- tivos monetarios que establece la citada Ley, el cual, según el preámbulo de la misma, se basa en un incremento de la dotación económica para los ayuntamientos que se unan, a costa de la financiación de los municipios de menores dimensiones que opten por mantener su individualidad14. Por otro lado, el fomento de las agregaciones de ayuntamientos se va articular, en el diseño de la Lrsal, mediante la previsión de toda una se- rie de ventajas que se van a ligar a la utilización por los municipios de un novedoso procedimiento de unión: el convenio de fusión. Precisa- mente, el objeto del presente estudio es el análisis de esta figura: la le-

un plan económico-financiero, no es muy probable que haya muchos otros que deseen asociarse con él para compartir sus dificultades. Entonces, surgen las dudas: ¿puede un municipio, en fun- ción de parámetros objetivos (proximidad, integración de poblaciones y servicios, etc.), seleccio- nar a otro ayuntamiento vecino y formular la correspondiente propuesta de unión entre ambos, aunque no cuente con la anuencia de este último?; en este caso, ¿ha de tramitarse por la admi- nistración autonómica competente tal expediente de unión? Por el contrario, si el municipio que ha de formular el plan económico-financiero se encuentra con el rechazo formal de los posibles ayuntamientos candidatos a una fusión con él, y no opta por realizar una propuesta unilateral, ¿ve precluida la posibilidad de aprobar su plan económico-financiero? Por otro lado, desde el punto de vista jurídico, son tres los reproches que se pueden efectuar a la antedicha previsión normati- va. En primer lugar, dado que esta disposición implica la extinción del municipio de que se trate, es evidente que limita, de forma directa y discutible, la autonomía local (vid., en este sentido, so- bre la que denomina “fusión-sanción”, la crítica efectuada por Alberto Palomar Olmeda en La su- presión-fusión de municipios, QDL, núm. 37, 2015, p. 244 y ss.). En segundo lugar, puesto que los planes económico-financieros constituyen un instrumento para lograr la estabilidad presupuesta- ria y la sostenibilidad financiera, en desarrollo del artículo 135 de laC e, su régimen y contenido han de regularse, tal y como exige el citado precepto constitucional, a través de una ley orgáni- ca – por ello, con carácter general, los mismos se recogen en el artículo 21 de la Loepsf –; así, no parece correcto el que la Lbrl, en cuanto ley ordinaria, incluya contenidos obligatorios de los ci- tados planes. En apoyo de esta argumentación, hay que destacar que el artículo 21.3 de la cita- da ley orgánica solo contempla, en virtud del principio de primacía del derecho de la Unión eu- ropea, el siguiente supuesto de ampliación del contenido de los planes: «En caso de estar incur- sos en Procedimiento de Déficit Excesivo de la Unión europea o de otros mecanismos de super- visión europeos, el plan deberá incluir cualquier otra información adicional exigida». Finalmente, en tercer lugar, desde el punto de vista de la distribución competencial, resulta discutible que el Estado pretenda, aunque sea de esta forma indirecta, alterar puntualmente (no mediante la fija- ción de criterios generales – por ejemplo, un ámbito territorial, una población, o, incluso, unos recursos propios mínimos –) el mapa municipal de las comunidades autónomas, cuando, como se explicará, es a estas a quienes corresponde adoptar las decisiones pertinentes en este ámbito. (14) Literalmente, en el mismo, se dice: «Por último, estas medidas de fusiones municipales incentivadas, que encuentran respaldo en la más reciente jurisprudencia constitucional, Stc 103/2013, de 25 de abril, supondrán, en definitiva, que los municipios fusionados percibirán un aumento de la financiación en la medida en que los municipios de menor población reci- birán menos financiación». 336 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

gitimidad constitucional de su previsión, su régimen legal y los puntos críticos del mismo.

2. Las bases constitucionales de la disciplina estatal de los convenios de fusión introducida por la Lrsal Las comunidades autónomas, apoyándose en el artículo 148.1.2ª de la Ce, a través de sus respectivos Estatutos de Autonomía, han asumido competencias en materia de alteraciones de los términos municipales comprendidos en su territorio. Ello implica que, entre otras cuestiones, les corresponde tanto regular detalladamente los procedimientos para efectuar las uniones de municipios, como la actuación de dichos proce- sos15. No obstante, el Estado, al amparo del artículo 149.1.18ª de la Ce, que le confiere la facultad de regular las bases del régimen jurídico de las administraciones públicas, puede intervenir en este ámbito dictando un conjunto de normas básicas16, para fijar un mínimo común denomi- nador en los procedimientos de agregación de ayuntamientos, con el objetivo de asegurar un estándar elemental de garantía de la autonomía local idéntico en todo el país; así, el artículo 13.1 de la Lbrl establece unas exigencias esenciales que se han de respetar en los mismos: au- diencia de los municipios interesados y dictamen del Consejo de Esta- do o del órgano consultivo superior de los consejos de gobierno de las comunidades autónomas. Sensu contrario, lo que no cabe es que el Es- tado, en este campo, regule agotadoramente un procedimiento propio para las fusiones, alternativo al que disciplinen las comunidades autó- nomas, en cuya configuración y/o ejecución estas no puedan interve- nir, en modo alguno. En ejercicio de la citada competencia y en desarrollo de la antedicha

(15) Vid. el fundamento jurídico noveno de la sentencia del Tribunal Constitucional 214/1989, de 21 de diciembre. Y, más recientemente, el fundamento jurídico quinto de la sentencia del Tribunal Constitucional 103/2013, de 25 de abril, en el que se puede leer: «En cuanto a la su- presión de municipios (…) pero sigue dejando en manos de las Comunidades Autónomas, (…), la regulación de la fusión de municipios en función del modelo municipal por el que ha- yan optado».

(16) Respecto del alcance de la competencia estatal en esta materia, vid.: L. Parejo Alfonso, Las bases del régimen local en la doctrina del Tribunal Constitucional, QDL, núm. 35, 2015, p. 12 y ss. SAGGI E ARTICOLI 337

normativa estatal, las comunidades autónomas han regulado los proce- sos de unión de municipios. Dicha ordenación se caracteriza, en esen- cia, por responder al prototipo de procedimiento administrativo unila- teral17. En concreto, por lo que se refiere a sus actos inicial y final, hay que señalar que, mientras que su iniciación se puede llevar a cabo por la administración autonómica, bien directamente o bien a instancias de los ayuntamientos interesados, su resolución corresponde, en todo ca- so, a la comunidad autónoma18. En este contexto, ahora, el nuevo artículo 13.4, que la Lrsal inserta en la Lbrl, parece abrir una vía inédita para las agregaciones, al permitir que los municipios puedan pactar, de modo directo e inmediato, su unión, mediante la suscripción de un convenio de fusión, sin perjuicio del co- rrespondiente procedimiento, previsto en la normativa autonómica, que sea de aplicación. Así las cosas, la constitucionalidad del citado artículo 13.4 de la Lbrl, te- niendo en cuenta lo que se acaba de explicar, va a depender de la in- terpretación que se haga del mismo. Si se entiende que esta norma esta- tal es directamente aplicable – o bien que las comunidades autónomas han de asumirla tal cual en su legislación –, de modo que los ayunta- mientos, mediante la simple firma de un convenio interadministrativo, pueden unirse, alterando, en consecuencia, de forma inmediata y au- tomática, los respectivos términos municipales, sin participación algu- na de la comunidad autónoma, parece evidente que este precepto bá- sico viola la distribución competencial que la Constitución y los Estatu- tos de Autonomía consagran en materia de régimen local. Por el contra- rio, si se considera que el artículo 13.4 de la Lbrl simplemente impone a las comunidades autónomas la obligación de que, junto con los pro- cedimientos unilaterales de fusión, que tradicionalmente han regulado, disciplinen un nuevo modelo simplificado y paccionado de proceso de

(17) Sobre las peculiaridades de las regulaciones autonómicas de la fusión de ayuntamientos, vid. D. Santiago Iglesias, La reforma del mapa local español a debate: la fusión de municipios, en Istituzioni del Federalismo, Quaderni, 1/2012, pp. 183-190. (18) En este punto, se debe recordar que, en ocasiones, puede haber lugar a la aplicación su- pletoria de los artículos 3 a 9 del Trrl, preceptos de carácter no básico de acuerdo con la dispo- sición final séptima.1.a) de dicho texto normativo, y de los artículos 2 a 16 del RPDT. 338 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

unión, en el que, si lo estiman oportuno, pueden reservarse un papel de supervisión, no habría problema en admitir la conformidad de esta disposición estatal básica con nuestro orden constitucional de distribu- ción de funciones en el campo de la administración local19. Dicho con- trol, de configurarse, se podría concretar, por ejemplo, en la sujeción del convenio de fusión, suscrito provisionalmente por los municipios, a una aprobación definitiva por el consejo de gobierno autonómico20, en función de sus propios criterios de política territorial21.

3. El régimen legal de los convenios de fusión

3.1. Naturaleza y normativa aplicable a los convenios de fusión Los “convenios de fusión”22, a los que se refiere el artículo 13 de la LBRL, constituyen un tipo peculiar de acuerdo entre dos administracio- nes públicas. Así, si bien se pueden definir como negocios jurídicos bi- laterales o plurilaterales que celebran entre sí, en posición de igualdad, dos o mas municipios, no pueden ser englobados dentro de los conve- nios de colaboración, por las diferencias en el objeto23 y en la causa24

(19) Papel de supervisión que, por otra parte, en este mismo tipo de procesos, le reconoce el propio artículo 13.5 de la Lbrl. (20) O, en su caso, por el parlamento autonómico, pues no se puede olvidar que, por ejemplo, el artículo 15 de la Ley 1/2003, de 3 de marzo, de Administración local de La Rioja establece que la alteración de términos municipales se realiza, exclusivamente, a través de una Ley.

(21) Vid., en este sentido: M.J. Alonso Mas, El nuevo régimen de las fusiones de municipios, en Reforma del Régimen Local, M.J. Domingo Zaballos (coord.), Aranzadi, Cizur Menor, 2014, p. 315, y M.A. Arias Martínez, La fusión de municipios, en M. Almeida Cerreda, C. Tubertini, P. Costa Gonçalves (dirs.), La racionalización de la organización administrativa local: las experiencias española, italiana y portuguesa, Civitas, Madrid, 2015, p. 126.

(22) Hay que concordar, con M.J. Alonso Mas, que el término fusión tiene que ser interpretado, en este contexto, de forma amplia, de modo que comprenda también los supuestos de anexión y absorción (El nuevo régimen de las fusiones de municipios, cit., p. 314). (23) Los convenios de colaboración tienen como objeto la disciplina del ejercicio conjunto de sus competencias por parte de varias administraciones públicas o sobre los medios necesarios para su ejercicio, mientras que el objeto de los convenios de fusión consiste en articular la crea- ción de un nuevo ente. (24) La causa de los convenios de colaboración radica en la voluntad de varias administracio- nes públicas de coordinar, cooperar o auxiliarse en la planificación o ejecución de las actuacio- nes que pretenden desarrollar para perseguir un objetivo común de interés público, de modo que dichas acciones alcancen la mayor eficacia y eficiencia posible en la consecución de tal fin; SAGGI E ARTICOLI 339

que existen entre ambas figuras. No obstante, se puede afirmar que es- tos dos tipos de pactos forman parte de una supracategoría, la de los convenios interadministrativos25. La principal consecuencia práctica de la anterior afirmación es que con ella se excluye que a los convenios de fusión les sea de aplicación la nor- mativa general sobre convenios de colaboración que se halla contenida en Ley 30/1992, de 26 de noviembre, de Régimen Jurídico de las Admi- nistraciones Públicas y del Procedimiento Administrativo Común26 – la

por el contrario, la causa de los convenios de fusión es la extinción de uno o varios entes y su substitución por uno nuevo, que se subrogará en sus funciones.

(25) Sobre estos acuerdos, entre otros, vid.: P. Martín Huerta, Los convenios interadministrati- vos, INAP, Madrid, 2000; J.M. Rodríguez De Santiago, Los convenios entre Administraciones Pú- blicas, Marcial Pons, Madrid, 1997. (26) Esta disciplina se encuentra, esencialmente, en los artículos 6 y 8 de esta norma, los cua- les establecen: «Artículo 6 Convenios de colaboración. 1. La Administración General y los Organismos públicos vinculados o dependientes de la misma podrán celebrar convenios de colaboración con los órganos correspondientes de las Administra- ciones de las Comunidades Autónomas en el ámbito de sus respectivas competencias. 2. Los instrumentos de formalización de los convenios deberán especificar, cuando así proceda: a) Los órganos que celebran el convenio y la capacidad jurídica con la que actúa cada una de las partes. b) La competencia que ejerce cada Administración. c) Su financiación. d) Las actuaciones que se acuerden desarrollar para su cumplimiento. e) La necesidad o no de establecer una organización para su gestión. f) El plazo de vigencia, lo que no impedirá su prórroga si así lo acuerdan las partes firman- tes del convenio. g) La extinción por causa distinta a la prevista en el apartado anterior, así como la forma de ter- minar las actuaciones en curso para el supuesto de extinción. 3. Cuando se cree un órgano mixto de vigilancia y control, éste resolverá los problemas de interpre- tación y cumplimiento que puedan plantearse respecto de los convenios de colaboración. 4. Cuando los convenios se limiten a establecer pautas de orientación política sobre la actua- ción de cada Administración en una cuestión de interés común o a fijar el marco general y la metodología para el desarrollo de la colaboración en un área de interrelación competencial o en un asunto de mutuo interés se denominarán Protocolos Generales. 5. Cuando la gestión del convenio haga necesario crear una organización común, ésta podrá adoptar la forma de consorcio dotado de personalidad jurídica o sociedad mercantil. Los estatutos del consorcio determinarán los fines del mismo, así como las particularidades del régimen orgánico, funcional y financiero. Los órganos de decisión estarán integrados por representantes de todas las entidades consor- ciadas, en la proporción que se fije en los Estatutos respectivos. Para la gestión de los servicios que se le encomienden podrán utilizarse cualquiera de las for- mas previstas en la legislación aplicable a las Administraciones consorciadas. 340 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

cual, por otra parte, dado su contenido, tampoco resultaría adecuada a la naturaleza y fines de los convenios de fusión27. Por lo tanto, estos pactos se rigen por lo establecido en la Lbrl y en las disposiciones específicas de desarrollo autonómico, sin perjuicio de que, para resolver conflictos y dudas, en su ausencia o en el caso de lagunas en las mismas, se pueda recurrir a los principios generales que inspiran el régimen de los nego- cios jurídicos bilaterales en el derecho público español. A la luz de lo dicho, y teniendo en cuenta la parquedad de la Lbrl en este punto – perfectamente acorde con su carácter de normativa básica, cuyo fin es tan sólo establecer los requisitos esenciales mí- nimos comunes que han de cumplir estos pactos –, se advierte la necesidad de un completo y adecuado desarrollo autonómico de la antedicha norma. Por ejemplo, tal regulación complementaria es es- pecialmente importante a la hora de disciplinar el contenido de es- tos acuerdos. En este punto, puede servir, como ejemplo, el artículo 15 de la Ley 7/2015, de 1 de abril, de los municipios de Canarias, el cual establece que, en el texto de los convenios de fusión, se inclui- rá, en todo caso: a) denominación y capitalidad del municipio resul- tante; b) situación financiera, patrimonial y comercial de cada uno de los ayuntamientos a fusionar; c) plan de ordenación de los recur- sos humanos; d) programa de unificación de los distintos servicios y e) programa de unificación de las ordenanzas fiscales y demás nor-

Artículo 8 Efectos de los convenios 1. Los convenios de Conferencia sectorial y los convenios de colaboración en ningún caso su- ponen la renuncia a las competencias propias de las Administraciones intervinientes. 2. Los convenios de Conferencia sectorial y los convenios de colaboración celebrados obliga- rán a las Administraciones intervinientes desde el momento de su firma, salvo que en ellos se establezca otra cosa. Tanto los convenios de Conferencia sectorial como los convenios de colaboración serán co- municados al Senado. Ambos tipos de convenios deberán publicarse en el «Boletín Oficial del Estado» y en el «Diario Oficial» de la Comunidad Autónoma respectiva». 3. Las cuestiones litigiosas que puedan surgir en su interpretación y cumplimiento, sin perjuicio de lo previsto en el artículo 6.3, serán de conocimiento y competencia del Orden Jurisdiccional de lo Contencioso-Administrativo y, en su caso, de la competencia del Tribunal Constitucional. (27) Como se puede inferir de la simple lectura de los preceptos contenidos en la nota ante- rior, sus previsiones sobre el contenido o la gestión de los acuerdos, por ejemplo, no son com- patibles con la naturaleza de los convenios de fusión. SAGGI E ARTICOLI 341

mativa reglamentaria municipal con la previsión de la transitoriedad de su vigencia28.

(28) Además, quizás, sea oportuno introducir en el convenio algunas normas dirigidas a disci- plinar el Ordenamiento transitorio que ha de regir en el nuevo ente. En esta línea, Alejandro de Diego Gómez formula la siguiente propuesta de contenido: «– El nom- bre del nuevo municipio y la capitalidad del mismo. – El plano de los términos municipales que van a fusionarse, con señalamiento, en su caso, de los nuevos límites o línea divisoria del nuevo municipio. Para ello deberá solicitarse del Ins- tituto Geográfico Nacional certificación de la información contenida en el Registro Central de Cartografía relativa a las líneas límite jurisdiccionales que constituyan el perímetro de los mu- nicipios a fusionar. – Documento en el que se hagan constar, en su caso, los distintos tratamientos urbanísticos se- gún los planes vigentes en los hasta ahora Ayuntamientos separados, fórmulas de coordinación de los distintos instrumentos, posibilidades de integración y coordinación de las distintas nor- mativas, propuestas de solución transitoria y compromiso de elaboración de unas normas ur- banísticas propias del nuevo municipio. – Estipulaciones jurídicas y económicas que se proponen, entre las que deberán figurar las fór- mulas de administración de bienes y gestión de servicios. Deberá incluir una memoria con las distintas formas de gestión vigentes hasta la fecha, duración pendiente de los respectivos con- tratos, convenios, concesiones, etc. y fórmulas o propuestas de inclusión o modificación de esos instrumentos o, en su caso, de coordinación entre las distintas figuras que han de convi- vir hasta la extinción de su vigencia. – Las medidas de redimensionamiento de los Ayuntamientos fusionados para la adecuación de sus estructuras organizativas, inmobiliarias, de personal y de recursos resultantes de la nue- va situación. – El funcionamiento, en su caso, de todos o algunos de los municipios fusionados como forma de organización desconcentrada, sin personalidad jurídica, para lo que habrá de acreditarse que esta opción resulta la más eficiente de acuerdo con los principios previstos en la Ley Orgánica 2/2012, de 27 de abril, de Estabilidad Presupuestaria y Sostenibilidad Financiera. – La forma de liquidar las deudas o créditos contraídos por cada municipio. A este respecto, y para el caso de que uno o varios estuviesen en situación de déficit, debería establecerse la inte- gración de las obligaciones, bienes y derechos patrimoniales que se consideren liquidables en un fondo sin personalidad jurídica y con contabilidad separada, así como la designación de un liquidador al que le correspondería la liquidación del mismo, lo que se llevaría a cabo duran- te los cinco años siguientes desde la adopción del convenio de fusión sin perjuicio de los po- sibles derechos que puedan corresponder a los acreedores. – Documentación sobre la solvencia del nuevo Ayuntamiento. Deberá incorporarse al expe- diente una memoria justificativa en la que se constate que la fusión no merma la solvencia de los municipios a fusionar en perjuicio de sus acreedores. – Subrogación en derechos y obligaciones. Deberá hacerse constar que el nuevo Ayuntamiento se subroga en todos los derechos y obligaciones de cada uno de los Ayuntamientos a fusionar- se. En este sentido, las hipotecas, deudas u otros créditos contraídos por los antiguos munici- pios serán liquidados por el nuevo de acuerdo con la normativa legal vigente. – Cualesquiera otras cuestiones que convengan a los municipios afectados respecto a obliga- ciones, derechos e intereses de cada uno» (vid. A. de Diego Gómez, La fusión de Ayuntamientos con especial referencia a Galicia, en REGAP, núm. 47, 2014, pp. 455 y 456). 342 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

3.2. Los requisitos para proceder a la suscripción de los convenios de fusión De acuerdo con el vigente artículo 13 de la Lbrl, para que varios muni- cipios puedan proceder a la firma de un convenio de fusión, se han de cumplir dos condiciones. Así, en primer lugar, debe tratarse de ayunta- mientos colindantes dentro de la misma provincia (artículo 13.4 de la Lbrl) 29. Es necesario destacar que este es el único requisito referido a las características de los entes que se van a agrupar que establece la norma- tiva básica estatal30; así, consecuentemente, por ejemplo, la misma per- mite, de forma expresa, a todos los municipios, “con independencia de su población”, el recurso a esta fórmula31. Y, en segundo lugar, el conve- nio de fusión ha de aprobarse, por mayoría simple32, en cada uno de los plenos de los ayuntamientos que se van a unir (artículo 13.6 de la Lbrl)33.

(29) El hecho de que dos municipios sean colindantes, aunque es una exigencia lógica, no es, en general, una condición suficiente para justificar su fusión. En este sentido, señala María JoséA lonso Mas: «Notemos, sin embargo, que hay municipios cuyo término municipal es muy extenso; de forma que puede ser que los términos sean colindantes pero que los núcleos de población se encuentren muy separados. En estos casos, tampoco es claro que la fusión pueda producir ese ahorro de costes» (vid. M. J. Alonso Mas, El nuevo régimen de las fusiones de municipios, cit., p. 313). (30) Cabe plantearse aquí, si en la normativa autonómica de desarrollo, se podrían añadir exi- gencias complementarias a cumplir por los ayuntamientos que deseen emplear esta fórmula, en aras a lograr uniones de municipios que realmente supongan una mejora de la gestión pú- blica. Pues bien, en principio, dado el objetivo del legislador básico de fomentar las fusiones, cualquiera que sea su resultado, la imposición de tales requisitos adicionales no parece compa- tible con la orientación de la regulación contenida en la Lbrl.

(31) Luis Miguel Arroyo Yanes entiende que sólo pueden suscribir un convenio de fusión aque- llos municipios que, sumando sus padrones, alcancen los 5000 habitantes, aplicando a este su- puesto la regla contenida en el artículo 13.2 de la Lbrl. Vid. L.M. Arroyo Yanes, Incidencia ge- neral de la Lrsal sobre el régimen local de Andalucía, en T. Quintana López (dir.), La reforma del régimen local, Tirant lo Blanch, Valencia, 2014, p. 954. Esta opinión, no se puede compartir, en primer lugar, porque contradice el tenor literal del ar- tículo 13.4 de la Lbrl, que expresamente dice que los ayuntamientos se pueden fusionar «inde- pendientemente de su población», y, en segundo lugar, porque tal interpretación es contraria al espíritu de la Lrsal, que es el de promover fusiones, en números absolutos.

(32) La redacción original de la Lbrl exigía para todos los acuerdos que podían dar lugar a la unión de municipios una mayoría de dos tercios; posteriormente, la Ley 57/2003, de 16 de di- ciembre, de Medidas para la Modernización del Gobierno Local, rebajó esa exigencia a la ma- yoría absoluta.

(33) En este ámbito, hay que compartir la opinión de María José Alonso Mas quien señala: «A este respecto, el Tc, en sentencia 331/1993, afirmó que las CCAA pueden mediante ley establecer nuevos supuestos en que sea precisa la mayoría absoluta del número legal de miembros de la entidad local. SAGGI E ARTICOLI 343

3.3. Las consecuencias jurídico-organizativas de la aplicación de los convenios de fusión La adopción de los convenios de fusión, ope legis, conlleva la producción de los siguientes efectos: la integración de los territorios, poblaciones y orga- nizaciones de los municipios que se han fusionado, incluyendo los medios personales, materiales y económicos [artículo 13.4, párrafo 3, letra a) de la Lbrl]; la constitución del órgano de gobierno del ayuntamiento resultante de la agrupación, el cual estará compuesto, transitoriamente, por la suma de los concejales de los municipios fusionados, de acuerdo con lo previsto en la Loreg [artículo 13.4, párrafo 3, letra b) de la Lbrl], y, como regla general, la subrogación del nuevo municipio en todos los derechos y obligaciones de los preexistentes [artículo 13.4, párrafo 3, letra d) de la Lbrl]34.

3.4. Las obligaciones derivadas de la adopción de los convenios de fusión Tras la implementación de la agregación convencional, será preciso que el ayuntamiento recién constituido, en primer lugar, tome las medidas de redimensionamiento necesarias para la adecuación a sus nuevas cir- cunstancias, de las estructuras organizativas y de los recursos, en espe- cial, personales e inmobiliarios, de los que dispone como resultado de la unión [artículo 13.4, párrafo 3, letra a) de la Lbrl] 35, y, en segundo lu- gar, apruebe un presupuesto para el siguiente ejercicio económico [ar- tículo 13.4, párrafo 3, letra f) de la Lbrl]36.

Pero entiendo que, como en nuestro caso la Ley básica exige de forma expresa la mayoría simple, se excluye que la ley autonómica pueda en este supuesto establecer la exigencia de mayoría absoluta». Vid. M. J. Alonso Mas, El nuevo régimen de las fusiones de municipios, cit., p. 315. (34) Esta subrogación ha de entenderse sin perjuicio de la garantía que se regula en el artículo 13.4, párrafo 3, letra e) de la Lbrl, que se expondrá a continuación.

(35) Como advierte María José Alonso Mas: «lo que en su caso podría dar lugar a la aprobación de planes de empleo o incluso ERES en relación con el personal laboral, conforme a la nueva Adicional vigésima del Estatuto de los trabajadores». Vid. M. J. Alonso Mas, El nuevo régimen de las fusiones de municipios, cit., p. 323. Sobre la posibilidad de adoptar estas medidas, vid. J. Cantero Martínéz, Las medidas de racio- nalización de plantillas en el empleo público local y en un contexto de contención fiscal, QDL, núm. 28, 2012, p. 7 y ss. y A. Palomar Olmeda, El despido colectivo en las administraciones y en- tes públicos. Marco general, causas y procedimiento, CEMICAL, Barcelona, 2013. (36) En todo caso, como señala expresamente esta norma, de la ejecución de las antedichas medidas no podrá derivarse ningún incremento de la masa salarial. 344 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Finalmente, en este ámbito de los deberes, la Lrsal impone al munici- pio fruto de la agrupación la prohibición de desagregarse antes de que hayan transcurrido al menos diez años desde la suscripción del conve- nio de fusión [artículo 13.4, párrafo 1 de la Lbrl]37.

3.5. Las garantías económicas y financieras que proporcionan los convenios de fusión Con el fin de que la unión no perjudique, en términos económicos o fi- nancieros, a los ayuntamientos que decidan firmar un convenio de fu- sión, el legislador ha introducido en la Lbrl, a través de la Lrsal, dos sig- nificativos mecanismos cautelares. Así, desde una perspectiva económica, en el caso de que un munici- pio que se halle en situación de déficit pretenda unirse con un ayunta- miento que no lo tenga, la firma de un convenio de fusión va a permi- tir que el municipio resultante no reciba el lastre que tal déficit supo- ne. Ello será posible en la medida en que, en este supuesto, el artícu- lo 13.4, párrafo 3, letra e) de la Lbrl establece que, por acuerdo de am- bos ayuntamientos, se podrán integrar en un fondo, sin personalidad jurídica y con contabilidad separada38, adscrito al nuevo municipio, las obligaciones, bienes y derechos patrimoniales que se consideren liqui- dables. Según el antedicho precepto, sin perjuicio de los posibles dere- chos que puedan corresponder a los acreedores, este fondo ha de ser saldado en un plazo de cinco años desde la adopción del convenio de fusión, debiendo encargarse de tal operación un liquidador designado por el nuevo ayuntamiento. Por otro lado, desde el punto de vista de la financiación, la adopción de un convenio de fusión conlleva, para los municipios que se unen, dos

(37) Como indica María José Alonso Mas: «la exigencia de que la fusión se mantenga durante diez años parece razonable, si se tiene en cuenta la cantidad de medidas de fomento previstas en el art. 13-4. Se trata de una previsión que trata de impedir el fraude de ley; es decir, que los municipios acuerden su fusión para conseguir ciertos beneficios – sobretodo, en cuanto a fi- nanciación – para después separarse en un tiempo breve» Vid. M.J. Alonso Mas, El nuevo régi- men de las fusiones de municipios, cit., pp. 312 y 313. (38) La norma citada establece, además, que la contabilidad de este fondo habrá de ajustarse a las normas que apruebe el Ministro de Hacienda y Administraciones Públicas, a propuesta de la Intervención General de la Administración del Estado. SAGGI E ARTICOLI 345

importantes cauciones, destinadas a asegurar el mantenimiento de su nivel de participación en los tributos del Estado, de conformidad con lo dispuesto en el artículo 13.4, párrafo 2, letras b) y c) de la Lbrl 39. Así, por una parte, el esfuerzo fiscal y el inverso de la capacidad tributaria que corresponda al ayuntamiento resultante de la fusión, en ningún ca- so, podrá ser inferior al más elevado de los valores previos que tuviera cada municipio por separado antes de la agregación, según el artículo 124.1 del Trlhl40, y, por otra parte, su financiación mínima será la suma de las financiaciones mínimas que tuviera cada ayuntamiento, por se- parado, antes de la unión, de acuerdo con el artículo 124.2 del Trlhl41.

3.6. Las ventajas jurídicas, económicas y financieras que ofrecen los convenios de fusión En el plano jurídico, la opción por la suscripción de un convenio de fu- sión proporcionará a los municipios que la efectúen tres notables prerro- gativas, claramente dirigidas a estimular el recurso a dicho instrumento por parte de estos entes. En primer lugar, en virtud de lo dispuesto en el artículo 13.4, párrafo 2, letra f) de la Lbrl, el ayuntamiento resultante de la agregación quedará dispensado de prestar los nuevos servicios obli- gatorios que, según el artículo 26 de la Lbrl 42, le correspondiese ofertar

(39) En principio, a la luz de los artículos 122 y 111 del Trlhl, parece que no se verán beneficia- dos por estas ventajas aquellos municipios que o bien sean capitales de provincia o de comu- nidad autónoma, o bien tengan una población de derecho igual o superior a 75.000 habitantes. (40) Para comprender el alcance y funcionamiento de estos conceptos se puede consultar el Informe sobre financiación de los municipios de menos de 75000 habitantes, excluidas capi- tales de provincia o de comunidad autonoma, correspondiente al ejercicio 2012, Ministerio de Hacienda y Administraciones Públicas, Madrid, 2014, disponible en: http://www.minhap.gob. es/Documentacion/Publico/DGCFEL/LiquidacionesDefinitivas/MEMORIA%20LIQ%202012%20 Variables%20DEFINITIVA.pdf (consultado en mayo de 2015).

(41) En todo caso, de conformidad con el artículo 13.4, párrafo 2, letra d) de la Lbrl, de la apli- cación de estas reglas y de la prevista en la letra a) no podrá derivarse, para cada ejercicio, un importe total superior al que resulte de lo dispuesto en el artículo 123 del Trlhl. (42) El apartado primero de este precepto señala: «1. Los Municipios deberán prestar, en todo caso, los servicios siguientes: a) En todos los Municipios: alumbrado público, cementerio, recogida de residuos, limpieza via- ria, abastecimiento domiciliario de agua potable, alcantarillado, acceso a los núcleos de pobla- ción y pavimentación de las vías públicas. b) En los Municipios con población superior a 5.000 habitantes, además: parque público, bi- 346 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

por razón del aumento poblacional, derivado de la integración de los pa- drones de los municipios preexistentes43. En segundo lugar, de acuerdo con el artículo 13.4, párrafo 3, letra c) de la Lbrl, cada uno de los ayun- tamientos fusionados, o alguno de ellos, podrá funcionar, directamente, tras la unión, como forma de organización desconcentrada44, de confor- midad con lo previsto en el artículo 24 bis de la Lbrl 45, si así se acorda- se en el convenio de fusión; como se señala en el preámbulo de la Lrsal, este hecho permitirá a los municipios agregados conservar su identidad territorial y su denominación tradicional, aunque pierdan su personali- dad jurídica. Por último, en tercer lugar, según el artículo 13.6 in fine de la Lbrl, la adopción de los acuerdos previstos en el artículo 47.2 de dicha norma46, siempre que traigan causa en una unión, se realizará por mayo- ría simple de los miembros de la corporación. A su vez, en el campo económico, el artículo 13.4, párrafo 2, letra g) de

blioteca pública y tratamiento de residuos. c) En los Municipios con población superior a 20.000 habitantes, además: protección civil, eva- luación e información de situaciones de necesidad social y la atención inmediata a personas en situación o riesgo de exclusión social, prevención y extinción de incendios e instalaciones de- portivas de uso público. d) En los Municipios con población superior a 50.000 habitantes, además: transporte colectivo urbano de viajeros y medio ambiente urbano».

(43) Como advierte María José Alonso Mas: «Nos encontramos ante una dispensa; no ante una im- posición. Es decir, el nuevo municipio perfectamente podría optar por prestar por si mismo esos nuevos servicios mínimos» (El nuevo régimen de las fusiones de municipios, cit., p. 321). (44) Esencialmente, en este caso, la ventaja va a radicar tanto en que no será necesario tramitar el procedimiento específico para la creación de los entes de ámbito territorial inferior al municipio, co- mo en que no será preciso acreditar que la institución de dichos entes constituye la opción más efi- ciente para la administración desconcentrada de núcleos de población separados. (45) Este precepto dispone: «1. Las leyes de las Comunidades Autónomas sobre régimen lo- cal regularán los entes de ámbito territorial inferior al Municipio, que carecerán de personali- dad jurídica, como forma de organización desconcentrada del mismo para la administración de núcleos de población separados, bajo su denominación tradicional de caseríos, parroquias, al- deas, barrios, anteiglesias, concejos, pedanías, lugares anejos y otros análogos, o aquella que establezcan las leyes. 2. La iniciativa corresponderá indistintamente a la población interesada o al Ayuntamiento co- rrespondiente. Este último debe ser oído en todo caso. 3. Solo podrán crearse este tipo de entes si resulta una opción más eficiente para la adminis- tración desconcentrada de núcleos de población separados de acuerdo con los principios pre- vistos en la Ley Orgánica 2/2012, de 27 de abril, de Estabilidad Presupuestaria y Sostenibili- dad Financiera». (46) Esta norma establece: «Se requiere el voto favorable de la mayoría absoluta del número le- gal de miembros de las corporaciones para la adopción de acuerdos en las siguientes materias: SAGGI E ARTICOLI 347

la Lbrl establece que, durante al menos un plazo de cinco años tras la firma del convenio de fusión, término este que se podrá prorrogar por la Ley de Presupuestos Generales del Estado, los municipios resultantes de las agregaciones convencionales tendrán preferencia en la asigna- ción de planes de cooperación local, subvenciones, convenios u otros instrumentos basados en la concurrencia47. Por último, en el ámbito de la financiación, el legislador ha incluido en la Lbrl dos valiosas medidas, con el objetivo de incrementar los recursos

a) Creación y supresión de municipios y alteración de términos municipales. b) Creación, modificación y supresión de las entidades a que se refiere el artículo 45 de esta ley. c) Aprobación de la delimitación del término municipal. d) Alteración del nombre y de la capitalidad del municipio. e) Adopción o modificación de su bandera, enseña o escudo. f) Aprobación y modificación del reglamento orgánico propio de la corporación. g) Creación, modificación o disolución de mancomunidades u otras organizaciones asociativas, así como la adhesión a las mismas y la aprobación y modificación de sus estatutos. h) Transferencia de funciones o actividades a otras Administraciones públicas, así como la acep- tación de las delegaciones o encomiendas de gestión realizadas por otras administraciones, sal- vo que por ley se impongan obligatoriamente. i) Cesión por cualquier título del aprovechamiento de los bienes comunales. j) Concesión de bienes o servicios por más de cinco años, siempre que su cuantía exceda del 20 por ciento de los recursos ordinarios del presupuesto. k) Municipalización o provincialización de actividades en régimen de monopolio y aprobación de la forma concreta de gestión del servicio correspondiente. l) Aprobaciones de operaciones financieras o de crédito y concesiones de quitas o esperas, cuando su importe supere el 10 por ciento de los recursos ordinarios de su presupuesto, así co- mo las operaciones de crédito previstas en el artículo 158.5 de la Ley 39/1988, de 28 de diciem- bre, Reguladora de las Haciendas Locales [cfr. artículo 177.5 del TRLH]. ll) Los acuerdos que corresponda adoptar a la corporación en la tramitación de los instrumen- tos de planeamiento general previstos en la legislación urbanística. m) Enajenación de bienes, cuando su cuantía exceda del 20 por ciento de los recursos ordina- rios de su presupuesto. n) Alteración de la calificación jurídica de los bienes demaniales o comunales. ñ) Cesión gratuita de bienes a otras Administraciones o instituciones públicas. o) Las restantes determinadas por la ley». (47) Cabe plantearse, en este punto, si esta preferencia se aplica sólo a las subvenciones esta- tales o vincula también a las administraciones autonómicas a la hora de conceder ayudas a los municipios. María José Alonso Mas (El nuevo régimen de las fusiones de municipios, cit., pp. 321 y 322) y María Antonia Arias Martínez (La fusión de municipios, cit., p. 130) se inclinan por con- siderar que, en la medida en que la Lbrl es una norma básica, la citada preferencia se impone tanto en las acciones estatales, como en las autonómicas. Sin embargo, quizás, este no sea un aspecto básico en la antedicha ley. Pues, si bien el Esta- do puede adoptar medidas de fomento de las fusiones, no parece que sus competencias en es- te campo le permitan compeler a las comunidades autónomas a que estas a su vez desarrollen también políticas de estímulo de las uniones. 348 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

a disposición de los ayuntamientos fruto de las fusiones alcanzadas me- diante convenio. Por una parte, de conformidad con el artículo 13.4, pá- rrafo 2, letra a) de la Lbrl, se incrementará en 0,10 puntos el coeficiente multiplicador que resulte de aplicación según el artículo 124.1 del Trlh – este factor se emplea para ponderar el número de habitantes de dere- cho de cada municipio, a efectos de determinar el 75 % de la cuantía de la participación en los tributos del Estado que corresponderá al ayunta- miento resultante de la fusión –48. Por otra parte, de acuerdo con el ar- tículo 13.4, párrafo 2, letra e) de la Lbrl, se sumarán los importes de las compensaciones que, por separado, correspondan a los municipios que se fusionen, y que se deriven de la reforma del impuesto sobre activi- dades económicas, efectuada por la disposición adicional décima de la Ley 51/2002, de 27 de diciembre, de Reforma de la Ley 39/1988, de 28 de diciembre, Reguladora de las Haciendas Locales, actualizadas en los mismos términos que los ingresos tributarios del Estado en cada ejerci- cio respecto a 2004, así como la compensación adicional, regulada en la disposición adicional segunda de la Ley 22/2005, de 18 de noviem- bre, actualizada en los mismos términos que los ingresos tributarios del Estado en cada ejercicio respecto a 200649.

3.7. Las servidumbres que comportan los procesos de unión Según el artículo 13.5 de la Lbrl, las diputaciones provinciales o entida- des equivalentes, en colaboración con la comunidad autónoma, coordi- narán y supervisarán la integración de los servicios resultantes del pro- ceso de fusión. Es evidente que el hecho de atribuir tal papel de vigi- lancia y ordenación no solo a las administraciones autonómicas, sino también a las diputaciones provinciales o entidades equivalentes, con el fin último de fortalecer su posición institucional, implicará una signi- ficativa sujeción de los nuevos municipios a las directrices que aquellas

(48) En todo caso, en virtud de lo establecido en la letra d) del párrafo 2 del artículo 13.4 de la Lbrl, de la aplicación de esta regla y de las previstas en las letras b) y c) no podrá derivar- se, para cada ejercicio, un importe total superior al que resulte de lo dispuesto en el artículo 123 del Trlhl.

(49) Vid., sobre estos preceptos, J. Martín Queralt, Participación de los municipios en los tribu- tos del Estado, en M.J. Domingo Zaballos (coord.), Comentarios a la Ley de Haciendas Locales, tomo II, Civitas, Cizur Menor, 2013, p. 1399 y ss. SAGGI E ARTICOLI 349

puedan emanar al respecto, y, en consecuencia, una correlativa pérdida de autonomía de los mismos50.

3.8. El procedimiento de elaboración y aprobación de los convenios de fusión Respecto del proceso de formación de los convenios de fusión, de mo- do expreso y directo, la Lbrl se limita a establecer, en el apartado 6 del artículo 13, que estos pactos deberán ser aprobados por mayoría simple de cada uno de los plenos de los municipios que se van a unir. Ahora bien, hay que entender que estos acuerdos también se hallan sujetos a las previsiones del apartado 1 del citado artículo, de modo que, en su tramitación previa, se requerirá dictamen del Consejo de Estado o del órgano consultivo superior de los consejos de gobierno de las comu- nidades autónomas, si existiere, así como informe de la administración que ejerza la tutela financiera51. Así las cosas, corresponde a las comunidades autónomas, respetando las citadas previsiones de carácter básico, el regular el procedimiento de elaboración y aprobación de los convenios de fusión. En este sentido, se debe destacar el pionero artículo 15 de la Ley 7/2015, de 1 de abril, de los municipios de Canarias, el cual prevé las siguien- tes diligencias a practicar en la formación y ratificación de estos pactos: - primera, el proyecto de convenio, una vez consensuado, ha de ser infor- mado preceptivamente por los titulares de la secretaría e intervención;

(50) Esta acción se enmarca en el fortalecimiento competencial de las Diputaciones que la Lrsal lleva a cabo. En este sentido, en la Exposición de Motivos de la misma se señala: «Otra de las medidas adoptadas en la Ley es la de reforzar el papel de las Diputaciones Provinciales, Cabil- dos, Consejos insulares o entidades equivalentes. Esto se lleva a cabo mediante la coordinación por las Diputaciones de determinados servicios mínimos en los municipios con población infe- rior a 20.000 habitantes o la atribución a éstas de nuevas funciones como la prestación de ser- vicios de recaudación tributaria, administración electrónica o contratación centralizada en los municipios con población inferior a 20.000 habitantes, su participación activa en la elaboración y seguimiento en los planes económico-financieros o las labores de coordinación y supervisión, en colaboración con las Comunidades Autónomas, de los procesos de fusión de Municipios». Sobre el resultado de este proceso, vid.: J. Morcillo Moreno, El pretendido impulso a la admi- nistración provincial en la reforma española de 2013, Istituzioni del Federalismo, núm. 2, 2014, pp. 361-392. (51) Simultáneamente a la petición de este dictamen, se dará conocimiento a la administra- ción general del Estado. 350 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

- segunda, el citado proyecto debe ser aprobado por el pleno de los respectivos ayuntamientos; - tercera, el proyecto de convenio será expuesto al público durante treinta días; - cuarta, con carácter preceptivo, se solicitará informe del respectivo cabildo insular y de los departamentos de la administración autonó- mica canaria competentes en materia de administraciones públicas y de hacienda que acrediten, respectivamente, el cumplimiento de los requisitos previstos en la legislación básica de régimen local para la viabilidad de la alteración y del municipio resultante de la misma, así como el de la administración que ejerza la tutela financiera; - quinta, una vez transcurrido el plazo de exposición pública y emitidos los informes o transcurrido el plazo de treinta días desde su petición, se podrá proceder por los plenos de los ayuntamientos a la aprobación de- finitiva del convenio de fusión con pronunciamiento sobre las alegacio- nes, si las hubiera, y sobre los informes, si fueran desfavorables52; - sexta, los acuerdos de aprobación del convenio serán remitidos a los órganos competentes de la administración de la comunidad autóno- ma, cabildo insular respectivo y administración general del Estado53.

4. Aspectos críticos de la disciplina de los convenios de fusión54

4.1. Aspectos problemáticos relacionados con la autonomía local A la luz del principio de autonomía local, las reglas introducidas en la Lbrl por la Lrsal adolecen al menos de dos desaciertos. Así, desde esta perspectiva, la primera tacha que se puede oponer a la nueva regulación básica local deriva del hecho de que, como se seña-

(52) De este inciso, se puede inferir que dichos informes no son vinculantes, como sí suce- de, por el contrario, en la tramitación ordinaria de fusiones, regulada en el artículo 14 de es- ta misma norma. (53) Es de destacar que esta norma no impone la aprobación del convenio por el órgano com- petente de acuerdo con la legislación autonómica para autorizar alteraciones de términos mu- nicipales, que, en este caso, sería el cabildo insular. (54) Algunos de los problemas que aquí se plantean han sido puestos de manifiesto duran- te la tramitación parlamentaria de la Lrsal; vid. Enmiendas al Proyecto de Ley de Racionaliza- ción y Sostenibilidad de la Administración Local (BOCG, núm. 58-2, de 30 de octubre de 2013). SAGGI E ARTICOLI 351

la en el preámbulo de la misma, “los Municipios fusionados percibirán un aumento de la financiación en la medida en que los Municipios de menor población recibirán menos financiación”. Esta forma de incen- tivar las uniones municipales viola, claramente, la autonomía local de los ayuntamientos que no optan por agregarse, en su vertiente de ga- rantía de la suficiencia financiera de los mismos55. Así, dado que, desde hace décadas, se denuncia que la mayoría de los municipios españoles no cuentan con los recursos económicos necesarios para desarrollar las funciones que les son propias, no parece adecuada la opción de la Lr- sal, consistente en reducir aún más los caudales de muchos de dichos ayuntamientos – de tal modo que estos vean dificultada, todavía en ma- yor medida, la complicada tarea de atender las necesidades de sus ve- cinos –, con la finalidad de dirigir los fondos resultantes de tal mino- ración a sufragar los procesos de fusión que, eventualmente, se pue- dan culminar. Aunque, sin duda, constituye una opción lícita el impul- sar económicamente el desarrollo de una política de uniones municipa- les, es evidente que tal actividad de fomento, para ser, al mismo tiem- po, fructífera y no lesiva para el mantenimiento de los servicios públi- cos locales en gran parte del país, requiere una aportación económica específica, que acreciente las cuantías que, en la actualidad, se destinan anualmente al sostenimiento de las entidades locales. En consecuencia, cuando se reformen las normas reguladoras del sistema de financiación de las haciendas locales, momento que, según la Lrsal, no ha de demo- rarse mucho, sería conveniente que, a través de ellas, se modificase tal sistema de incentivos financieros a la fusión de municipios; en particu- lar, que se procediese a cambiar la regla contenida en la letra d) del pá- rrafo 2 del apartado 4 del artículo 13 de la Lbrl. En segundo lugar, desde este mismo punto de vista, cabe también criti- car el hecho de que la Lrsal refuerce el papel de las diputaciones provin- ciales, cabildos, consejos insulares o entidades equivalentes, mediante la concesión a los mismos de facultades de coordinación y supervisión so- bre los procesos de agregación de ayuntamientos, en especial, en el cam- po de la integración de los servicios resultantes de la unión. Y ello por-

(55) Vid., sobre esta cuestión, M. Medina Guerrero, La garantía constitucional de la suficiencia financiera de las entidades locales, QDL, núm. 1, 2003, p. 38 y ss. 352 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

que la asignación de tales funciones a los entes citados supone la intro- ducción de un potencial límite para la capacidad de autoorganización de los municipios, y, por lo tanto, implica una degradación de su autonomía, sin que, simultáneamente, se pueda identificar una utilidad cierta que jus- tifique tal sacrificio. Por otro lado, además, se debe señalar que la atribu- ción, de modo necesario, de estas potestades de vigilancia e inspección puede ser contraproducente, porque el perder, al menos en parte, el go- bierno del proceso de combinación de sus servicios puede desincentivar el que algunos ayuntamientos opten por iniciar el camino de la agrega- ción. Así, en este punto, parece que hubiese bastado el conferir a las di- putaciones provinciales, cabildos, consejos insulares o entidades equiva- lentes la función de apoyar, en los procesos de integración de sus ser- vicios, a los municipios que se van a unir, eso sí, previa solicitud de los mismos. En consecuencia, sería deseable que, en este aspecto, se proce- diese a reformular la Lbrl en los términos expuestos.

4.2. Aspectos problemáticos relacionados con la democracia local Desde la óptica de la democracia local, son tres las cuestiones, referidas al nuevo artículo 13 de la Lbrl, que pueden suscitar algunos reparos. En primer lugar, destaca la circunstancia de que, en el apartado 4 del citado precepto, no se regule ningún tramite del procedimiento de elaboración de los acuerdos de unión. En particular, dada la alta densidad normativa del antedicho artículo, es llamativo que no se establezca, de forma expre- sa y con carácter básico, la necesidad de someter a información pública los proyectos de convenios de fusión que se pretenden suscribir por los ayun- tamientos interesados. En todo caso, sería conveniente que las normas de las comunidades autónomas que desarrollen una disciplina específica pa- ra este peculiar procedimiento de fusión incluyan dicho trámite con carác- ter obligatorio, como se ha hecho ya, por ejemplo, en el artículo 15.2 de la Ley 7/2015, de 1 de abril, de los municipios de Canarias. No obstante, en aquellas comunidades que todavía no han procedido al desarrollo, se pue- de entender que, a los procesos de agregación paccionada, les son aplica- bles las reglas propias de los procedimientos administrativos unilaterales de fusión vigentes en la actualidad, en la medida en que las mismas sean compatibles con la naturaleza convencional de estos últimos. En este sen- tido, puesto que la legislación autonómica que regula los citados procedi- SAGGI E ARTICOLI 353

mientos prevé trámites de información pública, y visto que no hay ningu- na razón para considerar que el sometimiento a la misma de las propues- tas de acuerdos de unión sea incompatible con la naturaleza pacticia de este peculiar tipo de expedientes de agregación, parece acertado defender que los proyectos de convenios de fusión han de someterse a tal trámite. En segundo lugar, la naturaleza y la especial trascendencia de la aproba- ción de un convenio de fusión – dado que este conlleva, mediata o inme- diatamente, la extinción de dos o más municipios, para dar vida a otro nue- vo diferente – se compadecen mal con el hecho de que tal decisión se pue- da adoptar por mayoría simple del pleno de cada uno de los ayuntamien- tos implicados. Esta opción legislativa es, además, incongruente con la or- denación del régimen de mayorías que se contiene en la Lbrl. Así, tras la entrada en vigor de la Lrsal, se dará la paradoja de que la citada norma va a exigir mayoría absoluta para cuestiones, relativas al devenir de los muni- cipios, de mucha menor importancia que la fusión de los mismos, como, por ejemplo, la alteración de su nombre y de su capitalidad, o la adopción o modificación de su bandera, enseña o escudo. Sería, por tanto, deseable que el legislador básico, sin dilaciones, reformase en este aspecto el artícu- lo 13 de la Lbrl, manteniendo la regla de la mayoría reforzada para la to- ma de este tipo de acuerdos, prevista en el artículo 47.2.a) de dicha norma. En tercer lugar, la previsión según la cual el órgano de gobierno del ayuntamiento resultante de la integración, de acuerdo con lo establecido en la Loreg, estará compuesto, de forma transitoria, por la suma de los concejales de los municipios fusionados, planteará, muy probablemente, graves dudas en su aplicación práctica, las cuales, con seguridad, pertur- barán el funcionamiento de los nuevos ayuntamientos. Así, hay que se- ñalar que, en no pocas ocasiones, no parecerá posible cohonestar el mo- delo diseñado por la Lrsal con la asignación de concejales por tramos de población, que realiza el artículo 179.1 de la Loreg56. En concreto, pue- de acontecer que, si se fusionan dos municipios de similares dimensio- nes poblacionales, el número de concejales del órgano de gobierno tran-

(56) De acuerdo con el apartado 1 de este artículo: «Cada término municipal constituye una circunscripción en la que se elige el número de concejales que resulte de la aplicación de la si- guiente escala: hasta 100 residentes, 3; de 101 a 250, 5; de 251 a 1.000, 7; de 1.001 a 2.000, 9; de 2.001 a 5.000, 11; de 5.001 a 10.000, 13; de 10.001 a 20.000, 17; de 20.001 a 50.000, 21; de 50.001 a 100.000, 25; y, de 100.001 en adelante, un Concejal más por cada 100.000 residentes o fracción, añadiéndose uno más cuando el resultado sea un número par». 354 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

sitorio supere el permitido por la Loreg 57. Así, en este ámbito, desde un punto de vista estrictamente jurídico, hubiese sido más adecuado optar por mantener el sistema contenido en el Rpdt58. De conformidad con el artículo 16 de esta norma, en estos supuestos, cesan todos los alcaldes y concejales, y se debe nombrar, por el órgano competente, una comisión gestora, integrada por un número de vocales igual al número de conce- jales que correspondan, de acuerdo con la población total resultante del nuevo ayuntamiento, designándose como vocales a los concejales cesa- dos, que hubiesen obtenido mayores cocientes en las elecciones munici- pales59. Sería, en consecuencia, deseable que el legislador básico, corri- giese la redacción vigente de la Lbrl en este sentido.

4.3. Aspectos problemáticos relacionados con la buena gestión local Desde la perspectiva de la búsqueda de la mejor administración posi- ble de los intereses locales – objetivo que implica que se trate de al- canzar una gestión municipal lo más eficaz y transparente posible, tan- to por vía normativa como por vía ejecutiva –, es inexcusable destacar que existen dos previsiones, que la Lrsal incorpora al texto del artícu- lo 13 de la Lbrl, que, lejos de propiciar tal fin, dificultan seriamente su consecución. Así, por un lado, se encuentra la dispensa, para los ayuntamientos re- sultantes de las fusiones, de la obligación de prestar los nuevos servi- cios mínimos que, de acuerdo con el artículo 26 de la Lbrl, les corres-

(57) En este sentido, cabe señalar, por ejemplo, que, si se unen dos ayuntamientos de 1500 ha- bitantes, contando cada uno de ellos con 9 concejales, en aplicación de la regulación conteni- da en la Lrsal, habría de constituirse un órgano de gobierno integrado por 18 miembros, frente a los 11 que tal órgano debería tener según el citado artículo de la Loreg, al ser el nuevo mu- nicipio un ente con 3.000 habitantes. (58) Esta problemática hace evidente el hecho de que la motivación última que justifica esta decisión legislativa es de naturaleza eminentemente política: evitar que los concejales electos puedan frenar las fusiones, ante la perspectiva de perder su puesto antes de tiempo.

(59) Además, esta regla, introducida por la Lrsal, también provoca reservas, desde el punto de vista de la representatividad de los miembros del órgano de gobierno unificado, ya que cabe que la misma dé lugar a fuertes desequilibrios. Esto sucederá, en especial, cuando se unan dos ayuntamientos de diferentes dimensiones poblacionales. Así, si se fusiona un municipio de 275 habitantes, con 7 concejales, con otro de 1250 habitantes, con 9 concejales, el resultado será un ayuntamiento con un órgano de gobierno de 16 miembros, donde unos concejales representa- rán a 39 vecinos y otros a 166. SAGGI E ARTICOLI 355

pondería ofertar por razón de su aumento poblacional. A este respecto, se debe señalar que, en la medida en que el principal objetivo de las uniones de municipios es, según los propios impulsores de la reforma local, el que los nuevos entes municipales puedan prestar más y mejo- res servicios a sus vecinos, desde el punto de vista de estos ciudadanos, con total razón, resulta absolutamente incomprensible y carente de to- da justificación el hecho de que el legislador exima, de forma general e indefinida, a los ayuntamientos fruto de las agregaciones del deber de proporcionar los servicios que, de conformidad con la Lbrl, han de prestar los demás de sus mismas dimensiones. Sí sería lógico, no obs- tante, el que en la citada ley se estableciese una dispensa, de naturaleza temporal, de dicho deber. Pues es razonable y se halla plenamente jus- tificado, tanto por razones organizativas como por motivos financieros, el conceder al ente recién instituido un período prudencial de tiempo para que pueda proceder a cumplir con sus nuevas obligaciones. Por consiguiente, sería apropiado que, aprovechando la reforma de las nor- mas de financiación de las haciendas locales, que, como se ha señala- do, parece anticipar la Lrsal, se procediese a establecer un límite máxi- mo para la antedicha exención. Por otro lado, se abre la posibilidad de que, por acuerdo de los munici- pios que van a suscribir un convenio de fusión, se integren en un fon- do, sin personalidad jurídica y con contabilidad separada, adscrito al nuevo ayuntamiento, las obligaciones, bienes y derechos patrimoniales que se consideren liquidables, en el caso de que uno de ellos se halle en situación de déficit. La lectura atenta y analítica del párrafo del artí- culo 13.4 de la Lbrl, donde se contiene esta autorización legislativa, evi- dencia la insuficiencia de la regulación de este instrumento de reestruc- turación económica incluida en el mismo. En consecuencia, por osten- sibles razones de seguridad jurídica, es necesario, en primer lugar, que la ordenación de este mecanismo se realice con un mayor grado de de- talle – quizás, esta labor pueda ser afrontada por el Ministro de Hacien- da y Administraciones Públicas, a la hora de dictar las normas a las que se ha de ajustar la contabilidad de este fondo –, y, en segundo lugar, que, en especial, en dicha disciplina, quede meridianamente claro que el recurso a esta herramienta en ningún caso va a implicar un perjuicio económico para los acreedores municipales; esto es necesario, puesto 356 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

que el inciso supuestamente introducido con este fin en la Lbrl no al- canza a infundir la confianza esperada60.

