Seminario di studio

"Dopo le guerre, il dialogo - Posizioni e prospettive per la Caritas nell’area mediorientale: Terra Santa, , , "

Roma, sede Caritas Italiana (V.le F. Baldelli, 41) 24-25 novembre 2003

Tavola rotonda: “Quale dialogo?”

Intervento di Laura Boldrini Portavoce Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)

Grazie alla Caritas per aver invitato l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati. L’argomento è molto interessante, molto avvincente e, come dire, mi vengono alla mente due scenari: quello del dopoguerra, del dopo-conflitto, in cui c’è stato uno scontro armato e bisogna riprendere il dialogo, ma anche quello dove non c’è stato lo scontro armato ma ugualmente non c’è dialogo. Nel primo caso penso ai molt i conflitti degli ultimi anni. Nel secondo caso penso al nostro paese. Per quanto riguarda il dialogo dopo le guerre, dicevo prima che, appunto, forse il momento più delicato è proprio quando si disarmano gli eserciti, quello della smobilitazione. È il momento decisivo, in cui si capisce se c’è la volontà di farla finita o se era solamente un bluff, quindi se c’è l’intenzione di ricominciare. Oggi un Paese che è totalmente in bilico in questa fase è l’Afghanistan. Un paese in cui c’è un delicatissimo momento di transizione, in cui si sta arrivando ad una fase elettorale, ad un processo, come dire, di raccordo della nuova costituzione e in cui a breve ci sarà la Loya Jirga. Un paese in cui essere occidentali, essere disarmati e portare aiuto è molto pericoloso. L’altra domenica abbiamo perso una collega di 29 anni che era a Gasmi, in un villaggio al sudest del paese, al mercato. La vettura sulla quale era a bordo è stata affiancata da una motocicletta: hanno sparato in pieno giorno, al mercato. La ragazza è morta sul colpo, l’autista afgano è rimasto ferito. Ma la popolazione non è rimasta a guardare. Erano al mercato, allora i banchetti di frutta e verdura sono stati buttati in terra e la moto è scivolata e questi due disgraziati sono caduti in terra e la folla li ha quasi uccisi, picchiandoli. È un segnale aggressivo, che non ci dovrebbe essere, ma è un segnale importante. Significa che la gente non è con questi scellerati, che giocano contro, che vogliono interrompere questo processo, che vogliono allontanare una presenza esterna perché vogliono dare un segnale forte: l’Afghanistan agli afgani! Che è sacrosanto e che così deve essere, ma non si può fare questo attraverso la violenza sul personale umanitario, non in armi, assolutamente con scopi benefici. Ecco, in tutti i paesi in cui si esce da un conflitto etnico a matrice religiosa, questo è un momento delicatissimo. L’abbiamo visto in Bosnia. L’abbiamo visto e lo vediamo in Kossovo. Ma l’abbiamo visto e lo vediamo in Cecenia. L’abbiamo visto e lo vediamo in . In tutti i luoghi in cui c’è un conflitto tra entità cosiddette etniche e dietro, nello sfondo, c’è una diversità religiosa. Ecco, allora io penso che, quando si fa uno sforzo per uscire dal tunnel della guerra, bisogna non solo investire in infrastrutture ma investire nel dialogo, nella riconciliazione, nella pace. Bisogna investire facendo parlare le comunità ferite, perché sono tutte comunità ferite. Perché il vicino di casa è diventato lo stupratore. Perché l’insegnante è diventato colui che ha seminato odio. Bisogna investire in questo concetto importante: riconciliare, riavvicinare. Questo lavoro, evidentemente, lo fa la Caritas, lo fanno altre agenzie delle NU, lo fanno altre Ong che credono a questo più che alle grandi opere che magari non hanno alcun impatto nei sentimenti delle persone. Perché quello che conta sono i sentimenti: riuscire a perdonare. 1 Quanto ci vuole per perdonare? Basta una generazione? Io ho maturato la convinzione che non basta. E l’ho maturata avendo parlato con tanta gente. Non può bastare. Ma ce ne vorranno molte di più se non si fa uno sforzo, se non s’investe nella pace. Quindi, il dialogo è fondamentale e deve essere alla base del nostro operato. Altrimenti si continua nella separazione, nell’apartheid, nell’odio, in quel sentimento sottile che ti porta a considerare il peggio… poi si fanno i rimpatri. L’agenzia che io rappresento, dopo la guerra, cosa fa? Porta a casa la gente, milioni di rifugiati che sono fuggiti, che sono stati nei campi profughi. A volte sono stati lì per decenni, e non si vive bene nei campi profughi, ve lo assicuro, nonostante gli sforzi di tutti. E’ una mera sopravvivenza. Nessuno vorrebbe crescere i propri figli nei campi profughi, è una non vita. Allora bisogna riportare indietro questa gente, ma bisogna farlo in dignità e in sicurezza. Oggi in Iraq non siamo in grado di fare questo, anche se oggi, noi, volevamo fare questo in Iraq. Avevamo programmato di riportare a casa almeno mezzo milione di rifugiati iracheni. Ma oggi, non possiamo farlo. Durante la guerra sono stata in Giordania ed anche in Iran. Sono stata al Sud, nei campi profughi degli iracheni, dove vivono migliaia d’iracheni anche da vent’anni. E’ stato un viaggio nell’inferno, l’inferno di Saddam Hussein. Tutte queste persone hanno sperimentato la ferocia del regime, tutte. Ci sono i kurdi, ci sono gli sciiti, ci sono entità diverse che, appunto perché diverse, dovevano essere represse, dovevano essere annientate, dovevano essere scacciate. Anche qui, sullo sfondo, c’è una diversità d’interpretazione religiosa. Dunque il rilanciare il dialogo è importantissimo nei contesti di cui stiamo parlando. Senza dilungarmi, vorrei solamente fare un accenno alla situazione che viviamo noi, oggi, in Italia. Oggi in Italia viviamo una situazione che è dipinta in maniera molto, molto irresponsabile, quasi come uno scontro di civiltà. Ci vogliono far credere che abbiamo uno scontro di civiltà in casa. Ci vogliono far credere che Islam è uguale a fondamentalismo e che questo rappresenti il nostro nemico. Anche sulla morte della povera Annalena Tonelli, prima ancora che fossero avviate le indagini, sono arrivati a dire che l’avevano uccisa i fondamentalisti, prima ancora dell’avvio delle indagini! Allora, queste deduzioni, queste equazioni, a me fanno paura. Perché bisogna alimentare quest’ansia da pericolo, da assedio, questa confusione terminologica? Perché si deve sposare quest’equazione? Questo è altamente, altamente irresponsabile. I media, che puntano a questo e che fanno eco a dichiarazione politiche azzardate e assolutamente improvvide, non dovrebbero avere questo tipo di presa sulla gente, non dovrebbe poter farci pensare automaticamente che l’Islam è un pericolo, che Islam è uguale a fondamentalismo, perché questo è falso. Noi dobbiamo lottare contro quest’equazione e contro questa tendenza subdola che si sta insinuando. E’ pericolosissimo sposare quest’equazione. Oggi noi in Italia assistiamo anche a degli arrivi modestissimi di persone che fuggono da diversi contesti. Fuggono dalla povertà, ma fuggono anche dalle guerre e dalle persecuzioni. Io mi sono recata ultimamente a Lampedusa, in occasione di quel terribile viaggio in cui tanti somali sono morti e i sopravvissuti sono arrivati in condizioni terrificanti. L’occidente si meraviglia di come mai i somali arrivano ogni tanto in Europa. Ma la Somalia è un paese abbandonato a se stesso da più di 10 anni, che ha prodotto più di 450.000 rifugiati, di cui 350.000 stanno nei campi profughi del Corno d’Africa, enormi campi profughi nell’Etiopia e del Kenia, dove abbiamo Dadab, Kakuma. E se qualcuno, poi, osa sperare a qualcosa di meglio per la propria vita, se cerca di fuggire, per cercare di cambiare la propria sorte, noi ci accorgiamo che c’è un problema Somalia. Ma il problema esiste, esiste il problema grandi laghi, esiste il problema Liberia, esiste il problema Sudan. Ma allora l’Europa può continuare a rafforzare solamente i sistemi di contrasto, anziché risolvere i problemi che stanno dietro alla grande fuga. Questa è una visione miope, che non ci porterà da nessuna parte. Ovviamente gli Stati sono legittimati a difendersi. Sono legittimati anche ad applicare le leggi che regolano l’immigrazione ma bisogna anche andare oltre, per regolare questo fenomeno, bisogna capire perché questo fenomeno c’è, investire in questo fenomeno.

