Genealogia del Buddhismo Buddhismo in India massima espansione sotto il regno di Aśoka (304-232 a.C.) Kapilavastu (, Nepal) luogo di nascita di Siddhārtha Gautama (8. 4. 566 a. C.) Colonna di Aśoka sul luogo di nascita Siddhārtha Gautama Lumbini, distretto di Rupandehi (Nepal) Resti della porta orientale di Kapilavastu da cui Siddhārtha Gautama fuggì a 29 anni L’ascesi e il «sentiero di mezzo»

▪ Dopo la fuga Siddhārtha Gautama ebbe come Maestri Āḷāra Kālāma nella regione del Kosala, e Uddaka Rāmaputta a Pataliputra, capitale del regno Magadha. ▪ Insoddisfatto degli insegnamenti di questi Maestri, si ritirò nel villaggio di Uruvelā, a pochi chilometri dall'odierna , dove trascorse alcuni anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica (Añña Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e ) seguendo pratiche ascetiche assai severe. ▪ La decisione di abbandonare questo tipo di pratiche gli fece perdere il prestigio che gli allievi gli avevano accordato, ma rimase convinto che l’illuminazione si può ottenere solo se il corpo non viene né mortificato né esaltato: questo è il «sentiero di mezzo» (majjhimāpaṭipadā) A l di là dell’ascesi estrema

▪ Il «Buddha scheletrico» di epoca Gandhāra (III° sec. a.C.- III° sec. d.C.) è una rara raffigurazione di Siddhārtha Gautama prima di diventare l’Illuminato (buddha), quando era ancora irretito in esercizi ascetici estremi; da questi si libererà inaugurando il «sentiero di mezzo» (majjhimāpaṭipadā) che si pone al di là sia delle pratiche edonistiche sia delle discipline di automortificazione. Risveglio o illuminazione, bodhi

▪ A 35 anni, nel 530 a.C., Siddhārtha Gautama conseguì l’illuminazione (o risveglio) e divenne ‘Buddha’. ▪ Seguirono 4 settimane di meditazione sotto 4 diversi tipi di albero: 1. Ficus religiosa, dove intuì il contenuto delle 4 Nobili Verità; 2. ajapāla (Ficus benghalensis), dove un brāhmaṇa chiese chi fosse da considerare brāhmaṇa. Il Buddha rispose: chi ha sradicato il dolore e parla in accordo con il Dhamma. In tal modo contestò implicitamente che il livello spirituale dipendesse dalla nascita e dall'appartenenza di casta; (cfr. , XXVI); 3. (Barringtonia acutangula) dove lo sorprese un temporale di 7 giorni e fu protetto dal re dei nāga (serpenti) Mucalinda; 4. rājāyatana (Buchanania latifolia) dove sperimentò la liberazione dalle rinascite. Qui gli fecero visita due mercanti, Tapussa e Bhallika che «presero rifugio» nel Buddha e nel suo Dhamma, divenendo i primi upāsaka, seguaci laici. ▪ Dopo un iniziale incertezza il Buddha decise di diffondere la sua dottrina, e si diresse a Sārnāth, nei pressi di Varanasi (Benares). L’estinzione del Buddha

▪ Lasciata la casa di Cunda e diretto a Kuśināgara, il Buddha si sentì male. Il monaco Kapphina chiese al Buddha di rimandare la sua estinzione, al ché il Buddha rispose: « Come le case degli uomini, col lungo andare del tempo, rovinano, ma il suolo dove erano resta; così resta la mente del Buddha, e il suo corpo rovina come una vecchia casa. »

▪ Siddharta Gautama morì a Kuśināgara, nel 486 a.C. circondato dai discepoli, tra i quali Ānanda.

Queste le sue ultime parole: «Ricordate, o monaci, queste mie parole: tutte le cose composte sono destinate a disintegrarsi! Dedicatevi con diligenza alla vostra propria salvezza»

Fonte: Mahāparanibbānasuttanta («Il grande discorso del nibbana definitivo»), in Dīgha Nikāya,16 Kuśināgara (Uttar Pradesh) statua del V sec. che ricorda il paranirvana del Buddha (486 a.C.) Patriarchi in India dopo la morte del Buddha

1. MAHAKAŚYAPA, V sec. a.C. 16. Rahulabhadra, 2. Ananda, 17. Samghanandi, 3. Śanavasin, 18. Samghayathata, 4. Upagupta, 19. Kumaralata, 5. Dhitika, 20. Śayata, 6. Miśaka, 21. , Abhidharmakośa 7. Vasumitra, IV sec. d.C. 8. Buddhanandi, 22. Manorata, 9. Buddhamitra, 23. Haklenayasha, 10. Parśva, 24. Simhabodhi, 11. Punyayaśa, 25. Baśaśita, 12. Anabodhi, 26. Punyamitra, 13. Kapimala, 27. Prajnadhara, 14. , Madhyamakakārikā 28. * 483-540 d. C. II sec. d.C. 15. Kanadeva, Fonte: “Trasmissione del tesoro del boschetto” (Bǎolín zhuán 寳林傳) inizi del IX sec. Canone pāli (1) Tipiṭaka

SUTTA PITAKA (Cesta dei discorsi), formato da 5 raccolte (Nikāya, lett.:‘corpi’): 1. Dīgha Nikāya : Raccolta di discorsi lunghi 2. Majjhima Nikāya : Raccolta di discorsi medi 3. Samyutta Nikāya : Raccolta di discorsi connessi 4. Anguttara Nikāya : Raccolta di discorsi ordinati in serie 5. Kuddaka Nikāya : Raccolta di discorsi brevi: • Khuddaka pātha: Raccolta di regole per cerimonie • Dhammapada: Orma della disciplina ***************************************** • Udāna: Versi ispirati (80 sentenze del Buddha) • Itivuttaka: Così è stato detto (trattazioni di problemi morali) • Suttanipāta: Raccolta di aforismi • Vimānavatthu: I palazzi divini (83 leggende esemplari di vita virtuosa) • Petavatthu: I trapassati (sulla reincarnazione degli spiriti insaziabili (). • Theragāthā: Canti dei monaci (107 canti dei monaci più ‘anziani’) • Therighāthā: Canti delle monache (73 canti più ‘anziane’) • Jataka : Le nascite • Niddesa: L’indice (commento al Suttanipāta) • Patisambhidā magga : Sentiero della distinzione completa (trattati analitici) • Apadāna: Le imprese (storie di monaci e santi famosi per la loro benevolenza) • Buddhavamsa La stirpe dei Buddha (24 racconti su Buddha precedenti Siddhārta) • Cariyā Pitaka: Cesta della condotta (racconti sulle vite precedenti del Buddha Canone pāli (2)

VINAYA PITAKA (Cesta della disciplina): • Suttavibhanga: Divisione dei testi: • Mahavibhanga o Bhikkhuvibhanga: Grande divisione, o divisione per monaci • Bhikkhunivibhanga: Divisione per monache • Khandaka: Brani • Mahāvagga: La grande sezione • Cullavagga: La piccola sezione • Parivara: Il corteo ABHIDHAMMA PITAKA (Cesta della dottrina suprema); codificazione definitiva avvenuta tra il 400 e il 450 d. C. • Dhammasangani: Classificazione della realtà fisiche e psichiche • Vibhanga: Classificazioni • Kathā vatthu: Questioni controverse (219 controversie) • Puggalapańńati: Descrizioni di personalità • Dhātukathā: Descrizione degli elementi • Yamaka: Coppie (domande a doppio senso) • Patthāna: Causalità

Un altro è quello, redatto in sanscrito, prodotto dalla Scuola Sarvāstivāda e perfezionato da Vasubandhu. L’approccio antidogmatico del Buddhismo (1)

”E’ giusto che voi abbiate dubbi e perplessità, perché sono dubbi relativi ad argomenti controversi. Ora, ascoltate, o Kalama, non fatevi guidare da dicerie, da tradizioni o dal sentito dire; non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica e dall’inferenza; né dalla considerazione delle apparenze; né dal piacere della speculazione; né dalla verosimiglianza; né dall’idea ‘questo è il nostro maestro’. Ma, o Kalama, quando capite da soli che certe cose non sono salutari (akuśala), sbagliate e cattive, allora abbandonatele (…) e quando capite da soli che certe cose sono salutari (kuśala) e buone, allora accettatele e seguitele”.