5. Prospectiva Más de un año después de la aprobación de la Lrsal, no es notorio que se hayan negociado o se estén negociando convenios de fusión entre ayunta- mientos españoles. Ahora bien, el presente dato que induce a pensar que este nuevo instrumento tendrá un impacto muy limitado en la reconfigura- ción de la planta municipal española, ha de ser matizado, y, de momento, debe de ser considerado provisional. La razón que justifica esta prudencia a la hora de extraer conclusiones radica en que la aprobación de la Lrsal coincidió con la recta final del mandato de los entes locales (las elecciones municipales se han celebrado en mayo de 2015), momento que, evidente- mente, no es el propicio para introducir en la agenda municipal propues- tas como la unión con otra entidad. Por lo tanto, lo razonable será espe- rar, al menos, un bienio, para comprobar la efectividad de este mecanismo. Así las cosas, en España, en general, de forma inmediata, tras la refor- ma operada por la Lrsal, no cabe esperar una reducción del número de ayuntamientos, sino al contrario, un cierto crecimiento vegetativo, debi- do a la existencia de expedientes de segregación en marcha61.

(60) Las dudas que se pueden plantear sobre la garantía de la posición de los acreedores, qui- zás, tengan su origen en el precedente inmediato del precepto en cuestión. En concreto, la pro- puesta de artículo 61 bis del borrador de anteproyecto de la Lrsal, de 4 de febrero de 2013, en su apartado 3, establecía: «La extinción y absorción conllevará: […] c. La asunción de la titula- ridad de las competencias mínimas obligatorias que tuviera el municipio extinguido por parte del municipio absorbente así como la asunción de la parte de la financiación que corresponda. d. La suspensión automática de las acciones legales que pudieran emprender los acreedores del municipio respecto de las obligaciones pendientes de pago, así como la paralización del cóm- puto del plazo de los intereses que correspondan. e. La integración de las obligaciones, bienes y derechos patrimoniales del municipio extingui- do en un fondo, sin personalidad jurídica y con contabilidad separada, adscrito al municipio absorbente». (61) Hay que destacar que, mientras se producía el debate, primero científico y luego político, sobre la necesidad de reducir la cifra de municipios, esta seguía aumentando. Así, en las tres últimas décadas, ha crecido casi en un centenar. SAGGI E ARTICOLI 357

La articulación intermunicipal en Argentina. Origen, balance y recomendaciones Enzo Ricardo Completa

In conseguenza dei processi di decentramento che sono stati portati a termine in Argentina durante gli ultimi decenni, i governi locali hanno cominciato a sviluppare nuove pratiche orientate ad acquisire o rafforzare le proprie capa- cità di gestione, anche al fine di far fronte ad un’agenda locale ormai amplia- ta. Proprio in ragione del fatto che l’ambito di risoluzione della maggioranza dei problemi che compongono questa nuova agenda trascendono i limiti ter- ritoriali e le capacità individuali dei singoli governi locali, i temi della coope- razione e dell’associazionismo intercomunale hanno cominciato ad emergere come una valida alternativa. Il presente articolo analizza i punti di forza e di debolezza istituzionale dei Comuni argentini nel gestire programmi e progetti a scala intercomunale, focalizzando l’analisi sui processi di creazione e svi- luppo delle c.d. microrregiones e dei consorzi pubblici. In funzione di questi sviluppi, si riflette attorno alle restrizioni e aideficit di capacità istituzionale più rilevanti, che colpiscono od ostacolano l’esecuzione dei programmi inter- comunali nel Paese. Quindi, si suggeriscono criteri per lo sviluppo di strategie finalizzate ad un rafforzamento istituzionale della gestione intercomunale.

1. Introducción Durante las últimas décadas, los gobiernos locales argentinos experi- mentaron un proceso de redefinición de sus roles como consecuencia de la globalización, la crisis del Estado de Bienestar y los procesos de reforma del Estado, a través de los cuales se dio inicio a una brusca ce- sión de funciones desde la administración pública central hacia la esfe- ra gubernativa local. Como consecuencia de este complejo entramado de transformaciones, y en el marco de una creciente municipalización de la crisis política y socioeconómica nacional, las administraciones lo- cales comenzaron a transformarse en verdaderas gestoras de políticas públicas para la promoción del desarrollo local, lo que supuso el desa- 358 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

rrollo de nuevas prácticas de gestión que les permitieran atender a una agenda local ampliada. Debido a que el ámbito de resolución de las problemáticas incluidas en ésta nueva agenda municipal excede en la mayoría de los casos los lí- mites territoriales y capacidades individuales de los gobiernos locales, la cooperación intermunicipal comenzó a emerger como una alternati- va para su tratamiento, esto es, como una forma concreta de adminis- trar las nuevas competencias delegadas y de promover el crecimiento equilibrado y sustentable de las comunidades locales. En el presente trabajo se realiza un balance sobre el proceso asociativo intermunicipal evidenciado en Argentina, focalizando la investigación en las modalidades de gestión y organización que caracterizan a los ca- sos en estudio y en el marco jurídico que les da sustento. En función de estos desarrollos, se reflexiona en torno a las restricciones contextua- les y déficits de capacidad institucional más relevantes que dificultan la ejecución de proyectos asociativos, a partir de lo cual se proponen cri- terios para el diseño de una estrategia de fortalecimiento institucional orientada a superar los déficits detectados.

2. La descentralización como detonante La descentralización de funciones desde el Estado nacional a las pro- vincias ha ocupado un lugar central en las políticas de reforma y ajuste estructural del Estado implementadas en Argentina durante las últimas décadas. En este sentido, no es casual que todos los procesos de trans- ferencias de funciones y competencias se llevasen a cabo en el marco de programas de ajuste de cariz ortodoxo1. En cuanto a la dinámica descentralizadora, a diferencia de lo acontecido

(1) Así, la primera onda descentralizadora en Argentina se desplegó durante la presidencia de Arturo Frondizi (1958-1962), bajo cuyo mandato se desarrolló el “Plan de Racionalización y Aus- teridad” que involucró el traspaso de un segmento de las escuelas nacionales a las provincias. Otro embate descentralizador ocurrió en el marco de otra gestión fuertemente ajustadora, co- mo fue la del ministro Martínez de Hoz (1976-1981) durante la dictadura militar. La última ola descentralizadora, finalmente, se llevó a cabo durante la presidencia de Carlos Menem, y se in- serta en el proceso de ajuste más profundo de cuantos se hayan desplegado. H. Cao, J. Vaca, El fracaso del proceso descentralizador argentino. Una aproximación desde la crítica a sus su- puestos conceptuales, en Revista Nómadas, Madrid, Julio-Diciembre, n. 14, Universidad Com- plutense de Madrid, 2006. SAGGI E ARTICOLI 359

en otros países de América Latina la transferencia de competencias en Ar- gentina no se hizo a favor de los municipios, sino de las provincias. Así, durante las décadas de 1980 y 1990 se transfirió a éstas la totalidad de los hospitales y efectores de salud, la gestión de las escuelas básicas y de en- señanza media y terciaria, la gestión de las grandes obras de infraestruc- tura, los puertos, la actividad minera e hidrocarburífera, el financiamien- to de la vivienda social, el poder de policía laboral y la regulación de la distribución domiciliaria de la energía eléctrica. Con el paso de los años, este proceso de transferencia funcional y com- petencial siguió avanzando hacia los gobiernos locales, con una clara preeminencia de la descentralización administrativa por sobre los pro- cesos de descentralización política y fiscal. En este sentido, el gobierno nacional transfirió a los mismos muchas más funciones y responsabili- dades en materia de gasto social y provisión de servicios que facultades tributarias y recursos para hacerles frente. De esta manera, los munici- pios se vieron obligados a asumir las nuevas funciones casi con las mis- mas estructuras administrativas y recursos con los que contaban cuando su acción se limitaba a prestar servicios públicos esenciales. Como consecuencia de este complejo escenario se agravó la problemá- tica del inframunicipalismo2 que afecta a la mayor parte de los gobier- nos locales del país, lo que impulsó a los mismos a desarrollar una se- rie de nuevas estrategias organizativas y de gestión orientadas a hacer frente a una demanda ciudadana ampliada como consecuencia del re- ferido proceso de descentralización. Entre estas nuevas estrategias de gestión se destaca la articulación intermunicipal, un fenómeno que se encuentra todavía en ciernes en muchos de sus aspectos pero que des-

(2) El término “inframunicipalismo” refiere a una problemática acuciante en numerosas nacio- nes europeas y latinoamericanas, en donde existe una gran cantidad de gobiernos locales de es- casa superficie caracterizados por estructuras organizacionales sobredimensionadas en relación a la baja población que concentran sus territorios y al presupuesto que poseen para gestionar las nuevas funciones asumidas tras los procesos descentralizadores. Para más información so- bre el caso argentino ver E.R. Completa, Asociacionismo municipal versus inframunicipalismo en Argentina, en Más Poder Local Magazine, Fundación José Ortega y Gasset-Gregorio Mara- ñón, Madrid, España, n. 4, 2011, pp. 12-13; Id., ¿Cómo salir de la trampa del inframunicipalis- mo en Argentina y no morir en el intento?, en Revista Espacios Políticos, Buenos Aires, Argenti- na, Año 12, 2011, n. 7, pp. 28-29; M. Iturburu, Nuevos acuerdos institucionales para afrontar el inframunicipalismo argentino, Iturburu y Redondo (Comps.), Cooperación Intermunicipal en Argentina, Buenos Aires, INAP-EUDEBA, 2001, pp. 37-60. 360 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

de hace algunos años muestra toda su potencialidad para la promoción de procesos de desarrollo local en base a una escala mucho más amplia y apropiada para la resolución de problemáticas variables y complejas.

3. La articulación en la gestión local Desde hace algunos años en el ámbito de la administración pública la- tinoamericana comenzaron a emerger una variedad de mecanismos ins- titucionales orientados a incrementar la participación ciudadana y el control democrático sobre la administración pública, principalmente a través de la promoción de fórmulas asociativas entre el sector público, el sector privado y la ciudadanía3. Estas iniciativas, promovidas “desde la base” por diversas organizaciones de la sociedad civil, tienen como principales objetivos hacer visibles sus demandas; influir en los proce- sos de reforma del Estado; asegurar la provisión de bienes colectivos y servicios públicos básicos a toda la ciudadanía (no sólo a quienes pue- den afrontar su costo) y elevar los índices de transparencia y responsa- bilización (accountability) de los funcionarios públicos. Quienes promueven estos cambios apuntan sus críticas tanto contra el aparato burocrático y jerárquico bienestarista como contra el mode- lo gerencial que pretende poner la promoción del bienestar común en manos del libre juego de la oferta y la demanda. En este sentido, fren- te al fracaso de los anteriores modelos de gestión, el paradigma de la gestión asociada – también denominado gobernanza4 – puso el acen- to en la participación de actores no estatales en los procesos de toma de decisiones y en la interacción, la negociación en redes y la coope- ración como mecanismos esenciales para satisfacer las necesidades de los ciudadanos. Esto no implica que el Estado haya pasado a desempe-

(3) Entre los principales mecanismos de gestión asociada promovidos en el último tiempo en el ámbito local se destaca la amplia difusión que han alcanzado los presupuestos participati- vos y la generación de redes público-privadas para el desarrollo de proyectos socioeconómi- cos locales. (4) Quienes abogan por el asociativismo público-privado, utilizan el término gobernanza para hacer referencia a un nuevo estilo de gobierno, distinto del modelo del control jerárquico, ca- racterizado por un mayor grado de cooperación y por la interacción entre el Estado y los acto- res no estatales en el interior de redes decisionales mixtas entre lo público y lo privado. R. Ma- yntz, Nuevos desafíos de la teoría de governance, en Revista Instituciones y Desarrollo, Desarro- llo Institucional para la Gobernabilidad Democrática, Cataluña, n. 7, 2000, pp. 35-52. SAGGI E ARTICOLI 361

ñar un rol secundario, sino que de manera paulatina ha comenzado a asumir un rol centrado en la coordinación de los objetivos de la acción pública resultante de la interacción entre la sociedad civil, el sector pú- blico y el privado. Para el caso argentino, en donde el Estado ha sido históricamente fuerte e intervencionista, la gobernanza parece surgir o afianzarse en el ámbi- to de los gobiernos locales, lo cual resulta llamativo ya que tradicional- mente el gobierno nacional no ha promovido el asociativismo intermu- nicipal como estrategia para el desarrollo local o regional en Argentina. De hecho su incorporación en la agenda política se dio con posterio- ridad a la reforma de dos constituciones provinciales, las cuales sirvie- ron de incentivo para el resto de las provincias argentinas: por un lado, la Constitución de San Juan de 1986, en la cual se incluyó una cláusula que habilitó a los municipios a «convenir con la provincia o con otros municipios la formación de organismos de coordinación y cooperación necesarios para la realización de obras y la prestación de servicios pú- blicos comunes» (art. 251°, inc. 9 y 18), y por el otro, la Constitución de Córdoba de 1987, cuyo artículo 190º habilitó la conformación de orga- nismos intermunicipales «para la prestación de servicios, realización de obras públicas, cooperación técnica y financiera y de actividades de in- terés común de su competencia»5. Fueron estas reformas los verdaderos detonantes del proceso asocia- tivo intermunicipal evidenciado en Argentina a partir de la década de 1980. En este sentido, con posterioridad a las mismas el gobierno na- cional comenzó a promover la creación de organismos asociativos mu- nicipales de diversa naturaleza (principalmente consorcios públicos y microrregiones) a través de una desordenada e inconexa oferta de pla- nes y programas (en muy pocos casos articulados con las provincias) dirigidos a los gobiernos locales, sin distinciones en cuanto a la canti- dad de población que concentraban, a su superficie o a sus capacida- des institucionales.

(5) Claramente, ambas reformas constitucionales se vieron influenciadas por la Carta Europea de Autonomía Local (1985) y especialmente por la Declaración Universal sobre Autonomía Lo- cal (1986), en las cuales se reconoció el derecho de asociación entre gobiernos locales, reafir- mando los principios de autonomía municipal y de solidaridad entre los pueblos. 362 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Entre las principales iniciativas promovidas por el gobierno nacional a favor del asociativismo municipal se destaca el Programa de Microrre- giones Patagónicas (Pmp), orientado a fomentar el desarrollo equilibra- do y sustentable de la región sureña, caracterizada por la existencia de grandes extensiones territoriales y de numerosos enclaves poblaciona- les aislados. Dicho programa fue puesto en marcha en 1993 luego de que el gobierno nacional creara la Comisión Nacional para la Promo- ción y Desarrollo de la Región Patagónica (Conadepa). Por su interme- dio se crearon diecisiete microrregiones intermunicipales en el sur del país, las cuales contaron con el apoyo económico y técnico del gobier- no nacional para la definición de Planes Maestros de Desarrollo orien- tados a resaltar las potencialidades productivas y la realidad sociocultu- ral de cada área en cuestión. Promediando la década del noventa, la Secretaría de Desarrollo Social de la Nación promovió el fortalecimiento de los consorcios productivos in- termunicipales creados en la Provincia de Buenos Aires a través de la en- trega de cuantiosos recursos económicos a los mismos en el marco del Programa Federal de Solidaridad (Prosol). De acuerdo a Cravacuore y Clemente, esta experiencia fue infortunada ya que los consorcios no eje- cutaron proyectos por sí sino que distribuyeron los fondos entre los mu- nicipios, los que a su vez los asignaron a emprendimientos locales de dudoso rigor técnico y escaso valor económico. Las irregularidades del Prosol denunciadas por la Sindicatura General de la Nación y la falta de financiamiento posterior conllevaron al virtual abandono de este progra- ma, provocando que a partir de mediados de 1996 el mismo funciona- ra sólo con los fondos de recuperación que el propio Prosol concebía6. En tercer término resulta importante referirnos al Plan Nacional de Moder- nización de los Gobiernos Locales, implementado a partir del año 1999 por la recién creada Subsecretaría de Asuntos Municipales del Ministerio del In- terior de la Nación. Por su intermedio, el gobierno nacional alentó la con- formación de microrregiones en todo el país con el objetivo principal de solucionar los problemas de gestión urbana que trae aparejada la conur- bación y el intercambio de flujos entre ciudades. Inicialmente, el plan pre-

(6) D. Cravacuore, A. Clemente, El proceso reciente de asociativismo intermunicipal en Argenti- na, XI Congreso Internacional del CLAD, Guatemala, 2006. SAGGI E ARTICOLI 363

vió una inversión de 4.5 millones de dólares, financiados de manera con- junta por el Banco Interamericano de Desarrollo, el gobierno nacional y los propios municipios. Lamentablemente, la renuncia del presidente de la Nación, Dr. Fernando De La Rúa, en diciembre de 2001, determinó el cese de todas las acciones que se encontraban en marcha, incluida la asistencia técnica que prestaba la Subsecretaría a los municipios asociados. Más cerca en el tiempo se destaca la asistencia económica y financiera brin- dada a numerosos municipios y organismos intermunicipales de todo el país por parte del Ministerio de Economía y Finanzas Públicas de la Nación a través del Programa de Fortalecimiento Institucional y Productivo (Pro- fip) y de la Unidad Nacional de Preinversiones (Unpre), la cual financió la elaboración de numerosos proyectos orientados a satisfacer las necesidades de los municipios asociados con fines de promoción turística y producti- va, principalmente. Por último, debe destacarse el apoyo técnico brindado a los municipios nacionales por la Secretaría de Asuntos Municipales y por la Subsecretaría de Gestión Municipal del Ministerio del Interior de la Nación durante la última década, con el fin de impulsar la realización de acuerdos de diversa naturaleza entre autoridades locales, orientados a la elaboración de estrategias y a la solución de problemáticas de interés común. En muy pocos casos el gobierno nacional articuló acciones con los go- biernos provinciales en materia de fomento al asociativismo municipal. A decir verdad, salvo contadas excepciones, los gobiernos provinciales se han mostrado reacios a la creación de organismos intermunicipales por temor a que con el tiempo éstas iniciativas debiliten su poder polí- tico7. La resistencia de las provincias recién comenzó a ceder con poste- rioridad al fallo de la Suprema Corte de Justicia de la Nación de 1989 ti- tulado “Rivademar Ángela c/ Municipalidad de Rosario”, y más pronun- ciadamente, luego de la reforma de la Constitución Nacional de 1994, por la cual se consagró la autonomía municipal. Antes de adentrarnos en el análisis del marco jurídico que regula la creación y el funcionamiento de los organismos intermunicipales en Argentina, sin

(7) Entre las escasas iniciativas detectadas se destaca el Programa de Productividad Asociati- va impulsado a mediados de la década del noventa por el Instituto Provincial de Acción Coo- perativa (Ipac) de Buenos Aires con el fin de otorgar financiamiento a los consorcios producti- vos intermunicipales bonaerenses. 364 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

embargo, conviene efectuar una distinción entre dos modalidades diferentes de gestión intermunicipal, las cuales resumen las distintas estrategias y arre- glos institucionales elaborados de manera espontánea por los municipios ar- gentinos para superar la fragmentación política e institucional de los territo- rios en los que se asientan: el modelo supramunicipal y el intermunicipal8. Siguiendo a Claudio Tecco, el primer modelo supone la creación de un nuevo nivel de gobierno, con legitimidad política directa y autono- mía plena (institucional, política, administrativa y económica-financie- ra) al cual se deberían articular, de modo subordinado, las instituciones locales preexistentes. El modelo intermunicipal, por su parte, consiste en la construcción de acuerdos voluntarios entre gobiernos locales, los cuales conservan su autonomía y legitimidad política, asociándose sólo para prestar servicios o coordinar la ejecución de programas y/o pro- yectos. Una modalidad, ésta última, mucho más ventajosa que la supra- municipal, que no debilita la autonomía de los municipios asociados y que además resulta compatible con las constituciones provinciales, las cuales prohíben la creación de nuevos niveles de gobierno, intermedios entre los municipios y las provincias. En este sentido, en países como Argentina, en donde no existen antecedentes de gobiernos metropoli- tanos (supramunicipales) y se posee una tradición municipalista muy arraigada, no resulta sencillo construir una nueva institucionalidad que sustituya a la anterior9. El régimen federal argentino en general abona la posibilidad de construir de modo flexible, gradual y mediante consenso social una nueva institucionalidad intermunicipal10. En consecuencia, en Argentina se ha ido consolidando ipso facto una

(8) Los procesos de regionalización intraprovincial generalmente son promovidos por gobiernos provinciales afectados por alguna variante del inframunicipalismo con el fin de aumentar la efi- ciencia en la prestación de servicios públicos o de facilitar la implementación de procesos de des- centralización o desconcentración administrativa. Se trata, de esta forma, de procesos de agrupa- miento municipal descendentes, promovidos “de arriba hacia abajo” (mediante normativas que fi- jan los límites de las regiones creadas y sus competencias administrativas) y no de iniciativas es- pontáneas y voluntarias, promovidas por los propios actores involucrados.

(9) C. Tecco, Gestión metropolitana y equidad social, IV Congreso Argentino de Administración Pública, Sociedad, Gobierno y Administración, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, 2001.

(10) C. Tecco, Regiones Metropolitanas: ¿fragmentación político-administrativa o gestión aso- ciada? Aportes para una discusión sobre la Región Metropolitana Córdoba, Administración Pú- blica y Sociedad, n. 14, IIFAP, UNC, 2007. SAGGI E ARTICOLI 365

nueva institucionalidad a partir de la celebración de acuerdos asociativos intermunicipales, de los cuales normalmente se deriva la creación de en- tidades u organismos a cargo de la administración de los proyectos co- munes. De acuerdo a Daniel Cravacuore, dentro del arreglo institucional argentino prevalecen dos tipos de organismos intermunicipales11: a) Consorcios públicos: generalmente constituidos por gobiernos loca- les de escaso tamaño o población para la prestación de uno (mo- nofuncional) o varios (plurifuncional) servicios públicos, para la construcción de obras públicas y/o realización de diversas tareas propias de la administración local, como la compra de suministros y bienes en conjunto. b) Microrregiones: a diferencia de los consorcios, estos entes suponen un nivel de coordinación más grande por parte de los gobiernos lo- cales asociados, quienes no se vinculan solamente para prestar un determinado servicio público sino para construir instancias de desa- rrollo colectivo mucho más vastas, que comprendan todos los órde- nes de la administración local. A continuación nos ocuparemos de analizar el marco jurídico que sus- tenta la creación de organismos intermunicipales en Argentina, a los efectos de determinar el grado de autonomía que efectivamente deten- tan los gobiernos locales al momento de participar en este tipo de ini- ciativas y las principales restricciones contextuales asociadas a la nor- mativa legal que enmarca el desarrollo de este tipo de estrategias.

4. Restricciones legales al asociativismo municipal Desde su sanción en el año 1853 la Carta Magna impuso a las provin- cias la obligación de asegurar el régimen municipal en sus constitucio- nes como condición básica para que el gobierno federal garantice a las mismas el goce y ejercicio de sus instituciones. En consonancia con es- te mandato, todas las provincias argentinas incluyeron en sus constitu- ciones capítulos sobre su organización municipal, regulando todos los aspectos concernientes al funcionamiento y amplitud competencial de los municipios dentro de su territorio.

(11) D. Cravacuore, Análisis del asociativismo intermunicipal en Argentina, en Medio Ambiente y Urbanización, Buenos Aires, Año 22, 2006, n. 64, pp. 3-16. 366 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

En el año 1994, la reforma de la Constitución Nacional estableció una nueva obligación a las provincias en su artículo 123°, la de asegurar el carácter autónomo pleno a los municipios en el orden institucional, po- lítico, administrativo y económico-financiero. Conforme a esta prescrip- ción, corresponde a las provincias reglamentar el alcance y contenido de esta autonomía en el ámbito de su propio territorio, lo que ha gene- rado una multiplicidad de regímenes municipales con profundos mati- ces entre sí en torno a la forma de organización, competencias, delimi- tación territorial y categorización de los municipios. Incluso este últi- mo término es utilizado de manera indistinta en la mayoría de las pro- vincias, empleándoselo muchas veces de forma análoga con el de co- muna, departamento, distrito, comisión o partido, para citar los térmi- nos más usuales. En cuanto a la obligación impuesta a las provincias por el artículo 123° de la Constitución Nacional, la ausencia de una cláusula que fije un lí- mite temporal a las mismas para adecuar sus constituciones permitió que algunas de ellas incumplieran con el mandato impuesto, lo que ha ocasionado consecuencias lamentables a sus municipios. En este senti- do, las provincias de Buenos Aires, Santa Fe y Mendoza aún no han re- conocido la autonomía municipal en sus constituciones, con lo cual el funcionamiento de los municipios se encuentra fuertemente condicio- nado en dichas provincias, especialmente en el orden institucional, el cual supone para los municipios la posibilidad de dictar sus cartas or- gánicas. En lo que respecta al reconocimiento del derecho asociativo municipal en las constituciones provinciales, en su amplia mayoría guardan silen- cio al respecto, situación que parece haberse hecho extensiva a la esca- sa normativa de carácter infraconstitucional sancionada en las provin- cias. Esto no parece ser un obstáculo para el jurista Enrique Marchiaro, para quien «los actuales instrumentos de regulación jurídica son sufi- cientes para acompañar el proceso intermunicipal»12. Desde nuestra perspectiva, en cambio, sostenemos que si bien la ausen- cia de reconocimiento constitucional de este derecho no impide la crea-

(12) E. Marchiaro, El derecho argentino y lo intermunicipal. Más fortalezas que debilidades. Me- dio Ambiente y Desarrollo-América Latina, Buenos Aires, Año 22, 2006, n. 64, pp. 27-35. SAGGI E ARTICOLI 367

ción de organismos intermunicipales, cuanto menos desalienta su confor- mación, condicionando el funcionamiento de los mismos al contenido de la normativa vigente, la cual suele restringir la cooperación a una cierta actividad o a la creación de un tipo específico de organismo, imponiendo además una serie de “requisitos” a los municipios que decidan asociarse. De acuerdo al análisis efectuado, tan sólo nueve de las veinticuatro ju- risdicciones administrativas en que se divide el país habilitan constitu- cionalmente a sus municipios a constituir organismos intermunicipales: Buenos Aires13, Chubut, Córdoba, Corrientes14, Entre Ríos, La Rioja, Neu- quén, Río Negro y San Juan. Por su parte, las constituciones de Catamar- ca, Chaco, Salta, Santiago del Estero y Tierra del Fuego sólo hacen una escueta referencia a la posibilidad de que los gobiernos locales suscriban convenios entre sí para la satisfacción de intereses mutuos generalmente vinculados a la construcción de obras y prestación de servicios comunes. Respecto de la normativa de carácter infraconstitucional sancionada en las provincias en materia de asociativismo intermunicipal, resulta esca- sa y desactualizada. En este sentido, solo hemos podido detectarla en Buenos Aires, Chaco, Córdoba, Corrientes, Formosa, Santa Fe, Tierra del Fuego y Mendoza, lo que demuestra el escaso interés que posee la mayoría de las provincias por la promoción de estrategias cooperativas intermunicipales en sus territorios. En lo que respecta a su contenido, en su mayor parte las normas detec- tadas se encuentran asociadas a la promoción de procesos de regiona-

(13) Llama la atención el caso de Buenos Aires, ya que su Constitución (modificada un mes después de la reforma de la Constitución Nacional de 1994) limita la cooperación intermuni- cipal a la «constitución de consorcios para la creación de superusinas generadoras de energía eléctrica», una cláusula sumamente restrictiva, sólo entendible en el marco de la situación po- lítica que atravesaba la provincia al momento de la reforma, cuando la generación de energía eléctrica estaba en manos de una empresa provincial y se pensaba privatizarla. Ahora bien, a pesar de la prohibición impuesta a los municipios bonaerenses, los mismos han formado con- sorcios vinculados a un sinnúmero de áreas, entre ellas: salud, producción y servicios públicos. (14) La constitución de Corrientes, reformada por última vez el 08 de junio de 2007, es la úni- ca en el país que recepta el término “microrregión”. De acuerdo al artículo 227º: «Los munici- pios pueden crear microrregiones para desarrollar materia de competencia propia o delegada a nivel intermunicipal y supramunicipal y establecer organismos con facultades para el cumpli- miento de esos fines. La participación en microrregiones es voluntaria. Las relaciones intermu- nicipales y supramunicipales pueden involucrar sujetos públicos, privados y del tercer sector, y organismos internacionales». 368 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

lización intraprovincial del tipo “top-down”, que si bien no vulneran el principio de voluntariedad y libre consentimiento de los gobiernos lo- cales asociados cuanto menos desnaturalizan la base negocial coope- radora. En este sentido, amparándose en el pretexto de “unidad de di- rección”, muchos gobiernos provinciales impulsan la creación de orga- nismos intermunicipales (en los cuales muchas veces suelen intervenir como parte) para superar los inconvenientes derivados de los procesos de descentralización que estos mismos gobiernos promovieron, lo que eventualmente lleva a que las técnicas de cooperación intermunicipales (entre entidades en pie de igualdad jurídica) se transformen en técnicas de imposición de directrices por parte de una entidad ubicada en una posición de superioridad o supremacía respecto del resto. Cabe señalar que el marco jurídico vigente en las provincias (tanto cons- titucional como infraconstitucional) no prohíbe expresamente la suscrip- ción de acuerdos intermunicipales y/o la creación de organismos aso- ciativos municipales de ningún tipo, lo que no significa que el funciona- miento de los organismos creados no se encuentre condicionado. En es- te sentido, tras analizar la legislación sancionada en las provincias sobre la materia se ha podido constatar que, bajo la forma de vacíos legales y “autorizaciones” de las Legislaturas Provinciales, aún subsisten importan- tes controles sobre el derecho de los municipios de cooperar o asociarse entre sí, los cuales se tornan visibles cuando los organismos intermunici- pales se proponen contratar personal técnico en conjunto, adquirir equi- pos y maquinarias, conceder avales y créditos recíprocos, prestar servi- cios o realizar obras públicas de forma mancomunada, lo que se presenta como graves restricciones a los procesos cooperativos intermunicipales. En cuanto a la posibilidad de que los organismos intermunicipales tra- miten su personería jurídica de carácter público, algunas provincias co- mo Mendoza se rehúsan a hacerlo, alegando que las microrregiones no se encuentran tipificadas en el artículo 33º del Código Civil de la Repú- blica Argentina, el cual sólo otorga carácter de persona jurídica pública al Estado nacional, a las provincias y a los municipios; a las entidades autárquicas y a la Iglesia católica15. La única posibilidad de que las mi-

(15) Entrevista realizada al Esc. Jorge Liberto Romera. Director de Personas Jurídicas, Ministerio de Gobierno, Justicia y Derechos Humanos de la provincia de Mendoza (17/12/2008). SAGGI E ARTICOLI 369

crorregiones obtengan su personería jurídica es que se constituyan co- mo asociaciones privadas, lo cual han hecho algunos consorcios públi- cos. Una solución inapropiada desde nuestra perspectiva, puesto que desnaturaliza el carácter público de las articulaciones, obligando a los municipios que las integran a rendir cuentas ante una dirección admi- nistrativa provincial. Un criterio diferente se sigue en la provincia de Córdoba, en donde su Fiscalía de Estado reconoció a los organismos intermunicipales su ca- rácter de personas jurídicas públicas debido a que reúnen los requisi- tos básicos que la doctrina administrativa de la provincia establece para asignarle a un ente este carácter: creación legal (por ordenanza), fin pú- blico específico (establecido en la Constitución Provincial, vinculado a la prestación de servicios, realización de obras públicas y cooperación técnica y financiera) y capital aportado por el Estado (en este caso por los municipios, que son entes estatales)16. En esta provincia, el recono- cimiento de la personería jurídica a las microrregiones se deriva del ar- tículo 190º de la Constitución Provincial, cláusula que habilita a los mu- nicipios a constituir organismos intermunicipales y que, a nuestro en- tender, debería hacerse extensiva al resto de las constituciones provin- ciales como un modo de superar algunas de las aristas del inframunici- palismo institucional. A modo de valoración y síntesis de la normativa analizada, pueden ex- traerse las siguientes conclusiones: en primer término, la asociación en- tre gobiernos locales se presenta como un fenómeno escasamente re- gulado en el ordenamiento jurídico, tanto nacional como provincial. En este sentido, a diferencia de lo que ocurre en otros países en don- de se otorga rango constitucional al derecho de asociación municipal, la Constitución Argentina se limita a consagrar la autonomía municipal, delegando a las provincias la regulación del alcance y contenido de esta autonomía en el orden institucional, político, administrativo y económi- co financiero. En cuanto a las constituciones provinciales, sólo unas po- cas incluyen cláusulas que regulan la creación, competencias y/o fun- cionamiento de los organismos intermunicipales. El resto, por su par-

(16) Fiscalía de Estado de la Provincia de Córdoba, Dictamen n. 912/83. 370 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

te, guarda silencio al respecto o simplemente se limita a habilitar a los municipios a suscribir acuerdos para la prestación de servicios públicos y/o realización de obras o actividades de interés común. Respecto de la normativa provincial de carácter infraconstitucional, por lo general resulta bastante escueta e imprecisa, circunscribiéndose bá- sicamente a “autorizar” a los gobiernos locales a conformar organismos intermunicipales, aunque imponiendo en la práctica numerosos con- troles a los mismos. Un estudio realizado hace algunos años por Bár- bara Altschuler sustenta esta conclusión17. Según la autora, la mayoría de los organismos intermunicipales argentinos funcionan de hecho, sin una figura jurídica y una institucionalidad afianzada, lo cual represen- ta una de las principales dificultades para el reconocimiento formal y legal de estos organismos y para la actuación de los mismos como en- tes intermedios ante los gobiernos provinciales, nacional e incluso con el exterior. Esta situación se agrava para el caso de los organismos in- termunicipales conformados por actores de diferentes provincias y paí- ses, ya que resulta mucho más difícil encontrar una figura jurídica que se adapte a los regímenes municipales que regulan a los gobiernos lo- cales involucrados. Finalmente se destaca el exceso de reglamentarismo de ciertas normas provinciales, hecho que no sólo atenta contra la autonomía de los mu- nicipios sino que retrasa o dificulta el desarrollo de estrategias coope- rativas intermunicipales. En este sentido, no consideramos apropiado que las legislaturas provinciales avancen sobre la regulación de ma- terias tales como el contenido de los convenios intermunicipales, los aportes económicos y las condiciones de administración de los recur- sos asignados por los municipios a los proyectos conjuntos, la perio- dicidad de las reuniones o la metodología para la toma de decisio- nes, cuestiones que entendemos deben ser resueltas libremente por las autoridades de los municipios involucrados en base a sus intere- ses particulares y a la naturaleza de los programas o proyectos que deseen emprender.

(17) B. Altschuler, El asociativismo municipal como estrategia de desarrollo económico en la Argentina, Seminario REDMUNI, Mendoza, Argentina, 2003. SAGGI E ARTICOLI 371

5. La intermunicipalidad en balance De acuerdo a los datos suministrados por la Segunda Encuesta Nacio- nal de Asociaciones Municipales realizada en el año 2011 por la Uni- versidad Nacional de Quilmes en conjunto con la Secretaría de Asuntos Municipales de la Nación, se estima el número de organismos intermu- nicipales en Argentina en alrededor de 100. Diferentes razones motiva- ron su surgimiento, destacándose entre ellas la necesidad de motorizar procesos de desarrollo local y la resolución de problemáticas compar- tidas por gobiernos locales geográficamente cercanos entre sí. En este sentido, la totalidad de las microrregiones y consorcios fueron confor- madas por gobiernos locales limítrofes, lo que nos habla de la impor- tancia que todavía conservan la dimensión territorial y las relaciones de vecindad en el ámbito local. En términos generales, las articulaciones intermunicipales han alcanza- do diferentes niveles de complejidad y desarrollo dependiendo, funda- mentalmente, de las variaciones que presentan en la cantidad, perte- nencia territorial y características de los actores involucrados. En cuan- to a los promotores de los procesos asociativos, se destaca el rol de los intendentes municipales como principales impulsores y sostenes de es- tas iniciativas surgidas “desde abajo”, esto es, sin mediar mandato de ni- veles superiores de gobierno. En este sentido, y a pesar de que muchas de las problemáticas abordadas por las microrregiones y consorcios in- volucran jurisdiccionalmente a otros niveles de gobierno, en su totali- dad fueron creados por iniciativa de las autoridades locales, lo que con- firma la falta de interés de los gobiernos provinciales por la promoción de estos procesos, así como también (aunque en menor medida) del gobierno nacional, el cual como vimos ha promovido durante las últi- mas décadas este tipo de arreglos institucionales de manera intermiten- te a través de diversos planes y programas. Desde el punto de vista político, no se observa que la pertenencia polí- tico-partidaria de los intendentes haya incidido en los procesos de con- formación de las articulaciones. De hecho, la mayor parte de los orga- nismos intermunicipales fueron creados por intendentes de diferente signo político a través de la suscripción de convenios ratificados por los respectivos Concejos Deliberantes. En lo que respecta al alto número de microrregiones que se encuentran disueltas o inactivas (entendien- 372 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

do por esta última situación a la ausencia de actividades ejecutadas de manera asociada durante un período superior a dos años) tampoco pa- rece guardar relación con el color político de los intendentes de turno. En este sentido, tras producirse recambios en los departamentos ejecu- tivos municipales los organismos intermunicipales no se desactivaron, sino que siguieron ejecutando sus actividades normalmente. Estos datos demuestran que a la hora de avanzar en los proyectos asociativos las autoridades locales parecen haber dejado de lado los enfoques partido- cráticos tradicionales, incorporando una visión de la política más con- sensuada y plural, tendiente a aunar esfuerzos y capacidades en pos de la obtención de soluciones comunes. En cuanto a la modalidad de gestión microrregional, existen dos gran- des modelos: el de gerencia autónoma (por el cual los gobiernos loca- les delegan la coordinación del ente a uno o más funcionarios contrata- dos especialmente para que se dediquen de manera exclusiva a su ges- tión) y el de coordinación delegada del ente en uno o más funcionarios pertenecientes a las plantas de personal temporario o permanente de los municipios asociados18. Para el caso argentino, la dirección y coordinación general de las activi- dades realizadas recae directamente en la figura de los intendentes y/o de alguno de sus colaboradores más cercanos, lo que revela el alto gra- do de personalismo que afecta a la gestión intermunicipal en la provin- cia. Esta situación ha generado numerosos conflictos entre los munici- pios asociados como consecuencia de la “excesiva atención” que sue- len prestar los intendentes a cargo de las microrregiones con respecto a las necesidades de sus propios municipios y en desmedro de los in- tereses del conjunto. A los efectos de corregir esta situación resultaría importante que los or- ganismos intermunicipales contaran con una organización administra- tiva sólida y compleja, con órganos directivos, deliberativos, técnicos y de control con competencias y funciones diferenciadas, representativos de todos los gobiernos locales que participan en el mismo. Para el caso de la mayoría de las microrregiones y consorcios, sin embargo, su es-

(18) D. Cravacuore, Análisis del asociativismo intermunicipal en Argentina, en Medio Ambien- te y Urbanización, cit. SAGGI E ARTICOLI 373

tructura administrativa se encuentra muy poco desarrollada, lo que ha atentado contra la continuidad del trabajo asociativo. En este sentido, por lo general no cuentan con una estructura administrativa formaliza- da con funciones claramente delimitadas, equipos técnicos capacitados y con dedicación exclusiva a la gestión intermunicipal y/o mecanismos de monitoreo y control de las acciones ejecutadas. El cuadro de debilidad institucional que afecta a estas articulaciones se agrava, finalmente, por la ausencia de planes estratégicos intermunici- pales, estatutos, reglamentos internos y/o manuales de funciones que aseguren la implementación de los programas y proyectos asociativos, lo que da cuenta del escaso nivel de complejidad organizacional que poseen y de su disfuncionalidad estructural para el logro de los objeti- vos y metas propuestas. La inexistencia de recursos presupuestarios suficientes se presenta co- mo uno de los principales problemas que afectan la gestión de los or- ganismos intermunicipales. En este sentido, la totalidad de los funciona- rios locales entrevistados identificó esta variable como uno de los pro- blemas que más han dificultado la continuidad de los proyectos inter- municipales emprendidos, obligando a las autoridades locales a recu- rrir periódicamente a diversas fuentes de financiamiento externas para evitar la paralización de las iniciativas. En términos generales, todos los organismos intermunicipales se sostie- nen en base a una o más de las siguientes fuentes de financiamiento: - aportaciones ordinarias o extraordinarias realizadas por los gobier- nos locales, de acuerdo a los criterios establecidos en los estatutos o actas de acuerdo fundacionales; - cobro de tasas por la prestación de servicios, establecidas por el or- ganismo intermunicipal titular del servicio; - obtención de subsidios para la realización de inversiones, pago de gastos corrientes, ejecución de programas, proyectos o estudios de factibilidad, etcétera; - realización de operaciones de crédito ante organismos nacionales y/o internacionales, tanto de carácter público como privado. La tendencia general es que los organismos intermunicipales se finan- cien en base a una combinación entre dos fuentes de financiamien- to, por un lado, a las aportaciones ordinarias que suelen realizar los 374 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

gobiernos locales asociados, y por el otro, a los subsidios que even- tualmente reciban por parte del gobierno nacional, quien suele finan- ciar la realización de estudios técnicos y la ejecución de numerosos proyectos, principalmente durante las etapas iniciales de los proce- sos asociativos. En cuanto a la realización de operación de crédito, ningún ente inter- municipal ha solicitado préstamos o emitido obligaciones negociables para financiar inversiones, ejecutar proyectos o efectuar el pago de gas- tos corrientes, lo que nos parece prudente puesto que si bien no exis- ten limitaciones normativas específicas que les impidan celebrar este ti- po de operaciones crediticias, si se utilizara esta herramienta de mane- ra frecuente se correría el riesgo de que las obligaciones de pago asu- midas por las autoridades locales trasciendan los períodos de gobierno de los municipios asociados, comprometiendo futuros ejercicios presu- puestarios. Por otra parte, en el caso de que los entes consiguieran en- deudarse se condicionaría la permanencia de los gobiernos locales a los mismos (violándose de esta forma el principio de voluntariedad), puesto que los gobiernos locales deberían permanecer forzosamente dentro de los mismos, al menos hasta que cancelen la parte que les co- rresponda del crédito. Finalmente y con relación al establecimiento de tasas, ningún ente in- termunicipal ha considerado hasta el momento la posibilidad de avan- zar en este sentido en el futuro. Esta pérdida de potencial recaudatorio entraña una gran debilidad, puesto que el cobro de tasas por la presta- ción de servicios disminuiría la dependencia que actualmente poseen frente a los subsidios nacionales y provinciales y a los aportes ordina- rios y extraordinarios que realizan los municipios.

6. Alternativas para la superación de los déficits y restricciones de- tectadas En Argentina la reforma del Estado estuvo estrechamente ligada a los procesos de descentralización estatal, que impulsaron a los gobiernos locales a reformular sus políticas de desarrollo y a generar formas de gestión innovadoras que les permitieran hacer frente a una demanda ciudadana ampliada como consecuencia del traspaso de funciones y competencias desde niveles superiores de gobierno. Las iniciativas de SAGGI E ARTICOLI 375

articulación intermunicipal pueden ser interpretadas como respuestas a este complejo escenario, en la medida en que reconocieron a la bús- queda del desarrollo socioeconómico local como uno de sus principa- les objetivos. En términos generales las estrategias asociativas intermunicipales han generado considerables ventajas a los municipios que participaron de las mismas, las cuales se resumen en los siguientes puntos: - promoción e integración del territorio microrregional, a partir de la construcción de consensos entre autoridades gubernamentales de di- ferentes niveles, organizaciones de la sociedad civil y el sector em- presario; - desarrollo de estrategias productivas, sociales y económicas orienta- das al mediano y largo plazo, que superen la coyuntura política y el cortoplacismo propio de las autoridades locales; - reducción de costos y optimización de los recursos físicos y huma- nos municipales a través de la transferencia de prácticas municipales exitosas y de la distribución de funciones de acuerdo a la capacidad instalada de cada gobierno local; - acceso a tecnología, infraestructura, técnicas de gestión y equipa- miento costoso que de manera individual los gobiernos locales no podían financiar; - mayor representación y fuerza negociadora en materia de deman- da de recursos y resolución de problemas comunes ante el gobierno provincial y el sector privado. Los logros reseñados dan cuenta de los resultados alcanzados por la gestión intermunicipal, los cuales redundaron en un aumento neto de las capacidades municipales para gestionar políticas públicas de alto impacto en la calidad de vida de los ciudadanos. En cuanto a los défi- cits y restricciones contextuales que afectaron la gestión intermunicipal corresponde aportar algunos criterios para la definición de soluciones técnicas y el diseño de estrategias políticas que disminuyan su magni- tud, lo que podría contribuir a fortalecer la capacidad institucional de los municipios asociados para dar cumplimiento a los objetivos esta- blecidos. Naturalmente, las estrategias de fortalecimiento de las capacidades ins- titucionales pueden variar considerablemente, dependiendo de qué as- 376 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

pectos o procesos específicos de la gestión se pretendan mejorar. Según Oszlak y Orellana, la experiencia demuestra que, llegado el momen- to de encontrar las soluciones técnicas o políticas que permitan supe- rar las dificultades identificadas, se abre un abanico de acciones y de- cisiones potenciales que caen dentro de las siguientes cuatro catego- rías básicas19: 1) obtención de los recursos humanos, físicos o financieros necesa- rios para llevar a cabo las tareas que presentan déficits. Por ejem- plo, contratación de personal especializado para reforzar la ejecu- ción de ciertas tareas; adquisición de equipamientos industriales o herramientas informáticas u obtención de subsidios para el pago de honorarios o la compra de bienes; 2) contratación de servicios de consultoría externa para viabilizar la eje- cución de tareas de carácter no permanente cuya realización resul- ta imposible de encarar con recursos propios. Por ejemplo, para el desarrollo de estrategias comunicacionales, diseño de programas in- formáticos, instalación y puesta en marcha de nuevas tecnologías de gestión, generación de instancias de participación física y virtual, ela- boración de planes estratégicos, etc.; 3) capacitación orientada a proporcionar información, aumentar cono- cimientos y/o modificar actitudes del personal actual o a contratar en el futuro, en la medida requerida para el eficaz cumplimiento de sus respectivos roles en el marco del programa que se encuentre en eje- cución; 4) toma de decisiones por parte de autoridades públicas (nacionales, provinciales o municipales), del sector empresario u/o de otros ac- tores orientadas a superar las restricciones que impiden la ejecución de determinadas tareas. Nos referimos, por ejemplo, a la aprobación de leyes, decretos u ordenanzas, a la suscripción de acuerdos o bien a la decisión de acometer procesos de reforma constitucionales con el fin de ampliar las competencias de los municipios o de eliminar alguna restricción concreta que haya dificultado la ejecución de una o más tareas.

(19) O. Oszlak, E. Orellana, El análisis de la capacidad institucional: aplicación de la metodo- logía SADCI, Artículo inédito, Buenos Aires, Argentina, 1993. SAGGI E ARTICOLI 377

Un primer aspecto a tener en cuenta para superar las restricciones con- textuales y déficits detectados es la obtención de los recursos físicos y económicos necesarios para ejecutar las acciones consensuadas. En la medida de lo posible se recomienda que las autoridades municipa- les recurran a fuentes de financiamiento internas (aportes ordinarios y extraordinarios para el pago de gastos corrientes, adquisición de in- sumos, ejecución de tareas menores y elaboración de estudios de fac- tibilidad técnica o económica) y en menor medida a fuentes externas (fondos concursables o donaciones condicionadas por parte de agen- cias de cooperación internacional para llevar a cabo proyectos de ma- yor envergadura), lo cual promoverá la autogestión de las microrregio- nes, disminuyendo progresivamente la dependencia que mantienen las mismas con respecto al gobierno provincial o nacional. Esto no signifi- ca que los municipios deban descartar la búsqueda de alternativas pa- ra incrementar los ingresos de los organismos intermunicipales que in- tegran. En este sentido, opciones tales como el establecimiento de ta- sas o el cobro de ingresos específicos por servicios prestados deberían ser estudiadas detenidamente por los intendentes y Concejos Delibe- rantes, puesto que podrían llegar a contribuir sensiblemente al logro de los objetivos fijados. En cuanto a los aportes ordinarios y extraordinarios realizados por los municipios, no resultaron significativos (especialmente los primeros) ni frecuentes (especialmente los segundos), destinándose principalmen- te al pago de sueldos de consultores privados y/o de gastos corrientes vinculados a la gestión intermunicipal. En la medida de lo posible, se recomienda que este tipo de aportes se acrecienten de manera propor- cional a sus capacidades económicas, para lo cual se propone el esta- blecimiento de un mecanismo de aportación que asegure que el muni- cipio que posea más recursos presupuestarios (o que se vea más bene- ficiado por la aplicación de un programa o proyecto en concreto) sea el que realice el mayor esfuerzo económico. Por otra parte, resultaría importante la inclusión de cláusulas en las ac- tas de acuerdo fundacionales que aseguren la automaticidad de los aportes económicos de los municipios, con prescindencia de los even- tuales problemas presupuestarios que puedan surgir en los mismos o de las prioridades establecidas por los Intendentes. Adicionalmente, en 378 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

el caso de que las microrregiones obtengan ingresos económicos espe- cíficos provenientes de la toma de créditos y/o del establecimiento de tasas, se recomienda la creación de fondos especiales que impidan la afectación de estos recursos económicos para financiar el déficit de los gobiernos locales asociados. Un segundo aspecto a tener en cuenta es la cantidad y calidad del re- curso humano involucrado en la gestión intermunicipal. Como mencio- namos anteriormente, las microrregiones no disponen de equipos téc- nicos calificados con dedicación exclusiva a la gestión intermunicipal, lo que ha repercutido de manera negativa en el cumplimiento de los objetivos establecidos. A los efectos de facilitar la ejecución de tareas complejas se recomienda que los municipios estimulen la capacitación y formación de equipos técnicos para el diseño, implementación, mo- nitoreo y control de programas intermunicipales, lo que ayudará a dis- minuir de manera progresiva los costos derivados de la contratación de servicios de consultoría externa para la ejecución de tareas cuya realiza- ción resulta imposible de encarar con el recurso humano existente. En el caso que deba recurrirse a la contratación de personal, se sugiere que el mismo posea conocimientos y habilidades técnicas suficientes para el cumplimiento de las funciones asignadas, debiendo ser seleccionado a través de concursos públicos de antecedentes que garanticen su ido- neidad y eviten la injerencia política en los procesos de contratación. En lo que se refiere a la estructura interna de los organismos intermu- nicipales, en términos generales se encuentra muy poco desarrollada, lo que se explica mayormente por el centralismo y personalismo que caracteriza a la gestión municipal. En este sentido, el excesivo protago- nismo de los intendentes en los procesos asociativos intermunicipales se condice con la ausencia de órganos con competencias y funciones claramente diferenciadas (principalmente deliberativos y de control), lo que da cuenta del escaso nivel de complejidad organizacional de la mi- crorregión y de su disfuncionalidad estructural para el logro de los ob- jetivos propuestos. Según se desprende del análisis efectuado, resultaría recomendable que los entes intermunicipales se administren en base a una estructura ad- ministrativa que garantice la representación de los gobiernos locales asociados y la existencia de instancias de debate y control que cuenten SAGGI E ARTICOLI 379

con la participación del resto de los actores públicos y privados involu- crados en el cumplimiento de los objetivos establecidos. Dicha estruc- tura debería componerse por los órganos de gobierno que los munici- pios autónomamente establezcan, garantizando que ningún gobierno local posea mayoría absoluta en los mismos. En relación a la planificación estratégica, se recomienda utilizar esta he- rramienta de gestión para orientar los esfuerzos y capacidades de todos los actores que se desenvuelven en los territorios mancomunados, a tra- vés de la generación de consensos tendientes a superar las debilidades internas y los desafíos que plantea el entorno. Concretamente, debería priorizarse el diseño de planes estratégicos microrregionales, a los efec- tos de superar la visión fragmentada del territorio local que prevalece actualmente, reflejada en la existencia de planes estratégicos municipa- les que se contraponen con las visiones u objetivos establecidos por go- biernos locales vecinos. Finalmente, resta referirnos a la toma de decisiones necesarias para su- perar las restricciones contextuales y déficits de capacidad que dificul- taron la gestión intermunicipal. Desde nuestra perspectiva, esta última categoría es la que reviste el mayor grado de complejidad (y también de incertidumbre) puesto que gran parte de las decisiones requeridas deben ser tomadas por instituciones o individuos ajenos a los organis- mos intermunicipales, lo que supone un esfuerzo adicional para los in- tendentes y funcionarios locales a cargo de las mismas, quienes deben mantener un diálogo fluido con estas entidades e individuos con el fin de conseguir que los mismos accionen de la manera esperada. De acuerdo al análisis efectuado, la principal decisión que deberían to- mar los gobiernos provinciales en donde aún no se encuentra recono- cida la autonomía municipal en sus constituciones es emprender un proceso de reforma del régimen municipal con el objetivo principal de eliminar las restricciones institucionales vigentes a la cooperación y el asociativismo entre gobiernos locales. Dicha reforma, sin embargo, no debería limitarse al simple reconocimiento de la autonomía de los municipios sino que además debería avanzar sobre otros aspectos que completan la organización municipal, entre ellos: composición, elec- ción y duración de los cargos electivos locales; representación de todos los departamentos en la Cámara de Senadores de la Legislatura Provin- 380 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

cial; incorporación de mecanismos de democracia directa en la esfera local y reconocimiento de la capacidad impositiva municipal. En adición a lo anterior, consideramos fundamental que se incorporen cláusulas que reconozcan expresamente el derecho de asociación mu- nicipal para la prestación de servicios, la realización de obras públicas y la cooperación técnica y financiera para la ejecución de actividades de interés común de competencia municipal. Dicho artículo debería re- conocer el carácter de personas jurídicas públicas a los organismos in- termunicipales, siempre y cuando reúnan los requisitos básicos que la doctrina administrativa de la provincia establezca para asignarle a es- te tipo de entes este carácter, a saber: creación legal, finalidad pública específica y capital aportado por el Estado (en este caso por los muni- cipios). Finalmente, cabe efectuar una última recomendación, en aras de que las reformas que eventualmente se promuevan en los regímenes muni- cipales tengan el efecto esperado. Nos referimos al diseño e implemen- tación de políticas públicas nacionales y provinciales de fomento a la cooperación intermunicipal orientadas al mediano y largo plazo, lo que facilitará la creación de agrupaciones estables de municipios y su fun- cionamiento, extendiendo los beneficios de la cooperación intermuni- cipal a todos los gobiernos locales de la provincia. Entre las acciones que podrían promoverse en este sentido se encuen- tra la creación de unidades administrativas provinciales que brinden asesoramiento y asistencia técnica y jurídica a los organismos intermu- nicipales que lo requieran; la creación de un Banco de Experiencias Locales para la difusión de las “buenas prácticas intermunicipales”; la puesta en marcha de programas de capacitación para el personal muni- cipal en materia de gestión pública asociada y el otorgamiento de sub- sidios o créditos blandos para financiar iniciativas productivas, cons- trucción de infraestructuras, adquisición de materiales y contratación del recurso humano necesario para garantizar el sostenimiento y conti- nuidad de las iniciativas. SAGGI E ARTICOLI 381

Las Áreas metropolitanas en el Derecho español: modelos vigentes e incidencia de la crisis económica Francisco Toscano Gil

Il contributo analizza la figura della Città metropolitana nell’ordinamento spagnolo, iniziando col rilevare il progressivo decadimento delle formule di governo metropolitano “forti” e la necessità di reperire alternative più fles- sibili. Il fallimento delle cosiddette “Áreas metropolitanas”, come autorità di governo locale (art. 43 LBRL), può essere risolto attraverso l’impiego di tecniche giuridiche inizialmente non immaginate per questo scopo, ma che si rivelano comunque utili ed efficaci. Tra esse, rivestono importanza peculia- re la pianificazione territoriale, le associazioni intercomunali e i consorzi locali. Da ultimo, il saggio studia l’impatto della crisi economica sulle Città metropolitane spagnole.

