Quaderni della Società Italiana di Storia dello Sport

DUE EVENTI DEL 1935 A E A : IL GOLDEN GLOVE CONTEST E IL MATCH LOUIS-CARNERA

Marco Impiglia [email protected]

Nel 1935 la Federazione Pugilistica Italiana ebbe tra le mani un paio di affari piuttosto delicati, da svolgersi negli Stati Uniti d’America. Riguardavano entrambi i campi nella sua giurisdizione: la boxe dilettantistica, pienamente sotto controllo da ormai sette anni, e l’altra boxe, più sfuggente, legata al professionismo. La prima questione fu l’organizzazione della spedizione di una rappresentativa chiamata a disputare una prestigiosa sfida Golden Glove. Il lato politico-propagandistico della missione era preminente: dimostrare alla nazione sportiva egemone ( 1932 aveva deliberato in tal senso) che la nuova Italia mussoliniana disponeva di atleti di prim’ordine; campioni perfettamente in grado di battersi alla pari con quelli delle razze nordiche in uno degli sport più amati, indicatore delle qualità eugenetiche di una razza. La seconda questione, vera patata bollente, fu la gestione di Primo Carnera dopo la disfatta subita con Max Baer. L’ex world champion degli heavyweight, assurto nel 1933- 1934 al rango di eroe eponimo ed ora lasciato sospeso in un limbo, poteva venire rimesso sul piedistallo in breve tempo, profilandosi l’effettuazione di una eliminatoria a New York per la riconquista del titolo. Monitorando la stampa dell’epoca e basandoci sui carteggi e i docu- menti conservati presso il Ministero degli Affari Esteri (AMAE), daremo nota dell’attenzio- ne speciale con cui furono seguiti i due eventi, sia a livello mediatico che politico-diplomatico.

1. Le kermesse del “Guanto d’Oro” fucina del professionismo americano

Al volgere degli anni venti, si cominciarono a disputare tornei denominati “Guanto d’Oro”. Competizioni che concedevano a giovani ragazzi di medio-basso ceto la possibilità di speri- mentare, partendo da zero, un’attività agonistica nel pugilato. La novità veniva dagli States, dove la matrice era cattolica a sfondo sociale. Per meglio dire: una combinazione, tipicamente nord-americana, tra intenti moralistico-pedagogici e commerciali. Le origini dei Golden Glove Contest affondano quasi nella leggenda, protagonista la se- conda metropoli USA per numero di abitanti: Chicago. Capitale dell’Illinois, “the Windy City” aveva sviluppato un’area metropolitana, la Chicagoland, che superava in estensione quella di Los Angeles. La popolavano poverissime famiglie emigrate in maggioranza dall’est Europa, ebrei e cattolici polacchi soprattutto, ma anche dall’Irlanda e dall’Italia. Molti gli italiani, tan- to che era sorta, sulle sponde del lago Michigan, una Little Italy sul tipo di New York. Molti pure gli afro-americani, che salivano dal Midwest e dagli stati più conservatori del meridione, ad esempio l’Alabama, per sganciarsi dal sistema capestro della coltivazione del cotone. Un sottoproletariato esplosivo fiancheggiava da ogni lato la città in espansione, coi suoi grattacieli

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che identificavano la city del business, e il suo atteggiamento progressista (nel 1924 vi nacque la Society for Human Rights, la prima associazione di difesa dei diritti degli omosessuali) che attirava chi, in altri territori dell’immenso paese, si sentiva a disagio. Un sottoproletariato siffatto costituiva un humus ad hoc per i reclutamenti della malavita organizzata, diretta dagli esponenti più spregiudicati delle summenzionate etnie. Le leggi sul Proibizionismo, entrate in vigore nel 1919, erano state manna dal cielo per loro. Ma altrettanto bene la magmatica miscela serviva le organizzazioni legate alle chiese cristiane. E toccò ad esse muovere la prima pedina del domino1. Fu, infatti, un oscuro parroco cattolico di un quartiere tra i più miserandi a inventare dal nulla, nel 1923, il primo torneo di boxe riservato ai novizi dilettanti. L’intento era quello di allontanare i giovani uomini dalla frequentazione delle onnipresenti sale da biliardo, terreno della criminalità, e incanalare la loro aggressività verso forme di esercizio fisico socialmente più accettabili degli scontri per strada con coltelli e mazze da baseball; attività che andavano di pari passo con l’alcolismo e l’altro peccato, molto grave, del sesso prematrimoniale. Il con- test svolto in un quartiere cittadino, sorta di Palio di Siena dove, al posto delle contrade, si sfidavano le etnie, riscosse un immediato successo, tanto da attirare nel 1926 l’interesse del Chicago Daily Tribune. Il “Tribune”, col suo milione di copie di tiratura, era il più venduto quotidiano al mondo. Dedicava due, tre e anche quattro pagine agli eventi sportivi, ed in que- sto possedeva tutta la modernità tipica dei media statunitensi. L’amministravano personaggi riconducibili alla sfera cristiano-protestante e cristiano-cattolica. Vicino agli ambienti cattolici (aveva concluso gli studi al collegio Notre Dame) era il suo nuovo sports editor, il trentenne Arch Ward2. Questi prese accordi ben precisi col vescovo ausiliario di Chicago, Bernard James Sheil. Il reverendo Sheil aveva svolto l’intero suo mi- nistero a Chicago e si era fatto un punto d’onore nel contrastare l’influenza che due orga- nizzazioni sorte durante la belle époque, la Young Men’s Christian Association (YMCA) e i Boy Scouts, mantenevano sulla gioventù maschile. Bisogna considerare che dalla fine dell’Ottocento era attivo nella Chicagoland il più esteso sistema americano di scuole parroc- chiali, impiantato dai cattolici per arginare il predominio nelle public school dei protestanti, più precoci e intuitivi nell’usare lo sport come mezzo di raccolta. Nel 1927 partì così il primo torneo ufficiale Golden Glove. Fu sostenuto dallo Sports Department del “Tribune”, posto sotto l’egida morale di Sheil, nominato presidente della manifestazione, e l’egida tecnica della Illinois Athletic Commission (IAC), branca della Amateur Athletic Union (AAU) go- vernante la boxe dilettantistica su scala nazionale. Pochi anni dopo, nel 1931, con l’emersione della Christian Youth Organization (CYO), l’istituto voluto da Sheil per meglio gestire la cattolicizzazione delle comunità inurbate, la CYO sarebbe entrata a pieno titolo tra gli enti patrocinatori dei tornei Golden Gloves3. Nel 1928 lo scrittore e giornalista Paul Gallico, sports editor del New York Daily News, altro quotidiano che puntava sugli avvenimenti atletici per incrementare le vendite, si accordò con Ward per far partire nell’area metropolitana dello Stato di New York un analogo contest, nel quale la YMCA ottenne il suo spazio di manovra. Seguirono a rotta di collo il filone il San Francisco Examiner, famoso per aver ospitato le cronache di Jack London, e il Philadelphia In- quirer. Nel giro di un lustro, si formò una rete di franchigie pompate da quotidiani ad ampia tiratura e dai due principali enti preposti all’organizzazione del tempo libero della gioventù cristiana. Diramandosi da questi centri propulsori, gli Intercity Golden Gloves andarono a

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coinvolgere ragazzi sia ebrei che cristiani, la disciplina del boxing essendo una fede condivisa da tutti. Il contest più atteso divenne quello che poneva di fronte i campioni di Chicago e New York. La manifestazione regina rimase, invece, il National Golden Gloves che, seguendo lo schema inaugurato dai collegi universitari col basket e il football – tournament cittadino, in- terprovinciale, statale, interstatale e nazionale –, acquisì una popolarità enorme. In breve, tra i Golden Champions che accettavano di ritardare il loro passaggio al professionismo si comin- ciarono a scegliere i componenti del Team USA per i Giochi Olimpici. Una delle ragioni, la scatenante, che portò alla rete dei Golden fu il fatto che durante i Roaring Twenties caddero, dapprima nel 1920 con la Walker Law nello Stato di New York, e poi via via nei restanti stati, le proibizioni inerenti la pratica pubblica del pugilato4. Per comprendere cosa significò il fenomeno Golden Glove tra le due guerre mondiali, bisogna immaginarsi decine di moderni impianti sparsi nelle maggiori città, che ospitavano kermesse in otto categorie di peso il cui gong d’apertura suonava alle una post-meridiane e l’ultimo alle due antimeridiane. Pubblici di 10, 15 e 20 mila spettatori costituivano la routine. I competitori, per giocarsi la finale del “National”, avevano davanti a loro dai venti ai trenta incontri, e in alcuni turni gli poteva capitare di salire sul quadrato anche tre volte nell’arco della giornata. Gli iscritti risultavano suddivisi in due schiere distinte, “classified” e “non-classi- fied”. I primi erano gli amateurs di cui si conosceva il valore: merce poco interessante. I secondi rappresentavano le vene d’oro da esplorare per la nuvolaglia di manager, coach e reporter che ruotava attorno. I non classificati erano i corrispettivi dei “novizi” nel sistema italiano; i quasi digiuni di boxe che esordivano all’agonismo e, dopo un dieci, dodici mesi di assalti alla baio- netta, se giungevano nei primi posti venivano scritturati professionisti. Il Golden Glove si sviluppò in un sistema perfetto, che accontentava le istituzioni religiose, civili e sportive, la stampa e gli addetti ai lavori; e in una maniera laterale e indiretta finiva per servire anche alla criminalità organizzata. Una macchina da soldi che, dal 1927 ai tardi anni settanta, promosse alla ribalta i migliori “fighter” del Novecento, da Joe Louis a George Foreman, parlando solo dei pesi massimi5.

2. L’International Golden Gloves e l’iter che portò alla sfida Italia-Chicago

L’idea di opporre squadre europee a franchigie targate Golden sopravvenne a Paul Gallico nel 1930. Gallico era figlio di un pianista triestino sposato ad un’austriaca ed emigrato nella “Grande Mela” al volgere dell’Ottocento. Fin da adolescente, aveva nutrito una passione per la settima arte, che l’aveva condotto ad avviare una carriera giornalistica come critico cinema- tografico del New York Daily News. Nel 1923 era stato costretto dal capo-redattore a cambiare tema, dal cinema allo sport, e la sua fama di reporter aveva avuto un decollo dopo una trovata davvero eccezionale: incaricato di redigere un pezzo sul training camp di Jack Dempsey a Saratoga, in preparazione del match con l’argentino Firpo, Gallico chiese al campione del mondo dei pesi massimi di sostenere un round con lui, allo scopo di fargli capire qualcosa sulla nobile arte. Famosa rimase la risposta del “Maglio di Manassa”, prontamente riportata nell’articolo: «What’s the matter, son? Doesn’t your editor like you any more?»6. Apripista dell’International Golden Glove Contest fu il fatto che nel 1932 Los Angeles avrebbe ospitato i Giochi Olimpici. La prima nazionale a ricevere la chiamata fu, infatti,

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quella della Francia, inventrice delle moderne Olimpiadi. La riunione si effettuò il 12 maggio 1931 al Soldier Field di Chicago, il grande stadio popolare costruito nel recinto dell’Espo- sizione del 1893, e il team locale s’impose 5-3. Nello stesso posto rullò la seconda edizione dell’IGGC, un 4-4 con la Germania a due mesi dai tornei olimpici ai quali i tedeschi, poi, non presenziarono. Le edizioni 1933 e 1934 furono facilmente vinte dall’ottetto di Chicago, opposto a irlandesi e polacchi. Nel 1935, in vista dell’appuntamento di Berlino ‘36, Gallico pensò a due diversi incontri, da allestirsi con i team del vecchio continente considerati i più agguerriti insieme a quello germanico: Italia e Gran Bretagna. Per l’Italia non si trattava di una prima volta. La tradizione di una rappresentativa azzurra in visita negli States era partita nel gennaio-febbraio 1930, con un tour di pochi elementi nel su espresso invito della AAU. Un giro di riunioni che aveva entusiasmato gli italo-americani e lanciato sui ring di Boston e di New York il vicentino Oddone Piazza, subito scritturato professionista e, appena due anni dopo, proposto sfidante al titolo mondiale dei pesi medi. Nel 1931 era succeduta una tournée esclusivamente newyorchese, meglio pia- nificata dalla FPI. Che nel 1932 aveva allestito un faticoso giro post-olimpico, assai serrato nei tempi, nelle città di Kansas City, Chicago, Pittsburgh, Richmond, New York, Providence e Newark. Il 1933 e il 1934 erano trascorsi senza ingaggi7. Nell’autunno del 1934, Arch Ward notificò alla Federazione il suo interesse riguardo a un IGGC Italy vs Chicago, da fissarsi per la tarda primavera dell’anno successivo. La Federazione concesse il placet, salvo poi cambiare idea allorché Gallico planò a Roma per prospettare un più remunerativo ingaggio (percentuale sugli incassi, mentre Chicago non li dava, prevedendo che tutto andasse in beneficenza) col team di New York. La notizia dell’accordo contrattuale raggiunto col “Daily News” mandò su tutte le furie Ward, che minacciò di denunciare la FPI alla AAU per il mancato adempimento delle promesse e per “leso dilettantismo”. A questo punto, il caso accese una spia rossa di allarme, assunse una connotazione politica e come tale si decise di gestirlo. Intervenne l’ambasciatore italiano a Washington, Augusto Rosso, il quale, allertato sulla questione dal console generale a Chicago, Benedetto Castruccio, il 18 gennaio 1934 spedì al Regio Ministero degli Affari Esteri un rapporto che sottolineava il danno d’immagine a cui si stava andando incontro. La soluzione suggerita era quella di far combattere gli azzurri sia a New York sia a Chicago. Negli stessi giorni, Umberto Caradossi, fiduciario della FPI negli States e addetto al consolato di , informò Mazzia dell’annuncio dato alla stampa da Daniel Ferris, capo della AAU, riguardo alla rinuncia del “Daily News” a favore del “Tribune”. Ferris godeva d’una collaudata reputazione di tigre, in quanto ad aderenza alle ferree regole amatoriali di stampo decoubertiniano: le voci su un team di pugili europei remunerati per esibirsi in America l’avevano posto sul chi va là. La sue conseguenti rimostranze, esercitate nei confronti di Gallico, avevano indotto quest’ultimo ad appianare ogni equivoco8. Ai primi di febbraio del 1935, il Regio Ministero degli Affari Esteri e il segretario del CONI, Giorgio Vaccaro, diedero il benestare alla soluzione scelta in via diplomatica: la rappre- sentativa si sarebbe recata nel maggio 1935 a Chicago e nell’estate del 1936 a New York, subito dopo i Giochi Olimpici di Berlino. Per ovviare al mancato arrivo degli “Wops”, Gallico ingag- giò i “Redcoats”, cioè gli inglesi, che infatti disputarono il loro IGGC allo Yankee Stadium un mese dopo gli italiani. Il 2 luglio, le guardie della regina superarono per 8-3, davanti a 48.000 spettatori in patriottico delirio, i loro avversari, soprannominati da Gallico “the Manhattan Mi-

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nutemen” (nella tradizioe americana: i membri della milizia delle prime tredici colonie, quelli che dovevano farsi trovare pronti alla battaglia col preavviso d’un minuto). Il mezzo pasticcio comportò che, in quel 1935 preolimpico, l’International ebbe due distinte edizioni, una a Chi- cago e l’altra a New York, entrambe passate in giudicato come ufficiali9.

