Cinquecento Testi E Studi Di Letteratura Italiana Studi
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Cinquecento Testi e Studi di letteratura italiana Studi – 46 (n.s. 10) Cinquecento plurale Dipartimento Gruppo di ricerca di Scienze dei Beni Culturali interuniversitario Università della Tuscia Cinquecento - Testi e Studi di Letteratura italiana Comitato scientifico Lina Bolzoni Iain Fenlon Giorgio Inglese Mario Pozzi Paolo Procaccioli (coord.) Brian Richardson DOMENICO CHIODO PIÙ CHE LE STELLE IN CIELO POETI NELL’ITALIA DEL CINQUECENTO VECCHIARELLI EDITORE Il volume è pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino © Vecchiarelli Editore Srl – 2013 Piazza dell’Olmo, 27 00066 Manziana (Roma) Tel. 06.99674591 Fax 06.99674591 [email protected] www.vecchiarellieditore.com ISBN 978-88-8247-349-5 INDICE Premessa p. 7 I. Più che le stelle in cielo p. 9 II. Notti d’amore p. 18 III. Un fecondo disordine: le Rime di Antonio Mezzabarba p. 28 IV. Un’ordinata fecondità: le Rime di Bernardo Cappello p. 42 V. Un petrarchismo negletto. L’arengo politico nella lirica cinquecentesca p. 51 VI. “E viva amore e muoia soldo”. Il magistero molziano alla corte di Ippolito de’ Medici p. 63 VII. Tre baci dietro ad un olmo. Il mistero delle Rime di frate Remigio p. 71 VIII. Occasioni poetiche alle corti farnesiane p. 104 IX. Di alcune curiose chiose alle Rime di Gandolfo Porrino custodite nel Fondo Cian p. 121 X. Dalla provincia la Repubblica delle Lettere: le Rime di Petronio Barbati p. 138 XI. Benedetto Varchi rimatore: i modi della poesia di corrispondenza p. 150 5 XII. La musa in livrea: le Rime di Luca Contile p. 165 XIII. La retorica del dolore nei Sonetti in morte di Porzia Capece p. 175 Regesto bibliografico p. 189 Indice dei nomi p. 197 PREMESSA Dei capitoli che compongono la presente opera sono inediti i primi du- e, il quarto, il sesto e l’ottavo; tutti quelli già editi sono stati rivisti per l’occasione e, quale più quale meno, in parte riscritti, soprattutto nell’intenzione di evitare ripetizioni e doppioni. Alcuni di essi erano in origine introduzioni alle edizioni degli autori presi in esame, altri sono stati concepiti come contributi in occasioni seminariali o di convegno, e di questi ho inteso mantenere l’aspetto di comunicazioni orali con cui sono stati in principio formulati. Per ciascuno di essi ho fornito i rag- guagli sulla loro prima lettura e sulle precedenti pubblicazioni in nota all’inizio di capitolo. Quando l’opera era già in bozze ho ricevuto il volume di scritti offerti a Vanni Bramanti (per il quale vedi qui la nota a p. 138), molti contributi del quale meriterebbero almeno una segnalazione come integrazione bibliogra- fica: valga per tutti questa annotazione non essendo più possibile interveni- re nel dettaglio. 7 I PIÙ CHE LE STELLE IN CIELO Quando Francesco De Sanctis intese opporre al modello della storio- grafia erudita, che aveva avuto nella Storia del Tiraboschi il suo esito finale, il proprio modello storiografico idealistico, il nome di Pietro Bembo venne impiegato a riassumere icasticamente l’intera esperienza lirica cinquecentesca come campione della proposta petrarchista, nella quale, per comodità e convenzione, si prese a identificare la produzio- ne lirica di un intero secolo, la quale fu invece, quant’altre mai, variega- ta e assai dissimile nelle attitudini e nelle pratiche. L’opzione critica del petrarchismo parve allora poter esaurire ogni discorso sulla lirica cin- quecentesca, finendo per conferire a quella esperienza un’immagine cui vennero progressivamente attribuiti connotati sempre più negativi fino a farne l’emblema di una pratica letteraria puramente imitativa e vacuamente monocorde, alla quale la modernità volle contrapporre, principalmente valendosi della rivisitazione parodica del bembiano Crespe d’oro fin, il modello bernesco come contraltare poetico impronta- to a una spontanea vivacità e a una freschezza inventiva che si vorreb- bero ignote alla lirica classicista. Condannato in toto il petrarchismo, la sola via di fuga a tale condanna divenne quella di recuperarne delle sezioni attraverso escamotages aggettivali: il petrarchismo meridionale e il petrarchismo femminile per decenni hanno imperversato nella ma- nualistica come zone franche dalla generale riprensione che toccava, fatta salva anche la gravità casiana, l’intera produzione lirica cinque- centesca, almeno fino al Tasso. In tal modo le troppo lodate esperienze liriche di una Veronica Gambara o di Tullia d’Aragona, o della stessa Vittoria Colonna (che mai avrebbe avuto tanta fama nel suo secolo se non avesse occupato il ruolo sociale privilegiato che occupò) hanno fi- nito per conoscere una fortuna di studi e di edizioni di cui non hanno invece beneficiato autori a loro infinitamente superiori: dal Molza al Brocardo, da Bernardo Cappello a Celio Magno. I due equivoci sui quali la critica romantica e idealistica ha fondato la propria condanna della proposta bembiana e dell’esperienza, o meglio delle esperienze liriche che da quella discendono o che con essa si confrontano, hanno 9 DOMENICO CHIODO poi finito per apparire con un’evidenza