1. Introducción Constituye un lugar común en los estudios que se han hecho sobre los procesos de urbanización en el continente europeo afirmar que, en el mundo contemporáneo, la mayor parte de la población tiende a con- centrarse en grandes conurbaciones, frente al acusado despoblamiento de las zonas rurales, sin perjuicio de que la distribución de la población en estos grandes núcleos urbanos sea hoy día un fenómeno complejo1. En los países con costa, como es el caso español, casi todas las gran- des ciudades se encuentran en la zona costera, mientras que el interior se encuentra mayormente despoblado. Aunque en el interior también existan ciudades de tamaño medio, preponderan los pequeños muni-

(1) Entre otras cosas, por razón de la llamada contraurbanización o periurbanización. Este fe- nómeno ha sido estudiado en detalle en trabajos como los de F. Entrena Durán, “Procesos de periurbanización y cambios en los modelos de ciudad. Un estudio europeo de casos sobre sus causas y consecuencias”, Papers: revista de sociología, núm. 78, 2005, y M. Arroyo Huguet, “La contraurbanización: un debate metodológico y conceptual sobre la dinámica de las Áreas me- tropolitanas”, Scripta Nova: Revista electrónica de geografía y ciencias sociales, núm. 97, 2001. 382 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

cipios, además de un número muy importante de entidades locales de ámbito territorial inferior al municipal, fenómeno que recibe la denomi- nación de inframunicipalismo. Con ser esta última una cuestión nada menor, no es la que nos ocupa en este trabajo, en el que trataremos la forma en que se ha dado solu- ción jurídica al problema de las grandes aglomeraciones urbanas en Es- paña, las llamadas Áreas metropolitanas2. Nuestro país cuenta con un número significativo de grandes aglomeraciones urbanas o áreas metro- politanas, si bien de diverso tipo. Es posible, por tanto, encontrar dis- tintas enumeraciones de las Áreas metropolitanas españolas, según el enfoque que se adopte, y según se parta de una interpretación más o menos estricta de este concepto, de lo que se entienda que es un área metropolitana. Si bien, a título indicativo, diremos que el mayor con- senso suele estar en identificar como tales a las siguientes: las áreas de Barcelona, Madrid, Málaga, Sevilla, Valencia, Bilbao, Zaragoza y Las Pal- mas de Gran Canaria. En lo que hace a su tipología, éstas oscilan entre la estructura fuertemente monocéntrica o jerarquizada de las áreas de Madrid, Málaga, Sevilla y Valencia, y una estructura algo más abierta, no polarizada totalmente en torno a un centro, como ocurre en el caso de las áreas de Barcelona y Bilbao. Si se relaja el concepto de Área metro- politana, admitiendo aglomeraciones urbanas de estructura claramente policéntrica, deben incluirse como tales, aunque con distinta sustanti- vidad, las siguientes áreas: la de Vigo-Pontevedra, La Coruña-El Ferrol, Gijón-Oviedo-Avilés, Murcia-Cartagena-Bajo Segura, Alicante-Elche, Ba- hía de Cádiz, Valladolid-Palencia y Palma de Mallorca3. Los problemas en las Áreas metropolitanas tienen su origen en el des- ajuste entre el espacio de vida del ciudadano y la fórmula de organiza-

(2) Obsérvese que no utilizamos en ningún caso la expresión gran ciudad, o, desde luego, no la empleamos como sinónimo de Área metropolitana, con la intención de no confundir los problemas de esta última con los del municipio de gran población, como nos hemos ocupado de precisar en A. Galán Galán y F. Toscano Gil, “Las tres dimensiones de la gran ciudad”, en A. Troncoso Reigada (coord.), Comentarios a la Ley de Capitalidad y Régimen Especial de Madrid. Ley 22/2006, de 4 de Julio, Thomson-Aranzadi, Madrid, 2007. (3) Con algo más de detalle, y considerando las distintas fuentes, puede verse el análisis que se hace de esta cuestión en F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídi- cas, Iustel, Madrid, 2010, p. 62 y ss. SAGGI E ARTICOLI 383

ción administrativa. Puede decirse, de forma gráfica, que a la ciudad se le ha quedado pequeña el municipio. Si el municipio ha sido la fórmu- la elegida por el derecho español para organizar administrativamente las ciudades, lo cierto es que la ciudad, hoy día, al menos en las gran- des aglomeraciones urbanas, ha desbordado los límites administrativos del municipio. El ciudadano no se queda encerrado en el espacio terri- torial delimitado formalmente por la ley, desarrollando su vida más allá de los límites de éste, en la ciudad real. Lo que ocurre hoy es que la ciudad, como espacio en el que vive el ser humano, no se corresponde realmente con el municipio, sino que abar- ca un espacio conformado por diversos municipios, entre cuyos nú- cleos de población se establecen vinculaciones de distinto tipo, funda- mentalmente económicas y sociales, que es lo que llamamos un Área metropolitana4. Esto invita a no concebir el área metropolitana como algo distinto de la ciudad en la que vivimos: el área metropolitana no sería un espacio de vida urbano superpuesto a la ciudad, o alternativo a ésta, sino que sería la propia ciudad, pero la ciudad real. Lo que ha pasado, por tanto, es que el ordenamiento jurídico no se ha ajustado a este cambio, y sigue organizando la convivencia urbana en torno a mu- nicipios, sin consideración real del tamaño de las ciudades, aunque és- tas desborden los límites de los mismos5. Y, claro está, este desajuste organizativo ha dado lugar a problemas reales, que son sufridos por el ciudadano, en múltiples sectores de la actividad administrativa, que re- quieren de esta escala para una mayor eficacia y eficiencia organizati- va, lo que resulta bastante obvio en la acción pública en materia de ur-

(4) A este respecto, véase el análisis que hacemos en F. Toscano Gil, El fenómeno metropolita- no y sus soluciones jurídicas, cit., p. 50 y ss. (5) Sobre este tema siempre nos han parecido muy ilustrativas las palabras del profesor Morell Ocaña, cuando calificaba de históricas «las estructuras de ordenación de la propia convivencia», refiriéndose claramente al municipio. Para este autor, «lo que hoy es la ciudad, como realidad social típica, no ha sido debidamente reflejado por el derecho que la regula; en el ordenamien- to pervive aún una imagen de la ciudad que ha pasado, casi, a las páginas de la historia por- que la profunda evolución social del presente la ha ido paulatinamente borrando de la realidad viva». Cfr. L. Morell Ocaña, “La nueva Ley de Régimen Local. II. La supramunicipalidad”, Revista Española de Derecho Administrativo, núm. 9, 1976. También al respecto, puede verse, J.M. Fe- ria Toribio, “Problemas de definición de las áreas metropolitanas en España”, Boletín de la Aso- ciación de Geógrafos Españoles, núm. 38, 2004, p. 86, así como nuestro trabajo F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídicas, cit., p. 43 y ss. 384 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

banismo, por lo que tiene esta función de conformadora de la ciudad, pero también en la prestación de los servicios de transporte público, y en la gestión del ciclo integral del agua y de los residuos. Son solo al- gunas de las funciones públicas que, tradicionalmente, han demandado esta escala de organización territorial, y a las que, en los últimos años, se vienen sumando otras tantas, de naturaleza más innovadora. Un problema tal sugiere lo que, en principio, parecería una solución sencilla, y de bastante sentido común, la fusión de municipios para adaptarse al espacio real de la ciudad, creando un nuevo municipio re- sultado de la fusión de los anteriores. Pero lo que, en principio, parece sencillo, como se intuirá, no lo es, no desde luego en el caso español. No ha sido ésta una solución que pudiera adoptarse nunca para abor- dar los problemas del inframunicipalismo en nuestro país, mucho me- nos para los de las grandes aglomeraciones urbanas. Aunque con fre- cuencia se trae al debate público la experiencia comparada de fusiones de municipios en otros países europeos6, lo cierto es que España nunca se ha mostrado receptiva a esta solución, y lo que puede funcionar bien en un país no tiene por qué funcionar necesariamente bien en otro. A menudo se olvida lo distintas que son las sociedades a las que se pre- tenden aplicar soluciones idénticas, sin margen para matiz alguno. Si en el caso del inframunicipalismo ha podido pesar especialmente la fuerte identificación territorial del ciudadano con el municipio en el que vive, en el caso de las áreas metropolitanas la pervivencia del status quo vi- gente se ha debido, más bien, según creemos, a la resistencia del poder político, dueño del ejercicio del poder público, a alterarlo. Este último factor también ha estado presente, como tendremos oca- sión de ver, en el desarrollo práctico de la solución jurídica arbitrada por el legislador estatal tras la aprobación de la Constitución Española de 1978. Si bien la fusión de municipios no ha sido una opción jurídi- ca viable para solventar los problemas de las Áreas metropolitanas, ello no significa que el Estado no haya previsto una solución a tal efecto, la que estableció en 1985 en el art. 43 de la Ley Reguladora de las Bases

(6) Véase, en este sentido, el concienzudo análisis de F. López Ramón, “Políticas ante la frag- mentación del mapa municipal”, Revista de Estudios de la Administración Local y Autonómica, núm. 313-314, 2010. SAGGI E ARTICOLI 385

del Régimen Local (en adelante LBRL). Se trata de la creación de enti- dades locales metropolitanas, que reciben en esta Ley el mismo nom- bre que el del ámbito geográfico, social y humano al que ha de dar so- lución, Área metropolitana7. Lo primero que vamos a hacer en este trabajo es analizar la configu- ración legal de esta técnica jurídica diseñada en el art. 43 LBRL, la en- tidad local metropolitana llamada Área metropolitana por el legislador español. Con el propósito de que nuestro análisis no se quede en un mero estudio teórico, partiremos de la afirmación de lo que es un he- cho constatado: la utilización de la entidad local metropolitana en Es- paña no se ha correspondido con la realidad del fenómeno metropo- litano. Tampoco puede obviarse que, por muy abierto que sea el dise- ño legal, entre el modelo pensado en el art. 43 LBRL y el utilizado en la práctica se han producido significativas divergencias, que han dado lugar a una dualidad de modelos vigentes, que analizaremos detenida- mente en estas páginas. En segundo lugar, bajo la premisa cierta de que, la infrautilización de la entidad local metropolitana en España no significa que los proble- mas del fenómeno metropolitano no se hayan solucionado con otros medios, realizaremos en estas páginas un estudio sobre las otras técni- cas jurídicas de solución de lo metropolitano, distintas de la del art. 43 LBRL. Aunque no puede negarse que estas otras técnicas no se dise- ñaron específicamente con la finalidad de abordar el problema de las Áreas metropolitanas, como sí se hizo con la del art. 43 LBRL, tampoco es posible ponerse una venda en los ojos ante la realidad de que estas otras fórmulas se han utilizado con mucha frecuencia, y, por tanto, con mayor éxito que la que construyó expresamente el legislador estatal. En tercer lugar, para atender al contexto histórico en el que se escri- be este trabajo, una situación de intensa crisis económica mundial, que aún no ha terminado, y cuya finalización no está sujeta a término cierto, reflexionaremos acerca de la incidencia que haya podido tener la crisis económica sobre las fórmulas de solución jurídica del fenómeno metro-

(7) El problema de utilizar la misma denominación ha sido tratado en C. Barrero Rodríguez, Las Áreas metropolitanas, Instituto García Oviedo, Civitas, Madrid, 1993, pág. 59, y F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídicas, cit., pp. 29-30. 386 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

politano vigentes en nuestro país. En nuestra opinión, como tendremos ocasión de argumentar, la crisis económica no ha incidido directamente sobre la solución jurídica del fenómeno metropolitano en España, pero sí lo ha hecho indirectamente.

2. La utilización de la entidad local metropolitana en España no se ha correspondido con la realidad del fenómeno metropolitano Para poder entender el enunciado que da título a este epígrafe, de- bemos primero analizar la caracterización en el ordenamiento jurídi- co español de las entidades locales metropolitanas, que, como ya he- mos precisado anteriormente, reciben en la LBRL de 1985 la denomi- nación de Áreas metropolitanas. No abordaremos en este trabajo la regulación que estas entidades han tenido en normas anteriores, no solo por ser casi toda ella previa a la aprobación de la Constitución Española de 1978, sino fundamentalmente por tratarse de regulacio- nes ad hoc, establecidas solo para los casos de las áreas metropolita- nas de Madrid, Barcelona, Bilbao y Valencia, con especial atención a las dos primeras8.

2.1 La caracterización legal de las Áreas metropolitanas en el orde- namiento jurídico español La última precisión que hemos hecho en el párrafo anterior nos permi- te realizar un primer apunte caracterizador de la regulación de las Áreas metropolitanas en la LBRL, la generalidad de la solución diseñada. Es- to es, a diferencia de soluciones legales anteriores, en las que solo se buscó solventar la problemática de determinadas áreas metropolitanas, la solución prevista en 1985 en el art. 43 de la LBRL es aplicable a cual- quier área metropolitana ubicada en territorio español, abandonando toda idea de solución singular del problema. La segunda nota característica que debe apuntarse es que la solución del fenómeno metropolitano que ofrece la LBRL consiste en la creación de una organización administrativa. Lo que se establece por esta Ley

(8) Nos remitimos al extenso análisis histórico que hemos hecho de estas normas en F. Tosca- no Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídicas, cit., p. 79 y ss. SAGGI E ARTICOLI 387

es la creación de una Administración Pública, dotada de personalidad jurídica, a la que le se atribuyen funciones de planificación conjunta y coordinación de determinados servicios y obras en el ámbito territorial del Área metropolitana (arts. 4.2 y 43.2 LBRL). En conexión con esta última indicación, también puede señalarse, desde una perspectiva funcional, como tercera nota definitoria, el ca- rácter abierto de las funciones que se atribuyen por la LBRL al Área metropolitana. Ni la mención del art. 43.2 LBRL a «la planificación con- junta y la coordinación de determinados servicios y obras», ni la del 43.3 LBRL a «los servicios y obras de prestación o realización metro- politana» resultan suficientemente ilustrativas. Estas determinaciones legales no denotan más que la atribución a las Áreas metropolitanas de funciones públicas de planificación, coordinación y prestación o realización de servicios y obras, en un ámbito territorial determinado, el metropolitano, pero sin mayor precisión. Esto es, sin que la LBRL descienda al ámbito material o sectorial sobre el que se ejercerán es- tas funciones, tarea ésta que se deja a las normas de desarrollo de es- te precepto9. La cuarta característica que define al Área metropolitana es su configu- ración en la LBRL como una entidad local (arts. 3.2.b y 43.2), lo que debe destacarse porque contrasta con la decisión tomada por normas españolas anteriores, en las que el ente metropolitano se definía como una entidad estatal10. La configuración del Área metropolitana como en- tidad local implica su sujeción al Derecho local, empezando por la pro- pia LBRL, y continuando por el resto de las fuentes propias del mismo. Desde el punto de vista de la solución que se dé a los problemas que se aborden tampoco resulta inocua esta configuración, puesto que la naturaleza local del ente irá en favor de una aproximación más cercana, y más sensible, a los problemas del mundo local, favorecedora de una

(9) En cualquier caso, debe subrayarse positivamente que con esta formulación legal se supe- ra definitivamente la perspectiva sesgada hacia el urbanismo que ha tenido tradicionalmente en nuestra historia la regulación de las entidades metropolitanas, sin perjuicio de que el urbanis- mo siga siendo una función importante de las mismas, pero no la única. (10) Fue así en todos los casos hasta la aprobación del Decreto-Ley de 24 de agosto de 1974, por el que se crea la Entidad Municipal Metropolitana de Barcelona, cuya naturaleza jurídica era claramente local. 388 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

visión amplia de la autonomía local11, bajo la idea de que lo metropoli- tano es, fundamentalmente, un problema de corte local12. En relación con lo anterior, la quinta consideración que define al Área metropolitana es el tratarse de una agrupación de municipios, solo de municipios. En esta entidad local se integran municipios de grandes aglomeraciones urbanas entre cuyos núcleos de población existan vin- culaciones económicas y sociales que hagan necesaria la toma de deci- siones administrativas a este nivel (art. 43.2 LBRL). La sexta cuestión que tenemos que apuntar es que el Área metropoli- tana como agrupación de municipios no responde a una decisión au- tónoma de éstos, tratándose de una agrupación forzosa, a diferencia de las mancomunidades de municipios y los consorcios locales, que son entidades asociativas de constitución voluntaria13. La creación del Área metropolitana se impone a los municipios por la Comunidad Au- tónoma en la que éstos se ubican, que la lleva a cabo mediante ley

(11) En este mismo sentido, véase M. Bassols Coma, “La administración de las grandes ciudades en España”, en Organización territorial del Estado (administración local): Jornadas de Estudio de la Dirección General de lo Contencioso del Estado. Vol. I, Instituto de Estudios Fiscales, Ma- drid, 1985, pp. 605 y 606. (12) Siendo ésta una cuestión pacíficamente aceptada por la doctrina, traemos aquí a colación, por ser tremendamente ilustrativas, las palabras que, en su momento, pronunciara el profesor Fernández Rodríguez, según el cual, «si la aparición de las áreas metropolitanas como nueva unidad de convivencia no es sino una manifestación del tránsito de la ciudad cerrada a la ciu- dad abierta, parece claro que la solución que debe darse a esa nueva realidad no tiene por qué salir del plano del gobierno ciudadano, ya que de ciudades y de ciudadanos sigue tratándose en todo caso». De esta forma, hay que «encuadrar el fenómeno metropolitano en el marco del gobierno local, que es el único planteamiento serio que puede darse al tema». Cfr. T.-R. Fernán- dez Rodríguez, “Áreas metropolitanas y descentralización”, en S. Martín-Retortillo Baquer (dir.), Descentralización administrativa y organización política. Tomo III. Nuevas fórmulas y tenden- cias, Alfaguara, Madrid, 1973, pp. 646 y 650. (13) Las diferencias entre las agrupaciones forzosas y las voluntarias de municipios las hemos apuntado ya en F. Toscano Gil, “Título V. La cooperación territorial: entidades e instrumentos pa- ra la cooperación territorial. Mancomunidades, consorcios, convenios y redes de cooperación”, en J.L. Rivero Ysern (dir.), Montoya Martín, Encarnación y Fernández Ramos, Severiano (coord.), Derecho local de Andalucía: la Ley 5/2010, de 11 de Junio de Autonomía Local de Andalucía, Iustel, Madrid, 2012, págs. 298-301, partiendo del trabajo previo de A. Galán Galán, “La orga- nización intermunicipal en los Estatutos de Autonomía. Comunidades Autónomas y Gobiernos Locales”, en M. Zafra Víctor (coord.), Relaciones Institucionales entre Comunidades Autónomas y Gobiernos Locales, IAAP, Sevilla, 2008, pp. 84-86. SAGGI E ARTICOLI 389

formal de su Parlamento14, previa valoración de los intereses públicos en presencia (art. 43.1 LBRL). La LBRL exige audiencia a la Adminis- tración del Estado y los Ayuntamientos y Diputaciones afectados, pe- ro, independientemente de este trámite, que no es más que un me- canismo de participación en la formación de la voluntad de un terce- ro, la creación del Área metropolitana es una decisión de la Comuni- dad Autónoma. Como acabamos de indicar, la decisión de crear un Área metropolita- na, pero también la de modificarla o suprimirla15, se entrega por el Es- tado a la Comunidad Autónoma. Sin que por lo demás, el legislador es- tatal predetermine en mucho más de lo que de esta breve caracteriza- ción haya resultado, la configuración del Área metropolitana por la Co- munidad Autónoma16. Las únicas exigencias de contenido que el Estado impone a la ley de la Comunidad Autónoma reguladora del Área metropolitana, son las que aparecen en el art. 43.3 LBRL, así como, en su caso, las que se deriven del art. 4.2 LBRL. Primero, se exige que la ley autonómica determine los órganos de gobierno y administración de estas entidades, debiendo ser éstos representativos de todos los municipios que la integren. Segun- do, también deberá precisar el régimen económico y de funcionamien- to de estas Administraciones Públicas, garantizando la participación de

(14) El fundamento de esta reserva de ley se encuentra, según el profesor Morillo-Velarde Pérez, en la propia naturaleza de las Áreas metropolitanas, en cuanto «se insertan preferen- temente en el marco de las exigencias de la coordinación, pues constituyen un fenómeno de habilitación de potestades [...] condicionantes del ejercicio de las competencias munici- pales, impuesto imperativamente». Cfr. J.I. Morillo-Velarde Pérez, “Áreas Metropolitanas”, en S. Muñoz Machado (dir.), Diccionario de Derecho Administrativo. Tomo I. A-G, Iustel, Madrid, 2005, pp. 238 y 239. (15) La dicción del precepto legal resulta, como ha destacado la doctrina, muy significativa, co- mo si la potestad para crear Áreas metropolitanas se hubiera atribuido a las Comunidades Au- tónomas no tanto para que pudieran crear nuevas entidades metropolitanas sino para que pu- dieran suprimir las existentes, importante rival político del poder autonómico en el territorio. En este sentido, véanse las consideraciones de A. Jiménez-Blanco y Carrillo de Albornoz, “Las or- ganizaciones supramunicipales en España: las Áreas Metropolitanas”, Revista de Estudios de la Administración Local y Autonómica, núm. 254, 1992, p. 347.

(16) En este sentido, véase C. Barrero Rodríguez, Las áreas metropolitanas, op. cit., pág. 80-85, J.L. Carro Fernández-Valmayor, “Una reflexión general sobre las Áreas metropolitanas”, Revista de Estudios de la Administración Local y Autonómica, núm. 302, 2006, pp. 19 y 20, y F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídicas, cit., p. 132. 390 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

todos los municipios en la toma de decisiones y una justa distribución de las cargas entre ellos. Tercero, la ley deberá indicar los servicios y obras de prestación o realización metropolitana y el procedimiento pa- ra su ejecución. Por otro lado, el art. 4.2 LBRL permite, no exige, a la ley de la Comu- nidad Autónoma, que concrete cuáles de entre las potestades de las Administraciones públicas territoriales enumeradas en el art. 4.1 LBRL, serán de aplicación a las Áreas metropolitanas. Aunque el contenido es facultativo, no preceptivo, difícilmente, en tanto el Área metropo- litana es una Administración Pública, la ley autonómica no atribui- rá a ésta alguna de estas potestades, aunque sean las relativas al ré- gimen jurídico de los actos administrativos (ejecutividad, ejecutorie- dad, y el resto de manifestaciones más comunes de la autotutela ad- ministrativa). Como puede verse, todas estas indicaciones, especialmente las del art. 43.3 LBRL, son muy abiertas, y bastante obvias, siendo así que, en todo caso, era previsible que fueran abordadas por la Comunidad Autóno- ma, aunque el Estado no lo hubiera exigido en estos términos. De esta forma, lo que garantiza el art. 43.3 LBRL es, simplemente, una reserva de ley autonómica sobre estos extremos. Estas determinaciones han llevado a que el Tribunal Constitucio- nal (STC 214/1989, de 21 de diciembre, F.J. 4º) haya afirmado que el Área metropolitana es una entidad sujeta a un alto grado de interio- rización autonómica, con lo que quiere decirse que las competen- cias atribuidas a las Comunidades Autónomas sobre este tipo de en- tidades locales son más intensas que las que se les atribuyen sobre las entidades locales del art. 3.1 LBRL (municipio, provincia e isla). Por tanto, el espacio normativo del legislador autonómico es nece- sariamente mayor. En este juego de relaciones entre el legislador estatal y el legislador au- tonómico, en el que la regulación de las Áreas metropolitanas se ha he- cho en una ley del Estado, de carácter básico, precisando de leyes re- gionales, de las Comunidades Autónomas, para su desarrollo y aplica- ción práctica, el que ha quedado fuera ha sido el Texto Constitucional. A diferencia del ordenamiento jurídico italiano, en el que las Áreas me- tropolitanas han sido elevadas a máximo rango, mediante su constitu- SAGGI E ARTICOLI 391

cionalización en el texto supremo17, no ha ocurrido lo mismo en el ca- so español, en el que la Constitución Española de 1978 no ha atendido, ni entonces ni nunca, a esta realidad18. Sí se han regulado, acorde con la citada interiorización de estas entidades propugnada por el Tribunal Constitucional, en los Estatutos de Autonomía de las Comunidades Au- tónomas, si bien, de forma bastante desigual19.

2.2 Los modelos vigentes de Áreas metropolitanas en el derecho es- pañol Al amparo de esta regulación legal estatal, tan abierta, han sido dos los modelos de Administración metropolitana desarrollados por el legisla- dor autonómico, conviviendo al mismo tiempo una Administración me- tropolitana territorial y una Administración metropolitana institucional. El Área metropolitana territorial ha adoptado la forma de las Adminis- traciones Públicas territoriales o generales, caracterizándose por la ge- neralidad y pluralidad de sus fines y funciones, dentro de los límites es- tablecidos por la ley de atribución, así como por la asignación de po- testades públicas propias de las Administraciones territoriales. El Área metropolitana institucional es una Administración Pública institucional o instrumental, comúnmente una entidad sectorial a la que se atribu- yen solo ciertas funciones, en un sector determinado, y cuyas potesta- des administrativas aparecen muy delimitadas, acorde a la naturaleza instrumental de estas entidades. Ambos modelos de Administración metropolitana están vigentes en la ac- tualidad. Al primero, el de Administración territorial, responden las entida-

(17) Como es sabido, en el artículo 114 de la Constitución italiana, en la que aparecen consti- tucionalizadas las llamadas ciudades metropolitanas. (18) No puede considerarse constitucionalización de las Áreas metropolitanas las menciones indeterminadas a agrupaciones de municipios que hace nuestra Constitución. Nos referimos a los artículos 141.3 y 152.3 del Texto Constitucional español, que nos hemos ocupado de ana- lizar desde esta perspectiva en F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones ju- rídicas, cit., p. 107 y ss.

(19) Nos remitimos al análisis que, en su momento, hicimos de esta cuestión en F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídicas, cit., pp. 146-152. También nos pare- ce de interés el trabajo de E. Orduña Prada, “Las áreas metropolitanas”, en J.M. Carbonero Ga- llardo, (dir.), La intermunicipalidad en España, Ministerio de Administraciones Públicas, Ma- drid, 2005, pp. 99 y 100. 392 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

des metropolitanas de las áreas de Barcelona y Vigo, mientras que el segun- do, el de Administración institucional, viene representado por las dos en- tidades sectoriales del área de Valencia. No es que con esta breve enume- ración nos estemos limitando a poner algunos ejemplos, es que estos que hemos señalado son los únicos casos vigentes en el ordenamiento jurídico español20. Esta vigencia ha de ser matizada en el caso del Área metropolita- na de Vigo, que, pese que la hemos incluido en la enumeración por haber sido creada recientemente por Ley 4/2012, de 12 de abril, lo cierto es que todavía no ha entrado en funcionamiento21. No hay, por lo demás, muchos más precedentes en los años anteriores, salvando el caso de las dos entida- des sectoriales del área de Barcelona, que ya no existen22, y el de la entidad territorial del área de Valencia, que tampoco se encuentra vigente23.

(20) Sin perjuicio de que las Comunidades Autónomas hayan optado en algunos casos por es- tablecer una regulación de sus posibles Áreas metropolitanas, pero sin que regular éstas signifi- que necesariamente crearlas. Las leyes autonómicas vigentes en las que se contienen disposicio- nes sobre Áreas metropolitanas, pero sin crearlas, son las siguientes: Ley 6/1988, de 25 de agosto, de Régimen Local de la Región de Murcia (art. 62); Ley 1/1998, de 4 de junio, de Régimen Local de Castilla y León (arts. 45-47); Ley 7/1999, de 9 de abril, de Administración Local de Aragón (art. 76, particularizada con respecto al área metropolitana de Zaragoza); Ley 1/2003, de 3 de marzo, de la Administración Local de La Rioja (art. 75, particularizada en relación al Área metropolitana de Logroño); Ley 2/2003, de 11 de marzo, de la Administración Local de la Comunidad de Ma- drid (arts. 2 y 76); Ley 20/2006, de 15 de diciembre, Municipal y de Régimen Local de las Illes Ba- lears (arts. 2 y 56); Ley 14/1990, de 26 de julio, de reforma de la Ley 8/1986, de 18 de noviembre, de Régimen Jurídico de las Administraciones Públicas de Canarias (Disposición Adicional Terce- ra, referida exclusivamente a las áreas de Las Palmas de Gran Canaria y Santa Cruz de Tenerife). (21) El bloqueo del Área metropolitana de Vigo obedece, según nos consta por la prensa, a razo- nes de tipo político, esto es, a la falta de acuerdo entre los distintos partidos políticos que cuentan con representación en la misma, disenso que se produjo ya en el Parlamento gallego, donde la Ley de creación del Área se aprobó con el voto en contra de los principales partidos de la oposición. (22) Nos referimos a la Entidad Metropolitana del Transporte de Barcelona y a la Entidad Me- tropolitana de Servicios Hidráulicos y Tratamiento de Residuos de Barcelona, ambas creadas por Ley 7/1987, de 4 de abril, de la Generalitat de Cataluña, por la que se establecen y regulan actuaciones públicas especiales en la conurbación de Barcelona y en las Comarcas compren- didas dentro de su zona de influencia directa. Mediante esta Ley se suprimió la preconstitu- cional Entidad Municipal Metropolitana de Barcelona, que procedía del año 1974. Se sustituye por las dos entidades sectoriales a las que no acabamos de referir. Mediante Ley 31/2010, de 3 de agosto, del Área Metropolitana de Barcelona, estas dos entidades son disueltas, sustituidas por una Administración metropolitana territorial, del tipo de la que se eliminó en el año 1987. (23) Por Ley 12/1986, de 31 de diciembre, de la Generalitat valenciana, se creó el llamado Con- sell Metropolità de l’Horta, Administración metropolitana territorial, que estaría vigente hasta su supresión por Ley 8/1999, de 3 de diciembre, de la Generalitat valenciana. No sería hasta la Ley 2/2001, de 11 de mayo, de creación y gestión de Áreas Metropolitanas en la Comunidad Valen- ciana, que se crearían las dos entidades sectoriales vigentes. SAGGI E ARTICOLI 393

Por tanto, si, en resumidas cuentas, podemos decir que son solo cuatro las entidades vigentes en tres de las áreas metropolitanas españolas (las de Barcelona y Vigo, y las dos de Valencia), siendo el número de éstas superior, como se ha visto, al de las entidades creadas, el balance a fa- vor del Área metropolitana del art. 43 LBRL resulta muy negativo. Es por esta razón por lo que sosteníamos al principio, que la utilización de la entidad local metropolitana en España no se ha correspondido con la realidad del fenómeno metropolitano. El balance es aún más desolador si se tiene en cuenta que, como hemos defendido en otra parte, el mo- delo de Área metropolitana institucional no era lo que tenía en mente el legislador estatal en el diseño del art. 43 LBRL24. La explicación de este fracaso de la utilización del Área metropolitana prevista en el art. 43 LBRL no es unívoca, pudiendo señalarse varias cau- sas. En primer lugar, obedece a la configuración del Área metropolitana como instrumento de coordinación interadministrativa, que la Comuni- dad Autónoma impone obligatoriamente a los municipios. Esto ha hecho que se trate de una fórmula poco querida por éstos. Lo que, indudable- mente, se ha tenido presente, sabedores todos de que la imposición de una solución por la fuerza está llamada a fracasar, en cuanto genera no- tables disfunciones y termina desembocando en la ineficacia del sistema. La renuencia municipal puede explicarse desde una doble perspectiva, en la que cabe pensar que ha tenido alguna influencia el modelo históri- co español de entidad metropolitana25. Por un lado, está claro que existe un cierto miedo a que se produzca una nueva centralización de lo me- tropolitano, ahora hacia la Comunidad Autónoma, instancia territorial su-

(24) En este sentido, lo que discutimos, no es tanto el carácter de Administración territorial o institucional que pueda resultar del art. 43 LBRL, sino la monofuncionalidad de las entidades metropolitanas valencianas, que, a nuestro parecer, no estaba en la mens legislatoris, aunque luego se haya admitido sin dificultad. Fundamentamos esta tesis en el análisis de los anteceden- tes del art. 43 LBRL, la Entidad Municipal Metropolitana de Barcelona de 1974 y las Entidades Municipales Metropolitanas de la Ley de Bases del Estatuto de Régimen Local de 1975, entida- des que en nada se parecen al modelo valenciano. Así lo hemos argumentado ya en F. Toscano Gil, “El área metropolitana en el ordenamiento jurídico español”, Cuadernos de Derecho Local, núm. 25, 2011, p. 118. También al respecto, en la misma línea, véase Á. Sánchez Blanco, Orga- nización intermunicipal, Iustel, Madrid, 2006, pp. 87 y 88.

(25) Véase, al respecto, el análisis histórico que hacemos en F. Toscano Gil, El fenómeno metro- politano y sus soluciones jurídicas, cit., p. 79 y ss. 394 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

perior que impone la solución a adoptar. Por otro lado, cabe detectar un cierto recelo del municipio a perder peso específico, bien porque éste pueda diluirse en el nuevo ente, en el caso de los municipios de mayor población, bien porque pueda resultar fagocitado por otro municipio ma- yor, en el caso de los municipios de menor población. Pero no solo los municipios se han mostrado reticentes a la utilización del Área metropolitana, tampoco las Comunidades Autónomas, principa- les responsables de adoptar esta medida organizativa, han querido su im- plantación. Más preocupadas por salvaguardar su espacio de poder pro- pio, las Comunidades Autónomas parecen haber asumido la competen- cia para crear Áreas metropolitanas con la vista puesta en no crearlas, o, incluso, en eliminarlas, allí donde éstas pudieran suponer un contrapoder político local generador de enfrentamientos con el poder autonómico26. Ahora bien, pese a lo poco representativas que puedan ser, en térmi- nos numéricos, las Áreas metropolitanas creadas en España, creemos que merece la pena detenerse, aunque sea someramente, y en tanto re- sulte ilustrativo, en la regulación y caracterización legal de estas cuatro entidades. En las páginas siguientes abordaremos su naturaleza jurídi- ca, potestades y competencias. No entraremos en el análisis de su ré- gimen organizativo y financiero, en cuanto nos bastará con lo primero para caracterizar, como Administración territorial o institucional, según corresponda, a estas entidades.

2.2.1. El Área metropolitana de Barcelona El Área metropolitana de Barcelona se crea, y regula, por Ley 31/2010, de 3 de agosto, del Área Metropolitana de Barcelona (BOE núm. 231, de 23 de septiembre de 2010)27. En esta Ley se define como «ente local

(26) Son bien representativos de esto que estamos diciendo los siguientes hechos: la supresión de la Corporación administrativa del Gran Bilbao en 1980, la transferencia de las funciones de la COPLACO a la Comunidad Autónoma de Madrid en 1983, la supresión de la Entidad Municipal Metropolitana de Barcelona en 1987, y la supresión del Consell Metropolità de l’Horta en 1999.

(27) Los antecedentes de la aprobación de esta Ley han sido expuestos en J. Perdigó i Solà, “La institucionalización del Área Metropolitana de Barcelona: antecedentes y situación actual”, en T. Font i Llovet y A. Galán Galán (dir.), Anuario del Gobierno Local 2009, IDP, Fundación De- mocracia y Gobierno Local, Barcelona, 2010, págs. 123-136. Tras la aprobación de la Ley, puede verse el trabajo de S. Grau Ávila, “De nuevo una institución metropolitana para el área de Bar- celona”, Revista de derecho urbanístico y medio ambiente, núm. 263, 2011. SAGGI E ARTICOLI 395

supramunicipal de carácter territorial integrado por los municipios de la conurbación de Barcelona [...]28, entre los que hay vinculaciones eco- nómicas y sociales que hacen necesaria la planificación de políticas pú- blicas y la implantación de servicios de forma conjunta» (art. 1.2). Con- forme a esta definición, está claro que el Área metropolitana de Barce- lona responde al modelo de Administración metropolitana territorial. La naturaleza jurídica territorial de esta entidad se pone también de ma- nifiesto en las potestades y competencias que la Ley le atribuye. En lo que hace a las primeras, el art. 3 de la Ley 31/2010 las enumera, previa consideración de que, en su calidad de “Administración pública de ca- rácter territorial”, el Área metropolitana de Barcelona tiene las potesta- des establecidas para los entes públicos locales territoriales en la legis- lación de régimen local. Destaca la inclusión en este listado de potesta- des que tradicionalmente han estado reservadas a las Administraciones territoriales, como la potestad normativa, la potestad tributaria, la potes- tad expropiatoria o la potestad sancionadora. Entrando en el análisis de las competencias del Área metropolitana de Barcelona, lo primero que llama la atención es la existencia de una cláusula de competencia general, que le permite «prestar los servicios y promover las actividades que contribuyen a satisfacer las necesidades y aspiraciones de los municipios que la integran, sin perjuicio de las competencias que corresponden a otras administraciones públicas» (art. 13.2 Ley 31/2010). Sin perjuicio de las consideraciones que puedan ha- cerse acerca de la naturaleza y el alcance de esta cláusula, máxime tras la reforma de la LBRL llevada a cabo por la Ley 27/2013, de 27 de di- ciembre, de racionalización y sostenibilidad de la Administración Local (en adelante LRSAL), que, sin duda, también incide sobre el Área me-

(28) Los municipios que forman parte del Área Metropolitana de Barcelona, según el art. 2.1 de la Ley 31/2010, son los siguientes: Badalona, Badia del Vallès, Barberà del Vallès, Barcelo- na, Begues, Castellbisbal, Castelldefels, Cerdanyola del Vallès, Cervelló, Corbera de Llobregat, Cornellà de Llobregat, Esplugues de Llobregat, Gavà, LHospitalet de Llobregat, Molins de Rei, Montcada i Reixac, Montgat, Pallejà, La Palma de Cervelló, El Papiol, El Prat de Llobregat, Ripo- llet, Sant Adrià de Besòs, Sant Andreu de la Barca, Sant Boi de Llobregat, Sant Climent de Llo- bregat, Sant Cugat del Vallès, Sant Feliu de Llobregat, Sant Joan Despí, Sant Just Desvern, Sant Vicenç dels Horts, Santa Coloma de Cervelló, Santa Coloma de Gramenet, Tiana, Torrelles de Llobregat y Viladecans. 396 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

tropolitana de Barcelona, como entidad local que es29, debe subrayarse la existencia de la misma, en cuanto tradicionalmente este tipo de cláu- sulas se han reservado a entidades locales territoriales30. Las competencias del Área metropolitana de Barcelona son reguladas al detalle en los artículos 13 al 37 de la Ley 31/2010, especialmente las que tiene en materia de urbanismo, que cuentan con un título propio en la Ley, el más extenso, el Título III (arts. 19-37), lo que resulta bas- tante ilustrativo de la importancia que se le dan a estas funciones. Por lo demás, la Ley atribuye al Área metropolitana competencias no solo en materia de urbanismo, ordenación del territorio y vivienda, sino tam- bién en materia de transporte y movilidad, aguas, residuos, medio am- biente, infraestructuras de interés metropolitano, desarrollo económico y social, y cohesión social y territorial. El detalle de los artículos donde se regulan estas competencias, el art. 14 de la Ley 31/2010 así como el Título III de la misma, es mucho. No entraremos aquí en el análisis de los mismos, por cuanto excedería del propósito de este trabajo, siendo así que lo que nos interesa subrayar en este momento es la pluralidad, y generalidad, de competencias, atribuidas al Área metropolitana de Bar- celona, en cuanto entidad territorial.

2.2.2. El Área metropolitana de Vigo Por Ley 4/2012, de 12 de abril, del Área Metropolitana de Vigo (BOE núm. 111, de 9 de mayo de 2012) se crea el Área metropolitana del mismo nombre. El art. 1.2 de la misma Ley la define como «entidad local supramunicipal, de carácter territorial, integrada por los muni- cipios de Vigo y los de su área de influencia31, entre los cuales exis-

(29) Sobre esto en particular, puede verse F. Toscano Gil, “El nuevo sistema de competencias municipales tras la Ley de racionalización y sostenibilidad de la administración local: compe- tencias propias y competencias distintas de las propias y de las atribuidas por delegación”, Re- vista española de derecho administrativo, núm. 165, 2014, pp. 293 y 294. (30) Normalmente, para los municipios, como ha sido el caso del art. 25.1 LBRL, o el art. 8 de la Ley 5/2010, de 11 de junio, de Autonomía Local de Andalucía. (31) Los municipios incluidos en el Área metropolitana de Vigo, tal y como reza en el art. 2.1 de la Ley 4/2012, son los siguientes: Baiona, Cangas, Fornelos de Montes, Gondomar, Moaña, Mos, Nigrán, Pazos de Borbén, O Porriño, Redondela, Salceda de Caselas, Salvaterra de Miño, Soutomaior y Vigo. SAGGI E ARTICOLI 397

te una vinculación económica y social que hace necesarias la planifi- cación conjunta y la coordinación de determinados servicios y obras, para garantizar su prestación integral y adecuada en el ámbito de to- do el territorio así como alcanzar la eficacia de las inversiones públi- cas». Con esta formulación se despeja, con toda claridad, su caracteri- zación como Administración territorial32, lo que, como veremos a con- tinuación, se ratifica en la regulación que se hace de sus potestades y competencias. En lo que hace a las potestades administrativas atribuidas al Área me- tropolitana de Vigo, el art. 14.1 de la Ley 4/2012 dispone expresamente que le corresponden “en el terreno de sus competencias, las potestades y prerrogativas atribuidas a las administraciones públicas de carácter te- rritorial por la legislación de régimen local”. Como en el caso de la Ley del Área metropolitana de Barcelona, la enumeración que se hace en la Ley 4/2012 (art. 14.2) incluye potestades tan significativas como la nor- mativa, la tributaria, la expropiatoria o la sancionadora. Como en el caso anterior, no entraremos aquí en el análisis detallado de las competencias del Área metropolitana de Vigo, recogidas en los artículos 18 a 32 de la Ley 4/2012. Sí enumeraremos, para ilustrar sobre la pluralidad de estas competencias, conforme a su naturaleza de Ad- ministración territorial, las materias sobre las que recaen, que son las si- guientes: promoción económica, empleo y servicios sociales; turismo y promoción cultural; movilidad y transporte público de viajeros; medio ambiente, aguas y gestión de residuos; prevención y extinción de in- cendios; protección civil y salvamento; ordenación territorial y coope- ración urbanística; y, finalmente, coordinación en las tecnologías de la información y de la comunicación (art. 18.2 Ley 4/2012).

(32) Se produce, en realidad, un cambio de criterio con respecto al modelo de Administración metropolitana asumido por la legislación gallega con anterioridad a la Ley 4/2012, ya que la Ley 5/1997, de 22 de julio, de Administración Local de Galicia, definía, en su art. 2, a las Áreas metropolitanas como entidades locales no territoriales. La Ley 4/2012 (Disposición final terce- ra) modifica este artículo, en cuyo apartado 2 ahora se puede leer que, “las áreas metropoli- tanas tendrán la consideración de entidades locales supramunicipales de carácter territorial”. También se deroga la regulación previa sobre Áreas metropolitanas que se contenía en los ar- tículos 123-134 de la Ley 5/1997. 398 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

2.2.3. Las Áreas metropolitanas de Valencia Por Ley 2/2001, de 11 de mayo, de creación y gestión de Áreas Metro- politanas en la Comunidad Valenciana (BOE núm. 147, de 20 de junio de 2001), se crean la Entidad Metropolitana de Servicios Hidráulicos (Disposición adicional primera) así como la Entidad Metropolitana para el Tratamiento de Residuos (Disposición adicional segunda), ambas pa- ra el área metropolitana de Valencia33. Su regulación actual se encuen- tra en los artículos 74 a 87 de la Ley 8/2010, de 23 de junio, de la Ge- neralitat, de Régimen Local de la Comunitat Valenciana, que ha venido a sustituir, sin cambios significativos, al tratarse de una transcripción ca- si literal, la que se contenía en la Ley 2/2001. La ausencia de definición expresa en la Ley de estas entidades como entidades locales territoriales pone de manifiesto lo que no son. Ni el art. 1 ni el art. 74 de la Ley 8/2010, que hubieran sido los lugares apro- piados, les atribuyen la condición de Administración territorial. Por tan- to, las entidades metropolitanas valencianas responden, en principio, al modelo de Administración metropolitana institucional. A diferencia de las leyes catalana y gallega, la Ley 8/2010 no enumera las potestades de las Áreas metropolitanas valencianas, sino que se limi- ta a remitirse a la enumeración contenida en el art. 4.1 de la LBRL. No obstante, sí se les atribuyen, mediante esta remisión, las potestades pro- pias de las Administraciones públicas territoriales, incluyéndose algu- nas tan significativas como la normativa, la tributaria o la expropiatoria, aunque no la sancionadora, como ocurría en los casos anteriores. Pese a que se incluye la potestad tributaria, el desarrollo legal que se hace de la misma (art. 85 de la Ley 8/2010) parece bastante más limitado que el que puede verse en las leyes de las Áreas metropolitanas de Barcelona

(33) Conforme a las disposiciones citadas, los municipios integrados en la primera de estas entidades metropolitanas son los siguientes: Alaquàs, Albal, Albalat dels Sorells, Alboraya, Al- buixech, Alcàsser, Aldaia, Alfafar, Alfara del Patriarca, Alfarp, Almàssera, Benetússer, Beniparre- ll, Bonrepòs i Mirambell, Burjassot, Catadau, Catarroja, Emperador, Foios, Godella, Lugar Nue- vo de la Corona, Llombai, Manises, Massalfassar, Massamagrell, Massanassa, Meliana, Mislata, Moncada, Monserrat, Montroy, Museros, Paiporta, Paterna, Picanya, Picassent, la Pobla de Far- nals, Puçol, Puig, Quart de Poblet, Rafelbuñol, Real de Montroi, Rocafort, San Antonio de Bena- géber, Sedaví, Silla, Tavernes Blanques, Torrent, Valencia, Vinalesa y Xirivella. En lo que hace a la segunda, los municipios son los mismos, salvo Alfarp, Catadau, Monserrat, Montroy y Real de Montroi, que no forman parte de esta entidad. SAGGI E ARTICOLI 399

(arts. 40, 41 y 43 de la Ley 31/2010) y Vigo (art. 14.4 de la Ley 4/2012). En lo que hace a sus competencias, la Ley 2/2001 atribuye a la Enti- dad Metropolitana de Servicios Hidráulicos «la competencia del servicio del agua en alta, la producción y suministro hasta el punto de distribu- ción municipal» (Disposición adicional primera), y a la Entidad Metro- politana para el Tratamiento de Residuos «la prestación de los servicios de valoración y eliminación de residuos urbanos» (Disposición adicio- nal segunda). Salta a la vista lo limitado de estas atribuciones, máxime si se pone en comparación con los casos de las entidades de Barcelo- na y Vigo. Aquí, además, no es que omitamos el comentario en detalle de la regulación de estas competencias, es simplemente que tal detalle no existe en la Ley34. La monofuncionalidad de estas entidades, la es- pecialización de sus funciones, que constituye un argumento de peso a favor de su conceptuación como Administración especializada o insti- tucional, ha llevado también a que este modelo de Administración me- tropolitana sea conocido, además, como el de las entidades metropoli- tanas sectoriales35. Todas estas diferencias, que acabamos de señalar, con el modelo cata- lán y gallego, en las potestades, pero, sobre todo, en las competencias, hacen que el de las Áreas metropolitanas valencianas sea considerado un modelo de Administración metropolitana de poco alcance y menor potencialidad, lo que le ha llevado a ser habitualmente despreciado por la doctrina española36.

(34) Poco aporta a este respecto el art. 84 de la Ley 8/2010, rubricado “competencias”. (35) La propia Ley 8/2010 avala esta denominación, en su art. 75.1, cuando dice que «la Ge- neralitat podrá crear, modificar o suprimir entidades metropolitanas, que podrán tener carác- ter sectorial cuando así lo requiera la prestación de un determinado servicio público» (la cursi- va es nuestra). Si bien, lo que en la legislación valenciana aparece como una posibilidad desde el año 2001, ha terminado por ser la única opción ejercida desde entonces, con las dos entida- des metropolitanas existentes. (36) Además de haber sido objeto de fuertes críticas como solución, especialmente por lo que tuvo de sustitución del modelo anterior, de Administración metropolitana territorial, el del Consell Metropolità de l’Horta, suprimido en el año 1999. En este sentido, véase Á. Sán- chez Blanco, Organización intermunicipal, cit., p. 139, y J.A. Martínez Beltrán, “Las áreas me- tropolitanas: especial referencia al caso de la Comunidad Valenciana”, en V. Almonacid Lame- las (coord.), Entidades públicas y privadas vinculadas a la Administración local, Bosch, Bar- celona, 2008, p. 541. 400 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

3. La infrautilización de la entidad local metropolitana en España no significa que los problemas del fenómeno metropolitano no se ha- yan solucionado con otros medios El fracaso del modelo de solución del fenómeno metropolitano diseña- do por el art. 43 de la LBRL, si entendemos por tal la inaplicación de es- te precepto, salvo en los escasos casos que ya hemos contado, no sig- nifica que en España no se haya dado solución a esta problemática me- diante otras medidas diferentes de la establecida legalmente para este fin. Por el contrario, ha habido una diversidad de soluciones jurídicas a los problemas propios del fenómeno metropolitano, pero con la pecu- liaridad de que dichas soluciones se han planteado mediante técnicas no previstas inicialmente con este objeto. Las técnicas jurídicas que se han utilizado para solventar el fenómeno metropolitano en España se han caracterizado por su diversidad, diver- sidad de técnicas utilizadas y diversidad territorial en la utilización de las mismas por Comunidad Autónoma e incluso por Área metropolita- na37. Destacan las técnicas jurídicas de carácter organizativo, fundamen- talmente fórmulas asociativas, como las mancomunidades de munici- pios y los consorcios administrativos. Pero también técnicas o instru- mentos no organizativos, como la planificación o los convenios interad- ministrativos. También tenemos algún caso singular, en el que el área metropolitana y el territorio de la Comunidad Autónoma vienen prácti- camente a coincidir: nos referimos al área de Madrid. Al análisis de to- das estas fórmulas jurídicas dedicaremos las páginas que siguen, a fin de que se tenga una idea cabal de en qué consisten estas soluciones, valorando sus principales ventajas e inconvenientes.

3.1. Las técnicas organizativas alternativas: en especial, las fórmulas asociativas Entre las distintas técnicas organizativas contempladas en la LBRL, so- lo el Área metropolitana prevista en los artículos 3.2.b y 43 fue pensa- da expresamente para atender a esta realidad. Pero la práctica ha de- mostrado que, tras treinta años de vigencia de esta Ley, apenas se han

(37) Como hemos expuesto en F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones ju- rídicas, cit., pp. 239-242. SAGGI E ARTICOLI 401

creado entidades metropolitanas en nuestro país al amparo de estos artículos, por las razones que ya hemos dado. Por el contrario, ha pro- liferado la utilización de técnicas organizativas que, no estando pensa- das en la Ley específicamente para atender a estos fines, la práctica ha demostrado que se han utilizado, y con éxito, a tal fin. Es cierto que no se han usado con el mismo alcance y potencialidad que se quiso que tuviera la figura del Área metropolitana del art. 43 LBRL, pero, a fin de cuentas, sí se han utilizado, desde luego en un número mucho mayor, y han servido para solucionar problemas reales, y esto es al- go que no se puede despreciar, bajo el apego a un modelo legal des- ajustado con la realidad. Entre estas técnicas organizativas deben destacarse las fórmulas aso- ciativas, como las mancomunidades de municipios y los consorcios administrativos. La voluntariedad de la adhesión a estas organizacio- nes, la construcción del proyecto de organización metropolitana des- de abajo, por las propias entidades implicadas, los municipios, sin im- posición de un nivel de gobierno superior, el de la Comunidad Autó- noma, han sido, sin duda, todos ellos, factores que han contribuido al éxito de la utilización de estas figuras. Que mancomunidades y con- sorcios respondan al ejercicio del derecho de asociación, o de la po- testad de autoorganización, de las entidades que conforman su base, resulta también positivo desde la óptica de la autonomía local, por tra- tarse, en todo caso, de una solución mucho más respetuosa con este principio que la de la creación por ley de un Área metropolitana. Por tanto, aunque la naturaleza jurídica local del Área metropolitana del art. 43 LBRL ya era en sí una ventaja, por su mayor adecuación a la propia naturaleza de los intereses metropolitanos, fundamentalmente locales, esta ventaja será aún mayor si la entidad que se crea responde a una decisión autónoma. Y, para terminar con esta enumeración de las ventajas de las fórmulas asociativas, debe apuntarse que, también ha sido importante la mayor flexibilidad que supone la entrega de su régimen jurídico a normas de rango reglamentario, no legal, en cuanto mancomunidades y consorcios suelen regirse fundamentalmente por sus estatutos, aprobados por las entidades que se asocian, sin que la ley las condicione en exceso. Comenzando por las mancomunidades de municipios, previstas en los 402 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

artículos 3.2.c) y 44 de la LBRL, como una entidad local de base asocia- tiva, siendo esta base los municipios, «para la ejecución en común de obras y servicios determinados de su competencia», nada impide a es- tos municipios que las obras y servicios que se pongan en común sean precisamente los de ámbito metropolitano. Es una decisión que queda a su voluntad, y que pueden adoptar si resulta operativa, y, de hecho, así ha sido en muchos casos, en los que municipios integrados territo- rialmente en un área metropolitana, pero no jurídicamente, se han aso- ciado para prestar servicios metropolitanos, como la gestión de los re- siduos o el ciclo integral del agua. Esto, formalmente, no será un Área metropolitana, pero está claro que, materialmente, se diferencia poco del modelo de Administración metro- politana del área de Valencia. Difícilmente tendrá la sustantividad com- petencial y las potestades de las entidades metropolitanas de Barcelo- na o Vigo, pero, a falta de iniciativa autonómica para constituir Áreas metropolitanas, o existiendo renuencia municipal a tal solución, es me- jor que nada. Con todo, no debe despreciarse el alcance que, desde el punto de vis- ta material, pueda tener una mancomunidad de municipios metropo- litana, dado que, en su objeto, no se encuentran limitadas por Ley a un enfoque monofuncional. Es cierto que la LBRL exige en su art. 44.1 que se traten de «obras y servicios determinados», y que éstos sean de competencia municipal, pero, siempre y cuando se precisen con toda claridad cuáles son esos servicios que se le atribuyen en los es- tatutos de la mancomunidad, y que éstos se asignen dentro del mar- co de competencia municipal, nada impide que estos sean plurales38. De hecho, existe un precedente histórico muy significativo, en vigor hasta hace bien poco, el de la Mancomunidad metropolitana del área de Barcelona creada en 1988, cuya reciente extinción en el año 2010 no se debe a un fracaso, sino al éxito del acuerdo alcanzado para su

(38) En este mismo sentido, asumiendo la posible pluralidad de fines de la mancomunidad de municipios, véase C. Barrero Rodríguez, “El juego de las entidades supramunicipales en Espa- ña: algunas reflexiones en el décimo aniversario de la Ley de Régimen Local de 2 de abril de 1985”, Revista de Estudios de la Administración Local y Autonómica, núm. 264, 1994, pág. 666, y T. Font i LLovet, “Perspectivas de organización supramunicipal”, Autonomies: Revista Catala- na de Derecho Público, núm. 1, 1985, págs. 62 y ss. SAGGI E ARTICOLI 403

sustitución por una fórmula mejor, la vigente Área metropolitana de Barcelona39. Otra técnica muy utilizada para afrontar los problemas propios de las áreas metropolitanas han sido los consorcios administrativos, bien ba- jo la modalidad de consorcios autonómicos, al amparo de la regula- ción contenida en el art. 6.5 de la Ley 30/1992, de 26 de noviembre, de Régimen Jurídico de las Administraciones Públicas y del Procedi- miento Administrativo Común (en adelante LRJPAC), y de la legisla- ción autonómica correspondiente, bien bajo la forma de consorcios locales, conforme a los artículos 57 y 87 de la LBRL, y, en su caso, atendiendo a los correspondientes preceptos de la legislación autonó- mica de régimen local. La ley contempla el consorcio administrativo como una técnica de coo- peración interadministrativa mediante la que Administraciones Públicas de diversa naturaleza constituyen una Administración Pública, llamada consorcio, para poner en común asuntos del interés de todas ellas. Pu- diendo ser estos asuntos, territorialmente, de alcance metropolitano, na- da impide a las Administraciones interesadas constituir un consorcio a tal fin, para la gestión o planificación de asuntos de índole metropolita- na. De hecho, pueden citarse importantes ejemplos de consorcios que expresamente refieren el ámbito metropolitano como ámbito territorial de actuación. Si bien, la mayoría de estos consorcios son de tipo secto- rial, no plurifuncional. Los más representativos son, sin duda, los cons- tituidos en materia de transporte40.

(39) La Mancomunidad de Municipios del Área Metropolitana de Barcelona se creó en 1988 por los municipios implicados, tras la disolución por la Generalitat de Cataluña de la Entidad Mu- nicipal Metropolitana de Barcelona en 1987 y su sustitución por dos entidades metropolitanas sectoriales, con la finalidad de asumir aquellas competencias que habían quedado fuera de las nuevas entidades y que caían bajo el ámbito competencial de los municipios asociados. Fue, en cierto modo, la respuesta de éstos a la operación llevada a cabo por la Generalitat de Cataluña. Para saber más de este proceso puede acudirse a los trabajos de R. Entrena Cuesta, “La experien- cia metropolitana de Barcelona”, en L. Cosculluela Montaner (coord.), Estudios de Derecho Pú- blico Económico. Libro homenaje al Prof. Dr. D. Sebastián Martín-Retortillo, Thomson-Civitas, Madrid, 2003, y J. Tornos Mas, “Las ciudades metropolitanas. El caso de Barcelona: nacimiento, desarrollo, muerte y resurrección del área metropolitana de Barcelona”, Revista Aragonesa de Administración Pública, núm. 3, 1993.

