Tears for Fears, il rischio della banalità

L’ennesimo «greatest hits» della band inglese dei offre un piccolo «antipasto» di quello che si preannuncia essere il loro primo lavoro inedito da quasi quindici anni a questa parte

/ 12.02.2018 di Benedicta Froelich

Il ben noto revival che, negli ultimi anni, ha visto il pop-rock degli anni 80 tornare a popolare le playlist di televisioni e stazioni radio, riesumando terrificanti videoclip e nomi improbabili ormai caduti nel dimenticatoio, ha l’indubbio privilegio di aver riportato alla luce, tra le altre, una delle poche formazioni dell’epoca ad essersi davvero distinte per personalità e carattere stilistici. Nel cuore di un decennio caratterizzato, anche in termini musicali, dall’edonismo e dilettantismo più sfrenati, il duo britannico dei Tears for Fears, composto da e , ha infatti lasciato una traccia indelebile grazie a soluzioni melodiche spesso audaci e a liriche ricche d’inventiva e riferimenti culturali intriganti; e nonostante ciò che il grande pubblico potrebbe pensare, in questi ultimi anni il gruppo non è rimasto del tutto inattivo: a differenza di molte «meteore» del tempo, la formazione non si è mai ufficialmente sciolta, sebbene Orzabal e Smith siano effettivamente andati incontro a una rancorosa separazione, avvenuta a poca distanza dal travolgente successo del celeberrimo LP (1989).

Tuttavia, dopo di allora, la sigla «Tears for Fears» ha comunque campeggiato sulle copertine dei successivi Elemental (1993) e Raoul and the Kings of Spain (1995) – i quali, però, possono definirsi, in tutta onestà, semplici sforzi solisti di Roland; il ritorno sulle scene della band, stavolta come duo a tutti gli effetti, è infatti giunto solo nel 2004 con Everybody Loves a Happy Ending, a cui ha però fatto seguito un lungo iato discografico, a tutt’oggi non ancora interrottosi.

Questo nuovo Rule the World, che di primo acchito appare come l’ennesima compilation retrospettiva dedicata ai Tears for Fears, si distingue invece per voler essere una sorta di «apripista» per l’attesissimo ritorno sulle scene del gruppo: corre infatti voce che, dopo quattordici anni di silenzio, il 2018 vedrà la pubblicazione di un nuovo sforzo creativo della coppia Roland & Curt. Proprio per questo, la compilation offre in anteprima due pezzi inediti; peccato, però, che il primo di essi, il singolo promozionale I Love You But I’m Lost – curiosa commistione tra l’elettropop di stampo tipicamente anni 90 e la discomusic di oggi – appaia come non troppo dissimile dagli assaggi già presenti in Ready Boy & Girls?, EP del 2014 fortemente criticato dagli «aficionados» per via del suo sound elettronico in bilico tra tendenze techno e dance di stampo alquanto commerciale. Diversa l’impostazione della malinconica ballata Stay, che ricalca invece il lavoro solista di Smith; e in effetti, entrambe le tracce lo vedono al microfono al posto di Orzabal, abituale vocalist del duo.

Tuttavia, se il futuro rappresenta un punto di domanda, il passato, da parte sua, non delude mai, e Rule the World lo dimostra chiaramente. In effetti, riascoltando i «classici» del loro repertorio anni 80 ci si rende conto di come, nonostante l’aspetto da band tipicamente pop e magari perfino un po’ modaiola, i Tears for Fears fossero in grado di firmare testi dalla profondità lirica tutt’altro che scontata, come dimostrano esperimenti quali il celebre : «e trovo in qualche modo buffo / e in qualche modo triste / che i sogni nei quali muoio siano i migliori che io abbia mai fatto». Non esattamente versi abituali da New Romantics del tempo: e del resto, già nel 1983 Roland Orzabal aveva fatto dell’LP d’esordio della band, non a caso intitolato («la sofferenza»), un raffinato concept incentrato sui traumi della sua infelice infanzia e fortemente influenzato dalle tendenze psicoanalitiche dell’epoca.

Lo stesso spessore concettuale pervade tutte le tappe della carriera del duo, e quindi anche questo Rule the World, a partire dal pezzo che ne ha ispirato il titolo – Everybody Wants to Rule the World – fino all’abituale successione dei singoli di successo firmati dal gruppo. Si passa così da un brano- simbolo quale l’epico Shout alla cavalcata rock of Love (distinta da una creatività non comune nell’universo pop di allora, evidente nella natura vagamente sovversiva della struttura musicale e nella celebre «coda» annunciata da squilli di tromba barocca). Altre immancabili gemme includono poi la dolorosa e indimenticabile ballata , impreziosita dai vocals di , e orecchiabili e irresistibili brani di respiro più pop come Head Over Heels e .

Al di là di ciò, il fatto che questo non sia certo il primo «greatest hits» a cui la band si concede rende l’impazienza dei fan ormai più che giustificata, così come i loro timori riguardo al futuro dei Tears for Fears; si può quindi solo sperare che Roland e Curt sappiano far fruttare la loro maestria di sempre nel songwriting di alto livello, rinunciando infine all’ormai evidente tentazione che li ha colti di recente – quella di convertirsi alla facile soluzione della dance music commerciale e del più banale pop da classifica.