Onoranze al prof. Girolamo Caruso

Il giorno 12 novembre 1925, come coronamento all’iniziativa di un gruppo di laureati della Scuola superiore agraria di , venne scoperto nell’aula di Agronomia un busto del compianto prof. Girolamo Caruso. In tale circostanza i dottori in scienze agrarie d’Italia si riunirono a congresso e venne stabilito che lo scoprimento del busto del prof. Caruso e l’inaugurazione del congresso venissero riuniti in un’unica cerimonia. Ad essa aderirono, scusando l’assenza perché trattenuti a Roma per motivi di governo, S. E. Belluzzo, ministro dell’Economia nazionale; S. E. Fedele, ministro della Pubblica istruzione; S. E. Peglion, sottosegretario all’Agricoltura; gli alti funzionari del Ministero dell’Economia nazionale, grand’uff. Brizi, comm. Stringher, ecc. Intervennero le autorità locali, numerosi rappresentanti di istituti superiori e medi d’Italia, di sindacati, di ordini; il corpo accademico dell’Università e degli istituti superiori di Pisa; un largo stuolo di congressisti, di amici, di ammiratori, di discepoli del venerato maestro.

Allo scoprimento del busto il prof. Ravenna, direttore del R. Istituto superiore agrario, spiegò il significato della cerimonia e dopo una felice improvvisazione del Prefetto di Pisa grand’uff. Cotta, presero la parola il prof. Todaro, presidente del Comitato ordinatore delle onoranze; il prof. D’Achiardi rettore della R. Università, il dott. Calzavara, per i discepoli e a nome dell’Associazione dottori in scienze agrarie delle Tre Venezie; il dott. Ferrucci, come presidente del Comitato ordinatore del congresso e del sindacato pisano dei dottori in scienze agrarie. Infine il senatore prof. Passerini lesse il discorso commemorativo.

Parole del prof. Ciro Ravenna, direttore del R. Istituto superiore agrario

Signori, l’anno accademico che da pochi giorni si è inaugurato, non poteva iniziarsi con maggiore fortuna. Se è un imperioso bisogno delle anime gentili quello di rivolgere un memore pensiero a coloro che senza calcoli, senza sottintesi, ma per purissimo sentimento d’amore prodigarono le migliori virtù a vantaggio della Scuola, è pur vero che un tale omaggio tributato agli uomini che ne sono altamente degni si riflette sui luoghi dove essi esplicarono la loro nobile operosità e li illuminano di luce radiosa infondendovi nuovi motivi di grandezza e di gloria. Ed è perciò che io, come direttore del R. Istituto superiore Agrario, sono esultante della cerimonia che qui si sta compiendo. Nel commemorare Girolamo Caruso, oggi si esaltano i fasti della Scuola pisana poiché può ben dirsi che questa formi con lui pressoché un’unica cosa.

Siano quindi rese vive grazie alle autorità che hanno voluto con la loro presenza conferire maggiore solennità alla cerimonia e grazie ai colleghi e ai discepoli e agli estimatori dell’insigne scomparso, che così numerosi sono accorsi per rendergli i meritati onori. Ma sopratutto un riconoscente pensiero vada al Comitato ordinatore di questa rievocazione ed al suo presidente prof. Francesco Todaro allievo dilettissimo di Girolamo Caruso ed a lui legato da indissolubili vincoli di devozione e di affetto. E siate benvenuti, voi, dottori in Scienze agrarie, che rappresentate le migliori forze di propulsione della Patria nostra adorata e che nel nome della Maestà del Re avete voluto inaugurare il vostro congresso sotto l’egida sicura dell’indimenticabile maestro.

Quale uomo fosse Girolamo Caruso, lo dirà fra poco con mente di scienziato e con cuore di amico l’illustre oratore rituale di questa riunione. Basti a me ora, mentre qui vibra il suo spirito, in quest’aula ove per mezzo secolo squillò la sua voce, rilevare con sommo compiacimento che l’eco di quella voce è più viva che mai perché il risuono delle sue parole ha fatto qui convenire da ogni parte d’Italia per celebrare il maestro, gli antichi discepoli che lo amarono e lo ammirarono in questo santuario che fu la passione della sua esistenza.

La scuola alla quale profuse i tesori del suo sapere gli è grata. Dell’opera da lui compiuta ed egli addita a noi, suoi successori, le norme da seguire per renderla sempre più meritevole della rinomanza di cui gli è debitrice. Grave è perciò il peso della nostra responsabilità, ma altrettanto grande lo stimolo a perseverare sulla via luminosamente tracciata affinché la Scuola agraria di Pisa possa un giorno raggiungere le mète più elevate a cui egli ha saputo destinarla. In quel giorno soltanto, signori, Girolamo Caruso avrà la commemorazione degna di lui.

Parole del prof. Francesco Todaro, Presidente del Comitato ordinatore delle onoranze

Signori, quasi due anni or sono, nel gennaio del 1924, un gruppo di laureati pisani della nostra Scuola. prese la iniziativa di queste onoranze, le quali hanno raccolto larghe e fervide adesioni tra gli allievi, gli amici ed ammiratori del maestro.

Fu costituito un Comitato d’onore che si ornava dei nomi di Giacomo Acerbo, Napoleone Passerini, Vittorio Alpe, Alesandro Brizi, Giovanni D’Achiardi, Guido Guidi Buffarini, Angelo Menozzi, Nicola Miraglia, Vittorio Peglion, Filippo Silvestri, Alessandro Vivenza e del Sindaco signor Bambina di , dove il maestro ebbe i natali.

Del Comitato esecutivo - di cui l’egregio prof. Pericle Galli è stato Segretario veramente infaticabile - furono chiamati a far parte Francesco Ruschi, Enrico Avanzi, Manlio Battaglia, Arturo Bruttini, Prospero Ferrari, Domenica Santucci e - come cassiere - Ferdinando Zaccagnini. Faceva parte di questo Comitato anche il compianto professore Giovanni Emilio Rasetti, spentosi immaturamente or fa un anno nel pieno della non comune sua attività a servizio dell’agricoltura pisana, che assieme a noi amaramente lo piange.