3. Il colore attorno ai campioni fascisti: la Statua della Libertà saluta romanamente?

Pochi giorni dopo il definitivo via libera alla sfida con gli italiani, il “Tribune” iniziò a pub- blicare una serie di articoli a copertura dell’evento, che sarebbero poi stati raccolti in uno scrap book dall’Ambasciata a Washington e inviati a Roma per essere visionati dal sottosegretario di Stato Galeazzo Ciano. Essi fornirono un aggiornamento costante sulla formazione e la preparazione delle due squadre, l’italiana e la statunitense. Il 6 marzo 1935, Ward annunciò i passi organizzativi pianificati dalla FPI: avvio di un torneo nazionale volto a individuare titolari e riserve, allenamenti collegiali in aprile allo Stadio di Roma per selezionare gli otto pugili, partenza da Napoli il primo maggio col transatlantico Conte di Savoia e arrivo a New York dopo una settimana di viaggio, trasferimento a Chicago via Washington, rifinitura del training e appuntamento il 22 maggio al Soldier; il 25 era previsto l’imbarco da New York sul transatlantico Rex. Nell’articolo di Ward, facevano effetto le affermazioni sicure di Mazzia sulla qualità dei pugili italiani, che avrebbero regalato a Chicago «la più formidabile compe- tizione di boxe»10. Per curare i reportage di avvicinamento, Ward ingaggiò Edward Storer, scrittore e letterato di fama, nonché uno dei teorici della corrente poetica dell’Immaginismo. Storer lavorava da qualche tempo in Italia per conto di fogli come The Observer e il Washington Times; vi era giunto con le truppe del generale Pershing e ne aveva fatto la sua patria d’elezione, salvo poi riparare nel 1942 a Londra e diventare uno dei redattori delle trasmissioni della BBC in lingua italiana. Ma, negli anni venti e trenta, Storer intratteneva vincoli di amicizia con Prampolini e Marinetti, aveva tradotto in inglese Pirandello e aderito al secondo Futurismo; possibile, dunque, che il suo ingaggio sia stato pilotato dal regime. Un’ottima scelta, comunque, almeno dal punto di vista letterario, perché l’autore di Terra Italica. Poem written in Italy elaborò compendi sufficientemente tecnici sull’andamento dei tornei di selezione. A metà aprile, si recò dal segretario generale della “Pugilistica”, il cavalier Edoardo Mazzia. Un lungo colloquio, tenuto negli uffici dello Stadio del Partito Nazionale Fascista, che fornì l’appiglio per descrivere le basi non solo dell’organizzazione della boxe in Italia, ma anche di quella del CONI, con le sue federazioni governanti 25 sport diversi, e dell’intero sistema incardinato sulla Federazione delle Federazioni e sugli enti parastatali a supporto: dopolavoro, milizia e gruppi universitari. A ruota e su consiglio di Mazzia, Storer intervistò il vicepresidente federale, conte Francesco di Campello, incaricato d’accompagnare la rappresentativa azzurra nell’avventura in terra americana: gentleman dall’inglese fluente e che amava giocare a polo sulle rive del Tevere11. Dopo queste due interviste, Ward passò la copertura all’inviato ufficiale del “Tribune”, David Darrah. Ebreo, più giovane del cinquantenne Storer, Darrah faceva parte di quel grup- petto di corrispondenti che i maggiori giornali americani avevano spostato fissi a Roma, poco dopo l’ascesa al potere di Benito Mussolini. Agenzie quali la Associated Press e la United

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Press avevano aperto i loro bureau: un fenomeno innescato dall’interesse dell’opinione pub- blica per Mussolini. Oggi, la critica storiografica è concorde nel delineare la benevolenza con la quale i media statunitensi seguirono gli sviluppi della “Nuova Italia” fascista. Il duce fu a più riprese presentato come un all-round sportsman, sorta di Theodore Roosevelt europeo per affinità nella personalità e per il modo di stare vicino alla gente, e la sua dottrina venne indicata come una terza via tra socialismo e capitalismo12. Le operazioni belliche italiane del 1935 in Africa Orientale non influirono negativamente su questo trend, in campo sportivo già emerso ai Giochi di Los Angeles e rafforzato, nell’estate del 193313, dal clamore suscitato dalla trasvolata Roma-Chicago di Italo Balbo; così che il concetto di un’Italia potenza emergente trovò terreno fertile anche nell’International Golden Glove Contest 1935. A partire dal 29 aprile, individuati dai due tecnici federali, l’allenatore Leo Terenzio Giun- chi e il massaggiatore Angelo Castelli, i titolari da portare in USA, Darrah confezionò una serie di articoli per presentare i Golden Challengers. Il primo lo dedicò al peso mosca Gavino Matta, dipinto come un giovanotto della Sardegna, isola abitata da uomini virili («He-Man’s Country»), che si guadagnava la vita lavorando in una fabbrica di spaghetti. In realtà, il ven- tiquattrenne Gavino faceva il panettiere nel principale forno di Sassari. L’occupazione era una sinecura, pressato dagli impegni agonistici vi andava di rado, e il proprietario, “Cesarac- cio”, tollerava questo stato di cose in quanto appassionato egli stesso di pugilato: allorché il campione aveva bisogno urgente di calare di qualche etto onde rientrare nel limite dei 48 kg, riceveva il placet per infilarsi nella grande camera del forno che gli funzionava da sauna14. Dopo Matta, toccò al piuma Giuseppe Farfanelli, un ventenne impiegato nella fab- brica di cioccolata Perugina, un «sweet boxer»15. Il primo maggio la delegazione italiana s’imbarcò a Napoli, e da quel momento Darrah spedì le interviste usando le utenze del piroscafo. Il peso gallo fiumano Ulderico Sergo, erroneamente chiamato «Roderigo» in omaggio all’Otello di Shakespeare, fornì la scusa per parlare di Gabriele D’Annunzio e dei legionari che avevano liberato la “città guerriera”16. Per il welter Otello Binazzi, un romano di nascita ma toscano di stirpe, Darrah usò una precedente intervista realizzata in una vineria di Frascati, assieme al pugile e al padre di questi, il signor Guido, presso il cui gabinetto fotografico il ragazzo lavorava come apprendista. Binazzi venne lodato per la sua bellezza di maschio latino, un rubacuori in stile Rodolfo Valentino17. Macellaio, invece, il mediomassimo Mario Anniballi, anche lui romano ma del popolare rione Trastevere, per il quale Darrah utilizzò la classica storia (ritornerà nel film Rocky, un evergreen quindi) dei quarti di bue sollevati giornalmente dal possente e scherzoso ventiduenne18. Per il peso leggero della compagnia, il bersagliere riminese Arnaldo Montanari, altro cliché in gioco, quello del “bel forte e coraggioso”, paragonato addirittura a Lord Brummel per la finezza dei tratti somatici19. Il peso medio torinese Augusto Bonadio, operaio alla FIAT, e il massimo varesino Angelo Saruggia, camionista, vennero descritti mentre si allenavano nel gymnasium, oramai in vicinanza dei dock di City. Nessuno degli otto pugili, alloggiati in cabine di seconda classe, era mai stato a bordo d’un liner tra i più lussuosi al mondo, città galleggiante capace d’ospitare 1.500 persone, per cui tutti rimasero elettrizzati dalla sperimentazione di piaceri mai provati prima: immergersi nella swimming-pool con la visione di signore eleganti a bordo vasca, o tentare di rimanere in equilibrio sul deck, col rollio delle onde controllato dai tre imponenti giroscopi Sperry. Appena fuori della palestra, i passeggeri di prima classe facevano letteralmente la fila per spiare le ses-

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sioni di training dei campioni, attratti dai rumori secchi dei colpi che filtravano all’esterno20. Il tocco di colore finale spettò al piccolo e vivace Matta, il quale ebbe l’impressione netta che la Liberty Statue salutasse romanamente i guerrieri invasori provenienti da lontano:

«Even the Statue of Liberty recognized that we were great fighters» – said Gavino Mat- ta, the garrolous flyweight –« She had her hand raised in a Fascist salute as we passed, and I›m pretty sure I heard her say: “Viva il Duce”»21.

Dettaglio che venne manipolato dai reporter locali per solleticare l’orgoglio yankee dell’av- versario designato, Patsy Urso, un truck driver di Detroit. La risposta dell’americano di sangue siciliano fu, infatti, quanto mai pepata:

«Where did this flyweight Matta get the idea that the Statue of Liberty was saluting a la Fascisti? I have seen that statue, and Lady Liberty had her hand up as a stop sign warning the Italians to take it easy»22.

È opportuno, a questo punto, sottolineare che il tema di fondo – la lotta tra gli araldi atletici di due sistemi politici diversi, quello democratico parlamentare e l’altro, non simbolicamente ma realmente “sfidante”, totalitario fascista – fece capolino a più riprese nei giornali statunitensi. A volte, il disegno stilizzato del volto arcigno di Mussolini entrò di spalla nei servizi, con la nota che il dittatore non sarebbe stato presente fisicamente al Soldier Field, ma si aspettava una bella manciata di cinture in dono dai suoi “boys”. Risoluzione sbandierata dallo stesso conte Francesco di Campello, al momento della partenza da Napoli23.

4. Le visite politiche a Washington, le feste degli italo-americani a Chicago

L’8 maggio sbarcarono a Long Island in undici: i pugili, Campello, il massaggiatore-coach Castelli e l’arbitro Rolando Galletti, che aveva preso il posto di Giunchi rimasto a Roma per curare una Nazionale B, in pratica gli esclusi, chiamata a battersi a Parigi e a Bruxelles con le rappresentative della Francia e del Belgio. La comitiva alloggiò al New Yorker Hotel, scelto dallo stesso Campello. Si trattava d’un lussuoso edificio inaugurato nel gennaio del 1930, po- chi mesi dopo il crash di Wall Street: 2.500 stanze distribuite su 39 piani (gli azzurri stavano al 28esimo) la maggior parte vuote; tuttavia, nei suoi cinque ristoranti e nei fastosi saloni da ballo, si potevano incrociare l’attrice Joan Crawford o il musicista Benny Goodman. Ammo- biliato in stile Art Decò, rimaneva nell’ottava Avenue del distretto Garment di Manhattan, vicinissimo al Madison Square Garden Bowl, posto nel Queens, e alla Pennsylvania Station. Dalla Penn’s, la truppa, senza l’elusivo conte di Campello caduto improvvisamente malato, ripartì in treno il giorno 10, accompagnata da un dirigente della Italia Flotte Riunite, Silve- strini, che fu comandato a fungere da interprete. Nel programma di viaggio c’era, infatti, non tanto la visita di New York City (ci fu il tempo solo per un veloce giro a Broadway) quanto quella di Washington D.C., per l’incontro fissato con sua eccellenza l’ambasciatore Rosso24. Il treno The Liberty Limited entrò nella Union Station di Washington alle prime luci dell’alba dell’11 maggio. Subito, il barbiere dell’hotel prenotato, italiano di nascita, dovette

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procurare a Binazzi e ad Anniballi un paio di scarpe nuove, giacché le loro erano misteriosa- mente sparite nottetempo dall’uscio della camera: probabilmente, uno scherzo tirato ai due romani dai colleghi. La giornata intera nella capitale fu alquanto indaffarata. Essa incluse un’occhiata dall’esterno della White House, l’incontro alla Italian Embassy con Rosso, un piemontese catalogabile in quella schiera di funzionari di Stato fedeli ai Savoia più che al re- gime, il pranzo alla Catholic University of America e, a seguire, la gita al Mount St. Sepulchre Franciscan Monastery, struttura dipendente dall’Arcidiocesi di Washington. Il momento più significativo fu, però, la visita al cimitero nazionale di Arlington. Lì, la comitiva rese omaggio, in fila indiana e salutando romanamente a un ordine gridato da Galletti, al mausoleo deno- minato Tomb of the Unknonwn Soldier, l’equivalente del Milite Ignoto a Roma. I giornali rimarcarono che non s’era mai vista una cerimonia tanto disciplinata e rispettosa, da parte di una delegazione sportiva straniera, a uno dei luoghi più sacri per la Nazione americana25. L’11 sera il trasferimento proseguì, sempre in treno, in direzione dell’Illinois. Dalla sta- zione centrale di Chicago, la delegazione, accolta al suo arrivo alle 9 e 30 del 12 maggio dall’addetto al Consolato Antonio Ferme, venne portata in auto al Medinah Athletic Club, un resort per il golf dislocato 25 miglia a ovest della città. Ottimo quartier generale per gli allenamenti degli azzurri. A livelli spasmodici era cresciuta, nel frattempo, l’attesa della co- munità italiano-americana, con i particolari delle feste che, giusto nel giorno della comparsa a Chicago dei campioni, trovarono spazio in uno dei tre giornali:

[…] Sono stati completati i preparativi del ricevimento da tributare ai pugilatori italiani che arriveranno domenica in Chicago. Le adesioni pervenute al comitato formato sotto l’egida della “Chicago Tribune” non lasciano dubbi che si assisterà a un’accoglienza desti- nata a fare epoca negli annali cittadini. Al ricevimento che si svolgerà al Garfield Park non parteciperà solamente il nostro elemento ma vi sarà il concorso dei migliori ambienti della metropoli. Gli sportivi italiani riporteranno in Patria un ricordo indelebile della ospitalità di Chicago. L’occasione è propizia perché la colonia si faccia onore. Domenica sera bisogna dare una prova tangibile di solidarietà nazionale. Uomini, dome e bambini italiani devono riversarsi al Garfield Park per gridare il loro saluto ed il loro augurio ai giovani che hanno commissionato di tenere alto il prestigio dello sport nazionale nella gara che si terrà allo Stadium il 22 maggio. Rimanendo assenti perderemmo in considerazione al cospetto degli Americani e degli altri gruppi etnici. Le associazioni italiane, dalla più grande alla più pic- cola, sono tenute a prendere parte al corteo che sarà inscenato in onore dei pugilatori e che precederà il ricevimento. Come già annunziato, il corteo si formerà al 4500 West Madison Street, e andrà a sostare al Garfield Park. A capo di esso vi saranno gli ex combattenti ita- liani comandati dal tenente ingegnere Michele Butera. Tutte le sezioni dell’American Le- gion, formate in maggioranza da oriundi italiani, manderanno delle larghe rappresentanze. I soci della Camera di Commercio Italiana marceranno nel corteo con il loro presidente Antonio Mattucci e preceduti da una banda. Altre bande saranno contribuite dall’Ordine dei Figli d’Italia, dalla I.A.N.U. e dalla Legione Garibaldi. All’adunata del Garfield Park farà da maestro di cerimonie il popolare Tesoriere della Contea, on. Robert M. Schweitzer. Il sindaco Kelly porgerà il benvenuto ufficiale e il console generale, comm. Giuseppe Ca- struccio, pronuncerà un discorso per l’occasione. Un numero interessante del ricevimento sarà costituito dall’apparizione del tenore Giovanni Pane-Gasser. Questi intonerà gli inni delle due nazioni. Il presidente del comitato organizzatore, avvocato Giorgio Spatuzza, ha lavorato a tutt’uomo, ed ha la certezza che si registrerà un successo grandioso. Spatuzza ha avuto un instancabile collaboratore nel noto sportivo John Dolce26.

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Una folla che il capo della polizia stimò, tenendosi basso, in 120.000 persone, gremì, sotto un cielo plumbeo dalle prime ore del pomeriggio della domenica del 12, la Madison Street nel West Side. La moltitudine, in maggioranza di madre lingua italiana, venne in- trattenuta da balli e canti folcloristici, e si dimostrò esuberante ma disciplinata. Addirittura delirante fu l’ovazione senza soluzione di continuità tributata al corteo, composto da una dozzina di bande musicali e dai notabili. La processione partì alle sette e raggiunse, in un’ora e mezza circa, il parco dove troneggiava un alto baldacchino; il tutto in mezzo a un frastuo- no formidabile, tre auto scoperte con a bordo gli atleti che salutavano la gente, increduli d’essere l’oggetto di tanto entusiasmo27. Tra i molti discorsi indirizzati agli ospiti da personaggi eminenti, ci furono anche quelli di Bernard Sheil e Arch Ward, di Joseph Triner e George Donoughy, rispettivamente chairman della Illinois Athletic Commission e della AAU, dell’head coach del team di casa, John Behr, e del presidente del Comitato Olimpico statunitense, il milionario Avery Brundage. Quindi, furono presentati alla folla, dai microfoni della radio WGN collegata in diretta, gli otto pugili, chiamati ciascuno a profferire qualche parola prima della conclusione della festa. Il “Tribune” rilevò che era stato dato un «welcome in true Chicago style». L’atmosfera del 1933, “the Year of the Italians”, era ritornata28. Nei giorni successivi, stante il tempo inclemente, gli azzurri si allenarono al coperto al Medinah. Non andarono da nessuna parte, con l’eccezione d’una gita alla Century Progress, il luogo dell’atterraggio di Balbo, e un’uscita pomeridiana al Comiskey Park. Assistettero, così, a un match della Major League di baseball, accogliendo l’invito di Henry John Bonura, stella dei White Sox. Le foto dei pugili con indosso le maschere e gli indumenti usati dai ricevitori per proteggersi, campeggiarono sui giornali, insieme a quelle di una partita a bowling al Me- dinah, o di un coro improvvisato al pianoforte. Si scrisse che gli italiani andavano matti per Tom Mix e i film western. In generale, i giornali di Chicago, sia di lingua inglese che italiana, avallarono un’immagine positiva dei Golden Challengers, dipinti come un allegro gruppo. Il 16, gli otto pugili, il “business secretary” Galletti e il coach Castelli furono raggiunti dal conte di Campello, proveniente da New York con un volo interno29. Sul piano politico, uno dei problemi fu quello di far fronte alle insistenze di George J. Spatuzza, il Grande Venerabile della potente loggia massonica Order of the Sons of Italy. Gli eccellenti rapporti stabiliti col versante cattolico, patrocinante il Golden attraverso l’isti- tuto CYO, e che il 16 maggio aveva effettuato nella sua sede una “serata italiana”, consigliò a rifiutare l’invito a visitare l’Ordine. Campello si sentì, tuttavia, di accettare che i massoni allestissero nella Sala Tropical del Medinah, la domenica del 19, un fastoso banchetto di 130 coperti, seguito da una serata danzante con 2.000 partecipanti. Fu l’unico invito pubblico, tra i mille proposti dagli italo-americani, al quale il gruppo aderì30. In questo, si ascoltarono le raccomandazioni dispensate dal console Castruccio il giorno stesso dell’entrata al Medinah: non lasciarsi tentare dai connazionali, i quali, col loro generoso impulso, li avrebbero rimpin- zati di cibo pregiudicando la forma fisica31. Considerata di qualità fu la propaganda politica che il battage del “Tribune” involontaria- mente regalò al Regime. Nel secondo suo rapporto, quello finale, trasmesso all’Ambasciata a Washington, Castruccio sottolineò che la stampa americana, «favorevole e abbondante», aveva tenuta desta l’attenzione della gente verso l’Italia per oltre due mesi32.

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5. Esito agonistico del challenge

«Italy’s gallant Premier, Benito Mussolini, will pause in the affairs of state long enough to ponder the fate of another team, a fighting team, in Chicago tonight, just as he did on a Summer evening in 1933 when another team, a flying team, headed by Gen. Balbo, swooped down on Chicago’s lake front, to achieve an unsurpassed aerial victory»33. I tre cliché dell’Ita- lian Renaissance in sport, dell’attenzione del duce per la boxe e dell’abbinamento della Crociera nord-atlantica all’International Golden Glove Contest 1935 vennero riproposti fino all’ul- timo, assieme alle rassicurazioni sulla consistenza indubitabile degli sfidanti. Di Campello ribadì che la FPI aveva fatto tutto il possibile per portare i migliori elementi del panorama dilettantistico nazionale, e che se i Golden Champions di Chicago volevano vincere dovevano dimostrarsi eccellenti34. Dal canto loro, i campioni locali continuarono la preparazione nella palestra dell’Illinois Athletic Club, struttura aperta nel 1908 nella centralissima Michigan Avenue. Johnnie Behr approfittò della presenza del professionista Cleto Locatelli, chiamato a confrontarsi con Joe Ghnouly il 10 maggio al Chicago Stadium, per mostrare ai suoi ragazzi lo stile di un boxer italiano di livello35. I rapporti che arrivavano dal Medinah l’indussero a tagliare il peso legge- ro Mike Gamiere, un bianco di Cleveland trionfatore nel G. G., per sostituirlo con l’afro-a- mericano Lorenzo Lovings, campione in carica della CYO ma solo semifinalista nel torneo indetto dal “Tribune”. L’idea, circolata ben presto nello staff tecnico di Behr, che i fighter di colore potessero risultare più imprevedibili per i latini, finì coll’affermarsi. Questo è un punto importante, perché fu la causa prima della sconfitta degli italiani e diede adito, come vedremo, a rimostranze di tenore razzista. Nella brochure-programma che il “Tribune” distribuì la notte dell’evento, Ward presentò il quinto IGGC come il test match che poneva di fronte i più validi pugili dilettanti dei due continenti bianchi. Infatti, gli italiani avevano da poco battuto il team britannico, e gli “Chica- goans” quello di New York. I sedici campioni erano il frutto di selezioni che avevano impegna- to oltre 9.500 iscritti al «Tribune tournament» e circa 2000 in Italia. Riprendendo temi già identificati nei programmi pubblicati in occasione delle pregresse edizioni, Ward sottolineò il carattere “charity” della competizione, la sua funzione di collegamento tra due mondi sportivi di eguale peso e condividenti i medesimi valori etici. Nonché, ma in tralice ovviamente, l’indi- pendenza dello scenario Golden da quello pro’, governato dalle cosche affaristiche e criminali:

These young men are meeting tonight just for fun. None of them receives a penny for his work. They hope to prove that no section of the world has a monopoly on fighting men and that the standards of sportsmanship are about the same in Europe and in the United States. The sports department of the Chicago Tribune, which sponsors the Golden Gloves, hopes that Chicago’s champions once more will demonstrate their fistic superiority over the best from a great European nation, but we are not so much interested in whether we win or lose as we are in the ability of our Italian friends to return to their homeland feeling that the people of Chicago are sportsmen, inside the ring and] outside36.

La sera del 22 maggio, 23.256 spettatori paganti riempirono il Soldier Field, esauren- dolo in ogni ordine di posti: in cinquemila rimasero fuori senza il biglietto. L’evento venne

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trasmesso dalla National Broadcasting Company sulle onde corte, per cui, disponendo d’un apparecchio potente, fu possibile seguirlo in Europa37. Dopo una serie di incontri preliminari svolti da dilettanti locali, toccò agli azzurri fare il loro ingresso nel catino dello stadio. Sergo, capitano del team, levò il braccio destro in linea retta e partì a cantare Giovinezza, immediata- mente imitato dai suoi camerati. A detta dei commentatori: «It was an impressive moment. It showed better than words the new spirit of Fascist Italy»38. Seguì la lettura, da parte di Ward, di due messaggi ufficiali del segretario del CONI, il generale della Milizia Vaccaro, e del pre- sidente del CONI e segretario del Partito, Achille Starace. Due brevi testi spediti in mattinata da Roma dal sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, il ministro Galeazzo Ciano, all’ambasciatore Rosso, che li aveva tradotti e passati al “Tribune”. Scroscianti applausi della moltitudine, in maggioranza di sangue italiano, accolsero la lettura e funzionarono da scivolo al momento atteso: il via alla battaglia39. I primi a salire sul ring per il titolo furono Matta e Urso, nella “division 112 pounds”. Il sardo vinse ai punti, per cui si può dire che, stando almeno alla sua personale ordalia, la Liberty Statue l’aveva salutato “a la fascisti”. Sergo, caricatissimo, batté largamente Johnnie Brown, un ventenne indigeno che, a dispetto del nome, aveva ascendenze campane. Sul due a zero, spettò al terzo italo-americano in lizza, Al Nettlow, campione Golden nelle 126 libbre, riequilibrare le sorti a spese di Farfanelli. Il successivo match, quello dei lightweight, come acutamente previsto da Behr si rivelò decisivo ai fini dello score finale. Il ventunenne «Negro» (questa la dizione usata negli articoli dei giornali di Chicago: sempre con la ‘n’ maiuscola) Lorenzo Lovings superò Arnaldo Montanari, utilizzando una tattica corpo a corpo in stile professionistico che sconcertò il bersagliere italiano e lo fece combattere al di sotto del suo standard. Lovings proveniva da una delle parrocchie pugilistiche create da Sheil, la St. Mala- chy nel West Side. Sul due pari, l’atmosfera sugli spalti si scaldò ulteriormente. Otello Binazzi e King Wyatt, un welter diciottenne ebreo di Grand Rapids che aveva già tre anni di tornei Golden alle spalle, diedero vita a uno scontro molto bello, che si concluse con la vittoria di stretta misura del romano: una «extremely unpopular decision», secondo il commentatore del “Tribune” Wilbur Smith. Binazzi-Wyatt fu l’ultimo match che oppose elementi di pari abilità. I restanti tre incontri, nelle categorie 160 e 175 libbre e nella heavyweight, non ebbero storia. I campioni di colore – Dave Clark, Clinton Bridges e Lorenzo Pack – si dimostrarono superiori a Bonadio, Anniballi e Saruggia. Il peso medio torinese fu salvato dal gong al terzo round, quando stava steso a terra. Il mediomassimo trasteverino venne fatto volare fuori del ring da un gancio sinistro al mento portato da Bridges. Il povero Anniballi sbatté la testa su una panca e perse i sensi, per qual- che minuto lo si credette morto, poi si riprese ma non ricordò nulla di quanto era accaduto dall’arrivo nello stadio. Bisogna dire che il suo avversario, un ventunenne nativo della Georgia, aveva in curriculum due vittorie su Joe Louis. Nel match finale, che avrebbe potuto dare agli sfidanti il 4-4, il vanaglorioso e massiccio Saruggia venne sballottato e messo knock out da Pack, più armonioso nel fisico e più agile anche, campione nel basket e nelle discipline di corsa veloce e salto in lungo. Lorenzo Pack fu uno dei due Golden Champions che, appena mezzora dopo la conclusione della riunione, firmarono per passare professionisti; anzi, ‘Big Lorenzo’ addirittura sfidò Carnera40. Il giorno dopo, il conte di Campello espresse, col suo stile cerimonioso, un pieno rico- noscimento alla bravura dei pugili locali che, pur avendo schierato solo cinque campioni in

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carica su otto, erano stati capaci d’imporsi. Ringraziò per l’ospitalità concessa e la sportività dimostrata dalla popolazione di Chicago: un viaggio che sarebbe rimasto per sempre nel cuore dei suoi ragazzi. La stampa italiana parlò d’una coraggiosa e valida prova di tutti gli azzurri, nessuno escluso. Censurò la vicenda di Anniballi e non diede risalto alle proteste del pubblico italo-americano per il verdetto Farfanelli-Nettlow. La truppa, sempre inquadrata in stile militare, ripartì in treno per lo Stato di New York e a Long Island s’imbarcò sul Rex; senza il conte di Campello, però, giacché il vicepresidente si trattenne a New York per seguire il match Carnera-Louis41.