Fonte: Anguttara Nikāya, I, § 65, (ed. Text Society, Oxford 1989, pp. 171-172) L’approccio antidogmatico del Buddhismo (2)

”L’uomo il quale, fermo nelle sue opinioni, ritiene eccelso quel che egli stima di più al mondo, per la stessa ragione giudica volgari tutte le altre cose; perciò non supera le discussioni. Quello che egli trova pregevole nei dati dei sensi o in un codice morale o nel pensiero, a questo aggrappandosi ogni altra cosa considera vile. Gli esperti chiamano impedimento ciò che induce colui che vi si aggrappa a giudicare meschina ogni altra cosa; perciò il (monaco) non si fissi su ciò che vede, ode o pensa, o su un codice morale”.

Fonte: Suttanipāta, §§ 796, 797, 798, (tr. di V. Talamo, Torino, Boringhieri 1979, p. 183) Dhamek a luogo della prima predica delle 4 Nobili Verità Sārnāth, Varanasi, Uttar Pradesh Parco delle Gazzelle Quattro Nobili Verità च配वारि आर्यस配र्ानि cattāri ariya-saccāni

«O monaci, il Tathāgatha, il Venerabile, il Perfettamente risvegliato, ha messo in moto presso Vāraṇasī, a Isipatana (Sarnath), nel Parco delle gazzelle, l'incomparabile ruota della Legge (dhammacakka), che non può essere ostacolata da alcun asceta o brāhamana o o Māra o Brahmā né da chiunque altro al mondo - la ruota della Legge, cioè l'annunciazione, l'esposizione, la dichiarazione, la manifestazione, la determinazione, la chiarificazione, l'esposizione dettagliata delle Quattro Nobili Verità. E di quali quattro? Della nobile verità del dolore, della nobile verità dell'origine del dolore, della nobile verità della cessazione del dolore, della nobile verità della via che porta alla cessazione del dolore.»

Fonte Majjhima Nikāya, 141, Saccavibhaṅga Sutta. Dhammacakka, ruota del dhamma Tempio di Jokang, Lhasa

▪ Gli otto raggi della ruota (cakka) rappresentano gli otto precetti (o ‘consigli’) che costituiscono il contenuto della Quarta Nobile Verità, quella del ‘sentiero’ (magga) da percorrere per giungere all’estinzione del dolore. ▪ Le due gazzelle ricordato il luogo del primo sermone tenuto dal Buddha: il Parco delle Gazzelle a Sārnāth, presso Varanasi (Benares) Prima Nobile Verità: dukkha

dolore inteso come: 1. sofferenza comune (dukkha dukkha) presente: nella nascita, nella vecchiaia, nella malattia, nella morte, nello stare con ciò che o con chi non ci spiace, nello staccarsi da ciò che o da chi ci piace, nel non ottenere ciò che si desidera; 2. sofferenza dovuta al cambiamento di condizioni felici (viparināma dukkha); 3. stati condizionati (samkhāra dukkha): sofferenza connessa ai cinque aggregati (rūpa-, vedāna-, sanna-, samkhāra-, vinnāna khanda) Fonte: Saccavibhangasutta (Discorso dell’esposizione dettagliata delle verità), Majjima Nikāya, 141 (tr. di F. Sferra) Seconda Nobile Verità: taṇhā

▪ l' origine del dolore sta nella brama o desiderio ardente (tanhā, in pali; trsnā in sanscrito) particolarmente forte 1. nell'inseguimento ossessivo dei piaceri sensuali (kāma tanhā); 2. nella volontà di affermarsi (bhava tanhā); 3. nella volontà di distruggersi (vibhava tanhā). Terza Nobile Verità: nirodha

▪ L’estinzione (nirodha) del dolore si ottiene abbandonando ogni forma di attaccamento (upādāna).

I principali tipi di attaccamento sono: 1. kama(u)padana: attaccamento ai piaceri dei sensi 2. ditthupadana: attaccamento ai punti di vista, alle teorie 3. sīlabbatupadana: attaccamento ai riti e ai rituali 4. attavadupadana: attaccamento all’idea del sé

▪ il mezzo che consente di raggiungere questa estinzione e, quindi, la cessazione del dolore, è l'Ottuplice Sentiero (IV Nobile Verità) Quarta Nobile Verità : l’Ottuplice sentiero (1)

1. giusta (o 'completa', samma) visione (dristi o ditthi). Ciò che deve essere ‘visto’ è: 1.1. le altre tre Nobili Verità: la realtà del dolore (dukkha); l’origine del dolore, cioè il desiderio ardente (tanhā) e l’estinzione di questo desiderare (nirodhā o nibbana); 1.2. la qualità anattā di ogni realtà.

2. giusta intenzione (samkalpa o sankappa); essa si determina come: 2.1. Non-attaccamento (virāga) a: 2.1.1. quanto proviene dalla sensibilità, sia questo di natura piacevole, spiacevole o indifferente; 2.1.2. alle opinioni; 2.1.3. alle regole e ai riti; 2.1.4. alla credenza nella qualità attā. Questo non- attaccamento al sé (attā) integra e rafforza la capacità di ‘vedere’il carattere anattā di tutte le realtà (cfr. 1.2.).

3. giusta parola (vaca): evitare ogni forma di ‘parola sbagliata’; in particolare, in ordine di gravità crescente: 3.1. chiacchiera e pettegolezzo; 3.2. espressioni maliziose, maleducate e ingiuriose; 3.3. maldicenza e calunnia, ovvero tutte le espressioni che possono produrre contrasti tra le persone; 3.4. menzogne e falsità.

4. giusta azione (kammanta): evitare azioni contro la morale (śila o sila), ossia contro le norme etiche, dieci per i monaci e cinque per i laici: 4.1. non uccidere; 4.2. non prendere ciò che non è dato; 4.3. non avere rapporti sessuali illeciti; 4.4. non offendere; 4.5. non assumere sostanze inebrianti. Quarta Nobile Verità : l’Ottuplice sentiero (2)

5. Giusto comportamento (ajiva); questo precetto, che specifica la norma dell’ahimsa (2.3.), Invita ad evitare attività che arrecano danni agli esseri viventi, in particolare: 5.1. La caccia; 5.2. La macellazione; 5.3. La costruzione e il commercio di armi.

6. Giusto sforzo (vayama); consiste nella volontà di: 6.1. Prevenire l’insorgere di stati mentali negativi per se stessi e per gli altri; 6.2. Eliminare quegli stati mentali negativi già presenti; 6.3. Far sorgere stati mentali positivi per se stessi e per gli altri; 6.4. Sviluppare gli stati mentali positivi già presenti.

7. Giusta presenza mentale (smriti o ), la quale si determina come attenzione: 7.1. Al corpo (kaya), nelle sue varie parti, posizioni, funzioni e fasi di sviluppo; 7.2. Alle sensazioni ed emozioni (vedana); più in particolare: alle loro qualità (positive, negative, neutre), e al loro sorgere, divenire e svanire; 7.3. All’attività della mente (citta); 7.4. Ai contenuti della mente (dhamma): concetti, idee, concezioni.