Del Comitato stesso venne a me conferito l’alto onore della Presidenza. E debbo a questa carica la ventura di essere io a compiere il gradito dovere di ringraziare - anche a nome degli altri membri del Comitato esecutivo - tutti coloro, enti e persone, che in qualsiasi misura vollero partecipare alla sottoscrizione; di esprimere i sensi di viva gratitudine ai colleghi del corpo accademico dell’Istituto pisano, particolarmente al chiarissimo direttore prof. Ciro Ravenna, che tanto a cuore prese la nostra iniziativa; a tutti i buoni signori - e, s’intende, prima ancora alle gentili signore - che con la stessa lor presenza a questo sacro rito, recano il massimo tributo di sentimento e di onore a cui, pel maestro, noi potevamo ambire.

Penso, o signori, che quest’ora solenne che qui ci aduna vecchi e giovani allievi, attorno al maestro, debba essere ora di gaudio - non di lacrime e cordoglio - perché siamo qui venuti a glorificarlo, a rendere omaggio non alla memoria di lui, ma a lui in persona, che è sempre vivo nell’anima e davanti agli occhi dei suoi discepoli e degli agricoltori italiani.

Questo miracolo di sopravvivenza è, principalmente, opera di Girolamo Caruso: cuore gagliardo, impetuoso e generoso, che alla parola detta o scritta - conferiva la irresistibile forza di quelle onde di passione e di fede che traggono l’umanità ai più alti suoi destini. Mi par di ieri - ed è ormai vecchia di mezzo secolo - l’ascoltazione di quelle lezioni alle quali venivamo in quest’aula come a festa; sento ancora vivo e potente il fascino di quello sguardo agilissimo che col mistico solenne gesto del seminatore egli faceva correre senza posa sulle attente file della scolaresca. Che seminatore egli era: non idee fluidificate e con l’atto banale del travaso ci vennero da lui; ma germi di pensiero e di vita, che - dove più dove meno - si svilupparono. E vanno ora fruttificando: a vantaggio nostro, ma anche - oso dirlo - della agricoltura del nostro Paese.

L’agricoltura non apre le sue officine al controllore freddo e rigido del lavoro, che comanda le manifatture; non può asservire l’uomo alla macchina. E se un giorno lo potesse di certo non vorrebbe, poiché vive nel capriccio del tempo, negli adattamenti di ogni ora che solo dalla libera personale iniziativa possono scaturire. L’amore alla terra madre - sconfinato inestimabile amore - deve governare pertanto - e muovere - la economia e la tecnica dell’azienda agraria. La quale invano cercherebbe all’infuori di esso quel fecondo sviluppo che è cagione - non effetto dell’eterno cammino dei popoli verso il meglio.

Questa santa passione per la terra - fonte prima della vita - ha saputo in noi suscitare il maestro con la parola fervida, con tutta l’opera Sua assidua e poderosa. Della quale voglio qui ricordare - quasi ad esponente e simbolo - le auree pagine sulla Colonia parziaria e la magnifica storia naturale e culturale dell’olivo.

È scolpito in quelle pagine un pensiero d’avvenire: la chiara visione del maestro di quell’assetto economico-sociale verso cui deve tendere l’agricoltura del nostro Paese per assicurare - nel pieno benessere di questo ed in quanto umanamente possibile - la felicità a tutti coloro che all’arte divina dei campi braccio e mente avranno dedicato. È nell’«albero di Minerva» che con vera passione il maestro più che studiare, ha «cantato» l’albero che non muore - il simbolo dell’opera Sua imperitura.

Da questa trae l’adamantina saldezza delle proprie strutture anche l’Istituto agrario pisano - il quale, sul vasto monolitico basamento gettato da Cosimo Ridolfi e Pietro Cuppari, è già all’altezza degli edifici monumentali, geloso custode dei blocchi massicci di gloria che ad esso affidarono - assieme a Girolamo Caruso - gli altri nostri venerati maestri Antonio Pacinotti, Fausto Sestini, Vittorio Niccoli ed Italo Giglioli: potenti «seminatori» anch’essi, suscitatori di energie fattive; figli elettissimi - come il Caruso - della nuova Italia, che vuol rivivere la grandezza di Roma.

A tutti questi numi tutelari del nostro vecchio glorioso Istituto, da cui tanta luce è venuta alla scienza agronomica e all’agricoltura italiana; a Girolamo Caruso, che tutti li rappresenta nella nostra festa di resurrezione, il saluto reverente, la nostra riconoscenza memore e devota; all’Istituto Agrario pisano l’augurio di un avvenire - prossimo e lontano, che, sviluppandolo vigorosamente, possa degnamente coronare il suo passato.

Parole del prof. Giovanni D’Achiardi, Rettore della R. Università

Signori, se la Scuola di Agraria, per recenti disposizioni legislative, dal 1923 non fa più parte della nostra Università, non per questo deve considerarsi dall’Università spiritualmente staccata, perché ad essa la legano troppi ricordi del passato, troppa comunanza di aspirazioni e di idee nel presente.

È per questo che alla cerimonia odierna l’Università partecipa con tutto il cuore, con tutto l’affetto e vi partecipa anche perché Girolamo Caruso appartenne alla Università nei suoi 47 anni d’insegnamento, da quando non ancora trentenne fu chiamato nel 1871 a Pisa, ad occupare la cattedra già illustrata da un altro grande siciliano, allora scomparso, Pietro Cuppari, infine nel 1917, nel quale anno lasciato l’insegnamento per limiti di età e nominato professore emerito, poté godersi un guadagnato riposo.

Non spetta a me il dire dei meriti scientifici e didattici dell’uomo che oggi onoriamo, altri lo farà tra breve, con competenza di scienziato, con affetto di discepolo: permettetemi soltanto di ricordare come tutta la sua vita fu dedicata con fede ed amore di apostolo alla redenzione dell’agricoltura nazionale e come il gran numero di allievi, che sparsi in ogni parte d’Italia onorarono se stessi e il maestro, dettero per lunghi anni alla nostra Scuola il primato sulle consorelle d’Italia.

Primato che momentaneamente scomparso, si volle da taluno misconosciuto per sempre, e la Scuola sarebbe stata fatalmente condannata, se l’intiera città non fosse insorta in suo favore.