6. I retroscena

Sia La Gazzetta dello Sport sia Il Littoriale, i due quotidiani sportivi entrambi soggetti alle veline di regime, evitarono di prodursi in commenti sfavorevoli sulla maniera con cui gli sta- tunitensi avevano gestito l’IGGC. Tuttavia, i documenti depositati presso il Ministero degli Affari Esteri ci dicono qualcosa di diverso. Essi gettano una luce decisamente razzista, che può essere meglio compresa se si fa riferimento al clima facinoroso creato, in quelle stesse settimane, dall’appena nato Ministero per la Stampa e la Propaganda, in preparazione all’im- minente attacco all’Etiopia. Nel suo rapporto a Washington, il console generale a Chicago, Giuseppe Castruccio, ci tenne a rimarcare come gli azzurri avessero vinto 3-1 il confronto tra bianchi, e perso 4 a 0 il mismatch con i pugili di colore. Ma non lo fece con un tono di rispetto per il valore degli afroamericani, tutt’altro:

[…] Clinton Bridges e Lorenzo Pack, i due neri vittoriosi presentati come dilettanti, ap- pena finita la partita firmarono il contratto con il loro manager per entrare nella categoria dei professionisti. Tutto questo non getta una luce simpatica sulla squadra americana, e tornando a casa con vari amici americani, questi mi dissero francamente che si sentivano vergognati e disgustati di vedere la bandiera americana difesa da 4 neri, tre italo-america- ni e un ebreo, e che il popolo anglo-sassone non avesse avuto una sola rappresentanza nel combattimento. Essi poi aggiunsero che ritenevano vergognoso che bravi giovani italiani, e fra questi uno studente in legge, fossero stati adescati a Chicago per gettarli in pasto alle belve nere, e poi divagarono fra di loro sul problema della razza nera in America, che diventa sempre più serio. Con tutto questo il conte Campello e i pugilisti dimostrarono un altissimo senso sportivo, e non dissero una parola, anzi la sera stessa vi fu un pranzo al Medinah Athletic Club, al quale parteciparono vincitori e vinti, bianchi e neri42.

Il giorno avanti la stesura del rapporto finale, Castruccio aveva ricevuto una lettera dall’a- mico Eugene McDonald, presidente della Zenith Radio Corporation, l’industria famosa per la produzione della multi-bande portatile trans-oceanica. Il magnate si era espresso in termini pesanti sulla liceità del confronto agonistico tra pugili bianchi e neri in campo amatoriale. Una posizione, la sua, certo più moderata rispetto alle violenze perpetrate nel sud degli States dal Ku Klux Klan, ma comunque indicativa d’un sentire comune alla ricca borghesia del Midwest:

My dear Consul General, I did not have the opportunity to say hello to you the other evening at the boxing matches. I saw you there but could not attract your attention.

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You probably have had a number of comments upon these boxing matches. I want to add mine to them. I think it is a disgrace to the American people, that they have to put colored men in the ring, to fight white men. I will never forget what our great editorial writer, Arthur Brisbane, said many years ago when Jack Johnson, the colored man, defe- ated Jeffries, for the championship of the world. The day after this championship bout, Arthur Brisbane, in his editorial column, said that it was not fair to try to match the white man with the black man, who is only one step away from the savage. He further said that you could put one orangoutang in the ring with twenty black men and it would defeat the black men. I am hoping the day will come when we will have the United States represented by white men entirely43.

Un’altra questione che rimase sottotraccia fu quella riguardante i guadagni che gli organiz- zatori di Chicago, incapsulati nella joint venture “Tribune”- CYO, avevano tratto dall’evento. Secondo i calcoli del console Castruccio, visti i costi dei vari tagli di biglietti la cifra totale dell’incasso allo stadio doveva poter essere stimata sui cinquantamila dollari. E la sua prima considerazione fu quanto mai in stile americano: «Peccato che la Federazione Pugilistica Ita- liana non abbia pensato, facendo il contratto, a chiedere una parte dei proventi...». Castruccio chiese il permesso a Rosso di esercitare pressioni sul comitato Chicago Daily Tribune Chari- ties Inc., affinché qualche migliaio di dollari venisse incanalato a favore degli italo-americani: ospedali, parrocchie, ecc. L’ambasciatore, dopo essersi consultato con Roma, vietò al console di agire in tal senso, suggerendogli di limitarsi a segnalare istituzioni legate alla comunità italiana di Chicago quali possibili destinatarie dei ricavi netti da distribuire in beneficenza. Sua Eccellenza plaudì, invece, all’iniziativa d’un senatore dell’Illinois, tale Charles Coia, me- cenate già protagonista nella vicenda del monumento a Cristoforo Colombo a New York City. Questi aveva fatto approvare dal Parlamento di Springfield l’invio d’una lettera ufficiale di benvenuto dello Stato dell’Illinois, rivolta al capo della delegazione sportiva giunta a Chicago per il Golden Glove. Questo tipo di iniziative politiche rispecchiavano il desiderio degli ita- liani residenti negli USA di venire integrati a pieno titolo nel comparto “White American”44.

7. Carnera-Louis, un combattimento che non s’ha da fare

La sera stessa in cui centomila wops residenti nella ventosa Chicago davano il loro ben- venuto ai pugili dilettanti azzurri, schiudeva i battenti al pubblico, al Palazzo dell’Arte nel parco Sempione presso l’Arena Civica di Milano, la Mostra Nazionale dello Sport. Avendo a presidente il conte Alberto Bonacossa, proprietario della Gazzetta dello Sport e membro del Comitato Internazionale Olimpico, l’esposizione godette d’un allestimento curato e d’un notevole risalto mediatico. Rimase aperta al pubblico dal 12 maggio ai primi di dicembre, la visitarono decine di migliaia di persone. Entrando nel padiglione del pugilato, colpiva subito la sagoma in cartonato, alta due metri e ottanta centimetri, di Primo Carnera: quel tora- ce smisurato da statua di Michelangelo sovrastante due gambe lunghissime, dalle quali un abile ritocco aveva fatto sparire le vene varicose. L’ex campione del mondo, nella primavera dell’Anno XII, era ancora un eroe della stirpe italica, e come tale veniva rispettato nelle pro- duzioni del regime. Gli annuari pubblicati dal CONI aprivano il settore dedicato al pugilato con l’effigie dell’omone in camicia nera che salutava romanamente la folla45.

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Nel giugno del ‘33, Carnera s’era cinto a Long Island della cintura di campione del mondo dei pesi massimi mettendo k.o., con un montante destro al mento, Jack Sharkey, pupillo del boss . (C’è da notare che il newyorchese di origini lituane era stato visto parlottare con esponenti della ‘Purple ’ di Detroit, prima del match). Poi Carnera aveva svolto due difese facili e, dopo la sconfitta con Max Baer, occorsa nel giugno del 1934, s’era rimesso in carreggiata vincendo tre incontri a Buenos Aires (70 mila spettatori allo Stadio di Avellane- da per vederlo contro il «gigante de Quilmes» Victorio Campolo), a Rio de Janeiro e a San Paolo. Più un altro match al Garden, il 15 marzo del 1935, dove aveva costretto al ritiro Ray Impellettieri, meglio conosciuto come ‘The Skyscraper’. Un match che i media sbandierarono impropriamente come «the tallest heavyweight in history», il più alto incontro di pesi massi- mi della storia. Nell’occasione, lo speaker li presentò al pubblico come alti entrambi 6 piedi e 8 pollici, circa 2 metri e 3 centimetri46. Il derby Carnera-Impellettieri aveva un suo senso. Era, in sostanza, un ottavo di finale per arrivare ad incrociare i guantoni con Baer. La situazione, però, non appariva limpida. Il ma- nager di Maximilian Adelbert Baer, campione decaduto d’ufficio, e il manager di Maximilian Adolf Otto Siegfried Schmeling, ‘Ulano della morte’ della Germania hitleriana, si stavano accordando per imbastire un match valido per la corona, e avevano allacciato contatti sia a Londra che a Roma per spostarlo in Europa. A questa soluzione si opponeva la New York State Athletic Commission (NYSAC), il cui presidente, il generale John J. Phelan, voleva apparecchiare delle eliminatorie a New York da cui scaturisse l’Official Challenger di Baer. Questo era un modo d’agire usuale per la “Commission”, che si preoccupava di tenersi i World Champions a portata di mano, senza che finissero in Europa dove le organizzazioni avrebbe- ro imboccato altre strade. In un quadro siffatto, Carnera, molto popolare negli States e ben sostenuto dalla comunità italo-americana, avrebbe dovuto incontrare James Braddock, l’ex scaricatore di porto di Long Island che nel 1934 era stato solo un barbone disoccupato, ma nel giro d’un anno sarebbe diventato una star col nickname di ‘Cinderella Man’. Ricapitolan- do, il cammino di Carnera verso la riconquista del titolo, il 16 marzo 1935 all’indomani della vittoria su Impellettieri, era il seguente: Braddock, Schmeling, Baer. Favoriva il friulano il no secco della NYSAC alla rivincita Baer-Schmeling, scontro d’effetto e quindi appetibile per l’incasso, ma inutile ai fini del titolo47. In quel momento, Carnera aveva la sua base in un camp appena fuori Long Island. Era ge- stito da un gruppo che faceva capo a un , William Duffy, e a un uomo d’affari italiano in odore di mafia, Luigi Soresi. Il team vantava l’appoggio, pagato 250 mila dollari, di giorna- listi importanti. Spiccava Alfred Damon Runyon, columnist sportivo inserito nella catena di quotidiani King Features Inc., controllata da William Randolph Hearst, creatore d’un impero di oltre 200 newspaper e magazine. Il 21 marzo del 1935, Duffy e Soresi fecero firmare al loro protetto il contratto che l’obbligava a battersi entro giugno con Joe Louis, il Golden Glove Champion ‘34 in prepotente ascesa, l’uomo nuovo che tutti i migliori massimi in circolazione si preoccupavano di evitare. Il fatto che Louis fosse un colored, e che il luogo fissato, lo Yankee Stadium, rimanesse tra il quartiere black di Harlem e quello wop del Bronx, assicurava un’affluenza straordinaria. Soresi si era volentieri piegato alle strategie del suo socio, il quale non credeva che la “Commission”, cioè la triade John Phelan - Bill Brown - Walker Wear governante il NY- SAC, fosse seria quando parlava di “qualifying heats” da svolgersi al Garden. A nulla erano val-

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se le telefonate di Caradossi, che s’era raccomandato affinché l’abbinamento Carnera-Louis venisse scongiurato. Mettendo al corrente della trama il segretario Mazzia, il fiduciario fe- derale puntualizzò le ragioni per cui l’ingaggio non si dovesse fare: in primo luogo, egli non credeva che la NYSAC si sarebbe permessa di prendere per i fondelli il pubblico newyorche- se, etichettando come eliminatorie per il titolo dei semplici test match. La seconda ragione poggiava sull’evidenza che Louis fosse di molto superiore a Carnera, e che avrebbe vinto per knock-out, visto il suo tremendo curriculum. La terza motivazione era quella da tenere in maggior credito, perché di natura politica: «La sconfitta, che lo stesso Soresi ritiene probabile, inflitta a Carnera da un negro avrebbe pessima ripercussione in questo momento, quando c’è qui una forte agitazione della popolazione negra per la questione Abissinia»48. Caradossi insistette, nella chiusa del suo rapporto, sull’equivoca figura di Duffy, un malavitoso che aveva incernierato gli artigli su uno dei campioni più amati dall’Italia fascista:

[…] Soresi si è lasciato convincere da Billy Duffy, la cui sola preoccupazione è quella di guadagnare la borsa più grossa nel più breve tempo possibile e Carnera, che non ha mai avuto una volontà propria, deve aver firmato senza rendersi conto che i suoi interessi non erano certo ben protetti! Ormai la cosa è fatta e c’è soltanto da augurarsi che Carnera riesca a ritrovare la sua forma migliore e si difenda bene contro il negro. Le ho scritto subito perché, per le ragioni già esposte, mi sembrerebbe opportuno di evitare che la nostra stampa desse larga pubblicità a questo incontro di Carnera. Ho inoltre saputo che Orlandi (Carlo Orlandi, campione olimpico 1928, n.d.A.) starebbe per venire in America ingaggiato da Billy Duffy. Ritengo che sarebbe meglio cancellare la sua partenza, se pos- sibile. La reputazione del Duffy qui è pessima. Egli è considerato un pericoloso criminale, è nella lista dei “public enemy” dello Stato e i giornali americani anche recentemente han- no fatto aspri commenti sul fatto che viene permessa la sua presenza sul “ring” nell’angolo di Carnera. Naturalmente, questa mia ha carattere strettamente confidenziale49.