8. Giusta concentrazione o assorbimento (samādhi) che si articola in quattro livelli: 8.1. Separazione dai fattori nocivi (akuśala): 8.1.1. Attaccamenti (lobha) ai propri beni, il cui antidoto è la generosità (dana); 8.1.2. Illusioni (), il cui antidoto è la conoscenza; 8.1.3. Avversioni (dvesha o dosa), il cui antidoto è maitri o metta; 8.2. Stabilizzazione del primo livello, il che comporta: 8.2.1. Calma nella riflessione; 8.2.2. Gioia; 8.2.3. Benessere; 8.3. Equanimità (upekśā o upekkhā), la quale subentra alla gioia; 8.4. Consolidamento dell’ equanimità e dell’ attenzione. dukkha: testi (1)

▪ Le domande di Milinda (Milindapañha): “Sire, io dico che tutti gli sciocchi uomini ordinari che si dilettano nelle sfere dei sensi, interne ed esterne, che provano per esse soddisfazione e vi si attaccano, sono portati via da questa corrente, non sono liberi dalla nascita, dalla vecchiaia e dalla morte, dalla pena, dai lamenti, dal disagio, dall’angoscia e dalla mancanza di serenità [cfr. Majjhima Nikāya, 131,18]: essi non sono liberi dal dolore”. ▪ Samyutta Nikāya, 36.6: “O monaci, l’uomo ordinario quando viene toccato da una sensazione dolorosa soffre, si affligge, si lamenta, piange battendosi il petto, entra in uno stato di grande confusione. Egli sperimenta due tipi di sensazione: una corporea e una mentale (kāyika e cetasika) […] O monaci, quando il nobile discepolo che ha ricevuto gli insegnamenti spirituali viene toccato da una sensazione dolorosa egli non soffre, non si affligge, non si lamenta, non piange battendosi il petto, non entra in uno stato di grande confusione. Egli sperimenta un solo tipo di sensazione: la sensazione corporea e non quella mentale” ▪ Udana 1.10: “Quando, Bāhiya, in ciò che è visto vi sarà solo ciò che è visto, in ciò che è udito vi sarà solo ciò che è udito, in ciò che è percepito vi sarà solo ciò che è percepito e in ciò che è conosciuto, allora, Bāhiya, tu non ti identificherai più con quello, allora, Bāhiya, non sarai più in quello: quando, Bāhiya, non sarai più in quello, allora, Bāhiya, tu no sarai né qui né al di là, né in ambedue i luoghi. Proprio questa è la fine della sofferenza” dukkha: testi (2)

▪ Udana 2.10: “In passato, venerabile, quando ero un laico e regnavo, il corpo di guardia interno alla reggia era ben appostato, e così pure il corpo di guardia esterno alla reggia. Il corpo di guardia interno alla città era ben appostato, e così pure il corpo di guardia esterno alla città. Il corpo di guardia interno al paese era ben appostato, e così pure il corpo di guardia esterno al paese. Ciononostante, venerabile, sebbene io fossi così protetto e difeso, vivevo pieno di paura, ansioso, sospettoso e terrificato mentre ora, venerabile, sia che mi trovi in una foresta, sia che stia ai piedi di un albero o in qualche luogo isolato, abito da solo, senza paura, privo di sospetti, senza terrore, senza preoccupazioni, sereno, sostentandomi di ciò che è offerto da altri, con la mente simile a quella delle gazzelle. E’ tenendo presente tutto ciò che io, sia che mi trovi in una foresta, sia che stia ai piedi di un albero o in qualche luogo isolato, dico ripetutamente: ‘Ah! Che piacere, che piacere!’” ▪ Itivuttaka, 4. 7: “colui il quale, dopo aver interamente conosciuto il Tutto, non si lega a nessuna cosa, costui, invero, avendo compreso il Tutto, ha abbandonato ogni sofferenza” ▪ Itivuttaka, 4. 37: “Si commuova pure il savio, nelle situazioni di grande emozione: il monaco che ardente, ha capacità di discernimento, esamini con saggezza. Così, vivendo con ardore, pacificamente e senza agitazioni, in possesso della calma mentale, egli ottiene la distruzione della sofferenza" ▪ Dhammapada, 15: “Vincendo l’uomo produce inimicizia; nel dolore riposa chi è stato sconfitto. Nella gioia riposa chi è placido, dopo aver abbandonato vittoria e sconfitta”. anattā sanscr.: anātman ; cin.: 無我 wúwǒ; giapp.: muga

Dhammapada, XX, 279: sabbe dhamma anattā:

“Tutti i dhamma sono privi di sé” (tr. di F. Sferra, La Rivelazione del Buddha, cit., Milano, Mondadori 2001, p. 556)

Cfr. anche:

➢ Anguttara Nikāya, I, 16 ,62, 147, 149, 164, 166, 283; II, 16, 163, 177, 207, 215; III, 49, 79,85, 138, 359, 441; IV, 11, 22, 44, 46, 54, 146; V,108, 180. (ed. Pali Text Society, Oxford 1989-1994)

➢ Samyutta Nikāya, (III, 2 ,4, 6, 19, 66, 81, 96, 127, 135, 165, 179; IV, 196, 391, 398; V, 143, 161, 163; (ed. Pali Text Society, Oxford 1992-1994)

➢ Majjhima Nikāya, 22, 43, 44,109,121-122 (śunya śunyatā), 140, 151 (ed. a cura di Bhikku Nanamoli e Bhikku Bodhi, Boston, Wisdom 1995) Significato di anattā

▪ Il termine pali anattā è composto da a privativo + n eufonico + atta che equivale al termine sanscrito ātman (devanāgarī आ配म), il quale ha in generale tre significati principali: 1) Sé universale, spirito Assoluto, ciò che la tradizione Vedica e Vedanta designano come Brāhman; 2) sé particolare, identificabile per lo più con l'anima individuale, con jivātman; 3) 'sé' come equivalente del pronome riflessivo 'se stesso'. ▪ Negli insegnamenti originari del Buddha si sostiene che in nessuna di queste accezioni l' ātman corrisponde a qualcosa di reale in senso sostanziale, ossia come ente autosufficiente. ▪ In particolare: 1) L' ātman come ‘Grande Sé’, è concepibile solo in relazione alle sue infinite manifestazioni, senza le quali Esso non potrebbe venir colto, né dai sensi, né dal pensiero. 2) L' ātman come ‘piccolo sé’, come ātman individuale (jivātman), non può avere coscienza di sé come entità particolare, relativa e transitoria, se non in riferimento all' ātman universale, assoluto ed eterno. 3) In generale, ogni realtà (dhamma) che pretenda di poter vantare la qualità 'sé', è costretta a riconoscere che, per potersi dare e dire come 'sé', deve in qualche modo ricorrere al confronto con ciò che è diverso da sé; deve accorgersi che, poter esistere, deve fondarsi su ciò che essa non è. anattā

▪ «così, quello essendo, questo è; quello sorgendo, questo sorge; quello non essendo, questo non è; quello dissolvendosi, questo si dissolve».

Samuytta Nikaya, , I, 3, 20, (tr. di V. Talamo, Roma, Ubaldini, p. 221)

▪ Ciò significa che nessuna realtà è autonoma, ma dipende dalle relazioni che la costituiscono, così come un punto risulta dall’incrocio di più linee, o come un nodo dipende dai fili che lo formano.

Cfr. Avatamsaka (Canone Cinese e Tibetano) Il problema dell' anattā in Milindapañha

▪ Milindapañha,«Le domande di Milinda», è un’opera non canonica della tradizione (Hīnayāna), datata attorno al I° sec. d. C., che narra dell’ incontro tra il re Milinda (Menandro I° Sotere 155 – 130 a. C.) e il Monaco buddhista :

▪ «…mostratemi che cosa è un carro. Il carro è forse il timone, sire?» /»No, venerabile!» «Il carro è forse l’asse?» / «No, venerabile!» «Sono forse le ruote, il carro?» / «No, venerabile!» «E’ forse il telaio…l’asta della bandiera…il giogo…le redini… il pungolo?» / «No, venerabile!» «Ma allora, sire, forse il carro è l’insieme di timone, asse, telaio, asta della bandiera, giogo, redini e pungolo?» / «No, venerabile!» «Ma allora, sire, il carro è forse qualcos’altro rispetto timone, asse, telaio, asta della bandiera, giogo, redini e pungolo?» / «No venerabile!» [...] «il carro è soltanto una parola, sire». Fonte: (tr. di F. Sferra, Milano, Mondadori 2001, pp. 107-108) Il problema dell' anattā nei testi del Buddhismo Māhāyana