Ma oggi, mi gode il ripeterlo, essa è più viva e vitale di prima, e sia di buon augurio, all’inizio di sua vita nuova l’inaugurazione del ricordo marmoreo di Girolamo Caruso che insieme a quelli di Pietro Cuppari, Cosimo Ridolfi e Fausto Sestini, rammenterà le glorie passate, e sarà di incitamento a quelle future.

Parole del dott. Giovanni Calzavara, Presidente dell’Associazione dottori in scienze agrarie delle Tre Venezie

Signori, depongo, qual corona di fiori, su questo ricordo, che scolpisce imperiture le sembianze, che rivivono negli animi nostri, l’omaggio riverente della Associazione laureati in Agraria delle Tre Venezie. L’uomo che fu maestro di molti insigni cultori dell’agricoltura italiana contemporanea, ben merita l’onore che rifulge da questo marmo, che si esprime con sì larga, spontanea e commossa manifestazione da questa cerimonia. È tutta l’Italia agricola, finalmente elevata in tutta la solennità e riconosciuta la forza più possente della Patria che si inchina riconoscente al cospetto di Girolamo Caruso. Ma in me, più che la parola che debbo dire per l’ufficio a cui i colleghi delle Tre Venezie hanno voluto farmi l’onore di propormi, sgorga dall’animo la parola del discepolo fatto uomo, provato a tutte le vicende della vita che si commuove al ricordo del suo maestro. È il periodo più bello della vita che passa dinanzi alla mia mente come una fantasmagoria di luce e di colori. Ebbene in esso, serena, semplice, affettuosa si irradia la figura di Girolamo Caruso. È un tesoro di bontà che si effonde da quell’immagine, che ogni volta che occupa l’animo, specie nei momenti tristi della vita, riconforta, ricrea, circonfonde di un cerchio di roseo gli orizzonti dell’avvenire.

Un ricordo personale. Durante il secondo anno della vita universitaria, caddi ammalato, sicché per più di un mese fui costretto a letto. Ebbene io, che fui uno studente che assai più della Scuola amai la giocondità della vita goliardica, (è un bisogno la confessione delle colpe dinanzi ai buoni) quasi ogni giorno l’avevo al mio capezzale a dirmi la parola amorevole di fiducia e di augurio.

Oh, veramente amato maestro nostro! Tu vivi ancora, perché basta gridare il tuo nome glorioso e sopratutto caro, perché da cento e cento tuoi discepoli in ogni lembo della Patria rinata, si risponda come da un sol cuore: Presente!

Presente sì, ma non solo negli animi nostri vibranti del più puro e più intenso affetto; presente, in tutte le campagne d’Italia, pulsanti una novella vita; presente per le nuove fortune della Patria.

Parole del dott. Ugo Ferrucci, Presidente del Comitato ordinatore del congresso e dei sindacati dei dottori in scienze agrarie di Pisa

Signori,

è stato affidato a me l’onorifico incarico di porgere a voi, illustri signori, qui intervenuti a rendere con la vostra presenza più solenne questo convegno, il deferente saluto ed omaggio in nome del Sindacato dottori Scienze agrarie di Pisa, promotore del Congresso. A voi, colleghi carissimi e cortesi, che numerosi avete corrisposto al nostro invito, porgo il saluto caldo, spontaneo e cordiale.

È stata eccessiva benevolenza dei colleghi quella di affidarmi questo incarico per me sommamente lusinghiero ed onorifico e che procurerò di assolvere come meglio mi sarà possibile. Altri, meglio di me, avrebbe dovuto portare la sua voce autorevole nella seduta inaugurale di questo Congresso, ma una coincidenza di date ci ha privato oggi della presenza in quest’aula di S. E. Belluzzo, trattenuto da ragioni derivanti dalla sua altissima carica, di S. E. Peglion, del grande uff. prof. Brizi, del comm. prof. Fileni, del dott. Angelini, segretario generale della F.I.S.A. perché trattenuti a Roma da una riunione del Comitato permanente del grano, del quale fanno parte, convocata da S. E. il Presidente del Consiglio.

Credo pertanto di interpretare il vostro pensiero, o colleghi rivolgendo un sentito ringraziamento al chiar.mo prof. Ravenna, direttore dell’Istituto superiore agrario pisano, per la cortese ospitalità offertaci in quest’aula, a tutti noi ben cara, ambiente il più proprio ai lavori che andremo svolgendo: Quest’aula a molti di noi ricorda un’età ben lieta ed a tutti ravviva il ricordo dei sommi maestri, di Girolamo Caruso, di Fausto Sestini, di Italo Giglioli, i quali tennero ben alto il nome di questa Scuola già illustrata da Cosimo Ridolfi e da Pietro Cuppari!

Due furono i moventi della iniziativa del Sindacato pisano: uno la solenne cerimonia per onorare la memoria del compianto maestro, Girolamo Caruso, per merito di apposito Comitato presieduto dal chiar.mo prof. Francesco Todaro, l’altro quello di concorrere con questa nostra manifestazione alle onoranze per il giubileo di regno del nostro amato sovrano. Due occasioni queste molto propizie per riunire numerosi colleghi per discutere di importanti questioni, per uno scambio di idee a viva voce, per un dibattito cortese e cordiale con l’alto fine di un valido contributo per il progresso dell’agricoltura, rispondendo all’appello del capo del Governo nazionale e amato Duce del fascismo, restauratore delle fortune della Patria.

Rinnovo a voi i ringraziamenti miei e del Sindacato che ho l’onore di presiedere e dichiaro aperto il Congresso.

Discorso del prof. senatore Napoleone Passerini

Signore, signori, non è senza emozione che a voi mi presento per brevemente illustrare l’opera scientifica del mio insigne e venerato predecessore, del quale oggi, auspice il Governo, viene inaugurata una marmorea effigie nell’aula in cui per poco meno che mezzo secolo fece udire la sua voce di scienziato erudito e di apostolo fervente. Perché Girolamo Caruso esercitò il suo mandato con la passione profonda di vero apostolo, dedicando tutto il suo tempo, tutta la sua energia di figlio della forte e ardente Sicilia, tutto Se stesso all’insegnamento e a quelle geniali ricerche, che altro fine non ebbero se non il progresso della patria agricoltura.