(40) Este tema lo hemos desarrollado en extenso en nuestro trabajo F. Toscano Gil, Los consor- cios metropolitanos, Fundación Democracia y Gobierno Local, IAAP, Barcelona, 2011. 404 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Entre éstos, sobresalen, por su número, los consorcios metropolitanos de transporte creados en la Comunidad Autónoma de Andalucía, en to- das sus áreas metropolitanas41, y, siguiendo el mismo modelo, el del área metropolitana de Zaragoza, en la Comunidad Autónoma de Ara- gón42. Tanto en Andalucía como en Aragón se opta por configurar es- tos consorcios como entidades locales, siendo consorcios locales, solu- ción ésta más favorable a la autonomía local, y a una visión de lo me- tropolitano más cercana a lo local. Si bien, este modelo ha sido altera- do recientemente por la LRSAL, que, según la tesis que se defienda, ha- ría de ellos consorcios autonómicos43. Como ejemplo de consorcio me- tropolitano autonómico en materia de transportes, cabe citar, en la Co- munidad Autónoma de Cataluña, el Consorcio para la coordinación del sistema metropolitano de transporte público del área de Barcelona, la llamada Autoridad del Transporte Metropolitano de Barcelona, que se crea, en buena parte, para superar los límites e insuficiencias territoria- les de la Entidad Metropolitana del Transporte de Barcelona44. En esta

(41) Bajo una concepción amplia de lo que sea un área metropolitana, se identifican en An- dalucía hasta nueve aglomeraciones urbanas o áreas metropolitanas, y cada una cuenta con su consorcio de transportes. Nos referimos a los consorcios metropolitanos de transportes de las áreas de Sevilla, Málaga, Granada, Bahía de Cádiz, Campo de Gibraltar, Huelva, Almería, Cór- doba y Jaén. Estos consorcios están formados por la Administración de la Junta de Andalucía, Ayuntamientos del área metropolitana, y la Diputación provincial en cuyo ámbito territorial se encuentra la misma. (42) Este consorcio está formado por la Diputación General de Aragón, la Diputación Provin- cial de Zaragoza, el Ayuntamiento de ésta, y otros Ayuntamientos del área metropolitana. Lo que resulta del art. 1.1 de sus Estatutos, publicados en el Boletín Oficial de Aragón, núm. 12 de 29 de enero de 2007. (43) Estas tesis, interpretando la nueva Disposición Adicional 20ª LRJPAC, introducida por la LRSAL, que obliga a adscribir estos consorcios a la Administración autonómica, han sido ex- puestas en F. Toscano Gil, “El consorcio administrativo en la encrucijada”, Revista de Estudios de la Administración Local y Autonómica. Nueva Época, núm. 3, 2015, pp. 9 y 10, y A. Galán Ga- lán, “El nuevo régimen de los consorcios: la controvertida obligación de adscripción”, Anuario de Derecho Municipal 2014, núm. 8, 2015, págs. 101 y 102. (44) Forman parte del mismo la Generalitat de Cataluña, el Ayuntamiento de Barcelona, el Área Metropolitana de Barcelona y la Agrupación de Municipios titulares de servicios de transporte urbano de la región metropolitana de Barcelona. Todo ello conforme al art. 1 de los Estatutos del consorcio, publicados en Diario Oficial de la Generalidad de Cataluña, núm. 3652 de 7 de junio de 2002. La referencia a la Entidad Metropolitana del Transporte de Barcelona debe enten- derse ahora hecha al Área Metropolitana de Barcelona, conforme a la Disposición Adicional Pri- mera, apartados 6 y 7, de la Ley 31/2010, de 3 de agosto, del Área Metropolitana de Barcelona. SAGGI E ARTICOLI 405

misma área metropolitana, pero bajo un ámbito funcional distinto, cree- mos que merece la pena referirse al Consorcio de la Vivienda del Área Metropolitana de Barcelona, que es un supuesto de consorcio metro- politano autonómico45. Como ventaja que presenta el consorcio, y que no ofrece la manco- munidad metropolitana, está la posibilidad de integrar en esta organi- zación a Administraciones distintas de las municipales, lo que es espe- cialmente importante en el caso de la Administración de la Comunidad Autónoma, cuyas competencias sobre el territorio metropolitano no se deben ignorar46. También ha constituido una ventaja tradicional de la fórmula consorcial, frente a la mancomunidad, la mayor flexibilidad del régimen jurídico de los consorcios administrativos47. Como fórmulas asociativas también deben mencionarse, aunque no se trate de organizaciones jurídico-administrativas propiamente dichas, el recurso a entes asociativos de derecho privado para solventar problemas metropolitanos. Nos estamos refiriendo a la creación de sociedades inter- municipales, que, regidas fundamentalmente por el derecho privado, por la correspondiente legislación de sociedades, en la actualidad, el Real De- creto Legislativo 1/2010, de 2 de julio, por el que se aprueba el texto re- fundido de la Ley de Sociedades de Capital, se han utilizado para la ges- tión de servicios metropolitanos. Esta fórmula cuenta con reconocimien- to legal expreso en la Comunidad Autónoma de Andalucía, donde están reguladas por el art. 39 de la Ley 5/2010, de 11 de junio, de Autonomía Local de Andalucía, y reciben el nombre de sociedad interlocal. Para finalizar, hay que hacer referencia a la existencia de ciertas tesis, que, tanto a nivel doctrinal como institucional, han propugnado recu-

(45) Integrado por la Generalitat de Cataluña y el Área metropolitana de Barcelona, conforme al art. 1 de sus Estatutos, publicados en Diario Oficial de la Generalidad núm. 4881, 11 de mayo de 2007. Formando parte de la misma, inicialmente, la Mancomunidad metropolitana del Área de Barcelona, ésta ha sido sustituida por la nueva Área Metropolitana de Barcelona, en cum- plimiento de la Disposición Adicional Cuarta de la Ley 31/2010, de 3 de agosto, del Área Me- tropolitana de Barcelona.

(46) Así lo hemos defendido ya en F. Toscano Gil, Los consorcios metropolitanos, págs. 305 y ss. (47) Si bien, esta última ventaja ya no lo es tanto, por razón de la reforma que sobre el régimen jurídico de los consorcios administrativos ha llevado a cabo la LRSAL. Véase nuestro análisis en F. Toscano Gil, “El consorcio administrativo en la encrucijada”, cit. 406 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

rrir a otro tipo de entidades supramunicipales como la provincia, la co- marca, o la isla, para hacer frente a lo metropolitano48. Aunque la fun- ción de estas organizaciones administrativas supramunicipales no es, en principio, la gestión de lo metropolitano, en la medida en que su terri- torio venga a coincidir con el de un Área metropolitana, bien podrían terminar asumiendo funciones de este tipo sobre el territorio metropo- litano, según se sostiene. No sería precisa una coincidencia territorial exacta, bastaría con que el Área metropolitana estuviera incluida den- tro del ámbito territorial de la entidad supramunicipal. Ya que, como ha propugnado el autor más representativo de estas tesis, el Profesor Font I Llovet, cabría que, mediante una organización diferenciada, las fun- ciones metropolitanas se ejercieran únicamente sobre aquella parte del territorio en la que estuviera el Área metropolitana49. Esta solución tiene como principal ventaja evitar la duplicidad y el so- lapado de estructuras administrativas, tan caras a los ciudadanos, en cuanto a sus costes económicos, innecesarios cuando se pueden alcan- zar soluciones de este tipo. Su viabilidad real dependerá tanto de las posibilidades organizativas que ofrezca el ente al que ésta se aplique, como de la coyuntura política de cada territorio.

3.2. La planificación metropolitana El plan como instrumento para ordenar la acción de la Administración en el tiempo, en un ámbito material determinado y en atención a unos fines predefinidos, ofrece variantes de distinto tipo, y muy diversa na- turaleza, más allá de esta definición común que proponemos. Si el plan se utiliza como herramienta con la que disciplinar la actuación de las Administraciones implicadas en el territorio metropolitano, el plan po-

(48) La Fundación Democracia y Gobierno Local, participada por Diputaciones Provinciales, propugna en su Libro Verde. Los Gobiernos locales intermedios en España. Diagnóstico y pro- puestas para reforzar el valor institucional de las Diputaciones provinciales y de los demás Go- biernos locales intermedios en el Estado autonómico, Madrid, 2011, p. 173, la constitución de “agencias metropolitanas”, entendemos que vinculadas a la Diputación Provincial, «en la que participaran conjuntamente los municipios integrados y los propios órganos de la provincia».

(49) Cfr. T. Font i Llovet, “La renovación del poder local: avances en la configuración jurídica e institucional del Gobierno Local”, en T. Font i Llovet (dir.), Anuario del Gobierno Local 2001, Diputación de Barcelona, Marcial Pons, IDP, Barcelona, 2001, p. 32. SAGGI E ARTICOLI 407

drá considerarse también instrumento de solución del fenómeno me- tropolitano, y es en tal sentido en el que hablaremos de planificación metropolitana o de planes metropolitanos. Son tres los tipos de planes metropolitanos a los que nos referiremos en estas páginas, en el ámbito estrictamente jurídico, los planes de ordenación del territorio y los pla- nes urbanísticos supramunicipales, y, en el campo de las ciencias em- presariales, los llamados planes estratégicos. Comenzaremos por los planes de ordenación del territorio, en cuanto se trata del tipo de plan de mayor rango a nivel normativo, dado que suelen tener naturaleza de norma reglamentaria, y mayor alcance mate- rial, puesto que responden al ejercicio de una función pública integral, la ordenación del territorio. La ordenación del territorio es en el orde- namiento jurídico español una competencia de las Comunidades Autó- nomas (art. 148.1.3ª Constitución Española), y los planes de ordenación del territorio han sido regulados, de forma desigual, por las leyes de las mismas50. En bastantes casos, el ámbito territorial objeto de la planifi- cación suele ser una aglomeración urbana, lo que es tanto como decir un área metropolitana. En estos casos, el plan de ordenación del terri- torio funciona como técnica de solución del fenómeno metropolitano, cuya principal ventaja es la integración de toda la acción pública so- bre el espacio delimitado. Aunque el recurso a los mismos durante mu- chos años ha sido escaso y desigual, la última década ha mostrado un repunte significativo de la utilización de este instrumento, que debe sa- ludarse favorablemente. En el ejercicio de esta función de planificación territorial de las áreas me- tropolitanas españolas destaca la acción de la Comunidad Autónoma de Andalucía, que, en un proceso no exento de vicisitudes y dificultades va- rias, ha elaborado varios Planes de Ordenación del Territorio de ámbito subregional, para las distintas áreas andaluzas. El primero de estos pla- nes, aprobado a finales de 1999, fue el Plan de Ordenación del Territorio de la Aglomeración Urbana de Granada51. El segundo en aprobarse, bas-

(50) Nos remitimos al trabajo de A.A. Pérez Andrés, La ordenación del territorio en el Estado de las Autonomías, Instituto García Oviedo, Marcial Pons, Madrid, 1998. (51) Decreto 244/1999, de 27 de diciembre, por el que se aprueba el POTAU de Granada (BO- JA núm. 37, de 28 de marzo de 2000). 408 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

tante más tarde, en el 2004, fue el Plan de Ordenación del Territorio de la Aglomeración Urbana de Bahía de Cádiz52, que fue anulado dos años después por el Tribunal Superior de Justicia de Andalucía53. En el año 2009 se aprueban dos planes especialmente importantes por el volumen de población al que afectan, los Planes de Ordenación del Territorio de las Aglomeraciones Urbanas de Sevilla y Málaga54. A estos les siguieron los Planes de la Aglomeraciones Urbanas de Almería55 y Campo de Gi- braltar56 en el año 2011, y de Jaén57 en 2014. En el horizonte futuro están previstos los planes correspondientes a las aglomeraciones urbanas de Huelva y Córdoba58, así como la revisión del Plan de Bahía de Cádiz, aho- ra Bahía de Cádiz-Jerez, por ampliar su ámbito territorial59. Puede decirse que, recuperado el impulso del proceso de planificación con los planes de las áreas metropolitanas de Sevilla y Málaga, éste no se ha detenido. Fuera de Andalucía, los planes de ordenación del territorio metropoli- tano más importantes se han elaborado en el País Vasco y Cataluña60.

(52) Decreto 462/2004, de 27 de julio, por el que se aprueba el POTAU de la Bahía de Cádiz y se crea su Comisión de Seguimiento (BOJA núm. 198, de 8 de octubre de 2004). (53) Véase la Sentencia de 21 de abril de 2006 del Tribunal Superior de Justicia de Andalucía. (54) Decreto 267/2009, de 9 de junio, por el que se aprueba el POTAU de Sevilla y se crea su Comisión de Seguimiento (BOJA núm. 132, de 9 de julio de 2009), y Decreto 308/2009, de 21 de julio, por el que se aprueba el POTAU de Málaga y se crea su Comisión de Seguimiento (BO- JA núm. 142, de 23 de julio de 2009). (55) Decreto 351/2011, de 29 de noviembre, por el que se aprueba el Plan de Ordenación del Territorio de la aglomeración urbana de Almería y se crea su comisión de seguimiento (BOJA núm. 2, de 4 de enero de 2012). (56) Decreto 370/2011, de 20 de diciembre, por el que se aprueba el Plan de Ordenación del Territorio del Campo de Gibraltar (BOJA núm. 54, de 19 de marzo de 2012). (57) Decreto 124/2014, de 14 de octubre, por el que se aprueba el Plan de Ordenación del Territorio de la aglomeración urbana de Jaén (BOJA núm. 214, de 3 de noviembre de 2014). (58) El POTAU de Huelva fue formulado por Decreto 522/2008, de 9 de diciembre (BOJA núm. 6, de 12 de enero de 2009), y el de Córdoba mediante Decreto 242/2011, de 12 de julio (BO- JA núm. 146, de 27 de julio). (59) El Decreto 241/2011, de 12 de julio, por el que se acuerda la formulación del Plan de Or- denación del Territorio de Bahía de Cádiz-Jerez de la Frontera, se encuentra publicado en BO- JA núm. 146, de 27 de julio.

(60) Para un análisis detenido de ambos casos, J.M. Feria Toribio, “La ordenación del territorio en las áreas metropolitanas españolas”, en J.M. Jurado Almonte (coord.), Ordenación del Territo- rio y Urbanismo: conflictos y oportunidades, UNIA, Sevilla, 2011, pp. 147-151. SAGGI E ARTICOLI 409

En lo que hace al País Vasco, hace ya años que se aprobó el Plan Terri- torial Parcial del Bilbao Metropolitano, por Decreto 179/2006, de 26 de septiembre, del Gobierno Vasco61. Más reciente es la aprobación en Ca- taluña del Plan Territorial Metropolitano de Barcelona, mediante Acuer- do del Consejo de Gobierno de Cataluña de 20 de abril de 201062. Aho- ra bien, en el resto del territorio español, el panorama es bastante des- igual y desolador, las Administraciones Públicas autonómicas parecen sumidas en una constante huida hacia delante, en la que el plan terri- torial es visto como un instrumento indeseable, en cuanto te vincula a él, constituyendo un importante elemento de control de la discreciona- lidad administrativa63. El urbanismo también es una competencia de las Comunidades Autó- nomas en España, pero compartida con los municipios. Aunque la esca- la propia de la acción pública en materia urbanística sea la ciudad, en- tendiendo por tal el término municipal, la legislación autonómica sue- le contemplar también la posibilidad de aprobar planes urbanísticos de alcance supramunicipal, a iniciativa o con participación de los muni- cipios implicados. Es el caso, por ejemplo, de los llamados Planes de Ordenación Intermunicipal previstos en el art. 11 de la Ley 7/2002, de 17 de diciembre, de Ordenación Urbanística de Andalucía64. Su alcance material no es el de un plan de ordenación del territorio, eso está claro, es mucho más limitado, centrándose en problemas urbanísticos, y, ade- más, comúnmente en actuaciones muy concretas. Pero territorialmen- te su ámbito podría ser metropolitano, o al menos desenvolverse den-

(61) Boletín Oficial del País Vasco núm. 212, de 7 de noviembre de 2006. (62) Diari Oficial de la Generalitat de Catalunya núm. 5627, de 12 de mayo de 2010. (63) Véase el análisis que hacemos de este proceso en otras Comunidades Autónomas, en F. Toscano Gil, “Áreas metropolitanas: diversidad jurídica y planificación territorial”, Revista de Es- tudios Regionales, núm. 93, 2012, págs. 83 y 84. (64) El art. 11.1 de la Ley 7/2002, de 17 de diciembre, de Ordenación Urbanística de Andalu- cía, dispone que «los Planes de Ordenación Intermunicipal tienen por objeto establecer la orde- nación de áreas concretas, integradas por terrenos situados en dos o más términos municipales colindantes, que deban ser objeto de una actuación urbanística unitaria». El art. 11.3 de la mis- ma Ley precisa que, «el contenido de los Planes de Ordenación Intermunicipal comprenderá las determinaciones propias de los Planes Generales de Ordenación Urbanística que sean adecua- das para el cumplimiento de su objeto específico». 410 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

tro de uno de los círculos del mismo, por lo que, en estos casos, podría considerarse, pese a lo limitado de su alcance, como una forma más de abordar los problemas propios del fenómeno metropolitano. La planificación estratégica es una técnica de planificación ajena al mundo del derecho; se sitúa más bien en el campo de las ciencias em- presariales, pero por razón de la trascendencia real que ha tenido en la solución de lo metropolitano, no podemos no considerarla en este aná- lisis. En este sentido son muchos los planes estratégicos aprobados en algunas de las Áreas metropolitanas más importantes de nuestro país. Su principal ventaja ha estado en la incorporación a la planificación de actores privados, interesados en el plan como motor de desarrollo eco- nómico del territorio, y aumentando la cooperación más allá de la es- fera pública. Sin ánimo de ser exhaustivos, podemos citar algunos planes estratégi- cos de los que tenemos constancia, comenzando por el I Plan Estraté- gico Metropolitano de Barcelona, aprobado en marzo de 2003, cuya úl- tima revisión, de noviembre de 2010, recibe la denominación de Plan Estratégico Metropolitano de Barcelona – Visión 2020. En el País Vas- co, debe destacarse la aprobación en 1992 del Plan Estratégico de Re- vitalización del Bilbao Metropolitano, que fue seguido del Plan Estraté- gico Bilbao Metropolitano 2000-2010, aprobado en 1999, siendo el úl- timo hito la Reflexión Estratégica Bilbao Metropolitano 2030, aprobada el pasado 2011. También hay que hacer referencia al Plan Estratégico de Zaragoza y su Área de Influencia, aprobado en julio de 1998, y so- metido a revisión en junio de 2006, concretada en el Plan Estratégico de Zaragoza y su Entorno, que ya se ha visto superado, agotado su pe- riodo de vigencia, por el llamado Marco Estratégico Zaragoza 2020. Fi- nalmente, en Andalucía, debe destacarse, por su enfoque metropolita- no, el II Plan Estratégico de Málaga, que fue aprobado en el año 2006, y reformulado en el 2010. Entre las insuficiencias de la planificación debe subrayarse el que no es- temos ante una fórmula organizativa, lo que hace que se quede corta cuando se trata de pasar del plan a la acción. Esto es evidente, pues no es tal su naturaleza jurídica, y la aprobación de un plan metropolitano no supone necesariamente la constitución de una organización administrati- va encargada de su ejecución. Aunque algunas de las entidades metropo- SAGGI E ARTICOLI 411

litanas existentes utilicen esta técnica como recurso, conforme a previsio- nes legales65, un plan metropolitano no es un Área metropolitana, ni pre- supone la constitución de una entidad de estas características. Pese a que ello podría ser deseable, constatada la existencia de un espacio territorial susceptible de planificación, y aprobado un plan metropolitano, ello no supone en todo caso un encuentro de voluntades dirigidas a constituir una organización. Téngase también presente que, aunque los planes es- tratégicos y los planes urbanísticos supramunicipales respondan normal- mente a una libre concurrencia de voluntades, no sucede lo mismo con los planes de ordenación del territorio, que son un instrumento de coor- dinación de la Comunidad Autónoma sobre los municipios.

3.3. Los convenios interadministrativos como solución ad hoc En la escala de los distintos instrumentos que pueden utilizarse para abordar los problemas propios de las áreas metropolitanas, el convenio interadministrativo ocupa, sin duda, una posición muy menor. Es cierto que las previsiones de los artículos 6 y 8 de la LRJPAC, pero, sobre to- do, del art. 57 de la LBRL, pueden amparar la celebración de convenios entre las Administraciones Públicas que ejerzan competencias en el te- rritorio de un área metropolitana. La legislación permite que mediante los convenios se articule la cooperación entre las Administraciones Pú- blicas tanto en servicios locales como en asuntos de interés común, lo que, sin ningún problema, se puede llevar al ámbito de interés metro- politano, convirtiéndose, pues, este instrumento en una técnica más de solución de lo metropolitano. Pese a la ventaja de la voluntariedad que pueda ofrecer un mecanismo como éste, lo cierto es que su alcance, al menos al amparo de su regu- lación legal, resulta bastante limitado, y es por esa razón por lo que lo hemos situado al final. El convenio interadministrativo tiene poco reco- rrido más allá de la solución de problemas concretos, lo que no es po-

(65) Es el caso del Plan de actuación metropolitano, previsto en el art. 15 de la Ley 31/2010, de 3 de agosto, del Área Metropolitana de Barcelona, así como del Plan director urbanístico me- tropolitano y el Plan de ordenación urbanística metropolitano, previstos en el art. 21 de la mis- ma Ley. En la misma línea, pueden mencionarse el Plan metropolitano de actividades, obras y servicios, previsto en el art. 16 de la Ley 4/2012, de 12 de abril, del Área Metropolitana de Vi- go, y el Plan territorial integrado metropolitano, contemplado en el art. 28 de la misma Ley. 412 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

co, en cuanto resuelva, pero no es desde luego comparable a la cons- titución de una organización administrativa a tal efecto, o a la elabora- ción de un plan, se queda, pues, es una mera solución al caso66. Distinto sería que se contemplaran con mayor alcance, lo que hoy por hoy no está previsto en estos términos en nuestra legislación, implican- do a actores privados, y diseñándolo como instrumento específico con el que abordar la problemática de las áreas metropolitanas. En este sen- tido, con la denominación propia de convenio metropolitano, estaba previsto en el Primer Borrador del Libro Blanco para la Reforma Local en España, elaborado por el Ministerio de Administraciones Públicas el año 2005, pero tal propuesta ni siquiera llegó a la versión definitiva del Libro Blanco, mucho menos a un texto de rango legal67.

3.4. El caso singular del Área metropolitana de Madrid: la Comuni- dad Autónoma como entidad metropolitana Finalmente, debe exponerse aquí el caso singular del área metropolitana de Madrid, que, en principio, puede sorprender que no cuente con Área metropolitana al amparo del art. 43 LBRL, dado que se trata, como es sa- bido, del área metropolitana más importante del Estado español. Por ello, resulta llamativo que en ella no se haya adoptado esta solución, desde la disolución en 1983 de la COPLACO, que era su entidad metropolitana

(66) Como ha sido destacado en A. Pérez Moreno, “Las áreas metropolitanas entre la esperanza y la aporía”, Revista de Derecho Urbanístico, núm. 140, 1994, pág. 21. (67) Las páginas 93 y 94 del Primer Borrador del Libro Blanco para la Reforma del Gobierno Local en España se referían a los convenios metropolitanos en los siguientes términos: «Las grandes conurbaciones, singularmente, exigen a la vez la coordinación de todos los actores territoriales que inciden en ellas, y la articulación de todas las políticas sectoriales que las afec- tan, para lograr las sinergias necesarias y avanzar por la senda de la cohesión territorial y social. A estos efectos, se considera que procede la introducción en la legislación básica de régimen local de los «convenios metropolitanos», como instrumentos voluntarios flexibles de colabora- ción entre el Estado, las comunidades autónomas y las áreas metropolitanas institucionales – o los municipios de las áreas metropolitanas funcionales – con la finalidad de desarrollar un pro- yecto metropolitano común mediante la planificación de las inversiones y la coordinación de las grandes políticas públicas que afectan a la metrópoli: planeamiento urbanístico, grandes in- fraestructuras de transporte, movilidad, vivienda, medio ambiente (incluyendo el ciclo hidráuli- co y de los residuos), seguridad ciudadana, desarrollo económico local, [...] Estos convenios podrían incorporar a otros actores institucionales y sociales relevantes, co- mo las universidades, las cámaras de comercio, y los sindicatos y las organizaciones patrona- les más representativos». SAGGI E ARTICOLI 413

preconstitucional68. Pero ello se debe a que el desarrollo del Estado de las Autonomías, la constitución en este caso de la Comunidad Autónoma de Madrid tras la aprobación de la Constitución Española de 1978, lo hi- zo innecesario, al producirse una coincidencia bastante aceptable entre el ámbito territorial de la Comunidad Autónoma y el del área metropolitana. De esta forma, no ha sido preciso que la Comunidad Autónoma consti- tuya por ley un Área metropolitana, puesto que poco ganaría, en cuan- to a potencialidad sobre el territorio, y al alcance competencial y de sus potestades, tal entidad. Dicho de otra manera, en el área metropolitana de Madrid es la Comunidad Autónoma la entidad metropolitana, que no solo es una entidad política territorial, sino que cuenta incluso con po- testad legislativa, mayor capacidad de incidir sobre el territorio no hu- biera sido posible. La creación de un Área metropolitana bajo la cober- tura legal del art. 43 LBRL no habría sido una solución mejor69. Con ser esto cierto, esta consideración no puede obviar lo que se pier- de con esta solución, la visión local, en cuanto los municipios no for- man parte de la entidad metropolitana, y ninguna vía de participación administrativa o institucional, por mucho que se perfeccione, podría su- plir este defecto de base70.

4. La crisis económica no ha incidido directamente sobre la solución jurídica del fenómeno metropolitano en España, pero sí lo ha hecho indirectamente Habida cuenta del contexto en el que se escribe este trabajo, la crisis económica mundial de estos últimos años71, que ha fundamentado, o

(68) La COPLACO (Comisión de Planeamiento y Coordinación del Área Metropolitana) era un organismo autónomo estatal constituido por Ley 121/1963, de 2 de diciembre, del Área Metro- politana de Madrid.

(69) Véanse al respecto las reflexiones deJ. Fernández-Miranda Fernández-Miranda, Madrid: área metropolitana, gran ciudad, capital del Estado y de su respectiva Comunidad Autónoma, Co- lex, Madrid, 2005, pp. 73-78.

(70) A este problema nos hemos referido en F. Toscano Gil, El fenómeno metropolitano y sus soluciones jurídicas, cit., pp. 119 y 120. (71) Como es sabido por todos, su inicio se suele fechar en la quiebra de Lehman Brothers el 15 de septiembre de 2008 en los Estados Unidos de América, sin que aún se haya dado una fe- cha cierta de su finalización. 414 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

ha sido la excusa para, muchas de las reformas que sobre organización territorial se están llevando a cabo en Europa, también en Italia y Es- paña72, pensamos que nuestro análisis quedaría cojo si no se aborda- ra en qué medida ha podido afectar dicha crisis a las técnicas jurídicas de solución del fenómeno metropolitano. En nuestra opinión, la crisis económica no ha incidido directamente sobre la solución jurídica del fenómeno metropolitano en España, pero sí lo ha hecho indirectamen- te. En las páginas que siguen, expondremos cómo hemos llegado a es- ta conclusión. Para poder responder adecuadamente a esta pregunta, es preciso de- limitar antes el enfoque desde el que se va a llevar a cabo el análisis. En lo que hace al objeto de la misma, consideraremos únicamente las técnicas organizativas, esto es, las Áreas metropolitanas propiamente dichas, pero también, en la medida de lo posible, mancomunidades y consorcios metropolitanos. Nuestro análisis será doble: por un lado, se estudiará en qué medida la legislación de crisis ha incidido sobre es- tas instituciones jurídicas, por otro, se examinará si durante el periodo de crisis económica se han constituido o no nuevas entidades metro- politanas. Comenzando con el análisis de la legislación de crisis, para determi- nar en qué medida ha podido afectar ésta a las organizaciones metro- politanas españolas, debemos acotar, antes de empezar, qué entende- mos por legislación de crisis. A los efectos de este trabajo, partiremos de una concepción restrictiva, en la que entenderemos por tal única- mente aquellas leyes del Estado que, con motivo de la crisis económica, han tenido por propósito llevar a cabo reformas estructurales de nues- tras Administraciones Públicas, para ajustarse al cumplimiento del prin- cipio de estabilidad presupuestaria, en la forma en que éste ha queda- do recogido en el art. 135 de la Constitución Española tras la reforma que tuvo lugar en septiembre del 2011. Como es, por todos, conocido,

(72) Véanse al respecto, T. Font i LLovet y A. Galán Galán, “Gobierno local y reorganización del territorial: ¿la reforma vendrá de Europa?, en T. Font i LLovet y A. Galán Galán (dir.), Anuario del Gobierno Local 2011, IDP, Fundación Democracia y Gobierno Local, Barcelona, 2012, p. 11 y ss., así como L. Vandelli, “Italia en la vorágine de las reformas: de las ciudades metropolitanas al Senado de las autonomías”, en T. Font i LLovet y A. Galán Galán (dir.), Anuario del Gobierno Local 2013, IDP, Fundación Democracia y Gobierno Local, Barcelona, 2014. SAGGI E ARTICOLI 415

esta reforma constitucional, y, en general, toda la legislación de crisis, tiene su origen en la obligación asumida, por parte del Estado español, de cumplir el llamado Pacto de estabilidad y crecimiento en el seno de la Unión europea. Bajo esta premisa, deberemos tener en cuenta, en primer lugar, la Ley Orgánica 2/2012, de 27 de abril, de Estabilidad Presupuestaria y Soste- nibilidad Financiera (en adelante LOEPSF), así como, en un segundo or- den de consideraciones, tanto la ya citada LRSAL, como la Ley 15/2014, de 16 de septiembre, de racionalización del Sector Público y otras me- didas de reforma administrativa (en adelante Ley 15/2014)73. No consi- deraremos otras medidas que el Gobierno de la Nación ha llevado a ca- bo en el marco de sus planes de reforma de las Administraciones Públi- cas, por tratarse de medidas que afectan exclusivamente al sector públi- co estatal74, siendo así que, como ya se ha expuesto, las entidades me- tropolitanas se sitúan en el sector público local, o, en el caso de algunos consorcios, en el autonómico, pero nunca en el estatal. Lo primero que resulta de este análisis es la constatación de que en nin- guna de estas normas hay un tratamiento específico o diferenciado de las Áreas metropolitanas. Esto es, en ningún caso, el Estado español ha considerado que realizar una reforma de la organización territorial que tuviera por objeto a las áreas metropolitanas, fuera una opción políti- ca que permitiera cumplir mejor con el principio de estabilidad presu- puestaria, o, simplemente, lograr una reducción del gasto público. No se mencionan en ninguna de estas leyes ni el Área metropolitana del art. 43 LBRL, ni las mancomunidades o consorcios metropolitanos. Es cierto que sí hay una nueva regulación de los consorcios en las mis- mas, pero no por su condición, en su caso, de entidad metropolitana. Es por esta razón por la que hemos sostenido al comienzo que la crisis económica no ha incidido directamente sobre la solución jurídica del

(73) Esta última Ley tiene su origen en la constitución, mediante Acuerdo del Consejo de Mi- nistros de 26 de octubre de 2012, de la Comisión para la reforma de las Administraciones Pú- blicas (CORA). (74) Nos referimos, fundamentalmente, al Plan de reestructuración y racionalización del sec- tor público empresarial y fundacional estatal, aprobado por Acuerdo del Consejo de Ministros de 16 de marzo de 2012. 416 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

fenómeno metropolitano en España, porque hemos tomado de referen- cia estas medidas legislativas. No se ha considerado esta realidad como un factor a tener en cuenta en la reforma de la organización territorial del Estado. Se nos podría decir que el legislador estatal ha querido ser cauteloso a la hora de ejercer sus competencias sobre entes sujetos a una fuerte interiorización autonómica, respetando la doctrina del Tribu- nal Constitucional que ya conocemos, así como las competencias de las Comunidades Autónomas, razón por la que podría haber decidido no incidir sobre estas entidades. Pero lo cierto es que el Estado no ha teni- do ningún reparo en afectar de forma sustantiva el régimen jurídico de otros entes sujetos a la misma interiorización, como los consorcios lo- cales o las entidades locales de ámbito territorial inferior al municipal, así que este argumento no resulta determinante. Si lo que se busca es aumentar la eficiencia y eficacia de nuestras -or ganizaciones públicas, una opción lógica y de sentido común hubie- ra sido llevar a cabo una reforma de la LBRL, aprovechando la LRSAL, que potenciara la constitución de Áreas metropolitanas, igual que se ha querido potenciar la fusión de municipios en el nuevo art. 13 LBRL, o la gestión supramunicipal de determinados servicios bajo la coordinación de la Diputación provincial en los municipios con población inferior a 20.000 habitantes, según el nuevo art. 26.2 LBRL. No obstante, en nues- tra opinión, no se ha querido asumir el coste político de forzar la consti- tución de Áreas metropolitanas, o no se ha querido alterar el status quo del poder que ya se tenía en las grandes ciudades, como si el déficit y la deuda pública, que se supone justificaban estas reformas, fueran ex- clusivos de los pequeños municipios75. Más allá de eso, las Administraciones metropolitanas vigentes no me- recen mayor atención en estas leyes, no más atención que la que cual- quier otra entidad local, todas ellas sujetas a las mismas exigencias de racionalización y sostenibilidad financiera. Téngase en cuenta que, co- mo ya hemos puesto de manifiesto, estamos hablando, a lo sumo de cuatro entidades (la de Barcelona, la de Vigo, y las dos de Valencia), y

(75) A esta cuestión ya nos referimos en F. Toscano Gil, “La reforma local y la intermunicipali- dad”, en J.M. Feria Toribio (coord.), Mancomunidades, consorcios, áreas metropolitanas y redes de municipios, CENTRA, Sevilla, 2013, p. 40. SAGGI E ARTICOLI 417

que otros casos de organizaciones metropolitanas, como los consorcios o las mancomunidades de esta índole, pueden ser abordados indirec- tamente, y de forma genérica, sin tener en cuenta su posible especifici- dad metropolitana, sino como mancomunidades y consorcios, sin más. Que no se atienda directamente a esta realidad, no quiere decir que no se incida indirectamente sobre ella, como también decíamos al princi- pio. Véase que la LOEPSF incluye bajo su ámbito de aplicación, en su art. 2, lo que denomina el subsector Corporaciones Locales, en el que de- ben considerarse incluidas las Áreas metropolitanas del art. 43 LBRL, pe- ro también mancomunidades y consorcios metropolitanos, estos últimos cuando tengan naturaleza local76. Cuando el consorcio sea autonómico se considerará parte del subsector Comunidades Autónomas, en cual- quier caso siéndole aplicable también la LOEPSF, por razón de su art. 2. Por tanto, ha de concluirse que, aunque sea de forma indirecta, pues no hay una atención específica, esta primera ley conformadora de la legislación es- tatal de crisis, la LOEPSF, es aplicable a las organizaciones administrativas metropolitanas existentes en nuestro país, que deberán ajustar su actuación al cumplimiento de los principios de estabilidad presupuestaria y sostenibi- lidad financiera, tal y como aparecen regulados en esta nueva norma, aten- diendo a los procedimientos y obligaciones establecidos en la misma. En un segundo orden de cosas, también de incidental se puede calificar la forma en que la LRSAL ha afectado a todas estas entidades, salvando el caso de los consorcios metropolitanos sobre los que la Ley ha caído con una intensidad mucho mayor, acción legislativa que ha sido continuada poco después por la Ley 15/2014. Como ya se ha dicho, las Áreas metro- politanas del art. 43 LBRL se dejan tal y como están, ni se tocan. Ello no quiere decir que determinadas disposiciones de la LRSAL no les afecten, pero lo hacen en su calidad de disposiciones comunes a todas las entida- des locales, siendo el Área metropolitana una entidad local más. Lo mismo puede decirse de las mancomunidades de ámbito metropolita- no, pese a que la idea política que manejaba el Gobierno de la Nación, en

(76) Véase al respecto el análisis de J.L. Martínez-Alonso Camps, “El sector público local. Redi- mensionamiento y gestión de actividades y servicios públicos”, en J.A. Carrillo Donaire y P. Na- varro Rodríguez (coord.), La reforma del régimen jurídico de la Administración local. El nuevo marco regulatorio a la luz de la Ley de racionalización y sostenibilidad de la Administración Local, La Ley-Grupo Wolters Kluwer, Madrid, 2014, pp. 590 y ss. 418 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

los primeros momentos del procedimiento de elaboración de esta Ley, era reducir el número de mancomunidades. No es eso lo que ha ocurrido fi- nalmente, pudiendo pensarse que incluso se han potenciado, junto con los consorcios, por razón de la nueva redacción del art. 26.2 LBRL en la que ambos aparecen como una posible fórmula de gestión compartida de de- terminados servicios en municipios con población inferior a 20.000 habitan- tes. No obstante, bajo nuestro criterio, esta afirmación requiere de una im- portante matización y de una consideración adicional al hilo del objeto de este trabajo. La primera es que mancomunidades y consorcios aparecen en este precepto como una opción más, no como una solución necesaria, por lo que es posible que la Diputación provincial termine por recurrir a otras fórmulas de gestión, máxime si estas otras presentan serios inconvenientes aplicativos en el contexto de la LRSAL, como es el caso de los consorcios, que luego tendremos ocasión de comentar. La segunda cuestión que debe tenerse en cuenta es que la utilización de mancomunidades y consorcios como modo de gestión compartida de los servicios en municipios con me- nos de 20.000 habitantes podrá considerarse una excelente fórmula de or- ganización supramunicipal, pero muy difícilmente, dado el tamaño de los municipios implicados, será una fórmula de organización metropolitana. Decíamos que, sobre los consorcios, incluyendo como tales a los me- tropolitanos, sí que ha intervenido especialmente la LRSAL, seguida, al poco, por la Ley 15/2014, que ha ido en la misma línea. Partiendo de un prejuicio negativo acerca de la funcionalidad y la eficacia de estas entidades, el legislador estatal ha buscado introducir límites a la cons- titución de nuevos consorcios, además de al mantenimiento de los ya existentes, promoviendo y facilitando su disolución77. Aunque la Ley

(77) Para profundizar en el contenido de esta reforma véase F. Toscano Gil, “El consorcio ad- ministrativo en la encrucijada”, cit. También, al respecto, deben citarse los trabajos de A. Galán Galán, “El nuevo régimen de los consorcios: la controvertida obligación de adscripción”, cit.; M.Á. González Bustos, “El nuevo reto de los consorcios”, en T. Quintana López (dir.); A.B. Casa- res Marcos (coord.), La reforma del régimen local, Tirant Lo Blanch, Valencia, 2014; A. Koninckx Frasquet, “De nuevo sobre los consorcios”, en M.J. Domingo Zaballos (coord.), Reforma del Ré- gimen Local: la Ley de Racionalización y Sostenibilidad de la Administración Local. Veintitrés estudios, Aranzadi, Cizur Menor, 2014; E. Nieto Garrido, “La Ley de racionalización y sostenibi- lidad de la Administración local y los consorcios administrativos”, en J.A. Carrillo Donaire y P. Navarro Rodríguez (coord.), La reforma del régimen jurídico de la Administración local. El nue- vo marco regulatorio a la luz de la Ley de racionalización y sostenibilidad de la Administración Local, La Ley-Grupo Wolters Kluwer, Madrid, 2014. SAGGI E ARTICOLI 419

ha flexibilizado algunas de estas limitaciones para los consorcios que presten servicios que podrían considerarse metropolitanos, esta flexibi- lización lo es solo en los tiempos de aplicación, no constituyendo una verdadera excepción, pues, en su mayoría, terminarán por aplicársele. Por ello, no resulta improbable que el número de consorcios, incluyen- do los metropolitanos, experimente en los próximos años una disminu- ción. También es muy posible, según pensamos, que se deje de recurrir al mismo como fórmula de solución del fenómeno metropolitano, dada la mayor rigidez que estas leyes han introducido en su régimen jurídi- co, acabando con la flexibilidad que ha hecho del consorcio una herra- mienta jurídica útil y recurrente. La segunda parte de nuestro análisis tiene por objeto examinar, si- quiera sea someramente, si durante el periodo de crisis económica se han constituido o no nuevas entidades metropolitanas en nuestro país. Se trata de un enfoque metodológico bien distinto al que hemos hecho en las páginas anteriores, pero igualmente legítimo para diluci- dar en qué medida ha incidido la crisis económica sobre la solución jurídica del fenómeno metropolitano en España. No obstante, somos conscientes de nuestras limitaciones, ya que estamos ante una pers- pectiva más propia de la sociología, la economía o la geografía, por lo que no pretendemos hacer más que una ligera aproximación, a la que, por otra parte, no queríamos renunciar, por cuanto nos parecía importante. En lo que hace a las mancomunidades y consorcios metropolitanos, se trata de una pregunta difícil de responder, dada su proliferación en nuestro país, y las dificultades que presenta el manejo de las ba- ses de datos de los registros oficiales. Para poder responder con pre- cisión a esta cuestión, sería necesario llevar a cabo un estudio empí- rico que sobrepasa el enfoque de nuestro análisis jurídico. Aunque no podemos entrar aquí en la precisión de este análisis cuantitativo, sí podemos decir que, hasta donde tenemos noticia, la crisis econó- mica ha supuesto, en estricta aplicación de la sostenibilidad finan- ciera exigida por la LOEPSF, la disolución de bastantes consorcios y mancomunidades, muchos de ellos de ámbito supramunicipal y me- tropolitano. Aunque, como decimos, a falta de un estudio preciso sobre esta cuestión, que, hasta donde sabemos, no se ha hecho, es- 420 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

ta afirmación no es más que una impresión sustentada en la lectura de la prensa diaria. Más fácil es responder a esta pregunta si el enfoque se pone en los entes metropolitanos en sentido estricto, las Áreas metropolitanas del art. 43 LBRL, puesto que su número es muchísimo más reducido y es fácil de controlar. A este respecto, puede decirse que el número de Áreas metropolitanas en España es en la actualidad exactamente el mismo que antes de que empezara la crisis, cuatro, si bien dicha afir- mación debe matizarse. No se ha producido alteración alguna en el número de las entidades metropolitanas valencianas siguen siendo las dos que ya eran en el año 2001. Por el contrario, en el año 2010, en plena crisis económica, se di- suelven las dos entidades metropolitanas sectoriales del área de Barce- lona, así como la mancomunidad metropolitana del mismo área, y el consorcio metropolitano que agrupaba a todas estas entidades78, pero como una operación que tenía por fin sustituirlas por un nuevo ente, más potente, la vigente Área metropolitana de Barcelona. Por tanto, en 2010, pasamos en el área de Barcelona de dos entidades metropolitanas en sentido estricto a una sola entidad, pero sin que nada se pierda, pe- se al número menor de entes, sino al contrario. También en plena cri- sis económica, en el año 2012, se constituye el Área metropolitana de Vigo, aunque, como ya se ha dicho, no haya entrado aún en funciona- miento por razones políticas. Por tanto, como puede verse, la crisis económica no ha supuesto la di- solución de Área metropolitana alguna, puesto que las que se han di- suelto lo han hecho para integrarse en una nueva. Tampoco puede de- cirse que, durante la crisis, se hayan constituido nuevas Áreas metropo- litanas, salvando el caso de la de Vigo, que resulta poco representativo en la medida en que, tras su constitución aún no ha echado a andar. Y, finalmente, la creación del Área metropolitana de Barcelona en el año 2010, aunque debe valorarse por lo que supone de oportunidad apro-

(78) Si bien, la constitución de dicho consorcio en el año 2009, siempre se entendió como pro- visoria, como un paso previo a la constitución del Área metropolitana de Barcelona. Véase, al respecto, J. Perdigó i Solà, “La institucionalización del Área Metropolitana de Barcelona: antece- dentes y situación actual”, cit., p. 133. SAGGI E ARTICOLI 421

vechada en un contexto de crisis económica, no puede considerarse realmente como creación de una nueva Área metropolitana, sino como reorganización de las ya existentes79.

5. Conclusiones El balance final sobre la regulación de las Áreas metropolitanas en el de- recho español puede considerarse bastante negativo, si se atiende exclu- sivamente al desarrollo de la fórmula prevista en el art. 43 de la LBRL en 1985, el Área metropolitana como entidad local que se crea por ley de la Comunidad Autónoma. Como ya se ha dicho, tras treinta años de vigen- cia de dicho precepto legal, en la actualidad solo se encuentran en vigor cuatro entidades metropolitanas que respondan realmente a dicha fórmu- la organizativa. Además, de estas cuatro entidades, dos de ellas, las del Área metropolitana de Valencia, tienen muy poca potencialidad, dada su naturaleza sectorial e institucional, y otra, la del Área metropolitana de Vi- go, sufre un bloqueo político que le impide empezar a funcionar. Desde esta óptica, el panorama no puede ser más desolador, en un país con un número nada desdeñable de Áreas metropolitanas: solo el Área metropo- litana de Barcelona cuenta con una auténtica entidad metropolitana, con capacidad de transformar el territorio. Ahora bien, si se tiene en cuenta que, aunque no sean entidades metro- politanas al uso, de carácter integral, en bastantes Áreas metropolitanas españolas se han constituido mancomunidades y consorcios, con el fin de abordar la gestión de los residuos y del agua, o la prestación del ser- vicio de transportes interurbano, se convendrá que el panorama no es tan malo. Es cierto que estas entidades tienen carácter sectorial, con lo que no abarcan todo el ámbito de funciones que podría ejercerse desde lo metropolitano, y, desde luego, carecen de una visión integral e inte- gradora de los problemas a esta escala. Pero también es verdad que se

(79) Aunque ésta sería ya una aproximación desde otra perspectiva, la presupuestaria, no po- demos dejar de apuntar aquí un dato del que tuvimos noticia a través de la prensa mientras ela- borábamos este trabajo. Según pudimos leer, el Área metropolitana de Barcelona aprobó para el 2015 un presupuesto de 755,5 millones de euros, lo que supone un incremento del 5,12% res- pecto del ejercicio anterior, que fue de 606,5 millones de euros. Está claro, creemos, que desde su constitución en el año 2010, el Área metropolitana de Barcelona está siendo valorada políti- camente como una oportunidad para el territorio. 422 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

basan en la voluntariedad, se constituyen contando en todo caso con el acuerdo de los municipios implicados, lo que no ocurre en el caso de las Áreas metropolitanas del art. 43 LBRL, que pueden imponerse por ley autonómica. Las ventajas que se derivan de la voluntariedad de es- tas figuras no deben despreciarse, sabido es que la imposición de una solución por la fuerza no funciona. Ahí tenemos el caso del Área me- tropolitana de Vigo, paralizada políticamente por haber sido constituida contra la voluntad de los principales partidos de la oposición. Tampoco pueden despreciarse fórmulas como la planificación metro- politana, pese a que se lleve a cabo, en la mayoría de los casos, al mar- gen de una Administración metropolitana propiamente dicha. Pero los planes estratégicos presentan innegables ventajas desde el punto de vista del desarrollo económico, por la virtualidad que tienen para incor- porar a actores privados, y atraer inversiones sobre el territorio. Y los planes de ordenación del territorio son un buen instrumento con el que disciplinar la actuación de las Administraciones Públicas en el área me- tropolitana, aquí sí desde una perspectiva integral e integradora de las distintas políticas públicas, que permita alcanzar una satisfacción más plena de los intereses generales. Se nos dirá que este esquema de soluciones jurídicas del fenómeno me- tropolitano resulta desigual, presenta técnicas de muy diversa natura- leza, que conviven de manera diferenciada en cada área metropolita- na, en cada Comunidad Autónoma, sin que haya una respuesta institu- cional uniforme en el conjunto del territorio español. Pero esto, según pensamos, no es necesariamente malo, peor es andar con el pie forza- do y empeñarse en imponer soluciones sin consenso político. En nues- tra opinión, aunque sería deseable una mayor presencia en el territorio de entidades metropolitanas fuertes, la situación actual se ajusta al prin- cipio de diferenciación que caracteriza al ordenamiento jurídico local en España80, y que casa bien con la propia estructura, diferenciada, no uniforme, de nuestras áreas metropolitanas81.

(80) En este mismo sentido, puede verse T. Font i Llovet, “La renovación del poder local: avan- ces en la configuración jurídica e institucional del Gobierno Local”, cit., p. 31-33.

(81) Véase al respecto, F. Toscano Gil, “Áreas metropolitanas: diversidad jurídica y planificación territorial”, cit., pp. 74 y 75. SAGGI E ARTICOLI 423

Crisi economica e finanziaria e sistema multi-livello tedesco: alcuni cenni critici sulle politiche dell’austerità* Alexander Grasse

Il saggio tratta gli sviluppi recenti delle politiche fiscali nel sistema multi-li- vello tedesco mettendo a fuoco gli effetti dell’austerità a livello regionale e lo- cale. A dispetto delle intenzioni della riforma federale del 2006, destinata ad aumentare l’autonomia regionale, con le politiche dell’austerità (rafforzate dal divieto all’indebitamento introdotto nella Costituzione nel 2009) infatti Länder e Comuni dispongono ormai di una minore autonomia finanziaria. Non solo il tasso di investimenti pubblici già da anni è nettamente inferiore rispetto alla media dell’Ue e dell’Ocse, ma dal 2003 in poi le infrastrutture in Germania vanno incontro ad un peggioramento anche più veloce della stessa ripresa. Le infrastrutture, tuttavia, per la loro importanza rispetto alla domanda interna e alla capacità produttiva del settore privato, sono fonda- mentali per il successo economico della Germania e il suo modello di econo- mia sociale di mercato. Infine, le politiche dell’austerità creano una serie di conflitti interterritoriali totalmente irrisolti.

1. Introduzione In Italia, per tutto il processo di decentramento (in senso federalista) dello Stato iniziato negli anni ’90, nel dibattito sia politico sia scientifi- co, la Germania, a torto o a ragione, è spesso stata una specie di stel- la polare, non di rado fraintendendo oppure trascurando alcuni dei processi in atto nella Repubblica Federale tedesca. Sin dagli anni ’90 anche la Germania, pur partendo da condizioni e presupposti total- mente diversi, analogamente all’Italia (con le riforme Bassanini e la ri- forma del Titolo V della Costituzione), ha cercato di aumentare l’au- tonomia dei suoi Länder. Il retroscena di tutte le riforme recenti del

* Ringrazio vivamente il Dr. Jan Labitzke per l’ausilio alla raccolta ed elaborazione dei dati del- la ricerca. 424 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

sistema federale tedesco consisteva nell’idea – più o meno esplicita – di un federalismo più competitivo con maggiore autonomia territoria- le e differenziazione tra i Länder. In contrasto con il modello compe- titivo statunitense che, come noto, almeno in teoria è basato su una separazione netta dei poteri tra i vari livelli di governo con state po- wers di ampio respiro, il modello tedesco si contraddistingue proprio per l’intreccio delle competenze tra Bund e Länder, con la tendenza (fino alla riforma costituzionale del 2006) ad una riduzione del pote- re discrezionale dei Parlamenti regionali e, in cambio, di un maggior potere co-decisivo dei Länder a livello nazionale, con l’effetto che i Länder si sono ridotti a enti meramente amministrativi uniformi. Al- cuni dei principali elementi oggetto di critica1 del sistema di federali- smo cooperativo concernevano, appunto, la scarsa capacità innovati- va, la mancanza di autonomia legislativa e fiscale dei Länder e il defi- cit democratico dovuto allo spostamento delle competenze decisiona- li dei Parlamenti dei Länder al Bundesrat. Maggiore autonomia dove- va invece portare, secondo i fautori del modello competitivo, all’auto- responsabilizzazione politica e finanziaria dei Länder (parola chiave: disciplina di bilancio)2. Con le riforme del sistema perequativo del 2001 e 2005, nonché con le

(1) Su basi storiche e strutturali, modalità di funzionamento e nodi problematici del federali- smo tedesco cfr. tra gli altri: A. Grasse, Federalism in Germany, in R. Seidelmann (a cura di), The New Germany: History, Economy, Policies, Baden-Baden, Nomos, 2011, pp. 239-268; A. Funk, Föderalismus in Deutschland. Vom Fürstenbund zur Bundesrepublik, Bonn, Bundeszentrale für politische Bildung, 2010; H. Laufer, U. Münch, Das föderale System der Bundesrepublik Deutsch- land, München, Bayerische Landeszentrale für Politische Bildungsarbeit, 2010; U. Wachendorfer- Schmidt, Politikverflechtung im vereinigten Deutschland, Wiesbaden, VS Verlag, 2005; G. Lehm- bruch, Parteienwettbewerb im Bundesstaat. Regelsysteme und Spannungslagen im Institutionen- gefüge der Bundesrepublik Deutschland, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1998; H. Abromeit, Der verkappte Einheitsstaat, Opladen, Leske+Budrich, 1992; F.W. Scharpf, Die Politikverflechtungs- Falle. Europäische Integration und deutscher Föderalismus im Vergleich, in Politische Viertel- jahresschrift, 26, 1985, pp. 323-356; F.W. Scharpf, B. Reissert, F. Schnabel (a cura di), Politikver- flechtung, Theorie und Empirie des kooperativen Föderalismus in der Bundesrepublik, Kron- berg, Scriptor Verlag, 1976. (2) Il recepimento della concorrenza come principio organizzatore scaturisce dall’idea che la concorrenza condurrebbe generalmente a migliori soluzioni dei problemi, a maggiore innova- zione ed efficienza. Una linea centrale della teoria federalista, riscoperta nell’ultimo decennio da più parti, vede il federalismo anche come laboratorio per la crescita e per lo sviluppo in conse- guenza della concorrenza delle idee sul piano territoriale. SAGGI E ARTICOLI 425

riforme costituzionali del 2006 e del 2009 si è cercato di tenere conto di queste critiche3. La politica di “ri-federalizzazione” consisteva, da un lato, in maggior ef- ficienza del settore pubblico, con relativi risparmi (evitando sovrappo- sizioni di istituzioni, compiti, ecc.), dall’altro lato in “più democrazia”, in termini di potere discrezionale dei Parlamenti e Governi dei Länder (ri- dotati di competenze effettive, per quanto riguarda il governo dei siste- mi territoriali). L’esito (poco soddisfacente o almeno ambiguo) è stato appunto la riforma costituzionale del 2006 (Föderalismusreform I), con una più netta separazione dei poteri4 e l’abrogazione dalla legge fon-

(3) Cfr. tra gli altri S. Kropp, Kooperativer Föderalismus und Politikverflechtung, Wiesbaden, VS Verlag, 2010; H.-P. Schneider, Deutschland – Die Modernisierung der bundesstaatlichen Ordnung, in Bundes- rat (a cura di), 60 Jahre Bundesrat, Föderalismus-Symposium des Bundesrates am 24. und 25. Juni 2009: Die Rolle der Regionen im europäischen Einigungsprozess, Berlin, Bundesrat, pp. 65-76; K. Au- el, Between Reformstau and Länder Strangulation? German Co-operative Federalism Re-considered, in Regional & Federal Studies, 20-2/2010, pp. 229-249; K. Auel, Multilevel Governance, Regional Poli- cy and Democratic Legitimacy in Germany, in A. Benz, I. Papadopoulos (a cura di), Governance and Democracy – Comparing National, European and Transnational Experiences, London, Routledge, pp. 44-62; J. v. Blumenthal, S. Bröchler (a cura di), Föderalismusreform in Deutschland. Bilanz und Perspektiven im internationalen Vergleich, Wiesbaden, VS Verlag, 2010; F.W. Scharpf, Föderalismusre- form. Kein Ausweg aus der Politikverflechtungsfalle?, Frankfurt a.M., New York, Campus, 2009; S. Bur- khart, Reforming Federalism in Germany: Incremental Changes instead of the Big Deal, in Publius. The Journal of Federalism, 39-2/2009, pp. 341-365; C. Rowe, W. Jacoby (a cura di), German Federalism in Transition. Reforms in a Consensual State, London, Routledge, 2009; A. Benz, From Joint Decision Traps to Over-regulated Federalism − Adverse Effects of a Successful Constitutional Reform, in German Politics, 17-4/2008, pp. 440-456; A. Benz, Inter-Regional Competition in Co-operative Federalism. New Modes of Multi-level Governance in Germany, in Regional and Federal Studies, 4/2007, pp. 421-436; S. Burkhart, M. Lehnert, Between Consensus and Conflict: Law-Making Processes in Germany, in Ger- man Politics, 17-3/2008, pp. 223-231; C. Moore, W. Jacoby, German Federalism in Transition. German Politics, 17-4/2008 (special issue); R. Sturm, Von der Symmetrie zur Asymmetrie − Deutschlands neuer Föderalismus, in Europäisches Zentrum für Föderalismus-Forschung (a cura di), Jahrbuch des Föderalis- mus 2007, Baden-Baden, Nomos, 2008, pp. 27-41. (4) Con la “riforma del federalismo I”, entrata in vigore il 1° settembre 2006, sono state crea- te perlomeno de jure delle possibilità per un ampliamento dell’autonomia. I Länder hanno co- sì avuto, ad esempio, il diritto di determinare essi stessi l’aliquota dell’imposta sul passaggio di proprietà di terreni (art. 105, comma 2, lettera a)). Oltre a ciò, ai Länder sono stati attribui- te nuove competenze legislative esclusive nelle seguenti materie: sistema carcerario; diritto di riunione e manifestazione; normativa domestica per disabili e i loro familiari; normativa sulla chiusura degli esercizi pubblici; normativa sui locali pubblici e sui ristoranti; sale giochi, fiere, mostre, mercati; edilizia sociale; cessione di terreni agricoli e affitti; manifestazioni sociali (spor- tive, ecc.); remunerazione di funzionari (docenti universitari e scolastici) e giudici del Land; si- stema universitario ed edilizia per istituti universitari; regolamento dei media a stampa. Inoltre, ai Länder è stato conferito il diritto di deroga dai regolamenti federali per l’attuazione di leggi federali (procedimenti burocratici) o per l’istituzione di autorità destinate alla gestione di leggi 426 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

damentale dei cosiddetti “compiti comuni” (Gemeinschaftsaufgaben) nell’ambito della programmazione dell’istruzione e dell’edilizia univer- sitaria (art. 91a/b) introducendo un divieto di cooperazione tra Bund e Länder in questi ambiti5. In linea di principio l’accordo tra Bund e Län- der prevedeva più autonomia per i Länder in termini di legislazione re- gionale e, in cambio, minor potere co-decisionale dei Länder nel Bun- desrat ossia a livello della Federazione, per districare i livelli di gover- no e per ridurre il numero di possibili inceppamenti di riforme dovuti a contrasti tra partiti di governo e opposizione a livello nazionale. Di seguito, nel 2009, sì è cercato di riformare profondamente anche il si- stema finanziario diBund e Länder, cosa che poi non è avvenuta, per- ché la riforma (Föderalismusreform II) coincideva con la crisi economica preceduta dalla crisi finanziaria, ossia bancaria, avvenuta nel 2007 e 2008. Con programmi mirati a stimolare la congiuntura economica (Kon- junkturpaket II), la crisi venne superata velocissimamente. Benché le misure finanziarie di Bund e Länder ammontassero, rispetto al Pil e ri- spetto alla gravità della crisi, a molto meno del passato (durante la crisi del 1967 ove per la prima volta venne praticata una politica keynesiana, si investiva addirittura 16 volte di più6), la disoccupazione venne conte- nuta e l’economia si riprese quasi completamente già nel 2010; nel 2011 il Pil superava già quello raggiunto prima della crisi. La crisi del 2009 fu affrontata appunto con una politica economica anticiclica, di succes- so, finanziata sul deficit –, e non con l’austerity: nell’ottobre del 2008 fu varata prima una legge federale (Maßnahmenpaket zur Senkung der steuerlichen Belastung, Stabilisierung der Sozialversicherungsausgaben

federali. Per di più possono derogare le leggi federali in materie quali la protezione della natu- ra e del paesaggio (esclusi i principi fondamentali e la tutela delle specie, nonché del mare), la pianificazione territoriale e progettazione dello sviluppo, il diritto domestico al fabbisogno idri- co, l’ammissione allo studio universitario e diplomi universitari. (5) Rispetto al dibattito su “federalismo competitivo vs. federalismo cooperativo”, alle riforme co- stituzionali e alle relative controversie, che in Germania risalgono già agli anni Novanta, si veda anche A. Grasse, Sviluppi e tendenze del federalismo in Germania: differenza territoriale e pere- quazione finanziaria, in questa Rivista, 4, 2012, pp. 789-828; Id., Federalismo competitivo e di- sparità regionali: il caso della Germania, in Foedus: Culture, Economie e Territori, 34, 2012, pp. 79-104; Id., Il sistema federale tedesco tra continuità e nuove dinamiche, Bologna, CLUEB, 2001.