➢ Vimalakirti Nirdeśa Sūtra (Il sūtra pronunciato da Vimalakirti, I sec. d.C., tr. di P. Nicoli dalla tr. ingl. di Ch. Luk, Roma, Ubaldini 1982, pp. 31, 37, 46, 89, 92) ➢ Nāgārjuna Madhyamakakārikā (Il cammino di mezzo, II sec. d.C., tr. di M. Meli, Commento di E. Magno, Padova, Unipress 2004, Cap. XVIII, pp.87-90) ➢ Mahāprajñāpāramitā-Hridaya-Sūtra (Sūtra del cuore, IV, sec. d.C., tr. di G. Mantici dalla tr. ingl. di E. Conze, Roma, Ubaldini 1976, p. 73) ➢ Fa jie guan (Sulla meditazione del Dharmadathu) del maestro Dushun (杜順; 557-640) [antesignano della Scuola Hwa Yan (giapp.: Kegon)] tr. dalla tr. ingl. di Garma C. C. Chang, La dottrina buddhista della totalità, Ubaldini, Roma 1974, pp. 238-235 ➢ Jin shizi zhang (Trattato sul leone d' oro) del maestro Fazang (法藏, 643-712), fondatore della Scuola Hwa Yan, tr. in Garma C. C. Chang, op. cit., pp. 256-262; tr. di S. Zacchetti, Padova, Esedra 2000 ➢ Zang dong zi (giapp.: Sandokai, La coincidenza di diversità e eguaglianza) scritto del maestro chan Shi Dou Xi Qian (giapp.: Sekito Kisen), 700-790 , tr. di P. Imperio dalla tr. franc. di Taisen Deshimaru, Lo zen passo per passo, Roma, Ubaldini 1981, p. 164 ➢ San mei ge (giapp.: Hokyo Zanmai, della preziosa casa dello specchio) scritto del maestro chan Dong Shan Liang Qie (giapp.: Tozan Ryokai), 807-869, tr. in Taisen Deshimaru, op. cit., p. 101 L’anattā dei 5 khandha (sanscr.: )

1. rūpa = "forma", sia in senso esterno che interno: nel primo senso indica il mondo fenomenico; nel secondo, il corpo fisico e gli organi di senso fisico (schiuma); (SN, 22.56; 22.79; MN 109, Vism XIV, 36)

2. vedanā = "sensazione" di un oggetto come piacevole, spiacevole o neutro (miraggi) (SN 22.56: 22.79; MN 109; Vism. XIV 127)

3. saññā = "percezione" o "appercezione", quando si ha consapevolezza della sensazione e si riconosce un oggetto esterno (bolle); (SN 22.56: 22.79; MN 109; Vism. 130)

4. sañkhāra "fattori di composizione": condizioni fisiche, genetiche, storiche, culturali, psicologiche (abitudini mentali, pregiudizi, ecc.) – “tronco di palma”; (SN 22.56: 22.79; MN 109; Vism.132)

5. viññāna = "coscienza che discerne» l’ “illusione” (SN 22.56: 22.79; MN 109; Vism. XIV 82) L’ anattā delle 4 «dimore divine» (Brahmavihāra)

▪ upekkhā, mettā, karunā e muditā, sono denominate “Quattro Dimore Divine” perché chi pratica queste virtù ha la mente ‘a casa’, pacificata.

1. mettā (lett.: amicizia): benevolenza senza discriminazione. Rischia di trasformarsi in benevolenza indifferenziata e, quindi, superficiale. 2. karunā, la compassione, capacità di partecipare ai dolori altrui: presenti, passati e futuri. Si può avere compassione anche per chi, al momento presente, ci odia e ci danneggia, se si pensa che egli soffre per il suo stato d'animo attuale e soffrirà ancor di più per le conseguenze future di questo stato d'animo. 3. muditā : capacità di partecipare alle gioie altrui. Opposto all’invidia, consente di diminuire il senso di proprietà dell'io. 4. upekkhā, [upa: sopra; iks: guardare]: osservare e considerare in modo equanime; equivale a imparzialità. Non coincide tuttavia con l'indifferenza, perché consente di cogliere le distinzioni senza, però, condurre a comportamenti discriminanti. upekkhā (1) (sanscr.:upekșā; cin.: 捨 shě; giapp.: sha)

upekkhā funziona come equilibratore: 1. all'interno di ciascuna delle altre tre 'dimore’:

1.1. applicata a mettā, fa sì che l'amore per qualcosa non sia esclusivo, affetto da eccessivo attaccamento; fa sì che si passi dall'amore per qualcosa di vicino (se stessi) a qualcosa di progressivamente sempre più lontano dal punto di vista dello spazio (famiglia, amici, comunità, patria, mondo, universo); ma anche dal punto di vista della qualità, fino ad includere i peggiori nemici. 1.2. applicata a karunā, fa sì che la compassione passi dal prendersi cura delle proprie sofferenze al prendersi cura di quelle altrui: anche in tal caso, sia in direzione 'spaziale', sia in direzione qualitativa, fino ad includere le sofferenze dei nemici. 1.3. applicata a muditā, fa sì che il ‘con-gioire' si espanda fino ad includere le gioie anche dei nemici. upekkhā (2)

2. upekkhā come equilibratore nei rapporti tra le altre tre 'dimore’:

2.1. mediante muditā avverte karunā che non ci sono solo motivi di dolore da condividere; 2.2. mediante karunā avverte muditā che non ci sono solo gioie da condividere; 2.3. mediante muditā e karunā avverte mettā (benevolenza indifferenziata) che corre il rischio di cadere nella dispersione e nell'inefficacia.

▪ In generale, quindi, upekkhā svolge due importanti funzioni di equilibrio:

1. impedisce alla tendenza universalistica presente in mettā di finire nella benevolenza indifferenziata; 2. impedisce alle tendenze particolaristiche presenti in muditā e in karunā di essere ristrette nello spazio e nel tempo, cioè di partecipare alle gioie e alle sofferenze solo di qualcuno e solo al presente. karunā e prajñā

« non c’è karunā senza prajñā» e «non c’è prajñā senza karunā » prajñā (pāli: paññā) = saggezza suprema: conoscere la vera natura di ogni realtà, ossia il fatto che ogni cosa, sentimento, idea (compresa l’idea di ‘io’) presenta questi caratteri: 1. anattā : senza sé, insostanziale Cfr. Dhammapada, XX, 279: sabbe dhamma anattā: “Tutti i dhamma sono privi di sé”

2. aniccā : impermanente Cfr. Dhammapada, XX, 277: sabbe samkhārā aniccā: «Tutti i coefficienti sono impermanenti»

3. dukkha : sofferenza Cfr. Dhammapada, XX, 278: sabbe samkhārā dukkha: « Tutti i coefficienti sono sofferenza»

(Tr. di F. Sferra, La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Milano, Mondadori 2001, pp. 555-556) anicca sanscr.: anitya; cin.: 無常 wúcháng; giapp. mujō

Dhammapada, XX, 277 «sabbe samkhārā aniccā’ «Tutti i coefficienti sono transeunti» (Tr. di F. Sferra in La rivelazione del Buddha, Milano, Mondadori 2001, p. 555) Cfr. anche: ▪ Le domande di Milinda (cfr La rivelazione del Buddha, cit. pp. 127-131) ▪ Anguttura Nikāya (ed. Pali Text Society, Oxford 1989-1994) III, 68, 109, 200, 235, 314; IV, 8, 27,29,100, 151,258,265; V,71,74, 129; ▪ Samyutta Nikaya (ed. Pali Text Society, Oxford , 1992-1994) I, 9, 85,180, 183, 197, 236, 255; II, 22,40, 57, 88, 114,130, 165; III, 20, 39, 49, 65, 75, 82, 87, 88, 94-97, 107, 112, 116, 122, 124, 129, 132, 146, 150, 153; IV, 13,23, 39, 52, 65, 84, 91-97, 144- 157, 210, 230, 271 ; V, 113; ▪ Majjhima Nikaya (ed. Pali Text Society, Oxford 1995) 13.36, 22.22-26 (cfr. La rivelazione del Buddha, cit. pp. 243-244), 28.7, 35.20, 37.3, 50.18, 52.4, 62.23, 62.29, 64.9,74.9, 77.29, 106.5, 109.15, 118.21, 121.11, 131, 2 e 9 (cfr. La rivelazione del Buddha, cit. ,pp. 331-333), 132, 133,137.11, 144.6, 146.6, 147.3 ▪ Udana, III, 10 (cfr. La rivelazione…, pp. 640-641); IV, 1 (cfr. La rivelazione del Buddha, cit. cit., p. 644-646) ▪ Itivuttaka , 77 (cfr. La rivelazione …, p. 789); 85 (cfr. La rivelazione del Buddha, cit. , p.797; ▪ Digha Nikaya , XV,29; XVI, 10. XXXIII, 26 anattā e anicca alla base della co-originazione condizionata paticcasamuppāda (pratītyasamutpāda)