A lui legato per lunghi anni da vincoli della più schietta, inalterabile e rispettosa amicizia, ebbi campo di constatarne con filiale ammirazione l’alto sapere, la tenacia nei propositi, la rettitudine e la grande bontà di animo; perché fu buono, squisitamente. buono e mai invano a lui ricorsero per consiglio ed aiuto gli amici, i conoscenti e i discepoli.

E quando or sono diciotto anni venne festeggiato il suo trentacinquesimo anno d’insegnamento universitario, fu un accorrere da ogni parte d’Italia di colleghi, di antichi studenti e di ammiratori, i quali oltreché per onorare lo scienziato intervennero numerosi come sospinti dalla riconoscenza e dall’affetto da cui verso di lui si sentivano legati.

Giorno di esultanza fu quello per tutti noi, come giorno di amaro cordoglio e di pianto fu il funesto 1° gennaio 1923 in cui serenamente si spense.

Con deferente entusiasmo e con un senso di legittimo orgoglio, ho quindi accolto l’invito di brevemente parlare dell’opera sua nella odierna cerimonia, solo dolente che la pochezza delle mie forze non mi permetta di assolvere adeguatamente all’onorifico compito affidatomi.

Girolamo Caruso nacque in Alcamo (Trapani) da Leonardo e da Giacomina Perfetto il 18 settembre 1842; compì i suoi studi a e si laureò a Napoli nel 1861; giovanissimo, aveva appena 22 anni, fu nominato professore di Agraria e direttore della Scuola agraria di Corleone (1864), d’onde nel 1867 passò all’Istituto tecnico di quale insegnante di Economia rurale ed Estimo.

Fino da questa epoca si rivelò, oltreché zelantissimo e valente insegnante, anche osservatore e studioso appassionato dei problemi agricoli; e specialmente una «Monografia sul mal di gomma degli agrumi» pubblicata nel 1864, e il suo volume «Studi sull’industria dei cereali in Sicilia e sulle popolazioni che la esercitano» dato alla stampa nel 1870 ne attestano la precoce acutezza dell’ingegno e la facilità di dedurre una pratica conclusione dai dati di fatto più disparati.

Questi furono i due suoi primi lavori veramente originali, ma non i soli che desse alle stampe durante la sua permanenza in Sicilia. In quel periodo di tempo apparvero altri suoi studi sugli avvicendamenti agrari, che allora, e parlo del 1862, erano quasi sconosciuti in Italia e da pochissimi attuati; essendoché gli agricoltori, fatte rarissime eccezioni, coltivassero anno per anno quello che loro occorreva o talentava, senza curarsi di dare alle loro aziende un regolare assetto, che ne permettesse una più elevata produzione col minimo dispendio possibile.

Ma altre capitali questioni s’imponevano a quell’epoca e una delle principali era, come è anche ai dì nostri, quella del rimboschimento delle pendici montane e della creazione di bacini atti a raccogliere le acque, che scorrendo sui declivi ne corrodono i fianchi e, rovinando al piano, non solo devastano ognor più i terreni delle montagne, ma provocano eziandio il rapido interramento dei fiumi, occasionando frequenti e disastrose inondazioni nelle pianure durante i periodi delle maggiori pioggie.

Or questo arduo problema il Caruso affrontò fino dal 1863, quando aveva soli 21 anni, ponendo in evidenza quali immensi vantaggi sarebbero derivati alla agricoltura e alle industrie del nostro Paese se, invece di disperderle in mare, quelle acque venissero immagazzinate, in adattati bacini, per servirsene poi come forza motrice e per la irrigazione dei campi.

Queste due dissertazioni sugli avvicendamenti e sul rimboschimento sono, per ordine di data, le prime che egli, appena ventenne, compilò, avanti di entrare nel campo dell’insegnamento, nel quale poi militò per tutta la vita.

Nel periodo in cui esercitò l’insegnamento in Sicilia, oltre ai due lavori originali già ricordati pubblicò un «Trattato di viticoltura e vinificazione» (1869) che in quell’epoca fortunata in cui ai nostri vigneti il Nuovo Mondo non aveva ancora regalato la fillossera e la peronospora, era uno dei migliori fra i pochi che la nostra letteratura possedesse. Come a complemento di questo libro, due anni più tardi (1871) usci per opera del Caruso un altro volumetto intitolato «Questioni più urgenti di viticoltura», che rispecchia le cognizioni profonde che egli colla osservazione e collo studio erasi formate sovra le condizioni della coltivazione della preziosa ampelidea in quell’epoca.

Un anno avanti (1870) altro libro ei diede alle stampe: Il «Trattato sulla coltivazione degli ulivi e la manifattura dell’olio» che particolarmente voglio ricordare, perché fu il punto di partenza di un’opera veramente magistrale composta più tardi.

In quel libretto di 237 pagine sono condensati i più sani precetti di olivi coltura e di oleificio, e fra le comuni nozioni spiccano qua e là sin d’allora le personali osservazioni e i dati raccolti direttamente nel campo dall’autore.

Ma il periodo di lui scientificamente più produttivo fu quello in cui sì degnamente ricoprì la cattedra nella Scuola di Pisa; lungo periodo di ben 36 anni di lavoro indefesso e di studio coscienzioso dei più urgenti ed interessanti problemi agricoli, che diede luogo ad una vistosa sequela di memorie, le quali in gran parte videro la luce sugli Atti della R. Accademia dei Georgofili.

Fare un esame anche succinto di tutta questa mole di proficuo lavoro troppo in lungo trarrebbe il mio dire; ed io se intendo, come posso, onorare la sacra memoria dello studioso modesto e insieme preclaro, non voglio, o signori, abusare della vostra cortese condiscendenza. Sarò quindi breve e mi limiterò ad esaminare alcuni lavori originali più interessanti di lui, tralasciando, almeno in questa occasione, di occuparmi delle opere minori e degli articoli cosiddetti di propaganda, che, ad istruzione dei pratici, venne man mano, e per lungo periodo di anni, inserendo, insieme con memorie originali, in una rivista apprezzatissima, «L’Agricoltura italiana» che egli fondò nel 1875 e che diresse poi fino al termine della Sua vita.