8. La banda di gangster che aveva in pugno Carnera

Considerata la scarsa consistenza di ‘Cinderella’, che tra l’altro rendeva a Carnera 45 chili, il fine-di-mondo nazifascista Schmeling vs Carnera si sarebbe concretizzato senza l’interven- to di Duffy e Soresi, i due personaggi che, dal giugno del 1932, avevano rimpiazzato i pro- curatori Leon See e Walter Friedman. Inquadriamoli, dunque, questi due attori protagonisti nel dramma shakespeariano di Carnera. In specie su Duffy c’è molto da dire; su di lui e sui suoi amici gangster. ‘Big Bill’, un pelo rosso di sangue irlandese nativo del , alto uno e novanta, era il tipico esponente del sottobosco criminale che ingrassava con gli alco- lici e la boxe. Ex pugile di basso livello, dopo un soggiorno in carcere e un altro nella Navy, Duffy aveva intrapreso la carriera di speakeasy boss, gestore di spacci clandestini nell’era del Proibizionismo. Proprietario di locali notturni a Broadway – uno dei suoi nomi di battaglia era ‘Broadway’ – per fare strada s’era dovuto appoggiare a un pezzo grosso del bootlegging. Il mentore si chiamava Owen Vincent Madden, o anche: ‘The Killer’. Owney Madden era uno dei beer barons della Prohibition e possedeva il Cotton Club, la mecca del gin-and-jazz nel quartiere di Harlem. Anche lui di famiglia irlandese-cattolica, ma emigrato da Leeds, aveva i modi d’un gentiluomo inglese di campagna, quindi molto meno rozzo dei banditi newyor-

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chesi. Madden s’era messo nel fight racket alla metà degli anni venti, aveva conosciuto Duffy e ne aveva fatto uno dei suoi uomini di fiducia per quella speciale branca di affari. Nel luglio del 1927, allo Yankee Stadium, molti scommettitori avevano strabuzzato gli occhi vedendo ‘Big Bill’ svolgere mansioni di secondo all’angolo di Jack Dempsey. E quando Dempsey aveva colpito sotto la cintura Sharkey, atterrandolo, l’arbitro era stato un attimo indeciso, se contare il newyorchese oppure concedergli la vittoria. Subito Duffy aveva urlato: “Contalo!”. Il dubbio all’arbitro era passato50. Il collegamento tra Carnera e la criminalità organizzata statunitense risaliva al gennaio del 1930, quando il suo manager Leon See, giornalista e impresario di spettacoli, era sbarcato con lui a Long Island per sfruttarne la popolarità presso il milione di italo-americani ivi residenti. See, un francese poliglotta e con un accenno di baffi alla Menjou, fin dal debutto di Carnera al professionismo aveva seguito uno schema preciso: porgli di fronte avversari non superiori tecnicamente, in modo che potesse contrastarli in virtù della sua curatissima forma fisica; e, ovviamente, “ammorbidire” i match. Carnera esibiva una muscolatura possente e pochissimo pugno, per cui si doveva orchestrare bene lo spettacolo e fissare perfino il round preciso del knock out. Un gioco abbastanza scoperto, che aveva fatto definire l’emigrante italiano, mira- colosamente sfuggito al pane scarsissimo delle Prealpi friulane, «un bluff gonfiato a Parigi da alcuni affaristi della boxe a scopo di speculazione»51. Una volta immerso nel magmatico caos della New York post Big Crash, See fu avvicinato dai mobsters locali, i pericolosi individui che agivano all’interno della criminalità cittadina sud- divisa per bande. In quel momento, le due principali ghenghe erano Cosa Nostra (Lucky Lu- ciano con le sue Five Families) e la Jewish Mafia, capeggiata da . I banditi gli fecero capire come fosse impossibile andare a pesca senza il loro consenso. Essi rispondevano ai nomi di ‘Broadway’ Bill Duffy, ‘Mad Dog’ Vince Coll, George Jean ‘Big Frenchy’ DeMan- ge, Frank Bachman e Max ‘Boo Hoo’ Hoff. Quest’ultimo era un ebreo-polacco di Philadel- phia, proprietario della più larga scuderia di prizefighters d’America, e che aveva incluso Gene Tunney. Il suo aspetto bonario mascherava un temperamento rissoso, ed era famoso per le maniere spicce con le quali liquidava le pendenze: bottiglie di whisky in testa e facce sfregiate. Sembra che il nome di Duffy venne fatto a See da William Lawrence Stribling junior, alias ‘Young Stribling’, il georgiano con cui Carnera aveva vinto e perso nel 1929. L’accordo venne presto stilato. Il tipo scelto dai mobsters per affiancare See in qualità di procuratore fu, appunto, Friedman, appartenente al giro di Hoff. Già il primo match sostenuto da Carnera contro ‘Big Boy’ Peterson, un looser acchiappato nello stato del Mississipi, fu una combine smaccata e se ne accorsero tutti, col giovanotto che andò giù al primo pugno affondato. See, uscendo con un suo libro di memorie nel 1934, avrebbe confessato il fixing, lasciando intuire, attento però a non fare nomi, che la sfilza di vittorie ottenute dal «Venetian Leviathan» (così il magazine Time omaggiò Carnera, piazzandolo in copertina nell’ottobre del ‘30) nel suo tour di ventitré impegni in dieci mesi, fosse stato nient’altro che un piano del fight racket. L’opinione pub- blica americana assunse verso Carnera un atteggiamento al contempo incuriosito e derisorio. Non abboccò alla storiella del «mighty killer», limitandosi a giudicarlo un fenomeno curioso con cui divertirsi. ‘Da Preem’, ‘The Walking Mountain’, ‘Satchel Feet’ (Piedi Piatti, in slang) venne dipinto come una sorta di neanderthaliano lento nei movimenti, che si esprimeva in un inglese stentato e dava l’idea d’essere un sempliciotto; e comunque uno spettacolo per cui valeva la pena pagare il biglietto52.

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Questo era stato il primo giro di valzer di Carnera negli USA, interrotto nell’ottobre del 1930 per una inattesa sconfitta a Boston col campione locale Jim Maloney. Il secondo giro era partito nel marzo del ‘31 ed era finito nel novembre dello stesso anno, più o meno uguale al precedente, ma con Duffy che aveva preso il posto di Friedman accanto a See53. Bisogna dire che, in questi due anni di intensa attività, a furia di allenamenti con validi sparring e di incontri più o meno addomesticati, la tecnica schermistica di Carnera era mol- to migliorata: oramai poteva dirsi un pugile vero, tra i migliori quindici nella sua categoria. Il terzo giro di valzer iniziò nel giugno del 1932. Con modalità differenti, però, in quanto pochi mesi prima, nel novembre del 1931, era avvenuto un fatto gravido di conseguenze. In un hotel di New York, il Franconia, le mafie italiana ed ebrea s’erano accordate in un nuovo consorzio che subito la stampa aveva battezzato: «The National Crime Syndicate». ‘Bugsie’ Siegel, uno dei capi della Jewish, s’era affrettato a dichiarare: «The Yids and the Dagos will no longer fight each other!» - Non ci combatteremo più fra di noi54. Da questa “Conferen- ce”, intesa per la conduzione degli affari sporchi al di qua e al di là dell’Hudson, derivò il benestare a che Duffy e DeMange, il braccio destro di Madden, e due altri esponenti della cricca del ‘Duke’, Frank Churchill e Pete ‘The Goat’ Stone, assumessero il pieno controllo di Carnera. Vecchio lo schema ma nuovo il piano, che si prefiggeva, ora, un salto di qualità: puntare al titolo e alzare verdoni pesanti. See venne eliminato dallo smottamento telluri- co provocato dalla nascita del “Syndicate”. Fu consigliato a cedere la procura, per 30.000 dollari di buonuscita, a Duffy e a Soresi. Quest’ultimo venne chiamato a ricoprire il ruolo di frontman, l’uomo pulito da esporre all’opinione pubblica. Quando in Italia si seppe del passaggio delle consegne, in molti si chiesero perché See avesse rinunciato al suo cavallo, proprio nel momento in cui stava per imboccare la dirittura d’arrivo di un’estenuante corsa di 62 ostacoli avviata quattro anni prima. Al fatale scivolamento di Carnera nelle braccia dello sporco duo Duffy&Soresi, concorse un altro fattore, pure se di minore rilevanza: a Roma stava bene che See venisse rimpiazzato da un procuratore italiano e da un manager americano in grado di condurre Carnera alla sfida per il titolo55. ‘Lou’ Soresi, a quel punto uomo al 100% del Syndicate, in tutta la vicenda giocò la sua parte di galoppino della holding criminale, giacché fu un tramite essenziale per tirare tesa la rete sopra Carnera. Soresi era un piacentino emigrato a Manhattan nel 1913 a lavorare a Wall Street, e che dal 1925 aveva assunto la vicepresidenza delle filiali americane della Banca Com- merciale Italiana. Il crollo della Borsa nell’autunno del ‘29 e la frequentazione dei nightclub di Broadway l’avevano spinto nelle braccia della mafia e di Madden. Senza grandi difficoltà, visti i suoi molteplici contatti di business-man e la sua conoscenza dell’inglese, s’era garantito la ca- rica di fiduciario della FPI. Il suo dirottamento su Carnera fu pilotato sia dalle bande di New York sia dal regime fascista, desideroso di sfilare Carnera a un manager inviso che in passato era riuscito a far comparire la dicitura “Republique Française” sul passaporto del pugile. Nella primavera del 1932, Soresi abitava in una suite-ufficio all’Hotel Victoria, uno dei grattacieli di Times Square. Il contratto di procura, avallato dalla “Commission” e dalla “Pugilistica”, letto e approvato dal “Sindacato”, l’aveva legato a Carnera fino al 30 gennaio del 194356. Duffy e Soresi progettarono un giro lungo d’una ventina di match, l’ultimo dei quali rullò a Dallas il 30 dicembre 1932. Entrambi cominciarono a rubare soldi a tutto spiano – che poi era il loro mestiere – grazie al fatto che Carnera punto si preoccupava di verificare le transazioni portate a compimento sopra la sua testa. Se ne disinteressava non perché fosse uno stupido,

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semplicemente aveva compreso di non avere nessuna altra opzione. Al riguardo, esistono un paio di riscontri documentari che suonano quasi incredibili. La notte in cui s’impossessò della cintura iridata, evento che fruttò al suo entourage la spartizione sull’unghia (una busta a me, una a te...) di 59 mila dollari, Carnera se ne mise in tasca appena 360; la sua parte più cospicua gli venne sottratta dalla “fidanzata sedotta e abbandonata”, cioè Emilia Tersini, una cameriera conosciuta nel ‘29 a Londra. Il secondo riscontro arriva da Aldo Spoldi, pure lui frequentatore negli anni trenta dei ring americani e complice-vittima, ma non in un modo così brutale, del fight racket. Spoldi, in una sua autobiografia pubblicata alla morte di Carnera, scriverà infatti: «Dagli archivi della International Revenue in Washington D. C., io stesso, ed in compagnia di Primo, potemmo renderci conto che la scheda delle tasse di Primo Carnera specificava che nel periodo dal 1930 al 1936 il gigante friulano aveva guadagnato per sé personalmente oltre un milione e mezzo di dollari». Una cifra – quella assodata dalla Internal Revenue Service, l’agenzia governativa del bureau della U. S. Treasury – davvero stratosferica, quantificabile oggi in una quindicina di milioni di euro57. Soresi attingeva meno dal rubinetto, perché non aveva una corte di sicari da dissetare come Duffy. Si occupava di seguire i pugili in transito negli States, viaggiando sovente sulle rotte New York-Napoli e New York-Genova. Questa fu la sua incombenza principale fino al match di Carnera con Baer, quando la Federazione, indispettita per la maniera con cui il campione del mondo era stato servito in pasto al «clown ebreo» (anche lui gestito da Madden, che nell’occasione aveva puntato in giù il pollice all’in- dirizzo di ‘Satchel Feet’), ritirò la sua fiducia e lo sostituì con Caradossi58. Duffy non si faceva invece alcuno scrupolo, in quanto nessuno lo poteva fermare, a parte una pallottola o la Tesoreria di Stato. Agiva come un parassita che ha l’obiettivo di succhiare sangue e mantenere in vita l’ospite il tempo sufficiente per svuotarlo. Lavorava nel palazzo Publicity della XX Century Fox, fra la 47th Street e la Broadway Avenue, assieme a Madden e a Stone. Era conosciuto per aver avuto tra le mani buoni pugili, tra cui Maxie Rosenblo- om, Phil Rosenberg, James Braddock, Phil Kaplan e Otis Thomas. Con Carnera, tipo facile da sminestrare, organizzava lui ogni cosa. Lo ospitava nella sua palestra, il Duffy Gymna- sium al civico 1576 di Broadway, muovendosi come un ragno in equilibrio su una rete di losche e meno losche conoscenze. Il grip, la stretta che esercitava su “Primo” (pronuncia: “Praimo”), arrivava al punto che questi doveva riferire ora per ora sui suoi spostamenti. Tutta la masnada di avvoltoi che volava, frenetica, attorno alla testa della vittima da scarni- ficare, la loro sfrenata ingordigia, veniva giustificata con le percentuali da devolvere al fisco e le esigenze pubblicitarie utili a pompare il personaggio. Carnera era assicurato sulla vita per un milione di dollari. Erano assicurate le “sue” automobili, una Lincoln gran turismo e una Limousine Imperial. Venivano realizzate a suo nome e con i “suoi” dollari beneficenze spettacolari. Stava ogni momento in copertina, sulle riviste popolari e sui giornali della do- menica, una ‘V’ gigantesca sui tabelloni delle réclame che pavesavano la City, a fare e a dire le cose più strane: giù a pedalare con le ginocchia in fuori su una minuscola bici; tranquillo a fronteggiare un gangster nano e iroso appollaiato in cima a una scala a soffietto; lesto, in giacca a righe a doppio petto, ad alzare la gamba all’unisono con un set di ballerine di fila; sorridente, al centro d’un pacchetto di sigarette Lucky Strike, ma sempre con quell’aria da uomo delle caverne carambolato per uno scherzo dello spazio-tempo nella New York di King Kong e della grande depressione. Un mondo assurdo59.