▪ "Condizionate dall'ignoranza (avijjā) sorgono le tendenze (samskhāra); condizionata dalle tendenze sorge la coscienza (vinnana); condizionati dalla coscienza sorgono nome-e-forma sensibile (nama rupa), condizionate da nome-e-forma sensibile sorgono le sei basi sensoriali (salayatana); condizionato dalle sei basi sensoriali, sorge il contatto (phassa); condizionata dal contatto, sorge la sensazione (vedana); condizionata dalla sensazione, nasce la brama (tanhā); condizionato dalla brama, sorge l'attaccamento (upādāna); condizionata dall'attaccamento, sorge la tendenza ad esistere (bhava); condizionata dalla tendenza ad esistere, sorge la nascita (jāti); condizionati dalla nascita, sorgono l'invecchiamento e la morte (jarā marana), la tristezza, il lamento, il dolore, la sofferenza, l'angoscia".

Fonte: Samyutta Nikāya, II, 1, tr. ingl. Pali Text Society, Oxford 1992-1994, p. 2; cfr. tr. it. di V. Talamo, Roma, Ubaldini, Roma 1998, pp. 211-212. , भवचक्र,ruota dell’esistenza

▪ Nel Divyāvadāna, («Racconti divini»), testo del II sec. d.C., si narra che lo stesso Buddha creò l’immagine del bhavacakra. Il bhavacakra è presente nel Visuddhimagga («Sentiero della purificazione»), commentario buddista di (ca. 430 d.C.)., uno dei più importanti testi della Scuola Theravāda non inclusi nel Canone pali. Il bhavacakra è di norma rappresentato su («piani dipinti») appesi alle pareti interne o esterne dei templi buddhisti, soprattutto in Tibet. ▪ La figura esterna che regge la ruota indica in generale l’impermanenza, ed è quasi sempre rappresentata da Yama, signore della morte: ha sulla testa cinque teschi che rappresentano l’impermanenza dei cinque aggregati; il terzo occhio indica la capacità di capire l’impermanenza; i quattro arti con cui regge la ruota indicano le sofferenze (dukkha) presenti nella nascita, nella vecchiaia, nella malattia e nella morte. In alto, esterni alla ruota, due Buddha indicano la possibilità di uscire dal samsara. Talvolta in alto a destra è raffigurato il Buddha Sakyamuni che indica il disco luminoso della luna, simbolo della liberazione dalla sofferenze del samsara. I 12 anelli del Bhavacakra

1.: l' ignoranza viene rappresentata da una vecchia cieca che si dirige verso un precipizio; 2.: le intenzioni e le tendenze vengono rappresentate da un vasaio che dà forma a recipienti per un uso futuro; 3.: la coscienza è rappresentata da una scimmia che salta da una casa all'altra; 4.: il nome-e-forma sensibile è rappresentato da due uomini in una barca; 5.: i sei sensi vengono rappresentati da sei finestre di una casa; 6.: il contatto è rappresentato da una coppia in un coito; 7.: la sensazione è rappresentata da una freccia che colpisce un occhio; 8.: la brama è rappresentata da una figura umana che alza una coppa di birra; 9.: l' attaccamento viene rappresentato da una scimmia che afferra un frutto da un albero; 10.1: il divenire è rappresentato da una donna che invita all'amore; 11.: la nascita è rappresentata da una partoriente; 12.: la morte viene rappresentata da un uomo che trasporta un cadavere per restituirlo alla natura (agli agenti atmosferici e agli animali). Buddhismo Mahāyāna (dal I-II sec. d.C.)

Testi Testi Dottrine 1. Il "ciclo" dei Prajñāpāramitāsūtra 2. Sutra del Loto (Saddharmapuṇḍarīkasūtra) 1. , stato di Buddha rahggiungibile 3. Avataṃsakasūtra (Il Sutra della Ghirlanda da qualsiasi "essere senziente" fiorita) 2. prajñā, saggezza 4. Śūraṃgamasamādhisūtra 3. śūnyatā , vacuità 5. Mahāsamnipatasūtra 4. tathātā , ‘talità’, le vera natura delle cose 6. Il "ciclo" dei sūtra Sukhāvatī (letteratura della 5. ekayāna, il veicolo unico [Buddha eterno e i 3 Terra Pura) corpi (trikāya) del Buddha] 7. Vimalakīrtinirdeśasūtra 6. Il e la Triplice verità 8. Mahāyāna Mahāparinirvāṇasūtra 7. cittamātra e ālayavijñāna 9. Saṃdhinirmocanasūtra 8. La natura di Buddha e il tathāgatagarbha 10. Laṅkāvatārasūtra 11. Tathāgatagarbhasūtra 12. Kṣitigarbhasūtra Il "ciclo" dei Prajñāpāramitāsūtra (1)

▪ Prajñāpāramitāsūtra («Sutra della perfezione della saggezza») è il titolo dato ad un insieme di 38 sutra buddhisti composti in periodo che va dal I secolo a.C. al II secolo d.C.

▪ L‘Āryaprajñāpāramitāratnaguṇasañcayagāthā (“Strofe del cumulo di pregi [che sono] le gemme della Nobile Perfezione della Conoscenza”) risalente al I° secolo a.C., giunto a noi in sanscrito ibrido e nel Canone tibetano, è ritenuto il testo più antico di questa letteratura.

▪ Da questo sarebbero poi derivati: 1. l’Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā (“Sutra della Perfezione della Conoscenza in 8000 versi”) giunto fino a noi in alcune versioni sanscrite e cinesi. La prima traduzione in cinese risale al 172 d.C. per opera di Lokakṣema (道行般若經 Dàoxíngbōrějīng);

2. il Pañcaviṃśatisāhasrikāprajñāpāramitāsūtra (“Sutra della perfezione della saggezza in 25000 versi”) tradotto in cinese nel 286 d.C. da Dharmarakṣa Il "ciclo" dei Prajñāpāramitāsūtra (2) Il "ciclo" Il "ciclo" dei Prajñāpāramitāsūtra dei PrajñāpāramitāsūtraAltri sūtra importanti appartenenti al ciclo dei Prajñāpāramitāsūtra :

✓ Śatasāhasrikāprajñā-pāramitāsūtra (Sūtra della perfezione della saggezza in 100.000 stanze). ✓ Aṣṭādaśa-sāhasrikā-prajñā-pāramitāsūtra (Sūtra della perfezione della saggezza in 18000 stanze). ✓ Daśa-sāhasrikā-prajñā-pāramitāsūtra (Sūtra della perfezione della saggezza in 10.000 stanze). ✓ Prajñāpāramitā ratnaguṇasaṃcayagāthā (Sūtra condensato della perfezione della saggezza). ✓ Saptaśatika- prajñā-pāramitāsūtra (Sūtra della perfezione di saggezza in 700 righe). ✓ Pañcaśatika- prajñā-pāramitāsūtra (Sūtra della perfezione di saggezza in 500 righe). ✓ Prajnaparamita- arasadhika- sutra (Sūtra della perfezione di saggezza in 50 righe). ✓ Prajñāpāramitā-naya-śatapañcaśatikā (Sūtra della perfezione di saggezza in 150 metodi). ✓ Pañcaviṃśatika- prajñāpāramitā-mukha (Venticinque porte della perfezione della saggezza). ✓ Svalpākṣara-prajñāparamitā (La perfezione della saggezza in poche parole). ✓ Eka ksarimatanama sarva-tathāgata prajñāpāramitā (La perfezione della saggezza in una lettera madre dei Tathagata). ✓ Kauśika prajñāpāramitā (La perfezione della saggezza per Kausika). ✓ Suvikrāntavikrāmi-paripṛcchā-prajñāpāramitā-sūtra (Le domande di Suvrikantavikramin).