E in questa breve disamina mi sarà facile dimostrare a suo onore come Girolamo Caruso fosse non solo uno studioso delle agrarie discipline, ma un innovatore nel metodo di indagine agronomica. Fino dal 1657, ad opera di Leopoldo dei Medici, sorse in Italia, e precisamente in Firenze, un Istituto che presto divenne di imperitura fama mondiale e che accolse nel suo seno i più sapienti cultori delle scienze fisiche e naturali del tempo. Intendo parlare della Accademia del Cimento, che è gloria Italiana, come è gloria Italiana il metodo sperimentale da quella propugnato ed applicato, che poi largamente si diffuse in tutto il mondo civile e che divenne fonte delle più meravigliose scoperte e delle più utili applicazioni. L’Accademia in seguito scomparve, ma il sistema d’indagine non solo sopravvisse, ma brillò con fulgore sempre più vivo e si diffuse a tutte le scienze che oggi appunto sono dette sperimentali.

Se antica è l’origine del metodo sperimentale e la sua applicazione alle Scienze fisiche, chimiche e biologiche, molto tardi esso penetrò e fu adottato nel campo agrario, forse perché troppo lontano ed appartato dai centri popolosi, forse perché in altri tempi l’arte dei campi era poco apprezzata dai dotti, forse per altre cause ancora.

Di libri che trattavano della coltivazione delle piante e dell’allevamento degli animali non vi era davvero penuria e senza risalire alle opere dei Geoponici greci e latini, mi basti ricordare quella veramente magistrale del bolognese Pier De Crescenzi, ingiustamente accusato di plagio, e poi quelle della caterva di scrittori e scrittorelli che lo copiarono, fino agli autori invero pregevoli della prima metà del secolo scorso; ma invano in quei libri si cercherebbe il risultato di un esperimento atto se non altro a dimostrare ai pratici la verità e la bontà di un asserto. Si prescriveva di agire in una determinata maniera perché i vecchi così avevano fatto, o ad adottare un nuovo sistema perché cosi consigliava il raziocinio. E il nuovo sistema, non corroborato dal battesimo dell’esperienza, bene spesso falliva, gettando il discredito degli empirici sugli studi e sugli studiosi di agrarie discipline.

Se oltre Alpe il metodo sperimentale si diffuse in agricoltura sino dalla seconda metà del secolo XVIII, da noi, forse per le vicende politiche che a lungo agitarono il nostro Paese, del quale altre nazioni si contendevano i brandelli, entrò e fu applicato più tardi.

Basti dire che agronomi di fama indiscussa e di valore indiscutibile, quali Cosimo Ridolfi e Pietro Cuppari, se furono osservatori acutissimi, conoscitori profondi delle condizioni dell’agricoltura del loro tempo, economisti di grande valore e in tutto studiosissimi, non furono sperimentatori nel senso odierno della parola.

Il metodo sperimentale fu introdotto nella agricoltura italiana solo verso la metà del secolo scorso, e primi fra tutti ad applicarlo su vasta scala, furono Gaetano Cantoni e Girolamo Caruso, che, sulle orme di quanto De Saussure, Boussingault e il Ville avevano fatto in Francia, il Liebig in Germania, Lawes e Gilbert in Inghilterra, non esitarono ad affidargli la sansione delle proprie idee e la soluzione dei più interessanti quesiti.

Il Caruso, poi, sia detto a suo onore, fu senza dubbio il primo che il nuovo metodo d’indagine diffuse nella agricoltura toscana.

È questo, a mio modo di vedere, uno dei più grandi meriti di lui, che intuì sino dall’inizio dei suoi studi tutto il largo partito che l’arte dei campi poteva derivarne, non solo per la sicura soluzione dei problemi agrari, ma anche come mezzo efficace per dimostrare la verità del verbo della scienza alle menti incolte di coloro che «hanno le spalle grosse ed il cervello sottile» ma che gli insuccessi altra volta subiti avevan resi anche più scettici e diffidenti.

Proprio nell’epoca in cui il Caruso iniziava il suo insegnamento universitario, incominciavano a diffondersi in agricoltura moderni apparati meccanici. Fino a circa la metà del secolo XIX le uniche macchine che si vedevano appo le case coloniche e le fattorie erano: gli aratri, costruiti completamente in legno, salvo, s’intende, il vomere, ed opera spesso dello stesso agricoltore o di rustici artefici, i trinciaforaggi, applicazione della leva di secondo genere; in cui solo le lame erano di ferro; i frantoi per le ridotti ad una semplice macina girevole su di un piatto di pietra; torchi per le uve e per le olive, in generale in legno, non esclusa la vite; le norie o bindoli per sollevare l’acqua negli orti, totalmente in legno, compresi gli ingranaggi ingegnosamente costituiti da uno o due dischi di legno sovrapposti e muniti di una serie periferica di piuoli cilindrici pure in legno, che funzionavano da denti. Disposizione ingegnosa, lo ripeto, perché permetteva una rapida riparazione nel caso di rottura di alcuni dei cilindri, mentre d’altronde delle ruote a denti di legno sarebbero state di estrema fragilità.

Ma se queste norie, per quanto primitive, agivano assai bene e non richiedevano neppure uno sforzo eccessivo per il loro funzionamento, lo stesso non può dirsi per gli aratri che più che lavorare il suolo, superficialmente lo scalfivano, e che, in generale, muniti di orecchie imperfette, potevano abbastanza bene servire per ricuoprire le sementi, ma non già per il lavoro di rinnuovo, che era fatto unicamente con la vanga e, nei poggi, colla zappa, con enorme dispendio di energia e di tempo.

Se all’estero si costruivano già degli aratri metallici assai buoni, questi non erano che eccezionalmente usati da noi.

La trebbiatura dei cereali poi si faceva con mezzi preadamitici lenti e faticosissimi.

Non appena i primi apparati meccanici cominciarono a diffondersi, Girolamo Caruso fece dei più importanti uno studio coscenzioso e li sottopose ad esperimento, indagandone anche i resultati economici.