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9. Il pasticcio è fatto

Nei due mesi che trascorsero dalla firma del contratto Louis-Carnera alla messa in scena dello show, Damon Runyon, anche lui uomo al 100% del “Syndicate”, batté la grancassa com’era prassi per gli eventi che coinvolgevano ‘The Ambling Alp’, l’Alpe semovente. Nello stesso periodo, il carteggio Mazzia-Caradossi s’infittì. Il segretario relazionò il fiduciario sulla soppressione del viaggio a New York di Orlandi, e che avrebbe sorvegliato il caso Carnera60. La notizia dell’avanzamento di Braddock a sfidante ufficiale di Baer (Schmeling pure s’era ritirato, rifiutandosi di vedersela con ‘Cinderella’ ritenuto non un buon incasso) confermò le errate valutazioni di Soresi e Duffy. Inoltre, si prospettava spinosissima la faccenda del pronipote di schiavi africani, deportati nel Nuovo Mondo scoperto da Cristoforo Colombo, che stava per far fuori il guerriero massimo della stirpe latina. Una fregatura soprattutto la tempistica, con gli eserciti del duce sul punto d’invadere l’Etiopia e l’Abissinia per riscattare Adua e fondare l’Impero. Scrisse Caradossi a metà aprile:

[…] La informo che questa Boxing Commission, come avevo preveduto (ed era facile prevederlo), ha costretto il Garden ad accettare come avversario di Baer, per il campio- nato del mondo, il modesto Braddock, il quale dopo il ritiro di Carnera è rimasto il solo superstite della eliminatoria, avendo avuto anche la fortuna di riuscire vincitore nell’in- contro con Lasky, presentatosi sul ring non ancora completamente rimesso da un attacco di influenza e per di più con la mano sinistra malamente contusa. Il ritiro di Carnera dalla competizione pel titolo mondiale appare ora quasi una mostruosità, talmente è inspiegabile. Il negro Joe Louis è indubbiamente uno dei picchiatori più formidabili ap- parso sui rings nordamericani. Duffy, che l’ha visto combattere, sostiene che i suoi colpi corti e diretti non riusciranno a penetrare la difesa di Carnera, però la maggior parte dei competenti che hanno visto Louis in azione, prevedono una sua vittoria per ko. Come ho accennato nella mia precedente, questo incontro che avrà luogo il 25 giugno potreb- be avere ripercussioni antipatiche e provocare incidenti spiacevoli coincidendo, come si prevede, con lo sviluppo delle operazioni militari in Abissinia. Tenendo ciò presente, ho anche qui interessato, naturalmente in modo indiretto, i dirigenti della stampa italiana locale affinché non venga data eccessiva importanza a quest’incontro, che è stato con- cluso guardando esclusivamente al lato affaristico e trascurando completamente quello sportivo e l’orgoglio nazionale (da parte di Carnera)61.

Ai primi di maggio, mentre stava a Milano per assistere ai Littoriali di pugilato e super- visionare l’allestimento del padiglione alla Mostra, Mazzia spedì l’ennesima lettera alla sua longa manus negli USA, confermando il lancio d’una rete di salvataggio volta a ridurre al minimo gli effetti del pasticcio:

La ringrazio assai delle di lei delucidazioni in merito a Braddock, delucidazioni che stanno ad ampiamente e luminosamente dimostrare qual è stato il torto di Carnera, ma particolarmente del Sig. Soresi in tutto questo affare. Ho informato S. E. il Presidente, il quale mi ha dato assicurazione che avrebbe parlato con S. E. Starace per poter dare così disposizione ai giornali italiani nel senso da lei consigliato. Soresi ha scritto da sua parte per dimostrare, naturalmente a suo modo, che era stato conveniente, anzi opportuno, accettare l’incontro con Joe Louis. Di fronte allo stato delle cose non c’è che aspettare il risultato dell’incontro ed augurarsi che si risolva bene per Carnera62.

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Il 13 giugno, il giorno in cui Braddock ghermì a sorpresa (sorpresa dei gonzi) il titolo battendo un “distratto” e hollywoodiano Baer al Garden (tutti e due nel giro di Madden), il segretario generale del CONI, Vaccaro, relazionò il Ministero degli Affari Esteri, cioè Mus- solini che lo reggeva ad interim, sul profilarsi all’orizzonte dell’iceberg Louis, oramai quasi impossibile da evitare:

[…] la Federazione Italiana non può intervenire perché i contratti dei pugili per incontri in America non sono sottoposti alla sua approvazione, ma a quella della Commissione di Boxe dello Stato di New-York, che ha dato il suo benestare, e che interverrebbe con severissime sanzioni, se Carnera non rispettasse il contratto regolarmente firmato. Solo le autorità locali potrebbero vietare l’incontro per misure precauzionali63.

Dieci giorni dopo, nelle ore antecedenti il match, l’ambasciatore Rosso spedì un dispaccio urgente allo stesso Gabinetto. In esso, diede nota delle censure messe in atto dai giornali newyorchesi di lingua italiana, cui si contrapponeva il battage politicamente mirato dei quo- tidiani radicali di sinistra e radicali moderati, tipo il World Telegram o il Daily Mirror. Infine, rincarò la dose sui pericoli inerenti il tifo delle comunità italiana e nera, clash che avrebbe potuto non limitarsi ad un mero fatto sportivo:

[…] Il cav. Spinelli (Pier Pasquale Spinelli, console generale a New York, n.d.A.) m’informa inoltre di avere interessato la stampa locale affinché venga dato il minimo di pubblicità all’incontro summenzionato. Infatti non solo sembra sia da ritenere che Carnera riu- scirà battuto, ma anche che sia stata quanto mai inopportuna la scelta di un avversario negro e dello Yankee Stadium situato proprio al di là del fiume Harlem in prossimità del quartiere dove, come è noto, si accentra il mezzo milione di negri di New York. Fra questi l’antifascismo può senza dubbio avere buon giuoco profittando dell’attuale situazione italo-etiopica e della circostanza che il quartiere negro di Harlem è tuttora in attivo fermento per violenze e sanguinosi scontri con la polizia che hanno avuto luogo recentemente. È quindi tutt’altro che da escludere la possibilità di provocazioni che potrebbero condurre anche a gravi incidenti. Allo stato delle cose non vedo come possa essere riparato agli errori commessi dal Signor Soresi, ammenoché la Federazione Pugi- listica Italiana non avesse modo d’intervenire traendo profitto da qualche infrazione o imperfezione del contratto, su cui, naturalmente, non posso pronunciarmi64.

Dopo il colloquio intercorso tra il presidente della FPI, Raffaello Riccardi, e il segretario del Partito, Achille Starace, la posizione che le gerarchie assunsero fu la seguente: dare il giu- sto spolvero al tentativo di Carnera, ancora un eroe del fascismo nonostante nel 1934 fosse stato dichiarato decaduto dal titolo europeo e avesse rinunciato a quello italiano per agevolare i giovani65. E tuttavia, cautela nei pronostici, perché la disfatta era quanto mai probabile. Tutti i cliché propagandistici sulla natura selvaggia e culturalmente inferiore del boxeur di pelle nera vennero lucidati, così che in tralice agli articoli che accompagnarono l’evento emerse quel modo “razzista-per-dettato” che abbiamo riscontrato nei carteggi summenzionati. Perfetta fu l’identità di vedute tra la stampa politica, che percuoteva i tamburi di guerra al fine di con- vincere la gente sulla necessità d’apparigliare alla «civiltà fascista» i «negroidi» d’Etiopia, e la stampa sportiva, costretta a prendere di petto il puzzle d’oltre oceano Carnera vs Louis. Negli USA, come notato da Caradossi, c’era chi faceva l’esatto contrario: la stampa non conservatri-

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ce enfatizzava il valore simbolico del match, ponendolo in relazione a quanto stava accadendo in Africa. Louis veniva assimilato ai patrioti abissini male equipaggiati, che si accingevano a respingere gli invasori italiani, risoluti questi ultimi a obbedire agli ordini di “Musso” e ridurre in schiavitù una delle ultime nazioni libere del continente nero66. La presentazione sui quotidiani sportivi fu affidata all’inviato speciale Pietro Petroselli, già manager, organizzatore di incontri e dirigente della FPI, opinionista della “Gazzetta” e del “Littoriale”, profondo conoscitore degli ambienti pugilistici internazionali. In prima pagina, Petroselli introdusse a una sfida che bollò come l’ultima rimasta a Carnera per riaccreditarsi sul proscenio mondiale. Un rischio calcolato, da giocatore alla roulette e al baccarat, che de- notava il coraggio di Carnera, la sua audacia di legionario fascista. Articolo lungo, adeguato all’importanza e quindi ossequiente alla velina che l’eroe non andava sfiduciato a priori, bensì lo si attendeva al varco. A un’analisi critica, la presentazione del match da parte di Petroselli fu un’orazione ante battaglia con passaggi significativi, nella quale il lettore più avveduto poteva scorgere la teleologia del romanzo Io, povero negro di Orio Vergani. Vi è riassunto il sentire comune degli italiani verso i neri americani e i neri in generale:

[…] Il nostro gigante punta nuovamente tutto su di una carta. È giocatore di tutto gioco, Primo Carnera. Sta al piccolo rischio, cioè non disdegna il collezionare automaticamente facili vittorie; ma sta anche ai raddoppi fantastici, quelli in cui mette sul tappeto tutto: situazione, speranze, denari. L’incontro di stasera, contro il nerissimo Joe Louis, è appunto un vero “paroli”. […] Battuto da Baer, non restava che Joe Louis, un elastico e promettente pugilatore negro che sollevava rumorosi entusiasmi in Harlem, la capitale negra d’Ame- rica e del mondo. Carnera non ha esitato ad accettarlo. Louis è il pugilatore più in vista in America: quello su cui, in un momento di tanta mediocrità, si appuntano gli sguardi di tutti come a un probabile continuatore delle gesta di Jack Johnson. Il conto di Carnera torna. S’egli riuscirà vincitore di Joe Louis nessuna aspirazione potrà più essergli negata. D’altra parte la posta finanziaria val bene il rischio. Carnera e Joe Louis: pubblico italiano e pubblico di colore. A New York è abbastanza per riempire qualunque arena, specialmente poi quello Yankee Stadium dove si svolgerà stanotte l’incontro, e che sta a cavallo del Bronx e di Harlem, gli agglomerati dove più formicolano italiani e gentlemen black. […] V’è chi pensa che il negro risentirà della mancanza d’esperienza: è appena due anni che combatte. Chi ragiona così mostra di non conoscere troppo la psicologia e la situazione dei pugili di colore. Il pugile negro, quand’è invitto, anche se acerbo è più pericoloso di quando possiede maturità tecnica. La carriera pugilistica è difficile per i negri. Hanno nemici in se stessi e fuori. Hanno un fanciullesco temperamento che li porta a commettere balor- daggini appena riescono a far saltare in tasca i primi scudi, e quando la fama comincia a salire al cervello. Hanno un temperamento mistico e timoroso che li sgomenta e li prostra quando s’imbattono per la prima volta nel «knock-out», e li fa rassegnati, dopo i primi combattimenti duri, sino al punto di rinunciare a una vittoria faticata per contentarsi d’una sconfitta con pochi pugni presi. Hanno infine la spietata morsa della color line che comincia a pesare con i verdetti ingiusti, e che, più divengono forti, più li esclude dalla gloria e dalla ricchezza. […] Ben diversa è invece la situazione del pugilatore negro nei primi anni della carriera. L’orgoglio della razza bianca non è ancora in gioco e tutte le porte sono aperte. La sconfitta e gli incontri penosi sono ancora sconosciuti. La ricchezza non è venuta ancora a turbare la fanciullesca coscienza. L’entusiasmo gorgoglia in lui come una polla; i sostenitori si fanno coraggio e gli fanno coraggio; il nero diventa colore d’una bandiera. Sale sul palco e combatte, spregiudicato, utilizzando i formidabili mezzi di cui la natura l’ha dotato67.