▪ Vajracchedika prajñāpāramitā sūtra (Il Sutra del Diamante che recide). ▪ Prajñāpāramitā Hṛdaya sūtra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza). «Sutra del cuore della perfezione della saggezza» Prajñāpāramitā Hṛdaya sutra

▪ Il Sutra del Cuore fu composto intorno al I secolo d. C. nell‘Impero Kushan (ca. 105-250). Fu tradotto in cinese da Kumārajīva (344-413) intorno al 400 d.C. E’ conservato nel Canone cinese all‘interno del Bōrěbù; nel Canone tibetano all’interno del Kangjur (34° volume). Nel Canone cinese fu tradotto da Kumārajīva con il titolo 般若波羅蜜多心經 Bōrě bōluómìduō xīnjīng (giapp.: Hannya haramitta shingyō). «iha śāriputra rūpaṃ śūnyatā, śūnyataiva rūpam/ rūpānna pṛthak śūnyatā, śūnyatāyā na pṛthag rūpa/ yadrūpaṃ sā śūnyatā, yā śūnyatā tadrūpam» 色不異空,空不異色;色即是空,空即是色 (tr. in cinese di Kumārajīva) «Oh śāriputra, la vacuità è forma, la forma è vacuità la vacuità non è distinta dalla forma, la forma non è distinta dalla vacuità ciò che è forma è vacuità, ciò che è vacuità è forma» (tr. dal sanscrito di F. Sferra, La rivelazione del Buddha. Il grande veicolo, Mondadori, Milano, 2004, pp. 13-14) ▪ Il contenuto di questi tre versi può essere inteso così: «Non c’è vuoto senza forma, non c’è forma senza vuoto», così come non c’è sfondo senza figure e non c’è figura senza sfondo Buddhismo in Cina Diffusione del Buddhismo Le tre grandi Scuole del Buddhismo Le Scuole del Buddhismo cinese

▪ Quando si parla di ‘Scuole’ (宗, zōng), non vanno intese come luoghi o gruppi contrapposti, ma come lignaggi di insegnamenti e di precetti (戒脈, jièmài). ▪ Il Buddhismo cinese fu formato da: 1) insegnamenti di monaci e Maestri del Buddhismo dei Nikāya e del Buddhismo Mahāyāna provenienti dall' India e dall'Asia Centrale: i. p., dal regno del Khotan (oggi nello Xinjiang) e dall’Impero Kushan (oggi Tagikistan, Afganistan, Pakistan, India del Nord) 2) contributi di Maestri locali che continuarono tali insegnamenti o ne diedero nuove interpretazioni; 3) insegnamenti provenienti dalla Corea e dal Vietnam. ▪ Alcuni documenti attesterebbero una prima introduzione del Buddhismo in Cina nell'anno 64. ▪ L'acme del Buddhismo cinese si ebbe con la dinastia Tang (唐朝, Tángcháo, 618-907). Seguì una lenta ma progressiva decadenza, dovuta a: 1. perdita del favore imperiale; cfr. persecuzione dell’845 (distrutti 4600 monasteri e 40mila templi) 2. interruzione dei contatti diretti con l'India (dove il Buddhismo si estinse); 3. rinato interesse per il Confucianesimo e il Daoismo. ▪ In epoca Tang le Scuole buddhiste più importanti furono la Tiāntái, la Huāyán e la Zhēnyán. Di poco posteriore, ma in seguito molto influente fu la Scuola Chán, sopravvissuta all’845 soprattutto grazie al fatto che nelle sue regole prevedeva il lavoro (dall’800) e non prescriveva il culto di testi ed immagini. Lokaksema il primo grande traduttore, II° sec d.C.

▪ Lokaksema («Benessere del Mondo») fu il primo grande traduttore di testi buddhisti dal sanscrito al cinese. ▪ Era di etnia yuezhi e veniva dall'Impero Kushan, all'epoca governato dal sovrano buddhista Kanishka. ▪ Fu a Luoyan (capitale della Dinastia Han orientale) nel 150 ca., ossia alcuni anni prima del principe persiano, divenuto monaco, Ān Shìgāo, (安世高), altro grande traduttore dal sanscrito al cinese. ▪ Altri celebri traduttori furono Vighna, Dharmarakṣa (yuezhi), Saṃghadeva, Kumārajīva (344-413) Buddhabhadra, Paramārtha, Śikṣānanda, Bodhiruci, Subhākarasiṃha, i quali si sforzarono di rendere i concetti buddhisti indiani senza più ricorrere ai termini taoisti e confuciani. Xuánzàng, 玄奘 (602-664)

▪ Dopo la morte del padre (611), Xuánzàng andò a Luoyang dal fratello, monaco buddhista nel monastero di Jingtu (淨土寺) dove studiò i testi del Buddhismo dei Nikaya (in pali) e del Mahāyāna (in sanscrito). ▪ Dal 629 al 645 viaggiò visitando tutti i luoghi più importanti della tradizione buddhista. Il resoconto di tale viaggio è contenuto nell’opera Viaggio in Occidente dal Grande Tang (大唐西域記, Dà Táng Xīyù Jì). Portò con sé in Cina 657 sutra in sanscrito. ▪ Diresse un'accademia imperiale nella capitale Chang'an (oggi Xi’an) e si dedicò alla traduzione dei sutra in cinese. Il suo lavoro, oltre ad ampliare enormemente il numero di testi disponibili al Buddhismo cinese, preservò anche diversi testi andati perduti nella versione originale. Il canone cinese

85 volumi (dal 33 in poi non sono tradotti in alcuna ➢La versione più antica del Dàzàng Jīng (lett.: lingua occidentale) “Grande tesoro delle scritture”) - di cui Vol. 1–2: Āgama rimane solo il catalogo delle opere che Vol. 3–4: Avadāna Vol. 5–8: Prajñāpāramitā conteneva - risale al 515 ed era riprodotta su Vol. 9: Sutra del Loto rotoli di carta e di seta. Vol. 10: Avataṃsaka ➢La prima edizione a stampa risale invece al Vol. 11: Ratnakūţa 972 (dinastia Song Settentrionali, 960-1127), Vol. 12:Mahāparanirvāna quando l‘imperatore Tàizǔ (太祖, regno: 960- Vol. 13: Mahāsamnipāta 976) avviò l’incisione dell‘intero Canone. Vol. 14–17: Miscellanea di sūtra ➢La prima incisione del Canone su blocchi di Vol. 18–21: (Vajrayāna) legno terminò nel 983, sotto il regno Vol. 22–24: di Tàizōng ( 太宗, 976-997): oltre 5000 Vol. 25–26: Commentari Vol. 26–29: Abhidharma manoscritti - che contenevano 1076 testi - Vol. 30: Madhyamika furono riprodotti su 130.000 blocchi, l'insieme Vol. 31: Cittamātra dei quali costituisce la versione del Canone Vol. 32: Trattati di logica e antologie cinese denominata Kāibǎo (開寶). Il canone cinese Le 13 Scuole del Buddhismo cinese

1. La Scuola Jùshè (倶舍宗, Jùshè zōng) 2. La Scuola Chéngshí (成實宗, Chéngshí zōng) 3. La Scuola Lǜ (律宗, Lǜ zōng; anche 南山宗 Nánshān zōng) 4. La Scuola Sānlùn (三論宗, Sānlùn zōng) 5. La Scuola Nièpán (涅槃宗, Nièpán zōng) 7. La Scuola Chán (禪宗, Chán zōng) 8. La Scuola Shèlùn (攝論宗, Shèlùn zōng) 9. La Scuola Tiāntái (天台宗, Tiāntái zōng) 10. La Scuola Huāyán (華嚴宗, Huāyán zōng) 11. La Scuola Fǎxiāng (法相宗, Fǎxiāng zōng) 12. La Scuola Jìngtǔ (淨土宗, Jìngtǔ zōng) 13. La Scuola Zhēnyán (眞言宗, Zhēnyán zōng) La Scuola Chán (禪宗, Chán zōng)