I suoi esperimenti sulla trebbiatrice Well con motore animato datano dal 1873, ed altri sulla trebbiatura meccanica ne eseguì dipoi nel 1876. A questi fecero seguito le prove con un nuovo frantoio perfezionato e installato a Montefoscoli, e con altro a vapore a Terricciola.

I rapidi progressi della meccanica agraria, specie dopo il 1880, spinsero il Caruso ad estendere le Sue investigazioni su altri apparati che dovevano permettere all’agricoltore una notevole economia di tempo, di energia e di spesa nell’esecuzione di lavori spesso penosi, che un tempo praticavansi unicamente con mezzi manuali.

Chi non ha assistito alla mietitura del grano fatta col falciuolo, e non ha provato un senso di pena nello scorgere uomini, donne, spesso giovinetti e fanciulle, curvi al suolo sotto i raggi ardenti del sole, che dopo aver fatto maturare le spighe, divenendo più ardente, par quasi voglia proteggerle dalla mano dell’uomo? Orbene la meccanica ha permesso di eseguire questa rude operazione con apparati, che, tratti da animali o anche, in oggi, da forze inanimate, la rendono facile e rapida. E una delle prime macchine del genere che venne introdotta in Italia fu la mietitrice-legatrice Aultmann, la quale, oltre che recidere i culmi, li accoglie e lega in covoni. Fin dal 1888 questo apparecchio venne dal Caruso sperimentato e studiato anche nei dettagli delle resultanze economiche del lavoro, nei poderi della Scuola, dove nello stesso anno sottopose ad accurate prove anche la falciatrice Aultmann per il taglio delle erbe pratensi.

Ma in quell’epoca molto si discuteva intorno ad un metodo, allora nuovo, di conservazione delle piante da foraggio, che anziché seccate e ridotte in fieno, dovevano mantenersi allo stato fresco entro fosse o fino al momento di apprestarle al bestiame. Era stata allora introdotta in Italia una nuova pressa, quella Blunt, che doveva permettere di conseguire l’intento all’aria libera, senza bisogno di fosse o di altro ambiente chiuso. E tosto il Caruso sottopose a prova rigorosa questo nuovo apparecchio, giungendo a favorevoli resultati.

Ho già accennato come sin quasi alla meta del secolo passato gli agricoltori non adoperassero per i lavori del suolo che la vanga e rozzi aratri di fabbricazione casalinga. A onor del vero e della nostra Scuola debbo ricordare, o signori, come proprio il suo fondatore e primo direttore, Cosimo Ridolfi, istituisse da noi la prima fabbrica di coltri, installandola presso la storica sua villa di Meleto, ove sorse pure la ormai famosa Scuola agraria che a buon dritto dobbiamo considerare la progenitrice della Scuola superiore di Pisa. E per molto tempo la fabbrica del Ridolfi prosperò; fino a quando cioè furono altrove ideati nuovi tipi di aratri più perfezionati e più potenti.

Tosto il Caruso, che si era fatto quasi un dovere di invigilare sulle novità agrarie per additarne i pregi agli agricoltori, ma anche per bollarne i difetti, intraprese indagini accurate su due tipi di aratri, l’uno della fabbrica Sack, l’altro della Oliver, dei quali investigò la profondità di lavoro, la forza di trazione meccanica e quanto altro poteva servire per determinarne le pratiche.

Altre prove eseguì in seguito colla seminatrice Cosimini e più tardi (1906) colla sgusciatrice Navacchi che, liberando dal guscio i semi della Sulla, ne permetteva un più rapido e completo germogliamento.

Si può quindi affermare che egli rivolse la sua attenzione e il suo studio a tutti i principali generi di macchine agrarie di quei tempi, sperimentandole non come «propagandista» ma come rigoroso apostolo della scienza, che, senza preconcetti né riguardi per chicchessia, approva o disapprova secondo il merito.

Al tempo in cui egli condusse le prime indagini sperimentali, la fertilizzazione del suolo era fatta unicamente a mezzo di materie escrementizie, per la più parte raccolte nell’azienda, di altri residui organici e dei sovesci. Il terreno era quindi soggetto annualmente a perdite continue per quella parte dei principi fertilizzanti che coi prodotti veniva asportata dall’azienda medesima. D’altra parte l’estendersi della cultura intensiva imponeva una restituzione di fertilità che non poteva provenire che dal di fuori. I concimi chimici, già da tempo entrati nella pratica in Francia ed altrove, fecero la loro comparsa in Italia, ma furono dapprima accolti con la maggiore diffidenza, e non mancarono agricoltori che affermarono essere essi un vero veleno per le piante. Soltanto la prova diretta e l’esempio potevano valere a rassicurare e stimolare gli agricoltori, e Girolamo Caruso fu uno dei primi a sperimentare la concimazione chimica sul frumento e a dimostrarne la efficacia. La sua prima serie di esperienze su questo argomento di capitale importanza fu pubblicata nel 1888. Altra ne seguì nel 1889; e poscia, man mano che nuovi fertilizzanti vennero proposti, dalla leucite con fluorina, alla calciocianamide, dal nitrato di calcio sintetico al residuo cristallino del tabacco, ei venne via via sottoponendoli a rigoroso cimento.

Oltreché alle prove di concimazione sul frumento, egli attese anche a quelle sulla vite, sull’olivo, sulle foraggere e su altre piante campestri.

E nella sua coscenziosa prudenza ben guardavasi dall’accogliere come concludenti e definitivi i resultati di una prova isolata. Basti dire che soltanto sulla concimazione del frumento dal 1888 al 1896 eseguì e pubblicò ben cinque serie di esperimenti.

Ma il campo in cui con vera passione esercitò la sua vera perizia di oculato sperimentatore, fu specialmente quello delle coltivazioni speciali, che egli curò con ogni mezzo di migliorare, di aumentarne la produzione e di preservarle dai danni dei parassiti.

Nell’ultimo decennio del passato secolo molto si discusse sopra la influenza che sulla quantità del raccolto del grano potesse esercitare la maggiore o minor copia di seme affidato al terreno.

Chi asseriva che i nostri contadini ne distribuivano troppo; chi invece ammetteva che, specie per varietà che poco accestiscono, conveniva largheggiare nella quantità.