2 Allora perché non investiamo nella soluzione dei conflitti? Quelli a bassa intensità, quelli lasciati al proprio destino? Allora perché non diamo più aiuti ai paesi di primo asilo che non ce la fanno da soli? I ¾ dei rifugiati vivono nel Sud del mondo: vivono giù, lontano da noi. Perché non investire di più in questo? Perché non investire di più nel fare progetti di integrazione per questi rifugiati, così che possano rimanere nei paesi di primo asilo? Non è l’Alto Commissariato che dice porte aperte a tutti, perché questo non significa niente. Non si può neanche svalutare l’asilo, l’asilo è un istituto importante, che va salvaguardato, ma salvaguardato solo nella sua possibile svalutazione ma anche rispetto alle misure repressive che sono prese oggi in Europa. Noi oggi abbiamo diramato un comunicato stampa durissimo contro la politica europea in materia di asilo. Oggi è in pericolo questo diritto antichissimo: già nel 430 a.C. si parlava dell’asilo (ci sono delle tragedie di Euripide che lo documentano). Oggi questo stesso istituto è minacciato da una politica che non vuole tener fede alla sua origine, alla sua civiltà. La culla della convenzione di Ginevra, che è l’Europa, oggi vuole voltare le spalle all’Europa e lo fa annacquando assolutamente gli standard di protezione, gli standard di armonizzazione dell’asilo. Questo, capirete, è una grande minaccia. Non possiamo svendere le nostre conquiste civili. Non le dobbiamo svendere e non dobbiamo pensare che questo sia l’unico modo che abbiamo per combattere i terroristi.

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