▪ Secondo alcune versioni la Scuola fu fondata nel V sec. d. C. dal leggendario monaco indiano Bodhidharma; ma se ne hanno notizie certe solo a partire dal VII secolo, quando alcuni monaci di origine Tiāntái si avviarono alla pratica dello zuòchán (坐禪, meditazione seduta, pratica di origine Tiāntái) secondo il metodo del bìguān (壁觀 guardando il muro) insegnato dal loro leggendario fondatore che pare prediligesse lo studio del Laṅkâvatārasūtra (Il Sutra della discesa a Lanka, 楞伽經,Lèngqiéjīng, giapp.: Ryōgakyō), sutra di origine cittamātra. ▪ Dopo la morte del V° patriarca Hóngrěn (弘忍, 601-674), la Scuola si suddivise in due rami: quello settentrionale, fondato da Shénxiù (神秀, 606-706), e quello meridionale, fondato da Huìnéng (慧能, 638-713). Di questi due rami, solo il secondo è giunto a noi. Dottrine e lignaggi della Scuola Chán furono trasferiti in Giappone dai monaci tendai Eisai (1141-1215) e Dōgen (1200-1253) che fondarono rispettivamente le Scuole Zen Rinzai e Zen Sōtō. Testi chan sul vuoto

Bǎizhàng Huáihái (756-815) Huìnéng (638-713)

D: su che cosa deve stabilirsi e dimorare la mente ? Dotto pubblico, quando mi ascoltate parlare del R: deve stabilirsi sul non-dimorare e là dimorare. vuoto non cadete subito nell’idea della vacuità D: che cos’è questo non-dimorare? (perché questo comporta l’eresia della dottrina della R: significa non lasciare che la mente dimori su distruzione). E’ della massima importanza non cadere nessuna cosa di alcun genere. in questa idea, perché quando un uomo siede quieto D: e che cosa significa questo? e mantiene la mente vuota, dimora in uno stato di R: dimorare su nulla significa che la mente non si fissa “Vuoto della non-differenza”. sul bene o sul male, sull’essere o sul non-essere, sul da Hui Neng, Il Sutra di Hui Neng, tr. di F. Pregadio, Roma, Ubaldini dentro o sul fuori o da qualche parte tra i due, sul 1977, p. 29. (Tr. modificata) vuoto o sul non-vuoto, sulla concentrazione o sulla distrazione. Questo dimorare su nulla è lo stato in cui essa deve dimorare; di coloro che lo raggiungono si dice che hanno la mente che non dimora; in altre parole hanno la Mente di Buddha. da Hui Hai, Trattato sull’entrata essenziale nella verità per mezzo del risveglio istantaneo, in J. BLOFELD, L’insegnamento zen di Hui Hai, tr. di F. Pregadio, Roma, Ubaldini 1977, pp. 35-36 Scuole del Buddhismo giapponese

1. Scuola Ritsu (律宗, Ritsu shū). Cfr. Scuola cinese Lǜ. 2. Scuola Kusha (倶舎宗, Kusha shū). Cfr. Scuola cinese Jùshè. 3. Scuola Sanron (三論宗, Sanron shū). Cfr. Scuola cinese Sānlùn. 4. Scuola Jōjitsu (成実宗, Jōjitsu shū). Cfr. Scuola cinese Chéngshí. 5. Scuola Kegon (華厳宗, Kegon shū). Cfr. Scuola cinese Huāyán. 6. Scuola Hossō (法相宗 Hossō shū). Cfr. Scuola cinese Fǎxiāng. 7. Scuola Tendai (天台宗, Tendai shū). Cfr. Scuola cinese Tiāntái. 8. Scuola Jōdo (浄土宗, Jōdo shū). Cfr. Scuola cinese Jìngtǔ. 9. Scuola Shingon (真言宗, Shingon shū). 10. Scuola (日蓮宗, Nichiren shū). 11. Scuola Nichiren Shō (日蓮正宗, Nichiren Shōshū). 12. Jōdo Shin (浄土真宗, Jōdo shin-shū). 13. Scuola Ji (時宗, Ji shū). 14. Scuola Yūzū Nenbutsu (融通念仏宗, Yūzū nenbutsu shū). 15. Scuole Zen (禅): Rinzai shū, 臨濟宗, Sōtō shū,曹洞宗, Fuke shū (普化宗), Ōbaku shū (黃檗宗) Testi zen sul vuoto

Dōgen (1200-1253) [Lin Chi (giapp.: rinzai ) IX sec. d. C.]

«Se desiderate praticare la Via dei Buddha e dei «Seguaci della Via, non fate errori. Tutti i Patriarchi, dovreste seguire senza pensare a di questo e degli altri mondi sono privi profitti la Via dei saggi del passato e la condotta dell’auto-natura. Inoltre, sono privi di una dei Patriarchi, non aspettando nulla, non natura derivata. Vi è solo il nome ‘vuoto’, e il cercando nulla, non guadagnando nulla. nome [vuoto] è anch’esso vuoto.» Escludete la mente che cerca sempre qualcosa, e non coltivate il desiderio di conquistare i frutti della Buddhità.»

(da Dōgen, Shōbōgenzō, in R. MASUNAGA, Breviario di Soto (da La Raccolta di Lin chi, a cura di R. Fuller Sasaki, tr. di P. Zen, tr. di G. Cogni, Roma, Ubaldini 1971, p. 62) Nicoli, Roma, Ubaldini 1985, p. 41) Le origini della Scuola Zen rinzai

1. Mahakassapa, assieme ad Ananda, il principale discepolo del Buddha Sakyamuni, considerato il I° patriarca zen, in base all’episodio del Buddha che mostra un fiore sorridendo (nenge mishō = lett., “attorcigliare il fiore sorridendo”), per indicare la trasmissione ishin denshin (“da cuore a cuore”), ossia una trasmissione al di fuori della dottrina stabilita (kyōgen betsuden). Cfr. 6° caso del Mumonkan, a cura di Zenkei Shibayama, tr. Roma, 1977, p. 64 2. Bodhidarma, (470-543), XXVIII patriarca indiano, I° della tradizione cinese (chan), sbarcato in Cina nel 527. «Un discepolo disse: ”Se vogliamo realizzare la verità non dobbiamo né fidarci completamente delle parole, né abolirle completamente; dobbiamo usarle come un veicolo lungo un sentiero.” B. rispose: ”Tu hai capito la mia pelle”. Una monaca disse: “La verità è come una visione del paradiso di Buddha; si vede una volta e poi mai più”. B. disse: ”Tu hai capito la mia carne”. Un terzo discepolo disse: ”I quattro grandi elementi sono vuoti e i cinque Aggregati non esistono. Infatti non c’è nulla da capire”. B. disse: ”Tu hai capito le mie ossa”. L’ultimo, Huike (Eka), s’inchinò in silenzio. B. disse: ”Tu hai capito la mia anima”» 3. Hui neng (638-713), VI° patriarca cinese, fondò la Scuola Meridionale (dell’illuminazione improvvisa) e realizzò la fusione tra il buddhismo di Bodhidarma e il Taoismo. La Scuola Meridionale diede origine a 5 Scuole: 1. Yun men (Unmon), 2. Fa yan (Hōgen), 3. Kui yang (Igyō), 4. Cao dong zong (Sōtō shu in Giappone dal XII sec.), 5. Lin ji dong (Rinzai shu in Giappone dal XIII sec.) Scuola Rinzai (Rinzai-shū 臨済宗)

▪ Fondatore dello Zen Rinzai fu Eisai, già monaco di Scuola Tendai, che introdusse lo Zen in Giappone dalla Cina nel 1191, incorporandolo nella scuola Tendai. ▪ La Scuola Rinzai si caratterizza, oltre che per lo (meditazione seduta), per l'utilizzo dei kōan, paradossi proposti dal Maestro al discepolo in un incontro personale (sanzen). ▪ Grande riformatore della Scuola Rinzai fu Hakuin Ekaku (白隠慧鶴,nome originale Iwajirō, 1686- 1769) che la rese meno dipendente dagli interessi dei samurai e degli shogun.