(6) Cfr. J. Kiesow, Wirtschaftskrisen in Deutschland, Reaktionsmuster von Vetospielern und Agendasetzern, Wiesbaden, Spinger VS, 2015, p. 276. SAGGI E ARTICOLI 427

und für Investitionen in der Familie) destinata a stimolare il consumo e l’incremento della capacità d’acquisto dei nuclei familiari (21 miliardi di euro), e di seguito, il 1° gennaio 2009, entrò in vigore il primo pacchet- to di rilancio congiunturale (Konjunkturpaket I) con 11 miliardi di eu- ro (stimoli agli investimenti privati tramite sgravi fiscali per le imprese), seguito dal cosiddetto Konjunkturpaket II nel marzo del 2009 con un volume di 16,9 miliardi di euro (investimenti pubblici per l’infrastruttu- ra), tra cui 10 miliardi di euro destinati a sussidi per Länder e Comuni, che a loro volta dovevano integrare la cifra con mezzi propri dello stes- so valore arrivando a complessivamente 20 miliardi di euro per investi- menti a livello decentrato, cioè regionale e comunale7. Tuttavia, sono state soprattutto le varie “misure salva banche”, anche a li- vello dei Länder dove erano andate in crisi varie banche pubbliche par- tecipate o vere e proprie dei Länder, che hanno fatto crescere il debito pubblico enormemente. Di conseguenza, la riforma del sistema finanzia- rio di Bund e Länder del 2009 si è limitata all’introduzione della clauso- la di “freno all’indebitamento” (Schuldenbremse), che è una decisione di ampia portata, perché comporta che i margini di azione politico-finan- ziaria dei Länder, attualmente scarsi, si assottiglino. Dal 2020 ai Länder è vietata in linea di principio un’accensione di credito. Solo in “situazioni di necessità” come catastrofi naturali o crisi economiche drammatiche sono possibili nuovi indebitamenti, e comunque soltanto qualora i Länder ela- borino nello stesso momento piani di rimborso (art. 109, comma 3, Legge Fondamentale). Ne consegue che, al contrario della intenzione della rifor- ma del 2006, i Länder, che in linea generale non hanno poteri discrezio- nali significativi per aumentare le loro entrate autonomamente (la legisla- zione delle imposte principali spetta a Bundestag e Bundesrat insieme), in termini finanziari saranno meno autonomi che mai. Questa situazione si ripercuote già oggi sull’intero sistema federale, per- ché non solo crea nuove tensioni tra i Länder8, ma induce anche deci-

(7) Cfr. J. Kiesow, Wirtschaftskrisen in Deutschland, Reaktionsmuster von Vetospielern und Agendasetzern, cit., p. 243 ss. (8) Per questo fenomeno e i problemi attinenti alla perequazione finanziaria, si rinvia ad A. Grasse, Sviluppi e tendenze del federalismo in Germania: differenza territoriale e perequazio- ne finanziaria, cit. 428 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

samente ad una politica di austerità come vedremo ancora nella nostra analisi. Di seguito vengono presi in considerazione alcuni dei proble- mi più rilevanti causati dalle politiche incentrate sull’offerta e sul risa- namento dei bilanci che, dopo la breve fase di ritorno alle idee di John M. Keynes nel 2008 e 2009, prevalgono di nuovo nella politica della Germania, sia a livello del Bund sia al livello dei Länder e, infine, an- che dei Comuni.

2. Indebitamento di Länder e Comuni Il bilancio di tutti i 16 Länder tedeschi è indubbiamente desolante. An- che nei Länder economicamente più forti l’indebitamento è drammati- camente cresciuto nel primo decennio di questo secolo in seguito alle ridotte entrate tributarie e a fronte di spese crescenti. Persino in perio- di con ottimi tassi di crescita (come nel caso del 2010 e del 2011 con il 4,1% e 3,6% del Pil) la maggior parte dei Länder non è riuscita a pre- sentare un bilancio senza un nuovo indebitamento. Nel 2011, ad esem- pio, ci sono riusciti solo la Sassonia, la Baviera, il Brandeburgo e il Me- clemburgo-Pomerania occidentale: in totale i Länder hanno speso 10,2 miliardi in più di quanto abbiano incassato9. Soltanto grazie agli inter- venti della Banca centrale europea e alla sua politica di un tasso di inte- resse principale bassissimo (che in termini reali, cioè inflazione inclusa, è un tasso negativo), Bund e Länder tedeschi hanno potuto riprendersi finanziariamente, perché veniva facilitato il ri-finanziamento dei debiti a condizioni decisamente migliori rispetto al passato, ottenendo bilanci almeno a prima vista positivi. Di fatto, con l’annuncio di Mario Draghi del 26 luglio 2012 a Londra, se- condo cui la Bce sarebbe stata «pronta a fare qualunque cosa per preser- vare l’euro» con «acquisti illimitati» dei titoli dei Paesi periferici da par- te della Bce10, e poi, dopo, con l’acquisto massiccio di titoli di Stato da parte della Bce iniziato a marzo del 2015 nell’ambito della sua politica

(9) Cfr. Bundesministerium der Finanzen, Entwicklung der Länderhaushalte im Jahr 2011 (endgülti- ges Ergebnis), Berlin, 2012; http://www.bundesfinanzministerium.de/Content/DE/Standardartikel/ Themen/Oeffentliche_Finanzen/Foederale_Finanzbeziehungen/Laenderhaushalte/2009-2011/ Einnahmen_Ausgaben_L%C3%A4nder_2011_endg.Erg.pdf?__blob=publicationFile&v=1. (10) Cfr. Corriere.it, 26.7.2012. SAGGI E ARTICOLI 429

del “Quantitative Easing” annunciata il 20 gennaio 2015, anche la Ger- mania ne approfitta enormemente, in quanto sembrava una specie di porto sicuro per gli investitori: per i titoli di Stato a lungo termine (10 anni) il Bund a gennaio del 2015 non doveva offrire sul mercato finan- ziario più dello 0,4% di interessi; considerando l’inflazione, dunque, gli interessi erano già in negativo. Il risparmio che ne risulta è notevole: se la Germania avesse dovuto pa- gare gli interessi del 2007, ultimo anno prima della crisi, secondo i cal- coli della Deutsche Bundesbank sul bilancio tedesco del 2014 sarebbe- ro pesati 42 miliardi di euro di più, portando il saldo decisamente in negativo11. In totale la Germania, secondo i dati della Bundesbank, nel periodo 2008-2013 ha risparmiato 120 miliardi di euro, perché il tas- so medio degli interessi per i titoli di Stato in seguito alla crisi è sceso dal 4,3% nel 2007 al 2,6% nel 201312. Bund, Länder e Comuni traggono ugualmente vantaggio dallo sviluppo dei tassi minimi storici, dovuti al- la crisi nell’Europa meridionale. Nel 2014, 9 dei 16 Länder mostravano un saldo finanziario positivo, mentre, in 7 Länder, vale a dire Assia, Bassa Sassonia, Renania Set- tentrionale-Vestfalia, Renania-Palatinato, Saarland, Schleswig-Holstein e Brema, le uscite superavano ancora le entrate. Complessivamente, nel 2014, i Länder hanno realizzato un’eccedenza finanziaria di 702 milio- ni di euro13, mentre negli anni precedenti i 16 Länder avevano realiz- zato un deficit di 610 milioni di euro (2013) e di 5,79 miliardi di euro (2012)14. Nonostante questo andamento positivo, la disponibilità a con- dividere le risorse invece di crescere, semmai diminuisce, perché tutti sanno che si tratta di una esplosione finanziaria fittizia. Qualora gli in-

(11) Cfr. Spiegel Online, 5.3.2015. (12) Cfr. Welt Online, 10.8.2014.

(13) Cfr. Bundesministerium der Finanzen, Entwicklung der Länderhaushalte bis Dezember 2014 (vor- läufiges Ergebnis), Berlin, 2015; http://www.bundesfinanzministerium.de/Content/DE/Standardarti- kel/Themen/Oeffentliche_Finanzen/Foederale_Finanzbeziehungen/Laenderhaushalte/2014/Entw_ Laenderhaushalte-bis-Dezember2014-vorlaeufiges-Ergebnis-.pdf?__blob=publicationFile&v=1.

(14) Cfr. Statistisches Bundesamt, Ausgaben und Einnahmen. Finanzierungssaldo des Öffentli- chen Gesamthaushaltes, Berlin, 2015; https://www.destatis.de/DE/ZahlenFakten/GesellschaftS- taat/OeffentlicheFinanzenSteuern/OeffentlicheFinanzen/AusgabenEinnahmen/Tabellen/Finan- zierungssaldo.html. 430 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

teressi per titoli di Stato tornassero a un livello normale (di media stori- ca), nessun Land sarà più in grado di rispettare il dettato costituzionale dell’indebitamento zero. L’indebitamento pro capite raggiunge di gran lunga i massimi livelli nel- le “Città-Stato” di Amburgo, Berlino e Brema così come nella Saar, men- tre i bilanci della Baviera e della Sassonia presentano il più basso saldo negativo (vedi fig. 1). A fronte della panoramica preoccupante dei bilanci dei Comuni biso- gna osservare, tuttavia, differenze enormi tra singoli Länder e all’interno dei Länder stessi: mentre i Comuni dell’Assia, della Renania Settentrio- nale-Vestfalia, della Renania-Palatinato, della Saar e del Schleswig-Hol- stein nel 2013 presentavano bilanci negativi, vale a dire bilanci con nuo- vi disavanzi, i Comuni nei Länder restanti ottenevano saldi positivi15.

Fig. 1 – Deficit pubblico dei Länder pro capite nel 2013 (in euro)

Fonte: Ufficio Federale di Statistica/Statistisches Bundesamt (destatis.de), indebitamento dei bilanci pubblici 2013; grafico Grasse.

(15) Cfr. Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, Report n. 94, 06/2014, p. 10 ss.; http://www.boeckler.de/pdf/p_imk_report_94_2014.pdf. SAGGI E ARTICOLI 431

Fig. 2 – Debiti dei Comuni e consorzi di Comuni in Germania (ricorso al credi- to per problemi di liquidità, miliardi di euro)

Fonte: Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, Report n. 94, 06/2014, p. 11; http://www.boeckler.de/pdf/p_imk_report_94_2014.pdf; destatis.de.

Può servire un esempio specifico regionale per rendere chiara la gravità del problema: per mitigare la crisi finanziaria di tanti Comuni e circon- dari (Landkreise), nel Land Assia, seppure economicamente forte, nel 2009 è stato istituito un fondo speciale nominato “Piano di salvataggio comunale” (kommunaler Schutzsschirm), che consente ai Comuni più indebitati (circa un quarto di tutti gli enti locali) di munirsi di mezzi fi- nanziari del Land per la cancellazione parziale dei propri debiti (max. 46% del debito totale) e per l’ottenimento di sussidi destinati a paga- re gli interessi delle banche (fino al 2%). Tutti i Comuni aventi diritto, tranne pochissime eccezioni, hanno nolens volens accettato l’offerta del Land. In cambio, però, questi Comuni devono presentare piani di con- solidamento dei loro bilanci di medio termine sottoponendosi a pro- grammi di austerità (circa il 10% dei loro bilanci), con una notevole per- dita di autonomia. In caso di inadempimento degli accordi tra enti locali e Land da parte del Comune in questione, il Land ha un potere decisio- nale sostitutivo e può adottare i provvedimenti necessari per obbligare il Comune inadempiente all’osservanza dei propri obblighi. 432 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

La crisi finanziaria del settore pubblico nel suo complesso è il risultato delle pluriennali difficoltà economiche della Germania (eccezioni sono rappresentate dai due bienni positivi dal punto di vista congiunturale del 2006/07 così come del 2010/11) e di una politica di riduzione del- le tasse a favore delle imprese e dei redditi alti, ispiratesi all’offerta, per nominare solo alcuni: l’abbassamento dell’imposta sui redditi da società dal 45% al 15% (spettante del 50% al Bund e del 50% ai Länder), la ri- duzione dell’aliquota marginale (nominale) dell’imposta sul reddito dal 53% al 42% (spettante del 42,5% al Bund, del 42,5% ai Länder, del 15% ai Comuni), rinuncia totale ad una tassa sul patrimonio (del 100% spet- tante ai Länder), riduzione della tassa di successione per i proprietari di imprese (del 100% spettante ai Länder), ecc. Tutto ciò non poteva essere compensato dall’aumento dell’Iva (dal 16% al 19% nel 2007), che in quanto imposta indiretta proporzionalmente colpiva di più le fasce deboli. Questa politica economica e fiscale ha condotto a una considerevole diminuzione degli introiti per Bund, Länder e Comuni16 e si ripercuote anche nella relazione reciproca fra i Länder stessi in termini di conflitti redistributivi. In totale, soltanto con le riforme fiscali realizzate nell’arco di tempo 2000-2011, il fisco tedesco ha rinunciato a entrate pari a cir- ca 370 miliardi di euro; di questi circa 191 miliardi di euro di mancati introiti sarebbero spettati ai Länder, e circa 42 miliardi ai Comuni17. Di conseguenza il Bund, ma soprattutto i Länder e i Comuni, dispongono di sempre minori spazi d’azione nella politica di spesa. Ma le cause non sono soltanto legate alle massicce perdite di gettiti fiscali risultanti dalla riduzione delle imposte, iniziata con il Governo Schröder nel 2000 e portata avanti dai vari Governi Merkel, a fronte di un contempora- neo aumento del fabbisogno finanziario dei bilanci pubblici e di alti oneri finanziari derivanti dalla riunificazione: sono anche legate all’ulteriore ridu-

(16) Per un quadro d’insieme sulla situazione finanziaria dei Comuni nel sistema multi-livello tedesco, si veda in lingua inglese, fra gli altri, D. Eissel, J. Labitzke, Local Government and Gover- nance in Germany, in C.-P. Chu et al. (a cura di), Local Governance in the Global Context: The- ory and Practice, Berlin, LIT Verlag, 2010, pp. 99-140.

(17) Cfr. Hans-Böckler-Stiftung (a cura di), Steuersenkungen reißen Milliardenlöcher, in Böckler Impuls, 13, 2011; http://boeckler.de/impuls_2011_13_gesamt.pdf. SAGGI E ARTICOLI 433

zione dei tassi di crescita negli ultimi due decenni per arrivare al minimo storico dell’1% nella media decennale (vedi fig. 3)18; la crescita media del Pil dal 2012 al 2014 è ancora più bassa, vale a dire dello 0,67%.

Fig. 3 – Tasso di crescita annua in Germania 1951-2014 (Pil reale)

Fonte: Ufficio Federale di Statistica/Statistisches Bundesamt (destatis.de), a partire dal 1992: Germania unificata; 1961-1991: Germania ovest; 1951-1960: senza i Länder Saar e Berli- no; grafico Grasse.

Ad ogni buon conto, come evidenziato nella fig. 3, l’immagine della Germania, spesso rappresentata in Italia come Paese della crescita infi- nita, proprio non corrisponde alla realtà; al limite, rispetto ai Paesi me- ridionali dell’Ue in crisi, la Germania è il guercio nel regno dei ciechi.

(18) Anche escludendo il crollo economico del 2009 dai calcoli (in quanto fenomeno straor- dinario), il tasso di crescita media del Pil nel primo decennio del nuovo secolo ammonta solo all’1,67%, che, da sempre, significa un basso storico. Viceversa, i tassi di crescita alti del 2010 e 2011 erano soltanto il risultato della crisi del 2009. 434 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

3. Il problema degli investimenti insufficienti Tra i problemi più gravi della situazione finanziaria figura quello del calo degli investimenti pubblici19. Gli investimenti – in primis gli investimen- ti produttivi ossia in immobilizzazioni materiali – per lo sviluppo econo- mico duraturo e sostenibile sono di una rilevanza straordinaria. Sono una condicio sine qua non per l’andamento positivo nel futuro. È importante notare che la distribuzione del Pil è cambiata soltanto rispetto agli inve- stimenti, tutti gli altri settori, vale a dire i consumi finali dello Stato, i con- sumi finali privati e l’export, sono grosso modo rimasti stabili sin dal 1991. La quota di investimenti pubblici rispetto al Pil in prezzi costanti nel 2013 era inferiore del 14,5% a quella del 1991. Risalendo ancora di più nella storia economica della Germania diventa ancora più vistoso lo sviluppo negativo: mentre la quota di investimenti pubblici del Pil nel 1970 risultava il 4,7%, nel 2013 si è ridotta al solo 1,6%. I tagli risultanti dalla politica dell’austerity che anche in Germania diven- tano sempre più visibili, dunque, non si verificano soltanto nell’ambito dei servizi sociali, ossia nell’ambito dei consumi dello Stato, ma anche nell’ambito strutturale degli investimenti, mettendo in pericolo a lungo termine la base del benessere della Germania, cioè l’industria, visto che si tratta del Paese più industrializzato in tutta l’Ue, seguito solo dall’Italia. Varie volte i Länder tedeschi potevano garantire la costituzionalità dei loro bilanci soltanto dichiarando una «perturbazione dell’equilibrio eco- nomico complessivo» (artt. 109 e 115, L.F.), unico modo per giustificare che le entrate derivanti dal ricorso al credito sono superiori alle spese per investimenti iscritte nel bilancio di previsione. La percentuale degli investimenti lordi pubblici rispetto al Pil in Germa- nia già da molti anni è nettamente inferiore rispetto a molti altri Paesi, tra cui gli Stati del G-7 quali gli Stati Uniti, la Francia o appunto l’Italia. Fino allo scoppio della crisi, gli investimenti pubblici della Germania si trovavano in maniera significativa al di sotto della media della Zona euro, dello Spazio economico europeo (See) ed anche sotto la media

(19) Per un’analisi comparata Italia-Germania si rinvia ad A. Grasse, Stimoli agli investimenti, ri- distribuzione e riforme istituzionali. Analisi e tesi sulla “Postdemocrazia” sullo sfondo della cri- si finanziaria italiana, in Bundeszentrale für Politische Bildung/Goethe Institut (a cura di), Va be- ne?! Le relazioni italo-tedesche al banco di prova, Documenti del Convegno svoltosi l’1-2.12.2011 a Berlino, Bonn/Berlin, 2012; http://www.bpb.de/veranstaltungen/dokumentation/125764/va-bene. SAGGI E ARTICOLI 435

dell’Ue-27, come dimostrano i dati forniti da Eurostat. Ancora peggio: mentre alcuni Stati aumentavano i loro mezzi del Pil per investimenti, come ad esempio la Gran Bretagna, la Svezia, i Paesi Bassi, la Spagna o l’Irlanda, la Germania li riduceva (vedi figg. 4 e 5).

Fig. 4 – Investimenti pubblici prima della crisi (% del Pil) – Paesi Ue a confron- to (1998-2008)

Gran Bretagna Finlandia 2008 1998 Svezia Paesi Bassi Ungheria Lussemburgo Lituania Italia Francia Spagna Irlanda Germania Danimarca Belgio Eurozona EU-27 0 1 2 3 4 5 6

Fonte: Eurostat, Key figures on Europe, Luxemburg, 2010, p. 25; grafico: Grasse.

Tanto è vero che la riduzione degli investimenti pubblici è dovuta in parte agli sviluppi dei cinque Länder orientali, che dopo l’unificazione hanno vissuto un boom degli investimenti (particolarmente tra il 1995 e il 1997), che, a causa dei sussidi dello Stato in continua diminuzione, si dovevano “normalizzare” con gli anni fino ad un certo punto20. E tanto è vero che si sono realizzate nel frattempo anche notevoli privatizzazioni. Del resto, è anche vero che la necessità di investimenti pubblici è au- mentata drasticamente per un innegabile degrado delle infrastrutture della Germania, anche e soprattutto nei Länder occidentali, che per decenni non hanno potuto investire quanto sarebbe stato necessario a mantenere il livello e la qualità delle infrastrutture, per non parlare di un miglioramento o di una espansione. Per quanto riguarda la situazione dei Comuni nei vari Länder, indiscutibil-

(20) Cfr. Bundesministerium der Finanzen, Entwicklung der Länderhaushalte bis Dezember 2014 (vor- läufiges Ergebnis), Berlin, 2015; http://www.bundesfinanzministerium.de/Content/DE/Standardarti- kel/Themen/Oeffentliche_Finanzen/Foederale_Finanzbeziehungen/Laenderhaushalte/2014/Entw_ Laenderhaushalte-bis-Dezember2014-vorlaeufiges-Ergebnis-.pdf?__blob=publicationFile&v=1. 436 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

mente esiste un nesso chiaro tra ricorso al credito dei Comuni e tasso di inve- stimento: mentre i Comuni nei Länder economicamente forti, quali la Bavie- ra e il Baden-Wuerttemberg, usano poco lo strumento dei crediti avendo il li- vello maggiore di investimenti pubblici di tutti i Länder, i Comuni della Rena- nia Settentrionale-Vestfalia e della Saar sono gli ultimi in questa graduatoria21. Quanto alla situazione generale dello Stato, secondo dati della Commis- sione europea, il tasso di investimenti rispetto agli ammortamenti (vale a dire il volume degli investimenti netti) è troppo basso già sin dal 2003, per mantenere il capitale di Bund, Länder e Comuni, ossia il patrimonio dello Stato (vedi fig. 5). In altre parole: dal 2003 in poi le infrastrutture in Germania deteriorano più velocemente del ripristino22. Mentre gli in- vestimenti netti nei Länder solo in alcuni anni risultavano di segno ne- gativo, il deficit a livello comunale era costante, arrivando, tra il 2003 e il 2013, addirittura a 42 miliardi di euro in totale23.

Fig. 5 – Investimenti lordi e netti di Bund, Länder e Comuni

Fonte: Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, op. cit., p. 4; de- statis (VGR, in prezzi correnti); calcoli dell’Imk.

(21) Cfr. Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, cit., p. 12.

(22) Cfr. F. Dach, Kahlschlag bei den Investitionen der Bundesländer, in WISO-Info, 4, 2012, p. 15.

(23) Cfr. Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, cit., p. 5. SAGGI E ARTICOLI 437

In particolare, sono stati i Comuni a dover ridurre le loro spese per in- vestimenti (vedi fig. 6). Questo sviluppo si rispecchia nella percentuale degli investimenti comunali rispetto al totale degli investimenti pubblici (vedi fig. 7). Mentre la quota comunale nel 1991 ancora ammontava al 63% di tutti gli investimenti pubblici, nel 2013 si era ridotta al 50,1%24.

Fig. 6 – Investimenti pubblici per livello di governo (in % del totale)

Fonte: Bundesministerium der Finanzen, Bund/Länder-Finanzbeziehungen auf der Grundla- ge der Finanzverfassung, Ausgabe 2014, Berlin, 2014, p. 18.

Fig. 7 – Investimenti pubblici netti a seconda dei livelli di governo (miliardi di euro)

Fonte: Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, op. cit., p. 5; de- statis (VGR, in prezzi correnti); calcoli dell’Imk.

(24) Cfr. Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, cit., p. 5. 438 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Lo scarso tasso di investimenti è ancora più grave per un Paese quale la Germania, la cui economia è basata su una produzione di alto valore (ag- giunto), dipendente da servizi di alta qualità, che a loro volta richiedono un’infrastruttura di eccellenza e un sistema di ricerca e sviluppo avanza- to. Esistono parecchi studi dedicati agli investimenti che però, utilizzando parametri e settori diversi, arrivano a cifre diverse rispetto alle esigenze di investimento. A prescindere del singolo studio si arriva comunque ad un deficitdi investimenti pubblici di decine di miliardi di euro ogni anno. La Kreditanstalt für Wiederaufbau indica una lacuna di investimenti di 118 miliardi di euro per Bund, Länder e Comuni nel 201425. Sebbene la divisione dei compiti tra settore pubblico e settore privato tra i Paesi Ue sia molto diversa, la comparazione longitudinale ci dà delle in- dicazioni ben chiare: le politiche della austerity producono i propri effetti. La lacuna degli investimenti inferiori rispetto alle altre importanti economie nazionali dell’Europa – tra cui anche Paesi che sono stati colpiti da pro- blemi economici gravi quali la Francia e appunto l’Italia, e che ancora nel 2013, cioè nel pieno della crisi finanziaria, investivano più della Germania – è ben lontana dall’essere colmata. La riduzione della differenza di investi- menti è meramente virtuale o fittizia, perché si manifesta soltanto in quanto gli Stati con un maggior incremento del debito pubblico nella crisi finanzia- ria ed economica iniziata nel 2008/2009 hanno dovuto ridurre drasticamen- te le loro spese per investimenti. Nondimeno, persiste ancora una carenza enorme, se messa in comparazione con la Francia e gli Usa, ma anche Pae- si quali la Polonia, la Repubblica Ceca o la Svizzera superano la Germania (vedi fig. 8). Soltanto nel momento in cui la Germania sapesse colmare la sua lacuna di investimenti spendendo molto di più, il Paese potrebbe di- ventare il volano per la crescita del resto d’Europa26; con l’attuale ecceden- za della bilancia commerciale la Germania non lo è affatto. Veniamo al nesso tra crescita economica e tasso di investimento. È un dato di fatto che la crescita dell’economia tedesca, sin dal 1999, sia sem-

(25) Cfr. Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, cit., p. 8.

(26) Cfr. S. Bach et al., Deutschland muss mehr in seine Zukunft investieren, in DIW Wochenbe- richt, 26, 2013, pp. 1-5 nonché S. Bach et al., Wege zu einem höheren Wachstumspfad, in DIW Wochenbericht, 26, 2013, pp. 6-17. SAGGI E ARTICOLI 439

pre stata inferiore alla media della Zona Euro. Al tempo stesso, in con- fronto alla Zona Euro, la Germania, per quanto concerne gli investi- menti, dimostra un deficit annuo del 3% del Pil. Di conseguenza la Ger- mania, dal 1999 fino al 2013, ha perso un valore corrispondente al 40% dell’attuale Pil, ossia un bilione di euro27, una cifra che equivale circa alla metà dell’intero debito pubblico tedesco. Se la Germania avesse investito soltanto ciò che la media dei Paesi membri dell’Ocse ha speso per investimenti nello stesso periodo, il Pil tedesco sarebbe cresciuto di quasi l’1% di più ogni anno28.

Fig. 8 – Investimenti pubblici (% del Pil) – Paesi See (Spazio economico europeo) a confronto (1999-2012)

Fonte: dati dell’Eurostat 2015; grafico: Grasse.

(27) Cfr. S. Bach et al., Deutschland muss mehr in seine Zukunft investieren, cit., p. 3.

(28) Cfr. S. Bach et al., Wege zu einem höheren Wachstumspfad, cit., p. 15. 440 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Per guardare al futuro: secondo le stime del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung, il tasso di crescita della Germania con una spe- sa maggiore per investimenti e spese maggiori per ricerca e sviluppo, educazione e formazione professionale, potrebbe aumentare entro il 2017 dello 0,6% annuo ovvero potrebbe crescere anziché dell’1,0% del- l’1,6%29. Uno degli effetti potrebbe essere un aumento della produttivi- tà lavorativa e di seguito un aumento dei salari reali (di circa lo 0,4%) con un incremento della domanda interna30. Tuttavia il problema prin- cipale dello scarso tasso di investimento è proprio la scarsa domanda da parte di Bund, Länder e Comuni, nelle infrastrutture pubbliche e in primis nell’edilizia, mentre la tassa di investimento nel settore priva- to in Germania non si distingue dagli altri Paesi della Zona Euro31: «but investment in equipment is still low in historical terms, largely because of the German Economy’s heavy orientation on export demand, which especially in the Eurozone is being held back by overblown austerity po- licies […] Because of an erroneous budget consolidation policy, pub- lic infrastructure has been deteriorating steadily since 2003. And be- cause expenditure on infrastructure has a particularly large mulitplier effect for the economy as a whole, increasing public investment could al- so boost the utilisation of domestic private-sector production capacity»32. Bisogna aggiungere che la politica neoliberista degli abnormi sgravi fi- scali sui redditi da capitale ha sì fatto esplodere i profitti, ma non ha por- tato ad un significativo incremento degli investimenti privati (vedi fig. 9). Al contrario, ha portato sia ad un record dei risparmi (2007: 27% del Pil) sia a investimenti su mercati finanziari esteri33. Non si tratta solo di un ex- port di capitale che viene a mancare per il mercato interno tedesco e, di conseguenza, per lo sviluppo economico; con la crisi dei mercati finan-

(29) Cfr. S. Bach et al., Deutschland muss mehr in seine Zukunft investieren, cit., p. 4.

(30) Cfr. S. Bach et al., Wege zu einem höheren Wachstumspfad, cit., p. 16.

(31) Cfr. F. Lindner, A Shortage of Private Investment in Germany? The Problem is a Lack of De- mand, not of Machinery, in Friedrich Ebert Stiftung (a cura di), International Policy Analysis, November 2014.

(32) F. Lindner, cit., p. 10 ss.

(33) Cfr. S. Bach et al., Wege zu einem höheren Wachstumspfad, cit., p. 11. SAGGI E ARTICOLI 441

ziari esteri, gran parte di quegli investimenti sono andati persi (circa 600 miliardi di euro tra il 2006 e il 2012, corrispondenti al 22% del Pil tede- sco), mentre il mercato tedesco si è rivelato relativamente più stabile34.

Fig. 9 – Redditi da capitale e investimenti fissi lordi in Germania 1991-2012 (miliardi di euro)

Fonte: Ufficio Federale di Statistica/Statistisches Bundesamt 2013, Statistisches Jahrbuch 2013; grafico: Grasse.

Ma torniamo agli investimenti pubblici. Anche con l’impiego di una definizione estesa di quello che rientra nella categoria di “investimen- ti”, come ad esempio le spese per l’istruzione pubblica (avvenuta con il novero della contabilità nel 2010), il quadro non cambia molto. Pure rispetto all’educazione la Germania zoppica, dietro la media dei Paesi Ocse di circa un punto percentuale35. A livello dei Länder si trova una situazione molto simile a quella federale per quanto riguarda l’insufficienza degli investimenti. Sul retroscena di un’i- deologia dello “Stato snello”, perfino neiLänder economicamente più sta-

(34) Cfr. S. Bach et al., Wege zu einem höheren Wachtstumspfad, cit., p. 11 ss.

(35) Cfr. S. Bach et al., Deutschland muss mehr in seine Zukunft investieren, cit., 26, 2013, p. 5. 442 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

bili la percentuale degli investimenti lascia molto a desiderare. Come viene evidenziato dalla fig. 10, il tasso di investimento nei Länder occidentali do- po la riunificazione, tra il 1992 e il 2001, si trova ad un livello molto basso e di poco inferiore all’1% del Pil, per diminuire ulteriormente fino al 2007. Solo con i programmi lanciati nel 2008 e 2009, in primo luogo il cosiddet- to “Secondo pacchetto per il rilancio della congiuntura” (Konjunkturpaket II), dotato di 20 miliardi di euro, la situazione è migliorata fino al 2011, per deteriorare di nuovo negli anni seguenti, soprattutto a livello comunale36. Il fatto che nei Länder occidentali, nonostante la bassa quota di investi- menti pubblici, ci sia ancora la crescita, si spiega perché lì si parte da un altissimo livello delle infrastrutture e una base industriale molto più ampia e più consistente rispetto ai Länder orientali. Ma è proprio que- sta base che si sta erodendo.

Fig. 10 – Quote di investimenti dei Länder – Germania Est e Ovest a confronto (spese pubbliche per investimenti in % del Pil regionale).

Fonte: F. Dach, op. cit., p. 13; Ufficio Federale di Statistica/Statistisches Bundesamt, VGR der Länder.

Con la fine della maggior parte dei sussidi per la Germania dell’Est pre- vista per il 2020, il riordino del sistema perequativo e l’entrata in vigore

(36) Cfr. Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, K. Rietzler, Anhaltender Verfall der Infrastruktur. Die Lösung muss bei den Kommunen ansetzen, cit. SAGGI E ARTICOLI 443

del divieto di indebitamento nello stesso anno, è prevedibile che il tas- so di investimento nei 5 Länder orientali sia destinato ad allinearsi con il bassissimo tasso di investimento già esistente nei Länder occidentali quali l’Assia o la Bassa Sassonia (vedi fig. 11), che cercano di consolida- re i loro bilanci a scapito degli investimenti. Visto che la capacità eco- nomica dei Länder dell’Est non riesce a raggiungere il livello dato all’O- vest, gli investimenti nella loro quantità dovrebbero essere mantenuti almeno stabili ma sicuramente non diminuire37.

Fig. 11 – Quote di investimenti dei Länder Brema, Assia, Bassa Sassonia, Sas- sonia-Anhalt e Turingia (spese pubbliche per investimenti in percentuale del Pil regionale)

Fonte: F. Dach, op. cit., p. 13; Ufficio Federale di Statistica/Statistisches Bundesamt, VGR der Länder.

Se nei Länder orientali fino al 1997 si è assistito a tassi di crescita de- cisamente superiori a quelli dei Länder occidentali, con l’effetto di un avvicinamento della prestazione economica tra Est ed Ovest, ciò era in gran parte merito dell’alto tasso di investimenti pubblici nei Län- der orientali (vedi fig. 10) con mezzi speciali provenienti dal Bund e dai “Patti di solidarietà I+II”. Tuttavia, con il calo degli investimenti nei Länder orientali, anche i tassi di crescita annui fra Est e Ovest si so-

(37) Per un’analisi delle disuguaglianze persistenti tra Germania Est ed Ovest più di vent’anni dopo la riunificazione vedi ad esempioS ozialwissenschaftliches Forschungszentrum Berlin-Bran- denburg, Sozialreport 2010, Berlin, SFZ-Verlag, 2010. 444 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

no sempre più avvicinati per andare più o meno di pari passo. Con la crisi del 2009, tuttavia, il tasso medio di crescita nei Länder orientali risulta di nuovo inferiore rispetto ai Länder occidentali (vedi fig. 12). Di conseguenza il divario economico tra Est ed Ovest corre il rischio di crescere di nuovo, soprattutto con la fine dei fondi speciali previ- sta per l’anno 2020. Le possibilità di tutti i Länder di praticare delle politiche economiche regionali vere e proprie, ossia discrezionali, in ambito di promozione di attività produttive, sono già oggi assai limitate per mancanza di risorse finanziarie: nel periodo 1998-2008 i Länder su base annua spendevano (in termini di risorse proprie rispetto ai loro bilanci complessivi) soltan- to tra il 17,02 per mille (Sassonia) e il 2,52 per mille (Assia)38.

Fig. 12 – Tassi di crescita annua nominale nei Länder – Est ed Ovest a confron- to (1992-2013)

Fonte: Uffici statistici dello Stato federale e dei Länder/Statistische Ämter des Bundes und der Länder 2014 (www.statistik-portal.de); grafico: Grasse.

(38) Cfr. M. Müller, Länderwirtschaftspolitik, in A. Hildebrandt, F. Wolf (a cura di), Die Politik der Bundesländer. Staatstätigkeit im Vergleich, Wiesbaden, VS Verlag, 2008, p. 200. SAGGI E ARTICOLI 445

Tra i Länder con i maggiori problemi di crescita nel 2013 troviamo il Saarland (-1,3%), la Sassonia-Anhalt (-1,2%), il Meclemburgo-Pomerania occidentale (-1,1%) e la Renania Settentrionale-Vestfalia (-0,1%)39. Nel mese di marzo 2015, finalmente, il Governo federale ha varato un programma di investimenti di 10 miliardi di euro, di cui, entro il 2016 e il 2018, 7 miliardi dovrebbero andare nei settori quali l’energia, la re- te del traffico e dei trasporti, la protezione del clima, l’Internet veloce e l’urbanistica. Inoltre, il Bund intende fornire i Comuni di altri 5 miliardi di euro, di cui 1,5 miliardi sono destinati alla manutenzione dell’infra- struttura. Infine, ulteriori 3,5 miliardi di euro sono previsti per investi- menti nei Comuni più indebitati40.

4. Conclusioni Il sistema multi-livello tedesco, con la crisi del 2009, non ha vissuto finora cambiamenti fondamentali in termini di riforme istituzionali, bensì ha vissu- to gli effetti di una politica macroeconomica e fiscale basata sull’ideologia del mercato e per l’offerta, perseguita da due decenni (e dunque esistente già molto prima della crisi) e su di una corrispondente politica dell’austeri- tà per quanto riguarda il settore pubblico. In confronto con i 32 Paesi indu- strializzati, solo il Giappone tra il 1999 e il 2012 ha la minor crescita delle spese pubbliche. Questa traiettoria è stata fortemente rafforzata con la crisi economica e bancaria del 2009, ma, senza alcun dubbio, questa politica in linea di principio precedeva la crisi e ne è una delle cause. Vista la situazione drammatica di indebitamento di certi Länder dell’O- vest, visto il degrado delle infrastrutture in certe Regioni quali il bacino della Ruhr, è sotto gli occhi di tutti che bisognerebbe cambiare rotta in materia di politica fiscale. Altrimenti saranno soltanto i Länder ricchi a potere approfittare, in base alle loro possibilità finanziarie, degli aumen- ti della specifica competenza politico-amministrativa conferiti loro con la riforma costituzionale del 2006. Attualmente sembrano più probabili, tuttavia, accordi su mini-riforme

(39) Cfr. Arbeitskreis Volkswirtschaftliche Gesamtrechnungen der Länder, Bruttoinlandsprodukt – preisbereinigt, verkettet – in Deutschland nach Bundesländern 2013, 2015; http://www.vgrdl. de/VGRdL/tbls/tab.asp?rev=RV2011&tbl=tab02&lang=de-DE. (40) Cfr. Spiegel Online, 3.3.2015. 446 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

costituzionali, specie quella già avvenuta nel dicembre del 2014 in ma- teria di ricerca ed università (“compiti comuni”, art. 91b), quando le possibilità di intervento da parte del Bund sono state in parte ripristi- nate; un parziale roll back rispetto alla riforma del 2006, con ritorno al- la cooperazione tra Bund e Länder e all’intreccio delle competenze. I margini di azione dei Länder comunque si assottiglieranno ulteriormen- te in seguito al divieto costituzionale di indebitamento a partire dal 2020 (che anche alcuni Länder tedeschi, dopo la riforma della Legge Fonda- mentale del 2009, hanno introdotto nelle loro Costituzioni, a volte, come nel caso del Land Assia, anche per recuperare alcuni margini d’azione nei momenti di crisi41), diventato modello per il Fiscal Compact dell’Ue: il caso tedesco dunque dimostra che si tratta di una clausola controprodu- cente, perché impedisce ai Länder politiche effettive di investimento os- sia di crescita e sviluppo. Il Bund, che ha diritto di indebitarsi dello 0,35% annuo rispetto al Pil, sembra disponibile a cedere ai Länder lo 0,15%, ma soltanto in cambio di un controllo federale più rigido sui bilanci dei Län- der. A livello comunale, i Comuni in bancarotta con il cosiddetto Piano di salvataggio (vedi l’esempio del Land Assia sopracitato) già da tempo ri- corrono a sussidi dei Länder cedendo il proprio potere politico, una spe- cie di “commissariamento leggero”. Infine, va sottolineato e ribadito che dietro i conflitti tra Länderi , in primis quelli incentrati sul tema della perequazione finanziaria, si rive- la il problema di fondo, vale a dire una politica macroeconomica e fi- scale sbagliata. In altre parole: i conflitti vengono “territorializzati” ma non risolti. Similmente avviene nell’Unione europea, con una sbaglia- ta contrapposizione Nord-Sud. Con l’insistere sulle politiche di austeri- tà la Germania, come abbiamo visto nell’analisi degli investimenti insuf- ficienti a livello regionale e locale, non mette a rischio soltanto l’inte- grazione europea, ma a medio e lungo termine mette in gioco anche il proprio sviluppo e il proprio modello di “economia sociale di mercato”, che in passato ha garantito la prosperità al Paese.

(41) Complessivamente sono 8 Länder che hanno introdotto il divieto all’indebitamento nel- le loro Costituzioni, vale a dire: Assia, Baviera, Brema, Amburgo, Meclemburgo-Pomerania, Re- nania-Palatinato, Sassonia e Schleswig-Holstein; 3 Länder hanno trovato una soluzione trami- te legge ordinaria, vale a dire: Baden-Württemberg, Turingia e Sassonia-Anhalt; la Bassa Sas- sonia si è decisa per una soluzione transitoria nell’ordinamento del bilancio; 4 Länder invece non hanno implementato alcun provvedimento regionale per la realizzazione del dettato della Legge Fondamentale, cioè Berlino, Brandenburgo, Saarland e Renania Settentrionale-Vestfalia. NOTE E COMMENTI 447

Fusione e incorporazione alla luce della sentenza n. 50 del 2015 della Corte costituzionale Cosimo Tommasi

La fusione per incorporazione, introdotta dal comma 130 della legge n. 56 del 2014, si qualifica come strumento potenzialmente rilevante per la riorganizza- zione del territorio comunale in termini di adeguatezza dimensionale, orga- nizzativa e funzionale. Tuttavia, l’impatto concreto che l’istituto riuscirà a pro- durre sul riassetto della mappa municipale appare negativamente condizionato dalle forti resistenze identitarie e dall’orientamento interpretativo della Corte costituzionale. Con sentenza n. 50 del 2015, la Corte riconduce la fusione per incorporazione nella competenza legislativa esclusiva statale, riducendo così le prospettive di differenziazione su base regionale e creando un ingiustificato distinguo tra fusione “tradizionale” e fusione per incorporazione.

1. I processi di fusione nell’evoluzione attuativa della legge Delrio Con la legge 7 aprile 2014, n. 56, il legislatore statale ha inteso fissare le basi normative su cui fondare la realizzazione di un ambizioso proces- so di riforma delle autonomie locali ispirato ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione1. A distanza di poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge, de- finita come «un nuovo patto per la Repubblica», il processo attuativo an- cora in atto, e con esiti tutt’altro che scontati, pone dei seri dubbi sul- la direzione intrapresa e sull’inquadramento dei principi che concreta- mente ispirano il percorso stesso. La possibilità di confermare il giudizio espresso da alcuni, già nell’im- mediata entrata in vigore della legge, in termini di «svolta epocale», pare

(1) Per una disamina approfondita della legge 56/2014: L. Vandelli, Città metropolitane, Provin- ce, Unioni e fusioni di Comuni. La legge Delrio, 7 aprile 2014, n. 56 commentata comma per comma, Rimini, Maggioli, 2014; F. Fabrizzi, G. Salerno, (a cura di), La riforma delle autonomie locali nella legge Delrio, Napoli, Jovene, 2014; A. Sterpa (a cura di), Il nuovo governo dell’area vasta. Commentario alla legge n. 56 del 2014, Napoli, Jovene, 2014. 448 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

oggi dipendere dall’impatto che avranno gli stringenti vincoli di bilan- cio – imposti dalla legge 190/2014 – su alcuni rilevanti passaggi attua- tivi della riforma2 e, in misura di certo non meno importante, dalla ca- pacità di coesione e cooperazione tra i vari livelli di governo coinvolti nella realizzazione del nuovo disegno istituzionale. In relazione a quest’ultimo aspetto, un punto di prima rottura è già emerso nel giugno del 2014 con i ricorsi di legittimità costituzionale presentati da quattro Regioni (Veneto, Campania, Puglia, Lombardia) avverso 58 commi dell’unico articolo della legge 56/20143. Le censure delle Regioni ricorrenti, concentrate soprattutto sul riparto competenziale ex art. 117, comma secondo, lett. p), e comma quarto, Cost., sono state respinte in toto dalla Corte costituzionale con senten- za n. 50/2015. La decisione, che ha sollevato non poche critiche con riguardo all’iter logico-argomentativo seguito4, affronta le questioni relative alle doglian- ze regionali suddividendole per quattro categorie: disciplina delle Cit- tà metropolitane; ridefinizione dei confini territoriali e del quadro del- le competenze delle Province; procedimento di riallocazione delle fun- zioni “non fondamentali” delle Province; disposizioni su Unioni e fusio- ni di Comuni. In sostanza, il giudizio di legittimità costituzionale ha interessato tutti i pilastri fondamentali della legge 56/2014. Pertanto, il totale rigetto del- le questioni sollevate dalle ricorrenti assume particolare importanza nel consolidare l’impianto riformatore della legge, avviandolo – «in attesa della riforma del Titolo V»5 – ad una piena attuazione.

(2) G.M. Salerno, La sentenza n. 50 del 2015: argomentazioni efficientistiche o neo-centralismo repubblicano di impronta statalistica?, in federalismi.it, 7, 2015, p. 5. (3) Ricorso Regione Puglia n. 44, depositato in Cancelleria il 16 giugno 2014; ricorso Regione Campania n. 43, depositato in Cancelleria il 13 giugno 2014; ricorso Regione Veneto n. 42, de- positato in Cancelleria il 13 giugno 2014; ricorso Regione Lombardia n. 39, depositato in Can- celleria il 6 giugno 2014.

(4) In questa direzione A. Sterpa, Un “giudizio in movimento”: la Corte costituzionale tra attua- zione dell’oggetto e variazione del parametro del giudizio, Note a margine della sent. n. 50 del 2015, in federalismi.it, 8, 2015; A. Spadaro, La sentenza cost. n. 50/2015. Una novità rilevante: talvolta la democrazia è un optional, in Aic, 2, 2015. (5) La stessa formula viene utilizzata dalla legge 56/2014, in particolare ai commi 5 e 51. Inol- NOTE E COMMENTI 449

Occorre premettere che in questa sede preme focalizzare l’attenzione sul- la disciplina delle fusioni di Comuni, ed in particolare sul procedimen- to di fusione per incorporazione disciplinato dal comma 130 della leg- ge 56/2014 ed oggetto, anch’esso, di valutazione da parte della Consulta. La questione, che a tratti può apparire in secondo piano rispetto alle altre disposizioni impugnate, assume un rilievo decisivo per valutare – nei confini tracciati dalla giurisprudenza costituzionale – l’evolversi de- gli equilibri istituzionali tra i livelli di governo coinvolti nel processo di riordino territoriale in termini di buon andamento (art. 97 Cost.) ed ade- guatezza funzionale (art. 118 Cost.). D’altronde il profilo attinente al riordino strutturale della mappa muni- cipale è interdipendente con i restanti obiettivi della riforma, che coin- volge tutti i livelli di governo locale. Così appare evidente che l’effettiva riallocazione delle funzioni provin- ciali “non fondamentali” – prevista dal comma 89 della legge 56/2014 ed oggetto di recenti interventi legislativi regionali6 – sia strettamente lega- ta alla concreta capacità amministrativa dei Comuni. La possibilità di ri- distribuire “verso il basso” le funzioni amministrative spettanti in passa- to alle Province, scongiurando così un incondizionato riaccentramento regionale, dipende anche dal raggiungimento di livelli dimensionali e funzionali adeguati degli enti comunali, attraverso processi di riordino in senso associativo ma anche strutturale7. Valutare quindi la posizione della giurisprudenza costituzionale rispet- to alla potestà legislativa intesa a governare un importante segmento

tre, il riferimento alla prospettata riforma costituzionale appare anche nella sentenza n. 50/2015 Corte cost., punto 3.4.2. del Considerato in diritto, in cui la Corte osserva come la c.d. legge Del- rio abbia «solo determinato l’avvio della nuova articolazione degli Enti locali, al quale potranno seguire più incisivi interventi di rango costituzionale». (6) L’attuazione del riordino funzionale ha trovato sinora riscontro solo in quattro leggi regio- nali. In particolare: l.r. 22/2015, Regione Toscana; l.r. 10/2015, Regione Umbria; l.r. 15/2015, Re- gione Liguria; l.r. 13/2015, Regione Marche. Per un’analisi approfondita dei processi legislativi regionali in corso: S. Neri, Rassegna sullo stato d’attuazione della legge 7 aprile 2015, n. 56 re- cante “Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni di Comuni”, in federalismi.it, 11, 2015.

(7) Cfr. G. Vesperini, Il disegno del nuovo governo locale: le Città metropolitane e le Province, in Giorn. dir. amm., 8-9, 2014, p. 786 ss.; C. Tubertini, La legge “Delrio”: il riordino del governo lo- cale. Le norme in materia di Unioni e fusioni, in Giorn. dir. amm., 8-9, 2014, p. 794 ss. 450 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

del riordino territoriale, com’è quello dei processi di fusione, è un pas- saggio fondamentale per comprendere se una buona parte dell’orienta- mento attuativo della c.d. legge Delrio si diriga verso modelli di unifor- mità o differenziazione cooperativa su base regionale.

2. La distinzione legislativa e fattuale tra fusione di Comuni ed in- corporazione In base alla disciplina introdotta dalla legge 56/2014 è possibile distin- guere, a livello legislativo, due tipologie di fusione tra Comuni: una fu- sione “tradizionale” che produce, come primo effetto, l’estinzione giuri- dica dei Comuni interessati dal processo aggregativo e la costituzione di un nuovo Comune8; una fusione per incorporazione, in cui la soppres- sione di uno o più Comuni agisce in corrispondenza della sostanziale continuità giuridica del Comune incorporante, benché la legge preveda la possibilità di una sua diversa denominazione9. La prima tipologia di fusione, pur essendo oggetto della disciplina statale già dal 1990, solo negli ultimi anni ha registrato un deciso riscontro ap- plicativo10, ancorché la frammentazione comunale rimanga un fenome- no ancora non superato all’interno della mappa amministrativa italiana11. La fusione per incorporazione acquisisce una prima definizione norma- tiva a livello statale con la legge 56/2014, tuttavia alcune discipline re- gionali di riordino territoriale menzionano, già da tempo, tale ipotesi tra quelle di mutamento delle circoscrizioni comunali12.

(8) Tale tipologia di fusione è disciplinata dall’art. 15 Tuel, così come modificato dal comma 117 della legge 56/2014. (9) Vedi comma 130, legge 56/2014. (10) Tra il 1995 e il 2011 si sono realizzate solo 9 fusioni che hanno coinvolto 24 Comuni. Tra il dicembre 2013 e il febbraio 2014 si sono registrate 26 fusioni che hanno coinvolto 61 Comu- ni. Dal 1° gennaio 2015 si sono realizzate già 3 fusioni. Dati contenuti in: Atlante dei Piccoli Co- muni 2014, realizzato dal Centro Documentazione e Studi Comuni Italiani Anci-Ifel, p. 271 ss. (11) Nei dati relativi al 2014, i piccoli Comuni italiani (cioè i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti) costituivano il 70,0% delle 8.057 realtà comunali presenti sul territorio nazionale. (12) In questa direzione si possono citare le seguenti discipline regionali: l.r. 143/1973 Regione Abruzzo, art. 8, «Istituzione di nuovi Comuni», prevede l’ipotesi di «incorporazione di uno o più Comuni in altro Comune contiguo», precisando che «l’incorporazione, ai fini della presente legge, è equiparata alla fusione di Comuni, mediante l’istituzione di un Comune nuovo»; l.r. 54/1974 Re- NOTE E COMMENTI 451

Dal punto di vista fenomenico, l’incorporazione, come «vicenda per un verso aggregativa e, per altro verso, estintiva»13, ha avuto una pratica esplicazione già dopo la legge n. 2248 del 1865 sull’unificazione ammini- strativa e soprattutto durante le politiche autoritarie di matrice fascista14. Occorre notare, però, che, se negli anni successivi al 1865, e sino al- la metà del secolo scorso, la pratica incorporativa ha avuto un sensibi- le impatto sull’ordine locale15, viceversa, delle 38 fusioni realizzate tra il 1995 ed il 2014 nessuna può definirsi tecnicamente come fusione per

gione Campania, art. 3, afferma che «Ai fini della disciplina di cui alla presente legge regionale: l’incorporazione di un Comune in un altro della medesima Provincia è equiparata all’ipotesi con- templata alla lettera a) del precedente articolo 2 [cioè la fusione tra Comuni]»; l.r. 25/1992 Regio- ne Veneto, art. 3, puntualizza: «La variazione delle circoscrizioni comunali può consistere: [...] nel- la incorporazione di uno o più Comuni all’interno di altro Comune»; l.r. 10/1995 Regione Marche, art. 3, «Mutamento delle circoscrizioni comunali», specifica che «Il mutamento delle circoscrizioni comunali può aver luogo nei seguenti casi: a) incorporazione di un Comune in un altro conter- mine; b) distacco di una frazione o borgata da un Comune e sua incorporazione in un Comune contermine; [...]. Ai fini della presente legge, all’incorporazione di Comune in altro Comune con- termine devono applicarsi le stesse disposizioni poste in materia di fusione di due o più Comuni contermini»; l.r. 24/1996 Regione Emilia-Romagna, art. 20, «Norme interpretative», al comma 2 sta- bilisce che «Ai fini della presente legge, l’unificazione in un solo Comune di più Comuni preesi- stenti realizzata attraverso l’incorporazione di uno o più Comuni in un altro contiguo deve inten- dersi equiparata alla fusione di Comuni operata mediante istituzione di un Comune nuovo»; l.r. 29/2006 Regione Lombardia, la quale, pur non facendo espressamente riferimento all’incorpora- zione, nell’art. 5, «Mutamento circoscrizioni comunali», parla di «aggregazione di un Comune ad al- tro Comune contiguo»; l.r. 68/2011 Regione Toscana, art. 64, «Contributi per fusioni ed incorpora- zioni», stabilisce che «In caso di fusione o incorporazione di due o più Comuni, se la legge regio- nale che provvede alla fusione o all’incorporazione non stabilisce alcun contributo in favore del Comune, è concesso un contributo pari a 150.000,00 euro per ogni Comune originario per cinque anni fino ad un massimo di 600.000,00 euro per il nuovo Comune a decorrere dall’anno successi- vo all’elezione del nuovo Consiglio comunale”; l.r. 34/2014 Regione Puglia, art. 6, «Fusione di Co- muni», comma 4, specifica che «Su richiesta dei Comuni interessati alla fusione, che può avvenire anche per incorporazione, deliberata dai rispettivi Consigli comunali, la Giunta regionale presen- ta un disegno di legge per l’istituzione del nuovo Comune». (13) La formula è la stessa richiamata dalla Corte cost. in sent. n. 50/2015, Considerato in di- ritto, par. 6.2.2.