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In quanto a chance di vittoria, Petroselli vaticinò che solo un Louis intimorito dalla mole dell’avversario avrebbe dato agio a Carnera di far valere la sua esperienza. Ma così non fu. Subito al primo round, Louis piazzò un sinistro al volto doppiato da un destro; due sventole a freddo che squarciarono il labbro inferiore a Carnera, lo scossero e ne determinarono una ritrosia iniziale nell’affondare i colpi. Duffy ci aveva messo del suo, dimenticandosi di far in- filare dal massaggiatore il paradenti nella bocca del gigante68. Nei round successivi, Louis co- minciò la sua danza pirrica fatta di passettini strascicati, da ballerino. Le veloci combinazioni di diretti del ventunenne di Detroit andarono a segno con facilità estrema, rendendo l’italiano un sacco da allenamento. Carnera aveva un’impostazione di guardia personalizzata e condi- zionata dalla sua mole, che lasciava ampi spazi per i colpi degli avversari, in specie in rimessa e contrattacco. Cercava soprattutto di ripararsi il mento e il fegato, lavorava alto di sinistro e destro in avvicinamento69. Invece di cercare il clinch, per fermare Louis e stancarlo poggian- dogli addosso i suoi 26 chili in più, continuò stolidamente a boxare a distanza, facendo così il gioco dell’altro, che amava toccare e danzare. Col viso ridotto a una maschera bruttata di sangue, un occhio gonfio a dismisura, l’altro semichiuso, ‘Satchel Feet’ andò giù una seconda volta al sesto round. Si rialzò di scatto, senza attendere il conteggio. Un suo vezzo d’orgo- glio, perché anche con Baer l’aveva fatto, ben undici volte, errore tattico che aveva sempre pagato caro. Infatti, un terzo atterramento si ripeté uguale, e per soprammercato un quarto, più letale, perché causato da un preciso gancio mancino al mento. Allorché il colosso bianco ritorreggiò in piedi, con grande pena, stordito e barcollante, Arthur Donovan – uno degli arbitri più preparati, ospite fisso in tutti i match decisivi di Carnera – bloccò il pugile color cioccolata che gli si avventava addosso, risparmiando forse alla platea un knock out mortale. A detta di molti commentatori, Louis finì fresco come il cliente d’un barbiere. Carnera uscì dal ring malconcio come mai prima. Al reporter Henry Allen, columnist del “Telegraph”, che l’abbordò all’entrata dello spogliatoio per chiedergli se avesse intenzione di riprovarci, rispose terrorizzato, esprimendosi con la sua voce gutturale in un italiano venato d’inflessioni furlan: “Rivincita? Porco Giuda, no!”70. Due parole su Louis, a questo punto, ci vogliono. Prima abbiamo accennato a lui come all’iceberg piazzato di traverso alla rotta di Carnera. Ed è vero che Louis fosse una monta- gna di ghiaccio. Tanto era un testimonial simpatico e disponibile al sorriso il buon Carnera, quanto Louis appariva un antidivo imbronciato, un campione che non concedeva pubblicità a prodotti che non fumava, non beveva, non indossava e non comprava. In pubblico, Louis mostrava un contegno educato e compassato di fronte a qualsiasi visitatore, reporter o fan. Un’anormale freddezza, strana per un uomo di colore, traspariva dal suo sguardo di squalo oceanico e dai suoi modi scostanti, sempre uguali sia nella gloria sia nella disfatta. La deci- sione di non far trasparire traccia di sentimenti sui lineamenti dolci del viso del ragazzo era, in realtà, un piano ideato dai quattro uomini che l’avevano acchiappato quando scaricava blocchi di ghiaccio dai furgoni a Detroit: John W. Roxborough, Mike Jacobs, Julian Black e Jack Blackburn. Giorno e notte, gli avevano ripetuto di combattere bene, di non ricorrere a colpi proibiti e di ricordarsi sempre che era un ambasciatore della sua razza. Anche il ‘Bom- bardiere nero’ si mosse in mezzo ai gangster, i lestofanti della “Purple Gang” e del “Syndicate” che controllavano il suo staff. Altrimenti, il titolo non l’avrebbe mai vinto71. C’è da aggiungere che il match Carnera-Louis non diede adito a problemi d’ordine pubblico. Gli altoparlanti, azionati nelle strade di Harlem su ordine del NY Police Department, i giornali del mattino

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e della sera avevano avvisato gli spettatori di non portare coltelli a serramanico nelle tasche. Gli spalti erano stati suddivisi in white areas e black areas, in un puro spirito di segregazione razziale giustificato dalla necessità di evitare scontri. La assenza di complicazioni politiche tranquillizzò le gerarchie fasciste. Che tuttavia non gradirono l’esito catastrofico dell’evento sportivo in se stesso. Carnera confessò ai reporter di non essere mai stato opposto ad un campione così forte, neanche Baer. Mussolini ovviamente non la prese bene, e Il Popolo d’Italia, con un articolo piuttosto crudo, lo consigliò al ritiro agonistico. In seguito, qualcuno, probabilmente un giornalista, restituì a Carnera un briciolo di autostima, mettendogli nell’orecchio la pulce di un drogaggio a suo carico tra un round e l’altro, perpetrato grazie a una «bibita deprimente o a qualcosa di simile». Un espediente non infrequente, tipico del fight racket, e che già s’era vociferato fosse stato il motivo della resa a Baer. Impossibile stabilire la verità su questo dettaglio. Vero è che lo stesso Duffy aveva inse- rito il suo zampino nel Twenty Century Sporting Club, il team che gestiva Louis in combutta con i gangster. Joe Louis era l’asso lanciato che si stagliava come un nuovo mandingo, dopo vent’anni di dominio dei bianchi, e che faceva più gola dello sfruttatissimo Carnera. L’incasso di 340.000 dollari del Garden parlava la lingua che il “Syndicate” e la “Commission” meglio comprendevano: la vena d’oro era “The Brown Bomber”. Quando, a fine luglio, Carnera ester- nò questi suoi sospetti a un periodico, la Federazione prese le distanze, seguendo una velina scattata dopo il match; così come l’altra direttiva, già adottata con Baer, di non pubblicare foto di Carnera in ginocchio ai piedi di Louis. Scandalosa immagine, per un atleta che, nei giorni radiosi in cui s’era posto sul capo la corona dei pesi massimi, aveva incarnato metaforicamente il corpo politico, il gargantuesco corpo-nazione dell’Italia mussoliniana, così distante dall’im- belle “Italietta giolittiana” dell’età liberale72.

10. Un campione da gettare nella spazzatura

Lo scarico dell’eroe partì subito col resoconto di Petroselli. L’inviato fu implacabile nel sottolineare gli errori tattici commessi da Carnera, la sua inefficacia nei colpi, l’ingenuità irre- cuperabile e la sciocca cavalleria. Fu prodigo solo nell’evidenziarne lo stoicismo, quel suo non voler arrendersi alla superiorità schiacciante del nero: quasi l’eco degli sfortunati bersaglieri di Adua. Un’anonima nota, di quelle dedicate al pettegolezzo, informò riguardo a un’offerta di diecimila dollari ricevuta per disputare un match di lotta con un wrestler professionista: «Ahi ahi... siamo ai minimi termini...»73. Sul piano finanziario, per Carnera la batosta con Louis fu un bel disastro. Non vide un cen- tesimo del contratto pattuito. Duffy, che era da poco uscito di galera per l’accusa di non aver denunciato al fisco la somma di 34.170 dollari scaturita dal tour del 1930, si squagliò come neve al sole. Aveva puntato altri polli da spennare e, dopo la fine del Proibizionismo (dicem- bre 1933), il fight racket andava sempre meglio. Il suo capo, Madden, stava invece passando un brutto quarto d’ora, addirittura sul punto di fuggire da New York per salvare la pelle. Il terzo figuro della combriccola, mister Soresi, fu ammonito e sospeso dalla FPI, ma non trascorse molto tempo che venne riammesso nell’albo dei procuratori sportivi. Poté così continuare a gestire gli scampoli dell’attività agonistica di Carnera. Condurlo a scontrarsi due volte, a Philadelphia e a New York nel 1936, con Leroy Haynes, un colored dell’Indiana. Due sconfitte

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per kot che costarono a Carnera l’uscita dalla lista top ten e il danneggiamento d’un rene. Alla vigilia del primo impegno, Soresi fece circolare in patria la notizia d’un tentativo di recupero del campione, che puntava ora a una rivincita con Louis e allo scontro con Schmeling. Già la resa in Pennsylvania, però, mandò mezzo per aria i suoi piani, e quella patita all’Ebbets Field l’affossò del tutto. Soresi decise allora d’abbandonare alla sua sorte Carnera, un atleta distrutto fisicamente, un grosso limone caduto marcio al suolo. Prese sotto la sua procura Jorge Brescia, un massimo argentino. Brescia era allenato dal manager Steve Klaus e aveva fatto da sparring a Carnera. Quest’ulteriore cambiamento di fantini fece sì che i due incontri successivi che Carnera disputò fino al suo ritiro, avvenuto nel dicembre del 1937, furono gestiti da un nuovo procuratore americano. Due match posti in secondo piano dalla carta stampata, dai cinegior- nali e dai notiziari radiofonici74. Sotto l’ennesimo vampiro, il manager Benny Huntman – un bandito yankee che aveva trasferito la sua base a Londra, terreno vergine in cui muoversi – si consumò così il triste epilogo del boxeur creato da Leon See. Ma nel 1936, quando alla guida c’era Soresi, ci furono ancora le menzioni nel Foglio d’Ordini del PNF per gli «atleti vittorio- si», e un favorevole resoconto sul return-match con Haynes a , il 27 maggio 1936. L’incontro venne deciso da una distorsione alla caviglia che obbligò Carnera all’abbandono al nono round, quand’era sotto nel punteggio. L’anonimo reporter del “Littoriale” chiuse il pezzo con parole d’elogio. Quasi l’epitaffio all’esausto atleta che s’era prestato alla strumentalizzazio- ne dei suoi trionfi:

Carnera, tutto sommato, ha sostenuto un bellissimo combattimento. Solo ha dovuto inchinarsi di fronte a un avversario più forte di lui e del quale l’avvenire rivelerà meglio l’altissima classe. Se non è superiore a Louis, Haynes gli sta poco lontano75.

Questo secondo match Carnera-Haynes fu oggetto, vista la temperie politica internazio- nale (da poche settimane Vittorio Emanuele III aveva proclamato l’Impero, ma la guerriglia degli arbegnuoc dava molto da fare sugli altopiani etiopici), di argomentazioni a sfondo raz- zista, espresse dalla rivista Il Pugilatore. In un’intervista concessa in esclusiva l’estensore fece pronunciare a Carnera una frase che non avrebbe potuto uscire dalla sua bocca, anche steso su un letto d’ospedale con la gamba sinistra semi-paralizzata: «Non volevo abbandonare davanti al negro!». Più verosimile che avesse detto: “Non volevo abbandonare dinanzi a Haynes”. In re- altà, neanche con Stribling, Baer e Louis, aveva alzato bandiera bianca. Sul ring era un pugile con gli attributi, dote che in America gli avevano subito riconosciuto. Fuori del ring, Carnera era un burattino in mano ai Mangiafoco della situazione76. Haynes, dal canto suo, non avrebbe mai incrociato Louis, perdendosi nella maniera che Petroselli preconizzava per i talentuosi guerrieri dalla pelle d’ebano deboli nel carattere. An- che questo modo, ancora sufficientemente obbiettivo, di commentare le imprese dei pugi- li afroamericani si sarebbe esaurito presto. La comparsa sulle carte geografiche dell’Africa Orientale Italiana, il varo delle leggi razziali e l’entrata in guerra degli USA accentuarono il fastidio per le vittorie dal ‘Bombardiere nero’ sugli alfieri della razza ariana. Ostracismo per Joe Louis e ingenerosa apertura del secchio per Primo Carnera. Dal 1934 al 1948 non furono più pubblicati libri e biografie. Nel 1938 uscì la striscia a fumetti Dick Fulmine, ispirata alla figura di un Carnera parecchio ingentilito nei tratti somatici. Quella stessa estate, Carnera co- minciò a girare l’Italia con una compagnia teatrale, esibendosi in round dimostrativi di boxe;

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in pratica, un ritorno alle origini Alla caduta di Mussolini, già da un lustro la sua immagine era stata tagliata dal set di cartoline che la “Gazzetta” dedicava agli assi77. Oggi, la stampa statunitense giudica Carnera un mestierante privo di scienza e potenza nel pugno, giunto al titolo grazie alla criminalità organizzata. La International Boxing Hall of Fame di Canastota, NY, non l’ha incluso nella sua lista di Famers. Difficile confutare questa verità, che Carnera sia stato un’azione da far salire nello Stock Trading del Prize Fighting, e il presente saggio la avvalora78. Difficile confutare anche un’altra verità: Primo Carnera rimane il pugile italiano più famoso del XX° secolo.