non più trascurabile e per im- porre una drastica revisione di quei giudizi: in primo luogo il petrar- chismo di accezione bembiana è stata soltanto una delle possibilità del- la lirica cinquecentesca, che anzi è cresciuta e si è sviluppata anche in forme alternative a quel modello; in secondo luogo la poesia d’amore alla maniera del Petrarca non può essere letta, romanticamente, come poesia d’amore e, romanticamente, condannata come insincera nel sen- timento e fredda nell’effusione passionale. Innanzi tutto è dunque da chiarire il senso dell’operazione che il Bembo volle condurre pubblicando nel 1529 il suo canzoniere, in un momento in cui le ricche esperienze del decennio trascorso giungevano tutte quante alla decisiva consacrazione pubblica della stampa e in cui proprio il genere lirico, o comunque poetico in più lato senso, finì per occupare un luogo rilevante non soltanto per le proposte in lingua vol- gare (Trissino, Sannazzaro) ma ancora per le numerose pubblicazioni di raccolte latine, per lo più legate al poemetto sannazzariano, il De par- tu Virginis, che tante polemiche doveva suscitare: i lusus del Navagero, i carmi del Flaminio, del Cotta, del Fracastoro, del Castiglione, dello stesso Bembo vennero a disegnare un panorama di rinnovata eccellen- za nella produzione lirica latina che direttamente ambiva a ricollegarsi all’aureo secolo virgiliano e catulliano. Nel convegno bolognese del 1529 l’Amaseo salutò proprio nel Bembo il campione di tale rinnovata latinità, relegando il volgare a generi minori e a un’inferiore attitudine espressiva, lontana dalla perfezione della lingua latina; nelle Prose della volgar lingua invece il progetto enunciato in apertura vuole che la ricer- ca della perfezione proceda di pari passo nelle due lingue: è proprio l’aver ormai ritrovato l’aurea misura dell’espressione ciceroniana che deve indurre, con il Bembo, gli altri autori volgari a puntare ad una perfezione elocutiva che avvicini la composizione in lingua toscana alle prove conseguite in quella latina; e la proposta dei modelli boccacciano e petrarchiano consegue semplicemente dalla constatazione del buon esito raggiunto nella composizione latina tramite l’adozione di una ri- gorosa pratica imitativa che costringesse a non esulare dai due modelli prescelti, Virgilio e Cicerone. Il rigoroso esercizio di stile delle Rime era dunque, per molti versi, un nuovo capitolo della battaglia per il cicero- nianismo che il Bembo e il Sadoleto avevano vittoriosamente (mercè 10 POETI NELL’ITALIA DEL CINQUECENTO l’appoggio di Leone X) combattuto nel secondo decennio del secolo e che i nuovi eventi, dall’elezione di Adriano VI, all’ascesa di Carlo V, al Sacco del 1527, alle proverbiali indecisioni di Clemente VII, avevano vanificato: è appena il caso di dire come dietro tali schermaglie lettera- rie si celassero questioni politiche di ben più ampia portata, la cui tra- ma è oggi difficilmente comprensibile, ma che si intuisce dietro dibatti- ti tanto accanitamente accesi quali furono quelli legati alla concessione della cittadinanza romana al Longolio o alla composizione e alla pub- blicazione del De partu Virginis. Per quanto riguarda le Rime bembiane è certo che esse, oltre a pro- porsi come modello di stile (e più ancora significativo per quanto in esse mancava: i capitoli in terza rima, le forme metriche popolaresche e canterine, gli elementi tipici insomma della cosiddetta lirica cortigiana), proponevano il canzoniere erotico come una sorta di itinerario biogra- fico spirituale, in cui le passioni secolari (l’amore certamente, ma non soltanto) potessero essero inquadrate (giustificate quindi, ma anche ri- strette nella loro portata) come momenti di una scala ascensionale ver- so la spirituale perfezione, in quella dialettica peccato-pentimento in cui il Petrarca aveva saputo compendiare nell’arco dell’esperienza u- mana il dilemma umanistico della conciliazione tra verità e rilevazione. Tuttavia, se le Rime bembiane operavano un polemico superamento dei limiti dell’esperienza lirica precedente, si ponevano anche in una prospettiva di chiusura nei confronti di esperienze liriche coeve che egualmente miravano ad abbandonare il modello lirico cortigiano, ma in tutt’altra direzione, ovvero in quella dell’allargamento del campo tematico ed espressivo aprendosi ai modelli lirici della latinità classica. Lo scontro tra il Bembo e il Brocardo, sul quale tanto ironizzarono i cri- tici dell’età positivistica e dichiarato inspiegabile a più riprese dai mo- derni, aveva qui il suo nodo concettuale: Bembo concepiva l’esperienza lirica volgare in svolgimento parallelo a quella in lingua latina e model- lata rigidamente (una rigidità ideologica prima ancora che linguistica e stilistica) sull’esempio del Petrarca, il Brocardo (e con lui una fitta schiera di sodali, più che di seguaci) invece intendeva ormai impre- scindibile il passaggio alla lingua volgare anche per quei modelli lirici e per quei temi poetici fino ad allora consentiti soltanto alla versificazio- ne latina o alle composizioni occasionali ed effimere (le Stanze bembia- 11 DOMENICO CHIODO ne per intenderci).