(14) Per una completa disamina dell’assetto locale nel periodo in considerazione: G. Vesperini, I poteri locali, vol. I, Catanzaro, Meridiana Libri, 1999. (15) A mo’ di esempio: in Emilia-Romagna, il Comune di Mortizza aggregato al Comune di Piacen- za con regio decreto 8 luglio 1923, n. 1729; in Liguria, il Comune di Poggi incorporato nel Comune di Imperia con regio decreto 21 ottobre 1923, n. 2360; in Campania, i Comuni di Soccavo, Pianura, Secondigliano incorporati nel Comune di Napoli con regio decreto 3 giugno 1926, n. 1002; in Tren- tino-Alto Adige, che tra il 1923 e il 1931 ha contato 96 incorporazioni nella sola Provincia di Bolza- no, i Comuni di Maia Alta e Maia Bassa incorporati nel 1923 nel Comune di Merano. 452 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

incorporazione. Infatti, in questi ultimi casi, in linea con la legislazione statale precedente alla legge 56/2014, si è sempre proceduto all’estin- zione di tutte le realtà comunali coinvolte nel processo aggregativo in funzione della creazione di un nuovo Comune. Per comprendere se in futuro l’incorporazione potrà avere un concreto risvolto applicativo, occorre partire dall’analisi delle due forme di fusio- ne tra Comuni (quella “tradizionale” e quella “per incorporazione”), di- stinguendo, in primis, il loro diverso configurarsi sia sul piano legislati- vo che su quello applicativo-strategico. Dal punto di vista legislativo, la disciplina del comma 130 da un lato ri- chiama il procedimento previsto dal comma 1 dell’art. 15 Tuel, per cui l’incorporazione sarà disposta con legge regionale e previo referendum delle popolazioni interessate; dall’altro lato pone, per la “nuova” fusio- ne, degli elementi caratterizzanti. In questa direzione, in primo luogo, il legislatore statale si preoccupa di definire le conseguenze del nuovo processo aggregativo, stabilendo che «il Comune incorporante conserva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al Comune incorporato e gli organi di quest’ul- timo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di in- corporazione». Come prima ed immediata considerazione, si deduce che al processo di fusione non corrisponde la creazione di un nuovo Comune, bensì la modifica dei confini del Comune incorporante. Tale conseguenza por- ta con sé importanti ricadute sia sul profilo finanziario che rappresen- tativo. Sul versante finanziario, appare evidente che il Comune incorporante dovrà farsi carico di tutte le situazioni attive e passive del Comune in- corporato. È intuibile quindi che la volontà politica di portare a termi- ne il processo aggregativo dipenderà, in parte, dall’omogenea situazio- ne finanziaria dei Comuni interessati dal processo. Sul versante rappresentativo emerge che, quantomeno sino alle prime elezioni comunali post-fusione, gli organi del Comune risultante dall’ag- gregazione saranno solo quelli espressione dell’ente incorporante. Sa- ranno tali organi a dover gestire la delicata fase riorganizzativa, attuan- do, tra l’altro, la parte garantistica del comma 130 per le comunità in- corporate (sprovviste quindi di propri rappresentanti) in forza della NOTE E COMMENTI 453

quale: «lo Statuto del Comune incorporante prevede che alle comunità del Comune cessato siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. A tale scopo lo Statuto è integrato en- tro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale di in- corporazione». Infine, la norma testé richiamata stabilisce due specificazioni in merito al percorso procedurale di fusione. In questo senso: da un lato, impone che il referendum consultivo ex art. 133 Cost., in base alle discipline re- gionali, debba svolgersi «prima che i Consigli comunali deliberino l’av- vio della procedura di richiesta alla Regione di incorporazione»; dall’al- tro, riconosce la possibilità di «modificare la denominazione del Comu- ne [incorporante]». Entrambe le previsioni possono leggersi in un’ottica indirizzata a con- siderare le dinamiche socio-culturali sottese alla fusione. Come già os- servato in dottrina16, l’anticipazione della consultazione referendaria po- trebbe trovare una ratio nel tentativo di fronteggiare la probabile resi- stenza delle popolazioni interessate e quindi servirebbe ad avviare un progetto di incorporazione da sottoporre al vaglio elettorale già prima della proposta di fusione vera e propria. In effetti il frenante impulso identitario, insito nelle realtà locali, si po- ne potenzialmente in termini più forti nel processo di fusione per in- corporazione. In questi casi il Comune incorporato dovrebbe rinuncia- re alla propria identità politico-istituzionale, sociale e culturale con uno sforzo maggiore rispetto alla fusione “tradizionale” in cui tutti i Comu- ni fusi partecipano in posizione astrattamente paritaria al processo ag- gregativo. In questa prospettiva, il cambio di denominazione del Comune incor- porante si pone come carattere simbolico di discontinuità tale da favo- rire le comunità incorporate a sentirsi nuova parte costitutiva dell’ente. Infine, un aspetto normativo che unisce le due modalità di fusione è quello che attiene ai contributi statali volti ad incentivare i processi ag- gregativi. Infatti con l’art. 23, comma 1, lett. f-ter), del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90 (convertito dalla legge 114/2014), si estende anche

(16) C. Tubertini, La legge “Delrio”: il riordino del governo locale, Le norme in materia di Unio- ni e fusioni, cit., p. 803. 454 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

alle fusioni per incorporazione la concessione del contributo straordi- nario ex art. 15, comma 3, Tuel17. Le divergenze tra la fusione “tradizionale” e la fusione per incorpora- zione non si limitano al piano normativo, ma possono estendersi anche all’inquadramento sistematico e strategico dei due istituti. Dal punto di vista applicativo, occorre osservare che i due processi di fusione rispecchiano un disegno strategico di riordino territoriale iden- tico nella finalità ma parzialmente divergente nella modalità esplicativa. Nel primo caso, quello della fusione “tradizionale”, si avvia un pro- cesso volto alla realizzazione di livelli dimensionali ottimali, per la ge- stione delle funzioni comunali, attraverso l’aggregazione di più Co- muni che, rinunciando alla propria identità, si concentrano in un uni- co nuovo ente. La prassi applicativa dell’istituto dimostra come, nella maggior parte dei casi, questo tipo di fusione abbia interessato piccoli Comuni di dimen- sione più o meno omogenea, ed anzi la simile grandezza territoriale ed economica dei Comuni coinvolti nella fusione è stata spesso un requisi- to fondamentale per la buona riuscita del processo stesso18. Il secondo caso, quello della fusione per incorporazione, condivide con il primo il fine ultimo del riordino territoriale, ma il percorso deli- neato pare distinguersi da quello poc’anzi esposto. Invero, nella fusio- ne per incorporazione pare implicito il fatto che il Comune incorporan- te si ponga in una posizione di superiorità dimensionale ed economica rispetto al Comune incorporato, che, stando al comma 130 della legge 56/2014, si estingue per subentrare nel Comune incorporante, il quale, a sua volta, mantiene la propria personalità, i propri organi e succede a titolo universale al Comune incorporato. Il riordino della mappa comunale in termini di adeguatezza si pone, quin- di, in una prospettiva strategica parzialmente differente all’interno delle

(17) Tale contributo, dal 2013, è commisurato al 20% dei trasferimenti erariali attribuiti per l’an- no 2010. Il decreto legge 90/2014 ha fissato la soglia massima pari a 1,5 milioni di euro per cia- scuna fusione. (18) Sul problema della rappresentanza delle comunità d’origine all’interno del nuovo Comu- ne, in caso di divergenze demografiche dei Comuni partecipanti alla fusione, cfr. G. Campana, L’analisi del riassetto istituzionale nei processi di fusione, in questa Rivista, 1, 2012, p. 85 ss. NOTE E COMMENTI 455

due tipologie di fusione. L’ipotesi che un Comune di dimensioni medio- grandi possa inglobare al suo interno uno o più “Comuni satellite” limi- trofi apre ad un possibile scenario aggregativo di più ampia dimensio- ne rispetto a quello definitosi nelle fusioni realizzate dal 1995 ad oggi19. Tale possibilità potrebbe acquisire un peso rilevante anche all’interno delle aree metropolitane dove il graduale processo integrativo tra i pic- coli Comuni ricompresi nell’area vasta potrebbe spingere gli stessi ad avviare processi aggregativi, anche di tipo incorporativo, per supplire al deficit di rappresentatività che pare emergere dalla composizione del Consiglio metropolitano20.

3. L’ingiustificata distinzione della competenza legislativa Occorre chiedersi se vi siano ragioni per sostenere che la competenza legislativa sulle due forme di fusione tra Comuni debba essere distinta- mente riconosciuta in capo alle Regioni, nell’ipotesi della fusione “tra- dizionale”, ed in capo all’esclusiva mano statale, nell’ipotesi di fusione per incorporazione. In riferimento alla fusione “tradizionale”, la giurisprudenza costitu- zionale, già prima della riforma costituzionale del 2001 ed invero già prima dell’istituzione delle Regioni ordinarie (1970), riconosce- va espressamente la competenza legislativa regionale – oggi ricon- ducibile al quarto comma dell’art. 117 Cost. – nell’istituzione di un nuovo Comune21. D’altro canto anche l’art. 133, secondo comma Cost. non pare lasciar dubbi nello stabilire che: «La Regione, sentite le popolazioni interessate,

(19) Tuttavia, occorre notare che, attualmente, non è possibile riscontrare la presenza di pro- cessi di incorporazione in atto. L’unico caso che – di fatto – avrebbe potuto avvicinarsi all’in- corporazione, in relazione alla sostanziale differenza dimensionale ed economica dei Comuni coinvolti, è quello abruzzese dei Comuni di Pescara (117.166 ab.), Montesilvano (50.413 ab.), Spoltore (18.566 ab.). Tuttavia, anche in questo caso, il processo aggregativo in corso (la con- sultazione referendaria è stata svolta il 25 maggio 2014, ma la fusione non è stata ancora perfe- zionata) segue la disciplina della fusione “tradizionale”. (20) Vedi commi 20 e ss., legge 56/2014, che nel fissare composizione ed elezione del Consi- glio metropolitano di fatto escludono la presenza dei rappresentanti di tutti i Comuni ricompre- si nell’area metropolitana. (21) Si fa riferimento, specificamente, a Corte cost., sentt. n. 261 del 2011 e n. 38 del 1969. 456 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modi- ficare le loro circoscrizioni e denominazioni»22. È evidente come i reali confini di tale competenza siano tracciabili so- lo tenendo conto dell’incisività del «coordinamento della finanza pub- blica», materia di competenza concorrente, che consente al legislatore statale di intervenire anche su puntuali aspetti dell’ordinamento degli enti locali23. Per ciò che invece riguarda la fusione per incorporazione, a seguito della quale, come visto, non si dà spazio alla formale istituzione di un nuovo ente comunale, il primo orientamento giurisprudenziale forma- tosi in merito alla competenza legislativa riguarda appunto la senten- za n. 50/2015. Chiamata a decidere sui ricorsi presentati dalle Regioni, la Corte costi- tuzionale è entrata nell’analisi del comma 130 della legge 56/2014, im- pugnato da due delle quattro ricorrenti (Campania e Puglia) in relazio- ne alla prospettata violazione degli artt. 117, comma secondo, lett. p), e comma quarto, 123 e 133, comma secondo, Cost. Il breve ragionamento, formulato dalla Corte, consacra una distinzione tra le due forme di fusione, quella “tradizionale” e quella “per incorpo- razione”, non solo sul profilo del regime giuridico ma anche su quello attinente alla competenza legislativa. Stando alla ricostruzione della Corte, al punto 6.2.2 del Considerato in di- ritto: «Allo stesso modo la disposizione (sub comma 130) relativa alla fu- sione di Comuni di competenza regionale non ha ad oggetto l’istituzio- ne di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competen- za regionale), bensì l’incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune, e cioè una vicenda (per un verso aggregativa e, per altro ver- so, estintiva) relativa, comunque, all’ente territoriale Comune, e come ta- le, quindi, ricompresa nella competenza statale nella materia «ordinamen- to degli enti locali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.».

(22) Sul punto cfr. Corte cost. sent. n. 47 del 2003. (23) Sull’interpretazione della materia «coordinamento della finanza pubblica» e sui relativi ri- svolti applicativi vedi: Corte cost., sentt. n. 22 e n. 44 del 2014, n. 151 del 2012, n. 237 del 2009. Cfr. G. Di Cosimo, C’erano una volta le materie residuali (nota a sent. 237/2009), in Le Regio- ni, 2010, p. 618 ss. NOTE E COMMENTI 457

Inoltre, la Corte chiarisce: « ... l’estinzione di un Comune e la sua incor- porazione in un altro Comune incidono sia sull’ordinamento del primo che del secondo, oltre che sulle funzioni fondamentali e sulla legisla- zione elettorale applicabile. Dal che la non fondatezza, anche in que- sto caso, della censura di violazioni del titolo di competenza fatto va- lere dalle ricorrenti, in prospettiva del criterio residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.». Se ne deduce che la competenza legislativa nel caso di fusione “tradi- zionale” rimane confermata in capo alle Regioni (visto che in tal caso si istituisce un nuovo Comune); viceversa, la fusione per incorporazio- ne è da ricondursi alla potestà legislativa statale, in quanto il processo di incorporazione – da cui non nasce un nuovo Comune – rientrerebbe nella materia «ordinamento enti locali», e comunque incide su funzioni fondamentali e legislazione elettorale applicabile. Il ragionamento basato sul discrimine riconnesso all’istituzione del nuo- vo ente desta perplessità se non altro in relazione al fatto che è lo stes- so dettato costituzionale, art. 133, comma secondo, Cost., a richiamare, nell’ambito di competenza regionale, non solo l’istituzione del nuovo Comune ma anche la modificazione della relativa circoscrizione e de- nominazione. Ipotesi quest’ultime che trovano certo riscontro nella fu- sione per incorporazione. Ancor più perplessità lascia il fondamento giuridico sul quale la Corte basa la sua decisione. Il legame che la Consulta riconosce tra l’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost. e la materia «ordinamento degli enti lo- cali» tradisce non solo l’interpretazione letterale della stessa disposizio- ne24, ma finanche la precedente interpretazione che la stessa Corte ave- va fornito alla disposizione in considerazione25.

(24) Cfr. L. Vandelli, La legge “Delrio” all’esame della Corte: ma non meritava una motivazione più accurata?, in Astrid Rassegna, 9, 2015, p. 3. (25) Corte cost., sent. n. 261 del 2011, punto 2 del Considerato in diritto: «Occorre premette- re, al proposito, una ricostruzione del quadro normativo costituzionale e della sua evoluzione. L’art. 117 Cost., nel testo antecedente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifi- che al Titolo V della Parte II della Costituzione), includeva la materia “circoscrizioni comunali” tra quelle di competenza concorrente delle Regioni, le quali dovevano rispettare, nell’esercizio della loro competenza legislativa, i “principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato” (pri- mo comma del medesimo art. 117, nel testo originario). In seguito alla riforma del Titolo V del- la Parte II della Costituzione, la materia “circoscrizioni comunali” non è stata inclusa nel nuovo 458 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Il riferimento alla materia «ordinamento degli enti locali» non figura espressamente nell’art. 117, secondo comma, lett. p), che tuttora rimane di portata ben più limitata nello stabilire gli ambiti di competenza sta- tale. L’inciso appena richiamato si ritrova – in parte – nel d.d.l. di rifor- ma costituzionale26 al vaglio parlamentare, il quale evidentemente non è, ad oggi, fornito di alcuna valenza prescrittiva. Tuttavia la Corte pare poggiare proprio sul probabile nuovo testo costi- tuzionale la legittimazione giuridica del suo ragionamento27, che pertan- to non appare condivisibile. Ciò non solo in relazione al raffronto tra i parametri di legittimità costituzionale citati dalle ricorrenti ed il conte- nuto del comma 130, che in verità rinvia alla legge regionale sebbene condizionandone il contenuto, ma soprattutto in considerazione della risultante demarcazione tra i due metodi di fusione quale frutto del ri- sultato interpretativo della Consulta. Tale distinzione non trova fondamento né sull’interpretazione letterale dell’art. 117, comma secondo, lett. p), da cui anzi la Corte si discosta for- temente, né sulla necessità di dar spazio ad esigenze finanziarie di carat- tere efficientistico riconducibili al «coordinamento della finanza pubblica», materia concorrente non richiamata nel ragionamento della Corte. L’unica motivazione che sorregge la scelta della Corte pare essere una sorta di anticipazione forzata del probabile nuovo disposto costituzio- nale oggetto di discussione in Parlamento. Il risultato di tale interpretazione – che va nella direzione di una rilettura

testo dell’art. 117, che invece, nel secondo comma, lettera p), attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane. Nessun riferimento alle circoscrizioni comunali, in particolare, è contenuto nel terzo comma del medesimo art. 117, che elenca le materie rientran- ti nella competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni. A differenza dell’art. 117 Cost., è rimasto invariato, dopo la riforma del 2001, il testo dell’art. 133 Cost., nel cui secondo comma è stabilito: “La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni”». (26) Così la nuova formulazione, contenuta nel d.d.l. costituzionale (A.C. 2613), dell’art. 117, comma secondo, lett. p): «ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Citta metropolitane; disposizioni di principio sulle forme associati- ve dei Comuni».

(27) Sul punto cfr. M. De Donno, Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 2015: scheda di lettu- ra, in federalismi.it, 7, 2015, p. 21 ss. NOTE E COMMENTI 459

in senso neo-centralistico della Costituzione quanto piuttosto nell’allinea- mento ai canoni di «efficienza-funzionalità»28 già presenti nella giurispru- denza costituzionale – si riverbera sulla logica distinzione di competenze legislative creando un insensato distinguo tra i due processi di fusione. La Corte, infatti, pone su piani diversi due istituti che, in realtà, sono for- temente legati nella loro finalità e che appaiono entrambi riconducibi- li alla competenza residuale regionale ex art. 117, quarto comma, Cost. Pertanto entrambi i processi aggregativi dovrebbero essere governati, in primis, da un’esigenza di concreta differenziazione, quale primo ed immediato corollario dell’autonomia locale, ed unica strada percorribi- le verso un riordino territoriale legato alla valorizzazione delle effettive esigenze locali29. Il processo di fusione per incorporazione si pone in una prospettiva strategica positivamente rilevante rispetto alla realizzazione di un asset- to locale adeguato alle nuove esigenze dell’azione amministrativa. La possibilità di realizzare fusioni tra Comuni che abbiano come risultante un ente di dimensione superiore a quella sinora riscontrata all’esito dei processi strutturali portati a compimento (raramente superanti la soglia dei 10.000 abitanti) potrebbe dar spazio ad importanti sfide di riorganiz- zazione del territorio in termini di efficienza ed adeguatezza. I limiti che incontra tale scenario, tuttavia, sembrano ripercorrere ele- menti fattuali e giuridici già conosciuti nel nostro ordinamento sin dagli anni successivi alla legge sull’unificazione amministrativa. Da un lato le resistenze identitarie, dall’altro un tendente impulso, anche giurispru- denziale, verso forme di neo-centralismo statale, appaiono, anche per i processi aggregativi tra Comuni, i possibili elementi legittimanti di un immobilismo consapevole o peggio di un federalismo a passo di gam- bero consapevolmente occultato.

(28) Cfr. G.M. Salerno, La sentenza n. 50 del 2015: argomentazioni efficientistiche o neo-cen- tralismo repubblicano di impronta statalistica?, cit., p. 12.

(29) Sul rapporto tra autonomia, differenziazione ed uniformità: E. Carloni, Lo Stato differen- ziato, contributo allo studio dei principi di uniformità e differenziazione, Torino, Giappichel- li, 2004, p. 10 ss.

NOTE E COMMENTI 461

Dal modello neoparlamentare a quello presidenziale? Assessori esterni e potere decisionale dei Presidenti nelle nuove Giunte delle Regioni a Statuto ordinario Brunetta Baldi

L’articolo analizza le nuove Giunte che si sono formate nelle Regioni a Statuto ordinario successivamente al ciclo elettorale 2013-2015, con particolare riferi- mento all’incidenza degli assessori esterni e, in senso più generale, al rapporto fra assessori e Presidenti. Scopo dell’analisi è comprendere, da un lato, se nel- la criticità dell’attuale quadro finanziario, la volontà di ridurre i “costi della politica” ha portato ad una diminuzione del ricorso ad assessori esterni, che costano di più degli assessori di provenienza consiliare; dall’altro, quale prota- gonismo decisionale si prospetta per i Presidenti all’interno delle nuove Giunte alla luce della scelta fatta in relazione agli assessori e alle deleghe loro conferite. L’articolo giunge all’elaborazione di una tipologia che consente di rilevare un significativo rafforzamento del ruolo decisionale dei Presidenti, spostando la forma di governo regionale verso un modello più compiutamente presidenziale.

1. Introduzione La forma di governo introdotta oltre quindici anni fa dalla prima riforma del Ti- tolo V della Costituzione (legge cost. n. 1 del 1999), e successivamente confer- mata dagli Statuti delle Regioni ordinarie, prevede, come noto, una formula in cui il Presidente, eletto direttamente dai cittadini, ha potere di nomina e di re- voca degli assessori che compongono la Giunta, scegliendo discrezionalmente quali deleghe attribuire loro e quali trattenere fra le proprie competenze, al fi- ne di realizzare al meglio il programma politico con cui si è presentato agli elet- tori. Si tratta del modello definito “neoparlamentare”, d’ispirazione “presiden- ziale”, che, sulla falsariga di quanto già previsto per i Comuni dalla legge n. 81 del 19931, supera il precedente modello puramente “parlamentare”, marcando

(1) La disposizione valeva anche per le Province che però oggi, sulla base della legge 56/2014, sono divenute enti di secondo grado, dotate di organi non più direttamente elettivi. 462 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

l’autonomia dell’organo esecutivo dal Consiglio, mettendolo al riparo da quel- le instabilità politiche che in passato avevano prodotto crisi di governabilità2. Poiché il criterio di scelta dei componenti della Giunta suggerito dalla rifor- ma è, o dovrebbe essere, la corrispondenza fra le competenze dell’assesso- re ed il programma politico del Presidente, gli assessori nominati possono essere scelti anche fra i non eletti in Consiglio. Si tratta degli assessori defi- niti “esterni” che, diversamente dagli assessori consiglieri, danno piena at- tuazione al principio cardine della riforma, quello della separatezza fra la Giunta e il Consiglio. Mentre l’assessore consigliere, dotato di un mandato elettivo, mantiene una posizione politico-partitica all’interno della Giunta, riconducibile alle forze politiche di maggioranza, e determina una sovrap- posizione fra i due organi istituzionali, l’assessore esterno, scelto al di fuori del circuito elettorale-rappresentativo, sulla base di competenze tecniche, non permette ingerenze consiliari nell’azione della Giunta e risulta legato al Presidente da un rapporto strettamente fiduciario, rafforzandone, di fat- to, il potere decisionale all’interno della Giunta. Tuttavia, gli assessori esterni costano di più degli assessori consiglieri e, in tempi di spending review, tale aspetto non può essere trascurato. Gli assessori consiglieri, salvo che diversamente disponga la normativa re- gionale, cumulano infatti i due incarichi ma con una sola indennità di carica3; l’assessore esterno, invece, si aggiunge ai consiglieri (assessori e non) con una indennità propria4. Posta la criticità dell’attuale situazione

(2) Si tratta di una formula ibrida, sintetizzata nella clausola simul stabunt simul cadent, che, come nel modello presidenziale, prevede l’elezione diretta del vertice esecutivo ed il suo pote- re di nomina dei componenti della Giunta, mantenendo però, come nel modello parlamentare, un legame politico fra l’organo esecutivo e quello consiliare. Per approfondimenti politologici su tale formula, cfr. F. Musella, Governi monocratici. La svolta presidenziale nelle Regioni ital- iane, Il Mulino, Bologna, 2009. (3) Fra le Regioni ordinarie, solo la Toscana possiede una legge che, sulla base di disposizioni statutarie, prevede l’incompatibilità fra le due cariche (l.r. 38/2014): una volta nominato asses- sore il consigliere decade dal suo incarico. Nelle altre Regioni ordinarie i due incarichi risultano invece cumulabili, determinando sovrapposizioni fra il Consiglio e la Giunta. (4) Poste la mancanza di una informazione completa e la grande variabilità fra le Regioni, l’in- dennità di carica di un assessore consigliere è tendenzialmente equivalente a quella di un con- sigliere regionale (comunque vincolata ai limiti imposti dal d.l. 138/2011, convertito nella leg- ge 148/2011), e ad essa viene equiparata l’indennità dell’assessore esterno. All’indennità di ca- rica si aggiungono però l’indennità di funzione ed il rimborso delle spese, voci che possono produrre significative variazioni fra gli assessori. A titolo esemplificativo, per i casi di Umbria e NOTE E COMMENTI 463

finanziaria che, anche in ottemperanza alla normativa statale, ha spinto molte Regioni ad adottare provvedimenti volti a ridurre i cosiddetti “co- sti della politica”, risulta interessante analizzare la composizione delle nuove Giunte, quelle entrate in carica nelle Regioni ordinarie in seguito al ciclo elettorale 2013-2015, per comprendere quale scelta è stata fatta riguardo agli assessori esterni e quali implicazioni ne derivano in termi- ni di maggiore o minore potere decisionale dei Presidenti. Questo articolo analizza il rinnovo degli esecutivi nelle quindici Regio- ni a Statuto ordinario (Rso), con riferimento all’ultimo ciclo elettorale, quello che ha segnato la fine dell’anomala IX legislatura, chiusa antici- patamente nella quasi metà delle Rso. Nel 2015 si sono tenute regolar- mente le elezioni solo in sette delle tredici Regioni che avevano vota- to nel 2010 (Campania, Liguria, Marche, Toscana, Puglia, Umbria, Vene- to). Le altre sei Regioni erano già andate al voto in seguito dello sciogli- mento anticipato dei loro Consigli: tre nel 2013 (Lombardia, Lazio, Ba- silicata) e tre nel 2014 (Piemonte, Emilia Romagna, Calabria). Nel 2013 era andato al voto anticipato anche il Molise che aveva concluso la sua precedente legislatura nel 20115. In tre casi su sette (Lombardia, Lazio, Basilicata), il voto anticipato è derivato da gravi scandali che hanno in- vestito gli organi politici della Regione (abuso d’ufficio e/o corruzione). In Emilia-Romagna e Calabria si è arrivati allo scioglimento anticipato dei Consigli in seguito a vicende giudiziarie che hanno interessato i so- li Presidenti, spingendoli entrambi alle dimissioni nel 20146. In Molise e Piemonte, invece, il ritorno alle urne è stato deciso dalla magistratura (TAR e Consiglio di Stato) che ha annullato le elezioni precedenti per emerse irregolarità nella raccolta delle firme per la presentazione del-

Liguria, si vedano http://www.consiglio.regione.umbria.it/sites/www.consiglio.regione.umbria. it/files/tabella_2_indennita_amministratori_triennale_1.pdf; http://www.Regione.liguria.it/argo- menti/ente/amministrazione-trasparente/organizzazione/organi-di-indirizzo-politico-amminis- trativo/Giunta-regionale-e-presidente-/compensi.html.

(5) Il Molise fuoriesce dal calendario elettorale delle Rso nel 2001, quando torna al voto per l’annullamento dei risultati delle elezioni del 2000 a causa di riscontrate irregolarità. (6) In Emilia-Romagna, il Presidente Vasco Errani si dimette a seguito di una condanna, poi an- nullata, per falso ideologico. In Calabria, il Presidente Giuseppe Scopelliti rassegna le dimissioni successivamente ad una condanna per abuso d’ufficio relativamente al suo precedente incarico come sindaco di Reggio Calabria. 464 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

le liste elettorali. Infine, ultima Rso, l’Abruzzo, che è andato al voto nel 2014, alla naturale scadenza della sua legislatura7. In tale quadro variegato, a partire da una indagine sulla riduzio- ne del numero di consiglieri ed assessori operata dalle Rso, l’artico- lo analizza i nuovi esecutivi regionali, con riferimento alla presenza o meno di assessori esterni e, in senso più generale, al rapporto fra assessori e Presidenti. A tale scopo, l’analisi prende in considerazio- ne la scelta discrezionale dei Presidenti eletti nelle Rso relativamente non solo alla provenienza degli assessori (esterni o consiglieri) ma anche alle deleghe non attribuite loro e trattenute al vertice dell’e- secutivo. Lo studio giunge all’elaborazione di una tipologia che con- sente di riflettere sul diverso potere decisionale che i Presidenti as- sumono all’interno delle nuove Giunte regionali, cogliendone un si- gnificativo rafforzamento.

2. La riduzione dei consiglieri e degli assessori regionali Nella prospettiva di contenere i “costi della politica”, in seguito ai de- creti legge 138/2011 e 174/2012 nonché agli scandali per corruzione e spreco di denaro pubblico che hanno colpito diverse amministrazioni regionali nel corso dell’ultima legislatura8, quasi tutte le Rso hanno vara- to modifiche statutarie e leggi specifiche per ridurre il numero dei con- siglieri e, parallelamente, dei componenti delle Giunte regionali9. Come evidenziato dalla tabella 1, successivamente alle riforme costi- tuzionali (1999, 2001) che rafforzano l’autonomia regionale, il numero

(7) Il ciclo elettorale dell’Abruzzo si differenzia da quello delle altre Rso nel 2008, quan- do la Regione va al voto anticipato in seguito alle dimissioni del Presidente Ottaviano del Turco, travolto da vicende giudiziarie connesse ad una inchiesta su tangenti nella sanità regionale.

(8) Per approfondimenti, cfr. M. Cerruto, La delegittimazione della classe politica regiona- le, in questa Rivista, 2, 2013, pp. 477-507; D. Iandiorio, Rimborsi alle Regioni: ecco la map- pa completa degli sprechi, di ieri e di oggi, in International Business Time, 4 aprile 2014, http://it.ibtimes.com. (9) Per riferimento a questa normativa regionale, si veda il sito della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e Province autonome: http://www.parlamentiregiona- li.it/consiglieri_regionali/num_cons.php. NOTE E COMMENTI 465

dei consiglieri e/o degli assessori cresce nella maggior parte delle Rso10; dal 2010 ad oggi conosce, invece, una notevole contrazione: i consiglie- ri passano complessivamente da 784 a 600 con una riduzione del 23%, mentre gli assessori si riducono del 30%, scendendo da 170 a 120. Le Regioni che operano i maggiori tagli sono l’Abruzzo e la Calabria che insieme alla Basilicata, alla Puglia e alla Toscana riducono di oltre il 30% i propri Consigli, mentre insieme al Molise, alla Liguria, al Lazio e alle Marche tagliano le proprie Giunte del 40% e più. Seguendo una logica di spending review, sempre in riferimento ai “co- sti della politica”, la normativa regionale si è spinta in taluni casi a contenere il ricorso agli assessori esterni, fissando limiti massimi. In particolare, in Puglia gli assessori esterni non possono essere più di due (pari al 20% dei membri della Giunta); in Molise non possono superare il 25% (un solo assessore esterno); nelle Marche e in Vene- to non devono superare il 50% (rispettivamente tre e cinque assesso- ri come massimo). Si tratta di processi di ridimensionamento degli organi politici regiona- li ancora in corso che, ad oggi, nel loro insieme, hanno consentito un risparmio stimato intorno ai 22 milioni annui, a cui si aggiungono i ri- sparmi derivanti dalla generalizzata diminuzione, da un lato, delle re- tribuzioni del personale politico (circa 34 milioni) e, dall’altro, dei tra- sferimenti ai gruppi consiliari (circa 51 milioni), per un totale stimato di 107 milioni annui11.

(10) Si registrano aumenti in Calabria, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Piemonte, Toscana e Pu- glia. Più stabile invece il dato di Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Umbria e Veneto.

(11) Nella prospettiva di un futuro adeguamento delle Regioni a Statuto speciale (Rss), dove le modifiche statutarie richiedono procedure decisionali più lunghe e complesse, il risparmio sa- lirebbe a 160 milioni. Si tratta di stime contenute nel rapporto finale del gruppo di lavoro sui “costi della politica” coordinato dal Prof. Massimo Bordignon (Università Cattolica di Milano) su incarico dell’allora Commissario alla Spending Review (Carlo Cottarelli). Cfr. Rapporto fina- le 2014, disponibile online su http://revisionedellaspesa.gov.it/documenti/Rapporto_Costi_Po- litica_FINALE.pdf. 466 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Tabella 1 – Numero di componenti dei Consigli e delle Giunte nelle Rso 12

Regioni iunta iunta iunta iunta 2000 2000 2005 2005 2010 2010 onsiglio onsiglio onsiglio onsiglio G G G G 2013-15 2013-15 C C C C Abruzzo 43 10 40 10 45 10 30 6 Basilicata 30 6 30 6 30 6 20 4 Calabria 43 10 43 10 50 13 30 7 Campania 60 12 60 12 60 12 50 8 Emilia-Romagna 50 11 50 12 50 12 50 10 Lazio 60 12 71 14 73 16 50 10 Liguria 40 8 40 12 40 12 30 7 Lombardia 80 16 80 15 80 16 80 14 Marche 40 8 40 10 43 10 30 6 Molise 30 6 30 6 30 9 20 4 Piemonte 60 11 62 14 60 12 50 11 Puglia 60 12 70 14 78 14 50 10 Toscana 50 12 55 13 55 9 40 8 Umbria 30 8 30 8 30 7 20 5 Veneto 60 12 60 12 60 12 50 10 Totale 736 154 761 168 784 170 600 120 Fonte: Elaborazione propria, dati del Ministero dell’interno13

3. Gli assessori esterni Le nuove Giunte delle Rso possono essere classificate in tre gruppi (tab. 2): a) quelle che si sono formate nel corso del 2015, successive alle ele- zioni regolari del 31 maggio (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Tosca- na, Umbria e Veneto), a cui si aggiungono l’Emilia-Romagna e la Cala- bria che sono andate al voto anticipato il 23 novembre del 2014 ma con Giunte divenute operative nel nuovo anno; b) quelle che si sono costi- tuite nel 2014, in seguito alle elezioni che si sono tenute fra la fine del 2013 e la prima parte dell’anno seguente (Abruzzo, Basilicata, Piemon- te); c) quelle che sono nate nel 2013, dopo le elezioni anticipate del 24- 25 febbraio (Lazio, Lombardia, Molise).

(12) I dati non conteggiano il Presidente della Regione che presiede la Giunta e possiede un seggio aggiuntivo in Consiglio. (13) Anagrafe degli amministratori locali e regionali del Dipartimento per gli affari interni e ter- ritoriali del Ministero dell’interno, http://amministratori.interno.it. NOTE E COMMENTI 467

Tabella 2 – Le nuove Giunte regionali: maggioranza politica ed assessori esterni Maggioranza Totale Assessori Assessori Regioni (RSO) politica assessori consiglieri esterni Giunte 2015 Calabria Centro-sinistra 7 - 7 Campania Centro-sinistra 8 - 8 Emilia-Romagna Centro-sinistra 10 2 8 Liguria Centro-destra 7 6 1 Marche Centro-sinistra 6 5 1 Puglia Centro-sinistra 10 8 2 Toscana Centro-sinistra 8 3 5 Umbria Centro-sinistra 5 3 2 Veneto Centro-destra 10 8 2 Totale 2015 71 35 36 Giunte 2014 Abruzzo Centro-sinistra 6 5 1 Basilicata Centro-sinistra 4 - 4 Piemonte Centro-sinistra 11 8 3 Totale 2014 21 13 8 Giunte 2013 Lazio Centro-sinistra 10 - 10 Lombardia Centro-destra 14 3 11 Molise Centro-sinistra 4 3 1 Totale 2013 28 6 22 Totale complessivo 120 54 66 Fonte: Elaborazione propria, dati del Ministero dell’interno

Come indicato dalle tabelle 2 e 3, nelle nuove Giunte oltre la metà de- gli assessori presenta una provenienza esterna al Consiglio (66 su 120). Si tratta di un dato complessivo, pari al 56%, che non segna discontinui- tà rispetto al passato, mostrandosi sostanzialmente costante dal 2005 ad oggi, dopo una prima fase di crescita successiva all’approvazione del- la riforma costituzionale14. Ciò potrebbe significare un consolidamen- to delle modalità di composizione delle Giunte regionali, un possibile equilibrio fra esigenze differenti: il bisogno di assicurare competenza

(14) Gli assessori esterni, che prima della riforma del 1999 non esistevano, nel 2000 costituiv- ano il 36% dei componenti delle Giunte regionali, mentre nel 2005 arrivano ad essere il 55% (cfr. tabella 3). 468 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

ed autonomia all’organo esecutivo e la necessità di rappresentare le for- ze politiche di maggioranza. Tuttavia, in tempi di spending review, da- ta anche la decurtazione operata al numero di componenti degli organi politici, appare legittimo attendersi una riduzione degli assessori esterni che, invece, non emerge, perlomeno non dal dato complessivo. Se pe- rò si analizzano i dati relativi alle singole Regioni, si colgono tendenze diverse, in taluni casi di significativa diminuzione.

Tabella 3 – Numero di assessori esterni ed incidenza percentuale sul totale dei componenti delle Giunte regionali nelle diverse legislature (2000-2015) Regioni (RSO) 2000 % 2005 % 2010 % 2013-15 % Abruzzo 2 20 5 50 2 20 1 17 Basilicata 1 17 2 33 3 30 4 100 Calabria 5 50 2 20 6 46 7 100 Campania 12 100 12 100 11 92 8 100 Emilia-Romagna 7 64 8 67 12 100 8 80 Lazio 2 17 6 43 13 87 10 100 Liguria 3 37 9 75 6 50 1 14 Lombardia 5 37 6 40 5 31 11 79 Marche 2 25 6 60 3 30 1 17 Molise 3 50 3 50 5 55 1 25 Piemonte 1 9 14 100 9 75 3 27 Puglia 0 0 6 43 7 50 2 20 Toscana 8 67 11 85 8 89 5 62 Umbria 3 37 0 0 2 29 2 40 Veneto 2 17 2 17 1 8 2 20 Totale 56 36% 92 55% 93 55% 66 56% Fonte: Elaborazione propria, dati del Ministero dell’interno

Rispetto alle Giunte precedenti, il calo maggiore nel ricorso ad assessori esterni si registra in Liguria, Molise, Piemonte e Toscana, mentre in altre Regioni si rilevano aumenti, anche consistenti, particolarmente in Basi- licata, Calabria e Lombardia (tab. 3). L’afferenza politica non sembra condizionare la scelta dei Presidenti di avvalersi o meno di assessori esterni, diversamente dal ciclo elettora- le precedente, quando si era evidenziata la maggiore preferenza del- NOTE E COMMENTI 469

le Giunte di centro-sinistra rispetto a quelle di centro-destra15. Tale ar- gomentazione perde pregnanza nel nuovo quadro politico regionale (tab. 2), dove troviamo Giunte di centro-sinistra con pochissimi asses- sori esterni, come in Piemonte e Molise, ma anche nelle Marche e in Puglia16, mentre fra le amministrazioni di centro-destra la Lombardia si distingue per una Giunta quasi interamente esterna, in netta discontinu- ità con il passato. Il caso lombardo risulta particolarmente interessante se confrontato con il Veneto, l’altra Regione di centro-destra guidata da un esponente della . Il Veneto, che riconferma al- la presidenza, ribadisce la preferenza per gli assessori consiglieri (sce- glie due esterni ma il limite massimo, fissato dalla legge regionale, è cinque) in linea con la Giunta precedente, mentre Roberto Maroni, alla guida della Lombardia, opera una scelta opposta, aprendo ad una Giun- ta largamente tecnica17. La variabile partitica non pare dunque spiega- re il diverso ricorso agli assessori esterni da parte dei Presidenti. D’altro canto le ultime elezioni regionali hanno segnato la fine del bipolarismo che aveva caratterizzato i cicli precedenti, sottolineando l’emergere di un terzo polo, costituito dal Movimento Cinque Stelle, che ha messo in crisi le tradizionali coalizioni di centro-destra e centro-sinistra18. Ciò si è posto all’origine di una crescente diversificazione delle dinamiche poli- tiche e dei sistemi partitici a livello regionale19, rendendo più difficile lo

(15) Cfr. B. Baldi, Nuove Giunte regionali e assessori esterni, in Il Mulino, 6, 2010, pp. 1045-1049. (16) In queste due Regioni (Marche e Puglia), come visto, la normativa ha fissato un limite mas- simo di assessori esterni, vincolando la scelta dei Presidenti. Va comunque osservato come nel- le Marche si scelga di restare al di sotto del limite (pari a tre). (17) I dati fotografano la situazione della nuova Giunta lombarda al momento del suo insedia- mento nel 2013. Oggi, in seguito ad alcuni rimpasti operati dal Presidente al fine di migliorare il rapporto con le forze politiche di maggioranza, gli assessori esterni sono scesi da 11 a 9, men- tre quelli di provenienza consiliare sono saliti da 3 a 5. (18) Per un’attenta ricostruzione ed approfondita analisi delle ultime elezioni regionali in que- sta prospettiva, cfr. S. Bolgherini, S. Grimaldi, La fine del bipolarismo regionale tra destruttura- zione e diversificazione, in S. Bolgherini, S. Grimaldi (a cura di), Tripolarismo e destrutturazio- ne. Le elezioni regionali del 2015, Misure/materiali di ricerca dell’Istituto cattaneo, n. 36, 2015, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, pp. 9-41.

(19) Sulla differenziazione dei sistemi politici regionali, cfr. G. Passarelli, F. Tronconi, I nuovi si- stemi partitici delle Regioni italiane, in S. Bolgherini, S. Grimaldi (a cura di), Tripolarismo e de- strutturazione. Le elezioni regionali del 2015, cit., pp. 55-76. 470 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

sviluppo di modelli comuni fra le Regioni, anche quando guidate dallo stesso schieramento politico. Una variabile capace di spiegare la diversa incidenza degli assessori esterni nelle nuove Giunte regionali risulta invece essere quella del voto anticipato, così come emerge dalla tabella 4. Le Regioni che so- no andate al voto anticipato hanno prodotto Giunte molto meno “po- litiche” e più “tecniche” rispetto a quelle che hanno votato alla sca- denza naturale della legislatura. In particolare, le loro Giunte presen- tano, mediamente, il doppio di assessori esterni: il 73% contro il 37%. Si tratta di un dato molto interessante, sebbene non del tutto sorpren- dente. Come già osservato, la fine anticipata della legislatura è spesso derivata da scandali che hanno profondamente delegittimato la classe politica regionale. Comprensibilmente, nella formazione delle nuove Giunte si è cercato di esprimere il maggiore rinnovamento possibi- le, al fine di superare la “crisi della politica” e recuperare credibilità agli occhi dei cittadini. La nomina di assessori esterni consente di an- dare in questa direzione, in quanto privilegia la scelta tecnica pren- dendo distanza dalla “politica” nelle sue forme più tradizionali, parti- colarmente dai partiti. Si vedano in questa prospettiva i casi di Cala- bria, Lazio ed Emilia-Romagna, per non parlare della Basilicata dove, analogamente alla Lombardia, la nomina di una Giunta interamente esterna non ha precedenti nella storia della Regione (tabb. 2 e 3). Il Piemonte ed il Molise rappresentano delle eccezioni, avendo forma- to Giunte composte prevalentemente da assessori consiglieri nono- stante il voto anticipato. Ciò può trovare spiegazione nel fatto che in questi casi, come già sottolineato, lo scioglimento del Consiglio è sta- to conseguenza non tanto di scandali riguardanti l’élite politica regio- nale, ma di una decisione della magistratura che ha annullato le pre- cedenti elezioni per irregolarità formali; minore pare dunque essere stato il bisogno di allontanarsi dalla politica tradizionale nella com- posizione della nuova Giunta. NOTE E COMMENTI 471

Tabella 4 – Le nuove Giunte regionali: confronto fra voto anticipato e voto re- golare Totale Assessori Regioni (Rso) % assessori esterni Giunte successive al voto anticipato Basilicata 4 4 100 Calabria 7 7 100 Emilia-Romagna 10 8 80 Piemonte 11 3 27 Lazio 10 10 100 Lombardia 14 11 79 Molise 4 1 25 Totale 60 44 73 Giunte successive al voto regolare Abruzzo 6 1 17 Campania 8 8 100 Liguria 7 1 14 Marche 6 1 17 Puglia 10 2 20 Toscana 8 5 62 Umbria 5 2 40 Veneto 10 2 20 Totale 60 22 37 Fonte: Elaborazione propria

Per quanto riguarda le Regioni che sono andate al voto regolare (tab. 4), i dati mostrano una considerevole riduzione nel ricorso agli asses- sori esterni rispetto al passato (tab. 3), soprattutto in Liguria, nelle Mar- che e in Puglia. Le eccezioni sono rappresentate dalla Campania e dal- la Toscana che confermano, sebbene in forma ridimensionata nel caso toscano, la prassi consolidata di dotarsi di Giunte composte prevalente- mente, se non esclusivamente, da assessori esterni, al fine di assicura- re la massima separatezza dell’organo esecutivo rispetto al Consiglio20. Mentre la Campania conferma pienamente, la Toscana comunque ridu- ce il ricorso ad assessori esterni del 25%. Complessivamente i dati sembrano dunque avallare l’ipotesi seguente:

(20) Tale volontà è deducibile per la Toscana anche dalla già citata legge regionale che preve- de l’incompatibilità fra la carica di assessore e quella di consigliere. Cfr. nota 3. 472 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

a prescindere dalla maggioranza politica che ha vinto le elezioni, le Re- gioni che sono andate al voto regolare e/o che non sono state travolte da scandali politici hanno recepito la logica di spending review nomi- nando meno assessori esterni rispetto al passato (con la sola eccezione della Campania); diversamente, quelle che sono andate al voto anticipa- to, soprattutto se colpite da gravi scandali riguardanti la propria classe politica, hanno ritenuto più importante la via del rinnovamento e della presa di distanza dalla politica tradizionale attraverso un più ampio ri- corso ad assessori esterni.

4. Il potere decisionale dei Presidenti La scelta fra assessori consiglieri ed assessori esterni impatta non solo sui “costi della politica”, ma anche sul potere decisionale dei Presidenti all’in- terno delle Giunte. Fermo restando il primato istituzionale che deriva dalla già ricordata forma di governo “neoparlamentare”, introdotta con la rifor- ma costituzionale del 1999, il “peso” decisionale del vertice esecutivo varia significativamente a seconda di come si combinano due dimensioni relati- ve al rapporto fra il Presidente e gli assessori: a) il grado di accentramen- to delle deleghe, che possono essere conferite agli assessori oppure trat- tenute dal Presidente; b) la natura “politica” oppure “tecnica” della Giun- ta, ovvero la prevalenza di assessori scelti all’interno del Consiglio o, al contrario, esterni. Tanto più il Presidente trattiene deleghe, tanto maggio- re è il suo potere decisionale all’interno della Giunta; tanto più tecnica è la Giunta, tanto minori sono le influenze consiliari e tanto più gli assesso- ri risulteranno fiduciari del Presidente, rafforzandone il peso decisionale. Volendo operazionalizzare queste variabili, al fine di giungere ad uno schema interpretativo delle nuove Giunte regionali, è possibile proce- dere nel modo seguente. Si considera “tecnica” la Giunta che presenta assessori esterni per oltre il 50% dei suoi componenti, mentre “politica” nel caso opposto. Per quanto concerne le deleghe, l’attenzione viene posta su quelle trattenute dal Presidente e al riguardo, pur nella gran- de variabilità fra le Regioni, si possono individuare tre gruppi: 1) dele- ghe minime, ovvero quelle istituzionali, connesse alle funzioni di dire- zione e rappresentanza del Presidente; 2) almeno un settore importante di policy generalmente conferito agli assessori (es. sanità oppure bilan- cio) viene trattenuto fra le competenze del Presidente oltre alle deleghe NOTE E COMMENTI 473

minime; 3) più settori di policy vengono ricondotti sotto la responsabi- lità diretta del Presidente (es. sanità, bilancio e agricoltura), sempre in aggiunta alle deleghe minime. Incrociando le variabili si individua una tipologia con sei assetti deci- sionali (tab. 5) che colgono gradi diversi di protagonismo del Presiden- te all’interno delle Giunte regionali. Il Presidente definito primus inter pares ricorda l’assetto precedente al- la riforma21, laddove il suo potere decisionale risulta essere prevalen- temente quello di coordinamento ed indirizzo della Giunta, nonché di rappresentanza politica della Regione. Tutti i più rilevanti settori di in- tervento regionale vengono delegati ad assessori politici, di provenien- za consiliare, con piena sovrapposizione fra la Giunta ed il Consiglio. Riconducibili a questo tipo sono i casi di Veneto e Piemonte, dove i Pre- sidenti, rispettivamente Luca Zaia e Sergio Chiamparino, hanno scelto Giunte politiche e trattenuto solo le deleghe minime, riguardanti: rap- porti istituzionali ed internazionali, comunicazione, grandi eventi, coor- dinamento e controllo.

Tabella 5 – Il potere decisionale dei Presidenti nelle Giunte regionali (Rso) deleghe trattenute Giunta politica Giunta tecnica Presidente primus inter pares Presidente innovatore deleghe minime Veneto, Piemonte Emilia-Romagna, Lombardia Presidente competitore + un settore importante di Presidente accountable Abruzzo, Puglia, Liguria, intervento pubblico Toscana, Lazio, Basilicata Umbria + altri settori importanti di Presidente accentratore Presidente primus et solus intervento pubblico Marche, Molise Calabria, Campania

Fonte: Elaborazione propria22

Quando le deleghe trattenute dal Presidente sono quelle minime ma si sceglie una Giunta prevalentemente tecnica, come nel caso di Stefano

(21) Restano ovviamente le differenze istituzionali già ricordate: l’elezione diretta ed il potere di nomina/revoca degli assessori. (22) L’attribuzione delle nuove Giunte alle caselle della tipologia è operata solo sulla base del- le due variabili selezionate. Nell’economia di questo articolo non si tiene quindi in considerazi- one la capacità di leadership politica che può influenzare il potere decisionale dei Presidenti all’interno della Giunta regionale. 474 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Bonaccini in Emilia-Romagna e di Roberto Maroni in Lombardia, il Pre- sidente rafforza il proprio ruolo di direzione politica in assenza di vin- coli o sovrapposizioni consiliari, aprendosi all’innovazione che gli as- sessori esterni, scelti sulla base della competenza tecnica, possono ap- portare all’operare della Giunta, in tutti i principali settori di interven- to pubblico. Per tali ragioni, il Presidente si qualifica come innovatore. Competitore viene invece definito il Presidente che, in presenza di Giun- te politiche, risponde all’elettorato non solo della direzione complessiva dell’organo esecutivo ma anche di uno dei settori di policy più impor- tanti della Regione, sottraendolo alle influenze consiliari e creando una sorta di competizione con gli assessori, a loro volta titolari di un man- dato elettivo. È il caso di in Liguria e di Catiuscia Marini in Umbria, che hanno trattenuto le deleghe al Bilancio e Patrimonio; ma pure di in Puglia e di Luciano D’Alfonso in Abruzzo, che guidano la Sanità regionale. Se tali deleghe si accompagnano ad una Giunta prevalentemente tecni- ca, il Presidente accresce il proprio peso decisionale, divenendo mag- giormente accountable nei confronti dell’elettorato, in assenza di com- petizione con gli assessori, che sono privi di mandato elettivo. Il Pre- sidente “mette la propria faccia” non solo nella direzione politica della Giunta e nella scelta tecnica degli assessori, ma anche nella gestione in prima persona di un settore rilevante per il governo della Regione. Ri- entrano qui i casi di Enrico Rossi in Toscana (delega alle Politiche per il lavoro), Marcello Pittella in Basilicata (delega al Bilancio) e Nicola Zin- garetti in Lazio (delega alla Sanità)23. Diversamente, viene definitoaccentratore il Presidente che trattiene le de- leghe relative a più settori di intervento pubblico, andando ampiamen- te oltre le competenze minime, in presenza di assessori prevalentemen- te consiglieri, assicurandosi così la responsabilità diretta di politiche chiave dell’amministrazione regionale, allontanandole da ingerenze consiliari. È il caso di Luca Ceriscioli nelle Marche, che oltre alla Sanità trattiene le dele- ghe al Welfare, ma pure di Paolo Di Laura Frattura in Molise, che alla Sani- tà aggiunge le deleghe al Bilancio, alla Cultura e alle Politiche energetiche

(23) Da segnalare che in questo caso è stata una scelta quasi obbligata dal commissariamento della sanità regionale accompagnato dalla nomina ministeriale di a commissario. NOTE E COMMENTI 475

Infine, se la concentrazione di deleghe in capo al Presidente si coniuga con una Giunta composta prevalentemente da assessori esterni, il primato del vertice esecutivo nei processi decisionali della Giunta raggiunge il suo apice, avvicinandosi a forme di puro presidenzialismo, che possono esse- re colte dalla definizione di primus et solus. Si vedano i casi di in Campania, che oltre alla Sanità, trattiene le deleghe per Agricol- tura, Ambiente e Trasporti, e quello di Mario Oliviero in Calabria, che alla Sanità aggiunge deleghe importanti quali Infrastrutture, Cultura, Turismo e Agricoltura, a fronte di Giunte che risultano essere interamente tecniche. Nel quadro complessivo delle nuove Giunte regionali (Rso), la tipologia consente allora di cogliere un significativo rafforzamento del ruolo de- cisionale dei Presidenti. Il modello primus inter pares, quello più tradi- zionale e vicino all’assetto pre-riforma, è presente solo in 2 Regioni su 15 (il 13%). Diversamente, in 11 casi su 15 (pari al 73%) i Presidenti as- sumono la guida e diretta responsabilità di rilevanti settori di interven- to pubblico, solitamente delegati agli assessori. In particolare, 7 Presi- denti su 15 (quasi il 50%) guidano la Sanità regionale, il settore di po- licy più importante, in termini di spesa ma anche di visibilità politica, fra le competenze delle Regioni. In taluni casi si è trattato di una scelta obbligata dal commissariamento della gestione sanitaria (es. Nicola Zin- garetti in Lazio), ma in altri è stata una libera scelta, per quanto presu- mibilmente orientata a rispondere, in prima persona, dei tanti problemi che caratterizzano la gestione del servizio sanitario a livello regionale. Tuttavia non solo la Sanità si trova fra le competenze “pesanti” dei Pre- sidenti: anche Bilancio e Patrimonio, Agricoltura, Welfare, Politiche del lavoro, Infrastrutture, Ambiente, Cultura. Il 27% dei Presidenti (4 su 15) trattiene deleghe relative a più settori chiave dell’amministrazione regio- nale. Sebbene tale concentrazione di deleghe possa essere giustificata in termini di riduzione del numero di assessori (tab. 1), resta il fatto che ciò ha portato ad un notevole rafforzamento del potere decisionale dei Presidenti, lasciando prefigurare una sorta di nuovo “presidenzialismo” regionale, specialmente laddove prevale il ricorso ad assessori esterni.