Per tre anni il Caruso esperimentò in proposito colla varietà di frumento detta calbigia concludendo in favore della sementa fitta.

Larga messe di studi sperimentali egli ha lasciato oltre che sui cereali, anche sopra la coltivazione della vite; e mi basti a tale riguardo ricordare le sue ricerche sulla maturazione di alcune varietà di uva coltivate nella pianura pisana; quelle sulla potatura verde e le altre sulla fruttuosità delle viti senza sostegno, potate ad alberello, in confronto a quella delle viti a cordone orizzontale; le prove sulla forzatura degli innesti su talee americane e via dicendo.

Una pratica da tempo immemorabile diffusa in Toscana nella preparazione del vino, consiste nel provocare una novella fermentazione mediante aggiunta di uva ammostata. Questa pratica nota da noi col nome di «governo» fu acerbamente combattuta da molti che, semplici orecchianti, non erano forse mai scesi in una cantina.

Il Caruso, valendosi dei mezzi che gli offrivano i terreni, la tinaia e la cantina dipendenti dalla sua cattedra, fu uno dei primi (1882) a sottoporre quella pratica al cimento dell’esperienza e pure uno dei primi a costatarne la efficacia nel comunicare al vino più grato sapore e nel renderlo meglio serbevole.

Non appena poi, introdotti dalla Francia, comparvero sul nostro mercato i ben noti fermenti selezionati, di cui si dicevano mirabilia, egli volle sperimentare nella vinificazione; e, corollario a questi suoi studi, il 3 luglio 1898 presentò alla Accademia dei Georgofili una pregevole memoria colla quale rimise le cose a posto, dimostrando che se quei fermenti posseggono dei pregi indiscutibili non hanno, come da tal uni si pretendeva, la facoltà di trasformare lo scialbo vino delle pianure in generoso Chianti o in Pomino.

Ma il campo d’indagine suo prediletto fu quello della lotta contro i parassiti delle piante coltivate e segnatamente quelli della vite e dell’olivo. Fino alla metà del secolo scorso le viti erano immuni da parassiti che ne compromettessero seriamente il raccolto e che ne minassero l’esistenza. E fu quella l’età dell’oro per la nostra viticoltura. Ma nel 1851 fece la sua infausta comparsa un fungillo: l’oidio, che attaccando l’uva arrecò danni gravissimi fino al 1856, quando, neppure si sa ad opera né per merito di chi, fu trovato nello zolfo il rimedio contro il novello parassita. Taluni avevano già introdotto un vitigno americano; la Labrusca, volgarmente uva fravola o Isabella, che possedeva il pregio di andare immune dal male, ma per noi anche il difetto di dar vino di gusto ben diverso dal nostrale. Fra i primi debbo ricordare il grande Cosimo Ridolfi, che, sempre alla avanguardia di ogni progresso agricolo, largamente coltivò quel vitigno nella sua tenuta di Meleto.

Appena i viticoltori cominciavano a rinfrancarsi del passato pericolo di perdere il raccolto dell’uva, quando nel 1879 un nuovo flagello cadde addosso alle nostre povere viti: la peronospora, la quale, oltre che fortemente danneggiare il raccolto, comprometteva seriamente la esistenza delle piante stesse.

Agronomi ed agricoltori si affannarono tosto per porre un argine al nuovo malanno. Lo zolfo si dimostrò subito inefficace, ma i fratelli Bellussi trovarono ben tosto nel latte di calce, se non un rimedio, un palliativo contro i danni del fungo. Il vero ed efficace rimedio, preventivo se non curativo, venne subito dopo, e l’uso delle poltiglie a base di rame si diffuse rapidamente tra i viticoltori. Ma fra i primissimi che a lungo studiarono le dosi più convenienti e le condizioni meglio appropriate per applicarle, fu il Caruso, che ci ha lasciato memorie su ben sette serie di esperimenti razionalmente condotti, nel periodo tra il 1887 e il 1903. E quando più tardi per prevenire la diffusione del fungo fu proposta la Pasta Caffaro, ei volle per due anni consecutivi (1915 e 1916) sperimentarne la efficacia in confronto colla comune poltiglia rameica.

Ma non a questo si limitò la geniale attività di lui nello studio dei mezzi dì debellare i parassiti. Esperienze ripetute egli eseguì sulla maniera di combattere gli elateri dei cereali, le tignole dell’uva, la mosca olearia, la Tingis pyri, gli insetti dannosi ai semi nei granai, il vaiolo dell’olivo e la ruggine o seccume delle foglie del gelso.

Oltreché degli studi puramente agronomici il Caruso si occupò con grande amore di interessanti questioni di rurale economia, lasciando pure in questo ramo numerose e pregevoli pubblicazioni. D’ingegno acuto e versatile egli trattò con rara maestria i più. svariati argomenti. Basti ricordare i suoi studi sulle condizioni economico-agrarie ed igieniche della campagna di Brindisi (1873), sulla consuetudine di pagare a termine il bestiame vaccino (1882), sul costo di produzione del grano nella pianura pisana (1886), sul tornaconto di concimare gli ulivi con la sansa (1887), sulle prove di concimazione e i conti culturali del grano (1890), sopra il regime doganale sulla introduzione del grano e degli altri prodotti agricoli (1891), sull’ordinamento dell’azienda rurale (1894), sulla convenienza e sulla attuabilità del disegno di riforma agraria proposto da Maggiorino Ferraris e sull’ordinamento del credito per i miglioramenti fondiari ed il progresso agrario in genere, tacendo di tanti altri, per dimostrare anche in questo campo la sua meravigliosa attività di studioso.

In seguito ad un colloquio coll’americano David Lùbin, nel febbraio 1905 l’amato nostro sovrano rilevando che «le classi agricole, vivendo disgregate non possono provvedere abbastanza né a migliorare e distribuire secondo le ragioni del consumo le varie culture, né a tutelare i propri interessi sul mercato che per i maggiori prodotti del suolo si va sempre più facendo mondiale gettava le basi su cui doveva sorgere l’Istituto internazionale di agricoltura, il quale doveva avere «di mira lo studio delle condizioni dell’agricoltura nei vari paesi del mondo, per renderne note le quantità e qualità dei raccolti, allo scopo di agevolare la produzione, di rendere meno costoso e più spedito il commercio, conseguendo una più conveniente determinazione dei prezzi».