NOTE

1. M. G. Holli, P. d’Alroy Jones, Ethnic Chicago: a multicultural portrait, Grand Rapids, Mich, W.B. Eerdmans Pub, Co., 1995, pp. 538-539 e 547-548. 2. Ward ebbe molto a che vedere anche col lancio del football americano. L’ente Chicago Daily Tribune Charities Inc. raccolse, fino al 1955, cinque milioni di dollari. Cfr. Famed Chicago Sports editor dies, «The Spencer Sunday Time», 10 giugno 1955, p. 2. 3. Sull’opera di Sheil e la CYO, cfr: E. Brewer, Bishop Bernard Sheil and the Formation of the Catholic Youth Organization, seminar paper, University of Chicago 1979. 4. Sulla Legge Walker , vedi: R. Rosen, Perspective in the Aftermatch of MaClellan: Isnt’it Time for the Sport of Boxing to Protect Its Participants?, «Seton Hall Journal of Sport Law», n. 5, pp. 611-636. 5. S.a., Il torneo del Golden Gloves, in Aavv, Il pugno d’oro. Prima enciclopedia storica del pugilato mondiale, vol. I, Perna Editore, Firenze 1969, pp. 846-854. 6. P. Gallico, My fight with Jack Dempsey, Harold Ober, New York 1937, pp. 44-47. 7. M. Impiglia (a cura di), 100 anni della Federazione Pugilistica Italiana, FPI, Roma 2016, pp. 80-83. 8. Sulla figura di Daniel Ferris, vedi A.S. Katchen, Amateur Athletic Union, in Aavv, Sports in America from Colonial Time to the Twenty-first Century, An Encyclopaedia, S. A. Reiss, Armonk N.Y. 2011, vol. 1, pp. 89-90. 9. Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9 “Incontro pugilistico italo americano a Chicago”. 10. A. Ward, Italian Team to Boxe Golden Gloves Winners, «Chicago Daily Tribune», 6 marzo 1935: Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 11. E. Storer, Italians take new interest in all sports, Count to lead Italian Fight Team to U.S., «Chicago Daily Tribune» 16 e 17 aprile 1935, Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 12. Sulla macchina propagandistica del regime che condusse alla produzione della figura del duce campione in tutti gli sport, vedi: M. Impiglia, Mussolini Sportivo, in (a cura di) M. Canella, S. Giuntini, Sport e Fascismo, Franco Angeli, Roma 2009, pp.19-45. 13. La linea tenuta dai media nordamericani la si ritrova in J. P. Diggins, Mussolini and Fascism. The View from America, Princeton University Press, Princeton 1972. I rapporti diplomatici Italia-USA sono descritti in M. Martelli, Mussolini e l’America. Le rela- zioni italo-statunitensi dal 1922 al 1941, Mursia, Milano 2006. 14. D. Darrah, Italian Flightweight Champion Makes (and Eats) Spaghetti, «Chicago Daily Tribune» 30 aprile 1935; intervista tele- fonica effettuata alla figlia del campione, Bruna Matta, il 18 marzo 2016. 15. D. Darrah, Italy’s Champion is Chocolate Maker and He’s a Sweet Boxer, «Chicago Daily Tribune» 1° maggio 1935. 16. D. Darrah, Italian Bantam Champion Hails from Fightng Town, «Chicago Daily Tribune» 3 maggio 1935. 17. D. Darrah, Italian Welter’s Dad Certain His Son Will Win, «Chicago Daily Tribune» 4 maggio 1935. 18. D. Darrah, Battling Butcher Boy of Italy Must Have His Joke, «Chicago Daily Tribune» 6 maggio 1935. 19. D. Darrah, Italy’s Lightweight Champion is Handsome, Tough Soldier, «Chicago Daily Tribune» 7 maggio 1935. 20. D. Darrah, Italy’s Champion Punches Hard Eanough to Rock Ship, Hardy Sailors Cheer Blows of Italian Boxers, «Chicago Daily Tribune» 5 e 8 maggio 1935. 21. A. Ward, Italian Boxers Reach New York: All Set to Win, Wanna Fight? Tell Italians the’ll Lose, «Chicago Daily Tribune» 10 e 11 maggio 1935.

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22. Ibidem. 23. A. Ward, Mussolini Can’t Make It, «Chicago Daily Tribune» 27 aprile 1935. 24. Cfr. i numeri de «La Gazzetta dello Sport» del 1°, 3 e 5 maggio 1935. 25. A. Ward, Italian Boxers Pay Tribute to Unknown Hero, «Chicago Daily Tribune» 11 maggio 1935; su Rosso, cfr: Collana di Testi diplomatici vol. 7, “Augusto Rosso”, Ministero degli Affari Esteri - Servizio Storico e Documentazione, Roma 1979. 26. Tutto è pronto per ricevere i pugilatori italiani, «L›Italia» 12 maggio 1935. 27. La stessa incredulità ci è stata espressa dal vice campione olimpico 2008 e 2012 dei pesi massimi, Clemente Russo, che nel 2007 a Chicago partecipò a un’analoga parata in occasione degli AIBA World Championships. Intervista dell’Autore registrata il 6 agosto 2015. 28. W. Smith: 120,000 Welcome Italian Boxing Champions. Fighters and Fans Meet at Garfield Park, «Chicago Daily Tribune» 13 maggio 1935; Gli Azzurri accolti trionfalmente, «Il Progresso di Chicago» 18 maggio 1935. 29. «Chicago Daily Tribune», numeri del 12, 13, 14, 15, 16 e 17 maggio, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugili- stico italo americano”. 30. Il convito del Medinah si risolse in un largo tributo alla “Nuova Italia”. Echeggiarono ripetuti “viva il Duce!” e “viva Roosevelt!”, l’avvocato Spatuzza esaltò l’opera del fascismo e il conte Francesco di Campello si lanciò in una lunga lode dei progressi ottenuti nel campo della cultura fisica dalla nazione, le note di “Giovinezza” funsero da colonna sonora alla serata; P. Rossi, Vibranti dimo- strazioni di simpatia ai pugili azzurri, «Il Progresso Italo-Americano» 22 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 31. Vedi il primo dei due rapporti, datato 13 maggio 1935, spediti dal console di Chicago all’ambasciatore Rosso, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 32. Rapporto di Castruccio a Rosso del 25 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 33. H. McNamara, Chicago Ring Team Battles Italy Tonight, «Herald & Examiner»22 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 34. F. Cipriani, Italian Boxers Ready; Predict K.O. Victories, «Chicago Daily Tribune» 22 maggio 1935. 35. Sul match Locatelli-Ghnouly esiste un rapporto del console Castruccio all’ambasciatore Rosso, nel quale si dà nota dell’atmosfe- ra molto italiana della riunione (anche Ghnouly, un lightweight di St. Louis, aveva discendenze sicule) e del fatto che, all’annun- cio dello speaker della vittoria di Tony Canzoneri contro Lou Ambers a New York, il colossale organo dello stadio fosse esploso in un fragoroso O sole mio; vedi la lettera datata 11 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 36. Fifth International Golden Gloves Contest - Chicago vs Italy - Chicago Stadium May 22nd 1935, Chicago Daily Tribune Sports Department publishing, Chicago 1935, p. 2, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 37. In un cinema fu proiettato un film, The Golden Glove Champions 1935, dedicato all’intera stagione americana; cfr. A. Ward, Italian Team to Box Golden Glove Winners, «Chicago Daily Tribune» 6 marzo 1935. 38. W. Smith, Chicago Golden Glovers Battle Italians, «Chicago Daily Tribune» 23 maggio 1935. 39. Rapporto di Castruccio a Rosso del 25 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 40. Rapporto di Castruccio a Rosso del 25 maggio 1935, cit; W. Smith, Chicago Golden Glovers Battle Italians, cit.; H. McNamara, Chicago Boxers Defeat Italians, «Herald & Examiner» 23 maggio 1935; I pugili italiani battuti di misura a Chicago, «La Gazzetta dello Sport» 24 maggio 1935; I particolari del confronto pugilistico Italia-Stati Uniti allo Stadio di Chicago, «Il Littoriale» 24 maggio 1935. 41. F. Cipriani, Italian Boxers Leave Today on Journey Home, «Chicago Daily Tribune» 24 maggio 1935. 42. Rapporto di Castruccio a Rosso del 25 maggio 1935, cit. 43. Lettera firmata da Gene McDonald e inviata al console generale Castruccio, datata 24 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 44. Rapporto di Castruccio del 25 maggio 1935 e la lettera di risposta di Rosso, datata 5 giugno 1935, in Amae, Gab 1923-1943, busta 807-9, “Incontro pugilistico italo americano”. 45. La Mostra dello Sport che il Segretario del Partito inaugurerà domani documenta attraverso 40 sezioni la potenza dello sport fascista, «Il Littoriale» 11 maggio 1935; CONI, Lo sport in regime fascista, «Lo Sport Fascista» edizioni, Roma 1935, p.75. 46. N. Fleischer, Storia dei pesi massimi. Dalle origini ai giorni nostri, edizioni Tris, Milano 1958, p. 245; vedi il filmato col commento originale in inglese del match in: http://www.dailymotion.com/video/xdcd46_primo-carnera-vs-ray-impellettiere_sport 47. Sulla possibilità che il match Baer-Schmeling fosse ospitato a Piazza di Siena in Roma, vedi la lettera di Umberto Caradossi a Edoardo Mazzia datata 22 marzo 1935, in Amae, Gab 1923-43 busta 807-809. 48. Lettera di Caradossi a Mazzia del 22 marzo 1935, cit. 49. Ibidem. 50. N. Rogers, Big Bill Duffy, «Barbados Advocate» 17 giugno 1952. 51. G. L. Tenti, Il sindacato americano e le scommesse sportive, in E. Fontanella, F. Narducci, D. Redaelli (a cura di), Carnera, edizioni «La gazzetta dello Sport», Milano 2006, p.198. 52. L. See, Le mystére Carnera, Gallimard, Parigi 1934, pp. 112-114. 53. Questo dettaglio è documentato nella fotografia “The Big Parade”, datata 1931 e appartenente all’Archivio Gino Argentin, in R. Festi (a cura di), La leggenda di Primo Carnera, EsaExpo s.r.l., Trento 2006, p. 52. 54. B. Turkus, S. Feder, Murder Inc.: The Story of the Syndicate, New York 1951, pp. 56-58. 55. G. L. Tenti, Il sindacato americano e le scommesse sportive, cit, p.206; P.. Romani, Carnera e il mondo del business crime, in R. Festi (a cura di), La leggenda di Primo Carnera, cit, pp. 107-110. 56. R. Sorbi, Annuario del pugilato 1937-XV, cit, p. 12; E. Fontanella, D. Redaelli, F. Narducci (a cura di), Carnera, cit, p. 184.

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57. G. L. Tenti, Il sindacato americano e le scommesse sportive, cit, p. 192; La mano nera, Ibidem, p. 180-181; A. Spoldi, Io e Primo. La vita del Gigante Buono, Editrice Italiana, Roma 1968, p.130. 58. Varie lettere, spedite dagli USA e indirizzate a Mussolini, giunsero agli Affari Esteri, denuncianti le manovre dei gangster per far perdere il match a Carnera; cfr. Amae, Gab 1923-43 busta 807-809 “Incontro Carnera-Baer”. 59. L. Artioli, Sport e mafia, Bompiani, Milano 1968, p. 104; D. Marchesini, Carnera, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 83-86; J. S Page, Pri- mo Carnera. The life and career of the world heavyweight champion, McFarland, Jefferson 2010, pp. 130; P. Gallico, Pity the Poor Giant, in G. Kimball, J. Schulian, The Hurt Business: A Century of the Greatest Writing on Boxing, Aurum Press, London 2013, pp. 236-240. 60. Lettera di Mazzia a Caradossi del 9 aprile 1935, in Amae, Gab 1923-43 busta 807-809. 61. Lettera di Caradossi a Mazzia del 15 aprile 1935, in Amae, Gab 1923-43 busta 807-809. 62. Lettera di Mazzia a Caradossi del 5 maggio 1935, in Amae, Gab 1923-43 busta 807-809. 63. Lettera di Giorgio Vaccaro datata 13 giugno 1935, in Amae, Gab 1923-43 busta 807-809. 64. Telespresso della Regia Ambasciata d’Italia al Ministero degli Affari Esteri, datato 23 giugno 1935, in Amae, Gab 1923-43 busta 807-809. 65. R. Sorbi, Annuario del pugilato approvato dalla Federazione Pugilistica Italiana. Anno 1* 1937-XV, Pistoia 1937, p. 57. 66. P. Myler, Ring of Hate, Arcade Publishing, London-Edimbourgh 2005, pp. 47. 67. P. Petoselli, Primo Carnera incontrerà stanotte in Joe Louis un giovane avversario capace di tenergli testa, «Il Littoriale» 25 giugno 1935. 68. Probabile che Duffy avesse tra le mani un giro di scommesse che prevedeva la sconfitta di Carnera: i due pugili erano dati alla pari nelle ultime ore. Anche la stampa italiana, un paio d’anni dopo il match Carnera-Louis, cominciò a criticare apertamente i trucchi usati dalla malavita americana, l’impenetrabile sistema dei due sindacati; cfr. G. Boriani, L’America, i e il mono- polio dei titoli mondiali, «Lo Sport Fascista», gennaio 1938, pp. 31-34. 69. Una precisa disamina dello stile del pugile sta in: F. Falcinelli, Primo Carnera dal punto di vista tecnico, in R. Festi (a cura di) La leggenda di Primo Carnera, cit., pp. 87-88; cenni sulla maniera di Carnera d’intendere la boxe sono rinvenibili in G. V. Fantuz, I. Malfatto, Mio padre Primo Carnera, SEP Editrice, Milano 2002, p. 36. 70. D. Marchesini, Carnera, cit, pp. 145-146. 71. L. Artioli, Sport e mafia, cit, pp. 107-111. 72. D. Marchesini, Carnera, cit, pp. 148-149; F. Narducci, Una vita ineguagliabile, in F. Narducci, D. Redaelli, E. Fontanella, Carnera, cit, p.90; S. Giuntini, Pugilato, fascismo e letteratura, ivi, pp. 300-308. 73. P. Petroselli, La formidabile potenza di Joe Louis prevale sulla resistenza di Carnera, «Il Littoriale» 26 giugno 1935; Fuori dalle corde, ibidem. 74. N. Rogers, Big Bill Duffy, cit. 75. Carnera verso la riconquista del titolo mondiale, in: “Il Littoriale” 17 marzo 1936; Carnera battuto da Haines, «Il Littoriale» 18 marzo 1936; Come Haynes s’è aggiudicata la seconda vittoria su Carnera, «Il Littoriale» 29 marzo 1936. 76. D. Marchesini, Carnera, cit, p. 146. 77. F. Dell’Amore, La lunga storia del libro e della boxe, F. Narducci, D. Redaelli, E. Fontanella, Carnera, cit, p. 410; D. Aloi, Pugni di carta, ivi, pp. 405-406. 78. S. Andre, N. Fleischer, A Pictorial History of Boxing, Hamilyn, London 1993, p. 122.

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1. Il numero del 18 maggio 1935 de “Il Progresso di Chicago” dedicato all’arrivo dei pugili dalla madre patria. Archivio Ministero degli Affari Esteri.

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2. Lo “Chicago Daily Tribune” del 16 maggio 1935 con una foto che ritrae alcuni azzurri nello stadio del baseball insieme a Zeke Bonura, stella dei White Sox. Archivio Ministero degli Affari Esteri.

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3. La cintura Gloden Glove Champion ricevuta da Gavino Matta. Collezione Bruna Matta.

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4. Una fase del match Carnera-Louis, disputato allo Yankee Stadium di New York il 25 giugno 1935. Archivio Federazione Pugilistica Italiana.

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