5. Conclusioni L’ultima tornata elettorale ha visto le Rso presentarsi al voto in condizioni diverse: per quasi la metà si è trattato di un voto anticipato, con elezioni 476 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

che si sono tenute nel biennio 2013-2014, mentre per l’altra parte di un voto giunto alla scadenza naturale della legislatura24. Le modalità di com- posizione delle Giunte regionali, con particolare riferimento al ricorso o meno ad assessori esterni, sono risultate differenti a seconda del tipo di voto. Le Regioni che sono andate al voto regolare hanno mostrato una minore propensione, anche in relazione alle legislature passate, alla no- mina di assessori esterni. In tali casi è possibile trovare traccia delle pres- sioni esercitate dall’imperativo di spending review che, per alcune Regio- ni, si è tradotto nella fissazione, con legge propria, di un tetto massimo di assessori scelti al di fuori del Consiglio. Le Regioni che sono andate al voto anticipato, invece, sono ricorse maggiormente ad assessori ester- ni, talvolta con cesure nette rispetto alle prassi del passato, allo scopo di prendere distanza dalla politica tradizionale, particolarmente dai partiti, in risposta agli scandali che hanno portato allo scioglimento delle loro assemblee legislative. Al di là delle motivazioni, si tratta di una scelta in contrasto con la volontà di contenere i “costi della politica” che ha porta- to quelle stesse Regioni, in linea con le altre Rso, a tagliare il numero di componenti dei propri organi politici. In una logica di spending review, resta da comprendere quanto il risparmio finanziario assicurato da tali ta- gli non sia compromesso dalla maggiore spesa per gli assessori esterni. Il ricorso ad assessori esterni impatta non solo sui “costi della politica” ma anche sul potere del Presidente all’interno della Giunta. Una Giunta tecnica rafforza l’autonomia ed il peso decisionale del vertice esecuti- vo. Tuttavia, tale peso dipende anche dalla scelta discrezionale del Pre- sidente relativa a quali deleghe trattenere fra le proprie competenze. A tale riguardo, le nuove Giunte presentano una maggiore concentrazio- ne di deleghe in capo ai Presidenti rispetto al passato. Quasi la metà dei cosiddetti “governatori” guida in prima persona la Sanità regionale, ma frequenti sono anche le deleghe relative ad altri settori importanti del governo della Regione. In tali casi, specie quando associati alla nomina di Giunte largamente, se non interamente, tecniche, il primato decisio- nale dei Presidenti risulta innegabile, spostando la forma di governo re- gionale verso un modello più compiutamente presidenziale.

(24) Nel 2015, con l’eccezione dell’Abruzzo, dove la fine regolare della legislatura si è avu- ta nel 2014. OSSERVATORIO REGIONALE 477

Fusioni di Comuni in Emilia-Romagna: stima dei vantaggi sulla base dell’analisi dei dati dei bilanci consuntivi e del censimento del personale del 2013 Stefano Ramazza

Sommario: 1. Introduzione – 2. Comparazione di indici economici dei bilanci consuntivi di Comuni per fasce demografiche – 2.1. Le fasce demografiche di riferimento dei Comuni – 2.2. Risultati delle analisi dei dati economici – 3. Analisi dei numeri del personale dipendente e del costo totale del personale dei Comuni – 3.1. I contesti nazionale e regionale emiliano-romagnolo – 3.2. Il personale dipendente dei Comuni suddivisi per fasce demografiche – 3.3. Personale per mille abitanti nelle fasce demografiche dei Comuni – 3.4. Spese di personale pro capite per fasce demografiche dei Comuni – 3.5. Spese di personale su spesa corrente totale per fasce demografiche dei Comuni – 4. Conclusioni

1. Introduzione In Emilia-Romagna sono in costante aumento il dibattito pubblico e il nu- mero degli amministratori comunali interessati alla fusione di Comuni. Dal gennaio 2014 i Comuni emiliano-romagnoli sono calati da 348 a 337 con l’istituzione di 5 nuovi Comuni nati dalla fusione di complessivi 16 Comuni. Sono in corso iter legislativi per l’istituzione di altri 3 Comuni che coinvolgono complessivamente 6 Comuni1. Le motivazioni che vengono presentate per sostenere le proposte di fu- sioni sono di varia natura (istituzionale, economica, organizzativa, so-

(1) I Comuni nati da fusione il 1° gennaio 2014 e i relativi Comuni soppressi sono: Valsamog- gia (BO) – Bazzano, Crespellano, Casello di Serravalle, Monteveglio, Savigno; Fiscaglia (FE) – Massa Fiscaglia, Migliaro e Migliarino; Sissa Trecasali (PR) – Sissa e Trecasali; Poggio Torriana (RN) – Poggio Berni e Torriana. Al 1° gennaio 2016 verrà istituito il Comune di Ventasso (RE) – Busana, Collagna, Ligonchio e Ramiseto. L’11 ottobre 2015 si sono tenuti 3 referendum consultivi per la fusione dei Comuni di: Grana- glione e Porretta Terme (BO); Polesine Parmense e Zibello (PR); Montescudo e Monte Colom- bo (RN). In tutti i 3 referendum ha vinto il sì alla fusione. 478 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

ciale, ecc.) e non emerge, da una lettura attenta della rassegna stampa sull’argomento, la predominanza di una sola di queste sulle altre. Una questione sempre presente è la dimensione più adeguata, per abi- tanti e territorio, del nuovo Comune che può nascere da fusione. La so- glia minima di abitanti dei nuovi Comuni può essere individuata come un indicatore utile per i processi di fusione. Pur nella consapevolezza della necessità di un approccio olistico alla fu- sione di Comuni, presentiamo qui un parziale contributo al dibattito sul- la soglia demografica utile per i nuovi Comuni, che si basa sull’analisi dei dati economici e del personale dipendente dei Comuni emiliano-ro- magnoli raggruppati per fasce demografiche. Le basi dati utilizzate sono quelle dei certificati di bilanci consuntivi 2013 e del censimento del per- sonale 2013, disponibili nel sito sia del Ministero dell’interno sia della Re- gione Emilia-Romagna, con l’obiettivo di individuare le fasce demografi- che di Comuni che hanno prodotto le migliori performance. L’analisi parte da un raffronto tra la situazione nazionale per fasce demogra- fiche dei Comuni sulle stesse banche sopra indicate, presentata nel febbra- io 2015 dal Ministero dell’interno nel documento “Fusioni: quali vantaggi”2, e la situazione dell’Emilia-Romagna. Con i dati dei Comuni della Regione si stima un risparmio teorico per voci di bilancio se tutti Comuni delle fasce demografiche più ridotte si fondessero in Comuni rientranti nelle fasce de- mografiche superiori a 7.500-10.000 e 10.000-12.500 abitanti. Si procede poi all’analisi dei numeri del personale dipendente e del co- sto totale del personale dei Comuni sulla base di indicatori validi per il confronto tra Comuni (spesa pro capite, unità di personale per mille abitanti, spesa di personale su totale spesa corrente).

2. Comparazione di indici economici dei bilanci consuntivi di Co- muni per fasce demografiche

2.1. Le fasce demografiche di riferimento dei Comuni A seguito della presentazione avvenuta il 26 febbraio 2015 a Roma da parte del Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e ter-

(2) La presentazione del documento “Fusioni: quali vantaggi?” è avvenuta il 26 febbraio 2015 a Roma da parte del Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Dire- zione centrale della finanza locale. OSSERVATORIO REGIONALE 479

ritoriali, Direzione centrale della finanza locale, si è proceduto a realiz- zare un raffronto tra la situazione nazionale e la situazione della Regio- ne Emilia-Romagna. Al fine di una possibile comparazione con i dati nazionali sono stati elaborati i dati presenti nella banca dati della Regione Emilia-Romagna relativi ai Comuni per gli abitanti presenti all’1/1/2013 e i certificati dei conti consuntivi dei bilanci 2013.

Dati nazionali Ministero dell’interno Dati Regione Emilia-Romagna Fascia Abitanti N. enti * Fascia Abitanti N. enti * 1 0-499 771 1 0-499 4 2 500-999 966 2 500-999 17 3 1.000-1.999 1.426 3 1.000-1.999 31 4 2.000-2.999 896 4 2.000-2.999 38 5 3.000-4.999 1.034 5 3.000-4.999 65 6 5.000-9.999 1.070 6 5.000-9.999 89 7 10.000-19.999 624 7 10.000-19.999 67 8 20.000-59.999 353 8 20.000-59.999 22 9 60.000-99.999 51 9 60.000-99.999 3 10 100.000-249.999 33 10 100.000-249.999 8 11 250.000-499.999 6 11 250.000-499.999 1 12 500.000 e oltre 6 12 500.000 e oltre 0 TOTALE 7.236 TOTALE 345 * su un totale di 8.093 enti e una popola- * su un totale di 348 enti e una popolazio- zione di 59.413.697 ne di 4.471.104

Le differenze tra il numero degli enti utilizzati nell’analisi e il numero degli enti effettivi dipende dalla mancanza in banca dati delle certifica- zioni consuntive di bilancio 2013 per alcuni enti.

L’incidenza percentuale dei piccoli Comuni sotto i 10.000 abitanti in Emilia-Romagna e in Italia è riportata nelle seguenti tabelle:

N. Comuni N. Comuni N. totale Anno 2013 sotto i 10.000 sotto i 5.000 Abitanti Comuni abitanti abitanti Emilia-Romagna 4,30% 3,90% 3,00% 7,50% Italia 100,00% 100,00% 100,00% 100,00% 480 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

N. Comuni tra i N. Comuni sotto i N. Comuni sotto i 5.000 e 10.000 Anno 2013 5.000 abitanti sul 10.000 abitanti sul abitanti sul totale totale Comuni totale Comuni Comuni Emilia-Romagna 44,90% 25,80% 70,70% Italia 70,40% 14,80% 85,20%

Si è proceduto alla comparazione tra il livello nazionale e regionale per le 12 fasce demografiche analizzate dal Ministero e corrispondenti alle fasce demografiche delT uel. Per il solo livello regionale sono state for- mate 21 fasce demografiche per meglio analizzare le differenze tra es- se. Tali fasce sono uguali a quelle del Ministero fino ai 3.000 abitanti (fascia 4), poi sono state infittite come indicato nella tabella che segue.

Fascia Abitanti N. enti * 1 0-499 4 2 500-999 17 3 1.000-1.999 31 4 2.000-2.999 38 5 3.000-3.999 36 6 4.000-4.999 29 7 5.000-5.999 21 8 6.000-7.499 36 9 7.500-9.999 32 10 10.000-12.499 30 11 12.500-14.999 15 12 15.000-17.499 15 13 17.500-19.999 7 14 20.000-24.999 6 15 25.000-29.999 7 16 30.000-34.999 4 17 35.000-59.999 5 18 60.000-99.999 3 19 100.000-149.999 4 20 150.000-249.999 4 21 250.000-499.999 1 TOTALE 345 * su un totale di 348 enti e una popolazio- ne di 4.471.104 abitanti OSSERVATORIO REGIONALE 481

Per il 2013 i dati economici dei certificati consuntivi dei bilanci dei Co- muni interessati dal terremoto del maggio 2012 registrano alcune par- ticolarità dovute alle azioni messe in atto per affrontare la difficile si- tuazione della ricostruzione e dell’assistenza alle famiglie. Tali partico- larità riguardano 19 Comuni del cratere con maggiori danni3, ricompre- si nei 59 Comuni individuati dall’art. 1 del decreto-legge del 6 giugno 2012, n. 744.

Nelle analisi per le 21 fasce demografiche dei Comuni, considerate per la Regione Emilia-Romagna, si è perciò proceduto a creare delle medie per fasce che restituissero un dato al netto della particolare si- tuazione del post-terremoto riscontrabile nei Comuni del cratere. Ta- li medie sono state create utilizzando il valore della deviazione stan- dard5 che ha permesso di rendere i dati medi epurati dalle situazioni particolari di alcuni Comuni, in genere più alti rispetto alla serie del- la fascia demografica.

2.2. Risultati delle analisi dei dati economici Le analisi dei dati economici dei bilanci dei Comuni della Regione Emi- lia-Romagna confermano le tendenze registrate a livello nazionale per i risparmi teorici in voci di spese, nell’aggregazione dei piccoli Comuni. In particolare le fasce demografiche che realizzano tali risparmi sono quelle dei 7.500-10.000 abitanti e 10.000-12.500 abitanti. Nella scala regionale emiliano-romagnola la quantificazione dei rispar- mi è inferiore rispetto alla scala nazionale ma comunque significativa. Ciò è dovuto anche al fatto che in Emilia-Romagna l’incidenza dei pic-

(3) Nella Provincia di Modena nei Comuni di Cavezzo, Concordia sulla Secchia, Mirandola, No- vi di Modena, Finale Emilia, San Felice sul Panaro, Medolla, Camposanto, San Prospero, San Possidonio, nel ferrarerse a Sant’Agostino, Mirabello, Bondeno, Cento, Poggio Renatico e Viga- rano Mainarda, nel bolognese a Crevalcore e Pieve di Cento e nel reggiano a Reggiolo. (4) Convertito in legge con modificazioni nella legge 7 agosto 2012, n. 134: 15 Comuni nel reg- giano, 19 nel modenese, 16 nel bolognese, 8 nel ferrarese e 1 nel piacentino. (5) La deviazione standard, o scarto quadratico medio, è un indice di dispersione statistico, e cioè una stima della variabilità di un dato numero di dati interno ad un indice di posizione, quale le media aritmetica. Si tratta di uno dei modi per rappresentare la dispersione dei dati in- torno al valore stesso. 482 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

coli Comuni sul totale è inferiore che in Italia. I Comuni sotto i 5.000 abitanti sono il 44,9% in Regione e il 70,4% in Italia, mentre quelli to- tali sotto i 10.000 abitanti sono il 70,7% in Regione e l’85,2% in Italia. Per il totale delle spese al netto di personale e rimborso prestiti, risul- ta una minore spesa pro capite del 15,17% in Emilia-Romagna rispetto al dato nazionale.

ITALIA EMILIA-ROMAGNA Totale spese Totale spese al netto al netto spese DIFFERENZA spese di DIFFERENZA di personale ER/ITALIA personale ER/ITALIA Fascia abitanti e rimborso di EURO e rimborso EURO prestiti PRO CAPITE di prestiti PRO CAPITE EURO in % EURO PRO CAPITE PRO CAPITE 1 0-499 2.751 1.015 -1736 -63,10%

2 500-999 1.726 1.279 -447 -25,90%

3 1.000-1.999 1.241 1.028 -213 -17,16%

4 2.000-2.999 1.014 857 -157 -15,48%

5 3.000-4.999 894 886 -8 -0,89%

6 5.000-9.999 817 821 4 0,49%

7 10.000-19.999 797 855 58 7,28%

8 20.000-59.999 826 903 77 9,32%

9 60.000-99.999 1.254 857 -397 -31,66%

10 100.000-249.999 1.092 910 -182 -16,67%

11 250.000-499.999 1.395 993 -402 -28,82%

12 500.000 e oltre 1.661 0

TOTALE 1.048 889 -159 -15,17%

L’andamento dei valori regionali di tali spese è simile a quello naziona- le, ma con minori picchi agli estremi delle fasce demografiche, ed evi- denzia il valore minimo pro capite per la fascia 6 (5.000-9.999 abitante) per 821 euro pro capite. OSSERVATORIO REGIONALE 483

Totale generale delle spese al netto spese di personale e rimborso prestiti

Comuni Emilia Romagna - Anno 2013 Valore medio pro capite in euro

1400 1.279

1200 1.015 1.028 993 1000 886 903 910 857 821 855 857 800

600

400

200

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 0 1 1 1 9 9 9 9 9 99 99 99 99 -49 -9 9 9 9 0 0 -199 -299 -499 -999 0 0 0 0 -19 -59 -99 9999 9999 50 0 0 0 0 4 9 00 00 00 -2 -4 10 20 30 50 0 0 0 10 20 60 000 000 0 0 fasce demografiche 10 25

Anche i valori percentuali e pro capite delle spese correnti, di personale e correnti al netto del personale dei Comuni emiliano-romagnoli sono di poco al di sotto dei valori nazionali presentati dal Ministero dell’in- terno nel suo report. Il valore minimo pro capite per le spese correnti al netto del personale si registra per la fascia 6 (5.000-9.999 abitanti) e rialzi dei valori verso le fasce agli estremi. Il risparmio teorico in Regione, calcolato con la stessa metodologia del livello nazionale, dovuto all’aggregazione dei 155 Co- muni attualmente al di sotto dei 5.000 abitanti nella fascia demografica tra i 5.000 e i 10.000 abitanti, sarebbe del 10,54% per le spese correnti al netto del personale e del 19,13% per il totale delle spese al netto del personale e del rimborso prestiti. Un’analisi più di dettaglio sui Comuni della Regione Emilia-Romagna è stata fatta su altre tre voci di spesa, già rilevate anche nel report del Mi- nistero nella tabella B, e cioè: totale spese correnti, spese di personale e spese correnti al netto di spese di personale. 484 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Fasce demografiche Comuni Emilia Romagna

Spese correnti al netto spese personale Anno 2013 Valori in euro pro capite

1200

978 1000 822 798 800 729 739 719 691 667 659 684 680 622 618 621 633 619 636 602 581 610 584 600

400

200

0 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 -49 -9 4 9 4 9 9 9 9 9 9 0 0 -199 -299 -399 -499 -599 -749 -999 999 999 999 0 0 0 0 0 0 0 -12 -14 -17 -19 -24 -29 -34 -59 -99 4 4 9 50 0 0 0 0 0 0 0 -1 -2 -4 00 00 00 00 00 00 00 00 00 10 20 30 40 50 60 75 0 5 0 5 0 0 0 0 0 000 000 000 10 12 15 17 20 25 30 35 60 0 0 0 10 15 25

Da questa analisi emerge che il risparmio teorico, dovuto all’aggrega- zione dei 212 Comuni al di sotto dei 7.500 abitanti nella fascia demogra- fica tra i 7.500 e i 10.000 abitanti, sarebbe del 4,62% per il totale spese correnti, del 25,74% per le spese di personale e dell’1,02% delle spese correnti al netto del personale. Se si passa all’aggregazione dei 244 Comuni al di sotto dei 10.000 abi- tanti nella fascia demografica tra i 10.000 e i 12.500 abitanti, il rispar- mio teorico sarebbe del 13,79% per il totale spese correnti, del 16,48% per le spese di personale e del 12,64% delle spese correnti al netto del personale. La tendenza certa al risparmio nelle voci di spesa di bilan- cio nelle fusione dei piccoli Comuni è ulteriormente confermata anche per fasce demografiche di Comuni compresi tra i 10.000 e i 12.500 abi- tanti con risparmi teorici pro capite per ogni voce rispettivamente di eu- ro 119, 33 e 84. Per quanto riguarda le entrate, sono stati analizzati i valori delle entra- te tributarie del 2013 dei Comuni della Regione Emilia-Romagna per le 12 fasce demografiche utilizzate dal Ministero. Come per il dato na- OSSERVATORIO REGIONALE 485

zionale, un minore gettito delle entrate tributarie in conseguenza dei minori valori medi registrati per i Comuni della fascia demografica se- sta, stimato nel 16,58% e in meno 104 euro pro capite, porta vantaggi per la collettività in termini di minore pressione fiscale o, in alternati- va, qualora si scegliesse di mantenere la stessa pressione fiscale, le di- sponibilità di maggiori risorse da destinare all’incremento della quali- tà dei servizi offerti. Sono stati inoltre elaborati i dati degli 11 indicatori di bilancio consun- tivo dei Comuni6, per avere l’andamento negli anni dal 2009 al 2013. Dalle serie storiche dal 2009 al 2013 di tutti gli 11 indicatori si eviden- zia che le fasce demografiche con grande maggioranza, sia negli anni sia negli indicatori, di migliore performance sono quelle 7.500-10.000 e 10.000-12.500 abitanti rispetto ai Comuni nelle fasce demografiche di minori dimensioni.

Esempio di grafico per anno 2013 e per 2 indicatori:

Medie indicatori di Bilancio per classi demografiche

Comuni Emilia Romagna Anno 2013 63 6

1800 . 1 42 6

1600 40 9 . . 1 1 1400 Entrate 12 0 10 5 . 08 9

. correnti pro 07 6 . 05 0 . 1 1 . 1 00 6

1200 00 3 1 00 0 . . 1 . capite 1 1 1 98 9 93 9 90 8 90 7 89 5 1000 89 2 87 0 84 7 e

pi t 800

c a Spese

r o correnti pro

p 600 capite

eu r o 400

200

0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 00 5 0 5 0 5 0 0 0 0 0 00 0 -1 0 000 90-5 0 0-250 0-500 0-750 8 0 0 0 0-100 370 50 0 00-12 00-15 00-17 00-20 00-22 00-25 00-30 00-35 00-50 00-95 > 10 25 50 0 5 0 5 0 5 0 0 0 0 00-15 75 0 000-1 10 12 15 17 20 22 25 30 35 50 0 95 15

(6) Fonte: http://finanze.regione.emilia-romagna.it/finanza-del-territorio. 486 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Anche per quanto riguarda la serie storica delle spese di personale e delle funzioni generali di amministrazione di gestione e di controllo, viene confermata, nella grande maggioranza dei 5 anni presi in esa- me, la minore spesa pro capite per i Comuni nelle fasce demografiche 7.500-10.000 e 10.000-12.500 abitanti rispetto ai Comuni nelle fasce de- mografiche di minori dimensioni.

3. Analisi dei numeri del personale dipendente e del costo totale del personale dei Comuni

3.1. I contesti nazionale e regionale emiliano-romagnolo La recente deliberazione della Corte dei conti, Sezione Autonomie lo- cali, n. 16 del 30 aprile 2015 («La spesa per il personale degli Enti ter- ritoriali. Analisi della consistenza numerica e funzionale del personale e della relativa spesa di Regioni, Province e Comuni nel triennio 2011- 2013»), assume come termine di paragone il dato di consistenza del nu- mero di personale dipendente da ogni ente rapportato alla popolazio- ne residente dello stesso ente. Semplificando la definizione si può assu- mere come valore di riferimento e confronto fra i Comuni il dato di di- pendente per mille abitanti. Tale dato è strettamente correlato se non anche sovrapponibile al dato della spesa complessiva per il personale in ogni Comune. Il dato medio nazionale per i Comuni di n. dipendenti/1.000 abitanti è di 6,27 per le Regioni a statuto ordinario, e quello della Regione Emilia-Ro- magna è di 6,62, contro il valore medio di 6,19 delle 5 Regioni del Centro- Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria ed Emilia-Romagna). Il valore medio regionale è di poco superiore sia a quello nazionale, sia a quello del Centro-Nord. La stessa Corte dei Conti ribadisce che «... le politiche di progressivo contenimento della spesa di personale si sono ispirate ai seguenti am- biti prioritari di intervento: a) razionalizzazione e snellimento delle pro- cedure burocratico-amministrative; b) contenimento delle dinamiche di crescita della spesa per contrattazione integrativa; c) riduzione dell’inci- denza percentuale delle spese di personale sulle spese correnti, anche attraverso la parziale reintegrazione del personale cessato dal servizio e il contenimento del lavoro flessibile [...] permane l’indirizzo volto al OSSERVATORIO REGIONALE 487

ridimensionamento dell’incidenza percentuale delle spese di persona- le sulle spese correnti. Tale indirizzo trova riscontro nella disciplina del turn over introdotta dall’art. 3, comma 5-quater, del citato d.l. 90/2014, che è consentito in misura piena dall’anno 2015 soltanto in favore de- gli enti la cui incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente sia pari o inferiore al 25%». Assumiamo perciò anche il dato relativo al rapporto tra spesa di per- sonale e spesa corrente totale come dato di riferimento e confronto fra i Comuni, per il quale il valore di 25% è preso come soglia al di sopra della quale non si riconosce una positiva performance del Comune. Solo nel 2013 la maggior parte dei Comuni emiliano-romagnoli ha avu- to un rapporto tra spesa di personale e spesa corrente totale al di sotto del 25%. Dal 2009 al 2012 invece tale rapporto era stato quasi totalmen- te al di sopra del 25% per i Comuni emiliano-romagnoli. Anche il dato della spesa di personale pro capite per abitante dei Co- muni è utile per una comparazione fra i Comuni. I valori riscontrati per il 2013 per i Comuni emiliano-romagnoli vanno da un massimo di 425 euro pro capite di media nei Comuni della fascia 90-500 abitanti, ad un minimo di 175 euro pro capite di media nei Comuni della fascia 7.500- 10.000 abitanti. Una variazione di valore di circa il 150% tra il minimo e il massimo. Si è proceduto ad aggregare i Comuni per fasce demografiche per poter ottenere dati di sintesi e significativi e per valutare le performance per dimensioni demografiche dei Comuni. Ciò può anche dare indicazioni per le soglie di efficacia economica per le fusioni di Comuni. Per un’analisi più approfondita sul personale dipendente dei Comuni sarà necessario tenere conto delle funzioni conferite dai Comuni alle Unioni e del relativo personale trasferito. Tale situazione varia da Unio- ne a Unione e di frequente anche da Comune a Comune all’interno di una stessa Unione. I dati considerati non tengono conto delle diverse funzioni gestite in proprio dai Comuni e del relativo personale. Inoltre i dati di personale dovranno essere relazionati all’effettiva ge- stione dei servizi resi alla cittadinanza. Se si può assumere che i servizi generali e le funzioni fondamentali dei Comuni sono resi con persona- le dipendente, per i servizi a domanda individuale, in particolare quel- li di supporto alla scuola e quelli sociali, si possono riscontare diversità 488 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

significative da Comune a Comune se resi alla cittadinanza tramite ditte esterne o tramite personale dipendente del Comune. Pertanto un’analisi approfondita sui Comuni dovrebbe essere condotta sui centri di costo di ogni Comune per poter valutare il costo effettivo e com- plessivo di un servizio reso al cittadino e, per i servizi a domanda individua- le, il grado di copertura dei costi ottenuto dalle tariffe applicate per utente.

3.2. Il personale dipendente dei Comuni suddivisi per fasce demo- grafiche Una comparazione tra i dati di personale dipendente dei Comuni, i lo- ro abitanti e il numero dei Comuni per le 21 fasce demografiche ci ri- porta i seguenti risultati:

Tot.fascia n. Abitanti Personale Fascia Abitanti N. Comuni personale ogni nella fascia in servizio 1.000 ab. 1 0-499 4 943 12 12,73 2 500-999 17 13756 128 9,31 3 1.000-1.999 33 49390 347 7,03 4 2.000-2.999 34 82450 506 6,14 5 3.000-3.999 33 115417 661 5,73 6 4.000-4.999 27 122983 611 4,97 7 5.000-5.999 22 121047 614 5,07 8 6.000-7.499 35 235101 1197 5,09 9 7.500-9.999 35 309010 1501 4,86 10 10.000-12.499 28 309887 1498 4,83 11 12.500-14.999 16 220700 1294 5,86 12 15.000-17.499 15 245363 1398 5,70 13 17.500-19.999 7 131341 766 5,83 14 20.000-24.999 5 111874 666 5,95 15 25.000-29.999 7 185547 1092 5,89 16 30.000-34.999 5 161747 903 5,58 17 35.000-59.999 5 207752 1471 7,08 18 60.000-99.999 3 237643 1333 5,61 19 100.000-149.999 4 501598 3891 7,76 20 150.000-249999 4 705031 5578 7,91 21 250.000-499.999 1 384202 3791 9,87 TOTALI 340 4452782 29258 6,57 Fonte: Censimento del personale degli Enti locali Ministero dell’interno. Dati scaricabili anche dal portale Statistica/StRia Regione Emilia-Romagna. OSSERVATORIO REGIONALE 489

Prendiamo ora in considerazione i valori percentuali di ognuna delle 21 fasce demografiche relativi alle tre serie di dati: numero di Comuni, abitanti, personale in servizio. Fascia abitanti Abitanti Abitanti personale Personale Personale % abitanti in servizio N. Comuni N. nella fascia % personale su totale Enti % n. enti fascia % n. fascia su totale fascia su totale 1 0-499 4 943 12 1,18% 0,02% 0,04% 2 500-999 17 13756 128 5,00% 0,31% 0,44% 3 1.000-1.999 33 49390 347 9,71% 1,11% 1,19% 4 2.000-2.999 34 82450 506 10,00% 1,85% 1,73% 5 3.000-3.999 33 115417 661 9,71% 2,59% 2,26% 6 4.000-4.999 27 122983 611 7,94% 2,76% 2,09% 7 5.000-5.999 22 121047 614 6,47% 2,72% 2,10% 8 6.000-7.499 35 235101 1197 10,29% 5,28% 4,09% 9 7.500-9.999 35 309010 1501 10,29% 6,94% 5,13% 10 10.000-12.499 28 309887 1498 8,24% 6,96% 5,12% 11 12.500-14.999 16 220700 1294 4,71% 4,96% 4,42% 12 15.000-17.499 15 245363 1398 4,41% 5,51% 4,78% 13 17.500-19.999 7 131341 766 2,06% 2,95% 2,62% 14 20.000-24.999 5 111874 666 1,47% 2,51% 2,28% 15 25.000-29.999 7 185547 1092 2,06% 4,17% 3,73% 16 30.000-34.999 5 161747 903 1,47% 3,63% 3,09% 17 35.000-59.999 5 207752 1471 1,47% 4,67% 5,03% 18 60.000-99.999 3 237643 1333 0,88% 5,34% 4,56% 19 100.000-149.999 4 501598 3891 1,18% 11,26% 13,30% 20 150.000-249999 4 705031 5578 1,18% 15,83% 19,06% 21 250.000-499.999 1 384202 3791 0,29% 8,63% 12,96% TOTALI 340 4452782 29258 100,00% 100,00% 100,00% 490 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Comuni Emilia-Romagna per fasce demografiche

Fonte: Ministero Interno Censimento del personale 2013 e Istat

0,25

% personale 0,2 fascia su totale personale 0,15 % abitanti fascia su o t

n 0,1 totale abitanti c e % n° enti pe r fascia su 0,05 totale Enti

0 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 -49 -9 4 9 4 9 9 9 9 9 9 0 0 -199 -299 -399 -499 -599 -749 -999 999 999 999 0 0 0 0 0 0 0 -12 -14 -17 -19 -24 -29 -34 -59 -99 4 4 9 50 0 0 0 0 0 0 0 -1 -2 -4 00 00 00 00 00 00 00 00 00 10 20 30 40 50 60 75 0 5 0 5 0 0 0 0 0 000 000 000 10 12 15 17 20 25 30 35 60 0 0 0 10 15 25 abitanti per fasce di Comuni

Nella tabella e nel relativo grafico si nota che nelle fasce da 0 a 5.000 abitanti a un’alta percentuale di enti comunali corrisponde una bassa percentuale sia di abitanti sia di personale. Il che fa pensare a un carico maggiore di risorse economiche e di personale destinato al solo mante- nimento dell’ente comunale per le funzioni di amministrazione genera- le necessarie per ognuno di essi. La quasi coincidenza dei valori percentuali delle tre serie di dati si registra nelle fasce demografiche dai 12.500 ai 25.000 abitanti. Si può ritenere che gli enti comunali in queste fasce demografiche abbiano un efficace rappor- to tra risorse di personale, abitanti e numero di enti comunali da gestire. Cumulando i dati delle tre serie in sole 5 fasce demografiche il risulta- to è ancora più evidente: nella fascia tra i 10.000 e 20.000 abitanti i tre valori percentuali quasi coincidono. Alle estremità la fascia fino a 5.000 abitanti registra un notevole scostamento tra i valori delle tre serie: per il 43,53% dei Comuni abbiamo il 7,74% del personale dipendente e l’8,64% degli abitanti sul totale regionale. I Comuni con più di 60.000 abitanti coincidono con i 9 Comuni capo- luogo di Provincia e di Regione, oltre a Carpi, Imola e Cesena. OSSERVATORIO REGIONALE 491

Abitanti % personale % abitanti fascia % n. enti fascia fascia su totale su totale abitanti su totale Enti personale < 5.000 7,74 8,64 43,53 5.000-10.000 11,32 14,94 27,06 10.000-20.000 16,94 20,38 19,41 20.000-60.000 18,68 20,31 7,35 >60.000 45,32 35,73 2,65

Comuni Emilia-Romagna per fasce demografiche

Fonte Ministero Interno- Censimento del personale 2013 e ISTAT

50

45 % personale 40 fascia su 35 totale personale 30 % abitanti o t fascia su n

e 25

c totale abitanti pe r 20 % n° enti 15 fascia su totale Enti 10

5

0 < 5000 5000-10000 10000-20000 20000-60000 >60000

abitanti per fasce di Comuni

3.3. Personale per mille abitanti nelle fasce demografiche dei Comuni Il valore minimo di 4,83 di numero di personale per 1.000 abitanti si registra nella fascia di Comuni tra i 10.000 e i 12.500 abitanti. Le fa- sce dai 4.000 ai 12.500 abitanti hanno i valori più bassi e con una mi- nima variazione tra loro: compresi tra un minimo di 4,83 e un massi- mo di 5,09. 492 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Comuni Emilia Romagna 2014

3 Dati censimento personale dei Comuni 2013 7

14 12 , 7 1

8 Tot.fascia , 12 3 , 9 1 6

9 n° 9 8 3 7 , , 0 0

10 4 7 5 , 9 6 , 3 7 3 0 1 8 personale 1 9 7 8 8 9 7 8 7 7 7 , 7 6 6 3 5 , , , , , , , , 0 0 9 8 6 8 8 5 5 5 , 5 , ogni 5 , 5 , 5 , 5 5 5 4 4 6 4 1.000 ab. 4 2 0 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 -49 -9 4 9 4 9 9 9 9 9 9 0 0 -199 -299 -399 -499 -599 -749 -999 999 999 999 0 0 0 0 0 0 0 -12 -14 -17 -19 -24 -29 -34 -59 -99 4 4 9 50 0 0 0 0 0 0 0 -1 -2 -4 00 00 00 00 00 00 00 00 00 10 20 30 40 50 60 75 0 5 0 5 0 0 0 0 0 000 000 000 10 12 15 17 20 25 30 35 60 0 0 0 10 15 25 abitanti per fasce di comuni

Il Ministero dell’Interno con decreto del 24 luglio 2014 ha stabilito i rap- porti medi dipendenti-popolazione per fasce demografiche per enti in dissesto e per quelli che hanno fatto ricorso al riequilibrio finanziario pluriennale. Tali rapporti medi sono con valori più alti di quelli che si registrano nella Regione Emilia-Romagna e sopra riportati.

3.4. Spese di personale pro capite per fasce demografiche dei Comuni Se valutiamo i dati relativi all’indicatore dei bilanci consuntivi dei Co- muni per il 2013 registriamo lo stesso andamento: la fascia demogra- fica dei Comuni con una spesa per il personale pro capite più bassa è quella tra i 10.000 e 12.500 abitanti con 168 euro all’anno per abitante. La serie più bassa di valori si ha per i Comuni con più di 5.000 abitan- ti e fino a 20.000.

3.5. Spese di personale su spesa corrente totale per fasce demografiche dei Comuni Dai certificati dei conti consuntivi dei Comuni per il 2013 si ottengono i seguenti valori per le fasce demografiche riportate nel grafico: OSSERVATORIO REGIONALE 493

Comuni Emilia Romagna Anno 2013 % % 9 0 4 0

0,4 % % 1 % 34 , 9 34 , 8 3 % 9 % 1 7 % % 0,35 2 % % % % % % % 2 0 29 , 3 9 3 % 3 4 8 28 , 2 % 5 3 % 7 4 28 , 2 4 0 9 6 6 1 5 4 3 5

0,3 26 , 1 25 , 7 24 , 24 , 24 , 24 ,

23 , % Spesa 23 , 23 , 23 , 23 , 22 , 22 , 0,25 21 , personale

e /spesa t 0,2 i

p corrente c a 0,15 totale r o p

0,1

eu r o 0,05 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 00 00 0 0 0 0 0 5 0 5 0 5 00 -5 0 000 0 -750 -500 -250 -1 8 -95 -50 -35 -30 -25 -22 -20 -17 -15 -12 -100 0 0 0 0 90 37 -1 -15 0 0 0 0 00 00 00 00 00 00 00 00 00 00 0 50 00 0 0 0 0 5 0 5 0 5 0 50 25 10 000 0 75 0 50 35 30 25 22 20 17 15 12 10 95 15 fasce demografiche

Come si vede la soglia del 25% indicata a livello nazionale come non superabile per i Comuni in dissesto non è raggiunta dalla maggior par- te dei Comuni emiliano-romagnoli nel 2013.

4. Conclusioni I dati risultanti dalle analisi comparate sulle fasce demografiche dei Co- muni emiliano-romagnoli per indicatori economici e numero di perso- nale dipendente al 2013 indicano che le migliori performance si hanno nei Comuni compresi nelle fasce demografiche tra 7.500 e 12.500 abi- tanti e, per alcuni indicatori, fino a 20.000 abitanti. L’analisi dei dati è stata compiuta sulle banche dati pubbliche dei Co- muni nei siti del Ministero dell’interno e della Regione Emilia-Romagna relativi a: spese correnti pro capite al netto del personale, entrate cor- renti pro capite, gli indicatori di bilancio consuntivo dei Comuni, nume- ro medio di personale per mille abitanti, costi pro capite del personale, spesa di personale su spesa corrente totale. Questi risultati, in particolare per quanto riguarda il personale dipen- dente, non tengono però conto delle funzioni conferite dai Comuni al- le Unioni e del relativo personale trasferito, nonché delle diversità fra Comuni per le modalità di gestione dei servizi a domanda individua- 494 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

le, e cioè se tali servizi si svolgono con personale di ditte esterne o del Comune. Sulla base dei dati analizzati non si può individuare con precisione una soglia demografica minima utile per la istituzione di nuovi Comuni da fusione. È però chiaro che la fusione dei Comuni sotto i 5.000 abitan- ti in nuovi Comuni sopra i 7.500 ed oltre porta ad economie certe sulle principali voci di bilancio e ad una ottimizzazione delle risorse umane sia in termini quantitativi che qualitativi. Gli argomenti che hanno riempito i processi di fusione conclusi e in corso vanno dalla consapevolezza dei problemi attuali (istituzionali, economici, organizzativi, sociali) alla elaborazione collettiva di strumen- ti di gestione del nuovo Comune, oltre ad un necessario sguardo al fu- turo. Per favorire questo approccio a largo spettro la Regione Emilia-Ro- magna mette a disposizione di tutti e facilita l’utilizzo delle banche da- ti statistiche e di finanza locale, nonché testi standard per informazioni procedimentali e cronoprogrammi e per gli studi di fattibilità che pos- sono essere redatti direttamente dai Comuni interessati7. Nella scelta della fusione in nuovo Comune intervengono perciò varie motivazioni di diversa natura, che non si possono ridurre a uno o più indicatori numerici. La fusione di Comuni si può perciò definire una questione complessa, acquisendo questo termine dall’elenco di tipologie di problemi utiliz- zato in molti studi sulla organizzazione dei gruppi in ambiente lavora- tivo, che suddividono i problemi in semplici, complicati e complessi8. La strategia per gestire in modo ottimale le situazioni complesse ha un aspetto particolarmente attraente: dare potere alle persone. L’approccio italiano alla fusione dei Comuni punta sulla partecipazione della po-

(7) Vedi http://statistica.regione.emilia-romagna.it/, http://autonomie.regione.emilia-romagna. it/fusioni-di-comuni.

(8) Atul Gawande, Checklist. Come fare andare meglio le cose, Einaudi, 2011, p. 49: «I problemi semplici sono quelli del tipo “preparare un dolce a partire dagli ingredienti”. Una volta acqui- site le tecniche di base, basta seguire la ricetta per avere un’alta probabilità di successo. I pro- blemi complicati sono quelli del tipo “mandare un razzo sulla luna”. Di norma il successo finale richiede il ricorso a competenze specialistiche di svariate persone, e più probabilmente di sva- riate équipe [...] I problemi complessi sono quelli del tipo “crescere un figlio”. Avere già allevato un figlio [...] non dà nessuna garanzia di successo per il figlio successivo. La competenza è im- portante ma di sicuro non sufficiente». OSSERVATORIO REGIONALE 495

polazione tramite referendum e ancora di più sulla iniziativa legislativa promossa dagli organi deliberanti dei Comuni o di comitati di cittadini. L’imposizione dall’alto di istituire nuovi Comuni mediante fusione non è stata fino ad ora praticata, anche se le legislazioni regionali in materia non la escludono. Incentivi economici e agevolazioni legislative, defini- ti in letteratura anche «spinte gentili, approcci che influenzano le deci- sioni pur salvaguardando la libertà di scelta»9, sono le formule più utiliz- zate sia dallo Stato sia dalle Regioni. Il processo di fusione di Comuni ha quindi bisogno di un impianto che punti fin dall’inizio sulla partecipazione consapevole dei cittadini e de- gli amministratori comunali, per fare nascere un nuovo Ente locale che loro stessi dovranno far crescere nel migliore dei modi. Altro fattore utile sarà la collaborazione di diverse professionalità e com- petenze di personale dei Comuni stessi e il loro coinvolgimento diretto nel processo di fusione per far sì che il nuovo Comune sia anche il risul- tato del loro lavoro di gruppo, insieme a quello della Regione e degli uffi- ci statali, proiettato al futuro. Perciò saranno utili gruppi di lavoro interisti- tuzionali e intersettoriali orientati su un obiettivo preciso, assegnato loro da scelte deliberate negli organi istituzionali di Comuni, Regioni e Stato. «È più probabile che idee nuove ed esempi convincenti sorgano dalla ri- flessione su problemi al più basso livello di astrazione e di generalità»10 che, nel caso delle fusioni di Comuni, diano risposte convincenti a que- ste, ed altre, semplici domande dei cittadini: cosa ne sarà dei servizi al cittadino sul territorio? A chi mi potrò rivolgere se non ho più il mio Sin- daco? Il mio indirizzo rimarrà lo stesso? Per affrontare e risolvere questi problemi è efficace la metodologia del confronto tra esperienze attuate, per fornire supporto e indicazioni tecnico-pratiche ai tanti problemi che si pongono davanti ai promotori di processi di fusione, siano essi Sin- daci o comitati di cittadini. Il monitoraggio, la valutazione e la divulga- zione delle esperienze attuate saranno decisive per incentivare e molti- plicare processi di fusione di Comuni.

(9) R. Thaler, C. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, Feltrinelli, 2009.

(10) D. Kahneman, Mappe di razionalità limitata: indagine sui giudizi e le scelte intuitivi, in M. Motterlini, M. Piattelli Palmarini (a cura di), Critica della ragione economica, Milano, Il Saggia- tore, 2005, p. 130.

OSSERVATORIO REGIONALE 497

La specificità della Provincia di Belluno e i rapporti con la Regione del Veneto: brevi considerazioni sull’art. 15 del nuovo Statuto regionale Luca Dell’Osta

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La specificità di Belluno, Provincia sui gene- ris. – 3. Ancora sulle ragioni della specificità: il « ... territorio transfrontalie- ro ... ». – 4. Segue: « ... interamente montano ... ». – 5. Segue: « ... nonché abita- to da significative minoranze linguistiche ... ». – 6. Il conferimento di forme e condizioni particolari di « ... autonomia amministrativa, regolamentare ...». – 7. Segue: « ... finanziaria ... ». – 8. Una «specificità» incostituzionale? – 9. Le Province, oggi. – 10. La Provincia di Belluno come ente di secondo gra- do. – 11. La «specificità» di un territorio provinciale senza Provincia. – 12. Conclusioni.

1. Introduzione Il presente elaborato intende approfondire il rapporto – con particola- re riferimento al conferimento di funzioni amministrative – che oggi in- tercorre tra la Regione del Veneto e la Provincia di Belluno, a seguito dell’approvazione del nuovo Statuto regionale1. Grazie a quest’ultimo, infatti, e per quanto qui di interesse, con il con- ferimento «alla Provincia di Belluno, in considerazione della specificità del suo territorio transfrontaliero e interamente montano, nonché abita- to da significative minoranze linguistiche, [di] forme e condizioni parti- colari di autonomia amministrativa, regolamentare e finanziaria»2, il Ve-

(1) L.r. statutaria 17 aprile 2012, n. 1, che ha interamente sostituito il precedente Statuto, conte- nuto nella legge 22 maggio 1971, n. 340. (2) Art. 15, comma 5, l.r. statutaria 17 aprile 2012, n. 1, che si riporta integralmente di seguito per comodità di lettura e per evitare ulteriori rimandi in nota: «La Regione, ferma la salvaguardia del- le esigenze di carattere unitario, conferisce con legge alla Provincia di Belluno, in considerazione della specificità del suo territorio transfrontaliero e interamente montano, nonché abitato da si- 498 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

neto ha stabilito un legame del tutto particolare con la Provincia di Bel- luno, operando una scelta in palese controtendenza rispetto agli inten- dimenti di chi, nel dibattito politico degli ultimi anni, ha visto la Provin- cia – con una dose di forse eccessiva approssimazione – come un ente a volte semplicemente inutile, e a volte origine di buona parte dei mali che affliggono il sistema istituzionale italiano. Nel caso veneto e bellunese, la Provincia è stata arricchita di numerose funzioni che le sono state conferite dal legislatore regionale. Tale lega- me tra i due enti non è quindi il risultato – magari non voluto – di una stratificazione normativa che si potrebbe definire, senza tema di smenti- ta, sconclusionata3 e «contorta»4 (e che ha portato l’ente-Provincia, in Ita- lia, a gestire sempre maggiori funzioni, a dispetto degli intenti volti ad attribuirgli – in quanto ente di “area vasta”5 – solamente compiti di coor- dinamento e di programmazione6); al contrario, grazie al nuovo Statuto, muta in senso sostanziale il rapporto tra Regione e Provincia, e questo

gnificative minoranze linguistiche, forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa, re- golamentare e finanziaria in particolare in materia di politiche transfrontaliere, minoranze lingui- stiche, governo del territorio, risorse idriche ed energetiche, viabilità e trasporti, sostegno e pro- mozione delle attività economiche, agricoltura e turismo. La Provincia di Belluno, d’intesa con le autonomie locali, in attuazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e sul- la base di appositi accordi, provvede a sua volta a conferire ai Comuni o alle loro forme associa- tive quelle funzioni amministrative che non richiedono l’esercizio unitario a livello provinciale».

(3) Cfr., inter alia, F. Merloni, Le funzioni sovracomunali tra Provincia e Regione, in questa Ri- vista, supplemento n. 5, 2006, p. 45; A. Barbera, Da un federalismo «insincero» a un regionali- smo «preso sul serio»? Una riflessione sull’esperienza regionale, in www.forumcostituzionale.it, ottobre 2012.

(4) L’espressione è di S. Mangiameli, La Provincia: dall’Assemblea Costituente alla riforma del Titolo V, in www.astrid-online.it, 2008, p. 6. (5) Per una definizione del concetto di “area vasta” e per una riflessione sul governo dell’area vasta, vedi M. Renna, Brevi considerazioni su Province e altri enti “intermedi” o di area vasta, in Astrid – rassegna, 36, 2006; G.C. De Martin, G. Meloni, L’amministrazione di area vasta (Pro- vincia ed area metropolitana), in F. Bassanini, L. Castelli (a cura di), Semplificare l’Italia: Sta- to, Regioni, Enti locali, Bagno a Ripoli, Passigli Editori, 2008; S. Mangiameli, La Provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni del territorio. Dal processo storico di formazione alla ristruttu- razione istituzionale, in www.issirfa.cnr.it, ottobre 2012; F. Giglioni, La riforma del governo di area vasta tra eterogenesi dei fini e aspettative autonomistiche, in www.federalismi.it, 1, 2014. (6) Sui compiti di programmazione, promozione, indirizzo e raccordo delle Province, vedi M. Renna, Art. 20. Compiti di programmazione (commento), in M. Bertolissi (a cura di), L’or- dinamento degli enti locali. Commento al testo unico sull’ordinamento delle autonomie locali del 2000 alla luce delle modifiche costituzionali del 2001, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 144 ss. OSSERVATORIO REGIONALE 499

per una precisa e qualificata scelta del legislatore regionale che ha for- nito un’interpretazione peculiare – e finora unica in Italia – del princi- pio di sussidiarietà espresso nell’art. 118 Cost. Il presente lavoro ha proprio l’obiettivo di analizzare le ragioni che, in senso contrario rispetto al comune sentire, hanno portato la Regio- ne del Veneto a «riconosce[re]» – a livello statutario – «le specificità del- le singole comunità che compongono il Veneto»7, e soprattutto a poten- ziare (e “autonomizzare”) la Provincia di Belluno, con il conferimento a essa di una serie organica di materie puntualmente elencate nel quinto comma dell’art. 15 del nuovo Statuto.

2. La specificità di Belluno, Provincia sui generis Prima di capire come sia possibile attuare un’autonomia “differenziata” per la Provincia di Belluno, è opportuno soffermarsi sul perché di una tale autonomia, ossia sul perché, a giudizio di chi scrive, è possibile ri- tenere del tutto peculiare il rapporto che oggi intercorre tra gli enti di cui si tratta. La spiegazione di questo interrogativo è strettamente legata all’identità della Provincia di Belluno, la quale – come icasticamente puntualizza- to dallo Statuto del Veneto – ha un «territorio transfrontaliero e intera- mente montano, nonché abitato da significative minoranze linguistiche». Sono proprio questi tre elementi a fondare la specificità del territorio della Provincia di Belluno, alla quale lo Statuto attribuisce l’autonomia. Inoltre, il riconoscimento della «specificità» del territorio bellunese non è un generico principio, la cui attuazione è interamente demandata al- la discrezionalità del legislatore regionale ordinario: lo Statuto infatti si spinge oltre, evidenziando una serie di materie in cui dovranno essere conferite le «forme e condizioni particolari di autonomia amministrati- va, regolamentare e finanziaria», materie che riguardano, «in particolare», «politiche transfrontaliere, minoranze linguistiche, governo del territo- rio, risorse idriche ed energetiche, viabilità e trasporti, sostegno e pro- mozione delle attività economiche, agricoltura e turismo».

(7) Art. 15, comma 1, l.r. statutaria 17 aprile 2012, n. 1. 500 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

3. Ancora sulle ragioni della specificità: il «…territorio transfronta- liero…» Fra gli elementi richiamati, il «territorio transfrontaliero» è il primo. Una tutela per le zone transfrontaliere era già prevista dal Tfue8. Va eviden- ziato che il legislatore europeo annovera fra le zone con permanenti svantaggi non solo i territori transfrontalieri, ma anche quelli montani. Anche la legge 7 aprile 2014, n. 56, attribuisce alle Province montane «confinanti con Paesi stranieri»9 ulteriori funzioni fondamentali, previste dall’art. 1, comma 86, della stessa legge. Per quanto riguarda la Provincia di Belluno, confinare con l’Austria, Paese da sempre all’avanguardia nella tutela della montagna per la sua stessa posizione geografica, significa doversi confrontare quotidiana- mente con una realtà molto più attenta alla valorizzazione del territorio montano e della sua peculiare economia (in specie in materia turistica e agricola), più di quanto non lo sia – e probabilmente più di quanto non lo possa essere – la Regione Veneto. Questo deficit di competitivi- tà è tanto maggiore se si ricorda, per completezza, che la Provincia di Belluno confina inoltre con le Province autonome di Trento e Bolzano e con la Regione a Statuto speciale Friuli-Venezia Giulia, tre realtà che, in virtù della loro ampia autonomia, hanno potuto predisporre politiche vantaggiose per lo sviluppo delle aree montane10.

(8) Si vedano gli artt. 174 Tfue, ex art. 158 Tce, e il successivo art. 175 Tfue, ex art. 159 Tce. (9) Art. 1, comma 3, legge 7 aprile 2014, n. 56. (10) Il territorio della Provincia autonoma di Bolzano è interamente montano; il territorio del- la Provincia autonoma di Trento è quasi interamente montano (solamente l’8,5% del territorio provinciale – 540 km2 su una superficie totale di 6.212 km2 – è situato in una fascia altimetrica fra i 65 e i 500 metri sul livello del mare). Si può aggiungere che, per quanto il «territorio tran- sfrontaliero» possa sembrare l’argomento di minor pregnanza per giustificare la «specificità» del- la Provincia di Belluno, si segnala che è l’unico elemento sul quale la l.r. 13 aprile 2001, n. 11 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi alle autonomie locali in attuazione del de- creto legislativo 31 marzo 1998, n. 112) fondava un primo riconoscimento delle peculiarità del- la montagna bellunese. È anche opportuno accennare, in questa sede, ai referendum per cam- biare Regione che, dal 2005 a oggi, hanno interessato quindici Comuni bellunesi e l’intera Pro- vincia di Belluno. Sconfina dalla presente trattazione analizzare le motivazioni che hanno porta- to all’indizione dei referendum. Tuttavia, è possibile ricavare un minimo comune denominatore, individuabile nel disagio che le popolazioni bellunesi vivono quotidianamente, stretti fra due territori autonomi che, come si è visto, possono prevedere (e prevedono) forme di accentuata tutela nei confronti delle loro popolazioni. Sull’«inattuabile» referendum richiesto dalla Provin- cia di Belluno per il passaggio in Trentino-Alto Adige, vedi F. Ratto Trabucco, L’inattuabile refe- OSSERVATORIO REGIONALE 501

4. Segue: «...interamente montano...» Il secondo elemento posto alla base della «specificità» della Provincia di Belluno è il suo territorio interamente montano. Il peculiare rapporto istituito tra la Regione del Veneto e la Provincia di Belluno appare tanto più significativo qualora si leggano gli Statuti delle altre Regioni ordina- rie, che hanno sì implementato politiche in favore della montagna, però senza arrivare a prevedere una differenziazione provinciale11.

rendum per l’aggregazione della Provincia di Belluno alla Regione Trentino-Alto Adige, in que- sta Rivista, 3, 2011; definisce «paradossale» la «richiesta di alcuni Comuni [...] di essere staccati dalla esuberante Regione Veneto» M. Malo, Principi e sistema veneto, in M. Malo (a cura di), Ve- neto. L’autonomia statutaria, Torino, Giappichelli, 2012, p. 96. Sulle «soluzioni messe sul piat- to» per risolvere i problemi del territorio bellunese prima dell’approvazione del nuovo Statuto regionale, vedi M. Barbero, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali), in www.federalismi.it, 9, 2008, p. 1. (11) Gli Statuti di Liguria (legge statutaria 3 maggio 2005, n. 1 e successive modificazioni), Campania (l.r. 28 maggio 2009, n. 6) e Puglia (l.r. 12 maggio 2004, n. 7) nulla prevedono in merito alla tutela della montagna. Prevedono invece forme di tutela gli Statuti di Marche (l. statutaria 8 marzo 2005, n. 1, che all’art. 4, comma 7, prevede che la Regione «riconosce la specificità del territorio montano e delle aree interne. Promuove politiche di intervento e di riequilibrio per assicurare un’equa distribu- zione dei servizi e delle infrastrutture, occasioni di lavoro e adeguate condizioni di vita» e che all’art. 36, comma 5, prevede che «la Regione valorizza il ruolo delle Comunità montane»), Umbria (l.r. 16 aprile 2005, n. 21, che all’art. 11, comma 2, prevede che la Regione «tutela il patrimonio montano e rurale, idrico e forestale [...]»), Lazio (l. statutaria 11 novembre 2004, n. 1, che all’art. 8, comma 3, prevede che la Regione «opera per rimuovere gli squilibri economici mediante la destinazione di ri- sorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di aree territoriali svantaggiate, con partico- lare riguardo ai piccoli Comuni, alle aree rurali e montane nonché alle isole»), Abruzzo (Statuto 28 dicembre 2006, che all’art. 7, comma 4, prevede che «la Regione persegue il riequilibrio sociale ed economico in favore delle aree montane ed interne, assumendo adeguate iniziative», che all’art. 9, comma 1, prevede che «la Regione protegge e valorizza il paesaggio, le bellezze naturali, l’ambiente, la biodiversità e le risorse genetiche autoctone, l’assetto del territorio e il patrimonio rurale e mon- tano, garantendone a tutti la fruizione» e che all’art. 69, comma 3, prevede che «la legge può attri- buire o delegare funzioni amministrative a determinate categorie di Enti locali o a singoli Enti loca- li, tenendo conto della specificità delle funzioni da esercitare, della adeguatezza e della differenzia- zione esistente tra gli Enti locali riceventi»), Molise (Statuto contenuto nella deliberazione legislativa 22 febbraio 2011, n. 35, promulgato il 16 aprile 2014, che all’art. 3, comma 1, lett. b) prevede che la Regione cura in particolare «la valorizzazione dei propri territori e del patrimonio idrico e foresta- le, nonché la tutela delle specificità delle zone montane e collinari e della biodiversità»), Basilicata (l. 22 maggio 1971, n. 350, che all’art. 5, comma 2, prevede che «la Regione [...] assume iniziative in favore delle zone e delle Comunità montane» e che all’art. 9 prevede che «la Regione pone partico- lare impegno per lo sviluppo globale ed organico della montagna e per la crescita economica, so- ciale e democratica delle Comunità montane») e Calabria (l.r. 19 ottobre 2004, n. 25, che all’art. 48, comma 3, lett. a), riferendosi al Consiglio delle Autonomie locali, si limita a prevedere che «la legge regionale: a) disciplina le modalità e i criteri di composizione dell’organo, garantendo la rappresen- tanza dei diversi livelli istituzionali interni agli enti locali, ispirandosi a criteri di pluralismo politico e di rappresentanza territoriale nella individuazione dei suoi componenti, tutelando la rappresen- tanza dei piccoli Comuni, dei Comuni montani, nonché dei Comuni delle minoranze linguistiche»). 502 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Una premessa di carattere semantico: per quanto riguarda il Veneto, l’attuale definizione di zone montane è contenuta nella l.r. 3 luglio 1992, n. 19 (Norme sull’istituzione e il funzionamento delle Comunità mon- tane) e successive modifiche (l.r. 9 settembre 1999, n. 39; l.r. 28 settem- bre 2012, n. 40)12. «La montagna soffre di uno svantaggio geografico strutturale perma- nente che determina un differenziale di costi a carico delle funzioni insediate»13. E in questo la montagna veneta, e quella bellunese in par- ticolare, non fanno eccezione: - una prima criticità della montagna riguarda la «polverizzazione amministrativa»14. La presenza sul territorio di molti piccoli Comuni, con una forte identitarizzazione intorno al singolo municipio, rende difficile non solo la gestione dei servizi sul territorio, ma anche «l’or- ganizzazione di efficienti ed efficaci interventi di sostegno»15. In que- sto senso, la scarsità della popolazione e la difficoltà a confrontar-

(12) Per una definizione di “zona altimetrica di montagna” vedi Glossario dei principali termini statistici, disponibile in www.statistica.Regione.veneto.it. Per approfondire, vedi Annuario stati- stico italiano per l’anno di interesse (sezione “Ambiente e territorio”), dall’anno 2000 disponibili in formato elettronico sul sito www.istat.it. A livello europeo, manca una definizione organica di “montanità”, dal momento che «le definizioni esistenti sono […] legate a politiche di tipo set- toriale, con particolare riferimento alla politica agraria comune (Pac) ed allo sviluppo rurale» (V. Colleselli, Quale montagna, quali montagne? Analisi degli interventi normativi, in Aa.Vv., Libro bianco sulla montagna veneta, Santa Giustina, Unione Artigiani e Piccola Industria di Belluno, 2012, disponibile in http://confartigianatobelluno.eu/mont_veneta.asp, p. 21.