I suoi scritti principali sono:

✓Hakuin Zenji Zazenwasan (白隠禅師座禅和讃 «L'inno allo zazen del maestro Hakuin»); ✓ Dokugo shingyō (毒語心経 «Parole velenose per il cuore»); ✓Orategama (遠羅天釜 «La teiera lavorata a sbalzo») e ✓Yasen kanwa (夜船閑話 «Colloqui notturni su una barca»): queste ultime due opere contengono consigli pratici. I 15 templi a cui fanno capo le Scuole giapponesi dello Zen Rinzai

1. Kennin-ji (1202) 2. Tōfuku-ji (1236, fondato da Enni Ben'en , 1202-1280) 3. Kenchō-ji (1253) 4. Engaku-ji (1282) 5. Nanzen-ji (1291, fondato da Musō Soseki ) 6. Kokutai-ji (1300) 7. Daitoku-ji (1315, fondato da Shūhō Myōchō ) 8. Kōgaku-ji (1380) 9. Myōshin-ji (fondato nel 1342 da Kanzan Egen ) 10. Tenryū-ji (1339, fondato da Musō Soseki ) 11. Eigen-ji (1361) 12. Hōkō-ji (1384) 13. Shōkoku-ji (1392) 14. Buttsū-ji (1397, affiliato al Tenryū-ji fino al 1905) 15. Kōshō-ji (1603) Kennin-ji a Higashiyama-ku, Kyoto Il kōan: le raccolte

▪ Kōan (pronuncia giapponese dei caratteri cinesi 公案 gōng'àn) è un termine del Buddhismo Zen che indica lo strumento della pratica meditativa denominata kànhuà chán 看話禪 (giapp. kanna zen) consistente in un’affermazione o in una domanda paradossale proposta dal Maestro all’allievo per aiutarlo a spezzare le convenzioni linguistiche e concettuali del senso comune, ma anche del sapere dottrinario.

▪ Il primo ad usare kōan sembra sia stato Huìyóng (860-930), Maestro buddhista di Scuola Chán (III generazione del lignaggio di Línjì). Diffondendosi l’uso dei kōan nei monasteri chán, si cominciò a raccoglierli in opere sistematiche: ✓Bìyán lù 碧巖錄, (giapp. Hekigan roku) «Raccolta della Roccia blu», poi ampliata nel 1125 da Yuánwù Kèqín (1063-1135); ✓Cóngróng lù 從容録, (giapp. Shōyōroku) «Il Libro della serenità» ad opera del monaco Hóngzhì Zhèngjué (1091-1157); ✓Wúmén guān 無門關, (giapp. Mumon kan) “Porta senza porta”, raccolta di 48 gōng'àn) composta nel 1228 dal monaco cinese Wúmén Huìkāi (1183-1260). Il kōan: la classificazione

▪ A partire da Hakuin la Scuola Zen Rinzai istituì una classificazione in cinque livelli:

1. Hossin-kōan (法身), finalizzati a realizzare l'unità di tutto il reale; 2. Kikan-kōan (機關), finalizzati a realizzare le differenziazioni nell'unicità; 3. Gonsen-kōan (言詮), finalizzati a comprendere a fondo le parole dell'insegnamento per superarle; 4. Nantō-kōan (難透), finalizzati ad avere un’intuizione profonda all'interno di ogni singola attività quotidiana; 5. Go-i kōan (五位) fondati sui 5 livelli di illuminazione proposti dal monaco cinese Dòngshān Liángjiè () (洞山良价 807-869; giapp. Tōzan Ryōkai) nello scritto Bao jin sanmei ge (寶鏡三昧歌 «Canto del samadhi del prezioso specchio»); giapp.: Hōkyō Zanmai 宝鏡 三昧 go-i kōan nell’Hōkyō Zanmai

1. shō chū hen:正中偏: l’assoluto centro del relativo (sfondo prevale sulle figure) 2. hen chū shō: 偏中正: il relativo centro dell’ assoluto (figure prevalgono sullo sfondo) 3. shō chū rai: 正中來 : giungere dal centro dell’assoluto (figure emergono dallo sfondo) 4. ken chū shi: 兼中至: giungere al centro di ciascuno (figure e sfondo compresenti) 5. ken chū to: 兼中到: giungere al centro di entrambi (oltre figure e sfondo) The Reinstatement of Hui-hung’s synthesis of the Five Degrees in Jewel mirror samadhi translation study Il Maestro nella tradizione brahmanica

▪ «In relazione alla scienza: il maestro è l’elemento anteriore, il discepolo l’elemento ulteriore, la scienza la congiunzione, l’insegnamento il modo della congiunzione» […] «Per te sia divinità la madre, divinità il padre, divinità il maestro, divinità sia l'ospite » (Taittirīya Upaniṣad, I,11,2; e XI,2, tr. di C. Della Casa, Torino, Utet 1976, p. 284 e p. 289) ▪ «A colui che ha grande devozione a dio e come a dio così al maestro spirituale, a questo magnanimo soltanto risplendono le verità rivelate, a questo magnanimo soltanto risplendono» (Śvetāśvatara Upanisad, VI, 23, tr. di C. Della Casa, Torino, Utet 1976, p. 414) ▪ «2.140. Viene definito precettore (ācārya) quel nato-due-volte che conferisca il filo rituale a un allievo e gli insegni il Veda assieme ai testi rituali e ai testi segreti. 2.141 Viene chiamato ‘precettore ausiliario’ (upadhyaya) chi per guadagnarsi da vivere insegni una sezione del Veda o anche testi accessori. 2.142 Viene chiamato ’anziano’ (guru)* quel brahmana che esegua i riti secondo le prescrizioni ]…] 2.226. Il maestro è la forma presente del Brahman, il padre è la forma presente di Prajapati, la madre è la forma presente della terra[…] 2.233. Con la devozione verso la madre acquisisce questo mondo, con la devozione verso il padre il mondo di mezzo, ma con l’obbedienza al maestro il mondo del Brahman.» (Il trattato di Manu sulla norma, tr. di F. Squarcini, Torino, Einaudi 2010, pp. 32, 41, 42

*Il termine gurū (गु셂) secondo l'interpretazione della tarda Advaya tāraka Upaniṣad (14-18), ha origine dalle radici gu («oscurità») e ru («svanire») e significherebbe quindi «colui che disperde l'oscurità». Il Maestro nel Buddhismo Theravada

▪ Il Maestro non viene considerato superiore all’allievo ma come amico spirituale (kalyāṇamitta, lett.: «buon amico») che accompagna l’allievo nel suo percorso verso il Risveglio. Il Maestro funziona come una guida che conosce le tappe e le insidie del percorso sostenendo l’allievo in caso di necessità. Le sue qualità sono: 1. piyo: gentile e compassionevole; 2. garu: ispira rispetto e fiducia 3. bhānaniyo: competente 4. vattā: capace di farsi ascoltare e capire 5. vacanakkhamo: paziente nella discussione 6. gambhiranca katham kattā: capace di spiegare gli argomenti più difficili 7. no catthāne niyojako: non conduce gli allievi su strade inutili o dannose Fonte: Anguttara Nikāya 7.4.6. (Pali Text Society, IV, 32) Buddha come Maestro

”E’ giusto che voi abbiate dubbi e perplessità, perché sono dubbi relativi ad argomenti controversi. Ora, ascoltate, o Kalama, non fatevi guidare da dicerie, da tradizioni o dal sentito dire; non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica e dall’inferenza; né dalla considerazione delle apparenze; né dal piacere della speculazione; né dalla verosimiglianza; né dall’idea ‘questo è il nostro maestro’. Ma, o Kalama, quando capite da soli che certe cose non sono salutari (akuśala), sbagliate e cattive, allora abbandonatele (…) e quando capite da soli che certe cose sono salutari (kuśala) e buone, allora accettatele e seguitele”.

Fonte: Anguttara Nikāya, I, § 65, (ed. Pali Text Society, Oxford 1989, pp. 171-172)