Nella solenne occasione di quella iniziativa Sovrana l’illustre mio predecessore venne dalla Presidenza della Accademia dei Georgofili prescelto per riferirne in una pubblica adunanza tenuta il 2 aprile dello stesso anno; ed egli assolvé il suo arduo compito da par suo e coi più convincenti argomenti.

Oltre i volumi già citati e pubblicati innanzi al suo avvento alla Scuola dell’ateneo pisano, il Caruso dié alle stampe due lavori monografici: l’uno dal titolo «Monografia del bergamotto» (1876) che è il sunto dei suoi studi durante la sua permanenza in Sicilia, l’altra, la «Monografia dell’olivo» la quale è dai più, ed a ragione, considerata come il suo capolavoro.

Consta questa di un grosso volume adorno di belle illustrazioni, che fece parte dell’Enciclopedia agraria diretta da Gaetano Cantoni. Dalla distribuzione geografica della pianta, allo studio delle varietà coltivate, del clima, del terreno, dei concimi più adatti, dell’impianto dell’oliveto e delle malattie che più di frequente lo devastano, tutto vi è contenuto; e nonostante si tratti di un libro in parte di compilazione, e per l’ordinamento e per le molte notizie, descrizioni e dati propri dell’Autore, deve a buon dritto considerarsi come un suo vero, lavoro originale. Sebbene dopo il 1883, anno in cui fu pubblicata, altri libri in Italia ed all’estero siano sulla coltivazione dell’albero sacro a Minerva, pure la monografia del Caruso è sempre rimasta l’opera più completa e pregevole in materia, e alla quale anche oggi di frequente ricorrono gli studiosi. È davvero deplorevole che di un libro così pregiato ed ormai da lungo tempo esaurito, non fosse fatta una nuova ed aggiornata edizione.

Un ultimo poderoso suo libro è il trattato di «Agronomia», pur esso da lungo tempo esaurito nella seconda edizione, e di cui da tutti gli studiosi di agrarie discipline sarebbe desiderata una nuova ristampa. È un grosso volume di 850 pagine adorno di 263 incisioni che anche oggi è da annoverarsi fra i migliori e più completi trattati. Anche questo non è, come chi non l’abbia letto potrebbe supporre, un’opera di semplice compilazione, ché anzi le cognizioni e la esperienza particolari dell’autore vi saltano fuori ad ogni capitolo. Quel libro può quindi a buon diritto considerarsi come il corollario dei lunghi e pazienti studi agronomici da Girolamo Caruso condotti.

E poiché credo avere a sufficienza ricordato l’opera di studioso e di sperimentatore del maestro, mi si consenta di accennare a quella non meno proficua d’insegnante.

Egli fu per l’insegnamento appassionatissimo e nelle lezioni cercava, con calda ed efficace parola, di trasfondere le sue idee nell’uditorio, quasi volesse indelebilmente inciderle nelle giovani menti degli studenti. Anche negli ultimi anni, sebbene ormai inoltrato nell’età, conservò sempre la indomita energia nel pensare e nel dire e volle fino all’ultimo, compiere il suo dovere, dettando lezioni in quest’aula sino alla fine dell’anno 1917.

E il suo insegnamento non si limitò alle lezioni cattedratiche. Colle esercitazioni pratiche, che spesso presenziava e dirigeva, e con frequenti gite in campagna cogli studenti, egli procurò sempre di integrare le teoriche dissertazioni svolte dalla cattedra.

Degno continuatore in tutto dell’opera insigne del Ridolfi e del Cuppari!

Signore e signori, se più di quanto mi ero in principio ripromesso mi sono dilungato nel pur succinto esame dell’opera scientifica del compianto maestro, di cui qui vedete la venerata effigie, opera dell’illustre scultore Giuseppe Michelotti, ciò si deve alla mole considerevolissima di lavori, in buona parte sperimentali, che egli a vantaggio degli studiosi ha lasciato. lo credo che la sua bell’anima esulterà in questo momento nel vedere qui raccolta una così eletta schiera di colleghi, di discepoli, di studenti, di amici e di ammiratori, allo scopo di onorare la sua memoria e di esaltare l’opera indefessa e proficua della sua lunga esistenza, tutta spesa a vantaggio dell’agricoltura e dell’insegnamento.

Forse in questo momento il suo spirito aleggia nell’aula, dove per tanti anni impartì il verbo della scienza ad una falange di studiosi, che colla loro opera, oggi illustrano la Patria calcando le orme dell’insigne maestro.

Ed egli stesso forse mi inspira a rivolgere un’ultima parola a voi, egregi studenti, rammentandovi che la missione vostra di Agronomi è quant’altro mai elevata e feconda nella vita civile. Se nel volgare linguaggio si definisce l’agricoltura come l’arte di coltivare le piante e di allevare gli animali, essa ha uno scopo sociale ben più elevato: quello cioè, di alimentare e rivestire tutto il mondo civile. Si può ammettere una civiltà senza tal une industrie, ma senza agricoltura mai. Le antiche civiltà ebbero infatti sempre per base una fiorente agricoltura, e se il lento suo progresso poté bastare ai bisogni dell’uomo nelle epoche passate, oggi col prodigioso e continuo accrescersi delle popolazioni, il suo arresto segnerebbe la fine se non della specie umana almeno della civiltà.

Amatela dunque, o studenti, questa «arte antica e scienza nuova» non tanto come una professione da esercitare quanto come il cardine di ogni altro umano progresso; ad essa dedicate tutta la vostra intelligenza e giovanile energia e vi renderete benemeriti della Patria e dell’umanità.

Ricordate che se il nostro bel paese manca di carbon fossile e scarseggia di minerali, possiede il più luminoso e fecondo sole di Europa; e che una agricoltura progredita e fiorente, come già fu madre della civiltà e dello splendore dell’antico Egitto, potrà rendere la rinnuovata Italia ognora più ricca e potente.

Da: Annuario del R. Istituto superiore agrario di Pisa per l’anno accademico 1925-1926.