(13) G. Gorla, Le determinanti economiche degli svantaggi relativi della montagna, in G. Can- nata, G. Folloni, G. Gorla, Lavorare e vivere in montagna. Svantaggi strutturali e costi aggiunti- vi, Bologna, Bononia University Press, 2007, p. 5. La frase ricalca, in parte, l’enunciato normati- vo contenuto nell’art. 27, comma 2, legge 6 luglio 2009, n. 42 («[...] svantaggi strutturali perma- nenti [...]»). Di «disagio degli abitanti delle zone montane» parla invece F. Angelini, Art. 44 (com- mento), in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, vol. I, 2006, p. 904. Per completezza, va comunque registrato che pare essersi definitivamente su- perata una concezione della montagna come zona esclusivamente svantaggiata o emarginata (lo dimostra lo stesso testo dell’art. 15 dello Statuto veneto, qui in commento), in favore di una visione che individua in essa – all’opposto – un elemento di crescita e di sviluppo, e non in via esclusiva per le popolazioni autoctone (in tal senso, vedi anche infra in questo paragrafo). (14) L’espressione è in Fondazione Montagna e Europa Arnaldo Colleselli, Il Veneto e le sue Montagne. Priorità ed azioni. Proposta di Piano Programmatico Regionale 2010-2015, in www. montagna-europa.it, 2009, p. 3.

(15) S. Magoga, G. Zornitta, Le diverse montagne del Veneto, in Aa.Vv., Libro bianco sulla mon- tagna veneta, cit., p. 74. OSSERVATORIO REGIONALE 503

si con realtà amministrative più complesse possono anche portare a una rilevante difficoltà nella selezione della classe dirigente; - complanare alla polverizzazione amministrativa è la dimensione ter- ritoriale della Provincia di Belluno, ampia ma scarsamente abitata16, con i centri urbani spesso molto distanti l’uno dall’altro e situati in zone non sempre facilmente accessibili, soprattutto in inverno, con le condizioni climatiche avverse. Anche questo aspetto si esterna nella difficoltà ad organizzare i servizi primari sul territorio e a far sì che possa svilupparsi un tessuto di imprese tradizionali competitive sul mercato, nonostante la Provincia di Belluno presenti un numero di addetti all’industria leggermente superiore al dato del Veneto; - un’altra problematica, in parte conseguente alle due sopra evidenziate, è di carattere demografico, nelle forme di una bassa natalità (general- mente inferiore, in tutti i Comuni della Provincia di Belluno, alla mor- talità17) e di un saldo migratorio che sì pare essere positivo, ma che evidenzia uno spopolamento delle cosiddette “terre alte” in favore dei centri più grandi, di quelli più vicini alle principali arterie di comuni- cazione e di conseguenza alla “pianura”, o di quelli la cui economia è più legata ai servizi. In questo senso, il potenziale vantaggio delle “ter- re alte”, più di tutte le altre a fortissima vocazione turistica, viene vani- ficato proprio dalle criticità di cui si è detto (scarsa popolazione, diffi- coltà nei trasporti, oltre a un marcato stagionalismo); - infine, e subordinatamente rispetto a quanto sopra esposto, un’ulte- riore criticità riguarda l’arretratezza infrastrutturale della Provincia, at- tinente in particolare alle vie di comunicazione18.

(16) Superficie: 3.678 km2; popolazione: 213.474 (dati censimento 2011); densità: 58,04 abitan- ti/km2. Va sottolineato, come argomentato in Fondazione Montagna e Europa Arnaldo Collesel- li, cit., p. 3 nota 3, che «gli indicatori relativi alla dispersione territoriale vengono spesso interpre- tati con una accezione positiva nelle indagini sulla qualità della vita [...]. È opportuno sottolinea- re tuttavia come tali dati vadano attentamente valutati avendo la dispersione territoriale anche e soprattutto effetti negativi per quanto concerne i servizi pubblici per la persona» (corsivo nostro).

(17) S. Magoga, G. Zornitta, cit., pp. 84-87. (18) Parametrato a 1,000 il riferimento della Regione Veneto nel suo complesso, Belluno ha i seguenti indici relativi alle dotazioni infrastrutturali: rete stradale 0,666; rete ferroviaria 0,108; aeroporti 0,137; impianti e reti energetico ambientali 0,533; strutture e reti per la telefonia e la telematica 0,422; reti bancarie e di servizi vari 0,475; strutture culturali e ricreative 0,550; strut- ture per l’istruzione 0,361; strutture sanitarie 0,602. Nostra rielaborazione di dati tratti da Fonda- zione Montagna e Europa Arnaldo Colleselli, cit., p. 3 (riferibili al 2007). 504 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

A questo punto è possibile circoscrivere il cosiddetto fenomeno del “differenziale montagna”, cioè le differenze di costo derivanti da: «a) il maggiore fabbisogno di input a parità di output (minore produttivi- tà fattoriale totale); b) il particolare mix della domanda, che richiede prodotti più input intensive; […] c) le ridotte alternative di produzione, che determinano una produttività inferiore dei fattori di produzione»19. Il differenziale montagna può quantificarsi in circa un quarto (variabil- mente tra il 20 e il 30%) per quanto riguarda il minore reddito netto di un’azienda agricola di montagna rispetto a quella di pianura, e il mag- gior costo per i servizi sanitari e di trasporti; arriva al 300% per quanto riguarda la manutenzione ordinaria delle strade di montagna e addirit- tura al 600% relativamente agli interventi (straordinari) di adeguamen- to della rete viaria20. Alla luce di quanto detto, appare chiaro che il legislatore statutario, for- mulando l’art. 15, abbia voluto vedere nella montagna non un peso, bensì una risorsa da valorizzare, dal momento che «l’abbandono o il mantenimento in condizioni di marginalità di interi territori all’interno di Paesi avanzati [può] costituire una perdita economica non solo per le

(19) G. Gorla, cit., p. 10. L’autore, nelle pagine precedenti, ricorre ad alcuni esempi per spie- gare le sue conclusioni, che è opportuno in questa sede riportare passim: «Per costruire il me- desimo tipo di abitazione, si ponga una casa singola, in montagna occorre impiegare quanti- tà maggiori di taluni input rispetto alla pianura, a parità di altri input, per predisporre l’area da edificarsi, per realizzare le fondazioni su determinati tipi di suoli, per garantire la protezione delle condizioni climatiche più rigide, per rispettare più stringenti vincoli ambientali, ecc. [...]. Costruire una abitazione singola richiede lo stesso impiego di fattori di produttivi alle diverse localizzazioni, così come costruire case a schiera, palazzine, palazzi, ecc. Tuttavia in montagna prevale la domanda di abitazioni di tipo diverso da quello di pianura, abitazioni alle quali sono associati maggiori fabbisogni unitari (input per unità di superficie complessiva), poiché diversa è l’utilità del medesimo bene che deriva ai consumatori [...]. Un ulteriore aspetto, rilevante so- prattutto (ma non esclusivamente, almeno in linea di principio) per il comparto agricolo, è co- stituito dalla minore libertà nella scelta dell’ordinamento produttivo, in quanto vincolato al li- mitato numero di possibilità consentite dall’ambiente. Ciò impedisce di scegliere combinazioni colturali potenzialmente più vantaggiose, dunque comprime (potrebbe comprimere) la redditti- vità dell’attività a paragone dell’agricoltura di pianura e, di conseguenza, determina una minore capacità a remunerare i fattori della produzione […]». (20) I dati sono contenuti in Fondazione Montagna e Europa Arnaldo Colleselli, cit., p. 17. Per approfondire il tema dei sovraccosti della montagna (e in particolare delle montagne della Val- le d’Aosta, del Trentino e del Molise), si vedano gli studi ampiamente documentati contenuti in G. Cannata, G. Folloni, G. Gorla, Lavorare e vivere in montagna. Svantaggi strutturali e costi ag- giuntivi, Bologna, Bononia University Press, 2007. OSSERVATORIO REGIONALE 505

popolazioni direttamente interessate, ma per l’intera collettività»21. Come appare evidente, le criticità sopra esposte inducono a parlare non di “montagna”, bensì di “montagne” (esigenza d’altra parte già fatta pro- pria dalla dottrina più attenta, che criticava «il carattere “indifferenziato” della [definizione di] “montagna”»22 contenuta nella l. 25 luglio 1952, n. 991). Non è pertinente affrontare in questa sede i criteri con cui è pos- sibile suddividere conseguentemente le diverse zone della Provincia di Belluno (e del Veneto)23; tuttavia, non sfugge a chi scrive che una lettu- ra disattenta dell’articolato normativo (e, in particolare, del punto in cui «la Regione», nel conferire «forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa, regolamentare e finanziaria», riconosce la «specificità del […] territorio» bellunese) potrebbe portare a sostenere che lo Statuto, parlando di «specificità» al singolare, appiattisca le peculiarità che carat- terizzano le singole zone della Provincia di Belluno, peculiarità che so- no (paradossalmente!) tanto più evidenti, molteplici e numerose, quan- to più si fanno proprie le caratteristiche critiche di natura amministrati- va, territoriale, demografica e infrastrutturale di cui si è detto. Tale interpretazione non appare fondata. Se è vero che il comma in esa- me è interamente dedicato alla Provincia di Belluno, non si può innan- zitutto tralasciare l’ultima sua parte, che ribadisce – declinandolo nel contesto territoriale di riferimento – il principio di sussidiarietà già co-

(21) G. Gorla, cit., pp. 5-6. In questo senso vedi anche C. Desideri, voce Montagna, in Enciclo- pedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1976, in particolare pp. 890-891: «In realtà sembra che i terri- tori montani nel loro complesso si caratterizzino sempre più come aree marginali allo sviluppo in presenza del progressivo “concentrarsi” delle attività produttive nelle zone più favorite della bassa collina e pianura. Questa situazione non è senza conseguenza sulla condizione dei suoli e, in genere, ambientale dei territori montani; l’esodo, accompagnato allo spopolamento (che si ha quando l’attività agricola non viene sostituita da altre), determina infatti un ulteriore degra- damento, cui si accompagna un aggravamento del dissesto idrogeologico con effetti che interes- sano altresì le zone di collina e di pianura [...]. L’esigenza di frenare l’esodo delle popolazioni e di integrarne i redditi, le prospettive e gli indirizzi di politica economica diretti a ristrutturare il settore agricolo, gli indirizzi di politica ambientale diretti a dar luogo a interventi prevalente- mente conservativi, sono poi tutti elementi – a volte anche tra loro contraddittori – ai quali si fa riferimento per affermare l’opportunità di considerare i problemi dei territori montani non più solo in relazione alle prospettive dell’agricoltura bensì anche a quelle del turismo, dell’artigia- nato, dell’industria e dei servizi». Corsivi nostri.

(22) C. Desideri, cit., p. 892.

(23) Ci sia consentito rimandare a S. Magoga, G. Zornitta, cit., pp. 43-110. 506 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

stituzionalizzato nell’art. 118, comma 1, della Costituzione: «La Provincia di Belluno, d’intesa con le autonomie locali, in attuazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e sulla base di appositi ac- cordi, provvede a sua volta a conferire ai Comuni o alle loro forme as- sociative quelle funzioni amministrative che non richiedono l’esercizio unitario a livello provinciale». In questo senso, la Provincia può ulterior- mente differenziare al suo interno le funzioni che le vengono attribui- te dalla Regione, modellandole e parametrandole alle «specificità delle singole comunità che compongono il Veneto»24 e che sono riconosciute in primis proprio dalla Regione. Se, infatti, analizzando – alla luce del- le criticità sopra evidenziate – le singole zone della Provincia di Bellu- no, «ne segue una fotografia d’insieme con diverse tonalità di colore»25, il nuovo Statuto è lungimirante e, almeno nell’ambito delle materie in cui vanno applicate «forme e condizioni particolari di autonomia ammi- nistrativa, regolamentare e finanziaria», in via sostanziale, “chiude il cer- chio” della sussidiarietà, creando le condizioni affinché la Provincia di Belluno, «d’intesa con le autonomie locali [...] e sulla base di appositi ac- cordi», possa essa stessa concretizzare quella specificità (nella specifici- tà!) che la Regione riconosce nel primo comma dell’art. 15.

5. Segue: «...nonché abitato da significative minoranze linguistiche...» Infine, la presenza di «significative minoranze linguistiche» è il terzo ele- mento sul quale l’art. 15, comma 5, fonda la «specificità» della Provincia di Belluno. In effetti, sono numerosi i territori sui quali insistono comu- nità il cui linguaggio – diverso dall’italiano, e preservatosi pressoché in- variato nel corso dei secoli –, rappresenta un vero e proprio elemento identitario, fortemente caratterizzante il legame della popolazione con il territorio. Nelle “terre alte” è radicata la comunità di lingua ladina26; in altre zone della Provincia sono invece presenti comunità germanofo- ne: a Sappada/Plodn si parla un dialetto germanico bavaro-carinziano,

(24) Art. 15, comma 1, l.r. statutaria 17 aprile 2012, n. 1.

(25) S. Magoga, G. Zornitta, cit., p. 54.

(26) Vedi L. Panzeri, I riferimenti alle minoranze linguistiche nel nuovo Statuto del Veneto: luci e ombre, in Le Regioni, 3, 2013, p. 594. OSSERVATORIO REGIONALE 507

mentre in Cansiglio (sul versante bellunese i Comuni di Tambre e Farra d’Alpago) si parla cimbro, varietà arcaica del bavarese. Lo Statuto del Veneto, come altri Statuti regionali27, richiama le «mino- ranze presenti nel proprio territorio»28 già nel capo dedicato ai principi, e ne dispone il riconoscimento e la tutela aderendo, in questo senso, a un consolidato indirizzo legislativo nazionale e regionale che – a par- tire dall’art. 6 Cost. – prevede una valorizzazione delle minoranze lin- guistiche29. Tuttavia, il nuovo Statuto del Veneto, ponendo le minoranze alla base della specificità della Provincia di Belluno e prevedendo il conferimen- to a essa di forme particolari di autonomia proprio in materia di «mino- ranze linguistiche», si spinge oltre e crea le condizioni per «differenziare le misure di tutela, realizzando interventi funzionali non tanto al rico- noscimento sempre e comunque di diritti linguistici in senso stretto [...] quanto, piuttosto, alla valorizzazione di ciascuna minoranza linguistica nella sua dimensione culturale»30.

6. Il conferimento di forme e condizioni particolari di «...autonomia amministrativa, regolamentare…» Come si concretizza il particolare rapporto intercorrente tra Regione del Veneto e Provincia di Belluno? Una delle sfide interpretative del nuo-

(27) A titolo di esempio, si vedano lo Statuto della Campania (l.r. 28 maggio 2009, n. 6) che tra gli obiettivi da perseguire inserisce «la tutela e la valorizzazione [...] delle diversità [...] linguisti- che, nonché di quelle relative ai dialetti locali» (art 8, comma 1, lett. m)) e lo Statuto della Pu- glia (l.r. 12 maggio 2004, n. 7) per cui «la Regione riconosce, tutela e promuove le minoranze linguistiche presenti nel proprio territorio» (articolo 4, comma 1). (28) Art. 2, comma 2, l.r. statutaria 17 aprile 2012, n. 1. (29) A livello nazionale si vedano l. 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche); d.P.R. 2 maggio 2001, n. 345 (Tutela delle minoranze linguistiche sto- riche); l. 19 febbraio 2007, n. 19 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali). A livello regionale vedi l.r. 1° agosto 1974, n. 40 (Tutela del patrimonio storico, linguistico e culturale del Veneto); l.r. 23 dicembre 1983, n. 60 (Provvidenze a favore delle iniziative per la valorizzazione della cultura ladina) con succes- sive modifiche contenute nella l.r. 22 maggio 1984, n. 24; l.r. 23 dicembre 1994, n. 73 (Promo- zione delle minoranze etniche e linguistiche del Veneto); l.r. 13 aprile 2007, n. 8 (Tutela, valoriz- zazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto).

(30) L. Panzeri, cit., pp. 603-604. 508 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

vo art. 15, comma 5 è proprio quello di perimetrare il significato dell’e- spressione «forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa, regolamentare e finanziaria», che ricalca quella già contenuta nell’art. 116, comma 3, Cost. La questione non è meramente semantica. Ci possono essere vari gradi di autonomia31, e un “conferimento di autonomia” generale, complessi- vo, senza ulteriori specificazioni, sarebbe apparso generico, difficilmen- te gestibile e, con ogni probabilità, eccessivamente rigido: il legislatore, in fase di attuazione, sarebbe stato costretto a conferire alla Provincia di Belluno tutta l’autonomia possibile (con l’unico limite delle «esigenze di carattere unitario» di cui al primo periodo del comma), senza la pos- sibilità di adattarla alle esigenze concrete e mutevoli del territorio bel- lunese. Il conferimento di «forme e condizioni particolari di autonomia» appare, al contrario, più flessibile: il grado di autonomia conferita non solo è legato alle specificità del territorio, ma ne è dipendente (ecco il motivo dell’utilizzo dell’aggettivo «particolari»). La Regione, inoltre, deve tenere conto delle capacità di gestione delle forme e condizioni parti- colari di autonomia da parte dell’ente conferitario (cioè la Provincia di Belluno), potendosi in questo senso prevedere un conferimento in più fasi, che possa rispondere – per gradi – non solo alle istanze autonomi- stiche della Provincia, ma anche e in special modo alle concrete moda- lità di amministrazione e di governo degli enti provinciali a ciò deputati. Appare quindi evidente che le «forme e condizioni particolari di auto- nomia amministrativa» non si limitino a coincidere con un (pur massic- cio) conferimento di funzioni, ma attengano a un più generale concetto di autogoverno del territorio, fino a spingersi a prevedere una serie di interventi derogatori rispetto alla normativa regionale32. Infine, le «forme e condizioni particolari di autonomia» regolamentare attengono ovviamente alla disciplina delle «forme e condizioni partico-

(31) In questo senso vedi S. De Fina, voce Autonomia, in Enciclopedia giuridica Treccani. (32) In questo senso si veda la l.r. 8 agosto 2014, n. 25, approvata in attuazione dell’art. 15 del- lo Statuto, che prevede deroghe, rispetto alla complessiva legislazione regionale, in materia di sportello unico (art. 3), di esercizi commerciali (art. 5), di alberghi e di strutture di ospitalità diffuse (art. 6), di aziende agricole (art. 7), di qualificazione energetica degli edifici (art. 9), ol- tre che in materia di regolazione dei costi e dei fabbisogni standard di competenza della Re- gione (art. 10). OSSERVATORIO REGIONALE 509

lari di autonomia amministrativa» conferite dalla Regione. A questo pro- posito, l’art. 19, comma 3 dello Statuto – che ricalca quasi testualmente l’art. 117, comma 6, Cost. – fornisce una indicazione chiarissima («I Co- muni, le Province e le città metropolitane esercitano la potestà regola- mentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimen- to delle funzioni loro attribuite»), e stabilisce inoltre che «l’efficacia del- le norme di regolamento regionale che disciplinano lo svolgimento del- le funzioni conferite agli Enti locali cessa con l’entrata in vigore di au- tonoma regolamentazione da parte degli enti locali stessi». Se è quindi possibile sostenere che gli enti locali esercitano la potestà regolamen- tare relativamente alle funzioni loro attribuite, potendosi ricomprende- re l’esercizio di funzioni nel concetto di «forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa» previsto dall’art. 15, comma 5, si può con- seguentemente sostenere che la Provincia di Belluno esercita la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svol- gimento delle «forme e condizioni particolari di autonomia amministra- tiva» che le vengono conferite dalla Regione.

7. Segue: «…finanziaria…» Più complesso appare definire la portata delle «forme e condizioni par- ticolari di autonomia» finanziaria. L’autonomia finanziaria è disciplinata dall’art. 119, comma 1, Cost., e secondo la dottrina «è la capacità di un Ente autonomo territoriale di provvedere con propri mezzi economici alle proprie necessità attra- verso una potestà di autodeterminazione sia nella scelta dei mezzi fi- nanziari occorrenti per soddisfare i propri fini, sia nell’uso delle risor- se disponibili»33. Appare quindi evidente che è l’autonomia finanziaria ad assicurare agli enti l’esercizio dell’autonomia locale, la quale «sostanzialmente fonda presupposto e garanzie [proprio] nell’autonomia finanziaria. L’indirizzo politico autonomo è reso attuale dall’autodeterminazione degli enti lo- cali in tema di finanza pubblica. In tal senso, si garantisce l’accentuazio- ne della responsabilità dell’ente e dell’autocontrollo, oltre che dell’auto-

(33) P. Bonetti, L’autonomia finanziaria regionale e locale come motore delle autonomie terri- toriali: un’introduzione dall’art. 114 all’art. 119 Cost., in Le Regioni, 5, 2010, p. 1162. 510 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

nomia politica, e si assicura l’attenuazione della rivendicazione corpo- rativa degli Enti locali, nonché della tendenza da parte dello Stato di ri- durre l’autonomia politica»34. Durante la discussione in commissione della bozza di Statuto, infatti, l’attribuzione di «forme e condizioni particolari di autonomia» finan- ziaria è stata giustificata con la necessità di permettere alla Provincia di Belluno, stabilita l’entità dei trasferimenti di risorse e di personale per l’esercizio delle funzioni amministrative conferite, di poter gestire tali risorse senza vincolo di destinazione, decidendo con piena discre- zionalità se investire maggiormente in un ambito piuttosto che in un altro, fatti ovviamente salvi i livelli minimi regionali di efficienza del- le funzioni amministrative di cui all’art. 13 dello Statuto (attuando, in questo modo, la «potestà di autodeterminazione […] nell’uso delle ri- sorse disponibili»). Infine, nell’ambito dell’autonomia finanziaria appare possibile prevede- re, anche tenuto conto del sistema fiscale delle confinanti Province au- tonome di Trento e Bolzano, una compartecipazione della Provincia di Belluno a tributi di natura regionale (addizionali regionali e imposta re- gionale sulle attività produttive).

8. Una «specificità» incostituzionale? Circa il rapporto intercorrente tra la Provincia di Belluno e la Regione del Veneto istituito dall’art. 15, non è mancato chi ha sostenuto – e non sen- za apparente giustificazione – che «sembra lecito nutrire qualche dubbio sulla sua (dell’art. 15, n.d.a.) compatibilità con il dettato dell’articolo 114, comma 2, della Costituzione, secondo il quale tutti gli Enti autonomi ter- ritoriali godono di “poteri e funzioni secondo i principi dettati dalla Costi- tuzione” [...]. Vero è che si potrebbe optare per una interpretazione alter- nativa, che non induca a leggere [...] l’attribuzione alla Provincia di Bel- luno di uno status giuridico particolare, esclusivo, ma allora sarebbe dif- ficile sfuggire ad una diversa obiezione, diretta a rimarcare la superfluità della disposizione, visto che la specificità del territorio e della comunità

(34) A. Amatucci, voce Autonomia finanziaria e tributaria, in Enciclopedia giuridica Trecca- ni, p. 3. Vedi anche G. Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, Cedam, 2012, in particolare pp. 621-624. OSSERVATORIO REGIONALE 511

della Provincia di Belluno potrebbero essere adeguatamente riconosciute e garantite dalle previsioni generali e astratte»35. Per confutare l’obiezione di incostituzionalità e, in subordine, quella di superfluità dell’art. 15, è opportuno sottolineare nuovamente che l’arti- colo in esame attribuisce autonomia alla Provincia di Belluno, «in consi- derazione della specificità del suo territorio» – il quale (diversamente da tutti gli altri territori della Regione) è «transfrontaliero e interamente mon- tano, nonché abitato da significative minoranze linguistiche», – «in parti- colare in materia di politiche transfrontaliere, minoranze linguistiche, go- verno del territorio, risorse idriche ed energetiche, viabilità e trasporti, sostegno e promozione delle attività economiche, agricoltura e turismo». Conseguentemente, il legislatore regionale prende atto della «specificità» del territorio bellunese, ne pone a giustificazione tre elementi (il territo- rio transfrontaliero, interamente montano e abitato da minoranze lingui- stiche), e quindi attribuisce all’ente provinciale, in quanto interamente in- sistente sul territorio riconosciuto specifico, «forme e condizioni» di au- tonomia che sono «particolari» proprio per rispondere alla specificità del territorio. Non avviene invece il contrario, come pare leggersi nella cita- zione di cui sopra: la «specificità» del territorio di Belluno non deriva dal conferimento di forme e condizioni particolari di autonomia, ma il con- ferimento è giustificato (anche) dalla «specificità» di cui si tratta. Conse- guentemente, la Regione non istituisce un ente con uno «status giuridico particolare, esclusivo»36. Inoltre, va ulteriormente chiarito che l’intervento regionale ex art. 15, comma 5 potrà concretizzarsi nelle sole materie di competenza regiona- le (concorrente o residuale ex art. 117, comma 3 e 4, Costituzione), sen- za quindi confliggere con l’art. 117, comma 2, lett.p), della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la legislazione in mate- ria di «organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane». Ancora, «il legislatore ricorre all’enunciazione esplicita di un principio so-

(35) P. Cavaleri, Spigolature sui lavori preparatori del nuovo Statuto veneto, in Aa.Vv., Alle frontie- re del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 458-459. (36) Ibidem, p. 459. 512 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

lo quando non sa tradurlo in norme operative»37. Indicare quindi le mate- rie nelle quali la Regione, «con legge», «conferisce […] forme e condizio- ni particolari di autonomia», equivale a differenziare Belluno in maniera del tutto peculiare rispetto agli altri Enti locali: non è escluso che anche le altre Province del Veneto, in attuazione del primo e del secondo com- ma dell’art. 1538, possano ottenere, in futuro, lo stesso grado di autonomia della Provincia di Belluno, o addirittura un grado maggiore, seppur con una qualche forzatura legata al fatto che il secondo comma parla di «par- ticolari competenze amministrative», mentre le «forme e condizioni par- ticolari di autonomia» previste dal quinto comma presentano una natura più ampia e articolata. Tuttavia l’autonomia di Belluno, pur non essendo diversa per qualità o per natura giuridica rispetto a quella (per ora me- ramente potenziale) delle altre Province, è l’unica ad avere la sua ratio non solo nel principio di sussidiarietà ma nella «specificità del […] terri- torio transfrontaliero e interamente montano, nonché abitato da signifi- cative minoranze linguistiche», caratteristiche che, nel panorama veneto, sono unicamente riferibili alla Provincia di Belluno e che – come si è ar- gomentato – sono poste a fondamento della sua «specificità». Complessi- vamente, quindi, «l’originalità della scelta riguardante la Provincia di Bel- luno consiste nell’aver progettato una differenza di specie tra Enti locali appartenenti alla medesima categoria, coglibile sulla base dell’intensità e dell’estensione dei poteri, nonché delle funzioni attribuite alla Provincia di Belluno, senza che si sia consumato un cambiamento di status giuridi- co dell’ente provinciale, in elusione del dettato costituzionale»39.

(37) R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2-3, 2002, p. 367. (38) «La Regione riconosce le specificità delle singole comunità che compongono il Veneto. Ferma la salvaguardia delle esigenze di carattere unitario della Regione, la legge regionale può conferire, previe apposite intese, particolari competenze amministrative a Province o ad Enti lo- cali associati, trasferendo contestualmente le risorse necessarie per l’esercizio di tali funzioni».

(39) Così S. Piazza, La montagna veneta come area differenziata, da Statuto a Statuto. Intorno all’evoluzione legislativa regionale e statutaria per il territorio montano, in F. Agostini (a cura di), La Regione del Veneto a quarant’anni dalla sua istituzione. Storia, politica, diritto, Milano, Fran- co Angeli, 2013, p. 271. Si veda anche M. Mattiuzzi, Art. 15 – Specificità delle singole comunità, dei territori montani e della Provincia di Belluno (commento), in L. Benvenuti, G. Piperata, L. Van- delli (a cura di), Commento allo Statuto della Regione del Veneto, Venezia, Cafoscarina, 2012, p. 127: «L’originalità della scelta sta nell’aver creato le condizioni per attuare una differenza di specie OSSERVATORIO REGIONALE 513

Infine, anticipando quanto verrà sostenuto infra, nel par. 11, a sostegno della tesi per la quale il nuovo Statuto non crea un Ente territoriale con uno status giuridico differente, va registrata la circostanza che, nel ca- so in cui vengano abolite le Province, in ogni caso «in Veneto restereb- be operante il […] vincolo statutario»40 relativo alla specificità del territo- rio bellunese, dovendosi quindi procedere comunque a un conferimen- to delle forme e condizioni particolari di autonomia. Se il dato letterale della norma evidenzia che – allo stato – il soggetto conferitario dell’au- tonomia sia la «Provincia di Belluno», è anche vero che il concetto di specificità è legato al territorio e non all’ente: da una parte, quindi, ve- nendo meno l’ente non viene meno la specificità, e dall’altra non può esservi incostituzionalità laddove la Regione riconosce la specificità di un territorio (conferendo all’ente che insiste su tale territorio forme par- ticolari di autonomia) senza per questo “inventare” un nuovo Ente ter- ritoriale, o una “super-Provincia”.

9. Le Province, oggi La novella introdotta dalla legge 7 aprile 2014, n. 56 fa sorgere, oltre a una generalissima considerazione sulle nuove potenzialità autonomisti- che che la Provincia di Belluno potrebbe sfruttare (prevedendo il testo della legge – almeno in via teorica – la possibilità di un conferimento di autonomia ancora più ampio rispetto a quello previsto dall’art. 1541), anche due interrogativi, tra loro alternativi, a cui si cercherà di dare ri- sposta nei paragrafi seguenti: come possono conciliarsi le conferende «forme e condizioni particolari di autonomia» con un ente di secondo

tra enti locali; il che significa che la differenziazione realizzabile tra un singolo ente territoriale e gli altri appartenenti alla medesima categoria si coglie sul piano dell’intensità e dell’ampiezza dei poteri e delle funzioni costituzionalmente garantiti, senza che sia ravvisabile alcun intervento ri- volto a mutare lo status giuridico di un singolo Ente locale in elusione del dettato costituzionale». (40) Relazione accompagnatoria al progetto di legge n. 370/nona legislatura, p. 1. (41) In particolare, la citata legge riconosce le «Province con territorio interamente montano e confinanti con Paesi stranieri» (art. 1, comma 3; concretamente, il riferimento è alle sole Pro- vince di Belluno e di Sondrio), e ad esse attribuisce, oltre alle funzioni fondamentali previste dall’art. 1, commi 85 (Comuni a tutte le Province) e 86 (specifiche per le sole Province monta- ne e confinanti con Paesi stranieri), anche la possibilità di vedersi riconoscere «forme partico- lari di autonomia nelle materie di cui al[l]’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzio- ne» (art. 1, comma 52). 514 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

grado, in cui il popolo non è più chiamato a designare, tramite elezioni dirette, i propri rappresentanti? In secondo luogo: come possono conci- liarsi le conferende «forme e condizioni particolari di autonomia» con la riforma del Titolo V della Costituzione, volta a eliminare completamen- te le Province dal panorama istituzionale italiano?

10. La Provincia di Belluno come ente di secondo grado Se ormai è opinione comune, in dottrina e giurisprudenza, che un prov- vedimento volto alla sostanziale eliminazione delle Province debba ave- re natura di legge costituzionale42, è altrettanto pacifico che un interven- to sui loro organi di governo (e sulle modalità della loro elezione) sia legittimo in via ordinaria43. Proprio in questo senso ha operato la legge 7 aprile 2014, n. 56, che però – lungi dal contenere una riforma organica e meditata del sistema degli Enti locali – sembra inserirsi nel solco del- le «innovazioni legislative disorganiche […] legate per lo più ad obietti- vi di contenimento dei costi pubblici, [e] che appaiono a vario titolo di stampo centralistico o fortemente contraddittorio rispetto alle esigenze di effettiva responsabilizzazione delle autonomie regionali e locali»44. È evidente che il testo della nuova legge sacrifichi la rappresentatività negli enti locali sull’altare dei costi della politica. In questa sede non si vuole entrare nel merito della riflessione, né ridimensionare l’indubbia necessità di prevedere una riforma complessiva del sistema istituzionale

(42) Vedi Corte cost., sent. n. 220/2013.

(43) Contra, solo S. Civitarese Matteucci, La garanzia costituzionale della Provincia in Italia e le prospettive della sua trasformazione, in questa Rivista, 3, 2011, p. 481.

(44) G.C. De Martin, Le Province: istituzioni costitutive della repubblica essenziali per la nuova amministrazione locale, in F. Agostini (a cura di), Le amministrazioni provinciali in Italia, Mi- lano, Franco Angeli, 2011, p. 263. Sulle tendenze “neocentralistiche”, evidenti soprattutto nelle azioni dei governi della XVI e XVII legislatura, aventi l’obiettivo di risolvere la crisi anche at- traverso un «processo di centralizzazione dei sistemi amministrativi» [così F. Di Mascio, A. Na- talini, La riduzione della spesa pubblica e la riforma amministrativa, in G. Napolitano (a cu- ra di), Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 370], vedi L. Vandelli, Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epo- ca della crisi, in Le Regioni, 5-6, 2012, in particolare pp. 856-864; G. Vesperini, Le nuove Provin- ce, in Giornale di diritto amministrativo, 3, 2012; sulla «derubricazione della democrazia locale ad una questione meramente economicistica», vedi L. Castelli, Sulla diretta elettività degli orga- ni rappresentativi della Provincia, in Aa.Vv., Le autonomie in cammino: scritti dedicati a Gian Candido De Martin, Padova, Cedam, 2012 (la citazione è tratta da p. 16). OSSERVATORIO REGIONALE 515

italiano45; tuttavia, per quanto qui di interesse, se dal punto di vista tec- nico-giuridico è senz’altro concepibile una Provincia di Belluno (“auto- nomizzata” con leggi in applicazione dell’art. 15 dello Statuto e dell’art. 1, comma 52, legge 7 aprile 2014, n. 56) come ente di secondo grado, dal punto di vista politico-rappresentativo è altrettanto possibile – e an- zi doveroso – sollevare fondate e incisive perplessità sulle disposizioni della legge che vogliono trasformare (tutte) le Province in enti di secon- do grado. È evidente che, ora che gli organi di governo dell’ente-Pro- vincia sono scelti dai Comuni – e tra i Sindaci e i consiglieri dei Comu- ni –, è più complesso per la Provincia esercitare funzioni amministrati- ve che abbiano le caratteristiche della discrezionalità e dell’imperatività. «La Provincia si trova a svolgere le proprie funzioni su base consensuale e collaborativa, non avendo l’autorità di compiere scelte politiche auto- nome rispetto all’indirizzo concordato dai Comuni rappresentati [...]. Lo stesso apparato amministrativo deve essere collegato ad un responsabi- le politico, e questo non può stare che o in capo ai Comuni o in capo alla Regione, cioè agli unici enti politici residui»46. È evidente che questa prospettiva confligge con la ratio che ha spinto il legislatore statutario veneto, per rispondere alle istanze autonomistiche provenienti dal ter- ritorio, a prevedere il conferimento di forme e condizioni particolari di autonomia alla Provincia di Belluno. Sia sufficiente un esempio: come potrà la “nuova” Provincia di Belluno esercitare le funzioni in materia di pianificazione del territorio attribu- itele dalla l.r. 23 aprile 2004, che all’art. 14, comma 4, prevede che sia «la Giunta provinciale [ad] approva[re] il piano (di assetto del territorio, nda)» di ciascun Comune? Ancora: come sarà possibile – alla luce dei problemi analizzati supra – per i rappresentanti dei Comuni bellunesi, prima direttamente eletti nei Consigli comunali per soddisfare le esigenze di ciascun Comune, e poi indirettamente eletti negli organi provinciali, attendere alle funzioni e alle forme di autonomia conferende alla Provincia di Belluno, che per

(45) Tuttavia, sia consentito rimandare al condivisibilissimo scritto di R. Bin, Ricchi solo di idee sbagliate: i costi dell’antipolitica, in Le Regioni, 3, 2012.

(46) R. Bin, Il nodo delle Province, in Le Regioni, 5-6, 2012, p. 906. 516 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

loro stessa natura hanno una vocazione “di area vasta”, ultracomunale? Prevedere – attraverso una modifica della legge 7 aprile 2014, n. 56 – la diretta elettività degli organi (Presidente e Consiglio) della Provin- cia di Belluno non appare quindi una rivendicazione di privilegi o un anacronistico arroccamento: è semplicemente vitale affinché l’autono- mia prevista dall’art. 15 dello Statuto e dalla stessa legge 7 aprile 2014, n. 56, non rimanga lettera morta o – nel migliore dei casi – parzialmen- te attuata.

11. La «specificità» di un territorio provinciale senza Provincia Le bozze di riforma del Titolo V della Costituzione che sono attualmen- te in fase di studio prevedono tutte l’abolizione, dal testo costituzionale, dell’ente-Provincia, tramite una riformulazione dell’art. 114, comma 147. Come si è accennato48, la problematica non è sconosciuta al legislato- re regionale, che nel progetto di legge n. 370/Nona legislatura (da cui la l.r. 8 agosto 2014, n. 25) ha sottolineato come sia «appena il caso di osservare che se anche si dovesse arrivare alla “decostituzionalizzazio- ne” delle Province, in Veneto resterebbe operante il suddetto vincolo statutario»49. In sostanza, avendo riconosciuto la Regione, grazie all’art. 15, la specificità del territorio bellunese (che attualmente corrisponde al territorio su cui insiste la Provincia di Belluno), venendo meno l’ente di riferimento (la Provincia) non verrebbero però meno i presupposti che hanno portato il legislatore a prevedere nei confronti di esso il conferi- mento di forme e condizioni particolari di autonomia in considerazione della specificità del suo territorio. La Regione potrebbe quindi percorrere più strade, almeno in via teorica: conferire le forme e condizioni particolari di autonomia ai Comuni o al- le loro forme associative (d’altra parte è lo stesso art. 15, comma 5, a pre- vedere che la Provincia di Belluno, «d’intesa con le autonomie locali, in attuazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e

(47) Sul fatto che l’abolizione delle Province confligga con il principio supremo espresso nell’art. 5 della Costituzione si veda M. Malo, Il destino delle Province, in F. Agostini (a cura di), Le amministrazioni provinciali in Italia, Milano, FrancoAngeli, 2011, in particolare pp. 282-285. (48) Vedi supra, par. 8. (49) Relazione accompagnatoria al progetto di legge n. 370/Nona legislatura, p. 1. OSSERVATORIO REGIONALE 517

sulla base di appositi accordi, provvede a sua volta a conferire ai Comu- ni o alle loro forme associative quelle funzioni amministrative che non ri- chiedono l’esercizio unitario a livello provinciale», delineando già, quin- di, un sistema flessibile, che valorizza gli enti minori quali i Comuni e le loro forme associative); potrebbe istituire un ente intermedio – una sorta di maxi-comunità montana – che sostituisca la Provincia nelle previsioni dell’art. 15 (certo si ripresenterebbe il problema, analizzato nel preceden- te paragrafo, della diretta espressione popolare o meno di tale ente); in- fine, potrebbero essere gli stessi Comuni del bellunese ad attivare mec- canismi per attuare le previsioni dell’art. 15, comma 450, oppure a creare una Unione di Comuni che – anche qui – possa sostituirsi all’abolita Pro- vincia di Belluno nei conferimenti di cui all’art. 15, comma 5.

12. Conclusioni Alla fine del percorso volto a ricostruire le peculiarità del rapporto tra Regione del Veneto e Provincia di Belluno a seguito dell’approvazione del nuovo Statuto regionale, non si può cadere nell’errore di considerare quest’ultimo come il punto di arrivo di un percorso (il futuro della Pro- vincia di Belluno) che ha origini antiche e che negli ultimi anni ha tra- valicato i confini della politica, finendo per coinvolgere ampi strati della popolazione e per essere caratterizzato, come si è visto, da istanze pre- valentemente metagiuridiche51. Né poteva essere diversamente se si pone alla base di questo dibattito la realtà complessiva del bellunese, stretta in una morsa fra due Province a Statuto speciale a ovest (Trento e Bolzano) e una Regione a Statuto speciale a est (Friuli-Venezia Giulia), con tutto quello che ciò significa in termini – per esempio – di disparità economica. Nel mezzo di una stagione di significativi cambiamenti istituzionali, che ha portato con sé una generale incertezza dovuta anche all’incapacità del legislatore statale di definire con chiarezza il ruolo e le funzioni de-

(50) «[...] la Regione conferisce, con legge, forme e condizioni particolari di autonomia ammi- nistrativa e finanziaria agli enti locali, singoli o associati, che ne facciano richiesta, il cui territo- rio sia in tutto o in parte montano». (51) Si pensi, a mero titolo di esempio, ai referendum per cambiare Regione. Per un approfon- dimento, sia consentito rimandare supra, parr. 3 e 4. 518 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

gli Enti locali nell’architettura istituzionale dello Stato52, l’intervento del- la Regione del Veneto in materia di autonomia e di «specificità» degli enti locali indica qual è la strada da percorrere per attuare le numerose enunciazioni di principio contenute nello stesso Statuto del Veneto e, in definitiva, per attuare in maniera piena gli artt. 5 e 118 Cost. Tuttavia, percorrere la strada indicata nell’art. 15 non sarà semplice per due motivi. In primo luogo, come si è ampiamente argomentato, l’art. 15 non è un articolo ad applicazione diretta, ma deve essere attuato «con legge». Le modalità con cui questa attuazione può concretizzarsi sono molteplici (la citata l.r. 25/2014 è solo un primo passo), e tutte devono superare le forche caudine del particolarismo, ancora così diffuso a livello regio- nale, nelle due varianti degli interessi di parte di cui sono espressione i singoli partiti politici e degli interessi di parte di cui sono espressione i politici di ogni singolo territorio che compone la Regione53. Inoltre, la Regione deve prendere coscienza che un’“autonomia a costo zero” non è ciò di cui ha bisogno il bellunese e non è ciò che avevano in mente i legislatori statutari quando hanno formulato il testo dell’art. 15. Il secondo motivo è di carattere istituzionale: l’incertezza riguardante le funzioni degli Enti locali, la volontà di abolire l’ente-Provincia e, più in generale, la rinnovata enfasi con cui il governo presieduto da Mat- teo Renzi ha deciso di discutere la riforma istituzionale dello Stato non garantiscono la serenità richiesta per affrontare, in maniera efficace, il conferimento di funzioni (e, più in generale, di autonomia) alla Provin- cia di Belluno. Tuttavia, a giudizio di chi scrive, né le difficoltà espressioni del partico- larismo regionale, né la riforma dell’ente di “area vasta”, comunque lo

(52) Cfr. P.M. Vipiana Perpetua, Osservazioni sul cosiddetto federalismo amministrativo nella sua evoluzione e nei suoi sviluppi, in questa Rivista, 2, 2011; C. Tubertini, La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello?, in questa Rivista, 3, 2012, pp. 724-725. (53) Il riconoscimento espresso della specificità di Belluno è stato “temperato” non solo dal riconoscimento delle «specificità delle singole comunità che compongono il Veneto» (art. 15, comma 1, l.r. statutaria 17 aprile 2012, n. 1), ma anche dall’inserimento di un comma (il terzo) che prevede che la Regione rivolga «un’attenzione particolare alle zone rurali, alle isole lagu- nari, alle aree deltizie, alle zone interessate da transizione industriale e a quelle che presenta- no gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici» (art. 15, comma 3, l.r. statutaria 17 apri- le 2012, n. 1). OSSERVATORIO REGIONALE 519

si chiami, potranno fermare il processo che, giuridicamente inaugurato dal legislatore statutario veneto nel 2012 con l’approvazione del nuovo Statuto (ma le cui radici risalgono a ben prima del 2012), ha fatto pro- prie le sempre maggiori rivendicazioni di autonomia e di autogoverno da parte della popolazione bellunese. A ben vedere, il legislatore regionale dovrà effettuare una sorta di re- ductio ad unum delle innumerevoli esigenze di un territorio così plu- rale e multiforme come la Provincia di Belluno. Esigenze che, da una parte, prevedibilmente porteranno altri territori “specifici” della Regione del Veneto a chiedere il riconoscimento di maggiori forme di autono- mia, e dall’altro confliggeranno con le esigenze della Regione – uguali e contrarie rispetto a quelle del bellunese – a mantenere nella sua orbi- ta proprio l’esercizio delle funzioni oggetto di conferimento. In ogni caso, l’attuazione dell’art. 15 può diventare non solo la rispo- sta alle sempre maggiori difficoltà che caratterizzano un territorio spe- cifico come quello bellunese, ma anche un modello di buona ammini- strazione da esportare in altre parti d’Italia, laddove le condizioni terri- toriali, sociali ed economiche consentano, a seguito di un dibattito po- litico e giuridico approfondito e consapevole, un conferimento organi- co (non impreciso o confusionale) di funzioni di amministrazione attiva dalla Regione (che vede quindi valorizzare le sue funzioni legislative e programmatorie) alle Province e ai Comuni. Infine, è pure evidente che la strumentazione giuridica offerta dall’art. 15 dello Statuto sia qualcosa di molto complesso da gestire. E questa considerazione non è un atto di sfiducia nella classe politica bellunese, bensì un punto di partenza da cui la popolazione bellunese deve (ri) partire per far diventare il territorio della Provincia un’eccellenza nel tu- rismo, nell’economia, nella salvaguardia dell’ambiente, nello sviluppo sostenibile, una cerniera tra culture e sensibilità differenti.

TABLE OF CONTENTS AND ABSTRACTS

Essays and Articles

The legislative process for Municipality mergers according to region- al laws (p. 313) Rita Filippini, Alessandra Maglieri The institute of municipality mergers is experiencing a phase of particu- lar importance. In recent years, many Italian Municipalities have under- taken merger procedures; Regions, which the Constitution expressly iden- tifies having jurisdiction in the matter, are developing appropriate norms regulating the legislative process for such mergers. Regions, in particular, have jurisdiction over the enactment of regional laws involving: the gen- eral normative framework for individual merger laws; territorial consul- tative referendums; organization and regulation of individual mergers. The article describes the framework of the 61 mergers that have already occurred in Italy, cites the relevant national laws and explains the general legislative process for mergers by examining regional legislation and high- lighting the specific measures that Regions have adopted.

A new tool for rescaling Spain’s municipal structure: Municipality merger agreements (p. 331) Marcos Almeida Cerreda This article deals with the institution of Municipality merger agreements (convenios de fusión de municipios), which was recently introduced in- to Spanish law. Specific focuses include the institution’s nature, require- ments, effects and enactment procedure. The analysis aims to highlight the main problems posed by regulating this institution, in terms of au- tonomy, democracy and effective local government, with the ultimate aim to propose a set of solutions to address them.

Inter-municipal structures in Argentina: origins, balance and recom- mendations (p. 357) Enzo Ricardo Completa As a consequence of the decentralization process undertaken in Argentina during the past few decades, municipal administrations have begun to de- 522 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

velop innovative practices aimed at fostering or acquiring new managerial abilities that would allow them to address a wider agenda. Since the prob- lem-solving demands of this new agenda exceed, in most cases, the territori- al boundaries and the specific abilities of local governments, inter-munici- pal cooperation and collaboration have emerged as an alternative for deal- ing with these problems. This article analyzes the institutional strengths and weaknesses of local governments in Argentina as concerns management of programmes and projects at the inter-municipal level, focusing the analysis on the creation and development process of micro-regions and public con- sortia. In light of these developments, further thoughts are developed regard- ing constraints and lack of institutional ability that negatively influence or prevent the execution of inter-municipal programmes in Spain. Finally, the article identifies criteria developing strategies for the institutional reinforce- ment of inter-municipal management.

Metropolitan Cities in Spanish Law: current models and the impact of the economic crisis (p. 381) Francisco Toscano Gil This essay analyzes the Metropolitan City institution in Spanish law. First- ly, it underlines the progressive decline of “strong” metropolitan government arrangements and the need to identify more flexible alternatives. The fail- ure of so-called “metropolitan areas”, as a local authority (article 43 LBRL), can be addressed by using other legal techniques, not initially designed for this purpose, that are proving themselves useful and effective. The most im- portant of these alternative approaches include territorial planning, in- ter-municipal associations and local consortia. Finally, the author discuss- es the impact of the economic crisis on Spanish metropolitan cities.

The economic and financial crisis and Germany’s multi-level system. Critical remarks on the policy of austerity (p. 423) Alexander Grasse The article deals with recent developments in Germany’s multi-level fis- cal policies and focuses on the consequences of austerity policies at the table of contents and abstracts 523

regional and local level. Whereas the federal reform of 2006 was sup- posed to enhance regional autonomy, in reality, austerity measures (enforced by the so-called debt brake adopted into the Constitution in 2009) are noticeably restricting policy-making capacity for both Länder and Municipalities. Indeed, public investment rates in Germa- ny have not only been lagging behind EU and OECD averages for ma- ny years now, but since 2003, public investment rates are no longer sufficient to stop the deterioration of Germany’s infrastructure. Such infrastructure is fundamental for Germany’s economic success and its social market economy as a whole, due to its large multiplier effect on domestic demand and private-sector production capacity. Finally, austerity policies cause a growing number of inter-territorial conflicts which remain unresolved.

Notes and Comments

Municipalities merger and incorporation according to Constitutional Court’s sentence no. 50/2015 (p. 447) Cosimo Tommasi The process of merger by incorporation, which was introduced by Clause 130 of Law No. 56 of 2014, qualifies as a potentially important tool for the reorganization of municipal areas in terms of dimension- al, organizational and functional adequacy. However, the impact that the institution will be able to produce on the reorganization of mu- nicipalities as a whole appears negatively affected by the strong iden- tity-based resistance and by the interpretation that the Constitutional Court. With its sentence No. 50 of 2015, the Court states that the na- tional government has exclusive legislative jurisdiction over merger by incorporation, thus reducing differentiation opportunities at the re- gional level and creating an unjustified distinction between “tradi- tional” and incorporation mergers. 524 ISTITUZIONI DEL FEDERALISMO 2.2015

Towards a presidential model? Appointed officers and decision-mak- ing power in the new regional executive bodies (p. 461) Brunetta Baldi This article analyzes the new executive bodies which were appointed in Italian ordinary charter Regions after the 2013-2015 elections, in or- der to understand whether the critical state of public finance has led to a reduction in the appointment of external officers, who cost more than those chosen among members of regional parliaments. Moreover, the ar- ticle investigates the relationship between directly elected presidents and appointed officers in order to assess how decision-making power is ac- tually divided within the regional executive body officers. On the basis of empirical data, a typology is developed which detects a strengthened decision-making role of presidents, shifting the form of regional govern- ment toward a more fully presidential model.

Regional Observatory

Municipality mergers in the Emilia-Romagna Region: estimating ben- efits via data analysis of balance sheets and staff censuses in 2013 (p. 477) Stefano Ramazza

The specificity of the Province of Belluno and its relations with the Veneto Region: brief remarks on article 15 of the new regional Char- ter (p. 497) Luca Dell’Osta NOTE SUGLI AUTORI

Marcos Almeida Cerreda Alexander Grasse Profesor contratado Doctor de Professore ordinario di Scien- Derecho Administrativo, Univer- za Politica, Università di Giessen sidad de Santiago de Compostela (Germania) (Spagna)

Alessandra Maglieri Brunetta Baldi Dottore di ricerca nell’Universi- Professore associato di Scienza tà di Bologna e Funzionario del politica, Università degli studi di Servizio Affari istituzionali e del- Bologna le autonomie locali della Regione Emilia-Romagna

Enzo Ricardo Completa Docente e investigador de la Fa- Stefano Ramazza cultad de Ciencias Políticas y So- Funzionario del Servizio Affari isti- ciales de la UNCuyo (Argentina) tuzionali e delle autonomie locali della Regione Emilia-Romagna

Luca Dell’Osta Dottore in giurisprudenza, Spe- Cosimo Tommasi cializzando in studi amministrativi Dottore in Giurisprudenza, Uni- (Spisa, Università di Bologna) versità degli studi di Ferrara

Rita Filippini Francisco Toscano Gil Responsabile del Servizio Affari Profesor contratado Doctor de De- istituzionali e delle autonomie lo- recho Administrativo, Universidad cali della Regione Emilia-Romagna Pablo de Olavide (Spagna) Criteri editoriali

Istituzioni del Federalismo pubblica vità dell’apporto scientifico; fondatezza contributi scientifici sulle autonomie delle argomentazioni a sostegno della territoriali, espressione di diverse aree tesi; correttezza/completezza delle fonti disciplinari, con una naturale preferen- e della bibliografia. za per l’ambito giuridico e politico. IdF La Rivista si divide in varie Sezioni, ar- accetta solo contributi originali inediti. ticolate in Saggi e articoli, Note e com- In base a specifici accordi con l’Auto- menti, Osservatorio regionale, Letture e re e in casi particolari potranno esse- segnalazioni. re pubblicati anche lavori già editi o in Saggi e articoli. La parte prevalente del- corso di pubblicazione in altra sede, la Rivista è dedicata alla pubblicazio- fatto salvo apposito richiamo in nota ne di saggi e articoli che pervengono da parte dell’Autore. Si accettano con- spontaneamente alla Rivista oppure tributi redatti su file di testo in italiano, vengono commissionati ad hoc ad Au- inglese, spagnolo, francese, che verran- tori individuati dal Comitato scientifico. no pubblicati in lingua originale. Una Questi contributi hanno una dimensio- volta accettato, il lavoro è coperto dal ne orientativa compresa tra le 20.000 e copyright della Rivista e non può essere le 70.000 battute, note a piè di pagina e riprodotto senza autorizzazione. spazi inclusi, e devono essere corredati Criteri di revisione. Tutti i contributi da da un abstract. pubblicare sono sottoposti ad una dop- Note e commenti. In questa sezione pia revisione effettuata direttamente dai vengono pubblicati contributi più bre- componenti del Comitato Scientifico op- vi, commenti a fonti normative, note a pure affidata a esperti esterni individua- sentenza. Ai fini della pubblicazione i ti dallo stesso Comitato Scientifico, che contributi, di dimensione di norma non resta comunque l’organo competente a eccedente le 40.000 battute, vengono decidere in via definitiva sulla pubblica- valutati secondo un criterio di attualità zione o meno di un articolo. La revisio- del tema trattato e di attinenza agli ar- ne è effettuata attraverso il metodo del gomenti di interesse della Rivista. referaggio anonimo a “doppio cieco” Osservatorio regionale. La sezione è (che esclude la conoscenza reciproca tra dedicata a rassegne di giurisprudenza, Autore e referees) al termine del quale legislazione regionale, analisi di buone viene comunicato all’Autore l’esito del- prassi territoriali, notizie provenien- la valutazione. Per i contributi redatti da ti dalla Unione europea e altre notizie Autori individuati dal Comitato scienti- tratte dai materiali pubblicati on-line sul fico almeno uno dei due referaggi sarà sito della Regione Emilia-Romagna e sul comunque anonimo. I principali criteri sito della Rivista. per la selezione dei contributi sono: ri- Letture e segnalazioni. In questa sezio- gore e coerenza metodologica; struttura ne si pubblicano recensioni a lavori mo- e impianto dell’articolo; originalità e no- nografici e segnalazioni bibliogra­fiche.